Politecnico di Milano Facoltà del Design Corso di Laurea Magistrale Design della Comunicazione
IL GIOCO COME MODELLO DI COMUNICAZIONE Uno studio sulla dialogicità e la complessità nella comunicazione sociale
Studente: Emanuela Tatti matricola 739291 Relatore: Salvatore Zingale
POLITECNICO
DI
MILANO – FACOLTÀ
DEL
DESIGN
Corso di Laurea in Design della Comunicazione
TESI DI LAUREA MAGISTRALE
IL GIOCO COME MODELLO DI COMUNICAZIONE UNO STUDIO SULLA DIALOGICITÀ E LA COMPLESSITÀ NELLA COMUNICAZIONE SOCIALE
Studente: Emanuela Tatti 739291 Relatore: Prof. Salvatore Zingale Anno Accademico 2010/2011
IL GIOCO COME MODELLO DI COMUNICAZIONE UNO STUDIO SULLA DIALOGICITÀ E LA COMPLESSITÀ NELLA COMUNICAZIONE SOCIALE
Alla mia famiglia
* ABSTRACT
Dare una definizione univoca e dettagliata di comunicazione sociale è arduo. In maniera semplicistica, si può utilizzare questo termine per indicare tutte le forme comunicative, promosse da diversi attori, che hanno l’obiettivo di educare, sensibilizzare, informare, fare appello alla solidarietà del pubblico su tematiche sociali di interesse collettivo. Quello che è evidente è la sua importanza all’interno della società, per migliorare la convivenza e il rispetto tra gli uomini e tutto ciò che ci circonda. I dati però dimostrano che generalmente la comunicazione sociale, come è comunemente concepita su modello di quella commerciale, fatica a fare breccia nel pubblico e si dimostra spesso fallimentare. Il problema è che la maggior parte di esse utilizzano un modello costruttivo sbagliato: sono infatti pensate come una trasmissione di messaggi da un emittente a un destinatario, sul modello della retorica persuasiva che non prevede una risposta del destinatario ma lo considera uno spettatore passivo, un bersaglio da colpire anziché un soggetto con cui parlare. La comunicazione invece è innanzitutto dialogica e quella sociale in particolare, non avendo una merce da commercializzare ma dei valori e delle idee da condividere che richiedono una forte introspezione e un confronto con l’altro, non può che avere un carattere dialogico. L’obiettivo di questa tesi è tentare di dare risposta a queste criticità utilizzando il gioco come chiave di lettura, in quanto condividendo una struttura comune, gioco e dialogicità possono essere visti come lo stesso fenomeno manifestato in modo differente. Il gioco non solo può fornire modelli e metafore per comprendere le diverse forme di interazione e interpretazione di tutto ciò che avviene tra e con persone e cose, ma permette di scorgere nelle sue diverse forme, degli aspetti semiotici simili a quelli che troviamo nelle forme di comunicazione, permettendoci un’analisi più semplice dei diversi fenomeni, per poter fare successivamente una riflessione sul rapporto con la comunicazione sociale e i suoi obiettivi e quindi riutilizzare questi modelli per creare delle forme di comunicazione più efficienti.
INDICE
Introduzione
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1. Società e comunicazione 1.1. Un nuovo approccio alla comunicazione 1.2. Lo scenario attuale 1.2.1. La crisi economica-finanziaria 1.2.2. Globalizzazione e connessione 1.2.3. Individuo, cittadino e consumatore 1.2.4. Individualismo e nuove forme di socialità 1.2.5. Responsabilità sociale e ambientale 1.3. Il ruolo della comunicazione sociale oggi
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2. La comunicazione sociale 2.1. Comunicazione pubblica e comunicazione sociale 2.1.1. Una precisazione 2.2. La comunicazione sociale 2.2.1. Obiettivi 2.2.2. Soggetti coinvolti 2.3. ll marketing sociale 2.3.1. Criticità del marketing sociale 2.4. La pubblicità sociale 2.4.1. Pubblicità commerciale e pubblicità sociale 2.4.2. La struttura del messaggio pubblicitario 2.4.3. I linguaggi della pubblicità sociale 2.4.4. Fase valutativa e critiche sull’efficacia 2.5. Criticità della comunicazione sociale in Italia 2.5.1. Spettatori anziché cittadini 2.5.2. La fiducia nei soggetti promotori 2.5.3. Scarse valutazioni e investimenti ingiustificati 2.5.4. Visibilità generalista 2.5.5. Sopravvalutazione delle strategie persuasive di marketing 2.5.6. Uso privilegiato della pubblicità 2.6. Aspetti positivi ai quali mirare 2.7. Le nuove frontiere della comunicazione sociale 2.7.1. La comunicazione unconventional in Italia 2.7.2. Il ruolo dei social network 2.7.3. Criticità dell’approccio unconventional
29 30 31 35 38 47 50 52 53 55 58 64 71 71 71 73 73 74 75 77 80 81 84 87
3. La cultura in gioco 3.1. Esperienza ludica e cultura sub specie ludi 3.1.1. Gioco e linguaggio 3.1.2. Gioco, simbolo, mito e culto 3.2. Il gioco nei secoli e il suo ruolo nella società
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INDICE / 7
3.2.1. La dimensione ludica nelle società ellenica e romana 3.2.2. Medioevo e Rinascimento 3.2.3. Il gioco nella Modernità 3.2.4. L’Ottocento borghese 3.2.5. L’epoca postmoderna
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4. Teorie sul gioco 4.1. Teorizzazione del gioco dal Novecento ad oggi 4.1.1. Il Novecento e la riscoperta del gioco 4.2. L’approccio filosofico 4.2.1. Johan Huizinga 4.2.2. William Bateson 4.2.3. Eugen Fink 4.3. L’approccio psicologico 4.3.1. Jerome Bruner 4.4. L’approccio sociologico 4.4.1. Roger Caillois 4.5. Gioco-videogioco: tra educazione e promozione 4.5.1. Gamification 4.6. Gioco e società 4.6.1. Gioco e individuo 4.6.2. Gioco e comunità 4.6.3. Gioco e realtà
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5. Gioco e comunicazione sociale 5.1. Per un modello di gioco nella comunicazione sociale 5.2. I macro-obiettivi della comunicazione sociale 5.3. La comunicazione come dialogo e relazione 5.4. Gioco come metafora e modello 5.4.1. Il gioco come modello dell’interazione sociale 5.4.2. Il gioco come rappresentazione 5.4.3. Il gioco come modello di sfida e narrazione 5.4.4. Il gioco come metafora di relazione e di dialogo 5.4.5. I tre dialoghi 5.4.6. Giocatori dialoganti 5.5. Comunicazione dialogica e comunicazione monologica 5.5.1. Il modello della pubblicità sociale tradizionale 5.5.2. Il modello dialogico 5.6. Il modello del gioco nella comunicazione sociale
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6. Casi studio 6.1. Il modello applicato ai casi studio 6.1.1. Hangout with the president 6.1.2. Food Force 6.1.3. The Extraordinaries/Sparked 6.1.4. Free Rice 6.1.5. Spent 6.1.6. At-Risk
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181 182 186 190 194 198 202
6.1.7. Recyclebank 6.1.8. No smoking be happy 6.1.9. World Without Oil 6.1.10. Foldit
206 210 214 218
Conclusioni
225
Bibliografia, sitografia,
229
Indice delle figure, delle tabelle e dei grafi
234
INDICE / 9
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INTRODUZIONE
SOCIETÀ E COMUNICAZIONE / 11
INTRODUZIONE
La comunicazione sociale all’interno di una comunità e un fattore di estrema importanza per la sua funzione democratica e di incisiva trasmissione di valori socialmente condivisi. Tuttavia, già da una prima osservazione quotidiana data dall’esposizione a questi messaggi, questo tipo di comunicazione in Italia è quanto di più lontano dall’essere un messaggio fortemente coinvolgente o utile a stimolare un dialogo o una reazione attorno a queste tematiche che, in quanto “animali sociali” che vivono ed interagiscono con i membri della propria specie e con l’ambiente circostante, dovrebbero toccarci profondamente. Lo scopo di questa tesi è quello di studiare il fenomeno della comunicazione sociale e del modello comunicativo tra individui in generale per trovare una via alternativa, più coinvolgente e intrinsecamente sociale, per trasmettere in modo più efficace questi temi di interesse collettivo. Attraverso un’analisi sociologica della società attuale ho ripercorso i cambiamenti che nell’ultimo decennio, nel bene o nel male hanno condizionato il nostro modo di vivere e di rapportarci con il mondo, fino a renderci individui complessi, estremamente critici e attenti, animati da un rinnovato desiderio di socialità e scambio con l’altro. Questo quadro è stato finalizzato a chiarire il ruolo della comunicazione sociale all’interno della società e come questa possa favorire a incentivare e appoggiare un’idea di sviluppo più sostenibile. Per comprendere a fondo cosa s’intende per comunicazione sociale e come si compone, ho sviluppato un’articolata analisi del fenomeno, partendo dalle controversie teoriche intorno alla sua definizione fino alla demarcazione degli obiettivi primari, degli organi principalmente coinvolti, dei temi, dei linguaggi e del modello pratico più utilizzato soprattutto nel nostro paese, ovvero quello della pubblicità. Questa analisi ha anche lo scopo di dimostrare come l’approccio attuale e la visione limitata con cui si affronta questo tipo di comunicazione, non permette di avere messaggi sufficientemente efficaci, cadendo nella banalità, nella retorica dei luoghi comuni e, se non peggio, nella predica paternalistica. Se le tecniche tradizionali, basate su un modello erroneo di comunicazione su forma commerciale, non sono efficienti per la finalità della comunicazione sociale, è evidente che è necessaria una profonda revisione degli strumenti da questa utilizzati per cercare dei metodi più coinvolgenti e vicini ai destinatario finale, che mettano in evidenza l’aspetto sociale (non solo per il bene collettivo ma anche per il proprio bene individuale) dei temi trattati. Indagando quali sono gli aspetti primordiali che hanno permesso lo sviluppo della cultura e della società si può osservare che ciò che accomuna ogni forma di cultura umana, compresa quindi la comunicazione, è l’intrinseca componente ludica, il fatto di essere dapprima giocata. Questo non vuol dire che il gioco muta o si converte in cultura, ma piuttosto che la cultura, nelle sue fasi originarie, porta il carattere di un gioco. Il gioco infatti è un fattore preculturale, tant’è che anche gli animali giocano. Per avvalorare questa teoria, ho analizzato le più salienti manifestazioni della cultura (linguaggio, mito, culto, vita sociale) per metterne in evidenza le interconnessioni con il gioco, e ho successivamente riportato, attraverso un percorso lungo ventiquattro secoli, l’evoluzione teorica del gioco e il suo riconoscimento all’interno della società. Per un’analisi più completa, ho affrontato il tema del gioco con un approcINTRODUZIONE / 13
cio multidisciplinare, riportando i principali studi svolti in ambito biologico, filosofico, psicologico e sociologico, dall’inizio del Novecento fino ai giorni nostri. Ed è proprio negli ultimi anni che il tema del gioco ha subito un’ulteriore rilancio in ambito disciplinare, con la teoria della gamification, la ludicizzazione della vita quotidiana al fine di rendere anche le azioni più noiose, maggiormente appaganti. Il fine di questa parte di ricerca è quello di dare un quadro il più esaustivo possibile del gioco per metterne in evidenza gli effetti sull’individuo e sulla società, soprattutto nei suoi aspetti di aggregatore sociale e fattore di miglioramento della realtà in cui viviamo. Se il gioco è fortemente radicato nella cultura e nella società, è anche vero che si presta in modo perfetto come metafora di molte manifestazioni dell’attività umana, tra le quali la comunicazione. Analizzando la comunicazione da un punto di vista semiotico, per comprenderne il funzionamento e mostrarne il modello strutturale, ho voluto dimostrare come questa abbia delle forti similitudini con il gioco, tanto da far avanzare l’ipotesi che il gioco possa fornire non solo metafore ma anche modelli per lo studio e lo sviluppo di una comunicazione sociale più efficiente. A dimostrazione di questa tesi, ho infine realizzato uno schema di analisi concettuale sul modello del gioco, utile al designer per focalizzare al meglio gli obiettivi della comunicazione che vuole realizzare e le strategie più corrette per renderla maggiormente efficiente. Per comprenderne meglio il funzionamento, lo schema è stato applicato a dieci casi studio, due per ogni macro-obiettivo della comunicazione sociale, a dimostrazione del fatto che una comunicazione sociale concepita sul modello del gioco, possa essere non solo più efficace ma anche più coinvolgente, motivante e più vicina al destinatario finale.
14 / IL GIOCO COME MODELLO DI COMUNICAZIONE
SOCIETÀ E COMUNICAZIONE / 15
1 SOCIETÀ E COMUNICAZIONE
Quella in cui viviamo è un’epoca segnata da enormi cambiamenti che nel bene e nel male, condizionano il nostro modo di vivere e di rapportarci con il mondo. In quest’epoca di cambiamenti anche l’individuo ha acquisito un nuovo statuto: è più consapevole, più attento, più informato e più sociale. Grazie alle nuove tecnologie, si assiste alla nascita di forme di collaborazione creativa e a nuovi metodi di creazione di senso e sapere collettivo. Sempre più vivo è l’interesse verso le tematiche ambientali e sociali, insieme a una più ampia riflessione sulla “qualità della vita” e sulla responsabilità come individui all’interno di una comunità sempre più allargata. Il seguente capitolo ha l’obiettivo di indagare questo scenario complesso per scoprire come la comunicazione sociale oggi può rivestire un ruolo determinante per sostenere e incentivare questi stili di vita più sostenibili.
1.1. UN NUOVO APPROCCIO ALLA COMUNICAZIONE È innegabile che quella che stiamo vivendo è un’epoca completamente differente dal passato; molti sono stati i cambiamenti cha hanno stravolto il nostro modo di rapportarci con la realtà e molti ancora sono quelli prevedibili nel brevissimo periodo. Due forti caratteristiche che contraddistinguono quest’epoca sono secondo Giampaolo Fabris (2003) la complessità e la turbolenza, che non sono da intendere come elementi negativi ma anzi come fattori costruttivi. La complessità fa riferimento in primo luogo alle nuove evidenze di interconnessione e interdipendenza degli elementi che costituiscono la società odierna anche tra settori lontani e diversi (in ambito commerciale basti pensare per esempio, come riporta Naomi Klein nel suo libro No Logo, che la diminuzione di pochi centesimi nel prezzo delle Marlboro negli Stati Uniti il 2 aprile del 1993 ebbe delle conseguenze globali: non solo si registrò a Wall Street il crollo delle azioni della Philip Morris ma il fatto si riverberò negativamente anche sull’intero comparto dell’industria di marca che pure godeva di ottima salute). In secondo luogo si riferisce alla struttura della società attuale, che lungi da essere, come si sarebbe previsto nell’epoca moderna, sempre più massificata ed eterogenea, si presenta invece fortemente stratificata. Gli stessi stili di vita che erano assodati come criteri tassonometrici (e a cui, come si vedrà in seguito, ancora oggi si fa riferimento sia nel marketing tradizionale che in quello sociale) per dividere gli individui a seconda della loro classe sociale e del reddito, sono ora del tutto insoddisfacenti di fronte alla multi-identitarietà dell’individuo. Con turbolenza invece Fabris vuole indicare che il mutamento non solo si è accentuato, ma è divenuto sempre meno prevedibile nei suoi percorsi evolutivi. Ed è per questo che, nel campo della comunicazione, è inaccettabile fossilizzarsi in vecchie strategie e metodi. È invece necessario un continuo rinnovamento: di approccio, di linguaggi e mezzi. Leggere il caos come fattore caratterizzante i sistemi sociali avanzati, abituarsi a convivere con questo, a gestirlo e a considerarlo come opportunità (Tom Peters 1990, cit. in Fabris 2003); accogliere fra le regole del gioco, l’irrompere di fenomeni imprevedibili e la discontinuità, significa confrontarsi positivamente con la turbolenza e la complessità caratterizzanti l’epoca attuale.
LA COMPLESSITÀ E LA TURBOLENZA DELLA NOSTRA EPOCA NON SONO DA INTENDERE COME ELEMENTI NEGATIVI MA COME FATTORI COSTRUTTIVI Fabris, 2003
1.2. LO SCENARIO ATTUALE All’interno del macroscenario di quest’epoca, molti altri fattori hanno influenzato il percorso della società in cui viviamo, a partire dalle grandi invenzioni e scoperte scientifiche fino alle recenti crisi scaturite da un sbagliato modello di sviluppo economico che risulta sempre meno sostenibile per il futuro.
1.2.1. LA CRISI ECONOMICO-FINANZIARIA In questi anni l’Italia e il mondo sono stati scossi da una profonda crisi economico-finanziaria che ha interessato le istituzioni pubbliche e private nel loro complesso: dagli organi centrali dello Stato alle pubbliche amministrazioni SOCIETÀ E COMUNICAZIONE / 19
locali, dalle imprese private e dalle banche alle organizzazioni del terzo settore. Accanto agli aspetti economici, la società italiana è stata attraversata da ulteriori elementi di crisi: un articolato insieme di vicende, dai risvolti anche giudiziari, ha portato alla luce diffusi episodi di corruzione e patti tra politica e criminalità, ma anche scandali sessuali ed episodi di pedofilia. Si è trattato di fenomeni che, seppure di natura diversa, hanno coinvolto attori importanti della scena politica o pubblica italiana, e perfino alte gerarchie della Chiesa cattolica, non solo nel nostro paese. L’insieme di queste circostanze ha portato a una notevole riduzione non solo delle risorse economiche pubbliche destinate alla realizzazione dei servizi e degli interventi rivolti ai cittadini e alla collettività, ma anche di quelle simboliche, come la fiducia nei confronti delle istituzioni (cfr. Bosco 2011: 25). La crisi economica ha anche portato, come sappiamo, a una preoccupante crescita del livello del debito pubblico dei governi e ha avuto pesanti ripercussioni soprattutto sui governi europei creando allarme nei mercati finanziari. Non è mio interesse addentrarmi ulteriormente in queste questioni, perché non inerenti al discorso che la mia tesi vuole sostenere; per approfondimenti rimando all’ampia letteratura sviluppata a riguardo. La cosa che mi premeva evidenziare è che sono tutt’ora in atto tentativi per rispondere a questa crisi soprattutto da parte del nuovo governo “tecnico” italiano, che inizia ad avere dei riscontri positivi in termini di credibilità e fiducia agli occhi degli altri governi europei e mondiali, per cui esiste una concreta speranza di uscire, seppur con grandi sacrifici, da questa situazione insostenibile. Questo ha anche delle ripercussioni sullo stato d’animo dei cittadini e sulla loro fiducia nelle istituzioni, che, rispetto al governo precedente, sembrano aver acquistato dei punti a favore già in questi pochi mesi di operato. È certamente troppo presto per fare valutazioni sull’efficacia o meno delle riforme di questo governo; tuttavia, la sensazione generale della maggior parte della popolazione è che finalmente il governo inizi seriamente ad attivarsi per la gestione del paese e per guidarlo fuori dalla crisi (le rilevazioni di Ipr Marketing registrano per i primi mesi del 2012 la fiducia attorno al 60 per cento). Questi dati però sono relativi al governo tecnico istituito appositamente per dare una risposta immediata alla crisi economicofinanziaria. La fiducia nei partiti e nei politici invece, rimane ai minimi storici (secondo un sondaggio Ispo riportato sul Corriere della sera il 28 febbraio 2012, solo l’8 per cento dei cittadini ha ancora stima per i partiti). Il futuro della fiducia del governo nei cittadini, dipenderà soprattutto dalle prossime elezioni del 2013 ma soprattutto se ci sarà un rinnovo completo dei partiti politici che oggi vogliono rappresentare il paese.
1.2.2. GLOBALIZZAZIONE E CONNESSIONE Il cambiamento forse più evidente e importante che caratterizza la nostra epoca è il mutato rapporto verso il mondo, soprattutto nella nostra sfera personale. Il termine “globalizzazione” viene spesso associato erroneamente agli aspetti economici delle relazioni tra popoli e aziende, soprattutto in termini negativi per descrivere lo scorretto comportamento delle multinazionali nei confronti dei paesi in via di sviluppo. In realtà, parlare di globalizzazione solo in termini economici non è corretto né veritiero, perché se è vero che l’economia svolge un ruolo fondamentale, questa non esaurisce la multiformità attraverso cui il fenomeno si presenta e agisce. Il termine globalizzazione in20 / IL GIOCO COME MODELLO DI COMUNICAZIONE
fatti ha un significato articolato e ampio in quanto si riferisce sia all’idea di concentrazione del mondo, sia a una concezione del mondo come tutt’unico, e dunque descrive una dinamica di espansione della conoscenza che coinvolge tutta la società civile. Oltre che allo sviluppo dei mercati globali, la globalizzazione – ed è su questo aspetto che preferisco concentrare il mio discorso – ha permesso soprattutto la diffusione dell’informazione/conoscenza e la diffusione di forme di comunicazione basate sul modello di rete (come internet), che oltrepassano ogni frontiera spaziale e temporale. Oggi è normale pensare che possiamo parlare e “vederci” in tempo reale con chiunque dall’altra parte del mondo stando comodamente seduti davanti alla propria scrivania (o in qualunque altro luogo grazie alle tecnologie mobile); avere qualsiasi tipo di informazione immediatamente grazie a un click; accedere a qualsiasi conoscenza umana; creare e condividere materiale da noi prodotto in modo autonomo. Ma è sufficiente, anche solo per quelli della mia generazione, voltare gli occhi a poco più di una decina di anni fa, quando compivamo i primi passi su internet nel cosiddetto web 1.0 e le connessioni andavano a 56kb, per ridimensionare l’enorme evoluzione che ha subìto il nostro modo di vivere e di pensare grazie all’avanzamento tecnologico e all’apertura verso il mondo. Come illustrano bene Giovanna Gadotti e Roberto Bernocchi (2011): la rivoluzione digitale e il conseguente avvento della network society, il progresso tecnologico e il mutamento culturale globale in atto, hanno determinato un cambiamento irreversibile ed epocale delle forme dell’interazione sociale. Una vasta letteratura da tempo riflette sulla trasformazione sociale, culturale e politica prodotta dalle nuove tecnologie, segnalando da un lato la crisi dei tradizionali meccanismi di mediazione politica e sociale, dall’altro la crescita esponenziale delle possibilità di accesso e scambio di informazioni, di conoscenze, di esperienze tra gli individui […] La rivoluzione del web 2.0, contribuendo a modificare profondamente le modalità di diffusione e di fruizione della comunicazione in rete, ha accelerato il passaggio da comunità ancorate a contesti locali di interazione a network sociali digitali, che mettono in gioco risorse di capitale sociale e sono capaci di mobilitare persone e coscienze. (ivi: 104)
Per questo oggi si parla di “cultura partecipativa” e di “crowdsourcing” per segnalare il decisivo passaggio dalla comunicazione per alla comunicazione con le persone, e sottolineare le attuali potenzialità di partecipazione, relazione e co-creazione delle nuove piattaforme del web sociale.
1.2.3. INDIVIDUO, CITTADINO E CONSUMATORE In quest’epoca di cambiamenti anche l’individuo, sia come cittadino e sia come consumatore, ha acquisito un nuovo statuto. La caratteristica principale dell’individuo oggi è che non possiede una sola identità ma in ogni momento, nella società in cui vive, interpreta una molteplicità di ruoli sociali che implicano comportamenti apparentemente contraddittori (Fabris 2008). Questo per rispondere alla complessità della società in cui viviamo; cosa inedita rispetto alla modernità, dove generalmente le persone rispecchiavano la propria estrazione sociale e in particolare il proprio status professionale; giustificando appunto, nel campo del design e del marketing, la stratificazione del target per stili di vita, permettendo una maggiore prevedibilità del comportamento degli individui. Oggi invece, nella progettazione, non si può fare più riferimento a questi modelli di individui ma, come suggeriscono diversi autori, è opportuno pensare più che a stili di vita a “momenti di vita” (cfr. Cova, Giordano, Pallera 2007). Non ha più senso cercare di definire l’individuo una volta per tutte, è più SOCIETÀ E COMUNICAZIONE / 21
opportuno prendere atto della sua apparente “schizofrenia”; per questo ha molto più senso considerare gli individui come “punti di intersezione” o punti di contatto tra sistemi sociali.Come consumatore è diventato più esigente, attento alla qualità, più selettivo, informato e competente. Ha acquisito autonomia, potere nelle sue scelte e pretende maggiore attenzione e coinvolgimento da parte delle imprese, a cui chiede un’effettiva relazione, un dialogo e non un monologo. È infine disincantato, dimostra cioè un crescente pragmatismo e realismo nei confronti del mercato, manifestando quando vuole un sufficiente distacco. È molto più attento anche al comportamento etico delle aziende, e può fare affidamento al nuovo potere acquisito grazie agli strumenti informatici, per informarsi sul comportamento delle aziende, diffondere le proprie esperienze e conoscenze su queste (sia nel bene che nel male) e influenzare l’opinione pubblica e lo stesso mercato attraverso la sua scelta d’acquisto. Come cittadino anche: è più attento all’operato delle amministrazioni e pretende maggiore coinvolgimento nelle questioni che lo riguardano, ricercando attraverso diversi canali, di dialogare con i poteri pubblici e far valere i propri diritti. Multi-identità e momenti di vita. Dal momento che l’individuo possiede delle multi-identità, il nuovo consumatore e cittadino possiede diverse attitudini e comportamenti in relazione al diverso momento che sta vivendo e condividendo con le altre persone. Nel corso dei vari momenti della giornata siamo contemporaneamente tante persone diverse ma sicuramente, in ogni singolo momento, condividiamo con gli altri qualcosa che ci rende simili e quindi in un certo senso raggruppabili in un insieme. Li potremmo definire “momenti di vita” per cui più soggetti in alcuni momenti della loro vita condividono uno “spazio sociale”, un ambiente che può essere fisico o virtuale. Lo spazio sociale è caratterizzato da due dimensioni: il luogo e il momento, che insieme identificano una determinata situazione. Ogni spazio sociale è caratterizzato da determinate modalità simboliche, regole sociali. In tal senso il designer può essere in grado di individuare e raggiungere il proprio pubblico attraverso i luoghi (reali o virtuali) in cui si aggrega spontaneamente nel corso dei diversi momenti della giornata. Questo nuovo criterio d’individuazione non parte quindi dalle caratteristiche delle persone per poi raggrupparle; al contrario parte dai punti di contatto in cui si possono incontrare le persone per identificare le migliori modalità di interazione e di creazione di esperienza (cfr. ivi: 87-95).
1.2.4. INDIVIDUALISMO E NUOVE FORME DI SOCIALITÀ L’INDIVIDUO HA ACQUISITO UN NUOVO STATUTO: È PIÙ CONSAPEVOLE, PIÙ ATTENTO, PIÙ INFORMATO E POSSIEDE DIVERSE IDENTITÀ A SECONDA DEL MOMENTO CHE VIVE E CONDIVIDE
22 / IL GIOCO COME MODELLO DI COMUNICAZIONE
Lo scenario odierno mette in crisi il progetto della modernità (razionalità, ordine, progresso, conciliazione tra bene pubblico e privato),tuttavia non ne annulla e non ne smentisce i presupposti originari (libertà e sovranità dell’individuo, autoaffermazione, legittimità dei desideri e delle pretese soggettive) (cfr. Gallucci 2007: 18). Se consideriamo per esempio l’atteggiamento degli individui nei confronti della globalizzazione, questa genera da un lato la crisi e la frammentazione individuale e dall’altro il ricostruirsi del legame sociale in forme regressive e distruttive. In pratica si assiste da un lato all’affermarsi di un individualismo narcisistico che conduce all’omologazione, all’indifferenza e alla perdita di senso e, dall’altro, al configurarsi di un comunitarismo tribale che si manifesta nel ritorno della comunità in forme esclusive. La percezione del futuro è per questo motivo sempre più sotto la luce dell’incer-
tezza e dell’insicurezza, non solo per le sorti del singolo ma anche per le sorti collettive, in un pianeta sempre più minacciato da logiche di sviluppo imprevedibili e, se prevedibili, spesso inquietanti (cfr. Cova, Giordano, Pallera 2007). Ciò comporta una notevole complessità di analisi degli individui perché non si è più in grado di definirne l’appartenenza, per esempio a uno stile di vita, e neanche di valutarne le reazioni, perché queste sono legate a momenti specifici, stati d’animo, alle caratteristiche dei luoghi in cui si trova e alle dinamiche sociologiche dei contesti in cui svolge la sua attività. Ma la vita quotidiana non comporta solamente eccedenze e frammentazione. Per necessità ognuno di noi cerca continuamente di riassemblare i pezzi, ricomporre i frammenti delle proprie conoscenze di sé (delle proprie identità), elaborare il proprio senso della vita. L’emozione in questo senso viene in aiuto svolgendo una funzione cognitiva alternativa alla ragione nel tentativo di ricomporre il senso della vita quotidiana, fornendo interpretazioni della realtà comprensibili alla mente e oltrepassando così le difficoltà della ragione nel superare gli stati di grande confusione generati dalla complessità della nostra vita di tutti i giorni. Si assiste quindi oggi alla nascita di nuove forme di socialità, alimentate dal piacere di stare bene insieme, cementate dalle emozioni, passioni, sentimenti, dove si riscatta la categoria del banale, si valorizza il concreto e si amano le piccole cose. Si tratta, per usare un termine di Michel Maffesoli (2007), di “epifanizzare” il quotidiano, l’indulgere in quei tanti piaceri che sommati somiglia a qualcosa vicino alla felicità. Il sociale appare quindi più come una rete di microgruppi, di tribù e l’appartenere a una o più di essi è diventato estremamente importante per l’individuo, più che appartenere alla sfera macrosociale. Una tribù, nel senso postmoderno del termine (cfr. Cova 2003), è costituita da una serie di individui accomunati da un identica soggettività, affettività, etica, capaci di svolgere azioni microsociali molto intense. Questi tipi di raggruppamenti emotivi sono sempre esistiti (skinhead, teddy boys, mods) ma era caratteristica di pochi individui nella comunità, più che altro adolescenti; oggi il fenomeno è ampliamente dilagato tanto che qualsiasi tipo di persona è coinvolta in società “neotribali”.
SI ASSISTE ALLA RINASCITA DI NUOVE FORME DI SOCIALITÀ, ALIMENTATE DAL PIACERE DI STARE BENE INSIEME, CEMENTATE DA PASSIONI, EMOZIONI E SENTIENTI CONDIVISI
1.2.5. RESPONSABILITÀ SOCIALE E AMBIENTALE La crisi globale e il vento della recessione mondiale porta oggi a riflettere e a chiedersi se non sia finalmente giunto il tempo di spazzare via finti miti e luoghi comuni attorno ai quali si basano le strategie di crescita, facendo spazio a prospettive di crescita più solidali e compatibili. Il terreno è quindi propizio per il ripensamento degli stili di vita insostenibili a cui siamo abituati e l’acquisizione invece di nuove abitudini quotidiane più rispettose dell’ambiente e delle persone che ci circondano (cfr. Bernocchi, Gadotti, 2010). Si sta diffondendo una nuova idea di benessere: frutto di nuovi valori, di una diversa interpretazione di valori tradizionali, di una crescente sensibilità ambientale e anche, perché no, dell’acuirsi di ricorrenti crisi economiche. La matrice è diversa rispetto a quella politica o radical chic che ha caratterizzato in passato queste espressioni. Di nicchia fino a ieri. Adesso che vedono consenso, adepti e pratiche crescenti. (Fabris, www.societingblog.com)
Secondo l’indagine GFK Eurisko del 2009, svolta per conto di UPA e Assocomunicazione su un campione rappresentativo della popolazione italiana SOCIETÀ E COMUNICAZIONE / 23
(risultati in linea anche con gli altri raccolti da diverse fonti, che confermano questo aumento alla propensione “ambientale” da parte della popolazione), i consumatori considerano l’attenzione per l’ambiente un tema di primaria importanza, al terzo posto dopo crisi economica e disoccupazione, e si dichiarano disposti a spendere di più per l’acquisto di prodotti a basso impatto ambientale e nel 70 per cento dei casi sostengono di essere molto o abbastanza interessati a iniziative ecosostenibili (cfr. Bosco 2011). Anche la solidarietà verso il prossimo raccoglie dati positivi, come dimostrano le importanti percentuali di donatori che contribuiscono alle cause delle associazioni no profit (cfr. Bernocchi 2011). La solidarietà prende consistenza dall’empatia, dalle emozioni, dal condividere e suscitare delle passioni e dei sentimenti (cfr. Maffesoli, 2007) ma anche dal capire le diversità e imparare a gestirle con mezzi pacifici. Per questi motivi, ricorrere alla comunicazione sociale per educare e sensibilizzare su queste tematiche, può essere molto più efficace nel contesto in cui viviamo piuttosto che fare uso di imposizioni normative o altre forme di ingiunzione autoritaria come si è spesso fatto in passato.
1.3. IL RUOLO DELLA COMUNICAZIONE SOCIALE OGGI La riflessione sulla “qualità della vita” e sulla responsabilità come individui all’interno di una comunità sempre più allargata connota un insieme di atteggiamenti innovativi che dimostrano una notevole affinità con la comunicazione sociale e rappresentano un serbatoio da cui questa può attingere contenuti e problematiche da potenziare. Come afferma Gadotti, c’è la consapevolezza che «solamente dall’assunzione collettiva di nuove regole di convivenza può ormai derivare un benessere maggiore – anche in termini individuali» (Gadotti 2000: 71). La comunicazione sociale può in questo senso contribuire in modo incisivo e profondo all’assunzione di questi nuovi modelli di vita sostenibile, molto più di altri strumenti come le imposizioni normative o gli ordini autoritari, perché può far leva su fattori come l’empatia, la condivisione, il confronto, facilitando la percezione dei benefici che, anche a livello personale, l’assunzione di determinati comportamenti può portare nell’ottica di un migliore modo di vivere insieme. A dispetto del periodo di incertezza che caratterizza la nostra società in questi ultimi anni e le sempre più esigue risorse economiche di cui si dispone per via della crisi, il settore della comunicazione sociale è tutt’altro che in declino, come dimostra l’aumento di investimenti nella pubblicità sociale (Bosco 2011). Un dato controcorrente, anche considerando il fatto che le scelte strategiche finora adottate dalla comunicazione sociale, che in modo quasi totale ricalcano quelle della comunicazione commerciale, registrano bassissimi livelli di efficacia sul cambiamento del comportamento oggetto delle campagne. La fiducia nel ruolo della comunicazione sociale è quindi giustificata piuttosto dal crescente interesse del pubblico sulle questioni sociali e per l’attenzione che questi pretendono da parte dei principali soggetti promotori, in primis le istituzioni. I richiami a stili di vita più sostenibili e il reciproco sostegno con azioni di solidarietà non devono però limitarsi a buoni sentimenti, né da parte di chi li promuove né da parte di coloro che sono invitati a seguirli. I primi devono 24 / IL GIOCO COME MODELLO DI COMUNICAZIONE
dimostrare anche un reale impegno attraverso il loro operato nella società, mentre i secondi devono essere messi nelle condizioni di poter davvero contribuire con le proprie capacità, ma prima ancora, “educati” sull’importanza di questi temi e sul peso che le azioni di ognuno ha sull’intera società. Per fare questo però è indispensabile ripensare al ruolo della comunicazione sociale e a come finora è stata adottata. Come afferma anche Michele Serra, le parole e le prediche sono inutili quando si vuole “comunicare il sociale”: invece l’esempio, l’esperienza, la messa in comune di cose belle e buone, il confronto, sono le uniche armi efficaci. Non basta che una comunicazione sia “sociale” perché possa essere definita “buona”; solo se ben costruita nelle forme e nei contenuti, può davvero essere utile alla collettività. In caso contrario non solo risulta inutile ma come dimostrano diversi casi internazionali, può addirittura rivelarsi controproducente (cfr. Bernocchi, Gadotti, 2010:174). Ovviamente, non basta nemmeno che sia ben fatta, ma occorre anche che sia visibile: per questo è importante fare uso di diversi mezzi integrati e collaborazioni strategiche. In quest’ottica, la pubblicità sociale, strumento da sempre (fin troppo) privilegiato e sovrastimato in Italia per la comunicazione sociale, se ben gestita può avere ancora un suo ruolo all’interno della strategia comunicativa come strumento di amplificazione visiva. È però indispensabile affiancarla ad altri mezzi interattivi e partecipativi, che permettano ai cittadini di contribuire in modo attivo al “discorso”. La maggiore sintonia con il destinatario è certamente una delle vie maestre da percorrere e cercare di instaurare con questo un dialogo e un’interazione, può essere la soluzione alla scarsa efficienza registrata fino ad oggi dalle principali iniziative di comunicazione sociale realizzate in Italia.
LA RIFLESSIONE SULLA “QUALITÀ DELLA VITA” E SULLA RESPONSABILITÀ COME INDIVIDUI ALL’INTERNO DI UNA COMUNITÀ SEMPRE PIÙ ALLARGATA CONNOTA UN INSIEME DI ATTEGGIAMENTI INNOVATIVI E AFFINI ALLA COMUNICAZIONE SOCIALE CHE COSTITUISCONO UN RICCO SERBATOIO DA CUI QUESTA PUÒ ATTINGERE CONTENUTI E PROBLEMATICHE DA POTENZIARE E SOSTENERE
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2 LA COMUNICAZIONE SOCIALE
La comunicazione sociale è un fenomeno vasto, complesso che si manifesta in molte forme. A partire dalla difficoltà di farne una classificazione univoca, spesso è frutto di generalizzazioni e di erronee definizioni, la più comune delle quali è quella di associarla semplicemente alla pubblicità sociale. Questo capitolo, attraverso un’articolata analisi del fenomeno, vuole chiarire il più possibile che cosa s’intende in Italia per comunicazione sociale, quali sono gli organi principalmente coinvolti, i temi, i linguaggi e il modello più usato nel nostro paese. Vuole mettere in evidenza anche come la visione e l’approccio attuale limitati, portino spesso a comunicazioni di scarsa efficienza. Analizzando i problemi della comunicazione sociale in Italia si cercherà di indicare una serie di direttive per risolvere le criticità attuali e pensare a un modello di comunicazione più efficiente e vicino ai destinatari.
2.1. COMUNICAZIONE PUBBLICA E COMUNICAZIONE SOCIALE Negli ultimi anni si è inteso con il termine “comunicazione sociale” un insieme di fenomeni e realtà in verità molto differenti. Parte dell’ambiguità deriva innanzitutto dall’aggettivo “sociale” messo a seguito di termini come pubblicità o comunicazione, talvolta utilizzato per intendere messaggi con tematiche di pubblico interesse, talvolta per identificare messaggi rivolti alla società, talvolta semplicemente per differenziarlo dalle comunicazioni di interesse economico. In altre parole, la locuzione “sociale” ha assunto sfumature differenti a seconda che l’attenzione fosse rivolta sull’ente promotore, sul messaggio o sul fine. Ma è legittimo anche fermarsi a riflettere, con le osservazioni messe in luce da Nicoletta Bosco nel Primo Rapporto sulla Comunicazione Sociale in Italia (2005), se il termine “sociale”, che richiama nell’accezione comune a un qualcosa che riguarda tutti e quindi fa riferimento a un implicito “noi”, all’esistenza e alla gestione di beni collettivi e alla solidarietà verso segmenti più deboli che compongono questo “noi”, sia lecito da utilizzare di fronte alla realtà che ci mostra una società apparentemente frammentata, eterogenea e in continuo mutamento, che difficilmente si sente unita sotto un’unica “bandiera”. Altri studiosi come Bauman, De Sandre e Bosco (cfr. Bernocchi, Gadotti 2010) mettono inoltre in mora sull’eventuale pericolo che l’utilizzo della comunicazione sociale, che fa leva su un universo di valori e aspettative ampiamente condivise da una parte del popolo, rischia di creare ulteriore frammentazione, escludendo dei punti di vista alternativi e prospettive che in quel particolare collettivo non riescono a riconoscersi o nel quale non sono incluse da chi ha il potere di decidere la natura dei confini. Per dare una risposta al primo dubbio, in realtà, come ho mostrato in apertura della tesi, non è vero che si è di fronte a una massa sempre più frammentata di individui e come dimostrano le osservazioni di Fabris (2003) le nuove identità dell’individuo contemporaneo lo rendono predisposto al riallacciamento dei legami sociali, per cui trovo legittimo parlare in termini di “noi” e la comunicazione sociale (insieme a una ri-organizzazione degli Enti Pubblici e alle associazioni non profit) dovrebbe proprio essere il mezzo per incrementare questa coesione pre-esistente e allargarne il bacino di individui, cercando di creare nuove opportunità di raggruppamento sociale tramite cui diffondere il senso sociale di appartenenza a una collettività, migliorare la qualità della vita delle persone e rendere più partecipi queste al discorso pubblico. In merito invece al secondo dubbio, se è vero che ciascun individuo può condividere o meno determinati valori diffusi dalla comunicazione sociale per cui può esserci il rischio di sentirsi esclusi dal dibattito pubblico se non si condividono gli stessi valori, il problema di base consiste appunto nell’attuale conformazione di questo tipo di comunicazioni, finora improntate su un modello unidirezionale, mentre è essenziale uno stravolgimento del paradigma verso modelli bidirezionali, perché i cittadini possano intervenire direttamente facendo sentire anche i propri punti di vista, ristabilendo quindi un vero dialogo sui temi sociali, scopo che la comunicazione sociale, per sua natura, dovrebbe perseguire da sempre. Questo dialogo è possibile solo a fronte di un riavvicinamento alla sfera pubblica per cui anche le strutture che veicolano questi messaggi dovrebbero essere ripensate in termini più dialogici e di collaborazione con gli individui. Infatti come dimostrano i recenti rapporti dell’IREF-ACLI (2006), che periodicamente forniscono dati sulle pratiche soLA COMUNICAZIONE SOCIALE / 29
lidali degli italiani, i diversi modi di intendere la cittadinanza sembrano influire sulla questione cruciale della fiducia verso l’altro e nei confronti del futuro e in particolare la predisposizione verso l’altro aumenta fra i cittadini che sono più vicini alla sfera pubblica. Una possibile via risolutiva, che voglio proporre con questa tesi, sarà meglio approfondita nei prossimi capitoli. Prima però ritengo utile analizzare più da vicino questo eterogeneo fenomeno che d’ora in poi definirò “comunicazione sociale”.
CON LA LOCUZIONE “COMUNICAZIONE PUBBLICA” SI DENOTANO TUTTE LE FORME COMUNICATIVE PROVENIENTI DALLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE
2.1.1. UNA PRECISAZIONE Un ulteriore elemento di confusione attorno alla definizione di comunicazione sociale è la sua sovrapposizione per certi aspetti al termine “comunicazione pubblica”, per via dei suoi confini incerti. Nonostante le lecite osservazioni attorno al suffisso “pubblica”, è ormai diffuso far corrispondere sotto il termine comunicazione pubblica ogni forma di comunicazione che proviene dalla pubblica amministrazione (enti pubblici e parastatali). A seconda della materia trattata e dei fini che persegue, la comunicazione pubblica si divide a sua volta in (cfr. Garrone 2005): 1. comunicazione istituzionale: comunicazione neutra che serve a far conoscere l’esistenza e il funzionamento degli enti pubblici e le modalità più efficienti di fruizioni dei servizi offerti al cittadino, l’autopromozione dell’immagine stessa dell’Amministrazione per i risultati raggiunti, in un ottica di trasparenza, partecipazione del cittadino e di democraticità nei rapporti con la Pubblica Amministrazione, anche secondo i sensi della legge del 7 giugno 2000 n.150, (recante in rubrica: “Disciplina delle attività di informazione e di comunicazione delle pubbliche amministrazioni”); 2. comunicazione politica: comunicazione di parte, portata avanti da partiti o altre organizzazioni di rappresentanza politica, che ha lo scopo di costruire consenso e influenzare scelte del governo su temi controversi; 3. comunicazione sociale: comunicazione super partes e con un valore aggiunto alla semplice informazione strumentale, che ha lo scopo di sensibilizzare l’opinione pubblica su problemi sociali riconosciuti da tutti. La comunicazione sociale è quindi una delle possibili forme di comunicazione di cui si serve la comunicazione pubblica ma non vuol dire che questa debba essere necessariamente emessa solo da organi istituzionali. Come illustrerò in seguito, vi sono altri soggetti che emettono comunicazioni sociali. Ciò che differenzia maggiormente la comunicazione sociale trasmessa dall’Amministrazione Pubblica rispetto a quella diffusa dagli altri enti sono la scelta dei temi trattati, solitamente accettati dall’opinione pubblica, il fatto di proporre una sorta di advertising etico e farsi portavoce imparziale e responsabile dei valori che comunica in quanto tutore principale dell’interesse pubblico e interprete autorevole della collettività, l’essere soggetta alla legge n. 151/2000 sulle attività di informazione e di comunicazione delle pubbliche amministrazioni; delle leggi n. 223/1990 e n. 112/2004 in materia di sistema radiotelevisivo misto pubblico-privato; finanziata secondo determinati parametri, con soldi pubblici e trasmessa sui canali pubblici. Ogni anno, secondo l’articolo 11, è inoltre
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dovere delle Amministrazioni dello Stato elaborare un programma delle iniziative di comunicazione che intendono realizzare nell’anno successivo, redatto secondo le indicazioni metodologiche del Dipartimento per l’Informazione e l’Editoria della Presidenza del Consiglio dei Ministri. In linea di massima, inoltre, le comunicazioni sociali promosse dalla pubblica amministrazione combaciano con provvedimenti di legge o nuove riforme attuate dallo Stato stesso (ad esempio la campagna per la lotta all’evasione fiscale recentemente trasmessa dal Ministero dell’Economia è uscita in concomitanza alla nuova manovra Monti circa le riforme fiscali).
2.2. LA COMUNICAZIONE SOCIALE Dati i confini incerti della comunicazione sociale risulta notevole la difficoltà di ingabbiarla in una definizione univoca ed esaustiva. Partendo dall’osservazione del fenomeno in Italia, secondo i più accreditati studi sociologici, la comunicazione sociale è un mezzo per stimolare la coscienza civile ed operare per il bene comune promuovendo idee e valori atti a contribuire a un effettivo progresso della società. La comunicazione sociale, come afferma Sobrero, si caratterizza per fornire «un’informazione imparziale su tematiche di interesse collettivo, utilizzando tecniche e canali abitualmente usati nel mondo commerciale» (cfr. Garrone 2005) Il maggior contributo alla riflessione e all’analisi di queste attività di comunicazione in Italia è dovuto a Giovanna Gadotti che per prima nel 1993 ha analizzato le campagne sociali realizzate nel nostro paese, ponendo particolare attenzione all’esperienza di Pubblicità Progresso, nel tentativo di dare una definizione esauriente del fenomeno. Gadotti definisce la comunicazione sociale come «una comunicazione che fornisce nell’interesse collettivo, un’informazione imparziale, su tematiche di interesse collettivo», una comunicazione quindi che almeno in linea teorica, fa riferimento a universi valoriali largamente condivisi. Nella versione integrata, a distanza di anni da quella prima definizione di comunicazione sociale, Gadotti ritiene opportuno integrare le riflessioni svolte da Paolo Mancini nel suo testo La comunicazione pubblica dove l’autore preferisce parlare, piuttosto che di imparzialità degli approcci, di carattere solo «relativamente controverso» degli argomenti trattati dalla comunicazione sociale in quanto, come anche esposto precedentemente, è impossibile isolare temi sui quali non esistano punti di vista contrastanti. Tuttavia, anche se difficile stabilirne il grado, vi possono essere dei parametri che definiscono il livello di controversialità: un primo è di carattere quantitativo, ovvero quanto più diffusa e accettata è un’idea nella società, tanto il suo livello di controversialità tenderà a diminuire; un secondo parametro è invece relativo alla distinzione tra tema e valore, per cui è possibile che la comunicazione sociale affronti dei temi che in parte presentino un qualche livello di controversialità, ma allo stesso tempo, l’universo di valori a cui quei temi rimandano può essere molto meno controverso e anzi decisamente condiviso (cfr. Gadotti 2001). Nella definizione di Mancini l’attenzione è quindi posta sull’oggetto trattato dalla comunicazione sociale. Secondo una ormai consolidata letteratura sul tema, infatti, la comunicazione sociale si caratterizza più per l’oggetto di cui tratta che per i soggetti che la promuovono.
LA COMUNICAZIONE SOCIALE DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE È MENO CONTROVERSA ED È SOGGETTA ALLE LEGGI DELLO STATO ITALIANO
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Due sono infatti gli elementi che connotano quest’area della comunicazione: 1. essa riguarda affari di interesse generale, “il cui campo di pertinenza è quello delle funzioni socialmente rilevanti e non quello degli interessi privati” (Gallino 1993, cit. in Mancini 2002: 7); 2. le attività della comunicazione sociale non sono finalizzate alla produzione di profitto. Si tratta dunque di una comunicazione che riguarda temi, questioni e issues di interesse generale, il cui obiettivo prioritario è quello di sensibilizzare o educare determinati pubblici di riferimento o l’intera popolazione. (Gadotti, 2005: 48)
Secondo questa definizione è dunque possibile identificare tre sottospecie di comunicazione sociale: 1. comunicazione di pubblico servizio: promuove servizi di pubblica utilità e può essere prodotta da istituzioni pubbliche o private; 2. comunicazione sociale: finalizzata a promuovere un’idea, un valore, un tema di interesse generale, relativamente controverso; 3. comunicazione di responsabilità sociale: è realizzata dalle aziende pubbliche o private per promuovere gli interessi dell’impresa associandoli alla difesa del benessere del consumatore/fruitore e più in generale a tutta la comunità. Già da questa prima suddivisione emerge come la pluralità dei soggetti promotori e i loro fini siano necessariamente un ulteriore elemento da considerare per una definizione più obiettiva. Franca Faccioli (2000) pone l’accento sulla necessità di distinguere tra i soggetti della comunicazione sociale, ovvero tra la comunicazione sociale attuata dalla pubblica amministrazione e la comunicazione sociale propria dell’area non profit che l’autrice preferisce definire «di solidarietà sociale». Faccioli ponendo questa doppia definizione, vuole sottolineare la necessità di distinguere i diversi ruoli e le diverse responsabilità che competono da una parte alle istituzioni pubbliche e dall’altra ai soggetti privati (organizzazioni e associazionismo), nonostante questi si muovano come i soggetti pubblici, nella stessa prospettiva degli interessi collettivi, spesso anche nello stesso ambito tematico. Tutte queste prime definizioni erano per molti aspetti coincidenti con la pubblicità sociale, intesa come veicolo primo della comunicazione sociale ma che in realtà è solo uno dei possibili mezzi comunicativi di cui la comunicazione può disporre. Un ridimensionamento del ruolo della pubblicità all’interno della comunicazione sociale e un primo ampliamento in questo senso è stato avviato dal dibattito attorno alla proposta di applicare le tecniche di marketing a questioni di interesse collettivo, generando il cosiddetto marketing sociale. Un’altra importante svolta è stata mossa nell’ultimo decennio da diversi autori che hanno cominciato a mettere in dubbio il funzionamento di queste pratiche comunicative e anche la definizione stessa utilizzata per descriverle. Ad esempio l’Osservatorio sulla comunicazione sociale e l’editoria del Terzo settore (un equipe di ricerca nata in ambito universitario diretta da Mario Morcellini) ha messo in evidenzia negli ultimi anni come il ruolo delle relazioni e del capitale sociale nella definizione sia sempre stato messo poco (se non mai) in evidenza mentre, come riporta Nicoletta Bosco nel Primo rapporto sulla comunicazione sociale «la comunicazione sociale è anche quella forma comunicativa che si propone di alimentare il bacino dei beni pubblici» con lo scopo di «accrescere le risorse di “capitale sociale”, cioè il potenziale di in32 / IL GIOCO COME MODELLO DI COMUNICAZIONE
terazione cooperativa che l’organizzazione sociale mette a disposizione delle persone» (Bosco, 2005: 12). Come si può intuire dalla complessità e la vastità del fenomeno, racchiudere la comunicazione sociale entro dei parametri fissi è praticamente impossibile. Per capire meglio come funziona e come si sviluppa la comunicazione sociale si può cercare di osservare a grandi linee la sua struttura e provare a identificare i soggetti che in qualche modo sono coinvolti, i temi salienti che promuovono, e quali sono i fini ultimi che vuole raggiungere.
Figura 2.1. Esempio di comunicazione di pubblico servizio: “150° anniversario dell’Unità d’Italia”, Presidenza del Consiglio dei Ministri, 2011. Figura 2.2. Esempio di comunicazione sociale: “Say no to nuclear energy!”, Greenpeace 2009. Figura 2.3. Esempio di comunicazione di responsabilità sociale: “Magliette Mondiali di Calcio”, Coop, 2010
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Figura 2.4. Comunicazione di appello al pubblico: “Solidarietà per i malati”, Pubblicità Progresso, 1994. Figura 2.5. Comunicazione educativa: “Io dissuado”, ANIA (Associazione Nazionale fra la Imprese Assicuratrici), 2009. Figura 2.6. Comunicazione di sensibilizzazione: “Il 70% della plastica finisce in mare”, WWF, 2011.
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2.2.1. OBIETTIVI Assodata l’ampia dimensione della comunicazione sociale, come insieme di iniziative atte a informare, promuovere e/o sostenere tematiche o problemi di interesse collettivo e a seconda degli obiettivi, dei destinatari, del messaggio e delle relazioni che si vengono a creare tra comunicatore e pubblico di riferimento, possiamo identificare alcune macrocategorie di messaggi sociali: 1. comunicazione di sensibilizzazione 2. comunicazione educativa 3. appello al pubblico (fund raising) La comunicazione di sensibilizzazione è diretta a sensibilizzare il destinatario su tematiche di solidarietà e difesa delle categorie più svantaggiate. Il messaggio è diretto a sollecitare un comportamento positivo o a modificarne uno negativo, nei confronti degli altri. Un esempio di comunicazione di questo tipo è quella che invita a dare solidarietà e appoggio ai malati, per la difesa dei diritti degli animali o ancora dedicata alla salvaguardia del patrimonio ambientale e artistico. Il beneficiario della comunicazione è un soggetto terzo: il promotore della comunicazione si rivolge al pubblico per stimolare un comportamento che è rivolto direttamente al beneficiario ultimo dell’azione comunicativa. La comunicazione educativa è finalizzata esplicitamente all’educazione delle persone. Sviluppa messaggi diretti ai singoli con l’obiettivo di dissuadere da comportamenti dannosi messi in atto dall’individuo o per suggerirne altri positivi. Comunicazioni di questo tipo sono ad esempio le campagne contro la tossicodipendenza, l’abuso di alcool, o promotrici di uno stile di vita sano. In questo tipo di comunicazione destinatario e beneficiario del messaggio coincidono. L’appello al pubblico invece fa riferimento a quella comunicazione attuata da un soggetto per ottenere dei contributi dal destinatario a cui questa si rivolge. Degli esempi di queste comunicazioni sono le iniziative di raccolta fondi attuate soprattutto dalle associazioni non profit che si occupano di portare aiuti ai paesi poveri, il sostegno alla ricerca scientifica come Telethon. Il primo beneficiario è lo stesso comunicatore e solo in un secondo momento saranno i terzi (persone, animali, ambiente, ecc.). Quest’ultimo tipo di campagna è soggetta all’attuazione del Codice di Autodisciplina pubblicitario in quanto, come precisa l’articolo 46, sono soggetti alle norme del Codice i «messaggi che sollecitano, direttamente o indirettamente, il volontario apporto di contribuzione in denaro, in beni o in prestazioni di qualsiasi natura, nell’ambito di iniziative finalizzate a sensibilizzare il pubblico al raggiungimento di obiettivi, anche specifici, di interesse generale e sociale». Queste forme di comunicazione hanno in comune il fatto di trattare temi di interesse generale, argomenti ampiamente assorbiti dalla società e naturalmente distaccarsi dalla comunicazione commerciale. Esistono però altri due tipi di comunicazione sociale, che si distaccano per la scelta dei temi esposti e per i fini: 4. advocacy 5. comunicazione sociale delle imprese profit oriented LA COMUNICAZIONE SOCIALE / 35
LE COMUNICAZIONE ADVOCACY E QUELLA DELLE IMPRESE ORIENTATE AL PROFITTO SONO LE PIÙ CONTROVERSIE: LE PRIME PERCHÉ TRATTANO TEMI NON DA TUTTI CONDIVISI, LE SECONDE PERCHÉ IN REALTÀ SONO MOSSE DA INTERESSI COMMERCIALI
L’advocacy è un particolare tipo di comunicazione sociale di carattere imparziale che verte su argomenti dichiaratamente controversi, sui quali non vi è un consenso unanime ma anzi esistono prese di posizione di parte e/o settoriali. Una comunicazione advocacy è ad esempio una campagna contro la vivisezione, considerandola una tortura inutile contro l’opinione di quanti la ritengono un ausilio indispensabile alla ricerca scientifica. Oppure ancora sul tema dell’aborto, sull’energia nucleare, una comunicazione cioè che affronta questioni alla cui base vi sono universi valoriali molto differenti. La distinzione tra campagne di pubblica utilità e campagne advocacy è però molto labile e flessibile, in quanto un tema considerato controverso è soggetto alla sensibilità sociale che ridefinisce continuamente i confini di ciò che è accettato culturalmente da tutta la collettività e ciò che è accettato solo da una parte di questa. Così per riprendere l’esempio di prima, con il progressivo indebolirsi all’interno dell’opinione pubblica della posizione di quanti ritengono essenziale ricorrere alla sperimentazione su animali vivi, l’opposizione alle pratiche di vivisezione perde il suo carattere controverso e si configura sempre più come corollario di un valore civile generalmente accettato che è quello del rispetto degli animali (cfr. Gadotti 1992: 2001). La comunicazione sociale delle imprese profit oriented, come si intuisce dalla definizione, è un tipo di comunicazione promossa dalle imprese, in nome di una responsabilità sociale di queste nei confronti della collettività. Queste comunicazioni sono ormai comuni e diffuse, tuttavia continuano a destare dello scetticismo e qualche perplessità (cfr. Bernocchi, Gadotti 2010). Formalmente sono molto simili alle comunicazioni sociali utilizzate dalle aziende non profit, se non fosse per la firma le si potrebbe facilmente confondere con queste. Anche i temi sono generalmente gli stessi e le richieste molto simili: chiedono di partecipare a qualche buona causa, di dare una mano a realizzare un progetto socialmente utile, informano di un’iniziativa intrapresa dall’azienda a favore della collettività, spronano qualche atto di solidarietà e danno addirittura consigli per la nostra salute. Però è palese che queste comunicazioni sono fatte anche a scopo di immagine e quindi di un resoconto personale, più che per la diffusione sentita di valori sociali. Tuttavia il discorso sull’etica e sulla responsabilità sociale delle imprese è un tema di grande attualità e le imprese sono “costrette” a questo cambiamento anche dalla pressione stessa dei loro consumatori, oggi maturi, informati, critici, consapevoli delle implicazioni anche sociali del loro consumo, e dunque più attenti all’operato delle imprese, che sono pronti a premiare o sanzionare a seconda che queste si dimostrino responsabili oppure non virtuose. Queste comunicazioni sociali delle aziende possono assumere diversi significati a seconda dell’orientamento complessivo dell’azienda verso la responsabilità sociale. Da un lato si possono avere iniziative prosociali (talvolta estemporanee, altre volte durature e coerenti con l’immagine dell’azienda), che possono essere estranee alle strategie d’impresa. Dall’altro lato invece queste possono essere solo l’aspetto più visibile al pubblico di un più profondo orientamento responsabile (strategico) dell’azienda.
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Figure 2.7. Comunicazione sociale delle imorese profit oriented: “Se bevi, non guidare”, Alfa Romeo, 2010; Figura 2.8. Comunicazione sociale delle imorese profit oriented: “Lete, insieme per la vita”, Acqua Lete, 2012. Figura 2.9. Advocacy: “Sulla sua testa ci sono ancora troppe taglie”, LAV, 2010.
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2.2.2. SOGGETTI COINVOLTI
L’ AMMINISTRAZIONE HA COMINCIATO A RIOCCUPARSI DI COMUNICAZIONE SOLO NELL’ULTIMO VENTENNIO, A CAUSA DELLA PROLUNGATA DIFFIDENZA DEGLI ITALIANI SULL’USO DI QUESTI MEZZI DA PARTE DEGLI ORGANI DI GOVERNO
In Italia il proliferare dei soggetti intorno al tema della comunicazione pubblica e sociale è da attribuirsi, secondo Gadotti (2005), a un’altra serie di importanti processi avviati negli anni ’80 e che hanno rappresentato le ragioni e il contesto entro il quale questa si è sviluppata: il declino del welfare state e la riforma della pubblica amministrazione, la crescente presenza delle organizzazioni non profit e dell’associazionismo e il loro altrettanto crescente grado di istituzionalizzazione, una rinnovata attenzione al “sociale” da parte dei cittadini, il diffondersi di comportamenti di responsabilità sociale da parte delle aziende private, in un quadro più ampio di una sempre maggiore centralità del sistema dei media e dello sviluppo di nuove tecnologie. La conseguenza di tutti questi cambiamenti è stata che una pluralità di soggetti ha dato vita a un insieme di attività, di strategie, di messaggi realizzati consapevolmente per organizzare e strutturare un discorso sulle problematiche e sulle questioni di rilievo sociale. Hanno così cominciato ad affollare i mass media di messaggi, intervenendo per confrontare punti di vista e riferimenti di valore con lo scopo di mettere in agenda i temi che stavano loro a cuore e su cui ritenevano necessario sensibilizzare l’opinione pubblica (cfr. Gadotti 2005). I mass media, infatti, hanno costituito fino al recente passato (e per certi versi costituiscono ancora oggi) il campo più importante all’interno del quale i diversi attori competono per attirare l’attenzione del pubblico sulle proprie cause e problematiche sociali. I temi, gli obiettivi e il linguaggio che determinano la comunicazione sociale quindi cambiano notevolmente a seconda del soggetto che la promuove. È importante per questo distinguere gli attori dei processi di comunicazione sociale per sottolinearne le differenze, specialmente tra pubblico e privato, gli obblighi del primo e le scelte strategiche dei secondi, che si muovono e talvolta si trovano a competere su questo terreno (cfr. ivi: 49). In Italia si possono identificare quattro soggetti promotori: la pubblica amministrazione (Stato e pubblici poteri), le associazioni non profit, Pubblicità Progresso e le aziende private. Pubblica Amministrazione. Come accennato precedentemente in questo capitolo (2.1.1.) è convenzione far rientrare la comunicazione sociale promossa dalla pubblica amministrazione sotto il termine ombrello di “comunicazione pubblica”, dove l’aggettivo pubblico rinvia alla natura del soggetto emittente più che al contenuto emesso (di interesse pubblico e/o pubblica utilità) (Gadotti 2001). In Italia questo soggetto è entrato relativamente tardi nel discorso sociale, principalmente a causa di un ritardo di carattere culturale che ha riguardato tutta la comunicazione dell’apparato amministrativo dello Stato ma anche per la negativa esperienza della propaganda fascista che ha generato in seguito nell’opinione pubblica una marcata diffidenza verso ogni intervento educativo dello Stato. In realtà, campagne educative nel campo della salute e dell’igiene pubblica sono databili già a partire dagli anni ’50. Tuttavia non possono rientrare nella categoria di campagne sociali nel senso in cui lo si intende oggi, perché erano completamente differenti il clima e lo scenario in cui queste comunicazioni venivano diffuse e di conseguenza molto differente era la percezione che ne aveva il cittadino (anche a fronte di un differente rapporto con lo Stato). Il soggetto pubblico solo nell’ultimo ventennio ha ricominciato ad occuparsi nuovamente di comunicazione, ampliando tra l’altro la propria attività ad aree
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tematiche inedite (sicurezza stradale, lotta alla droga, diritti e doveri civili) ma soprattutto ha cominciato finalmente ad evidenziare una nuova consapevolezza intorno al proprio ruolo e alle proprie potenzialità come artefice della comunicazione nei confronti dei cittadini (con la triplice finalità di informare sulle norme e sui servizi, promuovere la propria immagine ed educare la popolazione). Questo rinnovato rapporto è stato possibile grazie a un’intensa attività legislativa iniziata a fine anni ’80 con l’introduzione della questione pubblicitaria all’interno del bilancio statale e terminata con la legge 150/2000 che disciplina le attività di informazione e di comunicazione delle pubbliche amministrazioni. La legge 150/2000 è considerata un punto di svolta perché con essa la comunicazione del soggetto pubblico non solo viene definitivamente legittimata ma diventa pure un obbligo istituzionale che le amministrazioni sono tenute ad adempiere in nome di un chiaro e trasparente rapporto con il cittadino. Il passaggio dal modello della autoreferenzialità a quello della trasparenza è stato anche fortemente segnato dalla pressione della cittadinanza e dalla sempre maggiore consapevolezza dei propri diritti, tra cui appunto quello di essere informato. Questa evoluzione del rapporto cittadino-stato ha determinato anche un decisivo cambio di registro delle comunicazioni, non più solo in termini normativi e prescrittivi ma anche informativi e persuasivi, contribuendo inoltre a smorzare ulteriormente le diffidenze storiche degli italiani nei confronti delle comunicazioni statali. La comunicazione diventa quindi un mezzo per ricostruire un rapporto di fiducia tra Pubblica Amministrazione e cittadini, ma deve anche essere costantemente accompagnata da una serie di interventi pratici percepiti come adeguati al problema sottoposto all’attenzione pubblica, pena la perdita di credibilità e di consenso (cfr. Gadotti 2005). Come si evince da questo breve resoconto storico, l’attenzione alla comunicazione sociale in questo settore è oggi molto viva. Come riporta Nicoletta Bosco nel Secondo Rapporto sulla Comunicazione Sociale in Italia (2011) anche il governo, nonostante le recenti crisi economiche-finanziarie, i relativi tagli alle spese, e i risultati poco incoraggianti, continua a investire notevolmente nella realizzazione di campagne di comunicazione sociale. Secondo i dati raccolti
Figura 2.10. Manifesti educativo degli anni ‘50 promosso dall’Enpi sul tema della salute e dell’igiene pubblica. Figura 2.11. Comunicazione sociale contro il bullismo, promossa dalla Regione Valle d’Aosta, 2007.
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da Riselli (Riselli 2010 cit. in Bosco, 2011: 30) nel 2009 lo stanziamento complessivo ammonta a 28 milioni di euro, suddivisi tra campagne realizzate dal governo (11 milioni), dal ministero delle Pari opportunità (7,5 milioni), dal ministero della Salute (6,5 milioni), a cui si aggiungono i fondi del ministero del Lavoro e delle Politiche sociali (3,3 milioni circa) finanziati dal Fondo europeo per l’integrazione di cittadini di paesi terzi. Complessivamente il settore appare in crescita, con un numero più che raddoppiato di campagne (53) realizzate da Palazzo Chigi nel 2009 rispetto all’anno precedente. Per quanto riguarda i temi affrontati, ovviamente questi sono molti ed eterogenei a seconda del ministero che se ne fa promotore. Si va da contenuti più tradizionali come le campagne contro l’uso degli stupefacenti o l’abuso di alcool, contro la violenza nei confronti delle donne e la tutela dei minori, alla commemorazione dei caduti nei giorni di ricorrenza, all’emergenza terremoto con la raccolta fondi a favore delle popolazioni colpite, alla promozione del territorio o delle strutture turistiche in grado di accogliere animali domestici, fino alle recenti campagne contro l’evasione fiscale. Le iniziative in linea generale, sia per la scelta dei temi che per la scelta di forme di comunicative tradizionali, appaiono molto ampie, rivolte alla popolazione nel suo complesso e poco inclini alla sperimentazione di nuovi linguaggi e forme. È però da segnalare che, negli ultimi anni, qualche tentativo di ampliare i propri orizzonti e provare strade nuove inizia a comparire, ad esempio le campagne nate dalla collaborazione di enti pubblici e organizzazioni non profit, potrebbero essere i primi passi verso un concetto di “amministrazione condivisa” dei problemi sociali a cui la comunicazione sociale potrebbe dare visibilità e sostanza.
Figura 2.12. Nazionale italiana cantanti alla partita del cuore, evento sportivo di beneficienza per la raccolta fondi destinati ad enti non profit. Figura 2.13. Banco di raccolta fondi tramite merchandising per Emergency Figura 2.14. Vendita di gardenie per la raccolta fondi a supporto dell’Associazione Italiana Sclerosi multipla
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Associazioni non profit. Un altro protagonista riconosciuto della comunicazione sociale è l’ampio e variegato settore dell’associazionismo, chiamato anche Terzo settore (fondazioni non profit, iniziative civiche, gruppi sociali, volontariato). Il sorgere e la rapida moltiplicazione di questi soggetti, in parte connesso a vari fenomeni e cambiamenti che si sono verificati negli ultimi quarant’anni nel nostro paese, ha sicuramente contribuito a dare visibilità e rilevanza alla comunicazione sociale, nel quale d’altronde svolgono un ruolo di primaria
importanza. Sono «portatori di istanze vicine ai problemi vissuti direttamente nella sfera privata, […] hanno dato vita a processi comunicativi che si affidano alla dinamica di una società civile emergente dal “mondo di vita”» (Gadotti, 2005: 67); per questo motivo talvolta possono farsi voce di questioni e temi il cui livello di “controversialità” può essere anche molto alto. Spetta a questi soggetti infatti promuovere specifiche questioni e temi sociali che non sempre o non con la giusta tempestività, vengono trattate dal pubblico potere. Esse sono accumunate dal carattere privatistico, dall’assenza di scopo di lucro, dell’erogazione a favore dell’intera collettività della loro attività e servizi, hanno come primari obiettivi quelli di incentivare iniziative di solidarietà (frequentemente sono richiesti anche contributi di sostegno materiale) e sensibilizzare l’opinione pubblica ai valori di cui si offrono portatori. Grazie alla forte presenza di queste associazioni nella società, molti temi spesso a lungo ignorati o incapaci di porsi all’attenzione dell’agenda pubblica, sono riusciti ad emergere e divenire nel tempo elementi salienti della conversazione sociale (basti ad esempio pensare alle campagne ambientaliste o di conoscenza sulla prevenzione di malattie che prima ancora dello Stato vennero trattate da questi soggetti). Il mondo dell’associazionismo si è notevolmente trasformato negli ultimi anni. Soprattutto è cambiata la relazione dell’associazionismo con gli enti locali. Verso gli anni ’90 la frequente collaborazione delle associazioni con i soggetti istituzionali costituì da un lato una risorsa per ricostruire il consenso in tempi di sfiducia dei cittadini verso il pubblico e la politica, e dall’altro portò a una crescente “istituzionalizzazione” delle organizzazioni. Le associazioni, per poter attuare le proprie attività in modo continuativo ed efficiente, necessitano infatti di strutture, assumono personale competente e retribuito, risorse economiche stabili e garantite. Le organizzazioni acquisiscono competenze sempre maggiori per raggiungere i propri obiettivi, arrivando a risultati professionali. Diventa quindi con il tempo e l’esperienza, un interlocutore autorevole e credibile per enti, istituzioni, mondo politico, mondo economico e media. Negli anni 2000 si assiste a un ulteriore fase: come mostra la ricerca Iref (2003) accanto al continuo processo di istituzionalizzazione e all’operato delle grandi associazioni, inizia a diffondersi quello che Gadotti (citando le parole di Ilvo Diamanti) chiama un
IL MONDO DELL’ASSOCIAZIONISMO PUÒ DAR VOCE A QUEI TEMI SOCIALI CHE DIFFICILMENTE RIESCONO A IMPORSI ALL’ATTENZIONE DELLE ISTITUZIONI
“nuovo” volontariato “individuale o di un microgruppo, praticato al di fuori delle grandi associazioni e dai luoghi più strutturati” vissuto nella dimensione quotidiana e locale, capace di coinvolgere e modificare stili di vita, sempre più orientati alla responsabilità e all’altruismo. È come se la “solidarietà, la logica dell’altruismo venissero […] metabolizzate dalle persone, disciolte in stile di vita, modo di guardare e di fare” (Gadotti, 2005: 70)
Fenomeni che rientrano in quel clima di cambiamento espresso da Fabris (2008) dove l’individuo esterna nuovamente il desiderio di rientrare a far parte della società e spesso porta alla creazione di quelle forme di micro socialità che caratterizzano la società odierna. Accanto alle grandi associazioni continuano a esistere e a nascere un corollario di piccole associazioni che spesso, per via della poca organizzazione interna ma soprattutto delle poche risorse economiche di cui dispongono, sono restie a investire nella comunicazione e nella propria autopromozione, finendo quindi per rimanere in ombra e non riuscire a portare i propri temi all’opinione pubblica. Come afferma Antonio Foglio (cit. in Gadotti 2005: 71), il “fare” non è sufficiente, anche se ciò che si fa è sostanziale, bisogna anche farsi conoscere dal pubblico: far conoscere l’organizzazione, la sua missione, le sue attività, LA COMUNICAZIONE SOCIALE / 41
LA COMUNICAZIONE SOCIALE DELLE AZIENDE È PIÙ LEGATA A UN FATTORE ECONOMICO CHE A UN REALE INTERESSE VERSO I TEMI TRATTATI. PER QUESTO MOTIVO PUÒ ESSERE ACCOLTA CON DIFFIDENZA DA PARTE DEI DESTINATARI
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il suo prodotto/servizio/progetto, i risultati conseguiti, ottenere il consenso dell’opinione pubblica, creare un’immagine o rafforzarla per predisporre un ambiente favorevole presso i destinatari, supportare il fund raising e aumentare le risorse promuovendo donazioni all’organizzazione, allacciare rapporti con i beneficiari dell’offerta, con volontari e donatori, enti pubblici e media, ottenere maggiore riscontro presso i media, ecc. La buona reputazione è cruciale anche per ottenere i finanziamenti pubblici da parte delle amministrazioni che riconosce validi i servizi offerti e per ricevere fondi da aziende private o poter dar vita a una partnership con queste per iniziative e progetti sociali. A differenza del soggetto pubblico, per cui la comunicazione è un dovere, sancito da leggi e richiesto dai cittadini, per le associazioni è un’opportunità e un vantaggio competitivo che gli permette di operare e concretizzare la propria missione. Ed è una opportunità che non è sottoposta ai vincoli e ai controlli della comunicazione del soggetto pubblico quindi ha una forte potenzialità di sperimentare tecniche e linguaggi nuovi. Non deve neanche necessariamente rivolgersi all’intera popolazione, può indirizzarsi a determinati segmenti di questa e quindi sviluppare un linguaggio ad hoc più efficace. La notorietà, la visibilità, la credibilità è l’autorevolezza sono essenziali per ogni tipo di comunicazione sociale ma lo sono in maniera ancora maggiore per quella delle associazioni in cui agli obiettivi di sensibilizzazione si uniscono spesso anche appelli al pubblico. Per questo particolare fine, la comunicazione di raccolta fondi, le organizzazioni sembrano aver trovato una via privilegiata in cui esprimersi con creatività. Sono molte infatti le iniziative che nascono a questo scopo: si va dall’organizzazione di eventi come le vendite in piazza in occasione di date particolari del calendario (feste natalizie e ricorrenze), all’organizzazione spettacoli, festival, concerti, maratone in cui sono coinvolti anche molte personalità dello spettacolo (per fare due esempi basta citare il concerto del primo maggio o Telethon). Queste raccolte fondi sono poi state avvantaggiate dall’utilizzo delle nuove tecnologie, come le donazioni online o tramite sms, che sono riuscite ad aggirare il grande ostacolo dato in passato dalla complessità dell’atto della donazione per mezzo di bollettini postali, e azzerando le distanze tra recezione del messaggio e azione dando la possibilità di donare in ogni luogo e in tempo reale la somma desiderata. Il fatto che molte comunicazioni sociali fund raising funzionino bene e siano in costante crescita, secondo me è imputabile alla minore distanza, fisica e materiale, che intercorre tra l’esposizione del problema e la via per risolverlo. In altre parole, il fatto di fornire oltre a un messaggio anche dei mezzi immediati che il destinatario della comunicazione può usare per rispondere in modo positivo alla richiesta di donazione, è certamente un aspetto su cui riflettere per una possibile declinazione anche alle altre campagne sociali. Aziende private. Più volte citate nel corso del capitolo, anche le aziende ormai sono entrate a far parte della vasta cerchia dei promotori di comunicazione sociale. Chiamata talvolta “comunicazione delle responsabilità sociali” è quella comunicazione promossa dall’impresa profit oriented che fa riferimento esplicito all’assunzione di un qualsiasi tipo di responsabilità sociale da parte dell’azienda, talvolta anche coinvolgendo in prima persona il consumatore. Attraverso un “posizionamento sociale” l’azienda cerca di riscuotere fiducia, simpatia, immagine del brand, notorietà e buona reputazione nella soluzione dei problemi della collettività, anche per distinguersi dai competitors.(cfr. Gadotti 2005). Questa capacità sociale non è solo un costo ma è soprattutto
una leva di successo e l’impressione che si ricava dall’analisi di questo diffuso fenomeno è che non si tratti di una moda passeggera ma di un vero e proprio trend ormai stabilizzato anche in Italia (secondo i dati del Progetto CSR-SC emessi dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali nel 2003). Questa attenzione al sociale rientra nel discorso più ampio di responsabilità sociale dell’azienda, ed è stato un cambiamento dovuto soprattutto ai mutamenti che hanno investito la sfera del consumo e il consumatore che, come visto, è sempre più complesso, attento e consapevole delle implicazioni ecologiche e sociali delle proprie scelte, soprattutto quelle di consumo. Un consumatore che indirizza le scelte d’acquisto in coerenza con certi valori e fa pressione affinché nuove dimensioni, come l’ecocompatibilità dei prodotti, l’attenzione delle problematiche economiche e sociali dei Paesi terzi che forniscono le materie prime, la tutela dei popoli autoctoni, ecc., si affianchino ai tradizionali parametri di qualità del prodotto (cfr. Fabris 2003). È una dimensione nuova in cui l’assunzione di responsabilità sociale può essere impegnativa ma fortemente strategica, ma che, se mal gestita, può rivelarsi un micidiale boomerang come dimostrano le vicende Benetton e le accuse di sfruttamento minorile alla Nike, costretta a chiudere i propri stabilimenti in Cambogia. La trasparenza e la correttezza dell’azienda sono d’obbligo (cfr. Gadotti, 2005: 83). Anche perché con internet e i recenti social network, circolano in continuazione informazioni dettagliate sulle attività delle imprese e le pressioni dei gruppi ambientalisti e delle organizzazioni internazionali dei diritti dei lavoratori hanno contribuito ad accrescere ulteriormente la consapevolezza dei consumatori. Insieme al diffuso apprezzamento dell’impegno delle aziende nel sociale anche la comunicazione di questo tipo promossa dalle aziende trova ampio consenso (numerose ricerche in Italia e all’estero lo confermano) (ivi: 84). Le campagne sociali promosse dalle aziende possono essere essenzialmente di tre tipi: ci sono quelle che affrontano temi e questioni di interesse collettivo (comunicazione di corporate issue promotion), di cui l’azienda si fa promotrice
Figura 2.15. Esempio di good corporate citizenship: “Think Blue”, il progetto Volkswagen per promuovere la sostenibilità ambientale. Figura 2.16. Campagna di cause related marketing: Ikea e Unicef per la raccolta fondi tramite la vendita di peluches del marchio svedese. Figura 2.17. Campagna di corporate issue promotion: maratona femminile Avon per la lotta contro il cancro.
LA COMUNICAZIONE SOCIALE / 43
e questa causa viene incorporata come brand value principale (ad esempio Avon e la lotta contro il cancro); quelle che fanno riferimento a un’azione intrapresa dall’azienda nel sociale (comunicazione di good corporate citizenship), promettendo di sostenere una organizzazione non profit o un progetto specifico (ad esempio Volkswagen che ha intrapreso un’iniziativa di educazione ambientale e sulla salute); o ancora quelle in cui l’azienda associa il proprio marchio a un’associazione non profit per dare via a operazioni complesse e a lungo termine (campagne di cause related marketing), che portano benefici a entrambe e che coinvolgono in prima persona il consumatore in quanto l’acquisto del prodotto/servizio è il veicolo per sostenere la causa promossa (ad esempio le caramelle Golia e il WWF per la protezione dell’orso polare, Coop – Solidal Coop, Ikea per Unicef). In tutti questi casi, comunque, il successo non è affatto scontato e sono diversi i fattori cruciali per la buona riuscita dell’iniziativa, come la serietà e la coerenza dell’impegno dell’azienda. Determinante è la scelta del tema o della causa, che deve rispondere a determinati criteri di selezione, primo fra tutti la “vicinanza” di questi con le competenze distintive dell’azienda, la sua immagine di marca, il suo target ecc. I temi scelti sono generalmente di vasto richiamo, universali, e il linguaggio usato è spesso sobrio, semplice e quasi mai viene coinvolto il prodotto nella comunicazione. Una famosa campagna stampa di Volskwagen del 1998 riporta un’auto completamente coperta da un telone e l’headline: “Andate in treno”. Non va mai dimenticato che tutte queste scelte sono anche legate a degli interessi aziendali. Da qui il lungo e ancora presente dibattito attorno all’uso di questo tipo di comunicazione da parte dei soggetti profit oriented.
Figura 2.18. Prima campagna di Pubblicità Progresso promossa per la donazione di sague, 1970
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Pubblicità Progresso. Comunicazione sociale, pubblicità sociale e pubblicità progresso sono spesso utilizzati nel linguaggio comune come sinonimi. In realtà Pubblicità Progresso è una fondazione italiana, unica nel suo genere al mondo, che a partire dal 1970 è impegnata su temi sociali e i cui soci sono i principali componenti della filiera della comunicazione nazionale, professionisti del settore che mettono a disposizione gratuitamente tempo e competenze per lo sviluppo della comunicazione sociale in Italia. Pubblicità Progresso è un organismo istituzionale senza fini di lucro che, come recita il suo statuto, ha come scopo quello di «contribuire alla soluzione di problemi civili, educativi e morali si carattere sociale grazie all’ideazione, al coordinamento e alla realizzazione di campagne di comunicazione atte a stimolare la coscienza civile e l’agire per il bene comune» (art. 3.2 dello statuto “Fondazione Pubblicità Progresso”). Per l’importanza che riveste nel nostro paese e per essere stata l’esperienza pilota di tutta la comunicazione sociale italiana, è indispensabile al fine della mia tesi, approfondire la sua storia e i meccanismi che la caratterizzano. Sulla scia delle esperienze estere più radicate (come l’Advertising Council americano e il Central Office of Information inglese) agli inizi degli anni ’70 prende vita un progetto di comunicazione dagli obiettivi davvero ambiziosi: promuovere e rafforzare in Italia una coscienza civile attraverso l’utilizzo di uno strumento, quello pubblicitario, per molti aspetti demonizzato e guardato con diffidenza da gran parte della popolazione. Questa era percepita come intrusiva, invadente, persino violenta per come si avvaleva delle ricerche psicologiche per manipolare le menti dei consumatori visti come passivi e inermi fruitori della comunicazione di massa che creava falsi bisogni, falsi miti ed era per questo responsabile dei mali sociali e delle ansie che affliggevano la società
(cfr Gadotti, 2011:13-14). In un clima culturale nettamente sfavorevole alla pubblicità, quindi, aveva come obiettivo quello di difendere la sua immagine e mostrare come, attraverso un suo utilizzo responsabile, potesse anche diventare «un veicolo di buone pratiche sociali all’insegna di valori quali la solidarietà, le buone regole della civile convivenza, i consumi collettivi, il bene comune» (ivi: 15). I destinatari di questa comunicazione poi non sarebbero stati solo i cittadini, ma anche la pubblica amministrazione che come visto, al tempo era poco abituata a usare tale strumento in funzione del buon governo e dell’educazione dei cittadini. Come ricorda Falabrino (2005), testimone autorevole di questo processo da lui definito “riformista” della pubblicità degli anni Settanta, fu David Campbell-Harris (presidente della J.W. Thompson italiana) con Guido Mengacci (allora presidente dell’associazione Tecnici pubblicitari “Tp”) e Guido Fiaschi (dell’Otipi, Associazione delle agenzie pubblicitarie a servizio completo) a proporre di fondare un ente interassociativo che comprendesse le associazioni degli inserzionisti, delle agenzie e dei professionisti della pubblicità, degli editori, allo scopo di promuovere campagne di pubblica utilità. Nacque così il comitato Pubblicità Progresso, che si trasformò in associazione nel 1976 e solo nel 2005, infine, divenne fondazione. Non senza qualche difficoltà iniziale, dopo l’importante successo registrato dalla prima campagna a favore della donazione di sangue realizzata nel 1971, che segnò un incremento del 40 per cento delle donazioni e una notevole riduzione del mercato nero, Pubblicità Progresso riuscì a legittimarsi e in molti nel settore, si prodigarono ad offrire il proprio contributo per queste cause. In questi quarant’anni di attività tuttavia, anche Pubblicità Progresso ha trascorso dei momenti di crisi interne, nate dalla sempre più difficile osservazione dei risultati delle campagne e dall’insorgenza di dubbi di alcuni soci sull’efficacia della fondazione ai fini della promozione dell’immagine della pubblicità e della cultura civica del paese. In questi momenti delicati della vita dell’associazione, cruciale fu la capacità
Figura 2.19. Mostra itinerante di Pubblicità Progresso sul tema dei bambini soldato in Uganda
LA COMUNICAZIONE SOCIALE / 45
QUESTA FONDAZIONE COSTITUISCE UN ECCELENTE ESEMPIO DI COME L’ITALIA POSSA OFFRIRE FONDATE RAGIONI DI APPREZZAMENTO A LIVELLO INTERNAZIONALE DANDO DI SÈ UN IMMAGINE POSITIVA: PUBBLICITÀ PROGRESSO PUÒ ESSERE CONSIDERATA ED È STATA SPESSO DEFINITA “UN CASO UNICO AL MONDO” Giorgio Napolitano, 2011
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di rinnovare il patto di fiducia tra tutte le componenti associative per rinsaldare la motivazione che spingeva ogni socio a impegnarsi in questo progetto (cfr. Gadotti 2011). Un importante elemento di crisi arrivò alla fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 dove, come visto, con la riforma dell’amministrazione pubblica e il proliferare delle associazioni non profit, veniva a chiudersi il periodo di “monopolio” di Pubblicità Progresso nell’area della comunicazione sociale. L’azione di supplenza e di stimolo nei confronti della pubblica amministrazione e di legittimazione della pubblicità perdeva sostanza ed era quindi necessario rilanciare il proprio ruolo e la propria identità per ritagliarsi un nuovo spazio all’interno di questo nuovo scenario. Per mantenere la leadership nel settore, attuò due strategie: la prima fu quella di concedere il patrocinio alle campagne realizzate da altri soggetti, come le organizzazioni non profit. Questa fu una strategia particolarmente vincente perché in questo modo l’associazione si candidava a svolgere, in un mercato del sociale in rapida espansione, un’importante funzione di filtro attraverso la supervisione delle altre campagne sociali, in nome della sua esperienza e della sua notorietà. La concessione del patrocinio però era subordinata all’osservanza di precisi criteri, come la coerenza con gli obiettivi, le finalità e le modalità di Pubblicità Progresso; trattare di tematiche ad ampio richiamo e interesse generale; coinvolgere e invitare i cittadini ad agire; ma soprattutto rispettare le norme del “Codice dell’autodisciplina pubblicitaria italiana” e in particolare l’art. 46, il quale vieta che “i messaggi ricorrano a richiami scioccanti tali da ingenerare ingiustificati allarmismi e sentimenti di paura o di grave turbamento”. Sono criteri validi ancora oggi, come dimostra il fatto che negli anni Pubblicità Progresso abbia mantenuto fedeltà a uno stile comunicativo sobrio e misurato (cfr. ivi: 2021), anche se non mancano su questo aspetto ampie critiche perché il risultato comunicativo che ne deriva appare spesso poco efficace e troppo “moderato”. La seconda strategia seguita dall’associazione per consolidare il suo ruolo come punto di riferimento per la comunicazione sociale italiana è stata quella di ampliare l’interesse del pubblico sui problemi della comunicazione sociale attraverso diverse iniziative come l’organizzazione di eventi, convegni e mostre. Con l’adesione negli anni ’90 di soci provenienti dalle più illustri associazioni del mondo della comunicazione (Aapi, Adci, App, Assirm, Assorel, Iap), è stato possibile rafforzare le attività dell’associazione e disporre di nuove competenze e servizi per la realizzazione delle campagne. Pubblicità Progresso, nonostante venga spesso associata alle sue campagne, realizza anche molte altre attività destinate a operatori, docenti, giovani, ecc. come la Mediateca internazionale, che raccoglie le campagne dell’associazione e le più significative campagne sociali realizzate nel mondo, per promuovere la ricerca, lo studio e il dibattito del settore; le mostre; le Conferenze internazionali, eventi che riuniscono annualmente esperti e operatori per riflettere e confrontarsi sui temi di maggiore attualità; i corsi di formazione, per fornire competenze a coloro che si occupano di comunicazione sociale; i concorsi e i road show destinati ai giovani universitari, per coinvolgerli e collaborare nella creazione di nuove campagne; il club Athena, destinato ai docenti per farne “ambasciatori” della comunicazione sociale; il progetto musicale Bjg Roots Music, un’orchestra spettacolo disponibile per festival, concerti, eventi; il patrocinio a enti non profit per la realizzazione delle campagne, che garantisce la qualità e ne favorisce la visibilità e la forza presso i media (cfr. Bernocchi, Sobrero 2011). Nel 2010 la fondazione si è dotata di una Carta Valori (consultabile al sito www.pubblicitaprogresso.org) dove vengono presentati missione, visione e
valori che stanno alla base dell’operato di Pubblicità Progresso e dal 2011 di un’Advisory Board (sempre consultabile sul sito della fondazione), un raccoglitore di contributi da parte di personalità di spicco del mondo accademico, della cultura, dell’impresa e della comunicazione, per contribuire alla riflessione e al dibattito sui grandi temi sociali e sul ruolo della cultura e della comunicazione per la coesione sociale del Paese. Come afferma Gadotti (2011: 24) «le campagne di Pubblicità Progresso […] hanno accompagnato lo sviluppo della società italiana, svelandone – e talora anticipandone – problemi e contraddizioni», facendosi specchio, seppur parziale e incompleto ugualmente interessante, delle inquietudini e dei problemi sociali del Paese. Ma allo stesso tempo hanno contribuito a una maggiore riflessione sul tema della pubblicità e del ruolo nella società, dei suoi linguaggi e delle sue forme; riflessioni che oggi, in un clima di continuo mutamento sociale e culturale, necessitano di essere ancora una volta riviste e rielaborate per adattarle alla società in cui viviamo.
2.3. MARKETING SOCIALE La pubblicità sociale rappresenta uno strumento visibile, tradizionale e immediato per raggiungere il pubblico e perseguire i fini educativi e di sensibilizzazione delle campagne sociali ma da sola è ovvio che non è sufficiente a generare un reale cambiamento nelle persone (cfr. Gadotti, 2000). Una campagna di pubblica utilità dovrebbe infatti integrarsi con strategie di comunicazione più complesse, che comprendono un dettagliato programma della campagna, un’analisi del contesto in cui si inserisce e la conoscenza profonda della problematica da trattare, l’orchestrazione di un mix di strumenti per raggiungere con modalità e registri diversi i destinatari della campagna, ecc. Così come la pubblicità sociale si serve, per esprimersi, dei linguaggi e dei metodi della pubblicità commerciale, anche per la gestione della comunicazione nel suo complesso si è tentato già da diversi decenni, di applicare le strategie del marketing commerciale al settore sociale partendo dal concetto che le idee e i comportamenti possono essere trattati come “prodotti” da commercializzare. Introdotto in America con il nome di “marketing sociale” a partire dagli studi di Philip Kotler nel 1971, consiste in una tecnologia di gestione del cambiamento sociale che comprende la progettazione, l’esecuzione e il controllo di programmi destinati a facilitare l’accettazione di un’idea o di una pratica sociale in uno o più gruppo di utenti designati. Esso utilizza concetti come la segmentazione del mercato, la ricerca di mercato, lo sviluppo e il test di un prodotto, la comunicazione diretta, agevolazioni, incentivi e teorie di scambio per massimizzare la risposta degli utenti designati. L’ente promotore persegue i suoi scopi di cambiamento nella convinzione che questi contribuiranno ad aumentare i benefici dell’individuo o della società. (Kotler, 1992: 26)
Cambiare idee e comportamenti nocivi o farne adottare di nuovi è quindi lo scopo del marketing sociale. Il marketing sociale presenta delle differenze di base da quello commerciale: il primo promuove valori e comportamenti alternativi, offrendo spunti di riflessione e stimolando la consapevolezza degli individui che diventano dunque parte attiva del processo; il secondo si indirizza alla vendita di beni e servizi con fini di profitto e vede il consumatore come un attore sostanzialmente passivo (cfr. Fattori, Vanoli 2011: 238-239). I benefici derivanti da una modifica di stile di vita o di opinioni sono misurabili LA COMUNICAZIONE SOCIALE / 47
solo in termini di medio-lungo periodo mentre quelli del marketing commerciale sono misurabili immediatamente o nel breve periodo e implicano costi economici facilmente quantificabili. È possibile riassumere le principali differenze tra le due strategie di marketing nella tabella seguente di Fattori e Vanoli (ivi: 239):
MARKETING COMMERCIALE
MARKETING SOCIALE
1. Promuovere un prodotto, un bene o un servizio
1. Promuovere un comportamento
2. Il target è in posizione passiva
2. Il target è in posizione attiva
3. La responsabilità è di azionisti e direttori
3. La responsabilità è pubblica
4. Convincere all'acquisto di un bene o all'utilizzo di un servizio
4. Convincere a mutare un'opinione oppure un comportamento
5. Implica costi monetari, fisici o psicologici per ottenere il bene o il servizio offerto
5. Implica costi fisici o psicologici per attuare il cambiamento cognitivo oggetto di promozione
6. I benefici sono immediati o a breve termine
6. I benefici sono a medio e lungo termine
7. Cultura del rischio
7. Cultura della sicurezza
8. La concorrenza è rappresentata da marche e prodotti antagonisti
8. La concorrenza è rappresentata da stili di vita e opinioni contrastanti
9. I privati entrano in competizione
9. Gli enti collaborano con i partner
10. Finanziato da vendite e investimenti
10. Finanziato da tasse, donazioni e fondi pubblici
11. Analisi di mercato e di domanda
11. Analisi di settori sociali deboli
Le due strategie di marketing quindi solo all’apparenza possono sembrare simili ma in realtà si fondano su concetti quasi totalmente contrapposti. Come per le imprese di mercato, il marketing sociale implica la gestione di un processo secondo diverse fasi (v. Tabella 2.2.).
Tabella 2.1. Strategie di marketing sociale e marketing tradizionale messe a confronto, Fattori Vanoli 2011.
48 / IL GIOCO COME MODELLO DI COMUNICAZIONE
1. Fase analitica. Consiste nel raccogliere le informazioni necessarie allo sviluppo e alla realizzazione del progetto attraverso l’analisi del macro-micro ambiente (target, competitors, esperienze simili). Si avvale di strumenti conoscitivi e di indagine socio-demografica tra cui il profilo di comunità, e si basa su variabili come quelle geografiche, demografiche, psicografiche, comportamentali del target.
2. Fase strategica. Consiste nell’esame e nella definizione di priorità, risorse e obiettivi specifici e misurabili del progetto. In questa fase si determina inoltre la segmentazione del mercato secondo i risultati dell’analisi analitica e si attua il posizionamento. 3. Fase operativa. Si elaborano i piani di intervento, si definiscono le strategie e i programmi di azione tenendo conto del cosiddetto marketing mix, che si compone di cinque elementi, identificabili come le “5P” del marketing (Le “4P” del marketing tradizionale più i partner, presenti solo nel marketing sociale): a) prodotto (product); ovvero l’utilizzo di uno specifico prodotto, chiaro, definito e tangibile su cui incentrare la comunicazione. Secondo i sostenitori del marketing sociale anche le idee, i valori e i comportamenti possono essere considerati come prodotti; b) prezzo (price): è l’insieme dei costi, economici e non, che le persone sono invitate a sostenere nel cambiare un comportamento. I costi non economici sono intangibili ma molto concreti e reali per i destinatari. Vanno per questo controbilanciati con una convincente serie di benefici; c) promozione e comunicazione (promotion): che consentono di far conoscere il prodotto promosso, evidenziandone benefici, caratteristiche ed eventuali servizi ad esso associati per spronare le persone ad agire; d) distribuzione (place): ovvero i canali attraverso cui sono fruibili i prodotto o il programma della campagna; e) partner: l’insieme di collaborazioni e sinergie che coinvolgono enti locali, scuola, terzo settore, mondo della salute, dell’ambiente, della cultura, ecc. che consentono la realizzazione di attività coerenti e integrate, ampliando quindi il processo partecipativo e di costruzione sociale. 4. Fase di verifica. È la fase essenziale per stimare il rapporto tra obiettivi definiti e quelli raggiunti, verificarne in modo scientifico la validità e punti critici per un eventuale ri-orientamento della strategia. A seconda dei progetti svolti può servirsi di strumenti come interviste, focus group, osservazioni etnografiche, vendite, accessi a un sito web, numero di post in un forum o di contatti sui social network, ecc. (cfr. Gadotti, 2000). Anche per la fase di promozione il marketing sociale si serve delle strategie e delle tecniche del marketing commerciale. La pubblicità, intesa come forma di comunicazione impersonale condotta attraverso mezzi di comunicazione di massa e proveniente da una fonte identificabile (cfr. Kotler 1995: 608) deve essere strategicamente pianificata come tutti gli altri elementi del marketing mix. Devono essere definiti obiettivi, stanziamenti e messaggi, devono essere scelti i mezzi di comunicazione e deve essere sviluppato un sistema di valutazione. Gli obiettivi devono derivare dalle precedenti decisioni relative all’individuazione del target, al posizionamento di mercato e alla composizione del marketing mix. Lo stanziamento può essere determinato secondo diverse variabili ma principalmente è definito in base alle risorse disponibili o agli obiettivi posti. Successivamente si passa all’ideazione, valutazione/selezione e realizzazione LA COMUNICAZIONE SOCIALE / 49
del messaggio e alla relativa scelta dei mezzi. I marketing manager devono anche decidere una pianificazione temporale dei messaggi, che dovrebbero essere programmati stagionalmente o ciclicamente in base alla risposta del pubblico. In tutto il processo la valutazione della pubblicità è una fase importantissima per la buona riuscita della comunicazione. Vengono fatte valutazioni sul messaggio, sul mezzo e sulle spese. Per la valutazione del messaggio vengono usati dei test preliminari (test della comprensione, questionari, test di ricordo, interviste di gruppo ecc.) e test posteriori (basati sul ricordo, sul riconoscimento o sulla risposta diretta, ovvero il comportamento) (cfr. Kotler 1991; 1995).
PROCESSO DI SVILUPPO DI UN PROGETTO DI MARKETING SOCIALE
MARKETING ANALITICO
Letteratura Leggi Contesto
MARKETING STRATEGICO
Priorità Obiettivi Segmentazione Posizionamento
MARKETING OPERATIVO
Prodotto Prezzo Partner Promozione Distribuzione
VERIFICHE
VARIABILI
geografiche demografiche attitudinali comportamentali
MARKETING MIX
Di Processo Di Esito
2.3.1 CRITICITÀ DEL MARKETING SOCIALE
Tabella 2.2. Schema del processo di pianificazione e sviluppo di un progetto nel marketing sociale.
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Come si evince da questa sintetica descrizione, le tecniche e gli strumenti di cui si serve il marketing sociale sono gli stessi del marketing tradizionale; la differenza consiste negli scopi differenti. Essendo il fine economico e il fine sociale senza scopo di lucro due universi completamente opposti, è palese che questo rappresenti un fatto di grande criticità sulla legittimazione o meno
dell’utilizzo del marketing a scopo sociale. Se in linea teorica l’ambito di applicazione è estremamente ampio, è sbagliato pensare che il marketing sociale possa essere usato in ogni situazione. Bisogna infatti chiedersi innanzitutto se si dispone di fondi e risorse necessari a sostenere una strategia economicamente impegnativa come questa. Inoltre bisogna chiedersi se la tematica sia adatta ad essere sviluppata in questo modo e tenere conto delle implicazioni etiche che emergono dall’utilizzo di strategie e tecniche così analitiche e “fredde” per problemi sociali molto delicati e complessi. Come ammette anche Kotler (1998) queste campagne possono funzionare se i cambiamenti che si vogliono ottenere sono a basso livello di coinvolgimento (non si scontrano con i valori radicati delle persone), definiti nel tempo e coinvolgono il singolo individuo, ma al contrario è stato dimostrato come i cambiamenti che coinvolgono il gruppo, che vogliono essere continuativi e che sono ad altro grado di coinvolgimento siano difficilmente realizzabili in modo efficace con queste strategie. In altre parole, strategie di marketing così strutturate potrebbero essere, entro certi limiti, utili soprattutto per campagne di fund rising, caused related marketing, o l’attuazione di modifiche supportate soprattutto da normative (come l’uso della cintura di sicurezza, la raccolta differenziata, ecc.) ma sono difficilmente utilizzabili per campagne che desiderano modificare o influenzare l’opinione pubblica. Una forte criticità consiste nell’approccio troppo semplicistico di considerare le idee e i comportamenti al pari di “prodotti” da commercializzare. Il marketing tradizionale fornisce prodotti/servizi raramente controversi mentre le idee e i comportamenti trattati dalla comunicazione sociale sono spesso (se non sempre, come evidenzia Mancini) controversi e mutevoli. In un recente articolo Bill Smith (cfr. Bill Smith, 2009 cit. in Fattori; Vanoli, 2011) si domanda se, per poter sviluppare una strategia marketing, il prodotto possa essere anche un’idea, un comportamento oppure se sia identificabile solo in un oggetto concreto. A ben vedere, anche il marketing tradizionale si occupa di prodotti immateriali (come la promozione dei servizi), ma per il sociale la questione è più complessa. Una soluzione per poter applicare in modo più legittimo queste strategie di marketing, potrebbe essere quella di applicare il concetto di modifica dei comportamenti desiderati in oggetti fisici, che ne facilitino l’attuazione (come è già stato fatto con l’introduzione obbligatoria delle cinture di sicurezza in macchina, che ha avuto effetto sulla riduzione della mortalità e degli infortuni negli incidenti stradali). Se da un lato è plausibile fare riferimento al marketing per l’attenzione che questo presta alle numerose variabili da considerare per la creazione di una campagna di comunicazione efficiente, molti concetti, strumenti e tecniche su cui si basa sono ormai troppo datati e inconciliabili con la natura della società attuale, e per questo motivo vanno necessariamente rivisti. La prima cosa da rivedere è la base su cui si fonda il marketing (tradizionalmente inteso) per la riuscita della sua strategia, ovvero la ricerca di mercato e la sua segmentazione secondo parametri socio-demografici e di stili di vita. Se già, come è stato ampiamente dimostrato dagli studi sul contesto sociale, sugli individui e sull’iper-frammentazione dei mercati attuali (Fabris 2008; Cova, Giordano, Pallera 2007), il tradizionale concetto di segmentazione del mercato è ormai obsoleto in una società evoluta come la nostra, per la comunicazione sociale risulta impossibile identificare un target specifico affidandosi a questi parametri che poco hanno a che fare o influiscono sul comportamento sociale. La segmentazione per target non esiste più: bisogna considerare gli
IL MARKETING SOCIALE PECCA NEL TRATTARE IN MODO ESTREMAMENTE SEMPLICISTICO I COMPORTAMENTI E LE IDEE COME NORMALI PRODOTTI DA COMMERCIALIZZARE
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individui come punti di intersezione o di contatto tra sistemi sociali e pensare a un loro raggruppamento più per momenti di vita che stili di vita. Un altro elemento essenziale della strategia di marketing ma estremamente critico per quella sociale è la fase di valutazione dell’efficacia. Se è vero che una costante valutazione tramite dati oggettivi circa gli effetti sul pubblico della comunicazione è un fattore necessario alla buona riuscita della stessa e a un suo eventuale miglioramento, nella comunicazione sociale è spesso molto difficile se non impossibile ottenere dei parametri oggettivi da valutare o riconducibili esclusivamente alla sola campagna di comunicazione. La misura degli esiti in termini di cambiamento infatti sono più complessi perché sono misurabili solo a lungo termine e possono per questo essere la conseguenza di diversi fattori, alcuni dei quali indipendenti dal progetto realizzato. Inoltre, a causa dei bassi budget di cui dispongono gli enti promotori della comunicazione sociale molti, dopo aver lanciato la campagna, non si preoccupano di controllare gli effetti di questa sul pubblico, vanificando il discorso sulla legittimità e validità dell’utilizzo di tutta la comunicazione sociale. Essendo questa invece una fase estremamente importante di feedback per il soggetto promotore sulla buona riuscita del suo operato, è necessario che diventi una fase cruciale per ogni campagna di comunicazione sociale, anche a costo di rielaborare eventualmente il sistema di valutazione nell’ottica di una maggiore collaborazione con i destinatari. Se si vuole fare un marketing adatto ai nostri tempi, ma soprattutto applicabile alla comunicazione sociale, è necessario rivedere la rigidità strutturale di questa strategia e pensarla invece in termini di apertura e flessibilità. I destinatari non sono target da colpire ma persone con cui dialogare e lavorare insieme e i mercati non sono campi di battaglia ma possibili luoghi di sinergie e collaborazione. Come propone Fabris (2008), non più marketing ma societing, che significa sia “immettere in società” che “fare società”. Nel societing l’impresa (nel nostro caso il soggetto promotore) non è un semplice attore che si adatta al mercato, ma un attore sociale inserito in un contesto sociale.
2.4. LA PUBBLICITÀ SOCIALE Dopo aver analizzato le varie sfumature che definiscono la comunicazione sociale, occorre ora far chiarezza sul rapporto tra comunicazione sociale e pubblicità sociale, termini spesso usati come sinonimi ma che in realtà designano due diverse aree d’azione. La pubblicità sociale infatti non coincide con la comunicazione sociale ma è solo uno dei suoi possibili strumenti. Si tratta certamente dello strumento più utilizzato e più duttile, ma non per questo il più efficiente, soprattutto in un’epoca storica che, come visto in apertura della tesi (cap. 1), è caratterizzata da una forte resistenza delle persone alle forme di comunicazione tradizionale e da una compresenza massiccia di messaggi di svariato genere e importanza che ci accompagnano in ogni momento della nostra vita. Tuttavia rappresenta l’espressione più visibile e di cui si ha la maggiore documentazione della comunicazione sociale in Italia e un suo sguardo più approfondito può essere utile per mettere in evidenza e capire come questa comunicazione in generale viene trattata. Ugo Volli nel Primo rapporto sulla comunicazione sociale in Italia (2005) definisce la pubblicità sociale come: 52 / IL GIOCO COME MODELLO DI COMUNICAZIONE
l’attività mediatica che utilizza formati analoghi a quelli della pubblicità commerciale per portare all’attenzione dei suoi lettori o spettatori certi temi urgenti di rilevanza per l’appunto “sociale”, per sollecitare fra essi la presa di coscienza sulla loro importanza, per incoraggiare o scoraggiare comportamenti e atteggiamenti legati a questi temi, per raccogliere finanziamenti per le organizzazioni che se ne occupano. (Volli, 2005:112, corsivo dell’autore)
La pubblicità sociale è quindi principalmente pubblicità, e pertanto si avvale delle tecniche di persuasione tipiche dell’advertising per convincere il suo pubblico ad agire in una determinata direzione. Come vuole giustificare con la sua locuzione “sociale”, questo tipo di pubblicità si caratterizza, almeno idealmente, per essere una comunicazione persuasoria su idee e tematiche di interesse pubblico, volta ad accrescere il capitale sociale di un paese e a favorire la crescita della società civile attorno a valori condivisi, prendendo quindi le distanze dalla propaganda intesa come manipolazione delle coscienze (cfr. Gadotti 2011: 22). I temi trattati possono essere molti ed è impossibile formulare un elenco coerente di tali argomenti, anche perché per sua natura questa lista è sempre aperta. In base all’osservazione delle campagne svolte dai diversi soggetti promotori, di fatto in Italia sono più frequenti gli annunci che riguardano problemi sanitari (finanziamento alla ricerca, donazione di sangue e organi, volontariato, prevenzione di comportamenti a rischio), questioni ambientali (sensibilizzazione sul riciclo e sullo spreco di risorse), sicurezza stradale (soprattutto i comportamenti a rischio), particolari condizioni di vita da proteggere (infanzia, handicap), raccolta fondi, comunicazione pubblica in generale. Una classificazione dei temi comunque, non è strettamente necessaria per il fine di questa tesi. Basta ricordare che solitamente per questi mezzi vengono scelti temi generalmente poco controversi, «su cui in teoria non c’è dissenso rilevante, ma rispetto a cui in pratica i comportamenti non sono uniformi e coerenti e dunque richiedono un intervento comunicativo» (Volli, 2005: 114). L’obiettivo della pubblicità sociale infatti non è quello di modificare le convinzioni e i valori condivisi dalla società ma anzi fare leva su quelli per provare a cambiare certi atteggiamenti o comportamenti che non vi corrispondono. Per comprendere come funziona, ciò che è più significativo è mettere in mostra che: vi sono dei soggetti di parola, i quali, comunicando nella forma pubblicitaria tradizionale, riescono ad apparire socialmente titolati a porsi come autori di discorsi che si rivolgono a ciascuno di noi con una urgente natura pragmatica e non commerciale (invitano a tenere certi comportamenti o a evitarli, ad accettare o rifiutare certi atteggiamenti, a compiere certi atti) ma non direttamente regolativa (chiedono, consigliano, informano, non impongono o ordinano) e lo fanno parlando per conto di tutti, o se si vuole nel nome del bene comune e non della loro parte. (Volli, 2005: 113, corsivo dell’autore)
Quello che mi interessa è vedere come le forme pubblicitarie vengono declinate al tema sociale, quali teorie e quali linguaggi vengono utilizzati per la formazione dei messaggi e che effetti hanno sul destinatario.
2.4.1. PUBBLICITÀ COMMERCIALE E PUBBLICITÀ SOCIALE Innanzitutto bisogna vedere l’organizzazione interna dei messaggi della pubblicità sociale e vedere come si rapportano con quelli di natura commerciale. Come detto, la forma superficiale (in termini semiotici: il livello discorsivo) è tratta da quella della forma commerciale. Innanzitutto, manifesti, annunci stampa, annunci radio, spot, ecc. mantengono le dimensioni e le strutture LA COMUNICAZIONE SOCIALE / 53
LA PUBBLICITÀ SOCIALE FA LARGO USO DELLE TECNICHE TRADIZIONALI BASATE SUI MODELLI RETORICI E PERSUASIVI. TUTTAVIA, SE IL DESIDERIO E L’EMOZIONE SONO RISORSE ESSENZIALI PER LA PUBBLICITÀ COMMERCIALE, PER QUELLA SOCIALE POSSONO ESSERE DEGLI OSTACOLI O UN QUALCOSA CON CUI VENIRE A PATTI.
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standard di quelli commerciali. Ad esempio i manifesti e gli annunci stampa sono composti da un’immagine (visual) centrale, sovrastata da un titolo (headline), in basso un testo più esteso di approfondimento (bodycopy), il logo dell’emittente (generalmente in basso a destra), sovrastato da un secondo slogan o pay-off. Qualcuno di questi elementi può mancare e possono ovviamente assumere disposizioni differenti, però la cosa evidente è che somigliano molto alla struttura commerciale. Del sistema commerciale le pubblicità mantengono generalmente anche il meccanismo della retorica e l’utilizzo delle forme narrative, il che rappresenta uno degli aspetti di maggiore criticità. Come afferma Volli (2005), spesso si tende a considerare la pubblicità come una variante del discorso persuasivo centrata sul prodotto, un tipo di comunicazione quindi a cui si potrebbero applicare le categorie della retorica classica. Questa teoria semplifica il pensiero sulla pubblicità ma non è corretta per almeno tre motivi. Innanzitutto vi è una differenza fondamentale tra retorica linguistica, che è sempre argomentativa e quindi retta da categorie logiche ed etiche (indifferentemente se usate in modo lecite o no) e la “retorica” visiva o audiovisiva, dove «quel che conta è la concretezza dell’aspetto e soprattutto la dinamica narrativa dell’esempio» (ivi:119). La persuasione si realizza quindi per via di mimesi più che di argomentazione, di esempi piuttosto che ragionamenti. Il che cambia naturalmente il meccanismo di composizione del testo e la sua azione. In secondo luogo, la pubblicità commerciale è impiegata non tanto allo scopo di valorizzare il prodotto in sé e di farlo comprare direttamente, quanto a trasmettere attraverso questo prodotto una serie di valori immateriali che vengono associati alla marca con lo scopo di differenziare l’offerta dai competitors. La terza differenza deriva poi dal fatto che nella retorica classica chi deve persuadere fornisce argomenti riguardo all’oggetto messo in discussione. Negli spot invece non si cerca di persuadere con ragioni strettamente legate al prodotto, ma piuttosto di sedurre esibendo una storia in cui la marca è valorizzata e suggerendo in base a questo una identificazione con il consumatore. Quel che i pubblicitari fanno è collegare i prodotti e le marche a certi valori, accostandoli e vicende e immagini in cui si affermano quei valori, che si suppongono desiderati dal consumatore (cfr. ivi: 120). In altre parole, «le immagini o le narrazioni pubblicitarie esibiscono un simulacro del consumatore, mettono in rilievo il suo (loro) desiderio, eventualmente la sua soddisfazione, mettendolo in relazione (non importa se casuale o solo di compresenza) col marchio pubblicizzato» (ibidem). Generalmente la narrazione pubblicitaria che viene sviluppata (secondo lo schema narrativo di Propp e la teoria degli attanti di Greimas), racconta essenzialmente del modo in cui un qualcuno assolve un compito o realizza un progetto. Questo qualcuno, che nello schema narrativo è identificato con l’Eroe, è solitamente una trasfigurazione (molto stereotipata) del consumatore cui si intende parlare. Costui si assume un Compito, o meglio, questo gli viene già assegnato per via del suo ruolo (può essere un importante dirigente, un padre, una madre, un ragazzo ribelle, ecc.) e ciò che deve fare gli è prescritto da valori, abitudini, “sceneggiature” che sono note e condivise da tutti; la sua etica in sostanza è costume. Il mandante (o destinante) dell’azione è la società nel suo complesso che ha definito quel ruolo per l’Eroe, e viene talvolta impersonata da un personaggio che ne rappresenta determinati valori sociali come accadrebbe nella realtà (possono essere ad esempio medici, amiche esperte, nonne e suocere, negozianti, ecc.).
Non importa se alla fine l’Eroe riesce o meno a svolgere il suo Compito (anche se generalmente ce la fa, data la natura ottimistica della pubblicità); ciò che conta è il desiderio che esprime. Durate la sua impresa, l’eroe può incontrare alleati o avversari, sia in forma umana che impersonale o astratta. Lo spot è quindi un piccolo mondo possibile, spesso solo una versione più lustrata e piacevole di quello reale, creato attorno alla realizzazione di un desiderio. In questo quadro la marca appare in due modi diversi: come responsabile dell’allestimento della storia (in quanto la firma con il suo marchio), e/o come presenza narrativa. Il primo caso è visibile soprattutto per le narrazioni che si presentano come irreali, per cui la marca si assume la responsabilità di identificarsi e includere lo spettatore in un mondo “sognabile” che riflette i suoi desideri. Nel secondo caso invece, più diffuso ed esplicito, la marca si presenta come alleato dell’Eroe perché sa, per via della sua esperienza, come questo possa risolvere al meglio il proprio compio. Nei casi più semplici, il dispositivo per realizzare il compito è proprio quell’oggetto magico che è il prodotto, che grazie alla sua presenza riesce a trasfigurare la realtà, e la marca funge da garante della sua efficacia (cfr. Volli, 2005). Per fare un esempio elementare sullo sviluppo di queste strutture narrative: una macchia di sporco può essere l’avversario da sconfiggere della casalinga desiderosa di avere un pavimento splendente per far buona figura davanti alla suocera invitata a cena, e il detersivo promosso dallo spot è la soluzione, l’aiutante, per svolgere questo compito. Ho voluto approfondire questo meccanismo della pubblicità commerciale per sottolineare come, se da un lato la pubblicità sociale può riprendere i formati esterni di quella commerciale, non può evidentemente riprodurre anche i meccanismi narrativi su cui questa si sviluppa, in quanto la comunicazione sociale non ha prodotti da vendere, non ha un chiaro “oggetto del desiderio” da utilizzare per assolvere al compito del mandante, ma soprattutto gli sforzi e il prezzo richiesti per assolverlo sono nettamente superiori ai benefici che la pubblicità promette di ottenere nell’assolverlo. La pubblicità commerciale che lavora per provocare un atto d’acquisto che nella nostra società è considerato piacevole, si muove su uno sfondo di desiderio generalizzato. Il suo compito è quello di deviare e indirizzare questo desiderio in desideri specifici che sono in qualche modo legati alla marca e sono una discriminante per le altre marche. La pubblicità sociale al contrario lavora per modificare delle pratiche sbagliate ma diffuse, in qualche modo accettate e magari anche desiderate da quei settori sociali più o meno vasti che le attuano (ad esempio l’ebbrezza della velocità, lo sballo in discoteca, il vizio del fumo, l’indifferenza dei bisogni altrui ecc.). Se quindi il desiderio è una risorsa essenziale per la pubblicità commerciale, per quella sociale è un ostacolo o un qualcosa con cui venire a patti. È un’impresa tutt’altro che facile.
2.4.2. LA STRUTTURA DEL MESSAGGIO PUBBLICITARIO La pubblicità sociale non vende nulla né mira solamente a convincere i destinatari dell’esattezza e veridicità delle sue affermazioni; il suo scopo è quello di cambiare atteggiamenti e comportamenti, vuole spingere a “far fare”. Questo voler spingere qualcuno a far qualcosa è una forma di manipolazione (inteso non in senso negativo ma come meccanismo di azione simbolica). LA COMUNICAZIONE SOCIALE / 55
Nella pratica comunicativa ci sono diverse forme di manipolazione: il contratto, il comando, la preghiera, la seduzione, ecc. La manipolazione su cui si basa la pubblicità sociale è situata tra due poli: il consiglio e la richiesta (ivi: 123). Il consiglio suggerisce una azione/cambiamento di comportamenti nell’interesse dell’enunciatore; la richiesta cerca di ottenerla sulla base di ragioni e diritti. In entrambi i casi due fattori assolutamente determinanti sono da un lato la credibilità dell’enunciatore, la sua adeguatezza e autorevolezza a porsi da consigliere, e dall’altro il sistema sulla base del quale gli interessi ritenuti “buoni” sono identificati. Per la pubblicità sociale è quindi lecito fare un ragionamento più prossimo a quello della retorica classica perché anche essa si proponeva il compito di ottenere delle azioni attraverso discorsi. Cicerone, tra gli altri, sosteneva che due sono le modalità di questa influenza: a partire dalle passioni degli uditori o della qualità dell’oratore. In altre il tema principale della comunicazione retorica è l’asse enunciazionale tra chi parla e chi ascolta: l’autorità del locutore, l’interesse del destinatario. Quello che sviluppa la pubblicità però non sono discorsi ma narrazioni: al posto dell’oratore quindi vi sarà una qualche personificazione più o meno esplicita. Al posto dell’uditore reale che ascolta il messaggio dell’orazione c’è una qualche sua rappresentazione. Il mondo che la pubblicità crea con la sua storia, per quella sociale deve essere necessariamente realistico e “veridittivo” (Volli, 2005:125), cioè condiziona fortemente il proprio senso alla verità delle proprie affermazioni fattuali che sottolinea con forza. La presenza che parla, che esprime il senso della storia dev’essere autorevole: per ottenere questo risultato si possono utilizzare o dei testimoni veri e propri che conoscono il problema di cui parlano perché ci sono passati in prima persona, hanno commesso l’errore da cui l’annuncio vuole diffidare (una recente campagna sociale mostra ad esempio dei testimonial che si sono ritrovati menomati a causa della guida in stato di ebbrezza); oppure dei personaggi autorevoli, che non sono coinvolti in prima persona nel problema ma nella vita reale e con la stessa qualifica provvedono ad affrontarlo (vigile urbano, medico, padre che parla ai propri figli,…). In entrambi i casi la forza di persuasione dipenderà da come il testo riuscirà a rendere questo “effetto di realtà”, evitando la percezione di quella presenza come impersonale o peggio finta. Un altro tipo di rappresentazione dell’oratore che parla è la voce fuoricampo, generalmente maschile, dal tono calmo e rassicurante nel caso degli audiovisivi e che si esprime con un tono di voce pacato e un linguaggio che ha una coloritura scientifica per quelli stampati. Questa voce viene associata a un’entità di per sé autorevole come un ministero, un’associazione nota, per mezzo di un logo che firma la campagna. Lo fa tuttavia in maniera più indiretta, rischiando per questo di avere meno efficacia persuasiva. Infine la maniera con cui si rivolge il messaggio al destinatario cambia a seconda dell’oratore rappresentato: il testimone generalmente parla in prima persona e si rivolge ai destinatari dicendo “voi”; il personaggio autorevole parla sempre in prima persona ma tende a rivolgersi agli interlocutori uno alla volta dandogli del “tu”. La voce fuoricampo anche si rivolge al pubblico dandogli del “tu” ma normalmente non si nomina affatto o lo fa in terza persona nominativa (“il ministero della Sanità”, ecc.) sovente però, in questi casi, l’interlocutore è nominato alla prima persona plurale (“non sballiamo per non sballare”). L’utilizzo di questa formula è piuttosto ampia e del tutto inconsueta nella pubblicità commerciale. Questo “noi” esprime il presupposto, e l’auspicio, dell’esistenza di una società coesa in cui gli individui hanno il diritto e il 56 / IL GIOCO COME MODELLO DI COMUNICAZIONE
dovere di occuparsi anche degli atteggiamenti di chi ne fa parte. Ăˆ in nome di questa collettivitĂ , di questo “noiâ€? che vengono fatte le richieste della pubblicitĂ sociale e in base a questo si assume il diritto di essere abbastanza intrusiva da dare consigli non richiesi. Interessante è vedere anche come gli antisoggetti, coloro che incitano al comportamento scorretto (gli spacciatori ad esempio) sono citati in forma semianonima come “loroâ€?, come estranei alla comunitĂ .
STARE MALE E NON SAPERE PERCHÉ. QUESTO MI FA PAURA. ENDOMETRIOSI. CONOSCERE LA MALATTIA Ăˆ IL PRIMO PASSO PER CURARLA. QUELLO CHE NON SO DI ME LO POSSO CONOSCERE.
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Figure 2.19 (pagina precedente), 2.20, 2.21. Esempi di tipologie di linguaggio usate nelle campagne di comunicazione sociale
LA COMUNICAZIONE SOCIALE / 57
2.4.3. I LINGUAGGI DELLA PUBBLICITÀ SOCIALE La scelta del linguaggio da utilizzare nella pubblicità sociale è un aspetto molto delicato perché anche questo, insieme alle altre variabili sopra esposte, è determinante per l’efficacia della comunicazione. Identificare i linguaggi più efficaci e misurarne in maniera attendibile gli effetti è complesso anche per quanto riguarda la comunicazione commerciale. Partendo però dalla rassegna dei linguaggi e degli stili comunicativi proposti da Gadotti (2011), frutto dell’analisi di migliaia di annunci apparsi sui media italiani dagli anni ’70 ad oggi, è possibile fare delle osservazioni sui limiti e i punti di forza di ciascuno di questi. Se come detto prima, nella comunicazione sociale «il desiderio […] è un ostacolo da superare o con cui venire a patti» (Volli, 2005:124), spesso la pubblicità sociale fa ricorso a due estremi linguistici: l’“eufemismo” e il “terrorismo”. Nel primo caso la comunicazione è amichevole, pacata, positiva, tendente a sdrammatizzare. Nel secondo caso al contrario, si mostrano drammi, emergenze, pericoli, allo scopo di colpire, scioccare il destinatario con l’uso di toni violenti, immagini e parole forti. Tra questi due estremi però, esistono moltissime sfumature e stili linguistici. L’analisi effettuata da Gadotti (2011) ha portato ad identificare otto linguaggi o registri comunicativi. Sentimentale/commovente/patetico. Fare uso di emozioni forti per coinvolgere i destinatari della comunicazione sociale è una delle tecniche più usate. I temi trattati sono spesso legati a situazioni drammatiche, persone in difficoltà o comportamenti potenzialmente dannosi per se stessi e per gli altri. Il linguaggio sentimentale, commovente o patetico fa ricorso a immagini e scene di impatto dove le persone in difficoltà vengono ritratte nei momenti di disagio e sofferenza. Il più delle volte sono scelti come protagonisti delle campagne i bambini, ritratti in lacrime, tristi o evidentemente denutriti. Si fa leva quindi sul senso di pietà per suscitare buoni sentimenti e solidarietà verso il prossimo. La scena è presentata in tutta la sua gravità, enfatizzando le debolezze dei protagonisti. Il tono delle scene è cupo, triste e drammatico. (Esempi di queste campagne si possono trovare tra le campagne di ActionAid e di molti altri enti non profit). Da un punto di vista dell’efficacia, hanno certamente il pregio di essere molto visibili ma hanno anche il forte limite che se vengono suscitate emozioni troppo forti, si corre il rischio di ottenere un rifiuto del destinatario al messaggio. Quello che si può ottenere infatti è un meccanismo di diniego (Bosco, 2005: 14), soprattutto in quelle persone particolarmente ansiose che quindi tendono a rigettare informazioni che potrebbero aumentare il loro stato d’ansia. Per questo è necessario dosare con attenzione le emozioni di questo tipo e mettere bene in evidenza la possibilità reale e concreta di affrontare e risolvere il problema. Un’altra obiezione deriva dall’opportunità di usare o meno in comunicazione i drammi delle persone. Anche se a scopi benefici, rappresentare i sofferenti nell’intimità del proprio dolore è di scarso rispetto verso di essi e la loro dignità. Il tono sentimentale infine è talmente tanto usato da aver generato un problema di riconoscibilità tra gli attori della comunicazione sociale Drammatico/violento/scioccante. Se la pubblicità commerciale tende a nascondere gli aspetti negativi della realtà (cfr. Paola Righetti 2003), la pubblicità sociale al contrario offre cittadinanza a questa parte della realtà: è questo il caso delle campagne che usano toni drammatici, violenti e scioccante. Anche qui i soggetti sono mostrati deboli e in difficoltà ma questa volta l’in58 / IL GIOCO COME MODELLO DI COMUNICAZIONE
tento è suscitare paura, ansia, sgomento,disgusto e talvolta orrore nel destinatario. In letteratura questo approccio è chiamato fear arousing appeal, appello alla paura, per via della reazione più comune a questi messaggi di forte impatto. Questo linguaggio viene scelto anche in molte campagne di educazione, per creare paura nel destinatario affinché eviti comportamenti pericolosi o autodistruttivi: un caso comune è quello delle campagne sulla sicurezza stradale che utilizzano scene di incidenti macabre, con corpi sanguinanti, mutilati. Queste campagne sono spesso oggetto di forti dibattiti per via della loro crudeltà spesso gratuita. In Italia un noto spot contro la tossicodipendenza emesso dal Consiglio dei ministri negli anni ’90, per via del forte impatto e violenza dei toni, aprì un dibattito, mai concluso, sull’opportunità o meno dell’utilizzo di questi toni nelle campagne educative, soprattutto quelle emesse dalla pubblica amministrazione. Questa campagna, che ancora io ricordo in modo molto negativo, mostrava i volti in primo piano di alcuni ragazzi con gli occhi aperti completamente bianchi, affiancati da un claim che recitava “Se ti droghi, ti spegni”. L’impatto fu molto forte, tanto da risultare disturbante. L’utilizzo nella pubblicità di toni drammatici e scioccanti deriva dalla cultura anglosassone. Tuttavia se ben funzionano in una società dove il tema della morte è solitamente trattato in modo ironico e dissacrante, nel nostro paese è dimostrato che il pubblico non è altrettanto ben disposto a sopportare messaggi violenti e l’effetto comune a queste campagne è il rifiuto e la rimozione. Infatti se il messaggio supera una certa soglia emotiva nel soggetto, si può generare in esso uno stato di negazione che rimuove il messaggio proprio a causa della violenza con cui questo viene veicolato; questo meccanismo di negazione sembra dipendere oltre che dalle caratteristiche psicologiche delle persone, anche dalla presenza di particolari ambiti culturali (cfr. Bosco, 2005: 12). Sebbene alcune ricerche mostrino come soprattutto sul pubblico giovane, l’uso di questi linguaggi abbia dei risultati migliori in termini di visibilità rispetto a toni più moderati, è un tipo di comunicazione molto delicata e la quantità di “violenza” deve essere misurata sulla base del destinatario e sul tema trattato. Inoltre bisogna considerare che questo tipo di comunicazione seppur rivolto a un target emotivamente “pronto” a riceverla, può raggiungere in via indiretta anche target secondari urtandone fortemente la loro sensibilità (una campagna terroristica sull’Aids può infatti avere risultati in termine di prevenzione ma essere percepita in modo molto offensiva da una persona sieropositiva). Quindi anche se questo linguaggio può avere dei buoni risultati di visibilità e memorizzazione, non per questo è garanzia di efficacia, e non sfugge ai rischi comuni di molte campagne sociali, soprattutto per i giovani: il primo si può definire «senso di immortalità» (Bernocchi, Gadotti 2010: 138), che ci spinge spesso a pensare “non può succedere a me” e quindi ad abbassare notevolmente la percezione del rischio; il secondo è la natura ambigua del rischio stesso rappresentato in pubblicità, che trasforma il pericolo in qualcosa di attrattivo, una sfida da accettare più che qualcosa da allontanare. Aggressivo/accusatorio/di denuncia. È un approccio molto aggressivo, in cui il comunicatore si rivolge al destinatario usando parole forti e talvolta muovendo delle vere e proprie accuse nei suoi confronti. L’obiettivo è quello di generare un senso di colpa, farli sentire in imbarazzo e vergogna e, in casi limite, istigarne la rabbia. L’atmosfera di queste campagne è per questo spesso violenta e carica di tensione. Il destinatario viene rappresentato come il responsabile di una determinata situazione, o perché ne è direttamente la causa oppure in
Figura 2.22 (pagina precedente). Comunicazione sentimentale/commovente/patetica per la raccolta fondi a sostegno delle vittime di Haiti, Unicef, 2010. Figura 2.23. Spot contro l’uso di sostanze stupefacenti “Se ti droghi, ti spegni. Presidenza del Consiglio dei Ministri, 1991.
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via indiretta con il suo comportamento disinteressato, il suo silenzio davanti alla situazione, il suo “non fare”. Altre volte la “presunta” colpa del destinatario è quello di non offrire contributi economici a qualche causa. Un esempio di questo tipo è la discussa campagna promossa negli anni ’90 dall’Associazione italiana parkinsoniani che mostrava l’allora presidente dell’associazione, colpito dal morbo nel 1983, intimare con sguardo truce verso il lettore: “Spero che il morbo di Parkinson colpisca anche te”. In altri casi la denuncia non è rivolta direttamente al destinatario ma è generica, come ad esempio la campagna Onlus “Una mano alla vita” che denuncia: “In Italia un malato terminale è già un uomo morto”. Talvolta l’accusa diventa denuncia nei confronti dei poteri pubblici, enti ecc, e quindi la comunicazione diventa strumento per acquisire consensi sulla causa, raccogliere petizioni, spronare ad azioni. L’uso del linguaggio aggressivo e accusatorio è usato per lo più dalle associazioni non profit perché godono di maggiore libertà espressiva (la pubblica amministrazione deve tener conto dell’intera popolazione e per questo è meno incline a usare toni così diretti, Pubblicità Progresso secondo il “Codice dell’autodisciplina pubblicitaria italiana” e in particolare l’art. 46, non può ricorrere a richiami scioccanti e violenti, mentre le aziende private tendono a non esporsi per non correre il rischio di scontentare i propri consumatori). Come nei due linguaggi precedenti, il rischio maggiore è legato al rifiuto dell’accusa e alla sua rimozione per via dell’impatto emotivo troppo forte. Come afferma Gadotti (ivi: 142) «la psiche seleziona i messaggi scomodi e spesso è più facile voltare pagina che lasciarsi stimolare da messaggi aggressivi». In alcuni casi poi, il comunicatore non ha l’autorevolezza tale da porsi come giudice e accusatore tanto da far risultare i messaggi arroganti e irrispettosi dal pubblico.
Figura 2.24. Campagna aggressivo/accusatoria “Spero che il morbo di Parkinsoncolpisca anche te”, Associazione Italiana Parkinsoniani, 1990
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Rassicurante/gratificante/positivo. In questo tipo di messaggi il comunicatore si rivolge al destinatario in modo più lieve, descrivendo il problema in modo rassicurante, evidenziando le soluzioni e i risultati ottenuti o ottenibili. Sono messaggi carichi di speranza e mirano a infondere fiducia nella possibilità di risolvere o affrontare un problema con buone possibilità di successo. In questo modo dolore e difficoltà appaiono più accettabili e la comunicazione ottiene un avvicinamento sereno e fiducioso del destinatario. All’opposto delle prime forme comunicative, i protagonisti sono persone sorridenti e i problemi sono solo evocati ma non rappresentati. La pubblicità tende a creare un legame diretto tra soluzione del problema e responsabilità del target, ma lo fa in modo lieve, senza pressioni. Queste comunicazioni generalmente terminano con un happy ending, il modo in cui il problema viene risolto, in modo da sollevare i destinatari dal senso di colpa o l’inadeguatezza per le problematiche proposte e ridurre il rischio di rimozione del messaggio. Un esempio di campagna di questo tipo è quella realizzata nel 2000 per il Ministero dei Lavori pubblici sul tema della sicurezza stradale. In questo caso anziché parlare di morte e mostrare incidenti, viene affrontato il problema nel modo opposto, facendo leva sugli aspetti positivi della vita che il casco può preservare. Un altro esempio è la campagna del 1994 contro la tossicodipendenza proposta dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, che anziché mostrare i danni dati dell’uso di droghe, si rivolge alle persone vicino ai tossicodipendenti, per offrire conforto e speranza comunicando loro che la droga può essere affrontata e sconfitta, grazie soprattutto al supporto della famiglia e degli amici. Questo tono è stato usato spesso anche in campagne per la promozione del volontariato e il rispetto della diversità.
Sapere che un problema può essere affrontato è rincuorante, vedere i risultati positivi di un’iniziativa di solidarietà è incentivante, venire invitati ad assumere un comportamento responsabile con un tono rassicurante è spesso più accettabile che non attraverso minacce o facendo ricorso alla paura. Il linguaggio positivo all’evidenza sembra poter essere molto apprezzato. Come tutti i linguaggi visti finora però ha i suoi lati deboli: il primo è quello che nel rappresentare in positivo un problema grave si corre il rischio di minimizzarlo, facendogli perdere il carattere di urgenza e rischio reale; il secondo è che la comunicazione di questo tipo rischia di essere poco impattante e l’interesse per la causa rischia di affievolire rapidamente. Gadotti (Bernocchi, Gadotti 2010) afferma che il linguaggio positivo ha poca efficacia nel caso di cause in cui si vuole modificare o correggere un comportamento radicato, perché il messaggio può registrare anche un accettabile livello di attenzione ma raramente stimola una riflessione profonda o un’azione reale. È invece più efficace quando è utilizzato per raccolte fondi nelle quali vengono valorizzati i progetti a cui sono destinati i soldi e per le campagne di sensibilizzazione rivolte al grande pubblico. Divertente/umoristico/ironico. Questo è il linguaggio che sembra avere i migliori riscontri, soprattutto tra i giovani. A differenza di quello rassicurante, quello divertente non si limita a mostrare il lato positivo delle cose ma invita il destinatario a sorridere, parlando in modo lieve e divertente. L’obiettivo è proprio quello di strappare un sorriso, di scherzare anche in modo irriverente, di avvicinarsi al problema in una prospettiva diversa, creando sorpresa e favorendo l’empatia. Come osserva Maria Angela Polesana (citata in Bernocchi; Gadotti, 2010: 147): «un approccio ironico costituisce uno strumento particolarmente prezioso nella “cassetta degli attrezzi” della pubblicità sociale, poiché grazie al suo parlare per allusioni, al suo essere “ambigua”, finemente divertente e indiretta suscita minore resistenza da parte di un destinatario che non vuole sentirsi mettere esplicitamente in mora». Un esempio particolarmente riuscito è la realizzata negli anni ’90 da LILA, la Lega Italiana per la Lotta all’Aids. Per sensibilizzare sull’utilizzo del preservativo l’associazione ha realizzato una serie di manifesti e pubblicità stampa che vede come protagonista un buffo vecchietto di nome Gino, rappresentato con stile caricaturale, testimone del fatto che chi usa il preservativo vive a lungo perché non rischia il contagio. Di questa campagna esistono anche altri comunicati dove questa volta compaiono delle simpatiche vecchiette, presunte amante dell’attempato latin lover, che con sorriso malizioso dichiarano “Zio Gino? Credetegli sulla parola…”. Un altro esempio viene dall’AMREF (African Medical and Resaerch Foundation) che in collaborazione con il comico Giobbe Covatta, ha scelto di usare l’ironia per descrivere la situazione in Africa. Sono diversi gli spot realizzati dall’organizzazione che, attraverso le battute/storie ironiche del comico, mettono di volta in volta in mostra delle situazioni apparentemente complicate ma che in realtà con il sostegno dello spettatore possono trovare facile soluzione. Per sottolineare questo concetto, gli spot terminano tutti con il claim che ormai è diventato famoso: “Basta poco, che ce vo’?”. Ma non sono solo le associazioni non profit a utilizzare questo tipo linguaggio: nel 2004 anche la Heineken, sull’onda del crescente interesse dei consumatori verso la responsabilità sociale delle aziende, ha realizzato uno spot ironico sul rapporto tra il consumo di alcool e la guida, mostrando gli effetti dello stato di ebbrezza su un cane guida dopo aver bevuto della birra versata accidental-
Figura 2.25. Campagna per l’uso del casco sul motorino “Con il casco c’è più vita”, Ministero dei lavori, 2000. Figura 2.26 Campagna di prevenzione al contagio del l’AIDS “Fai come zio Gino”, Lila.
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mente a terra da un gruppo di ragazzi. Lo spot si chiude con il cane che va a zig zag per la strada, con andatura simile a un ubriaco, trascinandosi dietro il povero padrone e il claim: “Chi beve e guida è un pericolo anche per gli altri. Pensaci”. Lo spot ebbe notevole visibilità e fu votato sul sito dell’azienda come uno degli spot preferiti dagli utenti. L’utilizzo dell’ironia ha senza dubbio degli effetti positivi. Innanzitutto come detto precedentemente, nel caso in cui il coinvolgimento del pubblico verso il tema è elevato e il rischio è reale, spesso la percezione selettiva porta a rifiutare il messaggio da parte del destinatario. L’approccio leggero al contrario sdrammatizza e può rendere la comunicazione più efficiente. Inoltre, a fronte di un’enorme quantità di messaggi pubblicitari a cui siamo esposti quotidianamente, l’utilizzo di un approccio divertente incuriosisce il destinatario che sarà quindi spinto a porre attenzione al messaggio, e allo stesso tempo lo differenzia dal resto degli spot sociali che generalmente utilizzano toni seri o drammatici. L’uso dell’ironia può essere anche un ottimo elemento virale per la comunicazione, aumentandone la diffusione via passaparola, soprattutto grazie ai social network oggi forti più che mai. Infine il linguaggio leggero è spesso una buona scelta se il messaggio è rivolto a giovani, in quanto questi mal sopportano i consigli paternalistici e rifiutano le imposizioni. D’altra parte però, questo linguaggio va usato con cautela, spesso laddove il tema in oggetto è particolarmente drammatico e fare dell’ironia sarebbe una scelta irrispettosa e inopportuna. Non tutti i destinatari poi condividono lo stesso grado di umorismo e per taluni questo linguaggio potrebbe apparire irriverente e offensivo. Infine un messaggio di questo tipo, per essere davvero efficace, deve essere realmente divertente, creare empatia; spesso infatti si assiste a campagne nate con l’intendo di far sorridere ma che alla fine, per limiti creativi, si dimostrano ai più falsamente divertenti se non addirittura penose. Responsabilizzante/paternalistico/prescrittivo. Questo linguaggio fa leva sulla coscienza del destinatario, facendo appello al suo senso di responsabilità e del dovere. La comunicazione fa riferimento a una serie di valori socialmente condivisi, decretando come scorretti, sconvenienti e moralmente deprecabili quelli che vanno contro a questi principi. Il comunicatore, supponendo di avere l’autorevolezza per parlare ai destinatari, stabilisce e spiega ciò che è bene e ciò che è male, attraverso l’utilizzo di un linguaggio mai violento ma anzi di raccomandazione, lasciando spazio alla ragione e alla riflessione piuttosto che ai sentimenti. Spesso vengono utilizzati dei testimonial, per dare maggiore autorevolezza al messaggio. Un esempio di campagna responsabilizzante è quella realizzata nel 2001 dal ministero per gli Affari sociali sul tema della droga, nel quale vengono mostrati uno dopo l’altro i “doveri” che un ragazzo spesso si sente chiamato a soddisfare nel contesto sociale attuale: Devi coprirti bene. Devi tornare presto. Devi abbassare il volume. Devi abbassare la cresta. Devi essere snella. Devi essere bella. Devi essere come tua sorella. Devi avere un look. Devi piacere alla gente. Devi far finta di niente. Devi metterla giù dura. Devi tirartela da paura. Devi avere i muscoli. Devi sfidare i limiti. Devi avere successo. Devi fare sesso. Devi entrare nel giro. Devi stare al gioco. Devi stare in pista. Devi uscire di testa. Devi bere. Devi fumare. Devi calarti. Devi sballare. NO. Il vero sballo è dire no. Lo spot si compone da una rapida sequenza di scene di ragazzi in diversi contesti, che guardando la camera con aria seria “pensando”, ciascuno in successione, 62 / IL GIOCO COME MODELLO DI COMUNICAZIONE
uno dei doveri elencati. Lo spot termina con una carrellata di “no” urlato da ciascun ragazzo/a seguito dal claim “Il vero sballo è dire no”. L’appello di responsabilità in questo caso viene dagli stessi coetanei a cui è rivolto il messaggio. Nonostante l’ampio uso che se ne fa in comunicazione sociale, questo linguaggio sembra essere poco efficace, soprattutto perché ruota attorno all’autorevolezza dell’emittente, quando in realtà gli italiani si sentono sempre meno rappresentati dalle istituzioni e ne ripongono poca fiducia. Inoltre nessuno ama farsi dire da altri, senza possibilità di replica, “cosa fare” o cosa no, indipendentemente dall’autorevolezza di chi lo dice, soprattutto i giovani. Provocatorio/irriverente/trasgressivo. Per attirare l’attenzione del destinatario può essere utile metterlo di fronte a una pubblicità inaspettata e spiazzante. Un modo per farlo è ricorrere alla provocazione. Un tipo di comunicazione sociale che ben si presta a questo linguaggio è l’advocacy. Le immagini sono insolite, spiazzanti, irreali, costruite per creare l’attenzione attraverso esagerazioni e metafore. La visione di questi messaggi può provocare angoscia o amarezza, attraverso delle vere e proprie «aggressioni emotive» (Bernocchi, Gadotti, 2010:155). In altri casi può provocare un sorriso amaro utilizzando un’ironia tutt’altro che positiva. Questo genere di comunicazione raramente riesce a passare inosservata e spesso accende dibattiti e polemiche. È il caso per esempio delle campagne Benetton, realizzate da Oliviero Toscani, che ogni volta fanno parlare di sé e delle tematiche rappresentate, anche se negli ultimi anni sembrano fatte più per animare la polemica sulla loro rimozione piuttosto che parlare di problemi sociali. Un altro esempio di campagna dai toni provocatori fu quella diffusa da Legambiente nel 2006 per promuovere l’annuale manifestazione “Puliamo il mondo”, la più grande iniziativa di volontariato per pulire parchi, piazze, strade, fiumi d’Italia. Il manifesto realizzato per l’occasione ritrae un’enorme albero in un prato di città pieno di rifiuti, i cui rami intrecciati simulano il classico gesto dell’ombrello, affiancato da una headline che ne enfatizza il senso affermando: “Se la natura potesse parlare.” È un approccio irriverente anche se il gesto maleducato così proposto all’interno dell’annuncio, suona più come uno sfogo ironico che un insulto volgare. Un campagna passata alla storia fu la campagna contro il fumo di Pubblicità Progresso datata 1975, che con il suo claim “Chi fuma avvelena anche te” utilizza un tono a cavallo tra la denuncia e la provocazione. Nonostante oggi questa affermazione può sembrarci addirittura banale, all’epoca suscitò molto scalpore perché per la prima volta si scelse un approccio esplicito e innovativa fu la scelta di indirizzare la comunicazione non tanto al fumatore, responsabile e cosciente dei rischi per la sua salute, ma ai non fumatori che gli stanno accanto. La campagna informa sui rischi del fumo passivo e attraverso l’uso provocatorio del verbo “avvelenare”, sprona i non fumatori a ribellarsi in qualche modo. Le campagne sociali che usano le provocazioni garantiscono un approccio originale ai problemi e possono essere sviluppate con una maggiore libertà creativa, tuttavia hanno dei grossi limiti perché si tratta di uno stile più controverso dei precedenti. Talvolta l’eccesso di provocazione può infastidire i destinatari che quindi evitano o rimuovono l’annuncio. Altre volte simboli e metafore rischiano di non essere compresi da tutti o richiedono una lettura approfondita del messaggio che non si presta al metodo di fruizione del grande pubblico a cui sono in realtà destinati. Inoltre se è vero che raggiungono dei buoni risultati di visibilità, questo non si può dire
Figura 2.27. (pagina precedente). Spot per i giovani contro l’uso di sostanze stupefacenti “Il vero sballo è dire no”, Ministero per gli Affari Sociali, 2001. Figura 2.28. Manifesto di sensibilizzazione ambientale “Se la natura potesse parlare”, Legambiente, 2006.
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allo stesso modo dell’efficacia. Memorabilità ed efficacia infatti non sono necessariamente compresenti. Infine a volte, l’impressione che di ha da queste campagne è che siano state fatte più per stupire che per una reale volontà di raggiungere degli obiettivi socialmente utili. Informativo/descrittivo/documentaristico. La pubblicità sociale con approccio informativo e descrittivo fornisce al destinatario una serie di argomentazioni razionali: si fa appello principalmente alla ragione e all’intelligenza. Non si chiede al pubblico un forte coinvolgimento emotivo quanto piuttosto una riflessione sul tema, facendo riferimento al proprio senso del dovere e di responsabilità. In certi casi si tratta di una specie di informazione descrittiva, dove i protagonisti della campagna sono rappresentati in modo realistico e distaccato. Questo linguaggio è spesso utilizzato dalle pubbliche amministrazioni, che come visto precedentemente tendono a scegliere un linguaggio pacato e razionale per le loro comunicazioni. A dispetto dell’apparenza, anche attraverso un linguaggio che può sembrare freddo e distaccato, come quello informativo è possibile suscitare delle emozioni forti. Un esempio tra tutti, è lo spot realizzato dal Ministero della Sanità per informare la popolazione dei rischi del contagio. Lo spot descrive diverse situazioni possibili di contagio, raccontate da una voce fuoricampo che chiarisce contesti e prevenzione. Il contagio è rappresentato da una linea viola che accompagna e collega graficamente e in modo simbolico i protagonisti dello spot. Nonostante la scelta del carattere informativo, lo spot ha colpito la popolazione suscitando al contempo un grande allarme sociale e forti critiche per la scelta visiva del messaggio.Il tono informativo e descrittivo però generalmente è molto debole e lascia poco spazio alla creatività. I messaggi in cui sembrano avere maggior successo sono quelli in cui vi è già una forte sensibilità del target nei confronti del tema, per cui qualsiasi campagna su quel tema è seguita con interesse. In molti casi l’approccio informativo non è frutto di una scelta strategica ma è il risultato di una serie di compromessi e di scelte fatte per esclusione che portano a seguire una via più soft per comunicare temi sociali nel modo più obiettivo possibile per non incorrere in critiche.
2.4.4. FASE VALUTATIVA E CRITICHE SULL’EFFICACIA
Figura 2.29. Spot informativo sul rischio di contagio dell’Aids “Aids, se lo conosci lo eviti”, Ministero ella Salute, 1990.
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Verificare l’efficacia o meno della comunicazione sociale è un nodo cruciale per riflettere su un suo possibile sviluppo, soprattutto in un paese come il nostro che utilizza questo strumento comunicativo in maniera privilegiata per i temi sociali. Ma, alla luce delle criticità emerse circa il rapporto tra pubblicità commerciale e pubblicità sociale e l’utilizzo improprio di certi linguaggi e forme prese in prestito da queste, ha senso fare ancora uso di questo strumento? Come dimostrerò in seguito, in parte sì, nel senso che essendo i mass media un indiscusso strumento di amplificazione dei messaggi, in una prima fase (e in certi limiti) può essere utile appoggiarsi alla pubblicità sociale per diffondere determinate campagne in atto, ma questa può per i suoi limiti svolgere solo un’azione di richiamo per cui va necessariamente accompagnata e integrata a diverse forme di comunicazione più interattive adatte al nostro tempo. Per legittimare le mie affermazioni, è utile soffermarsi sul tema critico della valutazione delle campagne sociali. A differenza della pubblicità commerciale che può facilmente verificare l’efficacia della sua comunicazione grazie
all’incremento delle vendite, nel caso della pubblicità sociale che invece non promuove prodotti ma idee e comportamenti, ricavare dei dati per verificarne l’efficacia è molto più complesso. Martini e Falletti nel Primo rapporto sulla comunicazione sociale in Italia (2005), forniscono una griglia di lettura, basata sull’esperienza nazionale e internazionale, che riassume il modo con cui dobbiamo agire nella valutazione di campagne a tema sociale, che non si limita solo a verificare se l’effetto finale desiderato sia stato raggiunto o meno. L’obiettivo ultimo di una campagna è modificare tipi di comportamento ritenuti indesiderabili da parte della collettività. È possibile quindi intendere il successo della campagna sul verificarsi di un tangibile cambiamento, ottenuto grazie all’iniziativa, nei comportamenti che rappresentano l’obiettivo della campagna stessa. Alla luce di questo la campagna ha avuto successo se, e solo se, i comportamenti che ci si proponeva di incidere sono migliorati rispetto a quelli che si sarebbero osservati senza la campagna stessa. Tuttavia questo fattore da solo non può indicare se la campagna ha avuto o meno successo, perché alla base del cambiamento potrebbero esserci altri fattori e i dati a disposizione del valutatore non consentono di attribuire univocamente all’effettuazione della campagna il reale cambiamento. La valutazione della campagna vista con quest’altra ottica, sembrerebbe impossibile, tuttavia ci sono degli altri profili in base ai quali giudicare il successo di una campagna: innanzitutto ci si può focalizzare su risultati intermedi e osservare i cambiamenti in prossimità temporale; inoltre si può cercare di ottenere dei feedback su come sta andando durante tutto il processo. Da questo si evince come la nozione di “valutazione di una campagna di comunicazione sociale” sia articolata su livelli successivi, che gli autori identificano con quattro, ma che non vanno intesi come una rigida categorizzazione. Per valutare questi quattro livelli, gli strumenti tecnici più utilizzati sono i focus group e le indagini campionarie (che possono essere realizzate con modalità differenti, dai classici questionari o interviste faccia a faccia oppure tramite l’impiego di tecnologie informatiche). I quattro parametri valutativi sono: 1. 2. 3. 4.
Se il messaggio è compreso Se viene notato e ricordato Se aiuta a cambiare opinioni e atteggiamenti Se induce a mutare i comportamenti
Di tutti viene valutata l’efficacia. A un primo livello l’efficacia riguarda la capacità del messaggio proposto di essere capito nel modo giusto da coloro che vi sono esposti. Si può parlare di efficacia comunicativa del messaggio. Questa può essere testata prima o durante la campagna. La domanda che potremmo porci è: il messaggio della campagna è efficace, vale a dire è capito correttamente da coloro che vi sono esposti? A un secondo livello, l’efficacia riguarda il grado con cui la campagna riesce a raggiungere i suoi destinatari, nel senso che il messaggio è visto/letto/sentito e ricordato da una percentuale rilevante tra coloro a cui è rivolto. Si parla di grado di esposizione alla campagna da parte della popolazione. Solitamente si valuta a conclusione della campagna e costituisce un esempio di valutazione conclusiva: l’attenzione riscontrata può essere considerata uno dei risultati attesi. Tuttavia, può anche essere valutata in uno stadio intermedio di creazione della campagna. La domanda valutativa può essere: la campagna è efficace, nel senso che raggiunge un numero rilevante di persone e riesce a farsi ricordare da queste? LA COMUNICAZIONE SOCIALE / 65
Al terzo livello l’efficacia riguarda la capacità della campagna di stimolare un cambiamento cognitivo tra coloro che hanno ascoltato il messaggio e quindi hanno cambiato conoscenze, consapevolezze, atteggiamenti, intenzioni riguardo al comportamento oggetto della campagna. Si può parlare di efficacia cognitiva. In questo livello non si tenta ancora di provare che la campagna ha un impatto sui comportamenti sociali ma solo ricavare indizi che le loro coscienze sono state toccate. Per verificare i cambiamenti cognitivi si fa riferimento alla “teoria del cambiamento”, che spiega come si determinano e modificano i comportamenti sociali e in particolare alla teoria dell’azione ragionata (Theory of Reasoned Action, formulata da Ajezen e Fishbein 1980).
Tabella 2.3. Schema comportamentale secondo Fattori e Vanoli (2011).
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CONVINZIONI SUL COMPORTAMENTO
ATTEGGIAMENTO RISPETTO AL COMPORTAMENTO
Le convinzioni dell’individuo sulle conseguenze prodotte dal comportamento e quelle sulla desiderabilità o meno di quelle conseguenze
Il giudizio dell’individuo sul fatto che il comportamento sia un bene o un male
NORME SOCIALI
ATTEGGIAMENTO DEGLI ALTRI
Le convinzioni dell’individuo riguardo alle opinioni che gli altri individui per essa socialmente rilevanti hanno su quel comportamento
Il giudizio delle persone socialmente rilevanti sul fatto che sia un bene o un male che quella persona adotti quel comportamento
INTENZIONI RISPETTO AL COMPORTAMENTO Le intenzioni della persona di adottare o no il comportamento
COMPORTAMENTO
L’uso di questa teoria è utile a capire i cambiamenti rilevabili tra le persone esposte alla campagna e quindi trarre conclusioni se questa abbia avuto un effetto positivo. L’idea di fondo è che una persona arriva a modificare il proprio comportamento a seguito di una catena di eventi che inizia con la migliore conoscenza del problema e termina con l’intenzione al cambiamento. La domanda in questa fase potrebbe quindi essere: la campagna è stata efficace nel senso che tra coloro che sono stati esposti si osservano cambiamenti in termine di conoscenze, consapevolezze, atteggiamenti e intenzioni nella direzione auspicata dalla campagna? L’ultimo livello infine riguarda la capacità della campagna di avere un effetto misurabile sul comportamento sociale la cui modificazione rappresenta l’obiettivo della campagna stessa. Questa è quindi l’efficacia sul comportamento finale. La domanda valutativa da porsi è: la campagna è efficace nel senso che, grazie ad essa, si sono modificati nella popolazione i comportamenti oggetto del messaggio? Questa fase è particolarmente complessa per diversi motivi. Innanzitutto vi è il problema di osservabilità del problema, in quanto spesso alcune campagne vertono su comportamenti socialmente indesiderabili o illegali, per cui è comune la riluttanza a riportare determinati comportamenti nei questionari o nelle interviste valutative anche se anonime. Il problema maggiore però è il rischio di attribuire l’efficacia della campagna a dei cambiamenti del comportamento in realtà casuali o dovuti ad altri fattori.
Bisognerebbe “depurare” il cambiamento osservato dall’impatto di tutti gli altri possibili fattori esterni perché misurare fare un semplice paragone del comportamento prima e dopo la campagna rischierebbe di attribuirgli meriti che in realtà non ha. Ad esempio la riduzione della mortalità da incidenti stradali può essere il risultato dell’inasprimento delle sanzioni, dell’introduzione della patente a punti e l’uso obbligatorio della cintura e del casco, del miglioramento dei sistemi di sicurezza dei veicolo, piuttosto che la risposta a una campagna di sensibilizzazione. Oppure al contrario una campagna per la riduzione del consumo di droghe leggere inserita in una fase in cui tale consumo è in crescita per diverse ragioni culturali e sociali, potrebbe avere dei risultati, anche se modesti, di correggere il comportamento negativo ma visto il fenomeno in crescita non riuscirebbe a invertirne la direzione quindi a un rilevamento potrebbe risultare completamente inefficace. In entrambi i casi l’unica possibilità per stimare in modo veritiero l’effetto della campagna è quello di condurre un’analisi di tipo “controfattuale”, confrontando il comportamento dopo la campagna con quello che si sarebbe osservato senza, utilizzando diversi campioni d’analisi. Quest’analisi evidentemente non è sempre possibile, soprattutto se la campagna è universale (destinata all’ampio pubblico eterogeneo) e il fenomeno è variabile nel tempo. Per questo molte delle valutazioni si fermano al terzo livello (cfr. Martini e Falletti:181-188). In Italia poi, è particolarmente difficile reperire delle significative indagini di valutazione delle campgne sociali perché spesso, per mancanza di fondi, si tende a non investire in questo settore. Caso studio_National Youth Anti-Drug Media Campaign. Per fare un esempio su tutti dell’efficacia delle campagne di comunicazione sociale, supportata da tutte le fasi valutative precedentemente viste, ho scelto di riportare il caso della campagna iniziata nel 1998 e tutt’ora in attività promossa dal governo federale americano per prevenire l’uso delle sostanze stupefacenti da parte dei giovani e sensibilizzare sul problema anche i genitori. Questa campagna è un caso emblematico, sia perché rappresenta tutte le caratteristiche, addirittura maggiormente articolate, di come vengono ad oggi pensate e realizzate le campagne di comunicazione sociale, sia perché grazie alle ricerche valutative svolte dall’agenzia federale stessa e dalla Annenberg School for Communication dell’Università della Pennsylvania, si è potuto dimostrare, dati alla mano, come questo tipo di comunicazione non è efficace. I dati raccolti sono riferiti al periodo di monitoraggio della campagna anti droga dal 1998 al 2004 e nonostante siano stati fatti motivati da un’aspettativa positiva della buona riuscita dell’azione comunicativa, i risultati si rivelarono la prova che questo tipo di comunicazione, seppure perfettamente architettata in ogni sua fase, non riesce a raggiungere i risultati desiderati. Uno studio più recente, fatto per vedere l’impatto simultaneo di due “campagne nella campagna” promosse sempre dall’ente federale per ridurre il consumo di marijuana e trasmesse ripetutamente dal 2005 al 2009 (Above The Influence e Be Under Your Own Influence) su più di 3000 studenti di 20 comunità americane ha registrato qualche livello di efficacia (in particolare nei ragazzi tra i 13 e 14 anni, mostrando come circa il 12 per cento di coloro che non avevano mai visto nessuna delle due campagne nazionali ha cominciato a fare uso di marijuana, contro l’8 per cento degli studenti che invece avevano familiarità con entrambe le campagne) grazie soprattutto alla forma scelta per la campagna che trasmette stimoli positivi come modello di benessere anziché solo la periLA COMUNICAZIONE SOCIALE / 67
Figura 2.30. Campagna americana contro l’uso di droga nei giovani, parte del progetto “National Youth Anti-Drug Media Campaign”
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colosità delle sostanze; ma neanche questi dati (che va sottolineato sono meno categorici della prima analisi e non completamente affidabili) possono essere ritenuti soddisfacenti a fronte degli enormi investimenti che ogni anno vengono fatte per queste iniziative. La regia della campagna è stata affidata all’Office of National Drug Control Policy, un’agenzia federale che si è servita delle competenze di diversi collaboratori tra cui la comunità accademica, i grandi studi pubblicitari privati e i media. La campagna è stata diffusa in televisione, radio e stampa coinvolgendo più di 1300 organizzazioni dei media nazionali e locali; sono stati creati siti web appositamente dedicati, l’accesso ai quali era favorito dai link realizzati da molti partner della campagna (come Mtv, Google, Yahoo, ecc.); sono state realizzate diverse partnership con organizzazioni non governative operanti sul territorio, che garantivano la distribuzione di materiale informativo; fu pianificata la distribuzione di materiale informativo nei centri di aggregazione giovanile (discoteche, pub, ecc.) e nei luoghi di lavoro dei genitori. La campagna è stata articolata in tre fasi: nelle prime due si è valutata l’efficacia del messaggio e il grado di esposizione della campagna, mentre nell’ultima si sono verificati gli effetti sugli atteggiamenti dei giovani verso la droga e il loro comportamento. Il target di riferimento erano i giovani tra i 12 e i 18 anni e i loro genitori. A fronte di un’ingente cifra di denaro investita in questa iniziativa (circa un miliardo di dollari), secondo la ricerca svolta dalla Annenberg School for Communication dell’Università della Pennsylvania, la campagna d’informazione contro le droghe è stata un fallimento. I risultati della campagna mostrano come questa non solo non avrebbe raggiunto l’effetto desiderato ma avrebbe anche involontariamente incentivato al consumo coloro che fino a quel momento ne erano rimasti estranei. In termini di diffusione la campagna ha registrato degli ottimi risultati (il 94 per cento dei giovani intervistati ha dichiarato di conoscere bene la campagna pubblicitaria), ma a questo pare non corrisponda nessun impatto significativo sui ragazzi. I dati relativi all’analisi dell’efficacia della campagna sulla modifica degli atteggiamenti e dei comportamenti verso la droga, hanno mostrato che né l’intenzione di usare la marijuana in futuro, né le conoscenze negative sull’uso, né le percezioni sull’idea che si potrebbero fare gli altri sull’uso delle sostanze variano significativamente tra i soggetti esposti e quelli non esposti alla campagna. Per quanto riguarda il comportamento poi, si sarebbe registrato un effetto opposto a quanto prefisso dalla campagna: tra i giovani esposti alla campagna si sono registrati degli incrementi dell’uso di marijuana. Tra coloro non esposti alla campagna, l’81 per cento dichiarava di non avere intenzione di consumare la sostanza, percentuale che è scesa al 79 per cento tra chi assisteva alla campagna tra una e tre volte al mese, fino al 78 per cento tra quelli a cui ne erano esposti più di quattro volte al mese. I giovani capivano dal messaggio pubblicitario che i loro coetanei assumevano droghe e quindi, chi pensava che i coetanei fumassero marijuana, era spinto a cominciare a consumarla per conformarsi al gruppo, come pratica popolare. Queste percezioni distorte hanno accresciuto il fascino verso la marijuana rendendo le persone più suscettibili inclini a provarle mentre quelle che già ne facevano uso ad aumentarne il consumo. Questi comportamenti e credenze hanno anche avuto un effetto catena tra i fratelli/sorelle maggiori verso quelli minori: i primi essendo più interessati ad utilizzare la sostanza dopo l’esposizione facevano da cattivo esempio verso i più piccoli, spinti dal desiderio di emularli. Per quanto riguarda gli effetti sui genitori, gli esiti delle ricerche condotte a
fine campagna sono incerti: da un lato i genitori affermano una maggiore sensibilità sul tema e si dicono più disposti a parlare ai figli della droga e a monitorarne il comportamento; dall’altro però i dati registrati dai figli contrastano con queste affermazioni, non risultando dalle loro risposte nessun maggiore coinvolgimento familiare. Caso studio_Comunicazioni sociali sull’AIDS in Italia. Un altro esempio rilevante che ho ritenuto utile riportare sul tema dell’efficacia della pubblicità sociale riguarda una recente ricerca svolta nel 2009 da Tanzi e Scoscia (cit. in Bosco 2005) sui messaggi realizzati nel corso di vent’anni sul tema dell’AIDS, rapportati anche ai dati forniti dell’Istituto Superiore di Sanità. Ho ritenuto importante riportare queste ricerche sia perché rappresentano un caso italiano di valutazione dell’efficacia della pubblicità sociale, sia perché particolarmente rilevanti per un discorso generico, in quanto l’ambito sanitario è il campo maggiormente sviluppato e maturo su cui agisce ormai da anni la comunicazione sociale ed è quindi significativo per osservarne le sue caratteristiche. L’analisi nasce dalla volontà di indagare se le strategie di comunicazione sociale sull’AIDS hanno avuto qualche riscontro effettivo nella realtà, in particolar modo se sono state in grado di dare una corretta ed esaustiva informazione sul metodo di diffusione del virus HIV e se i messaggi erano stati elaborati e modificati in modo congruente nel corso del tempo. Tanzi e Scoscia hanno preso in esame 85 messaggi realizzati nel corso di vent’anni (facendo una raccolta sistematica dalla prima campagna realizzata nel 1987, di tutte le iniziative veicolate attraverso la stampa, le affissioni e le installazioni presso stazioni e aereoporti) dai tre principali soggetti promotori di campagne sul tema in Italia: il ministero della Salute (72 per cento dei messaggi analizzati), la LILA (21 per cento) e Pubblicità Progresso (7 per cento). L’analisi ha mostrato significative lacune nei contenuti trasmessi e la suddivisione in quattro finestre temporali ha permesso di osservare come il passare
Figura 2.31. Campagna di sensibilizzazione sul tema dell’Aids, Ministero della Salute. Figura 2.32. Manifesto “Stop Aids”, Lila.
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Figura 2.33. Manifesto di sensibilizzazione al rischio di contagio da Hiv, Lila.
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del tempo, non abbia prodotto competenze migliori nella costruzione delle campagne e nella scelta dei messaggi. Meno della metà dei messaggi (43,5 per cento) fornisce indicazioni pratiche, come ad esempio i servizi a cui rivolgersi per maggiori informazioni; solo il 30,6 per cento evidenzia l’importanza del test per la verifica delle proprie condizioni di salute e solo il 18 per cento affronta il tema della discriminazione a cui sono sottoposti gli individui malati. A dispetto della modifica dei metodi di diffusione del virus che oggi evidenziano la crescita del contagio per via sessuale, negli ultimi anni si assiste a una riduzione del riferimento a questa forma di trasmissione del virus nelle campagne sociali: se nel quinquennio 1987-91 se ne parlava nel 55,6 per cento dei casi, in quelle realizzate tra il 2003-07 se ne parla sono nel 20 per cento. I messaggi cambiano nel tempo ma anziché precisare i contenuti, fanno sempre meno riferimento all’unico modo per proteggersi dal virus, ovvero la prevenzione attraverso l’uso del preservativo. Negli ultimi anni infatti questo scompare progressivamente dalle campagne e nell’ultimo periodo preso in analisi, il quinquennio 2003-07, è richiamato nel testo solo dal 6,7 per cento delle campagne (contro il 55,6 per cento del periodo 1987-91) (cfr. Bosco 2005: 37-38). Anche in questi ultimi anni, l’uso del preservativo non ha avuto maggiore visibilità, e anzi, come dimostrano i fatti di cronaca recente relativi alla censura della parola “profilattico” nelle trasmissioni Rai da parte del ministero della Salute (che ha suscitato non poche polemiche, a partire dagli stessi operatori del servizio televisivo), dimostrano come ci sia ancora una resistenza nel trattare questo tema da parte delle istituzioni. E lo dimostra anche una delle ultime campagne trasmesse dal Ministero nel 2009-2010, che in uno spot diretto dal regista Ozpeteck parlavano sull’importanza del test HIV, evitando ancora una volta il tema della prevenzione (cfr. Lalli 2011: 68). A rendere particolarmente preoccupante lo scarso contenuto informativo dei messaggi vi è anche il fatto, dimostrato dai dati dell’Eurobarometro riportati da Bosco (2005), che le conoscenze diffuse tra la popolazione italiana sul tema dell’Aids sono nettamente inferiori rispetto alla media europea. Inoltre un altro elemento di preoccupazione riguarda gli errori commessi dagli esperti e la competenza nella formulazione dei contenuti, come dimostra un’altra ricerca sugli articoli pubblicati dai quotidiani (13.489 articoli comparsi su “la Repubblica”, “La Stampa” e il “Corriere della Sera” dal 1982 al 2000) che mostra come solo nel 65,7 per cento delle notizie su “la Repubblica”, nell’84,6 per cento su “la Stampa” e nel 45,4 per cento sul “Corriere della Sera” sono riportate le fonti delle informazioni scientifiche contenute negli articoli. È stato registrato poi come tutte le testate abbiano riportato più volte delle notizie prive di fondamento (circa 166 articoli che annunciavano scoperte sensazionali non sufficientemente provate e spesso poi smentite), come i continui articoli su un imminente vaccino per l’HIV in realtà mai realizzato. L’informazione dei quotidiani inoltre sembra caratterizzata da alcuni andamenti analoghi a quelli rilevati nei contenuti delle campagne: i dati dimostrano come al crescere dei casi di trasmissione sessuale del virus, diminuisca il contenuto degli articoli che parlano proprio di questa modalità di contagio e in generale nel tempo, nonostante la ripresa dei contagi, il tema tende a scomparire dai giornali (la ricerca riporta come negli ultimi due anni in cui è avvenuta la raccolta degli articoli, 1999-2000, su tutte le notizie che trattavano il tema della salute solo l’8 per cento si occupavano di AIDS, contro il 33,3 per cento del 1992). Il quadro che emerge da queste ricerche è che anche in Italia non solo le campagne sociali informative non adempiono adeguatamente ai loro scopi ma
dimostrando anche di essere dannose, tralasciando alcuni aspetti rilevanti rispetto allo stato di fatto delle cose e contribuendo a dare così un’informazione fuorviante del problema. Inoltre la scarsa enfasi sui metodi di prevenzione degli ultimi decenni è fortemente preoccupante, soprattutto per le nuove generazioni che non sono state esposte alle campagne precedenti e quindi possono presentare un livello di conoscenze sul tema ancora minori.
2.5. CRITICITÀ DELLA COMUNICAZIONE SOCIALE IN ITALIA Il quadro che emerge da questa analisi è tutt’altro che positivo e mette in evidenza diversi nodi problematici che è necessario risolvere se si intende realmente contribuire al benessere della società attraverso la comunicazione sociale. In più punti infatti sono stati messi in mostra difficoltà e limiti di questo genere comunicativo che ho deciso di sintetizzare in alcuni macro-problemi che riporto qui di seguito.
2.5.1. SPETTATORI ANZICHÉ CITTADINI Il primo punto critico, a mio avviso, è la radicata concezione di pensare ancora alla comunicazione in generale, ma soprattutto a quella sociale, come una forma di comunicazione informativa/persuasiva unidirezionale promossa da un soggetto (a diverso titolo autorevole) verso una massa (o gruppo nel caso di campagne più mirate) di destinatari passivi. In realtà, come visto in precedenza nel capitolo 1, le persone sono stanche delle istituzioni, dei soggetti promotori, delle aziende e delle loro comunicazioni che non tengono conto di quali sono le loro capacità e volontà e pretendono maggiore rispetto per lo status di individui/cittadini che rivestono nella nuova società. Pretendono un dialogo e un maggior coinvolgimento da parte di questi soggetti, e come testimoniano casi studio esteri, se vengono provvisti di mezzi idonei, sono ben disposti a collaborare in prima persona per una causa comune. L’epoca che Cohen descrive come intrisa dalla «fede illuministica del potere della conoscenza» (citato in Bosco 2005: 251) basata sul concetto che “se la gente sapesse, agirebbe”, è terminata. Non basta presentare un monologo per convincere la gente al cambiamento. I soggetti promotori devono scendere dal piedistallo, mettersi a livello del proprio pubblico e dialogare con esso.
2.5.2. LA FIDUCIA NEI SOGGETTI PROMOTORI Nel campo della comunicazione la fiducia in chi veicola il messaggio è un aspetto fondamentale per la buona riuscita della comunicazione. Nella comunicazione sociale lo è, se possibile, in maniera ancora maggiore, dal momento che il suo ruolo è quello di comunicare problemi di interesse pubblico e di farsi portavoce di cause che richiedono particolare attenzione e sostegno. Purtroppo in Italia, i dati dell’Edelman Trust Barometer 2009 (cit. in Bosco 2011: 26) che rivela l’andamento della fiducia nel tempo intervistando campioni di opinion leader in diversi paesi del mondo, dimostrano che le istituzioni itaLA COMUNICAZIONE SOCIALE / 71
liane godono oggi di bassa credibilità: la fiducia nel governo è al 32 per cento tra gli intervistati e quella nei media al 33 per cento, molto inferiore a quanto rilevato negli altri paesi. L’Italia è inoltre stato il paese nel quale tra il 2008 e il 2009, si è registrato il maggiore calo di credibilità nelle imprese, scendendo dal 41 per cento al 27 per cento. L’unico ambito positivo è il terzo settore, dove si registra una fiducia del 83 per cento, dato superiore di qualche decina di punti rispetto agli altri paesi. Quello che si evince quindi è un contesto non troppo favorevole allo sviluppo di campagne comunicative da parte delle istituzioni e alla diffusione di messaggi che godano di adeguata credibilità. Questa sfiducia è il risultato anche delle profonde crisi che hanno attraversato la politica italiana negli ultimi decenni (vicende giudiziarie che hanno portato alla luce una diffusa corruzione e contatti con la criminalità organizzata, scandali sessuali, ecc.) e dalla profonda crisi economica-finanziaria che ha interessato le istituzioni pubbliche e private nel loro complesso. È indispensabile quindi un rinnovamento dell’immagine istituzionale a partire dai suoi organi di governo e una migliore comunicazione con il cittadino, riflettendo sull’utilizzo di nuovi canali. Per quanto concerne la fiducia della popolazione nei confronti delle aziende che si impegnano nella comunicazione sociale e nella responsabilità sociale aziendale, il giudizio complessivo sul comportamento di queste sta migliorando, anche se rimane un rilevante pregiudizio sulle motivazioni che spingono il mondo imprenditoriale verso questo tipo di comunicazioni: il 76 per cento degli italiani infatti, è convinto che prevalgano le esigenze di immagine piuttosto che la volontà di contribuire al bene della società. Contemporaneamente cresce l’attenzione per il consumo sostenibile e la condotta etica aziendale, insieme alla domanda di una comunicazione onesta e trasparente delle aziende sul loro operato (cfr. Bernocchi 2011: 95). Riguardo le organizzazioni non profit, i dati che emergono dall’indagine GFKEurisko condotta per l’Istituto italiano della donazione, il cittadino italiano è mediamente ben disposto alla donazione e di conseguenza il livello di fiducia verso le associazioni è abbastanza alto. Il 52 per cento degli italiani si divide tra donatore regolare (33 per cento) e donatore saltuario (19 per cento). Tutti i donatori sono però accomunati da una domanda di garanzie sulla correttezza e l’efficienza delle associazioni che promuovono la raccolta dei fondi (affidabilità, informazione regolare, trasparenza) e sulla destinazione delle proprie donazioni (cfr. ivi:96).
IL PROBLEMA DI UN RAPPORTO POCO DIALOGICO CON IL CITTADINO PORTA COME CONSEGUENZA LA SCELTA DI TEMI CHE NON RISPECCHIANO LE REALI PREOCCUPAZIONI DEL POPOLO
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La priorità dell’agenda pubblica. Il problema di un rapporto poco dialogico con il cittadino porta come conseguenza la scelta di campagne sociali i cui temi possono essere ritenuti meritevoli di attenzione da parte dei soggetti promotori, ma che in realtà poco rispecchiano le vere preoccupazioni del popolo e le sue priorità sui temi su cui dibattere. Secondo le ricerche Eurisko del 2008 (Social Trends, Aprile 2008 nr. 104) le dieci questioni più importanti che il Governo dovrebbe affrontare in questo momento secondo gli intervistati sono in ordine di importanza: lavoro/disoccupazione, tasse, salari/pensioni, economia, criminalità, sanità, giustizia, immigrazione, ambiente, scuola/università. Colpisce allora come nella pubblicità sociale, le problematiche inerenti al lavoro siano quasi assenti (a parte la prevenzione agli infortuni, che rientra nella comunicazione della salute) mentre la disoccupazione e la precarietà sono al vertice delle preoccupazioni degli italiani. Anche i temi delle pensioni, della criminalità, dell’economia sono molto sentiti e invece quasi assenti nella comunicazione sociale. L’unica tematica che ha una posizione di rilievo tra
le preoccupazione del popolo e viene anche trattata in modo rilevante nella comunicazione sociale è la sanità. Questo non vuol dire che le campagne a tematiche differenti da quelle assegnate all’agenda politica debbano essere considerate per forza meno importanti. Però la comunicazione sociale istituzionale, dovrebbe tenere conto di questi dati per indirizzare meglio i fondi destinati alla comunicazione sociale e scegliere temi di maggior rilievo, per ottenere una più alta probabilità partecipativa da parte del suo pubblico.
2.5.3. SCARSE VALUTAZIONI E INVESTIMENTI INGIUSTIFICATI Come visto in precedenza, la fase di valutazione dell’efficacia delle campagne di comunicazione è un momento estremamente rilevante per la pianificazione della campagna stessa e lo sviluppo di quelle future. Purtroppo in Italia, soprattutto a causa dei pochi fondi disponibili alla comunicazione sociale, questa fase è il più delle volte ignorata. Il fatto di non avere dei dati sull’efficacia delle campagne comunicative ha anche come risultato, una generale sovrastima di queste da parte degli enti promotori. Ma anche di fronte all’evidenza dell’inefficienza di determinati mezzi e formati comunicativi, molti continuano a investire nello stesso settore. Questo discorso vale soprattutto per gli enti pubblici. Nonostante la crisi economica che sta coinvolgendo il paese negli ultimi anni e i relativi tagli alle spese, le cifre destinate dal Governo alla realizzazione di campagne di comunicazione sociale sono in realtà abbastanza consistenti. Nel 2009 lo stanziamento complessivo ammontava a 28 milioni di euro, suddivisi tra campagne realizzate dal Governo (11milioni), dal ministero per le Pari opportunità (7,5 milioni), dal Ministero della Salute (6,5 milioni), a cui si aggiungono i fondi del ministeri del Lavoro e delle Politiche sociali (3,3 milioni) finanziati dal Fondo europeo per l’integrazione di cittadini da parte di paesi terzi. Anche i dati relativi al numero di campagne realizzate da Palazzo Chigi dimostrano questo trend alla crescita: 53 campagne realizzate, il doppio rispetto all’anno precedente. Le iniziative realizzate sono poi centrate su forme comunicative generalmente tradizionali, rivolte alla popolazione nel suo complesso e poco inclini alla sperimentazione. Pur essendo legittima la motivazione che spinge gli enti istituzionali a promuovere la comunicazione sociale, anche a fronte di maggiori investimenti è ormai dimostrato che queste forme di comunicazione basate sulla pubblicità sociale non sono efficienti nella trasmissione dei messaggi né soprattutto nel cambiamento di comportamenti (che è il fine ultimo di molte campagne) (cfr. Bosco 2011: 30-31). Lo spreco di queste risorse in pubblicità di poca efficacia, soprattutto in periodi di crisi, portano a riflettere su un necessario cambio di approccio rispetto a questo tema e a investire in nuovi mezzi che possono essere maggiormente coinvolgenti ed efficaci.
PER MOTIVI DI CARATTERE ECONOMICO, SPESSO DOPO IL LANCIO DI UNA CAMPAGNA SOCIALE NON VIENE FATTA ALCUNA INDAGINE VALUTATIVA PER VERIFICARNE L’EFFICACIA
2.5.4. VISIBILITÀ GENERALISTA Come riporta Pina Lalli nel suo contributo nel Secondo rapporto sulla comunicazione sociale in Italia (2011), si ha l’impressione che nello scenario attuale tenda a prevalere un tipo di comunicazione sociale basato sull’imperativo della visibilità generalista, una comunicazione cioè meno controversa possibile, nel rispetto della generalità del pubblico, ma che ha il difetto di essere poco LA COMUNICAZIONE SOCIALE / 73
efficiente e dispersiva. Quello su cui invece si dovrebbe mirare, è «l’imperativo strategico di comprendere, informare, realizzare uno scambio effettivo e mirato con interlocutori affini agli obiettivi rilevati» (ivi: 70). Tenendo sempre a mente che nessun tema può essere considerano non controverso, il fatto di trattare e diffondere comunicazioni sociali su temi controversi non deve essere necessariamente considerato un tabù. Invogliare (e supportare) la creazione di dibattiti pacifici attorno a questi temi è infatti una mossa strategica per portare le persone appartenenti alla stessa società a dialogare, confrontarsi, riflettere e rivedere i “valori” che rappresentano il collante sociale tra gli individui appartenenti alla società stessa. La comunicazione sociale si presuppone tratti tematiche di interesse collettivo; è quindi sensato pensare che questi temi su cui discutere o da condividere possano venire direttamente dai soggetti interessati, attraverso un loro maggiore coinvolgimento e collaborazione, rivedendo quindi anche il rapporto che intercorre tra i soggetti della comunicazione sociale e le persone.
2.5.5. SOPRAVVALUTAZIONE DELLE STRATEGIE PERSUASIVE DI MARKETING Un altro aspetto di criticità lo riveste la sopravvalutazione delle tecniche persuasive su cui si sviluppano il marketing sociale e la pubblicità sociale. Vi è infatti, come afferma Lalli (2011) «la tendenza a spostare l’asse dell’attenzione su caratteristiche psichiche, a causa della sopravvalutazione degli aspetti strategici della comunicazione sociale volti a influenzare i singoli individui, […] nonostante sia scarsa la possibilità di verificare il raggiungimento degli obiettivi» (ivi: 62). Prevale insomma la tendenza, nella letteratura di marketing sociale, a una estrema sopravvalutazione dei fattori ritenuti interiori che determinerebbero i comportamenti. Così come avviene per la comunicazione commerciale anche quella sociale è vista come un insieme di strumenti persuasivi volti a modificare idee, rappresentazioni, atteggiamenti e dunque di conseguenza comportamenti, sulla base di modelli teorici del processo di convincimento (come ad esempio quello di Lavidge e Steiner) e di persuasione, che sostengono vi sia un collegamento lineare, a catena, tra i primi e i secondi. Secondo queste teorie, tutte le comunicazioni commerciali, che hanno come fine la vendita, devono far procedere l’individuo attraverso quattro livelli in cui dalla non consapevolezza si passa alla consapevolezza, comprensione, convinzione e azione (cfr. Fabris 1992). Per avviare questa catena di effetti, è quindi di primaria importanza, nelle tecniche consolidate, la capacità di “infiocchettare” il pacchetto-messaggio, destinato al target che si vuole colpire, nel modo più appropriato, per emergere rispetto alla moltitudine di pacchetti-messaggi che contemporaneamente arrivano al destinatario in maniera più o meno accattivante dalla concorrenza (cfr. Lalli 2011). Tutto questo fa riferimento a una situazione di base dove il tema trattato non è controverso ed esiste già una predisposizione all’acquisto, per cui l’obiettivo della comunicazione non è tanto generare dal nulla un desiderio quanto indirizzare questo verso una determinata marca. Nella comunicazione sociale invece, i temi sono sempre in qualche misura controversi e, soprattutto tra il pubblico che attua un comportamento considerato sconveniente e che quindi si vuole convincere a cambiare, non esiste una predisposizione, un desiderio nel farlo. Anche presa consapevolezza del pericolo del suo comportamento, l’ammonizione ad esempio sul “non fumare” (anche se correlato da informazioni scien74 / IL GIOCO COME MODELLO DI COMUNICAZIONE
tifiche trasmesse da una fonte emittente che rappresenta un’istanza pubblica o collettiva, come la salute e il benessere personale), da sola non è sufficiente a spingerlo all’azione di smettere. Può avere quindi dei buoni risultati in termini di visibilità, forse riuscire ad informare e a trasmettere consapevolezza, ma una comunicazione basata su queste teorie, nell’ambito sociale, raramente potrà portare a un cambiamento di un atteggiamento, comportamento o idee.
2.5.6. USO PRIVILEGIATO DELLA PUBBLICITÀ Spesso l’inefficacia di una campagna comunicativa è determinata anche dal fatto che gli obiettivi che si vuole raggiungere sono superiori alla possibilità del mezzo che viene scelto per comunicare. È il caso della pubblicità sociale, strumento privilegiato per la diffusione di tematiche sociali allo scopo di modificare un comportamento o atteggiamento, che in realtà possiede numerosi limiti per cui tale obiettivo rimane spesso irraggiungibile. Questo non vuol dire che la scelta dello strumento pubblicitario sia errata, occorre solo rivalutare il peso che questa può svolgere all’interno di una comunicazione sociale necessariamente integrata ad altri mezzi. Il merito delle pubblicità sociali è senza dubbio quello di tentare, talvolta con successo e talvolta meno, di portare all’attenzione pubblica una determinata criticità sociale, con l’intento di inserire il tema nell’agenda dell’opinione pubblica e quindi di renderlo attuale. Questo processo è stato definito da Fabris «problematizzazione dell’ovvio quotidiano»: temi precedentemente poco percepiti o incapaci di superare la soglia di attenzione e suscitare la riflessione del grande pubblico, possono trasformarsi in elementi importanti e attuali del senso comune (cfr. Gadotti 2000: 407). È dunque all’interno di questo raggio di azione che va valutata l’efficacia e l’utilità della pubblicità sociale: se riesce a trasmettere in modo efficace informazioni o a stimolare la curiosità piuttosto che produrre un reale cambiamento sociale. L’utilizzo di questo strumento in ogni caso, necessita di particolari accorgimenti e va progettato in modo professionale. La sua inefficacia può essere infatti causata da diversi fattori, a partire da come viene pensata la sua forma. Tecniche e linguaggi della pubblicità sociale non sono gli stessi della pubblicità commerciale. Un problema molto diffuso è la tendenza a pensare alla comunicazione sociale come un nuovo prodotto a cui la pubblicità si può applicare, giustificando quindi la semplice traslazione dei principi e metodi della pubblicità commerciale a quella sociale. Concetti di retorica e persuasione così come vengono intesi e trattati nella pubblicità commerciale sono inapplicabili a tematiche sociali che vertono su idee, comportamenti e non prodotti. Né è applicabile la creazione del “desiderio” attraverso il sistema narrativo utilizzato nelle pubblicità commerciali. Inoltre le variabili necessarie affinché il messaggio venga anche solo percepito dai destinatari, se sono già critiche nella pubblicità commerciale, lo sono in maniera maggiore in quella sociale: il messaggio sociale non ha una “merce” facile da reclamizzare: idee al servizio della collettività, richieste di sostegno a categorie svantaggiate, divieti e negazioni di comportamenti, abitudini e atteggiamenti consolidati nel tempo, proposte di azioni onerose che devono fare i conti con la pigrizia e la difficoltà delle persone al cambiamento. […] Le difficoltà del processo persuasorio che interessano la comunicazione di massa, in parte legate al destinatario della comunicazione (esposizione e memorizzazione selettiva, decodifica aberrante…) in parte ad
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altre variabili che intervengono nel processo stesso (credibilità ed autorevolezza della fonte…) sono rese ancora più problematiche nella comunicazione sociale. (Gadotti 2001: 407-408)
LE DIFFICOLTÀ DEL PROCESSO PERSUASORIO CHE INTERESSANO LA COMUNICAZIONE DI MASSA, SONO RESE ANCORA PIÙ PROBLEMATICHE NELLA COMUNICAZIONE SOCIALE. Gadotti, 2001
Per superare questi ostacoli la pubblicità sociale utilizza allora erroneamente una serie di linguaggi, sempre presi dall’esperienza commerciale, che possono far leva su diversi aspetti del destinatario (le emozioni, la coscienza, ecc.) ma ancora una volta, questi si basano su meccanismi di persuasione che non sono applicabili totalmente a queste tipologie di comunicazione. Se infatti è “normale” che la pubblicità tradizionale non guardi troppo per il sottile quando decide di usare certi sistemi di (dis)valori per raggiungere i suoi fini (motivo tra l’altro per cui fu fortemente criticata in passato), queste procedure non possono che essere stigmatizzate quando invece si tratta di dover promuovere interessi generali e reali (cfr. Fabris, in Gadotti 1992). Ma quel che è peggio è che anziché limitarsi a non mostrare una versione del mondo “patinata” che caratterizza la pubblicità tradizionale, quella sociale spesso si spinge oltre, mostrando o evocando una realtà dove prevale morte, angoscia e malattia. È indubbia la drammaticità dei temi che tratta, ma non per questo è giustificato parlarne sempre in toni catastrofici. Il ricorso alle campagne shock è un trend in continuo aumento, anche a fronte delle ricerche scientifiche che dimostrano la sua scarsa efficienza. Al di là dei meccanismi di rifiuto ampiamente descritti, è ormai provato dagli studi sviluppati nel campo delle neuroscienze il fenomeno definito shock fatigue, cioè la cancellazione del messaggio che supera una certa soglia di fatica, di accettazione. Superata quella soglia il messaggio è come se non fosse mai arrivato (cfr. Caprara, Fontanot 2005). Un ulteriore rischio nel mostrare determinati effetti nocivi in modo crudo e realistico può essere quello di sviluppare in determinati soggetti, una specie di attrazione verso i comportamenti ad alto rischio finendo per incoraggiare questi comportamenti negativi, percepiti come sfida verso se stessi dal destinatario. Benefici esigui a fronte di alta richiesta di costo. Un altro elemento (su cui si struttura il messaggio pubblicitario tradizionale) di forte limite alla pubblicità sociale è che i benefici legati all’assunzione di un atteggiamento o di un comportamento non sono immediatamente percepibili agli occhi del destinatario della comunicazione e di primo impatto collegati a un benessere sociale e solo in secondo luogo a quello individuale, mentre i costi percepiti (non solo monetari ma anche psicologici e di tempo) associati all’idea o al comportamento che si vuole fare adottare appaiono di conseguenza molto superiori. Rischio di banalizzazione. Le questioni affrontate nella comunicazione sociale sono molto complesse e richiedono informazioni dettagliate. La natura della pubblicità però richiede un messaggio, breve, semplice, spesso didascalico e la comunicazione per spot rischia quindi di banalizzare o semplificare eccessivamente il problema. Media. Un altro grosso problema della pubblicità sociale è relativo ai media utilizzati dalle campagne di comunicazione. Bisogna sottolineare ancora una volta come in Italia, la comunicazione sociale sia percepita quasi esclusivamente come pubblicità e quindi i mezzi di cui si serve sono quelli già adottati dalla pubblicità tradizionale: televisione, stampa, radio, affissioni, cinema e internet. Da quanto emerge dai dati della Nielsen Media Research del 2009, si può vedere che in base agli investimenti fatti dai tre soggetti promotori finora
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presi in esame, le campagne ministeriali utilizzano maggiormente il canale televisivo, (45 per cento dell’investimento totale), e la stampa (41,4 per cento delle risorse), seguito dagli altri medium che hanno un impiego piuttosto limitato. Nelle campagne sociali gratuite si vede invece come a costituire il medium più rilevante sia la stampa (66,8 per cento), seguita dalla televisione (28,1 per cento) e percentuali ancora meno rilevanti per gli altri media. Infine le campagne sociali a pagamento vedono la televisione svolgere un ruolo marginale (9,2 per cento), mentre la stampa ottiene gli investimenti maggiori (61,3 per cento), e anche Internet ha un posto di rilievo tra i mezzi privilegiati (25,7 per cento) (cfr. Bernocchi 2011: 92-93). Tuttavia è interessante notare come a dispetto delle conoscenze acquisite e condivise dalla vasta letteratura sulla comunicazione, che evidenziano l’importanza di adottare modalità di comunicazione integrata per ottenere dei risultati efficienti, la gran parte delle iniziative di comunicazione sociale si sviluppa su un unico medium (spesso anche con investimenti limitati). Se si prendono in esame il totale delle campagne sociali del 2009, si può vedere che addirittura il 73 per cento degli annunci è veicolato attraverso un solo mezzo, il 14 per cento ne utilizza due, mentre le campagne con tre, quattro, cinque, sei media sono una rarità. La stessa analisi estesa su sei anni, ha confermato che si tratta di una vera e propria costante. Da questa situazione emerge una seconda problematica legata ai media, ovvero la forte competizione tra i soggetti promotori per avere accesso agli spazi. Inoltre, a dispetto della rilevanza sociale del tema trattato, spesso gli spazi media vengono concessi a seguito di patti tra associazioni, fama del soggetto e fondi di cui dispone, avendo come conseguenza quella di influenzare le tematiche che entrano nell’agenda pubblica non in vista d’importanza ma di forza del soggetto promotore di emergere. Questo potere spesso è legato alla fama del soggetto e dai fondi che dispone per comprare gli spazi. Molti temi molto più urgenti spesso vengono tagliati fuori dai mass media proprio per questa ragione. È quindi lecito chiedersi se la competizione tra emittenti (basata su risorse economiche per quelle a pagamento o risorse di lobbying per quelle gratuite) sia una soluzione accettabile.
2.6. ASPETTI POSITIVI AI QUALI MIRARE L’analisi precedente e la messa a fuoco delle criticità che oggi ostacolano la buona riuscita di una comunicazione sociale efficiente, mi hanno portata a interrogarmi su quali possano essere allora alcuni elementi che il committente della comunicazione e il comunicatore stesso sono tenuti a prendere in considerazione nel percorso di realizzazione di una comunicazione sociale efficiente Puntare su coinvolgimento e collaborazione. A mio giudizio questo deve essere l’imperativo su cui deve ruotare l’intera comunicazione sociale. Solo attraverso un vero coinvolgimento, non solo emotivo ma concreto, dei destinatari è possibile convincere e interessare le persone attorno a determinati temi sociali e dotarli di strumenti necessari a collaborare per il raggiungimento di un fine comune. Collaborazione e coinvolgimento non solo tra singolo individuo e soggetto promotore ma anche tra gli individui stessi. Come affermano diversi autori, la comunicazione sociale «è chiamata a in-
COINVOLGIMENTO E COLLABORAZIONE DOVREBBERO ESSERE I DUE IMPERATIVI ATTORNO AI QUALI SVILUPPARE OGNI PROGETTO DI COMUNICAZIONE SOCIALE
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coraggiare e sostenere il patrimonio collettivo costituito e alimentato da reti sociali» (Morcellini, Mazza citato in Bernocchi, Gadotti 2011: 103). In questo senso esso esprime il capitale sociale della comunità svolgendo un importante ruolo di acceleratore di interazioni. Nuovi ruoli degli attori sociali e nuovi obiettivi di comunicazione. In una realtà complessa come la nostra, è indispensabile rivedere il rapporto tra i soggetti promotori e i destinatari e ridefinire i ruoli che questi rivestono all’interno della società stessa. Bisogna pensare ai soggetti come attori sociali all’interno della società, con cui dialogare, confrontarsi e collaborare per migliorare la società stessa. Per i soggetti promotori è essenziale quindi riacquistare innanzitutto la fiducia verso i destinatari, attraverso la coerenza, la professionalità, la serietà di un impegno concreto e un’attenta attività di comunicazione. L’obiettivo della pubblica amministrazione sarà quindi quello di promuovere con risolutezza una comunicazione sociale intesa come canale di promozione dei diritti/doveri dei cittadini, “scendere in piazza” e creare nuove vie di comunicazione bidirezionali per avvicinarsi al popolo e rispondere alle sue richieste. L’obiettivo di Pubblicità Progresso sarà quello di interpretare con forza il ruolo di leader che si è conquistata nel tempo, dando impulso a progetti di comunicazione innovativi ed esemplari. L’obiettivo delle organizzazioni non profit sarà quello di promuovere oltre che alle campagne di raccolta fondi, anche comunicazioni volte a sensibilizzare ed educare su determinati temi e favorire la costruzione di un’opinione pubblica informata e consapevole. Le aziende dovranno definitivamente aprire le porte alla responsabilità sociale, coerente, onesta, continuativa offrendo ai consumatori prodotti eticamente corretti e incentivando in essi una maggiore sensibilità su questi aspetti. Una grande sfida sarebbe poi quella di creare una rete efficiente di collaborazioni tra tutti questi soggetti, specialmente tra quelli che trattano temi generici di stessa natura. Il ruolo dei cittadini invece, sarà quello di esercitare pienamente il proprio diritto/dovere di giudicare e rispondere criticamente alle proposte che da più parti li invitano alla partecipazione, divenendo soggetti attivi, veicoli essi stessi di messaggi sociali e primi costruttori del proprio futuro (cfr Gadotti, Bernocchi 2010). Promuovere la fase di ricerca e valutazione. Per progettare una comunicazione efficiente è indispensabile innanzitutto svolgere un’approfondita ricerca preliminare sul tema da trattare e l’ambito in cui verrà inserita la comunicazione. Per fare questo, soprattutto nella comunicazione sociale, può essere molto utile chiedere il supporto di specialisti del settore trattato. La ricerca sul campo è poi uno strumento molto utile per cercare di prevedere, nel modo più plausibile, le risposte del pubblico, permettendo quindi di fare le scelte più coerenti al fine di ottenere una comunicazione efficace. Come ricorda l’ampia letteratura a riguardo, è importante «promuovere ricerche sui destinatari della comunicazione sociale per individuare, se non un target definito, un target primario ovvero un gruppo numericamente più consistente cui indirizzare preferibilmente il messaggio» (ivi: 167); da cui poi in un secondo momento, può partire una diffusione più estesa dove i destinatari primari diventano essi stessi veicolo di trasmissione del messaggio all’interno della propria rete sociale. È altrettanto importante però, verificare che queste scelte siano effettivamente valide, sia in fase di progettazione che a una fase successiva. È essenziale quindi svolgere una serie di valutazioni sull’efficacia della comunicazione, sia per attestare la “bontà” della comunicazione svolta, 78 / IL GIOCO COME MODELLO DI COMUNICAZIONE
sia per avere delle preziose indicazioni per lo sviluppo delle comunicazioni successive, in un ottica di continuo miglioramento. Collegare bene individuale a bene collettivo. Come più volte sottolineato «la comunicazione commerciale è comunemente collegata ai bisogni individuali che possono essere soddisfatti attraverso un atto d’acquisto» (Gadotti, Bernocchi 2010: 165). La comunicazione sociale invece propone azioni e comportamenti che non rispondono a bisogni concreti e materiali e al contempo richiedono uno sforzo o un impegno in prima persona. I benefici legati all’attuazione del comportamento sociale suggerito dalla comunicazione sociale sono generalmente condivisi (nel senso che sono legati al bene collettivo) e spesso intangibili, non immediati (i benefici sono ritardati nel tempo, si vedranno solo in un futuro più o meno lontano). Di conseguenza la motivazione all’azione risulta meno forte rispetto a quella su cui si fa leva nella comunicazione commerciale, ed è quindi opportuno evidenziare il più possibile anche i benefici per l’individuo, oltre a quelli collettivi, attraverso la leva che in letteratura è definita “egoismo sublimato” (Gadotti 2001). «Sottolineare il legame, anche non immediato, tra il bene collettivo e il bene individuale contribuisce a motivare all’azione le persone che sono così potenzialmente meglio disposte a adottare un comportamento “virtuosamente egoistico”» (Gadotti, Bernocchi 2010: 165), alla constatazione del fatto che aiutare gli altri ha un beneficio anche per se stessi, soprattutto in termini di gratificazione cognitiva. Cercare nuovi linguaggi più consoni all’obiettivo prestabilito. La responsabilità che ha la comunicazione sociale nei confronti dei cittadini è notevolmente superiore rispetto a quella che si può imputare alla pubblicità di un prodotto (cfr. ivi: 170). Per questo motivo è un errore servirsi semplicemente delle tecniche e dei linguaggi della comunicazione tradizionale, ma bisogna invece puntare sulla sperimentazione di vie più consone alla caratteristica sociale che riveste il messaggio di questo particolare tipo di comunicazione. È indispensabile una maggiore attenzione (e minore superficialità) sia da parte di chi la promuove, che da chi la realizza, affinché si sviluppi una «comunicazione responsabile ed efficace al tempo stesso, sulla base di una solida base di ricerche, studi e approfondimenti, piuttosto che di sensazioni e pareri soggettivi» (ivi: 171). Scegliere strategie comunicative integrate. Dall’analisi svolta è evidente che la strategia finora utilizzata dai promotori della comunicazione sociale di fare quasi esclusivamente uso del mezzo pubblicitario per promuovere le proprie cause sociali è inefficiente. La pubblicità può essere un utile strumento per ottenere visibilità, ma se si vuole perseguire come obiettivo quello di far cambiare idee e comportamenti, è necessario sviluppare anche altri tipi di comunicazioni su diversi mezzi e operazioni integrate più coinvolgenti. Se infatti la comunicazione sociale, nelle forme classiche descritte, non potrà sparire, è certo che dovrà essere affiancata da altri mezzi, sempre più interattivi, che permetteranno maggiore partecipazione dei destinatari al dibattito sulle questioni di cui la comunicazione sociale si fa portatrice. Non va dimenticato inoltre che l’utilizzo combinato di più mezzi permette di avere maggiori possibilità di raggiungere i propri destinatari, adeguarsi al loro modo eterogeneo di fruizione della comunicazione, acquisizione di informazioni e condivisione dei messaggi; mantenere attiva e continua l’attenzione sul LA COMUNICAZIONE SOCIALE / 79
Figura 2.34. Guerrilla advertising per sensibilizzare le persone sul problema dello smog ad Hong Kong, Friends of the Earth,2007.
tema proposto e fornire strumenti ad hoc per ottenere azioni concrete attraverso il coinvolgimento diretto del destinatario. Per superare il problema del budget economico limitato di cui spesso i singoli soggetti promotori dispongono per la comunicazione, una buona strategia è quella di unire le proprie forze a quelle di altri soggetti, per realizzare delle campagne collettive su un singolo tema. Questo oltre ad avere un vantaggio economico, ha anche diversi aspetti positivi come la possibilità di avere maggiori competenze e conoscenze di cui avvalersi nella progettazione della comunicazione, maggiore capacità contrattuale nella richiesta di spazi gratuiti sui media per la parte legata alla promozione pubblicitaria, maggiore autorevolezza nei confronti dei destinatari, possibilità di realizzare comunicazioni continuative sul lungo periodo, ecc.
2.7. LE NUOVE FRONTIERE DELLA COMUNICAZIONE SOCIALE La comunicazione sociale com’è apparsa finora non gode di una luce positiva: nonostante i grossi investimenti, soprattutto da parte delle istituzioni e delle aziende internazionali e dei grossi enti non profit, il campo è attraversato da molte ambiguità. La comunicazione è fossilizzata su vecchi concetti e tecniche e non riesce ad ottenere dei risultati soddisfacenti. Per fortuna però, accanto a questa corrente generale, anche in Italia si inizia ad assistere alla nascita di nuove forme comunicative che, prendendo esempio dalle esperienze internazionali e facendo leva sulla crescente forza delle reti sociali nel contesto attuale, tentano di approcciarsi al tema in modo originale, attraverso l’uso di linguaggi innovativi, ludici, spiazzanti e ironici. Queste forme di comunicazione, racchiuse sotto il termine “unconventional advertising”, si fondano sui principi del guerrilla marketing, dove originalità, attacco, sorpresa, spiazzamento, mimetizzazione, mirano a coinvolgere le persone senza risultare invadenti. In pratica, imitano le forme di comunicazione dal basso, e a differenza della comunicazione tradizionale non interrompe lo spettatore impegnato nell’intrattenimento o nell’informazione ma si presenta essa stessa come una forma ludica o come un originale spunto di riflessione […]; definisce la propria efficacia non nei termini della quantità immediata di utenti raggiunti ma valorizza la qualità sociale dei messaggi. (Peverini, Spalletta 2009: 80-81)
Questo tipo di comunicazione “colpisce” il destinatario in modo inaspettato, si inserisce all’interno del vissuto quotidiano, servendosi di numerose tecniche non utilizzate generalmente dalla comunicazione tradizionale, come installazioni, stikers, manipolazione di oggetti con cui quotidianamente veniamo in contatto (fermate del bus, tombini, ascensori, cestini, ecc.), eventi ambientali, happening, ecc. A volte utilizzano i mezzi tradizionali ma reinventati in modo originale: per esempio un’affissione può diventare, con determinati accorgimenti, un elemento che interagisce con l’ambiente, che lo circonda o che evolve nel tempo mostrando il messaggio che si vuole trasmettere, come la campagna promossa da Friends of the Earth ad Hong Kong per sensibilizzare i cittadini sul problema dell’inquinamento ambientale. Altre volte invece, è richiesta l’interazione diretta dei passanti, come è avvenuto per una nota campagna brasiliana sulla prevenzione all’Aids, che invitava i passanti a prendere i preservativi di cui era composta la scritta “AIDS” dell’annuncio stesso. 80 / IL GIOCO COME MODELLO DI COMUNICAZIONE
2.7.1. LA COMUNICAZIONE UNCONVENTIONAL IN ITALIA Questi tipi di comunicazioni in ambito sociale sono ancora una rarità nella nostra realtà nazionale. Uno dei pochi esempi di comunicazione non convenzionale di questo tipo sul tema sociale in Italia è stato un flashmob, denominato Condom Mob, promosso da CESVI e dall’Università IULM di Milano per sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema della lotta all’AIDS. Centinaia di giovani si sono ritrovati nella piazza di fronte all’università con l’obiettivo di far entrare cento persone dentro un enorme profilattico trasparente, creando un evento di sensibilizzazione veicolato dal semplice messaggio “Stop AIDS”. L’iniziativa ha raccolto migliaia di persone sul territorio, grazie soprattutto al tam tam su Facebook e sul social network dell’associazione. Il flash mob inoltre è stato filmato e caricato su YouTube, ottenendo un grande successo (65.000 visualizzazioni fino ad oggi) e una forte copertura mediatica: se ne è parlato alla tv, alla radio, sulla carta stampata fino al web, passando attraverso siti, blog, forum e social network. Un’altra iniziativa sociale non convenzionale realizzata in Italia, degna di nota per il grande successo ottenuto, è l’esperienza svolta a Milano e Rovereto nel 2003, chiamata “Dialogo nel buio”. In sostanza si trattava di una mostra sensoriale, da visitare completamente al buio sotto la guida di un non vedente, per sensibilizzare, far conoscere e in un certo modo far provare ai visitatori la condizione di cecità e far comprendere quali sono le emozioni, le difficoltà, le sensazioni che un non vedente prova quotidianamente. Il percorso, della durata di circa un’ora, si svolgeva attraversando alcune stanze che riproducevano ambienti diversi, dove i visitatori erano invitati a scoprire un altro modo di “vedere”, fatto attraverso gli altri sensi. L’ultima tappa era un bar dove, sempre al buio, si parlava dell’esperienza vissuta con la propria guida e i compagni di viaggio. Questi tipo di eventi in Italia sono ancora delle eccezioni, anche se in questi ultimi anni, iniziano a prendere piede altre forme di diffusione dei contenuti sociali che appaiono innovative per il ricorso a linguaggi inediti di trasmissio-
Figura 2.35. Guerrilla advertising sulla prevenzione sessuale, Segretariato della Salute, Rio Grande do Sul, Brasile, 2008
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Figura 2.36. “Condom Mob” per la lotta all’Aids, Cesvi e Università IULM di Milano, 2009
Figura 2.37. Mostra “Dialogo nel buio”, Istituto dei Ciechi di Milano, dal 2003.
Figura 2.38. Festival della fotografia etica, Lodi 2010. Figura 2.39. Terra Futura, Firenze.
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ne dei contenuti o per l’attenzione mostrata al contesto (fisico e culturale) in cui queste verranno trasmesse (cfr. Bosco 2011). BRW & Partners e Ballarò. Il primo esempio riguarda una serie di spot sociali (che affrontano temi svariati dalla pena di morte al traffico d’organi, dal mobbing al lavoro minorile, dal diritto alla casa alla censura) realizzati appositamente per il pubblico della trasmissione televisiva Ballarò. Sebbene la comunicazione si basi sul classico spot sociale, ciò che è “non convenzionale” è l’attenzione posta per il contesto in cui i messaggi sono diffusi e il ricorso a un linguaggio ironico e spiazzante, per smuovere la passività del telespettatore. Come osserva Bosco, le campagne si collocano all’interno di un ambiente culturalmente elevato che non solo contribuisce ad amplificarne il senso, ma anche a intercettare un pubblico non troppo distratto e probabilmente più attento alle tematiche trattate (cfr. ivi: 46). Festival della fotografia etica. In questo caso ciò ad essere innovativo è la scelta del contesto e del linguaggio adottato per trasmettere dei contenuti sociali. Il festival della fotografia etica, tenutosi a Lodi nel marzo del 2010, è un’iniziativa unica nel suo genere, sia a livello nazionale che internazionale: si tratta infatti di un festiva interamente dedicato all’approfondimento della relazione tra etica, comunicazione e fotografia, attraverso la realizzazione di mostre di fotoreporter realizzate per ONG, serate di videoproiezioni prodotte da gruppi di fotografi indipendenti, dibattiti, incontri, ecc. Lo scopo del Festival è quello di avvicinare il grande pubblico a contenuti di rilevanza etica utilizzando la fotografia come strumento di comunicazione e conoscenza. Vi poi un gruppo di esperienze, che comprende un variegato insieme di iniziative e progetti, che vogliono aumentare la consapevolezza del pubblico circa questioni relative alla qualità della vita collettiva. Queste esperienze sono accomunate dal tentativo di comprendere la natura dei problemi, definendo ambiti di discussione e confronto, percorsi formativi, approfondimenti, uniti a un contesto dove questi elementi comunicativi si alternano a momenti artistici e di intrattenimento. Terra Futura. Un esempio di queste iniziative è Terra Futura, una manifestazione internazionale che si svolge ogni anno a Firenze e affronta un ampio spettro di questioni legate alla sostenibilità ambientale e sociale. Come dice il loro statuto: Nata dall’obiettivo comune di garantire un futuro al nostro pianeta – e di farlo insieme – la manifestazione mette al centro le tematiche e le “buone pratiche” della sostenibilità sociale, economica e ambientale, attuabili in tutti i campi: dalla vita quotidiana alle relazioni sociali, dal sistema economico all’amministrazione della cosa pubblica. Terra Futura vuole far conoscere e promuovere tutte le iniziative che già sperimentano e utilizzano modelli di relazioni e reti sociali, di governo, di consumo, produzione, finanza, commercio sostenibili: pratiche che, se adottate e diffuse, contribuirebbero a garantire la salvaguardia dell’ambiente e del pianeta, e la tutela dei diritti delle persone e dei popoli.
L’obiettivo degli organizzatori è quello di costruire percorsi per creare una vera e propria comunità pratica, attraverso forme di educazione, discussione e formazione, che non si esauriscono nei giorni del festival ma che continuano attraverso la rete e l’organizzazione di successivi momenti pubblici.
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2.7.2. IL RUOLO DEI SOCIAL NETWORK
SUL WEB CIASCUNO PUÒ PRENDERE PAROLA E ANCHE LA SOLA OPINIONE DI UN SINGOLO INDIVIDUO PUÒ INCIDERE IN MODO CONCRETO NELLA REALTÀ
La continua necessità e ricerca di relazioni significative che caratterizza la nostra epoca, di cui si è parlato nel capitolo 1, ha portato in pochi anni la fama e la fortuna di una serie di piattaforme sociali (Facebook, Twitter, YouTube, ecc.) che grazie alle caratteristiche del web partecipativo, riescono a mettere in connessione e far interagire in un unico spazio virtuale senza tempo, milioni e milioni di persone da ogni parte del mondo. La crescita esponenziale delle possibilità di accesso e scambio di informazioni, conoscenze e esperienze tra gli individui, ha trasformato la rete in un vero e proprio ambiente sociale di “pubblici connessi”, dove ciascuno può prendere parola e anche la sola opinione di un singolo può incidere in modo concreto nella realtà (cfr. Gadotti, Bernocchi 2011). Sono infatti moltissimi gli esempi che dimostrano come ciò che emerge nel web grazie alla rapidità del passaparola, può diventare in brevissimo tempo pubblicamente rilevante. Nel web le persone non sono solo consumatori/fruitori ma diventano a tutti gli effetti produttori di comunicazione; attori capaci di incidere sull’agenda dei soggetti istituzionali, bypassare la selezione tematica dei media classici, e mettere sotto i riflettori questioni e problematiche emerse autonomamente nei network sociali. Tutto questo naturalmente porta a enormi risvolti nell’ambito della comunicazione sociale. Innanzitutto la possibilità di creare facilmente una rete di persone reali (in molti social network come Facebook è norma comune utilizzare le proprie vere generalità, al contrario di altri “luoghi” virtuali dove la nostra identità viene celata dietro un avatar di fantasia) e renderla visibile, può essere un ottimo strumento per gli enti pubblici, le aziende profit-oriented, e le organizzazioni non profit, per creare delle community attorno ai soggetti promotori e alle cause che questi considerano rilevanti; migliorando quindi il rapporto con i propri “affiliati” e dandogli la possibilità di interagire direttamente tra di loro, conoscersi e rafforzare il legame sociale. In altri casi, i social network possono diventare anche il luogo dove community on-line, non collegate a nessuna associazione, sorgono in modo spontaneo per promuovere cause sociali o per diffondere messaggi, informazioni, richieste di adesioni, basati su interessi comuni da condividere. Su Facebook ad esempio, chiunque può attivare un profilo, lanciare una petizione, sollecitare una riflessione e la promozione di cause sociali ha addirittura un’applicazione specifica, Causes, a cui si può rispondere anche con una donazione. L’ente pubblico, social network e comunicazione sociale. Come visto l’ente pubblico fa ancora largo uso della pubblicità tradizionale via mass media. La rivoluzione tecnologica però ha consentito già alla fine del secolo scorso, con la diffusione di siti istituzionali, portali, reti civiche, posta elettronica, di accelerare il processo di modernizzazione dell’ente pubblico e ridurre le distanze dai cittadini. Il web 2.0 però permette ora di adottare una forma di comunicazione veramente relazionale ed è necessario quindi che anche la pubblica amministrazione si adegui a questi nuovi standard comunicativi. Così come è cambiato il nostro modo di pensarci come cittadini, consumatori e pubblico, anche il nostro modo di interagire con le istituzioni è cambiato e richiede anche dall’altra parte, una maggiore apertura e disponibilità ad ascoltare e dialogare. I social network permettono di «costruire un luogo di conversazione in cui critiche e suggerimenti diventano parte costitutiva del servizio offerto dalla pubblica amministrazione» (ivi: 115), trasformando i cittadini in
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interlocutori attivi e avviando forme di partecipazione inedite. Esperienze di comunicazione relazionale esistono già in Italia, soprattutto in ambito politico (basti pensare al blog di Beppe Grillo, di Antonio di Pietro, ecc.), ma ci sono anche alcune esperienze positive di amministrazioni locali, che hanno sfruttato la potenzialità del web 2.0 per instaurare un nuovo rapporto con i propri cittadini. Secondo una recente rassegna di esperienze, all’avanguardia nella sperimentazione dei nuovi canali di comunicazione c’è il Comune di Torino, che ha deciso di investire nel web per aprire nuovi canali di comunicazione con i cittadini e le altre istituzioni sul territorio. Le informazioni del Comune e i metodi per interagire con esso sono accessibili su tutti i social network più popolari. Anche la Regione Emilia Romagna ha di recente attivato un servizio online (www.partecipa.net) ideato appositamente per consentire ai cittadini di partecipare all’attività dell’amministrazione. Per quanto riguarda però le campagne sociali, la pubblica amministrazione sembra non aver compreso appieno la potenzialità di questi mezzi e gli esempi di campagne che sfruttano il passaparola del web sono davvero pochissime. In sintesi, se utilizzati in modo adeguato, i social network possono essere per la pubblica amministrazione, una risorsa importante per creare una relazione a lungo termine con i cittadini e dare loro la possibilità di interagire ed essere coinvolti maggiormente. La precondizione perché ciò avvenga però è che l’amministrazione cerchi realmente di costruire il confronto e che sia una presenza vitale, attiva, ben organizzata e continuativa sul web; pena un probabile effetto boomerang che inciderebbe notevolmente sulla credibilità e sulla fiducia nei confronti dell’amministrazione stessa. Aziende, social network e comunicazione sociale. Le aziende ben conoscono la potenzialità della rete e le strategie di comunicazione virale che si servono del passaparola on-line per la propria diffusione, perché è proprio nell’ambito commerciale che queste forme comunicative sono nate e si sono sviluppate. Il web è un luogo ideale dove costruire con il consumatore una relazione, basata sul confronto, sulla discussione e la diffusione dei valori della marca ma anche nuove forme di collaborazione creativa per la realizzazione di prodotti sempre più vicini ai desideri dei propri consumatori. I social network in questo senso, sono un prezioso strumento per creare occasioni e luoghi di partecipazione e coinvolgimento attorno al marchio fino alla creazione di vere e proprie brand communities, unite dalla forte affezione al brand e/o a un suo prodotto. I social network però hanno anche il potere di dar voce ai consumatori, che possono pubblicamente esprimere la propria esperienza con la marca e la propria opinione, contribuendo a formare una coscienza critica sull’operato delle aziende e sulla qualità (anche etica) dei suoi prodotti. La presenza attenta dei consumatori in rete, se è uno strumento di controllo eccezionale, rappresenta anche una grande opportunità per l’impresa, quando sceglie la strada della responsabilità e dell’esperienza. Se il consumatore non ha problemi a colpevolizzare pubblicamente e punire (ad esempio attraverso le proprie scelte di acquisto o la creazione di gruppi di protesta) le aziende che si sono dimostrate eticamente scorrette, è ugualmente disponibile a premiare invece quelle aziende che si dimostrano corrette, parlandone in modo positivo e condividendone le iniziative meritevoli di attenzione. La promozione di comunicazioni sociali con modalità partecipative e virali sono così una buona occasione per le aziende di far parlare bene (e in fretta) di sé e dare nuovi motivi per essere fedeli alla marca. Gli esempi di comuniLA COMUNICAZIONE SOCIALE / 85
cazione sociale di questo tipo sono numerosi, uno dei più famosi è la creazione del “Fondo per l’autostima”, che ha l’obiettivo di diffondere un modello di bellezza diverso dai canoni estetici contemporanei diffusi dallo stesso mondo pubblicitario e dello spettacolo, promosso da uno spot virale chiamato “Evolution” che criticamente mostra come una ragazza apparentemente normale possa diventare una perfetta modella pubblicitaria grazie a dei ritocchi e manipolazioni che, in realtà, vengono comunemente adottati nel mondo dello spettacolo e della pubblicità, per cui il modello di bellezza perfetta diffuso nella nostra società altro non è che un artificio virtuale, ben lontano dalla realtà della maggioranza delle donne. L’azienda ha poi continuato a promuovere la valorizzazione dell’immagine femminile controcorrente cercando anche un rapporto diretto con il proprio pubblico attraverso il sito partecipativo, forum, articoli, video, concorsi, ecc. Associazioni non profit, social network e comunicazione sociale. Il mondo dell’associazionismo, a differenza degli altri soggetti promotori, ha sempre dato maggiore importanza alle relazioni con i propri sostenitori, investendo spesso in diversi momenti di incontro (cene sociali, assemblee, eventi, ecc.). Il web ha moltiplicato la possibilità di incontro e di scambio e ha amplificato notevolmente il potenziale comunicativo a disposizione di qualsiasi ente non profit (cfr ivi: 127). Sono moltissimi infatti i profili delle organizzazioni non profit sulle reti sociali e molti sono popolarissimi: solo a titolo di esempio Greenpeace International su Facebook ha oltre un milione di iscritti, WWF 820.000 di iscritti, Unicef un milione e mezzo di iscritti, Airc 308.771 di iscritti, e sono cifre che giorno dopo giorno continuano a crescere. Sono pagine che ospitano le conversazioni spontanee degli utenti, che raccolgono iniziative, campagne, sollecitazioni promosse spesso dagli stessi iscritti e che vengono diffuse spontaneamente all’interno della rete dei contatti. Il modello del social network spesso viene utilizzato anche per riorganizzare i siti istituzionali delle associazioni, così che anche le persone che utilizzano principalmente quella via di contatto, hanno nuove possibilità di interazione. Il sito della LILA ad esempio (www.lila.it) affianca alle sue funzioni un forum chiamato chatline LILA che permette agli utenti di confrontarsi e scambiare esperienze; dei link al Twitter dell’associazione, a cui si può accedere diretamente dalla homepage del sito; link a video su YouTube promossi dall’associazione; ecc. Inoltre, sempre più spesso, molte associazioni creano ad hoc dei siti appositamente legati alle campagne di sensibilizzazione e mobilitazione su temi specifici, dove gli utenti possono contribuire con i propri contenuti (video, commenti, foto) nonché effettuare delle donazioni. Va evidenziato che non tutte le associazioni hanno la stessa influenza e presenza nella rete; le iniziative sopra descritte corrispondono più al profilo delle grandi associazioni globali piuttosto che alle realtà più piccole nazionali. Infatti l’Italia partecipa attivamente a molte iniziative e ne sviluppa di sue, ma in linea di massima non riesce ad ottenere la grande risonanza di cui godono invece le campagne globali. È difficile citare per l’Italia, dei casi di grande successo che abbiano fatto ricorso a questi media innovativi. Nel nostro paese continuano a prevalere mezzi convenzionali come la televisione, spesso utilizzata come veicolo di amplificazione delle iniziative di raccolta fondi.
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2.7.3. CRITICITÀ DELL’APPROCCIO UNCONVENTIONAL Un evento “unconventional”, se ben realizzato, riesce sicuramente a catalizzare l’attenzione del pubblico per qualche minuto. Ma questa attenzione poi, in cosa si traduce? Riesce alla fine a cambiare l’atteggiamento delle persone di fronte a certe tematiche o è solo un espediente come un altro per catturare attenzione, stimolare emozioni, che una volta spente non lasciano traccia? Il forte dubbio è che anche questa forma di comunicazione, per gli obiettivi che si pone la comunicazione sociale, è inefficace come le altre tecniche più convenzionali. Il rischio anche qui è quello di incentivare la tendenza, già in atto, a spettacolarizzare il sociale, di cercare un consenso basato sull’emozione del momento, spesso superficiale, piuttosto che portare a un’adesione consapevole (cfr. Bernocchi, Gadotti 2011). Un altro dubbio che circonda l’approccio unconventional ma in particolar modo l’uso privilegiato di internet per la diffusione di cause sociali, è che proprio per via della semplicità con cui si possono condividere contenuti e apprezzare cause, in realtà questi solo raramente corrispondono a un’adesione profonda alla causa trattata. Ad esempio, una campagna sociale unconventional particolarmente divertente, potrebbe diventare virale ed essere trasmessa tra i propri contatti indipendentemente dal messaggio che porta o dal fatto che si sostenga la causa, ma solo per un motivo di forma. In questo senso, la condivisione non è altro che la diffusione di una “cosa divertente”, non del messaggio che questa cerca di trasmettere o per una reale convinzione sulla causa promossa.
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3 LA CULTURA IN GIOCO
La cultura sorge in forma ludica, è dapprima giocata. Con i giochi la collettività esprime la sua interpretazione della vita e del mondo e nelle sue fasi originarie, porta il carattere di gioco, viene rappresentata in forme e stati d’animo ludici. Lo scopo di questo capitolo è quello di mettere in evidenza le interconnessioni tra gioco e cultura, analizzandone le più salienti manifestazioni, a partire dal gioco del e nel linguaggio, attraverso l’analisi etimologica della definizione di gioco nelle varie lingue per comprenderne tutte le sfumature, il gioco nella letteratura e i giochi di parole; il gioco nel mito e nel culto, come simbolo del mondo; il gioco come collante sociale e specchio della società. Infine, attraverso un percorso lungo ventiquattro secoli, si mette in mostra l’evoluzione teorica del gioco e il suo riconoscimento all’interno della società come elemento fondamentale della cultura.
3.1. ESPERIENZA LUDICA E CULTURA SUB SPECIE LUDI L’attitudine ludica è uno degli aspetti della specie umana che recentemente ha destato più interesse e con molta probabilità quello più carico di significati per molto tempo sottovalutati. Nel 1939 con il suo scritto Homo Ludens lo storico olandese Johan Huizinga pone una delle pietre miliari attorno a cui si sono poi sviluppate tutte le più importanti teorie e i più significativi studi inerenti al gioco e alla società nei più svariati campi disciplinari. In questo testo Huizinga colloca accanto all’homo faber, modello comportamentale dell’uomo tracciato dalle scienze dell’epoca, quello dell’homo ludens, l’uomo che gioca, come sua integrazione e variante. Infatti secondo lo storico «ogni azione umana appare un mero gioco – e quindi il gioco è – fattore a sé di tutto ciò che accade nel mondo» (Huizinga 1939 tr. it.): sta alla base di ogni cultura e di ogni manifestazione di questa. La sua opera è stata più volte criticata dai successivi teorici di essere estremamente generalista tuttavia, anche i critici più duri, non possono che riconoscere allo storico il merito di aver magistralmente analizzato molti aspetti fondamentali del gioco e aver dimostrato l’importanza del suo ruolo nello sviluppo delle civiltà. L’intuizione che ha avuto Huizinga nel considerare il gioco strettamente legato a ogni aspetto della cultura non è così scontata e a ben riflettere è facile trovarsi d’accordo con molte delle sue affermazioni e scorgere a nostra volta l’aspetto ludico sottostante molte manifestazioni essenziali di ogni cultura come il mito, il culto, il linguaggio, la filosofia, le istituzioni giuridiche, l’arte nelle sue varie espressioni fino addirittura ad alcuni aspetti delle guerre cavalleresche. Una critica che si può muovere contro quest’opera è sicuramente quella che ha espresso Roger Caillois (1967) nel suo testo sul gioco, ovvero il fatto che Huizinga ha deliberatamente tralasciato la descrizione e la classificazione dei giochi stessi, mettendoli tutti sullo stesso piano come se rispondessero agli stessi bisogni ed esprimessero lo stesso atteggiamento psicologico. Tuttavia questo aspetto è stato poi largamente approfondito da studi successivi, soprattutto da Caillois appunto, ma il concetto dell’inscindibile legame tra gioco e cultura espresso da Huizinga, grazie alla sua osservazione del gioco come nessuno prima di lui aveva fatto, è entrato di diritto nella visione comune e non può essere confutato. In accordo con questa tesi possiamo quindi affermare che fin dalle origini la cultura può essere definita “sub specie ludi”, ovvero pregna di carattere ludico (v. Huizinga 1939 tr. it.). Il gioco però non nasce con la cultura, è un concetto primordiale. Con lo sviluppo dell’etologia, in particolare, il gioco è stato riletto in chiave biologica e ricollocato nell’ambito dei comportamenti animali e non solo umani. Questo perché è fatto noto e dimostrato che anche gli animali giocano, come gli uomini: si invitano al gioco con certi gesti e atteggiamenti cerimoniosi, osservano determinate regole (come quella di non mordere a sangue), “recitano” un ruolo (ad esempio nelle lotte, fingono di essere arrabbiatissimi), e nel gioco provano piacere e gusto. La simulazione della lotta e della caccia sono le forme più semplici di gioco tra animali ma ve ne sono di più evolute come vere e proprie gare e spettacoli (ibidem). Attraverso gli studi condotti in ambito etologico però il gioco non solo si generalizza ma si radicalizza, si pone come modello basico della vita delle specie animali. Ma è proprio nell’uomo che si fa consapevole, pervasivo ed efficace come esperienza carica di significati tanto da divenire il collante di ogni civiltà.
FIN DALLE ORIGINI, LA CULTURA PUÒ ESSERE DEFINITA “SUB SPECIE LUDI”, OVVERO PREGNA DI CARATTERE LUDICO. ESSA INFATTI SORGE IN FORMA LUDICA, LA CULTURA È DAPPRIMA GIOCATA
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LA PAROLA “GIOCO” ASSUME FORME E SIGNIFICATI DIVERSI A SECONDA DELLA CULTURA IN CUI VIENE CONIATA
Il gioco va allora indagato «come una forma di attività, come forma con senso pregnante. E come una funzione sociale» (ivi: 21 tr. it.) che può assumere molteplici configurazioni ma sempre caratterizzate da ordine, tensione, regola e capaci di produrre comunità. Il gioco è insieme reale e irreale, ma soprattutto è un fattore onnipresente e trasversale dell’azione umana, che in esso si carica di valore e significato. Huizinga nelle pagine di Homo Ludens ci mostra come il gioco si intreccia con il sacro, con il rito e con il mistero, ma soprattutto, a dimostrazione della sua potenza e fondamentalità, lo ritroviamo come ingrediente base nello sviluppo delle forme di cultura più disparate, dal linguaggio alla gara, dal sapere alla poesia, nei miti, nell’arte, alla filosofia, mostrando così la sua generatività nelle culture e nelle civiltà (cfr. Cambi 2007: 119). Elemento ludico della cultura non vuol dire però che tra le varie attività della vita culturale i giochi occupano un posto privilegiato né che la cultura proviene dal gioco per evoluzione. Quello che intende Huizinga è che la cultura sorge in forma ludica, la cultura è dapprima giocata. Con i giochi la collettività esprime la sua interpretazione della vita e del mondo. La cultura nelle sue fasi originarie porta il carattere di gioco, viene rappresentata in forme e stati d’animo ludici (cfr. Huizinga 1939: 56 tr. it.).
3.1.1. GIOCO E LINGUAGGIO Prima di vedere come noi giochiamo con le parole e come il linguaggio sia strettamente legato al gioco, è utile soffermarci proprio sulla parola che si utilizza per identificare il gioco. Etimologia del “gioco”. La parola “gioco” viene usata per indicare non solo l’attività specifica cui dà il nome ma anche la totalità delle figure, dei simboli o degli strumenti necessari per quella attività. In varie culture “gioco” indica inoltre lo stile, il particolar modo di esprimersi di un artista o di un musicista, i suoi aspetti particolari che lo distinguono dagli altri artisti. Questa parola evoca inoltre un’idea di libertà, di facilità di movimento, libertà all’interno del rigore. Il termine gioco mette quindi insieme le idee di limite, di libertà e d’invenzione, e per estensione le idee di fortuna, abilità, risorse concesse dalla fortuna o dal caso e l’intelligenza dell’individuo di saperle cogliere (cfr. Caillois 1967 tr. it.). Partendo dalla riflessione di Huizinga (1939) su questa parola, notiamo che in alcune lingue, come l’italiano gioco, il giapponese asobu o il nordeuropeo spiel, questa parola racchiude in sé una varietà impressionante di significati e quindi di esperienze ludiche. La parola stessa “gioco” gioca con i diversi significati e a seconda del tipo di cultura all’interno della società in cui viene coniata. Come analizza Huizinga, in greco usa la desinenza “inda” e tre parole che significano gioco: paidía, che nasce in riferimento al gioco dei bambini e comprende tutte le forme di gioco; áthurma, che identifica invece l’aspetto frivolo e insensato del giocare; e agón che comprende tutti i giochi che hanno il carattere di una gara o una contesa. Riguardo a questo ultimo termine, è giusto ricordare come per gli ellenici l’attività agonistica era funzione tanto intensiva di cultura da divenire cosa ordinaria, fino ad essere connotata come cosa seria fintanto da perdere il suo carattere ludico. Il sanscrito adopera almeno quattro termini: il più diffuso sta ad indicare il movimento di onde e vento, il danzare e il saltellare (kridatí). Un secondo termine indica lanciare (giocare a dadi), risplendere e canzonare (divyati). 92 / IL GIOCO COME MODELLO DI COMUNICAZIONE
Un terzo gruppo di termini (vilāsa, līla) rimanda al dondolare, all’oscillare e all’elemento leggero e spensierato del gioco. Però la parola līla indica anche imitare, apparenza, come se. Il latino usa un unico termine, ludus, per riferirsi al gioco del bambino, alla ricreazione, alla rappresentazione, al gioco d’azzardo, alla danza, ai giochi pubblici e ludus designa anche la scuola. Poi un termine secondario, iocus, che significa scherzo e burla (anche se nelle lingue romanze non passa la parola ludus ma piuttosto iocus di cui l’italiano gioco). Anche i derivati alludo, colludo e illudo tendono tutti al senso dell’irreale e dell’inganno. Per le lingue germaniche, ci sono vari termini, a partire dal gotico laikan, che vuol dire saltare, alla radice spel e plegan (da cui discende play) tutti riconducibili al movimento veloce, suonare uno strumento, che si estende poi in un universo di significato dalla rappresentazione religiosa alla lotta. Molto interessante, come ci ricorda anche Eco nell’introduzione del libro di Huizinga nella traduzione italiana, il fatto che la lingua inglese possieda due termini per indicare il gioco: play (da plegan) che significa gioco, giocare, movimento veloce, battimani, gesto manuale, suonare uno strumento musicale; e game, che si riferisce al gioco come dispositivo regolato. Infine per quanto riguarda le lingue orientali, il giapponese si avvicina molto alle lingue occidentali moderne perché ha un termine specifico per indicare la funzione di gioco in generale e vi unisce un corrispondente termine opposto per indicare la serietà. Il sostantivo asobi e il verbo asobu significano giocare, ricreazione, passatempo, gita, disoccupazione, essere fuori uso, rappresentare, imitare qualcosa ma si collegano (come nel latino ludus) al concetto di studiare con qualcuno, studiare in qualche luogo. Il ruolo del gioco nella cultura giapponese è però fortemente radicato e visibile: a cominciare dal fatto che i giapponesi «nascondono l’eccezionale serietà del loro ideale di vita dietro la finzione che tutto il vivere non è che un gioco» (Huizinga 1939 tr. it.), la lingua conserva tale concezione nel “asobase-kotoba”, ovvero il linguaggio di cortesia, letteralmente lingua per gioco, usato per rivolgersi ai superiori. Quello che emerge dalla riflessione di Huizinga è che all’interno della parola che usiamo per dire gioco, vi giocano molte altre parole e significati, proprio perché la lingua stessa è un gioco e il gioco non è definibile con margini precisi. Il gioco del linguaggio. Il linguaggio è il primo strumento che l’uomo ha creato per comunicare, imparare, comandare, definire e assimilare le esperienze vissute nella sfera dello spirito. Il linguaggio transita continuamente dal materiale allo spirituale e lo fa giocando. Quando l’uomo diventa in grado di dominare il sistema linguistico e le sue regole, trova soddisfazione e piacere nell’uso di un tipo di comunicazione che altrimenti sarebbe solo un insieme di suoni. Come ricorda Anna Kaiser (1995), secondo il filosofo Ludwig Wittgenstein il linguaggio non funziona in un unico modo né serve sempre allo scopo della trasmissione del pensiero. Talvolta anzi viene impedito all’interlocutore di cogliere quale sia il vero uso di una parola (come il mentire, che è anch’esso un gioco linguistico che va imparato come ogni altro). Il raccontare e il chiacchierare fanno parte della nostra storia come il mangiare e il bere. Maggiore è la capacità nell’uso dei giochi di lingua più ampio e ricco diventa il linguaggio stesso. Nel momento in cui l’uomo riesce a utilizzare parole d’altri o ripete luoghi comuni, gioca ancora una volta a far finta di dire quello che non intende dire e ad essere ciò che non è. Nel gioco ironico ritroviamo spesso quest’uso dell’ambiguità delle parole e l’uso di parole che si discostano dal loro senso letterario. Attraverso l’uso di metafore si riescono a esprimere giudizi e
IL LINGUAGGIO PUÒ ESSERE OGGETTO DI ESPLORAZIONE E DI GIOCO
LA CULTURA IN GIOCO / 93
concetti che altrimenti sarebbe difficile far sentire più veri. Il linguaggio stesso a livello didattico interpreta ludicamente e contemporaneamente serietà e divertimento, soprattutto nella prima fase dell’apprendimento quando il piccolo dell’uomo scopre inedite combinazioni di vocaboli nella frase che pur sempre conserva un significato (cfr. Kaiser 1995). Il linguaggio, osserva Itala Riccardi Ripamonti (1998), può essere considerato uno strumento che viene messo a punto e sviluppato proprio all’interno di una situazione ludica in cui il gioco, ripetitivo, combinatorio e di scambio, può assorbire tutte le energie del piccolo. Per il bambino non vi è coscienza di una necessità di acquisire questo strumento ma lo fa solo per il piacere di giocare con la mamma. Il linguaggio può essere oggetto di esplorazione e di gioco. Analizzando invece il linguaggio inteso come scambio verbale tra due o più persone, si può vedere come il dialogo risponda anch’esso alle regole di un gioco. Patrizia Celefato (1997) in particolare assume l’universo ludico dei giochi di ruolo (role playing games) come schema interpretativo di alcune modalità del discorso e dell’agire comunicativo. Secondo Celefato ogni situazione in cui il linguaggio sostituisce la realtà sociale, può essere valutata alla luce di un gioco dei ruoli. Nel gioco di ruolo i giocatori sono chiamati a recitare una parte, svolgere l’azione di un personaggio, sulla base di una trama per lo più ispirata al genere fantastico. È possibile ritrovare due delle categorie o modalità di gioco che Caillois ha sintetizzato con i termini di mimicry (il simulare, l’interpretare una parte) e alea (il caso). A queste categorie diventa essenziale aggiungere quella del “racconto” inteso come fabula, mito, narrazione, testo, cui ogni gioco si ispira ma che trae anche vita dal gioco stesso. Lo scopo del gioco non è quello di eleggere un vincitore quanto quello di articolare il più possibile in azioni simulate sulla base di parti interpretate, una narrazione fantastica. Allo stesso modo, dei grandi scenari di giochi di ruolo, sono anche tutte le forme primarie del discorso – conversazione, discorso quotidiano, dialoghi di varia natura compresi quelli tra se e sé – nonché tutte le istituzioni di massa (cfr. Celefato 1997). Parole e testi giocati. Gran parte della produzione letteraria, in maniera più evidente all’interno del mondo della poesia, si basa sui giochi di parole. È doveroso ricordare che un’intera stagione della poesia due-trecentesca va sotto il nome di “poesia giocosa”, anche se non sempre è facilmente catalogabile sotto questa etichetta dato che spesso, nei componimenti, si ritrovano a convivere aspetti comici con altri invece strettamente realistici. Come riporta Sandro Orlando (1993) negli atti del convegno “Passare il tempo” tenutosi nel 1991 a Pienza, Maria Luisa Meneghetti afferma che nel XII secolo la società occidentale ha cambiato radicalmente il suo modo di concepire l’intrattenimento collettivo grazie alla nuova letteratura laica. Ci si riferisce in particolare alla poesia e alla sua esecuzione come genere alto, in cui il gioco si limitava all’intrattenimento, attraverso il ritrovato piacere per l’artificio verbale e la particolare attenzione riservata alla forma metrica. Accanto a questa forma di intrattenimento nobile, ampio spazio era probabilmente assicurato anche agli istrioni di piazza o comunque a una realtà letteraria più legata e seguita dal popolo, e che di tanto in tanto arrivava nelle corti. Questi “operatori dello spettacolo” utilizzavano strumenti diversi per intrattenere il pubblico e per garantirsi i mezzi di sopravvivenza, e tra questi si trovano gli espedienti più semplici come l’allusione pungente e la battuta oscena. Allusioni sessuali sono disseminate anche nei testi alti e dovevano avere una ricezione sicura94 / IL GIOCO COME MODELLO DI COMUNICAZIONE
mente diversa presso gli uomini del medioevo rispetto a tempi più recenti: viene infatti il sospetto che l’uso di questo registro raggiungesse il suo scopo non tanto nell’uso di per sé di parole o situazioni sconvenienti, quanto al loro utilizzo come contro-testo, oscenità deliberatamente giocosa e dichiarata come tale, a realtà altrimenti trattate in circostanze diverse, in altre parole con funzione parodica. Non a caso tra le diverse forme giocose del testo adottate nella letteratura medioevale (e che spesso ancora oggi viene utilizzata da comici e satirici) troviamo il Contrafactum, ovvero lo stravolgimento di un testo noto o la sovrapposizione di un testo parodico a un accompagnamento musicale di un altro. Suscita il riso non tanto per ciò che dice ma per il fatto di contraffare il testo originale, soprattutto se questo era stato composto per pompose cerimonie cortesi, come l’esempio riportato a lato. Del convegno precedentemente citato riporta ancora Orlando (1997) l’atto di Michelangelo Picone secondo il quale nel Medioevo si assiste allo sviluppo di due diverse idee di letteratura: da una parte c’è la letteratura seria, alta, diffusa nella nobiltà, votata esclusivamente alla ricerca di una verità ultima della vita (molte figure letterarie articolate come l’acrostico erano ritenute strumenti ideali per funzioni spirituali), dall’altra parte c’è la letteratura frivola, che ricerca solo la verità temporale ed effimera degli uomini e delle cose. Queste due correnti appaiono ben distinte sia sul piano teorico che pratico, infatti fin dall’esordio sono catalogate nei generi dei “seria” e dei “ludicra” o “jocosa”. I primi associano alla poesia l’utilitas e l’edificazione, i secondi proiettano la poesia sullo sfondo della delactatio e del gioco. Il fatto che nel Medioevo fossero molto diffuse le forme di letteratura che oggi definiremmo “giocose” non vuol dire che tutta la produzione letteraria dell’epoca fosse un mero gioco. Infatti si può etichettare come gioco solo questa seconda categoria, in quanto prendendo per assunto che per definire qualcosa come gioco è necessario innanzitutto che chi lo conduce abbia la coscienza di star giocando, questo non è il caso degli espedienti formali dei poeti colti del Medioevo, ma lo è nell’atteggiamento della letteratura popolare, dove il poeta è ben cosciente di star utilizzando in modo scherzoso la parodia (cfr. Facchi 1997). Le canzoni dei giullari in piazza tuttavia non avevano solo scopi evasivi. Già dal XI secolo queste figure che intrattenevano folti gruppi di gente del popolo, per lo più illetterati e analfabeti, avevano anche funzioni istruttive e divulgative. In Italia, come si evince dai componimenti di Franco Sacchetti, rappresentante della letteratura municipale fiorentina, e dalla dedica che fa nel Proemio di quelle “letture agevoli a intendere” ai suoi concittadini, desiderosi tra “molti dolori” (infermità pestilenziali, carestie, guerre civili, abusi di potere) di “alcune risa”, gli aneddoti, le battute di spirito, i motti, le barzellette, gli scherzi sconci e le irriverenti grossolanità aiutavano i fiorentini a migliorare la loro coscienza etica e civile, a mantenere in vita le libertà comunali, a ridersela dei soprusi dei ricchi e dei politicanti guerrafondai e delle prepotenze dei rappresentati delle autorità religiose e laiche (cfr. Cambi Staccioli 2007).
CONTRAFACTUM MEDIEVALE Deus vos sal, domna de pretz soberana (BdT 461.83)
Dieus vos sal, domna dels pretz soberana e ve don gaug e vos lais estar sana e me lais far tan de vostre plazer, que·m teguaz car segon lo mieu voler. Aissi·m podetz del tot guiradon rendre e, s’anc fis tort ben me·l poder car vendre. Traduzione: Dio vi salvi, dama sovrana di pregio /e vi dia gioia e vi lasci viver sana / e mi conceda di far tanto di vostro piacere / in modo che mi abbiate caro, secondo il mio volere. / Così mi potete rendere ricompensa di tutto / e, se mai vi feci torto, me lo potete far ripagare molto caro
Contrafactum - cobla esparsas Deus vos sal, domna, del pez soberana (BdT 461.82)
Deu vos sal, domna dels pez sobeirana e vos dun far dui tal sobre semana, c’audan tut cil qe ve veiran veder e qan verra lo sendeman al ser, ve·n posca un tal aval pel cors descendre, qe·os faza·l cul e escirar e sconscendre. Traduzione: Dio vi salvi, sovrana del peto / e vi doni di farne altri due tali in settimana/che li odano tutti quelli che vi verranno a trovare; / e quando verrà l’indomani sera/ ve ne possa scendere uno per il corpo/ che vi faccia il culo scorticare e lacerare
Giochi di parole. Ci sono vari modi di giocare con le parole ed essere “giocati” da queste. Vi sono dei giochi veri e propri che partono dalle parole, come i giochi enigmistici, i rebus e il gioco acrostico ma, come ricorda Alessandro Dal Lago (1993), possono essere definiti “giochi della sorpresa” anche quei fenomeni linguistici come il lapsus o le parole inattese che escono di bocca all’improvviso, dove il gioco non consiste tanto nello sciogliere il rebus sottostante alla presenza improvvisa di quella parola (con l’ossessione freudiana LA CULTURA IN GIOCO / 95
FILASTROCCA E VITA Strofe finali di “La donnina che semina il grano”, testo raccolto a Montepulciano (presente in Lapucci, “Il libro delle filastrocche”, 1987, Milano, Garzanti)
13. Lucia che fa un vestitino volta la carta e si vede Arlecchino. 14. Arlecchino che fa gli sgambetti, volta la carta e ci sono i galletti. 15. I galletti che cantano forte volta la carta e si vede la Morte 16. La Morte che falcia la gente volta la carta e non si vede più niente. La filastrocca, diffusa in tutta Italia e ripresa in diverse versioni, narra della vita del popolo, della guerra, del lavoro nei campi, dei bambini spaventati dalle bombe, dei malati, e si conclude con il tema della morte, come si può leggere nelle strofe finali qui riportate, tema ricorrente nelle filastrocche popolari antiche, che rispecchiavano la realtà e le paure del popolo.
di indagare l’inconscio) quanto il fatto che il lapsus stesso genera un sorriso e produce divertimento per il semplice fatto di essere inatteso e per l’associazione che può creare nella frase pronunciata. Nei giochi enigmistici l’ambiguità del testo è realizzata mediante le varie articolazioni del linguaggio e si sviluppa secondo diverse modalità strutturali. Raffaele Aragona (1997), analizzando diversi tipi di giochi enigmistici, nota come l’omonimia sia una struttura molto frequente. Molti testi enigmistici possiedono due significati, uno apparente e l’altro reale. L’obiettivo dei giochi enigmistici è sempre quello di ottenere dei doppi significati. Proprio per la loro complessità nell’adempiere questo compito, Aragona vorrebbe collocare l’enigmistica nella sfera della letteratura, anche alla luce dell’evidente perfetta padronanza della lingua che deve avere il compositore di tali giochi linguistici. Un’altra forma letteraria ludica che oscilla tra letteratura e gioco di parole è la filastrocca. Maurizio Del Ninno (1997), osservando diverse filastrocche provenienti da culture e epoche distanti tra loro, ha potuto constatare come vi sia una corrispondenza tra la concezione della vita e la forma della filastrocca. Per comprenderlo a nostra volta, basta osservare come sia ricorrente in queste il tema della morte e come in fondo, anche la brusca interruzione che caratterizza molte filastrocche non sia che un altro simbolo della precarietà della vita. Anche l’ironia è un gioco verbale, letta secondo la distinzione di Bateson tra game (gioco per prevalere sull’avversario) e play (gioco del far finta di, recitare). Infatti l’ironia è imperniata sul principio del “far finta di…”, usa la formula del “come se fosse…” di significato opposto, o altro, rispetto a quello inteso comunemente. Diversamente dal play però l’ironia ha la finalità di “voler fare intendere” qualcosa. L’ironia è come se si avvalesse di una “doppia lingua”, cui fa capo un intento ludico non molto differente dai giochi verbali. La parodia invece si basa sul fondamento retorico dell’ironia, a differenza che in esso il gioco si complica maggiormente in quanto l’oggetto del come se fosse ironico viene posto sotto una sorta di lente di ingrandimento, ridicolizzandolo. L’intento della parodia è quello di suscitare ilarità (voler-far-ridere) (Rutelli 1997).
3.1.2. GIOCO, SIMBOLO, MITO E CULTO La psicopedagogia del gioco, da Bruner a Winnicott, lo identifica, tra le altre cose, come elemento chiave dell’inculturazione e dell’accesso al mondo simbolico (cfr. Cambi 2007: 118). Già Eugen Fink nel suo libro Il gioco come simbolo del mondo (1960 tr. it.) tenta di dare un’interpretazione mitica del gioco, considerandolo quale simbolo del mondo. Il simbolo è la cosa finita che fa intravedere in sé l’azione del mondo che la condiziona. Partendo dal presupposto che «giocare è un’azione di vita reale dell’uomo reale» (ivi: 73), Fink sostiene che per capire la precisa collocazione dell’uomo nel mondo bisogna osservarlo giocare in quanto il gioco ha un significato universale e una “trasparenza cosmica”. Nel gioco l’uomo non rimane chiuso in sé, nella sua anima, ma esce in un atto cosmico e interpreta il senso del mondo. Vi è differenza tra gioco umano e gioco del mondo, ma la caratteristica di essere-nel-mondo dell’uomo, ovvero essere aperto al mondo ed esistere grazie al rapporto con esso, fa sì che il gioco umano possa venire assunto come simbolo del gioco cosmico. Il gioco secondo Fink è quindi mimesis della realtà, che non equivale però a dire che questo simula la realtà quanto piuttosto che la esplica rappresentandola, riuscendo a dirci di più dell’originale (cfr. ivi: 171). 96 / IL GIOCO COME MODELLO DI COMUNICAZIONE
Attraverso il linguaggio metaforico, il gioco ci permette di ricavare un sapere e un dire più ampi, un sapere altro di realtà e cose, di uomini e natura, del quotidiano come del non consueto, comunque sempre un sapere «simulato» o celato dal sapere maggiore. Inoltre, sempre attraverso la metafora del gioco riusciamo a identificare noi stessi: come siamo, come potremmo essere e che cosa ne è di noi (cfr. Brezzi 1992). Mito e rito. Esiste un rapporto molto stretto fra mito e gioco, espresso in prima analisi da Huizinga e successivamente approfondito da Fink. Secondo il primo (v. Huizinga 1939) il mito, cioè la trasfigurazione elaborata di ciò che esiste, agisce sul confine tra lo scherzo e la realtà con forme analoghe al gioco ironico. A questo proposito ricorda Kaiser che: Il mito riprende, quale fondamento della propria narrazione, situazioni reali, universalmente note e accessibili, proponendosi di illustrarle in un mondo che presenta, tuttavia, sempre qualcosa di contradditorio o di non strettamente razionale. Il narratore del mito, in questo contesto, ha un preciso ruolo: agire come “homo ludens”. Questi non desidera, infatti, rendere credibile ciò che racconta, né suscitare venerazione nei confronti di simboli o concetti, bensì vuole giocare con questi ultimi, coinvolgendo la partecipazione consapevolmente ludica dei suoi ascoltatori (Kaiser: 1996).
Al termine della storia i significati, assorbiti durante questo gioco attraverso simboli e rituali, perdono il proprio valore letterale per acquistarne di nuovi non appena la narrazione riprende in ulteriori occasioni e luoghi. Secondo Huizinga (1939), anche i riti religiosi non sono altro che giochi. Stanno alle stesse caratteristiche dei giochi (hanno delle regole e si svolgono in un determinato spazio e tempo di gioco) e il fatto che siano pervasi da una rigorosa serietà non annulla il loro carattere ludico anzi, come spesso ricorda lo storico, i giochi possono essere presi molto sul serio talvolta tanto che l’uomo vi si dedica con un’attenzione e un coinvolgimento superiore a quello che dedica solitamente alle altre attività considerate “serie”, come il lavoro. Di giochi seri di questo tipo se ne trovano in tutte le culture e in tutte le epoche: per fare qualche esempio nelle società primitive il gioco culturale era la rappresentazione dell’esistenza per il primitivo, era autochiarificazione e autointerpretazione (cfr. Fink 1960: 214 tr. it.) e il ruolo dello sciamano era quello di aggraziarsi la benevolenza delle forze divine, mentre in Cina ancora oggi la danza e la musica sono strumenti prediletti per la guida dell’uomo per la retta via. Infine in molte civiltà è radicata la convinzione che i giochi/riti svolti durante le feste stagionali determino effetti divini e siano utili al buon procedimento delle stagioni e del raccolto. Il culto quindi è un modo per instaurare una relazione con il divino, legato al bisogno umano di difendersi dall’ira degli dei ed è un processo attivo, in quanto causa l’effetto raffigurato nell’azione attraverso il compimento di gesti simbolici e riti ludici a cui l’intera comunità è chiamata a partecipare. La sua funzione infatti non è un puro e semplice imitare ma un partecipare, nel doppio senso di comunicare e co-agire. Le pratiche sacre oltre che alla forma del gioco ne assumono anche lo stato d’animo, quello della festa. Festa e gioco hanno molte cose in comune: sospensione della solita vita, tono allegro, limitatezza nel tempo e nello spazio. In questo clima ludico dei riti nascono prospettive di mutamento del mondo, ci si libera dell’oppressione esistenziale e si prova un diversificato rapporto con gli altri uomini (cfr. Huizinga 1939 tr. it.). Fink afferma inoltre che attraverso il culto non sono solo gli uomini a giocare; LA CULTURA IN GIOCO / 97
anche gli dei a loro volta giocano con gli uomini che giocano ad essere giocati, come fossero giocattoli nelle mani degli dei, perché essi stessi si rendono tali attraverso la credenza a superstizioni e suggestioni (cfr. Fink 1960 tr. it). Il culto, da istituzione a vuoto cerimoniale. Il gioco culturale era al centro della vita dell’uomo arcaico. L’evoluzione del culto ha seguito diverse tappe: lo stadio più antico sembra essere quello della magia della maschera. Su essa si fonda successivamente la tecnica magica e infine come terzo stadio si ha il gioco culturale (i primi due non scompaiono quando si evolve il gioco culturale, si conservano in esso). Che sia attraverso una maschera o attraverso la vestizione con abiti cerimoniali, l’uomo ha sempre creduto che attraverso il mascheramento fosse possibile arrivare ai demoni e agli dei più fortemente e più essenzialmente che in tutti gli altri campi di vita. Nelle società primitive e nelle tribù arcaiche il travestimento era una sfida ai demoni. Non era libero a tutti, era solo per i sacerdoti e gli stregoni. Le maschere, un tempo come ancora oggi nelle tribù che ancora le utilizzano, non sono considerati dei giocattoli con cui si gioca ma un qualcosa in cui si gioca (cfr. Fink 1960:198 tr. it.). La maschera infatti apre lo spazio ludico del gioco culturale; «nascondendosi in essa ha inizio il gioco – un gioco in ogni caso, che ha una serietà terribile, pericolosa, sinistra. L’uomo travestito diventa ambiguo, equivoco, inconoscibile, compare proprio mentre si nasconde, come una potenza simile ai demoni» (ibid: 206). La maschera è oggetto magico, è il sortilegio stesso. Con l’evolversi della società il gioco culturale diventa pratico e mantiene i collegamenti con il divino attraverso l’invocazione o la preghiera. Si libera dalla situazione di necessità e diventa pratica con precise scadenze annuali. Diventa inoltre lo spettacolo della comunità durante una festa divina, diventa espressione della potenza divina e paradigma del dolore umano. Il gioco viene compiuto dai giocatori umani come servizio agli dei e come offerta votiva; giocando ad essere giocati, giocano il proprio ruolo di essere umano, che consiste nell’essere giocattoli degli dei (cfr. ivi: 212-213). Con il progresso umano e lo sviluppo delle religioni, si passa successivamente dai dei/demoni arcaici e dalle credenze religiose delle grandi chiese alla fede scientifica. L’uomo diventa “terreno”, intende la terra come dimora disincantata dell’umanità che produce essa stessa la sua vita, gli dei non esistono, si deve fondare l’umanità su se stessa e quello che prima era implorazione agli dei ora è gioco profano. Il gioco religioso perde il suo carattere di legame di riunione della comunità in presenza di Dio e rimane gioco solenne. La nostra epoca lontana dall’originalità dei tempi arcaici è l’epoca più priva di divinità, solitamente considerata nichilista, e il gioco culturale si deteriora nelle profanazioni e diventa vuoto cerimoniale (cfr. ivi: 246-257). Caillois (1960) a tal proposito indica i giochi e giocattoli moderni come dei “miti senza riti”, in quanto hanno perso il loro valore originario e sono stati progressivamente degradati a livello di distrazioni. In una fase precedente, nelle società in cui hanno avuto origine infatti questi erano parte integrante delle istituzioni, sia religiose che laiche. In quei contesti non erano dei giochi, nel senso che si dà ai giochi dei bambini. Tuttavia è mutata la loro funzione sociale, non la loro natura. Questo decadimento non ha fatto che rivelare, isolandolo, ciò che in essi non era che gioco, struttura di gioco. Strumenti, simboli e rituali della vita religiosa, comportamenti e gesta della vita militare, vengono normalmente imitati dai bambini che si divertono a comportarsi come gli adulti, a fingere per un momento di essere adulti. Per questo, ogni cerimonia, 98 / IL GIOCO COME MODELLO DI COMUNICAZIONE
o più in generale ogni attività rigorosamente regolata, non appena presenta degli elementi suggestivi o rivesta una qualche solennità, e soprattutto se l’officiante per adempierla indossa un costume speciale, serve normalmente da supporto a un gioco che la riproduce a vuoto. In sintesi si è portati a pensare che non vi sia uno svilimento di un’attività seria degradata a divertimento, ma piuttosto presenza simultanea di due diversi registri (cfr. Caillois 1960 tr. it). Il rito oggi. Oggi c’è un diffuso pregiudizio nei confronti del rito, in quanto esso richiama alla memoria persone in situazioni formalistiche e un po’ ridicole (i professori che indossano le toghe alle lauree, i camerieri che in ristoranti da poco sottopongono al parere del cliente vini scadenti,…). Ciò che c’è di ridicolo però non è il rito in sé ma la sua incongruità. Se consideriamo come rituale qualsiasi comportamento prestabilito e prevedibile, orientato da qualche simbolo e provvisto almeno per i partecipanti di sacralità, scopriamo che la nostra vita ne è pregna ed è essenzialmente ritualizzata. La nostra vita inoltre è intrecciata alla vita degli altri. Due rituali molto importanti per l’uomo sono l’ingresso e il congedo dalla razza umana, ovvero la nascita e la morte (in alcuni popoli primitivi la nascita corrisponde al passaggio dalla pubertà alla vita adulta, ed è segnato da un preciso rituale, così come la morte di un individuo può anche non essere fisica ma dettata dalla la società nel momento in cui decide che per una serie di ragioni un uomo è “morto”, rinnegato, che quell’essere umano non le appartiene più). In quanto messa in scena di una relazione cerimoniale il rito pretende una sacralità, che però è suscettibile sotto certe condizioni, di essere abbassata e negata e quindi di suscitare il riso. Nei rituali è sempre presente questa dimensione ludica a doppio taglio, fonte di sacralità e di dissacrazione. Dire che questi riti sociali oscillano tra solennità e riso significa che essi sono per essenza ludici. Tuttavia oggi, come nel caso dell’azzardo e del rischio, sono mutate le condizioni dei giochi sociali ma non lo spirito profondo che li anima e quindi anche l’elemento rituale non è scomparso ma si è modificato diffondendosi in ambiti nuovi. Basta pensare agli sport, giochi ritualizzati di massa, invenzione moderna del secolo scorso, sono giocati da professionisti e sono veri e propri spettacoli. Con questo non si cerca di vedere negli sport forme di rito, capaci come ogni altra di rivelare passioni profonde, senso di solennità e ridicolo, sacralità e dissacrazione. Il punto rimane che tutte queste passioni sono alimentate da giochi e sport che nonostante tutto mantengono un qualche valore di sacralità proprio perché sono occasioni ritualizzate. A ben vedere si può osservare come i riti, oggi come in passato, proteggono la “materia incandescente della vita”, in quanto ne regolano il ritmo e le manifestazioni. La difficoltà sta nel fatto che nel mondo nessuna autorità governa i riti o li gerarchizza mentre un tempo ogni gruppo disponeva dei suoi diritti rituali riconosciuti. Questo ha portato a un’esplosione della libertà rituale e i riti sono divenuti spesso occasione di conflitti, in nome di una specie di lotta per la supremazia piuttosto che per la solidarietà tra di essi. Un rituale sociale è poi soggetto a mutamenti di regole e di interpretazioni, con la conseguenza di un sovraccarico di cerimonie nella vita pubblica, in cui si cerca o si finge di far rivivere riti che non hanno più senso e altre che mantengono invece una profonda sacralità (le toghe universitarie e i grembiuli di cuoio massonici suscitano facilmente il riso perché incongrui, non fanno pensare all’autorità. Invece in una folla che acclama ritualmente i propri campioni sportivi o star musicali risuonano passioni arcaiche, la vittoria e la sconfitta,
OGGI SONO MUTATE LE CONDIZIONI DEI GIOCHI SOCIALI MA NON LO SPIRITO PROFONDO CHE LI ANIMA E L’ELEMENTO RITUALE CHE IN ESSO SOGGIACE NON È SCOMPARSO MA SI È MODIFICATO DIFFONDENDOSI IN AMBITI NUOVI
LA CULTURA IN GIOCO / 99
l’estasi e il divenire corpo collettivo, che nessuna razionalizzazione ha potuto far cessare). Nel fatto che i riti si sono trasformati e non estinti si conferma la natura ludica della nostra esperienza. Qualsiasi manifestazione della vita con gli altri necessita di regole, simboli e occasioni appropriate. Noi potremmo concepire allora i giochi sociali odierni come incessanti ridefinizioni dei riti, delle loro regole e della loro sacralità (cfr. Dal Lago, Rovatti 1993).
3.2. IL GIOCO NEI SECOLI E IL SUO RUOLO NELLA SOCIETÀ
L’UOMO È FATTO PER ESSERE UN GIOCATTOLO, STRUMENTO DI DIO, E QUESTA È VERAMENTE LA SUA PARTE MIGLIORE. EGLI DEVE, DUNQUE, SEGUENDO QUELLA NATURA E GIOCANDO I GIOCHI PIÙ BELLI, VIVERE LA SUA VITA, PENSANDO PROPRIO L’INVERSO DI CIÒ CHE OGGI SI PENSA.
I giochi sono strettamente connessi ai valori culturali di ogni epoca: un gioco può confermare questi valori o può metterli in dubbio; un gioco può consolidare certi comportamenti e ideali o può incrinarli, metterli in discussione. Il rapporto tra giochi e culture è un rapporto dinamico. Ci sono alcuni giochi che rappresentano in maniera evidente un preciso modo di essere nel mondo: sono giochi che offrono una chiave metaforica della vita e delle relazioni fra persone (cfr. Staccioli 2004). Come ricorda un passo del libro Homo Ludens di Huizinga (1939) la cultura, sin dal suo esordio è essenzialmente giocata: Non è stato difficile indicare, nello sviluppo di tutte le forme importanti della vita sociale, un fattore ludico particolarmente attivo e fertile. La rivalità sotto forma di gioco, come fautore di vita sociale più antica di qualsiasi cultura stessa, dominò il vivere umano sin dai primordi e maturò come un fermento le forme della cultura arcaica. Il culto sorse e crebbe in gioco sacro. La poesia nacque in gioco e continuò a vivere di forme ludiche. Musica e danza erano gioco puro. Saggezza e sapere si manifestarono in gare sacre. Il diritto dovette svincolarsi dal gioco sociale. Il regolamento della lotta con le armi, convenzioni della vita nobile erano basate su forme di gioco. Si ricavò la logica conclusione che la cultura, nelle sue fasi originarie, viene giocata. (Huizinga 1939: 204 tr. it.)
Platone, Leggi,VII, 803 C
Attraverso l’analisi del ruolo del gioco nelle varie fasi storiche dello sviluppo della civiltà è possibile osservare come questo sia un elemento di forte influenza per l’evolversi della società stessa, anche se in questo senso, il quadro sulla situazione moderna non è dei più rosei. Tuttavia è potenzialmente plausibile che, attraverso una nuova rivalutazione e riutilizzo del gioco nella società attuale, sia possibile donargli nuovamente quella carica vitale e creatrice di coesione ed etica sociale che l’ha caratterizzato durante i secoli passati.
3.2.1. LA DIMENSIONE LUDICA NELLA SOCIETÀ ELLENICA E ROMANA La società ellenica era così profondamente imbevuta dell’elemento ludico che questo era a malapena percepito come cosa eccezionale. Nella tragedia e nella commedia il gioco si manifesta continuamente; nascono come giochi seri (per Dionisio) e stanno nell’ambito dalla gara (Huizinga 1939: 171 tr. it.). La distinzione tra serio e non serio è eliminata completamente nel dramma greco. In Eschilo la serietà più profondamente sentita si realizza in forma e qualità di gioco. In Euripide il tono oscilla tra il frivolo e il serio. Platone nei suoi scritti fa dire a Socrate che il vero poeta deve essere tragico e comico, che tutta la vita umana deve essere considerata contemporaneamente come tragedia e commedia. Anche il rapporto tra culto, danza, musica e gioco era molto 100 / IL GIOCO COME MODELLO DI COMUNICAZIONE
forte ed è espresso chiaramente nelle Leggi II 653 di Platone dove spiega che gli dei, impietositi della sofferenza umana, hanno deciso di istituire come pausa alle sofferenze le feste votive, donando agli uomini come compagne le Muse e la loro guida Apollo e Dionisio affinché mediante quella comunanza festiva con gli dei, fosse poi sempre ristabilito l’ordine delle cose (ivi: 187). La cultura romana a prima vista sembra essere meno ludica di quella ellenica, per via della sua struttura rigida, pratica, realistica e superstiziosa. In realtà erano molto frequenti le feste per ingraziarsi gli dei (ludi) e l’aspetto ludico era molto radicato nella società romana come in quella greca, seppur in modo meno evidente (cfr. Huizinga 1939). Il ludus andava ben oltre l’ambito del gioco infantile e dell’istruzione scolastica da cui in buona parte prescinde: fu apprendistato sociale. Infatti «produceva e sperimentava l’ambizione sociale alla romana, nella sua forma più elevata, vale a dire civica» (Frasca 2007: 14) Il ludus era visto come un dispositivo pedagogico all’interno della famiglia. I bambini, in questo ambiente, venivano indottrinati al comportamento da tenere nella società e alle conoscenze indispensabili a seconda dello status sociale di appartenenza. Il ludus era “luogo” e “strumento” di legame tra la trasmissione di teorizzazioni (sull’educazione, sui compiti e le professioni e sul loro svolgimento, sulla ritualità, sulla competizione) e la loro messa in atto. Era quindi il modello di riferimento e la palestra per esercitarsi alle regole socialmente codificate e condivise dall’impero. Le regole (di qualsiasi disciplina insegnata, da quelle grammaticali a quelle ginniche) erano insegnate, apprese ed esercitate nel ludus, che era palestra quindi del gioco sociale (cfr. ivi: 15). Il ludus, al di fuori dell’ambiente domestico, assume altre connotazioni. Negli spettacoli celebrati con rito solenne prescinde dal divertimento per inserirsi nel contesto della dimensione liturgica, sia in senso religioso che laico; questa ne esalta la portata coinvolgendo tutti i presenti in un’esperienza di gruppo fortemente socializzante, riuscendo quindi a unire le singole persone e farle divenire un corpo sociale. In questo ambito i ludus sono identificati con i giochi pubblici e spettacolari denominati scaenici et circenses, che nacquero come manifestazione religiosa legata alle divinità autoctone per poi venire influenzate dalla cultura ellenica e orientali ed essere dedicate principalmente al Sole, alla Luna e ad Ercole. In seguito vennero celebrati anche in occasione di vittorie militari, conseguimento di cariche pubbliche, nascite, morti, quindi eventi che potevano essere pubblici o privati ma che in ogni caso richiamavano a una folta aggregazione del popolo. I ludi circensi erano talmente comuni che nell’epoca di Augusto si registrano 66 giorni l’anno dedicati ufficialmente a questa pratica fino ad arrivare all’epoca di Marco Aurelio (II secolo) a 135 giorni l’anno. La predominanza di questi ludi in queste occasioni che oggi definiremmo mediatiche e propagandistiche continuarono anche durante le epoche successive, sebbene furono molto criticate dagli opinionisti e successivamente dai cattolici per gli aspetti di dubbia morale e distaccamento dal genuino sentire tradizionale. Soltanto nel Basso Impero però giunsero alla fine e vennero definitivamente proibiti da Onorio nel 404 (cfr. ivi: 16). Tutta la città era pregna di luoghi di culto/gioco: arene, templi, circhi, bagni. Si proclama il benessere dell’impero (o così si voleva far credere, negli ultimi anni di decadenza) attraverso manifestazioni ludiche e sacrali. L’elemento ludico nei romani si esprime nella formula “panem et circenses” (pane e giochi), ovvero ciò che il popolo esigeva dallo stato: sostentamento ma anche ragione di vita, il pane come i giochi. Senza questi due elementi l’impero non poteva esistere. L’elemento ludico nella cultura romana si esprime anche nelle forme di lette-
Figura 3.1. “Achille e Aiace intenti a un gioco da tavolo”, c. 540-530 a. C., Anfora a figure nere, Città del Vaticano, Musei Vaticani. Figura 3.2. “Fanciulle in bikini”, 285-305 c.a., mosaico, Piazza Armerina, Villa del Casale.
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ratura e arte. La vita è un gioco di cultura in cui il fattore religioso si mantiene come forma ma da cui è scomparsa la consacrazione (cfr. Huizinga 1939 tr. it.).
3.2.2. MEDIOEVO E RINASCIMENTO Il pregiudizio che si è trasmesso fino ad oggi, di considerare il Medioevo come il periodo più buio della storia contrapposto al successivo Rinascimento, può travisare il fatto che in realtà l’aspetto ludico anche in questi secoli era un elemento fortemente presente nella vita quotidiana. Nobili, ecclesiastici, borghesi, contadini e artigiani si dedicavano al piacere del corpo e dello spirito travestendosi, bevendo, cantando e ballando e c’erano feste per ogni occasione, da quelle liturgiche a quelle pagane legate alle stagioni, si praticava la caccia e la pesca per diletto, si festeggiavano matrimoni, fidanzamenti, funerali, tornei, investiture di cavalieri, corporazioni e si contestava con le “feste dei folli” l’ordine sociale prestabilito (cfr. Giallongo 2007: 28). La vita medioevale è colma quindi di vivace gioco popolare, pieno di elementi pagani che hanno perso il loro senso sacro diventando scherzo, maestoso gioco cavallerezzo, gioco raffinato dell’amore cortese. Convivevano due tipi di società, la “civiltà del lavoro” e “la civiltà degli svaghi”, i quali producevano puro e semplice godimento ed erano parte integrante dell’attività quotidiana. A testimonianza del ruolo sociale dei giochi arriva a noi anche uno dei trattati più imponenti e finemente decorati dei problemi scacchistici, il Tractatus partitorum Schachorum Tabularum et merelorum Scriptus anno 1454 (ibidem). Altre importanti fonti che documentano come il gioco fosse radicato nella società medioevale e rinascimentale sono anche il famoso quadro dei giochi di Bruegel e la lista dei giochi popolari di Rabelais (1484-1553). La competizione ludica era funzionale al controllo di sé. Queste forme di gioco non hanno però ormai il compito di formare cultura, in quanto quest’epoca ha già ereditato dal passato le grandi forme di cultura come la poesia, il rito, la sapienza, la scienza, la politica, la guerra. Il fattore ludico poteva essere creativo quindi solo in quegli aspetti della cultura che non si basavano sulla radice antica, ovvero nelle origini delle istituzioni cavalleresche e nelle forme feudali, (nel rito dell’investitura di un cavaliere, nell’omaggio di un vassallo, in un torneo, nei riti cavallereschi troviamo il fattore del gioco in piena forza e creatività), l’amministrazione e l’esecuzione della giustizia con i loro simboli e strane formalità, nelle corporazioni e nella scuola dove la disposizione ludica ha grande influenza sullo spirito medioevale (cfr. Huizinga 1939 tr. it.).
Figura 3.3. Torneo medievale, 1305 c.a., Zurigo, tratto dal Codex Manesse, manoscritto miniato della famiglia Manesse.
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L’avvento del Cristianesimo. Con il cristianesimo cambia anche il modo di giocare e di rapportarsi con il ludico. Le prime comunità di cristiani non inventarono giochi nuovi ma continuarono a partecipare a quelli già esistenti. Il gioco in questo primo periodo era visto come attività benevola alla formazione del cristiano, tanto che Clemente Alessandrino (150-215 d.C circa), direttore della scuola cristiana di Alessandria, nel Pedagogo giustifica per il benessere del credente la lotta, il gioco della palla, e vari passatempi per rafforzare il corpo e quindi la gioia di vivere dell’anima, demonizzando però il gioco d’azzardo e le gli spettacoli dei gladiatori e teatrali, anticipando poi il progressivo passaggio dalla cultura classica alla nuova concezione cristiana che vedeva con sospetto gli svaghi e i passatempi che, se degenerati, portavano alla rovina delle famiglie e della società (cfr. Giallongo 2007: 29).
Con il passare dei secoli la concezione del ludico nel cristianesimo peggiorò e il gioco iniziò ad essere considerata un’azione corporea dannosa e negativa che offendeva l’anima. Nella Regola di San Benedetto, redatta dopo il 530, viene messa al bando per la vita monastica la parola ludere, i giochi di gruppo e il riso individuale. La ricerca del mondo interiore escludeva ogni tipo di piacere e di svago, a favore di una vita esclusivamente dedicata alla preghiera, allo studio e al lavoro (cfr. ivi: 30). Il Rinascimento e i giochi aristocratici e popolari. Come già visto nel capitolo 2.1.1., dei passatempi molto in voga presso ogni classe sociale, soprattutto tra le donne, erano le nuove forme di evasione che si diffusero a partire dal XIII secolo grazie soprattutto allo sviluppo delle lingue volgari. In particolare Angela Giallongo (2007) si riferisce ai romanzi cavallereschi, le novelle e le ballate che dal XI secolo i giullari cantavano in piazza intrattenendo il pubblico analfabeta. In Italia, circolavano dei componimenti giocosi e poesie burlesche nei dialetti umbro, toscano, siciliano, emiliano e veneziano che insieme alla ricca tradizione dei bestiari, trasmettevano messaggi morali intrisi di comicità e satira. Il gioco considerato più nobile per lo spirito, soprattutto tra le classi più agiate, era il “novellare” accompagnato da danza e canto, nella più classica concezione dell’ideale di vita edonistica che promuoveva uno stile di vita dedito al piacere tipico della cultura rinascimentale. Per la gente comune invece, che doveva affrontare le difficoltà della vita di tutti i giorni, c’era una ricca produzione di novelle in volgare e facilmente comprensibili che, pur riguardando storie piene di gesti scherzosi, irriverenti grossolanità, promuovevano le libertà comunali e aiutavano il popolo a migliorare la coscienza etica e civile (cfr. ivi: 34). Per quanto riguarda i giochi all’aperto, molto in voga tra l’aristocrazia erano le attività come i tornei, l’arco, la balestra, la scherma, la caccia, le corse con i cavalli, l’addestramento degli animali considerati passatempi molto virili. In particolare, il passatempo privilegiato dagli aristocratici era la caccia, che divenne un importante strumento di conoscenza della natura. Infatti le uscite di caccia si trasformavano in pretesto per conoscere meglio la fauna e la flora locale, e piacere estetico per la vista di splendidi scorci di natura incontaminata. Dall’ attività venatoria deriva in un secondo momento l’arte dell’osservazione degli animali, tra cui un passatempo molto in voga ancora al giorno d’oggi come il birdwatching. Accanto a questo aspetto ludico la caccia serviva anche da palestra in tempo di pace per i giovani destinati alla guerra, in quanto li istruiva all’uso delle armi e li temprava psicologicamente. Ma è nei tornei soprattutto che si esprimeva al massimo la vocazione maschile alla guerra. Nonostante fossero vietati dalla chiesa, i tornei avevano una fortissima presa sul popolo tanto che venivano periodicamente svolti anche nei villaggi e chi fin dalla tenera età si dimostrava portato per la cavalleria e le armi veniva incoraggiato a intraprendere la strada dei giochi militari (cfr. ivi: 36). Il ruolo della musica. La musica svolse un ruolo essenziale nella vita medioevale e rinascimentale, soprattutto per l’accompagnamento ai giochi e all’educazione che senza essa sarebbero stati inconcepibili. La musica nel 787, con il proclama di Carlo Magno, divenne materia di studio obbligatoria in ogni monastero. Anche nelle università svolgeva un ruolo di primo piano nella formazione intellettuale dell’individuo, affiancandosi a materie come l’arte, la scienza e la filosofia. Come ricorda Angela Giallongo (cit. in Cambi, Staccioli 2007: 37) «le abilità musicali, incoraggiate dalla Chiesa, coltivate dall’aristo-
Figura 3.4. Giocatori di Backgammon, lunetta del portico, interno di un’ osteria, XV secolo, Castello d’Issogne, Val d’Aosta.
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crazia, onorate dalle università, dai ceti cavallereschi e dalla borghesia mercantile erano basilari nella formazione religiosa e secolare di entrambi i sessi». La musica, così fortemente radicata nella società, era un potente mezzo educativo e di comunicazione. Umanesimo e interesse medico del gioco. Negli anni dell’Umanesimo, il tema del gioco venne trattato anche in ambito medico. Secondo la letteratura medica e divulgativa dell’epoca questo era una sorta di antidoto al malumore che predisponeva alle malattie e quindi un importante strumento per tutelare la salute. Questo non solo perché i giochi alleviavano lo spirito, ma anche per i loro supposti benefici sul corpo: Erasmo da Rotterdam e Rabelais per esempio, erano convinti sostenitori del gioco delle bocce per il suo effetto benefico sui reumatismi e sulla digestione. Con l’Umanesimo anche il ruolo educativo dei giochi dei bambini inizia ad essere riconosciuto: Filippo di Novara in Les quatres tensede l’age de l’homme definisce il gioco dei fanciulli essenziale per la loro formazione come uomini sui futuri ruoli sociali che sarebbero stati chiamati a coprire e esorta le famiglie a lasciarne libero sfogo valorizzando sia il gioco spontaneo che quello guidato. Nel 1256 il medico Aldobrandino da Siena chiedeva a genitori e maestri di non caricare eccessivamente i bambini di impegni seri e lasciarli liberi di giocare. Francesco da Barberini incoraggiava a un’educazione priva di emozioni negative (paura, tristezza, pianto, ira), cercando di mostrarle non come cose pericolose ma cose nuove, per incoraggiare una buona disposizione dell’animo. In sintesi in questi secoli viene data un’ulteriore interpretazione del gioco e in particolare del suo ruolo nell’infanzia, e già dal medioevo si cercò di utilizzare il gioco come strumento per ingentilire il modo di fare delle future generazioni. Soprattutto nelle famiglie più abbienti il gioco veniva utilizzato come mezzo educativo, intervallando i momenti di studio serio a quelli di svago (cfr. ivi: 40-43).
3.2.3. IL GIOCO NELLA MODERNITÀ
Figura 3.5. A mosca cieca, da Le chansonnier de Paris, 1280-1315, Montpellier, Museo Atger.
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Come successo in tutti gli altri ambiti della vita umana la Modernità segna un periodo di svolta rispetto al passato anche per il tema ludico e il gioco. Con una mentalità più aperta, laica, razionale, liberale, democratica e con ideali come quelli del progresso, l’uomo moderno si fa cosciente di sé e della propria libertà, coltiva se stesso e ricerca il senso del proprio destino (cfr. Cambi 2007: 50). In questo clima ritrova la giusta attenzione anche il tema dell’infanzia, emblema di futuro e speranza, e contemporaneamente l’intera vita sociale muta, si creano nuovi luoghi di aggregazione, nascono nuove etiche (del successo, della responsabilità) e nuove pratiche. Nel Moderno rimane netta la distinzione tra élites e popolo, che porta quindi alla compresenza di due diverse culture, innovativa la prima e più legata alla tradizione la seconda. Volgendo lo sguardo alla storia dei giochi nell’era moderna si assiste a una progressiva laicizzazione di una serie di pratiche spettacolari (e ludiche, come le feste), riti e simboli vengono ripresi e rinnovati. Nei nuovi spazi di aggregazione sociale (salotti, club) vengono introdotti nuovi strumenti di passatempo e di gioco come la lettura e i giochi di società e il gioco in generale assume un «ruolo sociale fondamentale […] favorendo con esso quella “vita di società” che è un prodotto tipico del Moderno e che è rimasta in uso con i suoi riti, le sue cerimonie, le sue pratiche, fino all’avvento della società di massa» (ivi: 52).
In questi secoli forte è anche il legame tra feste e gioco. Le feste del potere e quelle private riscoprono il potere ludico del festivo: in quelle pubbliche vediamo la rivalorizzazione dei cortei, dei carri simbolici, della festa di piazza, di canti, balli e giochi collettivi mentre in quelle private tutto gira attorno al “ricevere” e al “conversare” incorniciato da musica, balli e scambi sociali che insieme formano un grande gioco collettivo. La città e i suoi spazi offrono occasione di gioco e la festa e i ludi hanno una precisa valenza ideologica e sociale; tutti i cittadini partecipano all’organizzazione, in nome di una nuova ritrovata identità laica popolare. Tra parate, cortei e feste si valorizzano le città, le piazze e i suoi monumenti come “spazi sacri alla nazione”, sentita come un valore.
Figura 3.6. François De Troy, Salotto letterario, 1728.
L’estetica Barocca. Molto visibile è anche l’aspetto ludico in tutte quelle manifestazioni artistiche del Seicento che si è soliti catalogare sotto lo stile Barocco. L’idea di Barocco richiama alla mente ornamenti e stili volutamente esagerati e fittizi, oggi li definiremmo un po’ pacchiani, una volontà di passare i limiti spiegabile proprio per il valore ludico dell’impulso creativo. Questo carattere ludico, di gioco del Barocco, è ben evidente anche nel modo di vestire dell’epoca, che è spesso esagerato al massimo, e in particolar modo nelle parrucche, accessorio indispensabile nei guardaroba di donne e uomini nobili e altolocati. Il fenomeno della parrucca, secondo Huizinga (1939) proprio per la sua lunga durata (raggiunse il suo apice a fine Settecento), non fa che evidenziare ancora una volta una delle evidenti manifestazioni ludiche della cultura. Dopo il Barocco anche il rococò continua a mostrare il suo legame col gioco in modo sempre più vivo, tant’è che spesso, per molto tempo rococò e elemento ludico valsero come sinonimi (cfr. Huizinga 1939: 218 tr. it.). La cultura della “joie de vivre” e gli spazi dedicati al gioco. Nel moderno iniziamo quindi a vedere in modo esplicito, e soprattutto cosciente per chi vi partecipava, al gioco come modello comportamentale della comunità. Talvolta si faceva strumento politico, come nelle corti francesi dove il gioco, l’animo di “gioia di vivere” e il modello delle “buone maniere” servivano a placare gli animi e a scongiurare ogni possibile rivolta dell’aristocrazia (cfr. Cambi 2007: 54). Oltre alla corte un altro spazio ludico formativo per eccellenza erano i salotti, dove a farla da padrone erano le donne; in questi luoghi infatti maturò la “civiltà della conversazione”, del confronto con l’altro, dello scambio di idee e di punti di vista. Il gioco ritorna centrale anche nei caffè e nei club, sia come conversazione che come intrattenimento, soprattutto a partire dal Settecento dove accanto allo spazio destinato al gioco, avvengono incontri e scambi di idee. Non a caso la storia ci insegna che saranno proprio i caffè, per la loro connotazione di aggregatore sociale privilegiato, la culla delle avanguardie che a partire da fine ottocento animeranno poi tutto il secolo successivo. Anche le case alto-borghesi modificano il proprio assetto alla luce di un ritrovato piacere ludico: nascono le stanze dei giochi dei bambini e ogni salotto che si rispetti ha un angolo da conversazione e un suo tavolo da gioco. Si moltiplicano i giochi da tavolo per adulti, pur continuando ad essere demonizzati i giochi d’azzardo, in quanto eticamente distruttivi, e il giocare e il gioco si caricano di significati ideologici, etici e sociali. L’illuminismo e il dominio della ragione. La massima valorizzazione del gioco arriva a partire dal Settecento con l’Illuminismo, dove anche la ragione è considerata ludica ed ha aspetti evasivi e fantasiosi. Schiller con lo Sturm und LA CULTURA IN GIOCO / 105
Drang rilancerà il gioco come elemento chiave della formazione umana e in particolare, nelle Lettere sull’educazione estetica, si concentrerà sul carattere produttivo del gioco, e della sua duplice natura reale e simbolica. Anche in Diderot troviamo onnipresente il tema del ludico, del mascheramento, del gioco scenico e del dialogo scherzoso. Persino nelle Critiche di Kant e in Locke nei Pensieri sull’educazione ritroviamo il tema ludico presente sulle riflessioni filosofiche sull’uomo e sulla ragione. Secondo Cambi (2007: 59) «tutto l’arco filosofico della Modernità produce una, via via, più sensibile e più alta (di più alto significato e simbolico e teoretico) attenzione al gioco, al suo tipo di attività, al suo valore intrinseco e per l’uomo e per la mente e per la società, oltre che per la cultura». A dispetto dell’apparenza, è innegabile che il fil rouge del ludico prosegua anche nelle epoche successive al rococò, nel Neoclassicismo e nel Romanticismo, seppur queste epoche sembrano contraddistinte da uno stato d’animo malinconico e cupo. Guardandole con più attenzione però si nota che è esattamente il contrario. Secondo Huizinga (cfr. 1939: 222) il classicismo dell’architettura e della decorazione interna inglese nasce dallo spirito giocoso del Settecento e il Romanticismo, nelle sue origini, si può descrivere come un bisogno di trasportare la vita estetica ed emotiva in uno spazio immaginario legato al passato, cupo e misterioso, ed è proprio in questo aspetto dell’immaginario che si esprime il gioco. Insieme al gusto per il gotico prende spazio anche il sentimentalismo. Questo bisogno di vivere e pensare sentimentalmente secondo Huizinga non poteva essere troppo profondo e veniva anzi preso più presumibilmente come un gioco. La Modernità ha quindi rilanciato il gioco come attività sempre più centrale nella società, diffondendolo in molti aspetti della vita sociale, tra le varie classi sociali e le diverse età, e ne ha fatto fenomeno quotidiano. In questi anni è nata l’industria del giocattolo e anche i giochi degli adulti si sono legati sempre più al “fare spettacolo”, alla musica, al teatro, ma anche alle schermaglie della conversazione. La Modernità ha prodotto anche una sostanziosa teorizzazione del ludus, del suo valore e del suo ruolo nella formazione umana, per perseguire il modello della società della gioia, estetica (cfr. Cambi 2007: 60).
3.2.4. L’OTTOCENTO BORGHESE
Figura 3.7. Jean-Honoré Fragonard, Mosca cieca, 1760, Toledo, Ohio
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Con l’avvento della prima era industriale e il mito del lavoro, a primo impatto potrebbe sembrare che nell’Ottocento venga lasciato poco posto alla funzione ludica come fattore del processo culturale. Già nel Settecento lo spirito sociale era ispirato alla nozione utilitaria e all’ideale borghese di prosperità ma è con la rivoluzione industriale che questi aspetti si sono accentuati e sono diventati centrali nella vita dell’individuo. Lavoro e produzione diventano degli ideali da perseguire, degli idoli. Senso sociale, giudizio scientifico e tendenza educativa diventano centrali nel processo culturale. Le grandi correnti dell’800 si opponevano al fattore ludico nella vita sociale. Anche nell’arte, con realismo, naturalismo e impressionismo regnavano forme estranee al gioco. Si perdono anche gli elementi del senso decorativo. Nell’800 quindi nelle manifestazioni culturali l’aspetto ludico era messo a disparte. L’organizzazione spirituale e materiale della società impediva un azione visibile del fattore ludico. Gli uomini avevano un’eccessiva consapevo-
lezza dei loro interessi e delle loro aspirazioni, credevano di aver superato l’età dell’infanzia. Gli ideali di lavoro, educazione e democrazia lasciavano a malapena spazio all’eterno principio del gioco (cfr. Huizinga 1939:225-228 tr. it.). Tuttavia è proprio nell’Ottocento che vennero prodotte molte delle opere che avevano come obiettivo quello di fornire una rassegna delle attività ludiche da svolgere durante le visite, le conversazioni, in casa e in villeggiatura, destinate alla società borghese in ascesa. La borghesia nell’Ottocento infatti aveva tra le sue caratteristiche, un attento riguardo per la dimensione ludica, presa in eredità dal modello della joie de vivre delle corti francesi ma riadattata secondo i tempi e le mentalità degli uomini industriali, che vedevano nel gioco una meritata parentesi ricreativa dopo le lunghe giornate di lavoro.
Figura 3.8. Jean-Baptiste-Siméon Chardin, La ragazza col volano, 1741, Firenze, Galleria degli Uffizi.
Lavoro, tempo libero e ottimizzazione del gioco utile. Il gioco dei borghesi ne identificava anche l’appartenenza a quella precisa classe sociale: pur riprendendo le forme del gioco aristocratico, si distingueva da questo per essere limitato e fissato in tempi prestabiliti, in armonia con gli impegni lavorativi, ed aveva anche un ruolo esplicitamente formativo, facendosi strumento per la trasmissione di valori di classe ed educazione al rispetto delle regole e dei limiti. Aiutava ad entrare in relazione con il mondo e facilitava l’incontro tra i due sessi. Ogni gioco aveva una sua ragione di esistere, era utile e finalizzato alla formazione dell’individuo; c’erano i giochi che servivano ad irrobustire il corpo, altri erano pretesto di sfoggio delle proprie qualità davanti al pubblico, erano svago necessario dopo il lavoro, alcuni giochi erano indicati per sviluppare determinate qualità (come il volano che era destinato alle signore per renderle più leggiadre), ecc. (cfr. Vanni 2007: 62-64). Una buona educazione borghese poi era imprescindibile dalla capacità di giocare, “stando al gioco e mettendosi in gioco” negli incontri pubblici in società. Vengono quindi insegnati ai giovani borghesi quelle nuove regole sociali e convenzioni di cui la società si era arricchita, come il “galateo”, che altro non sono che giochi o “sintomi sociali” del bisogno ludico, quale regolatore della vita sociale (cfr. ivi: 54). Il galateo era, ancora una volta, un ludus socialmente utile: civilizzava alle buone maniere ed educava alla socializzazione. Le “buone maniere” poi non erano solo legate all’etichetta, ma comprendevano tutti gli aspetti dell’individuo, dal controllo di sé alla cura della propria persona, fisica e morale. Come già visto precedentemente (v. spazi del gioco) i salotti anche nell’Ottocento continuano ad essere spazio privilegiato allo scambio sociale e scenario naturale dei giochi, sia da tavolo (dama, carte, domino, ecc.) che di movimento (mosca cieca, le ombre, ecc.) o ancora giochi di parole, indovinelli, acrostici, rime, che avevano lo scopo di mostrar l’ingegno e la sagacia dei partecipanti. La villeggiatura rimaneva tuttavia nel tempo di vita del borghese, il momento per eccellenza dello svago e del gioco, di meritato riposo dal lavoro e da dedicare a incontri e conoscenze.
Il gioco nell’infanzia. Nell’Ottocento si avrà una nuova percezione dell’infanzia e del ruolo che il gioco esercita su questa: a partire da Jean-Jacques Rousseau, il bambino viene messo al centro della riflessione pedagogica e, di conseguenza, viene messo in evidenza lo strumento che, in modo naturale, questo utilizza per approcciarsi al mondo: il gioco. Il gioco, secondo questi primi studi, ha come fine l’assimilazione dei ruoli sociali (basti pensare al gioco delle bambole per l’apprendimento del ruolo materno delle bambine e dei soldatini LA CULTURA IN GIOCO / 107
per istruire alla forza e al coraggio i maschietti). Da attività tollerata perché espressione di un essere ancora non adulto, diviene sul piano pedagogico, una risorsa su cui investire e da valorizzare, da sfruttare al meglio per l’educazione attraverso anche l’incitamento a giochi “intelligenti” capaci di sviluppare le abilità cognitive e manuali del bambino. Tuttavia anche quello dei bambini era, come per gli adulti, pur sempre un gioco disciplinato entro tempi e regole, con un inizio e una fine che non ammetteva capricci. (cfr. ivi: 70-74)
Figura 3.9. Theophile-Emmanuel Duverger, Gioco con marionette, 1821-1901, collezione privata.
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L’attenzione al gioco sotto la sfera scientifico-umanistica degli studi folkloristici. Nonostante come affermato precedentemente, vi fossero già a partire dal Settecento dei sostanziosi scritti sul tema del gioco, questo era sempre stato trattato esclusivamente in termini medici o con intenti catalogativi e divulgativi. Soltanto a partire dagli studi folklorici in Germania (Volkskunde) nei primi dell’Ottocento e in Inghilterra (Folk-lore) nella metà dell’Ottocento, il gioco inizia ad essere guardato sotto la sfera scientifico-umanistica come attività sociale. Gli studi sul folklore (sapere, conoscenza del popolo), derivano dagli scritti del sei-settecento sulle antiquitates vulgares, ovvero i “fatti popolari antichi”, trascritti inizialmente per la curiosità dei nobili eruditi e successivamente riconosciuti come importante testimonianza storica e culturale sulle usanze del popolo. Partendo da una minuziosa catalogazione dei giochi degli adulti e dei bambini, riportante anche l’area geografica in cui venivano praticati, gli studiosi si interrogarono sulle origini di questi giochi, sulla diffusione e sulla contaminazione reciproca tra gli stessi giochi o altri simili presenti in altre zone del mondo, talvolta molto lontane tra loro, riuscendo così a fornire una fotografia delle varie attività ludiche esercitate nelle diverse socioculture. Degli studi successivi si sono indirizzati nel capire i meccanismi di diffusione culturale dei giochi e le loro funzioni sociali. È chiaro quindi che almeno dall’Ottocento ci si interroga sulla composizione e sulle attività delle diverse società occidentali, sulla stratificazione sociale e quindi includendo lo studio di quei ceti più corposi, i “ceti popolari”, composti prevalentemente da contadini – e per questo considerato ceto inferiore – in contrapposizione con quelli “superiori” composti da nobili, clero e istruiti. Sotto la nuova definizione di cultura popolare (folk culture) si tende così a spezzare la classica suddivisione della popolazione tra “popolo ignorante” ed “élite colta” puntando invece l’attenzione sul fatto che gli usi e i costumi di queste stratificazioni differiscono ma secondo altri principi: i ceti popolari tendono ad essere più conservatori, promotori delle “tradizioni” per non perderne la memoria, mentre le classi abbienti sarebbero più inclini ai cambiamenti. Grazie a questi studi è stato possibile mettere in rilievo la parte di trasmissione orale classica della cultura popolare che in seguito verrà chiamata performance. Giuseppe Pitré, uno dei primi e più importanti esponenti di studi folkloristici italiani, nella stesura della monumentale Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane, composta di 25 volumi di proverbi, favole, credenze e descrizioni di feste e pratiche magico-mediche e giochi popolari, si trovò di fronte all’evidenza che un gioco poteva essere presente in diversi popoli anche molto distanti tra loro, e quindi si rapportò come altri colleghi, con la difficoltà di rintracciarne precedenze, origini e percorsi. Molti di questi giochi popolari arcaici, avevano contemporaneamente delle funzioni ludiche, simboliche, sacre, religiose e sociali, talvolta anche normative e legali, rappresentavano l’ordine del mondo ed erano per queste se pur simili nella forma, diverse nella sostanza tra popolo e popolo. Ogni società infatti ne da un proprio valore e funzione, questo spiega perché cer-
ti giochi sono più giocati certe società rispetto che in altre (cfr. Lelli 2007: 83-85). È dunque grazie agli studi folkloristici se noi oggi possiamo fare una riflessione ulteriore sul gioco come attività socialmente creativa e costruttiva, osservando come certi modi di giocare e certi giochi riflettono alcune caratteristiche distintive delle società in cui vengono giocate (ivi: 86).
3.2.5. L’EPOCA POSTMODERNA Il termine postmoderno è complesso e legato a una serie di cambiamenti, che decretano la rottura (come dice il nome) con il “moderno”, identificando un periodo storico molto particolare ma anche una serie di stili e indirizzi artistici indipendenti dal passato. Dal punto di vista stilistico il gioco nel postmoderno, così come già nelle avanguardie del Novecento, è fortemente presente nella sfera estetica: secondo Beniamino Sidoti (2007) era un modo per sfuggire alle costrizioni della realtà. Infatti il gioco è ben visibile nelle opere postmoderne, ricche di giochi linguistici e visivi della citazione, della parodia e del rimando. Legato al postmoderno come fenomeno di mutamento sociale, il gioco, come evidenzia Huizinga (1939) è visto come un’attività frivola e superficiale, contrapposto alla mentalità del fare dell’uomo postmoderno. Come afferma Francesca Brezzi nel suo saggio A partire dal gioco: dall’apoteosi del lavoro redditizio ed utile è sì derivata la civiltà dell’abbondanza e del consumismo, dell’efficienza e della produttività, la società dell’avere e del fare, ma altresì una cultura della serietà esasperata e della radicale funzionalità, cultura assolutamente mondana in cui il soggetto, la persona, è totalmente appiattita e frustrata nelle sue connotazioni di creatività festosa, di fantasia immaginativa ed infine anche nel suo legame-rinvio al Trascendente. (Brezzi 1992: 9)
Tuttavia come fa notare Sidoti il gioco, anche se non visibile e anzi, esorcizzato a pratica futile, è la metafora che meglio descrive l’immagine dell’uomo postmoderno: una figura con una personalità “fluida” (termine coniato dal sociologo Zygmunt Bauman) necessaria per rispondere prontamente ai repentini cambiamenti di un mondo incerto e provvisorio. È anche metafora del postmoderno, della ludicità diffusa che chiede di prenderci meno sul serio, con ironia, e rivela le potenzialità degli schemi aperti e non indirizzati. Il gioco inoltre, come riporta Caillois ne I giochi e gli uomini (1967), è metafora calzante del postmoderno, in quanto attività libera, separata, improduttiva, incerta, regolata e fittizia. Secondo Sidoti la società postmoderna è certamente più incerta ma anche più libera, ci spinge a cambiare ruolo con frequenza (è fittizia, secondo la definizione di Caillois), e ci porta a vivere la nostra vita in molti ambiti separati e diversamente regolati (abbiamo poche regole universali e molte regole locali); infine, l’invenzione del tempo libero, la maggiore disponibilità di momenti non lavorativi, fa guadagnare importanza sociale anche all’improduttività. (Sidoti 2007: 101-102)
Lo sport. La rinnovata concezione di lavoro e tempo libero porta a un altro fenomeno collaterale dell’età moderna e delle regole dell’utilitarismo, ovvero la nascita dello sport, derivato dalla progressiva organizzazione e regolazione in circoli e competizioni di quelle gare di abilità e di forza che da tempi remoti occupavano un posto importante in ogni cultura ma erano svaghi occasionali legati al culto o alle feste. Il gioco nello sport viene preso sempre più sul serio, comportando la perdita di gran parte del suo aspetto ludico e allontanandolo
IL GIOCO È METAFORA CALZANTE DEL POSTMODERNO, IN QUANTO ATTIVITÀ LIBERA, SEPARATA, IMPRODUTTIVA, INCERTA, REGOLATA E FITTIZIA. Caillois, 1967
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Figura 3.10. Vignetta del disegnatore satirico Clifford K. Berryman pubblicata sul Washington Post il 16 novembre del 1902, relativo a un episodio accaduto all’allora Presidente degli Stati Uniti Theodore Rossevelt, soprannominato “Teddy”. I lettori si innamorarono dell’orsetto della vignetta e sull’onda del successo, Moris Michtom e sua moglie iniziarono a produrre orsacchiotti di pezza di quelle sembianze, chiamandoli “Teddy Bear”. Il successo fu tale che in breve tempo,“Teddy Bear” divenne il primo prodotto di massa dell’industria del giocattolo. Figura 3.11. Ritratto di famiglia con uno dei primi orsacchiotti “Teddy Bear” prodotti all’inizio del 1900.
sempre più dal senso profondo del gioco (cfr. Huizinga 1939: 240 tr. it.). Lo sport inizia quindi a occupare sempre maggiormente quel “tempo libero” nato dall’organizzazione del lavoro privando l’uomo della sua pratica ludica diretta. Nascono le distinzioni tra amatori e professionisti, che trasformano questa attività in lavoro e le competizioni in spettacolo, dove la soddisfazione psicofisica che si vivrebbe in prima persona durante un’attività ludico-sportiva è relegata al solo livello immaginativo degli spettatori che si esaltano per i gesti atletici altrui. Per questo motivo secondo Anna Kaiser gioco e sport sono evidentemente opposti, in quanto si è perso completamente lo spirito ludico (derivato dalla partecipazione attiva al gioco) per essersi fatta attività eccessivamente seria, dove anche i giocatori peccano di spontaneità e spensieratezza e anziché giocare, lavorano seriamente (cfr. Kaiser 1995: 64). Il gioco merce e la deriva del ludico. Con la rivoluzione industriale anche il gioco entra nel grande settore dell’industria culturale e diventa prodotto. Diventa inoltre sempre più un prodotto legato ai mezzi di comunicazione così come si affermano i giochi per i giornali nascono via via quelli per la radio, la televisione, il computer, il cellulare ecc. Si adattano anche allo stile di vita postmoderno per cui diventano flessibili, multipiattaforma, e plasmati per essere giocati in spazi di tempo determinato, tra un impegno e l’altro. Questo però mette in mostra anche la deriva che il gioco è destinato a prendere proprio da questi cambiamenti radicali. Innanzitutto, entrando nell’ottica economica, inizia ad essere associato a implicazioni remunerative e il fine stesso del gioco diviene il possesso (del bene giocattolo nel caso si tratti dell’acquisto o del denaro e della vittoria nel caso dei giochi legati a competizioni e lotterie). In secondo luogo, il gioco viene progressivamente privato di uno spazio dedicato esclusivamente ad esso e perde il suo senso profondo, diventando mero passatempo occasionale. L’urbanizzazione quanto mai estesa sacrifica gli spazi destinati al gioco, soprattutto dei bambini, che a mano a mano vedono sparire le aie e i cortili delle cascine, finora luoghi privilegiati per i giochi, e anche le strade diventano insicure costringendoli a sacrificare i giochi all’aperto per distrazioni “virtuali” che il settore dell’elettronica prontamente si abilita a fornire. L’interazione elettronica nasce proprio da presupposti di consumo del tempo libero individualistico e la standardizzazione dei giochi elettrici e la sua ripetizione porta pian piano il gioco al livello di un compito da assolvere per raggiungere la vittoria (cfr. ivi: 49). Come osserva Bencivegna (cit. in Sidoti 2007: 107) il gioco si snatura e la cosa che più preme non è usufruire del gioco come terreno di esplorazione ma vincere. La tendenza del gioco postmoderno è quella di standardizzare gli usi, ridurre i tempi di gioco per meglio infiltrarsi nella vita di ogni giorno cessando di esistere come spazio autonomo. I primi giochi a scomparire sono, non a caso, quelli che richiedono un tempo e uno spazio ampio ma soprattutto necessità di riunirsi fisicamente con altre persone per tramandarne regole e modalità. La società non fa che aumentare questo pericolo di “estinzione” dei giochi premiando e incentivando solo quelli che rispecchiano determinate caratteristiche, come ad esempio il fatto di essere per forza divertente: il gioco che più si vende è quello immediatamente comprensibile, che richiede poco sforzo e dia rapido divertimento. Nuove forme ludiche del postmoderno. Molti teorici denunciano come la tendenza a dare priorità al divertimento, rischi di compromettere ogni attività complessa. Logorandosi i confini tra tempo libero e tempo di lavoro, l’uomo
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postmoderno vive in una sorta di continua dimensione ludica, con il rischio quindi di perdere il senso più profondo del gioco. E la perdita del senso profondo del gioco avrebbe delle serie conseguenze anche a livello sociale. Secondo Sidoti (2007) infatti la crisi postmoderna mette apparentemente in crisi il concetto di gioco profondo sviluppato dall’antropologo Clifford Geertz a partire dall’analisi del senso del gioco nella comunità. In un suo celebre saggio sulla società di Bali e il suo diffuso combattimento tra galli, mostra come seppur questo sia un divertimento frivolo e inoltre vietato dalle leggi indonesiane, è un fortissimo collante sociale e strumento di condivisione e apprendimento del popolo; la lotta dei galli è un gioco “profondo” perché istruisce alla lingua e al comportamento, è argomento di conversazione diffuso della popolazione quindi incentiva allo scambio sociale e si intreccia alle relazioni sociali esistenti. Perdendo un legante stabile come il senso del gioco profondo, secondo Sidoti l’appartenenza a un gruppo diventa sempre più provvisoria e fluida, e la società frammentata in microcomunità; i giochi di maggior successo di oggi non riescono a diventare profondi e sono irrimediabilmente «stupidi e anche superficiali: nel senso che non arrivano a rappresentare tutta la società ma si accontentano di rinviare a altre rappresentazioni» (ivi:111). Accanto a questa perdita d’identità comunitaria data del senso profondo del gioco si sta assistendo negli ultimi decenni, a un fenomeno interessante: se si guarda agli ultimi trent’anni, accanto a questa tendenza a privilegiare giochi facili, ritroviamo anche una serie di giochi estremamente complicati, dotati di poche regole e manuali corposi, come i giochi di strategia e di ruolo (ad esempio Dungeon & Dragons, Vampiri, World in Flames, Magic, ecc.) che spianano la strada a un nuovo concetto di comunità. Se non sono i giochi ad essere espressione di una comunità, la comunità prende vita proprio dai giochi. Questo fenomeno è evidente, in epoca recente, soprattutto nella comunità dei videogiocatori: i giochi online di massa (gli MMORPG – Massively Multi-Player On-line Role Playing Game) coinvolgono milioni di persone in tutto il mondo che si ritrovano insieme a vivere un mondo virtuale, con delle regole molto simili a quello reale e generato dalle proprie azioni, in cui i giocatori possono creare edifici, metter su famiglia, muovere guerra ecc. Sviluppatisi a partire dalla metà degli anni Ottanta per scopi militari, i giochi di simulazione sono una rappresentazione di un evento reale o possibile, in cui si simulano delle dinamiche reali utilizzandone le poche regole come regole di gioco. Sono giochi essenzialmente competitivi e offrono il vantaggio di potersi confrontare con giocatori reali, con le loro tattiche e astuzie personali. In questi giochi i giocatori imparano molto e viceversa il gioco (ovvero chi lo ha ideato) può imparare qualcosa dei giocatori. Questo dialogo tra giocatori e gioco è ben visibile nei giochi-simulazione urbani: questi giochi, approdati in Europa alla fine degli anni Sessanta, erano uno strumento di analisi e progettazione di interventi pubblici. Il gioco diventa quindi un modello, un campo d’indagine e un metodo per acquisire dati e provare strategie; un modello flessibile che cerca di adattarsi alle reali esigenze a cui il progettista si rivolge. I giochi di simulazione vanno considerati come degli strumenti che ci fanno riflettere su come la società reale sia spesso condotta come un gioco di simulazione fatto male e mettendosi di fronte a simulazioni complesse e articolate si potrebbe dimostrare come risolvere determinati problemi usando la strategia del buon senso (cfr. Infante 2000; McGonigal 2011). Sono giochi che favoriscono la nascita di grandi narrazioni condivise e di creazione simbolica fortemente consapevole. Questi giochi non sono esclusivi del
Figura 3.12. Walter Spies, Galli da combattimento, 1927, disegno a carboncino, Bali. Figura 3.13. Addestratore di galli da combattimento nei pressi di Bali ai giorni d’oggi.
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web; anche molti giochi di ruolo tradizionali, talvolta complessi, sviluppano questo senso di comunità provvisoria. Ciò che li accomuna è che fanno sentire i giocatori come dei privilegiati, selezionati membri di una comunità esclusiva.
Figura 3.14. Partita di Dungeons and Dragons con miniature e scenari in plastica a supporto
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I mass media e l’imperativo del “divertirsi da morire”. Come descritto da autori quali Ortega, Adorno e Horkheimer, l’avanzamento dei mass media e dell’industria culturale, avrebbe portato a una svolta epocale nella società postmoderna. Edgar Morin mise in luce la dimensione di loisir, di divertimento, di gratificazione senza riflessione, di pura evasione e compensazione istintuale presente nei mezzi di comunicazione di massa. Ma è stato Neil Postman, sociologo e massmediologo, ad aver coniato la dizione “divertirsi da morire” come imperativo della società attuale, snaturando il gioco e fissandolo a modello universale istituzionalizzato. Come riporta Franco Cambi (2007: 126) «nel tempo dell’industria e dello spettacolo il gioco viene ridotto all’atto del loisir, della partecipazione passiva, del coinvolgimento emotivo in modo quasi esclusivo, dell’edonismo come valore e come regola, perdendo la sua forza creativa e utopica». In questo modo però cambia anche il gioco stesso, la sua fruizione e il suo significato. Il gioco diventa atto di consumo, di godimento e di identificazione e la sua fruizione è programmata. I media lo regolano e questi vengono messi a loro volta al centro della società dello spettacolo, del consumo e del loisir, che hanno prodotto non solo un nuovo stile di vita ma anche una vera e propria “forma di vita”, che sta divenendo sempre più globale e omologante. I media hanno prodotto un nuovo modello di gioco e di stare nel gioco. I giochi si sono tecnicizzati, legandosi ai media stessi e legando la logica del medium alla “logica” del gioco, rendendolo così più passivo e meno partecipato e rendendolo gioco-guardato (o gioco come spettacolo) (cfr. ivi: 126-127). Il gioco si è spettacolarizzato (come visto precedentemente parlando dello sport) e sempre più spesso viene fruito semplicemente come spettacolo a cui si partecipa solo emotivamente. Si è de-naturalizzato, «si è allontanato da un tempo culturale, fisico e psichico, di riposo, di gratificazione, di pura-attività-senza-scopo» (ivi: 127) per rendersi sempre più dipendente alle regole del mercato, che non si limita più a produrre solo i giocattoli ma che si occupa anche di produrre il bisogno del gioco per soddisfarlo con le sue merci. Inoltre il giocare è sempre più distante dalla natura e viene collocato principalmente nell’artificiale e nella tecnica. Il gioco perde anche la sua funzione sociale: diventa o individuale o di massa, perdendo la sua connotazione di atto di comunicazione e socializzazione anche etica. Muta anche l’etica del gioco, che oggi si basa sull’edonismo tralasciando il principio del risarcimento (dopo il lavoro, la fatica, l’impegno), della responsabilità (il seguire delle regole, la lealtà verso il gioco, l’impegno in gruppo) e dell’utopia (del mondo altro, libero, armonioso e gratificante). Questa etica dell’edonismo, che Postman ha descritto con il suo “divertirsi da morire”, è ben visibile dai luoghi come Las Vegas che ha la sua ragione di esistere solo per il loisir e l’autorealizzazione individuale e di massa che soddisfa. Il riscatto del gioco. Tenendo conto degli aspetti più contradditori dell’epoca contemporanea, viene istintivo chiedersi come sia dunque possibile giocare ancora. Sebbene il quadro attuale non sia dei più rosei, Anna Kaiser (2000) ricorda come l’attività ludica si caratterizza come fenomeno antropologico e culturale; non si contestualizza in uno specifico periodo storico e la sparizione di determinati giochi rispetto ad altri è sempre avvenuta in ogni epoca. Inoltre proprio gli studi sviluppatosi attorno al gioco all’inizio del Novecento hanno
messo il luce la volontà, da parte dei postmoderni, di riscattare la visione negativa del gioco rivalutandone invece il ruolo importante a livello costruttivo dell’individuo e della società. È grazie a questi studi che possiamo sottolineare come il gioco sia prezioso incentivo alla formazione dell’uomo e come sia difficile individuare un’altra attività capace di unificare età, luoghi, culture e strati sociali come il gioco. La dimensione ludica è necessaria, irriducibile e significante per l’uomo e il gioco «non è espressione di una fuga dell’uomo da se stesso bensì assunzione di consapevolezza» (Brezzi 1992: 92). Dal punto di vista teorico è proprio questo il secolo che ha assegnato al gioco un ruolo sociale e riflessivo decisivo. E dal riconoscimento culturale del valore del gioco emerge anche il desiderio di utilizzarlo come emblema per un rinwpatico, solidale, partecipe, e cosciente del proprio bisogno di fruizione) e della società (che vede nel gioco un “mezzo” per pensare un altro ordine sociale). Come eredità del postmoderno abbiamo oggi da una parte la pratica sociale dei giochi (che vorrebbe riacquistare il suo valore profondo di un tempo ma che convive con una realtà dove il senso del ludico è talmente diffuso da perdere il suo valore) e dall’altro la riflessione sul valore esemplare del gioco, sul suo riconoscimento ed enfatizzazione (come dimensione più vera della vita), da coltivare, tutelare ed estendere (cfr. Cambi 2007). Secondo Cambi (cfr. 2007: 128) un sistema di “anticorpi” è già presente per evitare il definitivo declino dello spirito del gioco, e viene da quella cultura critica della tecnologia e della società massmediatica che ha sempre accompagnato come un’ombra, lo sviluppo dei media. Dato che il gioco odierno è sempre più influenzato dai media, è necessario innanzitutto potenziare la loro conoscenza attraverso la Media Education per fare una critica sociale dei media, comprenderli e sfruttarli al meglio (per non esserne sottomessi). In secondo luogo bisogna ridare spazio ai giochi tradizionali (per ricaricarli delle implicazioni cognitive ed etiche che li caratterizzavano nel passato) e mantenerne vivo l’insegnamento e la memoria (come già fanno le ludoteche, le scuole e gli enti locali che attrezzano delle aree a spazi di gioco per adulti e bambini). Infine è necessario e possibile, portare “il” gioco, quello vero, libero, spontaneo e creativo, anche dentro i mass media e rinnovarne l’uso.
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4 TEORIE SUL GIOCO
Il gioco è un fenomeno estremamente complesso e vario, pertanto ridurlo a una semplice classificazione o definizione univoca sarebbe riduttivo e sbagliato. In questo capitolo verranno presentati i più importanti studi sul tema del gioco, con una visione multidisciplinare, dalla biologia alla filosofia, dalla psicologia alla sociologia, fino alla recentissima teoria della gamification, per dare un quadro il più possibile esaustivo e per comprendere meglio quali sono i numerosi effetti che il gioco ha sull’individuo e sulla società. Una particolare attenzione verrà posta sull’aspetto sociale del gioco, sulle sue funzioni di aggregatore sociale e su come questo possa contribuire a migliorare la realtà in cui viviamo. Infine, verrà proposta un’innovativa visione del gioco che vede protagoniste le nuove generazioni cresciute a “pane e videogiochi”, come la più promettente risorsa per risolvere i grandi problemi della nostra società.
4.1. TEORIZZAZIONE DEL GIOCO DAL NOVECENTO AD OGGI Il ruolo centrale del gioco quale elemento fondamentale della società e strumento di socializzazione e civilizzazione viene fissato, come visto precedentemente, a partire dalla Modernità. Del gioco, in ogni società, tutti (bambini, adulti, popolo e aristocrazia, ecc.) hanno esperienza diretta e quotidiana e per questo, via via che si fa centrale il ruolo dell’uomo negli studi scientifici e filosofici, si mostra la necessità di un riconoscimento culturale del valore assoluto del gioco, quale esperienza esemplare. Anche quello che oggi ci sembra il binomio più ovvio legato al gioco, quello con l’infanzia, in realtà è dovuto a un riconoscimento in quegli anni, inedito in passato, del ruolo del gioco nella formazione del bambino e il suo diritto a praticarlo, mettendo al bando gli atteggiamenti fino ad allora comuni di sfruttamento dell’infanzia sul lavoro, per formare una nuova generazione libera in grado di dare avvio ad un mondo adulto differente dal passato. Questo processo di rivalutazione e attenzione del gioco ha prodotto anche un rilancio delle teorie del gioco generali e applicate (per quest’ultime basti guardare alla pedagogia da Rosseau a Dewey, alla Montessori e allo spazio che essa riconosce al gioco infantile come strumento formativo). Per quanto riguarda le teorie generali si pensi al rilancio filosofico e antropologico-formativo del gioco, attuato già a partire dal 1795 da Schiller e le sue Lettere sull’educazione estetica, che presentano il gioco come fine e mezzo della formazione spirituale. In sintesi, la vera leva che ha portato alla teorizzazione del gioco e a una sua diffusa analisi è stata il cambiamento di mentalità. Secondo Franco Cambi: È stata la lunga avventura del pensiero utopico che ha aggiornato il gioco come attività centrale e necessaria in quella città ricostruita secondo i bisogni degli uomini, equilibrata e “sana” (o “giusta”: alla Platone), e che nel gioco ritrova il vincolo morale/civile (esserecomunità) e l’idea stessa di civiltà che deve ispirarla (come armonia, come sintesi organica equilibrata di strutture e di valori). (Cambi 2007: 123)
4.1.1. IL NOVECENTO E LA RISCOPERTA DEL GIOCO Nel corso nel Novecento si è concentrato un intenso e profondo lavoro di teorizzazione sul tema del gioco che è stato messo in risalto attraverso un insieme di prospettive disciplinari – dalla filosofia, alla psicologia, alla sociologia, dall’antropologia alla pedagogia, alla storia, ecc. – articolate in molteplici profili. Un lavoro potenziato dai contemporanei studi sull’età evolutiva, particolarmente incentrati all’infanzia vista come età portatrice di attività proprie, specifiche e connesse alla ludicità. Come afferma Alessandro Mariani (2007) da questo interesse «è emersa una lettura strutturale del gioco, una capacità di tenerlo fermo nell’ambito della cultura, di leggerlo come un’esperienza fondamentale/ ricorrente, di tutelarne la sua dimensione pedagogica, di coglierlo nella sua potenza formativa », che oltrepassa il XX secolo fino ai giorni d’oggi dove, questa tesi ne è la dimostrazione, è ancora attualissima. Per capire la portata delle teorie sul gioco nel Novecento e il loro peso nell’ambito della ricerca educativa e non solo, basti pensare agli studi sul nesso gioco/ civiltà, sulla civiltà letta e interpretata come convenzione e come gioco, sul gioco osservato come elemento creatore della cultura, oppure alle ricerche sul rapporto tra età infantile/adolescenziale e sul ruolo del gioco per lo sviluppo cognitivo, TEORIE SUL GIOCO / 117
SECONDO L’APPROCCIO BIOLOGICO, IL GIOCO VIENE SVOLTO SEMPRE IN FUNZIONE DI QUALCOSA DI ALTRO
mentale, affettivo, relazionale, personale, sul gioco come simulazione, apertura al mondo e “attività combinatoria” per la risoluzione dei problemi. Oppure alle ricerche più recenti sulla tecnologizzazione del gioco accostata alla scomparsa dell’infanzia, o alla perdita di valore dei giochi attuali e alla necessità di pensare criticamente al gioco per rilanciarlo per recuperarne le forme ludiche. Da Huizinga a Winnicott, da Piaget a Bateson, da Fink a Caillois e a Bruner le teorie sul gioco sono state molteplici. Riportarle tutte sarebbe impossibile, ho quindi scelto di sviluppare le teorie più significative che hanno portato a loro volta allo sviluppo di paradigmi cui ancora oggi si tiene conto nella ricerca teorica sul gioco. L’approccio biologico – Prima di affrontare però l’analisi di queste teorie, era a mio avviso necessario fare un breve accenno alle ricerche svolte dalle scienze come l’etologia e la biologia comparata, che partono dall’osservazione e interpretazione del gioco di animali e uomini, e che hanno portato a una serie di teorie talvolta affini, più volte contrastanti, ma spesso riconducibili alla teoria di partenza che il gioco venga svolto in funzione di qualcos’altro. Tra le varie ipotesi c’è chi crede di poter circoscrivere l’origine e la base del gioco a una necessaria scarica delle energie vitali superflue; secondo altri l’essere umano giocando segue un gusto innato all’imitazione; per altri soddisfa un bisogno di rilassamento o al contrario si allena all’essere operativo e reattivo (in previsione a ciò che l’essere al mondo gli richiede); talvolta è considerata una tecnica di allenamento all’autocontrollo o infine altri studiosi colgono nel gioco una benefica evacuazione di istinti nocivi, del tutto innocua, e di desideri che sarebbero insaziabili nella realtà (cfr. Kaiser 1995). Tutti questi tentativi di interpretazione sono sicuramente fondati anche se del tutto incompleti. Come nota Huizinga (1939), la natura avrebbe potuto fornire altri mezzi all’uomo se lo scopo fosse stato esclusivamente quello di adempiere alle funzioni utili dal punto di vista biologico sopra citate (scarico di energia, rilassamento, preparazione), attraverso ad esempio reazioni meccaniche o fisiche. Invece ci ha offerto il gioco, con quella sua essenza unica e intensità travolgente, perché evidentemente il suo ruolo non si conclude in questo. L’attività ludica non si lega quindi esclusivamente alla formazione e alla preparazione futura dell’individuo ma presiede, in accordo con quanto afferma Kaiser (1995), allo sviluppo dell’uomo nella sua globalità: Se si analizza l’influsso di tipo ludico sui sensi affettivo ed emotivo dell’uomo, il gioco viene delineandosi come attività feconda d’alternative e di sviluppi, tanto più interessanti quanto imprevedibili. Esso raffigura uno spazio d’esperienza affettiva ed emotiva, propria di qualsiasi individuo sano […], rappresenta un luogo del senso dell’identità. Sarebbe possibile, poi, porre in rilievo il rapporto dell’attività ludica con lo sviluppo, il completamento, il perfezionamento, nonché l’orientamento e la condotta delle componenti intellettuali e sociali dell’uomo. (Kaiser 1995: 31)
È per questo che non si può ridurre il ruolo del gioco all’interno della vita dell’individuo a una mera funzione biologica, ma è necessario affiancare a queste analisi anche un’osservazione del gioco da un punto di vista filosofico, psicologico e sociologico. Cioè culturale.
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4.2. L’APPROCCIO FILOSOFICO Probabilmente la prima grande disciplina del sapere a essersi avvicinata al fenomeno del gioco è stata la filosofia. Molti filosofi hanno accordato al gioco, per un motivo o per un altro, un privilegio e un ruolo particolare all’interno della vita dell’uomo, rendendolo un tema possibile e anzi, come afferma Brezzi (1992), argomento fondamentale e originario, come la morte, l’amore, la lotta, il lavoro e per questo degno di essere studiato; fondamentale in quanto «è rapporto di senso tale da aprire una dimensione altrimenti preclusa, esso schiude infatti all’altro, sia Dio o il mondo» (ivi: 25). Come visto in precedenza (v. 2.2.1.), già i primi filosofi greci avevano fatto delle riflessioni sul tema del gioco e lo stesso filosofare, nel Sofista di Platone, era descritto come un diletto e un giocare con le parole, coi concetti e prendersi gioco dell’avversario, tanto da considerare i sofisti appartenenti alla categoria dei giocolieri o anzi, letteralmente «a coloro che godono insieme del gioco» (cfr. Huizinga 1946: 176 tr. it.). Anche Aristotele definì il gioco, insieme alla gioia e alla virtù, come attività finalizzate al solo divertimento e diletto intrinseco, distinguendolo dalle attività praticate dall’uomo per necessità. In epoche successive Immanuel Kant descrive il gioco come un’attività che produce piacere e considera l’immaginazione quale funzione generale del possibile. Anche Heidegger è convinto che il gioco è condizione possibile del pensiero, è esercizio del pensiero, «pensare l’essere e il fondamento a partire dal gioco e non il gioco a partire dalla ratio» (Brezzi 1992: 4). In Nietzsche ritroviamo il tema del gioco in molti dei suoi testi, a partire dal tono ironico e volutamente ambiguo con cui sono stati scritti. Interessante è però l’osservazione che fa sulla contrapposizione gioco-lavoro che rispecchia il clima del Novecento, dove il lavoro è messo sempre di più al primo posto e l’inclinazione alla gioia inizia ad esser chiamato “bisogno di ricreazione” (cfr. ivi: 9). Ma come più volte affermato nel corso della tesi, il primo vero trattato sul gioco è quello ad opera di Huizinga, Homo Ludens, che analizza il gioco come complesso sistema culturale. Da questo grande contributo prima Bateson e successivamente Fink, sviluppano le proprie teorie sul gioco: il primo identificando il metalinguaggio del gioco come essenza che lo contraddistingue; e il secondo evidenziandone le caratteristiche di trasparenza cosmica di un mondo altro elevandolo a simbolo del mondo. Il fatto di non essere reale, di “distrarre” dalla vita comune, è stato spesso giudicato in modo negativo dal senso comune ma sono stati molti gli autori che si sono battuti nel legittimare l’importanza del gioco nel bambino come nell’adulto, e tra essi Gadamer che alle accuse circa la falsità del gioco risponde mettendone in risalto il valore ontologico, descrivendolo più come uno specchio riaffiorante che come un regno sostitutivo, dove spesso in modo sorprendente ed estraneo ravvisiamo noi stessi: come siamo, come potremmo essere e che cosa ne è di noi (cfr. ivi: 32). È facile intuire da queste poche righe come i documenti relativi al gioco trattato in ambito filosofico siano veramente numerosi e vari, quindi ho scelto di concentrare ed approfondire la mia ricerca sulle riflessioni di Huizinga, Bateson e Fink in quanto le ritengo maggiormente utili alla mia tesi.
IL GIOCO È ESERCIZIO DEL PENSIERO. BISOGNA PENSARE L’ESSERE E IL FONDAMENTO A PARTIRE DAL GIOCO E NON IL GIOCO A PARTIRE DALLA RATIO. Heidegger
TEORIE SUL GIOCO / 119
4.2.1. JOHAN HUIZINGA
Nato il 7 dicembre del 1872 a Groninga, a partire dal 1905 divenne professore all’Università di Groninga e, dal 1915 in quella di Leiden, fino alla deportazione nei campi di concentramento da parte dei nazisti per le sue idee liberali. Dopo due anni di prigionia fu liberato ma morì pochi anni dopo in un piccolo villaggio olandese a 73 anni. Storico dalla formazione e dall’interesse poliedrico, Johan Huizinga è conosciuto per i suoi saggi sulla società del tardo medioevo e dei secoli XV, XVI e XIII. Particolarmente noti sono i saggi L’autunno del medioevo (1919), Erasmus (1924), La civiltà olandese del seicento (1933) ma, primo fra tutti, il suo Homo Ludens (1939) sul tema del gioco.
Come accennato già nella prima parte della tesi, l’apripista allo studio del gioco come fenomeno culturale e sociale è stato lo storico olandese Johan Huizinga. Grazie ai suoi studi riesce a spiegare e collocare molti aspetti della vita culturale di un’epoca attraverso un modello storiografico che privilegia il modo di pensare piuttosto che la storia politica e militare della società in analisi. Infatti Huizinga intende il ruolo dello storico come ricostruzione dello “stile di vita” di un epoca, in quanto presupposto che rende comprensibili le varie manifestazioni dell’epoca storica quali l’arte, la religione, la filosofia, la vita quotidiana, ecc. Non a caso in tutti i suoi studi Huizinga guarda a una storia della cultura come storia delle forme di civiltà (cfr. Mariani 2007: 132). Questa sua riflessione è espressa al massimo in Homo Ludens, un’opera storica, filosofica e antropologica, dove Huizinga sviluppa una teoria sul rapporto tra il gioco e le varie manifestazioni culturali della società, proponendo un’idea di civiltà come gioco e convenzione. Nella sua opera Huizinga mostra la fondamentalità del gioco in ogni aspetto della vita sociale e scopre nella nozione di gioco degli elementi che l’uomo sperimenta spesso senza rendersene conto, come la serietà, la solennità, l’ordine, la delimitazione spazio-temporale ecc. Huizinga vuole farci giungere alla conclusione che tutta l’azione umana può essere letta come un mero gioco, poiché la civiltà sorge e si sviluppa nel gioco. Il gioco è per l’uomo e per l’umanità, un “concetto primario”. La cultura sub specie ludi. Già nelle forme più semplici, incluse quelle animali, il gioco è qualcosa di più di una semplice funzione, necessità fisiologica. Il gioco ha un senso, ogni gioco significa qualcosa. Il gioco è irrazionale, si distingue dalla vita ordinaria, ma è contemporaneamente un’attività di senso/ funzione sociale. Huizinga definisce la cultura sub specie ludi, ovvero pregna di carattere ludico. Attraverso l’analisi delle diverse manifestazioni della cultura (l’arte, il linguaggio, la poesia, la musica, la filosofia, il culto, il mito, la guerra, il diritto, ecc.) Huizinga dimostra come l’aspetto ludico sia onnipresente, anche laddove è richiesta moltissima serietà. Il gioco infatti, afferma lo storico, non è inconciliabile con la serietà e anzi può essere serio a sua volta: spesso l’uomo vi si dedica con un impiego di energie e una serietà superiore a quanto dedica ad altre azioni solitamente considerate più “importanti”, più serie, come il lavoro.
Figura 4.1. Johan Huizinga.
120 / IL GIOCO COME MODELLO DI COMUNICAZIONE
Le caratteristiche e le funzioni del gioco. Huizinga attribuisce al gioco diverse caratteristiche fondamentali. Secondo lo storico il gioco è innanzitutto un’azione libera e disinteressata, non è la vita ordinaria o vera, è un allontanarsi da questa per entrare in una sfera temporanea di attività con finalità propria (“fare per finta”). Questo non vuol dire che sia un’azione inutile, anzi è parte della vita dell’uomo ed è indispensabile all’individuo e alla collettività per il senso che contiene, per la sua funzione culturale; ha un carattere disinteressato perché i fini a cui serve stanno anch’essi fuori dall’ambito d’interessi immediatamente materiali o di soddisfacimento individuale di bisogni. Una terza caratteristica essenziale del gioco è che si svolge entro certi limiti di tempo e spazio; lo spazio del gioco è delimitato in anticipo e in esso valgono determinare regole che i giocatori sono tenuti a rispettare in modo scrupoloso e senza eccezioni, pena la perdita di validità del gioco stesso e quindi la sua fine. L’idea della lealtà è inerente al gioco: i guastafeste sono meno tollerati dei bari
perché questi fingono di giocare al gioco senza tuttavia decretarne la fine mentre il guastafeste infrange il gioco, ne toglie l’illusione (inlusio = “l’essere in gioco”) e quindi lo porta al termine. Il gioco grazie alla sua delimitazione e alle sue regole, crea ordine, realizza nel mondo imperfetto un temporaneo “mondo perfetto”. Il gioco si fissa come forma di cultura: giocato una volta permane nel ricordo e tramandato può essere ripetuto in qualunque momento. È infatti possibile la ripresa del gioco stesso in qualsiasi momento si voglia. Secondo Huizinga il gioco attira e affascina anche grazie a due sue nobili qualità: il ritmo e l’armonia. Inoltre ha la capacità di creare tensione nel giocatore e nello spettatore e quindi attirarlo come una calamita. Questa tensione è al di fuori del concetto di bene o male: in questa tensione è messa alla prova la forza del giocatore. La funzione del gioco è poi, sempre secondo Huizinga, riconducibile a due aspetti: una lotta per qualcosa o una rappresentazione/ presentazione di qualcosa. Rappresentare o presentare può essere anche solo mostrare dei propri doni naturali agli spettatori (in natura ad esempio il pavone esibisce la sua coda per conquistare le femmine). Il gioco può essere un rappresentare qualcosa di diverso, più bello, più elevato o più pericoloso di ciò che normalmente sono; è un credere di essere senza perdere la realtà consueta (ben visibile questo aspetto nei giochi di immaginazione, specialmente dei bambini, dove questi “rappresentano” dei personaggi come principi e principesse, streghe e maghi, supereroi ed eroine, ecc.). Il gioco è anche un importante elemento di coesione sociale. Secondo lo storico il gioco genera e coesa il gruppo in quanto la comunità che gioca ha la tendenza generale a farsi duratura, anche dopo che il gioco è finito. La sensazione di trovarsi insieme in una situazione eccezionale, di partecipare a una cosa importante, di segregarsi insieme agli altri e di sottrarsi alle norme generali estende il suo fascino oltre alla durata del gioco. I giochi sono anche essenziali alla comunità per diffondere la propria cultura: con i giochi la collettività esprime la sua interpretazione della vita e del mondo. La cultura, dice Huizinga, nelle sue fasi originarie porta il carattere di gioco, viene rappresentata in forme e stati d’animo ludici ed è fermamente convinto che la civiltà umana sorge e si sviluppa nel gioco, come gioco. Le conclusioni finali. A riprova di questa tesi Huizinga in Homo Ludens, oltre a fare un’approfondita analisi delle varie manifestazioni culturali dell’uomo per ricercare e riportare di queste i fondamenti e le manifestazioni ludiche, indaga tra passato e presente le principali civiltà, per dimostrare l’onnipresenza del fattore del gioco nei diversi periodi storici. Tuttavia, nel momento in cui arriva ad analizzare il ruolo che l’elemento ludico occupa nella cultura a lui odierna (il saggio è della prima metà del Novecento) osserva come vi sia stata, nell’ultimo secolo, una progressiva degenerazione del gioco che ha portato alla corruzione dell’elemento ludico al punto quasi da annullarlo. Secondo Huizinga la società a lui contemporanea non è quasi più “giocata” e le poche manifestazioni ludiche che sembrano resistere (come lo sport) sono in realtà dei giochi falsificati che hanno perso il loro spirito ludico. La critica all’opera. Sebbene abbia preso in analisi un così ampio ventaglio d’indagine, Huizinga stesso, nella prefazione del suo libro, non nasconde il timore di una critica negativa del pubblico per l’insufficiente documentazione delle proprie osservazioni. I suoi timori si rivelarono non del tutto infondati: all’uscita Homo Ludens suscitò molto consenso ma anche altrettanto scetticismo. TEORIE SUL GIOCO / 121
Come riporta Umberto Eco (1973) nella prefazione di Homo Ludens, le critiche più forti avanzate contro Huizinga sono quelle che lo accusano di aver “adattato” la storia attraverso tagli e scelte più estetiche che storiografiche a sostegno della sua tesi e di aver dato una lettura superficiale al gioco, dicendoci appunto che la cultura altro non è che il luogo del gioco, senza però ordinare sinteticamente queste informazioni e far emergere quindi quali sono questi schemi e formule sottostanti le manifestazioni culturali da lui analizzate. In sostanza quel che maggiormente si critica dell’opera di Huizinga è la sua incompletezza, è il non aver fatto una teoria del gioco (cosa che invece faranno a partire dal suo testo altri importanti storici, in primis Caillois). In realtà, come fa notare Eco, tutte queste critiche sono legittime ma in fin dei conti infondate perché non si può chiedere a Huizinga quello che egli non pensava di offrire. Huizinga non fa una teorizzazione del gioco proprio perché non è affatto interessato a dirci in quest’opera quale sia il gioco e come questo funzioni, ma solo asserire che questo gioco viene giocato. È pur vero però che in Homo Ludens Huizinga non si limita ad affermare solo che ogni cultura fa posto a manifestazioni ludiche o che il gioco si fissa da subito come forma di cultura ma, una volta identificate le caratteristiche del gioco, arriva anche all’assunzione che i caratteri del gioco sono quelli della cultura e che quindi la cultura sin dall’antichità si manifesta come gioco. La cultura sorge in forma ludica, la cultura è dapprima giocata […] Ciò non significa che il gioco muta o si converte in cultura, ma piuttosto che la cultura, nelle sue fasi originarie, porta il carattere di un gioco, viene rappresentata in forme e stati d’animo ludici […] La relazione tra cultura e gioco è da ricercarsi soprattutto nelle forme superiori del gioco sociale, là dove esiste l’azione ordinata di un gruppo o d’una società (Huizinga 1939).
Arrivato a queste considerazioni, secondo Eco, Huizinga aveva due alternative: o poteva affermare che la cultura è gioco nel senso che le sue strutture costitutive hanno una matrice autosufficiente che risponde a delle proprie regole che sono appunto quelle del gioco; oppure poteva dire che la cultura è gioco nel senso che questa nasce secondo il rituale esterno del gioco. È evidente che Huizinga sceglie la seconda opzione: poteva fare una teoria del gioco ma sceglie invece di sviluppare una teoria del comportamento ludico, studiando il “gioco giocato” e il costume del giocare. Huizinga non si spinge più in là, non analizza i due lati del gioco come “lingua e come matrice”; non ci dà la risposta alla domanda se la cultura in definitiva sia solo Ludus, o meglio play, oppure game. Ma d’altronde, non è stato questo lo scopo che lo spinse ad indagare il gioco e il suo modo di manifestarsi. Le conclusioni di Huizinga potranno anche essere considerate limitate e incomplete, ma è proprio dai quesiti irrisolti e dai campi di indagine lasciati scoperti da Homo Ludens che nasceranno tutte le successive teorie sui giochi che per l’intero Novecento e fino ai giorni nostri si sono diffusi capillarmente in ogni campo del sapere rendendo il gioco, ancora a distanza di secoli, un tema di primaria importanza. Ma, in maniera ancora più considerevole, anche i critici più agguerriti dovranno riconoscere a Huizinga il coraggio di essere riuscito per primo ad abbattere i pregiudizi attorno a questo tema e di essersene dedicato con la massima serietà che merita un’azione così fondamentale come quella del gioco.
122 / IL GIOCO COME MODELLO DI COMUNICAZIONE
4.2.2. WILLIAM BATESON Dopo essersi dedicato agli studi sul comportamento umano in ambito psichiatrico, per comprendere la frequente contraddizione tra la comunicazione affettiva e ciò che invece comunichiamo verbalmente, Gregory Bateson orienta le sue ricerche e i suoi studi sulla comunicazione e, tra i fattori ad essa connessa, troverà posto anche il gioco. Nelle sue ricerche Bateson, come illustra perfettamente Alessandro Mariani (2007: 133), «mostra come il gioco corrisponda ad una specie di emozione, che viene “radiografata” attraverso la fantasia». In Questo è un gioco (1955) (libro che racchiude le riflessioni sviluppate in un convegno tenuto a Priceton nel 1955 dove Bateson aveva convocato un gruppo di illustri scienziati, provenienti da diversi campi del sapere, per discutere sul significato da dare alla parola “gioco”, o più precisamente, su come intendere il messaggio “questo è un gioco”), si possono già trarre alcune ipotesi sugli scopi individuali e sociali attivati dal gioco (inteso come play, termine che, come già visto, vuol dire oltre che “giocare”, anche “suonare” e “recitare”). A partire da queste considerazioni Bateson sviluppa la teoria del gioco insieme a quella della fantasia, interrogandosi su tutto ciò che è simulazione e immaginazione, riconoscendovi una caratteristica comune di paradossalità. Alla base del gioco deve esserci l’asserzione “questo è un gioco”: tutti gli animali (e quindi anche l’uomo), utilizzano dei linguaggi metacomunicativi per indicare che quello che stanno facendo, il loro comportamento (il mordicchiare amichevole e il gioco minaccioso e non aggressivo) non è da intendere per quello che sarebbe in un contesto “normale”. In altre parole, quell’atteggiamento non è da intendere come una reale minaccia ma più come una finzione, una simulazione. Analizzando la struttura del “morso amichevole” si mette in luce la doppia paradossalità del gioco, dato che quel gesto non è aggressione e non è un morso (cfr. Mariani 2007: 133). Questo intreccio di negazioni rivela la struttura contraddittoria del gioco, la cui paradossalità Bateson approfondirà nel saggio Una teoria del gioco e della fantasia (1976) servendosi del paradosso di Eupinemide (dal punto di vista dell’enunciazione “questa affermazione è falsa”) insieme al concetto di insieme matematico (dove in questo caso l’enunciazione è la cornice, cioè l’insieme che contiene un dato numero di messaggi). In questo senso il messaggio “questo è un gioco” è meta comunicativo, perché propone una “cornice” che permetterà la comprensione dei messaggi in essa racchiusi. Tuttavia questo aspetto è per definizione paradossale, in quanto l’insieme di tutti gli elementi che non sono ciò che sembrano, è proprio ciò che sembra: ci sono elementi di due tipi logici diversi, che cercano di definirsi a vicenda; come afferma Bateson «il gioco è una classe di comportamenti definiti attraverso un negativo senza identificare, come si fa di solito, cosa quel negativo neghi». Ancora ragionando sul gioco nella ricerca di una definizione da dare a quest’azione e al suo scopo, Bateson (1955) arriva a descrivere il gioco come una specie di emozione, che coinvolge reazioni fisiche specifiche e percepibili, come il divertimento o la catarsi. Bateson è convinto inoltre che il gioco possa essere sicuramente un’attività terapeutica tuttavia, essendo un’azione libera a cui l’individuo si presta di sua spontanea volontà, non può essere prescritta in termini imperativi o autoritario (così come non si può ordinare a qualcuno di piangere o di ridere, non si può ordinare di giocare).
Figlio del famoso genetista William Bateson (uno dei padri della genetica), Gregory (Granchester 1904 – San Francisco 1980) inizialmente studia scienze naturali e antropologia ma successivamente si dedica alla psichiatria, campo in cui diverrà celebre per aver formulato la teoria del “doppio legame” (che spiega la frequente incongruità/contraddizione tra la comunicazione affettiva e quella pronunciata verbalmente) per spiegare la schizofrenia. Da qui in poi si dedicherà a studi e ricerche sulla comunicazione e tra i vari interessi, troverà posto anche il gioco.
Figura 4.2. William Bateson.
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4.2.3. EUGEN FINK
Eugen Fink (Costanza 1905 - Friburgo 1975) è stato uno dei maggiori esponenti del movimento fenomenologico. Nel 1929 conseguì all’università di Friburgo, il dottorato con Husserl e Martin Heidegger. Influenzato dal pensiero di Heidegger, nel 1966 tenne insieme a questo, un famoso seminario su Eraclito. Nel 1960 scrive, un anno prima del “Nietzsche” di Heidegger, “La filosofia di Nietzsche”, considerato ancora un punto di riferimento per gli studi nicciani.
Figura 4.3. Eugen Fink.
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Il pensiero dell’infinito, del movimento originario e del gioco sono secondo Fink dei temi che la filosofia dovrebbe recuperare per un rinnovato pensiero, non più metafisico, del mondo. Fink quindi tenta di rendere il gioco analisi filosofica in quanto «come tema è possibile perché il pensiero indagante vuole comprendere in modo del tutto particolare ciò che in sé è problematico – è degno perché nel gioco si schiude in modo tutto suo un nesso tra uomo e mondo. Il gioco dell’uomo ha importanza universale, ha cosmica trasparenza» (Fink 1960: 20 tr. it.). Il gioco umano quindi secondo Fink acquista una “trasparenza cosmica”, e sia il gioco che il mondo possono essere chiariti uno alla luce dell’altro. Vi è ovviamente differenza tra il gioco come fenomeno umano e il gioco del mondo, però il fatto dell’essere nel mondo dell’uomo rende possibile considerare il gioco umano come simbolo del gioco cosmico. Il gioco è visto come fenomeno chiave a livello universale. Il punto di partenza è il concetto di “essere-al-mondo”, essere dentro all’universo e aperto al mondo, per cui l’uomo esiste grazie al rapporto col mondo e siccome «giocare è un’azione di vita reale dell’uomo reale» (ivi: 73 tr. it.), è quindi legittimo studiare il gioco in quanto azione reale. Nel gioco il giocatore compie delle azioni reali anche se hanno un “doppio fondo”: sono azioni del giocatore come tale e azioni del giocatore conformi al ruolo che questo sta vestendo. Quindi contemporaneamente si ha il comportamento reale di un uomo del mondo reale e un agire conforme al ruolo in un irreale mondo apparente. Attraverso la critica della concezione metafisica del gioco (passando dalla teorizzazione platonica che riduce il gioco a immagine apparente del mondo a quella mitica, dove il gioco viene sacralizzato e ricondotto a regole prefissate di cui l’uomo non è l’autore ma è anch’esso giocattolo degli dei), Fink stabilisce una serie di definizioni del concetto filosofico di gioco. Nel gioco, come nelle altre azioni fondamentali dell’uomo come il lavoro, l’amore, la lotta, l’uomo è aperto al mondo. Il gioco è caratterizzato da una totale gratuità, dall’irrealtà, da un senso di gioia per il sensibile, in cui viene sperimentato il “piacere dell’apparenza”. In queste sue peculiarità il gioco è “simbolo del mondo”, del suo essere senza fondamento, scopo, senso, progetto, ma insieme del suo tenere aperti gli spazi e i tempi per l’essere delle cose, il quale ha una ragione e un fine, è ricco di significato e di valore. A differenza del gioco umano, quello cosmico è un gioco “senza giocatore” (cfr. Mariani 2007). L’interpretazione metafisica del gioco. Cercando di dare un’interpretazione metafisica del gioco, un aspetto importante secondo Fink (1960) è che presa come attività, il gioco è un modo dell’autorealizzazione umana; Fink sostiene che l’uomo è reale non solo in quanto essere vivente ma anche perché la sua particolare realtà umana gli viene dall’autorealizzazione attraverso le sue azioni. Ciò che facciamo giocando è al solo scopo di divertimento. La serenità che proviamo nel giocare è dovuta alla sospensione momentanea dalla gravità esistenziale, siamo sollevati nel gioco dal peso delle preoccupazioni, ci tuffiamo nella spensieratezza dell’infanzia. Nel gioco viviamo la felicità di creare, elemento vivissimo nell’infanzia. Fink nota infatti come il crescere ci rende meno aperti al possibile; ogni azione che compiamo seriamente ci rende più determinati e chiusi. Il bambino è un essere potenziale, ha ancora mille possibilità aperte, il vecchio ha dietro sé la storia della sua autorealizzazione. Il gioco, facendoci riaffacciare all’infanzia, aiuta ad essere più aperti al mondo.
Il gioco è irreale in quanto imitazione della realtà: il gioco in sé non decide nulla ma copia il compimento della vita, è una variazione fantasiosa della vita seria. Il gioco è mimesis del mondo reale, che non va confuso con l’idea platonica dello specchio della realtà (secondo cui il gioco è riflesso della copia della realtà) in quanto il gioco non riflette situazioni contemporanee della sfera di serietà, non è necessariamente accoppiato con un’azione parallela nella sfera della serietà. In sintesi ciò che Fink premeva sottolineare è come il gioco non sia una semplice simulazione della realtà bensì un’esplicazione di questa nel momento in cui viene rappresentata: la realtà simulata ci dice più dell’originale. L’interpretazione mitica del gioco. Secondo l’interpretazione mitica (che Fink affronta sempre nel suo libro, dopo quella metafisica) il gioco assume la valenza di simbolo del mondo. Prima dello sguardo teorico e dell’elaborazione concettuale gli uomini esprimevano ciò che era, qual era il loro ruolo sulla terra, il loro destino, tramite immagini e simboli: il gioco è una di queste espressioni simboliche. Il simbolo, afferma Fink, è la cosa finita che fa intravedere in sé l’azione del mondo che la condiziona: «il culto “ricorda” in quanto evoca in modo frammentario un’apertura al mondo perduta» (Fink 1960: 171 tr. it.). La religione è il simbolo dell’esistenza umana nel mondo, gli dei sono simboli del tutto universale. Il culto è la forma più primitiva del gioco umano perché qui l’irrealtà del gioco ha valore di innalzamento e superamento del reale. Il gioco umano è un gioco di fronte a Dio. Fin dall’antichità l’uomo come giocatore, era convinto che attraverso il mascheramento poteva arrivare ai demoni più fortemente e più essenzialmente che in tutti gli altri campi di vita. Il gioco/culto possiede tutt’altro che le qualità di gioia e spensieratezza che solitamente vengono associate al gioco. Nel culto il gioco ha il carattere fondamentale opprimente, inquietante e ammaliante, dell’incantesimo, del rapimento dell’uomo lontano dalla quotidiana e dalla determinatezza; la maschera qui non è tanto un camuffamento per colui che la porta, quanto l’accesso per l’uomo per questo mondo altro, non esercita l’incantesimo solo sugli spettatori ma serve a incantare principalmente colui che la indossa. Alla base delle pratiche sacre vi è il concetto che se tramite questi simboli sacri riusciamo a esplicare il tutto universale, allora viceversa partendo da questi si può esercitare un’influenza sugli dei (cfr. Fink 1960: 242 tr. it.). Lo spettacolo mitologico quindi non solo porta alla comprensione di cosa siano gli dei ma funge anche da catarsi dell’anima. Questo aspetto ludico del culto, osserva Fink, era molto più radicato nei tempi arcaici e a ben vedere le epoche più recenti sono quelle più prive di divinità e spesso definite nichiliste. Tuttavia anche se ha perso il suo legame apparente con il sacro, con il culto, come afferma Brezzi (1992) riassumendo le riflessioni filosofiche di Fink, il gioco «è rapporto di senso tale da aprire una dimensione altrimenti preclusa, esso schiude infatti all’altro, sia Dio o il mondo» (Brezzi 1992: 25). Come scrisse Fink il gioco comprende tre momenti: relazione con sé stesso, all’altro e all’essere che quindi collocano il gioco come fenomeno fondamentale dell’esistenza e modo d’essere. L’oasi del gioco. Che sia inteso come apertura a Dio o al mondo, rapporto con gli altri e con sé stessi, è per le sue proprietà e complessità, la via privilegiata per accedere a questi saperi. Fink cercò di definire la sua essenzialità paragonandolo a un’oasi di gioia. Il gioco ci rapisce ed è fenomeno dell’esistenza ma a differenza degli altri grandi TEORIE SUL GIOCO / 125
argomenti fondamentali, esso non sembra tendere a uno scopo finale e anzi può giocarci con essi, rappresentandoli: «noi giochiamo il serio, giochiamo l’autentico, giochiamo la realtà, il lavoro e la lotta, giochiamo l’amore e la morte. E giochiamo perfino il gioco» (1957: 53). Paragonando il gioco a un’oasi questo si presenta come un’interruzione, una pausa e al gioco si accompagna una leggerezza, un alleggerimento dal peso dell’esistenza e del mondo.
4.3. L’APPROCCIO PSICOLOGICO Una delle discipline che più proficuamente ha contribuito al discorso sul gioco è stata la psicologia, in particolare riguardo all’infanzia, ritenendo questo elemento protagonista dello sviluppo psicologico e della personalità del bambino. La prospettiva psicoanalitica. Il primo psicologo ad occuparsene fu Sigmund Freud che trovò un parallelismo tra i giochi dei bambini e delle bambine rispetto al ruolo dei genitori del loro stesso sesso: i bambini svolgevano più frequentemente giochi da “maschio”, ovvero costruzioni, soldatini, giochi manuali in generale mentre le bambine privilegiavano giocare con le bambole o alla cucina, giochi che rispecchiavano il modello della donna casalinga. Freud segnala come durante i giochi dei bambini, avvenga un processo di identificazione del ruolo che poi questi saranno portati a coprire da adulti. Ai primi del XX secolo anche Édouard Claparède e Lev Semënovič Vygotskij si sono dedicati allo studio del gioco a livello pedagogico. Il primo diceva che il gioco risponde a un insopprimibile bisogno della natura del bambino e giunse a considerare il gioco come particolare strategia cognitiva, utile a penetrare la realtà e ad appropriarsene (Nando Filograsso lo tradusse come «un modo per imparare “giocando il mestiere dell’uomo”»). Claporède rivendicava per il gioco un’assoluta centralità nelle stesse attività scolastiche (cfr. Staccioli 2004). Lo psicologo russo Vyogotskij invece aggiunge al gioco anche la funzione di forza attiva per l’evoluzione affettiva del ragazzo, oltre a quella cognitiva. Vyogotskij critica anche le visioni del gioco come attività improduttiva e senza finalità in quanto, seppur a titolo gratuito, costituisce un elemento fondamentale di crescita e definizione del carattere e della personalità dell’uomo in tutti i suoi aspetti. Con la stessa prospettiva più tardi se ne occupa Jean Chateau con il suo Il fanciullo e il gioco, dove affermava la sua tesi: L’attitudine estetica, l’attitudine scientifica e perfino quella speculativa hanno una natura molto simile a quella dell’attitudine ludica; né ci si deve sorprendere allora se ammettiamo che il gioco sia la sorgente comune di tutte queste attività superiori. (Chateau 1961: 168 tr. it.)
La prospettiva cognitiva. Per molto tempo si sono contrapposte due correnti di pensiero sulla funzione del gioco: Edward H. Carr sostenitore del postesercizio, affermava che il gioco era una pratica utile ad ottimizzare una nuova dinamica comportamentale mentre Karl Gross, sostenitore del pre-esercizio, vedeva il gioco come momento propedeutico alla vita adulta. Come ricorda Kaiser (cfr. 1995: 19 tr. it.), il gioco è sì un’attività biologica ma anche psico-sociale, in quanto interagisce con l’ambiente e le altre attività dell’uomo e dunque relegare al gioco la funzione di esercizio, è una conside126 / IL GIOCO COME MODELLO DI COMUNICAZIONE
razione insufficiente e piuttosto limitativa. Queste due teorie furono unite da Jean Piaget (1945, cit in Kaiser 1995) che riconosce al gioco una funzione essenziale per lo sviluppo cognitivo e della personalità del bambino. Piaget, studiando lo sviluppo psicologico del bambino, individua diversi stadi evolutivi dell’uomo che si legano a tre tipi di strutture ludiche che identifica come “esercizio”, “simbolo” e “regola”. Queste, secondo Piaget, conducono l’individuo al riconoscimento e all’interiorizzazione di relazioni sociali e interindividuali. Sintesi e ricerche in chiave filogenetica e ontogenetica. La psicopedagogia del gioco, che vede tra i suoi esponenti Bruner (approfondito di seguito) e Winnicott, lo ha riconosciuto come “forma” specifica della mente del bambino, elemento chiave dell’inculturazione e dell’accesso al mondo simbolico grazie alle sue proprietà di esplorazione, padronanza e fantasia, strumento per la soluzione di problemi e per l’ importante fattore di interazione e socializzazione (cfr. Bruner, 1981 tr. it.). Appoggiandosi alle teorie degli autori sopra citati, Itala Riccardi Ripamonti (logopedista milanese e fondatrice del Centro Ripamonti Onlus, uno degli ambiti più qualificati per la diagnosi e il trattamento dei problemi di udito, linguaggio, comportamento e apprendimento) ha sintetizzato nel suo libro In gioco (1998) le motivazioni che determinano il gioco a livello filogenetico e ontogenetico e le conseguenze sullo sviluppo del bambino e quindi sul carattere dell’adulto. Ripamonti parte dal presupposto che i comportamenti essenziali per la sopravvivenza hanno un’origine ludica: l’alimentazione (accumulo di energie), la raccolta e l’elaborazione di informazioni (accumulo di conoscenze) sono due attività che garantiscono la sopravvivenza, si trasmettono tramite il piacere (derivante dal soddisfacimento del bisogno di informazioni) che è un gioco (identificato con questo piacere di ripetere l’azione per se stessa). La motivazione intrinseca a questo comportamento – non coscientemente presente nella mente di chi gioca – è quindi proprio l’acquisizione di conoscenza. In altre parole un comportamento di curiosità spinto dal piacere di ottenere informazioni sull’ambiente per controllarlo meglio, avere più potere e libertà. La definizione che secondo Ripamonti inquadra meglio il gioco è la seguente: Il gioco (comprendendo con questo termine anche il comportamento di curiosità e l’esplorazione) è attivato dalla necessità di movimento e di informazione dell’individuo. È sostenuto dall’esigenza, fondamentale per la sopravvivenza a lungo termine, di conoscere. Mette l’organismo nelle condizioni ottimali per apprendere, in quanto: abbassa il livello di ansia (sempre che non sia determinata da una minaccia alla propria sopravvivenza); allontana il livello di noia; attiva il piacere di acquisire conoscenze, abilità, competenze e alimenta le caratteristiche di apertura al mondo, di plasticità e di adattabilità, tipiche degli individui giovani. Il gioco raggiunge questi obiettivi in quanto si manifesta in ambiti di grande libertà, dove tutto è permesso, o permissibile, in quanto non esistono pressioni (quindi vicoli stretti) verso scopi immediati e vitali. L’attività, in questo caso, non implica nessun rischio, perché non c’è investimento sul risultato immediato, ma solo piacere dell’azione in sé. (Ripamonti 1998: 109-110)
Da questa definizione si può stilare un elenco di funzioni del gioco quali: • la scarica di attività in esubero; • sollevamento da una condizione noiosa • acquisire informazioni, abilità e competenze sulla cui base sviluppare e modificare il proprio comportamento; • prendere le distanze; • scomporre in unità più semplici e riassociare in unità complesse; TEORIE SUL GIOCO / 127
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mantenere una ricca articolazione combinatoria del comportamento; sviluppare e dare spazio alla fantasia; aumentare autostima e fiducia in sé; recuperare energie; padroneggiare strumenti; favorire la rappresentazione interna di sé, delle azioni e dell’ambiente; codificare la realtà; adattarsi al gruppo e alla propria cultura; comunicare; separare l’idea dell’oggetto dall’oggetto stesso; controllare le emozioni e l’aggressività; proteggere dalla frustrazione, funzione compensatoria.
Ripamonti quindi definisce il gioco come uno «strumento, utilizzato dall’evoluzione, filogenica ed ontogenica, per permettere l’equilibrio dell’organismo con il suo ambiente» (ibidem). Osservandolo in quest’ottica allora si può dividere l’atteggiamento ludico in tre macro categorie: interesse (attenzione) del soggetto volto verso l’azione e lo strumento per predisporre comportamenti, abilità e conoscenze utili a un adattamento futuro; interesse diretto verso il soggetto che cerca un equilibrio con l’ambiente attraverso l’uso di questi strumenti con cui ha preso dimestichezza; interesse rivolto verso l’ambiente esterno che viene indagato, attraverso l’oggetto, per acquisire conoscenze e informazioni atte a modificare, in modo utile alla propria sopravvivenza, il comportamento. Queste categorie si intrecciano continuamente, proprio per permettere la plasticità del comportamento anche se alcuni comportamenti diventano fissi e rigidi per necessità imposte dal gruppo e dalla cultura. Nelle sue riflessioni Ripamonti non si occupa solo del gioco del bambino ma anche nell’adulto: secondo l’autrice il gioco è un comportamento innato nell’uomo e pertanto anche l’adulto deve giocare. L’uomo adulto gioca per salvaguardare le sue doti di apertura al mondo, di creatività e di libertà, per sfogare eventuali istinti aggressivi, per sopportare le frustrazioni o per scaricare la tensione. Il gioco è per l’adulto una valvola di sicurezza. Tuttavia man mano che l’uomo cresce ed accrescono le responsabilità della vita, questo finisce per privarsi da solo della libertà di giocare, esplorare, scoprire e del piacere ludico per indirizzare le sue energie esclusivamente al raggiungimento di un fine. In questa fase i giochi subentrano come sollievo per scaricare lo stress.
4.3.1. JEROME BRUNER L’opera che ha contribuito al dibattito sul gioco è Play (pubblicata nel 1976 insieme a Alison Jolly e Kathy Sylva) dove evidenzia come la caratteristica principale del gioco sia il prevalere dei mezzi sui fini. Questo non vuol dire che il gioco sia privo di scopi ma che nell’ambito del gioco, il procedimento è più importante del risultato. Attraverso il gioco con un oggetto ad esempio il bambino arricchisce i suoi movimenti e rende più articolate le sue azioni così da ampliare il raggio delle sue attività. La seconda caratteristica del gioco è la riduzione del rischio di insuccesso e la terza è la sospensione temporanea della frustrazione che esso offre a chi lo pratica in quanto dato che il procedimento ha rilevanza sul risultato, un ostacolo, che sarebbe un intralcio per il raggiungimento di uno scopo, viene affrontato con 128 / IL GIOCO COME MODELLO DI COMUNICAZIONE
serenità è può esser talvolta di stimolo a risposte creative. Una quarta caratteristica del gioco è la libertà di notare un dettaglio apparentemente irrilevante e di essere aperti a diverse possibilità inerenti alle cose e agli avvenimenti. Infine la quinta caratteristica è la sua natura volontaria, totalmente libera. Effetti del gioco sull’individuo – I frutti del gioco derivano secondo Bruner da queste caratteristiche: la persona o l’animale che gioca con gli oggetti acquista la capacità di combinare le sue azioni in modo originale e insolito; il fatto che il gioco ha un basso livello di rischio, permette al giocatore di sperimentare, riducendo la frustrazione; poiché ciò che conta nel gioco è il mezzo e non il fine, questo diventa una buona occasione per tentare nuove “combinazioni comportamentali” che diversamente, di fronte alla pressione di avere successo, non potrebbero essere sperimentate, portando quindi a una maggiore flessibilità. Si spiega in questo modo come mai molte abilità e comportamenti essenziali per la vita dell’individuo che richiedono un lungo periodo di attività combinatoria, di tentativi, libera da pressione per essere maggiormente ed efficacemente acquisiti, vengono sviluppati e perfezionati all’interno dell’attività ludica infantile molto prima di essere utili e usati in fase adulta. (cfr. Mariani 2007). Bruner attraverso una ricerca sulla relazione tra il gioco e la risoluzione di problemi meccanici, dimostra come i bambini piccoli imparano in modo progressivo a risolvere i problemi posti dall’uso di quei materiali con cui hanno avuto occasione di giocare in precedenza. Questa ipotesi si fonda sulla teoria secondo la quale l’organismo, attraverso il gioco, è intento a costruire e a modificare un proprio modello interiore facendo uso della sperimentazione.
Jerome Seymur Bruner (New York, 1915) è uno psicologo noto soprattutto per aver contribuito allo sviluppo della psicologia cognitiva e culturale, in particolare in funzione all’educazione e all’infanzia, partendo dalle concezioni di Piaget e Vygotskij. Di recente ha guardato alla narrazione come al modo più diffuso di organizzare l’esperienza e la conoscenza.
ESERCIZIO PER COLLEGARE SEGMENTI DI COMPORTAMENTO DERIVANTI DA MODI NON PROPRI DEL GIOCO IN SEQUENZE INUSUALI
LE CARATTERISTICHE UNIVERSALI DEL GIOCO
RIDUZIONE DEI RISCHI DI INSUCCESSO DATO DAL COLLEGAMENTO DI NUOVE SEQUENZE COMPORTAMENTALI ESERCITATE SOSPENSIONE DELLA FRUSTRAZIONE E MAGGIORE DISPONIBILITÀ VERSO L’ESTERNO
prevalenza dei mezzi sul fine
INVITO ALLE POSSIBILITÀ INERENTI ALLE COSE E AGLI AVVENIMENTI E LIBERTÀ DI NOTARE UN DETTAGLIO ALL’APPARENZA IRRILEVANTE NATURA VOLONTARIA DEL GIOCO E LIBERTÀ DA MINACCE AMBIENTALI O NECESSITÀ IMMINENTI
4.4. L’APPROCCIO SOCIOLOGICO Un’altra scienza che si è occupata del gioco e che a mio avviso, è maggiormente interessante per il fine della mia tesi, è la sociologia. Diversi sociologi si sono occupati del gioco partendo dall’analisi dei fenomeni della società, dai giochi giocati nelle varie epoche, indagando gli effetti e le cause, in relazione
Figura 4.4. Jerome Seymur Bruner.
TEORIE SUL GIOCO / 129
all’individuo e al gruppo sociale. Alla base delle teorie sociologiche inerenti al gioco vi è il concetto, che qui riporto riassunto da Gianfranco Staccioli, che: i giochi rappresentano uno specchio della società nella quale si sviluppano, sono il riflesso delle attese di un gruppo di persone; i giochi ci dicono, a seconda di come sono regolamentati, quali valori (che possono anche essere contraddittori fra loro) stanno alla base di una cultura. (Staccioli 2004)
GIOCHI SONO LO SPECCHIO DELLA SOCIETÀ NELLA QUALE SI SVILUPPANO, ESSI CI DICONO, A SECONDA DI COME SONO REGOLAMENTATI, QUALI VALORI SONOALLA BASE DI UNA CULTURA
Come sottolinea Anna Kaiser (cfr. 1995: 20) infatti l’attività ludica è universale ma le motivazioni che la fondano e le espressioni che la svelano si diversificano sia nella vita di ciascuno che nella vita sociale di ogni popolo. Si gioca agli stessi giochi ma i principi che li regolano e i processi che li dinamicizzano sono diversi proprio perché diversi sono i popoli e i soggetti che possiedono una propria identità. Per questo solo osservando i giochi nel loro contesto socio-culturale, analizzando la loro struttura, il peso che questi hanno e le forme che assumono nella vita quotidiana delle persone, si può comprendere meglio i valori condivisi (e come vedremo, influenzati da questi) dalle società in cui vengono giocati e quindi eventualmente intervenire per modificarli e/o introdurne di nuovi. Gioco e funzione educativa sociale. Come abbiamo visto precedentemente nelle ricerche sull’infanzia e il gioco in ambito psicologico, è ormai assodato il ruolo educativo che questo svolge per preparare e aiutare il bambino a stare al mondo. Questa funzione però è potenziata se si fa riferimento a un contesto sociale e interculturale. Carmen Betti, Presidente del corso di laurea in Scienze della formazione primaria all’Università di Firenze, è convinta che i giochi, soprattutto nella globalizzazione, possono essere un utile strumento per declinare il discorso educativo in prospettiva interculturale. Un bambino che gioca, gioca con se stesso e con gli altri, con le regole e con il proprio corpo e gioca anche con la cultura che sta dentro il gioco, sotto forma di modelli ludici ai quali vengono attribuiti valori più o meno importanti. E poiché, di solito, i valori culturali sono condivisi, chi gioca ha l’impressione che queste scelte, questi messaggi siano comuni a tutti, siano universali, siano “naturali”. E allora non vi pone attenzione, non li fan emergere, rimanendone inconsapevole e restando in questo modo un po’ “giocato” dal gioco che sta giocando. Questa regola vale per tutti i giochi: quelli dei bambini e quelli degli adulti, quelli conosciuti da molti e quelli meno noti, quelli contemporanei e quelli antichi. I giochi sono strettamente connessi ai valori culturali di ogni epoca: un gioco può confermare questi valori o può metterli in dubbio; un gioco può consolidare certi comportamenti e ideali o può incrinarli, metterli in discussione. Il rapporto tra giochi e culture è in un rapporto dinamico. Ci sono alcuni giochi che rappresentano in maniera evidente un preciso modo di essere nel mondo: sono giochi che offrono una chiave metaforica della vita e delle relazioni fra persone. In questi giochi, chi gioca (play) si trova all’interno di una partita (game) nella quale, oltre ad essere impegnato come persona, viene assorbito in un gioco che rimanda ad altro, che allude ad altro. Lo scopo del gioco allora non è più tanto quello di essere un mezzo per raggiungere un fine (la vittoria, la sfida, l’alleanza, la vertigine,…) ma quello di far vivere una finalità, non sempre esplicita, entro il proprio regolamento fittizio. In questi casi il gioco dice di essere qualcosa nel momento stesso in cui afferma di essere altro. In questi casi, i giochi diventano profondi e possono contenere molte metafore del mondo. (Staccioli 2004: 13-14)
Gioco profondo. Il primo a coniare la definizione di “gioco profondo” fu l’antropologo Clifford Geertz, per indicare quei giochi che sono profondamente radicati in una società tanto da influenzarne l’assetto sociale. Geertz coniò questo termine per spiegare il fenomeno della lotta dei galli di Bali e il comportamento degli abitanti nei confronti di questa pratica ludica fortemente diffusa seppur illegale. Quello che colpì Geertz fu che attorno al gioco prendeva forma 130 / IL GIOCO COME MODELLO DI COMUNICAZIONE
per giocatore e abitanti, un universo variegato fatto di regole di comportamento, di azioni, di espressioni linguistiche, di modalità di relazione, di costumi sociali, ecc. Era qualcosa di simile a quanto avviene da noi per il calcio: si comprano gadget e se ne parla anche (e soprattutto) al di fuori delle sedute di gioco. Il gioco profondo non è solo costituito dalle azioni di gioco, dai movimenti dei giocatori, dai tempi e dagli spazi che circoscrivono la partita ma si prolunga nel contesto sociale, suscita desideri e attese, muove relazioni e valori comunitari. Il giocatore rimane nel gioco al di là del tempo di gioco, cercando di mantenere un legame “infinito” (cfr. Carse 1986) con la partita e con se stesso. È importante riprendere in mano gli avvenimenti accaduti nel gioco per avere coscienza di ciò che avviene e trarne un’educazione emozionale. Normalmente, un gioco profondo comprende una serie di temi che sono presenti nell’esperienza quotidiana (come la vittoria, la sconfitta, la rivalsa, la forza, il coraggio, l’amicizia, l’ostilità) e, come scrive Fabio Dei (Dei F., Il calcio una prospettiva antropologica, “Ossimori”, 1, 1992, pp. 7-13) «ci ordina in una struttura sequenziale di azioni con un alto grado di elaborazione formale, dalla quale emerge una concezione particolare della vita umana. Cosicché assistere a una partita di calcio è per un giovane (occidentale) una sorta di educazione sentimentale o morale». Alla stessa maniera, molti giochi della tradizione erano legati a un determinato contesto, a modelli relazionali, economici, etici. Erano anch’essi dei giochi profondi. Staccioli è convinto del fatto che «un po’ tutti i giochi siano profondi, cioè che suscitino attese e comportamenti, relazioni e valori, che modellino modi di pensare e giudizi, creino sottili nessi fra modello di gioco e modelli di comportamento sociale» (Staccioli 2004: 36). Ogni gioco è dunque un oggetto complesso, dove si mescolano elementi espliciti e messaggi impliciti. La complessità dei giochi è data dall’interazione di tre elementi altrettanto complessi: l’individuo che gioca, il tipo di gioco che pratica, il contesto nel quale si svolge il gioco. Ciascuno di questi elementi può essere o meno portatore di un’azione formativa e di un cambiamento nella persona che gioca (e di conseguenza nel suo contesto). Ogni gioco acquista prestigio o viene considerato inutile in rapporto ai valori che caratterizzano una determinata cultura. Analisi strutturale dei giochi. Caillois, approfondito di seguito, tentò per primo una catalogazione dei giochi per trarne delle considerazioni in relazione alla società ma altri furono gli autori che si cimentarono successivamente in questo lavoro. In questo senso è utile ricordare l’analisi strutturale dei giochi proposta da Pierre Parlebas agli inizi degli anni ‘80 nata da alcune idee di Marcel Mauss (Les Techniques du corps, “Journal de Psychologie”, 32, 1934, pp. 3-4) relative al rapporto tra giochi e culture. Parlebas ha osservato che quando i bambini si impegnano in un gioco di gruppo, avviano relazioni interpersonali di diverso tipo. Queste comunicazioni ludiche possono essere di cooperazione, di duello simmetrico o dissimmetrico tra individui, di duello simmetrico o dissimmetrico tra gruppi, di situazione paradossale, ciascuno per sé o uno contro tutti. La dissimmetria si ha quando un giocatore o una squadra si confrontano compiendo azioni ludiche dissimili (ad esempio scappare- acchiappare) mentre si ha simmetria quando tutti compiono le stesse azioni ludiche. Nelle situazioni ciascuno per sé i giocatori giocano per proprio conto in parallelo agli altri in loro presenza mentre nelle situazioni uno contro tutti giocano attivamente contro gli altri. Nella situazione paradossale infine, il giocatore può essere contemporaneamente alleato o avversario degli altri giocatori.
I GIOCHI PROFONDI SONO QUEI GIOCHI TALMENTE RADICATI IN UNA SOCIETÀ DA INFLUENZARNE L’ASSETTO SOCIALE Geertz, 1958
TEORIE SUL GIOCO / 131
COMUNICAZIONI LUDICHE
DUELLO SIMMETRICO FRA DUE INDIVIDUI
Due giocatori si sfidano compiendo azioni simili, ognuno per sé, per vincere sull’altro
DUELLO DISSIMMETRICO FRA DUE INDIVIDUI
Due giocatori si sfidano compiendo azioni diverse e opposte, per vincere il gioco
DUELLO SIMMETRICO FRA GRUPPI/SQUADRE
Due squadre di giocatori si confrontano compiendo azioni ludiche simili
DUELLO DISSIMMETRICO FRA GRUPPI/SQUADRE
Due squadre di giocatori si confrontano compiendo azioni ludiche dissimili
UNO CONTRO TUTTI
Un giocatore si deve confrontare con tutti gli altri che sono in accordo tra loro
CIASCUNO PER SÉ
Ogni partecipante gioca per proprio conto in parallelo agli altri, in loro presenza
COOPERAZIONE
Tutti i giocatori collaborano per ottenere le finalità previste dalle regole del gioco
SITUAZIONE PARADOSSALE
Un giocatore è, nello stesso momento, alleato e avversario di un altro giocatore
4.4.1. ROGER CAILLOIS Una svolta significativa nello studio del gioco la attua Caillois nel 1958 con la pubblicazione del libro Les jeux et les hommes. In quest’opera Caillois tenta finalmente di colmare la grossa lacuna, fino ad allora presente attorno a questo tema, di una classificazione generica ed esaustiva del gioco come fenomeno.
Tabella 4.1. Le strutture relazionali dei giochi secondo Parlebas (fonte Staccioli, 2004).
132 / IL GIOCO COME MODELLO DI COMUNICAZIONE
Caillois vs Huizinga. Les jeux et les hommes di Caillois riveste una particolare importanza in quanto rimane a tutt’oggi l’unico tentativo di fornire una teoria sistematica dei giochi. La base da cui parte per la sua analisi è l’eredita di Huizinga, di cui accoglie la tesi fondamentale espressa in Homo Ludens, ma dal quale si dissocia per diversi aspetti: innanzitutto è concorde sia con Huizinga sia con le successive affermazioni di Fink, che il gioco può essere paragonato a un’isola (per Fink un’“oasi della gioia” mentre Huizinga lo definisce “spazio magico” dentro al quale sospendiamo le regole e i modi della vita quotidiana), perché è qualcosa di circoscritto, uno spazio a sé, in certo modo chiuso, sicuramente “separato” dalla realtà comune. Ma la vede più come un’isola dell’incertezza piuttosto che della felicità: la dimensione ludica non è scindibile dal piacere di giocare tuttavia Caillois da alla parola gioco e ludico un accento diverso: la bella e leale competizione che aveva in mente Huizinga in stile cavalleresco diventa in Caillois un’esperienza inquietante caratterizzata dall’aleatorietà, dall’ambiguità della maschera e dall’effetto squilibrante della vertigine. Entrare nel gioco, in-ludere, non significa per lui solo entrare in una dimensione illusoria, già di per sé instabile, ma anche esporsi al rischio e infine partecipare a quello stato animato ben noto all’esperienza del giocatore d’azzardo. Inoltre Caillois mette in discussione l’equivalenza tra gioco e mito espressa da Huizinga; Caillois non nega che molti giochi derivano da pratiche religiose ma il gioco è un rito senza mito, è un rituale. Inoltre il non aver considerato i giochi d’azzardo ha portato Huizinga a dare del gioco una definizione
di base in cui si afferma che il gioco non comporta alcun interesse economico. Talvolta invece il gioco è assolutamente a fine di lucro, ma ciò non toglie che alla base rimane improduttivo. Il gioco è occasione di puro dispendio: di tempo, di energie, d’intelligenza, di abilità e talvolta di denaro (cfr. Rovatti 1981). Di Huizinga, in sintesi, Caillois critica il fatto che la sua opera non è uno studio sui giochi ma una ricerca sulla fecondità dello spirito ludico che presiede a una determinata specie di giochi: i giochi di competizione regolata. Elementi per determinare il gioco. In realtà, come è ben noto, i giochi vanno oltre questa semplice categorizzazione di Huizinga e per questo Caillois comincia le sue riflessioni compiendo innanzitutto un’analisi per determinare, in contrapposizione al resto della realtà, gli ambiti entro cui è possibile definire il gioco. Caillois arriva quindi a definire il gioco come un’azione con diverse caratteristiche: libera (a cui il giocatore non può essere obbligato a partecipare); separata (si svolge entro limiti di spazio e tempo definiti); incerta (lo svolgimento e il risultato non possono essere conosciuti in anticipo); improduttiva (non produce beni né ricchezza, al massimo spostamento di proprietà nel caso dei giochi d’azzardo); regolata (risponde a regole proprie che sospendono momentaneamente le leggi ordinarie); fittizia (il giocatore è consapevole di essere in una realtà distinta dalla vita normale).
Roger Caillois (nato a Reims nel 1913 e morto a Kremlin-Bicêtre, in Francia, nel 1978) era un uomo dai molteplici interessi: nella sua vita si occupò di estetica, sociologia, etologia, scienze naturali e soprattutto si dedicò ai temi del gioco, del mito, della poesia, dell’immaginazione e del sacro (cfr. Mariani 2007).
Classificazione dei giochi. Dopo un attento esame delle possibilità, Caillois volge la sua attenzione alla ricerca di elementi peculiari e irriducibili che permettono di classificare ogni tipo di gioco. Propone quindi una suddivisione dei giochi in quattro categorie fondamentali: 1. Agon (dal greco “campo di battaglia”), comprende i giochi di competizione, in cui vengono create artificialmente condizioni di parità tra i giocatori affinché emerga, incontestabile in una particolare qualità (fisica o cerebrale), il valore del vincitore. Rientrano in questa categoria le competizioni sportive così come i giochi come la dama. Per ogni giocatore la molla principale del gioco è il desiderio di veder riconosciuta la propria superiorità in un determinato campo: «l’agon si presenta come la forma pura del merito personale e serve a manifestarlo» (Caillois 1960: 30 tr. it.). 2. Alea (dal latino “gioco dei dadi”), comprende i giochi in cui si tratta di vincere sul destino, che si fondano su una decisione che non dipende dal giocatore e sulla quale egli non può far presa (ad esempio i dadi, la roulette, testa o croce, lotterie, ecc.). Qui non solo non si cerca di eliminare l’ingiustizia del caso ma è proprio questa la molla del gioco. L’alea sottolinea e rivela il favore del destino. Il giocatore vi è totalmente passivo; deve solo aspettare, con speranza e trepidazione, il verdetto della sorte. A differenza dell’agon in cui il giocatore conta solo su se stesso, nell’alea conta su tutto tranne che su se stesso. Spesso c’è una posta in gioco e quindi un rischio al quale sarà proporzionale la ricompensa. 3. Mimicry (dall’inglese “mimetismo”), identifica quei giochi in cui si assume un’identità fittizia, spesso attraverso l’uso di maschere e travestimenti. Ci si muove in un mondo fittizio in cui si gioca a credersi o a far credere ad altri di essere un altro (il gioco del “far finta di” dei bambini ma anche il costume carnevalesco di ragazzi e adulti). Ad eccezione di una, la mimicry presenta
Figura 4.5. Roger Caillois
TEORIE SUL GIOCO / 133
tutte le caratteristiche del gioco: libertà, convenzione, sospensione del reale, spazio e tempo delimitati. Non vi si trova tuttavia l’assoggettamento continuo a regole precise e imperative: le sostituiscono la dissimulazione della realtà, la simulazione di un’altra realtà. 4. Ilinx (dal greco “gorgo” da cui deriva ilingos =“vertigine”), sono i giochi in cui si cerca di ottenere la vertigine distruggendo la stabilità della percezione e la lucidità, accedendo a un momentaneo stato di trance. Rientrano in questa categoria le giostre, i girotondi, le altalene ecc. Quello che si prova nell’ilinx è un vero godimento, più vicino allo spasmo che al divertimento.
Tabella 4.2. La suddivisione dei giochi secondo Caillois (fonte Caillois, 1967).
Modi di giocare. Accanto a queste quattro categorie Caillois identifica anche due macro “potenze” (o modi di giocare) contrastanti: il ludus e la paidia. Il ludus si manifesta come tendenza a superare degli ostacoli arbitrari (e volutamente più difficili man mano che va avanti il gioco per rendere più arduo il raggiungimento dello scopo finale) esclusivamente attraverso lo sforzo fisico o l’abilità mentale. Nel ludus tutto è questione di scaltrezza, calcolo, capacità combinatoria e pazienza. Talora c’è un premio in queste sfide ma il piacere del ludus non sta nel godimento materiale del premio quanto alla prova che si è data di se stessi. All’estremo opposto, il gioco è anche paidia ovvero turbolenza, improvvisazione. Qui il piacere si associa al divertimento, nel senso più puro del termine (manifestazione di stati d’animo quali l’eccitazione, l’allegria, il riso). Quello che da piacere nella paidia è la sorpresa, la novità, l’eccesso e l’ebbrezza. Si può dire che il ludus arricchisce e disciplina la paidia e porta solitamente alla conquista di un’abilità, all’acquisizione di una particolare capacità nel manovrare determinati strumenti o nell’attitudine a trovare delle soluzioni soddisfacenti a problemi di ordine convenzionale. Secondo Caillois all’interno di ciascuna categoria del gioco è possibile vedere un passaggio co-
AGON
ALEA
MIMICRY
ILINX
(competizione)
(fortuna)
(simulacro)
(vertigine)
filastrocche per far la conta testa o croce
imitazioni infantili giochi illusionistici bambola costumi vari maschera travestimento
roteare infantile giostra altalena valzer
scommesse roulette lotterie semplici composte o a ripetizione
teatro arti dello spettacolo in generale
volador luna-park sci alpinismo acrobazia
PAIDIA
chiasso agitazione
corse combattimenti ecc. atletica
non soggetti a regolamento
fou-rire aquilone solitari cruciverba
LUDUS
boxe biliardo scherma dama calcio scacchi competizioni sportive in genere
N.B. In ogni colonna verticale, i giochi sono classificati – molto approssimativamente – in un ordine tale per cui l’elemento PAIDIA diminuisce constantemente, mentre aumenta proporzionalmente l’elemento LUDUS. (Nota di Caillois)
134 / IL GIOCO COME MODELLO DI COMUNICAZIONE
stante dalla paidia al ludus. Alcuni giochi infatti sono esplicitamente paidia (soprattutto quelli dei bambini) mentre altri sono facilmente collegabili al ludus (ad esempio le gare sportive, i giochi da tavola, i rompicapo e gli enigmi). Gioco e società. Caillois è convinto che il ludus «rappresenta, all’interno del gioco, l’elemento la cui portata e fecondità culturale appaiono più sorprendenti» (Caillois 1967: 54 tr. it.). Analizzando la vocazione sociale dei giochi e la loro incidenza sulle culture, arriva alla conclusione che è possibile osservare una stretta relazione tra il tipo di società (e i valori in esso condivisi) e i giochi che vengono giocati in questa. Come afferma in un passo del libro: Il destino delle culture si legge anche nei giochi. Dare la preferenza all’agon, all’alea, alla mimicry o all’ilinx contribuisce a decidere l’avvenire di una civiltà. Allo stesso modo incanalare la riserva di energia disponibile rappresentata dalla paidia verso l’invenzione o verso la fantasticheria, esprime una scelta, senza dubbio implicita, ma fondamentale e di indiscutibile portata. (Ibidem)
Caillois è concorde con Huizinga nell’affermare che ogni cultura viene dal gioco, ma lo è anche con la teoria più diffusa in quegli anni (condivisa da teorici come Hirn, Gross, Bolton, ecc.) che “tutto scade nel gioco” e che i giochi sono degradazioni delle attività adulte; in pratica Caillois cerca di conciliare le due teorie affermando che lo spirito del gioco è essenziale alla cultura, ma giochi e giocattoli, nel corso della storia, sono effettivamente residui di questa. In una fase precedente, nelle società in cui hanno avuto origine, erano parte integrante delle istituzioni, sia religiose che laiche; in quei contesti non erano dei giochi, nel senso che si dà ai giochi dei bambini. È mutata la loro funzione sociale, non la loro natura ma questo decadimento non ha fatto che rivelare, isolandolo, ciò che in essi non era che gioco, struttura di gioco. Degenerazione dei giochi. Caillois ammonisce circa un pericolo che si nasconde dietro ogni gioco, la sua degenerazione. Quando infatti il giocatore perde il senso di ciò che è reale con ciò che non lo è, quando si infrangono le barriere nette del gioco, questo si riversa nella vita normale e tende a subordinarla alle sue esigenze: ciò che era piacere diventa un’idea fissa, ciò che era evasione diventa costrizione; ciò che era divertimento diventa febbre, ossessione. Caillois è quindi convinto che la degenerazione del gioco sia determinata non da un suo abuso ma dallo smarrimento delle pulsioni primarie (agon, alea, mimicry, ilinx) che sono alla loro base. Così si ha la corruzione dell’agon quando l’antagonismo diventa estremo, non si accettano le regole e non vengono riconosciuti né arbitri né arbitraggi; la degenerazione dell’alea quando si inizia a credere alla superstizione; la corruzione della mimicry si manifesta quando l’imitazione, la simulazione, non è più presa per tale (alienazione); la degenerazione dell’ilinx si ha quando si ricerca la vertigine fisica, il senso di perpetua perdizione attraverso l’uso di droghe, alcool o altri mezzi che alla lunga alterano l’organismo e tendono a creare un’assuefazione, associata a stati d’ansia insopportabile quando si è in astinenza, tanto da condurre alla morte. Questo tipo di problematiche che vedono il gioco trasformarsi in un’attività patologica, sono ormai riconosciute e trattate come vere e proprie malattie. Quanto al ludus e alla paidia, che non sono categorie di gioco ma modi di giocare, essi passano nella vita ordinaria mantenendo il loro eterno contrasto: quello appunto che oppone il chiasso a una sinfonia, lo scarabocchio all’applicazione sapiente delle leggi della prospettiva. Trasposto nella realtà l’agon non ha altro scopo che il successo. TEORIE SUL GIOCO / 135
Abbinamenti possibili. Le quattro categorie sviluppate da Caillois non sempre si riscontrano isolate. Associate a due a due si possano invece ottenere: Agon – Alea (competizione e caso); Agon – Mimicry (competizione e imitazione); Agon – Ilinx (competizione e vertigine); Alea – Mimicry (caso e imitazione); Alea – Ilinx (caso e vertigine); Mimicry – Ilinx (imitazione e vertigine). Sono possibili anche combinazioni ternarie ma si riscontrano solo in casi occasionali. Di questi abbinamenti due appaiono contro natura, altri due semplicemente validi e solo gli ultimi due riflettono delle complicità essenziali. I due abbinamenti contro natura agon-ilinx e alea-mimicry, presentano un’evidente contrapposizione in quanto la vertigine non si può associare alla competizione senza snaturarla e anche caso e imitazione non possono essere compatibili in quanto nessuna imitazione può trarre in inganno la fatalità. Gli abbinamenti casuali alea-ilinx e agon-mimicry, dimostrano come talvolta il caso possa associarsi alla vertigine (come l’ebbrezza che si prova nei giochi d’azzardo) e la competizione all’imitazione (ogni competizione è infatti anche una forma di spettacolo). Sia l’ilinx che la mimicry non interferiscono in modo negativo sui rispettivi abbinamenti ma anzi, talvolta rafforzano il gioco stesso. Vi sono infine due abbinamenti fondamentali: agon-alea e mimicry-ilinx. Tra agon e alea esiste una perfetta simmetria. Il modo di ottenere la vittoria è opposto: da una parte si fa affidamento al caso, dall’altra esclusivamente alle proprie abilità, ma in mezzo vi sono un’infinità di giochi (come gli scacchi, le carte, il domino) dove il piacere del gioco nasce dal fatto di dover sempre trarre il miglior partito possibile da una situazione che il giocatore non ha creato o che può dominare solo in parte. Agon e alea occupano l’ambito della regola. Senza la regola non ci può essere né competizione né gioco d’azzardo. All’opposto mimicry e ilinx si basano sull’assenza di regole in cui il giocatore improvvisa in continuazione, affidandosi a una vivida fantasia. La mimicry presuppone da parte di chi vi si abbandona, la consapevolezza della finzione e dell’imitazione, mentre caratteristica specifica della vertigine è quella di sopprimere ogni coscienza. Fingere di essere un altro aliena ed esalta. Il connubio tra vertigine e maschera è fra tutti il più temibile: esso provoca tali eccessi che nella coscienza da chi le pratica il mondo reale viene momentaneamente abolito. Categorie e influenza sulle società. La competizione e l’imitazione possono creare (e creano) forme di cultura alle quali è spesso riconosciuto un valore sia educativo che estetico. Infatti la competizione regolata altro non è che lo sport mentre l’imitazione concepita come gioco è il teatro. All’interno delle due grandi coalizioni però una sola categoria di giochi è davvero creativa: la mimicry nel connubio maschera-vertigine e l’agon, in quella della rivalità regolata-fortuna. Le altre si rivelano ben presto devastatrici. Queste associazioni secondo Caillois, si rispecchiano nella cultura dei popoli e a seconda che questi scelgano (e giochino maggiormente) l’uno o l’altro modello, si otterranno due tipi opposti di società. Nelle società fondate sull’unione agon-alea (ovvero merito e fortuna), esiste uno sforzo incessante e discontinuo (in quanto rapidità e felicità dei risultati), volto ad ampliare la parte della giustizia e circoscrivere quella del caso. Sforzo che Caillois identifica nel progresso. Le società invece che si basano sulla coppia mimicry-ilinx (quelle caratterizza136 / IL GIOCO COME MODELLO DI COMUNICAZIONE
te dalla cultura delle maschere, dei riti collettivi e degli sciamani) sono identificabili con società arcaiche e poco sviluppate. Lo stesso sviluppo della società è riscontrabile nel passaggio tra la predominanza nella vita sociale e culturale del connubio mimicry-ilinx a quello agonalea. Ogni volta che una grande cultura riesce ad emergere dal caos originale, si riscontra una sensibile regressione delle forze di simulacro e vertigine. L’abbandono della maschera però è stato lento e discontinuo. Attraverso una serie di trasformazioni insensibili, maschere e travestimenti diventano ornamenti liturgici, della danza o del teatro e con l’istituzionalizzazione dei grandi giochi (olimpici, istmici, pitici e nemei), l’agon e l’alea assumono nella vita pubblica il posto privilegiato occupato dalla coppia mimicry-ilinx nelle società primitive. I giochi dello stadio inaugurano e offrono l’esempio di una rivalità circoscritta, regolata e specializzata. Privata di ogni sentimento di odio e rancore personale, questa nuova specie di emulazione dà inizio a una nuova scuola di lealtà e generosità. E diffonde al tempo stesso l’abitudine e il rispetto nei confronti dell’arbitrato. Il suo ruolo civilizzatore è stato spesso sottolineato. (Caillois 1967: 128 tr. it.)
LE SOCIETÀ DOVREBBERO BASARSI SUL MODELLO DELLA COMPETIZIONE REGOLATA, IN QUANTO È L’UNICO CHE SODDISFA CONTEMPORANEAMENTE LA GIUSTIZIA, LA RAGIONE E LA NECESSITÀ DI IMPIEGARE NEL MIGLIOR MODO POSSIBILE I VARI TALENTI
Le nuove società, prendendo spunto da questo, pongono l’agon alla base di ogni carriera amministrativa, militare, universitaria o giudiziaria, cercando attraverso diversi mezzi, di creare equità tra i cittadini per dare la possibilità di emergere anche a chi non nasce privilegiato. Agon e alea sono due forme opposte della giustizia ma propongono soluzioni complementari al problema dell’uguaglianza di tutti (anche se alla fine, è impossibile ottenere un’uguaglianza totale per cui quella che si otterrà sarà sempre e solo un’uguaglianza giuridica). Le società ideali di Caillois. Tralasciando purtroppo la triste realtà dei fatti nel nostro paese, dove sempre più spesso la meritocrazia è messa in secondo piano a favore di un sistema fatto di favoritismi, in sintesi le società moderne idealmente descritte da Caillois, attraverso i loro principi e attraverso le loro istituzioni, tendono ad allargare il campo della competizione regolata, vale a dire del merito, a spese di quello della nascita e dell’eredità, vale a dire del caso. Un’evoluzione di questo tipo soddisfa in pari tempo la giustizia, la ragione e la necessità di impiegare nel miglior modo possibile i vari talenti. Rimane sempre la nostalgia per eventuali scorciatoie per raggiungere in fretta uno status sociale alto, ed è per questo che l’alea entra in ballo come complemento naturale dell’agon, con lotterie di Stato, concorsi a premi, lotterie mascherate (quelle che non richiedono puntate di denaro ma si danno l’aria di premiare il talento, come i vari concorsi di bellezza o i quiz televisivi) e casinò.
4.5. GIOCO-VIDEOGIOCO: TRA EDUCAZIONE E PROMOZIONE In tempi recenti il gioco, ma soprattutto il videogioco, è stato oggetto di diverse sperimentazioni e strategie di marketing destinate a rendere l’educazione e l’informazione pubblicitaria più coinvolgente e divertente. Edugame. Le proprietà propedeutiche del gioco nella formazione del bambino sono riconosciute, come visto nel precedente capitolo (v. 3.2.2.), ormai da secoli. Con l’avvento e la diffusione dei computer tuttavia, si è sviluppato un TEORIE SUL GIOCO / 137
Figura 4.6. Edugame “Nicoland”, sito di giochi educativi per bambini. Si presenta come un’isola con tante regioni esplorabili, ciascuna inerente un’area didattica come matematica, grammatica, storia, geografia, inglese, ecc. Gli esercizi sono suddivisi per categorie a seconda della difficoltà: da 6 a 8 anni, da 8 a 10 anni e da 10 a 12 anni. Figura 4.7. Serious Game “Ultimate team play”, utilizzato per esercitare il personale della catena di hotel Hilton Garden In. Diversi scenari 3D, da affrontare con visuale in prima persona, catapultano gli inservienti in situazioni come manutenzione, espletamento procedure in reception, sala pranzo e così via dove dovranno completare task specifici o prendere decisioni con lo scopo di mantenere alto il livello di soddisfazione della clientela.
nuovo potenziale campo applicativo del gioco destinato a trasmettere contenuti didattici soprattutto ai bambini in età scolare e agli adolescenti: i videogiochi educativi (o edugame). Sono definiti edugame quei giochi che trattano intenzionalmente temi educativi (non si tratta di un genere specifico perché le applicazioni sono pressoché infinite) a scopi didattici, spesso inserite all’interno di contesti d’insegnamento. Edutainment. Ampliando il concetto a qualsiasi target e uscendo dai confini scolastici, si parla di edutainment (neologismo coniato da Bob Heyman nato dalla fusione delle parole educational [educativo] e entertainment [divertimento]), per indicare tutte quelle forme di comunicazione realizzate con l’intento di “educare giocando”, ovvero trasmettere conoscenza facendo leva sul divertimento come strumento di apprendimento. Sotto il termine edutainment possono quindi trovarsi tutte quelle forme di intrattenimento finalizzate sia ad educare che a divertire, come programmi televisivi, video games, film, musica, siti web, software e tutto il settore dell’E-learning che cerca di trasmettere dei concetti chiave in modo divertente. I temi applicativi sono i più svariati: dalle materie didattiche classiche (storia, italiano, matematica, biologia, lingua straniera, ecc.), nozioni specifiche (come funziona un impianto industriale, come si fabbrica la carta, ecc.) fino a temi di interesse sociale (educazione ambientale, civica, etica, ecc.) (cfr. Infante, 2000). Serious game. Un particolare tipo di gioco educativo, nato in ambito militare, è il serious game, che sfrutta le potenzialità tecniche del videogioco per sviluppare competenze trasferibili nel mondo reale. Questi giochi, grazie agli ambienti virtuali, replicano situazioni reali e possibili consentendo l’apprendimento e l’esercitazione di determinate abilità. Applicazioni classiche di questo tipo di gioco sono i giochi per addestrare i piloti d’aerei o quelli destinati ad allenare i militari ad effettuare incursioni nel territorio nemico. Possono però essere applicati anche ad ambiti molto differenti come l’educazione civica o la formazione aziendale (Viola 2011). Advergame. In ambito commerciale, gli advergame (neologismo nato dalla fusione di advertising e games) sono dei giochi interattivi, generalmente digitali, realizzati per supportare una campagna marketing e promuovere un brand. Nascono a partire da fine anni ‘90 con il compito di attirare l’attenzione del target giovane, difficilmente raggiungibile dai mezzi tradizionali. Gli advergame si dividono in associativi, illustrativi e dimostrativi, a seconda di una scala dal basso verso l’alto di integrazione tra brand e gioco. Si differenziano dalle altre forme comunicative precedenti perché qui non vi è alcun interesse didattico o educativo. Alternate Reality Game (ARG). Si tratta di giochi cross-mediali, nati soprattutto a scopo commerciale, che mescolano l’esperienza del videogioco con la vita reale in una specie di caccia al tesoro che si muove tra realtà e giochi virtuali. Gli ARG sono narrazioni interattive frammentate, che partono generalmente dalla rete per poi irradiarsi attraverso altri canali (email, sms, annunci su giornali, televisione, radio) con l’obiettivo di coinvolgere i giocatori in un’esperienza multisensoriale. (Cova, Giordano, Pallera 2007). Queste particolari forme di promozione sono in grado di alimentare la creatività dal basso degli utenti e di coinvolgerli a tal punto da creare delle ampie
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Figura 4.8. Alternate reality game “CriticalCity Upload”, nato allo scopo di riappropriarsi degli spazi e del proprio ambiente urbano. Sul sito si possono scegliere diverse missioni inusuali, per sperimentare qualcosa ogni volta diverso dal quotidiano, che fa vivere la città come non si sarebbe mai fatto altrimenti. Tra le missioni che si possono trovare sul sito: disegnare un’ombra sull’asfalto, salire sul punto più alto, esplorare un edificio abbandonato e lasciare un segno triangolare, creare un salotto per il tè sul marciapiede della stazione centrale. Ogni missione deve essere documentata (video, foto, ecc.) e caricata sul sito per competere con gli altri utenti su chi ha fatto l’esecuzione migliore, per diventare così giocatore del momento. Nel sito è possibile anche vedere i giocatori più prossimi a noi per organizzare dei veri e propri eventi collettivi sfruttando magari le aree di gioco più attive (nodi di gioco).
Figura 4.9. Edutainment “Magnifica Historia”, mostra guidata/evento teatrale nell’antico e suggestivo Pozzo di San Patrizio ad Orvieto (TR). I visitatori, guidati da una guida turistica/attrice che come di consueto, inizia a spiegare le caratteristiche architettoniche e storiche del sito visitato, si imbatteranno ad un certo punto in due uomini in abiti cinquecenteschi, che si scopriranno essere Antonio San Gallo, l’architetto del pozzo e il suo assistente Stefano Dorigi, ritrovatisi misteriosamente catapultati nel futuro. Attraverso dei dialoghi con la guida, continueranno la spiegazione del posto visitato dal punto di vista dell’architetto, dai motivi per cui gli è stato commissionata l’opera fino alla struttura e alle funzioni a cui questa doveva rispondere. I visitatori così acquisiranno conoscenza non rinunciando a un aspetto ludico di intrattenimento, data dall’ironia dei due attori, soprattutto per le disavventure del povero assistente e per le gaffe dovute al gap storico tra la guida e il loro parlare arcaico.
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Figura 4.10. Personal Page di Green Goose, il gioco che premia le attività quotidiane. Lo scopo della start up americana è quello di rendere quelle azioni quotidiane spesso noiose ma necessarie, come lavarsi i denti, buttare la spazzatura, ecc., più divertenti, trasformandole in giochi di ruolo a punti. Con un kit acquistabile su internet, composto da alcuni sensori wireless e una base station da collegare al pc, è possibile dar vita al gioco scegliendo degli intenti personali da espletare quotidianamente (ad esempio bere almeno 10 volte al giorno, percorrere 3 km, prendere una medicina e lavarsi 3 volte i denti). I sensori trasmettono alla base station il compimento delle missioni ed automaticamente si aggiornerà il proprio profilo con pallini bianchi in caso di successo e rosso in caso di fallimento. Non vi è modo di barare. I punti inoltre permettono di ottenere dei premi forniti da brand e catene commerciali partners dell’iniziativa. Figura 4.11. Kit di gioco di Green Goose. La scatola contiene un sensore a forma di uovo da applicare allo spazzolino, sensori adesivi da applicare su bottiglie, medicine o qualsiasi altra cosa coinvolta nel gioco, pedometro e base station da collegare al pc.
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comunità dedicate alla soluzione dei giochi e alla creazione di contenuti generati dagli utenti, che rappresentano una parte integrante di molti ARG. È un settore ancora poco esplorato in Italia: tra i rari casi di successo si possono citare Critical City e Frammenti. In America invece è uno strumento ormai comunemente utilizzato come veicolo promozionale per un prodotto o servizio (uno dei più famosi ARG americano è I Love Bees, ideato da Jane McGonigal per promuovere il videogioco Halo2).
4.5.1. GAMIFICATION Il termine gamification (traducibile con “ludicizzazione”) si riferisce all’«utilizzo di meccaniche e dinamiche tipiche dei videogiochi all’interno di contesti non gaming con l’obiettivo di creare engagement, loyalty e risolvere problemi» (Viola 2011). Nella pratica consiste nell’utilizzare una serie di schemi sperimentati negli anni nei videogiochi per spingere un utente/consumatore a compiere alcune azioni (visitare una pagina web, acquistare un oggetto, ecc.) premiandolo in maniera intrinseca (innescando emozioni come gioia, desiderio di socializzazione, auto espressione, ecc.) oppure estrinseca (punti, premi). Tracce di gamification sono presenti già da anni nei progetti più innovativi incentrati all’user experience (e a ben vedere, il meccanismo premio-ricompensa è stato già teorizzato decenni fa in diversi ambiti disciplinari, primo fra tutti in quello dell’etologia) ma il termine è in realtà molto recente ed è stato utilizzato per la prima volta in pubblico nel febbraio 2010 da Jesse Schell, professore universitario e famoso game designer americano, nel corso della Dice Conference 2010 tenutasi a Las Vegas. La gamification non corrisponde necessariamente alla creazione di un gioco; può anche non esserci alcuna struttura narrativa e spesso nemmeno una parte grafica. Gli obiettivi che la gamification si pone sono molteplici (fedeltà alla marca, creare reclutamento, risolvere problemi, ecc.) ma sono tutti riconducibili al desiderio di rendere meno gravose le incombenze di tutti i giorni, trasformandole in sfide, con se stessi o con la propria cerchia di amici, grazie al crescente desiderio di condivisione supportato dagli ormai onnipresenti smartphone e delle piattaforme di social networking. La gamification si serve a questo scopo di meccaniche di base dei giochi come punti, livelli, ricompense, distintivi, badge, doni, per stimolare alcuni istinti primari dell’essere umano come la competizione, lo stato sociale, i compensi e il successo. L’utilizzo di metodologie ludiche stimola un interesse attivo (e misurabile) dell’utente, cosicché le informazioni e i messaggi vengano recepiti in modo molto più efficace rispetto a un comportamento passivo (come per esempio avviene nella pubblicità tradizionale). Si può intuire che un comportamento attivo è molto più efficace di quello passivo, anche dal punto di vista della trasmissione di un messaggio: incentivando a compiere delle azioni, il messaggio può essere collegato all’azione stessa, racchiudendo così tutto nella medesima esperienza. Un ulteriore vantaggio nel far compiere all’utente determinate azioni prestabilite, è quello di ottenere un feedback sotto forma di dati. Le aree di applicazione della gamification sono molte; tra queste ci sono salute e benessere, catene alimentari, campagne marketing, e-commerce, educazione, addestramento militare e lavorativo, apprendimento sociale, ecc. Essendo un mercato relativamente giovane, è ancora tutto un “work in pro-
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gress”, sia per quanto riguarda le tecniche che per lo studio di case history di successo. Proprio per via dei pochi anni di sperimentazione, è complesso stimare già ora quali possano essere i benefici e i difetti di strategie di questo genere. Un buon punto di osservazione però può essere quello di guardare a ciò che è spesso citato come il precursore della gamification, Foursquare, grazie all’introduzione di punti e badge per motivare gli utenti ad effettuare check in nei luoghi in cui si trovano. Fare leva su queste motivazioni estrinseche hanno consentito alla start up americana di passare da 0 a 10 milioni di utenti registrati in soli due anni. Tuttavia proprio questo periodo ha fatto emergere una criticità di questo sistema. La strategia nel breve termine ha funzionato ottimamente, tanto da imprimere una svolta nel modo in cui si scoprono e condividono gli spostamenti individuali con ripercussioni su tutto il mondo dei socialnetwork e del mercato. L’assenza di motivazioni intrinseche però, nel lungo termine, ha mostrato la debolezza di questo modello in quanto dopo una prima fase di enfasi ed utilizzo massiccio iniziale, la motivazione è andata scemando, nonostante l’introduzione di ulteriori premi estrinsechi più “materiali” a partire dal 2010 (coupon e sconti offerti dai servizi convenzionati). Questo è avvenuto perché, a differenza di ciò che si potrebbe pensare, il denaro (o comunque le motivazioni estrinseche) quando viene utilizzato come motivatore esterno, alla lunga può portare ad una progressiva perdita di motivazione interna. Nei casi di strategie a lungo termine, è quindi necessario far leva su altri istinti umani, gli stessi che continuano a spingere migliaia di persone nel mondo a contribuire gratuitamente a iniziative crowdsourcing come Wikipedia o i software Opens Source: il piacere di farlo, il divertimento, sfidare se stessi alla risoluzione di un problema e per il senso di altruismo nell’offrire ad altre persone una soluzione ai loro problemi. Un’altra critica facilmente movibile alla gamification è il fatto che questa snatura la purezza del videogioco, riducendolo a uno strumento di marketing, e manipola la volontà delle persone. «I videogiochi sono pensati per far divertire mentre nei prodotti “gamificati” gioco e divertimento sono sfruttati per arrivare a qualcos’altro», sintetizza Viola (2011). Questa è una distinzione che vale la pena non dimenticare mai.
4.6. GIOCO E SOCIETÀ Da questo excursus tra le varie discipline che hanno studiato e analizzato il gioco, si evince che sono molteplici le funzioni che questo assolve in modo più o meno esplicito e quanto questo, come per primo notò Huizinga, sia fortemente radicato nel concetto stesso di società e cultura. Il gioco è quanto di più naturale ci sia al mondo e per questo è attività indispensabile, per l’individuo e per la collettività: «per la funzione biologica che esplica, per i significati che nasconde, per i valori formativi che rivendica, per l’espressività emotivo-affettiva che emana, per le relazioni intersoggettive e sociali che crea» (Kaiser 1995: 34). In altre parole il gioco è connaturale all’uomo, in quanto comportamento o atteggiamento nei confronti di sé, degli altri e del mondo. Il gioco è quindi modello di come noi ci rapportiamo con l’esterno e di come costruiamo la nostra identità, le nostre conoscenze, di come viviamo. Ma cosa succederebbe se iniziassimo a vivere consciamente come giocatori le nostre 142 / IL GIOCO COME MODELLO DI COMUNICAZIONE
vite reali, a condurre le nostre attività, le nostre comunità, a risolvere i problemi del mondo reale nell’ottica del gioco? Secondo Jane McGonigal, una delle più conosciute game-designer del mondo, il gioco, applicato alla realtà quotidiana, potrebbe migliorare la nostra qualità di vita: rendere il nostro lavoro più soddisfacente, migliorare il sistema educativo, risolvere problemi globali, aumentare il livello di partecipazione alla vita sociale, ecc. I giochi possono infatti creare nuovi modi di lavorare insieme a scale estreme (gli esempi di co-creazione virtuale ad opera delle comunità nate sul web sono ormai incalcolabili) e ottimizzare l’esperienza umana rendendo possibile un coinvolgimento duraturo (cfr. McGonigal 2011). Partendo da questo presupposto, si possono identificare, a mio avviso, tre diversi livelli in cui i giochi, grazie alle loro caratteristiche, possono migliorare la nostra vita quotidiana, renderci connessi e scoprire nuove strade per avere qualche influenza nel mondo reale.
4.6.1. GIOCO E INDIVIDUO A livello personale, nella sfera dell’individuo, il gioco può essere un forte elemento motivante, che stimola il nostro interesse e ci aiuta a lavorare al massimo delle nostre capacità. Il gioco infatti può essere visto come una sfida che noi liberamente scegliamo di affrontare, che ci mette alla prova con ostacoli volontari e ci aiuta a mettere a frutto i nostri punti di forza (che spesso nemmeno siamo coscienti di possedere). Il gioco inoltre attiva emozioni positive ci aiuta a trovare migliori speranze di successo, ad accettare i fallimenti e anzi, a renderli divertenti, e ci allena a concentrare il nostro tempo e le nostre energie su obiettivi davvero raggiungibili. Ci danno gratificazioni di senso che ci spingono ad impegnarci di più: i punti, i livelli, i traguardi ci possono motivare a superare situazioni difficili e sono di ispirazione per lavorare più intensamente così da eccellere nelle cose che già ci piacciono. Il gioco è anche fortemente creativo: ci allena all’immaginazione e allo sviluppo della creatività, a pensare in modo trasversale senza paura di fallire o avere conseguenze sul nostro mondo reale.
4.6.2. GIOCO E COMUNITÀ L’attività ludica è anche e soprattutto socialità. Sono infatti pochi i giochi che non richiedono una qualche interazione con altri giocatori. Come afferma Kaiser «entrare ed essere in sintonia con l’altro è condizione irrinunciabile nell’attività ludica ma prima ancora nella comunicazione intersoggettiva intesa come comprensione dell’altro. Si accetta l’altrui identità personale, non imitandola né negandola o manipolandola, ma rendendola compagna d’incontro e di colloquio, di cammino esistenziale» (Kaiser 1995: 122) Il gioco dissipa l’aggressività e la conflittualità negativa e incoraggia la comunicazione e la socializzazione. I giochi costituiscono legami sociali più forti, si è portati più facilmente a collaborare e riescono a instaurare reti sociali più attive e durature nel tempo. Spesso infatti anche se non richiesto dalle regole e dalla finalità del gioco stesso, attorno a determinati giochi si creano delle vere e proprie comunità dove giocatori esperti condividono le proprie competenze e si offrono di aiutare altri giocatori senza nessuna ricompensa se non TEORIE SUL GIOCO / 143
I GIOCHI MIGLIORANO LA SOCIALITÀ PERCHÈ PORTANO A UN’APERTURA VERSO GLI ALTRI RARAMENTE RISCONTRABILE IN ALTRE SITUAZIONI DI INTERAZIONE SOCIALE
la gratificazione di essere d’aiuto al prossimo (unita forse a una motivazione più intrinseca, di sentirsi riconosciuti come esperti, competenti, utili e quindi acquisire autorevolezza nell’ambito di quella determinata comunità). I giochi migliorano la socialità anche perché portano ad un’apertura verso l’estraneo raramente riscontrabile in altre situazioni di interazione sociale. Il contatto con gli estranei infatti può offrire diverse gratificazioni emotive e una di queste, legata agli ambienti di gioco cosiddetti massively multiplayer, è quella che i ricercatori chiamano “socievolezza ambientale”, ovvero l’esperienza di giocare “da soli insieme”, ed è una forma di interazione apprezzata soprattutto dalle persone più introverse che non hanno il coraggio di interagire in prima persona con altri (cfr. McGonigal 2011: 97 tr. it.). La socievolezza ambientale può non creare legami diretti ma soddisfa il nostro forte desiderio di sentirci connessi ad altri, creando la sensazione di far parte di qualcosa di più grande (lasciando comunque intravedere il fatto che, qualora ci sentissimo pronti, potremmo accedere a una relazione con l’altro più diretta e dialogica).
4.6.3. GIOCO E REALTÀ Il sentirci parte di qualcosa di più grande di noi stessi ci fa capire anche come le nostre azioni abbiano importanza al di là delle nostre vite individuali. É possibile quindi ampliare la nostra visione, attraverso i giochi collaborativi di grosse dimensioni, fino ad arrivare all’obiettivo di migliorare il mondo in cui viviamo, utilizzando il gioco per risolvere i problemi più complessi del nostro tempo. Da un lato allora, i giochi di partecipazione sociale, possono essere sviluppati per offrire ai giocatori dei compiti volontari (delle missioni di gioco) nel mondo reale, facilmente realizzabili quanto le imprese nei giochi tradizionali, le cui vittorie però consentono di dare un reale contributo alla società, permettendo al giocatore sia una gratificazione personale nata dall’atto del giocare stesso, sia la consapevolezza che con il suo giocare, ha contribuito a qualcosa per il bene comune. Dall’altro lato, i giochi di previsione, sempre in termini collaborativi e applicati a tematiche reali, possono essere un ottimo strumento per allenarci a guardare più lontano verso scenari futuri possibili e fare delle riflessioni attorno a una determinata problematica, in cerca di soluzioni innovative. Il gioco infatti, facilita l’apprendimento di concetti e relazioni complesse in quanto predispone l’individuo a sperimentare, ad esempio attraverso la simulazione, quanto li costruisce e costituisce. In questo modo il gioco permette di valutare le conseguenze legate a determinate prestazioni e decisioni, e a testare in un ambiente sicuro (simile ma staccato dalla realtà) una quantità molto grande di strategie per risolvere i problemi in oggetto, portando quindi i giocatori a una coscienza superiore del tema trattato e a una soluzione applicabile anche alla stessa problematica nella realtà. Le nuove generazioni di giocatori. I giochi in sintesi, per molti motivi, possono migliorare complessivamente il nostro modo di vivere. Jane McGonigal (2011) però si spinge ancora oltre affermando che i giochi massively multiplayer come World of Warcraft hanno creato intere armate di “giocatori eroi” (500 milioni di persone ad oggi – che in 21 anni hanno passato in media 10.000 ore della loro vita giocando, l’equivalente dell’intera carriera scolastica dalla quinta elementare fino alla maturità – numero destinato a raggiungere 1,5 miliardi in una decade grazie alle nuove piattaforme wireless in fase di 144 / IL GIOCO COME MODELLO DI COMUNICAZIONE
produzione), che potrebbero risolvere i problemi reali con la stessa facilità con cui risolvono oggi i problemi dei loro mondi virtuali. Questo perché questi giochi li hanno educati a quattro abilità fondamentali, quattro “superpoteri”. Il primo è l’ottimismo urgente, una forma estrema di automotivazione, ovvero il desiderio di agire immediatamente per affrontare un ostacolo, insieme con la convinzione di avere una ragionevole speranza di successo. I giocatori abituali sono convinti che ogni battaglia epica possa essere vinta e che valga sempre la pena di provarci. Il secondo è la forte abilità di creare un robusto tessuto sociale: ci sono molte ricerche che dimostrano come noi ci troviamo meglio con altre persone dopo averci giocato insieme, perché il gioco richiede innanzitutto fiducia e cooperazione, con il risultato di avere davvero delle relazioni più forti. Il terzo è la produttività gioiosa: i giocatori sono disposti a lavorare tanto e duramente perché da più soddisfazione e felicità superare un ostacolo in questo modo piuttosto che rilassandosi o perdendo tempo. I giocatori sanno che siamo ottimizzati, come esseri umani, a lavorare sodo per qualcosa che ha significato e i giocatori abituali sono disposti a lavorare sodo se gli è assegnato un compito adatto. Infine il desiderio di essere associati a significati epici: i giocatori amano essere coinvolti in missioni meravigliose, a storie umane su scala planetaria (lo dimostra il fatto che la wiki di World of Warcraft è la seconda per grandezza, dopo Wikipedia, ed è la più grande wiki che racchiude così tante informazioni su un unico argomento; stanno costruendo un’opera epica di informazioni attorno al loro gioco preferito). Tutti questi “superpoteri” rende i giocatori abituali individui dotati di grande ottimismo nelle proprie capacità, che credono fortemente di essere individualmente capaci di cambiare il mondo; però sono convinti di esser capaci di cambiare mondi virtuali e non quello reale. L’obiettivo di McGonigal, con l’Institute For the Future di Palo Alto, è quindi quello di rendere il mondo reale più simile a un gioco, creando scenari dai risultati migliori e dando la possibilità alle persone di trasformarli in realtà concrete. Vogliono immaginare vittorie epiche per poi dare alla gente gli strumenti per realizzarle. Tra i tre progetti che hanno sviluppato a questo scopo, c’è World Without Oil, che approfondirò come caso studio nella parte finale della tesi.
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5 GIOCO E COMUNICAZIONE SOCIALE
Nei capitoli precedenti sono state mostrate le criticità della comunicazione sociale nel panorama italiano, e il radicato legame del gioco con la cultura e la società. Partendo da queste osservazioni nel capitolo si analizzerà, da un punto di vista semiotico, come funziona la comunicazione, mettendo il luce il suo modello strutturale, per dimostrarne le forti similitudini con il gioco, tanto da far avanzare l’ipotesi che il gioco possa fornire metafore e modelli per lo studio di una comunicazione sociale più efficiente. A dimostrazione di questa tesi, verrà proposto uno schema di analisi concettuale sul modello del gioco, utile al designer per focalizzare meglio gli obiettivi della comunicazione e le strategie più corrette per renderla maggiormente efficiente. Questo schema verrà infine applicato a dei casi studio per dimostrare come il gioco, concepito come modello di analisi e sviluppo di ogni tipo di interazione, possa rendere la comunicazione sociale più efficace, coinvolgente e vicina al destinatario finale.
5.1. PER UN MODELLO DI GIOCO NELLA COMUNICAZIONE SOCIALE Dall’analisi precedentemente fatta sulla condizione della comunicazione sociale in Italia (v. cap. 2), è emerso un quadro piuttosto negativo. Il problema della scarsa efficienza di questo particolare tipo di comunicazione è dovuto, come visto, a diversi fattori, ma tutti sono riconducibili, a mio avviso, a quattro fattori principali: la mancanza di un livello di dialogo tra mittente e destinatario; lo scarso supporto dato alla comunità per favorire la coesione sociale e la partecipazione intorno ai temi trattati; la difficile percezione del legame tra bene collettivo e bene individuale, nonché la comprensione del tema trattato; la scarsa visibilità data al modo in cui si può risolvere il problema trattato e ai mezzi per farlo. Il grande ostacolo della comunicazione sociale così come è stata finora ideata è il fatto di far leva in modo quasi esclusivo sulle tecniche di persuasione pubblicitaria, prese in prestito dal modello commerciale, non considerando il fatto che il tema sociale non è una comune “merce” sponsorizzabile ma richiede, da parte del destinatario, un grosso impegno cognitivo di interiorizzazione del tema esposto perché le azioni richieste o le informazioni trasmesse riguardano non solo il suo benessere personale ma il bene anche della società e dell’ambiente a cui appartiene. Non è quindi possibile fare appello a desideri o bisogni nascosti dei destinatari, utilizzando la persuasione retorica, ma è necessario passare a una logica di pratica sociale, che preveda il dialogo sui temi trattati, per trovare un senso e una risposta insieme alla problematica esposta e sentirsi parte della società a cui questi temi si collegano. Partendo quindi dagli obiettivi primari della comunicazione sociale, è possibile cercare di rispondere a queste criticità applicando il modello del gioco in quanto gioco e dialogicità possono anche essere visti come lo stesso fenomeno manifestato in modo differente (cfr. Zingale 2009). Il gioco infatti non solo può essere modello e metafora della comunicazione per aiutarci a comprendere le dinamiche che coinvolgono i due soggetti comunicanti e i fattori che intervengono durante un atto comunicativo, ma ogni gioco a sua volta si basa su una logica di comunicazione, e può essere processo attraverso cui le domande sollevate dalla comunicazione sociale possono avere risposta.
5.2. I MACRO-OBIETTIVI DELLA COMUNICAZIONE SOCIALE Circoscrivere il fenomeno della comunicazione sociale è un compito molto arduo, innanzitutto a causa dei molteplici aspetti legati alla definizione stessa di che cosa è “sociale”. Dopo l’ampio trattamento di queste tematiche nel capitolo 2, sono giunta alla conclusione che è possibile classificare la comunicazione sociale secondo cinque macro-categorie, che identificano ciascuna i macro-obiettivi che la comunicazione sociale è chiamata a rispondere: le tre identificate da Gadotti (2002), ovvero educazione, sensibilizzazione e appello al pubblico, che rappresentano i modi tradizionali secondo cui è intesa la comunicazione sociale oggi; l’informazione (legata principalmente all’aspetto comunicativo istituzionale), che Gadotti non ha inserito tra le categorie principali ma che come visto molti autori concordano nel considerarla a tutti gli effetti parte della comunicazione sociale; e infine la collaborazione, che a mio
È POSSIBILE CLASSIFICARE LA COMUNICAZIONE SOCIALE SECONDO CINQUE MACRO-OBIETTIVI: EDUCAZIONE INFORMAZIONE, SENSIBILIZZAZIONE, APPELLO E COLLABORAZIONE
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avviso è uno dei più importanti obiettivi che il settore della comunicazione sociale dovrebbe perseguire, non solo per un maggiore e profondo coinvolgimento da parte delle persone attorno alle tematiche trattate che, in modo diretto o indiretto, sempre le riguardano, ma anche per sfruttare in modo positivo l’enorme potenziale che un ampio pubblico potrebbe offrire (per il proprio bene e per il bene del prossimo) in termini di riflessione e di soluzioni innovative a problemi, grazie al sapere condiviso. 1. Informare: la comunicazione sociale ha il compito di rendere note determinate informazioni, a partire dall’informare il pubblico dell’esistenza dell’ente stesso che promuove la comunicazione e del suo ruolo, di che cosa si occupa, delle strutture, dei suoi servizi, ecc. Nel particolare caso dell’amministrazione pubblica, questo può riguardare anche la diffusione di conoscenza circa i diritti e i doveri dei cittadini e i servizi messi a disposizione dallo Stato per adempiere a questi. Per questo tipo di obiettivo, non è richiesta un’azione specifica conseguente e per questo motivo la comunicazione può anche avere un carattere monologico. Esempio 1. Campagna istituzionale Pubblicità Progresso Titolo: Campagna quarant’anni Ente promotore: Fondazione Pubblicità Progresso Tipologia: stampa, spot televisivo Anno: 2011 Agenzia: SEC – Societas Europea ad Communicationes Direzione creativa: Alberto Contri Art directors: Roberto Fiamenghi Copywriter: Pasquale Diaferia In occasione dei quarant’anni di Pubblicità Progresso, la fondazione ha deciso di realizzare una campagna di comunicazione autopromozionale, per spiegare al pubblico cos’è e qual è il suo ruolo nella comunicazione sociale. Come riporta la fondazione stessa nel suo sito: L’idea base della campagna nasce dalla considerazione che il lavoro della Fondazione è sempre stato apprezzato perché orientato a valori positivi, etici, relativi al bene comune. Dai suoi inizi ad oggi, Pubblicità Progresso è diventata una categoria di pensiero, sempre impiegata come sinonimo di campagna sociale. La campagna celebrativa come tutte le campagne pubblicitarie più vere, è partita dalla semplicità dei fatti: sono quarant’anni che Pubblicità Progresso cerca di far diventare forte quello che è giusto. L’intuizione originale è stata sviluppata con il contributo di diversi professionisti, che fanno parte di quel gruppo di risorse intellettuali e creative che da sempre Pubblicità Progresso mette a disposizione della collettività per la crescita della responsabilità sociale nel campo della comunicazione. La scelta dell’uso dell’icona delle applicazioni per i tablet indica che anche nel campo del sociale occorre prestare la massima attenzione al linguaggio, che deve essere sempre adatto al contesto in cui la campagna si sviluppa.
Sono stati quindi realizzati uno spot tv dove una voce fuoricampo spiega il ruolo e l’attività di Pubblicità Progresso mentre scorrono le immagini di alcune delle campagne più celebri realizzate dalla fondazione; e una campagna stampa (in due declinazioni differenti) che in poche parole e in modo molto essenziale, spiega il ruolo della fondazione.
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Esempio 2. Informazione sul sistema sanitario lombardo Titolo: Numero verde pronto sanità Ente promotore: Regione Lombardia Tipologia: spot televisivo Anno: 2010 Agenzia: SEC – Societas Europea ad Communicationes Direzione creativa: Pietro Addis Art directors: Pietro Addis, Enrico Bellini Copywriter: Paola Ambrosini Per informare i cittadini sugli aspetti innovativi introdotti dal sistema sanitario lombardo, la Regione ha realizzato una campagna informativa composta da tre spot, della durata di 16’’, che informano i cittadini sulla possibilità di chiamare un numero verde per ricevere informazioni su tutti i servizi sanitari presenti sul territorio. Gli spot iniziano con un cittadino/a che si interroga sulla possibilità di un servizio. Con un cambio di scena entra un “uomo telefono” e una voce fuori campo informa del servizio telefonico sanitario.
Figura 5.1. Manifesti di Pubblicità progresso in occasione dell’anniversario di quarant’anni di attività. Figura 5.2., 5.3. Alcuni frame dello spot informativo della Regione Lombardia sul servizio di assistenza telefonica del sistema sanitario lombardo.
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Esempio 3. Promozione dell’iniziativa Gaia della regione Bologna Nome della campagna: Bologna si dà un’aria. Più pura! Ente promotore: Comune di Bologna Tipologia: stampa Anno: 2011 GAIA è il nome di un nuovo progetto, coordinato dal Comune di Bologna con i finanziamenti del Fondo Europeo, che ha come obiettivo l’aumento del 10 per cento del numero degli alberi presenti sul territorio comunale contribuendo così a contrastare i cambiamenti climatici, migliorare la qualità dell’aria e rinnovare l’ambiente urbano. L’incremento delle aree verdi verrà attuato attraverso il coinvolgimento della comunità locale, delle istituzioni pubbliche e delle imprese, nell’ottica della co-responsabilità. Per comunicare ai cittadini l’avvio del progetto, il comune ha fatto affiggere dei manifesti in tutta la città dove, in modo ironico, viene fatto un gioco di parole tra l’obiettivo dell’inserimento degli alberi, fornire aria nuova, e il modo di dire “darsi delle arie”, pavoneggiarsi, rinforzato dall’immagine di un pavone con la sua splendida ruota in esibizione.
Figura 5.4. Manifesto della campagna informativa sulle iniziative promosse della Regione Bologna per incrementare il verde urbano e migliorare la qualità dell’aria nella città. Figura 5.5. Alcuni frame dello spot realizzato dalla Lav per sensibilizzare contro l’abbandono dei cani.
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2. Sensibilizzare: la comunicazione in questo caso viene utilizzata non solo per portare a conoscenza dell’opinione pubblica un determinato tema di natura sociale, come la solidarietà e la difesa delle categorie più deboli, ma ha anche come obiettivo quello di sollecitare la sensibilità e un comportamento positivo delle persone verso il tema trattato, o a modificarne uno negativo nei confronti degli altri. Temi comuni di queste campagne sono la solidarietà e l’attenzione per gli individui più deboli (malati, bambini, anziani, poveri, ecc.), la salvaguardia dell’ambiente e del patrimonio artistico. Esempio 1. Campagna contro l’abbandono degli animali Nome della campagna: Gli addii possono essere letali Ente promotore: Lav Anno: 2006 Tipo: spot televisivo Agenzia: CookiesAdv Direzione creativa: Alba Ronchi, Massimo Gustini Art Director: Sara Fossette Copywriter: Francesca Mudan, Gabriele Gori Martini Casa di produzione: Bedeschi film Regia: Gigi Piola L’abbandono dei cani, oltre ad essere un gesto disumano, è un reato. Ogni anno vengono promosse campagne per sensibilizzare l’opinione pubblica attorno a questo tema, specialmente nel periodo estivo, dove si registra il più alto numero di abbandoni. La Lav ha puntato su una comunicazione spiazzante, facendo una variazione sul tema della “crisi di coppia”, declinato però al rapporto tra un cane e la sua padrona. Lo spot inizia sulle note della celebre canzone di Caterina Caselli Insieme a te non ci sto più, con l’inquadratura di una donna che prima seduta, poi in modo agitato facendo avanti e indietro per la stanza, riflette e si dispera su quello che a primo impatto sembra una crisi sentimentale. Dopo qualche secondo infatti, guardando la telecamera, con tono deciso inizia a dire delle classiche frasi fatte: “tutto ha una fine, no?… non mi guardare così… non provarci nemmeno a farmi sentire colpevole… io mi voglio sentire libera, svegliarmi la mattina e non dipendere da nessuno… Non ho un altro! E non ci voglio neanche pensare per un po’!… Cosa stai facendo? Per favore non piangere… Io voglio solo la mia libertà!” In un crescendo emotivo, arriva a pronunciare la tipica frase da copione, degna di ogni melodramma che si rispetti: “Basta! È finita! Non ti voglio più vedere!” scagliando contro la camera una ciotola, una coperta, una cuccia di stoffa. Con un cambio di inquadratura si vede che il soggetto a cui si stava rivolgendo è un piccolo cagnolino che, impaurito ma composto, la guarda tristemente. A questo punto una voce fuori campo spiega la situazione paradossale dicendo: “Gli addii possono essere letali. Il 70 per cento dei cani abbandonati muore entro pochi mesi. Se proprio devi lasciarlo, lascialo al canile, o chiama la Lav”. GIOCO E COMUNICAZIONE SOCIALE / 153
Esempio 2. Campagna contro l’omofobia Nome della campagna: Nessuna differenza Ente promotore: Ministro delle Pari Opportunità Anno: 2009 Tipo: spot televisivo, stampa, affissioni, opuscoli Agenzia: Y&R Italia s.r.l. Gli atteggiamenti omofobi e le discriminazioni sessuali sono purtroppo una piaga che affligge la società italiana da molto tempo e i quotidiani ancora oggi riportano di continuo notizie di atti di bullismo, aggressioni, molestie, mobbing, nei confronti di persone discriminate per il proprio orientamento sessuale. Nel 2009, per la prima volta in Italia, anche il Governo realizza una campagna di sensibilizzazione contro l’omofobia e contro la violenza dovuta alla discriminazione basata sull’orientamento sessuale. L’iniziativa, su cui sono stati investiti due milioni di euro, comprende uno spot televisivo di 30’’, l’affissione di manifesti su tutto il territorio italiano e la distribuzione di opuscoli informativi all’interno delle scuole per sensibilizzare i giovani al rispetto reciproco.Lo spot mostra una paziente che viene portata in ospedale in ambulanza, e per ogni persona che incontra nel suo percorso (il portantino, l’infermiere, i chirurghi,) una voce fuoricampo spiega come certe differenze legate alla sfera privata di quelle persone, siano del tutto insignificanti ai fini della loro professione. Lo spot termina appunto con la domanda e il claim seguenti: Ti interessa sapere se sono omosessuali, eterosessuali, o non ti importa? Nella vita certe differenze non possono contare. Rifiuta l’omofobia. Non essere tu il diverso. A onor di cronaca, l’iniziativa ha avuto in parte riscontri positivi e in parte negativi: se infatti ha avuto l’appoggio di diverse associazioni LGBT, in rete si è scatenata la polemica in quanto lo spot è stato criticato di essere sbagliato sotto diversi punti di vista, primo fra tutti il messaggio finale sull’essere “diverso”.
Figura 5.6. Manifesto della campagna promossa dal Ministro delle Pari Opportunità sul tema dell’omofobia.
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3. Educare: è un tipo di comunicazione sociale a lunga durata, consiste nel convincere e nel far abituare i destinatari ad attuare determinati comportamenti positivi, per il proprio bene e per il bene della comunità, e ad abbandonare di conseguenza comportamenti o stili di vita dannosi o rischiosi per la propria vita. Rientrano in questa categoria le iniziative che hanno ad esempio il fine di educare al riciclo, alla prevenzione contro l’HIV, all’abuso di alcool e droga, al rispetto per l’ambiente, all’importanza degli screening preventivi, ecc. Esempio 1. Campagna per sicurezza stradale Nome della campagna: Pensa a guidare Ente promotore: Fondazione ANIA Anno: 2010 Tipo: campagna stampa, spot televisivo Agenzia: McCann Erickson Project Leader: Marco Carnevale Art Director: Giuliana Allodi Copywriter: Filippo Santi Agenzia si relazioni pubbliche: Publicis Consultants Italia Istituto di ricerche: Ipsos Secondo le ricerche dell’indagine Ipsos Gli italiani al volante. La distrazione alla guida tra realtà e percezione, promossa dalla fondazione ANIA per la Sicurezza Stradale, la distrazione alla guida è considerato il primo fattore di incidentalità stradale. Il 51 per cento degli italiani ammette di aver avuto un incidente a causa della distrazione. Per questo motivo l’organizzazione ha deciso di realizzare una campagna di comunicazione stampa, poi declinata come spot, dove si mostrano i pericoli della guida distratta. La campagna stampa, realizzata in otto varianti, consiste in una scritta sull’asfalto, come se fosse una segnaletica, che descrive le parole di un automobilista subito prima di fare un incidente. La scritta infatti è incompleta e dove si interrompe sono presenti dei detriti dell’incidente. I tre spot realizzati, allo stesso modo, mostrano nella prospettiva del guidatore, una strada che scorre mentre dei rumori fuoricampo descrivono una possibile situazione in cui molti guidatori si trovano quotidianamente, come il telefono che squilla, la necessità di prendere qualcosa dalla borsa, ecc. I protagonisti però anziché fermarsi, si distraggono alla guida per compiere determinate azioni (rispondere al telefono, prendere il rossetto dalla borsetta), e mentre pronunciano delle frasi come quelle riportate nei manifesti: “Pronto? no che non mi disturbi, sto guidan…” “Ma va’, un ritocco al rossetto non ha mai ucciso ness…” “Guarda quella al semaforo, non è uno schian…” rafforzando l’idea che essere alla guida non sia un impedimento alle loro azioni, finché non si sente una frenata e si vede la scena dell’auto che sbanda, investe un pedone o tampona un’altra auto sfondando il parabrezza. Lo spot termina con l’inquadratura dell’asfalto, e il messaggio: La distrazione alla guida può uccidere te e gli altri. Quando guidi, pensa a guidare.
Figura 5.7. Manifesto della campagna promossa da Ania per sensibilizzare sul tema della sicurezza stradale.
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Esempio 2. Campagna per l’educazione al riciclo Nome della campagna: RicicloAperto/PalaComieco Ente promotore: Comieco Anno: 2005-attiva Tipo: evento Annualmente Comieco (Consorzio Nazionale Recupero e Riciclo degli Imballaggi a base Cellulosica) svolge una campagna di educazione sul tema del riciclo, destinata principalmente ai bambini di tutte le scuole d’Italia, che consiste, attraverso una visita presso cartiere, cartotecniche e piattaforme convenzionate con il consorzio, di mostrar loro come carta e cartone, attraverso diversi processi, possono ottenere una nuova vita e quindi quanto è importante il riciclo di questi materiali. Dal 2006 il progetto evolve nel PalaComieco, una serie di “igloo” collegati tra loro (con una capacità totale di 4500 visitatori), che riproduce il mondo della carta e i processi di lavorazione per il riciclo di questo prodotto. Il PalaComieco ripropone quindi direttamente nelle principali piazze italiane, quanto i bambini possono apprendere nelle cartiere, grazie a delle lezioni svolte da alcune guide specializzate in educazione ambientale, sulla differenza dei vari tipi di carta e cartone, su come si riciclano, dove vengono portati una volta presi dal sistema di raccolta dei rifiuti, come vengono trattati, ecc.
Figura 5.8, 5.9. Locandina e immagini dell’annuale appuntamento con Comieco per educare i bambini al tema del riciclo.
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4. Appello al pubblico: questo tipo di comunicazione sociale consiste infine in un esplicito invito, rivolto al destinatario, ad agire con un’azione concreta a favore della causa esposta. Il contributo può essere di tipo economico (come fare una donazione, adottare un bambino a distanza, devolvere il 5 per mille a una determinata associazione), oppure di natura culturale (ad esempio contribuire con del proprio materiale alla salvaguardia del patrimonio culturale, come una recente campagna per contribuire a costruire il Museo della Shoah, partecipare alle giornate della cultura), sociale (diventare volontario, donare il sangue, donare beni di prima necessità) o ancora simbolico (come firmare una petizione, partecipare a una manifestazione, o a un’azione collettiva).
Esempio 1. Campagna per la giornata nazionale di raccolta del farmaco Nome della campagna: Stai bene? Entra in farmacia Ente promotore: Associazione Banco Farmaceutico Anno: 2012 Tipo: campagna stampa, spot televisivo Agenzia: Y2K Communication In occasione della Giornata nazionale di raccolta del farmaco, che consiste nella possibilità di recarsi in farmacia e acquistare per donare un farmaco da banco a chi vive ai limiti della sussistenza, è stata realizzata una comunicazione su due media, stampa e tv, con l’utilizzo di due testimonial popolari e ormai fissi da qualche anno: i comici di Zelig Paolo Cevoli e Claudia Penoni. La campagna è basata sul concept: “Stai bene? Entra in farmacia e dona un farmaco a chi ne ha bisogno, ti sentirai bene davvero”, mettendo in evidenza come il fatto di stare bene è una fortuna che non tutti possono avere e per star bene oltre che fisicamente anche interiormente, basta un semplice gesto per far del bene agli altri e sentirci meglio con noi stessi. Sia lo spot con il dialogo tra i due protagonisti, che la campagna stampa con il testo, mostrano la dinamica della donazione, che avviene nella giornata prestabilita recandosi nelle farmacie convenzionate che espongono la locandina.
Figura 5.10. Manifesto di appello per la giornata nazionale destinata alla raccolta di farmaco da banco per le pesone più disagiate.
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Esempio 2. Campagna di raccolta fondi per la Fondazione Theodora Nome della campagna: Un sorriso per i bambini in ospedale Ente promotore: Fondazione Theodora Onlus Anno: 2012 Tipo: campagna stampa, spot televisivo, radio Agenzia: TBWA\Italia Art Director: Laura D’Andrea Copywriter: Davide Desgro Agenzia di relazioni pubbliche: Aragon Theodora è una onlus che lavora da dieci anni per portare il sorriso ai bambini ricoverati negli ospedali di tutta Italia attraverso la professionalità e l’entusiasmo di clown professionisti, specificatamente formati, che credono fortemente nella terapia del sorriso (che si basa sugli effetti positivi psicologici e biologici del riso, per facilitare la guarigione dei pazienti). La campagna è volta a raccogliere fondi per l’associazione, in particolare nel periodo tra l’8 e il 29 gennaio 2012, con la donazione attraverso un sms e chiamate telefoniche a un numero convenzionato con l’iniziativa. Per comunicare questo messaggio è stata scelta una fotografia di Pablo Gòmez Zuloaga, volontario presso la Fondazione Theodora Spagna, che ritrae uno dei “Dottor Sogni” mentre alle prese con un divertito piccolo paziente, mima l’atto di una telefonata. L’headline cita: “Per far sorridere un bimbo in ospedale il numero fallo tu: 45502”. La campagna è stata poi declinata su diversi mezzi tra cui uno spot pubblicitario dove si vedono dei bambini in ospedale giocare ai supereroi, trasformando lenzuola in mantelli, garze in ragnatele, cuscini in macigni, ecc., dimostrando come la fantasia e il sorriso possano essere delle vere “armi” contro la malattia, rendendoli più forti. Lo spot termina con una testimonial, l’attrice Serena Autieri, che invita a sostenere la Fondazione con una donazione al numero apposito. L’annuncio è stato poi declinato anche come spot radio.
Figura 5.11., 5.12, frame dello spot e manifesto per promuovere la raccolta fondi a sostegno dei progetti di clownterapia destinati ai bambini in ospedale.
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5. Collaborazione: questo tipo di comunicazione sociale, intesa nel senso di crowdsourcing ovvero di partecipazione allargata, in Italia è pressoché inesistente, ma esistono casi positivi internazionali che dimostrano come la collaborazione possa essere una risorsa davvero preziosa per il tipo di comunicazione trattato dal sociale. Jane McGonigal (2011), attraverso le proprie esperienze e ricerche pluriennali ha potuto constatare come, se realizzati come un buon gioco multiplayer, questi particolari tipi di progetti partecipativi possono realmente ottenere risultati importanti. L’esempio lampante è Wikipedia, il progetto di crowdsorcing di maggior successo in assoluto, che anche agli occhi dei più attivi collaboratori di Wikipedia, altro non è che un grande gioco collaborativo (ivi: 239 tr. it.). I wikipediani hanno sviluppato una vera e propria teoria (“Wikipedia Is an MMORPG”), per spiegare come Wikipedia possa essere catalogato come un gioco di ruolo online massively multiplayer, per tre ragioni principali. Innanzitutto è un buon mondo di gioco: Wikipedia ha un mondo di gioco immersivo con oltre 16,4 milioni di giocatori [collaboratori registrati, ovvero “wikipediani”] e oltre 3,89 milioni di locazioni uniche [articoli di Wikipedia], fra cui 175.500 aree segrete non scoperte [“pagine orfane”, ovvero voci che non sono legate ad altre voci e che perciò non possono essere trovate semplicemente sfogliando], 14100 segrete completamente esplorate [“buone voci o articoli scritti in modo esaustivo con citazioni eccellenti e dati di fatto] e 3500 livelli boss [“voci in vetrina”, ovvero le voci che sono in testa alla classifica, se valutate per accuratezza, neutralità, completezza e stile]. (Tratto e tradotto da “Wikipedia Is an MMORPG”, Wikipedia project, consultato a marzo 2012)
In secondo luogo ha un buon meccanismo di gioco: l’azione dei giocatori ha risultati diretti e chiari, le modifiche appaiono in modo istantaneo nel sito dando agli utenti un potente senso di controllo dell’ambiente di gioco, ottimismo e forte senso di efficacia personale. Presenta poi occasioni di gioco illimitate e di difficoltà crescente (aumentando la motivazione dei giocatori): si possono scegliere delle missioni da compiere (completare una voce), partecipare a battaglie a livello boss (voci che sono tenute a rispettare standard molto elevati) e intervenire in campi di battaglia (contro i vandalismi delle voci). Inoltre giocando accumulano punti esperienza (conteggio delle modifiche), che gli consente di salire a livelli più elevati (elenchi dei wikipediani principali per numero di modifiche effettuate). Alcune missioni, come il contrastare i vandali oppure dibattiti sulle modifiche nati da collaboratori con punti di vista contrastanti, richiedono delle vere e proprie strategie, tecniche di collaborazione e strumenti di combattimento, per affrontare queste sfide ad alto livello. Questo aspetto è legato al terzo punto chiave che rende Wikipedia un buon gioco: ha una buona comunità di gioco. Una buona comunità di gioco richiede una grande quantità di interazioni sociali positive e un contesto significativo per l’impresa collettiva. Come dicono i wikipediani: Ogni locazione unica [voce] nel mondo del gioco [l’enciclopedia] ha una taverna [la talk page, pagina di discussione, ovvero il forum di discussione] in cui i giocatori hanno la possibilità di interagire tutti in tempo reale. I giocatori spesso fanno amicizia, e alcuni hanno addirittura organizzato di incontrarsi nella vita reale [meetup, ovvero incontri sociali facciaa-faccia per collaboratori abituali di Wikipedia]. (Ibidem)
Le pagine di discussione incoraggiano la collaborazione (per migliorare e organizzare le voci esistenti), e la competizione orientata alla socialità (per discutere su modifiche recenti), aumentando la fiducia e la robustezza dei legami sociali. È facile intuire che se queste dinamiche fossero utilizzate per rispondere a GIOCO E COMUNICAZIONE SOCIALE / 159
IN AMBITO SOCIALE, UNA COMUNICAZIONE IMPRONTATA SULLA COLLABORAZIONE POTREBBE PERMETTERE AI SOGGETTI PROMOTORI DI DISPORRE DI UN ALTO NUMERO DI PRESTAZIONI DA PARTE DI PERSONE FORTEMENTE MOTIVATE
problematiche di natura sociale come cambiamenti climatici, povertà e malattie in un ottica di collaborazione su scala planetaria, i contributi che gli utenti potrebbero apportare sarebbero di notevole impatto su tutta la comunità reale. Ma anche guardando più localmente, ogni ente promotore potrebbe utilizzare la collaborazione dei cittadini per risolvere le difficoltà inerenti al tema trattato sul proprio territorio. La collaborazione permetterebbe di ottenere, in modo praticamente gratuito, un alto numero di prestazioni da parte di persone motivate e davvero intenzionate a dare il proprio contributo per avere solo in cambio una forte gratificazione intrinseca, aiutando così gli enti promotori, soprattutto i più svantaggiati sul lato economico, ad assolvere alle proprie funzioni e raggiungere i propri obiettivi in maniera più efficiente. In linea teorica, sarebbe quindi molto facile ma nella pratica, cosa si può fare per convincere i potenziali giocatori a partecipare al proprio gioco comunicativo? Jane McGonigal (2011), studiando i più avvincenti giochi multiplayer e osservando i giochi crowdsorcing più utilizzati, ha identificato diversi principi di coinvolgimento che qualsiasi grande progetto di massa dovrebbe seguire per creare un mondo di gioco avvincente, un meccanismo di gioco soddisfacente e una comunità di gioco motivante. Innanzitutto il gioco deve dare la possibilità ai giocatori di poter esplorare e influire su un “mondo”, ovvero uno spazio sociale condiviso che presenta sia contenuti sia occasioni di interazione; devono avere la possibilità di poter creare e far crescere un’identità personale speciale all’interno di quel mondo; devono poter vedere il quadro più generale quando si tratta di fare del lavoro in quel mondo, soprattutto per stimolarli a continuare a lavorare nel tempo in vista di obiettivi più grandi; il gioco deve essere progettato nel modo tale che l’unico modo per essere gratificati è partecipare in buona fede (così che i giocatori non possano né vandalizzare né sfruttare il gioco o vandalizzarsi e sfruttarsi a vicenda), rendendo intrinsecamente gratificanti contenuti ed esperienza.
5.3. LA COMUNICAZIONE COME DIALOGO E RELAZIONE Il problema della scarsa efficienza della comunicazione sociale, come più volte detto, è il fatto di concepirla come una comunicazione basata su un modello di persuasione, che non prevede una risposta del destinatario ma lo considera uno spettatore passivo, un bersaglio da colpire e l’invio di stimoli non richiede risposta ma solo implicita accettazione. Quando si è di fronte a una persona da convincere, educare e invitare a svolgere un’azione che noi gli chiediamo di fare (in una situazione democratica dove il soggetto promotore non ha un’autorità rispetto all’altro soggetto), il modello persuasivo è insufficiente perché quello che abbiamo di fronte, come afferma il filosofo del linguaggio Michael Bachtin, non è solo un oggetto di coscienza a cui trasferire le nostre parole ma è una coscienza a sua volta; è una persona con cui condividere l’esistenza, con la quale è possibile uno scambio e una ricerca di senso, ma è anche “testo” da cui trarre conoscenza (cfr. Zingale 2009: 66-67). «La ragione di ogni forma comunicativa è una ragione dialogica» (ivi: 64), ed è ancora più improbabile pensare alla comunicazione sociale sviluppata come un monologo. Spesso pensiamo al dialogo nella sua espressione più manifesta, come riunioni, dibattiti, ma in realtà tutto il nostro agire comunicativo è 160 / IL GIOCO COME MODELLO DI COMUNICAZIONE
dialogico, compreso il pensare stesso, il ragionamento e la comprensione del mondo che ci circonda. Come ricorda Salvatore Zingale (2009), anche la semiosi (sia inteso come processo di interpretazione e giudizio che la nostra mente fa quando ci relazioniamo con oggetti ed eventi di cui siamo circondati; sia come processo che utilizziamo a nostra volta per produrre degli oggetti di interpretazione per altri), è un atto dialogico, in quanto procede interrogando la realtà fattuale e l’alterità, per acquisire una conoscenza a noi ancora non nota (cfr. ivi: 95). Se gli obiettivi primari della comunicazione sociale sono quindi quelli di informare o approfondire la conoscenza del pubblico attorno a un determinato tema, educare a un maggiore senso sociale e a uno stile di vita più sostenibile, invitando a contribuire anche in prima persona al bene collettivo, (anche attraverso la ricerca di soluzioni al problema proposto analizzandolo da altri punti di vista) è necessario che la sua forma assomigli a quella di un discorso dialogico, che fornisca ragioni, indaghi a fondo il tema trattato e permetta uno scambio di domande e risposte tra gli interlocutori. Per apprendere e far propria una conoscenza (una nozione, un comportamento e il motivo per cui è giusto o sbagliato), come già affermò Platone attraverso le parole di Socrate nel Fedro, non vi è modo migliore che il procedere dialogico-dialettico sopra ogni altra forma di espressione del pensiero, in quanto è indiscusso che si impara di più e in modo più profondo dall’interno di se stessi (dal ragionamento) piuttosto che non da nozioni ricevute dall’esterno (cfr. ivi: 74-75).
5.4. GIOCO COME METAFORA E MODELLO Come visto precedentemente il gioco fa parte della cultura dell’uomo e può essere usato come modello per mostrare le dinamiche di tutte le attività umane. Come afferma Huizinga già nel 1939, la cultura sorge in forma ludica, è innanzitutto giocata: con i giochi l’uomo esprime la propria interpretazione della vita e del mondo e anche l’evoluzione stessa e la nostra esistenza (come razza umana così come singolo individuo) non è altro che un gioco di sopravvivenza. Per questi motivi, il gioco può essere un’utile chiave di lettura della realtà che ci circonda e in particolar modo può fornire modelli e metafore per comprendere le diverse forme di interazione e interpretazione di tutto ciò che avviene tra e con persone e cose (cfr. Zingale 2009). Guardare ai giochi in quest’ottica ci permette infatti di scorgere nelle diverse forme di gioco, degli aspetti semiotici simili a quelli che troviamo nelle forme di comunicazione, permettendoci un’analisi più semplice dei diversi fenomeni, per poter fare successivamente una riflessione sul rapporto con la comunicazione sociale e i suoi obiettivi e quindi riutilizzare questi modelli per creare delle forme di comunicazione più efficienti.
IL GIOCO PUÒ FORNIRE MODELLI E METAFORE PER COMPRENDERE LE DIVERSE FORME DI INTERAZIONE E INTERPRETAZIONE DI TUTTO CIÒ CHE AVVIENE TRA E CON PERSONE E COSE
5.4.1. IL GIOCO COME MODELLO DELL’INTERAZIONE SOCIALE Il gioco può essere un’efficace modello per comprendere come noi comunichiamo e interagiamo con gli altri. Il filosofo del linguaggio Ludwig Wittgenstein fu uno dei primi a tentare di mettere in relazione il modello del gioco con il linguaggio (contemporaneamente ad Huizinga, ma di cui pare ignorasse gli GIOCO E COMUNICAZIONE SOCIALE / 161
studi a riguardo). Intendendo il processo dell’uso delle parole un po’ come i giochi che i bambini fanno per imparare una lingua, Wittgenstein descrivere il linguaggio come “gioco linguistico”, per mettere in evidenza il fatto che parlare un linguaggio fa parte di un’attività. Da queste osservazioni Siegfried J. Schmidt introduce nell’ambito della linguistica l’idea di gioco d’azione comunicativo, dove «le strategie linguistiche nascono da rapporti sociali di interazione e a loro volta governano tali rapporti» (Schmidt 1973: 251 tr. it., citato in Zingale 2009: 34). Il gioco d’azione comunicativo è «il quadro entro cui può eseguirsi con successo l’interazione sociale [...] di una comunità di comunicazione» (ibidem).
5.4.2. IL GIOCO COME RAPPRESENTAZIONE Il parallelo tra giochi e comunicazione, ma soprattutto il perché si possono intendere diversi tipi di gioco come diversi tipi di comunicazione, richiede necessariamente ricordare un attimo la distinzione che Eco fa nel saggio d’introduzione di Homo Ludens di Huizinga già anticipata nel capitolo 4. La lingua inglese fa una distinzione tra game e play che chiarisce bene le diverse caratteristiche che accomunano (e distinguono) i diversi tipi di giochi con cui possiamo avere a che fare: game intende il gioco come sistema fatto di regole dove l’azione è finalizzata all’ottenimento di un risultato; il play invece identifica il gioco come processo e quindi come attività svolta senza un fine se non il piacere della sua esecuzione. Play però è utilizzato anche per intendere il suonare uno strumento e il recitare, che non sono immediatamente riconducibili al gioco ma che in realtà di questo mantengono la natura ludica. Il recitare in particolare, è anche assimilabile al concetto di rappresentare un qualcosa di altro, per cui il gioco in questo senso, mostra il suo aspetto metalinguistico e metacomunicativo, perché ciò che si rappresenta attraverso il gioco non è ciò che sembra ma rimanda a un mondo altro, una metarealtà che altro non è che un modo per riflettere sulle cose che si dicono e che si rappresentano nel gioco, che a loro volta sono proiezione alterata della realtà per meglio comprenderla (cfr. Zingale 2009:39). Questo aspetto di metarealtà è particolarmente visibile nei giochi dei bambini (specialmente del “fare come se”), che utilizzano effettivamente per comprendere ciò che fanno gli adulti e il mondo esterno, fungendo da forme di apprendimento e formazione e da “ponte” tra il loro mondo interiore e la realtà effettuale. Ma il “fare come se” è anche la natura di molti dei videogiochi di simulazione a cui siamo abituati a giocare anche noi adulti e che anche per noi, possono essere mezzo per comprendere determinati aspetti della realtà altrimenti difficilmente concepibili.
5.4.3. IL GIOCO COME MODELLO DI SFIDA E DI NARRAZIONE Riprendendo il modello di classificazione più completo, proposto da Caillois, è possibile notare molte analogie tra le categorie dei giochi e una particolare forma comunicativa, la narrazione. Utilizzando la semiotica della narratività e la struttura attanziale proposta da Algirdas J. Greimas per analizzare ogni forma narrativa, è possibile leggere in ogni gioco identificato da Caillois una tensione verso un obiettivo/oggetto di valore, una sorta di compito, che ha spesso la forma di sfida (come lotta, gara o superamento di un limite), che un giocatore/ soggetto della storia assume di svolgere. «Il compito come sfida diventa così 162 / IL GIOCO COME MODELLO DI COMUNICAZIONE
una funzione attanziale del gioco, progetto di conquista di un oggetto di valore» (Zingale 2009: 44). Nella sfida possiamo trovare tre momenti propri di ogni storia (e di ogni azione orientata all’ottenimento di un risultato o effetto): 1. La relazione fra soggetti. L’incontro/scontro tra i soggetti/giocatori può avvenire quando un destinante affida un compito a un destinatario, oppure quando il destinatario decide di accettare il compito e farsi soggetto dell’impresa o ancora quando decide di disobbedire alla richiesta, diventando un anti-soggetto per un’altra impresa (da qui la sfida, nell’agon, verso un giocatore antagonista o verso una meta, una resistenza oggettiva, cognitiva o morale). Lo scontro tra due soggetti avviene anche nei giochi contro la sorte (alea), mentre nella simulazione (mimicry) i soggetti in relazione sono l’attore e il pubblico. Anche nei giochi solitari come la vertigine (ilinx), c’è sempre un confronto duale tra soggetti, in questo caso si gioca tra sé e sé quindi tra un io giocante e un super io giudicante (che fa da arbitro al gioco). 2. Vincere la resistenza. Vi è sempre in ogni gioco una tensione verso il raggiungimento di un obiettivo (e qualcuno che indica qual è il punto di arrivo) e qualcosa che si oppone oppure rende possibile superare la prova (o conquistare l’obiettivo, vincere la resistenza). «Il gioco è così contesa intorno a un oggetto da conquistare, fosse anche il gioco stesso» (Zingale, 2009:46). 3. L’oggetto di mediazione. Infine vi è sempre in ogni gioco, un oggetto di mediazione (artefatto) che lo rende possibile. Il giocare infatti si appoggia necessariamente a un’oggettualità: può essere allora un oggetto conteso tra due o più giocatori, un’arma per prevalere sull’altro, l’oggetto stesso da conquistare, l’artefatto con cui si interroga il caso o la protesi per sperimentare la vertigine, o ancora la maschera (reale o simulata) che ci rappresenta nella finzione. La sfida come compito quindi, applicata alle categorie di Caillois, assume a seconda di ciò che genera e ciò che comporta, una valenza differente riassumibile nel seguente schema proposto da Zingale in Gioco, Dialogo, Design (2009):
TIPO DI GIOCO
TIPO DI SFIDA
CHE COSA GENERA
MODALITÀ E AZIONE
COMPETIZIONE
all’altro
conflitto
dover lottare
AZZARDO
al caso
sorpresa
poter scegliere
SIMULAZIONE
ai modi di espressione
metafora
saper fingere
VERTIGINE
a se stessi
scoperta
voler provare
A questo va aggiunto poi lo spazio di gioco, elemento indispensabile perché il gioco abbia un senso. Il gioco essendo un’azione delimitata in un tempo e in
Tabella 5.1. Sintesi del gioco inteso come sfida e delle modalità dell’azione ludica (fonte: Zingale 2009).
GIOCO E COMUNICAZIONE SOCIALE / 163
uno spazio, richiede sempre un campo, uno spazio entro cui il gioco è giocato ed è valido. Questo spazio è comunque sempre un campo d’azione, perché all’interno accade sempre qualcosa, ed è toposensitivo (che ha un senso a seconda delle sue coordinate spaziali e temporali), in quanto ogni porzione di questo campo diventa una zona significante, tracciato da opposizioni semantiche come sopra/sotto, destra/sinistra, mio/tuo, ecc. Il campo d’azione è quindi anche campo semiosico, all’interno del quale qualcosa acquista valore semiosico, e contemporaneamente ogni oggetto del gioco ha senso solo all’interno del campo semiosico stesso (cfr. ivi: 48).
5.4.4. IL GIOCO COME METAFORA DI RELAZIONE E DIALOGO Guardando la definizione di James P. Carse (1986) di gioco finito e infinito, si può scorgere un modello per descrivere diverse attività umane. Considerando gioco finito quel gioco fatto con lo scopo di vincere e gioco infinito quello fatto allo scopo di continuare a giocare, il gioco infinito rappresenta in un certo modo ciò che avviene in ogni relazione sociale (amicizia, matrimonio, politica, ecc.), dove lo scopo è appunto quello di far continuare la relazione. A questo scopo, va ricordato come se nel gioco finito le regole devono rimanere immutate per tutta la sua durata affinché questo sia valido, i giochi infiniti al contrario necessitano una continua revisione delle regole ogni qual volta il gioco è messo in pericolo da un esito finito. Per questo motivo il gioco infinito può essere considerato generativo, inventivo, dialogico, in quanto di volta in volta, per evitarne la conclusione, ci si interroga sull’esperienza stessa del gioco, si analizzano mosse e strategie e si trovano soluzioni inventive per non far concludere il gioco (cfr. Zingale 2009). Il concetto di gioco infinito fa emergere una terza definizione da affiancare al concetto di game e play, una sorta di mescolanza dei due significati, ovvero quella di gioco inteso come spazio tra due componenti meccanici affinché possano funzionare. Giocare è qui è inteso come spazio di libertà, seppur all’interno di un sistema regolato, che permette di volta in volta di trovare una risposta conveniente alle piccole variabili del gioco, in modo da farlo proseguire all’infinito e non inceppare il meccanismo (fermare il gioco). Nei processi di comunicazione questo spazio e questa ricerca di variabile vantaggiosa la ritroviamo ogni volta che tra un atto comunicativo e l’altro, l’interlocutore ha un margine di gioco per riflettere su ciò che gli viene trasmesso dall’altro soggetto, formulare una domanda o una risposta, pianificare insomma una strategia per far proseguire la comunicazione. Senza questo spazio-gioco, la comunicazione non ha vita, perché ciò che avverrebbe sarebbe un discorso monologico, che non richiede la partecipazione al gioco comunicativo da parte del destinatario ma solo una sua implicita accettazione. In altre parole si gioca come si dialoga e si dialoga come si gioca; «gioco e dialogicità possono teoricamente essere visti come il medesimo fenomeno diversamente manifestato» (ivi: 57). Questo rafforza il concetto che non solo il gioco può essere modello e metafora della comunicazione, ma anche che il gioco poggia su una logica di comunicazione quindi, per rafforzare il livello dialogico e relazionale della comunicazione sociale, l’utilizzo del gioco è una via attuabile e legittima per risolvere molte delle criticità precedentemente esposte.
164 / IL GIOCO COME MODELLO DI COMUNICAZIONE
5.4.5. I TRE DIALOGHI La dialogicità è il fondamento della maggior parte della comunicazione umana e a maggior ragione la comunicazione sociale, trattando temi e idee e proposte che richiedono il confronto con l’altro, dovrebbe assumere maggiormente il carattere di dialogo. Ma non tutti i dialoghi hanno lo stesso fine. Massimo Bonfantini e Augusto Ponzio (cit. in Zingale 2009) propongono una suddivisione del dialogo in tre tipi, che differenziano nella forma che assumono a seconda della situazione fattuale e della diversa intenzionalità dei soggetti coinvolti.
DIALOGO DI INTRATTENIMENTO
DIALOGO DI OTTENIMENTO
DIALOGO DI RIFLESSIONE
DIALOGO DI-VERTENTE
DIALOGO DI SCAMBIO
DIALOGO DI RI-SCOPERTA O METAFISICO
DIALOGO CONFORMATIVO-RIPETITIVO
DIALOGO DI COMPETIZIONE
DIALOGO DI RICERCA O SCIENTIFICO DIALOGO DI ESPLRAZIONE O FILOSOFICO
Si hanno così i dialoghi di intrattenimento, vissuti in sé e per sé, che non hanno altro obiettivo se non quello di stabilire e mantenere un contatto di intrattenimento, per il gusto di parlare. Questo primo tipo di dialogo si divide in due sottotipi: dialoghi di-vertenti, propri della comunicazione amichevole e conviviale; dialoghi conformativi-ripetitivi, tipici dei convenevoli rituali e delle espressioni di cortesia. Vi sono poi i dialoghi di ottenimento, motivati e animati da un fine e realizzati allo scopo di raggiungere un obiettivo precedentemente posto nella mente dei dialoganti, per seguire un proprio interesse. Questi dialoghi possono essere dialoghi di scambio, propri della contrattazione e della richiesta; dialoghi di competizione quando hanno le caratteristiche di sfida o gara per conquistare i favori di un terzo (giudice o pubblico) oppure per sopraffare l’interlocutore con cui si sta dialogando. Vi sono infine i dialoghi di riflessione, attraverso i quali si cerca di giungere a una conoscenza superiore o si riflette insieme sui mezzi per raggiungerla, come i dialoghi di ricerca della conoscenza filosofica, scientifica e tecnica. É una forma di dialogo fortemente collaborativa e, a seconda dell’oggetto in discussione, può assumere la caratteristica di dialogo di ri-scoperta o ri-velazione, propria della riflessione religiosa e metafisica, dove il dialogo serve a ripercorrere conoscenze già acquisite ed è finalizzata a trovare la migliore forma didattica, espositiva e persuasiva per comunicarla; dialogo di ricerca o di costruzione, tipica della discussione scientifica, dove si dialoga attorno in cerca della soluzione del problema trattato; dialogo di esplorazione o di problematizzazione, tipico del discorrere filosofico, che mira ad indagare un tema per chiarirlo. In tutti questi casi, il dialogo è una conoscenza che un io e
Tabella 5.2. I tre tipi di dialogo secondo Bonfantini e Ponzio (1986) (fonte: Zingale 2009).
GIOCO E COMUNICAZIONE SOCIALE / 165
un tu mettono in comune,dividono o si contendono. Per aver luogo un dialogo necessita però anche di un campo dialogico, ovvero «l’insieme delle condizioni che rende la dialogicità attuabile. È l’accettazione, implicita o coatta, delle regole di conversazione già presenti in una lingua [...], È il riconoscimento delle reciproche posizioni, o della loro momentanea sospensione o del loro definitivo annullamento. È la comune intenzione di arrivare in fondo.» (ivi: 86). In altre parole è ciò che unifica i soggetti coinvolti nella comunicazione, che gli permette la comprensione dei reciproci mondi semantici.
5.4.6. GIOCATORI DIALOGANTI Perché la comunicazione e il dialogo siano possibili, è necessario non solo che questi condividano uno spazio dialogico ma anche che sia presente e funzionante un canale fisico che consenta loro di mantenere il contatto durante tutta la durata della comunicazione. Questo canale può corrispondere alla presenza fisica, faccia a faccia, dei due interlocutori, ma più spesso, nel caso delle comunicazioni di massa e nello specifico nella comunicazione sociale destinata a un bacino molto ampio di pubblico, il contatto può essere garantito da forme più astratte come le vie telematiche. Bonfantini (2000), spostando l’attenzione sul canale comunicativo e sulle modalità di comunicazione che ne conseguono, distingue tre modalità di rapporto dialogico: la dialogicità interpersonale, il botta e risposta tra soggetti e persone individuali (uno a uno); la dialogicità di massa, tipica dei mass media nel formato uno a molti; la dialogicità sociale (metatestuale, rispetto a un testo-base o testo-stimolo messo a disposizione di tutti), aperta a tutti i partecipanti. A ben vedere però, questo modello ricalca perfettamente le modalità di gioco più comuni che si possono trovare nei giochi “sociali” (ovvero che consistono almeno in due giocatori): single-player (uno a uno), multiplayer (uno a molti) e la categoria che per comodità definirò community per indicare tutti quei giochi come i massive multiplayer online che prevedono la partecipazione contemporanea al gioco di un numero illimitato di giocatori.
DIALOGIGITÀ INTERPERSONALE
DIALOGICITÀ DI MASSA
DIALOGICITÀ SOCIALE
UNO A UNO
UNO A MOLTI
METATESTUALE
(single player)
(multiplayer)
(community)
5.5. COMUNICAZIONE DIALOGICA E COMUNICAZIONE MONOLOGICA
Tabella 5.3. Tre modalità di rapporto dialogico rispetto al numero di giocatori.
166 / IL GIOCO COME MODELLO DI COMUNICAZIONE
Per identificare il modo in cui la comunicazione sociale può essere resa più dialogica e maggiormente interattiva è quindi opportuno analizzare innanzitutto come si sviluppa un atto comunicativo, affinché questo venga recepito e
compreso in modo efficiente. La semiotica può essere allora un valido aiuto per comprendere in modo più esplicito e chiaro come noi «produciamo, riconosciamo e scambiamo segni, testi, e messaggi, sia per pensare sia per comunicare ad altri i nostri pensieri» (Bonfantini, Bramati, Zingale 2007: 7). Prendendo come modello il sistema di trasmissione delle tecnologie telecomunicative, nel 1963 il linguista Roman Jakobson sviluppa uno schema universale per descrivere i fattori e le funzioni di ogni processo di comunicazione. Jakobson identifica sei fattori indispensabili affinché avvenga una comunicazione: mittente, destinatario, messaggio, canale, codice, contesto.
CONTESTO/RIFERIMENTO funzione referenziale
MESSAGGIO MITTENTE funzione espressiva
funzione poetica/estetica
CANALE/CONTATTO
DESTINATARIO funzione conativa
funzione fàtica
CODICE/REGOLE funzione metalinguistica
Il mittente è inteso sia come il soggetto che avvia la comunicazione sia come fonte da cui questa proviene. Il destinatario, è colui a cui è rivolto l’atto comunicativo. Il messaggio è ciò che si scambiano i due soggetti, e può essere composto da parole, immagini, gesti, o quant’altro può essere usato per comunicare qualcosa. Può anche essere un artefatto comunicativo. Il canale è il contatto fisico che permette la trasmissione del messaggio, e può essere un mezzo meccanico (internet, la carta, il televisore, ecc.), una materia (le onde acustiche della nostra voce, le onde radio) oppure il nostro stesso corpo (con i nostri gesti, le espressioni del volto, ecc.). Una volta giunto fino al destinatario, il messaggio deve essere da questo interpretato, compreso, attraverso l’uso di codici condivisi che regolano i sistemi di significazione, i modi dell’espressione, le usanze, ecc. Per comprendere il senso del messaggio però (di cosa si parla), questo va anche messo in relazione con il contesto a cui il mittente si riferisce, facendo appello sia agli elementi contenuti nel messaggio, sia alla circostanza in cui l’atto comunicativo ha luogo (cfr. ivi: 53). Per ciascuno dei sei fattori della comunicazione, Jakobson associa una specifica funzione comunicativa: espressiva, conativa, estetica, fàtica, metalinguistica, referenziale. Le funzioni sono sempre compresenti, anche se di volta in volta, a seconda di come è formulato l’atto comunicativo, una funzione emerge per importanza rispetto alle altre. La funzione espressiva è propria del mittente, in quanto soggetto con un proprio mondo interiore (fatto di idee, cultura, vi-
Tabella 5.4. Modello dei fattori e delle funzioni della comunicazione secondo Jakobson (fonte: Bonfantini, Bramate, Zingale 2007)
GIOCO E COMUNICAZIONE SOCIALE / 167
IL MODELLO ATTUALE SU CUI SI BASA LA COMUNICAZIONE SOCIALE È DI TIPO MONOLOGICO. IN REALTÀ OGNI ATTO COMUNICATIVO È NECESSARIAMENTE DIALOGICO PER CUI È INDISPENSABILE INTRODURRE QUESTO ASPETTO ANCHE NELLA COMUNICAZIONE SOCIALE
sioni del mondo, emozioni, ecc.), e che di conseguenza emerge in ogni sua espressione esterna; è il parlare di sé del mittente. Anche ogni oggetto fattuale è espressione di colui che l’ha pensato e creato, del suo designer. La funzione conativa è la pressione esercitata sul destinatario per coinvolgerlo, suscitare la sua attenzione o interesse, cambiare il suo stato emotivo, cognitivo, pratico; ottenere un’adesione di pensiero e/o una risposta d’azione. La funzione poetica è propria del messaggio e corrisponde a come questo è composto e si presenta per essere percepito nel modo più corretto e adatto. La funzione fàtica è legata alla cura del canale attraverso cui si stabilisce la comunicazione, per controllare se funziona e per mantenere attivo il contatto comunicativo. La funzione metalinguistica consiste nel parlare del codice, è l’attenzione per le regole e le forme espressive di ogni linguaggio. La funzione referenziale consiste nel riferimento al contesto spazio-temporale in cui avviene la comunicazione ed è la funzione a cui è affidato il compito più evidente dell’atto comunicativo: quello del dire, del parlare di qualcosa.
5.5.1. IL MODELLO DELLA PUBBLICITÀ SOCIALE TRADIZIONALE Da quanto è emerso dalla mia ricerca, e in merito alla bibliografia presa in esame sul tema della comunicazione sociale in Italia, si può affermare come la forma più diffusa che assume questa comunicazione nel nostro paese è quella pubblicitaria. Nel capitolo 2 ho mostrato come per molti aspetti, spesso la pubblicità sociale viene erroneamente identificata con la comunicazione sociale stessa, mentre è bene ricordare che questa è solo una delle possibili manifestazioni di questo tipo di comunicazione. Anche laddove non replica in modo evidente la forma pubblicitaria tradizionale, il modello che sta alla base è sempre quello di una comunicazione svolta con intenti persuasivi, monologica, che ha l’obiettivo di colpire un target di riferimento a cui non si richiede risposta ma solo implicita accettazione. Riprendendo il modello di Jakobson, quello che si ottiene sono quindi due tipi di comunicazione sociale (ma sarebbe meglio chiamarla informazione, dal momento che la comunicazione implica la partecipazione attiva di entrambi gli interlocutori mentre queste invece, sono intese come meri trasferimenti di nozioni), a seconda della funzione principale su cui ricade maggiore interesse. Un primo tipo prevede la trasmissione monodirezionale di un messaggio emesso da una fonte emittente (il soggetto promotore) verso il destinatario e che termina nel momento in cui quest’ultimo riceve il messaggio. Questo è il caso classico della pubblicità sociale tradizionale. Si può però avere un secondo caso dove emittente e destinatario hanno entrambi un ruolo più attivo, ma la comunicazione si ferma nell’attenzione al messaggio, del suo aspetto estetico, e non determina un reale contatto tra i due soggetti. Questo caso avviene quando la comunicazione è realizzata come intrattenimento e il suo obiettivo primario è quello di catturare l’attenzione del destinatario a ogni costo: rientrano in questa categoria la pubblicità che utilizza linguaggi particolarmente forti (che generalmente sono i più fallimentari in termini di efficacia a lungo termine, perchè colpiscono eccessivamente la sfera emotiva del destinatario al momento dell’esposizione, a discapito di quella cognitiva) o i formati non convenzionali.
168 / IL GIOCO COME MODELLO DI COMUNICAZIONE
5.5.2. IL MODELLO DIALOGICO Il modello di Jakobson fa emergere però come il processo comunicativo non sia solamente un percorso che il messaggio fa per arrivare da mittente a destinatario ma si presenta a essere inteso come campo di relazioni e per questo motivo può essere riletto alla luce di una metafora-guida che può essere applicata universalmente per analizzare ogni tipo di interazione e interpretazione tra persone o cose: il gioco (inteso come game). Letta in quest’ottica, la comunicazione può essere vista come un gioco semiotico, ovvero un atto di relazione fra un io e un tu (a volte anche fra un io e un esso, come nel caso delle interazioni con gli artefatti). Un atto di relazione sociale condivisa e sorretta da regole, di individuazione di spazi di azione, di strategie per il conseguimento di un fine, di azioni che producono senso. (Bonfantini, Bramati, Zingale 2007: 51)
Il mittente e il destinatario, allora, rivestono il ruolo di due giocatori, che si contendono/scambiano un oggetto in gioco, che è il messaggio. Ogni gioco però necessita di un “campo da gioco” affinché si possa giocare e questo nello schema di Jakobson è il canale. I giochi come game, inoltre, necessitano di regole (codici) affinché possano funzionare e di una convergenza semantica sul tipo di gioco da giocare, riconosciuto e circoscritto, che delimita il gioco stesso (contesto). Il gioco relazionato anche a ogni funzione comunicativa permette allora di comprendere come ottenere diversi risultati comunicativi a seconda di una funzione obiettivo che si vuole ottenere, e di una o più funzioni supporto attraverso cui ottenerla. Ho provato quindi ad analizzare per ciascun obiettivo della comunicazione sociale il modello di Jakobson in relazione al gioco, per indagare il tipo di relazioni che si sviluppano di volta in volta tra i vari elementi e scoprire in che modo questi, a diversi livelli, possano aiutare a superare le criticità precedentemente esposte che riguardano oggi la comunicazione sociale e contribuire alla realizzazione di una comunicazione più efficiente. Prima di procedere all’analisi va precisato che gli obiettivi della comunicazione non sono mai univoci e le diverse funzioni del modello di Jakobson sono comunque sempre attive in contemporanea; però è possibile astrarre un rapporto tipo per ogni obiettivo a seconda della funzione predominante che caratterizza il tipo di comunicazione in analisi. Per mostrare invece come i vari obiettivi e le funzioni possono interagire insieme, rimando ai casi studio analizzati successivamente, dove vengono mostrate appunto alcune tra le possibili combinazioni che si possono realizzare per questo tipo di comunicazione. Informazione. Uno degli obiettivi possibili della comunicazione sociale e che più si avvicina al modello sul quale viene costruita attualmente la pubblicità sociale è l’informazione. L’informazione di per sé, come visto, per adempiere al suo compito potrebbe anche non prevedere una risposta. Tuttavia, se si fa entrare nell’ottica dialogica, può essere comunque un mezzo per ottenere un maggiore coinvolgimento con il proprio pubblico e contribuire a intessere una rete di legami sempre più forte con l’obiettivo non solo di incrementare la propria autorevolezza (e la fiducia nei propri confronti) parlando di sé e del proprio operato per la comunità ma anche per avere un canale privilegiato per la successiva diffusione di altre comunicazioni di natura differente (v. Grafo 5.1). Per questo motivo, rispetto al modello di Jakobson, ho integrato un campo dialogico attivo, per indicare come l’informazione può non soltanto essere GIOCO E COMUNICAZIONE SOCIALE / 169
passiva trasmissione di notizie (da mittente a destinatario) ma anche come invito a porre un’attenzione particolare al modo in cui è formato il messaggio (enfasi sulla funzione estetica, v. grafo 5.2). In questo caso l’idea del “campo” porta comunque alla considerazione di un confronto fra il mittente e il proprio pubblico, specialmente laddove è possibile prevedere una qualche risposta di quest’ultimo (come per esempio la richiesta di maggiori informazioni sul messaggio inviata, lo scambio di osservazioni, ecc.). Appello al pubblico. In questo tipo di comunicazione è maggiormente visibile il rapporto dialogico tra i soggetti della comunicazione e la funzione principale. Il fine dell’appello al pubblico è quello di ottenere un’azione concreta del destinatario inerente il tema trattato (riferimento) e che abbia delle ripercussioni anche sul mittente stesso in quanto intermediario tra pubblico e il beneficiario per il quale si sta chiedendo aiuto. Ad esempio un’organizzazione non profit che chiede di fare una donazione per i bambini poveri del terzo mondo, invierà la richiesta al destinatario mettendolo al corrente della criticità del tema e della necessità del suo contributo e i soldi donati (anche direttamente attraverso l’interazione con il messaggio stesso, se il gioco lo consente) saranno raccolti dal mittente che a sua volta li devolverà alle persone bisognose (v. grafo 5.3.). Sensibilizzazione. L’obiettivo primario della sensibilizzazione è quello di mettere al corrente il proprio pubblico di una determinata criticità, e di incentivare (o sorreggere) un atteggiamento positivo di questo nei confronti del tema trattato. Nel modello, il soggetto destinatario avrà quindi un contatto diretto con il riferimento/contesto ma alcuni tipi di comunicazione di sensibilizzazione richiederanno anche una riflessione sulle regole comportamentali da adottare inerenti al tema stesso. Per esempio una comunicazione sull’AIDS ha come obiettivo quello di mettere al corrente le persone sul pericolo di una malattia infettiva incurabile ma avrà come funzione secondaria quella di spiegare come si contrae il virus e quali sono i comportamenti da evitare e da adottare per proteggersi dall’infezione (v. grafo 5.4). Educazione. A differenza della sensibilizzazione, la comunicazione tratta temi già conosciuti in precedenza e ha come obiettivo primario quello di cambiare dei comportamenti negativi verso comportamenti positivi (un vero e proprio cambio di abito sociale), e farà quindi riferimento alla funzione delle regole/ codice che determinano la scelta di un comportamento rispetto ad un altro (come si può vedere nel grafo 5.5.). Collaborazione. La collaborazione possiede un sistema dialogico più complesso rispetto a quello degli altri obiettivi perché i soggetti interessati nella comunicazione, si trovano in una situazione di continuo scambio di atti comunicativi, tipici del dialogo di riflessione, che possono interessare tutte le funzioni del modello di Jakobson. I soggetti possono infatti riflettere insieme sul contesto, per scambiarsi opinioni e osservazioni inerenti al tema trattato, condividere le proprie conoscenze e collaborare alla loro diffusione; possono però anche collaborare per trovare delle soluzioni innovative al tema facendo leva sull’intelligenza condivisa. Oppure il medium stesso può essere strumento donato al destinatario attraverso il quale questo può contribuire con le proprie capacità alla risoluzione collettiva di problemi reali (vedi grafo 5.6.).
170 / IL GIOCO COME MODELLO DI COMUNICAZIONE
COMUNICAZIONE DIALOGICA
INFORMAZIONE (DA MITTENTE A DESTINATARIO) L’emittente compie un atto comunicativo sul destinatario attraverso un messaggio (funzione conativa)
COMUNICAZIONE DIALOGICA
INFORMAZIONE (ATTENZIONE SUL MESSAGGIO) L’emittente chiama l’attenzione del destinatario verso il messaggio (funzione conativa e funzione estetica)
emittente
medium/messaggio
destinatario
riferimento/contesto
asse di comprensione
asse di relazione
relazione diretta
relazione indiretta
regole/codice
C
canale campo dialogico
Grafo 5.1. Modello della comunicazione dialogica attivo nella comunicazione sociale di carattere informativo da mittente a destinatario. Grado 5.2. Modello della comunicazione dialogica attivo nella comunicazione sociale di carattere informativo con attenzione sul messaggio.
GIOCO E COMUNICAZIONE SOCIALE / 171
COMUNICAZIONE DIALOGICA
APPELLO AL PUBBLICO Il mittente chiede al destinatario un contributo materiale attraverso il riferimento a determinati contenuti
COMUNICAZIONE DIALOGICA
SENSIBILIZZAZIONE Il mittente richiama l’attenzione del destinatario su determinati contenuti, in modo da provocare eventuali mutamenti delle sue abitudini o stili di vita
emittente Grafo 5.3. Modello della comunicazione dialogica attivo nella comunicazione sociale di appello al pubblico. Grado 5.4. Modello della comunicazione dialogica attivo nella comunicazione sociale di sensibilizzazione.
172 / IL GIOCO COME MODELLO DI COMUNICAZIONE
medium/messaggio
destinatario
riferimento/contesto
asse di comprensione
asse di relazione
relazione diretta
relazione indiretta
regole/codice
C
canale campo dialogico
COMUNICAZIONE DIALOGICA
EDUCAZIONE Il mittente mostra al destinatario, attraverso un messaggio, come acquisire abitudini o stili di vita
COMUNICAZIONE DIALOGICA
COLLABORAZIONE Emittente e destinatario sono simmetricamente coinvolti nello stesso gioco comunicativo, o attraverso il riferimento a determinati contenuti, o attraverso la riessione su regole e comportamenti
emittente
medium/messaggio
destinatario
riferimento/contesto
asse di comprensione
asse di relazione
relazione diretta
relazione indiretta
regole/codice
C
canale campo dialogico
Grafo 5.5. Modello della comunicazione dialogica attivo nella comunicazione sociale educativa. Grado 5.6. Modello della comunicazione dialogica attivato nella comunicazione sociale collaborativa.
GIOCO E COMUNICAZIONE SOCIALE / 173
5.6. IL MODELLO DEL GIOCO NELLA COMUNICAZIONE SOCIALE Partendo dalle osservazioni precedenti sul gioco come metafora e modello della comunicazione, ho provato quindi a sviluppare uno schema progettuale come strumento utile al designer per visualizzare le relazioni tra i vari elementi costitutivi la progettazione di una atto comunicativo sul modello del gioco e pianificare una migliore comunicazione sociale di stampo dialogico. Il modello si compone di quattro fasi consecutive che incarnano quattro scelte strategiche che il designer è tenuto a fare in base all’obiettivo che vuole raggiungere e che determineranno infine il carattere dialogico della comunicazione stessa. Gli obiettivi. Il punto di partenza è la scelta di un obiettivo primario a cui la comunicazione sociale è tenuta a rispondere. Nel mio modello ho riportato come obiettivi principali della comunicazione sociale le macro-categorie presentate in precedenza: informazione, appello al pubblico, sensibilizzazione, educazione, collaborazione. Naturalmente lo scopo di una comunicazione sociale non sempre può essere rigidamente definito in un unico obiettivo, per cui spesso sarà possibile vedere la compresenza di diversi obiettivi tra quelli citati ma è bene per una buona progettazione, fissarne uno come obiettivo primario. Per semplificare il modello, io ho considerato solo i cinque obiettivi che a mio giudizio (supportato dalla ricerca), sono i più importanti per questo tipo di comunicazione. Ciò non esclude il fatto che si possano aggiungere al modello altri obiettivi secondari, come ad esempio l’incrementare la fiducia verso l’ente promotore (soprattutto le pubbliche amministrazioni), rafforzare l’immagine aziendale nel caso delle comunicazioni fatte da aziende profit oriented, monitorare l’efficacia della comunicazione attraverso i feedback che il modello può offrire, ecc.
INFORMAZIONE
Grafo 5.7. I cinque obiettivi primari della comunicazione sociale presi in analisi.
174 / IL GIOCO COME MODELLO DI COMUNICAZIONE
APPELLO
SENSIBILIZZAZIONE
EDUCAZIONE
COLLABORAZIONE
La durata del gioco. In questa fase il designer sceglie la durata che la comunicazione dovrà avere in base all’obiettivo posto. Sceglierà il gioco finito, nel caso il suo intento fosse quello di “giocare per vincere”, ovvero ottenere un goal che può essere un’azione del destinatario, un cambiamento del suo comportamento, una maggiore conoscenza di sé e del tema di cui si fa voce. Questo tipo di comunicazione è, in altre parole, limitata nel tempo, ha un inizio e una fine prestabiliti. Nel caso in cui l’obiettivo fosse quello di generare un duraturo contatto e intessere una relazione con il proprio pubblico, il gioco dovrà essere necessariamente un gioco infinito, fatto cioè con l’intento di continuare a giocare, e che si adegua in continuazione al contesto in cui si trova per scongiurare la fine della partita. Questo tipo di gioco altro non è che la base di ogni relazione sociale come l’amicizia, il matrimonio, la vita politica, ecc.
GIOCO FINITO
GIOCO INFINITO
Modalità di gioco. Il numero delle persone coinvolte nella comunicazione è una scelta essenziale per comprendere la natura relazionale che si vuole instaurare attorno al messaggio inviato. Sempre nella metafora del gioco, intendendo i destinatari come giocatori, si avrà una comunicazione single-player (uno a uno) quando il messaggio è rivolto a ogni singolo destinatario, quando si fa leva sul suo ruolo come individuo. Questa modalità di gioco è indicata soprattutto per quelle comunicazioni sociali che richiedono il coinvolgimento in prima persona dell’individuo al fine di modificare un suo comportamento dannoso (per se stesso e come singolo all’interno di una comunità) o per rispondere con un’azione concreta nei confronti dell’emittente. La modalità multiplayer è invece quella tipica della comunicazione di massa (uno a molti), dove il messaggio trasmesso dall’emittente è rivolto a un pubblico ampio di destinatari. Questa modalità di gioco mette in evidenza una asimmetria tra emittente e destinatario in quanto il primo copre il ruolo di fonte autorevole che comunica per il bene della collettività. Tipica rappresentanza di questo rapporto sono le pubbliche amministrazioni, che personificano il desiderio collettivo della cittadinanza, o le associazioni non profit, che per la competenza data dal ruolo che svolgono riguardo un determinato tema, possono rappresentare meglio la problematica esposta o farsi portavoce dei soggetti in difficoltà di cui comunicano. La modalità community (comunità di gioco) rappresenta invece una situazione dove emittente e destinatari sono sullo stesso livello e comunicano direttamente insieme attorno a determinati problemi, collaborando per concentrare le proprie competenze o sviluppare delle risposte alternative al problema in esame. Questa modalità di gioco mette in evidenza non solo la connessione tra emittente e massa ma anche tra i singoli destinatari, come tanti soggetti legati da un unica grande rete che è il tema su cui insieme si impegnano di collaborare. Il campo di applicazione più indicato per questa modalità di gioco è quando è necessaria la collaborazione attiva di tutti i soggetti coinvolti nella comunicazione sociale con il fine di risolvere insieme determinati problemi di interesse globale.
SINGLE-PLAYER
MULTIPLAYER
COMMUNITY
Fattori della comunicazione. Come visto in precedenza, a ciascuno dei fattori che compongono il modello della comunicazione corrisponde una determinata funzione del linguaggio. Queste sono sempre tutte presenti ma, a seconda dell’obiettivo posto all’inizio della comunicazione e di come si vuole formulare l’atto comunicativo, è possibile distinguerne una che emerge per importanza rispetto alle altre. Questa fase permette di mostrare in modo chia-
Grafo 5.8. Scelta tra gioco finito e non finito. Grado 5.9. Modalità del gioco in base al numero di giocatori coinvolti
GIOCO E COMUNICAZIONE SOCIALE / 175
ro la gerarchia dei ruoli dei diversi fattori. A seconda del fattore (e quindi della funzione) su cui la comunicazione concentrerà maggiore attenzione, si otterranno diverse forme comunicative. Il fattore principale è sempre e solo uno, ma è possibile individuare anche dei fattori di supporto grazie ai quali la comunicazione può svolgersi in modo efficace.
EMITTENTE
CANALE
MESSAGGIO
RIFERIMENTO
REGOLE
DESTINATARIO
Modalità di dialogo. L’esito delle scelte precedenti dello schema proposto determinerà il tipo di dialogo più adatto a rispondere agli obiettivi della comunicazione sociale che si intende sviluppare, facilitando la scelta formale del messaggio in base agli elementi che sono emersi durante il percorso di schematizzazione progettuale. Anche in questa fase, è possibile trovare una modalità di dialogo secondaria affiancata a quella principale. I tipi di dialoghi sono quelli già esposti in all’interno di questo capitolo: dialogo di intrattenimento, dialogo di ottenimento e dialogo di riflessione. Il percorso sviluppato sullo schema che otterrà come esito finale il dialogo di intrattenimento, coinciderà con una forma comunicativa simile a quella istituzionale, dove c’è una trasmissione di contenuti da mittente a destinatario il cui scopo è quello di mettere al corrente dell’esistenza e dell’operato del primo o della presenza di una serie di servizi messi a disposizione del secondo, a puro titolo informativo e senza secondi fini se non quello di mantenere un contatto tra gli interlocutori. Nel caso in cui il percorso terminasse nel dialogo di ottenimento, il prodotto comunicativo che ne uscirà sarà finalizzato a rispondere a determinati obiettivi posti dal mittente e dal destinatario (trasmettere conoscenza/acquisire conoscenza, porre una domanda/rispondere a una richiesta, far attuare un cambiamento di comportamento /accettare di modificare un proprio comportamento, ecc.). Se invece il percorso sullo schema proposto produrrà come esito finale il dialogo di riflessione, il prodotto comunicativo avrà in sé caratteristiche tali da mettere in stretta connessione tutti i soggetti coinvolti in modo da sviluppare un’intelligenza collettiva (data dal contributo di ogni singolo soggetto), finalizzata a risolvere insieme determinate problematicità e a collaborare per ottenere dei risultati pratici inerenti il tema trattato.
Grafo 5.10. Modalità del gioco e fattori di Jakobson Grafo 5.11. I tre tipi dialogo ottenibili, secondo lo schema proposto, per una comunicazione sociale basata sul modello del gioco Grafo 5.12. Schema di riflessione metaprogettuale sulla comunicazione sociale basata sul modello del gioco.
176 / IL GIOCO COME MODELLO DI COMUNICAZIONE
DIALOGO DI INTRATTENIMENTO
DIALOGO DI OTTENIMENTO
DIALOGO DI RIFLESSIONE
INFORMAZIONE
APPELLO
SENSIBILIZZAZIONE
GIOCO FINITO
SINGLE-PLAYER
EMITTENTE
CANALE
DIALOGO DI INTRATTENIMENTO
COLLABORAZIONE
GIOCO INFINITO
MULTIPLAYER
MESSAGGIO
EDUCAZIONE
COMMUNITY
RIFERIMENTO
DIALOGO DI OTTENIMENTO
REGOLE
DESTINATARIO
DIALOGO DI RIFLESSIONE
GIOCO E COMUNICAZIONE SOCIALE / 177
6 CASI STUDIO
6.1. IL MODELLO APPLICATO AI CASI STUDIO Per comprendere meglio la funzione dello schema da me proposto, ho scelto alcuni casi studio che a mio giudizio mostrano in modo evidente come la corretta progettazione sul modello del gioco possa portare degli esiti comunicativi innovativi e per diversi aspetti più efficienti rispetto a quelli che tradizionalmente vengono utilizzati per trattare la comunicazione sociale. In sintesi, ho utilizzato lo schema nel processo inverso, ovvero partendo dal prodotto comunicativo sono risalita alle scelte che sarebbero state effettuate per determinare la particolare forma comunicativa analizzata. In questo modo ho potuto visualizzare l’aspetto relazionale e dialogico intrinseco ad ogni progetto realizzato sul modello del gioco. Ogni caso studio presenta una breve descrizione accompagnata dallo schema progettuale che mostra il percorso che porta dall’identificazione degli obiettivi della comunicazione sociale fino alla modalità di dialogo, attraverso le diverse variabili sopra esposte. Il percorso principale è segnato con una linea continua colorata, che collega la categoria interessata per ciascuna fase, evidenziandola con lo stesso colore di fondo. Le categorie e i collegamenti secondari o di supporto sono segnati con una linea tratteggiata. La modalità di dialogo finale che si ottiene è evidenziata con il colore blu pieno se primaria, con contorno tratteggiato se secondaria. Tutti gli altri elementi dello schema che non sono coinvolti direttamente nel processo sono messi in secondo piano attraverso l’utilizzo del colore grigio. Lo schema in questa analisi è stato semplificato attraverso l’utilizzo di un solo colore con tonalità diverse, per renderlo più chiaro, leggibile e visualizzare più facilmente il processo progettuale.
Tabella 6.1. Struttura del grafo della comunicazione sociale basata sul modello del gioco applicato ai casi studio presi in esame.
SCHEMA BASATO SUL MODELLO DEL GIOCO Attraverso lo schema è possibile visualizzare e decidere la strategia comunicativa più efficiente basata sul modello del gioco, a seconda dell’obiettivo posto all’inizio dal progettista e in base ai fattori del gioco ad esso connessi
funzione primaria
funzione secondaria
fattore primario
fattore secondario
fattore non attivo
dialogo di risultato
CASI STUDIO / 181
6.1.1. HANGOUT WITH THE PRESIDENT Titolo: Ask the President Ente promotore: White House Tipologia: social network, sito internet Anno: 2012
Grafo 6.1. Schema della comunicazione sociale basato sul modello del gioco applicato al caso studio “Hangout with the President”, la video-chat del Presidente Obama con i suoi cittadini.
182 / IL GIOCO COME MODELLO DI COMUNICAZIONE
“Hangout with the President” è la prima video-chat istituzionale della storia, realizzata dal presidente Barack Obama il 30 Gennaio del 2012. In concomitanza con lo State of the Union Address del 24 dicembre, il discorso pronunciato annualmente a gennaio dal Presidente degli Stati Uniti al Congresso (l’organo legislativo americano) che ha lo scopo di riportare le condizioni in cui si trova la nazione e proporre le misure legislative da adottare secondo le priorità nazionali, la Casa Bianca ha invitato tutti i cittadini a inviare delle domande che avrebbero voluto porre al presidente circa i temi per loro di maggiore interesse. Il discorso è stato trasmesso in streaming sul sito del governo, e, attraverso aggiornamenti in tempo reale, anche sui canali Facebook, YouTube e Google+. Subito dopo il discorso e per l’intera settimana, trenta collaboratori ufficiali della Casa Bianca hanno ascoltato e selezionato le domande dei cittadini mentre un secondo gruppo ha risposto in tempo reale alle domande sul discorso del presidente inviate dai cittadini via Twitter (con l’hashcode #WHChat e #SOTU), Google+ e Facebook in determinate fasce orarie divise secondo argomenti. Durante la settimana, i cittadini potevano votare le domande che secondo loro erano più meritevoli di attenzione, in modo da farle entrare in una selezione finale, dalla quale sono state scelte infine dieci domande, che sono state rivolte (dai legittimi proprietari) direttamente al presidente in una chat-live supportata da Google+. Più di 227.000 di persone hanno partecipato all’iniziativa, 133.000 domande sono state caricate ottenendo più di 1.6 milioni di voti totali. Analizzato secondo lo schema da me proposto si può osservare come l’obiettivo principale della comunicazione del governo sia quello di informare i cittadini sul proprio operato e rispondere direttamente alle loro domande. Essendo nel caso specifico, un’iniziativa limitata all’arco di una settimana, si può dire che è un gioco finito (lo scopo è quello di ottenere interesse e confronto con il popolo). Essendo inoltre promossa da Obama ai suoi cittadini, e coinvolgendo anche un numero cospicuo di funzionari, è un modello di comunicazione multiplayer. La funzione principale del modello di Jakobson è infine quella espressiva, con l’attenzione che ritorna sul mittente, perché a questo viene dato ampio spazio ed è attorno alla sua figura che ruota l’intero processo di gioco. Vi è poi una funzione secondaria relativa al canale, perché i mezzi informatici hanno svolto un ruolo rilevante per la buona riuscita del progetto. L’esito di questo schema mostra come in questo caso la comunicazione sociale informativa ha assunto le sembianze di un dialogo di ottenimento, inteso sia come scambio di informazioni sia come sfida, attraverso la quale Obama vuole conquistare i favori del pubblico. É in secondo luogo un dialogo di intrattenimento in quanto il fine della Casa Bianca che ha promosso l’iniziativa è appunto quello di parlare di sè, del proprio operato e di mantenere un contatto con i propri cittadini.
INFORMAZIONE
APPELLO
SENSIBILIZZAZIONE
GIOCO FINITO
SINGLE-PLAYER
EMITTENTE
CANALE
DIALOGO DI INTRATTENIMENTO
COLLABORAZIONE
GIOCO INFINITO
MULTIPLAYER
MESSAGGIO
EDUCAZIONE
COMMUNITY
RIFERIMENTO
DIALOGO DI OTTENIMENTO
REGOLE
DESTINATARIO
DIALOGO DI RIFLESSIONE
CASI STUDIO / 183
184 / IL GIOCO COME MODELLO DI COMUNICAZIONE
Figura 6.1. Sezione del sito in cui era possibile caricare e votare le domande da rivolgere al presidente. Le domande più popolari sono state poi selezionate e rivolte al Presidente direttamente dai formulatari, il giorno della video-chat. Figura 6.2., 6.3. Parte del sito del Governo Americano destinato ai propri elettori (www.whitehouse.gov/ petitions) dove è possibile promuovere e firmare delle petizioni da portare all’attenzione del Presidente. Figura 6.4. Campagna promozionale dell’evento “Hangout with the President”. Figura 6.5, 6.7. Alcuni momenti dell’evento in cui Obama risponde alle domande dei suoi cittadini dalla Casa Bianca attraverso il canale streaming di Google+.
CASI STUDIO / 185
6.1.2. FOOD FORCE Titolo: Food Force Ente promotore: Programma Alimentare Mondiale Tipologia: videogioco Anno: 2005
Grafo 6.2. Schema della comunicazione sociale basato sul modello del gioco applicato al caso studio “Food Force”, videogioco del Programma Alimentare Mondiale delle Nazioni Unite.
186 / IL GIOCO COME MODELLO DI COMUNICAZIONE
Il Programma Alimentare Mondiale (WFP, dall’inglese World Food Programme) è un’agenzia delle Nazioni Unite finanziata su base volontaria ed è la più grande organizzazione umanitaria del mondo. Gli obiettivi principali sono quelli di sconfiggere la fame nei paesi poveri, aiutando le persone che non riescono a trovare o a produrre cibo per sé e le proprie famiglie fornendo assistenza alimentare e aiutando le persone a ricostruire la propria vita e quella delle comunità in cui vivono. I cinque obiettivi strategici del WFP sono: 1) salvaguardare vite umane e salvaguardare i mezzi di sussistenza nelle emergenze; 2) prevenire la fame acuta, investire nella prevenzione dei disastri naturali e nelle misure di attenuazione del loro impatto; 3) favorire la ricostruzione nelle fasi successive a un conflitto, a un disastro naturale o nei periodi di transizione; 4) ridurre la fame cronica e la malnutrizione; 5) rafforzare le capacità nazionali di lotta alla fame, anche attraverso la presa in carico, da parte dei governi locali, dei programmi WFP. Valorizzazione del progetto WFP di “acquisti locali”. (cit. www.wfp.org). Per spiegare ai bambini e ai ragazzi (ma in generale si può dire al pubblico intero) l’operato dell’agenzia e le criticità in cui operano nel 2005 è stato creato un videogioco per computer, scaricabile gratuitamente sul sito, (dal 2011 rielaborata e disponibile anche come applicazione di Facebook) che simula un intervento umanitario e le sfide logistiche insite nella consegna di assistenza alimentare nei paesi svantaggiati. Ambientata in un’isola immaginaria chiamata Sheylan, colpita dalla siccità e dalla guerra, Food Force è composto da sei missioni virtuali che mostrano gli ostacoli reali che gli operatori umanitari devono affrontare quando sono alle prese con un’emergenza alimentare. In uno scenario che vede decine di migliaia di sfollati che hanno urgente bisogno di cibo, il giocatore deve pilotare elicotteri in missioni di ricognizione, paracadutare sacchi di cibo nei campi di sfollati, negoziare con i ribelli sul percorso di un convoglio di cibo e usare l’assistenza alimentare per aiutare a ricostruire villaggi e comunità. L’obiettivo principale del videogioco è quello di far conoscere l’operato del WFP e il problema della fame nel mondo: nello schema quindi questo corrisponde in prima istanza all’informazione, e secondariamente alla sensibilizzazione. Il gioco è un gioco finito, in quanto composto da diverse missioni da portare a termine e, nella versione per computer da me analizzata, è un gioco single-player (il personaggio personificato dal giocatore è una recluta che si è unita a una squadra di esperti delle ONU). Tra i fattori comunicativi quello maggiormente interessato è l’emittente, in quanto il gioco ha l’esplicito compito di parlare del WFP. Parlando dell’operato dell’agenzia però, c’è anche l’intento di mostrare il problema della fame nel mondo e le difficoltà delle persone che la vivono sulla propria pelle, quindi è attivo anche il fattore del riferimento. Il risultato del gioco è quello di parlare dell’ente che l’ha prodotto, il suo operato e perché svolge un ruolo importante per la società (dialogo di intrattenimento) ma anche quello di sensibilizzare l’opinione del giocatore sul problema della fame del mondo e metterlo a conoscenza di queste realtà difficili nei paesi più poveri (dialogo di ottenimento).
INFORMAZIONE
APPELLO
SENSIBILIZZAZIONE
GIOCO FINITO
SINGLE-PLAYER
EMITTENTE
CANALE
DIALOGO DI INTRATTENIMENTO
COLLABORAZIONE
GIOCO INFINITO
MULTIPLAYER
MESSAGGIO
EDUCAZIONE
COMMUNITY
RIFERIMENTO
DIALOGO DI OTTENIMENTO
REGOLE
DESTINATARIO
DIALOGO DI RIFLESSIONE
CASI STUDIO / 187
188 / IL GIOCO COME MODELLO DI COMUNICAZIONE
Figura 6.8. Schermata d’avvio del gioco. Figure 6.9, 6.10, 6.11. Immagini tratte dal videogioco relative al filmato introduttivo di spiegazione alla missione da svolgere. Il giocatore interpreta il ruolo di un membro della Food Force, una squadra di operatori umanitari, alle prese con emergenze umanitarie, come la crisi alimentare che ha colpito l’isola immaginaria di Sheylan, stremata da siccità e guerra e teatro delle sei missioni di cui è composto il videogioco. Le missioni simulano ciò che nella realtà fanno davvero gli operatori del Programma Alimentare Mondiale per portare aiuti nei paesi più poveri. Figura 6.12. Mappa e menù del gioco dove è possibile vedere i processi svolti e i benefici delle proprie missioni sul benessere dei popoli a cui si cerca di offrire aiuto. Figura 6.13., 6.114, Immagini tratte dal videogioco, nella modalità di costruzione dei villaggi e distribuzione del cibo. Figura 6.15. Gran parte del gioco ha una visione aerea, in quanto il giocatore riveste il ruolo del pilota che deve lanciare, nelle zone prestabilite, gli aiuti umanitari.
CASI STUDIO / 189
6.1.3. THE EXTRAORDINARIES/SPARKED Titolo: Sparked.com Sviluppatore: The Extraordinaries Clienti: associazioni non profit Tipologia: applicazione iPhone, piattaforma internet Anno: 2009-2012
Grafo 6.3. Schema della comunicazione sociale basato sul modello del gioco applicato al caso studio “The Extraordinaries/Sparked”, sito e applicazione di volontariato online.
190 / IL GIOCO COME MODELLO DI COMUNICAZIONE
The Extraordinaries Inc è una compagnia di micro-volontariato che aiuta le organizzazioni non profit a sfruttare le competenze e l’abilità delle masse. Il primo progetto realizzato a questo scopo è un’applicazione web e mobile chiamata “The Extraordinaries”, progettata per trasformare chiunque in un volontario: i giocatori grazie all’applicazione possono accedere dovunque si trovino a un database che permette di sfogliare un elenco di missioni di “microvolontariato” che possono iniziare e completare letteralmente in pochi minuti. Ogni missione aiuta un’organizzazione non profit reale a raggiungere uno dei suoi obiettivi. Le missioni finora realizzate sono state le più svariate: dal segnalare i defibrillatori accessibili al pubblico attraverso il sistema Gps per contribuire a creare una mappa accessibile dal servizio di pronto soccorso in caso di emergenza fino a contribuire alla missione epiche come il ritrovamento dei dispersi del terremoto di Haiti attraverso il caricamento di foto scattate dagli utenti per permettere il confronto con le foto dei dispersi caricate sul sistema. Piccoli gesti che occupano pochissimo tempo ma che hanno delle conseguenze reali importanti. Nel 2010, come estensione del concetto di microvolontariato, The Extraordinaries lancia Sparked.com, una piattaforma nata con l’intento di avvicinare organizzazioni non profit e volontari. Il gioco è semplice: l’organizzazione non profit lancia sulla piattaforma una sfida, contestualizzata descrivendo ciò che è stato fatto finora offline e come queste contribuirà a raggiungere dei risultati prefissati, richiedendo ai volontari di mettere in gioco le proprie competenze professionali come marketing, grafica, design, scrittura, pubbliche relazioni, per costruire piccoli pezzi fondamentali per la realizzazione di progetti più importanti. Per entrambe le iniziative di The Extraordinaries, l’obiettivo principale è quello di ottenere un aiuto concreto da parte dei destinatari verso una causa promossa da un associazione no profit. Nello schema quindi si può vedere come primario obbiettivo l’appello al pubblico. Forte importanza però è data anche all’aspetto di partecipazione collaborativa per cui la collaborazione può essere segnalato come obiettivo secondario della comunicazione sociale. In tutti i casi si tratta di giochi finiti, in quanto il fine è quello di ottenere un risultato concreto da parte del destinatario utilizzabile direttamente dall’emittente. Il gioco può avere due modalità: single player, se inteso come singolo contributo a una missione, soprattutto nel caso dell’applicazione, ma anche community quando i progetti sono più complessi e richiedono la collaborazione e la co-creazione di risposte innovative insieme ad altri utenti. Il fattore su cui è concentrata la comunicazione è il destinatario, in quanto c’è un forte invito a una sua collaborazione attiva. Tuttavia, proprio per la natura del gioco, anche il canale, il messaggio e il riferimento rivestono dei ruoli importanti per la realizzazione dell’atto richiesto al destinatario per cui possono essere considerate funzioni secondarie di supporto alla comunicazione. Il risultato del gioco sarà quello di ottenere delle determinate azioni richieste al destinatario, quindi un dialogo di ottenimento.
INFORMAZIONE
APPELLO
SENSIBILIZZAZIONE
GIOCO FINITO
SINGLE-PLAYER
EMITTENTE
CANALE
DIALOGO DI INTRATTENIMENTO
COLLABORAZIONE
GIOCO INFINITO
MULTIPLAYER
MESSAGGIO
EDUCAZIONE
COMMUNITY
RIFERIMENTO
DIALOGO DI OTTENIMENTO
REGOLE
DESTINATARIO
DIALOGO DI RIFLESSIONE
CASI STUDIO / 191
192 / IL GIOCO COME MODELLO DI COMUNICAZIONE
Figura 6.15. Homepage del sito Sparked con spiegazione del suo funzionamento. La registrazione al sito è un requisito necessario per poter partecipare al progetto perché consente di poter associare al proprio profilo i temi sociali preferiti e delle competenze professionali che il volontario può offrire (ovviamente a titolo gratuito), cosicché il sistema possa mettere in evidenza e selezionare le iniziative inserite dagli enti non profit più vicine ad esso, per il quale quindi può essere più intenzionato ad agire. Figure 6.16., 6.17. Altre schermate del sito dov’è possibile scegliere la causa di proprio interesse. Offrendosi come volontario per una causa, ogni utente fa così parte di un gruppo contingente di persone che collaborano insieme allo stesso progetto, con medesime e complementari abilità e proprio come avviene per ogni altro progetto, proporrà la propria idea e a sua volta giudicherà quella degli altri partecipanti fino a quando il piccolo gruppo non raggiungerà la scelta finale.
Figure 6.18. 6.19. Schermate dell’applicazione mobile “The Extraordinaries”, che consente di eseguire azioni di microvolontariato collegate al territorio in cui l’utente si trova al momento dell’accesso. Sono azioni che generalmente non impegnano più di due minuti ma possono contribuire notevolmente, quando associate alle stesse azioni svolte da altri utenti, per risolvere alcuni problemi avanzati dalle associazioni non profit iscritte al programma.
CASI STUDIO / 193
6.1.4. FREE RICE Titolo: FreeRice.com Ente promotore: Programma Alimentare Mondiale Tipologia: sito internet Anno: 2007 Freerice è un sito/gioco di beneficenza dove gli utenti, giocando a un semplice gioco di associazione linguistica, contribuiscono a raccogliere fondi sconfiggere la fame nel mondo. La modalità di gioco è semplice: ai visitatori del sito è presentata una domanda con quattro risposte. Se l’utente sceglie quella corretta, si vincono dieci chicchi di riso virtuali, che verranno convertiti in riso reale (fornito dagli sponsor, che compaiono con un banner sotto ogni domanda) e donati al Programma Alimentare Mondiale delle Nazioni Unite. Più si va avanti e più il gioco diventa difficile e si può ammassare tutto il riso virtuale che si vuole, non ci sono limiti di tempo. Ci vogliono circa 20.000 chicchi di riso per fornire l’apporto calorico sufficiente a sostenere una persona adulta per un giorno. Il sito registra che quotidianamente attraverso FreeRice viene donato abbastanza riso da nutrire 15.000 persone al giorno. L’obiettivo primario di FreeRice è l’appello al pubblico. Pur essendo di durata infinita, è un gioco finito perché ogni risposta corretta corrisponde a una vittoria ed è possibile interrompere il gioco in qualsiasi momento senza perdere il riso vinto. Il sito supporta sia la modalità di gioco single-player (anche senza registrazione), sia multiplayer, in quanto è possibile creare, previa registrazione al sito, dei gruppi con altri utenti e concorrere insieme per essere primi nella classifica dei migliori donatori. Essendo principalmente un gioco per il destinatario, che in via indiretta è connesso alla donazione, l’attenzione principale tra i fattori della comunicazione è posta sul messaggio, ovvero sulla partita in sé. É connesso inoltre al destinatario perché è la sua volontà di giocare che determina quante donazioni gli sponsor faranno e quante persone si potranno sfamare. Il risultato della comunicazione di FreeRice è quello di ottenere delle donazioni (dialogo di ottenimento) per il WFP attraverso il coinvolgimento di destinatari e sponsor con una dinamica differente rispetto alle classiche raccolte fondi. É un sistema flessibile e gratificante per il destinatario, perché gli consente di impiegare il suo tempo libero giocando a un gioco coinvolgente, cosciente del fatto di non star sprecando del tempo per un divertimento fine a se stesso ma al contrario di investire quel tempo di svago in un opera di bene.
Grafo 6.4. Schema della comunicazione sociale basato sul modello del gioco applicato al caso studio “Free Rice”, sito/gioco per la donazione di riso al Programma Alimentare Mondiale delle Nazioni Unite.
194 / IL GIOCO COME MODELLO DI COMUNICAZIONE
INFORMAZIONE
APPELLO
SENSIBILIZZAZIONE
GIOCO FINITO
SINGLE-PLAYER
EMITTENTE
CANALE
DIALOGO DI INTRATTENIMENTO
COLLABORAZIONE
GIOCO INFINITO
MULTIPLAYER
MESSAGGIO
EDUCAZIONE
COMMUNITY
RIFERIMENTO
DIALOGO DI OTTENIMENTO
REGOLE
DESTINATARIO
DIALOGO DI RIFLESSIONE
CASI STUDIO / 195
196 / IL GIOCO COME MODELLO DI COMUNICAZIONE
Figura 6.20. Homepage del sito “FreeRice.com” dove è possibile donare, attraverso un gioco di associazione tra vocaboli e definizioni, dei chicchi di riso virtuali che saranno donati in modo reale dagli sponsor che compaiono all’interno della pagina al Programma Alimentare Mondiale. Figura 6.21. Funzionamento del gioco “Free Rice”. Il gioco è molto semplice, si tratta del classico gioco linguistico di associazione dove a una parola proposta dal sistema, si deve scegliere la definizione corretta tra una serie di alternative proposte. Ogni risposta corretta contribuirà alla donazione di 10 chicchi di riso al Programma Alimentare Mondiale. Il giocatore può visualizzare in tempo reale l’ammontare della donazione effettuata grazie a un animazione a lato che mostra i chicchi di riso raccolti e gli eventuali bonus per aver risposto correttamente a una serie di domande in modo consecutivo. Il gioco è infinito, si può smettere quando si vuole e più si va avanti, più diventa complesso. Il punteggio permetterà di entrare in classifica con gli altri utenti e di fare delle vere e proprie sfide a chi dona di più.
Figura 6.22. Schermata di scelta dell’argomento con cui giocare. Il sito è multilingue e per ogni lingua selezionata, il programma offre una serie di argomenti su quali applicare le proprie conoscenze e giocare. Si può giocare liberamente anche senza registazione ma registrandosi, è possibile partecipare a gruppi di donazioni collettiva e competere con altri giocatori nella classifica di miglior donatore del sito.
Figura 6.23. Distribuzione del riso offerto a Free Rice ad opera del Programma Alimentare Mondiale presso i popoli dei paesi più disagiati. Il riso virtuale che il donatore vince nella partita viene trasformato in riso reale dallo sponsor presente sotto ciascuna domanda corretta. FreeRice.com è nato nel 2007 e ad oggi sono stati donati 95.353.982.210 chicchi di riso (sono necessari circa 20.000 chicchi di riso al giorno per sfamare una persona adulta).
CASI STUDIO / 197
6.1.5. SPENT Titolo: Spent Ente promotore: Urban Ministries of Durham Tipologia: sito internet Anno: 2011 In periodo di crisi come questo sempre più famiglie arrivano a stento alla fine del mese, costrette a fare molte rinunce e scelte ardue per non vedere il proprio conto in banca diventare rosso. Ma per molte altre persone capire queste situazioni non è immediato e spesso, il fatto che accadono ad altri e non a se stessi, li spinge a non preoccuparsi eccessivamente del problema e spesso a sottovalutarlo. In Italia, nonostante tutto, servizi base come la sanità sono garantiti per tutti indifferentemente dalla propria fascia di reddito. Ma cosa prova chi invece vive in paesi dove anche l’assistenza medica può essere un lusso e la differenza reale è fatta anche dai pochi centesimi che si possono risparmiare rinunciando ad azioni per altri banali e di poco peso? Playspent.org è una pagina web che ospita un gioco di simulazione per far provare (ai più fortunati) cosa voglia dire vivere alla soglia della povertà, avendo un figlio a carico, un automobile, una casa in affitto e uno stipendio lavorativo insufficiente. Il gioco non solo è coinvolgente in quanto spinge il giocatore a mettersi alla prova in una situazione così critica, allo stesso tempo è fortemente empatico perché riesce a far comprendere in modo semplice e diretto, le difficoltà che giorno deve affrontare chi si trova in una situazione di disagio economica, soprattutto a fronte degli innumerevoli imprevisti che ogni mese possono compromettere la propria pianificazione economica. Il gioco si sviluppa in trenta scelte (una per ogni giorno del mese) e l’obiettivo è quello di arrivare in fondo con un saldo in positivo, senza dover rinunciare a beni e servizi fondamentali. Il gioco termina quando il contatore della disponibilità raggiunge quota zero, ed è seguito da una schermata che invita a fare una donazione alla causa che ha promosso l’ente. Dallo schema si nota come partendo come obiettivo quello di sensibilizzare sulla tematica della povertà, sia stato realizzato un gioco finito (l’obiettivo è vincerlo ma in realtà è un gioco fatto per essere perso), single-player, perché non è richiesta la partecipazione di altri giocatori in quanto il messaggio è rivolto uno a uno ai suoi destinatari. Il fattore comunicativo maggiormente rilevante è il contesto, perché è un gioco che simula una situazione di povertà per rendere più consapevole il giocatore di questa criticità. Come fattore di supporto ci sono le regole, in quanto il gioco, procedendo attraverso ostacoli e imprevisti su cui il giocatore deve fare delle scelte spesso difficili che si ripercuoteranno sull’intero gioco, è messo di fronte all’evidenza che anche utilizzando strategie e comportamenti volti al risparmio totale, è comunque difficile arrivare a fine mese in quella situazione economica. Il risultato del processo progettuale è quindi quello di una comunicazione finalizzata ad ottenere un cambiamento di prospettiva e maggiore sensibilità verso il tema da parte dei destinatari (dialogo di ottenimento). Grafo 6.5. Schema della comunicazione sociale basato sul modello del gioco applicato al caso studio “Spent”, sito/gioco di sensibilizzazione sul tema della povertà.
198 / IL GIOCO COME MODELLO DI COMUNICAZIONE
INFORMAZIONE
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SENSIBILIZZAZIONE
GIOCO FINITO
SINGLE-PLAYER
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DIALOGO DI INTRATTENIMENTO
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GIOCO INFINITO
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EDUCAZIONE
COMMUNITY
RIFERIMENTO
DIALOGO DI OTTENIMENTO
REGOLE
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DIALOGO DI RIFLESSIONE
CASI STUDIO / 199
200 / IL GIOCO COME MODELLO DI COMUNICAZIONE
Figura 6.24. Prima schermata del sito/gioco Spent, che simula le difficoltà delle persone alla soglia della povertà, di arrivare a fine mese. Il gioco consiste in una serie di scelte a delle domande poste dal sistema, che rispecchiano le quotidiane preoccupazioni di uno degli oltre 14 milioni di disoccupati americani, che si trovano senza risparmi, senza una casa, magari con un figlio da mantenere da soli. Il sito sfida il giocatore ad arrivare a fine mese partendo da questo scenario e dal presupposto di avere ancora solo più 1000$ prima di finire definitivamente i soldi, per dimostrare come sia impossibile sopravvivere in quelle situazione. Figura 6.25. Prima schermata del gioco: il giocatore è disoccupato quindi per sopravvivere, deve scegliere un lavoro tra tre opzioni, ciascuna delle quali ovviamente ha degli aspetti positivi e negativi, come il salario basso o i possibili danni fisici e mentali
Figura 6.26. Schermate tipo del sito/gioco Spent che mostrano i risultati delle scelte effettuate dal giocatore e il motivo per cui vengono fatte spesso anche dalle persone in quella determinata situazione e cosa esse comportano nella realtà.
Figura 6.27. Schermata finale del sito/gioco Spent con l’invito ai giocatori di sostenere i bisognosi attraverso una donazione. Il gioco Spent è fatto per essere perso, dal momento che è impossibile arrivare a fine mese in quelle condizioni, considerando tutti gli imprevisti che possono portare via denaro dal fondo rimasto come le esigenze del figlio, la morte di un parente, gli acquisti per arredare con il minimo indispensabile la nuova casa, ecc.
CASI STUDIO / 201
6.1.6. AT-RISK Titolo: At-Risk Sviluppatore: Kognito Clienti: Università e College americani Tipologia: videogioco Anno: 2011 In America circa l’80 per cento degli studenti che commettono un suicidio non sono mai stati visti da un assistente sociale. At-Risk è un gioco rivolto ai docenti per sensibilizzare sul problema della malattia mentale al fine di ridurre il numero di studenti con condizioni psichiche critiche, non rilevate o non trattare. Il gioco affronta la paura e lo stigma della malattia mentale che può impedire la facoltà universitaria e il suo personale ad avvicinarsi e ad assistere gli studenti che presentano sintomi di malattia mentale, quali depressione, ansia e pensieri suicidi, dando una panoramica della malattia e mostrando come riconoscere questi segnali. In 45 minuti di simulazione, i giocatori assumono il ruolo di un docente che dialoga con cinque suoi studenti allo scopo di identificare i tre che sono a rischio e decidere se e come indirizzarli al centro di consulenza. Gli studenti virtuali sono completamente animati e posseggono ciascuno una propria intelligenza emotiva e memoria. Il giocatore vince se identifica correttamente i tre studenti in difficoltà e con successo li mette al corrente del centro di consulenza. Di questo gioco esistono diverse versioni, sempre con la stessa modalità di gioco e stessa tematica, dove cambia solo il rapporto tra personaggio personificato dal giocatore e persone a rischio che deve aiutare: c’è una versione destinata a studenti universitari per riconoscere i disturbi dei propri colleghi, docenti di college per i propri studenti, personale medico per i pazienti, famiglie di veterani, ecc. L’obiettivo principale della comunicazione è la sensibilizzazione di una tematica spesso sottovalutata: i disturbi mentali. Per fare questo è stato scelto un gioco finito, realizzato allo scopo di ottenere una vittoria, destinato a un singolo giocatore (single-player), fortemente incentrato sul tema trattato (riferimento) ma che allo stesso tempo permette di analizzare quali sono i segnali che le persone possono manifestare in caso di rischio e cosa può fare nel reale il destinatario della comunicazione per aiutarle a superare un momento di difficoltà, allenandolo attraverso la simulazione di una situazione possibile che questo potrebbe trovarsi a dover affrontare (regole e messaggio). Questa comunicazione permette non solo di accrescere conoscenza del tema trattato ma anche stimolare maggiore sensibilità per le persone che ne sono affette.
Grafo 6.6. Schema della comunicazione sociale basato sul modello del gioco applicato al caso studio “At-Risk”, videogioco di sensibilizzazione sul tema della malattia mentale destinato al settore scolastico.
202 / IL GIOCO COME MODELLO DI COMUNICAZIONE
INFORMAZIONE
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DIALOGO DI RIFLESSIONE
CASI STUDIO / 203
204 / IL GIOCO COME MODELLO DI COMUNICAZIONE
Figure 6.28., 6.29. Schermate del videogioco At-Risk, pensato per i docenti universitari per sensibilizzarli sul tem delle malattie mentali che ogni anno causano un alto numero di decessi tra gli studenti americani. Attraverso l’osservazione degli studenti e i colloqui individuali, il docente deve riconoscere quali tra questi sono a rischio di depressione, per saperli poi indirizzare verso un centro ascolto specializzato. Figura 6.30. Scheda personale dello studente nel gioco At-Risk. Ogni studente ha una proprie identità e caratteristiche e il docente può, grazie ai voti accademici registrati, al comportamento e all’aspetto fisico con cui si presentano, avere degli indizi se un determinato studente ha qualche problema che può portarlo a un pericoloso stato depressivo.
Figura 6.31. Schermata del gioco dove il docente interroga lo studente circa il suo andamento accademico. In questa fase il docente deve intuire da cosa è determinato il cattivo rendimento scolastico, quindi se lo studente potrebbe avere dei problemi a livello psicologico, facendo ricorso a diverse domande tra cui scegliere, poste dal gioco. Il colloquio è determinante per la vittoria perchè se vengono poste domande errate allo studente o si ha un approccio al problema in modo sbagliato, si perde la partita.
Figura 6.32. Schermata conclusiva del gioco At-Risk. Al termine del colloquio, se il docente riesce a identificare correttamente lo studente a rischio, il gioco fornisce un feedback su come si è svolta la partita, rimarcando quali sono gli aspetti dello studente che potrebbero essere identificati per comprendere, anche nella realtà, se questo sia depresso e quindi necessiti di supporto psicologico professionale oppure se ha solo avuto un momentaneo calo di rendimento per altri motivi. Il gioco in sintesi, riesce a trasmettere in modo molto veritiero un possibile colloquio che il docente nella realtà potrebbe trovarsi a dover affrontare con un proprio studente, per cui serve da allenamento e previsione per un più corretto approccio al problema.
CASI STUDIO / 205
6.1.7. RECYCLEBANK Titolo: Recyclebank Sviluppatore: Recycle Rewards Inc. Clienti: Comuni iscritti al programma Tipologia: servizio web su base ludica Anno: 2005
Grafo 6.7. Schema della comunicazione sociale basato sul modello del gioco applicato al caso studio “Recyclebank”, progetto online e offline sull’educazione al riciclo e alla sostenibilità ambientale.
206 / IL GIOCO COME MODELLO DI COMUNICAZIONE
Uno dei grandi problemi ad oggi ancora irrisolto, è modificate i comportamenti umani in ambito ecologico. Incentivare la raccolta differenziata, il riciclo dei materiale, l’attenzione per gli sprechi delle fonti comuni sono obiettivi che le amministrazioni pubbliche si pongono da tempo, scontrandosi spesso con l’indifferenza della gente. In Italia sempre più Comuni stanno adottando un modello di raccolta dei rifiuti basato sul ritiro porta a porta, regolato da prescrizioni e punito con sanzioni economiche per coloro che non lo rispettano. Ma come dimostrano anche i recenti fatti di cronaca sul problema rifiuti a Roma, questo modello è attuabile in realtà circoscritte ma non incide sulla sensibilità delle persone riguardo al tema, che vedono spesso il riciclo come un’imposizione e una perdita di tempo piuttosto che come un’azione svolta a favore del bene comune. Sembra un discorso cinico ma purtroppo molti ragionano in un ottica di convenienza personale e sono pochi quelli che riescono a focalizzare realmente che il bene collettivo si ripercuote anche sul bene individuale (e viceversa). Partendo da questi concetti, Recyclebank ha sviluppato un sistema per trasformare il riciclo in un’occasione di guadagno, per i cittadini e per le amministrazioni, trasformandolo in un gioco. Se il proprio comune di residenza è iscritto al programma, è possibile registrandosi al sito, ricevere un contenitore dotato di chip di radiofrequenza in grado di misurare quanto materiale viene riciclato e partecipare a delle vere e proprie gare di riciclo. Sul sito infatti ogni utente può scegliere il tipo di missione da svolgere (riciclare un dato volume di rifiuti, ridurre gli sprechi, riusare materiali, partecipare a programmi di educazione ambientale, ecc.) e ogni volta che si compiono buone azioni, il proprio profilo acquisisce punti. Quindi più si ricicla, più si ottengono punti, che danno diritto a premi o buoni d’acquisto messi a disposizione da più di 3000 aziende private che aderiscono all’iniziativa. Sul sito inoltre l’utente può giocare e guadagnare crediti imparando con il programma Learn to earn, una serie di mini corsi su come attuare piccole buone pratiche quotidiane. Recyclebank ha come obiettivo quello di educare il destinatario a un certo comportamento sostenibile. Ogni missione equivale a un gioco finito, perché l’obiettivo è quello di vincere e guadagnare punti, ma nell’ottica complessiva si basa su un gioco infinito perché l’obiettivo è quello di continuare a riciclare (e guadagnare). Il modello di gioco è singleplayer, perché si basa sull’azione di ogni singolo giocatore. Tra i fattori del modello comunicativo di Jakobson maggiore importanza è destinata alle regole, in quanto si vuole modificare un comportamento e quindi un abito sociale. Una funzione secondaria la svolge anche il riferimento, perché ogni singola azione svolta con Recyclebank è finalizzata a sostenere il riciclo come via maestra per un modo di vivere più sostenibile. Recyclebank quindi, attraverso la gratificazione intrinseca ed estrinseca, riesce a far attuare in modo continuativo un comportamento sostenibile e responsabile (dialogo di ottenimento), dove ne esce vincitrice non solo l’ambiente, ma anche i singoli soggetti, la comunità e tutti gli enti coinvolti.
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REGOLE
DESTINATARIO
DIALOGO DI RIFLESSIONE
CASI STUDIO / 207
208 / IL GIOCO COME MODELLO DI COMUNICAZIONE
Figura 6.33. Homepage del sito Recyclebank.com con la spiegazione del suo funzionamento. Recyclebank è una società americana che ha un modello molto chiaro: offrire una carta fedeltà a punti (rewarding program in inglese) a chi effettua la raccolta differenziata in modo da incentivarne l’utilizzo perchè si possono poi redimere i punti in premi, esattamente come fanno l’Esselunga con i Punti Fragola, Alitalia con la mille miglia o le compagnie petrolifere con le carte fedeltà per la benzina. Per fare tutto cio, utilizza un processo brevettato, composto da 3 fasi, chiamato Recycle, Redeem, Reward. La prima fase ha inizio in casa, dove si effettua la differenziata in specifici contenitori. Nella seconda fase, questi contenitori, che hanno al loro interno un ID tag, (un chip che permette di registrare quanto in effetti viene raccolto in maniera differenziata) permettono la conversione della quantità di materiale riciclato in punti. Infine, con la carta fedeltà i consumatori si recano in punti vendita convenzionati ed ottengono gli sconti ed i premi. Figura 6.34. Sezione del sito dedicata a consigli per uno stile di vita più sostenibile e alcuni giochi per ottenere ulteriori punti extra.
Figura 6.35. Sezione del sito dove è possibile visualizzare e convertire i punti in sconti e premi messi a disposizione dalle aziende partner del progetto.
Figura 6.36. Due dipendenti di Recyclebank che mostrano il particolare cassonetto dotato di microchip fornito agli iscritti al progetto. Per misurare i comportamenti degli utenti, oltre al rilevatore sui contenitori per la differenziata utilizzati dal singolo, Recyclebank lavora in accordo con le amministrazioni locali, le aziende di raccolta dei rifiuti e le compagnie energetiche per tracciare il materiale dirottato alle discariche e calcolare l’esatta quantità di energia consumata dal cittadino.
CASI STUDIO / 209
6.1.8. NO SMOKING BE HAPPY Titolo: No smoking be happy Ente promotore: Fondazione Umberto Veronesi Tipologia: mostra interattiva multisensoriale Anno: 2010 All’interno per programma di prevenzione e lotta contro il fumo promossa da diversi anni dalla Fondazione Umberto Veronesi con la Pfizer Foundation, dal 2010 è stata realizzata una mostra itinerante che ha l’obiettivo di raggiungere le principali piazze italiane e offrire a studenti e cittadini la possibilità di acquisire informazioni scientifiche sui danni che provoca il fumo di sigaretta al corpo umano in un modo inedito e fortemente immersivo. La mostra dall’esterno si presenta come una grossa sigaretta ma all’interno il visitatore ripercorre quello che è il percorso del fumo dalla sigaretta fino ai polmoni e al cuore, trovandosi immerso in una rappresentazione del corpo umano visto dall’interno dalla prospettiva delle particelle di fumo. Durante il percorso si può imparare qual è la composizione chimica delle sigarette e quali sono gli effetti che questi elementi nocivi provocano su ogni singolo organo che viene in contatto con essi. I visitatori sono accompagnati lungo la mostra da dei coordinatori scientifici formati dalla Fondazione Veronesi e dal comitato scientifico che presiede il progetto e possono vedere, sentire, annusare e toccare ciò che la sigaretta provoca, come fossero all’interno di un vero e proprio mondo di gioco. I dispositivi di simulazione sono inoltre dotati di sensori termici a contatto che spingono i visitatori a interagire con essi per attivarli. Al termine del percorso una dimostrazione scientifica, realizzata attraverso l’utilizzo di polmoni di maiale, mostra la differenza di funzionamento e di aspetto tra un polmone di una persona sana e quello di un fumatore (il polmone di maiale è stato sottoposto alle stesse sostanze dannose contenute nel fumo). La funzione di questa comunicazione sociale è educativa. È un gioco finito, perché è limitato nel tempo (la durata della visita) e ha come obiettivo quello di trasmettere determinate conoscenze scientifiche ai destinatari, quindi vincere la loro inconsapevolezza su questi aspetti del fumo. La modalità di gioco è multiplayer, in quanto un unico soggetto parla e guida un gruppo di persone durante la mostra (ma essendo un interazione faccia a faccia, queste possono domandare e intervenire in qualsiasi momento), e l’attenzione è posta sulle regole, ovvero il comportamento dannoso del fumatore, supportato dal riferimento e dal messaggio, ovvero l’essere “all’interno del corpo” di questo. La comunicazione in questo caso permette di trasmettere grazie alla stimolazione sensoriale e al punto di vista particolare, delle informazioni poco conosciute sul tema del fumo, contribuendo all’educazione del visitatore su questa problematica (dialogo di ottenimento).
Grafo 6.8. Schema della comunicazione sociale basato sul modello del gioco applicato al caso studio “No smoking be happy”, mostra interattiva sensoriale educativa sugli effetti del fumo nell’organismo.
210 / IL GIOCO COME MODELLO DI COMUNICAZIONE
INFORMAZIONE
APPELLO
SENSIBILIZZAZIONE
GIOCO FINITO
SINGLE-PLAYER
EMITTENTE
CANALE
DIALOGO DI INTRATTENIMENTO
COLLABORAZIONE
GIOCO INFINITO
MULTIPLAYER
MESSAGGIO
EDUCAZIONE
COMMUNITY
RIFERIMENTO
DIALOGO DI OTTENIMENTO
REGOLE
DESTINATARIO
DIALOGO DI RIFLESSIONE
CASI STUDIO / 211
212 / IL GIOCO COME MODELLO DI COMUNICAZIONE
Figura 6.37. Padiglione ospitante la mostra interattiva sensoriale visto dall’esterno. La struttura ha la forma iniziale di una grossa sigaretta, a cui sono collegati tre padiglioni circolari uniti da quattro corridoi. All’interno il visitatore ripercorre l’intero percorso svolto dal fumo, dall’inalazione fino al raggiungimento nei polmoni, e i relativi effetti che questo ha sui vari organi che incontra durante il tragitto. Figure 6.38., 6.39. Fase iniziale del percorso all’interno della bocca del fumatore, dove è possibile vedere la conseguenza del fumo su denti e gengive Figura 6.40. Stanza dedicata agli effetti del fumo sul cuore. Il plastico di un cuore mostra gli effetti del fumo sul battito cardiaco, simulando inoltre cosa avviene durante un infarto, causato dal deposito catramoso del fumo nelle arterie che con il tempo le restringe fino a bloccare il flusso sanguigno che arresta il cuore. Figura 6.41. Padiglione dedicato ai polmoni, che mostra come si presenta all’interno un polmone di una persona sana.
Figura 6.42. Corridoio di collegamento rappresentante l’interno della trachea e dei bronchi nel fumatore. Il plastico mostra come nel fumatore, le ciglia, elemento che serve per filtrare l’aria che respiriamo dallo sporco, dalla polvere e dai batteri, con il passare del tempo si deteriorano fino a scomparire del tutto, lasciandoci privi di qualsiasi filtro per l’aria esterna e quindi più esposti alle malattie derivate dallo smog e dai batteri.
Figura 6.43. Interno del padiglione destinato ad illustrare lo stato e il funzionamento del polmone di un fumatore. Come si può notare, a differenza dell’immagine precedente, i polmoni dei fumatori sono più scuri, in quanto presentano depositi di catrame del fumo inalato. Una macchina permette ai visitatori di testare il funzionamento di un polmone sano e contrapposto a uno malato, per comprendere le forti limitazioni che il fumo comporta all’elasticità del polmone e quindi al suo corretto funzionamento.
CASI STUDIO / 213
6.1.9. WORLD WITHOUT OIL Titolo: World Without Oil Ente promotore: Corporation for Public Broadcasting Sviluppatore: Writerguy Tipologia: videogioco Anno: 2007
Grafo 6.9. Schema della comunicazione sociale basato sul modello del gioco applicato al caso studio “World Without Oil”, videogioco di simulazione sugli effetti della carenza di petrolio nello scenario futuro.
214 / IL GIOCO COME MODELLO DI COMUNICAZIONE
World Without Oil è stato un gioco/esperimento di previsione (ormai conclusosi), della durata di sei settimane, creato per richiamare l’attenzione, stimolare il dialogo, pianificare e trovare soluzioni intorno a un possibile futuro segnato dalla scarsità di petrolio. Al gioco hanno partecipato quasi duemila giocatori online, principalmente tra i venti e i quarant’anni, provenienti da ogni parte del mondo. Ogni giocatore doveva ipotizzare di essere nel pieno di una crisi petrolifera e descrivere, attraverso foto, post in un blog, video e podcast, le ripercussioni che una situazione del genere avrebbe nella sua vita di ogni giorno. Dopo i primi giorni di racconti e previsioni apocalittiche, i giocatori hanno cominciato a concentrarsi sulle possibili soluzioni al problema, immaginando azioni dagli esiti positivi: nuovi modi di cooperare per consumare meno, la concentrazione dell’infrastruttura locale di comunità e di quartiere, riorganizzazione geografica delle famiglie estese, felicità data da nuovi valori di sostenibilità, semplicità e connettività sociale. I risultati del gioco furono sorprendenti e l’intera simulazione è conservata sul sito ufficiale (www.worldwithoutoil.org) in una sorta di macchina del tempo online, dove è possibile ripercorrere l’esperienza del gioco dal giorno uno al giorno trentadue. Il gioco è stato un enorme successo in quanto non solo ha aumentato la consapevolezza della dipendenza dal petrolio ma ha anche risvegliato l’immaginazione democratica delle persone rendendole cittadini migliori. L’obiettivo del gioco è quindi quello collaborativo, finalizzato alla creazione di una comunità sociale che lavora insieme verso un fine comune. Riflettere sul tema però è stato anche un pretesto per comprendere meglio il nostro modo di vivere odierno, fortemente influenzato da questa risorsa non rinnovabile e quindi ha avuto anche una valenza educativa. Il gioco ha avuto una durata limitata, ed è quindi un gioco finito e, per la natura stessa del gioco, non poteva che essere giocato all’interno di una community, animata dallo stesso obiettivo comune. Tra i fattori della comunicazione, il principale è quello delle regole, perché è attraverso l’esplorazione e la messa in discussione dei propri comportamenti attuali e futuri che è stato possibile ideare delle soluzioni alternative. Anche il riferimento ha avuto un ruolo importante nel gioco perché in modo dinamico, ne determinava lo svolgimento. In conclusione, il gioco ha permesso di proiettare le persone in un futuro che oggi ci sembra lontanissimo ma che in realtà presto o tardi ci troveremo col farne i conti, e a stimolare e simulare strategie possibili per dare soluzione a tutti i problemi connessi a questo evento. Riflettere su questo tema all’interno di una simulazione realistica ma allo stesso coscienti della libertà di tentare (perché in fondo, è solo un gioco e non ha ripercussioni sulla vita reale) ha dato libero sfogo alla creatività dei giocatori, portando soluzioni altrimenti inimmaginabili. Per questo motivo il gioco ha generato sì un dialogo di riflessione, ma anche uno di ottenimento, perché alcune delle soluzioni proposte e testate, sono state adottate in seguito nella vita reale dai giocatori stessi, aprendo la strada a una nuova tecnica per modificare il comportamento negativo delle persone.
INFORMAZIONE
APPELLO
SENSIBILIZZAZIONE
GIOCO FINITO
SINGLE-PLAYER
EMITTENTE
CANALE
DIALOGO DI INTRATTENIMENTO
COLLABORAZIONE
GIOCO INFINITO
MULTIPLAYER
MESSAGGIO
EDUCAZIONE
COMMUNITY
RIFERIMENTO
DIALOGO DI OTTENIMENTO
REGOLE
DESTINATARIO
DIALOGO DI RIFLESSIONE
CASI STUDIO / 215
216 / IL GIOCO COME MODELLO DI COMUNICAZIONE
Figura 6.44. Homepage del sito di World Without Oil con la simulazione dell’intero gioco svolto nelle sei settimane. Il gioco è stato realizzato a livello sperimentale quindi non è più possibile giocarci ma si può vedere ogni singolo contributo inserito dai giocatori durante tutto il periodo di gioco durato sei settimane reali, corrispondenti a 32 settimane nel mondo virtuale. Figure 6.45., 6.46. Estratti di contributi inseriti dagli sviluppatori e dai giocatori durante la partita. Ogni giorno reale (che corrispondeva a una settimana nel gioco), gli sviluppatori aggiungevano un nuovo elemento d’informazione all’insieme, per illustrare gli effetti a catena su grande scala della crisi (mezzi di trasporto che cancellavano e aumentavano il costo dei biglietti, scaffali vuoti e scarsità alimentari per l’impossibilità di consegnarli ai negozi locali, ecc.), mentre i giocatori erano invitati a raccontare le loro difficoltà a fare i conti con la fornitura inaffidabile dell’energia in casa, la difficoltà di raggiungere il posto di lavoro per la cancellazione improvvisa dei mezzi, la chiusura delle scuole, e così via. Nel riepilogo della giornata, è possibile leggere i post inseriti e visualizzare le storie narrate più vicine al giocatore attraverso una mappa in cui sono stati geolocalizzati tutti i contributi.
CASI STUDIO / 217
6.1.10. FOLDIT Titolo: Foldit Sviluppatore: Università di Washington Tipologia: videogioco online Anno: 2008
Grafo 6.10. Schema della comunicazione sociale basato sul modello del gioco applicato al caso studio “Foldit”, videogioco online sul ripiegamento delle proteine.
218 / IL GIOCO COME MODELLO DI COMUNICAZIONE
Ho voluto riportare questo caso per mostrare come un’abilità che per molti può sembrare banale, l’abilità nel gioco, possa essere invece utilizzata per risolvere problemi molto complessi con una semplicità e un immediatezza sbalorditiva, a dispetto di qualsiasi altro approccio logico. Le proteine sono i mattoni che costituiscono tutta l’attività biologica: tutto ciò che avviene nel nostro corpo è il risultato del lavoro delle proteine. Capire in che modo si ripiegano le proteine e quali forme assumono, potrebbe essere un prezioso contributo per studiare le cause di molte malattie e cercare delle cure più efficaci. Vista l’analogia della forma tridimensionale della proteina con quella di un puzzle molto complesso, gli scienziati hanno intuito che un diverso approccio, più “umano” e creativo, avrebbe potuto portare risultati migliori rispetto a quelli fatti dai tradizionali sistemi di calcolo. Il gioco funziona come una specie di Tetris, con serpentoni geometrici multicolori che riempiono lo schermo. I serpenti geometrici rappresentano tutti i diversi “ingredienti” della proteina. L’obiettivo del gioco è quello di scoprire quali tipi di configurazioni sono più stabili ed efficaci per svolgere compiti diversi, prendendo una proteina non ripiegata e tentando di ripiegarla finché non assume la forma corretta. I giocatori imparano a piegare le proteine allenandosi su rompicapi risolti, cioè sulle proteine che gli scienziati sanno già come ripiegare. Una volta capito il meccanismo, sono invitati a provare a predire la forma di una proteina che gli scienziati non sono ancora riusciti a risolvere o a progettarne una nuova da zero, che i ricercatori possono poi riprodurre in laboratorio. La cosa interessante è che degli attuali 112.700 giocatori iscritti, la maggior parte ha poca o nulla esperienza in campo medico-scientifico. A distanza di pochi anni il gioco ha già portato dei risultati importanti. L’ultimo successo in ordine temporale è la soluzione da parte di un gruppo di giocatori, in sole tre settimane, di un rompicapo con cui i ricercatori erano alle prese da 15 anni: capire la struttura tridimensionale del virus che causa l’Aids. L’obiettivo principale di Foldit è la collaborazione, svolta attraverso un gioco finito, l’intento è infatti quello di risolvere dei rompicapi e vincere la partita, anche se per risolvere completamente tutte le missioni, ovvero tutzti i ripiegamenti, sarà sicuramente necessario un lunghissimo periodo di tempo. É un gioco single-player o multiplayer, in quanto il giocatore può provare a risolvere singolarmente il rompicapo proposto dagli scienziati ma ha più probabilità di successo alleandosi e collaborando con altri giocatori. Tra i fattori del modello di Jakobson quello di maggior rilievo è il messaggio, la partita, perché è attraverso il gioco vero e proprio che il destinatario è inviato a entrare e partecipare alla comunicazione. Come fattore secondario è possibile segnalare le regole in quanto la soluzione dei rompicapi richiede l’analisi sulla struttura stessa del gioco e delle regole che determinano un ripiegamento piuttosto che un’altro. L’esito finale di Foldit è quello di ottenere nuovi modelli di proteina studiabili in laboratorio o tentare di scoprire quelli ancora sconosciuti agli scienziati, pertanto ricade nell’ultima modalità di dialogo, il dialogo di riflessione.
INFORMAZIONE
APPELLO
SENSIBILIZZAZIONE
GIOCO FINITO
SINGLE-PLAYER
EMITTENTE
CANALE
DIALOGO DI INTRATTENIMENTO
COLLABORAZIONE
GIOCO INFINITO
MULTIPLAYER
MESSAGGIO
EDUCAZIONE
COMMUNITY
RIFERIMENTO
DIALOGO DI OTTENIMENTO
REGOLE
DESTINATARIO
DIALOGO DI RIFLESSIONE
CASI STUDIO / 219
220 / IL GIOCO COME MODELLO DI COMUNICAZIONE
Figura 6.47., 6.48. Homepage del sito Foldit e schermata di gioco. Sul sito sono disponibili gli aggiornamenti del gioco, Faq, nuove sfide e contest e un collegamento a un’intera Wiki destinata al progetto. Il gioco consiste nel risolvere complessi rompicapi districando una specie di tetris fatto di serpentoni geometrici che rappresenta la struttura di una proteina. Nel corpo umano ci sono oltre centomila tipi di proteine e ognuna di queste, per svolgere il suo particolare compito, si ripiega assumendo una forma del tutto specifica. Capita talvolta però che le proteine, per un motivo ancora ignoto alla scienza, smettono di ripiegarsi correttamente e assumono forme diverse da quella prestabilita, determinando, secondo gli scienziati, l’insorgenza di malattie come l’Alzheimer, la fibrosi cistica, il cancro, ecc. Capire quindi esattamente in che modo si ripiegano le proteine e quali forme assumono, potrebbe essere un prezioso contributo per studiare le cause delle malattie stesse e cercare in base a queste nuove nozioni delle cure più efficaci. Il problema è che è impossibile fare esclusivamente uso delle potenzialità di calcolo dei computer per svolgere questa ricerca (per provare tutte le combinazioni di una singola proteina il computer impiegherebbe trent’anni), per cui gli scienziati, notando l’analogia della forma tridimensionale della proteina con quella un puzzle hanno intuito che un diverso approccio, più “umano” e creativo, avrebbe potuto portare risultati migliori in minor tempo. Figura 6.49. Pannello di controllo del gioco, che permette al giocatore di interagire con il modello tridimensionale della proteina da risolverne.
Figura 6.50. Pannello di gioco dedicato alle modalità di gioco disponibili: allenamento attraverso puzzle già risolti, risoluzione di puzzle irrisolti, sfida alla risoluzione dei puzzle contro altri giocatori. I giocatori possono anche creare dei gruppi di lavoro e agire insieme su un unico rompicapo.
CASI STUDIO / 221
CONCLUSIONI
CONCLUSIONI
Lo scopo di questo lavoro è quello di proporre un nuovo modo d’intendere la comunicazione sociale, sotto l’ottica del gioco. Questo non vuol dire che il modello da me proposto sia una regola assoluta, ma piuttosto una riflessione sulla potenzialità del gioco all’interno di una disciplina aperta all’innovazione come si aspetta che il design della comunicazione debba essere. Il corretto utilizzo di uno strumento come il modello del gioco da parte del designer, non solo può essere utile in fase metaprogettuale per focalizzare il prodotto comunicativo che ci si appresta a realizzare dal punto di vista delle relazioni che innesta tra i diversi soggetti e fattori in gioco, ma permette di giungere in modo semplice e intuitivo a determinare il linguaggio, o meglio il tipo di dialogo che la comunicazione in oggetto dovrebbe utilizzare per essere più efficace e rispondere in maniera efficiente agli obiettivi richiesti dal tema proposto. Questo modello ovviamente è applicabile a ogni forma comunicativa, ma a mio parere il settore della comunicazione sociale è quello che con maggiore urgenza, ma anche con migliore compatibilità, si presta a questa tesi: ho ampiamente dimostrato che il gioco è inscindibile dal concetto stesso di società e di cultura, pertanto una comunicazione che verte su questi elementi, è quanto di più indicato per accogliere questo tipo di linguaggio tra le varie alternative ad oggi proposte. É importante sottolineare come utilizzare il modello del gioco nella comunicazione non porti necessariamente alla realizzazione di un artefatto divertente (un gioco può essere anche estremamente serio e non necessariamente deve avere la forma fattuale di gioco), quanto piuttosto alla realizzazione di un atto comunicativo fortemente dialogico e relazionale, aspetto essenziale alla base di ogni azione comunicativa volta a informare o approfondire la conoscenza del pubblico attorno a un determinato tema, educare a un maggiore senso sociale e a uno stile di vita più sostenibile, e invitare il destinatario a contribuire anche in prima persona al bene collettivo (anche attraverso la ricerca di soluzioni al problema proposto analizzandolo da altri punti di vista). Un grande limite della comunicazione sociale odierna è quello di far leva su presunti “desideri”, socialmente condivisibili ma nella pratica intangibili e di difficile focalizzazione, che dovrebbero spingere il destinatario ad adottare un comportamento diverso da quello che è considerato negativo per il suo bene e quello della collettività, non considerando il fatto che questo desiderio è per il soggetto tutt’altro che appetibile e il calcolo e la visibilità nel breve periodo dei benefici (personali) è nettamente sbilanciato rispetto ai costi chiesti per attuare il cambiamento. Oltre al modello sbagliato della comunicazione persuasiva su stampo commerciale, la difficoltà in questo caso è data dalla mancata visibilità della connessione tra bene collettivo e bene individuale, che d’altronde, porta a una sbagliata valutazione delle proprie azioni nei confronti degli altri. Attraverso il gioco invece, grazie al suo aspetto sociale, è possibile innanzitutto percepire la dimensione di comunità, quindi mettere in evidenza come l’azione di un singolo ha delle conseguenze sull’intera collettività. Inoltre i giochi permettono di legare un premio cognitivo (che può essere dato dal piacere del gioco stesso o una qualche ricompensa intrinseca o estrinseca), ad un azione sociale, che può fungere non solo da incentivo per svolgere quell’azione ma può essere anche un modo per rendere immediatamente visibile un beneficio CONCLUSIONI / 225
legato all’azione, soprattutto per quelle azioni sociali i cui benefici non possono essere immediatamente visibili nel breve termine e quindi sembrano slegati da quella singola azione (ad esempio gettare una bottiglietta di plastica a terra può sembrare un gesto isolato e poco influente sull’impatto ambientale mondiale ma se si considera che quella singola bottiglietta rimarrà per altri 1000 anni nel suolo, che contaminerà pian piano per il rilascio di sostanze tossiche a seguito della lenta decomposizione, e avrà quasi certamente un qualche impatto negativo sulle popolazioni successive che abiteranno quella zona, allora l’importanza del singolo gesto ha tutto un altro peso). Un’altra criticità emersa durante l’analisi, cui il gioco può contribuire a risolvere, è il dare visibilità alla risposta del problema esposto. Molte volte i temi sono esposti in maniera così catastrofica e negativa che il destinatario, alla vista di questi messaggi, è portato a provare un forte senso di sconforto e di impotenza, insieme alla credenza che per risolverli siano necessarie forze sovraumane. In realtà anche dei piccoli gesti, banalissimi e molto semplici per ciascuno di noi, possono contribuire (se sommati tutti insieme) a dei cambiamenti di grossa portata per cui mettere bene in evidenza una soluzione al problema, che può trattarsi come nei casi studio analizzati, anche solo “spendere” dieci minuti del proprio tempo per un’azione addirittura divertente, può essere la via per invogliare le persone a compiere di buon grado anche quei piccoli gesti che singolarmente contribuiranno a creare qualcosa di molto significativo. É bene ricordare che la comunicazione sociale, trattando temi di interesse comune e riguardano quindi tutti, è più che legittimata a incentivare il dialogo attorno a questi temi in maniera collettiva, anche per dar voce a coloro che difficilmente da soli riescono ad esporre determinate problematiche, magari ristrette ma non per questo meno importanti (come avviene per le molte piccole associazioni nate attorno a problemi si natura medica o ambientale), e proprio il modello dialogico, e quindi del gioco, può permettere la formazione di una rete sociale in cui sia possibile lo scambio di informazioni, domande e risposte tra gli interlocutori e la società. Nel caso specifico dell’Italia questo aspetto dialogico tra mittente e destinatario potrebbe contribuire a sanare l’attuale sfiducia delle persone nei confronti delle istituzioni, avvicinandole ai cittadini e facilitando lo scambio reciproco in funzione di una migliore attenzione delle richieste del popolo. La comunicazione sociale però con il gioco può spingersi ancora oltre, e divenire la base su cui sviluppare strategie collaborative e co-creative per risolvere i grandi problemi della società. Come dimostrano i due ultimi casi studio analizzati, se si forniscono gli strumenti giusti alle persone, queste sono portate volentieri a collaborare in vista di obiettivi comuni considerati epici, proprio per la forte gratificazione che nasce dal sentirsi parte di qualcosa di grande e del poter contribuire, mettendosi in gioco con le proprie capacità, a progetti di importanza globali. Tutto questo è già possibile grazie alle tecnologie e alle nuove piattaforme sociali in grado di aggregare milioni e milioni di persone di ogni provenienza, in un unico “campo di gioco” virtuale. Basta “solo” creare un buon gioco per permettergli di giocare. La mia tesi è stato solo il primo tassello di riflessione sulla potenzialità del gioco e del suo modello applicato alla comunicazione sociale, ma a mio avviso sono molti gli ulteriori sviluppi che una tesi di questo tipo può portare, soprattutto a livello progettuale, che per la sua complessità mi è stato impossibile affrontare singolarmente in questa sede ma che sicuramente potrebbe essere un ottimo spunto per un successivo lavoro. Lascio quindi la prossima mossa a tutti coloro che leggeranno questa tesi. Che il gioco abbia inizio! 226 / IL GIOCO COME MODELLO DI COMUNICAZIONE
SOCIETÀ E COMUNICAZIONE / 227
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230 / IL GIOCO COME MODELLO DI COMUNICAZIONE
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BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA / 233
INDICE DELLE FIGURE
Figura 2.1. Esempio di comunicazione di pubblico servizio: “150° anniversario dell’Unità d’Italia”, Presidenza del Consiglio dei Ministri, 2011. Pag. 33 Figura 2.2. Esempio di comunicazione sociale: “Say no to nuclear energy!”, Greenpeace 2009. Pag. 33 Figura 2.3. Esempio di comunicazione di responsabilità sociale: “Magliette Mondiali di Calcio”, Coop, 2010. Pag. 33 Figura 2.4. Comunicazione di appello al pubblico: “Solidarietà per i malati”, Pubblicità Progresso, 1994. Pag. 34 Figura 2.5. Comunicazione educativa: “Io dissuado”, ANIA (Associazione Nazionale fra la Imprese Assicuratrici), 2009. Pag. 34 Figura 2.6. Comunicazione di sensibilizzazione: “Il 70% della plastica finisce in mare”, WWF, 2011. Pag. 34 Figure 2.7. Comunicazione sociale delle imorese profit oriented: “Se bevi, non guidare”, Alfa Romeo, 2010. Pag. 37 Figura 2.8. Comunicazione sociale delle imorese profit oriented: “Insieme per la vita”, Acqua Lete, 2012. Pag. 37 Figura 2.9. Advocacy: “Sulla sua testa ci sono ancora troppe taglie”, LAV, 2010. Pag. 37 Figura 2.10. Manifesti educativo degli anni ‘50 promosso dall’Enpi sul tema della salute e dell’igiene pubblica. Pag. 39 Figura 2.11. Comunicazione sociale contro il bullismo, promossa dalla Regione Valle d’Aosta, 2007. Pag. 39 Figura 2.12. Nazionale italiana cantanti alla partita del cuore, evento sportivo di beneficienza per la raccolta fondi destinati ad enti non profit. Pag. 40 Figura 2.13. Banco di raccolta fondi tramite merchandising per Emergency. Pag. 40 Figura 2.14. Vendita di gardenie per la raccolta fondi a supporto dell’Associazione Italiana Sclerosi Multipla. Pag. 40 Figura 2.15. Esempio di good corporate citizenship: “Think Blue”, il progetto Volkswagen per promuovere la sostenibilità ambientale. Pag. 43 Figura 2.16. Campagna di cause related marketing:
234 / IL GIOCO COME MODELLO DI COMUNICAZIONE
Ikea e Unicef per la raccolta fondi tramite la vendita di peluches del marchio svedese. Pag. 43 Figura 2.17. Campagna di corporate issue promotion: maratona femminile Avon per la lotta contro il cancro. Pag. 43 Figura 2.18. Prima campagna di Pubblicità Progresso promossa per la donazione di sague, 1970. Pag. 44 Figura 2.19. Mostra itinerante di Pubblicità Progresso sul tema dei bambini soldato in Uganda. Pag. 45 Figure 2.19, 2.20, 2.21. Esempi di tipologie di linguaggio usate nelle campagne di comunicazione sociale. Pagg. 54-57 Figura 2.22 (pagina precedente). Comunicazione sentimentale/commovente/patetica per la raccolta fondi a sostegno delle vittime di Haiti, Unicef, 2010. Pag. 58 Figura 2.23. Spot contro l’uso di sostanze stupefacenti “Se ti droghi, ti spegni. Presidenza del Consiglio dei Ministri, 1991. Pag. 59 Figura 2.24. Campagna aggressivo/accusatoria “Spero che il morbo di Parkinsoncolpisca anche te”, Associazione Italiana Parkinsoniani, 1990. Pag. 60 Figura 2.25. Campagna per l’uso del casco sul motorino “Con il casco c’è più vita”, Ministero dei lavori, 2000. Pag. 62 Figura 2.26 Campagna di prevenzione al contagio del l’AIDS “Fai come zio Gino”, Lila. Pag. 61 Figura 2.27. (pagina precedente). Spot per i giovani contro l’uso di sostanze stupefacenti “Il vero sballo è dire no”, Ministero per gli Affari Sociali, 2001. Pag. 62 Figura 2.28. Manifesto di sensibilizzazione ambientale “Se la natura potesse parlare”, Legambiente, 2006. Pag. 63 Figura 2.29. Spot informativo sul rischio di contagio dell’Aids “Aids, se lo conosci lo eviti”, Ministero ella Salute, 1990. Pag. 64 Figura 2.30. Campagna americana contro l’uso di droga nei giovani, parte del progetto “National Youth Anti-Drug Media Campaign”. Pag. 68 Figura 2.31. Campagna di sensibilizzazione sul tema dell’Aids, Ministero della Salute. Pag. 69
Figura 2.32. Manifesto “Stop Aids”, Lila. Pag. 69 Figura 2.33. Manifesto di sensibilizzazione al rischio di contagio da Hiv, Lila. Pag. 70 Figura 2.34. Guerrilla advertising per sensibilizzare le persone sul problema dello smog ad Hong Kong, Friends of the Earth, 2007. Pag. 80 Figura 2.35. Guerrilla advertising sulla prevenzione sessuale, Segretariato della Salute, Rio Grande do Sul, Brasile, 2008. Pag. 81 Figura 2.36. “Condom Mob” per la lotta all’Aids, Cesvi e Università IULM di Milano, 2009. Pag. 82 Figura 2.37. Mostra “Dialogo nel buio”, Istituto dei Ciechi di Milano, dal 2003. Pag. 82 Figura 2.38. Festival della fotografia etica, Lodi 2010. Pag. 82 Figura 2.39. Terra Futura, Firenze. Pag. 82 Figura 3.1. “Achille e Aiace intenti a un gioco da tavolo”, c. 540-530 a. C., Anfora a figure nere,Città del Vaticano, Musei Vaticani. Pag. 101 Figura 3.2. “Fanciulle in bikini”, 285-305 c.a., mosaico, Piazza Armerina, Villa del Casale. Pag. 101 Figura 3.3. Torneo medievale, tratto dal Codex Manesse, manoscritto miniato, 1305 c.a., Zurigo. Pag. 102 Figura 3.4. Giocatori di Backgammon, lunetta del portico, interno di un’ osteria, XV secolo, Castello d’Issogne, Val d’Aosta. Pag. 103 Figura 3.5. A mosca cieca, da Le chansonnier de Paris, 1280-1315, Montpellier, Museo Atger. Pag. 104 Figura 3.6. François De Troy, Salotto letterario, 1728. Pag. 105 Figura 3.7. Jean-Honoré Fragonard, Mosca cieca, 1760, Toledo, Ohio. Pag. 106 Figura 3.8. Jean-Baptiste-Siméon Chardin, La ragazza col volano, 1741, Firenze, Galleria degli Uffizi. Pag. 107 Figura 3.9. Theophile-Emmanuel Duverger, Gioco
con marionette, 1821-1901, collezione privata. Pag. 108
casione dell’anniversario di quarant’anni di attività. Pag. 151
Figura 3.10. Vignetta del disegnatore satirico Clifford K. Berryman pubblicata sul Washington Post il 16 novembre del 1902. Pag. 110
Figura 5.2., 5.3. Alcuni frame dello spot informativo della Regione Lombardia sul servizio di assistenza telefonica del sistema sanitario lombardo. Pag. 151
Figura 3.11. Ritratto di famiglia con uno dei primi orsacchiotti “Teddy Bear” prodotti all’inizio del 1900. Pag. 110
Figura 5.4. Manifesto della campagna informativa sulle iniziative promosse della Regione Bologna per incrementare il verde urbano e migliorare la qualità dell’aria nella città. Pag. 152
Figura 3.12. Walter Spies, Galli da combattimento, 1927, disegno a carboncino, Bali. Pag. 111 Figura 3.13. Addestratore di galli da combattimento nei pressi di Bali ai giorni d’oggi. Pag. 111 Figura 3.14. Partita di Dungeons and Dragons con miniature e scenari in plastica a supporto. Pag. 112 Figura 4.1. Johan Huizinga. Pag. 120 Figura 4.2. William Bateson. Pag. 123 Figura 4.3. Eugen Fink. Pag. 124 Figura 4.4. Jerome Seymur Bruner. Pag. 129 Figura 4.5. Roger Caillois. Pag. 133 Figura 4.6. Edugame “Nicoland”, sito di giochi educativi per bambini. Pag. 138 Figura 4.7. Serious Game “Ultimate team play”, utilizzato per esercitare il personale della catena di hotel Hilton Garden In. Pag. 138 Figura 4.8. Alternate reality game “CriticalCity Upload”, nato allo scopo di riappropriarsi degli spazi e del proprio ambiente urbano. Pag. 139 Figura 4.9. Edutainment “Magnifica Historia”, mostra guidata/evento teatrale nell’antico e suggestivo Pozzo di San Patrizio ad Orvieto (TR). Pag. 139 Figura 4.10. Personal Page di Green Goose, il gioco che premia le attività quotidiane. Pag. 141 Figura 4.11. Kit di gioco di Green Goose. Pag. 141 Figura 5.1. Manifesti di Pubblicità progresso in oc-
Figura 5.5. Alcuni frame dello spot realizzato dalla Lav per sensibilizzare contro l’abbandono dei cani. Pag. 153 Figura 5.6. Manifesto della campagna promossa dal Ministro delle Pari Opportunità sul tema dell’omofobia. Pag. 154 Figura 5.7. Manifesto della campagna promossa da Ania per sensibilizzare sul tema della sicurezza stradale. Pag. 155 Figura 5.8, 5.9. Locandina e immagini dell’annuale appuntamento con Comieco per educare i bambini al tema del riciclo. Pag. 156 Figura 5.10. Manifesto di appello per la giornata nazionale destinata alla raccolta di farmaco da banco per le pesone più disagiate. Pag. 157 Figura 5.11., 5.12, Frame dello spot e manifesto per promuovere la raccolta fondi a sostegno dei progetti di clownterapia destinati ai bambini in ospedale. Pag. 158 Figura 6.1. Sezione del sito in cui era possibile caricare e votare le domande da rivolgere al presidente. Le domande più popolari sono state poi selezionate e rivolte al Presidente direttamente dai formulatari, il giorno della video-chat. Pag. 184 Figura 6.2., 6.3. Parte del sito del Governo Americano destinato ai propri elettori (www.whitehouse.gov/ petitions) dove è possibile promuovere e firmare delle petizioni da portare all’attenzione del Presidente. Pag. 184 Figura 6.4. Campagna promozionale dell’evento “Hangout with the President”. Pag. 185 Figura 6.5, 6.7. Alcuni momenti dell’evento in cui Obama risponde alle domande dei suoi cittadini dalla Casa Bianca attraverso il canale streaming di Google+. Pag. 185 Figura 6.8. Schermata d’avvio del gioco Food Force. Pag. 188
Figure 6.9, 6.10, 6.11. Immagini tratte dal videogioco relative al filmato introduttivo di spiegazione alla missione de svolgere. Pag. 188 Figura 6.12. Mappa e menù del gioco dove è possibile vedere i processi svolti e i benefici delle proprie missioni sul benessere dei popoli a cui si cerca di offrire aiuto. Pag. 189 Figura 6.13., 6.114, Immagini tratte dal videogioco, nella modalità di costruzione dei villaggi e distribuzione del cibo. Pag. 189 Figura 6.15. Gran parte del gioco ha una visione aerea, in quato il giocatore riveste il ruolo del pilota che deve lanciare, nelle zone prestabilite, gli aiuti umanitari. Pag. 189 Figura 6.15. Homepage del sito Sparked con spiegazione del suo funzionamento. Pag. 192 Figure 6.16., 6.17. Altre schermate del sito dov’è possibile scegliere la causa di proprio interesse. Pag. 193 Figure 6.18. 6.19. Schermate dell’applicazione mobile “The Extraordinaries”, che consente di eseguire azioni di microvolontariato collegate al territorio in cui l’utente si trova al momento dell’accesso. Pag. 193 Figura 6.20. Homepage del sito “FreeRice.com” dove è possibile donare, attraverso un gioco di associazione tra vocaboli e definizioni, dei chicchi di riso virtuali che saranno donati in modo reale dagli sponsor che compaiono all’interno della pagina al Programma Alimentare Mondiale. Pag. 196 Figura 6.21. Funzionamento del gioco “Free Rice”. Pag. 197 Figura 6.22. Schermata di scelta dell’argomento con cui giocare. Pag. 197 Figura 6.23. Distribuzione del riso offerto a Free Rice ad opera del Programma Alimentare Mondiale presso i popoli dei paesi più disagiati. Pag. 197 Figura 6.24. Prima schermata del sito/gioco Spent, che simula le difficoltà delle persone alla soglia della povertà, di arrivare a fine mese. Pag. 200 Figura 6.25. Prima schermata del gioco: il giocatore è disoccupato quindi per sopravvivere, deve scegliere un lavoro tra tre opzioni, ciascuna delle quali ovviamente ha degli aspetti positivi e negativi, come il salario basso o i possibili danni fisici e mentali. Pag. 200
INDICE DELLE FIGURE, DELLE TABELLE E DEI GRAFI / 235
INDICE DELLE TABELLE
Figura 6.26. Schermate tipo del sito/gioco Spent che mostrano i risultati delle scelte effettuate dal giocatore e il motivo per cui vengono fatte spesso anche dalle persone in quella determinata situazione e cosa esse comportano nella realtà. Pag. 201 Figura 6.27. Schermata finale del sito/gioco Spent con l’invito ai giocatori di sostenere i bisognosi attraverso una donazione. Pag. 201 Figure 6.28., 6.29. Schermate del videogioco At-Risk, pensato per i docenti universitari per sensibilizzarli sul tem delle malattie mentali che ogni anno causano un alto numero di decessi tra gli studenti americani. Pag. 204 Figura 6.30. Scheda personale dello studente nel gioco At-Risk. Pag. 205 Figura 6.31. Schermata del gioco dove il docente interroga lo studente circa il suo andamento accademico. Pag. 205 Figura 6.32. Schermata conclusiva del gioco At-Risk. Pag. 205 Figura 6.33. Homepage del sito Recyclebank.com con la spiegazione del suo funzionamento. Pag. 208 Figura 6.34. Sezione del sito dedicata a consigli per uno stile di vita più sostenibile e alcuni giochi per ottenere ulteriori punti extra. Pag. 209
Figura 6.42. Corridoio di collegamento rappresentante l’interno della trachea e dei bronchi nel fumatore. Pag. 213
Tabella 2.1. Strategie di marketing sociale e marketing tradizionale messe a confronto, Fattori Vanoli 2011. Pag. 48
Figura 6.43. Interno del padiglione destinato ad illustrare lo stato e il funzionamento del polmone di un fumatore. Pag. 213
Tabella 2.2. Schema del processo di pianificazione e sviluppo di un progetto nel marketing sociale. Pag. 50
Figura 6.44. Homepage del sito di World Without Oil con la simulazione dell’intero gioco svolto nelle sei settimane. Pag. 216 Figure 6.45., 6.46. Estratti di contributi inseriti dagli sviluppatori e dai giocatori. Pag. 217 Figura 6.47., 6.48. Homepage del sito Foldit e schermata di gioco. Sul sito sono disponibili gli aggiornamenti del gioco, Faq, nuove sfide e contest e un collegamento a un’intera Wiki destinata al progetto. Pag. 220 Figura 6.49. Pannello di controllo del gioco, che permette al giocatore di interagire con il modello tridimensionale della proteina da risolverne. Pag. 220 Figura 6.50. Pannello di gioco dedicato alle modalità di gioco disponibili: allenamento attraverso puzzle già risolti, risoluzione di puzzle irrisolti, sfida alla risoluzione dei puzzle contro altri giocatori. I giocatori possono anche creare dei gruppi di lavoro e agire insieme su un unico rompicapo. Pag. 221
Figura 6.36. Due dipendenti di Recyclebank che mostrano il particolare cassonetto dotato di microchip fornito agli iscritti al progetto. Pag. 209
Figure 6.38., 6.39. Fase iniziale del percorso all’interno della bocca del fumatore, dove è possibile vedere la conseguenza del fumo su denti e gengive. Pag. 212 Figura 6.40. Stanza dedicata a mostrare gli effetti del fumo sul cuore. Pag. 213 Figura 6.41. Padiglione dedicato ai polmoni, che mostra come si presenta all’interno un polmone di una persona sana. Pag. 213
236 / IL GIOCO COME MODELLO DI COMUNICAZIONE
Tabella 4.1. Le strutture relazionali dei giochi secondo Parlebas (fonte Staccioli, 2004). Pag. 132 Tabella 4.2. La suddivisione dei giochi secondo Caillois (fonte Caillois, 1967). Pag. 134 Tabella 5.1. Sintesi del gioco inteso come sfida e delle modalità dell’azione ludica (fonte: Zingale 2009). Pag. 163 Tabella 5.2. I tre tipi di dialogo secondo Bonfantini e Ponzio (1986) (fonte: Zingale 2009). Pag. 165 Tabella 5.4. Tre modalità di rapporto dialogico rispetto al numero di giocatori. Pag. 166 Tabella 5.3. Modello dei fattori e delle funzioni della comunicazione secondo Jakobson (fonte: Bonfantini, Bramate, Zingale 2007). Pag. 167 Tabella 6.1. Struttura del grafo della comunicazione sociale basata sul modello del gioco applicato ai casi studio presi in esame. Pag. 181
Figura 6.35. Sezione del sito dove è possibile visualizzare e convertire i punti in sconti e premi messi a disposizione dalle aziende partner del progetto. Pag. 209
Figura 6.37. Padiglione ospitante la mostra interattiva sensoriale visto dall’esterno. Pag. 212
Tabella 2.3. Schema comportamentale secondo Fattori e Vanoli (2011). Pag. 66
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INDICE DEI GRAFI
Grafo 5.1. Modello della comunicazione dialogica attivo nella comunicazione sociale di carattere informativo da mittente a destinatario. Pag. 171 Grado 5.2. Modello della comunicazione dialogica attivo nella comunicazione sociale di carattere informativo con attenzione sul messaggio. Pag. 171 Grafo 5.3. Modello della comunicazione dialogica attivo nella comunicazione sociale di appello al pubblico. Pag. 172 Grado 5.4. Modello della comunicazione dialogica attivo nella comunicazione sociale di sensibilizzazione. Pag. 172 Grafo 5.5. Modello della comunicazione dialogica attivo nella comunicazione sociale educativa. Pag. 173 Grado 5.6. Modello della comunicazione dialogica attivato nella comunicazione sociale collaborativa. Pag. 173 Grafo 5.7. I cinque obiettivi primari della comunicazione sociale presi in analisi. Pag. 174 Grafo 5.8. Scelta tra gioco finito e non finito. Pag. 175 Grado 5.9. Modalità del gioco in base al numero di giocatori coinvolti. Pag. 175 Grafo 5.10. Modalità del gioco e fattori di Jakobson. Pag. 176
Grafo 6.4. Schema della comunicazione sociale basato sul modello del gioco applicato al caso studio “Free Rice”, sito/gioco per la donazione di riso al Programma Alimentare Mondiale delle Nazioni Unite. Pag. 195 Grafo 6.5. Schema della comunicazione sociale basato sul modello del gioco applicato al caso studio “Spent”, sito/gioco di sensibilizzazione sul tema della povertà. Pag. 199 Grafo 6.6. Schema della comunicazione sociale basato sul modello del gioco applicato al caso studio “AtRisk”, videogioco di sensibilizzazione sul tema della malattia mentale destinato al settore scolastico. Pag. 203 Grafo 6.7. Schema della comunicazione sociale basato sul modello del gioco applicato al caso studio “Recyclebank”, progetto online e offline sull’educazione al riciclo e alla sostenibilità ambientale. Pag. 207 Grafo 6.8. Schema della comunicazione sociale basato sul modello del gioco applicato al caso studio “No smoking be happy”, mostra interattiva sensoriale educativa sugli effetti del fumo nell’organismo. Pag. 211 Grafo 6.9. Schema della comunicazione sociale basato sul modello del gioco applicato al caso studio “World Without Oil”, videogioco di simulazione sugli effetti della carenza di petrolio nello scenario futuro. Pag. 215 Grafo 6.10. Schema della comunicazione sociale basato sul modello del gioco applicato al caso studio “Foldit”, videogioco sul ripiegamento delle proteine. Pag. 219
Grafo 5.11. I tre tipi dialogo ottenibili, secondo lo schema proposto, per una comunicazione sociale basata sul modello del gioco. Pag. 176 Grafo 5.12. Schema di riflessione metaprogettuale sulla comunicazione sociale basata sul modello del gioco. Pag. 177 Grafo 6.1. Schema della comunicazione sociale basato sul modello del gioco applicato al caso studio “Hangout with the President”, la video-chat del Presidente Obama con i suoi cittadini. Pag. 183 Grafo 6.2. Schema della comunicazione sociale basato sul modello del gioco applicato al caso studio “Food Force”, videogioco del Programma Alimentare Mondiale delle Nazioni Unite. Pag. 187 Grafo 6.3. Schema della comunicazione sociale basato sul modello del gioco applicato al caso studio “The Extraordinaries/Sparked”, sito di volontariato online. Pag. 191
INDICE DELLE FIGURE, DELLE TABELLE E DEI GRAFI / 237
RINGRAZIAMENTI
Ed eccomi giunta infine all’ultima pagina della mia tesi, e del mio percorso universitario… Quando qualche anno fa scelsi di intraprendere questa nuova “avventura”, mai avrei potuto immaginare che la mia vita sarebbe tanto cambiata in così poco tempo. Sono stati anni intensi, con qualche imprevisto ma anche tante soddisfazioni, che insieme hanno contribuito a rafforzare il mio carattere e a dimostrare prima di tutto a me stessa, che se davvero lo si vuole, tutto si può superare con tanta forza di volontà. E questa tesi ne è la dimostrazione. Vorrei ringraziare innanzitutto i miei genitori, per aver creduto in me ancora una volta, sostenendo la mia scelta di continuare gli studi e avermi permesso in questo modo di realizzare il mio grande desiderio di concludere la carriera universitaria con questa laurea specialistica. Un immenso ringraziamento va anche al resto della mia famiglia, che mi ha sostenuto e incoraggiato nel mio percorso universitario, ma soprattutto nel mio percorso di vita. Un doveroso e sentito ringraziamento va al prof. Salvatore Zingale, il relatore della mia tesi, per avermi supportata (ma anche sopportata!) in questi mesi di duro lavoro, per la sua continua disponibilità e l’infinita pazienza. Un ringraziamento speciale va inoltre a Nadia, Francesca, Stefania, Silvia e Danilo, gli amici di sempre che nonostante la mia continua latitanza e i chilometri di distanza, mi sono sempre stati vicino e hanno continuato a dimostrarmi il loro affetto e la loro presenza. Un grande ringraziamento anche ai nuovi amici trovati, Giorgia, Serena, Francesca, Dario e tutti gli altri che ho avuto modo di conoscere nel corso di questi anni a Milano e con i quali ho condiviso gioie e dolori, ma soprattutto bellissimi ricordi che porterò sempre con me. Un grazie di cuore a tutti voi.