Le periferie nelle dinamiche di trasformazione urbana

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UNIVERSITĂ€ DEGLI STUDI DI PALERMO_FACOLTĂ€ DI ARCHITETTURA_A.A. 2007/2008 Corso di Laurea Specialistica in Pianificazione Territoriale, Urbanistica ed Ambientale

Tesi di Laurea in Pianificazione Territoriale

Le periferie nelle dinamiche di trasformazione urbana Strategie e progetti per la ricentralizzazione di Bonagia

Relatore: Prof. Arch. Maurizio Carta Correlatore: Arch. Barbara Lino

Laureande: Elisabetta Costantino Laura Lo Piparo


Indice 1. I “segni” di un linguaggio orientato al progetto 1.1 Dalla conoscenza della pianificazione alla coscienza di pianificatore. I vocaboli di un agire condiviso 1.2 Uno sguardo attivo. Il paesaggio come opportunità Creatori di paesaggi. Riflessioni geografiche nel lessico della pianificazione 1.4 Il paesaggio della periferia. Dalla città “invisibile” alla città “in trasformazione”

2. La periferia, le periferie 2.1 Origini e forme. Dal modello monocentrico alla rete di luoghi 2.2 Questioni e caratteri. Oltre gli stereotipi 2.3 Puntare alle periferie, passare al paesaggio. Potenzialità 2.4 Quando periferia e “città pubblica” coincidono. Alcune riflessioni 2.5 La dimensione del fare. Genesi della riqualificazione in Italia 2.5.a Relazioni tra periferie e strumenti di intervento. Evoluzione dei significati 2.5.b I Programmi Integrati di Riqualificazione delle Periferie (PIRP). Uno strumento dedicato

3. La periferia nell’ambito della trasformazione della città 3.1 Perché una buona pratica 3.2 Torino: il Progetto Periferie e il PRU di via Artom 3.2.a Torino: via Artom. Struttura del Piano di Recupero Urbano 3.2.b Il caso-studio di Torino: gli elementi per una buona pratica 3.3 Bologna: il Piano Strutturale Comunale. La cornice entro cui leggere il progetto per il quartiere di San Donato 3.3.a “Sposta il tuo centro. Quartiere San Donato. Città di città”. Dimensioni del progetto 3.3.b Il caso-studio di Bolagna: elementi per una buona pratica

4. L’edilizia residenziale pubblica 4.1 L’intervento pubblico in Italia e a Palermo. L’evoluzione normativa e le trasformazioni urbane

5. Conoscere Bonagia.Tra la dimensione locale e la dimensione urbana, il ruolo del quartiere 5.1 Il manifesto. Le questioni, i caratteri 5.2 Memoria storica dell’agro palermitano. Trame di bagli e borgate 5.3 Esempio di “città pubblica”. La successione degli interventi 5.4 Mappa degli elementi strutturali urbani. Le dominanti del sistema città 5.5 Mappa strutturale e analisi dello stato di fatto. Invarianti e variabili del quartiere di Bonagia

6. Impegni, azioni, progetti 6.1 Mappa delle trasformazioni in atto nella città. Indicazioni e strategie per l'azione futura 6.2 Piani, progetti, programmi. Analisi delle trasformazioni in atto nel quartiere di Bonagia

7. Immagini, percezioni, paesaggi 7.1 Il “riflesso” di Bonagia sulla città. Indagine sull’immaginario comune 7.2 Bonagia: geografie di quartiere. Dialogo con gli abitanti

8. Un paesaggio per Bonagia. Strategie e progetti per la ricentralizzazione 8.1 Le questioni. Il riconoscimento di alcune problematicità specifiche 8.2 Strategia, obiettivi e linee di azioni. Il percorso verso il progetto 8.3 Strumenti utili per la ricentralizzazione di Bonagia. Il Pirp e il Pas 8.4 Il progetto di ricentralizzazione di Bonagia. Le periferie nelle dinamiche di trasformazione urbana 1


9. Conclusione

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1. I “segni” di un linguaggio orientato al progetto «L'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facili a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio». (Calvino, “Le città invisibili”)

1.1 Dalla conoscenza della pianificazione alla coscienza di pianificatore I vocaboli di un agire condiviso L’eterogeneità culturale che caratterizza il nostro corso di laurea, rappresenta bene la natura prismatica di una pianificazione “efficace”, la quale scompone la realtà decodificandone gli aspetti principali; essa opera all’interno di un suo statuto autonomo e con propri strumenti, giovandosi però del contributo concettuale e talvolta, dei metodi appresi da altri campi del sapere: è un’attitudine necessaria al fine di semplificare la trama complessa degli eventi costituenti la realtà odierna. Non è superfluo ricordare che «…tutti i sistemi ambientali – nel senso più vasto del termine – sono caratterizzati da altissima complessità e costituiscono sistemi eterogenei distinti da livelli di ordine differente. […] Esiste quindi un permanente carattere “progettuale” della natura, un carattere della trasformazione verso stati di qualità più elevata, in contrasto con una desolante prospettiva di prevedibilità. La sfida della complessità va intesa come necessità di elaborare nuovi modi di rappresentazione e azione, di modificare il rapporto tra l‘uomo (la sua scienza, la sua tecnologia, la sua politica, la sua economia) e il mondo in cui vive (le ecologie locali, la biosfera, la geosfera) nella consapevolezza di dover rispettare la reale complessità dei fenomeni studiati…» (Carta, 1996). In tutti gli aspetti della quotidianità percepiamo la crescente incertezza di fronte alla impossibilità di capire la natura delle trasformazioni e alla carenza di mezzi per gestirle: sono le sfide a cui ci sottopone una realtà in cui il locale e il globale si confrontano in un rapporto dagli esiti mai scontati1, in cui la democrazia2 è relegata ad una rappresentatività fittizia che elude le reali responsabilità nei confronti degli individui. La pianificazione agisce in questo paradigma della modernità ed in esso trova la sua giustificazione: il pianificatore non può non assumere il ruolo di attore, rinunciando quindi, a quello di spettatore distante dalla scena dei cambiamenti; la sua sfida consiste nel misurarsi con la difficoltà di interpretare e dare risposta agli eventi, mettendo da parte quell’aura da esperto che tradizionalmente si era costruito. Il suo successo sarà dovuto in gran parte alla complicità creativa3 che saprà instaurare con il territorio e i suoi abitanti, «il pianificatore diventa un agente importante nella società, attore del mutamento, ascoltatore e mobilitatore delle domande della comunità»4 (Eversley, 1973). La dimensione in cui si muove, quindi, deve essere necessariamente quella dell’azione, l’unica ad assicurare la reale costruzione di un’identità 1

Per un approfondimento, si rimanda a de Spuches Giulia, Guarrasi Vincenzo, Picone Marco, La città incompleta, Palermo, Palumbo ed., 2002, cap. V, paragrafo 4 2 Si veda a tal proposito, il contributo (a cura di) Carta Maurizio, Lo Piccolo Francesco, Schilleci Filippo, Trapani Ferdinando, Impegni per l’urbanistica, tracce per la ricerca: un ‘introduzione in “Linee di ricerca: 3° convegno nazionale dei dottorati di ricerca in Pianificazione Territoriale e Urbanistica”, Roma, Librerie Dedalo, 2000 3 Cfr. La città creativa: un manifesto in “Creativicity“ n°0, 2004 4 In Carta Maurizio, Teorie della pianificazione urbana e territoriale. Questioni, paradigmi e progetto, Palermo, Palumbo ed., 2003

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condivisa su cui articolare il consenso collettivo; per suo stesso fondamento ontologico, la pianificazione trova giustificazione nel dare seguito alla conoscenza del reale attraverso piani e procedure che sono in grado di modificarlo, generando nuovi scenari di senso: interpretare il racconto di un territorio significherà allora, decodificarne le chiavi di accesso al cambiamento. «Occorre enfatizzare il nesso tra conoscenza e azione, la visione pragmatica di una “conoscenza nell’azione”, in luogo della tradizionale scansione indagine e analisi, decisione e azione»5 (Borri, 2000). «Si manifesta con forza l’esigenza di un’epistemologia per la pianificazione che sia interattiva, che sia più rispettosa della pluralità di mondi: una pianificazione che sia capace di governare necessità e modalità di trasformazione non più perentorie nelle motivazioni e scontate negli esiti – e quindi spesso errate nelle motivazioni e incapaci negli esiti – ma risultato di un processo di conoscenza dialogica e contestuale, di responsabilizzazione dei soggetti, di interpretazione condivisa dei futuri e di potenziamento degli attori locali» (Carta, 2002). Tra i tanti “strumenti del mestiere”, il pianificatore ha imparato, negli anni, ad usare alcune tecniche di confronto con le collettività di un territorio, che la letteratura ha denominato pratiche partecipative. L’idea di partecipazione affonda le radici in quell’ etica comunicativa6 spiegata da Forester alla fine degli anni ’80: il pianificatore in quanto comunicatore e negoziatore di scenari di sviluppo ha l’opportunità di rendere il processo di pianificazione più democratico (e quindi meno tecnocratico) e partecipativo. Nel momento in cui sceglie il dialogo (scelta=azione) egli non può ignorarne il significato, non può ignorare il potere politico del processo di pianificazione con il quale possono, o meno, essere selezionate le informazioni che la popolazione può avere, può essere orientata la fiducia e le aspettative della gente. Il rinnovamento culturale interno alla pianificazione è derivato anche dalla contemporanea riflessione sugli esiti della disciplina nei tanti piani e processi succedutisi nel tempo: si è constatato che molti dei presupposti concettuali che hanno informato l’urbanistica dalla sua nascita fino agli anni ’50-’60 del Novecento, si sono mostrati insufficienti nel generare e attivare delle azioni consapevoli di miglioramento o trasformazione dell’esistente e anzi, in molti dei casi, si sono rivelati fuorvianti o errati. Parallelamente alla caduta delle certezze su cui si basava la società, ovvero la fede nella scienza e nei parametri numerici come unica lente con cui osservare il mondo, si è compreso che la «pianificazione razional-comprensiva, orientata a pianificare tutti, e tutti in una volta sola, i processi in atto nel territorio, non [era] più proponibile, data la complessità di tali processi, data l’impossibilità di avere a disposizione tutte le informazioni per controllarne l’evoluzione e le connessioni reciproche…»7 (Zoppi, 2000). Sul piano dei prodotti, tutto ciò ha portato a redigere strumenti creati da pianificatori-demiurghi che hanno disegnato sul territorio come su uno spazio cartesiano, fraintendendo spesso o ignorando, nella maggior parte dei casi, le istanze di chi avrebbe poi misurato la propria vita con le geometrie di una cartografia. Gli abitanti hanno quindi percepito tali strumenti normativi come imposizioni estranee al loro vissuto e hanno reagito in alcuni casi riappropriandosi dei luoghi, creando aree in cui affermare la loro identità collettiva ed individuale; in altre situazioni invece non si sono avute reazioni “positive” e ciò ha portato ad un declino, non solo fisico di alcuni territori, ma soprattutto sociale di alcune comunità, con cui l’urbanistica ha perso la sfida di uno sviluppo condiviso e duraturo e, nella misura in cui ha

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In Carta Maurizio, Op. cit., 2003 Sulla questione etica della pianificazione, si veda quanto proposto da J. Forester in, Carta Maurizio, Op. cit., 2003 7 In (a cura di) Carta Maurizio, Lo Piccolo Francesco, Schilleci Filippo, Trapani Ferdinando, Linee di ricerca: 3° convegno nazionale dei dottorati di ricerca in Pianificazione Territoriale e Urbanistica, Palermo, Palumbo ed., 2000 6

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rinunciato a questa opportunità, ha perso la sfida con sé stessa come forza di ri-forma del reale, come forza creativa. La partecipazione diviene oggi momento di validazione del processo di pianificazione, cartina di tornasole del legame conoscenza-azione che restituisce agli abitanti di un luogo i modi di agire per costruire la conoscenza di quel luogo: più attuale che mai oggi è doveroso guardare al territorio come ipertesto (Cassatella, 2002) in cui ogni singolo individuo sceglie gli elementi, i tempi e le modalità con cui costruire il proprio territorio a partire dalle strutture e dalle connessioni che i pianificatori sapranno evidenziare e realizzare, all’interno di un fecondo scambio di saperi; «per maturare una coscienza ed un radicamento reale alle sorti del proprio contesto territoriale, ambientale ed umano, dove il luogo viene a coincidere con i valori etici della comunità che lo abita, è necessario tornare ad innescare il ciclo virtuoso luogo-individuo-gruppo-collettività-luogo» (Bastiani, 1999). Le pratiche partecipative devono ribadire, soprattutto oggi, la loro forza maieutica nell’estrarre l’identità dei territori sui quali si sperimentano; l’identità collettiva o individuale che sia, è inscindibile dalla partecipazione poiché questa mira, per sua stessa mission, a colmare quel gap ideologico e strumentale che ha alimentato il senso di alienazione degli individui rispetto ai luoghi del vivere. Qualunque pratica partecipativa si pone come fine la creazione o la ricostruzione di identità: sia che si attivino tecniche di progettazione partecipata, sia che si realizzino laboratori di lettura dei luoghi, sia che si sperimentino forum o altri tipi di confronto dialogico, il risultato sarà sempre un maggior grado di consapevolezza della propria dimensione di vita. Partendo da queste premesse, in quanto futuri pianificatori, in quanto mediatori delle istanze degli abitanti e, se è vero che «il territorio è degli abitanti» (Magnaghi, 1990), allora il nostro obiettivo è cercare di estrarre dai luoghi, quei codici interpretativi con cui tarare il nostro sguardo; solo così potremo avanzare proposte condivise e riconosciute «per lo sviluppo locale endogeno e autocentrato»8.

1.2 Uno sguardo attivo Il paesaggio come opportunità Negli ultimi anni il crescente dibattito attivato dall’introduzione della Convenzione Europea del Paesaggio (di seguito: la Convenzione)9, quale trattato internazionale adottato nel 2000 sotto gli auspici del Consiglio d'Europa, ha incontrato quella cultura della Pianificazione che, come abbiamo visto in precedenza, da tempo, ha scelto di imprimere una svolta comunicativa e partecipata ai suoi contenuti, in un’ottica di generazione ed empowerment della dimensione locale e globale di un territorio. La Convenzione costituisce un riferimento giuridico sovranazionale in materia di paesaggio che impegna gli Stati contraenti10 a promuovere processi decisionali pubblici in grado di favorire la qualità della dimensione paesaggistica rispetto all’intero territorio nazionale, con il coinvolgimento delle popolazioni interessate. In Italia la Convenzione è entrata in vigore il 1° settembre 2006 sulla base della Legge di ratifica n. 14 del 9 gennaio 2006. 8 Gambino Roberto, Maniere di intendere il paesaggio, in (a cura di) Alberto Clementi, “Interpretazioni di paesaggio”,Meltemi editore, Roma, 2002 9 Per il nostro lavoro di ricerca abbiamo utilizzato la traduzione della Convenzione Europea di Riccardo Priore, direttore del RECEP, contenuta nel suo scritto, Convenzione europea del paesaggio, il testo tradotto e commentato, IRITI Editore, Reggio Calabria, 2006 10 Ad oggi la Convenzione è stata ratificata da 29 Stati europei (situazione al 07.06.2008)

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Da questo scambio di riflessioni si è arrivati alla affermazione di una coscienza che era già latente in molte significative esperienze di piani e programmi anteriori alla Convenzione, e al superamento di certe posizioni concettuali11, per altro validate in Italia da un apparato normativo consolidato, che vedevano nel paesaggio un elemento estetizzante di valore o l’espressione esclusiva di fenomeni ambientali: •

«"Paesaggio” designa una parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere risulta dall'azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni»12;

«[…] riguarda sia i paesaggi che possono essere considerati come eccezionali, sia i paesaggi della vita quotidiana che i paesaggi degradati»13;

si riconosce giuridicamente «[…] il paesaggio quale componente essenziale dell’ambiente di vita delle popolazioni, espressione della diversità del loro patrimonio comune culturale e naturale, e fondamento della loro identità»14.

Queste tre proposizioni bastano a far capire la portata innovativa di tale trattato internazionale, quale quadro di riferimento normativo per l’azione creativa di molte pratiche odierne di pianificazione: infatti, si sottolinea la dimensione soggettiva del paesaggio che non può che presupporre il coinvolgimento attivo delle popolazioni nei processi decisionali e nelle attività che lo riguardano; si riconosce la dimensione identitaria quotidiana di molti paesaggi considerati degradati, che meritano di essere strumento di rigenerazione e declinazione di qualità, tanto quanto i paesaggi considerati eccezionali o di valore. Inoltre, non meno importante è la dimensione attiva del paesaggio che viene proposta dalla Convenzione come impegno sostanziale che i singoli Stati membri accettano di rispettare: in quanto soggettivo e identitario di un territorio e di una comunità, il paesaggio è chiamato ad essere integrato in tutte le pratiche e le politiche « […] relative all’assetto territoriale ed urbanistico, nelle politiche culturali, ambientali, agricole, sociali ed economiche, ed in ogni altra politica che possa avere un’incidenza diretta o indiretta […]»15 su di esso. Ecco che il nesso pianificazione-paesaggio assume il ruolo di passaggio da una concezione ad un ‘altra dell’azione nel territorio: avendo “democraticizzato” il paesaggio, la Convenzione individua la pianificazione come una delle forme principali con cui valorizzarlo, ripristinarlo e crearlo; disciplina che, agendo nella complessità, può divenire dispositivo di comprensione della complessità del paesaggio. 11

Per comprendere la portata innovativa della Convenzione europea nel quadro giuridico italiano, è opportuno fare un accenno sugli antecedenti legislativi e sulle precedenti impostazioni concettuali relativi alla concezione del paesaggio e alla sua gestione: − legge n. 1497 del 29 giugno 1939: pur non trattandolo esplicitamente, dall’elenco delle tipologie delle bellezze naturali, in essa contenuto, si deduce l’assegnazione di un significato prettamente estetico al paesaggio; − legge n. 431 del 8 agosto 1985 (cd. Galasso): introducendo la nozione di vincolo “paesaggistico” esteso a specifiche categorie di aree territoriali, delinea un’accezione del paesaggio puramente naturalistica; un’ aspetto rilevante della legge, sta nell’aver introdotto la possibilità, da parte delle regioni, di poter adottare un piano territoriale urbanistico con valenza paesistica e ambientale, considerando il paesaggio come forma dinamica del territorio legandolo così all’assetto della pianificazione urbanistica; − decreto legislativo n. 490 del 29 ottobre 1999: il decreto introduttivo del Testo Unico in materia di beni culturali e ambientali, in cui manca un’ esplicita e chiara definizione di paesaggio, si limita a raccogliere leggi precedenti atte a regolarlo (beni paesistici sottoposti a vincolo secondo la n. 1497/39 e le categorie d’area previste dalla n. 431/85 vengano unificati sotto la definizione generale di “beni ambientali”). Con il concetto di bene culturale, introdotto dal decreto, si attribuisce al paesaggio una nuova valenza, oltre a quella naturalistica anche quella culturale; − accordo quadro Stato/regioni del 19 aprile 2001 in materia di paesaggio: successivo alla Convenzione, è il primo passo per l’attuazione dei principi promossi da essa. 12 Convenzione Europea del Paesaggio, Capitolo I – Disposizioni Generali, Articolo 1.a, Firenze, 19 Luglio 2000 13 Convenzione Europea del Paesaggio, Capitolo I – Disposizioni Generali, Articolo 2, Firenze, 19 Luglio 2000 14 Convenzione Europea del Paesaggio, Capitolo II – Provvedimenti Nazionali, Articolo 5.a, Firenze, 19 Luglio 2000 15 Convenzione Europea del Paesaggio, Capitolo II – Provvedimenti Nazionali, Articolo 5.d, Firenze, 19 Luglio 2000

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Il paesaggio valida il processo di pianificazione in quanto linguaggio che la pianificazione decodifica nel suo agire, e, al tempo stesso, la pianificazione valida il paesaggio creando nuovi elementi di valore, rigenerando le trame identitarie perdute, rafforzando i “vocaboli” in esso presenti, con la capacità che gli è propria: attivare e coordinare le molteplici dimensioni del reale, economica, sociale, culturale, negoziandone lo sviluppo.

1.3 Creatori di paesaggi Riflessioni geografiche nel lessico della pianificazione La pianificazione, in quanto scienza flessibile e adattativa «che incrementa l’opportunità di contatto tra discipline lontane, offrendosi come “struttura che connette” piuttosto che come struttura che esclude»16, ci ha permesso di includere nel suo lessico, alcune riflessioni maturate durante il corso di Geografia dei beni culturali e ambientali. Questi spunti si sono dimostrati un terreno fertile per la verifica di alcune delle proposizioni della Convenzione del Paesaggio, una visione altra con cui guardare all’azione della pianificazione nel paradigma del paesaggio. L’ottica “geografica” è quindi, divenuta, filtro del nesso paesaggio-pianificazione, cui ha aggiunto alcune sfumature di valore che hanno completato il quadro concettuale entro cui si muove il nostro percorso di tesi: un cambiamento di prospettiva necessario, per ribadire la forza creativa di una pianificazione, che, ri-significando le parole del discorso geografico, attiva processi di generazione e valorizzazione del paesaggio. Il concetto di paesaggio, adottato per il nostro percorso di tesi, è stato elaborato grazie a diversi apporti culturali: le teorie di Berque17 sulle civiltà paesaggistiche, il quale ha dimostrato che non tutti i popoli hanno elaborato una cultura del paesaggio, caratteristica invece della civiltà europea del Cinquecento e di quella cinese del V sec d.C.18; la natura del paesaggio come dispositivo della distanza tra noi e l’altro, introdotta per la prima volta in geografia, dal viaggiatore e studioso A. von Humboldt nell’800. Da queste letture eterogenee, abbiamo raggiunto la convinzione che, solo adottando strumenti diversi di lettura di una realtà, si può giungere ad una visione di essa il più ricca possibile. Abbiamo percorso un viaggio all’interno delle varie rappresentazioni che del paesaggio sono state elaborate nel corso del tempo: la separazione più netta di significati si può riscontrare tra il paesaggio come modello e il paesaggio come simbolo, elaborata da G. Dematteis nel 1989 (vedi fig. 1), interpretati, sia in senso oggettivo che in senso soggettivo.

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In Carta Maurizio, Teorie della pianificazione urbana e territoriale. Questioni, paradigmi e progetto, Palermo, Palumbo ed., 2003, cap. IV 17 Berque Augustine (sous la direction de), Cinq propositions pour une theorie du paysage, Paris, Champe Vallon, 1994 18 Berque utilizza come discriminanti per la sua teoria sulle civiltà del paesaggio, quattro condizioni: uso di una o più parole per dire paesaggio una letteratura dei paesaggi rappresentazioni pittoriche di paesaggi giardini e luoghi d’agrement E giudica come rispondenti ai requisiti, l’Europa del Cinquecento con le disquisizioni sulla prospettiva pittorica modellata dal Brunelleschi e l’introduzione di uno sfondo paesaggistico in arte come presa di distanza dalla realtà che diviene paesaggio e la Cina del V sec a.C. che nelle sue produzioni artistiche (vasellame) già raffigura il paesaggio come soggetto principale

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Figura 1 _ Lo schema di Dematteis su “paesaggio come modello”e “paesaggio come simbolo”

Per quanto riguarda il primo approccio (paesaggio come modello) si possono ricordare due posizioni: l’una appartenente alle speculazioni ecologiche e scientifiche di matrice positivista, nate nell’Europa settentrionale dal XVII sec. (modello-oggetto); l’altra appartenente alla geografia storicista che grande spazio ha avuto in Italia nel Novecento (modello-soggetto). La prima posizione19 si basa sui rapporti matematici e topografici tra gli elementi del paesaggio (il quale è uguale a tutto ciò che si vede) che si traduce in un inventario delle forme terrestri selezionate in base a parametri scientifici; la seconda posizione si fonda invece, sull’importanza dei processi storici sottesi alla creazione delle forme visibili rappresentanti il paesaggio: tesi questa, sostenuta dalle affermazioni di Lucio Gambi, esponente italiano di questo filone di pensiero che già aveva annoverato, pur con le parziali differenze, A. Sestini20. Dalla parte opposta troviamo il paesaggio come simbolo, distinto anch’esso in due punti di vista: uno (simbolo-oggetto) teorizzato fra gli altri, da D. Cosgrove, il quale riporta il discorso sulla rilevanza delle rappresentazioni simboliche che avvengono a livello collettivo, come immaginario condiviso; l’altro (simbolo-soggetto) espresso da F. Farinelli e da diversi geografi della scuola palermitana che pensano il paesaggio come dispositivo di rielaborazione del mondo esterno, da parte del soggetto individuale21.

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Vecchio Bruno “Il paesaggio”, in (a cura di) Vincenzo Guarrasi, Paesaggi virtuali, Palermo, Laboratorio Geografico, Luglio 2002 Per approfondimenti, si veda Vincenzo Guarrasi, Paesaggi, Palumbo ed., Palermo, in corso di stampa 21 In Vecchio Bruno, Op. cit., 2002 20

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Al fine di esemplificare tali idee, Dematteis ha costruito un grafico in cui ha inserito i diversi significati del paesaggio: la rappresentazione è stata divisa così, in quattro quadranti denominati come le direzioni cartografiche, NO-NE-SO-SE, intersezioni tra le quattro impostazioni teoriche principali. Il contributo di Dematteis appare importante proprio per la sintesi che egli ha creato tra le scuole di pensiero che hanno discusso di paesaggio: «più precisamente nel quadrante NE troveremo il paesaggio della geografia storicistica e delle scienze sociali; in quello SE il paesaggio della geografia fisica e dell’approccio positivistico; a SO quello degli approcci percezionista e “umanista” che collegano in vario modo il nostro agire esterno con le nostre rappresentazioni interne; infine nel quadrante NO il paesaggio diventa un fatto puramente interno»22. Il geografo privilegia tra i punti di vista, il quadrante NO che egli intravede come soluzione alla lettura del paesaggio, tanto da denominarlo “passaggio a NO per il paesaggio”, ovvero come ponte ideale di congiunzione tra la conoscenza (il discorso geografico) e l’azione nel territorio (la pianificazione). E’ un legame fondante e fondativo di un innovativo modo di agire che, basandosi sulla rappresentazione soggettiva del mondo esterno che ogni individuo si costruisce, adotta necessariamente strumenti e pratiche proprie di una pianificazione “debole”, cioè spogliata del sapere esperto che tradizionalmente la caratterizzava.

Figura 2 _ Schema di Dematteis sulle relazioni tra i modi della pianificazione e tipi di conoscenza

Alla luce di queste considerazioni, in conclusione, il paesaggio si può considerare come:

22 Dematteis Giuseppe, Progetto implicito. Il contributo della geografia umana alle scienze del territorio, Franco Angeli ed., Milano, 1995, pp. 46-47

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una delle chiavi di lettura della complessità del reale, efficace strumento della partecipazione nella misura in cui, sarà considerato sia come il prodotto di rappresentazioni simboliche collettive, sia come sintesi di rielaborazioni soggettive del mondo esterno. Un’immagine creata tanto dagli abitanti di un luogo che dagli outsider che si trovano a condividere quel luogo in alcuni momenti o ne hanno percezione: il paesaggio è la categoria concettuale più generale (e non generica) che comprende tutti i livelli di conoscenza del territorio, si basa su tutti gli elementi e le relazioni in esso presenti e ne influenza lo sviluppo e la stessa esistenza.

il risultato dell’azione creativa di quanti si trovano a confrontarsi in maniera pragmatica con lo spazio e con i luoghi: artisti, architetti e pianificatori, tutti condividono lo status e la responsabilità di essere creatori di paesaggio; ciò vuol dire misurarsi attivamente con gli scenari auspicabili di vita di una comunità, di un contesto, per i quali, seppur mediato attraverso un consenso quanto più ampio e strutturante, si cerca di tracciare un futuro possibile in un clima di intrinseca incertezza.

La forza della pianificazione consiste quindi, nella possibilità di essere realmente una dinamica del cambiamento e di generare scenari di sviluppo duraturo e di crescita; tanto più tali scenari considereranno il paesaggio come codice interpretativo di una realtà territoriale, tanto più si creeranno paesaggi performanti e aderenti a quella realtà. Paesaggi multidimensionali in cui il valore aggiunto coinciderà con l’azione comunicativa della pianificazione, la quale si sarà misurata con le visioni collettive e le suggestioni soggettive della cittadinanza (abitanti, city users, ecc…).

1.4 Il paesaggio della periferia Dalla città “invisibile” alla città “in trasformazione” La coscienza di pianificatori maturata alla luce del percorso di conoscenza della pianificazione, unitamente alle crescenti possibilità offerte da un sempre più accesso e ampio dibattito europeo sul tema del paesaggio, così come esposto precedentemente, e ad alcune riflessioni validate durante l’esperienza della geografia culturale, sono stati gli elementi che ci hanno portato a misurarci con il tema delle periferie. Peraltro, cogliamo l’occasione offertaci da molti esperti e studiosi del nostro ambito disciplinare, i quali, insieme alle voci di alcune collettività, agli interventi di qualche esponente culturale e alle esperienze di qualche amministrazione rinnovata e innovativa, si sono confrontati con la sfida, con il pragmatismo visionario (Miur, Programma di ricerca: i territori intermedi, 2007) che cerca di superare in maniera concreta la contrapposizione consolidata tra città e periferia. La volontà di accostare il tema delle periferie a quello del paesaggio, confortata dalle dichiarazioni della Convenzione Europea, ci sembra attualmente una possibilità di azione concreta per trasformare, con i modi e le pratiche della pianificazione, il gap ideologico che ci allontana da certe parti della città ormai stigmatizzate. Il paesaggio, integrato nelle politiche e negli strumenti della pianificazione quindi, costituisce la variabile di valore con cui ripensare alle periferie: in quanto categoria concettuale più generale, creata a partire da rielaborazioni soggettive e collettive, solo agendo su di esso si può modificare l’immagine negativa o assente legata ai quartieri periferici.

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Non è casuale quindi, l’aver utilizzato il termine di “città invisibile” per riferirci alla periferia: effettivamente ancora oggi, nonostante gli sforzi operati da molti attori, nell’immaginario collettivo questi luoghi sono avvertiti come esclusi dalla città vera, da quell’effetto città che coincide con le tante attrattive, con i servizi, con le centralità, con il suo genius loci; e, questo effetto di cesura con la città è avvertito anche dagli abitanti dei tanti quartieri peri-urbani che, nel loro sentire comune, avvertono il centro cittadino come estraneo alla loro quotidianità. Cerchiamo quindi di scardinare una visione ben consolidata, poiché abbiamo la consapevolezza che il paesaggio delle periferie, oggi più che mai, è risorsa progettuale principale nell’agenda di una città che voglia rinnovarsi, rigenerarsi e creare un sistema realmente e positivamente policentrico, in cui ogni sua parte possa costituire una ricchezza fondata sulla diversità funzionale, sociale, economica, ambientale. Oggi la periferia si candida a divenire “città in trasformazione” dove sperimentare, secondo tutte le dimensioni della sostenibilità, una nuova generazione del progetto che ne alleggerisca la pesantezza emergenziale per tornare a parlare di “città”(Carta, 2006): è necessario quindi, spendere fatica e impegno per passare da un’ottica di criticità a una di progetto, non solo ed esclusivamente fisico, ma anche e indispensabilmente sociale. «”Qualità urbana” e “nuovo modello di città” sono oggi i nuovi nodi rilevanti per il progetto delle aree periferiche. La città del futuro è soprattutto policentrica: è una città che nel privilegiare il recupero dei valori identitari posseduti nelle aree meno dense li rende un’opportunità per la diversificazione»23; in quanto “aree di trasformazione integrata”(Carta, 2006), le periferie richiedono un mix di azioni materiali e immateriali che inneschino quell’interesse collettivo della cittadinanza tutta che diviene potenzialità di sviluppo; ciò significherà attivare azioni creative che producano visioni di città (Carta, 2006). Oggi abbiamo gli strumenti per poter generare nuove visioni di città, abbiamo documenti di indirizzo condivisi a livello europeo come valido quadro di riferimento, abbiamo una crescente attenzione sulle tematiche delle aree periferiche e quindi possiamo guardare ad esse come paesaggi reali, generati, ritrovati; non possiamo perdere l’occasione di credere nel paesaggio come modalità di conoscenza e di creazione del territorio, non dobbiamo perdere la possibilità di credere nelle periferie come paesaggio della modernità, come paesaggi di città. L’impegno per le amministrazioni, per gli analisti, per gli urbanisti, per gli esperti delle discipline connesse al territorio, per le comunità insediate e per la cittadinanza tutta è e sarà: «“fare centro dei margini”, riportare occasioni, luoghi, forme di centralità urbana nel tessuto periferico, riconfigurandolo nella sua complessiva dimensione urbana»24. Sogniamo un giorno in cui il termine periferia abbia perso il suo significato.

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Carta Maurizio, “Periferie nuovi centri di sviluppo urbano” in Edilizia e Territorio, n° 22, Giugno 2006

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Carta Maurizio, “In from the margins. In From the margins, Riflessioni ed indirizzi sulle politiche di rigenerazione delle periferie urbane”, in Eccom, Patrimonio e attività culturali nei processi di rigenerazione urbana, Roma, 2006, pp. 8-11

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