Politecnico di Torino Corso di Laurea Magistrale in “Architettura Costruzione Città”
Tesi di Laurea
SU(PER)MISURA Il centro commerciale come sfida nel riuso della grande scala: il caso del Palazzo del Lavoro a Torino
Relatori: prof. Valeria Minucciani prof. Guido Montanari
Candidate: Elisa Dellarossa Serena Rossi
SU PER SU(PER)MISURA un’analisi tipologica del centro commerciale (o SUPERmercato), finalizzata a comprendere gli aspetti caratterizzanti del junkspace: si approfondisce un modello per poi trovarvi un’alternativa
SU PER MISURA SU(PER)MISURA la storia del Palazzo del Lavoro, attraverso le celebrazioni per il centenario dell’Unità italiana ed il degrado del post-evento: la responsabilità della SUPERMISURA nel mancato utilizzo successivo dell’edificio
SU MISURA SU(PER)MISURA l’elaborazione di un progetto SU MISURA per il Palazzo del Lavoro, che senza rifiutare necessariamente la funzione commerciale ne consenta la trasformazione in spazio di aggregazione dedicato alla comunità
Indice Introduzione
p. 9
PARTE I SU(PER)MISURA
Analisi storico-tipologica del centro commerciale
p. 16
1. Il commercio e la città: un rapporto in evoluzione 1.1 Dalla bottega al grande magazzino 1.2 Dalla città alla periferia 1.3 Ritorno al centro cittadino 1.4 Sviluppi paralleli in Europa ed in Italia
p. 18 p. 20 p. 28 p. 36 p. 46
2. Il centro commerciale: caratteri principali di un tipo 2.1 Criticità e potenzialità del Junkspace 2.2 Il Mall come luogo inevitabile del XX secolo
p. 54 p. 56 p. 70
3. Il retail come nuova frontiera del riuso 3.1 La riconfigurazione di edifici (già) commerciali 3.2 Le difficoltà nel riuso commerciale di edifici pubblici e religiosi 3.4 La “mallizzazione” di ex-edifici industriali
p. 78 p. 80 p. 92 p. 104
Parte II SU(PER)MISURA Italia ’61: prima, durante e dopo il grande evento
1.
p. 112
Il contesto storico e geografico 1.1 L’ingresso Sud di Torino: il quartiere Nizza-Millefonti 1.2 Cronache da Italia ’61: passato e futuro in mostra a Torino
p. 114 p. 116 p. 128
2. Il Palazzo del Lavoro: la costruzione di un simbolo mancato 2.1 Il successo del sistema Nervi e la realizzazione del Palazzo 2.2 Reazioni e critiche ad un progetto (im)perfetto 2.3 Il post-evento: un abbandono immediato 2.4 Gli eventi recenti e le ipotesi di riuso
p. 140 p. 142 p. 154 p. 164 p. 172
3. L’opinione pubblica rispetto alla situazione attuale 3.1 Nostalgia del grande evento 3.2 Polemiche e petizioni popolari 3.3 Interviste: tre diversi punti di vista
p. 184 p. 186 p. 192 p. 200
Parte III SU(PER)MISURA Un progetto di riuso per il Palazzo del Lavoro
1.
Analisi Urbana 1.1 L’influenza dei centri commerciali vicini 1.2 Viabilità carrabile, pedonale e ciclabile 1.3 I servizi di trasporto pubblico nel quartiere 1.4 Esame delle funzioni di vicinato esistenti
p. 212 p. 214 p. 218 p. 228 p. 234 p. 238
2. La problematica del fuori scala 2.1 Il Palazzo del Lavoro: un monumento mancato 2.2 Le difficoltà nel riuso della grande scala 2.3 Un progetto adattabile per la comunità
p. 242 p. 244 p. 252 p. 262
3. La questione dell’abbandono 3.1 Le architetture abbandonate: “scarti” e “rovine” 3.2 Il fascino del luogo abbandonato 3.3 Una rilettura della storia come metodo
p. 268 p. 270 p. 286 p. 300
4. Per un approccio “ecologico” 4.1 Una possibile coesistenza tra natura e città 4.2 Lo “scarto” come opportunità di aggregazione
p. 314 p. 316 p. 326
5. Il parassitismo come concept progettuale 5.1 Tipologie di invasione parassitaria 5.2 Un modulo ripetibile per una forma organica 5.3 Un nuovo complesso multifunzionale
p. 348 p. 350 p. 366 p. 380
6. Un’alternativa al centro commerciale nel Palazzo del Lavoro 6.1 Micro-commercio di quartiere: botteghe e laboratori 6.2 Come la tecnologia ha cambiato lo shopping 6.3 Museo e centro commerciale: due tipi a confronto 6.4 Estratti dalle tavole di progetto 6.5 Fotografie del modellino progettuale
p. 388 p. 390 p. 398 p. 408 p. 434
Conclusioni Bibliografia Ringraziamenti
p. 443 p. 447 p. 481
introduzione
Introduzione Siamo abituate alla visione del Palazzo del Lavoro quasi ogni mattina, viaggiando verso Torino: è un edificio che abbiamo imparato a conoscere durante il corso di studi, arrivando ad apprezzarne, con maggior consapevolezza, le qualità strutturali ed architettoniche. Di fronte alla sua imponenza, ci siamo spesso domandate il perché del suo stato di abbandono, senza trovare una risposta immediata. A colpirci particolarmente, oltre allo stato di degrado in cui si trova, sono state la lenta ma imperante riappropriazione operata dalla vegetazione al suo interno ed il grande senso di rivendicazione dimostrato dai cittadini nei confronti dell’edificio. Il nostro percorso di tesi ha avuto inizio in un periodo rilevante per la storia del Palazzo, attualmente al centro di discussioni che hanno coinvolto (e continuano a coinvolgere) sia l’amministrazione che la cittadinanza. La proposta di riqualificazione avanzata per l’opera, che ne ha previsto la trasformazione in centro commerciale, è stata infatti in più occasioni contestata dagli abitanti del quartiere Nizza-Millefonti, oltre a essere stata bloccata tramite il ricorso al TAR avviato dalla vicina galleria commerciale 8gallery. Il 20 agosto scorso, poi, un incendio doloso ha colpito la struttura di Nervi, riportando l’attenzione di tutti i torinesi intorno all’urgenza del riuso del Palazzo. Consce dell’incertezza riguardante i futuri lavori sul fabbricato e gui-
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introduzione
date dal consiglio della nostra relatrice, abbiamo deciso di affrontare il tema del suo riutilizzo in modo il più possibile realistico, senza rifiutarne a priori un eventuale mutamento in centro commerciale e domandandoci se fosse possibile approcciarsi al tipo del centro commerciale in maniera alternativa. Con l’obiettivo di elaborare un piano di riuso che tenesse conto delle esigenze e dei pareri espressi dai cittadini, abbiamo presto compreso quali difficoltà avrebbero accompagnato il nostro approccio al progetto. La grande scala si è rivelata qualcosa di ben lontano da ogni occasione progettuale da noi affrontata negli ultimi cinque anni. Abbiamo perciò stabilito una serie di strumenti di ricerca che ci avrebbero potuto aiutare a raggiungere il nostro intento: primo fra tutti, una conoscenza più approfondita del Palazzo del Lavoro e del suo creatore, ottenuta non solo consultando i testi dello stesso Nervi e le monografie che lo riguardano, ma anche tramite la visione di filmati d’epoca, documentari, fotografie e dichiarazioni dei testimoni diretti della costruzione dell’opera; ci siamo poi recate diverse volte sul sito di progetto, eseguendo più sopralluoghi esterni e, in particolare, un sopralluogo interno. Il nostro lavoro ha incluso anche le interviste di alcuni tra gli attori interessati alla trasformazione del Palazzo, finalizzate a comprendere i diversi punti di vista sull’edificio e sulle potenzialità del suo riuso. Un’ulteriore analisi di fondamentale importanza è stata quella riferita allo sviluppo, nei secoli, del commercio e del tipo shopping mall, che non avevamo mai approfondito in modo esteso durante i corsi universitari. Tale studio, condotto attraverso monografie sul tema ed articoli di riviste del settore (soprattutto per quanto riguarda i nuovi orientamenti verso la tecnologia), si è rivelato utile a comprendere quali aspetti del
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introduzione
centro commerciale concorrano, oggi, a mostrarne un’immagine omologata e priva d’identità propria. Abbiamo, inoltre, esaminato alcuni casi di riconversione a funzione commerciale che hanno portato un effettivo miglioramento nelle condizioni di edifici precedentemente abbandonati. Infine, prendendo spunto dalle peculiarità del Palazzo stesso, è stata sviluppata un’analisi più personale, impostata su tematiche quali la riappropriazione di siti di “scarto” o la mancata monumentalità dell’opera di Nervi. Il progetto che ne è derivato è l’esito di una lunga serie di ragionamenti che ci ha condotto ad una visione che potremmo definire “ecologica” e che identifica l’architettura come prodotto dell’uomo e, di conseguenza, della natura: sulla base di queste riflessioni ha preso vita il nostro metodo progettuale, improntato all’idea di una diffusione “parassitaria” di volumi all’interno del Palazzo di Nervi. Il progetto, che contiene numerose altre funzioni oltre a quella commerciale e si configura come un proseguimento degli isolati cittadini all’interno dell’edificio, si sviluppa anche incrementando la già abbondante “invasione” del verde proveniente dall’esterno. Il lavoro che segue è suddiviso in tre parti: la prima dedicata ad una disamina storica del tipo centro commerciale, la seconda destinata al racconto degli avvenimenti che hanno portato il Palazzo del Lavoro alla sua condizione attuale e la terza contenente la nostra proposta progettuale.
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Natura abhorret a vacuo La natura rifugge il vuoto
Aristotele IV secolo a.C.
Con la fine degli umani i grattacieli si copriranno improvvisamente di licheni spumosi gli asfalti inizieranno fioriture che richiameranno gli insetti più luminosi nessun gatto rischierà di venire castrato e nell’universo rimarrà lo splendente ricordo di essersi visto con l’occhio umano Luigi di Ruscio, da “L’Iddio Ridente”, 2008
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PARTE 1 PARTE 1
Analisi storico-tipologica del centro commerciale
COMMERCIO CITTA’
IL E LA : UN RAPPORTO IN EVOLUZIONE
Il centro commerciale può essere definito come “un insieme complesso di punti di vendita al dettaglio e di servizi, individualmente distinti per dimensioni, tecniche di vendita e prodotti, ma riuniti in una struttura progettata, realizzata e gestita in modo globale”1. Esso non costituisce, dunque, un elemento a funzione unitaria, ma è frazionato in tante diverse microscene parziali, strutturate in modo da impedirne una percezione d’insieme2. Questo tipo architettonico si distingue per il suo aspetto labirintico3: deve presentarsi come un luogo attraente, in cui il visitatore possa perdere l’orientamento e, senza rendersene conto, acquistare più merce rispetto alle sue esigenze4. La prima occhiata ad ogni centro commerciale cade però sul suo esterno, che non si configura assolutamente come attraente, ma come una grande “scatola” priva di qualità architettoniche5. Il mall è un contenitore per negozi troppo spesso non progettato in modo da dichiarare le proprie “intenzioni”, così come avviene per altre architetture pubbliche 6. Inoltre, mette il suo bisogno di visibilità davanti ad ogni regola o concetto architettonico7, diventando uno spazio multi identitario e mai caratterialmente autonomo. Tale tipo rappresenta quindi una sfida per gli architetti, in quanto spazio che viene, il più delle volte, immaginato come sgradevole e che oggi viene rifiutato nel suo modello suburbano originario, tipicamente americano8. La vera sfida consiste, oggi, nel far evolvere un modello ormai superato, ma soprattutto nel riconoscerlo come necessario nella vita dei cittadini9: un prossimo passo potrebbe consistere, forse, proprio in un avvicinamento del centro commerciale ai cittadini stessi ed alle loro esigenze non solo di acquisto, ma anche di aggregazione.
Urban Land Institute, Dollars and Cents of Shopping Centers/The Score 2008, Washington D.C., ULI, 2008, p. 5.
1
Carla Zito, L’architettura dell’intrattenimento: il caso del centro commerciale, in Marco Vaudetti (et alii), Edilizia per il commercio: punti vendita, concept store, grandi magazzini, centri commerciali, temporary store, Torino, UTET, 2007, p. 37.
2
3
Ibid.
La cosiddetta “Sindrome di Gruen”, dal nome del creatore del tipo centro commerciale. Fulvio Leoni, L’architettura della simultaneità nello spazio antiprospettico, Roma, Meltemi, 2004, p. 48.
4
Paco Underhill, The Call of the Mall, New York, Simon & Schuster, 2004, p. 23.
5
6
Ivi, p. 25.
Norman Keith Scott, Shopping Centre Design, New York, Van Nostrand Reinhold, 1989, p. 2.
7
Nicholas Jewell, Shopping Malls and Public Space in Modern China, new York, Routledge, 2016, p. 93.
8
9
Ivi, p. 92.
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Dalla bottega al grande magazzino
Southdale Center, Edina (Minnesota), Victor Gruen, 1956 (courtesy of Minnesota Historical Society).
Il commercio e la cittA’: un rapporto in evoluzione
1.1 Dalla bottega al grande magazzino Da sempre il commercio è riconosciuto come una delle pratiche sociali più importanti per l’umanità. Lo scambio di merci ha infatti origini antichissime, prima della nascita della moneta, ed è inevitabile nelle relazioni umane, poiché necessario non solo ai fini della sopravvivenza, ma anche nell’ambito delle interazioni sociali10. Come afferma Roberto Aguiari: «Il tessuto urbano nasce e si sviluppa non tanto a causa della concentrazione della popolazione o di attività di produzione fisica dei beni, quanto in funzione della quantità e della varietà degli scambi commerciali.»11
Peter Coleman, Shopping Environments: Evolution, planning and design, Oxford, Elsevier, 2006, p. 19.
10
Roberto Aguiari, Le strutture commerciali come componenti dell’arredo urbano: i centri commerciali, le associazioni di via, l’ambulantato, in Claudio Baccarani, Imprese commerciali e sistema distributivo. Una visione economico-manageriale, Torino, Giappichelli, 1997, p. 391.
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I luoghi legati al commercio sono, col tempo, diventati di fondamentale importanza nella vita comunitaria dei borghi come delle grandi metropoli. Già nelle città di più antica fondazione, la piazza del mercato è compresa nelle mura di cinta, assieme agli edifici religiosi ed ai palazzi del potere, ciò a dimostrazione del fatto che il commercio è anch’esso compreso nella triade delle pratiche indispensabili per la società (insieme alla politica ed alla religione). Nonostante i bazar mediterranei, le piazze del mercato medioevali o i mercati coperti del XIX secolo non godano della stessa monumentalità di edifici pubblici ed istituzionali, essi si sono infatti sempre configurati come luoghi
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Il centro commerciale e la cittA’: un rapporto in evoluzione
I mercati traianei in uno schizzo di Carlo Aymonino (Riccarda Cantarelli, 2012, p.24).
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Il commercio e la cittA’: un rapporto in evoluzione
simbolici per la collettività. I luoghi che ospitano le attività di commercio, tuttavia, non sono sempre stati strettamente legati ad una tipologia architettonica specifica: si tratta quasi esclusivamente di luoghi all’aperto, talvolta coperti da tettoie12. L’aspetto per cui essi si sono sempre contraddistinti può essere individuato, invece, nella loro attitudine ad accogliere attività di diverso tipo; nell’Antica Grecia, ad esempio, l’agorà si identifica come luogo in cui l’individuo ha piena possibilità di esercitare il proprio potere come cittadino: in un luogo del genere si possono fare acquisti così come partecipare ad assemblee pubbliche. Un simile processo avviene all’interno del Foro romano, nato come area riservata ai mercati e solo in seguito designato come fulcro della vita cittadina13. È in quest’epoca che il mercato si sposta, per la prima volta, verso un interno (si vedano, come esempio rappresentativo, i Mercati Traianei a Roma14): fino ad allora si era concentrato in un luogo ancora oggi indissolubilmente legato all’attività commerciale, ovvero la strada. È però solo con il Medio Evo che la piazza del mercato assume quel ruolo di polo primario, quasi al pari degli edifici religiosi. Sono anni di intenso cambiamento, in cui le botteghe iniziano ad assumere una propria individualità e peculiarità in base alla merce messa in vendita. La natura comunicativa del commercio ha le sue origini in questo periodo, con la nascita delle prime insegne15. Il ‘400 si rivelerà però il secolo di maggior rilevanza nell’evoluzione
Riccarda Cantarelli, L’architettura dell’edificio mercato: bazar, shopping center e circuito globale, Padova, Il Poligrafo, 2012, p. 20.
12
Vanni Codeluppi, Lo spettacolo della merce: i luoghi del consumo dai passages a Disneyworld, Milano, Bompiani, 2000, pp. 35-36.
13
Riccarda Cantarelli, L’architettura dell’edificio mercato: bazar, shopping center e circuito globale, Padova, Il Poligrafo, 2012, p. 26.
14
15
Ivi, pp. 36-40.
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Il centro commerciale e la cittA’: un rapporto in evoluzione
Planimetria generale dell’area tra Rue Saint Marc e Rue de Faubourg Montmartre, con il Passage de Panoramas, il Passage Jouffroy ed il Passage Verdeau (Riccarda Cantarelli, 2012, p.25).
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Il commercio e la cittA’: un rapporto in evoluzione
dei sistemi commerciali, in quanto corrispondente con la differenziazione dell’artigianato rispetto ad un commercio di lusso, destinato ad un’élite sociale allora in piena affermazione. Quella che avviene in parallelo è una “rivoluzione commerciale” vera e propria, caratterizzata in particolare da un incremento nel trasporto dei beni e dalla conseguente diffusione di merce fino ad allora sconosciuta, proveniente da altri paesi Europei o, addirittura, da altri continenti16. Senza considerare le conseguenze di questa rivoluzione (che proseguono con la nascita di vetrine che si evolvono nella forma fino al ‘700, durante il quale la loro superficie diventa sempre più estesa) non si potrebbe giustificare il cambiamento totale che apporta nell’800 la Seconda Rivoluzione Industriale. Nascono edifici appositamente pensati per il commercio: i grandi magazzini di invenzione francese, che vantano architetture spettacolari, scalinate monumentali, grandi vetrine ed atri. Prendono piede nello stesso momento storico anche i passages, un’altra creazione francese che riprende il tema primario della strada ed inizia ad assumere quella natura parassitaria nella sua “invasione puntuale” della città17. La strada diviene luogo di passaggio, dove il visitatore è attratto dalle vetrine e della insegne commerciali con l’intento più di mostrargli la quantità e la varietà delle merce disponibile che di indurlo ad acquistarla. I primi centri commerciali vengono realizzati all’inizio del XX secolo quando, nella progettazione di città di nuova
Vanni Codeluppi, Lo spettacolo della merce: i luoghi del consumo dai passages a Disneyworld, Milano, Bompiani, 2000, p. 29.
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ivi, pp. 44-47.
25
Il centro commerciale e la cittA’: un rapporto in evoluzione
Rockfeller Center, New York, Raymond Hood, 1930 (Middlebury Archive).
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Il commercio e la cittA’: un rapporto in evoluzione
fondazione nel Nord America, gli architetti ed urbanisti pensano che raggruppare le attività commerciali potrebbe facilitare gli acquisti quotidiani. Il centro commerciale viene da subito considerato come capace di generare vita sociale, per questo prende posto nel centro della comunità, vicino a scuole e parchi; così ogni nuova città viene dotata del proprio centro per il commercio. Negli anni ’30 a New York viene progettato e costruito il Rockefeller Center, un complesso polifunzionale di diversi grattacieli che ospitano le più svariate attività:
Paul Goldberger, The City observed, New York. A guide to the architecture of Manhattan, Munchen, Random House, 1979.
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«Al Rockefeller Center sono raggruppate più o meno tutte le cose che una città come New York deve avere: grattacieli, piazze, animazione, angoli caratteristici, panorami, negozi, caffè. Il tutto forma un insieme e offre al contempo un’infinità di cose tra le più svariate; fa parte della vita dell’impiegato d’ufficio newyorkese e di quella del turista; può essere utile al compratore newyorkese ma anche a colui che pratica il pattinaggio. È stato concepito inoltre come un luogo in cui l’architettura monumentale avrebbe dovuto mettere in rilievo sia gli affari sia la cultura e non si può non ammettere che tale scopo, anche se in modo un po’ naif, è stato raggiunto. Il Rockefeller Center è sicuramente il primo esempio cui poi hanno fatto riferimento tutti i complessi urbani su larga scala realizzati nel centro di una città americana.»18
Così il centro commerciale inizia a rivestire, nelle grandi metropoli, il ruolo di centro polifunzionale, attorno al quale orbita ogni tipologia di cittadino, ognuno con le sue più svariate esigenze: lo caratterizza l’aspetto inequivocabile di una vera e propria città condensata all’interno di un solo edificio.
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Dalla cittĂ alla periferia
Southdale Center, Edina (Minnesota), Victor Gruen, 1956 (courtesy of Minnesota Historical Society).
Il commercio e la cittA’: un rapporto in evoluzione
1.2 Dalla città alla periferia Negli anni ’40 del ‘900, con la diffusione dell’automobile e l’aumento delle possibilità di trasporto, avviene una trasformazione fondamentale nei meccanismi di ubicazione dei centri commerciali: questi iniziano infatti a migrare fuori dai centri cittadini. Il costo inferiore dei terreni e la possibilità di accedere ad aree più vaste attirano infatti gli investitori verso le periferie dando vita alla proliferazione di grandi edifici, i cosiddetti big-box stores, spesso costruiti senza aperture (per concentrare il consumatore sull’acquisto delle merci) ed immersi in panorami certo poco attraenti (principalmente grandi parcheggi cementati)19. Trattasi di un cambiamento che ha la sua genesi nel mondo americano, ma che ben presto arriva ad influenzare anche l’ambiente europeo. Appare evidente come il tema del commercio associato al passaggio venga meno; è ora l’acquirente ad essere inserito all’interno di quella che sembra un’enorme vetrina: sono queste le forme embrionali di quello che verrà in futuro chiamato junkspace. Conseguentemente a questo improvviso decentramento i centri urbani finiscono per perdere la vitalità che il connubio tra commercio ed attività socio-culturali aveva conferito loro; le vie commerciali si spopolano di vetrine ed i vecchi centri commerciali cittadini vengono utilizzati più
Vanni Codeluppi, Metropoli e luoghi del consumo, Milano, Mimesis 2014, pp. 57-58.
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Il commercio e la cittA’: un rapporto in evoluzione
L’agorà del Southdale Center, Edina (Minnesota), Victor Gruen, 1956 (Victor Gruen Collection, America Heritage Center, University of Wyoming).
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Il commercio e la cittA’: un rapporto in evoluzione
di rado. Il nuovo centro commerciale di periferia punta a rendere lo shopping un’esperienza unica, con vie pedonali, piazze e fontane; in questa simulazione della città reale tutte le attività hanno come unico scopo quello di spingere i visitatori all’acquisto.20 Il grande maestro nella progettazione di mall fuori da centro cittadino è Victor Gruen, che con la realizzazione del Northland Center alla periferia di Detroit nel 195421 e del Southdale Center a Minneapolis nel 195622 consacra la tendenza tutta nordamericana dei centri commerciali regionali. Costruiti in corrispondenza dei crocevia delle grandi reti autostradali, costruiti come vere e proprie “città fuori dalla città”, essi ne conservavano l’impianto urbano di base (spesso ortogonale, per facilitare l’orientamento), pur risultando, nella maggior parte dei casi, totalmente coperti, per aumentare il comfort termico sia estivo che invernale (con la speranza di incrementare le ore di permanenza dei visitatori all’interno del centro)23. La definizione conferitagli dallo stesso Gruen è quella di «organismi urbani chiaramente definiti, sia che fin dall’inizio siano stati progettati nella loro struttura finale o che siano stati creati in previsione di uno sviluppo successivo. I loro developer, architetti e progettisti hanno deciso dall’inizio la loro forma e taglia ottimale, con piena consapevolezza che nessun futuro sprawl senza pianificazione avrebbe distrutto la loro.»24. Durante l’orario di apertura prendono vita le più svariate attività; lo shopping non è più l’unica attrazione, ma
Riccarda Cantarelli, L’architettura dell’edificio mercato: bazar, shopping center e circuito globale, Padova, Il Poligrafo, 2012, p. 43-45.
20
Jeffrey Hardwick, Mall Maker: Victor Gruen, Architect of an American Dream, Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 2004, p. 276.
21
40 000 Visitors See New Stores; Weather-Conditioned Shopping Center Opens, in “The New York Times”, 9 ottobre 1956, <http://query.nytimes. com/gst/abstract.html?res=9807EEDD163AE13BBC4153DFB667838D649EDE&legacy=true> [consultato il 26 marzo 2016]. 22
Vanni Codeluppi, Lo spettacolo della merce: i luoghi del consumo dai passages a Disneyworld, Milano, Bompiani, 2000, p. 70. Le due principali pubblicazioni di Gruen sul tema rimangono Victor Gruen, Larry Smith, Shopping towns USA. The Planning of Shopping Centers, New York, Reinhold, 1960 e Victor Gruen, The Heart of Our Cities. The Urban Crisis: Diagnosis and Cure, New York, Simon and Schuster, 1964.
23
Victor Gruen, The Heart of Our Cities.The Urban Crisis: Diagnosis and Cure, New York, Simon and Schuster, 1964, p. 190-191.
24
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Il commercio e la cittAâ&#x20AC;&#x2122;: un rapporto in evoluzione
Un ballo organizzato allâ&#x20AC;&#x2122;interno del Southdale Center, Edina (Minnesota), Victor Gruen, 1956 (Victor Gruen Collection, America Heritage Center, University of Wyoming).
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Una sfilata di moda nel Southdale Center, Edina (Minnesota), Victor Gruen, 1956 (Victor Gruen Collection, America Heritage Center, University of Wyoming).
Il commercio e la cittAâ&#x20AC;&#x2122;: un rapporto in evoluzione
Natale al Southdale Center, Edina (Minnesota), Victor Gruen, 1956 (Victor Gruen Collection, America Heritage Center, University of Wyoming).
Le sculture progettate per gli spazi comuni del Southdale Center, Edina (Minnesota), Victor Gruen, 1956 (Victor Gruen Collection, America Heritage Center, University of Wyoming).
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Il commercio e la cittAâ&#x20AC;&#x2122;: un rapporto in evoluzione
Planimetria del Southdale Center, Edina (Minnesota), Victor Gruen, 1956 (City of Edina, <www.streets.mn>).
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Il commercio e la cittA’: un rapporto in evoluzione
il complesso è contornato ed animato da spettacoli ed attività di aggregazione cittadina; in questo modo, più dei centri urbani, i nuovi centri regionali regalavano ai cittadini che vi convergevano dalle aree circostanti, lo svago che desideravano, la possibilità di instaurare nuove relazioni sociali e di prendere parte a diverse attività25. Con lo sviluppo di tale modello urbanizzato di centro per il commercio, iniziano a comparire, nelle vicinanze di queste strutture, nuovi edifici per residenze ed uffici: una strategia che mirava a garantire una clientela fissa al centro, ma che con la sua diffusione finì per produrre dei veri e propri centri urbani di periferia, satelliti della grande città più prossima, a ribadire ancora una volta come il commercio fosse, già allora, base fondamentale della vita della società urbana tanto da poterne rappresentare in alcuni casi l’origine stessa26.
Vanni Codeluppi, Lo spettacolo della merce: i luoghi del consumo dai passages a Disneyworld, Milano, Bompiani, 2000, pp. 71-72.
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Riccarda Cantarelli, L’architettura dell’edificio mercato: bazar, shopping center e circuito globale, Padova, Il Poligrafo, 2012, p. 43-45.
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Ritorno al centro cittadino
Victor Gruen Associates, A Greater Fort Worth Tomorrow, Greater Fort Worth Planning Committee, 1956.
Il commercio e la cittA’: un rapporto in evoluzione
1.3 Ritorno al centro cittadino «Per la concezione dei centri commerciali regionali, abbiamo tratto preziosi insegnamenti studiando e analizzando accuratamente le attività delle città; ora , questi grandi complessi commerciali sono stati concepiti e realizzati e, funzionando perfettamente sono quindi pronti, a loro volta, a pagare il debito nei confronti dei vecchi centri-città; possiamo infatti far tesoro di quest’esperienza, e sfruttarla per il rinnovamento dei nostri centri urbani.»27
Victor Gruen, discorso alla Boston Conference on Distrbution, Boston, 18 ottobre 1955.
27
Così afferma Gruen in una conferenza tenutasi a Boston nel 1955. Con lo spostamento del fulcro commerciale fuori dal perimetro urbano ed il crescente degrado acquisito dai centri delle città nordamericane negli anni ’50 e ’60, i quartieri cittadini vengono infatti ormai considerati come malsani, sporchi ed insicuri; spinti dalla volontà di riqualificarli per renderli nuovamente attrattivi e memori dello straordinario effetto positivo dei centri commerciali regionali sull’urbanizzazione delle aree periferiche, urbanisti e sociologi dell’epoca valutano come unico rimedio il ritorno dei centri commerciali all’interno del tessuto urbano. Rappresentativo di questa tendenza è il caso della città di Fort Worth, oggi la quinta città per popolazione del Texas e la diciassettesima degli Stati Uniti: tramite un progetto di riqualificazione portato avanti da un gruppo di esperti (capeggiato proprio da Gruen) prese piede un primo ten-
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Il commercio e la cittA’: un rapporto in evoluzione
Victor Gruen, Per una Fort Worth più grande di domani, in “Urbanistica”, n. 20, 1956, p. 120-121.
28
Bruno Zevi, Downtown come San Marco, in “Urbanistica”, n. 20, 1956 p. 116-117.
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tativo di rivalorizzare la funzione commerciale, rendendo l’area dello shopping mall totalmente pedonabile e, soprattutto, andando ad inserirlo all’interno di un contesto urbano già consolidato28. Seppur con alcune riserve teoriche, molto impressionato da questo progetto è Bruno Zevi, che lo descrive così: «Il processo non è più quello della decentralizzazione ma della ricentralizzazione. Rimodellare la città cominciando dal suo nodo critico, dalla downtown, cioè dal cuore commerciale: ecco il nuovo programma dei pianificatori americani [...]. Gruen e i suoi collaboratori tracciano il programma. Fort Worth ha attualmente una popolazione fissa di 750.000 abitanti e una popolazione commerciale di 1.000.000. Sulla base dei rilevamenti statistici stabilirono che nei prossimi quindici anni la popolazione sarebbe cresciuta del 60%, ma il volume degli affari del 300%. Escludendo dalla downtown tutte le attività che non fossero ad alta produttività, era possibile sistemare il centro commerciale futuro nella stessa area della presente downtown, ma ad una condizione: che le automobili non avessero accesso in quest’area. Nel 1975, si prevede, 152.000 automobili entreranno giornalmente nella downtown di Fort Worth: un parcheggio impegnerebbe un’area tre volte più grande dell’attuale downtown rasa al suolo. Nel progetto invece i parcheggi multipiano sono concentrati in sei punti, i mezzi colletti vidi trasporto rasentano la downtown senza penetrarvi, e i servizi interni sono garantiti da strade sotterranee. Nel nuovo “cuore commerciale” si camminerà a piedi o con elementari mezzi di trasporto a minima velocità: le distanze sono brevissime appunto perché l’eliminazione del traffico automobilistico permette la massima concentrazione edilizia.»29
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Il commercio e la cittA’: un rapporto in evoluzione
Data l’intensa proliferazione dei centri commerciali nelle periferie e la concorrenza tra quest’ultimi, infatti, gli investitori iniziano a considerare il centro città economicamente allettante e potenzialmente attrattivo. Eppure questi nuovi centri commerciali si configurano, per struttura e genere di funzioni contenute, esattamente come quelli periferici: grandi volumi sviluppati principalmente su di un solo piano, chiusi verso l’interno da facciate continue su strada che per nulla comunicavano con il costruito circostante; questi aspetti erano stati, però, considerati fino ad allora positivi, resi gratificanti ed indiscutibili proprio dal successo che fino ad allora garantivano30. Tale modello, esportato in più casi anche in Europa, viene con il tempo completato da torri per uffici, sale conferenze e residenze, ritrovando così una multifunzionalità moderna che fino ad allora si era persa nei centri città. A causa del progressivo fallimento di alcuni centri regionali periferici, dovuto al cambiamento nelle mode e nelle tendenze, e del costo dei terreni nel complesso urbano, i promotori preferiscono sfruttare al meglio l’opportunità di tornare in città con un commercio estremamente completo, capace di soddisfare le complesse esigenze della vita urbana. L’evoluzione naturale descritta precedentemente muove così i suoi primi passi verso un centro vivo 24 ore su 24: gli spazi per il tempo libero adottano, infatti, gli orari di apertura dei negozi; le aree per il ristoro, particolarmente attive negli orari di pranzo e cena, rendono movimentati i corridoi e le hall e nell’insieme tutto appare
Riccarda Cantarelli, L’architettura dell’edificio mercato: bazar, shopping center e circuito globale, Padova, Il Poligrafo, 2012, pp. 67-68.
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Il commercio e la cittA’: un rapporto in evoluzione
Vanni Codeluppi, Lo spettacolo della merce: i luoghi del consumo dai passages a Disneyworld, Milano, Bompiani, 2000, p. 70.
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Frank H. Spink Jr, The maturing of shopping centers, in “Urban Land”, Vol.44, n.1, Washington, ULI, gennaio 1985.
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omogeneo, mostrando il mondo del centro commerciale come ancora più vicino all’idea di città rispetto alle strade del centro. Le divisioni tra spazi pubblici e privati si fanno sempre meno nette e l’esperienza che ne risulta è quella di un ambiente confortevole ed appagante.31 Questa nuova configurazione è specchio della società e dei cambiamenti che la interessano in quel determinato momento storico: nel Nord America degli anni ’70 e ’80 ai nuclei familiari tradizionali si affiancano nuovi nuclei anticonvenzionali (single e famiglie con un solo genitore). Se prima la tipica famiglia americana era composta da un padre, unico lavoratore del nucleo, una madre, lavoratrice domestica, e da uno o più figli, ora normalmente i genitori lavoratori sono entrambi e perciò anche gli orari disponibili per le spese domestiche si sono spostati verso le ore serali o nei weekend, fuori perciò l’orario lavorativo.32 In contemporanea a questo ritorno verso il centro urbano si verifica anche una riscoperta del tipo delle gallerie commerciali, memoria più che evidente dei celebri e sontuosi passages parigini. Anche se caratteristica della città ottocentesca la galleria risponde perfettamente a due esigenze fondamentali per i nuovi centri commerciali urbani: in primo luogo, tale tipologia risulta più affine alla composizione del tessuto urbano e, quindi, più facilmente inseribile al suo interno. Rimanendo aperta alle attività esterne, ma garantendo comunque l’introversione tipica del centro per acquisti, quest’area coperta permette, inoltre, di fare acquisti al riparo dagli agenti atmosferici: essa si configu-
Il commercio e la cittA’: un rapporto in evoluzione
ra quindi come luogo addirittura più confortevole della tradizionale via cittadina. In secondo luogo, con la grande crisi energetica del ’73, negli Stati Uniti poter sfruttare la luce naturale perlomeno nelle ore diurne garantiva un grande vantaggio ed un considerevole risparmio sui costi di gestione; così le gallerie con copertura vetrata tornarono ad essere la soluzione migliore per i centri commerciali urbani. Inoltre, come già accennato, si attuano in quegli stessi anni anche una serie di ristrutturazioni dei vecchi centri periferici, al fine di adattarli alle nuove esigenze ed alle ultime tendenze. In questo modo alcuni centri vengono implementati con l’aggiunta di attrezzature sportive o per il divertimento e, in alcuni casi, con l’inserimento di luoghi di culto al servizio delle comunità che vi si erano insediate.33 Il tutto nel tentativo di assimilare il più possibile alla città storica i centri commerciali, talvolta anche con installazioni posticce, come fittizie riproduzioni di edifici storici. Oltre ad alcuni esempi poco lodevoli di interventi atti a restituire attrattiva ai centri ormai fuori moda, notiamo comunque, a partire dagli anni ’70, un significativo riavvicinamento dell’architettura alla progettazione dei luoghi del commercio, nel tentativo di uscire dall’anonimato e stupire il visitatore, distinguendosi dal grande numero di centri simili nemmeno troppo lontani. Ne sono un esempio i magazzini Best Products34 progettati dal gruppo Site (acronimo di “Sculpture in the Environments”), caratterizzati da una ricerca provocatoria dei rivestimenti, da fac-
Vanni Codeluppi, Lo spettacolo della merce: i luoghi del consumo dai passages a Disneyworld, Milano, Bompiani, 2000, p. 69.
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Ivi, p. 71.
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Ingresso del “Tilt Building”, Best Store, Towson (MD), SITE, 1976 (<http://www.siteenvirodesign.com>). 42
Il commercio e la cittA’: un rapporto in evoluzione
Ingresso dell’ “Inside/Outside Building”, Best Store, Milwaukee (WI), SITE, 1984 (<http://www.siteenvirodesign.com>). 43
Il commercio e la cittA’: un rapporto in evoluzione
Margaret McCormick, The Ironic Loss of the Postmodern Best Stores Façade, in “Failed Architecture”, 22 luglio 2014, <http://www.failedarchitecture. com/the-ironic-loss-of-the-postmodern-best-store-facades/> [consultato il 16 marzo 2016].
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David Douglass-Jaimes, When Art, Architecture and Commerce Collided: The BEST Products Showrooms by SITE, in “ArchDaily”, 7 dicembre 2015, <http://www.archdaily.com/778003/ the- intersection-of-art-and-architecture-the-best-products-showrooms-bysite-sculpture-in-the-environment/> [consultato il 16 marzo 2016].
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ciate oblique anticonvenzionali, aperture apparentemente accidentali con mattoni sgretolati e portali sconnessi dal blocco dell’edificio. Sydney Lewis, proprietario del marchio Best (legato alla distribuzione di oggetti per la casa, equipaggiamento da campeggio, gioielli, giocattoli ed prodotti d’elettronica) ed appassionato d’arte, dà infatti piena libertà creativa ai progettisti, che realizzano una serie di edifici presto identificati come apice del Postmodernismo Americano, generando reazioni contrastanti da parte della critica.35 I supermercati Best rimangono, infatti, perfettamente in linea con la cultura “materiale” legata al tipo del centro commerciale; non sono realizzati per attrarre nuovi visitatori, interessati all’arte ed alla cultura, ma per servire i clienti già abituati a fare la spesa al Best. È proprio tra i visitatori che queste architetture riscuotono il maggior successo, tanto da fornire l’ispirazione per i successivi processi di re-branding di molte altre compagnie36: ogni negozio riesce nel difficile obiettivo di distinguersi grazie ad una propria identità pur mettendo in primo piano la visibilità del marchio. La particolarità più evidente di ogni punto vendita è la “messa in scena” della struttura dell’edificio, di solito nascosta, all’interno del centro commerciale, da superfici provvisorie, pareti in cartongesso e cartelloni pubblicitari. Gli edifici più rappresentativi di tale scelta progettuale sono il Peeling Building, realizzato a Richmond, in Virginia, nel 1972, e l’ultimo negozio della serie, l’Inside/Outside Building, realizzato a Milwaukee, nel Wisconsin, nel 1984: mentre nel primo la parte di rive-
Il commercio e la cittA’: un rapporto in evoluzione
stimento in mattoni si rivela fittizia, “scollandosi” dall’edificio regolare ad essa sottostante, nel secondo vengono rivelati addirittura i sistemi meccanici dell’edificio, tramite la rimozione di ampie parti della facciata; addirittura, la merce esposta in vetrina viene replicata all’esterno in versione monocromatica, in plastica bianca, denunciando l’artificialità dei prodotti in vendita. I mezzi del marketing diventano, negli anni ‘80 del ‘900, più sofisticati; la strategia maggiormente adottata è quella della diversificazione e della specializzazione: l’attenzione per il contesto va a sostituire gradualmente la diffusione di strutture prefabbricate, eliminando così l’omologazione propagante e puntando sempre più ad una personalizzazione dell’intera esperienza dell’acquisto. Gli architetti si trovano quindi a dover progettare l’immagine globale del centro commerciale e non solo l’atmosfera all’interno di un negozio; un’attenzione quasi maniacale per la distinguibilità del marchio diviene vera protagonista dell’epoca, implicando a tal fine la creazione di ambienti indimenticabili che invoglino i visitatori a fidelizzarsi.
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Sviluppi paralleli in Europa ed in Italia
Centro Torri, Parma, progetto di Aldo Rossi e Gianni Braghieri, 1984 (Istituto per i beni artistici culturali e naturali - Regione Emilia Romagna).
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1.4 Sviluppi paralleli in Europa ed in Italia Gabriella Paolucci, Mimesi della città e seduzione dell’entertainment. Shopping e leisure nei centri commerciali di seconda generazione, 19 dicembre 2006, <http://archivio.eddyburg.it/ filemanager/download/778/Paolucci_Mimesi_Città_Mall.pdf> [consultato il 10.01.2016].
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A partire dagli anni ’60 del ‘900 «la grande distribuzione conosce in Europa un costante incremento, anche se rimane molto al di sotto degli standard raggiunti in USA dove si hanno ben 1800 mq ogni 1000 abitanti, mentre i valori europei si aggirano ancora all’inizio del secolo sui 140 mq.»37. A differenza di quanto avviene su territorio americano, infatti, le città europee presentano centri storici densamente stratificati, periferie industriali ed aree agricole coltivate; a partire poi dagli anni di sviluppo della classe operaia, di fronte alla necessità di costruire nuove residenze per rispondere al rapido incremento delle domanda di abitazioni, si vanno a definire quartieri satelliti alle grandi città; questi vengono dotati dei principali servizi necessari, cercando però il più possibile di evitarne la dislocazione in luoghi troppo lontani tra loro38. Possiamo facilmente comprendere, a seguito di quanto premesso, come siano state differenti le interpretazioni della tipologia del centro commerciale in Europa rispetto a quanto detto riguardo al contesto americano. Inizialmente, negli anni ’60, si assiste alla fedele riproduzione dei grandi centri regionali statunitensi i quali, però, per via del grande bagaglio culturale delle nazioni eu-
Riccarda Cantarelli, L’architettura dell’edificio mercato: bazar, shopping center e circuito globale, Padova, Il Poligrafo, 2012, pp. 79-158.
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ropee, si differenziano ben presto a seconda dei diversi paesi in cui vanno ad inserirsi. In Inghilterra, ad esempio, la realizzazione di nuovi centri commerciali appare come un’occasione per sperimentare le ultime novità architettoniche (in termini di stili e, soprattutto, di materiali), ma più ancora questi fungono da incentivo per uno sviluppo economico e turistico-attrattivo del territorio. In Francia, invece, la qualità degli edifici commerciali finisce per corrispondere quasi esclusivamente a quella, sfarzosa ed esclusiva, del centro cittadino, in pieno accordo con la tendenza ottocentesca del creare grandi magazzini per le sole merci di lusso; resta un caso isolato quello del gruppo Carrefour, tra i primi a spostare il proprio interesse, già negli anni ’50, dal posizionamento nel centro storico al gigantismo tipicamente americano: la produzione di questi immensi fabbricati, segnalati e pubblicizzati da insegne altrettanto enormi, risulta così eccessiva da spingere addirittura il governo ad intervenire per regolarizzarne il dimensionamento. Il caso italiano, in questi stessi anni, non è però confrontabile con i vicini casi francesi. In Italia, spesso, la questione finisce infatti per rimanere irrisolta: i luoghi del commercio sono, ormai, già stati affidati alle disordinate periferie industriali, rinviando il problema della rivalorizzazione di queste ultime e negando la necessità di compiere accurate ricerche sul piano del comfort, a livello sia architettonico che ambientale. L’arrivo del centro commerciale avverrà comunque qualche anno in ritardo rispetto agli
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Il commercio e la cittA’: un rapporto in evoluzione
altri paesi europei: se negli anni ’70 il sistema commerciale in Italia era ancora composto da negozi tradizionali sorti in modo spontaneo nei centri storici, infatti, solo con la nascita dei quartieri-dormitorio periferici si avranno i primi esempi di big box store, ovvero i primi supermercati destinati a farsi nuove polarità urbane.39 Il riscatto italiano, in questo campo, avviene soltanto negli anni ’80 ed è guidato da una più sapiente capacità di combinare le tipologie architettoniche appartenenti alla città con le funzioni legate al commercio; da questo approccio risulterà un’attenta analisi del paesaggio urbano come spazio vitale: l’edificio mercato diviene così un’attrezzatura urbana vera e propria, un’occasione da sfruttare, liberandosi così della sua identificazione come scomodo fardello da relegare alle periferie. Ne rappresenta un esempio il progetto del 1988 per il Centro Torri di Parma, di Aldo Rossi e Gianni Braghieri, in cui diverse tipologie architettoniche, appartenenti storicamente alla città, sono state combinate tra loro per dare vita ad un centro per il commercio capace di assolvere al meglio la sua funzione. La sala ipostila, il foro, la galleria sono alcuni degli elementi che compongono l’edificio, disposti all’interno di un recinto, a ricordo delle grandi mura dell’antichità, e sormontati dalle torri, un rimando alla città emiliana vicina: l’edificio è riferito proprio alla forma della città, alla sua storia, alla sua identità.
Oliviero Tronconi, I centri commerciali: progetti architettonici, investimenti e modelli gestionali, Santarcangelo di Romagna (RN), Maggioli, 2010, pp. 17-18.
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«La progettazione di un supermercato è un compito ingrato per un architetto solo se si attiene a un astratto
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Il commercio e la cittAâ&#x20AC;&#x2122;: un rapporto in evoluzione
Centro Torri, Parma, progetto di Aldo Rossi e Gianni Braghieri, 1984; foto di Mike Hadgerton. 50
Il commercio e la cittA’: un rapporto in evoluzione
contenitore: ma se il mercato diventa un centro di vita, un pezzo di città (come è sempre stato) allora si scopre il suo significato. Il luogo dove si trovano le cose legate all’uomo (il cibo, gli utensili, i vestiti) è un luogo di festa e di incontri. Io amo molto i vecchi mercati d’Europa ma anche i grandi centri di vendita in America intorno a cui si dispongono nuove attività, e sono aperti di notte con le loro luci e la loro musica.»40
Aldo Rossi, Le torri di Parma, in Aldo Rossi, Gianni Braghieri, Centro Torri, a cura di M. Baracco e P. Digiuni, Milano, Clup, 1988, p. 26.
40
Cosi Aldo Rossi descriveva l’esperienza della progettazione dei centri commerciali, forme architettoniche appartenenti all’uomo e nate in risposta alle sue necessità primarie e, proprio per questo motivo, dense di significato e degne di una progettazione attenta, che punti al successo. Il riferimento principe restano le città antiche europee, costruite sulla base di alcuni fondamenti urbani, relazionati tra loro secondo precisi ordini gerarchici (strade, piazze, monumenti, edifici, mercati); se organizzati seguendo le regole imposte dalla città, i centri commerciali saranno, ugualmente, in grado di sopravvivere indipendentemente dai cambiamenti dell’intorno e della società, restando rifermenti fortemente iconici per le città di ogni epoca, dei veri landmark volti al recupero di precise zone. Trattasi comunque di uno dei pochi esempi positivi nell’ambito italiano, in cui oggi sono decisamente più diffuse pratiche legate ad un imitazione non tanto tipologica, quanto semplicemente “estetica” delle strade citta-
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Il commercio e la cittA’: un rapporto in evoluzione
Per un’analisi più approfondita delle varie forme di centro commerciale emergenti si veda Paola Veronica Dell’Aira, Architetture per il commercio, Roma, Edilstampa srl, 2007, pp. 10-44.
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Alfredo Mela, Commercio e città, Torino, Celid (collana Appunti di Politica Territoriale), 2004, pp. 7-8.
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dine: prodotto di questa falsificazione sono nuove forme commerciali come quella del lifestyle center o del grande outlet di periferia41. Il maggior problema alla base di questa modernizzazione tardiva dell’industria dei centri commerciali in Europa consiste proprio nella perdita totale del rapporto con la città che, come insegna la storia di questa tipologia, è sempre stato l’aspetto in grado di garantirne il successo42. Difficilmente, infatti, il centro commerciale riesce a confrontarsi con la tradizione radicata del centro cittadino: il centro commerciale non riesce, a causa della dimensione caratterizzante che ha raggiunto, ad inserirsi nel tessuto urbano; servirebbero, a tal proposito, enormi vuoti urbani: per questo motivo risultati simili si possono riscontrare in quei paesi particolarmente colpiti da guerre e distruzioni, o in corrispondenza di grandi superfici abbandonate. Inoltre, i centri commerciali vanno verso una specializzazione delle categorie di vendita sempre più differenziate e non possono, perciò, soddisfare le esigenze delle zone centrali della città, interessate da un progressivo fenomeno di distrettualizzazione. La cultura urbanistica italiana si dimostra anch’essa, spesso, disattenta a questi sviluppi, senza andare al di là della contrapposizione tra denigratori della grande distribuzione ed esaltatori della stessa. Oggi si incoraggia per lo più la generazione di centri commerciali naturali, auspicando il mantenimento di un commercio di piccola taglia. Solo alcune ex aree industriali, ormai integrate nel contesto urbano essendosi create
Il commercio e la cittA’: un rapporto in evoluzione
una circostante zona di sviluppo, riescono a rispondere a questa necessità di portare il commercio nel centro città. Questi nuovi fulcri commerciali rischiano comunque di assumere la forma dei propri simili extraurbani, divenendo a loro volta avulsi dal contesto. Una nuova attenzione alla rapida evoluzione tipologica del commercio risulta, dunque, quanto mai necessaria proprio ai fini di salvaguardare anche i centri storici delle città italiane.
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CENTRO COMMERCIALE: CARATTERI PRINCIPALI IL
DI UN TIPO
L’allontanamento tra architettura e mall (e, più in generale, tra architettura e commercio) è un fenomeno estremamente attuale, che ha preso piede a partire dal XXI secolo. Da un lato i grandi brands, nel tentativo di spettacolarizzare la merce43, tendono a coprire l’architettura che ospita il punto vendita, affinché negozio e prodotto si fondano in un’immagine sempre più unitaria e l’esperienza fornita al consumatore sia sempre più abbagliante; d’altro canto i progettisti si tengono a distanza, come affermato da Koolhaas, dalla progettazione dei centri commerciali, ormai così vasti da essere diventati poveri di personalità ed individualità, rifuggendo quasi la necessità di disegnare uno spazio “di sfondo” alla merce.44 La tipo del “mercato” non rappresenta sicuramente una novità in senso cronologico, ma riscontra anzi equivalenti in tutte le fasi storiche antecedenti a quella attuale45. L’esistenza di un mercato locale è condizione necessaria per la fondazione di una città46, e in qualche modo riprende, nei suoi diversi sviluppi, la configurazione funzionale della città stessa. Tale relazione tra centro commerciale e città permane ancora oggi, raggiungendo forse le sue forme più esplicite nelle forme del mall diffuso o tramite la diretta invasione di zone residuali all’interno dell’area urbana.
Vanni Codeluppi, Lo spettacolo della merce: i luoghi del consumo dai passages a Disneyworld, Milano, Bompiani, 2000, p. 1.
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Si farà d’ora in poi riferimento a Norman Keith Scott, Shopping Centre Design, New York, Van Nostrand Reinhold, 1989, e a Buket Enrgu Kocaili, Evolution Of Shopping Malls: Recent Trends And The Question Of Regeneration, Tesi di Laurea, Graduate School of Natural and Applied Sciences, Cankaya University, Relatore: Taner Altunok, gennaio 2010.
44
Riccarda Cantarelli, L’architettura dell’edificio mercato: bazar, shopping center e circuito globale, Padova, Il Poligrafo, 2012, pp. 19-21.
45
Max Weber, La città, Milano, Bompiani, 1950, pp. 4-5.
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Il centro commerciale come Junkspace
Illustrazione pubblicitaria, Otis Elevator, 1952.
IL CENTRO COMMERCIALE: CARATTERI PRINCIPALI DI UN TIPO
2.1 Il centro commerciale come Junkspace Il centro commerciale può essere considerato come un fenomeno urbano complesso, un tipo architettonico per molti aspetti assimilabile al parco divertimenti47: allo stesso modo, infatti, questo si distingue per la rapida e costante evoluzione dei suoi modelli insediativi, oltre che per l’altrettanto rapida dismissione dei suoi manufatti. Il mall viene, il più delle volte, indicato come un contenitore architettonico, per lo più slegato dal suo contenuto perché costituito da una pelle continuamente variabile. In realtà, tale definizione è frutto principalmente della scala a cui questa tipologia fa riferimento, vale a dire quella urbana: nonostante negli anni se ne sia allontanato, infatti, il commercio rappresenta da sempre il cuore pulsante della vita cittadina e, malgrado la decentralizzazione di cui è stato protagonista, mantiene tuttora esigenze simili a quelle del progetto della città (ne sono l’esempio più banale i servizi generici offerti al pubblico o, ancora più semplicemente, quelli legati al parcheggio). Esigenze, come già affermato, anch’esse soggette ad una continua trasformazione. Si potrebbe affermare, in effetti, che in questo suo rinnovarsi ininterrottamente il centro commerciale abbia attraversato, in particolar modo, un’evoluzione del tipo48, andando a distinguersi in polarità diverse e
Tale similitudine è presente in molti tra i volumi riportati in bibliografia, in particolare in Riccarda Cantarelli, Carlo Quintelli, Fenomenologia architettonica dei centri commerciali. Nuovi luoghi della città contempornea, in Enrico Prandi, Architettura i rara bellezza. Documenti dal Festival dell’architettura 2006, FAEdizioni, 2006, p. 22.
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Ibid.
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IL CENTRO COMMERCIALE: CARATTERI PRINCIPALI DI UN TIPO
Lâ&#x20AC;&#x2122;interno del Mall of America, Minneapolis, HGA, KKE Architects, Jerde Partnership, 1992 (fonte: Wikipedia).
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più variegate, includendo funzioni non necessariamente subordinate al commercio e, soprattutto, procedendo allo sviluppo di un suo immaginario identificativo, permettendo così ad ogni visitatore di riconoscervi il coinvolgimento caratteristico del centro cittadino. La rilevanza di questo tipo nella vita quotidiana dell’uomo contemporaneo è andata, negli anni, a solidificarsi sempre di più, soprattutto in ambito nord e sudamericano: il mall è così riuscito a sostituirsi ai luoghi di aggregazione situati in zone più centrali, diventando simbolo di una sicurezza e di un comfort che, per quanto generici e condivisi con un grande numero di sconosciuti49, permangono come privilegi assicurati all’interno dei suoi confini. Marc Augé, padre della definizione di “non-luogo” (spazi privi di identità in cui milioni di individui si incrociano senza mai entrare realmente in relazione tra di loro)50, arriva a definire i centri commerciali come “superluoghi” che, «sintomo di un cambiamento di scala in un tessuto urbano tendente a un progressivo decentramento», possono addirittura rappresentare «un’intensificazione del concetto di nonluogo.»51. Eccoci quindi di fronte al paradosso di questo tipo, che accoglie quotidianamente milioni di persone offrendo loro una temporanea (e, in un certo senso, confortante) perdita di identità: il centro commerciale non è, infatti, solo il luogo dove si fanno acquisti, ma anche quello dove si aspetta qualcuno, si passeggia da soli, si entra in un negozio anche senza comprare nulla e senza venire, comunque, mai disturbati da agenti esterni.
Nel celebre saggio Junkspace Rem Koolhaas usa, a tal proposito, la seguente espressione : «is like being condemned to a perpetual Jacuzzi with millions of your best friends». Junkspace, in Rem Koolhaas (et alii), The Harvard Design School Guide to Shopping, Taschen Publishers, 2001.
49
Marc Augé, Non-lieux, introduction à une anthropologie de la surmodernité, Paris, Le Seuil, 1992.
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Fabio Gambaro, Parla Augé: “Cosa resta dei miei non-luoghi”, in “La Repubblica”, 31 ottobre 2007.
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Immagine relativa all’impiego dell’aria condizionata all’interno dei centri commerciali, Rem Koolhaas, The Harvard Design School Guide to Shopping, p.129.
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IL CENTRO COMMERCIALE: CARATTERI PRINCIPALI DI UN TIPO
Eppure, nonostante il suo successo ormai assodato, lo shopping mall viene ancora associato, nella società odierna, ad un certo senso di vergogna, come se non potesse più essere riconosciuto come spazio necessario allo scambio delle merci, bensì come una sorta di “luogo di perdizione”, lontano da ogni relazione con l’attività intellettuale dell’uomo. Spesso è il suo stretto legame con l’omologazione dei prodotti e degli esercizi commerciali posti al suo interno a creare questo effetto: l’obiettivo è mantenere quel senso di comfort e sicurezza e trasmetterlo ai visitatori che, spostandosi ad esempio in una grande metropoli asiatica, troveranno un ambiente esattamente identico a quello in cui sono abituati a fare acquisti in una capitale europea52. La nascita di questi spazi standardizzati è quindi da considerarsi come risposta ad un’ulteriore esigenza umana: quella di poter trovare la stessa merce, venduta nello stesso tipo di negozio, ovunque ci si sposti. Un’esigenza che, tornando al paragone con la città, sta ormai prendendo piede anche all’interno dei centri urbani. Trattasi comunque di fattori che, per quanto spesso disdegnati o considerati condivisibili solo da una parte meno istruita della popolazione, risultano ormai troppo diffusi perché non se ne tenga conto nell’ambito della progettazione architettonica. Ad opporsi a quest’idea sul piano teorico è, in particolar modo, Rem Koolhaas, che nel 2001 pubblica uno studio condotto insieme ad i suoi studenti di Harvard: il Project
Gian Paolo Torricelli, Potere e spazio pubblico urbano. Dall’agorà alla baraccopoli, Milano, Academia Universa Press, 2009. 52
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IL CENTRO COMMERCIALE: CARATTERI PRINCIPALI DI UN TIPO
Schema relativo all’impiego delle scale mobili all’interno dei centri commerciali, Rem Koolhaas, The Harvard Design School Guide to Shopping, p.137.
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on the City 2, intitolato The Harvard Design School Guide to Shopping53, un volume di circa 800 pagine che riconosce con onestà lo shopping come evoluzione estrema delle attività umane54 e si domanda il perché del costante iato tra la figura dell’architetto e quella del centro commerciale.55 In questo studio, il centro commerciale viene sezionato e scomposto nelle sue singole parti costitutive, quali la scala mobile o l’impianto di condizionamento, ad ognuna delle quali viene assegnato un significato o, perlomeno, una funzione fondamentale: essi vengono identificati come risposte dirette alle varie esigenze avanzate della clientela. Scale mobili ed ascensori sembrano diventare oggetti di culto, poiché permettono di annullare le distanze e creare continuità tra diversi livelli urbani, rafforzando la percezione del mall come estensione effettiva della città. L’aria condizionata subisce un trattamento simile, in quanto addirittura riesce a conferire ad una “parte di città” racchiusa in un edificio condizioni di comfort superiori rispetto a quelle del vero centro urbano. La descrizione più importante data da Koolhaas è però quella più generale, che va ad indicare il centro commerciale nel suo complesso attribuendogli una definizione del tutto nuova: quella di junkspace, ovvero “spazio spazzatura”, da non intendersi in senso dispregiativo, ma a livello di semplice constatazione; il termine “spazzatura” vuole, in questo caso, rappresentare il mall come spazio “usa e getta”, mai definitivo. L’autore lo descrive come «spazio orrendo, ma
Nel paragrafo si farà costante riferimento a quanto riportato in Rem Koolhaas (et alii), The Harvard Design School Guide to Shopping, Taschen Publishers, 2001.
53
François Chaslin, Architettura della Tabula rasa. Due conversazioni con Rem Koolhaas, ecc., Milano, Electa, 2003, p. 62.
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55
Ivi, p. 72.
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L’impatto dei diversi brands all’interno di un centro commerciale (fonte: GAMMM).
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confortevole»56: un’architettura mai compiuta, dedita allo show di sé stessa, ma che nonostante i continui richiami all’attenzione rimane uno spazio facilmente dimenticabile. Ciò è dovuto, secondo Koolhaas, ad uno degli aspetti più caratterizzanti del centro commerciale: il suo comporsi di elementi riassemblabili ed intercambiabili, come pannelli pubblicitari, insegne o decorazioni da vetrina. L’ossatura architettonica dell’edificio, quella che resterebbe invece impressa nella mente, è quindi completamente nascosta dalle decorazioni e dai setti provvisori, che concorrono a creare una sensazione di lusso irreale. Koolhaas sostiene che, sebbene l’adattabilità di questi ambienti possa rappresentare un elemento a loro favore, l’errore fondamentale risieda nel fatto che l’architettura in questione è composta da “oggetti” invece che da “spazi” effettivi.57 Per questo motivo, infatti, risulta spesso difficoltoso creare veri e propri spazi pubblici all’interno di un centro commerciale, poiché data la mancanza di un’identità (dovuta anche alla preponderanza dei molteplici nomi dei brand che finiscono per risaltare di più rispetto al centro commerciale in sé) la tendenza all’aggregazione viene addirittura evitata dai visitatori. Si può parlare, dunque, soltanto di “spazio comunitario”, condiviso da una moltitudine di sconosciuti, ma non di “spazio pubblico”. Tali teorie vanno ovviamente differenziate a seconda del caso a cui si fa riferimento, ma fondamentalmente rimane in Koolhaas la considerazione del junkspace come spazio che può essere ancora recuperato. Sono infatti molti gli
François Chaslin, Architettura della Tabula rasa. Due conversazioni con Rem Koolhaas, ecc., Milano, Electa, 2003, p. 78.
56
Luca Galofaro, Rem Koolhaas: Architetto avantpop, Roma, Edilstampa, 2002, p. 41; François Chaslin, Architettura della Tabula rasa. Due conversazioni con Rem Koolhaas, ecc., Milano, Electa, 2003, pp. 77-78.
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Rem Koolhaas, The City of the Captive Globe, 1972 (<www.moma.com>). 66
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spunti che agiscono in questo senso: il tema del “frammento” proposto da Koolhaas già nel 1978 con il suo Delirious New York58, potrebbe ad esempio essere inteso come punto di partenza per dare una nuova concezione identitaria ad un luogo semplicemente aggiungendovi funzioni diverse dal commercio, così da attirare visitatori anche per motivi diversi dal commercio e dare vita ad una forma più completa di ambiente urbano.59 In Delirious New York, che rappresenta il primo approccio di Koolhaas alla sua carriera da architetto, egli esprime infatti la propria visione della città contemporanea come un insieme che si sviluppa per frammenti: le responsabilità della sua trasformazione sono discontinue60 e ne determinano una forma ambigua; il centro commerciale, inteso come un prolungamento ideale della città, non potrà dunque non ereditarne questi aspetti intrinseci e sarà anch’esso oggetto di una trasformazione “per frammenti”. In questo senso, la riappropriazione di luoghi da parte dell’uomo rappresenta uno dei processi di non-pianificazione più rilevanti nella mutazione di un luogo e della sua identità: perciò anche la destinazione di alcune parti del mall ad attività comunitarie (identificate anche sulla base di richieste dirette dei cittadini) si può rivelare utile. Per Koolhaas, comunque, uno dei principali ostacoli a queste possibilità rimane l’avversione degli architetti a ripensare questo tipo: lo sforzo di preservare le strade pedonali, di dimostrare ostilità verso l’uso dell’auto e verso ogni altro elemento ormai divenuto rappresentativo della vita
Rem Koolhaas, Delirious New York: a retroactive manifesto for Manhattan, New York, Oxford University Press, 1978.
58
John Caulfield, 5 ingredients of successful mall design, in “Building Design + Construction”, 16 maggio 2015, <http://www.bdcnetwork.com/5-ingredients-successful-mall-design> [consultato il 28 settembre 2015].
59
François Chaslin, Architettura della Tabula rasa. Due conversazioni con Rem Koolhaas, ecc., Milano, Electa, 2003, p. 21.
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IL CENTRO COMMERCIALE: CARATTERI PRINCIPALI DI UN TIPO
Deyan Sudjic, He likes brutality and shopping. He’s going to be the next big thing, in “The Observer”, novembre 2000, <http://article.wn.com/ view/2000/11/26/He_likes_brutality_ and_shopping_Hes_going_to_be_the_ next_big/> [consultato il 19 novembre 2015].
61
Andrew Blum, The Mall Goes Undercover, in “Slate”, 26 maggio 2006, <http://www.slate.com/articles/arts/ culturebox/2005/04/the_mall_goes_ undercover.html> [consultato il 16 dicembre 2016].
62
Indagine Censis, La domenica degli italiani, Massafra, 18 novembre 2004, pp. 34-35.
63
Marina Cavallieri, La nuova piazza? Il centro commerciale, 1 novembre 2006, <http://eddyburg.it/article/articleview/7661/0/195/ > [consultato il 28 dicembre 2016].
64
Andrew Blum, The Mall Goes Undercover, in “Slate”, 26 maggio 2006, <http://www.slate.com/articles/arts/ culturebox/2005/04/the_mall_goes_ undercover.html> [consultato il 16 dicembre 2016].
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del ventesimo secolo sono, a suo parere, frutto di buone intenzioni, ma non possono che condurre a condizioni essenzialmente anti-urbane, e quindi di difficile appropriazione da parte della cittadinanza61. Questa visione risulta comunque, a nostro parere, adeguata più alla realtà americana che a quella europea. Soprattutto nel caso di centri commerciali inseriti all’interno del centro urbano, infatti, un riavvicinamento della collettività al centro commerciale è possibile: spesso sono, anzi, gli stessi cittadini a chiederlo. In questi casi, infatti, il centro commerciale ha la possibilità di assumere anche la funzione di spazio pubblico: questo può avvenire a patto che i progettisti tengano conto dell’identità del luogo e degli avvenimenti che l’hanno segnato, senza dare la prevalenza al brand e collocando diverse funzioni e servizi all’interno dell’edificio (oltre a quella commerciale). Fuori dalla città, invece, il modello che più si avvicina al centro urbano è il lifestyle center, che ha riscosso fin dalla sua nascita negli anni ’80 del ‘90062, un grande successo di pubblico: un’indagine del Censis del 200463 ha confermato che solo il 36% dei frequentatori vi si reca per comprare qualcosa, mentre il 55% lo interpreta come attività per il tempo libero; inoltre, il 39% degli intervistati lo definisce come un “luogo attraente” per le relazioni sociali.64 La grande differenza rispetto al centro città, comunque, rimane che questi sono spazi di proprietà privata, accuratamente isolati dal “disordine” della vita pubblica65: pur contrastando lo sprawl urbano e combinando diverse funzioni in uno spazio ridotto, questi
IL CENTRO COMMERCIALE: CARATTERI PRINCIPALI DI UN TIPO
luoghi non possono essere riconosciuti dai clienti come spazio dove vivere realmente le proprie relazioni, ma solo come “non-luogo” in cui rifugiarsi per qualche ora. A questa modalità commerciale resta, dunque, da affiancare una dimensione di acquisto quotidiano, che può dialogare più facilmente anche con l’idea di spazio pubblico tipica delle città europee; un modello di centro commerciale più vicino a questi aspetti si può collocare in modo adeguato solo all’interno del centro città.
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Il Mall come luogo inevitabile del XXI secolo
Ingresso dellâ&#x20AC;&#x2122;Omotesando Shopping Mall, Tokyo (foto di Camilo Munar).
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2.2 Il Mall come luogo inevitabile del XXI secolo Nel suo proposito di intensificare le qualità intrinseche della città (anziché neutralizzarle), Koolhaas arriva a dare una propria definizione di shopping, riportata dall’autore sia nell’Harvard Design School Guide to Shopping in un’altra raccolta di saggi redatta con l’aiuto dei suoi studenti di Harvard: Mutations66. «La miglior metafora per lo shopping» afferma «è quella di un animale morente - un elefante morente che negli ultimi spasmi di agonia s’infuria e diventa incontrollabile.»67. Ciò che quest’affermazione dovrebbe farci intendere è che lo shopping non esiste più, ormai, in quanto tale, ma ha ormai fagocitato anche musei, hotel, aeroporti, biblioteche e, più in generale, qualsiasi altra tipologia architettonica precedentemente legata ad un’unica funzione.
Rem Koolhaas (et alii), Mutations, Barcelona, ACTAR, 2001. Con lo stesso titolo è stata anche organizzata, nel 2000, una mostra presso il Centre d’Architecture Arc en Rêve di Bordeaux.
66
Riportato in Deyan Sudjic, B is for Bauhaus: an A-Z of the modern world, London, Penguin, 2014.
67
Francesca De Châtel, Robin Hunt, Retailisation. The here, there and everywhere of retail, London, Routledge, 2003, p. 174.
68
«Tornate indietro di 10 anni, al tempo in cui un aeroporto era un dispositivo funzionale in cui la distanza tra l’ingresso ed il gate era minima e la traiettoria tra i due era comunicata con la massima chiarezza.»68
Così Koolhaas riassume, in una sua lezione agli studenti del Berlage Insitute di Amsterdam, l’espansione parassitaria dello shopping all’interno degli spazi architettonici. Guardando alla trasformazione degli aeroporti, ad esempio, appare evidente come la presenza del retail sia arri-
71
IL CENTRO COMMERCIALE: CARATTERI PRINCIPALI DI UN TIPO
Rem Koolhaas, Junkspace, in “October”, vol. 100, Obsolescence, Spring 2002, pp. 175-190.
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vata ad offuscare la grafica direzionale o i percorsi verso le uscite, attraverso un’organizzazione dei tratti di percorrenza sempre più complessa. Questo paradossale bisogno di “complicare” lo spazio rivela chiaramente un altro genere di bisogno: quello del consumismo, o più semplicemente del “consumo”: per questo motivo Koolhaas dà agli aeroporti l’appellativo di consumption gulags, a sottolineare l’obbligo a cui sottopongono il visitatore, costretto ad attraversare il duty-free come spettatore di uno spettacolo predefinito.69 Sulla base di queste tendenze, quindi, la definizione di junkspace diviene estendibile a un gran numero di spazi oltre a quello del centro commerciale: si direbbe, anzi, addirittura una caratterizzazione costante dei luoghi da noi attraversati ogni giorno. Un meccanismo simile si innesca, secondo Koolhaas, all’interno dei musei, dove è cresciuta l’importanza di spazi come il bookshop o la caffetteria, spesso in grado di attirare anche ospiti non intenzionati a visitare il complesso museale in sé. Questo genere di funzioni, considerabili fino a qualche tempo fa “secondarie”, vanno ora a rafforzare la struttura del museo, garantendogli un successo ancora maggiore e costante nel tempo. Il visitatore appare dunque più interessato al negozio di souvenir che al monumento: in questo senso, il padiglione di Mies van der Rohe a Barcellona diventa, con i suoi tendoni rossi ed i mobili di design esposti al suo interno, simbolo di una cultura in forte cambiamento in cui l’architettura viene
IL CENTRO COMMERCIALE: CARATTERI PRINCIPALI DI UN TIPO
quasi “nascosta” in funzione della richiesta del turista.70 Rem Koolhaas prevede un futuro in cui il junkspace è condizione ineluttabile e invade sia lo spazio esterno del mondo che quello interiore dell’essere umano71; a suo avviso sarebbe, perciò, completamente inutile opporvi resistenza. Al di là delle riluttanze, infatti, il junkspace si manterrebbe comunque un fenomeno pervasivo della nostra società; ad assicurare questo suo effetto è la fluidità che lo caratterizza, che costituisce una sorta di ”meccanismo di sopravvivenza” legato a principi di mobilità e flessibilità. Proprio questo meccanismo rende la tipologia commerciale quella più vicina alla conformazione del parassita, che sopravvive appropriandosi dei suoi ospiti e tendendo ad assomigliare loro sempre di più72. Lo shopping finisce così per identificarsi come conseguenza naturale e spontanea dell’evoluzione dell’uomo, oggetto inevitabile con cui chiunque abbia a che fare con la condizione urbana odierna (e, con tutta probabilità, futura) dovrà confrontarsi. La speranza di Koolhaas nei suoi studi riguardanti lo spazio dello shopping è, nel sottolinearne le sue differenze rispetto allo spazio tradizionale della città, quella di dare agli architetti una nuova libertà: quella di guardare nuovamente a spazi che, a primo avviso, verrebbero giudicati noiosi e privi di significato. A offrire le maggiori opportunità a questa nuova “libertà” prefigurata da Koolhaas sarebbero non tanto i luoghi del commercio in sé, ma soprattutto gli spazi residuali che quasi sempre li accom-
Rem Koolhaas, Miestakes, in “a+t: New Materiality I”, n. 23, 29 maggio 2008, <http://aplust.net/permalink. php?atajo=miestakes> [consultato il 30 aprile 2016].
70
Tadeas Riha, Public Parasites, in “Architectural Reflections Seminar”, Tu Delft, 2012, <http://www.tadeasriha. com/#!publicparasites/c10nt> [consultato il 21 gennaio 2016].
71
72
Ibid.
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IL CENTRO COMMERCIALE: CARATTERI PRINCIPALI DI UN TIPO
La Boutique du Centre Pompidou, Parigi (fonte: <www.grandpalais.fr>).
Un punto vendita duty-free in un aeroporto (fonte: <www.frontiermagazione.co.uk>). 74
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pagnano.73 La sua maggiore preoccupazione sta proprio nell’incapacità, da parte degli architetti, di affrontare questi ambiti e di trovarli interessanti74; i progettisti hanno infatti, per anni, finto che il junkspace non esistesse, limitandosi a visitarlo furtivamente, cercando vie alternative per imitarne la frenesia nei propri progetti: le loro stesse opere ne sono però rimaste infette, o, nel migliore dei casi, ne sono state circondate75. Molti sono coloro che hanno visto le idee Koolhaas come un’esagerazione della realtà e ne hanno criticato gli intenti, interpretando le dichiarazioni come negative in senso assoluto e troppo distratte per notare le caratteristiche che rendono godibile la vita nella città moderna.76 La sua, in realtà, non vuole essere una resa all’eterna mescolanza di spazi dovuta al junkspace, bensì una spinta ad osservare con cura anche questo genere di luoghi, così da trarne possibili insegnamenti e spunto.77 Il suo non è da considerarsi un desiderio d’omologazione, quanto piuttosto un approccio realista alla pratica architettonica del XXI secolo: egli non manca di evidenziare, infatti, le sostanziali differenze nello sviluppo commerciale delle diverse realtà internazionali. Negli studi condotti ad Harvard, infatti, vengono messi a confronto esempi lontani nel tempo e nello spazio, muovendosi dall’antica configurazione della città romana fino a quella della moderna metropoli asiatica. Allo stesso tempo, Koolhaas riconosce come il junkspace non debba essere in alcun modo “esportato” come modello del mall americano, poiché una simile
Tratto dall’intervista Koolhaas on shopping. Transatlantic Transactions, in “Arq”, vol. 5, n.3, 2001, pp. 201-203.
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«Una delle nostre tragedie, come architetti, è che siamo incapaci di affrontare questo ambito e trovarvi un aspetto interessante. In qualche modo la nostra intelligenza si sente offesa dagli incredibili vincoli all’immaginazione architettonica rappresentati dal diagramma; e, più ansiosamente, dal fatto che noi stessi non abbiamo un’alternativa da proporre», Rem Koolhaas, Junkspace, a cura di Gabriele Mastrigli, Quodlibet, Macerata, 2006.
74
Rem Koolhaas, Junkspace, in “October”, vol. 100, Obsolescence, Spring 2002, pp. 182.
75
Alcuni esempi: Francesco Merlo (a cura di), Gli incubi dello “spaziospazzatura”, in “La Repubblica”, 9 dicembre 2006, <http://ricerca. repubblica.it/repubblica/archivio/ repubblica/2006/12/09/gli-incubi-dello-spaziospazzatura.html> [consultato il 30 aprile 2016]; Philippe Daverio, Junkspace: la città spazzatura che cancella la misura umana dello spazio, in “Avvenire”, 15 giugno 2008, <http://www.avvenire. it/rubriche/Pagine/AllArticles.aspx?Year=2008&Month=6&Rubrica=L’indice> [consultato il 20 aprile 2016].
76
Marco Filoni, Junkspace, come abitare e pensare lo spazio-spazzatura, in “Il Riformista”, 17 gennaio 2007, <http://www.quodlibet.it/schedap. php?id=1618#.V0lsLVcnprM> [consultato il 30 aprile 2016].
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IL CENTRO COMMERCIALE: CARATTERI PRINCIPALI DI UN TIPO
Il Padiglione di Mies van der Rohe (Barcelona) diventa una sorta di negozio di souvenirs, Rem Koolhaas,The Harvard School of Design Guide to Shopping, pp.158-159. 76
IL CENTRO COMMERCIALE: CARATTERI PRINCIPALI DI UN TIPO
azione (in molti casi già attuata) nei centri cittadini europei non potrebbe che portare ad una sostanziale falsificazione storica.78 Oggi, dopo più di un decennio dalla pubblicazione di Junkspace, in Europa si è ancora lontani dall’adottare gli stessi obiettivi di Koolhaas. L’idea di un nuovo shopping mall spesso spaventa, perché ancora se ne riescono a distinguere soltanto le criticità, dimenticando come, al di là delle insegne luminose e delle decorazioni esagerate, il commercio sia stato, fin dalle origini, elemento basilare per la genesi di ogni città. L’attenzione dei progettisti al contesto in cui il centro commerciale deve essere inserito può, a nostro parere, fare la differenza: la grande attrattività del centro commerciale potrebbe, infatti, rappresentare l’occasione per donare nuova visibilità ad aree cittadine dimenticate o caratterizzate dalla scarsità di spazi pubblici ed aggregativi.
Koolhaas on shopping. Transatlantic Transactions, in “Arq”, vol. 5, n. 3, New York, Cambridge University Press, 2001, p. 203.
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RETAIL RIUSO
IL COME NUOVA FRONTIERA DEL
Con il ritorno in città dei luoghi per il commercio il centro storico torna a coincidere con la sua funzione di centro economico. Con la crescente necessità di distinguersi dai negozi vicini molti investitori preferiscono scegliere di riutilizzare delle location esistenti, semplicemente riadattandole ad esercizi commerciali variegati.79 Con il degrado dei centri storici già descritto, infatti, nelle città è facile incontrare edifici abbandonati, che hanno perso la propria funzione originaria e si ritrovano quindi in attesa di una nuova utilità. Per tutti questi motivi, il riuso di tali edifici a scopo commerciale appare essere la soluzione più ovvia oltre che la più vantaggiosa; inoltre, nel caso dell’inserimento di attività commerciali all’interno di edifici storici, lo spazio di quest’ultimi può rimanere pubblico entrando a far parte della vita dei cittadini in una sorta di riappropriazione indiretta, proprio in quanto luogo con il quale questi avevano già familiarizzato da tempo. Appare chiaro, perciò, come l’inserimento di negozi all’interno di fabbricati antichi possa diventare occasione, per l’edificio stesso, di trovare non solo riscatto dalla trascuratezza, ma anche valore aggiunto per l’azienda che va ad installarvisi. Si inventa così una tecnica immediata per distinguersi dagli altri negozi e rendere l’esperienza dell’acquisto indimenticabile per il consumatore, unendo shopping e cultura in modo che l’uno sia funzionale all’altro, in un mix sostenibile ed economicamente vantaggioso.
Si farà d’ora in poi largo riferimento a Bie Plevoets, Retail-Reuse: an interior view on adaptive reuse of buildings, Doctoral Dissertation, promoter: Koenraad Van Cleempoel, co-promoter: Annemie Draye, Faculty of Architecture and Art, Universiteit Hasselt, 2014.
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La riconfigurazione di edifici (giĂ ) commerciali
Lâ&#x20AC;&#x2122;interno del centro commerciale Bikini Berlin, SAQ, Berlino, 2014 (<https://www.bikiniberlin.de/de/about/>).
IL RETAIL COME NUOVA FRONTIERA DEL RIUSO
3.1 La riconfigurazione di edifici (già) commerciali Resta da capire quali edifici appaiano più adatti a ricevere la nuova funzione di edificio per il commercio e quali no, oltre che da chiarire le modalità tramite le quali il progetto di riuso possa rispettare la fabbrica storica, pur dimostrandosi efficiente per la funzione prescelta80. La prima categoria che distinguiamo è quella degli edifici nati con funzione commerciale ed in seguito dismessi: teoricamente, la riabilitazione di un edificio storico che già in origine aveva funzione di retail non può essere propriamente definita un’operazione di adattamento; nonostante ciò parliamo di una categoria di edifici molto interessante da analizzare, sia perché il fenomeno del loro abbandono è mondialmente diffuso, in seguito al fallimento del modello americano di shopping mall, sia per il continuo cambiamento delle richieste di negozianti e clienti. Oggi sono richieste, infatti, unità commerciali sempre più grandi, possibilmente ampliabili o viceversa contrattili, che siano progettate con maggiore attenzione per la sicurezza. La grande distribuzione sta aumentando nel tempo il proprio bisogno di spazio, contrariamente a quanto avvenuto per industria, terziario ed agricoltura81. A farne le spese sono ovviamente i singoli esercizi commerciali indipendenti sovrastati dalla diffusione delle grandi catene; per scon-
Da questo punto in avanti faremo riferimento al secondo capitolo (Literature study) della tesi per il conseguimento del Master of Conservation of Monuments and Sites della facoltà di ingegneria al Raymond Lemaire international centre of conservation, sostenuta da Bie Plevoets, Retail-Reuse of Historic Buildings, 2009.
80
Silvia Crivello, Aree dismesse e commercio, in Alfredo Mela, Commercio e città, Torino, Celid (collana Appunti di Politica Territoriale), 2004, pp. 119-122.
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Victoria Quarter, Leeds, Brooker & Flynn Architects, 1997 (fonte: Wikipedia). 82
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giurare l’abbandono di questi immensi centri commerciali del passato e la chiusura sistematica delle piccole attività del centro cittadino, risulta evidente come sia fortemente necessaria una totale riorganizzazione di questi edifici. Il cambiamento principale riguarda la ripianificazione dello spazio pubblico, un aspetto sociale che si oppone fortemente a quello che, fino a pochi anni fa, rappresentava l’unico criterio decisionale per la progettazione di centri commerciali: la location e la sua potenziale risposta in termini di guadagno. Ad esso si accompagna, poi, una nuova attenzione all’entertainment e all’artigianato, aspetti estranei al modello americano che tentano in questo caso di incontrarsi.82 Un esempio diventato rappresentativo per la sua semplicità ed il suo minimalismo si colloca in Inghilterra, a Leeds, e consiste nella riqualificazione del Victoria Quarter: una serie di gallerie commerciali in stile passages parigini, un mercato coperto ed il vecchio edificio del Corn Exchange sono stati convertiti nel 1997 in un centro per lo shopping e l’intrattenimento completamente dedicato ai giovani, ad opera dello studio londinese Brooker Flynn Architects. Il forte valore evocativo del progetto rappresenta uno dei suoi punti di successo, grazie al mantenimento in senso conservativo delle strutture ancora in buono stato. Un grande esempio di conservazione dell’identità di quartiere tramite l’ammodernamento di un edificio è poi rintracciabile in una delle zona più centrali di Berlino, nelle vicinanze del celebre zoo della capitale tedesca (un’area,
Silvia Crivello, Aree dismesse e commercio, in Alfredo Mela, Commercio e città, Torino, Celid (collana Appunti di Politica Territoriale), 2004, p. 123.
82
Marco Rinaldi, Bikini Berlin by SAQ, in “A as Architecture”, 1 luglio 2014, <http://aasarchitecture.com/2014/07/ bikini-berlin-saq.html> [consultato il 26 novembre 2015].
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La parete sullo zoo di Berlino che si apre nellâ&#x20AC;&#x2122;atrio del centro commerciale Bikini Berlin, Berlino, SAQ, 2014 (<https://www.bikiniberlin.de/de/about/>). 84
IL RETAIL COME NUOVA FRONTIERA DEL RIUSO
per altro, fortemente colpita dai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale). L’ex Zentrum am Zoo, fulcro della produzione e della vendita di prodotti tessili negli anni ’50 del ‘900, è stato oggi riconvertito nel Bikini Berlin, un complesso multifunzionale che affianca al tipo del centro commerciale anche le funzioni di hotel, cinema e leisure center83. L’edificio è stato dotato di terrazze che permettono una visuale dall’alto del quartiere circostante, oltre che di grandi vetrate che permettono ai visitatori di osservare alcuni animali all’interno dello zoo.
Silvia Crivello, Aree dismesse e commercio, in Alfredo Mela, Commercio e città, Torino, Celid (collana Appunti di Politica Territoriale), 2004, p. 125.
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Questo atteggiamento prevale nei paesi del Nord Europa, mentre, ad esempio, Spagna ed Italia tendono ad affidare la decisione del come riutilizzare il “contenitore” direttamente al retailer; ciò implica, ovviamente, una minore attenzione al mantenimento della memoria del vecchio edificio. Un esempio è la zona dell’ex mercato di San Ildefonso, a Madrid, che nel 2014 è stata rinnovata dagli architetti dello studio madrileno GEA in modo da ospitare piccole attività legate al mondo del cibo, dell’abbigliamento e degli accessori. In Italia, invece, questo fenomeno di riuso è ancora agli inizi: le pubbliche amministrazioni tendono, infatti, ancora a mancare di una cultura sulla gestione degli spazi che punti su progetti la cui durata temporale è ben più estesa del ritorno sull’investimento.84 Un caso italiano (e, in particolare, torinese) recente è costituito dal “megastore del gusto” Fiorfood installato a dicembre 2015 da Novacoop nella centralissima Galleria
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Novacoop Fiorfiore, Galleria San Federico, Torino, Paolo Lucchetta, 2015 (fonte: “Mole24”).
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San Federico (sede fin dagli anni ’30 di numerosi negozi, uffici e dello storico cinema Lux). Il progetto viene definito dal direttore del brand, Ernesto Dalle Rive, come «un nuovo modello di negozio inteso come luogo da frequentare, da vivere, nel quale far crescere la socialità, la condivisione di temi, assistere a presentazione di libri e conferenze, fare la spesa a prezzi convenienti e poter anche degustare cibi sapientemente preparati»85: un luogo, dunque, diverso dal supermercato in cui i cittadini sono abituati a recarsi solo per fare la spesa. Una pratica ancora agli albori, che ha però preso piede in Nord America già a partire dal secondo dopoguerra, è quella del cosiddetto demalling86, ovvero della dismissione di grandi centri commerciali extraurbani. Sono ancora rari i casi di riuso che hanno avuto effetto positivo, anche se è crescente il numero di investitori attirati dalle opportunità di sviluppo offerte da questi spazi. Molte sono le difficoltà che una trasformazione del genere implica: in primis la dimensione degli edifici in questione, ma anche la varietà dei soggetti interessati, gli investimenti onerosi necessari, le clausole contrattuali. L’unico esempio attualmente in realizzazione in Italia riguarda il caso di Pratilia, primo centro commerciale inaugurato in Toscana nel 197787 e acquisito da Esselunga per un rinnovamento come complesso commerciale-ricettivo. Le grandi potenzialità di queste trasformazioni si concentrano nella possibilità di dare vita a luoghi pubblici di
Luca Ferrua, In Galleria San federico il futuro parte il 2 dicembre, in “La Stampa”, 7 ottobre 2015, <https:// www.lastampa.it/2015/10/07/cronaca/ in-galleria-san-federico-il-futuro-parte-il-dicembre-BO1TpttQv30h5JVTjYIgXL/pagina.html> [consultato il 28 gennaio 2016].
85
Gabriele Cavoto, Dismissione Commerciale. Strategia di “Demalling” per Torino, Tesi di Laurea, relatore: Michele Bonino, co-relatore: Luca Staricco, Facoltà di Architettura I, Politecnico di Torino, a.a. 2011-2012.
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<http://www.demalling.com/pratilia_prato/> [consultato il 15 febbraio 2016].
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Il centro commerciale Pratilia in demolizione, Prato, 1977 (fonte: Wikipedia). 88
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nuova fisionomia, in grado di unire alla comodità dell’acquisto anche luoghi di cui il visitatore si possa appropriare, trascorrendoci il proprio tempo libero e riconoscendoli come punti di ritrovo. A tale proposito, esistono casi limite come il New South China Mall, il centro commerciale più grande del mondo (892.000 mq) situato nella provincia cinese di Guandong e giudicato “troppo grande per fallire”88: il mall, infatti, nonostante i numerosi anni di abbandono continua a rappresentare per la popolazione della zona un punto di riferimento, quasi al pari di un parco cittadino. Dipendenti meticolosi ne puliscono i canali, mentre i cittadini lo usano per praticare il tai-chi o altri sport e, paradossalmente, gli addetti ai lavori si affrettano a completarne alcune parti come se quei 70.000 visitatori al giorno un tempo previsti possano arrivare da un momento all’altro. Nel frattempo, però, piccoli negozi ed una sorta di luna park si sono installati negli spazi precedentemente destinati al mall, riscuotendo un successo tale che ogni famiglia della regione afferma di fare visita al New South China Mall almeno una volta al mese.89
Grégoire Basdevant, New South China Mall. Troppo grande per fallire, in “Domus”, 30 gennaio 2012, <http://www.domusweb.it/it/ video/2012/01/30/new-south-chinamall-troppo-grande-per-fallire.html> [consultato il 16 febbraio 2016].
88
Johan Nylander, Chinese “ghost mall” back from the dead?, CNN, 24 giugno 2015, <http://edition.cnn. com/2015/04/28/asia/china-ghostmall-return-to-life/> [consultato il 16 febbraio 2016].
89
Molti di quegli spazi residuali all’interno del contesto urbano rimangano ancora, nonostante l’innegabile situazione di fallimento o abbandono, fondamentalmente vivi in quanto appartenenti alle abitudini della comunità. Un’influenza del genere non può essere ignorata e potrebbe anzi, in vari casi, rappresentare un punto di partenza per la riorganizzazione degli spazi del commercio.
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Insegna del New South China Mall, 2010 (fonte: “Domus”, foto di Grégoire Basdevant).
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Pulizie quotidiane all’interno del New South China Mall, 2010 (fonte: “Domus”, foto di Grégoire Basdevant).
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Le difficoltĂ nel riuso commerciale di edifici pubblici e religiosi
Stazione Plaza de Armas, Siviglia, progetto di riuso, 1992 (foto di MarĂŹa JosĂŠ Barrera).
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3.3 Le difficoltà nel riuso commerciale di edifici pubblici e religiosi Nel caso di edifici pubblici (ed, in particolar modo, religiosi) la conversione in negozi e centri commerciali è spesso prospettiva allettante in primo luogo per la posizione che questi occupano; spesso chiese e santuari abbandonati sono infatti locati nel pieno del centro storico, che, nella maggior parte delle città, corrisponde anche al fulcro del commercio cittadino. La tipologia architettonica di chiese e conventi, però, è meno indicata per la trasposizione del retail al suo interno: le chiese infatti presentano un’area ridotta in relazione al volume che occupano e rendono i costi di manutenzione, riscaldamento ed illuminazione troppo alti per un’attività commerciale. Allo stesso modo, i conventi risultano spesso inadeguati poiché composti da tante piccole stanze che si affacciano sui lunghi corridoi, sviluppati attorno alla corte interna: è molto difficile perciò che questi si adattino ad ospitare negozi. Il caso di riutilizzo di fabbricati nati per una funzione simbolica, ovvero edifici religiosi e, per quanto il paragone possa sembrare azzardato, anche i padiglioni per le esposizioni universali, è dunque molto complesso.90 Lo stesso tipo di una chiesa sembrerebbe chiudersi ad ogni tipo di trasformazione commerciale, eppure esistono casi di riutilizzo efficace anche in questo campo: ne è un
Bie Plevoets, Retail-Reuse: an interior view on adaptive reuse of buildings, tesi di dottorato, relatori: Koenraad Van Cleempoel, Annemie Draye, Faculty of Architecture and Art, Universiteit Hasselt, 2014.
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Selexyz Dominicanen, Maastricht, progetto interno di Markx+Girod, 2008, (fonte: Bie Plevoets, 2014). 94
IL RETAIL COME NUOVA FRONTIERA DEL RIUSO
esempio è la Selexyz Dominicanen di Maastricht, chiesa tramutata nel 2008 in bookstore che è diventata principale polo attrattivo del quartiere in cui è situata. Il progetto di Markx+Girod ha ottenuto grande successo a livello internazionale fino ad ottenere il titolo di “miglior libreria del mondo” assegnatogli dal The Guardian91 nel 2008 grazie alla grande sensibilità dimostrata nei confronti dell’edificio preesistente. Anche in questo caso, la partecipazione dei cittadini ha favorito l’ottenimento di un risultato soddisfacente. Infatti, fin dalla fine del ‘800, la chiesa era stata utilizzata per svariati scopi, passando da esposizione di fiori a parcheggio per biciclette, da ufficio postale a biblioteca cittadina92. Molto interessante è stata la scelta di affidare ad uno dei più antichi caffè della città lo spazio della caffetteria del negozio, in modo tale da esaltare le abitudini del vicinato e permettere ai clienti di godere dell’atmosfera suggestiva offerta dalla chiesa anche senza dover acquistare nulla. L’edificio è riuscito così a mantenere la connotazione di spazio pubblico, rendendo possibile ai cittadini di continuare ad usufruirne ed a goderne; lo spazio viene, infatti, spesso utilizzato anche come forum e sala per convegni per lezioni aperte al pubblico93. Un altro aspetto rappresentativo del rispetto nei confronti della struttura originale consiste nella possibilità, data dal volume inserito all’interno della chiesa, di cambiare punto di vista per osservare la chiesa dall’alto. Queste accortezze permettono al visitatore di muoversi liberamente all’interno del negozio, mantenendo però la sua attenzione sem-
Top Shelves, in “The Guardian”, 11 gennaio 2008, <https://www.theguardian.com/books/2008/jan/11/bestukbookshops> [consultato il 16 dicembre 2015].
91
Jonathan Glancey, In the beginning was the bestseller, in “The Guardian”, 9 aprile 2008, <https://www.theguardian.com/artanddesign/2008/apr/09/ architecture.bestbookshops> [consultato il 3 gennaio 2016]. 92
Selexyz Dominicanen, Maastricht, in “Gestalten”, ottobre 2010, <http:// news.gestalten.com/community/ shops/featured/selexyz-dominicanen> [consultato il 3 gennaio 2016].
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Selexyz Dominicanen, Maastricht, trasformazioni attraverso i secoli (fonte: Bie Plevoets, 2014).
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pre sulla sacralità dell’edificio. Troviamo molti altri casi di riuso con esiti decisamente positivi in Olanda, dove questa tendenza viene vista come vera e propria strategia di aggregazione per le aree cittadine degradate, e viene perciò spinta e supportata fortemente dalle stesse municipalità. Un esempio significativo si trova ad Amsterdam: un ex deposito, di zucchero prima e di latte poi, denominato De Malkweg, ha ripreso vita grazie ad un gruppo di attori che hanno iniziato ad utilizzarlo come teatro in cui esibirsi e che man mano ha iniziato ad attrarre sempre più artisti e spettatori, ospitando diversi eventi culturali e servizi commerciali di vario tipo. Il rinnovamento strutturale è stato progettato dallo studio olandese Klinkhamer Architects ed attuato nel 200994.
A theatre merges with a pop music stage in the heart of Amsterdam, in “Zichtlijen PQ-Special”, giugno 2011, pp. 14-15. 94
<http://www.fernandezdelamo. com/#!centro-comercial-principe-pio/ cdl4> [consultato il 26 gennaio 2016].
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Rivolgendo l’attenzione agli edifici pubblici, come i palazzi comunali, gli uffici postali, le vecchie stazioni e gli hotels, non ci sono molti casi di riuso per il commercio. Capita invece più do frequente che questi restino a coprire funzioni pubbliche, di rappresentanza e cerimoniali (soprattutto nel caso dei palazzi comunali), o che vengano ampliati per rispondere meglio alla funzione originaria (nel caso invece degli edifici postali e delle stazioni ferroviarie). Le stazioni si rivelano particolarmente idonee all’inserimento di esercizi commerciali: molti sogni gli esempi riportabili, soprattutto in ambiente spagnolo: a Madrid, ad esempio, la stazione abbandonata di Principe Pio95 (Estación del Norte) è stata implementata con servizi commerciali d’in-
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De Melkweg, Amsterdam, Klinkhamer Architects, 2009 (foto di Jhonny Thirkell). 98
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La stazione di Principe Pio, Madrid, Fernandez Del Amo Arquitectos, 1999 - 2004 (<http://www.fernandezdelamo.com/#!centro-comercial-principe-pio/cdl4>). 99
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La stazione di Atocha, Madrid, progetto di riuso di Rafael Moneo, 1985-1992 (fotografia delle candidate).
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trattenimento e ristorazione, ma ancor più celebre è il caso della stazione Atocha, fabbricato ottocentesco progettato da Alberto del Palacio Elissagen con il contributo di Gustave Eiffel. La stazione è stata oggetto di una rigenerazione che ha compreso anche il quartiere circostante, diretta da Rafael Moneo nel 1992: attraverso questa operazione complessiva l’edificio è connesso ad un’altra stazione, dando vita così ad un nuovo polo di transito urbano. La particolarità del progetto è dovuta all’inserimento, nell’atrio della stazione, di un giardino tropicale sul quale si affacciano ristoranti, caffetterie e negozi96: cittadini e turisti visitano spesso questo luogo per rilassarsi, non necessariamente per necessità legate al trasporto: l’interno si configura infatti come un vero e proprio parco urbano, con i suoi 400 metri quadri di altissime piante provenienti da tutto il mondo, ed è appositamente dotato di sedute che ne permettano la fruizione e la contemplazione. Moneo tiene conto delle ampie superfici vetrate già esistenti, che consentono l’ingresso della luce naturale; in questo modo, si crea non solo uno spazio verde che può essere utilizzato anche nei mesi più freddi, ma soprattutto un luogo intimo, in cui l’area dei binari appare addirittura nascosta rispetto all’ingresso (in opposizione con la frenesia tipica delle grandi stazioni). Tra gli esempi riportati, Atocha riveste sicuramente il ruolo di riferimento per la riqualificazione del nostro caso studio: il Palazzo del Lavoro, per di più, viene naturalmente invaso dalle piante che lo circondano, e potrebbe a nostro parere mantenere questo aspetto
Cristina Donati, La “Operaciòn Atocha”: nuovo polo urbano a Madrid, in “Costruire in Laterizio”, n. 58, 1997, pp. 246-248.
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La stazione di Atocha, Madrid, progetto di riuso di Rafael Moneo, 1985-1992 (fotografie delle candidate).
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caratteristico anche in occasione di un eventuale riuso. Intervento di portata ancora maggiore riguarda poi la riqualificazione della stazione Plaza de Armas di Siviglia97, dal caratteristico stile morisco, recuperata su progetto dell’archiettto Barrionuevo nel 1982; vicinissima al centro città, la stazione è diventata così un nuovo polo di riferimento dotato di cinema multisala, negozi, ristoranti e addirittura un museo della birra. In Italia un caso simile è rintracciabile a Reggio Emilia, dove una stazione liberty di ben 7.200 mq che ospita oggi un superstore Esselunga ed una attigua galleria di negozi. Per quanto riguarda le residenze è invece necessario riconoscere un’ulteriore divisione: troviamo edifici residenziali dotati di ampie metrature ed esclusi dal tessuto urbano, come castelli, cascinali e ville rurali, ed edifici residenziali di metrature non superiori al lotto urbano nel quale è inserito. Nel primo caso è consueto che, in seguito all’abbandono da parte dei suoi abitanti, le fabbrica storica venga suddivisa in metrature più piccole oppure che, nel caso di castelli di valore storico ed artistico spiccato, questi vengano inseriti negli itinerari turistici locali e perciò resi visitabili. Per questi motivi, oltre che per via della lontananza dal centro cittadino, è fortemente inusuale che questi edifici vengano convertiti in negozi o attività legate al commercio. Nel caso delle residenze urbane invece, il riuso commerciale è molto più comune; i progetti di conversione incontrano comunque numerosi ostacoli dovuti alla struttura della fabbrica storica, uno fra tutti la realizzazione di grandi vetrine al piano stradale.
Josefina Melgoza, Estaciòn ferroviaria Plaza de Armas de Sevilla, in “Ingenierìa Industrial”, 27 novembre 2015, <http://www.revistaingenieriaindustrial.com/2015/11/27/estacion-ferroviaria-plaza-de-armas-de-sevilla/>[consultato il 3 febbraio 2016]. 97
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La â&#x20AC;&#x153;mallizzazioneâ&#x20AC;? di ex-edifici industriali
Manufaktura, Lodz, Virgile & Stone, SUD, 2006 (fonte: Wikipedia).
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3.4 La “mallizzazione” di ex-edifici industriali Solitamente gli edifici industriali dismessi occupano grandi aree e sono caratterizzati da vasti spazi aperti: per questo risultano facili da convertire in centri per il commercio, non necessitando di subire grosse modifiche alle strutture esistenti. I retailers spesso sono attratti dalle misure di questi edifici e dalla loro flessibilità d’utilizzo ma, allo stesso tempo, riconoscono la difficoltà nell’approcciarsi a fabbricati di questa scala. Il punto di forza di questa categoria non è però tanto legato alla loro forma strutturale, quanto piuttosto ad un concetto più astratto: quello legato al loro significato, a ciò che hanno rappresentato in passato e tutt’oggi rappresentano. Negli anni ’60 e ’70 del ‘900, infatti, il concetto di patrimonio vede un’estensione del proprio significato, testimoniando anche la condizione passata dei diversi gruppi sociali che, col tempo, si sono venuti a sovrapporre; il duro lavoro fisico e la fatica della classe operaia sono divenuti così anch’essi retaggio culturale e, di conseguenza, i siti industriali hanno acquisito nuovo interesse: affermare “qui abbiamo lavorato noi, i nostri genitori, i nostri nonni” diventa una tradizione da tramandare alla comunità locale del futuro. Ciò diventa fondamentale per porre le basi di un nuovo progetto, quando questo va ad incontrare gli interessi e
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Italmark, ex cotonificio Ottolini, Villanuova sul Clisi, Rodighiero Associati, 2002 (fonte: Studio Rodighiero Associati). 106
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le necessità di una comunità viva e presente sul luogo da anni: per questo gli edifici storici industriali hanno grandi potenzialità, sono punti focali attorno ai quali una comunità potrà rivivere il proprio senso di orgoglio civico.98 Un altro aspetto positivo riguardante la rifunzionalizzazione del patrimonio industriale è poi solitamente la più ampia rigenerazione a scala urbana che la accompagna. Esistono comunque anche in questo ambito tentativi di riuso falliti, come ad esempio il progetto Manufaktura a Lodz, in Polonia, realizzato nel 2006 su progetto dello studio londinese Virgile & Stone in collaborazione con lo studio SUD di Lione.99 Il centro commerciale, pur prevedendo la rinascita di un quartiere in pieno degrado tramite l’introduzione di un enorme centro commerciale in un ex complesso industriale, registra ad oggi un’affluenza limitata: non tutti gli edifici della fabbrica sono stati oggetto di restauro, perciò lo stato di degrado dell’area è stato solo in parte risolto. Inoltre i visitatori non sono facilitati a raggiungere il centro senza l’ausilio delle auto; ciò evidenzia come il progetto sia rimasto slegato dal tessuto urbano dei quartieri adiacenti. Al contrario, altri interventi come quello di Kavala in Grecia, dove in alcuni ex magazzini per il tabacco, oggi inglobatisi spontaneamente nella città, sono stati collocati, a partire dal 2009, negozi delle principali catene di abbigliamento, sono in grado di influenzare positivamente anche le zone urbane circostanti. Il successo di questo progetto è tale che molti piccoli commercianti hanno pre-
Bie Plevoets, Retail-Reuse: an interior view on adaptive reuse of buildings, tesi di dottorato, relatori: Koenraad Van Cleempoel, Annemie Draye, Faculty of Architecture and Art, Universiteit Hasselt, 2014. 98
<http://www.malls.com/pl/malls/ manufaktura.html> [consultato il 16 dicembre 2015].
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Eataly, ex stabilimento Carpano, Torino, Negozio Blu, 2007, (fonte: “Domus”, 30 settembre 2009). 108
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ferito spostare le loro botteghe nella stessa area, creando così un perfetto mix tra commercio locale e globalizzato.100 La trasformazione di poli industriali in commerciali può dunque essere identificata come la più diffusa, anche in Italia, dove sono presenti numerosissimi casi di riuso di questo tipo: la Coop di via Arona a Milano, ad esempio, collocata all’interno di una ex sede Fiat tra 2000 e 2003, su progetto dello studio Guidarini & Salvadeo101; ma anche gli ex zuccherifici di Rieti e Livigno, convertiti oggi in gallerie commerciali integrate anche con attività comunitarie. L’operazione italiana più importante sembra essere però quella realizzata da Italmark a Villanuova sul Clisi, dove l’ex cotonificio Ottolini, in una posizione suggestiva sul fiume Chiede, è oggi un centro commerciale che comprende anche numerosi servizi estranei alla vendita; il rinnovamento, attuato sotto la guida dello studioRodighiero Associati, si conslude nel 2002.102 Anche a Roma l’ex zuccherificio Eridania di via Nocera Umbra ospita, oggi, un superstore103: il progetto viene completato del 2003 ad opera dello studio Odile Decq insieme all’architetto Burkhard Morass.
Eleni Mentesidou, Tobacco Warehouses of Kavala, greece: reading urban and architectural aspects through the selctive lens of economic motives, Tesi di Laurea, Brandeburg University of Technology Cottbus-Senftenberg, Relatore: Leo Schmidt, febbraio 2016.
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<http://divisare.com/projects/193277-guidarini-salvadeo-architetti-associati-nuovo-supermercato-coop-spazi-commerciali-e-uffici-via-arona-milano> [consultato il 23 marzo 2016].
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Daniela Ostidich, In Europa sono le rivitalizzazioni operanti che fanno storia, in “Mark Up” (dossier aree dismesse), 2004.
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Silvia Crivello, Aree dismesse e commercio, in Alfredo Mela, Commercio e città, Torino, Celid (collana Appunti di Politica Territoriale), 2004, p. 125.
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Per quanto riguarda l’ambiente torinese, poi, sono molti gli edifici industriali un tempo collocati in aree suburbane che oggi sono stati inglobati dalla città e si sono trasformati in luoghi legati al commercio.
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Sergio Pace, Stabilimenti Fiat Lingotto, in Carlo Olmo (et alii), Guida di Torino. Architettura, Torino, Allemandi, 1999, pp. 176-177.
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Le Corbusier, Vers une architecture, Paris, Crès et Cie, 1924.
105
Giulietta Fassino, Lingotto, in Michele Bonino (et alii), Torino 19842008. Atlante dell’architettura, Torino, Allemandi, 2008, scheda n. 45.
106
Recupero ex stabilimento Carpano: centro enogastronomico Eataly, in “Ottagono”, ottobre 2007, pp. 148-149
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Il caso più noto è quello del Lingotto, luogo cruciale per la storia produttiva torinese in quanto ex-sede delle officine FIAT, tra i primi stabilimenti industriali ad adottare un’organizzazione scientifica del lavoro.104 Grande esempio di modernità architettonica, viene definito da Le Corbusier «uno degli spettacoli più impressionanti che l’industria abbia mai offerto»105: l’edificio è oggetto di una riqualificazione ad opera di Renzo Piano, che negli anni ’90 lo trasforma in nuovo simbolo del terziario avanzato, incarnando nuovamente lo spirito di sfida verso il futuro che esso incarnava già all’inizio del ‘900. Ne vengono ricavati un Centro Congressi, un Centro Esposizioni, un auditorium, un grande hotel, un centro servizi e la galleria commerciale 8gallery: l’idea di Piano era quella di ricreare un “pezzo di città” all’interno del fabbricato, rendendolo il nuovo cuore pulsante dell’area in cui è inserito.106 Un altro tra gli esempi più celebri è il grande punto vendita Eataly che ha occupato l’ex Carpano. Il progetto, completato nel 2007 da parte dello studio Negozio Blu, rappresenta oggi un polo fondamentale per la somministrazione e vendita di beni alimentari, capace di attirare clienti anche dal centro città. Sono state conservati, in quest’occasione, alcuni segni ancora legati alla funzione precedente, tra cui le alte cisterne per la conservazione del vermouth ancora visibili nel grande salone del 1929. L’interno è stato recuperato sul modello dei passages, ricavando piazze e strade nei grandi spazi che ospitavano la fabbrica.107
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Gli esiti di questi processi di riconversione italiani appaiono certamente interessanti sul piano della qualità insediativa e della possibile valorizzazione immobiliare, ma troppo spesso ancora inadeguate rispetto al contesto sociale preesistente ed all’integrazione con quest’ultimo. Ciò nonostante, i casi di rifunzionalizzione di edifici di grande dimensione, soprattutto industriali, sembrano essere tra i più riusciti: nella maggior parte di essi risulta infatti evidente lo sforzo verso una maggiore attenzione ai bisogni della comunità locale e, contemporaneamente, alla pianificazione strategica. L’obiettivo ideale sarebbe quello di perseguire risultati più ambiziosi rispetto al semplice incremento dei valori immobiliari e della qualità insediativa; proprio l’aggancio alla vita reale che caratterizza vecchie fabbriche o stazioni da recuperare potrebbe rappresentare, al contrario, la chiave per una loro rivalutazione di successo. Senza rafforzare questo genere di valori, infatti, il “contenitore” perde in poco tempo la propria ragione d’esistere, anche una volta riempito di servizi di ogni tipo e negozi di tendenza.108 A nostro parere, sono questi gli stessi valori da enfatizzare nella “rilettura” del Palazzo del Lavoro e del suo passato: l’inserimento di semplici esercizi commerciali, anche di anchor stores dalla forte potenzialità attrattiva, non permetterebbe infatti una restituzione dell’edificio alla città ed, in particolar modo, al quartiere che lo comprende, ma si limiterebbe a portare visitatori provenienti da altre aree del torinese, che dopo un semplice giro di shopping tornerebbero a casa propria.
Silvia Crivello, Aree dismesse e commercio, in Alfredo Mela, Commercio e città, Torino, Celid (collana Appunti di Politica Territoriale), 2004, p. 126.
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PARTE II PARTE II
Italia â&#x20AC;&#x2DC;61: prima, durante e dopo il grande evento
INTRODUZIONE AL
CONTESTO STORICO E GEOGRAFICO
Il quartiere “Nizza Millefonti” (in piemontese Nissa Milafont) deve il suo nome da un lato al suo indirizzarsi verso la Liguria e la Costa Azzurra, dall’altro alla cospicua presenza di piccole fonti sorgive sotterranee1 (in particolare in corrispondenza dell’attuale Parco Millefonti, delimitato da Corso Unità d’Italia, da Corso Dogliotti, dalla sponda sinistra del Po e, infine, dal confine con Moncalieri nei pressi della confluenza del Sangone con il Po2). Relegato, negli anni ’60, a semplice zona di transito tra il centro cittadino e gli orti suburbani, subisce una trasformazione completa in occasione delle celebrazioni per il Centenario dell’Unità d’Italia, nel 1961. Oltre a definirne gli assi viari principali, oggi trafficatissimi punti d’accesso alla città, la manifestazione ricopre l’area di grandi “dinosauri architettonici”, che versano in uno stato talora di abbandono, talora di semplice incuria. La negligenza nei confronti di queste strutture non è da considerarsi un fenomeno recente: l’abbandono di buona parte dei padiglioni è infatti immediato, come ci riportano le testate giornalistiche del tempo3. Di Italia ’61 restano la memoria e l’orgoglio spesso ancora incisi nella mente di chi vi prese parte, assistendo ad una reale rinascita della propria città, che ottiene, attraverso l’evento, un primo vero riconoscimento a livello internazionale.
Edoardo Bergamin (et alii), L’altra Torino. 24 centri fuori dal centro, Torino, Express Edizioni, 2011, p. 57.
1
Giorgio Pugnetti, Nizza Millefonti. Tra le acque e la Fabbrica: passato, presente e futuro (verso l’alto), in “Suburbiataurinorum”, 13 marzo 2014, http://suburbiataurinorum.blogspot. it/2014/03/nizza-millefonti-tra-le-acque-e-la.html> [consultato il 29 aprile 2016]. 2
Squallore a Italia 61, in “La Stampa”, n.220, 27 novembre 1968, p.2; Rovine a Italia 61, in “La Stampa”, n.98, 26 aprile 1969, p.4; Abbandono, sporcizia e invasione di auto in sosta, in “La Stampa”, n.113, 13 maggio 1972, p. 4.
3
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Lâ&#x20AC;&#x2122;ingresso sud di Torino: il quartiere Nizza Millefonti
116 La Barriera di Nizza ritratta a inizio â&#x20AC;&#x2DC;900 (immagine da cartolina). 116
Introduzione al contesto storico e geograFICO
1.1 L’ingresso sud di Torino: il quartiere Nizza Millefonti Il quartiere Nizza Millefonti inizia ad assumere la sua conformazione attuale tra Ottocento e Novecento, periodo in cui arriva ad occupare la parte est della Nona Circoscrizione torinese; comprendendo anche la parte terminale dell’asse di via Nizza, esso viene delimitato da due cinte daziarie, con relativa funzione di porte d’accesso alla città: la prima nel 1853 (in corrispondenza all’attuale piazza Carducci) e la seconda nel 1912 (in corrispondenza all’attuale piazza Bengasi)4. Intorno a questi punti nevralgici vanno poi a configurarsi lentamente una serie di borgate minori, generatesi talvolta intorno ad una cascina, talvolta intorno ad una chiesetta, o ancora intorno ad una piccola fabbrica: la densità di questo tessuto urbano si densifica col tempo, raggiungendo il suo culmine nella Torino operaia della prima metà del ‘900. A segnare questo territorio sotto il profilo urbanistico, geografico, economico e sociale è infatti la nascita del vicino stabilimento della Fiat Lingotto, sorto tra 1916 e 1921 all’interno di un’area costeggiante la ferrovia e comprendente per lo più terreni agricoli. Tale costruzione lascia poco spazio d’espansione alla borgata Millefonti, allora concentrata lungo il lato ovest di via Nizza: il quartiere finisce quindi per ampliarsi sul lato opposto della
<http://www.museotorino.it/ view/s/52536cc46b024b0dbd01663ff75e2ff7> [consultato il 29 aprile 2016]. 4
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Introduzione al contesto storico e geograFICO
Danni arrecati agli stabili tra 1942 e 1945, Zona 11, ASCT, cart. 68, fasc. 2, disegno 11 (Archivio Storico della CittĂ di Torino). 118
Introduzione al contesto storico e geograFICO
via, di fronte alla FIAT5. La comparsa della Fiat Lingotto va ricordata come momento cardine nel cambiamento delle abitudini lavorative dell’area torinese: la manodopera di cui la fabbrica si serve non è più, infatti, unicamente del posto; al contrario, il nuovo stabilimento costituisce un polo d’occupazione su scala anche esterna alla città, contribuendo abbondantemente all’arrivo di lavoratori dal Meridione, soprattutto da Puglia e Sicilia6. Vengono dunque attuate, in questi anni, trasformazioni urbane ingenti, soprattutto tramite l’istituzione di linee ferroviarie speciali per il trasporto degli operai, le quali si dirigevano si fuori città che verso il centro. È poi proprio la compresenza, all’interno della zona, delle industrie Fiat e della via ferrata con direzione a Genova a costituire la causa principale del grande numero di bombardamenti subiti dal quartiere nel corso della Seconda Guerra Mondiale.
Allegato 9, Divisione servizi sociali, Piano di Zona, Circoscrizione 9, Deliberazione Mecc. N.200210596/092 C. 9 - ART. 42 COMMA 2 – Servizi Sociali. Piano di Zona dei servizi sociali territoriali, p. 679. 5
Goffredo Fofi, L’immigrazione meridionale a Torino, Milano, Feltrinelli, 1975, pp. 299-300. 6
7
Ibid.
Rimangono comunque emblematici molti degli ex-edifici produttivi innalzati all’epoca, oggi quasi tutti intatti ma rivisitati nelle funzioni. La ex-Fiat è oggi sede del grande centro multifunzionale che comprende anche l’8Gallery; la ex-Carpano è occupa dal centro enogastronomico di Eataly, mentre la ex-Riv ospita una sede della Banca Unicredit. Ciò di cui invece è andata del tutto persa la memoria sono le sorgenti d’acqua che avevano dato il nome a questa parte di città, le cui tracce vengono definitivamente cancellate con la bonifica a valle di via Genova attuata in occasione del centenario dell’Unità d’Italia, nel 19617.
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Introduzione al contesto storico e geograFICO
Eataly, ex stabilimento Carpano, Torino, progetto di riuso a cura di Negozio Blu, 2007, (fonnte: â&#x20AC;&#x153;Domusâ&#x20AC;?, 30 settembre 2009).
Lingotto, ex stabilimento Fiat, Torino, progetto di riuso a cura di Renzo Piano, 2007, (<www.museotorino.it>).
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Introduzione al contesto storico e geograFICO
Tale bonifica fu oggetto, al tempo, di forti polemiche, legate soprattutto alla presenza di bidonvilles lungo il fiume Po, in particolar modo nella zona fiancheggiante corso Polonia. Questo luogo diviene simbolo effettivo di un disordine abitativo dilagante, identificandosi, come riportato in un articolo de “La Stampa” di novembre 1956, in un «paese costruito di assicelle, mattoni e lamiere tenuto insieme da spago e fil di ferro»8. Possiamo ancora oggi ricordare questo fenomeno tra i segni più scandalosi del decadimento sociale e urbano di Torino, poi cancellati dalle ruspe e ridimensionati con la creazione dei comunque degradati quartieri dormitorio9. Sono molte le testimonianze di ex-lavoratori che ricordano come, spesso, uno stesso letto venisse condiviso da diverse persone nell’arco di una giornata: il cambio di turno rappresenta il momento in cui, mentre un operaio si alza per dirigersi alla fabbrica, l’altro va a sostituirlo per poter riposare10. Quest’emergenza abitativa non solo permane, ma va addirittura ad incrementarsi nel primo decennio del dopoguerra, con l’inizio dei lavori per i festeggiamenti del centenario dell’Unità d’Italia. Parallelamente, anche le difficoltà legate all’integrazione sociale mantengono una pesante portata: l’Italia, di cui si stanno per celebrare la storia, gli usi ed i costumi, risulta ancora (forse più che mai) divisa in varie sottoculture, che continuano a comunicare tra loro soltanto a fatica. Uno dei principali motivi per cui molte famiglie di immigrati si ritrovano costrette
Scompare bidonville, il villaggio della miseria, in “La Stampa”, 20 novembre 1956.
8
Adriana Castagnoli, Torino dalla ricostruzione agli anni Settanta: l’evoluzione della città e la politica dell’Amministrazione provinciale, Milano, FrancoAngeli, 1995, p. 60. 9
Testimonianza di Giuseppe Ruggieri, raccolta da Memoro: la banca della memoria, 23 giugno 2008, <http:// www.memoro.org/it/Pino-e-il-lavoro_118.html> [consultato il 29 aprile 2016].
10
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Introduzione al contesto storico e geograFICO
Il cantiere di Italia ‘61, con il lato lungo il Po non ancora sottoposto a bonifica (Archivio “Amici di Italia ‘61”, a cura di Mario Abrate, 1960). 122
Introduzione al contesto storico e geografICO
Alcune delle baracche che occuparono per anni la zona compresa tra corso Polonia ed il fiume Po (Archivio Storico della CittĂ di Torino, Fondo Ente Comunale di Assistenza, cartella 1208, Fascicolo 6, Comitato comunale per la sistemazione dei profughi, 1955). 123
Introduzione al contesto storico e geograFICO
Il sindaco Amedeo Peyron nel ruolo di vice presidente Sip nel 1964 (Archivio Storico Telecomitalia, 1964).
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Introduzione al contesto storico e geografICO
a ricorrere alle abitazioni abusive lungo il fiume risiede, infatti, nella difficoltà di trovare qualche locatore torinese pronto a fidarsi dei meridionali11. Questa emergenza raggiunge il suo picco nel 196112, anno delle celebrazioni per il Centenario dell’Unità Italiana che, seppur diffuse in tutto il Paese, ebbero il loro fulcro a Torino: tra il maggio e l’ottobre dello stesso anno la città offre al pubblico italiano e straniero tre mostre ufficiali (Mostra Storica, Mostra delle Regioni ed Esposizione Internazionale del Lavoro)13, oltre a varie altre attività. Le aspettative di successo per questo evento sono altissime, soprattutto agli occhi dell’allora sindaco Amedeo Peyron che, intervistato poco prima dell’inizio della manifestazione, afferma di prevedere una grande ripresa culturale per Torino, frutto proprio dei grandi sacrifici e degli investimenti attuati per rinnovare questa parte periferica della città: «La cultura deve iniziare ad esser parte integrante di Torino, che si accinge ad entrare l’anno prossimo nella memoria storica e sociale italiana. Il centenario simboleggia l’intelletto umano e la nostra città in questi anni ha avuto i migliori cervelli per progettare grandi opere che in questo periodo iniziano a venire fuori»14. Sempre Peyron, interrogato sul potenziale futuro di Torino come una delle più grandi città italiane dopo il ’61, risponde: «Noi lavoriamo il più possibile su tutti i fronti ogni giorno, siamo in aumento demografico, economico e sociale. […] Si, sono sicuro che molti cittadini e turisti verranno a visitare Torino l’anno prossimo»15.
Adriana Castagnoli, Torino dalla ricostruzione agli anni Settanta: l’evoluzione della città e la politica dell’Amministrazione provinciale, Milano, FrancoAngeli, 1995, p. 60.
11
Maurizio Bergamaschi, Matteo Colleoni, Franco Martinelli (a cura di), La città: bisogni, desideri, diritti. Dimensioni spazio-temporali dell’esclusione urbana, Milano, Franco Angeli, 2009, pp. 127-128.
12
Tali esposizioni furono raggruppate in due aree principali: da un lato nel centro cittadino, presso Palazzo Carignano e Palazzo Madama, dall’altro (ed in prevalenza) nel neonato “comprensorio di Italia ‘61”, sorto per l’appunto nella zona sud di Torino. Nonostante, tra le tre mostre, quella considerata in origine la più importante era proprio quella storica, organizzata a Palazzo Carignano, ma le testimonianze dei cittadini dimostrano un interesse decisamente marcato per le altre due mostre, allestite in edifici completamente ex novo; si veda a riguardo Maddalena Rusconi, Italia ’61: l’immagine di Torino in trasformazione, in Fabio Levi, Bruno Maida (a cura di), La città e lo sviluppo. Crescita e disordine a Torino 1945-1970, Milano, Franco Angeli, 2002, pp. 526-527.
13
Intervista ad Amedeo Peyron, in “La StampaSera”, 1 settembre 1960.
14
Intervista ad Amedeo Peyron, in “La StampaSera”, 1 settembre 1960.
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Introduzione al contesto storico e geograFICO
Agnelli distoglie lo sguardo dal grafico dell’Esposizione Internazionale del Lavoro, di cui fu nominato proprio quell’anno Presidente (foto di Walter Mori, fonte:“Il Giornale”, 1960).
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Introduzione al contesto storico e geografICO
Un simile entusiasmo era condiviso, oltre che dalla gran parte dei cittadini, anche da Giovanni Agnelli, tra i maggiori protagonisti dell’evento in quanto presidente dell’Esposizione Internazionale del Lavoro. L’avvocato sosteneva, in un’intervista del dicembre dello stesso anno: «Sono nato a Torino, fiero di vedere questa città crescere, svilupparsi e progredire verso un radioso futuro. Il ‘61 farà la storia di Torino e il Piemonte sarà maggiormente considerato da visitatori di mondiali ed europei»16. La volontà di Agnelli (tra i maggiori sponsor non solo della Mostra del Lavoro, ma dell’intero evento) era quella di trasformare l’area in cui aveva stabilito il proprio quartier generale in un nuovo fulcro dello sviluppo urbano e produttivo; tale messaggio doveva quindi essere trasmesso chiaramente non solo ai torinesi, ma anche ai visitatori giunti da ogni parte del mondo, che ammirando le grandi architetture futuribili dell’Esposizione avrebbero appresso in modo immediato la grande potenza industriale che la città aveva raggiunto dopo la guerra. È in questo momento storico, dunque, che una parte di Torino prima per lo più sfruttata come zona di passaggio acquisisce un interesse completamente nuovo, che ben presto viene condiviso dai cittadini stessi. Soltanto a posteriori possiamo renderci conto di come una concezione urbanistica già allora datata ed inadeguata, quella della costruzione della città per parti, abbia portato a concentrare tutti gli sforzi in una superficie limitata, senza dedicare la minima cura al collegamento di questa zona col centro cittadino o con le altre polarità dell’area.
Intervista a Giovanni Agnelli, in “La StampaSera”, 22 dicembre1960.
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Cristiana Chiorino, Cantiere Italia ’61. La ville industrielle costruisce i suoi simboli, in Sergio Pace, Cristiana Chiorino, Michela Rosso, Italia ’61. Identità e miti nelle celebrazioni per il centenario dell’Unità d’Italia, Torino, Umberto Allemandi & C., 2005, p. 32.
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Cronache da Italia ’61: passato e futuro in mostra a Torino 128 Poster pubblicitario dell’Esposizione Nazionale del Lavoro (Archivio “Amici di Italia ‘61”, a cura di Mario Abrate, 1960).
Introduzione al contesto storico e geograFICO
1.2 Cronache da Italia ’61: passato e futuro in mostra a Torino L’Esposizione Internazionale di Italia ’61 prende quindi il via come celebrazione fortemente rappresentativa di Torino prima ancora che dell’Italia: il maggiore obiettivo dell’amministrazione comunale è infatti quello di plasmare, attraverso un’architettura monumentale, una rete di simboli che sanciscano, anche visivamente, il valore presente e passato della città, oltre a celebrare i successi italiani degli ultimi cento anni di storia comune18. In quest’ottica, il complesso delle opere edificate ha solo marginalmente funzione pratica; dovrebbe, infatti, restare a «testimonianza, di fronte alle generazioni future, di quanto i Piemontesi avessero saputo raggiungere e creare con mezzi esclusivamente propri»19. La maggior parte delle opere deve, perciò, avere carattere permanente: in favore di quest’idea, inoltre, per i principali edifici in progetto viene previsto un utilizzo successivo ai festeggiamenti, ad esempio come scuole, ospedali e grandi alberghi. Tale processo di riutilizzo è auspicato non solo dal Comune, ma anche dagli organizzatori delle celebrazioni, come ci confermano le parole del presidente del “Consiglio Direttivo di Torino ’61” riferite al Palazzo del Lavoro: «Le Mostre alle quali si è dato vita hanno sintetizzato in modo mirabile il passato, il presente ed il futuro di questa
Maddalena Rusconi, Italia ’61: l’immagine di Torino in trasformazione, in Fabio Levi, Bruno Maida (a cura di), La città e lo sviluppo. Crescita e disordine a Torino 1945-1970, Milano, Franco Angeli, 2002, p. 566
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Dal discorso di Roberto Cravero, consigliere comunale durante il mandato del sindaco Peyron, 17 maggio 1960; in Ibid.
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Il cantiere del Palazzo del Lavoro (Archivio “Amici di Italia ‘61”, a cura di Mario Abrate, 1960).
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civiltà in evoluzione […] nel tempio monumentale che l’ha ospitato il Lavoro continuerà la sua missione: diffondere nel mondo tra masse crescenti di giovani le conoscenze della tecnica e le intuizioni della scienza cosicché la Patria di Leonardo e di Galileo Ferraris, di Marconi e di Fermi continui ancora ad essere ben presente ed operante tra le Comunità di avanguardia»20. Purtroppo, però, nella realizzazione concreta delle costruzioni, a causa della pressione per la necessità di completare tutto per tempo, tali obiettivi a lungo termine vengono abbandonati, generando dure critiche poi accumulatesi con gli anni, fino ad arrivare ai giorni nostri. Tale assenza di lungimiranza, infatti, viene ben presto sfruttata dall’opposizione contro la giunta Peyron, date le difficoltà di riadattamento di edifici volutamente imponenti e, di conseguenza, ingombranti21, a scapito degli ingenti investimenti finanziari sostenuti per realizzarli. Ciò nonostante, come precedentemente affermato, l’obiettivo di segnare la storia cittadina ottenendo un enorme successo di pubblico viene certamente conseguito; anche per quanto riguarda il campo costruttivo, inoltre, si mette in atto quell’organizzazione razionale del lavoro a cui si aspirava fin dall’anteguerra, centrando in pieno l’intento di promuovere l’immagine di progresso tecnico raggiunto da una grande città industriale come la Torino dell’epoca22. È rimasta fino ad allora estranea alla cultura architettonica l’idea di conferire un’organizzazione quasi scientifica al cantiere, basata su un modello tayloristico e quindi prettamente industriale.
Prefazione al volume Italia ‘61 di Achille Mario Dogliotti, Presidente del Consiglio Direttivo di Torino ‘61, redatto in conclusione ai festeggiamenti del Centenario dell’Unità Italiana, <http:// www.italia61.it/dogliotti.htm> [consultato il 2 maggio 2016].
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Maddalena Rusconi, Italia ’61: l’immagine di Torino in trasformazione, in Fabio Levi, Bruno Maida (a cura di), La città e lo sviluppo. Crescita e disordine a Torino 1945-1970, Milano, Franco Angeli, 2002, p. 567.
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Cristiana Chiorino, Cantiere Italia ’61. La ville industrielle costruisce i suoi simboli, in Sergio Pace, Cristiana Chiorino, Michela Rosso, Italia ’61. Identità e miti nelle celebrazioni per il centenario dell’Unità d’Italia, Torino, Umberto Allemandi & C., 2005, p. 30.
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Vista esterna ed interna del Circarama (Archivio “Amici di Italia ‘61”, a cura di Mario Abrate, 1961).
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Tale intenzione era anche dovuta alla presenza di uno dei grandi “protagonisti invisibili”23 delle vicende di Italia ’61: la FIAT. L’azienda, come già detto, trova nei festeggiamenti l’occasione per una strepitosa pubblicità, che si ottiene non tanto grazie ai continui riferimenti al contributo economico da essa sostenuto, quanto tramite la partecipazione costante di Agnelli ad ogni importante passo del cantiere e, soprattutto, ad ogni visita da parte di personaggi di fama internazionale24. L’unico padiglione che riportava effettivamente la FIAT come finanziatrice è anche uno dei più curiosi dell’Esposizione, ormai oggi scomparso: il Circarama, una sala cinematografica circolare, già comparsa all’Esposizione Universale di Bruxelles nel 1958, dove si sarebbe proiettato un film sull’Italia prodotto dalla Walt Disney. Benché questo singolare cinema possa risultare tra i meno influenti edifici programmati dal “Comitato Torino ’61”, esso si rivela in realtà il prodotto di una riuscitissima strategia di marketing, che lo portò a raggiungere un ruolo di primo piano in un evento internazionale e che gli assicura, ancora ai giorni nostri, un posto di rilevanza nella memoria di tutti i testimoni allora presenti25. È proprio questo elemento, non tanto architettonico, quanto diretto all’intrattenimento, che fa della visibilità mediatica il metro con cui valutare il successo dell’Esposizione26. Di tutt’altra natura appaiono invece le altre grandi strutture inserite nel comprensorio, prime fra tutte il Palazzo del Lavoro ed il Palavela, entrambi risultato anche di una
Sergio Pace, La parabola infinita. Mito, declino e possibili rinascite di Italia ’61, p.8, in Sergio Pace, Cristiana Chiorino, Michela Rosso, Italia ’61. Identità e miti nelle celebrazioni per il centenario dell’Unità d’Italia, Torino, Umberto Allemandi & C., 2005.
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Ibid, p. 15.
Testimonianze dal sito: <www.memoro.org>.
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Sergio Pace, La parabola infinita. Mito, declino e possibili rinascite di Italia ’61, p.8, in Sergio Pace, Cristiana Chiorino, Michela Rosso, Italia ’61. Identità e miti nelle celebrazioni per il centenario dell’Unità d’Italia, Torino, Umberto Allemandi & C., 2005, p. 15
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Il Palavela e la monorotaia (Archivio “Amici di Italia ‘61”, a cura di Mario Abrate, 1961).
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magistrale organizzazione del cantiere, apprezzata in massima misura per la sua estrema velocità di esecuzione. Separati da un laghetto artificiale, i due padiglioni risultano immersi in un’atmosfera fantascientifica degna di una città del futuro, collegati da una monorotaia aerea a sistema Alweg. Il sito viene, per questo motivo, utilizzato addirittura come set del film di fantascienza Omicron, riassunto satirico di tutte quelle contraddizioni caratterizzanti l’era del “boom economico” e del lavoro industriale portato ai suoi estremi, che trova anche grazie a queste sue tematiche perfetta ambientazione nei paraggi del Palazzo del Lavoro27. Un servizio di trenini elettrici e di auto carrozzate FIAT permette il trasferimento da un lato all’altro del comprensorio, realisticamente con una funzione più di rappresentanza che di spostamento. Non è infatti tanto la dislocazione dei volumi a richiedere un tale servizio, quanto piuttosto l’esigenza di realizzare un sistema di trasporto originale, sempre in virtù di quella tendenza avanguardista alla base anche del già accennato “taylorismo edilizio”28. Con lo stesso fine viene collegata al lembo nord dell’area espositiva anche una funivia, tramite la quale è possibile raggiungere Parco Europa, sulla collina di Cavoretto, dove è previsto anche un teatro all’aperto però mai realizzato. Sull’altro lato dell’attuale corso Unità d’Italia (ai tempi corso Polonia), sono poi collocati i padiglioni atti ad ospitare la Mostra delle Regioni, progettati, diversamente dagli altri edifici sopracitati, in chiave distinguibilmente antimonumentalistica, distribuiti in modo da imitare, se
Omicron , Ugo Gregoretti, Italia, 1963.
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Cristiana Chiorino, Cantiere Italia ’61. La ville industrielle costruisce i suoi simboli, in Sergio Pace, Cristiana Chiorino, Michela Rosso, Italia ’61. Identità e miti nelle celebrazioni per il centenario dell’Unità d’Italia, Torino, Umberto Allemandi & C., 2005, p. 32.
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Casa UGI ritratta nel suo stato attuale (Atlante Torinese, a cura di Sisto Giriodi, 2011).
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visti dall’alto, la disposizione geografica delle venti regioni italiane. Le strutture figlie di questo grande evento condividono oggi destini differenti: esse si presentano, infatti, rispettivamente abbandonate, snaturate o completamente distrutte. Pochi sono gli interventi di riuso che hanno portato risultati positivi: una delle stazioni della monorotaia è trasformata, dopo anni in funzione di magazzino per l’ospedale Le Molinette, in casa d’appoggio per l’UGI, Unione Italiana Genitori contro i tumori in età infantile; il padiglione amministrativo, sede del Ministero del Lavoro e degli Enti associati, è convertito in laboratorio chimico della Camera di Commercio di Torino; i Padiglioni delle Regioni, infine, sono occupati da alcune organizzazioni dell’ONU, del Centro Internazionale di Formazione dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ITC-ILO), oltre che dal centro UNESCO di Torino. Alcune strutture assumono invece un ruolo di rilevanza nel corso delle Olimpiadi Invernali del 2006, primo fra tutti il Palavela, che subisce in tale occasione modifiche ingenti ad opera dell’architetto Gae Aulenti, che ne elimina definitivamente le pareti vetrate mantenendone unicamente la copertura in cemento armato; esso ospita, durante i giochi olimpici, le gare legate alle specialità di pattinaggio, mentre oggi sopravvive come struttura polivalente sottoutilizzata. Intervento più massiccio rispetto a quello che ha coinvolto il Palazzo del Lavoro, che, durante il periodo delle competizioni olimpiche, il sindaco propose
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Il Palazzo del Lavoro durante il Centocinquantenario dell’Unità Italiana (fonte: ”La Stampa”, 2011).
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addirittura di nascondere tramite dei drappi; tale “soluzione” verrà poi effettivamente adottata in occasione delle celebrazioni del Centocinquantenario dell’Unità Italiana: incredibile come, a soli 50 anni di distanza, quello che era stato l’emblema di un intero secolo di evoluzione tecnologica e sociale italiana sembri aver perso completamente la propria identità di simbolo.
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PALAZZO DEL LAVORO: LA COSTRUZIONE DI UN SIMBOLO MANCATO IL
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Il Palazzo del Lavoro viene edificato da Pier Luigi Nervi e dal figlio Antonio, architetto, tramite la loro impresa “Nervi e Bartoli” (con la consulenza, riguardo alle strutture metalliche, dell’ingegner Gino Covre) nel 1960, in soli 10 mesi. Trattasi di un edificio incredibile sotto molti punti di vista: esso rientra in pieno nell’ottica della “comunicazione del progresso”, collocandosi nell’era del “boom economico” come una vera e propria sperimentazione ingegneristica, realizzata tramite un’organizzazione scientifica del cantiere, vicina più all’ambito del taylorismo (e, nel caso di Torino, della produzione di automobili) che a quello della composizione architettonica. L’enfasi dei suoi grandi numeri – le ore lavorative complessive, il numero di lavoratori o i metri cubi di calcestruzzo utilizzati – diviene anch’essa strumento per sbalordire, per generare consenso29. I suoi 650.000 metri cubi di volume lo rendono impressionante anche per la sua imponenza: le sue dimensioni (150 metri di lato per 26 di altezza) si accompagnano ad una completa leggibilità strutturale, che conferisce all’edificio una straordinaria sincerità architettonica. Nonostante ciò, tale edificio non è riuscito ad assumere il ruolo di “simbolo”, né per la città di Torino, né per il periodo storico che andava originariamente a celebrare. Oggi, in un momento di crisi economica, il Palazzo di Nervi fatica a trovare una possibilità di restauro fondata sul crowdfunding o sull’intervento da parte degli enti pubblici.
Cristiana Chiorino, La ville industrielle costruisce i suoi simboli. Il Palazzo del Lavoro di Pier Luigi Nervi per Italia ‘61, in TAO – Transmitting Architecture Organ , n. 9: “Torino che visse due volte”, 2011, pp. 26-27.
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Il successo del sistema Nervi e la realizzazione del Palazzo 142 142 Lâ&#x20AC;&#x2122;interno del Palazzo del Lavoro (fotografia delle candidate, 17.03.2016).
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2.1 Il successo del sistema Nervi e la realizzazione del Palazzo Nel 1960 Pier Luigi Nervi è, probabilmente, l’ingegnere più famoso al mondo. Consacrato dalle sue ultime strutture, destinate alle competizioni delle Olimpiadi di Roma, pubblicate dalle più grandi riviste internazionali, gli valgono la Royal Gold Medal, al tempo il premio più prestigioso nel campo dell’architettura30. La sua figura risulta eccezionale soprattutto grazie alla sua capacità di raggiungere, in un contesto ancora arretrato come quello italiano del secondo dopoguerra, elevate originalità e complessità nella sperimentazione di tecniche strutturali; il suo operato si traduce, complessivamente, in un’esaltazione di quell’idea di progresso che tanto veniva sponsorizzata dalle prime Esposizioni Universali. Il sistema Nervi è basato, infatti, su vere e proprie “invenzioni”31: prima fra tutte quella di un materiale, il ferrocemento, e quella di una tecnica costruttiva, la prefabbricazione strutturale, brevettati entrambi già prima della fine della Seconda Guerra Mondiale (per quanto messe in pratica soltanto durante gli anni della successiva Ricostruzione)32. La sua vita sembra legarsi fin dal principio all’elemento del cemento armato, da lui definito in più occasioni come «il più bel sistema costruttivo che l’umanità abbia saputo trovare»33: Nervi nasce nel 1892 a Sondrio, proprio un
Il suddetto Premio era stato vinto, negli anni immediatamente precedenti, da Le Corbusier, Walter Gropius, Alvar Aalto e Mies van der Rohe, come riportato in Tullia Iori, Pier Luigi Nervi, Milano, Motta Architettura, 2009, p. 21.
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Nel corso della sua carriera, infatti, Nervi depositò decine di privative industriali, soprattutto nel campo della costruzione, Ibid.
31
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Ibid.
Pier Luigi Nervi, Scienza o Arte del costruire? Caratteristiche e possibilità del cemento armato, Roma, Edizioni La Bussola, 1945, p. 77.
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Particolare costruttivo della colonna, Tavola 41 (Pier Luigi Nervi, 29.01.1960). 144
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anno prima che François Hennebique, pioniere di tale materiale, ne depositasse il brevetto in Francia34. La sua carriera, subito dopo la laurea in ingegneria civile conseguita alla Scuola di applicazione di Bologna, ha inizio presso la “Società Anonima per Costruzioni Cementizie”, guidata dal suo professore di Architettura tecnica, Attilio Muggia, ma viene interrotta ben presto dalla chiamata al Servizio Militare. Eppure, anche in tale situazione avversa, egli trova modo di dimostrare la sua geniale inventiva, che già aveva avuto modo di consolidarsi durante il precedente tirocinio, quando Nervi era riuscito, ancora fresco di studi, a confrontarsi con problematiche strutturali reali. Egli stesso ricorda l’importanza rivestita da tale esperienza:
Tullia Iori, Pier Luigi Nervi, Milano, Motta Architettura, 2009, p. 22.
34
La trascrizione dell’intervista è pubblicata nell’articolo Struttura, intuito e architetti, in “L’ingegnere”, n.3, 1969, pp. 233-236.
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«Ho cominciato come costruttore. Il giorno dopo la laurea, sono entrato nell’ufficio tecnico dell’impresa di Costruzioni Cementizie di Bologna, diretta da un […] bravissimo ingegnere ed anche bravo architetto (architetto nel senso di una volta, cioè ingegnere civile e anche architetto). Sono passato alla progettazione dopo una lunga esperienza come costruttore. E questo mi ha giovato nel trovare possibilità costruttive buone […] Per me, l’aver costruito come semplice esecutore è stata una grande scuola anche per poter poi pensare, perché il costruttore diventasse il pensiero, un’ideazione.»35
Durante la guerra 1915-18, dunque, Nervi continua ad escogitare soluzioni per tali problemi, oltre ad altre audaci invenzioni, giungendo addirittura a progettare un motore ad idrogeno per siluri. Egli riprende il lavoro presso la Società non appena congedato, dimostrando sempre più le
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Il cantiere di prefabbricazione relativo al Sistema Nervi (<www.costruirecorrettamente.org>).
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proprie capacità e spostandosi da Bologna a Firenze, fino ad arrivare al suo trasferimento a Roma nel 1923, dove fonda la sua prima società, “Ing. Nervi e Nebbiosi”, e si ritrova finalmente libero di scegliere come ottimizzare le proprie scelte compositive e costruttive. La “Nervi e Bartoli” si forma solo nove anni dopo, nel 1932, in seguito al suo progetto per lo Stadio di Firenze e ad un ulteriore assestamento della sua attività. La critica ha infatti cominciato a notarlo, riconoscendo nel suo linguaggio (fortemente italiano, libero da qualsivoglia imitazione di modelli internazionali) una sorta di gesto innovatore, capace di rivoluzionare l’ormai superato ricorso all’eclettismo. Tra le invenzioni più celebri dell’ingegnere è senza dubbio la già citata “prefabbricazione strutturale”, sperimentata la prima volta nel 1939, per la realizzazione di alcuni nuovi hangar per l’aeroporto di Orvieto36, che consiste nella scomposizione della struttura in pezzi il più possibile ripetibili, di dimensioni e peso ridotti, così da poterli facilmente maneggiare durante la costruzione. Provvisti di ferri di attesa sporgenti, questi pezzi, con l’assemblaggio, vengono collocati nella loro posizione definitiva e saldati al resto della struttura tramite un getto di cemento ad alta resistenza. Insieme alla prefabbricazione, è però l’invenzione del “ferrocemento” a permettere a Nervi di liberarsi da quella tendenza ad astenersi da forme che non rispettino il reticolo degli assi cartesiani; egli ritiene che, al fine di trovare nuovi esiti espressivi e formali, sia necessario «prima di tutto, interrogare i materiali nuovi»37.
Queste prime strutture vengono realizzate tra 1935 e 1938, ma la tecnica verrà perfezionata soltanto tramite le serie successive, collocate a Orbetello e a Torre del lago Puccini, fino a divenire poi nel 1939 oggetto di un vero e proprio brevetto; Tullia Iori, Pier Luigi Nervi, Milano, Motta Architettura, 2009, p. 23.
36
Agnoldomenico Pica, Pier Luigi Nervi, Editalia, Roma, 1969, p. 9.
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Tullia Iori, Pier Luigi Nervi, Milano, Motta Architettura, 2009, p. 24.
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Cristiana Chiorino, Cronistoria di una vita grama. Il Palazzo del Lavoro dal 1961 ad oggi, in “Il Giornale dell’Architettura”, 20 settembre 2015, <http://ilgiornaledellarchitettura. com/web/2015/09/20/cronistoria-diuna-vita-grama-il-palazzo-del-lavorodal-1961-a-oggi/>, [consultato il 13 ottobre 2015].
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Definizione riportata con ammirazione dall’autrice in Ada Louise Huxtable, Pier Luigi Nervi, Brazilier, New York, 1960, p. 16: «Pier Luigi Nervi’s importance lies in the fact that he has reunited architecture and engineering […] his finest buildings are an incontrovertible fusion of science and art».
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Il “ferrocemento” risulta particolarmente utile a questi scopi, grazie alla sua elasticità e resistenza: trattasi, infatti, di un materiale composto di strati di maglia d’acciaio riempiti di malta e calcestruzzo38; proprio questa sua malleabilità, oltre al suo spessore ridotto rispetto a quello ottenuto con il semplice cemento armato, è alla base della creazione delle nervature ricurve divenute simboliche dell’operato di Nervi in Italia e all’estero. Egli si accorge che queste strutture sono spesso impossibili da calcolare staticamente, ma non vi rinuncia comunque, studiandole invece tramite modelli a scala ridotta sui quali simulare i carichi reali e verificarne così la resistenza. Ritroviamo entrambi i sistemi appena descritti applicati al nostro caso studio, il Palazzo del Lavoro di Torino, edificio la cui nascita consolida il rapporto tra la città e l’ingegnere, iniziato già nel 1947 con la costruzione del Padiglione B di Torino Esposizioni, prima grande opera in cui Nervi riesce ad applicare la tecnica del ferrocemento. Un’altra caratteristica peculiare del Palazzo del Lavoro sono i pilastri a sezione variabile, statisticamente ottimali, tanto semplici da realizzare quanto straordinari dal punto di vista formale (tale soluzione viene sperimentata anche per sostenere il viadotto di corso Francia, a Roma)39. L’invenzione più importante, ad ogni modo, è racchiusa proprio nell’ideazione della “forma strutturale”, frutto del lavoro di una figura in genere estremamente rara: quella dell’”ingegnere-architetto”40, in grado di annullare l’eterna contrapposizione tra scienza ed arte, giungendo a «sostituire la concezione
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dello spazio come dimensionalità assoluta alla concezione tradizionale di spazio come sistema proporzionale»41. Nervi stesso sottolinea continuamente questo concetto nei propri scritti, guadagnandosi la stima e l’ammirazione non solo di critici e riviste, ma anche di grandi architetti, come Aldo Rossi, autore dell’introduzione alla sua opera Scienza o arte del costruire? Caratteristiche e possibilità del cemento armato42, o come Le Corbusier, in contatto con l’ingegnere grazie al progetto della nuova sede UNESCO di Parigi e per i rapporti con il gruppo Ciam. È celebre la lettera conservata presso l’Archivio Architettura del MaXXi di Roma, datata 12 settembre 1960, in cui Le Corbusier chiede a Nervi di poter visitare le sue opere edificate per le Olimpiadi di Roma, in modo da trarne esempio per il suo progetto dello stadio di Baghdad43. Nervi rappresentava, per l’architetto svizzero, la piena dimostrazione dell’idea, spesso riportata nei suoi scritti, di fioritura dell’”estetica dell’Ingegnere” rispetto alla “pratica dell’Architetto”, ormai alla deriva: «La diagnosi è chiara. Gli ingegneri fanno dell’architettura perché impiegano il calcolo derivato dalle leggi della natura, e le loro opere ci fanno sentire l’ARMONIA»44. La collaborazione con la figura dell’ingegner Nervi era quindi la vera risposta alla tendenza a mantenere «occhi che non vedono»45, propria di tutti quei progettisti che non intendono dare dignità di espressione contemporanea all’architettura. Il maggior insegnamento di Pier Luigi Nervi sta in questa sua efficienza di pensiero, dimostrata, nell’ambito della
Sergio Pace, Pier Luigi Nervi, o l’ingegnere che divenne architetto, in Pier Luigi Nervi. Torino, la committenza industriale, le culture architettoniche e politecniche italiane, Silvana Ed., Cinisello Balsamo, 2011, p. 66.
41
Pier Luigi Nervi, Scienza o Arte del costruire? Caratteristiche e possibilità del cemento armato, Roma, Edizioni La Bussola, 1945, p. 77.
42
Piero Ostilio Rossi, Le Corbusier, Pier Luigi Nervi et les équipments olympiques de Rome in L’Italie di Le Corbusier, Rencontres de la Fondation Le Corbusier, Fondation Le Corbusier – Edition de La Villette, Paris 2010, pp. 244-253; l’originale della lettera è conservato presso il Fondo Nervi dell’Archivio del MAXXI Architettura, Roma. Una copia della lettera è conservata anche presso la Fondation Le Corbusier.
43
Le Corbusier, cit. in Fabio Mariano, Gabriele Milelli, Nervi. Una scienza per l’architettura, Roma, Istituto Mydes, 1982, p. 4.
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Gli «occhi che non vedono» sono un riferimento diretto di Le Corbusier alla ripetizione continua di stili da parte degli architetti del suo tempo, la cui produzione era da egli considerata arretrata rispetto alle tecnologie raggiunte dagli ingegneri del tempo; Le Corbusier, Vers une architecture, Crés, Paris, 1923.
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Pier Luigi Nervi, Corretto Costruire, in â&#x20AC;&#x153;Strutture.Rivista di scienza e arte del costruireâ&#x20AC;?, n.1, aprile 1947.
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nuova società industriale novecentesca, rendendo i suoi progetti “monumenti” di quest’epoca e delle sue scelte sociali ed economiche. La sua capacità sta, in questo clima di rinascita e ricostruzione, nel saper trasformare quelle che normalmente verrebbero viste come problematiche strutturali in vere e proprie “sfide”; per vincerle non basta, però, avere ben chiaro l’obiettivo da raggiungere, ma è necessario anche cimentarsi nell’escogitare i mezzi più adatti e convenienti per raggiungerlo46, fino a che “funzionalità, statica ed economia” (traduzione nerviana dei concetti della triade Vitruviana) non arrivino ad una situazione di equilibrio ed armonia tra loro, rendendo così la fatica della progettazione architettonica finalmente compiuta47. Mario Salvadori, in questo passo richiama la determinazione di Nervi a non mettere in atto un’originalità “a tutti i costi”, a non intendere l’architettura come semplice disegno, ma come risultato di un processo complesso:
Pier Luigi Nervi, Scienza o Arte del costruire? Caratteristiche e possibilità del cemento armato, Roma, Edizioni La Bussola, 1945, p. 47.
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Ivi, p. 51
Passo finale del saggio di Mario Salvadori: Le strutture a guscio e le opere negli Stati Uniti di Pier Luigi Nervi, in Silvio Ceccato (a cura di), Pier Luigi Nervi e la sua opera, incontro di studio organizzato dal Comitato del Premio Ingersoil Rand Italia, Milano, Boroni, 10 aprile 1980, p. 25.
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Pier Luigi Nervi, Costruire Correttamente: caratteristiche e possibilità delle strutture cementizie armate, Hoepli, Milano, 1965; Pier Luigi Nervi, Scienza o Arte del costruire? Caratteristiche e possibilità del cemento armato, Roma, Edizioni La Bussola, 1945.
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«[…] il popolo greco, creatore della prima, grande civiltà della bellezza, non aveva una sola parola per definire il bello, ma univa al bello il buono e diceva di un poema o di un tempio che erano Kalos Kai Agathos. Pier Luigi Nervi univa in sé queste due supreme qualità, dando al buono un significato di onestà che non gli permetteva di inserire nelle sue opere il benché minimo dettaglio che non fosse al tempo stesso necessario e di sottile bellezza.»48
Il Palazzo del Lavoro è, probabilmente, una delle opere di Pier Luigi Nervi che meglio incarnano gli aspetti costituenti del Corretto Costruire49 da lui promosso in occa-
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Particolare costruttivo del capitello, Tavola 41 (Pier Luigi Nervi, 29.01.1960).
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sione della sua attività didattica presso la facoltà romana della Sapienza: prodotto di un’attenzione ad ambiti molto diversi, tutti ugualmente importanti al fini del successo di un progetto, quali l’organizzazione di tipo industriale, il risparmio in termini economici e di tempo, i valori sociali ed umani che il nuovo edificio sarebbe andato ad indentificare all’interno del proprio contesto di appartenenza. Incentrato sulla suddivisione della copertura quadrata in 16 elementi indipendenti, i celeberrimi “ombrelli”, di 40 m di lato50, separati da strisce continue di lucernari e costituiti da una raggiera di travi in acciaio e da un pilastro di sostegno a sezione variabile, caratteristica ricorrente in vari progetti di Nervi, come il viadotto di corso Francia a Roma, la stazione ferroviaria di Savona o, ancora, la Cattedrale di San Francisco (realizzata poi nel 1970): le dimensioni parlano da sole, introducendoci all’atmosfera surreale che si respira all’interno del Palazzo; la sensazione è quella di uno spazio ovattato, completamente isolato acusticamente rispetto all’esterno pur permettendone una percezione filtrata dalle pareti di brise-soleils. Ad incrementare tale sensazione interviene poi l’accesso tramite la galleria perimetrale, un elemento filtrante anch’esso, realizzato tramite casseforme in ferrocemento mobili come quelle sopracitate, con la funzione di guidare il passaggio del visitatore da una scala ancora più ridotta ad una stupefacente.
Cristiana Chiorino, Cantiere Italia ’61. La ville industrielle costruisce i suoi simboli, in Sergio Pace, Cristiana Chiorino, Michela Rosso, Italia ’61. Identità e miti nelle celebrazioni per il centenario dell’Unità d’Italia, Torino, Umberto Allemandi & C., 2005.
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Reazioni e critiche ad un progetto (im)perfetto
Donne al Parco Italia ’61, con il Palazzo del Lavoro come sfondo, durante l’esposizione del 1961 (courtesy PIERLUIGINERVI PROJECT).
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2.2 Reazioni e critiche ad un progetto (im)perfetto Tutti gli edifici di Italia ’61, in fondo, sono accomunati da un desiderio di popolarità; le loro superfici svettanti, che potrebbero essere tranquillamente utilizzate come ambientazioni futuristiche, vengono pubblicate su numerose riviste nazionali ed internazionali, non sempre senza critiche51. Dino Buzzati scrive, a proposito del Palazzo del Lavoro: «Uno entra nello sterminato locale e cosa trova? Trova che dentro hanno costruito tanti altri padiglioni [...] cosicché in pratica, l’unica funzione del favoloso edificio è quella di riparare dalla pioggia il pubblico [...] E domani, terminata l’Esposizione, Torino cosa ne farà? Concerti con 6.000 professori d’orchestra? Naumachia? Combattimenti tra mammut e dinosauri? Spettacoli di acrobazie al coperto?»52. Tale opinione trova riscontro già due anni dopo la fine dell’esposizione, quando all’immediata popolarità del Palazzo e del resto dell’area di Italia ’61 segue quel diffuso stato di abbandono e degrado che persiste ancora oggi. Alcuni elementi, come la futuristica monorotaia, riescono a resistere unicamente come sculture all’aria aperta, mentre i grandi contenitori, abbandonati nell’immediato post-evento, subiscono la stessa sorte dei casi precedentemente riportati.
Cristiana Chiorino, Cantiere Italia ’61. La ville industrielle costruisce i suoi simboli, in Sergio Pace, Cristiana Chiorino, Michela Rosso, Italia ’61. Identità e miti nelle celebrazioni per il centenario dell’Unità d’Italia, Torino, Umberto Allemandi & C., 2005, p. 21.
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Dino Buzzati, I faraoni del ’61, in “Corriere dell’Informazione”, 7/8 giugno 1961; riportato in Ernesto Nathan Rogers, Un errore nazionale, in “Casabella-Continuità”, n. 252, Milano, Editoriale Domus, giugno 1961, p. 3.
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Il Palazzo del Lavoro: la costruzione di un simbolo mancato
Un fotogramma del film The Italian Job, Peter Collins, 1969 (<www.comingsoon.it>).
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L’unico breve ritorno alla notorietà avverrà nel 1969, quando il regista Peter Collinson realizzerà un inseguimento di Mini Cooper su e giù per tetto del Palavela, in occasione del suo film The Italian Job53. L’unica funzione minimamente adeguata a questo genere di colossi architettonici continuano ad essere le esposizioni e gli eventi, questa volta a breve termine. Eppure il Palazzo del Lavoro, oltre ad aver affascinato intere generazioni di esperti e non, racchiude tuttora in sé anche un valore storico non di poco conto: esso rappresenta, infatti, il passaggio alla terza fase della vita lavorativa di Nervi, quella legata ai grandi incarichi internazionali, che lo porterà, ad esempio, negli Stati Uniti ed in Brasile. Questa fase è caratterizzata dall’esibire la struttura in tutta la sua purezza, con forme organiche che ci fanno ripensare alla natura tanto apprezzata da Nervi, il quale, come ricorda Carlo Olmo in occasione della mostra Architettura come Sfida, aveva una ricca collezione di foglie secche, la cui osservazione assumeva per lui valore di indagine formale, di ricerca di eleganza54.
Sergio Pace, La parabola infinita. Mito, declino e possibili rinascite di Italia ’61, p.8, in Sergio Pace, Cristiana Chiorino, Michela Rosso, Italia ’61. Identità e miti nelle celebrazioni per il centenario dell’Unità d’Italia, Torino, Umberto Allemandi & C., 2005, p. 22.
53
Guglielmo Gigliotti, Nervi, il collezionista di foglie ed altre piante, in “Il Giornale dell’arte”, 14 dicembre 2010, <http://www.ilgiornaledellarte.com/ articoli/2010/12/105865.html>, [consultato il 9 gennaio 2015].
54
Si veda La celebrazione del primo centenario dell’Unità d’Italia, Torino, Comitato nazionale per la celebrazione del primo centenario dell’Unità d’Italia, 1961.
55
Pier Luigi Nervi riesce a vincere il concorso di assegnazione del progetto pur non rispettando le richieste della giuria. L’appalto, bandito nel 1959 dal Comitato per le Celebrazioni del centenario dell’Unità d’Italia55, richiede un tipo di progetto del tutto eccezionale, un padiglione destinato ad ospitare l’esposizione Internazionale del
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Bando di concorso per la costruzione del Palazzo del Lavoro, indetto dal Comitato Nazionale del Centenario dell’Unità d’Italia, Torino, 1959.
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Lavoro, ma anche, in seguito, il Centro nazionale per l’Istruzione Professionale, in quanto l’area in oggetto è da considerarsi solo data in concessione per un tempo limitato all’ente promotore. I criteri da seguire consistono in una «decorosa presentazione», in quanto le strutture non devono assumere una «funzione meramente statica», bensì una funzione architettonica. Un altro aspetto fondamentale è però costituito dall’economicità della realizzazione del progetto, oltre alla velocità d’esecuzione; il tutto accompagnato da un «uso espressivo di tecniche e materiali costruttivi»56. Dal punto di vista delle dimensioni, invece, la pianta quadrata di 47.000 metri quadri è già imposta dal bando, in modo tale da poter contenere un’esposizione simmetrica sui due assi ortogonali, di cui il principale risulta parallelo all’attuale Corso Unità d’Italia. Altra richiesta basilare è, infine, quella di garantire la massima continuità possibile nella pianta, non interrompendola con ambienti dedicati ai servizi. La stranezza di tale concorso sta proprio nel fatto che l’edificio debba essere progettato soltanto in seguito alla pianificazione della mostra sul lavoro, ideata da Gio Ponti sotto la supervisione attenta di Giovanni Agnelli; l’esposizione, dal titolo L’uomo al lavoro - Cento anni di sviluppo tecnico e sociale: conquiste e prospettive, a differenza di quelle descritte nella premessa si concentra non tanto sul progresso futuro, quanto sul passato ed il presente dei lavoratori italiani: la sua originalità risiede proprio nel non ripetere la consueta messa in mostra di
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prodotti o manufatti tecnici, configurandosi altresì come rappresentazione onesta ed orgogliosa dei differenti modi in cui, nel corso degli ultimi cent’anni, si è manifestato il lavoro in Italia, in tutte le sue più varie forme57. Per poter contenere un’esibizione di tale singolarità, dunque, l’edificio stesso deve assumere caratteristiche che lo rendano il più vicino possibile all’azione del “fare”, del “creare” non soltanto oggetti, ma rivoluzionari metodi di produzione e lavorazione. Nervi ottiene, in questo senso, pieno successo, progettando quello che si presenta come un autentico “edificio-macchina”: proprio l’espressività dei metodi costruttivi, estremamente ingegnosi, utilizzati per la progettazione del cantiere e della struttura gli vale infatti la vittoria, proclamata a decisione quasi unanime da parte della giuria (causando non pochi malcontenti tra i suoi avversari, primo fra tutti Carlo Mollino, che fa addirittura ricorso chiedendo un risarcimento per i danni morali, non ritenendo sensata l’assegnazione di un progetto così importante per la città di Torino ad un progettista “forestiero”). Il Palazzo di Nervi risulta, in ogni caso, il più semplice e veloce da mettere in opera, senza comunque perdere il forte senso di decoro richiesto dall’occasione; la genialità del progettista sta proprio nel riconoscere, fin da subito, l’incoerenza di alcune richieste del concorso, che a suo parere «costituivano un insieme di così diverse, se non contrastanti esigenze, che per diversi giorni sembrò quasi impossibile trovare uno schema che le risolvesse tutte»58 (solo cinque imprese tra quelle invitate, infatti, nonostan-
Maddalena Rusconi, Italia ’61: l’immagine di Torino in trasformazione, in Fabio Levi, Bruno Maida (a cura di), La città e lo sviluppo : crescita e disordine a Torino 1945-1970, Milano, Franco Angeli, 2002, p. 528.
57
Pier Luigi Nervi, L’Esposizione per il Centenario dell’Unità d’Italia a Torino. Il Palazzo del Lavoro, in “L’architettura – cronache e storia”, n.70, 1961, p. 222.
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Il cantiere del Palazzo del Lavoro (Archivio storico FIAT, 1960).
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te annoverino tra i loro nomi alcuni tra i migliori architetti e - soprattutto - ingegneri dell’epoca, sono in grado di presentare una proposta efficace).
Cristiana Chiorino, Cantiere Italia ’61. La ville industrielle costruisce i suoi simboli, in “Ingegneria italiana. Rassegna di Architettura e Urbanistica”, n.121/122, 2007, p. 124.
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Le “imperfezioni” del disegno vincitore rispetto ai requisiti iniziali consistono fondamentalmente nella mancata realizzazione della copertura in un’unica campata, che permetta di lasciare completamente libero il piano terreno, e nella mancanza di un piano per il futuro riuso dell’edificio come istituto professionale (erano stati richiesti spazi atti ad ospitare, a tal proposito, le aule ed i locali tecnici necessari). Il progetto riesce, comunque, ad affermarsi con grande forza rispetto agli altri, eccessivamente articolati, instaurando un rapporto maggiormente integrato con il terreno mediante la realizzazione di pieni e vuoti e concretizzando, con un’enfatizzazione manieristica della struttura, un simbolo di esattezza tipologica e coerenza costruttiva.59 In realtà, l’aspetto più avvincente dell’opera di Nervi consiste esattamente nella frammentazione della grande copertura complessiva, aspetto non di poco valore, che, evitando l’attesa del disarmo dell’intera struttura prima di poter procedere alle opere di finitura, rende possibile una realizzazione lampo dell’edificio, terminato in appena dieci mesi, da febbraio a dicembre. Si evita così anche il difficile processo di costruzione previsto in origine, che avrebbe dovuto attraversare ben due inverni. L’ingegnere
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I progetti vincitori del concorso per il Palazzo del Lavoro a Torino, in Casabella-Continuità, n.235, gennaio 1960, pp. 30-42.
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Tratto dall’editoriale Bruno Zevi, La dissociazione architettonica, tara delle esposizioni, in “L’architettura. Cronache e Storia”, n.70, 1961, p. 218.
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stesso difende così le scelte fatte: «Il progetto risolve, in una compiuta sintesi espressiva, la duplice esigenza posta dal bando. La struttura ad elementi separatamente realizzabili, non solo assicura una rapida esecuzione, ma è coerente con l’espressione di ordinata chiarezza dello spazio interno e con l’accettabile fattore economico […] La composizione offre una pacata stesura all’esterno ed una viva sorpresa a chi, entrando, percepisce lo spazio interno nella sua felice ispirazione naturalistica.»60
L’unica critica effettivamente avanzata nei confronti del Palazzo è quella di non legarsi troppo fortemente alla dislocazione degli elementi espositivi (pur, come già detto, già definita prima del concorso), generando una sorta di “estraneità” tra volume e contenuto, che, come affermato da Bruno Zevi, finisce per ripercuotersi anche sulle future possibilità d’uso dell’edificio: «L’aseità si presenta come un vizio sostanziale degli involucri architettonici realizzati prima [dell’esposizione] e indipendentemente dalla loro coordinazione interna, in essi l’involucro predomina facilmente sul contenuto al punto che le installazioni future possono sembrare strane e arbitrarie. A cominciare dal peso eccessivo della funzione aulica espositiva, la fastosa struttura nerviana è destinata a pesare su qualunque altra destinazione futura, che, se non attentamente calibrata, potrà soffrire già inizialmente di obsolescenza dell’immagine.»61
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Il post-evento: un abbandono immediato
Il degrado allâ&#x20AC;&#x2122;interno del Palazzo del Lavoro (fotografia delle candidate, 17.03.2016).
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2.3 Il post-evento: un abbandono immediato L’abbandono del Palazzo del Lavoro non è di certo una sorpresa, bensì un avvenimento, apparentemente inevitabile, già previsto da molti durante il corso dell’esposizione. Ciò nonostante, lo studio Nervi si impegna già nel 1962, subito dopo la fine della mostra, nel redigere un progetto di rifunzionalizzazione, finalizzato alla candidatura del Palazzo come sede del BIT (Bureau International du Travail, ovvero un’agenzia dell’ONU): un progetto che, per altro, avrebbe introdotto un nuovo piano ammezzato all’interno dell’edificio, tramite il prolungamento del solaio che prima era affidato soltanto alla copertura del porticato perimetrale; senza mai realizzare il piano ammezzato, il BIT occupa però l’edificio solo fino a metà degli anni ’80, per poi traferirsi negli antistanti ex Padiglioni delle Regioni e, nonostante alcune proposte di notevole interesse (quale quella, avanzata dal Comune negli anni ’70, di installarvi un complesso sportivo completo di piscina e pista d’atletica), l’edificio inizia man mano ad essere “riadeguato” (per quanto possibile) a funzioni richiedenti spazi più ridotti, quali il Centro Cartografico Regionale o alcuni istituti professionali. Come già detto, uno dei punti deboli del disegno nerviano consiste però nella mancanza di spazi quali aule o locali tecnici, in questo caso necessari
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Tavola di progetto di riuso per il Palazzo del Lavoro nel post-evento (Pier Luigi Nervi 1959).
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Gli uffici e le aule della Facoltà di Economia dell’Università di Torino nel Palazzo del Lavoro (in “Il Giornale dell’Architettura”, 20 settembre 2015). 167
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La regina Elisabetta, Walt Disney ed Alfred Hitchcock in visita ad Italia â&#x20AC;&#x2DC;61 (fonte: <www.museotorino.it>).
Fotogramma del film Omicron (Ugo Gregoretti, Italia, 1963).
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e quindi aggiunti comunque tramite interventi posticci, di scarsissimo valore architettonico. Numerosi i tentativi di riuso spazialmente poco riusciti e gli esperimenti di riprogetto sempre rifiutati: quello più conosciuto – oltre che più recente – è per uno Science Center, pensato da Aimaro Isola insieme ad un gruppo di suoi studenti del Politecnico di Torino; vi si aggiunge la proposta di spostarvi il Museo Egizio, ormai irrealistica dato il recente restauro della sede originaria di quest’ultimo. La situazione culmina nel 2000 con il trasferimento della facoltà di Economia dell’Università di Torino, oltre che degli uffici della Questura (attività, per altro, del tutto scollegate l’una dall’altra) all’interno del fabbricato62.
Un accenno a questi progetti è riscontrabile in Cristiana Chiorino, Cronistoria di una vita grama. Il Palazzo del Lavoro dal 1961 ad oggi, in “Il Giornale dell’Architettura”, 20 settembre 2015, <http://ilgiornaledellarchitettura.com/web/2015/09/20/ cronistoria-di-una-vita-grama-il-palazzo-del-lavoro-dal-1961-a-oggi/>, [consultato il 13 ottobre 2015].
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Il motivo del fallimento degli innumerevoli sforzi di riorganizzazione non è da ricercarsi in un calo dell’attrattiva dell’area, che anzi conserva ancora grande fascino da parte dei cittadini che hanno avuto modo di entrarvi e confrontarvisi. Tale giustificazione, inoltre, risulterebbe insufficiente dal momento che il degrado dell’edificio ha inizio immediatamente dopo la fine dell’esposizione, pur senza privarlo di quel carisma che il suo aspetto futuristico gli ha garantito fin dalla sua costruzione. L’area di Italia ‘61 (e, in particolare, il Palazzo del Lavoro) hanno infatti avuto modo di esercitare, grazie alla propria unicità, un’influenza positiva anche sui molti visitatori “celebri”: la regina Elisabetta d’Inghilterra, il grande regista Alfred Hitchcock e Walt Disney sono solo alcuni tra
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Maddalena Rusconi, Italia ’61: l’immagine di Torino in trasformazione, in Fabio Levi, Bruno Maida (a cura di), La città e lo sviluppo : crescita e disordine a Torino 1945-1970, Milano, Franco Angeli, 2002, p. 553; TAO – Transmitting Architecture Organ , n. 9: “Torino che visse due volte”, 2011, p. 3.
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Cristiana Chiorino, Cronistoria di una vita grama. Il Palazzo del Lavoro dal 1961 ad oggi, in “Il Giornale dell’Architettura”, 20 settembre 2015, <http://ilgiornaledellarchitettura. com/web/2015/09/20/cronistoria-diuna-vita-grama-il-palazzo-del-lavorodal-1961-a-oggi/>, [consultato il 13 ottobre 2015].
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i personaggi famosi che hanno modo di osservare l’architettura futuristica dell’intera area dell’Esposizione63. Il vero problema che accomuna le varie ipotesi di riutilizzo è in realtà la negligenza nei confronti di un aspetto cruciale, che nessuno ha mai l’audacia di affrontare accostandosi a questa architettura: l’impegno di reinserire l’edificio nel tessuto urbano circostante e di consegnarlo ad una reale fruizione collettiva64. Nessuna tra le potenziali trasformazioni appena descritte, inoltre, scende a fare i conti con il problema del riscaldamento dell’immenso volume o, alternativamente, con l’uso del complesso come grande piazza coperta intorno alla quale inserire poi volumi più o meno indipendenti, i quali andrebbero a delimitare aree sì aperte, ma caratterizzate da una nuova funzione ben definita (e non si comporterebbero quindi come semplici volumi racchiusi da un contenitore da essi comunque slegato).
Gli eventi recenti e le ipotesi di riuso
172 Lâ&#x20AC;&#x2122;interno del Palazzo del Lavoro (fotografia delle candidate, 17.03.2016).
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2.4 Gli eventi recenti e le ipotesi di riuso La visione negativa precedentemente descritta è sicuramente avvalorata dagli eventi più recenti riguardanti il Palazzo: nel 2004, quando la Città di Torino si fa avanti per acquisire l’edificio dal Demanio dello Stato, la richiesta è insormontabile, pari a ben 20 milioni di euro. Si avanza così l’idea della concessione, a cui si giunge attraverso una procedura particolarmente complessa, che impiega perciò molto tempo ad essere messa in atto. Nel corso delle Olimpiadi Invernali del 2006, in conseguenza diretta di questa situazione di stallo, l’impacchettamento tricolore del Palazzo fa in modo che alcune tra le nuove generazioni finiscano addirittura per ignorarne l’aspetto, precludendo così ogni possibilità di dare un benvenuto dignitoso ai visitatori che raggiungono Torino attraverso il suo ingresso. L’idea del mascheramento, comunque, rimane più dignitosa se confrontata con l’ipotesi di utilizzarlo come parcheggio per il grande evento. Il 19 ottobre 2005, poi, il Protocollo d’intesa tra la Città e il Ministero delle Finanze, da cui dipende il Demanio, impegna la prima ad adottare una variante di Piano regolatore che preveda «nuove destinazioni d’uso di carattere turistico-ricettivo, culturale, terziario espositivo, congressuale, fieristico, centri di ricerca, Università, attività di servizio alle persone e
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Lâ&#x20AC;&#x2122;interno del Palazzo del Lavoro (fotografia delle candidate, 17.03.2016).
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alle imprese»65. Una risoluzione solo apparente insomma, che comprende nelle proprie possibilità di sviluppo un utilizzo culturale di senso troppo generico. Solo nel 2007 la società immobiliare Fintecna del Ministero delle Finanze seleziona alcuni potenziali partner per un portafoglio di immobili (particolarmente scomodi e costosi, situati nelle aree periferiche di Asti e Carmagnola) da affiancare all’acquisizione del Palazzo del Lavoro: si aggiudica questo “pacchetto” l’immobiliare torinese Gefim, guidata da Stefano Ponchia. Viene dunque approvata la variante ad aedificium al Piano Regolatore, che prevede, tra le altre cose, la privatizzazione del Palazzo ed il suo il cambio di destinazione d’uso, oltre alla «contestuale cancellazione della classificazione che annovera [il Palazzo del Lavoro] tra gli edifici di particolare interesse storico, appartenenti al gruppo 5 (edifici e manufatti di valore documentario)»66. Il destino del capolavoro di Nervi sembrerebbe, a questo punto, segnato da una soluzione che, in un modo che potrebbe rivelarsi positivo o negativo (ancora non ci è dato saperlo), lo dovrebbe trasfornare in via definitiva. La variante, infatti, oltre a portare nelle casse comunali più di 10 milioni di euro tra costi di valorizzazione ed oneri d’urbanizzazione, consente la conversione dell’edificio a funzione commerciale (scelta che viene, in seguito, molto criticata), oltre a permettere un considerevole aumento della volumetria. Vogliamo però sottolineare come né la Regione, né la Città di Torino, né tantomeno lo Stato Italiano in questo
Di seguito il riferimento specifico alla variante in oggetto: Città di Torino, Settore Ambiente e Territorio, Oggetto: Variante Parziale al PRG n° 190 – Palazzo del Lavoro.Verifica di assoggettabilità al processo di valutazione ambientale – Esclusione, cronologico n.277, 11 Settembre 2009.
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Ibid.
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Il progetto dello Studio Rolla disegnato sul pavimento del Palazzo del Lavoro (fotografia delle candidate, 17.03.2016).
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periodo di grave crisi economica si siano resi disponibili per la riacquisizione, più volte ad essi proposta, di questo bene architettonico; allo stesso tempo, altre modificazioni sicuramente meno preoccupanti, come quella in sede dell’Università o Biblioteca (o ancora il mantenimento dell’edificio a monumento, semplicemente visitabile) non sarebbero comunque bastevoli nella loro resa economica a coprire i costi di restauro richiesti dalla struttura nerviana (pari a 40 milioni di euro circa)67. Nel 2010, la società Pentagramma (costituita per il 50% da Fintecna e per la restante metà da Gefim) trova finalmente un utilizzatore a cui attribuire la rifunzionalizzazione del Palazzo: trattasi del gruppo olandese Còrio, tra i maggiori realizzatori di centri commerciali in Europa e non solo. Il progetto è affidato all’architetto Alberto Rolla (che, come vedremo in seguito, abbiamo avuto modo di intervistare personalmente al riguardo): egli, giustificandosi con il progetto di riuso originariamente redatto da Nervi, il quale prevedeva sostanzialmente un “offset” della copertura del portico esterna verso l’interno, andando quindi ad inglobare anche i quattro pilastri centrali, colloca una superficie commerciale di circa 13.000 mq all’interno dell’edificio. Viene però ben presto fermato, nella realizzazione di questo suo intento, da numerose opposizioni, provenienti dai fronti più diversi. La principale, unica in grado di fermare realmente l’avanzamento del progetto, consiste nel ricorso al TAR presentato dal centro commerciale del Lingotto, la ben cono-
Si veda a tal proposito anche l’intervento di Davide Tommaso Ferrando all’interno dell’evento Democrazia Nostop, parte del programma della “Biennale Democrazia 2011” di Torino; Davide Tommaso Ferrando, Palazzo del Lavoro. Passato, presente, (im)possibili futuri, in “Zeroundici+”, 16 aprile 2011, < http://www.zeroundicipiu. it/2011/04/17/passato-presente-impossibili-futuri/>, [consultato il 25 gennaio 2016].
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Render del Palazzo del Lavoro secondo il progetto dello studio Rolla (Studio Rolla, 2010).
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sciuta 8Gallery, che, impaurita dalla possibile concorrenza che potrebbe generarsi in una zona così vicina, cerca di bloccare sul nascere la riconversione. L’accusa, in realtà alquanto lecita, è quella di aver considerato l’intervento come creazione di un “centro commerciale naturale”, definizione in realtà lontana da ciò che il progetto di Rolla avrebbe effettivamente realizzato. Il “centro commerciale naturale” è, infatti, quella di «forma di aggregazione tra imprese commerciali, artigianali e di servizio insistenti su una determinata area della Città, con lo scopo di valorizzare il territorio e di rendere più competitivo il sistema commerciale di cui sono parte»68 (un esempio sarebbe quello, nel caso di Torino, dell’insieme dei negozi di via Garibaldi, o di quelli situati in Borgo Dora). Il nuovo progetto immaginato per il Palazzo del Lavoro, al contrario, sarebbe consistito in un intervento unico di inserimento di diverse attività commerciali all’interno dell’immobile: scelta, questa, privilegiata in ragione del numero di metri quadri occupabili che avrebbe concesso. Un centro commerciale complessivo, invece, consentirebbe di costruire nell’area 16.30 del PRG (in cui è, appunto, situato l’edificio) una superficie destinata alla vendita di appena 6.000 mq (meno della metà di quelli previsti da Rolla)69. Oltre alla violazione degli standard di cubatura, in ogni caso, la maggiore falla di questo primo progetto consiste nel basarsi sull’approvazione di una variante semplice al PRG (e non strutturale), priva quindi anche di una valutazione ambientale strategica adeguata (che risulterebbe inve-
Torino. I centri commerciali naturali, “in Mole24”, <http://www.mole24. it/2012/06/25/torino-i-centri-commerciali-naturali/>, [consultato il 28 gennaio 2016].
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Beppe Minello, Andrea Rossi, Il nuovo Palazzo del Lavoro fermato dai giudici del Tar, in “La Stampa”, 16 giugno 2012, <https://www.lastampa. it/2012/06/16/cronaca/il-nuovo-palazzo-del-lavorofermato-dai-giudici-del-tar-dlTFRgToD32MCzzdssoCRK/ pagina.html>, [consultato il 28 gennaio 2016].
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L’incendio divampato al Palazzo del Lavoro il 20 agosto 2015 (fonte: “La Repubblica”, 20.08.2015).
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ce obbligatoria per superfici di questa portata – il lotto corrisponde ad un’area complessiva di circa 60.000 metri quadri)70. Non mancano, comunque, anche critiche di altra portata, guidate principalmente dalla denuncia esposta dal DoCoMoMo: tali rimostranze, avanzate con grande preoccupazione, si intensificano dopo che, la notte del 20 agosto 2015, un incendio doloso devasta una parte importante del Palazzo. Tale evento, oltre a causare gravissimi danni materiali, riesce a mettere sotto nuova luce la complicata situazione di stallo nella quale l’iter di approvazione è andato ad arenarsi. Il DoCoMoMo, attraverso la pubblicazione di un documento ufficiale, dichiara infatti il Palazzo del Lavoro “sotto minaccia”71. Una lettera viene quindi inviata dalla responsabile del DoCoMoMo, la portoghese Ana Tostoes, all’allora sindaco di Torino, Piero Fassino, all’ex-assessore all’Urbanistica Stefano Lo Russo, all’architetto Luisa Papotti, sovrintendente delle Belle Arti ed il Paesaggio per il Comune e la Provincia di Torino, e, infine, al proprietario dell’immobile e gestore finanziario di Gefim, Stefano Ponchia. In questi documenti si invitano tutte le personalità interessate nell’operazione a preservare l’edificio per le generazioni future. Ciò non è però mai successo, ed il Palazzo si ritrova ancora oggi, mentre noi stiamo scrivendo, ad identificarsi come “terra di nessuno”. Una nuova funzione risulta, anche ai fini di riappropriazione dell’edificio da parte della città, più che necessaria:
Cristiana Chiorino, Cronistoria di una vita grama. Il Palazzo del Lavoro dal 1961 ad oggi, in “Il Giornale dell’Architettura”, 20 settembre 2015, <http://ilgiornaledellarchitettura. com/web/2015/09/20/cronistoria-diuna-vita-grama-il-palazzo-del-lavorodal-1961-a-oggi/>, [consultato il 13 ottobre 2015].
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Cristiana Chiorino, The Palazzo del Lavoro by Nervi under treath, documento ufficiale pubblicato da DoCoMoMo International il 1 settembre 2015.
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Fotografia interna della zona interessata da incendio nello scorso 20 agosto 2015 (fotografia delle candidate, 17.03.2016) 182
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questo anche perché, come afferma Cristiana Chiorino, membro del consiglio direttivo del DoCoMoMo e responsabile della conservazione del patrimonio nerviano per incarico degli stessi discendenti di Nervi: «In attesa di decisioni che richiedono tempi lunghi, nessuno si occuperà della manutenzione; intanto all’interno piove […] Il rischio non è il crollo, intendiamoci, i problemi sono altri. Ci sono infiltrazioni di acqua che minacciano la struttura metallica di copertura e creano problemi nelle falde sotterranee: non dimentichiamo che siamo vicini al Po. Quando piove poi la situazione precipita, il pavimento diventa una sorta di piscina. […] Sulla copertura si sono create fessure, che generano, oltre a infiltrazioni, colate di ruggine. Se lo stop imposto dal Consiglio di Stato al Comune per irregolarità - ed è un vero peccato che la città si sia inciampata su un simile errore di procedura - porterà a un arresto di uno o due anni, la situazione degenererà ancora e l’edificio non si potrà più recuperare.»72
Marina Paglieri, Il Palazzo del Lavoro è così condannato, in “La Repubblica”, 12 gennaio 2013, < http://torino. repubblica.it/cronaca/2013/05/12/ news/il_palazzo_del_lavoro_cos_condannato-58601783/>, [consultato il 28 gennaio 2016].
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Ibid.
La stessa Chiorino si dimostra, per quanto pessimista nei confronti delle tristi condizioni in cui versa il Palazzo, favorevole ad un suo riuso pur di garantirne la manutenzione. Si dichiara, inoltre, favorevole all’interessamento di varie Università internazionali al caso del Palazzo di Nervi; affermava, in un’intervista del 2013: «Sto seguendo 50 studenti del Politecnico di Losanna che hanno dedicato un anno a redigere un progetto di restauro dell’edificio. Credo poi che il progetto per il Palazzo debba comunque andare avanti: dopo tanti andati in fumo, questo era l’unico che stava per concretizzarsi, fermarlo adesso sarebbe sbagliato. Auspico un compromesso per portarlo a termine, sperando ancora in un futuro migliore.»73 183
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SITUAZIONE ATTUALE 184
Il Palazzo del Lavoro risulta oggi un’opera che ha perso tutto ciò che era in grado di attribuirle, almeno in passato, un valore; addirittura il proprio nome74. Tale affermazione potrebbe, in realtà, essere estesa all’intero ex-comprensorio di Italia ’61: molti sono gli abitanti di Torino, in particolar modo appartenenti alle nuove generazioni, che non hanno alcuna idea effettiva della rilevanza storica assunta da questa zona di Torino. Pochi anni fa, nel 2011, è ricorso il centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia (e, di conseguenza, il cinquantenario dell’Esposizione): tuttavia, il Comune di Torino non ha indetto alcuna manifestazione che potesse celebrare i fasti dell’area, o anche soltanto ricordarne i momenti di gloria. I festeggiamenti si sono, invece, concentrati prevalentemente nel centro città, dove il tricolore spiccava nuovamente sospeso in ogni via (proprio com’era già avvenuto in occasione delle celebrazioni di Italia ’61). Le rare cerimonie verificatesi in ricordo dell’Esposizione Internazionale che tanto aveva emozionato i torinesi nel 1961 nascono spontaneamente, sotto forma di semplici raduni la cui pubblicità si basa quasi esclusivamente sul passaparola. L’interesse dei torinesi non si ferma, comunque, a semplici manifestazioni nostalgiche o alla condivisione di racconti e fotografie d’epoca: molti sono, anzi, i cittadini che si schierano in difesa di quest’area e della sua conservazione, oltre che della potenziale validità d’uso che essa potrebbe assumere per il quartiere in cui è situata. Il Parco Italia ’61 è, infatti, ogni giorno attraversato da moltissime persone che vivono o lavorano nelle vicinanze, a dimostrazione del fatto che quest’area, che parrebbe destinata unicamente ad uno sfruttamento carrabile, nasconde in sé la possibilità di un uso pedonale decisamente diffuso. Al fine di un riutilizzo di questa parte della città, dunque, è importante una collaborazione tra attori diversi, capace di incorporare le volontà sia dei cittadini più affezionati alla sua storia, sia degli esperti nell’ambito della riqualificazione del patrimonio.
Carlo Olmo, La vita difficile di Palazzo del Lavoro, in “Il Giornale dell’Architettura”, 28 settembre 2015.
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Nostalgia del grande evento
L’allestimento dell’esposizione internazionale del Lavoro a cura di Gio Ponti. ©PIERLUIGINERVI PROJECT.
L’opinione pubblica rispetto alla situazione attuale
3.1 Nostalgia del grande evento Come già affermato nei capitoli precedenti, la dilagante sensazione di esaltazione ed entusiasmo legata alle celebrazioni di Italia ’61 è stata uno degli aspetti più caratterizzanti dell’evento: Agnelli ha, infatti, voluto mostrare ai cittadini come gli sforzi del passato avrebbero dato vita all’utopistica e futuribile Torino degli anni a venire75. Il ricordo degli enormi pilastri fungiformi del Palazzo del Lavoro, che sorgono nell’attuale corso Unità d’Italia quasi senza preavviso, è ancora fisso nella mente di moltissimi tra i torinesi allora presenti. Proprio in virtù di questo sentimento nostalgico, svariate associazioni sono nate per ricordare i momenti dell’Esposizione, i cambiamenti messi in atto nell’assetto urbano in occasione dei festeggiamenti o più semplicemente le giornate trascorse in famiglia all’interno del comprensorio. La più significativa tra queste manifestazioni consiste sicuramente nell’istituzione del progetto “Io c’ero!”76, culminato, il 24 luglio 2011, in un grande raduno organizzato presso le Officine Grandi Riparazioni, al quale prendono parte centinaia di persone77. I “reduci” o “veterani” di Italia ’61 (come loro stessi amano definirsi) hanno potuto, in tale data, condividere i propri ricordi e le proprie impressioni salendo, ad uno ad uno, su di un palco. Molti di
Intervista a Giovanni Agnelli, in Italia ’61. Una festa di architetture straordinarie, “La Storia Siamo Noi”, RAI Cultura, 2011.
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<http://www.italia61.it/iocero.html>, [consultato il 3 maggio 2016].
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Letizia Tortello, Quelli che fecero Italia ’61. Una magnifica illusione, in “La Stampa”, 25 luglio 2011, <https:// www.lastampa.it/2011/07/25/cronaca/ appuntamenti/cultura/quelli-che-fecero-italia-una-magnifica-illusione-F8bbA79zxwoSgJqURQO7DO/pagina. html>[consultato il 3 maggio 2016].
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La manifestazione “Italia ’61 – Io c’ero!” (Archivio “Amici di Italia ‘61”, 24.07.2011).
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L’opinione pubblica rispetto alla situazione attuale
loro, addirittura, colgono l’occasione per portare ancora una volta le divise che avevano dovuto indossare durante l’Esposizione: hostess, ingegneri, carpentieri, giornalisti, impiegati, scolari convintisi, per qualche mese, di avere il privilegio di visitare una vera città del futuro. L’organizzazione Amici di Italia ’61, alla base di tale manifestazione, si rivolge anche alle aziende italiane nate negli anni dell’evento, che invita a raccontare la propria storia e la propria visione del futuro. Appare dunque evidente come, nell’animo di queste persone, quegli ideali promossi più di 50 anni fa siano ancora, e forse più che mai, vivi. La stessa associazione agisce in prima linea nella ricerca e nella raccolta di materiale riguardante il periodo del Centenario dell’Unità d’Italia78, che ha finora ottenuto grazie all’appoggio dell’Archivio e Centro Storico FIAT e di altre istituzioni torinesi. L’obiettivo di tale documentazione è, soprattutto, la condivisione, ma è spesso anche l’organizzazione di mostre fotografiche e di ulteriori commemorazioni (l’ultima nel 2009, in occasione della rassegna Torino vi chiama: Italia ’61, realizzata con il sostegno della circoscrizione IX del Comune di Torino.79
<http://www.italia61.it/iniziative. html> , [consultato il 3 maggio 2016].
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Ibid.
A colpire di più resta il fatto che, nonostante il lungo abbandono, essenzialmente tutti i partecipanti avrebbero auspicato un futuro di popolarità e successo non solo per il comprensorio, ma per la città intera, come apprendiamo da alcune testimonianze raccolte proprio in occasione del raduno “Io c’ero!”. Il signor Piero D’Alessandro, collezio-
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L’opinione pubblica rispetto alla situazione attuale
Un gruppo di hostess all’interno del comprensorio Italia ’61 (Archivio “Amici di Italia ‘61”, a cura di Mario Abrate, 1961). 190
L’opinione pubblica rispetto alla situazione attuale
nista di cimeli e presidente del gruppo, ricorda: «La festa del Centenario segnò la mia vita di bimbo di 5 anni. […] Vedevo al Parco Ruffini, quasi dalle finestre di casa mia, tutti i grandi campioni sportivi. La città era addobbata a festa, fotografata da tutti i giornali e visitata dalle maggiori personalità politiche italiane e straniere»80. Un’altra tra le più entusiaste sostenitrici del progetto è Marisa Stratta, ex-hostess, categoria tra le più diffuse durante l’Esposizione, che diede lavoro a molte giovanissime ragazze attirate da quell’appellativo che tanto ricordava le assistenti di volo. Anche lei afferma: «Eravamo ammirate, sì, ma la nostra presenza era assai diversa da quella delle giovani di oggi. […] Diplomate in lingue, volevamo diventare assistenti di volo. La Torino dell’epoca sembrava una el dorado in cui i sogni non avrebbero fatto fatica a realizzarsi»81. La maggior parte di questi “veterani”, come riportato in numerosissime interviste e, ancor più spesso, pubblicato dai diretti interessati sul sito internet dell’associazione, auspica un riutilizzo dei grandi edifici protagonisti di Italia ’61. Trattasi di voci poco inclini alla critica, quanto piuttosto favorevoli ad una rivitalizzazione “ad ogni costo” di quelle strutture così impressionanti, che pur senza snaturarle completamente ne possa trasmettere la memoria anche alle generazioni a venire.
Letizia Tortello, Quelli che fecero Italia ’61. Una magnifica illusione, in “La Stampa”, 25 luglio 2011, <https:// www.lastampa.it/2011/07/25/cronaca/ appuntamenti/cultura/quelli-che-fecero-italia-una-magnifica-illusione-F8bbA79zxwoSgJqURQO7DO/pagina. html>[consultato il 3 maggio 2016].
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Ibid.
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Polemiche e petizioni popolari
192 La parte danneggiata dallâ&#x20AC;&#x2122;incendio del Palazzo del Lavoro (fotografia delle candidate, 06.11.2015.
L’opinione pubblica rispetto alla situazione attuale
3.2 Polemiche e petizioni popolari Molte sono le preoccupazioni dovute all’apprensione dei nostalgici di Italia ’61 e non solo. Nonostante il loro minore impatto politico, tali rimostranze si rivelano, infatti, particolarmente diffuse tra i cittadini che, in quanto residenti nei dintorni dell’edificio o anche solo semplici affezionati del Parco Italia ‘61, si oppongono ad una caratteristica peculiare del progetto di Rolla: i parcheggi sotterranei, che imporrebbero lo sradicamento di grandissima parte degli alberi situati nelle zone antistanti il Palazzo. Trattasi, in effetti, di piante addirittura “etichettate” (nel senso più pratico del termine) come “alberi donati da cittadini che amano il verde”. Sono soprattutto Legambiente e l’associazione Pro Natura Torino a portare avanti questa battaglia, che raffigura in modo fortemente spiccato il sentimento di riappropriazione avvertito da buona parte della popolazione82; i cittadini sostengono con forza che il verde del parco non sia da leggersi come “verde casuale”, così come riportato dalla variante, ma come verde pensato con cura prima dell’Esposizione stessa. Per queste associazioni, ciò significherebbe ripetere un errore già commesso in occasione delle Olimpiadi Invernali del 2006 quando, per fare spazio ad un parcheggio destinato ai giornalisti accolti negli ex
<http://torino.pro-natura.it/index. php?c=dettaglio-notizia&id=139> [consultato il 3 maggio 2016].
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Lâ&#x20AC;&#x2122;opinione pubblica rispetto alla situazione attuale
Lâ&#x20AC;&#x2122;area alberata esterna al Palazzo del Lavoro (fotografia delle candidate, 06.11.2015)
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Padiglioni delle Regioni, si guastò in modo irreversibile la parte del Parco Italia ’61 situata sull’altro lato di corso Unità d’Italia, precisamente la parte corrispondente al cosiddetto Giardino Giuseppe Levi. La cittadinanza risulta, inoltre, particolarmente sensibile al tema in questione anche a causa del recente programma di parcheggi pertinenziali approvato dal Consiglio Comunale in sostituzione di aree verdi alberate (tra i più impopolari quello previsto per corso Marconi o, ancora, quello realizzato in via Chambery). Ad essere criticato è, in particolare, l’impianto di verde su soletta spesso ricavato a scapito di quello in piena terra. Gli ambientalisti più convinti ne auspicano persino un censimento al fine di redigere una sorta di “bilancio” sugli effetti di questo fenomeno dilagante (tra cui spiccano gli elevati costi di manutenzione). Tale convinzione porta spesso, come è possibile dedurre dai vari documenti promulgati dalle associazioni interessate, ad una opposizione generalizzata nei confronti dei nuovi interventi di rigenerazione urbana a livello cittadino, che finiscono per essere accusati di “lasciare il verde come ultimo aspetto del progetto”83. Si ritiene, inoltre, che l’amministrazione torinese non tenga sufficientemente conto della Legge n.10 del 14 gennaio 2013, denominata Norme per lo sviluppo degli spazi verdi urbani, finalizzata proprio alla tutela ed all’incremento delle aree verdi (o anche solo semplicemente alberate) su territorio urbano. Diffidando degli amministratori comunali, quindi, Pro
<http://torino.pro-natura.it/index. php?c=dettaglio-notizia&id=139> [consultato il 3 maggio 2016].
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Progetto di riqualificazione del Palazzo del Lavoro, vista render comprensiva del progetto relativo al verde sostitutivo su soletta, Torino, Studio Rolla, 2010. 196
L’opinione pubblica rispetto alla situazione attuale
Natura Torino finisce per rivolgersi più direttamente al Consiglio della Nona Circoscrizione al fine di porre freno a questo irreparabile disastro ambientale. Il Consiglio, durante una seduta pubblica del 10 marzo 201184, esprime parere contrario al Permesso di Costruire Convenzionato previsto per il lotto comprendente il Palazzo del Lavoro. Le motivazioni di tale scelta vengono elencate con minuzia nel relativo documento, e riguardano primariamente l’eccessiva densità degli insediamenti commerciali di medio-grande dimensione già presenti nell’area sud-est della città (ed in particolare nella Circoscrizione IX) e le notevoli problematiche relative alla viabilità legate alla presenza della rotonda Maroncelli (destinate, con tutta probabilità a crescere ulteriormente con l’insediamento del nuovo grattacielo della Regione, il potenziamento della stazione del Lingotto e la creazione di un grande parcheggio di interscambio in piazza Bengasi, dove presto sorgerà anche una nuova fermata della metropolitana). Tra le cause della decisione presa viene enumerato poi anche l’impoverimento del patrimonio arboreo del quartiere, consistente soprattutto nella zona di progetto in alberi d’altro fusto la cui eventuale compensazione sul territorio rimane, ad oggi, indeterminata. Il documento si conclude, infine, con una sentita richiesta: quella di inserire, in corrispondenza di un edificio che ha a tal punto segnato l’evoluzione di una città e di un’area urbana, anche spazi adibiti all’aggregazione ed all’attività delle associazioni di quartiere, tutt’oggi molto vive.
Circoscrizione Amministrativa ) Nizza Millefonti – Lingotto – Filadelfia, Città di Torino. Provvedimento del Consiglio della Circoscrizione 9, Doc. N. 27/201110 marzo 2011.
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Progetto di riqualificazione del Palazzo del Lavoro, vista render interna, Torino, Studio Rolla, 2010.
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L’aspetto più interessante di queste proteste risiede nel loro non limitarsi alle lamentele per la mancata attenzione a determinati aspetti, ma nel dimostrare anche un’inclinazione propositiva: si richiede, ad esempio, l’incremento dei collegamenti pedonali con l’antistante Parco Fluviale del Po, situato al di là di corso Unità d’Italia. Viene, inoltre, richiesto un ridisegno attento di alcune parti della zona, come la rotonda di corso Maroncelli85. Non ultimo, come già affermato, uno tra gli aspetti più coinvolgenti di queste lotte consiste nel ricordo più o meno chiaro che molti conservano dell’area durante le celebrazioni di Italia ‘61 e che tengono a riaffermare proprio in un momento difficile come quello attuale.
Maria Teresa Roli, Antonella Visintin, Emilio Soave, Esiste un futuro sostenibile per il Palazzo del Lavoro ed il Parco Italia 61?, in “Eco dalle Città”, 23 agosto 2011.
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Interviste: tre diversi punti di vista
200 Il degrado allâ&#x20AC;&#x2122;interno del Palazzo del Lavoro (fotografia delle candidate, 17.03.2016).
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3.3 Interviste: tre diversi punti di vista Preso in considerazione il complesso insieme di eventi che hanno interessato il Palazzo del Lavoro dalla sua nascita fino agli anni recenti, e che lo hanno quindi condotto al suo progressivo stato di degrado, risulta necessario fare un bilancio delle opinioni esposte a riguardo da diversi attori. Tali pareri, infatti, non sempre sono risultati concordi con una visione nostalgica e malinconica del contesto in cui il Palazzo è inserito. Spesso, ad esempio, gli appelli lanciati non rispondevano a serie questioni economiche che risultano l’aspetto più realistico di cui tenere conto nell’ambito di una trasformazione architettonica ed urbana di queste dimensioni. In altri casi, invece, erano i sostenitori del nuovo centro commerciale a non porre l’accento su importanti aspetti costruttivi e storici del fabbricato, ignorando che alcune caratteristiche dell’edificio non sarebbero risultate conformi alle modifiche preventivate. Indecise su quale tesi condividere, abbiamo preferito effettuare un’ulteriore analisi preventiva alla fase di progettazione, interrogando tre figure, rappresentanti modi diversi di guardare alla questione. I soggetti intervistati sono: Alberto Bologna, professore ordinario di composizione architettonica presso il Poli-
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Lâ&#x20AC;&#x2122;opinione pubblica rispetto alla situazione attuale
Un pilastro del Palazzo del Lavoro (fotografia delle candidate, 17.03.2016).
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tecnico di Torino e l’Università degli Studi di Genova (e, precedentemente, presso l’École Polytechnique Fédérale de Lausanne), oltre che autore di numerose pubblicazioni riguardanti l’opera di Pier Luigi Nervi; Marina Paglieri, giornalista de “La Repubblica” che si occupa da anni di architettura ed arte all’interno dell’ambiente torinese e non solo, ma che soprattutto si è interessata profondamente al caso del Palazzo del Lavoro scrivendo vari articoli al riguardo, effettuando anche reportage fotografici e realizzando interviste, tra cui anche quella a Cristiana Chiorino; e, infine, l’autore del progetto attualmente approvato per l’interno del Palazzo del Lavoro, l’architetto torinese Alberto Rolla, che a capo dello Studio Rolla srl ha, negli ultimi anni, segnato con i suoi lavori la scena torinese, progettando alcuni tra gli interventi di maggiore dimensione dell’area (ne è un esempio il nuovo Juventus Stadium, che si affianca alla riqualificazione di vaste aree urbane cosparse su tutto il territorio cittadino).
Riportiamo, di seguito, le domande dell’intervista, accompagnate da un breve resoconto delle risposte ottenute; è da considerarsi il fatto che, in tutte e tre le interviste, la conversazione è divagata fin da subito non permettendo un’impostazione domanda-risposta immediata. Per questo motivo, tenteremo di riportare quelle che sono state le notizie e le sensazioni che più ci sono rimaste impresse ad ogni intervista.
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Intervista sul Palazzo del Lavoro Dinamiche, Destino, Possibilità Il Palazzo del Lavoro, vincolato dalle Belle Arti a partire dal 2011, è stato oggetto di innumerevoli tentativi volti a trovare una nuova funzione che ben si adattasse alle necessità economiche e formali dell’edificio stesso e del quartiere che lo ospita. Dagli uffici del BIT e della Regione alle aule scolastiche dell’Università di Torino, fino ad arrivare addirittura all’inserimento di una discoteca. Molti anche i progetti mai realizzati, come quello per impianti sportivi pubblici negli anni 70, fino all’idea di Science Centre proposta da Politecnico di Torino, sotto la guida di Aimaro Isola; ad ultimo, il progetto di realizzazione di un centro commerciale: bloccato anche questo tramite denuncia al TAR, a seguito delle rimostranze avanzate dal vicino 8Gallery. Tutto è rimasto fermo fino all’incendio dello scorso 20 agosto. La situazione è stata riportata così all’attenzione dei media, delle autorità e della cittadinanza. Tra i nostalgici che urlano allo scandalo, gli stakeholders che spingono per affrettare una soluzione e l’indifferenza generale di parte della cittadinanza, Le chiediamo: - Qual è, a suo giudizio, il futuro più probabile per il Palazzo del Lavoro e quale, tra la prospettiva di realizzazione di un centro commerciale e l’inserimento di un centro culturale polivalente, giudica la migliore (o la “meno peggio”)?
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L’opinione pubblica rispetto alla situazione attuale
- Crede sia sconsiderato aggiungere alla congestione dell’area, già sovraccarica dei flussi legati a nuove polarità (raddoppio di Eataly, grattacielo della Regione, Lingotto), un nuovo centro commerciale? - Quale caratteristica dominante potrebbe eventualmente differenziarlo dagli altri vicini? - Data la singolarità del Palazzo del Lavoro, quali ritiene essere gli aspetti architettonici sui quali rimanere più intransigenti? - Il Palazzo del Lavoro nasce come edificio contenitore di altre funzioni, ma ad oggi è stato impossibile trovarne una adeguata e definitiva. A suo avviso, quali particolari criticità dell’edificio possono averlo impedito? - Pensa sia importante per il Palazzo di Nervi mantenere la propria individualità, indipendentemente dalla funzione inserita al suo interno? - L’utilizzo dei diversi fabbricati realizzati per l’Esposizione Universale si è rivelato frammentario già a partire dagli anni immediatamente successivi al 1961. Ritiene che sia rischioso mantenere l’originario disegno d’insieme oppure la conformazione, al tempo iper innovativa, del Parco Italia ’61 potrebbe restituire al quartiere una forte identità (forse) oggi dimenticata?
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Alberto Bologna (18 novembre 2015) Ciò che è emerso dall’incontro con il Professor Bologna è come l’abbandono del Palazzo del Lavoro fosse un evento già prevedibile ben prima della fine delle celebrazioni per l’Esposizione; lo stesso Giovanni Michelucci, membro della commissione che approvò il progetto di Nervi, preferendolo agli altri in gara, definì già allora tale progetto come una vera e propria follia, affermando ironicamente che, una volta terminato l’evento, se ne sarebbe potuto fare soltanto un museo di dinosauri. Oggi rimane ancora difficile attribuirvi un uso che si riveli adeguato alle sue proporzioni smisurate. Come avevamo già constatato, ci è stato riconfermato che, se il Palazzo continuerà ad essere trattato in modo così avvilente, sarà in futuro ancora più difficoltoso recuperarlo. L’incendio appiccato la scorsa estate, ad esempio, ha colpito i solai nervati sovrastanti il portico perimetrale, ossia una delle parti di maggior valore dell’edificio: da ciò possiamo anche comprendere come chi ha appiccato il fuoco, probabilmente, fosse consapevole di andare ad intaccare una delle zone più fragili della struttura. Alla domanda su quale potrebbe essere, a suo parere, il futuro più probabile per il Palazzo, il professore risponde che, in questa circostanza, a meno che, come in altri casi ben più fortunati, non si trovi un privato disposto a conservarlo così com’è inserendoci magari la propria galleria d’arte, l’opzione del centro commerciale non sarebbe da
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L’opinione pubblica rispetto alla situazione attuale
considerarsi eccessivamente negativa, sebbene in questa zona della città risulti inutile. Inoltre, sarebbe bene che non si trattasse di un edificio che chiude ad una certa ora della sera: esistono esempi di riqualificazione importanti, come il Guggenheim di Bilbao, che attirano visitatori anche dopo l’ora di chiusura della funzione ad essi attribuita (con la differenza che, a Bilbao, è stato necessario costruirlo un edificio iconico, mentre qui noi ce l’avremmo già a disposizione). L’intervista ci è stata poi molto utile al fine di approfondire la figura di Nervi, riguardo alla quale il professore è un grande esperto. Ci sono quindi stati descritti alcuni ingegnosi metodi costruttivi utilizzati dall’ingegnere nell’edificazione del Palazzo, relativamente ai quali avevamo fino ad allora trovato poche informazioni sui libri: ne è un esempio il solaio del piano sotterraneo, per la cui creazione venne utilizzata una tecnologia militare americana, quella del vacuum concrete, consistente nel porre il calcestruzzo stesso a contatto con una sorgente di depressione che sottragga in modo rapido all’impasto la quantità di acqua in eccesso. Allo stesso modo, ci è stata fatta notare ancora una volta l’importanza del solaio isostatico realizzato, un’applicazione elegantissima per quanto risulta sottile e di raro utilizzo nel resto del mondo. Il prof. Bologna ci ha inoltre confermato la presenza di pali franchi annegati al di sotto del pavimento del Palazzo (prima di marmo, ora reso irrecuperabile tramite una colata di cemento che potesse contenere i tubi degli impianti). Tali elementi
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L’opinione pubblica rispetto alla situazione attuale
andrebbero evidenziati e messi in mostra il più possibile, poiché rappresentano una delle ragioni dell’unicità di questo edificio.
Marina Paglieri (5 gennaio 2016) Ci siamo rivolte alla giornalista per avere un punto di vista da “semplice osservatore”, che si potesse considerare rappresentativo dell’opinione più generica dei cittadini non inseriti a pieno titolo nel settore dell’architettura. Anche in questa occasione, abbiamo potuto riscontrare una certa disposizione ad accettare l’inserimento di un centro commerciale nell’edificio, purché esso fosse restituito ad uso collettivo e strappato all’abbandono (alla domanda su cosa l’avesse colpita una volta entrata nel Palazzo per realizzare uno dei suoi servizi, ha infatti risposto che a sconvolgere ancor più degli immensi pilastri è ormai il degrado dilagante; nemmeno le aggiunte successive al 1961 appaiono, a chi visita il Palazzo, di un valore tale da confrontarsi con quello dell’edificio). Un esempio dignitosissimo di riuso citato, in questo caso, quasi come ispirazione d’idee è poi stato quello della già citata Casa Ugi, ex stazione della monorotaia oggi trasformata in abitazione temporanea per i genitori dei piccoli malati oncologici del vicino Ospedale Le Molinette. La giornalista ci ha anche raccontato di essere stata mediatrice di un incontro tra l’architetto Rolla ed il dottor Ponchia, durante il quale
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entrambi avevano confermato il loro impegno nell’approcciarsi al Palazzo del Lavoro nel modo più rispettoso possibile. Alla richiesta di ulteriori chiarimenti riguardo alle petizioni cittadine in difesa del verde, poi, la Paglieri ha affermato che, in realtà, la protezione e, anzi, la cura del (poco) verde pubblico già presente nell’area non sarebbe da disdegnare, ma rappresenterebbe anzi un atto di grande rispetto nei confronti degli abitanti della zona circostante, fortemente improntata al traffico di auto.
Alberto Rolla (27 novembre 2015) A differenza delle due precedentemente descritte, l’intervista ad Alberto Rolla si è svolta non tanto come una conversazione quanto come un racconto di come sia nato il progetto di rinnovo a centro commerciale e di quante e quali complicazioni abbia caratterizzato il periodo della pianificazione. Egli ha tentato fin da subito di renderci più chiara la situazione economica di partenza, esprimendoci come, comunque, ogni sua scelta progettuale sia stata estremamente influenzata dal tipo di cliente con cui ci si andava a confrontare. Molte sono state le funzioni ipotizzate prima di arrivare a concentrarsi su quella commerciale: quella di centro congressi, quella di nuova sezione aggiunta per il centro Città della Salute, addirittura quella residenziale. L’architetto ha tenuto particolarmente ad evidenziare come i costi di acquisizione e di successivo re-
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L’opinione pubblica rispetto alla situazione attuale
stauro si presentassero estremamente elevati. Un compito così complesso come quello di “fare un progetto dentro ad un progetto”: per gestire la complessità di tali circostanze, Rolla ha infine descritto un metodo da lui stesso elaborato per mantenere chiarezza nella relazione tra i vari soggetti in campo (sovrintendenza, proprietari del lotto, Comune, e così via); l’approccio migliore che l’architetto possa fornire consiste, in questo caso, nel saper “tenere insieme tutti i fili”, gestendo i rapporti tra le varie parti e non tralasciando mai le esigenze né della proprietà né dell’utente finale.
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Queste interviste non hanno l’obiettivo di rintracciare una strada “più giusta di altre”, che ci potesse condurre ad un progetto dignitoso e assennato. La loro effettiva utilità è risultata, invece, quella di averci comunicato i differenti punti di vista esistenti all’interno dell’ambiente torinese: ci interessava, infatti, comprendere appieno quali fossero le vere motivazioni che spingono progettisti, professori universitari, ambientalisti, esperti e non esperti a confrontarsi sulla tematica del riuso di un oggetto architettonico simile, unico nel suo genere. Abbiamo tentato di acquisire, per qualche minuto, l’occhio dell’architetto ed esperto di storia, della redattrice di cronaca cittadina, del progettista a conoscenza delle reali richieste del committente: i diversi atteggiamenti riportati, talvolta contrastanti tra loro, talvolta meno di quanto ci si potesse aspettare, si vanno dunque ad aggiungere alle visione nostalgiche viste in precedenza. Questo insieme di pareri ci offre, dunque, un quadro completo delle varie modalità con cui l’ex-comprensorio di Italia ’61 e, nello specifico, il Palazzo del Lavoro, sono percepiti nell’immaginario della collettività torinese e, soprattutto, come quest’ultima reagirebbe ad una sua eventuale trasformazione in centro commerciale.
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PARTE 1II PARTE 1II
Un progetto di riuso per il Palazzo del Lavoro
ANALISI URBANA
L’area che circonda il Palazzo del Lavoro è l’esito di un’urbanistica frammentaria. La sua attuale conformazione è caratterizzata da una discontinuità di volumi: l’assetto regolare di edifici a corte (tipicamente torinese) si estende infatti solo fino all’affaccio su via Ventimiglia, per poi disperdersi in direzione del fiume Po. La fascia comprendente il Palazzo di Nervi ed il Parco Italia ’61 costituisce quindi una barriera tra le due realtà contrapposte: a Ovest del Palazzo l’impostazione rigorosa del quartiere Nizza Millefonti e a Est quella più libera del parco fluviale. Contribuisce a sottolineare questa separazione anche la viabilità dell’area, contraddistinta da assi stradali particolarmente trafficati, oltrepassabili tramite passaggi sopraelevati o attraversamenti pedonali spesso ignorati dagli automobilisti. Il nodo più problematico è rappresentato dalla rotonda Maroncelli, data la sua posizione di confine tra il comune di Torino e quello di Moncalieri. Il limite tra le due città è segnato da spazi privi di un’identità definita, utilizzati a parcheggio o lasciati a verde, mentre le zone residue che affiancano corso Unità d’Italia e l’innesto della tangenziale sono occupate da attività raggiungibili perlopiù in auto (alcuni concessionari, gli uffici degli enti autostradali, la sede dell’acquedotto e gli uffici per l’autorità di Controllo del Bacino). Gli edifici residenziali qui presenti, pur mantenendo un’altezza simile al fronte compatto di via Ventimiglia, compongono isolati meno regolari. Si può notare, inoltre, la mancanza di un rapporto organico tra gli insediamenti ed i servizi, quantitativamente insufficienti a soddisfare le esigenze degli abitanti. Una potenziale risorsa per la rivalutazione dell’area potrebbe invece essere costituita dalle vaste aree verdi, la cui fruibilità è però ostacolata anch’essa dall’intenso traffico carrabile. 215 215
Analisi urbana
SS
_Accenno di pista ciclabile _Parco fluviale adiacente _Grande valore storico ed architettonico _Area di accesso alla città, periferica ma comunque inserita nel contesto metropolitano _Vicinanza con zona densamente abitata e aziende _Varietà di frequentatori a seconda degli orari (escluse le ore notturne) _Vicinanza a scuole di diverso grado
O O
_Riconoscimento da parte della popolazione del valore dell’edificio (es. petizioni) _Vegetazione molto sviluppata _Possibilità di collegamento con il parco fluviale che collega la città da Nord a Sud _Incremento nelle attività legate all’istruzione _Sfruttamento dei passaggi sopraelevati esistenti e loro eventuale incremento
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W W
Analisi urbana
_Adiacenza ad arteria stradale molto trafficata ed a un incrocio urbanisticamente mal congeniato _Presenza di commerci solo di prima necessità nelle immediate vicinanze _Fronte Est: assetto urbano studiato esclusivamente per il passaggio di auto _Scarsa praticabilità pedonale e ciclabile _Cesura nei collegamenti tra il quartiere e il parco fluviale _Totale assenza di attività nelle ore notturne _Facile sviluppo di attività illecite _Lontananza da area idonea a parcheggio
TT
_Mancato riconoscimento del valore culturale ed economico dell’area da parte dell’autorità e di parte dei cittadini _Gravi atti di vandalismo subiti _Cattiva sorveglianza _Danni dovuti all’abbandono _Attuale utilizzo frammentario dell’area (in origine progetto unitario) _Disuso anche degli altri fabbricati “Italia ‘61” circostanti _Difficoltà nel restituire una nuova identità all’area, parallelamente a quella storica 217
Influenza di altri centri commerciali vicini
fotografie candidate 6 ottobre 2015(fonte:Wikipedia). Esterno deldelle centro commerciale 8gallery
Analisi urbana
1.1 Influenza di altri centri commerciali vicini Recentemente è stata proposta una possibile riqualificazione dell’area, nell’ottica del Piano Strategico del 2015, “Torino Metropoli 2025”, che prevede il riuso non solo del Palazzo del Lavoro, ma anche di altri edifici torinesi dismessi (dall’ex stabilimento Westinghouse alle acciaierie Thyssen, dalla vecchia Manifattura Tabacchi allo scalo dismesso in Vanchiglia, dalle Officine Grandi Motori fino alle aree liberate dalla FIAT a Mirafiori), al fine di creare una qualità urbana diffusa e migliorare anche lo spazio circostante tali strutture tramite la dotazione di nuove infrastrutture e servizi, fondamentali soprattutto in ambiti periferici e suburbani1. L’ex assessore all’urbanistica Stefano Lo Russo afferma, ad aprile 2015: «Innovazione, conoscenza e cultura sono gli assi attorno ai quali si deve muovere la politica»2,
«Per promuovere sviluppo economico è necessario selezionare, ripensare e riprogettare a scala metropolitana spazi e luoghi urbani adatti alle sfide delle nuove economie e alla creazione di una diffusa qualità urbana» in Torino Metropoli 2025. Il terzo Piano Strategico dell’area metropolitana di Torino, Torino, Torino Internazionale, 2015, p. 115-117. 1
2 Maria Chiara Voci, Torino, il nuovo piano strategico punta sulle aree dismesse, in “Il Sole 24 ore – Edilizia e territorio”, 24 aprile 2015, < http:// www.ediliziaeterritorio.ilsole24ore. com/art/citta/2015-04-24/torino-nuovo-piano-strategico-142124.php?uuid=Ab99mXoL > [consultato il 28 gennaio 2016].
sostenendo anche l’importanza di una progettazione più vicina alle esigenze dei cittadini; negli anni passati, infatti, i numerosi contenitori vuoti presenti in città sono stati spesso messi sul mercato sperando nell’interesse di qualche investitore: oggi risulta invece necessario inserire queste singole architetture in un processo di trasformazione urbanistica e socio economica più ampio, tenendo
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Ibid.
Guido Montanari, Memoria e genius loci. Il caso di Torino da città fabbrica a “città degli eventi”, in “Nuvole”, n. 47, 31 marzo 2015, p. 32.
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Come affermato da Marco Aimetti, ex Presidente dell’Ordine degli Architetti di Torino, in Maria Chiara Voci, Torino, il nuovo piano strategico punta sulle aree dismesse, in “Il Sole 24 ore – Edilizia e territorio”, 24 aprile 2015, < http://www.ediliziaeterritorio. ilsole24ore.com/art/citta/2015-04-24/ torino-nuovo-piano-strategico-142124. php?uuid=Ab99mXoL> [consultato il 28 gennaio 2016].
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6 Rebecca Anversa, Palazzo del Lavoro. Il NO dei residenti, in “Metronews”, 17 aprile 2016, < http://www.metronews.it/16/04/17/palazzo-del-lavoro-il-no-dei-residenti.html> [consultato il 24 maggio 2016]; si vedano anche le opinioni degli abitanti della Circoscrizione 9 in Circoscrizione Amministrativa Nizza Millefonti – Lingotto – Filadelfia, Città di Torino. Provvedimento del Consiglio della Circoscrizione 9, Doc. N. 27/201110 marzo 2011.
conto che la nuova destinazione d’uso di un edificio deve essere anche il risultato di un disegno complessivo della città e non essere imposta dal mercato3. La progettazione di questi spazi deve dunque rispondere agli interessi di tutti, ma soprattutto essere programmata in modo coerente e non frammentato; l’obiettivo principale è la ridefinizione di aree la cui memoria storica va recuperata e resa fruibile da parte dei cittadini, in controtendenza con la lontananza tra popolazione e amministrazione generatasi negli ultimi anni, in cui il progetto urbano era legato per lo più ai grandi operatori4. È fondamentale, al fine di evitare ulteriori operazioni destinate ad interrompersi (come già avvenuto in passato)5, che la cittadinanza sia non solo informata a mano a mano che il processo prosegue, ma che ne prenda parte in modo attivo. Sono infatti proprio i cittadini a creare, dal basso, le condizioni per mettere sul tavolo proposte concrete e sostenibili, al fine di rivitalizzare ciò che è rimasto inutilizzato per anni. L’inserimento di uno shopping mall all’interno del Palazzo del Lavoro è stato più volte messo in discussione dalla cittadinanza6 sia per la presenza di numerosi altri centri commerciali nell’area torinese, sia per la concorrenza con i negozi di quartiere esistenti. La nostra indagine prende in analisi parchi commerciali esistenti ed in progetto, dotati di una superficie di vendita superiore ai 10.000 metri quadrati, anche all’interno della
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cintura torinese, fino a raggiungere una distanza massima dal Palazzo del Lavoro di 35 km (considerando la distanza effettiva e non in linea d’aria). Li abbiamo catalogati non solo in base alla distanza, ma anche alla tipologia di attività offerte: vendita di beni non alimentari, vendita di beni alimentari, somministrazione di alimenti e attività parallele ai negozi (ad esempio cinema multisala). Risulta evidente la prevalenza di agglomerati commerciali di grandi dimensioni, di cui ben otto collocati entro un raggio di 10 km dall’area in oggetto. È rilevante, soprattutto, la presenza dell’8gallery del Lingotto, anch’essa derivata da un progetto di rifunzionalizzazione e valorizzazione immobiliare di grande portata, che si situa ad una distanza inferiore ai 2 km: proprio questa è la motivazione che ha condotto al ricorso al TAR da parte della società 8gallery ed ai diversi ritardi nell’avvio del cantiere7. Il centro commerciale del Palazzo del Lavoro, per sussistere, deve quindi differenziarsi rispetto al tipo shopping mall diffuso nelle sue vicinanze, modello alla base di tutti i casi elencati. Inoltre, la maggior parte dei centri commerciali riportati fa riferimento ad un’azione attrattiva legata alla prossimità con gli svincoli di tangenziale ed autostrada; un eventuale centro all’interno del Palazzo necessita di connotarsi in modo diverso, in quanto collocato in un’area a prevalenza residenziale. Soprattutto, come richiesto dalla circoscrizione8, deve distinguersi per la particolare predisposizione all’uso da parte della comunità di quartie-
Riccardo Bedrone, Lingotto e Palazzo del Lavoro: si usano due pesi e due misure, in “La Repubblica”, 24 giugno 2012, < http://ricerca. repubblica.it/repubblica/archivio/ repubblica/2012/06/24/lingotto-palazzo-del-lavoro-si-usano-due.html> [consultato il 16 maggio 2016]; Beppe Minello, Andrea Rossi, Il nuovo Palazzo del lavoro fermato dai giudici del TAR, in “La Stampa”, 16 giugno 2012, <https://www.lastampa.it/2012/06/16/ cronaca/il-nuovo-palazzo-del-lavorofermato-dai-giudici-del-tar-dlTFRgToD32MCzzdssoCRK/pagina.html> [consultato il 16 maggio 2016].
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Circoscrizione Amministrativa Nizza Millefonti – Lingotto – Filadelfia, Città di Torino. Provvedimento del Consiglio della Circoscrizione 9, Doc. N. 27/201110 marzo 2011.
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re, che ne reclama tuttora a gran voce il valore storico ed architettonico. L’unione di attività completamente diverse non dovrà comunque costituire un ostacolo al riuso dell’edificio, ma anzi identificarsi come aspetto trainante dell’intervento. Il Palazzo ha infatti l’occasione di caratterizzarsi come un “ibrido” non solo a livello funzionale, ma anche in base alle differenti fasce di utenza. I cittadini avranno così modo di trovare, all’interno di un unico grande complesso, attività molto diverse tra loro: dal luogo per fare acquisti allo spazio di aggregazione, senza dimenticare la possibilità di accrescere la propria conoscenza della storia cittadina e dell’architettura torinese.
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Istogramma relativo ai centri commerciali presenti entro un raggio di 50 m dal Palazzo del Lavoro che presentano un bacino dâ&#x20AC;&#x2122;utenza simile a quello previsto per la sua eventuale trasformazione in mall (elaborazione delle candidate). 223
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Mappa dei centri commerciali con raggi di distanza dal Palazzo del Lavoro (elaborazione delle candidate). 224
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Fotografie relative al grafico precedente (fonte: web).
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ViabilitĂ carrabile, pedonale e ciclabile
Area carrabile di fronte al Palazzo del Lavoro (fotografia delle candidate, 26.10.2015).
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1.2 Viabilità carrabile, pedonale e ciclabile La viabilità dell’area è uno degli aspetti che più sono stati discussi nell’ambito della riqualificazione del Palazzo del Lavoro. La rotonda Maroncelli, antistante l’edificio, rappresenta infatti un punto nevralgico per l’accesso in città da Sud, raccogliendo il traffico veicolare proveniente dal raccordo autostradale della Torino-Piacenza e della Torino-Savona. Tale flusso di lunga percorrenza è poi particolarmente utilizzato dai pendolari per i quali la tangenziale Sud evita l’ingresso ancor più trafficato attraverso il comune di Moncalieri. Le due principali vie d’accesso alla città, corso Unità d’Italia e corso Maroncelli, si dimostrano poi più scorrevoli una volta superato l’ostacolo della rotonda. Corso Unità d’Italia prosegue l’asse di corso Trieste verso il centro cittadino, affiancando il lungo Po fino a raggiungere corso Massimo D’Azeglio, mentre corso Maroncelli diviene poi corso Traiano e scorre sul confine Sud della città per terminare in corrispondenza dell’ex area industriale FIAT Mirafiori. Queste vie d’accesso risultano poi affollate anche a causa dell’esistenza di un’unica arteria proveniente da Chieri, per la presenza della collina Torinese e del fiume Po; anche i flussi provenienti dalla provincia di Asti e da quella di Cuneo vengono quindi incanalati nella tangenziale e, in seguito, in corso Unità d’Italia.
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Intensità del traffico veicolare medio registrato lunedì alle ore 7.00
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Intensità del traffico veicolare medio registrato mercoledì alle ore 12.00
Intensità del traffico veicolare medio registrato venerdì alle ore 19.00
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Essendo legato ad una mobilità soprattutto di pendolari, il traffico che si riversa sulla rotonda Maroncelli si concentra in alcune ore critiche, ovvero tra le 7 e le 9 del mattino e le 17 e le 19 della sera. Appare chiaro come l’accumulo di questi flussi abbia reso la zona circostante per lo più adatta ad un passaggio carrabile, riducendo notevolmente le possibilità di attraversamento pedonale e ciclabile che risultano tuttora relegate all’uso di passerelle: una in corrispondenza della Scuola di Amministrazione Aziendale (dove la ciclopista attraversa corso Unità d’Italia per proseguire nelle vicinanze del Palavela); l’altra collocata all’altezza del laghetto (intorno al quale si esaurisce il percorso ciclabile del parco fluviale) e, sull’altro lato della carreggiata, del BIT. Nonostante la creazione di questi sovrappassi puntasse alla riduzione di inquinamento acustico ed atmosferico9, nessun effetto simile è stato purtroppo registrato; i transiti veicolari in ingresso ed uscita dalla città continuano anzi a dimostrare una certa criticità10: l’orientamento generale va verso un ridisegno complessivo delle infrastrutture e dei servizi di trasporto pubblico. In quest’ottica sono stati avviati i lavori per la metropolitana che raggiungerà la vicina piazza Bengasi, che dovrebbero concludersi entro la primavera del 201811, mentre per la rotonda Maroncelli è stato previsto un sottopasso, il cui progetto è stato approvato dalla Giunta Comunale il 26 maggio 201612. L’intento è quello di separare i due flussi di traffico che si snodano
«Il progetto delle passerelle ciclo-pedonali su corso Unità d’Italia […] rientrava ella politica di salvaguardia ambientale e territoriale intrapresa dalla città di Torino al fine di realizzare adeguati servizi ed infrastrutture per agevolare la viabilità ed allo stesso tempo tutelare la mobilità ciclopedonale, così da ridurre conseguentemente i problemi di inquinamento acustico ed atmosferico» in Comune di Torino, Passerelle Bailey in corso Unità d’Italia e corso regina Margherita, <http:// www.comune.torino.it/trasporti/bm~doc/passerellebailey.pdf> [consultato il 16 maggio 2016].
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10 Il numero di veicoli registrato dall’ultimo Piano Territoriale riportava, sull’asse di corso Trieste (poi corso Unità d’Italia), un picco di 38.333,74 veicoli in ingresso e 45.663,40 in uscita nell’arco delle 24 ore in giorno feriale; Provincia di Torino, Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale, Variante a PTC I ai sensi dell’art. 10 della legge regionale n. 56/77 smi, secondo le procedure di cui all’art. 7, agosto 2011, p. 185. 11 Masha è pronta a scavare, la talpa porterà la metro fino in piazza Bengasi, in “La Stampa”, 15 giugno 2016, <https://www.lastampa.it/2016/06/15/ cronaca/masha-pronta-a-scavare-la-talpa-porter-la-metro-fino-in-piazza-bengasi-eUl6cjGglWI1aZeMF01juI/pagina. html> [consultato il 19 giugno 2016]. 12 Comunicato stampa del Comune di Torino, 26 maggio 2016, <http:// www.comune.torino.it/trasporti/archivio-news/sottopasso-maroncelli-approvato-il-progetto.shtml> [consultato il 29 maggio 2016].
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Identificazione dei percorsi ciclabili e delle aree verdi torinesi da essi collegate.
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su corso Trieste e corso Maroncelli tramite la costruzione di un tunnel di 75 metri che passi al di sotto dell’attuale rotonda; l’attuale viabilità sarà mantenuta, con la rotatoria nella zona di incrocio e con la presenza di una corsia per senso di marcia nel tratto di corso Unità d’Italia interessato dalle rampe del sottopasso (che si stenderanno per una lunghezza totale di 140 metri)13.
C’è il sì della Giunta, ecco il progetto del sottopasso di corso Maroncelli, in “Torino Today”, 26 maggio 2016, <http://www.torinotoday.it/cronaca/ progetto-sottopasso-rotonda-corso-maroncelli.html> [consultato il 19 giugno 2016].
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I servizi di trasporto pubblico nel quartiere
Fermata dei bus vicina al Palazzo del Lavoro (fotografia delle candidate, 06.10.2015).
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1.3 I servizi di trasporto pubblico nel quartiere Una delle future potenzialità della zona risiede nell’attestamento della Linea 1 della metro su piazza Bengasi. L’area è al confine con il comune di Moncalieri e risulta quindi servita dai servizi extraurbani più che da quelli urbani: questa nuova connessione potrebbe quindi accrescerne la rilevanza tramite un collegamento più diretto col centro città.
Comune di Torino, Piano Urbano del Traffico e della Mobilità delle Persone, approvato con deliberazione del Consiglio Comunale in data 19 giugno 2002, p. 10. 14
Secondo la strategia già adottata con il P.U.T. del 2001, Ibid. 15
L’obiettivo principale sarebbe sicuramente quello di ridurre il trasporto privato in favore di quello pubblico: per quanto riguarda gli spostamenti motorizzati, infatti, a Torino il 73% avviene tramite l’uso dell’auto e solo il 27% tramite il trasporto pubblico14. L’inserimento di nuovi parcheggi di interscambio per gli utenti provenienti dal bacino metropolitano punterebbe poi a ridurre i flussi pendolari: questa strutture, ubicate in corrispondenza delle stazioni ferroviarie e delle stazioni di testata della metropolitana, necessiterebbero di infrastrutture che favoriscano lo scambio tra mezzo pubblico e privato, quali locali di ristorazione, esercizi commerciali di vario genere, sportelli di servizi pubblici, servizi di manutenzione dell’auto .
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Identificazione dei mezzi di trasporto pubblico a servizio dellâ&#x20AC;&#x2122;area e dei relativi punti di fermata. 236
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Per quanto riguarda gli utenti che risiedono all’interno del quartiere, i servizi di connessione con il centro rappresenterebbero senz’altro una comodità, nonostante l’area disponga già della maggior parte dei servizi di prima necessità.
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Esame delle funzioni di vicinato esistenti
Gli edifici sul lato di via Ventimiglia opposto al Palazzo del Lavoro (fotografia delle candidate, 26.10.2015).
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1.4 Esame delle funzioni di vicinato esistenti All’interno del quartiere sono distribuiti esercizi commerciali di vario genere, che spaziano dalla vendita di merce alla somministrazione e/o vendita di alimenti; la concentrazione di tali servizi diminuisce nella zona a Sud di corso Maroncelli, sul confine tra il comune di Moncalieri e quello di Torino, in cui prevale la funzione residenziale. Sono presenti, in aggiunta ai servizi commerciali, anche tre scuole, tra cui l’asilo nido “Il Laghetto”, la scuola elementare “Re Umberto I” e l’istituto comprensivo “Peyron – Re Umberto I”. Oltre corso Unità d’Italia si sviluppano invece una serie di edifici che ospitano aziende o enti di vario tipo, come la sede dell’Autostrada Torino-Savona, quella della Società Metropolitana Acque Torino ed una serie di concessionarie. Più nascoste dal traffico veicolare, poi, sono le strutture che ospitano il Centro UNESCO di Torino ed il Centro Internazionale di Formazione dell’OIL (BIT) e che, nel corso delle celebrazioni del 1961, costituivano i cosiddetti “Padiglioni delle Regioni”. Le attività situate nell’area presentano dunque una notevole varietà e non si limitano ai semplici servizi di vicinato. Il dinamismo del quartiere apre possibilità interessanti soprattutto dal punto di vista dell’istruzione e della cultura.
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Distinzione delle funzioni presenti allâ&#x20AC;&#x2122;interno dellâ&#x20AC;&#x2122;area (elaborazione delle candidate). 240
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La zona del Parco Italia ‘61 risulta, inoltre, molto frequentata da parte di lavoratori e studenti, mentre l’area di via Genova e di via Nizza costituisce un asse particolarmente trafficato sia come ingresso preferenziale alla città sia per la sua rilevanza commerciale. Nonostante le dimensioni della superficie abbandonata, quindi, non si può certo affermare che l’ex comprensorio Italia ‘61 abbia perso del tutto il proprio rapporto con il quartiere e, tantomeno, la sua attrattiva nei confronti del resto dei cittadini. Proprio questo aspetto dovrebbe spingerci ad immaginare un futuro per il Palazzo del Lavoro che lo renda fruibile da parte della popolazione, trasformandolo in un elemento il più permeabile possibile e includendolo appieno all’interno dell’apparato urbano già funzionante che lo circonda. La sua estensione, in aggiunta, potrebbe essere sfruttata per la creazione di nuovi spazi pubblici, spesso richiesti dagli abitanti della circoscrizione; eventuali nuovi spazi di aggregazione potrebbero, inoltre, beneficiare della presenza dell’antistante Parco Italia ’61 e del vicino Parco Fluviale del Po, oggetto di una valorizzazione storica e funzionale di grande portata anche grazie al progetto Corona Verde, che ne promuove la percorrenza ciclabile e auspica una strategia comune tra i vari comuni dell’area torinese per uno sviluppo urbano più sostenibile16.
<http://www.regione.piemonte.it/ ambiente/coronaverde/documentazione.html> [consultato il 27 marzo 2016].
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LA
PROBLEMATICA DEL FUORI SCALA
Il Palazzo del Lavoro è un’architettura lontana dalla scala umana: i suoi pilastri, così come la sua estensione, vengono, fin dalla sua apertura al pubblico, guardati con una certa preoccupazione nell’ottica di un futuro riuso, in quanto apparentemente utilizzabili solo per «naumachie o combattimenti tra mammut e dinosauri»17. Appare in effetti difficoltoso il tentativo di inserirvi qualsivoglia funzione che esuli da quella di polo fieristico-espositivo. In che senso, però, possiamo definirlo come un oggetto architettonico “fuori scala”? La parola “scala” potrebbe, in questo caso, trovare la sua definizione migliore come “esperienza della dimensione”. Essa è uno strumento capace di farci sentire a nostro agio nel mondo o totalmente alienati da ciò che ci circonda; connessi o disconnessi dallo spazio in cui ci muoviamo18. Non è solo l’architetto, per esigenze progettuali, a prendere in considerazione queste sensazioni un simile, ma ognuno di noi sviluppa, nel corso del suo vivere quotidiano, un’esperienza fisica della natura delle città, tanto sul piano pratico quanto su quello metaforico19.
17 Dino Buzzati, I faraoni del ’61, in “Corriere dell’Informazione”, 7/8 giugno 1961; riportato in Ernesto Nathan Rogers, Un errore nazionale, in “Casabella-Continuità”, n. 252, Milano, Editoriale Domus, giugno 1961, p. 3.
Christopher Alexander, Sara Ishikawa, Murray Silverstain, Max Jacobson, Ingrid Fiksdahl-King, Shlomo Angel, A Pattern Language: Towns, Buildings, Construction, New York, Oxford University Press, 1977, p. XIII.
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Torneremo sull’argomento nell’ambito della definizione di una metodologia per l’adeguamento di una scala esagerata (definizione del concetto di “fuori scala”) a quella umana; per ulteriori riferimenti (anche a progetti effettivi, utilizzati come riferimenti) si veda Timothy Makower, Touching the City. Toughts on Urban Scale, Chichester, Wiley, 2014; 19
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Perché il Palazzo del Lavoro non è diventato un “monumento”
L’interno del Palazzo del Lavoro (elaborazione delle candidate, 17.03.2016).
La problematica del fuori scala
2.1 Perché il Palazzo del Lavoro non è diventato un “monumento” Nei vari tentativi (finora fallimentari) di trovare un nuovo uso al Palazzo del Lavoro, una delle problematiche più difficili da risolvere è sempre stata identificata nella sua grande dimensione, legata all’uso originario di spazio spettacolarizzante e commemorativo. Durante le celebrazioni di Italia ’61, la mostra progettata da Gio Ponti con la supervisione di Giovanni Agnelli viene infatti studiata con grande attenzione, insediandosi all’interno del Palazzo con grande rispetto e «rinunciando a ogni soluzione che non lasciasse in vista tutte le colonne»20. Ponti afferma «Nervi aleggerà sul mio lavoro a lui devotamente sottomesso» ed immagina, in contrapposizione alla monumentalità dell’edificio, separazioni effimere in alluminio, perspex ed acciaio inossidabile specchiante, disposte in modo da creare il maggior numero di visuali sulle colonne e sulla copertura ad elementi stellari21. Soltanto a queste condizioni, dunque, un’ulteriore architettura si è inserita con successo nella grande struttura di Nervi, riuscendo a confrontarsi con la sua estensione.
Riportato in Associazione Pier Luigi Nervi Project, Un masterplan per accompagnare la riqualifica del Palazzo del Lavoro, 20 novembre 2011, <http://pierluiginervi.org/category/ focus-on> [consultato il 28 gennaio 2016]. 20
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Ibid.
La “grande dimensione” del Palazzo del Lavoro contribuisce quindi ad impedirne il riuso. Tale affermazione non fa però riferimento semplicemente alla metratura o al valore
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La problematica del fuori scala
Allestimento della Mostra Internazionale del Lavoro, Torino, Gio Ponti, 1961 (Gio Ponti Archive). 246
La problematica del fuori scala
simbolico dell’edificio. Il riferimento non è nemmeno, come si potrebbe immaginare, ad una specifica tipologia: non sono infatti né la funzione né la distribuzione interna a decretare la smisuratezza di un edificio. Ciò che più si avvicina a tale definizione sembra invece essere il basilare concetto architettonico dei rapporti di scala: tali relazioni dominano questo tipo di costruzioni, condizionandone inevitabilmente la percezione da parte dell’uomo. Il caso del Palazzo del Lavoro non costituisce comunque un fenomeno isolato. Infatti è possibile individuare, a partire dalla prima industrializzazione, numerose strutture caratterizzate da rapporti di scala “inumani”, che ne hanno poi costituito la principale criticità. Tale epoca si pone all’origine della crisi della nozione di monumento, inteso nel suo significato di oggetto che riconduce l’attenzione sul passato (dal lat. moneo): forse più adeguata al nostro ragionamento sarebbe la definizione tedesca, poco utilizzata, di monument, che identifica semplicemente un oggetto architettonico dalla grande estensione, ben diverso da denkmal, parola che si riferisce invece proprio alla memoria storica che un edificio porta in sé. La monumentalità non coincide, dunque, con la grandezza spaziale, ma deriva dalla proporzionalità e dai rapporti architettonici. Lo dimostra un esempio tratto dal passato, il Tempietto di San Pietro in Montorio realizzato da Donato Bramante in uno dei cortili dell’omonimo convento sul colle Gianicolo; nonostante le piccole dimensioni, il
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La problematica del fuori scala
Tempietto di San Pietro in Montorio, Donato Bramante, Gianicolo, Roma, 1502-1510 (fonte: Wikipedia).
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La problematica del fuori scala
tempio viene accostato già da Palladio e Serlio, contemporanei di Bramante, alle architetture del passato, per rimanere poi fonte d’ispirazione addirittura per la ricostruzione della basilica di San Pietro. L’edificio si pone come elemento di rottura rispetto alla tradizione precedente, caratterizzandosi non come spazio dedicato alla celebrazione liturgica, ma come oggetto da osservare dall’esterno: un monumento nel senso tradizionale del termine22. Per quanto riguarda gli edifici a funzione industriale, i più vicini per dimensioni e conformazione al Palazzo di Nervi, sembrano avvalersi di una maestosità propria, in quanto carichi di un’intensità comunicativa del tutto nuova; così nuova da apparire quasi povera dell’ambizione che aveva fino ad allora caratterizzato per lo più edifici residenziali e pubblici. Il Palazzo del Lavoro, il cui progetto risulta fortemente legato ai valori poi espressi dall’Esposizione Internazionale del Lavoro allestita al suo interno, si avvicina maggiormente a questo genere di edifici. L’ambiguità progettuale che riguarda queste architetture può essere riassunta dalla domanda che si pone Henry H. Reed in un articolo del 1952: «noi abbiamo costruito delle buone fabbriche, ma abbiamo costruito dei grandi monumenti?»23.
Wolfgang Lotz, Architettura in Italia 1500-1600, Milano, Rizzoli, 1997, pp. 11-12; Palladio lo inserisce ne I quattro libri dell’architettura e Sebastiano Serlio gli dedica quattro pagine del terzo dei suoi Libri sull’architettura intitolato Delle Antichità inserendone pianta, prospetto e sezione; Andrea Palladio, I Quattro Libri dell’Architettura, Dominico de’ Franceschi, 1570; Sebastiano Serlio, Il terzo libro di Sebastiano Serlio bolognese nel qual si figurano e descrivono le antichità di Roma e le altre che sono in Italia, e fuori de Italia, Venezia, Francesco Marcolini da Forlì, 1540.
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23 Henry H. Reed jr., Monumental Architecture, in Perspecta: The Yale Architectural Journal, Auger Down Books, n.1, 1952.
Lo spostamento della ricerca della “grandeur” dal settore pubblico a quello privato è infatti caratteristico degli anni della rivoluzione industriale. Sono infatti le società
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La problematica del fuori scala
Pierluigi Nicolin, I monumenti e le icone, in La verità in architettura. Il pensiero di un’altra modernità, Quodlibet, Macerata 2012, pp. 173-188.
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Sigfried Giedion, Necessità di una nuova monumentalità, conferenza tenutasi il 26 settembre 1946, al R.I.B.A. di Londra, pubblicata in The Architectural Review, n. 621, settembre 1948. 25
private a cercare una più appariscente immagine di prestigio e forza economica, dando vita ad un inedito genere di architettura, un nuovo “anti-monumento”: l’edificio iconico, altrimenti detto landmark. I landmark potrebbero essere definiti come frammenti emblematici, che non hanno niente a che vedere né con la realtà urbana nel suo complesso né, tantomeno, con l’immagine della città che viene effettivamente percepita dagli abitanti; hanno quasi sempre un grande rilievo materiale, ma una notorietà limitata nel tempo24. A seguito di questo breve excursus, dunque, potremmo affermare che il Palazzo del Lavoro si identifichi più con quest’ultima visione che con quella di monumento tradizionale. L’opera di Nervi, così come gli altri grandi edifici previsti per il comprensorio durante la manifestazione del 1961, ha finito, col tempo, per isolarsi dal contesto in cui era stata inserita. Non è riuscita, per questo motivo, ad assumere un significato condiviso dai cittadini anche dopo la fine dell’Esposizione. La sensibilità dell’uomo comune di fronte ai simboli non si esaurisce però del tutto: il problema principale sta, piuttosto, nel fatto che non sempre tali elementi vengono integrati nei centri cittadini. Le goffe fiere internazionali hanno oggi perso il significato originario, quello di luoghi progettati per rimanere a servizio della collettività, all’interno dei quali la gente riveste un ruolo importante quanto quello dello spettacolo stesso25. Allo stesso tempo, la monumentalità nel suo senso classico di “qualità spiri-
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La problematica del fuori scala
tuale”, in grado di rendere eterna un’architettura26, viene oggi subordinata al carattere quantitativo della struttura. Lo stesso Palazzo del Lavoro si ritrova, ad esempio, coinvolto in un processo decisionale che poco tiene conto del suo valore storico ed architettonico: il ricorso al TAR che ha portato al blocco dei lavori per il centro commerciale, infatti, è stato dettato semplicemente da motivazioni di carattere economico e commerciale27.
Come afferma Louis Kahn: «In architettura, la monumentalità si può definire come una qualità; una qualità spirituale, che manifesta quanto vi è di eterno in una struttura. E’ la qualità che percepiamo nel Partenone, il simbolo inequivocabile della civilizzazione iniziata in Grecia.» in Maria Bonaiti, Architettura è: Louis I. Kahn, gli scritti, Electa, Milano, 2009, pp. 56- 63.
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Erica Di Blasi, Palazzo del Lavoro. Guerra tra supermercati, in “La Repubblica”, 20 febbraio 2011, < http://torino.repubblica.it/cronaca/2011/02/20/ news/palazzo_del_lavoro_guerra_tra_ supermercati-12701506/> [consultato il 15 gennaio 2016].
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Le difficoltĂ nel riprogetto legate alla sua grande scala
Lâ&#x20AC;&#x2122;interno del Palazzo del Lavoro (fotografia delle candidate, 17.03.2016).
La problematica del fuori scala
2.2 Le difficoltà nel riprogetto legate alla sua grande scala Le difficoltà che influenzeranno gli esperimenti di riutilizzo del Palazzo del Lavoro appaiono in realtà evidenti fin dalla sua inaugurazione. Già Bruno Zevi, infatti, nel numero di “L’architettura. Cronache e Storia” di agosto 1961 dedicato alle celebrazioni di Torino, prevede come la smisuratezza del Palazzo possa concorrere ad impedirne un facile riuso, mettendo l’opera a confronto con grandi edifici dalla forte monumentalità quali la Basilica di San Pietro o il Colosseo:
Bruno Zevi, La dissociazione architettonica, tara delle esposizioni, introduzione a “L’architettura. Cronache e Storia”, n. 70, agosto 1961, pp. 218-219; si veda a riguardo anche L’esposizione per il Centenario dell’Unità d’Italia, a Torino, ivi, pp. 222-273. 28
«Gli architetti progettano i fabbricati indipendentemente dai contenuti, poi sopraggiungono gli architetti allestitori che si affannano a riempire spazi predeterminati e generici. Alla radice di tutti i difetti estetici e tecnici delle architetture espositive sta questa dissociazione procedurale. Il perimetro del Colosseo è di 527 m, quello del Palazzo del Lavoro raggiunge i 640 m, la Basilica di San Pietro copre un’area di 15.160 mq e il Palazzo del Lavoro 25.000 mq. Ma a chi interessano questi dati? Il giudizio positivo su Italia ’61 si limita alla sistemazione urbanistica. Il resto è retorica, futilità più o meno macchinistica e folclore, tanto più che nessuno ha ancora inventato una possibile utilizzazione razionale del Palazzo del Lavoro a festa finita.»28
Dunque, l’uomo, a confronto con la grande dimensione, non può fare a meno di provare una sensazione di spa-
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Rem Koolhaas, Bigness, or the problem of Large, in “Domus”, n. 764, ottobre 1994. 29
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esamento e tale difficoltà rende problematico il riuso di un’architettura di “grande scala”: spesso, infatti, edifici appartenenti a questa categoria appaiono inadeguati rispetto al sistema urbano denso ed articolato in cui sono inseriti (o che si è venuto a formare intorno a loro). A tentare di interpretare la complessità di queste strutture è Rem Koolhaas; egli cerca di attribuire una definizione all’architettura di grandi dimensioni tramite il concetto di Bigness, che riassume in una serie di punti caratteristici, da lui classificati come “teoremi”29: 1) superata una certa massa critica, la questione di scala va ben oltre il concetto di monumentalità; 2) la complessità programmatica che segue al superamento di una certa scala, non può evocare con una singola immagine l’uniformità dell’interno; 3) le nuove tecnologie dell’età delle macchine, trasmesse al mondo dell’architettura, hanno reso possibile la scala della Bigness, da un punto di vista sia funzionale che di tettonica; 4) l’impatto della Bigness sulla città è indipendente dalla qualità del progetto: come affermerebbe Nietzsche, esso va “al di là del bene e del male”; 5) [corollario del teorema precedente] tutte insieme, queste rotture – con la scala metrica, con la composizione architettonica, con al tradizione, con la trasparenza, con l’etica – implicano la rottura definitiva, quella radicale: la Bigness non fa più parte di alcun tessuto. Esiste; al massimo, coesiste.
La problematica del fuori scala
Il suo messaggio implicito è «fuck the context»30 . Possiamo notare come alcuni di questi “teoremi” risultino applicabili anche al caso studio del Palazzo del Lavoro, ad esempio il fatto che non sia riuscito ad integrarsi con la città nonostante la qualità architettonica e strutturale che lo caratterizza e nonostante il valore storico che tuttora riveste per molti torinesi. Infine, il Palazzo di Nervi non si è inserito nel tessuto urbano circostante, con cui fatica ancora a confrontarsi. L’edificio potrebbe, infatti, essere paragonato dimensionalmente ai vicini isolati compresi tra via Ventimiglia e via Genova: mettendo a confronto i diversi fabbricati si nota che, all’interno del suo lotto, il Palazzo potrebbe comprendere all’incirca un isolato e mezzo sia per lunghezza che per larghezza. Il «fuck the context» di Rem Koolhaas può, in questo caso, essere rapportato alle parole di Zevi (se inteso, chiaramente, non come riprovazione nei confronti del contesto urbano esistente, ma come descrizione del rapporto della Bigness con il suo intorno): il Palazzo di Nervi, sebbene inserito in un apparato urbanisticamente ben studiato, rimane avulso dal contesto, arrivando in stato di abbandono fino ai giorni nostri. Già in Delirious New York Koolhaas denuncia, infatti, la tendenza della pianificazione urbana a rimanere sempre un passo indietro rispetto all’evoluzione autonoma della città, puntando a risolvere i problemi del passato e senza mai concentrarsi su eventuali progressi futuri31. Affrontare la complessità dell’esistente risulta, al contrario, una condizione molto più interessante e rea-
Nonostante la prima pubblicazione nel 1994, i “teoremi” vengono poi ripresi in un saggio, Bigness, ovvero il problema della grande dimensione, pubblicato in Italia nella raccolta: Rem Koolhaas, Junkspace: per un ripensamento radicale dello spazio urbano, a cura di Gabriele Mastrigli, Macerata, Quodlibet, 2006, pp. 14-15. 30
Rem Koolhaas, Delirious New York: a retroactive manifesto for Manhattan, New York, Oxford University Press, 1978.
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La problematica del fuori scala
Educatorium,Utrecht,OMA,1997 (<www.oma.eu>) 256
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listica, che può davvero comprendere in sé le basi per un miglioramento. In un’intervista del 1996 per “Wired Magazine”, Koolhaas afferma: «La stessa intelligenza che si usa nell’aggiungere fabbricati dovrebbe usarsi con le rovine. È un fenomeno davvero deprimente quello di poter affrontare le situazioni di decadenza urbana solo inventando deboli tentativi di restauro o dichiarandole d’interesse storico.»32
Katrina Heron, From Bauhaus to Koolhaas, in Wired Magazine, n. 4.07, 1 luglio 1996.
32
Alessandro Rocca, Educatorium a Utrecht, Rem Koolhaas, a cura di Alessandro Massarente, Firenze, Alinea, 1999, pp. 6-8. 33
Luca Galofaro, Rem Koolhaas: Architetto avantpop, Roma, Edilstampa, 2002, pp. 44-48.
34
Appare quindi preferibile un riuso degli edifici abbandonati (soprattutto quelli di grande interesse storico come il Palazzo del Lavoro) che miri non solo ad una sorta di “mummificazione” dell’esistente, ma ad un’inclusione della struttura all’interno del contesto in cui è inserita e da cui si è, col tempo, alienata. Koolhaas esprime questo concetto di un’architettura capace di includere, dentro di sé, i flussi della città con l’Educatorium riadattato dallo studio OMA a Utrecht: tale edificio inizia il suo processo di trasformazione diventando parte di un’infrastruttura urbana, che penetra al suo interno donando nuova funzionalità ad uno spazio prima troppo dispersivo33. I flussi e le attività necessarie al corretto funzionamento dell’edificio derivano sostanzialmente dal sistema urbano in cui esso è inserito34. I suoi diversi livelli sono organizzati in un sistema strutturato sulla base delle esigenze umane: l’obiettivo è quello di creare un’architettura vicina alla scala umana, in grado di agire come incubatore di incontri e di opportunità. Un esempio di spazio permeabile e lasciato al servizio
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La problematica del fuori scala
Fun Palace, Cedric Price, 1964 (Canadian Centre for Architecture, MontrĂŠal).
Fotomontaggio del Fun Palace sul Lea River, Cedric Price, 1964 (Canadian Centre for Architecture, MontrĂŠal). 258
La problematica del fuori scala
della socialità potrebbe essere quello al Fun Palace immaginato da Cedric Price (già insegnante di Koolhaas all’AA35) nel 1961: progettato come teatro altamente flessibile, il Fun Palace è un edificio polivalente che offre diverse possibilità di utilizzo agli utenti, permettendo loro di contribuire attivamente alla realizzazione degli spazi. Si configura come una struttura composta da cinque file di torri, sopra le quali svettano le gru che servono a spostare da una parte all’altra i materiali con i quali si possono configurare gli spazi interni. Per quanto si tratti di un edificio chiuso rispetto all’esterno, infatti, il Fun Palace rimane completamente permeabile e le sue strutture effimere ne garantiscono il carattere mutevole36. Non c’è bisogno di individuarne l’ingresso principale, non esistono porte, atrii o code per entrarvi. Ognuno è libero di attraversarlo anche senza fermarsi ed aver una percezione complessiva delle attività che si svolgono al suo interno, potendo così scegliere liberamente quale zona raggiungere senza la necessità di indicazioni37. A mettere in primo piano l’interazione tra architettura e comunità è stata, poi, Lina Bo Bardi, progettista italiana naturalizzata brasiliana, che in numerosi suoi progetti ha promosso un’idea di appropriazione degli spazi da parte della natura e dell’uomo.
<http://www.aaschool.ac.uk/AASCHOOL/LIBRARY/aahistory.php> [consultato l’8 gennaio 2016].
35
Djordje Stupar, Analyses of Cedric’s Fun Palace + Drawing in Process,in “AA Diploma 9 – The Continuum”, 8 dicembre 2014, < http://dip9.aaschool. ac.uk/analyses-of-cedrics-fun-palacedrawing-in-progress/ > [consultato l’8 gennaio 2016].
36
Come riportato da Anne Lacaton e Jean Philippe Vassal in presentazione del progetto per il Palais de Tokyo, il cui riferimento progettuale principale è il Fun Palace di Cedric Price; Carson Chan, Lacaton & Vassal. Game Changer, in “032c”, n. 23, inverno 2012/2013, pp. 130-141.
37
Lina Bo Bardi, parole riportate come tagline dell’esposizione “Lina Bo Bardi Together”, British Council Gallery, London, 2012.
38
«Il design non può esistere solo sulla carta o sullo schermo. E’ pensato per essere realizzato, costruito, utilizzato e vissuto. Amato, anche. E’ solo così che diventa qualcosa di più di un concetto o una filosofia – diventa una conversazione, un sistema vivente per migliorare la nostra vita.»38
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La problematica del fuori scala
Teatro Oficina, San Paolo, Lina Bo Bardi, 1984 (foto di Markus Lanz). 260
La problematica del fuori scala
Tra i suoi progetti che più esprimono questa volontà di contatto col pubblico emerge il Teatro Oficina di San Paolo (1984), risultato del rinnovamento di un ex edificio per uffici, precedentemente distrutto da un incendio. L’interno del teatro si configura come uno spazio stretto e lungo, simile al proseguimento di una strada, in cui i visitatori non si limitano ad essere spettatori, ma divengono anch’essi parte dello spettacolo39. La struttura collega due vie, divenendo il calle del quartiere; inoltre, il progetto consiste nell’evoluzione di una scenografia studiata dalla Bo Bardi per la stessa compagnia che si sarebbe poi insediata nel teatro: il confine tra città e scena, tra realtà ed immaginazione, si fa, quindi, molto sottile. Non si tratta, comunque, del suo unico progetto legato ad una dinamica di riappropriazione: nel disegnare la sua stessa abitazione a San Paolo, ad esempio, l’architetto aveva già previsto che, nel corso degli anni, la vegetazione avrebbe circondato l’edificio, rendendolo un luogo molto più ricco rispetto al momento della sua costruzione40. Per il Palazzo del Lavoro potrebbe rappresentare l’occasione per immaginare, anche a Torino, un’apertura di questo genere, che permetta alla comunità che da anni ne rivendica l’utilizzo41 di sfruttarlo come parte integrante della città. Il lotto del Palazzo, una volta eliminate le barriere che lo chiudono al pubblico fin dagli ultimi decenni del secolo scorso42, potrebbe così configurarsi come estensione del quartiere antistante, ospitando all’interno dell’edificio nuove funzioni vicine alle necessità del pubblico.
Roberto Zancan, La strada è un teatro, in “Domus”, 21 maggio 2012, <http://www.domusweb.it/it/architettura/2012/05/21/la-strada-e-un-teatro. html> [consultato il 21 aprile 2016].
39
Lina Bo Bardi: Together, in “Domus”, 4 settembre 2014, <http://www. domusweb.it/it/notizie/2014/09/04/ lina_bo_bardi_together.html> [consultato il 21 aprile 2016].
40
Rebecca Anversa, Palazzo del Lavoro. Il NO dei residenti, in “Metronews”, 17 aprile 2016, < http://www. metronews.it/16/04/17/palazzo-del-lavoro-il-no-dei-residenti.html> [consultato il 24 maggio 2016]. 41
42 Emanuela Minucci, Palazzo del Lavoro: “L’ultimo sfregio dell’abbandono”, in “La Stampa, 21 agosto 2015, < https://www.lastampa.it/2015/08/21/ cronaca/palazzo-del-lavoro-lultimo-sfregio-dellabbandono-6iIjcGTxbOIFpyaD863NfK/pagina.html > [consultato il e maggio 2016].
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L’importanza di un progetto adattabile e modulare
Riuso del Palazzo del Lavoro come sede della facoltà di Economia dell’Università di Torino, 2006, (www.retrofutur.it).
2.3 L’importanza di un progetto adattabile e modulare «Amo la complessità e la contraddizione in architettura [...] Accetto i problemi e sfrutto le incertezze [...] Un’architettura basata sulla complessità e sulla contraddizione richiede un impegno speciale verso l’insieme: la sua reale validità deve essere nella sua totalità. Essa deve perseguire la difficile unità dell’inclusione piuttosto che la facile unità dell’esclusione.»43
Il proseguimento dei flussi urbani all’interno di un singolo edificio, sperimentato da Price e Koolhaas nei loro progetti, potrebbe rappresentare una strategia adeguata per un riuso del Palazzo del Lavoro vicino alla comunità torinese. Tale metodo potrebbe costituire una risposta alle continue rivendicazioni da parte di abitanti e negozianti del quartiere Nizza Millefonti; la più recente tra queste proteste è quella operata dal “Comitato ItaliaSessantuno”, costituitosi per iniziativa spontanea con l’obiettivo non di bloccare nuovamente i lavori sul Palazzo, bensì di garantirne una gestione amministrativa corretta e completa sotto ogni punto di vista, sottolineando come i vantaggi del riuso dell’immobile non debbano ricadere unicamente sul proprietario ma anche sul territorio44. I residenti nell’area contigua all’ex comprensorio di Italia ’61 sostengono di non essere un comitato votato al “no” a priori,
Robert Venturi, Complexity and Contradiction in Architecture, New York, The Museum of Modern Art, 1977, p. 22.
43
Rebecca Anversa, Palazzo del Lavoro. Il NO dei residenti, in “Metronews”, 17 aprile 2016, < http://www. metronews.it/16/04/17/palazzo-del-lavoro-il-no-dei-residenti.html> [consultato il 24 maggio 2016]. 44
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Il Palazzo del Lavoro: la costruzione di un simbolo mancato
Palazzo del Lavoro, il quartiere ricorre al Tar, in “Giornale del Piemonte”, 3 aprile 2016, p. 3. 45
Cristiana Chiorino, Cronistoria di una vita grama. Il Palazzo del Lavoro dal 1961 ad oggi, in “Il Giornale dell’Architettura”, 20 settembre 2015, <http://ilgiornaledellarchitettura. com/web/2015/09/20/cronistoria-diuna-vita-grama-il-palazzo-del-lavorodal-1961-a-oggi/>, [consultato il 13 ottobre 2015]. 46
Rem Koolhaas, What Ever Happened to Urbanism?, in S,M,L,XL, OMA (with Bruce Mau), New York, The Monicelli Press, 1995, p. 969.
47
48 Domenico Scopelliti, CITY® BRAND, in “Arc2Città”, 9 luglio 2011, <http://www.arcduecitta.it/2011/07/ city-brand-demetrio-scopelliti/ > [consultato il 10 dicembre 2015].
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né di nutrire un’avversione generalizzata nei confronti dei centri commerciali: promuovono, invece, un riutilizzo delle strutture fatiscenti del Palazzo attraverso una modalità che definiscono «compatibile con la storia, la natura e le caratteristiche di un territorio»45. La grande dimensione resta, comunque, un ostacolo difficile da valicare, soprattutto in questo caso: sia l’edificio in sé sia la funzione di centro commerciale appartengono alla “categoria” della grande scala. La ricerca di un’identità si fa ancora più importante quando l’edificio in questione si trova in condizioni di degrado ed abbandono. La situazione generatasi all’interno del Palazzo, attraverso le numerose modifiche che esso ha subito nel corso degli anni46, è infatti rappresentabile tramite un’idea di incertezza generale47. La ricerca di un’identità per contesti urbani “indeterminati” rappresenta una pratica diffusa in numerose città (europee e non), che si pongono l’obiettivo di sviluppare una cosiddetta “Brand New Identity”: l’architettura prende cioè parte al gioco e diventa generatrice autonoma di una personalità collettiva. Ha funzionato a Bilbao, sul finire degli anni ’90 del ‘900, con il Guggenheim di Frank Gehry, ma il rischio è che non funzioni più: il fenomeno si è infatti globalizzato rapidamente, generando il paradosso di un’omologazione formale e, soprattutto, funzionale di queste città nuove di zecca48. Esse sono già entrare a far parte di una loro precoce “tradizione”, appartenendo
Il Palazzo del Lavoro: la costruzione di un simbolo mancato
ormai ad un passato in cui, per quanto ancora vicino, i cittadini fanno difficoltà a rispecchiarsi. Quello che manca in questi processi di pianificazione urbana “calati dall’alto” è, probabilmente, proprio il contatto con la comunità locale49. Caso ancora diverso è, poi, quello di un edificio già dotato di una storia consolidata, ma in cerca di nuova identità: in questo caso il contatto diretto coi cittadini potrebbe, infatti, fare la differenza, apportando modifiche peculiari a seconda del contesto urbano di riferimento ed evitando, di conseguenza, l’omologazione in cui incorrono città in cerca di un brand (come avvenuto a Bilbao).
Leonie Sandercock, Verso cosmopolis: città multiculturali e pianificazione urbana, Bari, Dedalo, 2004, pp. 58-59. 49
DoCoMoMo International, The Palazzo del Lavoro by Nervi under threat, 1 settembre 2015, <http://www.docomomo.com/events?sec=4&id=204> [consultato il 28 gennaio 2016]. 50
Non va dimenticato che il caso del Palazzo del Lavoro riguarda un bene la cui salvaguardia risulta fondamentale50: un eventuale progetto si dovrebbe configurare in maniera adattabile e reversibile, tramite volumi in grado di cambiare la propria disposizione sulla base delle esigenze del pubblico. La miglior risposta all’indeterminatezza di questo spazio potrebbe risiedere, quindi, nell’adattabilità del progetto di riuso; un’adattabilità da non ricercare solo nelle forme e negli organismi costruttivi, ma da riferire anche all’identità del luogo ed alla sua continuità/variabilità nel tempo. Il genius loci (in questo caso genius aedificii) assume secondo tale logica un valore nuovo, nell’ambito del quale le architetture in questione non esistono più solamente “in quanto tali”, ma in base a come vengono utilizzate dai cittadini.
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Il Palazzo del Lavoro: la costruzione di un simbolo mancato
Michel Foucault, Architecture/Mouvement/Continuité, in “Des Espace Autres”, ottobre 1984, <http://post. at.moma.org/sources/17/publications/210 > [consultato il 10 dicembre 2015]. 51
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I luoghi abbandonati, in quest’ottica, non rappresentano più un problema, ma un’occasione di rivitalizzazione per quartieri come Nizza-Millefonti, caratterizzati dalla mancanza di spazi pubblici nonostante il forte affiatamento della collettività. Strutture come il Palazzo del Lavoro si avvicinano così al modello delle Eterotopie descritte da Michel Foucault51: luoghi “non di tutti i giorni”, in contrapposizione con i normali sistemi che dominano le relazioni spaziali. Foucault vi include biblioteche, fiere espositive, musei, navi, cimiteri: tutti luoghi corrispondenti ad una funzione d’uso ben precisa, ma che contengono nella propria definizione sempre due o più significati diverse in cui possono essere interpretati. A nostro avviso, esiste una condizione che va al di là dell’attività designata per l’utilizzo di uno spazio: la condizione dell’abbandono. Essa assorbe, in modo simile alle eterotopie sopracitate, varie connotazioni che ognuno di noi potrebbe dare ad un luogo abbandonato entrandovi per la prima volta; solo per definizione, ad esempio, sono già due le dimensioni riassunte al suo interno: quella del luogo in rovina e quella legata alla funzione precedente (il che si moltiplica se l’edificio o lo spazio in questione ha già subito ulteriori rifunzionalizzazioni nel corso della sua esistenza). Un’interpretazione di questo tipo potrebbe aprire l’immaginazione verso un centro commerciale differente rispetto al Junkspace descritto da Koolhaas, che abbia la possibilità di riscattarsi diventando qualcosa di più di un semplice luogo in cui fare acquisti, grazie alla valorizzazione delle diverse ambientazioni che racchiude in sé.
LA
QUESTIONE DELLâ&#x20AC;&#x2122;ABBANDONO
«Accade talvolta a Jersey o a Guernsey che, in campagna e perfino in città, passando per un luogo disabitato, o anche in una strada popolatissima, s’incontri una casa con l’ingresso barricato. L’agrifoglio ostruisce la porta; orribili intrichi di assi inchiodate otturano le finestre del pianterreno: quelle dei piani superiori sono chiuse e aperte nel tempo stesso, perché i telai sono fissati coi lucchetti, ma i vetri sono infranti.»52
Victor Hugo, I lavoratori del mare, Milano, Mondadori, 1995 52
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Perché l’abbandono non ha reso il Palazzo una “rovina storica”
Uno dei cancelli del Palazzo del Lavoro (fotografia delle candidate, 01.11.2015).
la questione dell’abbandono
3.1 Perché l’abbandono non ha reso il Palazzo una “rovina storica” Proprio in funzione delle loro criticità, gli edifici di grandi dimensioni come il Palazzo del Lavoro finiscono per essere abbandonati, ritrovandosi ad occupare grandi aree di città senza ricoprire però una specifica funzione. Il fenomeno dell’abbandono è un evento diffuso a livello planetario; come racconta Hugo nel breve passaggio riportato, spesso, negli angoli delle città come sulle vie più popolate, ci si imbatte in edifici su cui il tempo scorre nonostante le attività umane al loro interno siano cessate (quantomeno quelle appartenenti alla funzione). Risulta facile esprimere l’entità del fenomeno in numeri: negli USA esistono18,6 milioni di case abbandonate, abbastanza perché ad ogni senzatetto ne corrispondano sei; in Italia sono circa 3 milioni: trattasi di case vuote ed abitabili, abbastanza perché ad ogni senzatetto ne corrispondano cinquanta. Questo dato non tiene, per altro, conto delle numerose strutture e dei terreni abbandonati: 700.000 capannoni industriali, 338.000 ettari di terreni non coltivati e 880.000 uffici sfitti solo a Milano53. Queste aree, disseminate in tutto il mondo, sia in contesto urbano che agricolo, non appartengono ad una determinata tipologia: troviamo infatti abitazioni, ospedali, carceri, stazioni ferroviarie, scuole, terreni, addirittura in-
Legambiente, Dossier sul consumo del suolo, maggio 2014, <http://www. legambiente.it/sites/default/files/docs/ dossier_stopconsumodisuolo_maggio2014.pdf> [consultato il 16 gennaio 2016]. 53
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la questione dellâ&#x20AC;&#x2122;abbandono
William Turner, The Chancel and Crossing of Tintern Abbey, Looking towards the East Window, 1794, Tate Modern, London 272
la questione dell’abbandono
teri paesi o città. Tale fenomeno non è più circoscrivibile, come nel secolo precedente, ai borghi di montagna legati ad una sussistenza agricola oppure alle grandi industrie fordiste; le dinamiche di abbandono investono infatti oggi anche aree di recente urbanizzazione. Si può dire che tutto ciò che perde di utilità per l’uomo che lo possiede diviene scarto, o per meglio dire rifiuto, e viene, il più delle volte, lasciato all’invasione natura. Il termine inglese waste, traducibile in vari modi diversi, è quello più rappresentativo di questa condizione: esso non va inteso come qualcosa di necessariamente negativo, ma come effetto naturale del passare del tempo. Due testi fondamentali, nel loro tentativo di trasmettere questa definizione di “abbandono”, sono What time is this place? e Wasting Away di Kevin Lynch54, che nel suo lungo periodo d’insegnamento presso il MIT dedica parecchio tempo allo studio della percezione del paesaggio urbano da parte delle persone. In queste pubblicazioni egli affronta l’immagine del cambiamento, ed in particolare nel secondo (intitolato, nella traduzione italiana, Deperire) ne esplora il “lato oscuro”: trattasi di un testo molto realistico, che parte dalla descrizione minuziosa di mondi utopici e di eventi incredibili che vi accadono e che si rivelano, nel finale, non così impossibili, ma caratteristici anche della società di oggi (ricordando, in questo tentativo, gli esiti di un altro libro, Le città invisibili di Italo Calvino55, con cui condivide l’idea che le città possano essere animate soltanto da chi le abita e che, pur conservandone la storia,
Kevin Lynch, What time is this place?, Cambridge (MA) The MIT Press, 1972; Kevin Lynch, Wasting Away, New York, Random House, 1991. 54
È lo stesso Lynch a fare riferimento a Italo Calvino, Le città invisibili, Torino, Einaudi, 1972, in quanto anche in quest’ultimo, celebre, libro i racconti relativi alle città inventate dallo scrittore appaiono, alla lettura delle sole prime righe, assolutamente incredibili ed utopici; nel finale, però, Calvino riesce ogni volta a smuovere qualcosa nell’animo umano, traendo una sorta di “morale” nel descrivere il vero aspetto delle sue Città Invisibili; è proprio quest’ultima descrizione che porta il lettore a riconoscere in un mondo impossibile quelle stesse caratteristiche e problematiche che caratterizzano il mondo possibile di cui egli stesso è parte. 55
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Kevin Lynch, Wasting Away, a cura di Michael Southworth, San Francisco, Sierra Club Books, 1990, p. 112. 274
la questione dell’abbandono
riesce ad immaginarle in continuo cambiamento56). Lynch afferma che «se guardiamo alla vita globalmente dobbiamo tener conto anche della perdita»57; l’autore cerca una risposta al tema dell’abbandono con l’idea di lavorare sulla mente delle persone, sulla loro percezione dei luoghi abbandonati e delle infinite possibilità che essi riservano, senza insistere ulteriormente nello sforzo di apportare dei cambiamenti a tali strutture. Egli individua nella gestione dello scarto (e, di conseguenza, nella responsabilità di saper “scartare bene”) alcuni tra i valori fondamentali alla base dell’urbanistica: un primo valore consiste nel conferire salute e sicurezza allo spazio pubblico; un secondo quello di garantirne l’efficienza nel funzionamento, nel gestire al meglio le risorse a disposizione; un terzo è la domanda di adattabilità, a cui abbiamo già fatto riferimento. Per i pianificatori aiutare i luoghi a “decadere” con grazia deve essere, secondo Lynch, importante tanto quanto promuoverne lo sviluppo e la crescita. I luoghi di scarto rappresentano, rispetto alla quotidianità dell’uomo comune, una dimensione estranea, in cui si mescolano sensazioni di libertà e di pericolo; va però, nella loro analisi, sottolineata la distinzione tra due fondamentali categorie di luoghi di scarto: quella tra rovina ed edificio abbandonato. Mentre l’edificio abbandonato sopravvive in un limbo tra due condizioni temporali (non ancora passato remoto come rovina storica e non più presente narrativo come
Elio Baldi, Citare Calvino. Le città invisibili e gli architetti, in “Doppiozero”, 14 settembre 2015, <http://www.doppiozero.com/materiali/calvino-trentanni-dopo/cit-t-re-calvino-le-citta-invisibili-e-gli-architetti> [consultato il 12 gennaio 2016]. 56
Kevin Lynch, Deperire. Rifiuti e spreco nella vita di uomini e città, a cura di Michael Southworth e Vincenzo Andriello, Napoli, Cuen, 1992, pp. 10-12.
57
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la questione dell’abbandono
Kevin Lynch, Deperire. Rifiuti e spreco nella vita di uomini e città, a cura di Michael Southworth e Vincenzo Andriello, Napoli, Cuen, 1992, pp. 27-28. 58
Fare riferimento all’Appendice A di Kevin Lynch, Deperire, op.cit., pp. 293295; trattasi del risultato di ventuno interviste effettuate nell’estate del 1981 ad opera del professore del MIT, in forma di conversazione informale e a proposito del tema dello scarto (inteso non solo a livello territoriale, ma anche in associazione con oggetti, riciclo, spazzatura e così via). Tali interviste potevano riguardare un abaco di ricordi, pratiche quotidiane, sentimenti facenti parte della vita dei singoli intervistati. Va riportato come l’autore stesso, nell’ambito della discussione, non sia rimasto passivo ascoltatore ma abbia partecipato attivamente alla condivisione di pensieri personali. Va infine segnalato il range di persone individuate: non un campione rappresentativo, semplicemente un gruppo di giovani uomini e donne definiti dallo scrittore come “interessanti”.
59
60
Ivi, p. 293.
61
Ivi, p. 294.
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abitazione dell’uomo, si indentifica in un futuro incerto e misterioso58, la rovina costituisce un elemento di per sé perfettamente funzionante, che necessita di essere preservato e raccontato esattamente per ciò che è, non per quello che è stato. La storia dell’edificio abbandonato viene invece interrotta nell’atto del suo svuotamento. Per averne una definizione di “rovina” più vicina all’esperienza umana, Lynch sottopone esperti e non ad una serie di interviste sulla questione dell’abbandono59. La rovina architettonica è da lui interpretata come qualcosa di romantico, eredità di un mondo antico che non ha alcun legame con la vita quotidiana degli intervistati, pur facendo parte di un immaginario di viaggi che popola il loro passato. Questi, infatti, si emozionano non nell’osservare semplicemente la zona in abbandono, ma nel fantasticare su come siano vissuti gli antichi in quegli stessi luoghi60. Le sensazioni descritte sembrano non aver alcun legame con l’universo parallelo degli “scarti”; soltanto una tra le testimonianze raccolte, infatti, identifica la propria esperienza tra le rovine come destabilizzante: «una donna era stata accompagnata a Pompei quando aveva cinque anni ed aveva visto i calchi dei corpi delle vittime di quel disastro. “Ne fui sconvolta. Era una distruzione terribile. Una volta c’era gente che viveva in quel posto […] L’abbandono è lo stesso per me: l’assenza di persone»61. La versione più innocente dell’essere umano, quasi vergine dell’esperienza del vuoto, è quindi quella che più si riavvicina alla percezione diretta dello “scarto”.
la questione dell’abbandono
Da un punto di vista diverso da quello dell’architetto, il botanico Gilles Clément definisce la “rovina” in modo più propositivo, attribuendo al paesaggio degradato un nuovo valore, non più di tipo estetico o romantico, ma di tipo ecologico: egli sfida l’uomo a tralasciare ogni preconcetto ed immaginarsi come parte integrante della natura. Tutti gli spazi indecisi, privi di funzione, vengono raccolti dal botanico sotto un unico termine: Terzo Paesaggio62.
Gilles Clément, Manifesto del Terzo paesaggio, Macerata, Quodlibet, 2005. 62
Gilles Clément, Manifesto del Terzo paesaggio, Macerata, Quodlibet, 2005. 63
64 Christopher Woodward, Learning from Detroit, or “the wrong kind of ruins, in Anna Jorgensen, Richard Keenan, Urban Wildscapes, New York, Routledge, 2012, p. 17. 65
Ivi, pp. 18-19.
«Diventa rovina quello che, nel tempo, si trasforma al punto da apparire sotto forma di traccia, senza scomparire del tutto. La rovina è l’essenza dell’oggetto costruito e poi abbandonato. È il risultato della mancanza di cura su ciò che ne avrebbe, sempre, bisogno.»63
Così Clément definisce la “rovina”, come un processo quotidianamente rintracciabile nel passaggio dalla costruzione, all’uso ed, infine, all’abbandono, di una struttura. Spesso le rovine divengono anche simboli o monumenti, ma in tutti i casi rappresentano frammenti di storia inseriti nel paesaggio presente. Gli edifici che oggi vediamo in stato di abbandono diventeranno probabilmente, in un prossimo futuro, i ruderi del moderno. L’architettura industriali disabitate (in particolare quelle della città di Detroit) sono state già più volte paragonate ai resti dell’antica Roma64: Detroit rappresenta l’esempio più drammatico di “rovina” moderna, proprio a causa dell’enorme ambizione economica e tecnica da cui la città ebbe origine65. Quando l’abbandono sostituisce l’opulenza, proprio come
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la questione dell’abbandono
Camilo José Vergara, East Palmer from Chene, Detroit, 1995.
Camilo José Vergara, view towards E. Grand Blvd., Detroit, 2006. 278
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avvenuto per i resti l’Impero Romano, colpisce l’uomo in modo particolare; tale effetto viene poi amplificato dalle dimensioni di queste strutture post-industriali e dei loro decori, anch’essi in stato di degrado. L’attrattiva esercitata da questi luoghi viene ben espressa attraverso i lavori di diversi fotografi, uno fra tutti il cileno Camilo Josè Vergara: grande estimatore della rovina urbana statunitense che, nel 1995, suggerisce (sulla rivista Metropolis): «Potremmo trasformare circa 100 edifici problematici in un grande parco storico nazionale, simbolo di una vita selvaggia e senza regole, una sorta di Monument Valley Urbana o di Acropoli americana»66.
Camilo Josè Vergara, Downtown Detroit: “American acropolis” or vacant land – what to do with the world’s largest concentration of pre-depression skyscrapers, in “Metropolis, aprile 1995. James Bennet, A tribute to ruin irks Detroit, in “The New York Times”, 10 dicembre 1995, <http://www. nytimes.com/1995/12/10/us/a-tributeto-ruin-irks-detroit.html> [consultato il 29 dicembre 2015].
66
Heidi Ewing, Rachel Grady, Detropia, USA, 2012.
67
La stessa visione viene, più di recente, riportata nel docu-film Detropia67: nel film, due eleganti turisti europei si avventurano in un cafè di Detroit, dove raccontano alla cameriera di essere venuti per assistere alla fine della civilizzazione umana. I due pongono così gli spettatori nella loro stessa condizione di esploratori della decadenza, in un ricordo dei paesaggi urbani fuori scala già fotografati da Vergara. Una definizione di “rovina” altrettanto aperta alle idee di cambiamento e riuso viene poi fornita da Koolhaas, che reinterpreta il “Terzo Paesaggio” di Clément e ridefinisce le potenzialità dei luoghi urbani in decadenza: «La Città Generica, come uno schizzo che non viene mai elaborato, non viene migliorata ma abbandonata. L’idea
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Poster del film Detropia, Heidi Ewing, Rachel Grady, USA, 2012. 280
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della stratificazione, dell’intensificazione, del completamento le è estranea: non ha strati (…). La grande originalità della Città Generica sta semplicemente nell’abbandonare ciò che non funziona (ciò che è sopravvissuto al proprio uso), spezzando l’asfalto dell’idealismo con il martello pneumatico del realismo e nell’accettare qualunque cosa cresca al suo posto.»68
Rem Koolhaas, Junkspace, per un ripensamento radicale dello spazio urbano, a cura di Gabriele Mastrigli, Macerata, Quodlibet, 2006, pp. 36-38. 68
Anna Jorgensen, Richard Keenan, Urban Wildscapes, New York, Routledge, 2012, p. 143. 69
Rem Koolhaas, Bigness, ovvero il problema della grande dimensione, in Rem Koolhaas, Junkspace: per un ripensamento radicale dello spazio urbano, a cura di Gabriele Mastrigli, Macerata, Quodlibet, 2006, pp. 14-15. 70
Nell’epoca contemporanea, solitamente, ad essere abbandonate sono soprattutto le numerose e vaste aree produttive dismesse in seguito alla deindustrializzazione. Tendenza che sembra confermata e crescente negli ultimi anni e per la quale è realistico pensare, in un futuro non troppo lontano, ad una fitta rete di edifici ibridi e di grande dimensione, abbandonati ed in progressivo degrado, dove la natura prende il sopravvento: ciò permetterebbe una graduale espansione della vegetazione ruderale, vero e proprio ecosistema che in ambito urbano sarà potenzialmente prevalente69. Promuovere la visione dei siti abbandonati e lasciarne intatto l’aspetto incerto e perturbante, il carattere di ambiguità, potrebbe rivelarsi una soluzione però insostenibile, poiché rappresenterebbe un grande spreco di risorse, in particolar modo di suolo. Certo è che molti degli edifici oggi sottoutilizzati e abbandonati oppongono forte resistenza ad eventuali progetti di riuso, specialmente a causa delle caratteristiche già evidenziate in riferimento alla Bigness70: in questo caso, di fondamentale importanza risulta un’azione urbanistica volta al futuro, una pianificazione di interventi mirati a restituire alla città le aree bloc-
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Rolling Acres Shopping Mall, Akron (Ohio), abbandonato dal 2010 (foto di Michael F. McElroy, “The New York Times”). 282
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cate nell’oblio dell’abbandono. Oggi il riuso dei vecchi manufatti e la riconfigurazione spaziale delle aree dismesse non è un fenomeno così scontato: talvolta si mantiene una situazione di semplice convivenza con tali forme di abbandono, in altri casi ne viene privilegiato il ricordo, in altri ancora vengono semplicemente considerati come meri “beni di consumo” ed eliminati (nel migliore dei casi ne vengono riciclati i materiali). In qualche caso, invece, il loro riuso riesce a ricucirli al tessuto urbano, rendendoli nuovamente fruibili ed economicamente più appetibili71.
Catherine Heatherington, Buried narratives, Anna Jorgensen, Richard Keenan, Urban Wildscapes, New York, Routledge, 2012, pp. 171-186. 71
Un esempio di edifici abbandonati che oppongono resistenza al riuso è quello dei big-box stores, tipologia commerciale caratterizzante del secolo scorso, divenuti obsoleti tanto in fretta quanto rapidamente si sono diffusi, attraverso un declino che li coinvolge a livello globale. A seguito di un iniziale susseguirsi di grandi retailers, oggi sono poche le grandi compagnie economicamente in grado di prendersi carico di aree così vaste. L’era degli smartphones ha portato la concorrenza a livelli altissimi: il consumatore può confrontare prezzi e cercare le migliori offerte, rivolgendosi inevitabilmente al miglior offerente. La possibilità di scelta è paradossalmente la morte dei big-box stores (nati proprio come contenitore del consumismo, della vastità di scelta). Una prospettiva di riuso resta quella di trasformare i big-boxes in small-boxes, suddividendoli in piccole boutiques che offrono prodotti unici, quelli che ancora non temono la concorrenza; picco-
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Kristen Flower, An Architectural Alternative to the Big Box, Tesi di Laurea, Relatori: Hans Rott, Scott Gartner, Frank Weiner, Virginia Polytechnic Institute, aprile 2008. 72
73
Ibid.
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li negozi, atelier, caffetterie, bistrot, luoghi d’incontro e di lavoro. Lo spazio viene restituito così alla città attraverso la forma di commercio che più le è familiare72. Alcuni tra i retailers più diffusi al mondo (Wal-Mart, K-Mart, Target) stanno riflettendo, negli ultimi anni, su una variazione del tipo big-box che preveda un assetto simile a quello appena descritto: una maggiore continuità con l’esterno (anche, ad esempio, facendo a meno del “mare” di asfalto che di solito circonda i centri commerciali e trasferendo il parcheggio in aree più nascoste, così da non renderlo la funzione più visibile nell’area) e nella creazione di più negozi individuali, ognuno dotato di un proprio ingresso e di una propria identità, dando ai clienti l’opportunità di decidere meglio come e dove spendere il proprio tempo73.
Il fascino del luogo abbandonato
Davide Viridis, Relitti Riletti, 2013 (<www.davideviridis.it>).
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3.2 Il fascino del luogo abbandonato Spesso, cinema e letteratura hanno trovato negli edifici abbandonati, più che nella rovina architettonica, un set ideale per fare riferimento ad un particolare immaginario: quello delle storie dell’orrore. L’ambiguità tra la forma ancora intatta ed il contenuto assente ne alimentano il mistero e la curiosità (ma anche la drammaticità)75. La storia ne ha sottratto il ruolo conferitovi dall’uomo al momento della fondazione; la natura si è riappropriata lentamente dello spazio, inglobando il costruito in un’atmosfera magica e spettrale; lo scenario tipico è quello della casa stregata (il cui archetipo viene rappresentato, nel 1925, di Edward Hopper e poi ripreso in svariati film horror) e della città fantasma, dove la totale (o quasi) assenza di vita umana ed il silenzio dominante concorrono a trasmettere inquietudine al visitatore.
Gianni Falconieri, La casa infestata, 2 novembre 2011, <http://fantasy-italiano.com/754/ispirazioni/la-casa-infestata/> [consultato il 17 gennaio 2016].
75
Nonostante ciò, allo stesso modo in cui i moltissimi fans del genere accorrono alla visione di un film dell’orrore, i luoghi abbandonati vengono visitati da un gran numero di esploratori impavidi, affascinati ed incuriositi dalle loro peculiarità. Sono i cosiddetti spazi perturbanti. A dare una definizione di “perturbante” è, a inizio ‘900, Siegmund Freud: secon-
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Edward Hopper, House by the Railroad, 1925, Museum of Modern Art, New York. 288
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Alfred Hitchcock, casa creata per il film Psyco sul modello di Hopper, Orlando, Universal Studios, 1960 (courtesy of Bison Archive). 289
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Sigmund Freud, Saggio sul perturbante, 1919.
76
Anthony Vidler, Il perturbante dell’architettura. Saggi sul disagio nll’età contemporanea, Cambridge, MIT Press, 1992.
77
do Freud, tale sensazione emerge dalla trasformazione di qualcosa che un tempo appariva familiare e domestico in qualcosa di completamente inconsueto. Nel suo saggio sull’argomento, pubblicato nel 1919, l’autore sceglie di dare inizio alla sua indagine sul senso straniamento indotto dai luoghi in abbandono, esaminando i complessi significati del termine tedesco equivalente a “perturbante”, ovvero das Unheimliche. «“Heimlich” significa “che appartiene alla casa”, qualcosa di associato all’intimità al senso di agio, alla quiete, al senso di protezione che suscita la casa confortevole raccolta nel suo recinto. “Unheimlich” è tutto ciò che avrebbe dovuto rimanere segreto, nascosto e che invece è affiorato.»76
Quasi un secolo dopo, Anthony Vidler nel saggio Il perturbante dell’architettura77 approfondisce queste definizioni facendole proprie: per lui, il “perturbante” è ciò che distingue in modo netto uno spazio confortevole e accogliente (homely) da uno che, nell’immediato momento in cui vi si entra, genera nell’ospite una sensazione spaesante ed inospitale (unhomely). Quest’ultimo aggettivo fa riferimento a quegli edifici che hanno fatto da sfondo ad esperienze inquietanti o momenti storici particolarmente critici: a partire dalla casa stregata tipica dei romanzi gotici ottocenteschi di Poe e Lovecraft, vengono associate a queste architetture caratteristiche sempre riconoscibili, che le differenziano rispetto a qualsiasi altro aspetto “familiare” rintracciabile in
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un’abitazione; lo spazio si fa, così, elemento generatore di inquietudine e straniamento. Il luogo abbandonato suscita paura, non attraverso il classico binomio edificio/terrore usato in narrativa, ma tramite la negazione della presenza di vita al proprio interno: si configura come corpo morto, svuotato, nel quale è proprio il vuoto, la mancanza, a darci la vertigine e il disorientamento. Resta quindi da indagare perché un sentimento “negativo” come la paura susciti la curiosità dei tanti esploratori di luoghi abbandonati. «Siamo affascinati dai luoghi abbandonati perché rappresentano un tempo puro»78 spiega l’antropologo francese Marc Augé, padre del concetto di “non luogo”79. Questi spazi (i non-luoghi) risultano profondamente diversi dalle rovine perché caratterizzati dall’asetticità e dall’assenza di storia. Infatti, semplicemente guardando le rovine, è impossibile immaginare cosa rappresentassero per coloro che le hanno vissute quando ancora rovine non erano80; si può solo tentare di animarle con la fantasia. Secondo Augé, l’interesse per i luoghi abbandonati va ricondotto ad un sentimento di mancanza81: una consapevolezza del tempo che va oltre la storia. È istintivo che là dove la vita dell’uomo non passa più, ovvero nelle fabbriche dismesse o nelle case vuote, l’occhio del curioso si fermi per cercarne le tracce: si tratta di una tendenza a normalizzare ciò che è strano, a popolare un luogo vuoto perché la sua forma parla di vita, ma ora è come “congelato”. Con il
Marc Augé, Rovine e macerie. Il senso del tempo, Torino, Bollati Boringhieri, 2004, p. 8.
78
Marc Augé, Non-lieux, introduction à une anthropologie de la surmodernité, Paris, Le Seuil, 1992.
79
Marc Augé, Rovine e macerie. Il senso del tempo, Torino, Bollati Boringhieri, 2004, p. 14-15.
80
81
ivi, p. 37.
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Jane e Louise Wilson, Azeville (2006), esposto alla Ruin Lust Exhibition, Tate Britain, London, 4 marzo - 18 maggio 2014 (<www.tate.org.uk>).
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tempo la natura inevitabilmente si riprende ciò che è stato suo, le radici si fanno strada sul cemento, l’acqua divora la pietra, gli oggetti si arrugginiscono ed infangano, e le intemperie ne modificano la struttura donando una sensazione di “fascino da abbandono”. Negli ultimi anni si sono susseguite, soprattutto in Europa, diverse: mostre dedicate a questa tematica: tra quelle che hanno riscosso maggior successo, Ruin Lust82, tenutasi presso la Tate Gallery da marzo a maggio del 2014, con l’obiettivo di analizzare l’uso delle rovine nell’arte dal diciassettesimo secolo ad oggi, e l’Etat du ciel83, organizzata al Palais de Tokyo di Parigi da febbraio a settembre dello stesso anno, con una riflessione sull’umanità ed il patrimonio che questa lascia alle proprie spalle.
<http://www.tate.org.uk/whats-on/ tate-britain/exhibition/ruin-lust> [consultato il 28 ottobre 2015].
82
<http://slash-paris.com/evenements/ letat-du-ciel > [consultato il 28 ottobre 2015].
83
<http://www.impossibleliving.com> [consultato il 28 settembre 2015]; Elisa Poli, [im]possible living: mappature dell’abbandono, in “Domus”, 14 dicembre 2011, <http://www.domusweb. it/it/opinioni/2011/12/14/-im-possible-living-mappature-dell-abbandono. html> [consultato il 28 settembre 2015].
84
Molte sono, infine, le iniziative nate per dare nuovamente rilievo ai luoghi abbandonati: [IM]POSSIBLE LIVING è un progetto di Andrea Sesta e Daniela Galvani84 che hanno pensato un sistema per mappare efficacemente, ed a scala mondiale, queste presenze architettoniche, coinvolgendo una community di utenti appassionati all’argomento, ma non necessariamente specializzati. Un’idea apparentemente semplice, capace di mettere in moto un fenomeno poi fattosi sempre più articolato, fino a riscuotere un grande seguito. Il funzionamento del sistema è semplice: attraverso un sito internet e un’applicazione per iPhone ed Android l’interessato può inviare immagini, accompagnate da una breve descrizione, del luogo individuato;
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Progetto [im]possible living, Andrea Sesta, Daniela Galvani, 2011 (<www.impossibleliving.com>)
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successivamente, questo viene inserito in una mappa, la quale consente, a sua volta, a tutti gli altri utenti di ispezionare virtualmente l’edificio segnalato. Molti sono, inoltre, i fotografi che scelgono i luoghi abbandonati come soggetto del proprio obiettivo: Davide Virdis, architetto sardo che ha fatto della fotografia il suo lavoro, con la serie Relitti85 ha indagato quella che definisce un’umanità in cantiere immortalando le tracce umane all’interno di abitazioni in disuso, di fabbriche dismesse, di stabilimenti balneari vuoti, fino ad arrivare alle vecchie case coloniche. Da questa iniziativa è nata una mostra, in collaborazione con l’antropologo Paolo Chiozzi, che ha fatto il giro d’Italia; un altro modo per far conoscere la realtà dei luoghi abbandonati al pubblico. Altre iniziative non puntano poi a denunciare le emergenze architettoniche presenti nel nostro Paese, ma a promuoverne semplicemente l’esplorazione: tale attività prende il nome di UrbEx (abbreviazione di Urban Exploration) e si configura come hobby ma anche come una pratica sportiva, che consiste nella documentazione scritta (tramite blog) e fotografica di strutture altrimenti difficilmente rintracciabili nell’ambiente urbano. Per sua stessa natura l’UrbEx comporta diversi fattori di rischio, dai pericoli fisici veri e propri alla possibilità di infrangere la legge (con relative sanzioni sia pecuniarie che penali); per questo diversi forum e siti web si configurano come vere e proprie guide di sopravvivenza per i praticanti, con tanto di regole e consigli per uscire (oltre che entrare) indenni
Davide Virdis, Relitti riletti, in “Domus”, 19 marzo 2013, <http://www. domusweb.it/it/portfolio/2013/03/19/ relitti-riletti.html> [consultato il 27 gennaio 2016].
85
Un esempio: <http://www.desertislocis.com > [consultato il 15 febbraio 2016].
86
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Davide Viridis, Relitti Riletti, 2013 (<www.davideviridis.it>).
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dall’esplorazione86. Non si tratta comunque di un fenomeno totalmente nuovo: sono molti i parallelismi, ad esempio, con il turismo pittoresco del XVIII secolo. William Gilpin, a fine ‘700, affermava «la natura più grezza e selvaggia produce il più straordinario degli effetti sull’immaginazione e, potremmo aggiungere, sono gli unici elementi del paesaggio ad attrarre l’occhio del pittoresco»87. Un’altra esperienza estetica già caratteristica del XVIII secolo è quella del Sublime88. L’architettura “finita” e in uso si dimostra spesso troppo rigida e regolare per rientrare in queste categorie, ma i luoghi abbandonati sembrano riuscirci, grazie all’esperienza visuale, tattile (metalli arrugginiti, muschi, piante rampicanti), uditiva (il passo dei piedi sui vetri rotti, sui materiali divelti), olfattiva (odore di marcio, di muffa, di legno invecchiato) che può essere vissuta al loro interno. Le rovine, così come vengono ritratte nei quadri di Caspar David Friedrich o di William Turner, sfiorano così la poetica del Viandante sul mare di nebbia, manifestazione massima della cultura Romantica e, per l’appunto, del “Sublime”89. Questa immagine dell’uomo che si distacca dalla propria dimensione ristretta e, una volta giunto in cima, riesce finalmente ad osservare il mondo dall’alto si potrebbe porre all’origine di altre sperimentazione vicine all’UrbEx, come il Rooftopping90 , attività che consiste nel raggiungere il punto più alto di un grattacielo o una torre, senza le opportune protezioni, per poi immortalare il proprio trionfo con fotografie (che verranno poi postate
William Gilpin, Remarks on Forest Scenery, Edinburgh, Fraser & co.,1834.
87
Ian Thompson, Urbex and “Ruin Porn”: Sublimity and the 21st century Picturesque, nell’ambito della conferenza Landscape, Wilderness and the Wild, tenutasi il 26 marzo 2015, presso la New Castle University.
88
89
Ibid.
Dario Goodwin, Walkable cities? Rooftoppers want climbable cities, in “Archdaily”, 24 febbraio 2015, < http://www.archdaily.com/601943/ walkable-cities-rooftoppers-want-climbable-cities> [consultato il 28 gennaio 2016].
90
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Caspar David Friederich, Viandante sul mare di nebbia, 1818, Alexander Remnov, Rooftopping, foto di Aurelie Curie (<www.architizer.comblogwhat-batman-sees-picturing-the-ciHamburger Kunsthalle, Hamburg. ty-from-above>)
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il prima possibile sui social network). In queste pratiche il motivo dominante è quello del gioco, in particolare del nuovo significato che questo acquisisce nell’età adulta. La sperimentazione, l’atto dell’imparare, dell’immaginarsi calato in un ruolo futuro, sono tutte attività che fanno riferimento a questo campo tematico, segnando il passaggio dell’individuo dall’infanzia alla maturità91. Questo “giocare a fare finta” può essere considerato all’origine dell’attrattiva esercitata dai luoghi abbandonati sull’uomo comune. Dal nuovo uso dello scarto architettonico, prodotto dell’azione simultanea di uomo e natura, scaturisce un nuovo intero, dall’identità mai completamente definita92. È proprio questo aspetto accidentale della trasformazione di un luogo ad affascinare l’esploratore urbano moderno, che si rende complice di questo “lasciar accadere”, divenendo egli stesso parte di un ciclo naturale e sempre mutevole93. Dinamiche simili hanno interessato anche il Palazzo del Lavoro, così come molte altre strutture abbandonate presenti nell’area torinese. A testimoniarne il suo degrado, ormai in parte eliminato al fine di rendere l’opera di Nervi più appetibile agli occhi di eventuali investitori, restano le foto di chi vi si è introdotto quando l’ingresso era vietato94.
Cindi Katz, Growing up Global. Economic Restructuring and Children’s Everyday Lives, Minneapolis, University of Minnesota Press, 2004, pp. 102-103.
91
Franco Speroni, La rovina in scena. Per un’estetica della comunicazione, Roma, Meltemi, 2002, pp. 7-16.
92
«L’intero processo storico dell’umanità costituisce un graduale impadronirsi ad opera dello spirito della natura che esso incontra fuori di sé – ma in un certo senso anche dentro di sé» in Georg Simmel, Die Ruine, in Philosophische Kultur. Gesammelte Essays, Leipzig, 1911, in Rivista di Estetica, n. 8, 1981, pp. 121-127.
93
Un esempio è fornito dal blog Abbandonografando <http://abbandonografando.blogspot.it/2014/10/ palazzo-del-lavoro-italia-61.html> [consultato il 28 ottobre 2015].
94
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Una rilettura della storia come metodo
La High Line di New York prima del suo riprogetto (foto di Andrew van Leewuen).
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3.3 Una rilettura della storia come metodo «Il paesaggio è sedimentazione di atti collettivi, testimo-
nianza di attività spesso ormai scomparse, memoria di un mondo il cui vero significato non viene più compreso da coloro che lo abitano.»95
Il legame tra l’immaginario dell’infanzia ed il potenziale nascosto dei luoghi abbandonati può essere riassunto dal concetto di “narrative sepolte”96: la narrazione di storie rimane infatti il mezzo attraverso il quale questi luoghi dimenticati riescono a rimanere connessi col mondo esterno. A sopravvivere all’incuria ed al vandalismo sono tracce del passato, che possono presentarsi in diverse forme: vecchi tracciati viari, santuari, sentieri battuti, parti di terreno più o meno consumate dal tempo. Questi elementi si possono identificare, dunque, sia in tracce di tipo visuale (come textures permanenti o simboli) sia in tracce di tipo olfattivo o tattile (odori permanenti o modi abitudinari di muoversi in un ambiente); proprio per questo motivo, la percezione di questi stimoli è qualcosa di estremamente intimo, che non può essere ricondotto solo alla comunità locale. Per questo motivo risulta importante capire che, com’è fondamentale individuare l’autore di queste narrazioni, altrettanto rilevante è il ruolo di chi si appresta a “leggerle”.
Gilles Tiberghien, A landscape deferred, in Intermediate Natures: the Landscapes of Michel Desvigne, Basel, Birkhauser, 2009, p. 156.
95
L’espressione è liberamente tratta dal capitolo Buried Narratives di Catherine Heathrington, parte della raccolta Urban Wildscapes, con l’obiettivo del testo è quello di raccontare gli spazi residuali tramite esempi provenienti da tutto il mondo; in Anna Jorgensen, Richard Keenan, Urban Wildscapes, New York, Routledge, 2012, pp. 171-185. La seguente analisi del riprogetto della High Line fa riferimento allo stesso capitolo.
96
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High Line, New York, Diller, Scofidio + Renfro, 1990 (foto di Russel Fernandez, Princeton Architectural Press). 302
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A nostro parere, una rilettura della storia del luogo può, infatti, costituire un metodo di riuso adeguato al Palazzo del Lavoro così come a molti altri luoghi in stato di degrado. Tale metodo comprende non solo un’analisi storica dell’area da recuperare, ma anche il rispetto per l’imprevedibile azione dell’uomo, della vegetazione e degli agenti atmosferici sull’edificio. L’immagine più rappresentativa di questo approccio è, forse, quella dei binari che attraversano il paesaggio, preservati ma anche assurti a simbolo di un progetto passato che può essere ispirazione viva per quello presente. L’esempio più celebre dell’applicazione di tale criterio è probabilmente il parco lineare della High Line, a New York: un vero e proprio “paesaggio sopraelevato”, creato da Diller, Scofidio + Renfro rianimare un “simbolo”, appunto, quello della rovina post-industriale, pur mutandone completamente la funzione. In questo caso, ad agire è stata in particolar modo la comunità, tramite l’organizzazione “Friends of the High Line”, che, soprattutto grazie all’appoggio di contatti molto influenti, ha ottenuto finanziamenti adeguati alla riuscita del progetto. Poco importa se il parco è stato accusato di non possedere una capacità narrativa sequenziale e ben comprensibile da tutti: il metodo “narrativo” impiegato dai progettisti è infatti una tecnica evocativa e non semplicemente conservativa; inoltre, l’evocazione non è solo riferita all’originaria funzione ferroviaria, ma anche alla vegetazione selvatica e fitta di arbusti che infiltratasi tra un binario e l’altro. A colpi-
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SĂźdgelande Nature Park, Berlino, progetto di riuso a cura di Odious, inaugurato nel 1999 (foto di Geert Heijink). 304
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re ancora di più è però il meccanismo che la High Line ha innescato: già pochi mesi dopo la riqualificazione di quest’area il valore delle proprietà ha cominciato a crescere esponenzialmente; il che si è rivelato fondamentale negli anni a venire, in quanto la manutenzione del parco, nella sua spontaneità e rigogliosità, richiede l’intervento di operatori specializzati. Per certo possiamo affermare che la grande popolarità della High Line si possa considerare testamento di un progetto fortemente suggestivo, che invita alla contemplazione di una natura al tempo stesso selvaggia ed addomesticata, ma soprattutto che esorta il “lettore” a scoprire la propria singola narrativa, intima e personale. In altri casi, il nuovo progetto prende forma proprio a partire dall’antica funzione del sito in oggetto, tramite l’osservazione degli elementi rimasti e nella selezione di quelli da enfatizzare ed ampliare di significato; per il progettista risulta fondamentale, quindi, prevedere un piano per mantenere intatti questi elementi, che inevitabilmente si danneggeranno a causa del rinnovato utilizzo. Un esempio da riportare, a riguardo, è sicuramente quello della riserva naturale della Südgelande, a Berlino, in cui grande attenzione è stata riservata al trattamento sia dell’aspetto naturale che di quello storico. La zona, rimasta abbandonata per tutti i ventotto anni di permanenza del Muro che divideva l’est e l’ovest della città, ha raggiunto altissimi livelli di biodiversità, acquisendo così un’unicità rara all’interno del contesto urbano e suburbano berlinese. Il parco
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SĂźdgelande Nature Park, Berlino, progetto di riuso a cura di Odious, inaugurato nel 1999 (<www.ytti.delocationsnatur-park-schoneberger-sudgelande-berlin>).
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ottenuto, che custodisce ancora alcuni vagoni ferroviari e binari in disuso da anni, è il risultato di un processo che lascia libero sfogo ad un’evoluzione spontanea, osservata con grande rispetto da parte dei cittadini. Il valore di quest’area sta nel rivendicare una libertà che, nella seconda metà del secolo scorso, soltanto questa e poche altre zone della città sono riuscite a mantenere. Una “rilettura” ancora più vicina agli abitanti ed al loro modo di vivere un luogo è quella impiegata dallo studio Latz+Partner per la rigenerazione dell’area industriale Thyssen-Meiderich di Duisburg; l’architetto Latz afferma di essersi limitato a rilevare un insieme di patterns definiti dal precedente uso a fabbrica e a rendere effettive quelle connessioni spaziali mai fisicamente esistite, tramite collegamenti funzionali, visuali o semplicemente immaginari97. Un luogo che si configura come terrain vague conserva infatti una varietà quasi infinita di pratiche di appropriazione, nonostante non sembri raccogliere in sé nessun altro significato se non quello di “vuoto”. Nel progetto di Latz, i materiali, le textures, la disposizioni su diversi livelli, sono tutte peculiarità altamente esplicative degli effetti che ha l’interazione tra l’uomo e la natura di un luogo; materiali costruttivi e naturali si scontrano generando nuove tracce, arricchendo l’edificio originario di uno slancio vitale che la semplice funzione originaria non avrebbe mai potuto conferirgli. Vengono ricreate addirittura delle zone di gioco (play-points)98 riservate anche agli adulti, che attraverso
<http://www.landezine.com/index. php/2011/08/post-industrial-landscape-architecture/> [consultato il 29 novembre 2015].
97
98
Ibid.
307
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Duisburg Nord Landscape Park, Duisburg, Latz + Partner, 1990-2002 (www.latzundpartner.de) 308
la questione dell’abbandono
semplici suggerimenti architettonici come una superficie inclinata o una cavità nel terreno invitano i visitatori a mettersi a confronto con l’architettura preesistente. Al “lettore” non viene, in questo caso, comunicato un messaggio diretto ed univoco, ma soltanto una serie di sensazioni che sta a lui interpretare ed esprimere attraverso il proprio modo di muoversi nello spazio. Un esempio di questo approccio più vicino alla scala architettonica è, poi, quello del Palais de Tokyo, museo di Parigi, riadattato a museo dallo studio Lacaton&Vassal. I due architetti, Anne Lacaton e Jean Philippe Vassal, si distinguono nel panorama internazionale per il loro interesse nella preservazione architettonica e per la loro attenzione ai contesti sociali in cui si sviluppano i loro progetti99. Con la loro estensione del Palais de Tokyo (costruito nel 1937 per l’Esposizione Internazionali di arte e tecnologia ed in seguito abbandonato e riutilizzato brevemente con funzione sempre diversa) i due architetti danno vita ad uno spazio espositivo che restituiscono però alla città, creando ambienti aperti e flessibili100. Il progetto si limita alla messa in sicurezza dell’edificio ed all’aggiunta di pochi elementi leggeri, riuscendo a sfruttare lo scarno budget messo a disposizione e creando uno spazio dedicato non solo all’esposizione, ma soprattutto alla creazione dell’arte. Un secondo intervento dello stesso studio aggiunge poi ulteriori funzioni, ma gli obiettivi di questa riqualificazione rimangono l’ottimizzazione dello spazio e la possibilità di gestire eventi simultanei senza farli inter-
Gonzalo Herrero Delicado, Intelligent architecture for current times, in “Domus”, 3 febbraio 2012, <http:// www.domusweb.it/en/architecture/2012/02/03/intelligent-architecture-for-current-times.html> [consultato il 3 dicembre 2015].
99
Gonzalo Herrero Delicado, Maria José Marcos, Demolizioni espositive, in “Domus”, n. 959, 11 giugno 2012, pp. 40-49.
100
309
la questione dellâ&#x20AC;&#x2122;abbandono
Play Point del Duisburg Nord Landscape Park, Duisburg, Latz + Partner, 1990-2002 (<www.latzundpartner.de>). 310
la questione dellâ&#x20AC;&#x2122;abbandono
Play Point del Duisburg Nord Landscape Park, Duisburg, Latz + Partner, 1990-2002 (<www.latzundpartner.de>). 311
la questione dell’abbandono
Palais de Tokyo, Parigi, ampliamento a cura di Lacaton & Vassal, 2002 (fonte:“Contemporary Art Daily”). 312
la questione dell’abbandono
ferire l’uno con l’altro. Una sorta di Fun Palace moderno (Cedric Price è proprio il riferimento principale scelto da Lacaton e Vassal), in cui diversi spazi sono messi al servizio del pubblico. Gli approcci descritti, sebbene leggermente divergenti per quanto riguarda il significato attribuito agli elementi preesistenti, condividono un obiettivo comune: quello di comprendere il grande valore aggiunto che caratterizza i fabbricati o le zone in stato di abbandono e di restituirne l’interpretazione ai visitatori. I segni del tempo vengono così conservati come a ricordare il proprio utilizzo passato, pur suggerendone uno nuovo e, spesso, completamente diverso.
313
PER UN
APPROCCIO “ECOLOGICO”
Il Palazzo è stato invaso, nel corso degni anni, non solo da visitatori non autorizzati, ma anche dalla folta vegetazione che lo circonda. I rami degli alberi che lo affiancano sono arrivati a rompere alcuni vetri e spingersi fino all’interno dell’edificio. Questo sviluppo incontrollato delle piante ha portato il Palazzo ad isolarsi rispetto al disegno più definito dell’antistante parco Italia ’61101. La componente arborea si presenta, quindi, molto diversa da quella inizialmente pensata a livello progettuale, sia perché in fase di progettazione e realizzazione non si è probabilmente considerato il naturale sviluppo delle piante, sia (anche se in maniera minore) per lo sviluppo di piante spontanee all’interno del recinto perimetrale102. Un rilievo del 2011 ha individuato ben 217 elementi arborei all’interno di tale area recintata, soprattutto platani (29 esemplari) e pioppi cipressini (26 esemplari), ma sono presenti anche querce rosse, querce fastigiate e altre essenze103. Tali piante si mostrano oggi in una condizione di crescita selvaggia e del tutto incontrollata: una condizione sicuramente difficile da ritracciare in altre parti della città così vicine al centro. Come già più volte accennato, parlare di città significa parlare anche del rapporto tra “complesso” e “casuale” che si instaura tra uomo e natura; se l’uomo è parte della natura, anche il suo intervento può essere considerato come un mutamento naturale del paesaggio104. La casualità è, in questo ambito, una componente fondamentale che concorre a ristabilire gli equilibri nella trasformazione del territorio: utilizzando le parole di Renzo Piano «la città è un continuo divenire […] non è disegnata, semplicemente si fa da sola»105. Allo stesso modo, di fondamentale importanza è ricordare l’impatto del tempo, capace di modificare e modellare anche le strutture più resistenti (addirittura le rocce): tale modificabilità rappresenta, forse, il più vero e realistico indice della vitalità della città106.
Città di Torino, Area Ambiente – Servizio Adempimenti ambientali, Accordo di Programma Riqualificazione del Palazzo del Lavoro. Riscontro vs nota prot. 3007, 29 ottobre 2015. 101
102
Ibid.
<http://www.provincia.torino.gov. it/territorio/sezioni/urbanistica/e_studi_ricerche/approf_terr/pa_candia/ relazione/vegetazione.html#vegetazione5.2> [consultato il 26 gennaio 2016].
103
Lúcio Rosato, La città negata. Identità e modificazione, Milano, FrancoAngeli, 2008, p. 19.
104
Renzo Piano, La responsabilità dell’architetto, conversazione con Renzo Cassigoli, Firenze-Antella, Passigli editore, 2010, pp. 76-77.
105
Lúcio Rosato, La città negata. Identità e modificazione, Milano, FrancoAngeli, 2008, p. 20.
106
315
Una possibile coesistenza tra natura e cittĂ
Il verde che si fa strada nellâ&#x20AC;&#x2122;asfalto di fronte Palazzo del Lavoro (fotografia delle candidate, 01.11.2015).
per un approccio “ecologico ”
4.1 Una possibile coesistenza tra natura e città «Le piante viaggiano. Le erbe, soprattutto. Si spostano in silenzio, come i venti. Non si può nulla contro il vento. Se si mietessero le nuvole, si sarebbe sorpresi di raccogliere sementi imprevedibili mescolate al loess, polveri fertili. Già nel cielo si disegnano paesaggi impensabili. L’evoluzione ne ha i suoi vantaggi, ma la società no. Il più umile progetto di gestione si scontra con il calendario della programmazione: ordinare, gerarchizzare, tassare, quando tutto può cambiare in un attimo. Come mantenere il paesaggio, quale griglia tecnocratica applicare alle intemperanze della natura, alla sua violenza? Il progetto di controllo totale trova degli alleati inattesi: i radicali dell’ecologia e i nostalgici. Niente deve cambiare, è in gioco il nostro passato; oppure, niente deve cambiare, è in gioco la biodiversità. Tutti contro il vagabondaggio!»107
Gilles Clèment, Il Giardino in Movimento, intervista a cura di Pino Brugellis e Sergio Risaliti, in “Abitare”, 23 marzo 2011, <http://www.abitare. it/it/eventi/2011/03/23/gilles-clement-il-giardino-in-movimento/?refresh_ce-cp> [consultato il 27 settembre 2015].
107
Il ragazzo selvaggio (L’enfant sauvage), François Truffaut, Francia, 1970.
108
Il rapporto della natura con la città rappresenta un punto particolarmente contraddittorio nella comprensione della complessità urbana. Un ostacolo ad una visione dell’attività umana come fenomeno naturale risiede nel fatto che, a partire dalla costruzione delle capanne primitive, l’uomo ha sempre tentato di difendersi dall’ambiente come da un nemico. Nel 1970, con il film L’Enfant Sauvage108, François Truffaut racconta la storia (vera) della lotta del medico Jean Marc Gaspard Itard per fare di un orfanello ritrovato
317
per un approccio “ecologico ”
Carlos Garcìa Vàsquez, Theoretical bases of conteporary debate about “nature in the city”, in Nature in the city : from ecological landscape to architectural design : OC -Open City, International Summer School, Piacenza 2013, Santarcangelo di Romagna (RN), Maggioli, 2014, p.45.
109
François Ascher, Métapolis ou l’avenir des villes, Paris, Odile Jacob, 1995; François Tomas, François Ascher: Métapolis ou l’avenir des villes, in “Revue de géographie de Lyon”, 1997, vol. 72, n. 2, p. 126.
110
Carlos Garcìa Vàsquez, Theoretical bases of conteporary debate about “nature in the city”, in Nature in the city : from ecological landscape to architectural design : OC -Open City, International Summer School, Piacenza 2013, Santarcangelo di Romagna (RN), Maggioli, 2014, p.45.
111
318
nei boschi un individuo civilizzato; una lotta che conduce a risultati consistenti, non permettendo però mai un adeguamento totale del ragazzo alle abitudini della vita moderna. La “barriera” tra città e natura109 viene abbattuta soltanto nel corso degli ultimi due secoli; François Ascher detiene il merito di aver coniato il termine che meglio rappresenta l’ambigua condizione contemporanea di metapolis110, intesa come unione di diverse città (o parti di città), i cui centri d’attività possono essere distanti tra loro anche parecchi chilometri111. L’abitante di questa metapolis, nello sforzo di adeguarsi ad essa, ha sviluppato una sorta di filosofia post-umanista, in cui l’essere umano si considera finalmente uno dei tanti animali che abitano la Terra, dotato di capacità superiori rispetto ad essi, ma privato del diritto (auto conferitosi precedentemente) di dominare sugli altri abitanti del pianeta. A questo approccio umano si è ben presto affiancato anche un approccio architettonico, che promuove trasformazioni soft del tessuto urbano, a scapito di quelle hard, imponenti e che si propongono di modificare intere porzioni di città in pochi anni. Si tratta, comunque, di una tendenza in lenta crescita, il cui principale esponente è Gilles Clément. Oltre ad aver dato vita ad una nuova interpretazione del concetto di “rovina”, infatti, Clément ha rivoluzionato la teoria del paesaggio con la sua idea di “giardino in movimento”, in continua evoluzione. Egli, nel suo Manifesto del Terzo Paesaggio, vede il mondo come un immenso “giardino planetario”,
per un approccio “ecologico ”
il cui giardiniere è l’intera umanità: “Istituire lo spirito del non fare così come si istituisce lo spirito del fare”, “elevare l’improduttività fino a darle dignità politica”, “insegnare i motori dell’evoluzione come si insegnano le lingue, le scienze, le arti”112 sono alcuni degli insegnamenti forniti da questo documento, dalla valenza quasi “politica”. La definizione specifica di “Terzo Paesaggio” è quella di frammento indeciso del “Giardino Planetario”, “somma degli spazi nei quali l’essere umano abbandona l’evoluzione del paesaggio all’azione natura”113. Si possono distinguere tre tipologie di “Terzo Paesaggio”:
Gilles Clément, Manifesto del Terzo Paesaggio, Macerata, Quodlibet, 2005.
112
Gilles Clèment, Claude Eveno, Le Jardin planètaire, la colloque, Château-Vallon, L’Aube, 1997.
113
Gilles Clément, Manifesto del Terzo Paesaggio, Macerata, Quodlibet, 2005, p. 22-23.
114
115
Ivi, p. 13.
- Riserve, spazi protetti da determinate norme - Insiemi primari, spazi mai sfruttati perché inaccessibili o perché poco appetibili economicamente - Residui, o le cosiddette “obsolescenze urbane”114 Se le prime due categorie riguardano esclusivamente gli spazi naturali, i residui assumono ulteriore importanza proprio perché la loro definizione è estendibile a tutti i tipi di spazi (la città, l’industria, il turismo producono infatti tanti residui quanto l’agricoltura e l’allevamento)115. Trattasi, più in generale, di tutte quelle aree abbandonate il cui fascino peculiare abbiamo precedentemente descritto: spazi di risulta, terreni in attesa di una destinazione. Essi possono, secondo Clément, rappresentare un’occasione di rifugio per la diversità, in base alla possibilità di sfruttarne il suolo, in ambito sia rurale che urbano.
319
per un approccio “ecologico ”
Gilles Clément, Manifesto del Terzo Paesaggio, Macerata, Quodlibet, 2005, p. 22.
320
per un approccio “ecologico ”
Bisogna però imparare a fare distinzione tra i vari tentativi di integrazione tra paesaggio circostante ed architettura che si sono succeduti negli ultimi decenni: esistono, infatti, forme di verde cittadino visibilmente artificiali, finto ricordo della campagna che in passato occupava lo spazio ora occupato dalla città; vi si contrappongono, poi, fenomeni ibridi, quasi mutanti, che si verificano forse più nelle zone ai confini delle aree metropolitane, ma anche in regioni intermedie, mostrando segni di discontinuità con il contesto. Il naturale arriva spesso a condizionare l’artificiale al punto da infrangere l’inferriata alzata per proteggerlo116, proprio come avvenuto nel caso del Palazzo del Lavoro.
Guya Bertelli, Architecture, nature, technique. What is changing?, in Nature in the city : from ecological landscape to architectural design : OC -Open City, International Summer School, Piacenza 2013, Santarcangelo di Romagna (RN), Maggioli, 2014, pp. 42-44.
116
Oggi, sempre più di frequente, sentiamo parlare di sostenibilità ed ecologia in ambito architettonico e urbanistico; ma il rapporto del cittadino nei confronti della natura è, in questo senso, solo parzialmente realizzato; l’idea di una penetrazione effettiva degli elementi naturali all’interno della città si presenta infatti, allo stesso tempo, difficile da immaginare come soluzione facilmente gestibile all’interno di uno spazio vivibile. Una buona architettura potrebbe però essere in grado di risolvere, tramite il contatto con la natura, problemi attualissimi quali la crisi dello spazio pubblico: molti sono gli esempi di progetti realizzati a cui potremmo fare riferimento. Una dimostrazione del successo di questo approccio a livello internazionale può essere identificata
321
per un approccio â&#x20AC;&#x153;ecologico â&#x20AC;?
Nezu Museum, Tokyo, Omotesando, progetto di riqualificazione a cura di Kengo Kuma Associates, 2009 (foto di Athikhom Saengchai).
322
per un approccio “ecologico ”
nel lavoro dell’architetto giapponese Kengo Kuma (anche professore universitario sempre impegnato in una forte attività di ricerca), il quale descrive l’archetipo dell’“Architect as a gardener”117: nella sua idea, quando un’architettura si trova a coesistere con un sistema naturale già strutturato, non può che configurarsi come un vuoto piuttosto che come un insieme di volumi; nei suoi progetti, Kuma escogita una tecnica di frammentazione in piccole parti, elementi puntuali, che seguono la retorica dell’anti-oggetto. Nel suo libro My Place, Kuma immagina la progettazione architettonica proprio come “un prodotto del luogo”118: uno degli esempi più emblematici di questo approccio è il Nezu Museum di Tokyo, il cui giardino è concepito come un vero e proprio boschetto naturale che si fa spazio tra i grattacieli, in uno dei quartieri più all’avanguardia della città. Ancora più d’impatto risultano, poi, interventi mirati alla pura contemplazione della friche, l’elemento incolto: la Derborence Island, all’interno del Parc Henri Matisse di Lille (il quale si configura proprio come un’isolata oasi urbana), viene ideata dallo stesso Gilles Clément proprio come elemento impraticabile dal piede umano, in cui la natura viene lasciata libera nella propria evoluzione autonoma, verso lo sviluppo di una foresta intoccabile ma di forte valore metafisico119.
Botond Bognar, Kengo Kuma, Material Immaterial: The New Work of Kengo Kuma, New York, Princeton Architectural Press, 2004.
117
Roger Pulvers, Architect Kuma Kengo: ‘a product of place’, in Asia-Pacific Journal: Japan Focus, vol. 11, Issue 26, 30 giugno 2014, p. 2.
118
Anna Jorgensen, Richard Keenan, Urban Wildscapes, New York, Routledge, 2012, p. 27.
119
Queste teorie paesaggistiche trovano facile collegamento con alcune tematiche contemporanee, architettoniche e sociali: un esempio è quello della resilienza urbana, oggi
323
per un approccio “ecologico ”
“L’ile Derborence”, Gilles Clèment, 1996-2002, Parc Henri Matisse, Lille (<www.gillesclement.com>).
324
per un approccio “ecologico ”
analizzata per lo più dal punto di vista delle risorse di energia e delle innovazioni in campo tecnologico, ma che detiene in realtà una notevole importanza anche all’interno della sfera psicologica del cittadino. La migliore metafora per rappresentare questo concetto è, probabilmente, una delle più utilizzate in ambito architettonico: quella che anatomizza la città da un punto di vista biologico, come vero e proprio habitat umano o ecosistema, in cui l’urban design non è altro che semplice strumento per rispondere alle esigenze umane (o, più in generale, naturali); per questo motivo la resilienza, intesa come capacità di adattamento a situazioni avverse (poiché, come dichiara James Corner, architetto americano sempre in cerca di approcci innovativi alla pianificazione del paesaggio: «One of the best ways to understand a system is to disturb it»120), deve divenire un mezzo utilizzato con una certa frequenza nella vita quotidiana di ogni abitante della città.
James Corner, Recovering landscape, Essay in contemporary landscape architecture, Millstone, Princeton Architectural Press, 1999.
120
325
Lo “scarto” come opportunità di aggregazione
Can Batllò, Barcelona, esempio di riappropriazione da parte della comunità locale, in trasformazione dal 2011 (fotografia delle candidate).
per un approccio “ecologico ”
4.2 Lo “scarto” come opportunità di aggregazione Quelli a cui abbiamo appena fatto riferimento sono paesaggi dell’anonimato urbano, a cui siamo fondamentalmente abituati, poiché rappresentano una scena fissa della nostra esistenza quotidiana: è in primo luogo da puntualizzare come il “vuoto” di cui parliamo non sia necessariamente quello legato alla mancanza di edificato, quanto piuttosto quello dovuto allo scadere di una qualsiasi attività, effetto di fenomeni in atto o dinamiche nuove.
Ignasi de Solà-Morales, Terrain vague, in Cynthia Davidson, Anyplace, Cambridge, MIT Press, 1995, pp.118123.
121
Alfonso Acocella, Abitare nel contemporaneo, in Costruire in Laterizio”, n. 88, luglio/agosto 2002, pp. 2-3.
122
Rafael Moneo, Per una teoria dell’architettura, in “Casabella” n. 666, aprile 1999, p. 30.
122
Siamo abituati ad entrare ed uscire da questi terrain vagues, spesso più volte nell’arco di una stessa giornata, anche senza accorgercene. Ciò nonostante, però, fatichiamo ancora ad apprezzarli in quanto testimonianze significative dei nostri tempi, a viverli in maniera positiva. Questi cosiddetti “luoghi di risulta” sono venuti a crearsi soprattutto negli interstizi tra contenitori edilizi e reti infrastrutturali121; sono quindi il risultato di una “contrapposizione” tra due generi di spazio, e perciò appaiono meno “confortevoli” rispetto ai luoghi progettati. Spesso, la nostra reazione più immediata consiste in un’uscita mentale e fisica da questi luoghi, così privi di umanità e socialità. Risulta tuttavia evidente come una scelta del genere non si possa configurare come decisiva o risolutiva122 al fine
327
per un approccio “ecologico ”
Rafael Moneo, The Solitude of Buildings, Kenzo Tange Lecture, Harvard University Graduate School of Design, 9 marzo 1985.
123
Umberto Cao, Luigi Coccia, Polveri Urbane, Roma, Meltemi, 2003, p. 25.
124
125
Ibid.
126
Ivi, p. 28.
di uno sfruttamento adeguato del suolo cittadino; questi luoghi indefiniti costituiscono infatti un’opportunità per la creazione di nuovi spazi al servizio dei cittadini. Per venire incontro a questa mancanza, le città di oggi dovrebbero puntare a: «un’architettura che sia tanto uno strumento, nel senso della trasformazione artificiale dell’ambiente fisico, quanto una struttura capace di reggere la vita della società. L’idea di un linguaggio condiviso, che serva a produrre il mondo degli oggetti e i vari tipi di edifici nei quali e con i quali viviamo, emerge come necessità, se si vuole comprendere l’architettura e la sua produzione»123. In quest’ottica, allo spazio vuoto può essere data la possibilità di riscattarsi e farsi, anch’esso, strumento di socialità124. Oggetti ordinari e straordinari, reti viarie e spazi vuoti, parcellizzazione del suolo, conformazioni geografiche, in definitiva tutto ciò che appartiene al disegno del territorio urbanizzato ed alla sua topografia, partecipa alla costruzione del cosiddetto patrimonio cromosomico urbano125, definendo così l’impronta genetica della città. Come accade nelle ricerche di laboratorio, l’individuazione e la separazione dei diversi componenti urbani consente una valutazione specifica di ciascuno di essi apprezzandone singolarmente le potenzialità in un prevedibile processo di trasformazione126. Il progetto del vuoto non si pone, in quest’ottica, come semplice tentativo di miglioramento estetico, bensì come struttura organizzativa che parte dalla comprensione della situazione esistente per
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per un approccio “ecologico ”
poi affrancare la città dal processo di omologazione che la attraversa127. Per risolvere la situazione di stallo in cui si trovano tanti luoghi, la generazione di spazio pubblico rappresenta forse la risposta più scontata, poiché rappresenta un elemento a cui è molto difficile dare una definizione specifica. La problematicità nel dare tale definizione sta innanzitutto nel fatto che lo spazio pubblico urbano si declina in modi diversi a seconda del luogo in cui si sviluppa, pur rimanendo riconducibile alla matrice comune di «spazio delimitato e riconosciuto dalla collettività in quanto idealmente aperto a tutti»128. Tale descrizione può essere riportata ad un luogo qualunque della città, non solo alla piazza, prima immagine a cui istintivamente ci verrebbe da pensare: dal cinema alla biblioteca, dal caffè alla stazione ferroviaria. Lo spazio pubblico si sviluppa, inoltre, su due livelli fondamentali: quello dello spazio fisico, che va a definire l’immagine “formale” della città, e quello dello spazio relazionale, luogo di incontro e scambio, fruibile indistintamente da tutti i cittadini. La lingua inglese facilita tale distinzione tramite l’uso di due diverse espressioni: con “Public Space” viene identificata la dimensione fisica dello spazio, mentre “Public Realm” si riferisce all’aspetto sociale, quello “vissuto” (nel vero senso della parola) dai cittadini129.
Si farà d’ora in poi largamente riferimento alle teorie di Gian Paolo Torricelli riguardanti il dualismo fondamentale tra spazio fisico e spazio mentale (in riferimento alla struttura dello spazio pubblico contemporaneo) in: Gian Paolo Torricelli, Potere e spazio pubblico urbano. Dall’agorà alla baraccopoli, Milano, Academia Universa Press, 2009.
127
Lyn H. Lofland, The Public Realm: Exploring the City’s Quintessential Social Territory, New York, Aldine de Gruyter, 1998, p. 9.
128
La parola serendipity proviene da un racconto dalla tradizione indiana, i Tre Principi di Serendip, trascritto da Horace Walpole in una lettera del 1754. Per lui la “serendipity” era la caratteristica che si produce quando questi Principi viaggiano. Per questo oggi la parola significa capacità di affrontare situazioni impreviste e mettere a frutto situazioni apparentemente negative che possono diventare positive, in funzione delle strategie che adottiamo. Si veda Jacques Lévy, Serendipity, in “EspaceTemps”, 13 gennaio 2004, < http://www.espacestemps.net/articles/serendipity/> [consultato l’11 novembre 2015].
129
Lo spazio pubblico, inteso in questa sua dualità, è un
329
per un approccio “ecologico ”
Piscina pubblica a Bucharest, 2012 (<www.publicspace.org>).
330
per un approccio “ecologico ”
luogo quindi variabile all’interno del sistema urbano: per sua natura, infatti, è attraversato da una popolazione non predefinita: persone tra loro estranee interagiscono casualmente al suo interno, in un continuo generarsi di incontri fortuiti: questo insieme di relazioni è riassunto nel concetto di “serendipità”, una parola inconsueta che indica la capacità degli uomini di trasformare imprevisti in opportunità. Ad utilizzare e connotare questo vocabolo è stato Jacques Lévy130, psicanalista newyorkese; questa parola, per quanto utilizzata a sproposito anche in romanzi rosa e simili, rende l’idea di una società composta da singoli soggetti che entrano continuamente in contatto tra loro: una situazione che è sempre esistita all’interno dello spazio pubblico ed è alla base della formazione di nuove idee. Questa visione ci permette di connotare lo spazio pubblico anche come spazio di relazione per lo più “immateriale”, per quanto definito dall’assemblaggio di volumi intorno ad un “vuoto”. Non meno importanti sono, comunque, le attività pratiche che si sviluppano nello spazio pubblico: la più ovvia è probabilmente la gestione dei flussi della città, intesicome flussi di persone ma anche di acqua, energia, materia, rifiuti, inquinanti; o almeno, così è stato fin dai tempi dei romani. Questo genere di funzione si traduce fisicamente non tanto nel modello di agorà greca, quanto nello spazio della strada, fulcro vitale di una società in continuo movimento come quella odierna; si identifica anche, però, in ciò a cui non ci verrebbe normalmente da pensare: il mondo sotterraneo
Gian Paolo Torricelli, Potere e spazio pubblico urbano. Dall’agorà alla baraccopoli, Milano, Academia Universa Press, 2009.
130
David Ley, Social Geography of the City, New York, Harper & Row, 1983.
131
331
per un approccio â&#x20AC;&#x153;ecologico â&#x20AC;?
Riappropriazione di area degradata e coltivazione di orti urbani, Prinzessinengarten, Berlin, 2012 (foto di Lotte Letschert).
Riappropriazione di area degradata e coltivazione di orti urbani, Prinzessinengarten, Berlin, 2012 (foto di Lotte Letschert).
332
per un approccio “ecologico ”
dei cunicoli, delle tubazioni, delle fognature. Anche questo è spazio pubblico131.
Zigmut Bauman, Modernità Liquida, Bari-Roma, Laterza, pp. 31-33.
132
Questo ulteriore dualismo può essere ben espletato tramite un evento realmente accaduto, un aneddoto usato da David Ley nell’insegnamento della geografia alla Columbia: negli anni ’70 la città di Philadelphia domanda ad alcuni ricercatori di trovare la migliore localizzazione per un parco giochi di un quartiere povero della città. Nel locale istituto di geografia si realizzano dei modelli di localizzazione molto sofisticati, corredati da mappe che mostrano la densità e l’accessibilità di ogni possibile area. Si arriva così a decretare la localizzazione ottimale in funzione di diversi parametri: la distanza minore dalle residenze delle famiglie, dalle scuole, del prezzo del terreno, e così via. Il luogo prescelto cade in un terreno in disuso, adiacente alla ferrovia, effettivamente dotato di una buona accessibilità rispetto alle aree residenziali del quartiere. Il parco viene quindi costruito e inaugurato, ma dopo pochi mesi chiude a causa di continui episodi di violenza che accadevano nel parco. Dopo meno di un anno i giochi vengono distrutti ed il parco disertato dai bambini: si scopre così che il parco si trova esattamente sul confine tra i “territori” di due giovani bande rivali. Ciò è il risultato di una mancata attenzione, quella nei confronti dell’effettivo modo di vivere il quartiere diffuso tra i suoi abitanti. Limitandosi ad analizzare lo spazio astratto delle mappe, infatti, i ricercatori hanno dimenticato il Public Realm, pro-
333
per un approccio â&#x20AC;&#x153;ecologico â&#x20AC;?
Aberdeen Centre, Hong Kong, 2006 (<www.aberdeencentre.com>).
334
per un approccio “ecologico ”
prio degli attori del quartiere132. Lo spazio pubblico non è quindi una proiezione ideale, collocabile in un qualsiasi luogo condiviso: si tratta del frutto di un meccanismo molto più complesso, legato inscindibilmente alla volontà ed all’autonomia degli individui che abitano un particolare spazio. Proprio per questo motivo lo spazio pubblico tende oggi a scomparire all’interno della città, per riconfigurarsi al di fuori di essa in luoghi come il centro commerciale o lo stadio. La tendenza all’individualizzazione del mondo moderno lo porta, sempre più, a fossilizzarsi su relazioni immateriali (ad esempio attraverso l’uso dei social network)133: diventa così più difficile dare una forma materiale allo spazio condiviso; lo spazio pubblico ha assunto una connotazione post-politica, identificandosi ormai più col mondo della televisione che con quello della piazza o della strada. Addirittura, questa tendenza all’individualizzazione ha portato a risultati estremi, come le gated communities o i barrios cerrados, rendendo evidente la crisi dell’idea di “piazza” soprattutto in luoghi come l’America Latina o l’Oriente, in cui i luoghi pubblici, così come li abbiamo presentati, continuano a non esistere ed i luoghi d’incontro quotidiani sono i grandi magazzini, gli uffici o le scuole134.
Zigmut Bauman, Modernità Liquida, Bari-Roma, Laterza, p. 87. 133
Gian Paolo Torricelli, Potere e spazio pubblico urbano. Dall’agorà alla baraccopoli, Milano, Academia Universa Press, 2009.
134
Cristiana Chiorino, Cronistoria di una vita grama. Il Palazzo del Lavoro dal 1961 ad oggi, in “Il Giornale dell’Architettura”, 20 settembre 2015, <http://ilgiornaledellarchitettura. com/web/2015/09/20/cronistoria-diuna-vita-grama-il-palazzo-del-lavorodal-1961-a-oggi/>, [consultato il 13 ottobre 2015].
135
Inoltre, a contribuire a questa crisi è, anche in Europa (ed in Italia), l’atteggiamento delle municipalità che, spesso per mancanza di risorse, si ritrovano costrette ad includere parte del patrimonio pubblico in operazioni di tipo “pub-
335
per un approccio “ecologico ”
Mike Davis, Fortress Los Angeles: the Militarization of Urban Space, in: Michael Sorkin, Variation on a Theme Park. The New American City and the End of Public Space, Hill and Wang, New York, 1992, pp. 154-180.
136
Marc Augé, Non-lieux, introduction à une anthropologie de la surmodernité, Paris, Le Seuil, 1992, p. 70.
137
blico-privato”: questo assume così le caratteristiche di una proprietà privata e diventa oggetto di investimenti di vario genere, per lo più a sfondo commerciale135. È questa la situazione in cui si trova, oggi, anche il Palazzo del Lavoro, che sia il Comune di Torino sia la Regione Piemonte hanno rifiutato di acquisire: tale processo è all’origine del mancato utilizzo dell’edificio, il cui riprogetto deve ora rispondere alle elevate richieste di rendimento economico del suo proprietario privato, la Gefim Spa136. La nuova funzione commerciale non va considerata come “dannosa” a priori, poiché la grande attrattività di pubblico che la caratterizza potrebbe essere sfruttata a favore di un ripopolamento di queste aree cittadine degradate. Sono, piuttosto, le forme architettoniche standardizzate che la caratterizzano ad impedire la creazione di un vero spazio pubblico: si genera così una serie infinita di non-luoghi, totalmente pervasi da un’idea di marketing e di controllo totale della mente del consumatore. Questa omologazione può essere illustrata tramite l’esempio dei negozi Carrefour, che appaiono studiati nello stesso modo in America Latina ed in Europa, anche nelle loro forme architettoniche, con i banchi di frutta, di pesce, di carne, con le offerte speciali, i punti di incontro; a seconda della città, è il significato che cambia: per un abitante di Buenos Aires, ad esempio, il Carrefour corrisponde al “negozio dei ricchi”, mentre per un parigino si tratta di un comune supermercato137. Tuttavia la forma e la logica alla
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per un approccio “ecologico ”
base del punto vendita rimangono identiche, ossia l’idea del centro commerciale come città nella città, del tutto distaccata da ciò che avviene anche nel suo immediato esterno. Il tentativo di sfuggire a questa tendenza all’omologazione è, oggi, quasi sempre lo stesso: la creazione di un’architettura “stupefacente”, che si distingua da quelle già presenti nell’area di intervento, esercitando un’attrazione ancora più forte nei confronti dei clienti. La concezione del centro commerciale come “piazza del mercato” si scollega, in questo modo, dall’aspetto esteriore dell’edificio: ciò avviene soprattutto per motivi legati alla ricerca di finanziamenti, ed ha quindi valore in particolar modo per le grandi operazioni immobiliari, per le quali la strategia di base consiste nell’ingaggio di architetti di fama mondiale138. Ne sono un esempio l’impressionante Wangjing Soho di Zaha Hadid a Pechino (2012), così distaccato dal suo intorno da essere accusato dal Centro di Protezione del Patrimonio Culturale della città di aver arrecato un danno irreparabile all’impostazione urbana pechinese139, o il West Side di Daniel Libeskind (2008) che si inserisce come un alieno alla periferia di Berna; a sua discolpa, l’architetto ha affermato: «non ritengo si tratti di una cattedrale del denaro, ma di una cattedrale per le persone. Ogni cattedrale costa d’altronde parecchi soldi: dovremmo pertanto evitare di separare così marcatamente il mondo materiale e quello spirituale»140. Non c’è da
Oliver Wainwright, Seeing double: what China’s copycat culture means for architecture, in “The Guardian”, 7 gennaio 2013 <https://www.theguardian. com/artanddesign/architecture-design-blog/2013/jan/07/china-copycat-architecture-seeing-double> [consultato il 20 dicembre 2015].
138
Daniel Libeskind, Intervista a Andreas Keiser, Swissinfo, 8 ottobre 2008, <www.swissinfo.ch> [consultato il 20 dicembre 2015].
139
Saskia Sassen, Intervista a Grégoire Allix, Le Monde, 21 aprile 2009.
140
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per un approccio â&#x20AC;&#x153;ecologico â&#x20AC;?
Wangjing Soho, Zaha Hadid, Beijing, 2014 (<www.skyscrapercity.com>).
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per un approccio â&#x20AC;&#x153;ecologico â&#x20AC;?
Westside Bruennen, Daniel Libesking, Bern, 2008 (<www.archdaily.com>).
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per un approccio “ecologico ”
Ad esempio come Millenium Park a Chicago le Ramblas del Mar di Barcellona, il Porto Antico di Genova, o ancora l’Eje Ambiental di Bogotá; Gian Paolo Torricelli, Potere e spazio pubblico urbano. Dall’agorà alla baraccopoli, Milano, Academia Universa Press, 2009.
142
Provincia di Torino, Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale, Variante a PTC I ai sensi dell’art. 10 della legge regionale n. 56/77 smi, secondo le procedure di cui all’art. 7, agosto 2011, p. 185.
143
Matteo Colleoni, Francesca Guerisoli, La città attraente: Luoghi urbani e arte contemporanea, Milano, Egea, 2014, pp. 71-72.
144
340
stupirsi quindi che, disseminate da interventi di questo tipo, le nostre città si ritrovino sempre più simili: dappertutto abbiamo gli stessi quartieri d’affari, gli stessi centri commerciali, gli stessi alberghi di lusso, gli stessi aeroporti, quali che siano le star dell’architettura che li firmano . Eppure esempi di spazio pubblico fedeli all’idea di Public Realm, a cui si faceva accenno sopra, esistono e sono anche abbastanza recenti: il loro problema è che si tratta di interventi per lo più puntuali, quasi mai parte di una strategia più ampia che possa riguardare, se non un’intera città, almeno una sua parte più o meno consistente142. Inoltre, nelle città odierne lo spazio pubblico è quasi sempre relegato al passaggio, soprattutto al passaggio inteso ad uso esclusivo dell’automobile: trattasi di una situazione familiare anche all’area di Italia ’61, il cui attraversamento pedonale è impedito dai servizi e dalle infrastrutture legate unicamente all’utilizzo dell’auto143. La definizione di spazio pubblico decade non appena questo viene attraversato in auto, per definizione un cubicolo a pura imitazione dello spazio individuale, privato144. L’area pubblica non colonizzata dal consumo, poi, si riduce spesso ad un’estensione minima: ad esempio uno sprazzo di giardino per giocare o un mercato rionale; forme urbane che tendono a crearsi anche in assenza di uno supporto architettonico, grazie allo sviluppo di relazioni interpersonali dovute ad una sorta di solidarietà tra cittadini, per la comune appartenenza ad un determinato territorio. Lo
per un approccio “ecologico ”
spazio pubblico, infatti, è sempre stato rappresentazione di relazioni (quelle di potere, ad esempio, soprattutto in passato), reti e connessioni che hanno finito per plasmarne anche la forma esterna, al punto da farne l’espressione più evidente dei diversi periodi storici145. Ogni luogo, per diventare veramente condiviso dalla cittadinanza, necessita quindi di passare tramite una “rimodellazione” da parte di chi lo abita, o meglio ancora che si tenti di rispondere già in fase di progetto ai bisogni espressi dagli abitanti. Le viste a volo d’uccello dei masterplan moderni spesso non risultano abbastanza realistiche per rispondere a questa necessità e tendono a riportare, per di più, le pratiche di un singolo quartiere alla decisione di uno “specialista” che rimane comunque ben lontano dai valori culturali degli abitanti della zona146. La soluzione per un paesaggio urbano più inclusivo e vivibile potrebbe essere riassunta nel’idea di ri-appropriazione, valida soprattutto nel caso di edifici o zone abbandonate, e che quindi non fanno da tempo parte del Public Realm. Riprendendo le parole di Giovanni La Varra nel suo Post-It Spaces:
Si veda la distinzione di Henri Lefebvre tra rappresentazione dello spazio e spazio di rappresentazione, ovvero tra lo spazio morfologicamente inteso e l’insieme di relazioni che lo costituiscono e lo organizzano; Henri Lefebvre, Le Droit à la ville, Paris, Anthropos, 1968.
145
Per un maggiore approfondimento sul tema dello spazio residuale, si faccia riferimento a Erick Villagomez, Claiming residual spaces in the heterogeneous city, in Jeffrey Hou, Insurgent Public Space. Guerrilla urbanism and the remaking of contemporary cities, New York, Routledge, 2010, pp. 81-83.
146
Giovanni La Varra, Post-It City: The Other European Public Space, trad., in Rem Koolhaas (et alii), Mutations, New York, Actar, 2001. 147
«Nel centro della città o a suoi confini, nel cuore del tessuto urbano del diciannovesimo secolo o nelle grandi aree peri-urbane, si compone un infinito catalogo di spazi informali, che con le loro innumerevoli articolazioni […] occupano letteralmente lo spazio pubblico urbano, il cui significato ed il cui valore vengono così completamente trasfigurati.»147
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per un approccio “ecologico ”
“Post-It City” Exhibition, Giovanni La Varra, 2011 (<www.cccb.org>).
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per un approccio “ecologico ”
La riappropriazione non è comunque una pratica ascrivibile unicamente ai cittadini: anche i progettisti e le amministrazioni locali sono coinvolti in questo processo. Un esempio che vogliamo prendere come riferimento per il riutilizzo del Palazzo del Lavoro è quello del complesso museale del MACBA e del CCCB di Barcellona, che nel 2015 sono stati espansi fino ad occupare un intero isolato di città. Il rinnovamento della tipografia dell’area si focalizza sulla creazione di una serie di cortili, ognuno dei quali capace di comunicare sensazioni e generare attività diverse tra loro. Con il passaggio attraverso spazi alternativamente più ampi o più stretti, il visitatore viene condotto in ambientazioni diverse: i cortili costituiscono quella che i progettisti definiscono un’agorà, un luogo di aggregazione e, al tempo stesso, uno spazio per esposizioni occasionali, attività all’aria aperta, proiezioni di film ed eventi speciali. Questi cortili dunque non solo restituiscono un isolato (dalla conformazione precedentemente molto rigorosa) alla città, ma attirano anche una nuova fascia di pubblico, che viene così avvicinata al mondo della cultura e dell’arte. Gli spazi residui infatti mantengono una propria portata dimensionale, non sono spazi irrilevanti: proprio per questo motivo un modo per donarvi nuovo vigore può consistere non tanto nel “riempirli” con volumi aggiuntivi, quanto piuttosto nel riorganizzarli al servizio dei cittadini.
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per un approccio â&#x20AC;&#x153;ecologico â&#x20AC;?
Cortile del MACBA, Richard Meier, Barcelona, 1995 (foto di Quentin de Briey).
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per un approccio “ecologico ”
Accogliere questi spazi all’interno del tessuto urbano non farà infatti che renderlo più interessante, oltre che equilibrato e dinamico. Non vi è infine da stupirsi se le pratiche che permettono tale rivendicazione sono per lo più piccole operazioni, che non richiedono un grande capitale di intervento e che spesso finiscono per includere nel processo decisionale anche la comunità locale: ciò che è importante, in questo senso, è mantenere aperte sempre diverse opportunità di trasformazione, permettendo al progetto anche di variare leggermente con il passare del tempo (e quindi con l’avvicendarsi della storia del luogo e degli eventi che lo popolano). Tutto ciò rientra nell’evoluzione naturale che regola le attività della città attuale: le città, d’altronde, sono sempre state entità dinamiche, in continuo cambiamento, così come le popolazioni che le abitano.
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per un approccio â&#x20AC;&#x153;ecologico â&#x20AC;?
Ingresso del MACBA, Richard Meier, Barcelona, 1995 (fotografia delle candidate).
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per un approccio “ecologico ”
Cortile del CCCB, ampliamento a cura di Helio Piñón e Albert Viaplana Barcelona, 1993, (<www.ajuntament.barcelona.cat>).
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IL
PARASSITISMO
COME CONCEPT PROGETTUALE
L’esigenza del Palazzo di Lavoro di essere integrato nel contesto urbano è dovuta tanto al suo essere un edificio di grandi dimensioni, quanto al lungo periodo di abbandono che ha attraversato; il Palazzo necessita di una risposta che tenga conto anche della volontà di chi abita nelle sue vicinanze. Inoltre, il processo di riappropriazione di cui il Palazzo è oggetto presenta, a nostro avviso, una peculiarità: esso è mosso da due forze diverse, quella della vegetazione e quella della popolazione. Uomo e natura tentano infatti, fin dai primi anni del post-esposizione, di impadronirsi dell’architettura, attraverso un’azione simultanea: quest’atto invasivo può essere riassunto in una visione biologica d’insieme, che comprenda il cittadino come parte integrante della natura. Secondo il nostro parere, anche l’intervento sul Palazzo dovrebbe seguire questo flusso spontaneo, riportando in egual modo all’interno della struttura aspetti caratterizzanti del quartiere che della natura che lo circondano.
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Tipologie di invasione parassitaria
il parassitismo come concept progettuale
5.1 Tipologie di invasione parassitaria I due sistemi prevalenti nell’area che circonda il Palazzo possono essere identificati come quello della città, caratterizzata da un’impostazione a maglia regolare, e quello della natura, contraddistinta dalla crescita quasi selvaggia della vegetazione: trattasi di due assetti completamente contrapposti, in un binomio tra regolarità distributiva e mancanza di controllo. Il Palazzo del Lavoro si configura, quindi, come luogo in cui queste due forze si incontrano e si sovrappongono; innestandosi l’uno sull’altro, essi danno vita ad uno spazio “ibrido”, proseguimento naturale tanto del quartiere Nizza-Millefonti quanto del parco fluviale del Po.
Questa prima presentazione del concetto di “parassita”, insieme con le seguenti definizioni accurate, sono tratte del primo capitolo (Intrusi) della Tesi di Dottorato di Sara Marini, Architettura Parassita. Strategie di riciclaggio per la città, Macerata, Quodlibet, 2010. 148
Il nostro programma di crescita prende, dunque, la conformazione di un fenomeno naturale, proponendosi come sviluppo parassitario dell’architettura e del verde all’interno della pre-esistenza148. Riteniamo, infatti, che, avendo identificato quella urbana come unica scala alla quale il Palazzo potrebbe fare riferimento, l’inserimento di ulteriori volumi rappresenti la volontà di una riflessione più profonda sui residui: il nuovo progetto si inserisce nel tessuto urbano reinterpretandolo, ma contemporaneamente mantenendo una propria identità, una narrativa
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il parassitismo come concept progettuale
Ingresso del parco e della cittĂ allâ&#x20AC;&#x2122;interno del Palazzo e sovrapposizione di questi due sistemi
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il parassitismo come concept progettuale
individuale; anche la vegetazione penetra l’edificio rendendosi più ammaestrata, più gestibile da parte degli utenti. Il riprogetto dello spazio residuale si apre così alla realtà, alla complessità data dalle condizioni al contorno, alle necessità ed agli impedimenti esistenti, dal punto di vista economico e da quello pratico.
Si veda la metafora di Michel de Certau, L’invention du quotidien: Arts de faire, Paris, Gallimard, 1990, p. 248, riportata in Sara Marini, Architettura Parassita. Strategie di riciclaggio per la città, Macerata, Quodlibet, 2010, p. 23.
149
“Parassitari” sono quei progetti che, nel relazionarsi alle preesistenze, istituiscono con esse un legame di interdipendenza spaziale e strutturale, ma non necessariamente funzionale, evitando qualsiasi obbligo di mediazione identitaria o stilistica. Il parassita, in architettura, trova sua espressione più diretta nell’idea di stratificazione: in questo senso, il territorio su cui l’uomo si ritrova ad agire può essere visto come un palinsesto149, un luogo di accumulo della memoria, un concentrato di ricordi in cui scavare per rintracciare quell’insieme di racconti e segni di cui abbiamo tanto a lungo parlato. Il parassita non esiste come semplice risultato del restauro o del riuso di edifici precedenti: ha una vita propria, instaura legami col proprio intorno, si appropria di ciò che, in origine, non era di sua proprietà; esso è quindi un elemento di disturbo, di stravolgimento delle responsabilità. «La forma parassitaria crea un’interferenza, un rumore nella funzionalità di un sistema, un’eccezione deviante in grado di evolvere la complessità dell’organismo, ma che nel suo posizionamento favorisce una sorta di spazializzazione dell’identità, nel riconoscimento del corpo difforme e nella mobilitazione degli apparati di indagine
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il parassitismo come concept progettuale
PARA-SITE, Diller + Scofidio, Museum of Modern Art, New York, 1989 (<www.dsrny.com>)
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il parassitismo come concept progettuale
immunologica di sicurezza. Riconoscimento di sé nel disconoscimento dell’altro.»150
Negli anni il tema del parassitismo è stato ripreso in moltissime mostre, pubblicazioni ed iniziative nel campo dell’arte e dell’architettura, che hanno tentato di indagarne più a fondo le dinamiche. Michel Serres, uno dei maggiori esperti nel campo, autore di The Parasite, lo definisce non tanto un vocabolo quanto un’area semantica, un “insieme fluido” di avvenimenti151. Quest’opera, in particolare, è alla base della maggior parte degli approfondimenti e delle rielaborazioni portate avanti anche negli ultimi decenni: tra quelle dal concept più significativo, l’installazione PARA-SITE di Diller + Scofidio del 1989 al MoMa152, ispirata alla definizione di “parassita” di Serres153: tramite un gioco di schermi e telecamere posizionate nella varie sale, l’esposizione si pone l’obiettivo di alterare la visione dello spazio del museo da parte dei visitatori. A tali principi si ispira anche l’esposizione P.A.R.A.S.I.T.E. tenutasi nel 1989 al Museum of Contemporary Art di Lubiana, legata agli stessi principi espressi da Serres in “Le Parasite”154. Vocaboli come ready-made, individual, ecological entrano, nella mostra, in accordo con le teorie parassitarie applicate in campo architettonico: nelle sperimentazioni che adottano la strategia parassitaria si ritrovano, infatti, la volontà di riciclare (ready-made), in risposta alle esigenze della comunità locale o del privato proprietario dell’area (individual), ma che resta per
Lorenzo Imbesi, Corpi Parassiti: prassi di contaminazione e produzione spaziale, in Avatar. Dislocazioni tra antropologia e comunicazione, n. 5, 2004. 150
Michel Serres, Le Parasite, Paris, Hachette, 1980.
151
<http://www.dsrny.com/projects/ para-site> [consultato il 18 gennaio 2016].
152
Michel Serres, Le Parasite, Paris, Hachette, 1980.
153
<http://www.parasite-pogacar.si> [consultato il 18 gennaio 2016].
154
355
il parassitismo come concept progettuale
Nagakin Tower, Kisho Kurokawa, Shimbashi, Tokyo, 1972 (foto di Alberto Bracci)
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il parassitismo come concept progettuale
principio, guardando al riciclo di spazi già costruiti, sostenibile (ecological)155.
Sara Marini, Architettura Parassita. Strategie di riciclaggio per la città, Macerata, Quodlibet, 2010, p. 31.
155
In architettura, il movimento metabolista giapponese della seconda metà del ‘900 è quello che si avvicina maggiormente all’idea di parassita che vorremmo adottare come concept progettuale: edifici come la Nagakin Capsule Tower di Tokyo, ideati immaginando l’uomo del “futuro” ed una società in continua trasformazione, mirano a comporre una struttura urbana duttile e mutevole. Gli caratteristiche principali di questi edifici sono la flessibilità e la possibilità di espandersi (soprattutto grazie all’utilizzo di cemento armato) ed il rifiuto di regole tipiche della tradizione edilizia ed urbana giapponese dell’epoca in funzione delle esigenze degli utenti; queste strutture erano infatti progettate per pendolari e lavoratori che avrebbero utilizzato gli appartamenti solo per dormire. Nonostante il loro fallimento e progressivo abbandono, dovuto alla mancata evoluzione reale di questo modello, queste costruzioni rimangono rappresentative di una visione biologica dell’architettura, che come un vero parassita è concepita per svilupparsi in base ad una necessità e non ad un progetto precedente interamente definito. Se analizzato dal punto di vista biologico, infatti, il termine “parassita” è rapportabile all’architettura nella varietà di scambi relazionali che esso può differentemente sviluppare: è parassita un corpo che costruisce una rela-
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il parassitismo come concept progettuale
H.D. Crofton, A Quantitative Approach to Parasitism, in H.D:Crofton (et alii), Parasitism. The Diversity and Ecology of Animal Parasites, Cambridge, Cambridge University Press, 2001.
156
Sara Marini, Architettura Parassita. Strategie di riciclaggio per la città, Macerata, Quodlibet, 2010, p. 21.
157
zione con un altro corpo, ma assume anche il ruolo di componente stabilizzante di un sistema, che permette a quest’ultimo di evolversi in una nuova configurazione156. L’interpretazione biologica si fa poi fondamentale nell’ottica della nostra visione della natura mutevole, così come dell’uomo e del suo prodotto come sue semplici declinazioni. La città stessa può essere facilmente riletta attraverso gli strumenti della biologia; anzi, una visione del genere potrebbe essere utile per definire la convivenza tra il sistema statico dello spazio e quello dinamico della popolazione. È soprattutto la branca della veterinaria ad adeguarsi bene alle relazioni tra diverse strutture architettoniche: ad esempio, fondamentale è la distinzione tra parassitismo mutualismo, definito come quell’«associazione di individui fortemente interdipendenti, fino al punto che i due partners non possono sopravvivere in assenza l’uno dell’altro», e parassitismo – commensalismo, ovvero quella situazione che «prevede che vi sia beneficio verso una sola direzione»156. Allo stesso modo, in architettura, si distinguono il restauro, che presuppone un’integrazione ottimale del nuovo manufatto con le logiche e le regole proprie del sito di intervento, e la strategia dell’immissione di un corpo estraneo all’interno o in completamento dell’edificio originario; le relazioni sviluppate da tale corpo estraneo saranno perlopiù basate sullo “sfruttamento” dell’ospite, ovvero del fabbricato esistente157, ed andranno a definire
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il parassitismo come concept progettuale
ruoli ben precisi: «Il parassitismo può essere definito come rapporto di tipo ecologico fra due organismi diversi, di cui uno prende il nome di parassita e l’altro di ospite. Il parassita dipende sia dal punto di vista fisiologico sia dal punto di vista metabolico dal proprio ospite. Gli ospiti infettati in maniera massiva possono soccombere. Il potenziale riproduttivo del parassita è sempre superiore a quello dell’ospite.»158
H.D. Crofton, A Quantitative Approach to Parasitism, in H.D:Crofton (et alii), Parasitism. The Diversity and Ecology of Animal Parasites, Cambridge, Cambridge University Press, 2001.
158
159
Ibid.
Riportiamo inoltre, un inventario dettagliato delle tipologie di rapporti parassitari che è possibile rintracciare in natura, oltre che relazionare metaforicamente con l’architettura: «Ectoparassita: vive sulla superficie dell’ospite. Endoparassita: vive all’interno dell’ospite. Mesoparassita: penetra all’interno di cavità naturali in comunicazione con l’esterno. Ospite definitivo: ospite nel quale il parassita raggiunge la maturità sessuale. Ospite intermedio: serve al parassita per completare il suo ciclo biologico. Di solito al suo interno va incontro a modificazioni morfologiche e fisiologiche. Ospite paratenico: ospite di trasporto facoltativo. Non si rilevano modificazioni morfologiche al suo interno. Vettore: ospite che gioca un ruolo attivo nella trasmissione, può essere sia un ospite definitivo sia un ospite intermedio.»159
Da queste definizioni (di tipo medico) si può dedurre come molteplici siano le forme di “appropriazione” anche nel mondo animale, sottolineando ancora una volta
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il parassitismo come concept progettuale
Schema identificativo delle tipologie di parassiti scelte come riferimento e relativi materiali ad esse assegnati nel progetto.
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il parassitismo come concept progettuale
la similitudine tra il mondo naturale e quello artificiale. Le diverse tipologie di parassiti si avvicinano all’ambito architettonico anche grazie alle proprie caratteristiche formali ed alla varietà dimensionale che li contraddistingue. I due tipi di parassiti che abbiamo individuato per esprimere il nostro al concetto spaziale dell’alternanza pieni e vuoti sono l’Armillaria Mellea, un fungo che di solito colpisce le piante ad alto fusto, e le cosiddette larve minatrici (Gracillaria Syringella), particolari insetti in grado di scavare gallerie nelle foglie di alcune piante. Abbiamo immaginato dei volumi più regolari, che costituiranno i cosiddetti “pieni” del progetto, per i quali il materiale prescelto è stato il legno di larice: i larici sono infatti tra le piante più numerose che si sono fatte strada fino ad avvolgere il Palazzo. L’uso del legno ci è apparso particolarmente adeguato alla nostra visione “ecologica” dell’architettura come parte integrante della natura: ad ispirarci, per quanto riguarda l’inserimento del legno in edifici abbandonati e, soprattutto, a contatto con materiali quali calcestruzzo e acciaio, sono stati anche alcuni altri progetti di riuso, tra cui quello che ha coinvolto l’attuale Tecnopolo di Reggio Emilia. Il progetto dell’architetto Andrea Oliva ha inserito all’interno del Capannone 19 volumi completamente flessibili e reversibili, realizzati velocemente tramite pannelli in XLAM. L’articolazione dei volumi affacciati in galleria, visibili dall’ingresso principale, esprime la dinamicità della ricerca che si svolge al loro interno (trattandosi soprattutto di laboratori ed uffici). Adotteremmo, inoltre, anche noi
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il parassitismo come concept progettuale
Tecnopolo, ex Officine Reggiane, Reggio Emilia, progetto di riqualificazione a cura di Andrea Oliva & Studio Alfa Srl, 2010 (<www.divisare.com>). 362
il parassitismo come concept progettuale
Tecnopolo, ex Officine Reggiane, Reggio Emilia, progetto di riqualificazione a cura di Andrea Oliva & Studio Alfa Srl, 2010 (<www.divisare.com>). 363
il parassitismo come concept progettuale
Interno del Nelson-Atkins Museum of Art, Kansas City (MO), Steven Holl, 2007 (<www.archdaily.com>).
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il parassitismo come concept progettuale
il sistema XLAM, in quanto ci permetterebbe di portare avanti il cantiere attraverso diverse fasi, senza comunque rappresentare un elemento di disturbo per le altre parti del complesso data la velocità di realizzazione e la pulizia che consente di mantenere. Per quanto riguarda il secondo tipo di “parassita”, quello associato ai cosiddetti “vuoti” architettonici (che noi abbiamo identificato, in particolare, nei percorsi), abbiamo invece immaginato un materiale più leggero, che potesse adattarsi anche a passaggi sopraelevati. Il policarbonato ci è parso adatto al nostro obiettivo, anche grazie ai diversi effetti di trasparenza che crea. Il nostro riferimento, in questo caso, è stato il volume aggiunto da Steven Holl a completamento del Nelson-Atkins Museum di Kansas City, in cui il policarbonato è utilizzato in base alla diversa consistenza che assume di giorno (trasparente) o di notte (retroilluminato). Vorremmo infatti che il movimento delle persone al di sopra di queste passerelle in policarbonato resti visibile, conferendo maggior dinamismo all’intero progetto.
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Un modulo ripetibile per una forma organica
Giants Causeway, Ireland (<www.giantscausewayofficialguide.com>).
il parassitismo come concept progettuale
5.2 Un modulo ripetibile per una forma organica La filosofia fondamentale riguardo il pattern language è che gli edifici devono essere adatti alle esigenze individuali e dei luoghi; il loro progetto quindi dev’essere flessibile, al fine di assecondare queste necessità. Noi non creiamo un edificio come un set di componenti, ma generiamo una struttura che emerge completa, ma leggera; che gradualmente si rafforza, ma rimane flessibile. E solo alla fine diviene completamente forte e robusta.160
Christopher Alexander (et alii), A Pattern Language: Towns, Buildings, Construction, New York, Oxford University Press, 1977, p. XIII.
160
Liliana Curcio, Dalle forme naturali ai modelli, Milano, Bocconi, 2001.
161
L’osservazione delle forme naturali ispira da sempre le scelte progettuali in architettura, trovando particolare successo nel corso del Novecento, con l’opera di numerosi progettisti (spesso anche ingegneri), tra cui spicca lo stesso Nervi, insieme a personaggi quali Musmeci, Buckminster Fuller, Otto Frei (per nominarne alcuni); in particolare, quest’ultimo è celebre per aver fondato gruppi di ricerca misti di architetti, ingegneri e biologi161. La natura offre, inoltre, spunti utili alla progettazione anche per quanto riguarda l’adattabilità delle forme: in base alle modificazioni dell’ambiente esterno ed alla funzione che deve espletare, infatti, l’elemento naturale varia la propria forma, dando vita a patterns utilizzabili anche in architettura. Ne sono un esempio le rocce basaltiche, di origine vulcanica, che si frammentano in colonne di sezio-
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il parassitismo come concept progettuale
Forme organiche a confronto, con in evidenza gli spazi interstiziali generati dalla loro unione (elaborazione delle candidate).
Giants Causeway, Ireland (<www.giantscausewayofficialguide.com>).
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il parassitismo come concept progettuale
ne regolare quando la lava raffreddandosi si cristallizza162. La forma geometrica che si viene a creare è quella di un esagono: se la colata fosse omogenea del punto di vista chimico lo schema di fratturazione delle rocce sarebbe concentrico, ma, poiché essa presenta invece molteplici centri di concentrazione, l’esagono risulta l’unico poligono in grado di evitare la creazione di spazi interstiziali. In architettura, data la necessità di evitare lo spreco di spazio o la realizzazione di ambienti delimitati da angoli troppo acuti, la forma esagonale appare particolarmente utile poiché adeguabile ad esigenze diverse.
Piero Corubolo, Colonne di basalto esagonali, in “Ulisse”, 16 dicembre 2008, <http://ulisse.sissa.it/chiediAUlisse/domanda/2008/Ucau081216d001/> [consultato il 28 gennaio 2016].
162
Data la sua versatilità, la forma da noi utilizzata per i nuovi volumi all’interno del Palazzo del Lavoro è quella esagonale; l’esagono si dimostra, infatti, particolarmente adeguato per interagire coi pilastri dalla sezione “a stella”, non generando spazi inutilizzabili nei punti in cui vi si affianca. Questa soluzione appare vantaggiosa anche in vista di un’apertura del Palazzo verso il quartiere circostante, poiché evita eventuali angoli bui in cui prenderebbero facilmente piede attività illecite o, più semplicemente, in cui nessuno sarebbe attirato ad andare.
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il parassitismo come concept progettuale
Derivazione forma esagonale dalla sezione del pilastro (elaborazione delle candidate)
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il parassitismo come concept progettuale
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Moduli costruttivi utilizzati per lâ&#x20AC;&#x2122;assemblaggio dei volumi.
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il parassitismo come concept progettuale
Fasi di completamento del progetto (elaborazione delle candidate)
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il parassitismo come concept progettuale
Oltre all’adattabilità delle forme, un ulteriore comportamento naturale che è possibile trasferire in campo architettonico è quello della crescita graduale: soprattutto in ambito urbano, lo sviluppo di un progetto (soprattutto quando comprende anche pratiche di riappropriazione dello spazio da parte dei cittadini) può essere considerato affine ad un processo naturale. Abbiamo immaginato una diffusione quasi “spontanea” di volumi all’interno del Palazzo di Nervi, che può essere riassunta in tre fasi principali (comparabili con le fasi di invasione operata da un parassita). Tali fasi danno la possibilità di gestire il cantiere in maniera meno impattante sull’uso dell’edificio, oltre a permettere un processo di “sperimentazione” diretta delle nuove funzioni inserite al suo interno, che potranno essere rimosse o implementate a seconda del successo di clientela ottenuto. Per quanto riguarda la distribuzione interna, abbiamo posizionato i volumi tentando di riprendere le modalità di “invasione” caratteristiche dei parassiti. Per cercare di ricreare lo stesso effetto, si è proceduto ad una simulazione pratica attraverso l’inserimento di semplici pezzi di Lego nel modellino fisico da noi realizzato. Alleghiamo, di seguito le foto relative a tale simulazione, che ha rappresentato un momento fondamentale nell’iter di progettazione.
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Studio della volumetria, simulazione in modellino fisico. 376
Studio della volumetria, simulazione in modellino fisico. 377
Studio della volumetria, simulazione in modellino fisico. 378
Studio della volumetria, simulazione in modellino fisico. 379
Un nuovo complesso multifunzionale
380 Lâ&#x20AC;&#x2122;interno del Palazzo del Lavoro (fotografia delle candidate, 17.03.2016).
il parassitismo come concept progettuale
5.3 Un nuovo complesso multifunzionale La nostra proposta progettuale prevede una sorta di “prolungamento” del sistema urbano all’interno del Palazzo del Lavoro: è perciò implicito che il progetto non possa prevedere unicamente la funzione commerciale; quest’ultima è infatti affiancata da numerose altre attività, la cui necessità è stata da noi valutata in base ad un’analisi delle funzioni già esistenti nell’area e dei servizi mancanti e richiesti dai cittadini. L’impostazione generale prevede quattro aree tematiche principali: il cibo, lo shopping, la natura e la cultura. Ne abbiamo derivato tre percorsi principali (di cui uno riferito unitamente al cibo ed allo shopping), che mettono in evidenza i volumi interessati da queste differenti attività. All’interno dell’edificio si sviluppano, dunque, una pista ciclabile (diretto collegamento col vicino parco fluviale), un museo dedicato alla storia del Palazzo e dell’evento che lo ha visto nascere (accompagnato da un peculiare bookshop/designshop), una galleria commerciale simile al modello dei portici torinesi, un cortile didattico, ristoranti di diverso genere e dimensione, un cinema che si insedia nelle sale già presenti nell’interrato, uno spazio di co-working, una sala espositiva, una sala congressi e numerosi spazi verdi organizzati come una sorta di giardino d’inverno intorno alle altre funzioni. Non manca, infine, un luogo dedicato alle esigenze del vicinato, una vera e propria “casa del quartiere”, che abbiamo progettato anche tenendo conto della distanza dall’attuale sede della Circoscrizione IX, collocata in via Pio VII, oltre il passante ferroviario.
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il parassitismo come concept progettuale
Schema riferito alle aree tematiche ed alle relative funzioni previste dal progetto di riuso e spaccato assonometrico che mostra la distribuzione interna dei volumi (elaborazioni delle candidate). 382
il parassitismo come concept progettuale
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il parassitismo come concept progettuale
SHOPPING SHOPPING
Differenziazione tematica delle parti del progetto (elaborazione delle candidate). 384
il parassitismo come concept progettuale
CULTURA CULTURA
Differenziazione tematica delle parti del progetto (elaborazione delle candidate). 385
il parassitismo come concept progettuale
NATURA NATURA
Differenziazione tematica delle parti del progetto (elaborazione delle candidate). 386
UNâ&#x20AC;&#x2122;ALTERNATIVA AL CENTRO COMMERCIALE NEL
PALAZZO DEL LAVORO
La proposta di riuso avanzata prevede un progetto multifunzionale, caratterizzato da un forte legame con le forme della natura e con le sue modalità di “invasione” dello spazio. Per quanto riguarda la funzione commerciale, da noi precedentemente esaminata dal punto di vista tipologico, è necessario ancora trovare un riferimento vicino alla quotidianità dei cittadini dell’area. Camminare all’interno del Palazzo del Lavoro dovrebbe, secondo la nostra idea, apparire un’esperienza paragonabile ad una passeggiata nel centro città. Allo stesso tempo, il visitatore dovrebbe avere la possibilità di rintracciare, grazie al nuovo intervento, la maggior parte delle comodità che sono finora mancate all’area circostante l’edificio di Nervi. La funzione museale, inoltre, coglie l’occasione per ampliare il bacino d’utenza del Palazzo a tipologie di visitatori diverse per interessi ed abitudini.
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Micro-commercio di quartiere: botteghe e laboratori
Suggestione del progetto di riuso proposto, vista del cortile didattico (elaborazione delle candidate).
UN’ALTERNATIVA AL CENTRO COMMERCIALE PER IL PALAZZO DEL LAVORO
6.1 Micro-commercio di quartiere: botteghe e laboratori Le tante proteste portate avanti dagli abitanti del quartiere Nizza-Millefonti, dalla Circoscrizione 9 e dai comitati nati in difesa del Palazzo del Lavoro e dell’area verde che lo comprende, ci hanno spinto a cercare una soluzione alternativa al centro commerciale nella sua forma classica. Il commercio resta comunque l’attività preferenziale da inserire all’interno della pre-esistenza, vista anche l’ultima variante al Piano Regolatore approvata relativamente al riuso Palazzo di Nervi163.
Comune di Torino, Comunicato stampa: la riqualificazione del Palazzo del Lavoro, 28 gennaio 2016, <http:// www.comune.torino.it/ucstampa/comunicati/article_14.shtml> [consultato il 26 marzo 2016].
163
Chiara Ronchetta, Negozi e locali storici di Torino, Torino, Archivio Storico della Città di Torino, 2006, p.11.
164
Immaginando i nuovi volumi da costruire dentro l’edificio come una prosecuzione naturale del contesto urbano adiacente, la nostra decisione è stata quella di realizzare spazi commerciali affini ad una tipologia tipicamente torinese (e molto diffusa nel quartiere): quella della bottega artigiana (a produzione alimentare e non). Il lento rinnovo urbano di Torino ha permesso, infatti, la conservazione di una tipologia commerciale di origine ottocentesca, i cui esempi più preziosi sono rintracciabili nel centro cittadino, ma che permane comunque in forma più semplificata anche nelle aree periferiche e suburbane164. La conformazione della bottega costituisce un vero e proprio arredo urbano, mantenendo elementi sempre
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UN’ALTERNATIVA AL CENTRO COMMERCIALE PER IL PALAZZO DEL LAVORO
Caffè Mulassano, Torino (Chiara Ronchetta, Negozi e locali storici di Torino, Torino, Archivio Storico della Città di Torino, 2006, p. 84) 392
UN’ALTERNATIVA AL CENTRO COMMERCIALE PER IL PALAZZO DEL LAVORO
uguali: primi fra tutti, i due spazi riservati all’insegna ed alla devanture, posizionati in alto e in basso in completamento della vetrina. Tali tipologie, seppure con modelli e materiali diversi, sono quelle in uso ancora oggi. L’infisso risulta la parte più caratterizzante del negozio: proprio per questo motivo, le botteghe da noi inserite nel Palazzo presentano vetrine affini a quelle tipicamente torinesi, ma anche laboratori sul retro, realizzati tramite pareti completamente vetrate così da permettere di osservare la visione del processo produttivo al loro interno. Il riferimento è anche al peculiare retro dei negozi presente nei cortili torinesi: la tipologia di isolato a corte, che abbiamo scelto di utilizzare per distribuire i volumi all’interno del Palazzo, è infatti caratteristica della maglia urbana regolare di Torino, individuabile anche nelle aree immediatamente attigue al Parco Italia ’61.
Michela Finizio, Il commercio verso il ritorno in città, in “Il Sole 24 Ore”, 27 novembre 2012, <http://www. ilsole24ore.com/art/impresa-e-territori/2012-11-27/commercio-ritorno-citta-064330.shtml?uuid=AbGzLj6G> [consultato il 26 novembre 2016].
165
Inoltre, nel real estate italiano degli ultimi anni, il micro-commercio che si insedia nei centri storici e nelle zone densamente abitate risulta uno dei pochi in crescita165. La domanda di spazi da parte dei brands, dall’abbigliamento alla ristorazione, è ritornata ultimamente alla sua dimensione cittadina d’origine. La bottega torna quindi un modello di commercio fondamentale, pur rimodernandosi sotto molti aspetti: molti sono i servizi di fidelizzazione messi in atto, ad esempio app e piccoli display touchscreen all’interno dei negozi consente la geolocalizzazione, la condivisione di servizi e l’invio di offerte e promozioni166.
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UN’ALTERNATIVA AL CENTRO COMMERCIALE PER IL PALAZZO DEL LAVORO
Caffè “al bicerin”, Torino, (<www.museotorino.it>)
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UN’ALTERNATIVA AL CENTRO COMMERCIALE PER IL PALAZZO DEL LAVORO
Allo stesso tempo, vengono promossi i cosidetti “centri commerciali naturali” (reti tematiche o territoriali di esercizi di vicinato, che spesso consistono nelle vie più trafficate delle città, in cui i vari negozi si sono formati spontaneamente col tempo167). Questo genere di commercio urbano non rischia, per altro, di essere abbandonato a causa della crescente diffusione di grandi centri commerciali: questo avviene soprattutto in Europa, dove il centro cittadino rappresenta da secoli il fulcro delle attività e relazioni sociali tra i vari abitanti. Gli italiani, poi, risulterebbero maggiormente portati a visitare parallelamente diverse tipologie di punti vendita, tra cui comunque prediligono mercati rionali e negozi tradizionali168. Le statistiche registrate da “Mark Up Italia” riportano poi l’importanza, per i consumatori italiani, del rapporto con il venditore: il 24% gradirebbe, infatti, un commerciante più vicino al cliente, che sappia consigliarlo nella scelta: questa pratica si traduce, nel mondo del centro commerciale, con la figura del personal shopper169.
Enrico Pozzoli, Paola Bertona, L’interazione tra consumatore e retailer passa dalle App, in “Mark Up”, 4 maggio 2015, <http://www.mark-up.it/ linterazione-tra-consumatore-e-retailer-passa-dalle-app/> [consultato il 1 settembre 2015].
166
Grazia Brunetta, Corinna Morandi, Polarità commerciali e trasformazioni naturali. Un approccio interregionale, Firenze, Alinea, 2009, p. 27.
167
Retail Store Format: gli italiani onnivori tra GDO e mercati rionali, in “Mark Up”, 29 aprile 2015, <http://www. mark-up.it/retail-store-format-gli-italiani-onnivori-tra-gdo-e-mercati-rionali/> [consultato il 1 settembre 2015].
168
169
Ibid.
Emanuele Sacerdote, Ritorno alla bottega, Milano, FrancoAngeli, 2014, pp. 9-10.
170
Il ritorno alla bottega è quindi da considerarsi come fenomeno caratteristico del XXI secolo, in cui la domanda di autenticità, di esclusività, di sostenibilità nella produzione (identificabile nell’uso di materiali naturali e nella vicinanza tra produttore e consumatore) e di reperibilità170: l’artigianato diventa, dunque, una nuova forma di “lusso”, richiestissima da parte dei consumatori; addirittura la piattaforma online “Amazon” sta lanciando un nuovo
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UN’ALTERNATIVA AL CENTRO COMMERCIALE PER IL PALAZZO DEL LAVORO
Francesco Oldani, Amazon si prepara a lanciare un marketplace per gli artigiani, in “Mark Up”, 25 maggio 2015, <http://www.mark-up.it/ amazon-si-prepara-a-lanciare-un-marketplace-per-gli-artigiani/> [consultato il 30 settembre 2016].
171
Il retail si fa personal con la stampa 3D, in “Mark Up”, 9 febbraio 2015, <http://www.mark-up.it/il-retail-si-fapersonal-con-la-stampa-3d/> [consultato il 1 settembre 2015].
172
marketplace per gli artigiani, in concorrenza con realtà già affermate come il sito web Etsy171. L’orientamento prevalente è quello indirizzato alla personalizzazione della merce offerta, pratica oggi riscontrabile anche attraverso nuove forme di “artigianato come la stampa 3D, in grado di consentire, con una spesa ed un investimento contenuti, la produzione di pezzi unici direttamente nel punto vendita, davanti agli occhi del cliente. Il processo creativo e quello produttivo convivono, in questo caso, in una dimensione di prossimità che non è mai stata così vicina ai desideri del consumatore172. La nostra intenzione è quella di prestare particolare attenzione ai dati rilevati, cercando di immaginare una nuova tipologia di centro commerciale più vicina al commercio di vicinato, in particolare quando si va a collocare in contesto sentito dai cittadini quanto quello del quartiere Nizza Millefonti. Per questo motivo, abbiamo deciso di inserire nel Palazzo aree commerciali composte da botteghe artigiane di diverse dimensioni (a produzione alimentare e non). Le botteghe si strutturano formando due nuovi isolati a corte e collocandosi lungo il perimetro di metà dell’edificio: in questo modo si ricrea anche un ambiente simile ai portici delle vie centrali di Torino, sfruttando il preesistente solaio nervato che circonda l’edificio. La nostra idea è quella di valorizzare il camminamento sotto il solaio (elemento architettonico di grande valore tecnico), che nel progetto originale viene percepito
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UN’ALTERNATIVA AL CENTRO COMMERCIALE PER IL PALAZZO DEL LAVORO
solo come filtro tra esterno ed interno. Ricordando poi le caratteristiche del tipico isolato torinese, abbiamo immaginato un cortile più intimo, definito dai volumi a funzione commerciale: in questo spazio l’attività artigianale diventa protagonista attraverso i laboratori delle varie botteghe, resi completamente visibili ai visitatori perché posizionati all’interno di volumi vetrati. Tale cortile assume una funzione anche didattica, nel mostrare lo svolgimento dei vari mestieri a grandi e piccini: in quest’ottica, si tiene conto anche della presenza di numerose scuole nelle vicinanze del Palazzo del Lavoro.
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Come la tecnologia ha cambiato lo shopping
Suggestione del progetto di riuso proposto, vita dellâ&#x20AC;&#x2122;area dedicata allâ&#x20AC;&#x2122;e-commerce (elaborazione delle candidate).
UN’ALTERNATIVA AL CENTRO COMMERCIALE PER IL PALAZZO DEL LAVORO
6.2 Come la tecnologia ha cambiato lo shopping Un altro aspetto del commercio in piena evoluzione è lo shopping online: sebbene il 90% degli acquirenti preferisca ancora recarsi in negozio per i propri acquisti piuttosto che comprare merce online, l’e-commerce sta rapidamente prendendo piede, a partire soprattutto dalle nuove generazioni. Oltre alla rapidità nell’acquisto, i negozi online offrono oggi numerosi servizi, spesso complementari al punto vendita fisico: si possono trovare infatti feedback e recensioni sui prodotti; nel caso dei negozi di abbigliamento si può sapere in anticipo se nel punto vendita più vicino è disponibile la taglia desiderata, ma sono anche riportati l’elenco dei materiali utilizzati ed i possibili abbinamenti con altri indumenti in vendita. Per questo motivo, i brand che offrono alla propria clientela la possibilità di consultare il catalogo attraverso una app o un sito web risultano più attraenti soprattutto agli occhi dei giovani consumatori, che, secondo uno studio del CBRE (Commercial Real Estate Services), consultano le risorse multimediali in media due o tre volte al mese173.
Online shopping changed our retail habits forever, in “Retail News Europe”, 24 novembre 2015, <http://www. retail-news.eu/online-shopping-changed-retail-habits-forever/> [consultato il 24 aprile 2016].
173
Dallo stesso studio condotto dal CBRE emerge come i servizi per l’intrattenimento come cinema, wifi-libero, sale giochi risultino estremamente attrattive soprattutto per i
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UN’ALTERNATIVA AL CENTRO COMMERCIALE PER IL PALAZZO DEL LAVORO
Starbucks store, Toronto, 2011 (“The Media Merchant”, 2 luglio 2011).
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UN’ALTERNATIVA AL CENTRO COMMERCIALE PER IL PALAZZO DEL LAVORO
giovani dai 18 ai 24 anni, che generalmente individuano nel centro commerciale un posto dove incontrare amici e sviluppare nuove relazioni sociali. Non solo i giovanissimi percepiscono il centro commerciale come posto ideale per gli incontri: il 70% delle donne, in Gran Bretagna, si trova in accordo con questa visione, a differenza degli uomini che affermano lo stesso solo nel 49% dei casi presi in esame174. Gli acquirenti di età compresa fra i 55 e i 64 anni tendono, invece, ad individuare come indispensabili altri servizi quali il parcheggio, i punti informativi e la pulizia generale del centro commerciale. Anche il cibo si configura come fattore fondamentale ed attrattivo per fidelizzare i visitatori: per i consumatori più giovani, la presenza di ristorazione di qualità a prezzi accessibili all’interno del centro commerciale è un elemento molto importante, che li induce a trascorrervi anche gran parte del tempo libero; lo stesso, seppur in maniera inferiore, vale per gli adulti che preferiscono trovare attività che propongono ristorazione di lusso, per sperimentare piatti differenti da quelli domestici, magari tipici di paesi lontani o esotici175. La ricerca fondamentale è sempre quella di un’esperienza, più che della soddisfazione di un’esigenza primaria.
CBRE, How we shop? Inside the mind of Europe’s consumers, Ema Research and Consultings, aprile 2013.
174
175
Ibid.
Vito Di Bari, Le vetrine interattive sono porte a specchio verso nuovi
176
La tecnologia nel campo dello shopping non si ferma però alla semplice comunicazione tramite il web, ma si spinge verso nuove frontiere ancora agli albori ma al con-
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UN’ALTERNATIVA AL CENTRO COMMERCIALE PER IL PALAZZO DEL LAVORO
Punto vendita Tesco, Seoul, 2012, (fonte: “Forbes”).
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UN’ALTERNATIVA AL CENTRO COMMERCIALE PER IL PALAZZO DEL LAVORO
tempo in rapido sviluppo: è il caso delle vetrine interattive, vere e proprie “finestre virtuali” sui prodotti in vendita, a scopo comunicativo ma non solo176; esse mettono infatti in gioco lo spettatore, rendendolo partecipe del messaggio che il brand vuole tramettere. Pionieri di questa tecnologia sono due negozi Starbucks (a Vancouver e a Toronto) che per lanciare la nuova linea di tè optano, nel 2011, per le vetrine interattive, portando il passante a scoprire il prodotto attraverso ambientazioni esotiche “visitabili” virtualmente177. Seguiti poi da numerosi altri brands come Pinko con le vetrine olografiche a Milano e ad Anversa178, ideate nel 2014 dallo studio milanese CLS Architetti, Stone Island con i suoi manichini olografici179, Repetto con un palcoscenico interattivo e le ballerine animate sulle vetrine dello store di Parigi180. Il successo di questa tecnologia sta proprio nella naturalezza dell’interazione: non servono istruzioni per l’uso, toccando lo schermo oppure attraverso semplici movimenti della mano, le vetrine interattive rispondono181. La diffusione del touchscreen, inoltre, fa sì che ogni giorno ci troviamo di fronte ad una sorta di vetrina interattiva, rappresentata dallo schermo dei dispositivi quali smartphone, tablet e computer, ormai riconosciute come vere e proprie estensioni della realtà. Ciò nonostante, una ricerca presentata al “Big Show di New York” del 2015, condotta su 2000 consumatori è emerso come l’acquisto in store resti principe nei numeri
mondi, in “Speciale Mark Up”, giugno 2011, p. 157. Michael Gorman, Interactive storeffront displays show up at Canadian Starbucks, window licking discouraged, in “The Media Merchant”, 2 luglio 2011, <https://www.engadget. com/2011/02/07/interactive-storefront-displays-show-up-at-canadian-starbucks-w/> [consultato il 20 settembre 2015].
177
<http://www.clsarchitetti.com/ portfolio/pinko-store-milano-2014/> [consultato il 30 settembre 2015].
178
<http://www.stoneisland.com/us/ stone-island/stone_island_section> [consultato il 30 settembre 2015].
179
Molly Klinefelter, High-tech Shopping: Meet the Future of Retail, in “Laptop Mag”, 21 maggio 2013, <http://www.laptopmag.com/articles/ future-of-retail> [consultato il 30 settembre 2015].
180
Vito Di Bari, Le vetrine interattive sono porte a specchio verso nuovi mondi, in “Speciale Mark Up”, giugno 2011, p. 157.
181
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UN’ALTERNATIVA AL CENTRO COMMERCIALE PER IL PALAZZO DEL LAVORO
Enrico Sacchi, Dal Big Show di New York i trend per il retail 2015, in “Mark Up”, 15 gennaio 2015, <http://www. mark-up.it/dal-big-show-di-new-york-itrend-per-il-retail-2015/> [consultato il 30 settembre 2015].
182
183
Ibid.
Calvin Klein brings interactive shopping experience to Macy’s, 15 ottobre 2014, < http://www.retailcustomerexperience.com/news/calvin-klein-brings-interactive-shopping-experience-to-macys/> [consultato il 30 settembre 2015].
184
di vendite (anche se è stata riscontrata anche un grande diffusione della formula “ordina on-line e ritira in negozio”), ma il 19% di queste sono generate dagli smartphones, e più in generale le attività digitali incidono di 36 centesimi al dollaro sulle vendite totali182. Durante lo stesso evento è stato riportato come il commercio di lusso stia tornando alla ribalta, in risposta alla crescita di una nuova categoria definita come “Henry’s” (Hight Earners Not Rich Yet), ovvero persone con un reddito alto ma che non possono essere definiti come “ricchi”, che a loro volta affermano di acquistare presso il punto vendita il prodotto solo dopo aver fatto un’attenta ricerca online183. Inoltre, attraverso gli smartphones, diventa possibile per le aziende instaurare un canale di comunicazione estremamente personalizzato con il consumatore: la tecnologia del proximity market consente, individuando la posizione del cliente all’interno del punto vendita, di inviare promozioni e suggerimenti ad hoc inerenti proprio ai prodotti presenti nell’area di permanenza maggiore del consumatore, quella perciò dove i prodotti hanno suscitato maggiore interesse. Tra i primi a sfruttare questa tecnologia in favore di un incremento degli acquisti è Macy’s, attraverso promozioni dell’ultimo minuto ed indirizzate a soddisfare le richieste personali di ogni singolo consumatore184. Non meno importante è, poi, sviluppo dell’aspetto social
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UN’ALTERNATIVA AL CENTRO COMMERCIALE PER IL PALAZZO DEL LAVORO
e multimediale delle grandi aziende, divenuto ormai materia di un’attenta analisi da parte degli economi e sviluppatori, arrivando a redarre numerose classifiche riguardo ai brand più popolari sulle diverse piattaforme di social media come Facebook o Twitter, andando ad osservare come variabili il numero di nuovi followers, il numero di contati ed il numero di likes. Pertanto lo sviluppo della comunicazione via app, web e social media è un investimento importante che numerose aziende comprendono oggi tra i costi pubblicitari, sicuri di trarne cospicui vantaggi economici.
Global Total Retail Survey 2016, <http://www.pwc.com/gx/en/industries/retail-consumer/global-total-retail.html> [consultato il 30 settembre 2015].
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Chiara Bertoletti, Shopping trend: i 5 comportamenti di consumo in Italia, in “Mark Up”, 3 giugno 2015, <http://www.mark-up.it/shopping-trend-i-5-comportamenti-di-consumo-in-italia/> [consultato il 1 settembre 2015].
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D’altronde, la tecnologia nei centri commerciali e in accompagnamento ai singoli brands è richiesta dalla clientela ed è entrata a far parte di uno degli standard attraverso i quali il consumatore valuta il gradimento dell’esperienza vissuta al momento dello shopping. Secondo una ricerca effettuata in 19 paesi su 19.000 soggetti dal PwC Total Retail Survey185 emerge come gli italiani (il 75%) siano abituati a visitare i negozi per acquistare in seguito online, alla ricerca di prezzi più convenienti; al contrario, il 68% degli italiani ricerca online l’articolo da acquistare per poi recarsi presso il punto vendita per l’acquisto186. Inoltre, in Italia il 38% dei soggetti presi in esame visita settimanalmente le vetrine dei negozi per svago, in questo senso il punto vendita fisico perde man mano la sua funzione originaria di vendita per diventare progressivamente una vetrina. L’influenza dei social è mol-
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UN’ALTERNATIVA AL CENTRO COMMERCIALE PER IL PALAZZO DEL LAVORO
Chiara Bertoletti, Shopping trend: i 5 comportamenti di consumo in Italia, in “Mark Up”, 3 giugno 2015, <http://www.mark-up.it/shopping-trend-i-5-comportamenti-di-consumo-in-italia/> [consultato il 1 settembre 2015].
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to forte, il 63% infatti basano i loro acquisti sulle tendenze in voga sul web e sono condizionati dalle campagne di promozione online. Richiestissimo come servizio fondamentale è poi il wi-fi libero in store, criterio secondo cui soprattutto i giovanissimi scelgono il centro commerciale nel quale recarsi187. Appare evidente come chiunque entri in un centro commerciale, oggi, sia soggetto ad una sorta di “bombardamento” da parte del brand: le varie innovazioni appena descritte limitano e condizionano la mente del visitatore, ma si rivelano a nostro parere un aggiornamento necessario al tradizionale modello commerciale. Non sembra, comunque, ancora arrivato il momento in cui il commercio online può sostituire del tutto l’acquisto in negozio. Secondo la nostra opinione, questi metodi di vendita high tech possono, anzi, coesistere con il tipico esercizio commerciale di vicinato, proprio perché simili per quanto riguarda il contatto continuo con l’acquirente e la personalizzazione della merce comprata. Queste idee ci riportano alla produzione artigiana ed alle grandi potenzialità proprie di tecnologie quali la stampa 3D; all’interno del progetto, abbiamo voluto quindi inserire anche alcune zone dedicate all’e-commerce, allo scopo di permettere al visitatore non solo di ottenere informazioni sulle diverse funzioni presenti all’interno del Palazzo, ma anche di procedere all’acquisto o alla personalizzazione dell’oggetto desiderato. Tutti questi sistemi ausiliari al commercio
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UN’ALTERNATIVA AL CENTRO COMMERCIALE PER IL PALAZZO DEL LAVORO
diretto fanno infatti parte di un’esperienza unica di shopping, obiettivo principale dei centri commerciali odierni; i grandi agglomerati commerciali, dal mall al lifestyle center o al centro commerciale naturale, continuano ad attirare sempre più consumatori, rendendoli veri protagonisti della visita: in Europa, ed in particolare in Italia, il numero di clienti è aumentato, nel 2014, del 3,4%188. L’esperienza dello shopping in luoghi «coinvolgenti, socializzanti ed interessanti»189 riveste ormai il ruolo di servizio primario da offrire al cliente, almeno per quanto riguarda la grande distribuzione.
ICSC Annual Report 2014, <http:// www.icsc.org/uploads/default/2014-Annual-Report.pdf> [consultato il 13 ottobre 2015].
188
Anna Muzio, Centri commerciali, aumentano del 3,4% i visitatori nel 2014, in “InStore Mag”, 20 agosto 2015, <http://instoremag. it/distribuzione/centri-commerciali-aumentano-del-34-i-visitatori-nel-2014/20150820.77792> [consultato il 13 ottobre 2015].
189
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Museo e centro commerciale: due tipi a confronto
408 Suggestione del progetto di riuso proposto, vista interna alla galleria museale (elaborazione delle candidate).
UN’ALTERNATIVA AL CENTRO COMMERCIALE PER IL PALAZZO DEL LAVORO
6.3 Museo e centro commerciale: due tipi a confronto Per scongiurare l’omologazione raggiunta in Europa con la diffusione del modello di shopping mall americano, il centro commerciale di oggi cerca di distinguersi elevando l’esperienza proposta al consumatore ad un livello superiore, inserendo all’interno dei percorsi di consumo arte, cultura ed informazione (attività che in Europa e specialmente in Italia sono spesso legate anche alla location in cui il commercio viene inserito). Per rendere la permanenza della clientela un momento indimenticabile (prerogativa certo non propria dei non-luoghi come i centri commerciali ) viene chiamata all’appello la capacità comunicativa del museo, capace di trasmettere informazioni e sensazioni così particolari ed insolite da venire facilmente ricordate.
«[Nel centro commerciale] si assiste a una specie di demolizione dell’ar«[« «[Nel centro commerciale] si assiste a una specie di demolizione dell’architettura, all’esasperazione delle sue qualità spettacolari […] [Il centro commerciale] è istantaneamente e totalmente dimenticabile», in François Chaslin, Architettura della Tabula rasa, Due conversazioni con Rem Koolhaas, Milano, Electa, 2003, p. 70-81.
190
Nel corso della nostra analisi del tipo centro commerciale abbiamo gradualmente realizzato come il mall si avvini per conformazione ad un’altra tipologia: quella museale. Come per il museo, infatti, lo studio delle luci e dei punti visuali rappresenta la priorità massima all’interno di un punto vendita: le vetrine hanno la stesso obiettivo delle teche espositive, quello di mostrare ma al tempo stesso mettere in sicurezza ciò che è contenuto al proprio inter-
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UN’ALTERNATIVA AL CENTRO COMMERCIALE PER IL PALAZZO DEL LAVORO
no. Se poi il museo è, come già detto, tra i luoghi che col tempo il junkspace è riuscito a colonizzare, il centro commerciale sta lentamente iniziando ad essere contaminato da attività culturali. Eppure, la differenza tra questi due tipi di ambienti appare subito evidente al visitatore: al centro commerciale manca la forte identità culturale e divulgatoria caratteristica del museo. Gli shopping mall sono, al contrario, omologati e spesso privi di storia: proprio per questo motivo, una funzione museale ad essi affiancata può essere in grado di nobilitarli e riqualificarli, ma soprattutto di attirare una fascia di clientela che normalmente non ne è attratta. Nel caso specifico del Palazzo del Lavoro, l’opera d’arte è identificabile nel contenitore stesso, il che accresce assolutamente il valore del centro commerciale, anche più dell’eventuale affiancamento di zone espositive. L’esperienza offerta al consumatore è in questo caso totalizzante. La nostra intenzione è però quella di affiancare alla funzione commerciale anche una vera e propria galleria museale, improntata non tanto sull’esposizione di cimeli di Italia ’61, bensì sul racconto della storia dell’edificio. Abbiamo perciò ideato un museo-galleria, una sorta di promenade architecturale che permetta ai visitatori di cambiare il proprio punto di vista e sorvolare il Palazzo di Nervi; senza doversi fermare a guardare oggetti o a leggere lunghe didascalie, gli ospiti sono liberi di camminare, mentre il loro sguardo viene guidata attraverso proiezioni,
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UN’ALTERNATIVA AL CENTRO COMMERCIALE PER IL PALAZZO DEL LAVORO
punti di vista panoramici, brevi racconti audio e fotografie, ma soprattutto si sofferma sui grandi pilastri che sorreggono la struttura. Il nostro obiettivo principale è, infatti, quello di consentire un cambio di scala e di punti di vista, dando la possibilità di avvicinarsi alla sommità di una delle grandi colonne “ad albero” e, quindi, di osservare l’edificio nel suo complesso. La straordinaria visione complessiva del Palazzo non è, infatti, mai stata possibile prima d’ora, proprio a causa della sua grande dimensione.
La passeggiata museale ha inizio fuori dal Palazzo, nel Parco Italia ‘61, dove, in corrispondenza della vecchia stazione della monorotaia, sono collocati ingresso e biglietteria. Il museo ha inizio in un tunnel chiuso, in cui immagini proiettate e suoni accolgono il visitatore nel pieno dei festeggiamenti per il centenario dell’Unità d’Italia. Oltrepassato questo tunnel, egli si ritrova di fronte al Palazzo, per poi continuare il suo percorso verso l’alto, attraverso una salita panoramica che gli permette di confrontare l’attuale vista dell’ex-comprensorio con quella di alcune fotografie d’epoca. In un secondo momento, giunto ad un’altezza di 15 metri, il visitatore entra all’interno del Palazzo, dove, attraverso l’alternanza di spazi chiusi ed aperti, scopre dapprima la storia di Pier Luigi Nervi e del suo “sistema” di costruzione, poi le tecniche specifiche da egli impiegate nella realizzazione dell’edificio. Una serie di schermi (visibili anche dal piano terreno, al fine di attirare
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Suggestione del progetto di riuso proposto, vista della galleria museale (elaborazione delle candidate). 412
UN’ALTERNATIVA AL CENTRO COMMERCIALE PER IL PALAZZO DEL LAVORO
un maggior numero di spettatori) mostrano i volti dei più celebri ospiti che presero parte all’evento nel 1961. In seguito, la promenade si sofferma ancora sul tema dell’abbandono, avvicinandosi alla zona devastata dall’incendio, di cui, almeno nelle parti non strutturali, vorremmo si mantenessero le tracce durante la fase di restauro del manufatto. Infine, il museo inizia la propria discesa verso il bookshop, mentre altri schermi mostrano gli attimi salienti delle rievocazioni di Italia ‘61 che si sono svolte negli ultimi anni, riportando le testimonianze dei veterani. Il percorso si conclude poi con un breve video in time-lapse che mostra l’assemblaggio dei volumi del nuovo progetto e la velocità nell’esecuzione del progetto. La visita è pensata in modo da poter essere interrotta in qualsiasi momento grazie ad appositi scale ed ascensori; tale impostazione permette, inoltre, di rendere la passeggiata percorribile anche durante il periodo tel cantiere, consentendo uno sviluppo graduale della passerella, studiato coerentemente alle diverse fasi del cantiere.
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UNâ&#x20AC;&#x2122;ALTERNATIVA AL CENTRO COMMERCIALE PER IL PALAZZO DEL LAVORO
Rappresentazione dei temi trattati nel percorso museale (elaborazione delle candidate). 414
UNâ&#x20AC;&#x2122;ALTERNATIVA AL CENTRO COMMERCIALE PER IL PALAZZO DEL LAVORO
Sezioni della passerella museale, scala 1.50 (elbaorazione delle candidate). 415
Estratti dalle tavole di progetto
416 Suggestione del progetto di riuso proposto, vista sul parco (elaborazione delle candidate).
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UNâ&#x20AC;&#x2122;ALTERNATIVA AL CENTRO COMMERCIALE PER IL PALAZZO DEL LAVORO
Pianta piano interrato. 418
UNâ&#x20AC;&#x2122;ALTERNATIVA AL CENTRO COMMERCIALE PER IL PALAZZO DEL LAVORO
Metratura aggiunta al piano interrato per il parcheggio sotterraneo, nel rispetto della vegetazione esistente. 419
UNâ&#x20AC;&#x2122;ALTERNATIVA AL CENTRO COMMERCIALE PER IL PALAZZO DEL LAVORO
Pianta piano terra (quota +0.00 m). 420
UNâ&#x20AC;&#x2122;ALTERNATIVA AL CENTRO COMMERCIALE PER IL PALAZZO DEL LAVORO
Pianta piano primo (quota +6.00 m). 421
UNâ&#x20AC;&#x2122;ALTERNATIVA AL CENTRO COMMERCIALE PER IL PALAZZO DEL LAVORO
Pianta piano secondo (quota 16.00 m). 422
UN’ALTERNATIVA AL CENTRO COMMERCIALE PER IL PALAZZO DEL LAVORO
Prospetto lato Parco Italia ‘61.
Prospetto lato corso Unità d’Italia.
Sezione A-A’.
Sezione B-B’.
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UNâ&#x20AC;&#x2122;ALTERNATIVA AL CENTRO COMMERCIALE PER IL PALAZZO DEL LAVORO
Dettaglio tecnologico dei moduli in XLAM, parete interna. 424
UNâ&#x20AC;&#x2122;ALTERNATIVA AL CENTRO COMMERCIALE PER IL PALAZZO DEL LAVORO
Dettaglio tecnologico dei moduli in XLAM, parete esterna. 425
Suggestione del progetto di riuso proposto, vista del bookshop/designshop (elaborazione delle candidate). 426
Suggestione del progetto di riuso proposto, vista del cortile didattico (elaborazione delle candidate). 427
Suggestione del progetto di riuso proposto, vista dellâ&#x20AC;&#x2122;area dedicata allâ&#x20AC;&#x2122;e-commerce (elaborazione delle candidate). 428
Suggestione del progetto di riuso proposto, vista sul parco (elaborazione delle candidate). 429
Suggestione del progetto di riuso proposto, vista della conclusione della passeggiata museale ed ingresso del bookshop (elaborazione delle candidate). 430
Suggestione del progetto di riuso proposto, vista interna alla galleria museale (elaborazione delle candidate). 431
Suggestione del progetto di riuso proposto, vista del portico sottostante il solaio nervato (elaborazione delle candidate). 432
Suggestione del progetto di riuso proposto, vista dalla passeggiata museale (elaborazione delle candidate). 433
Fotografie del modellino progettuale
Modellino in PLA realizzato mediante tecnica di stampa 3d, scala 1:200.
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conclusioni
Conclusioni Durante questo percorso di tesi, abbiamo sperimentato le difficoltà del progettare affrontando un’architettura di grande scala. L’obiettivo iniziale che ci eravamo prefissate era quello di conciliare le dimensioni del Palazzo del Lavoro con la funzione di centro commerciale. Sosteniamo che le potenzialità del tipo shopping mall, come la sua forte visibilità, possano essere coniugate con pratiche completamente diverse. La nostra proposta è stata quella di affiancare anche una galleria museale all’attività commerciale, in modo che entrambe possano trarre vantaggio l’una dall’altra. Sia lo shopping sia il museo esercitano infatti il proprio potere attrattivo, fungendo da richiamo per visitatori dagli interessi anche opposti. Tra gli esempi di riuso da noi analizzati, pochi sono i casi in cui il progetto di recupero non appare mirato ad una sola categoria di utenti: le famiglie, i giovani, gli appartenenti a determinate correnti di moda, gli acquirenti di merce di lusso. Il nostro piano di intervento, al contrario, punta ad una visione più vicina a quella, più spontanea, che si genera nel contesto urbano: crediamo, infatti, che l’incontro tra individui differenti per passioni ed abitudini non possa che rappresentare un’opportunità di tipo culturale e relazionale.
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conclusioni
Il diretto rapporto con la cittadinanza ed il saper rispondere alle sue esigenze si è rivelato un aspetto fondamentale del nostro approccio. Crediamo che tenere conto delle volontà del vicinato sia determinante per la buona riuscita di un progetto di riappropriazione. Riteniamo, con questo progetto, di essere riuscite a risolvere gran parte delle problematiche dell’edificio e di quelle presentate dal quartiere. Tuttavia, immaginando di poter proseguire nella nostra ricerca, ci sarebbe interessato definire alcune questioni più nel dettaglio: lo scopo iniziale che ci eravamo prefissate era, infatti, quello di riuscire a progettare il funzionamento delle singole funzioni da noi inserite all’interno della preesistenza. Prevedendo, in origine, di svolgere il nostro lavoro in un modo il più possibile realistico, ci sarebbe interessato anche avere un riscontro, a progetto ultimato, sia da parte della proprietà dell’edificio sia da parte dei cittadini, che da anni dimostrano il proprio interesse nei confronti della struttura. Riteniamo, infine, che l’apporto dei nostri relatori si sia rivelato indispensabile, in quanto entrambi ci hanno aiutate a fare chiarezza sui contenuti e sull’impostazione di questa tesi e a riorganizzare il materiale da noi raccolto con entusiasmo fin dai primi mesi. Questo lavoro ci ha appassionato e coinvolto molto e speriamo di essere riuscite nel nostro obiettivo primario: quel-
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conclusioni
lo di immaginare una possibile coesistenza tra la funzione commerciale ed il suo inserimento in un contesto fortemente connotato dal punto di vista storico e sociale. Il punto di forza del nostro lavoro è il fatto di aver rispettato la maggior parte delle richieste espresse dagli abitanti del quartiere, ottenendo il riconoscimento dei valori storico-architettonici e di memoria del Palazzo, mantenendo intatti tutti gli alberi che circondano il manufatto e ricavando un parcheggio sotterraneo nelle aree interrate preesistenti. Soprattutto, crediamo di essere riuscite a realizzare un progetto in cui il centro commerciale non è protagonista, ma si configura piuttosto come parte di un sistema multifunzionale piÚ complesso, simile a quello della città .
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ringraziamenti
Ringraziamenti Desideriamo ringraziare i nostri relatori, che ci hanno saputo guidare durante questo percorso, aiutandoci a riorganizzare le nostre idee, a credere nell’importanza del nostro lavoro e a porci sfide sempre più grandi e, allo stesso tempo, più stimolanti. Ringraziamo le nostre famiglie per il sostegno e la pazienza e tutti gli amici per aver saputo alleggerire momenti davvero difficili; in particolare, ringraziamo Paolo, per l’aiuto prezioso e per essersi dimostrato, ancora una volta, un vero amico. Ci ringraziamo, infine, a vicenda, perchè abbiamo rappresentato, l’una per l’altra, un motivo per non mollare.
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