La mia Cucina di Tullia Ferrero

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LA “CAPPONATA DI NATALE” Ingrediente principale il cappone, un povero gallo privato del suo ‘prestigio’ e messo ad ingrassare. Preferisco pensare che operarlo fosse necessario per limitare le lotte tra rivali nel pollaio. Il cappone diventava grasso e la sua pelle simile a quella di un’oca. In genere, bollito, rende ottimo il brodo e la sua carne è tenera e appetitosa. A me piace moltissimo caldo con salsa maionese oppure salsa verde. Noi facevamo “La capponata”con questi ingredienti. 1.Cappone in brodo(in assenzadi cappone, il petto di un pollo grasso.Di solito al brodo si aggiungeva altra carne a voltequella di maiale, che favoriva la gelatina).Molta di quella carnesi trasformava in ripieno per i cappelletti, che meriterebbero un discorso a parte. 2. Torrone con mandorle tostate (la ricerca del torrone Bedetti, quello della pasticceria di Falconara di fronte alla Stazione. Era mio compito trovarlo, mamma ci teneva molto che fosse proprio quello.Nostalgia degli anni passati in riva all’Adriatico. 3. Melograno, almeno due. I chicchi rosso scuro,mature non troppo, perché colorano tutto il resto. 4. Cavolfiore bianco grande, bollito 5. Olive nere 6. Olive verdi 7. Capperi in salamoia 8. Cetriolini sotto aceto 9. Tonno sott’olio, asciugato 10. Rossid’uovo, almeno dieci 11. In assenza di gallette, cracker salati. Per condire: 12. olio 13. sale 14. aceto La preparazione. I pesi sono a piacere,abbondanti, tanto non si butta niente. Devono essere equilibrati in modo da non prevaricare l’intero risultato con un unico sapore, attenzione ai sottaceti e specialmente ai capperi. Gli ingredienti venivano sistemati in ciotoline, piattini e in successione di sapori: il forte vicino al leggero e via: capperi e tonno, rosso d’uovo e cetriolini, tutti sul grande tavolo della cucina in modo da seguire sempre lo stesso percorso in senso orario. La zuppiera troneggiava lì davanti come un re 5


panciuto di fronte ai suoi sudditi schierati in bell’ordine. Gli ingredienti triturati finemente venivano versati in successione precisa, quasi un rito, in una capace ciotola; terminata la prima serie di tutti gli ingredienti, la si separa dalla seguente con uno strato di cracker umidi e si insaporisce di sale e olio, e si prosegue ad esaurimento del contenuto di una delle ciotole; bagnare di aceto l’ultimo strato. Durante la conservazione in frigo, non più di 4 giorni,se si asciuga troppo, aggiungere olio. La terrina dove si metteva la “capponata” era una zuppiera,un modesto Richard & Ginori con piccoli fiorellini e filature d’oro sui manici e sul coperchio, quelle che si usano per le minestre e per i cappelletti in brodo. Questo procedimento,lungo e noioso era seguito da tutta la famiglia già in casa di mio padre, prima metà dello scorso secolo, con grande divertimento di grandi e bambini. Io ne ho un ricordo quasi da incubo;quando ero bambina,sentivo un’atmosfera tesa come se ci si stesse preparando a sostenere una prova:mia madre diventava nervosa, intrattabile. La bontà del risultato naturalmente dipendeva molto dagli ingredienti, dalla loro qualità e quindi dalle disponibilità economiche del momento. In tempi di ristrettezze la “capponata” era meno ricca, si faceva lo stesso, era un’altra cosa, ma non si saltava mai. A casa di mio nonno, dove abbondavano i graduati, si usavano le gallette militari, che era facile reperire. Quando le gallette, dure come pietre, per ammorbidirsi dovevano stare a lungo immerse nell’acqua,scomparvero dal vitto militare, per anni mia madre avvicinandosi il Natale cercava affannosamente qualcosa che ci si avvicinasse, finché non passammo con disinvoltura ad usare i cracker. I bianchi delle uova sode venivano riempiti con gli avanzi dei sottaceti del tonno e conditi con maionese diventavano un garbato, saporito antipasto:un bel cappero decorava quell’uovo ripieno e ci stava davvero bene su tutto quel giallo. Gli avanzi della “capponata” diventavano “la capponatella”. Si assaggiava, preludio a quella vera, con gran goduria di tutti la sera della vigilia. Senza il cappone naturalmente, escluso dalla vigilia di magro, rispettata quei tempi. Era buonissima anche quella. La sera della vigilia si usava andare a letto presto, niente cenone. Non esisteva Babbo Natale. Eravamo cinque bambini e scrivevamo letterine commoventi, piene di promesse al Bambin Gesù. La giornata dei regali era l’Epifania,il 6 gennaio. Al pranzo del giorno di Natale la “capponata” veniva servita dopo l’arrosto e prima del dolce e diventava sempre oggetto di discussione. Per mio padre era migliore quella dell’anno precedente, mia madre non gli dava retta, sbuffava un po’ e continuava a sorridere. Tanto scompariva dai piatti, tutta, sempre. Era una piccola recita a soggetto e noi ragazzi ci divertivamo a fare pronostici. Io continuo a prepararla ogni Natale e la faccio assaggiare ad amici poco abituati a quei sapori. Strano, ma piace! A farla mi diverto: la cucina diventa un campo di battaglia ben organizzato e alla fine ‘capponata’ e ‘capponatella’ sono un premio da portare al pranzo di Natale, ancora dentro quella zuppiera. Tengo tutta per me la ‘capponatella’ che centellino nei giorni seguenti. Certo intorno al tavolo non siamo più gli stessi, ma mi consola il ricordo di quella passata felicità, di quei momenti con tutta la famiglia e mi sembra di aver fatto una cosa buona. 6


IL CASATIELLO “Colonnello non si comprometta!” Una frase che papà diceva sempre quando arrivava dalla casa dei nonni con in braccio il fatidico ‘casatiello’ natalizio. Una ciambella di colore brunito, a volte un po’ bruciacchiata, che aveva impressi sulla superficie le iniziali dei nostri nomi, tutti, fatti con un rotolino della pasta. Una caratteristica che non riesco a dimenticare di quel dolce era la sua durezza. Papà era affezionato non osava denigrarlo, e siccome era spiritoso, usava l’ironia. La battuta era in un libro di Achille Campanile, c’era anche un’illustrazione: un ufficiale in divisa di gala, sciabola sfoderata, si ergeva in piedi tra gli sguardi orripilati degli astanti. Una cena di altri tempi, una tavola imbandita, invitati eleganti. Il colonnello, dopo molti tentativi falliti con i coltelli di casa, estrae la spada d’ordinanza e taglia, in piedi su una sedia il dolce, stremato dopo molti attacchi inefficaci, davanti a una tifoseria di invitati. Anche quando vivevamo a Falconara, bambini, aspettavamo il dolce dei nonni. Era una tradizione, lo accettavamo ed era ottimo per la colazione del mattino col latte e caffè caldo. La ricetta dell’omonimo“Casatiello”, quello napoletano,che per tradizione si fa a Pasqua è un’altra cosa Il nome deriva dal latino caseus/formaggio. E’ un pastiche di ogni ben di Dio, saporito,adatto per tutte le feste. Perché a casa di papà gli avessero dato quel nome, rimarrà per sempre un mistero, nascosto nelle pieghe di un’origine della famiglia un po’ partenopea. Ioho fatto qualche brutta figura con amici napoletani convinta che il nostro fosse quel dolce. Il “casatiello dei nonni” era composto da: farina, latte, zucchero, uova, un po’ di vaniglia, lievito. A Roma l’avrebbero chiamato ‘ciambellone’ (che poi è tutt’altra cosa), però casatiello è già di per sé un nome piacevole, tenero,che dà l’acquolina in bocca. Nella mia famiglia c’è ancora qualcuno che,seguendo la tradizione, continua a fare casatielli per tutti. Non mi dispiace riceverlo a Natale con l’iniziale del mio nome scritto sopra, insieme a tutti gli altri, anche se qualcuno non c’è più. Lo aspetto ogni anno ma non ho mai osato farlo.

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LA GALANTINA DI POLLO con gelatina. La “Galantina” è un piatto della tradizione umbromarchigiana. Troverete altre centinaia di ricette, di questo piatto, ma questa è unica. Mamma da brava “marchigiana”amava questo piatto che per lei era una ‘sfida’. Io credo che eccitasse il suo lato creativo, un po’ nascosto. Doveva essere tutto perfetto. Andava alla ricerca degli ingredienti con meticolosità. Seguiva la ricetta del magnifico libro “Il Talismano della felicità” di Ada Boni, il suo era l’edizione del 1929. Quel libro era presente, come un vangelo, in tutte le cucine italiane. Gli ingredienti dovevano essere di ottima qualità e finiva per essere un piatto costoso, ma aveva la sua ragione di essere nello sguardo orgoglioso di papà. A questo piatto sono dedicate più di due pagine nel libro di Ada Boni al capitolo: “Piatti freddi e insalate”. L’autrice ci tiene a dire che la galantina di pollo ha un ingrediente non trascurabile: la fede nel risultato. Gli ingredienti si dividono in due parti, la farcia interna composta da una dadolata di pollo, lingua salmistrata, tartufo nero, prosciutto crudo, pistacchi sgusciati e spellati messi a insaporire e ammorbidire nel marsala secco. La seconda parte è composta di pollo, vitello, un po’ di maiale tritati finemente e lardo sbiancato anche quello fatto a dadini. Comporre il tutto richiede abilità, una perizia cresciuta dall’esperienza fatta in cucina tutti i giorni dalle ‘cuoche’ italiane. La pelle del cappone, bruciacchiato sulla viva fiamma per togliere gli ultimi residui di piume, viene staccata prima della bollitura.Questa è già un’operazione difficile, non verrà via intera, mai. Se va bene si riesce ad avere intere solo alcune parti e per compattarlo, si usa ago e filo, quello per imbastire che è più leggero e morbido, come per un rammendo. Aiutavo mamma in questa difficile operazione, preparavo l’ago con il filo. Come per la capponata il grande tavolo da cucina veniva sgomberato e occupato da tutti gli ingredienti. Le diverse carni bollite nella pentola, la più grande della casa, con gli odori di prammatica: sedano, cipolla steccata con chiodo di garofano, carota due foglie di alloro. La pelle del cappone veniva distesa su un canovaccio pulitissimo (sembrava un tavolo anatomico) e l’impasto di carne varia macinata, con la dadolata, i pistacchi e il lardo sbiancato venivano impastati insieme. Mamma bagnava le mani nude nel marsala che la sciava il suo profumo tutto intorno. Diventava un bel salame ciccione da avvolgere nella pelle, che avrebbe trasmesso al salsiccione tutto il suo grasso rendendolo gelatinoso. La stessa pentola che aveva ospitato il brodo con le carni adesso ospitava la “galantina”, avvolta in un panno candido legato ai due capi. Sembrava una gigantesca caramella, legata con lo spago come si fa per un salame. Si metteva il tutto sul fuoco con acqua fredda fino all’ebollizione lenta e lunga. Si tirava fuori dal brodo e si lasciava scolare sul tagliere di legno con un peso sopra, di solito un piatto lungo, ovale sempre lo stesso, con sopra il vecchio ferro da stiro di ghisa. 8


Quello che per scaldarsi veniva appoggiato sul ripiano della stufa a legna. L’ho rivisto in giro nei mercatini spesso trasformato in press-papier, o usato come ferma porta. La galantina restava al freddo per un’intera giornata. La ghiacciaia di casa era troppo piccola per contenere quel piatto e a nostra stanza da pranzo infrequentabile, nei mesi freddi, per il gelo che vi regnava, diventava una ghiacciaia naturale. Abbiamo vissuto in una grande casa fresca d’estate e gelida d’inverno, e siamo sopravvissuti. Guardavo il brodo rimasto che si raffreddava, e formava uno strato giallo di grasso pesante. Mi sembrava che stessero avvenendo dei complessi processi chimici e che quelle due, in cucina, mamma e tata si trasformassero in due terribili fattucchiere. La gelatina si stava formando proprio sotto quello strato di grasso. Stare in cucina in loro compagnia mi piaceva, era emozionante, a volte stavo lì a guardarle e non sapevo che fare, ero quasi un intralcio al loro impegno. Ancora oggi quando cucino, in solitudine le ricordo Un’operazione delicata era quella di filtrare il brodo e sbiancarlo. Un’altra misteriosa trasformazione. Si usavano chiare d’uovo e un po’ di vecchio marsala secco. Ada Boni suggerisce un metodo davvero stravagante: “… rovesciate una sedia, legate uno strofinaccio agli estremi delle quattro zampe, come il fazzoletto di un mietitore. Sotto mettete una terrina capiente e eccolo qua il filtro per raccogliere il brodo in purezza”. Adesso esistono setacci a imbuto perfetti per quell’operazione. Del suo libro, nel tempo si sono susseguite molte edizioni, ma io conservo ancora quella di mamma, ben rilegata e consumata. Qui dentro ritrovo le sue ‘tracce’, in molti segni, che riconosco. Quel brodo filtrato si lascia al freddo e, come per miracolo, diventa un bel blocco trasparente e tremolante. Verrà tagliato delicatamente, con un coltello umido, formando una dadolata di bei cubetti trasparenti e saporiti che finiscono intorno alla galantina tagliata a fette: i colori, rosa, bianco e verde e nero, formano una specie di mosaico. Tutti alla ricerca del pistacchio o del tartufo. La ‘galantina’ veniva servita con la gelatina guarnita da qualche cetriolino. Indimenticabile, lasciava in bocca il sapore di una dolcezza delicata. Aveva ragione lei,Ada,‘… se non ci credi non vale la pena neanche di cominciare’. Un lavoro lungo, preciso e attento, ma il risultato ti ricompensa. Oggi io faccio polpettoni, saporiti, ma sempre polpettoni sono. Che emozione, a volte,quando scopro, dopo averlo raffreddato e spogliato dell’involucro, uno strato di gelatina. Ormai non adopero più il candido canovaccio, uso pellicola trasparente e carta forno. Giuro che questo ricordo mi fa venire voglia di farla, quella galantina, anche perché trovo facilmente tutto il necessario e dove abito, c’è un macellaio appassionato che conosce le carni e apprezza una cucina vera. Mi ricorda tanto“Franco & Vincenzo”, indimenticabili, che passo a salutare, nella loro‘boutique di carni’, al grande Mercato coperto di Trionfale. 9


IL MONTE BIANCO, la mia torta preferita In prossimità dei compleanni avevamo il previlegio di ordinare il menu, non tutto, ma la torta sì. Quella che preferivamo era il ‘Monte Bianco’. Non sapevamo chein pasticceria si tratta di qualcosa di molto diverso. Il vero “Mont Blanc” è fatto di purè di marroni, meringhe e panna. Qualcuno dei miei fratelli deve averla chiamata così a prima vista, guardando quella cupola coperta di panna. La nostra ricetta:  Savoiardi veri, leggeri (consiglio quelli piemontesi o pugliesi)  Caffè, marsala secco  Burro, zucchero, uova fresche. Una terrina da insalata che rivoltata darà alla tortala forma di cupola. Ho imparato a foderarla con pellicola per alimenti che si appiccica alle pareti leggermente bagnate; la pellicola sporgente servirà per coprire la parte superiore. Sarà molto facile rovesciarla senza lasciare nessun pezzetto della torta lì dentro. Anche se fosse, volontari per ripulire se ne trovano. Bagnate i savoiardi nel caffè unito al marsala, non troppo se no si distruggono disponeteli sul fondo e sulle sula pareti del contenitore. Preparate la crema di burro, quando la faccio, mi baso sui ricordi, faccio 3 + 3+ 3. 3 etti di zucchero fino, in polvere, 3 etti di burro (sostituibile con una buona margarina o surrogato vegetale: purtroppo non è la stessa cosa), 3 rossi d’uovo. Un bicchierino di rhum, il caffè della bagna dei savoiardi. Si faceva tutto a mano, adesso con una planetaria (grazie Kenwood!) non serve tutta quella fatica. Seduta su una sedia, un braccio intorno alla terrina (oggi la dovrei chiamare ‘bastardella’), l’altro con un cucchiaio di legno stretto nella mano. A turno battevamo il burro aggiungendo lo zucchero, le uova,il liquore, il caffè sotto lo sguardo vigile di Tata. Chi aveva contribuito alla fatica si meritava il cucchiaio o la terrina da leccare. E che goduria per il fortunato! La crema va stesa tra gli strati dei savoiardi umidi messi fino all’esaurimento dello spazio In frigorifero almeno una notte. Al momento di servirla si rovesciava sul piatto di portata e già era bellissima, una specie di igloo di colore marrone scuro e chiaro, profumata di marsala, e si ricopriva di panna montata. Basta! Unica. Impossibile scambiarlo con il “tiramisù”.

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PATATE ALLA SAVOIARDA Il nome, credevo l’avessero inventato in casa, come fosse un omaggio alla regione di origine della famiglia di papà, non sapevo nulla della cucina casalinga piemontese. Si tratta di un piatto appetitoso la cui materia prima consiste nelle patate. Un sacchetto di patate è sempre presente nella mia dispensa. In periodi di dieta, quando invecchiano troppo, fanno delle piccole radici bianche delicate, è il segno che bisogna usarle. Ingredienti:  Patate 1 kg. Bollite, togliere a metà cottura, un po’ durette.  Un formaggio saporito, emmenthal, provolone, niente mozzarelle: siamo in Piemonte!  Burro, salato è meglio  Un bicchiere di latte, o panna  Sale, pepe Le patate vanno tagliate a fette da un centimetro e poste a file sul fondo della pirofila ben imburrata, le più piccole vengono tenute per riempire eventuali vuoti. Tra uno strato e l’altro si distribuisce il formaggio a pezzetti. A copertura burro ancora formaggio, e sopra il tutto tanto parmigiano grattugiato, che si colorerà e diventerà succulento. Forno a 180/200° per un minimo di 40 minuti. Le patate sono una grazia del creato. Arrivarono dal Sudamerica, precisamente dal Perù, erano il cibo degli Incas e furono introdotte in Europa intorno alla metà del XVI secolo. Il sig. Parmentier, farmacista e agronomo francese,convinto della grande utilità e salubrità della patata, dovette combattere per diffonderne la coltivazione e l’utilizzo alimentare. Aveva ragione lui, la patata divenne l’alimento fondamentale delle classi umili in gran parte dell’Europa centrale e settentrionale, soppiantando in parte i cereali. Su Parmentier giravano molte storielle e vignette divertenti, anche Achille Campanile, rieccolo!, quello che ha scritto “Gli asparagi e l’immortalità dell’anima”, ha dedicato un raccontino a Parmentier, “Le patate e re Luigi XVI”. Ce ne sarebbero di storie da raccontare, sulle patate!

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‘IL GATEAU di patate”, con un occhio al “ Gattò napoletano “ “… non si deve buttare niente”. Questa era la filosofia di casa nostra. C’era stato un pranzo ricco e erano rimasti avanzi di salume, di carne e formaggio. Si faceva il“gateau di patate”. Un nome elegante. Ci permettevamo molte licenze rispetto alla ricetta tradizionale: si usava solo quel che c’era. Le patate, quelle, c’erano sempre. 1,5 kg di patate lessate e passate al passapatate 200 gr di scamorza affumicata (ma va benissimo anche della mozzarella o un qualsiasi formaggio a pasta filata), avanzi di altro formaggio. 200 gr di salame, o mortadella e prosciutto cotto. 2 uova. 50 gr di parmigiano grattugiato. 50 gr di burro. Sale, pepe e noce moscata q.b. Latte e pangrattato per la copertura Forno 220°/180° alla fine. Una cottura lunga I pesi riportati sono quelli di una ricetta conclamata dalla Cucina ufficiale; noi non badavamo troppo alle quantità. Il risultato era comunque una torta compatta che mostra al taglio i colori degli ingredienti. Un piatto forte e calorico, appetitoso. Ottimo anche freddo, per un picnic o un improvviso appetito notturno. Accendete il forno, prendete un’ampia teglia e foderatela con burro e pangrattato, che si trasformerà in una croccante gratinatura. Impastate le patate con tutti gli ingredienti aggiungendo: il sale, il pepe e la noce moscata, il rosso delle uova. Aggiungete latte, se serve. Amalgamate il tutto e spianatelo nella teglia pronta. Aggiungete a copertura fiocchetti di burro, ancora un po’ di latte,il pangrattato e il parmigiano grattugiato. Infornate e attendete finché la superficie diventerà di colore scuro. Tagliatelo in forma di piccoli cubi e servitelo caldo. Sarebbe bello scrivere un libro tutto dedicato alla “patata”, sono certa che qualcuno l’ha già fatto. (… mi sto ripetendo?) 12


IL FLAN DI SPINACI In casa c’era un vecchio stampo, io lo conservo ma non lo uso, è ormai di colore grigio scuro, e consumato dal tempo. Oggi l’offerta in materia di stampi è infinita: si trovano forme e materiali diversi per rendere più facile e veloce il lavoro. Rotondo,scanalato,un pozzo centrale e un gancio che permetteva di appenderlo al muro o a una rastrelliera, come si usava un tempo. Il fondo aveva la sagoma di petali, quando lo giravi, il contenuto si mostrava come una scultura,tanti morbidi monticelli in successione. Ingredienti: Spinaci puliti e lessati, in un sottile strato di acqua, si riducono di volume dopo la cottura, ne servono almeno 1 kg, 2 uova intere, pangrattato, parmigiano abbondante, burro. Sale, pepe, noce moscata grattugiata, poco latte se serve. Imburrate lo stampo e rivestitelocon pangrattato. Perché aderisca bene girate tra le mani lo stampo, battete sulle pareti e rovesciate eliminando il superfluo. Potete recuperarlo. Gli spinaci lavati vanno triturati finemente e privati dell’acqua che continuano a produrre. Un tempo si passavano al tagliere con la mezzaluna, un lavoro noioso. Adesso basta un giro di robot/frullatore. Io faccio metà interi e metà tritati, non è nella tradizione: mi piace sentire la consistenza della verdura, mia madre non approverebbe. Preparate l’impasto con tutti gli ingredienti, aggiungendo un po’ di pangrattato all’interno. Collocate lo stampo in forno dentro una teglia più grande con il fondo coperto di acqua. Una cottura, come si dice ‘a bagnomaria’, il bollore farà evaporare i residui di liquidi all’interno del flan così che alla fine avrà la consistenza giusta, morbido ma non troppo, per essere tagliato. E’ un piatto raffinato che si presenta molto elegante. Il foro centrale si può riempire di piccole polpette di carne al sugo di pomodoro, e per quelli realizzati con stampi senza ‘pozzo’ una colata di crema di formaggio, per esempio taleggio. Quello che si faceva a casa mia era corredato, sempre, da polpettine al sugo e costituiva un secondo piatto completo. E anche quelli che odiavano le verdure lo gradivano. Il “flan” è una parola di origine germanica che indica proprio una pietanza come quella descritta, in italiano si dovrebbe dire “flano”, io non ho mai sentito chiamarlo così.

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INSALATA RUSSA Quando arrivò in Italia, la così detta “insalata russa”, cambiò aspetto ed ingredienti, tanto che in Russia oggi la chiamano “insalata italiana”. Comunque il senso del titolo significa miscuglio, confusione, tutto insieme, come le apparecchiature di certi buffet al giorno d’oggi. Quella che si faceva a casa e che io continuo a fare, con gran godimento da parte dei miei amici, è quella di verdure, uova e maionese. Eccola qui. Gli ingredienti: Patate tagliate a cubetti Piselli primavera Fagiolini teneri Cime di cavolfiore bianco Carote Cetriolini sotto aceto Capperi dissalati Uova sode, solo il rosso Sale olio e pepe Maionese, meglio se fatta in casa. Sbollentate in acqua salata i primi cinque ingredienti, levateli al dente, io li lesso uno di seguito all’altro nella stessa acqua. Lessate le uova, lasciatele freddare e tagliatele a spicchi. Prendete una ciotola e rivestitela di pellicola. Non è un’operazione complessa, passate la mano bagnata sulle pareti della ciotola e vedrete che la pellicola un po’ ribelle si attaccherà ubbidiente. Io uso uno stampo di vetro per budini, con le scanalature. Condite e mescolate, aggiungete sale, pepe e la maionese. Fatela abbondante servirà ai ghiotti che vorranno aggiungerla sul piatto. Io appoggio sulle pareti, in corrispondenza delle scanalature,i quarti di uova lesse col bianco che guarda all’esterno, così faccio anche per il fondo, mettendoli a raggera, saranno una bella decorazione. Battete un poco la ciotola sul tavolo in modo che il tutto aderisca e si compatti bene, poi coprite con pellicola e tenetela in frigo almeno una notte. Al momento di servire rovesciatela sul piatto di portata e decoratela con qualche cetriolino o cipollina sotto aceto, con altra maionese servita a parte.

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I BIGNÈ DI MAMMA Mamma quando si è sposata non sapeva cucinare, non avrebbe saputo da dove cominciare. Esistono pagine di diario, tenuto da papà, sui suoi primi esperimenti in cucina, un vero disastro. Lui ci rideva sopra e lei perseverò. Con l’aiuto di Marianna, la nostra Tata, e il “Talismano della felicità” fece pratica e dopo molti errori arrivò a dei risultati. Da autodidatta era ambiziosa, non si accontentava di ricette semplici, quelle di tutti i giorni, voleva praticare l’alta cucina. Quindi sceglieva piatti complicati che richiedevano esperienza e a volte ci riusciva. Non c’erano gli strumenti tecnici professionali che abbiamo oggi né i cuochi che ti dicono cosa fare attraverso la tv. Si era messa in testa che voleva fare i bignè ripieni di crema. La cucina fu impraticabile per due giorni. Alla fine i bignè ci furono un po’ scalcagnati, ma qualcuno era davvero perfetto, piccolo, come li voleva lei. L’impasto, lo prendo dal Talismano di Ada Boni, che li chiama “Le bignè”. Gli ingredienti: Acqua, un quarto di litro 4 uova intiere (Lei dice così ) 50 grammi di burro, 150 grammi di farina, un pizzico di sale, un cucchiaino di zucchero in polvere. Una casseruola sul fuoco con dentro acqua burro e sale, quando bolle, toglietela dal calore e aggiungete tutta in una volta la farina. Rimestate con un cucchiaio di legno e si formerà un impasto compatto, rimettetela sul fuoco e continuate a lavorare quella strana palla che si staccherà dal cucchiaio e dalle pareti della casseruola, farà un rumore, una specie di sfrigolio, allora toglietela dal fuoco e lasciatela riposare, raffreddare. Aggiungete uno alla volta le uova, senza fretta, aspettate che uno si sia amalgamato prima di aggiungere il successivo. Il risultato è quella che in Pasticceria viene chiamata “pasta à choux”, che significa cavolo è una parola tenerissima con cui chiamare il proprio amore: “Mon petit choux”. Già capite che la concentrazione e l’attenzione sono indispensabili. Lei lo faceva con amore e certe attitudini non le mancavano. Accendete il forno. Preparate una teglia piatta, ormai non imburro più, uso carta da forno sottile. Disponete l’impasto a mucchietti aiutandovi con due cucchiai, così si faceva allora, adesso con un “sac à poche” il lavoro 15


diventa più veloce e non si sporca dappertutto. Com’erano buone quelle gocce dell’impasto, sparse nelle teglie un po’ dappertutto. L’operazione cottura è delicata, impegnativa più di quella per il “soufflé”. In cottura non devono ricevere aria esterna, quindi non si può sbirciare, meglio un forno con lo sportello con il vetro e la luce dentro, pertirarli fuori al momento giusto. Croccanti all’esterno, morbidi e vuoti all’interno. Per saggiare il forno provate con una cottura preliminare: una striscia di pasta nel forno caldo, prendete i tempi e segnate la temperatura giusta. Preparate una bella crema, oppure zabaione o cioccolato e preparate la sacca. Quando i bignè saranno freddi, prendeteli uno per uno,fate prima un buco con la punta della sacca sul fondo e introducete la crema. Una goccia della stessa crema sulla punta e il gioco è fatto, sembrano quelli della pasticceria. Io,lo confesso, sono riuscita a fare dei bignè decenti soltanto dopo molti tentativi falliti. IL POLLO ARROSTO CON PATATE Zio Benedetto era un cugino di papà, uno dei pochi della sua famiglia che venisse a trovarci. L’annuncio del suo arrivo veniva dato a gran voce da uno di noi che stava di vedetta. Lo vedevamo comparire in fondo alla stradina, un po’ curvo, vestito di tutto punto, il cappello e il cappotto tutto grigio scuro. Abitavamo in periferia e lui arrivava con l’autobus, in una mano una cartella da scuola, di pelle con le due fibbie e nell’altra o un cabaret con le paste o un fiasco, quelli rivestiti di paglia, di vino dei Castelli. I miei fratelli andavano a nascondersi, papà gli andava incontro festoso. Fin dalla nascita aveva avuto la vista debole; una tara familiare. La mamma, Paolina, sorella di mia nonna, aveva sposato giovanissima un suo zio, molto più vecchio, Avevano dovuto chiedere una dispensa papale, cose d’altri tempi! Era il più piccolo dei tre figli e si era laureato in Lettere antiche. La vista lo penalizzò per tutta la vita tanto che si dovette accontentare di un posto in un liceo parificato, dove veniva mal pagato.Per noi era un buffo personaggio, ogni volta pretendeva di farci lezione di latino, di correggere i nostri compiti. Diceva: “…sei proprio un ciuccio… “. Intendeva “somaro”, era di una monotonia disarmante. Ci raccontava sempre gli stessi aneddoti su personaggi storici e le loro frasi immortali. Le sapevamo a memoria. 16


Cercavamo di comportarci con lui in modo educato, ma ridevamo di questo professore. Mamma lo tollerava, come fosse un’opera buona da fare, e poi perché papà voleva così. Ci mettevamo a tavola tutti insieme ed era spiritoso quando raccontava dei suoi pranzi in trattoria, sempre la stessa da sempre, e della scarsità delle porzioni che gli venivano rifilate, di come la carne o il pesce stavano sempre nascoste sotto una foglia di insalata. Aveva il senso dell’ironia: come avrebbe sopportato quella vita da quasi cieco se no? Negli ultimi anni viveva al buio, le finestre serrate, le lampadine quasi spente. Un’atmosfera incredibile. Andavamo con papà a trovarlo in quella grande casa vuota. Se aprivi le persiane, non si arrabbiava, ma poi le richiudeva. Forse aveva acquistato una vista interiore. Ti parlava stando a dieci centimetri dal viso e quando mangiava, il naso quasi toccava il cibo. Amava il pollo arrosto con le patate e Tata lo cucinava apposta per lui. La sua prima visita, infatti, era nella cucina per salutare Marianna, diceva lui, ma era per accertarsi che ci fosse la sua pietanza preferita.Tutti gli volevano bene, anche noi alla fine gli eravamo affezionati, e anche se, quando non venne più a trovarci fu una liberazione, ci sentimmo un poco malinconici e colpevoli. La mia ricetta Prendete un bel pollo grassoccio, pulitelo della testa, lasciate un po’ di collo, togliete le zampe e passatelo alla fiamma viva per togliere la peluria che resta sempre dopo averlo spennato. Ungetelo e inserite all’interno il sale, un rametto di rosmarino e un limone su cui avrete fatto qualche taglio, così la cane del pollo si addolcisce e ammorbidisce. A parte prendete le patate, ne serviranno almeno cinque. Sbucciatele, lavatele e asciugatele dentro un canovaccio. Tagliatele a fette, a spicchi a tocchi, tocchetti, come preferite. Conditele con olio, sale, pepe, aglio e rosmarino, giratele con le mani e disponetele intorno al pollo, che avrete appoggiato in una teglia non troppo pesante. La cottura deve essere controllata più volte. Alla fine il pennuto si presenta trionfante, la pelle è diventata una crosta dorata e le patate facevano tutte intorno, un po’ bruciacchiate sulle punte sporgenti, una macchia di colore. Quando era inverno, c’era in cucina una stufa economica a legna e il pollo, che cuoceva lentamente, aveva proprio un sapore diverso. Servitelo intero, in bellezza, su un piatto di portata e tagliatelo in tavola, ognuno potrà, con discrezione, scegliere la parte che più gli piace. La forbice trinciapollo aiuterà la separazione delle parti. Quella forbice nera, forse di ghisa, pesante con le punte corte e ricurve come un becco d’aquila stava nascosta in fondo al cassetto delle posate. Quelle domeniche appartengono alla mia adolescenza. Erano una festa, c’era la messa, il catechismo, gli amici e il pranzo era il clou. Eravamo otto, più lo zio nove,ed era una bella tavolata. Ancora oggi continuo a cucinare il “pollo arrosto con patate”, sempre di domenica,lo condivido con mio fratello e sua moglie. C’è in questo,oltre alla voglia di fare qualcosa di buono,rivivere un pizzico di saporito passato. 17


LA SALSA VERDE e il tagliere di legno Nel giardino di casa c’è sempre stata una parte dedicata all’orto, ricco o spoglio che fosse c’era sempre un’aiuola di erbe per la cucina. Già dalla mattina presto, il bollito stava sul fuoco, nel grande pentolone e bisognava preparare la “Salsa verde” per accompagnarlo. “… mi vai a prendere un mazzo di prezzemolo, per piacere”.Mi piaceva tagliare quell’erba verdissima che cresceva e ricresceva. La salsa non è complicata, solo un poco laboriosa. In cucina per un buon risultato meglio stare attenti e curare le cose che sembrano semplici. Ingredienti Prezzemolo abbondante Sale poco, olio Acciughe Pane raffermo, bagnato nell’aceto di vino Una manciata di capperi, uno spicchio d’aglio. Il tagliere di legno stava appeso al muro vicino al fuoco. Un bel rettangolo di legno chiaro alto 2 o 3 centimetri. Adesso uso un grande tagliere di materiale sintetico, fissato al piano di lavoro Quello di legno veniva appoggiato su di un canovaccio ripiegato, che attutiva i colpi del coltello o della mezzaluna e gli impediva di muoversi. L’aglio, coi capperi e le acciughe sotto sale,private della lisca e lavate per togliere il sale si sminuzzavano per primi e si aggiungeva al prezzemolo. Il grande mazzo verde sotto i colpi taglienti si frantumava, perdeva liquido e diventava scuro, allora si aggiungeva il pane bagnato dopo averlo strizzato ben bene. Dal tagliere, gli ingredienti pronti, venivano raccolti e amalgamati in una capace salsiera, poi battuti col cucchiaio di legno, aggiungendo l’olio. La salsa prendeva un po’ d’aria e diventava morbida, profumata e di un bel colore verde scuro con puntini bianchi e neri. Oggi certamente è più facile con un “minipimer”: è diventata un’operazione veloce e si può fare la salsa anche all’ultimo momento. Il fortunato che passava dalla cucina, mai a caso, veniva omaggiato di un assaggio su un pezzo di pane abbrustolito sulla piastra del fuoco. La salsa verde era servita con la carne del bollito, ancora caldo insieme alle patate lessate intere. Era spontaneo, inevitabile fare con la forchetta un piccolo purè di patate e aggiungere la salsa verde, un piatto nel piatto. Alla fine restava da pulire il tagliere che, con il tempo e l’uso, presentava ormai al centro una specie di avvallamento, dove restava sempre qualcosa di verde.

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LA PASTA AL PREZZEMOLO DI ADRIANA Ingredienti Un bel mazzetto di prezzemolo Aglio tritato fino Olio extravergine d’oliva Un dato da brodo E’ Adriana, mia amica da sempre,che prepara questo condimento per la pasta: una saporita variante della solita “aglio e olio”. Mentre l’acqua bolle con la sua pasta, spaghettini o trenette, soffriggete prezzemolo e aglio per pochi minuti, tre bastano, per amalgamare i sapori. Aggiungete un dado da brodo, vegetale o di carne, lasciate che si sciolga completamente, aggiungendo un poco d’acqua. La salsina cambierà colore, da verde in marroncino, non vi preoccupate. Versatela sulla pasta, cotta al dente e aggiungete parmigiano grattugiato. Un sapore inaspettato. Lei nella sua ospitalissima casa la prepara spesso a richiesta degli amici ed io sono fra questi fortunati.

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LA PASTIERA NAPOLETANA, la ricetta di mia sorella Claudia

Scritta a mano da Claudia e conservata dentro il“Talismano della felicità”. La faceva lei “la Pastiera”, da questa ricetta. Non sapevamo nulla di pastiere e specialmente di quelle napoletane: mia sorella aveva un’amica di Napoli e si fece dettare la ricetta. Così la “Pastiera napoletane” (così scrive assecondando un accento, forse) divenne un dolce di casa. Un dolce ricco, la ricotta, il grano, il cedro, tutte quelle uova, lo zucchero, mia madre inorridiva e non vi dico la Tata che era una friulana parsimoniosa. Era una torta diversa dalle altre e piaceva. La ricetta non la scrivo, tanto sta nei foglietti scritti a mano da Claudia, che in realtà, non aveva tanta voglia di cucinare, nemmeno ti aiutava, ma quando ci si metteva, tirava fuori una grinta da cuoca.

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IL PAN PEPATO ROMANO, la ricetta della Signora Teresa. Dopo quaranta anni ho ritrovato una mia compagna di liceo,è stato come se il tempo per noi non fosse passato. Avevamo vissuto vite separate, non lontane. Adesso ci frequentiamocon piacere e con quell’affettuosa confidenza che si ha solo per certi amici, quelli di sempre. Abbiamo molte cose in comune che non sto a dire, ma una di queste è la cucina. Donatella, è Romana e per variare la tradizione dei regali di Natale per parenti e amici,e pensando di fare un omaggio alla sua mamma Teresa,decisedi realizzare il “pan pepato” per tutti, lo facemmo insieme. Sono ormai tre anni che a metà dicembre ci organizziamo per farlo e grazie alla ricetta di Teresa e ai ricordi di Donatella viene sempre meglio ed è molto apprezzato da tutti. Questi sono gli ingredienti:

È il foglio di quaderno, davanti-retro, sul quale Teresa scrisse, a futura memoria, gli ingredienti e la ricetta del suo “pan pepato”, molti anni fa. Ci sono scarabocchi quelli sono stati fatti da noi. Avevamo bisogno di realizzarne molti di più e abbiamo dovuto regolare i pesi. Non abbiamo sprecato mai niente. I miei li ho cotti dentro la teglia per i tortini o muffin, quelli di Donatella erano piccoli mattoni più somiglianti alla forma di quelli di sua madre. Appuntamento a piazza Vittorio, angolo via Ricasoli,per fare la spesa nel grande, rinomato mercato vicino alla piazza, una parte divertente di questa preparazione. Passeggiare tra i banchi di spezie e verdure mi piace moltissimo e riesco sempre a comprare qualcosa che non mi serve.

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Le spezie e i canditi stanno tutti lì, colorati e allineati dentro contenitori. I venditori, superfluo dirlo, sono quasi tutti asiatici, un tuffo in India, nell’Oriente mediterraneo. A Roma, va detto, ormai i rivenditori di frutta e verdure, piccole botteghe sparse dappertutto, sono gestite da indiani del Bangladesh, gentili e simpatici, e sono aperte fino a tardi. C’è il pro e il contro. Abito a Roma dal 1951 e l’ho vista cambiare tanto negli anni e non in meglio. La prima volta fu un’avventura, li abbiamo fatti nella cucina di casa mia che èun po’ stretta ma ci siamo destreggiate a dividerci il lavoro. Il grande impasto coloratissimo e profumato riempiva le mie ‘bastardelle’, quelle più grandi (si chiamano ‘bastardelle’ i contenitori di metallo di varia grandezza che si usano nelle cucine dei ristoranti). Il miele abbondante rende tutto appiccicoso, ma non importa perché con due cucchiai grandi e robusti e con una buona dose di pazienza siamo riuscite a riempire i contenitori da porre in forno. Adesso siamo diventate più esperte e sappiamo a che cosa dobbiamo stare più attente. La tappa finale, quella dell’infornata è delicata. Attendiamo che il panetto si gonfi e rimanga all’interno morbido. Alla fine i pan-pepati messi dentro sacchetti di cellophane,legati con fiocco rosso e un bigliettino di auguri, sono uno spettacolo. Annunciano la Festa e riportano tanti ricordi alla memoria, ma non è quello che succede sempre alle feste di fine anno?

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IL VITELLO TONNATO, ricetta n.1 In molti lo dicono in francese, “vitello tonné”, ma si tratta di un tipico piatto piemontese, dove si sa, il francese è di casa. Vi presento due ricette, la prima è quella moderna, molto vicina alla tradizione, l’altra l’ho presa da un foglio di carta spiegazzato che mia madre ha conservato dentro il “Talismano”. Qualcuno le aveva dettato la sua ricetta. Io adoro questo piatto, e ne ho un ricordo di piacere ed eleganza. Purtroppo non lo preparo quasi più. Si tratta di un piatto freddo con una salsa un po’ difficile, da inserire in una cena e devo confessare che ormai le cene, sono scomparse dal mio ménage di vita. La carne, almeno un chilo di megatello di vitello (conoscete un buon macellaio…?),va lasciata a marinare in un buon vino bianco con alloro, chiodi di garofano, sedano e salvia, io aggiungo un po’ di erba cipollina, per almeno dodici ore. Mettete la carne in una pentola capiente, con acqua fredda, aggiungete i residui della marinata passati, niente sale, perché aggiungerete tre acciughe dissalate e pulite che porrete a contatto con la carne dentro la legatura, per un’ora e venti minuti circa. Per la salsa servono: 300 gr di tonno sott’olio 30 gr di capperi tre acciughe due tuorli lessi aceto di vino una spruzzata di succo di limone, (tenete da parte un limone e qualche cappero per la decorazione del piatto) mezzo bicchiere d’olio extravergine d’oliva. Aggiungete alla salsa un poco di quel brodo setacciato, così profumato. Tritate tutto finemente e battetelo pazientemente con un cucchiaio di legno, in una ciotola con l’olio, un po’ di quel brodo e il limone. Lasciate freddare la carne slegatela e tagliatela a fette non troppo sottili. Nei ristoranti si usa l’affettatrice e non mi piace. Abbiamo i coltelli migliori del mondo! Disponete la carne sul piatto di portata sopra uno strato sottile di salsa, che metterete anche sulle fette, decorate con foglioline di lattuga o valeriana, capperi e mezze lune di limone. Io preferisco la carne ben in vista, molti preferiscono nasconderla sotto la salsa.

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Ricetta n.2 Trascrivo il testo autografo di mia madre così com’è. “Prendete un chilo di vitella di latte, nella coscia o nel culaccio, tutto unito e senza osso, levategli le pelletiche e il grasso, poi steccatelo con due acciughe. Queste lavatele, apritele in due lungo la spina e tagliatele per traverso facendone otto pezzi. Legate il pezzo della carne non molto stretto e mettetelo a bollire per un’ora e mezza in tanta acqua che vi stia sommersa e nella quale avrete messo un quarto di cipolla steccata con due chiodi di garofano, una foglia d’alloro, sedano, carota e prezzemolo. L’acqua salatela generosamente e aspettate che bolla per gettarvi la carne. Dopo cotta scioglietela asciugatela e tenetela in infusione due o tre giorni in un vaso stretto, nella seguente salsa in quantità sufficiente da ricoprirla. Pestate 200 gr di tonno sott’olio e 4 acciughe, passatele dallo staccio aggiungendo olio di oliva in abbondanza a poco per volta l’agro di 3 limoni per ultimo mescolateci un pugno di capperi.” Messo in frigo con tutto il suo vaso, la carne si insaporisce. Noi usavamo il nostro frigorifero stagionale. Si andava a turno a controllare che tutto fosse a posto, che animali immaginari non andassero a impadronirsi della carne o che quel contenuto non si trasformasse in qualcosa di straordinario. Alla fine, quando compariva sulla tavola, quella carne con quella salsa così saporita, era proprio un peccato di gola.

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LA CUCINA CINESE Non vi voglio annoiare con i dati sulla cultura culinaria cinese, non ne sono all’altezza, e poi perché è immensa. Ogni regione, di quel vero e proprio continente, ne ha una sua. Quel mondo di odori e sapori mi ha affascinato e incuriosito sempre. Mangio volentieri cibo cinese, per lo più cantonese. Non sono mai statain Tibet, anche perché adesso è un po’ difficile e mi manca la giovinezza. Rischio di diventare patetica. La “cucina cinese” è arrivata a Roma, negli anni ’60, con pochi ristoranti,solo nel centro storico, poisi è espansa ovunque. I cinesi adesso sono dappertutto e hanno, purtroppo, trasformato l’aspetto di alcuni quartieri. Lo stile cinese in cucina è stato istruttivo e non solo per me. Le cotture veloci, il fritto con farina di riso, più leggero e croccante di quelli con pastelle e farine, le cotture a vapore, il wok, una padella dalle pareti alte a fondo piatto e a punta; abbiamo imparato ad usarlo, e le cucine dei ristoranti non possono farne a meno. A Roma nei pressi di Piazza Vittorio c’è un ristorante cinese, dove vado volentieri, spesso con le mie amiche. La proprietaria è un personaggio. Si chiama Sonia ed è immortalata sulle pareti del locale in centinaia di foto dove è ritratta con personaggi pubblici, molti attori, giornalisti, pochi politici. Questo non rende il suo locale un posto alla moda, vi regna semplicità, pulizia ei prezzi, che non sono alti, restano invariati. I piatti sono infiniti, il menu è fatto di molte pagine con foto e descrizioni degli ingredienti del piatto. Il mio preferito? Difficile scegliere, sono un po’ monotona, mi piace lo spaghetto con verdure o con pesce. Gli spaghetti sono di riso, la salsa è leggera e le verdure conservano tutto il sapore.

La ricetta: Zucchine, carote, funghi, peperoncino, cipollotto e zenzero,preparate questi ingredienti tagliati sottili. Saltate il tutto dentro ampia padella o wok, aggiungendo un po’ di brodo e la salsa di soia (attenti che è salata). Per il brodo potete usare quello fatto con un buon dado vegetale o di carne. Cuocete gli spaghetti: cuociono in soli 2 minuti, passateli sotto l’acqua fredda per fermare la cottura, scolateli e uniteli alle verdure. Aggiungete germogli di soia, i fiori delle zucchine, due minuti a fuoco alto e servite caldo. Una chicca: una tazza di the cinese o indiano se preferite.

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“…OGGI CUCINO IO, TUTTI FUORI DALLA CUCINA!” Quel Cuoco solitario e autoritario Una delle persone più simpatiche che abbia incontrato. Teneva banco, tra amici e colleghi, con le sue storielle, e non si finiva mai di ridere, prendeva in giro tutti. Se c’era Gigi il successo della serata era assicurato. Tanto caro e disponibile come amico, quanto intrattabile in materia di cucina. Ho imparato, a mie spese, che i maschi in cucina sono spesso così. Se volevi conversare con lui sull’argomento si finiva sempre per litigare e la discussione si chiudeva con la sensazione frustrante di aver fatto un buco nell’acqua. Non lo convincevi, mai. Mia sorella che fu una raffinata somellier gli teneva testa, ma la sua materia era il vino, di cui era espertissima, con la cucina aveva ancora molto da imparare. Un caratteraccio, ma come si usa dire, “cucinava da dio”, specialmente il pesce. Andava a fare la spesa lui, da solo, e il suo cavallo di battaglia era il “Brodo di arzilla con broccoli e quadrucci all’uovo, fatti in casa”. Una ricetta della cucina romana, alla quale era molto affezionato, ereditata da sua madre, che a quanto pare in cucina era una persona seria. La ricetta della tradizione cita così:l’arzilla, chiamata anche razza, è un pesce largo dalla forma di rombo con una bella coda e delle pinne laterali che si muovono in modo affascinante quando nuota nell’acqua. Le sue lische delicate si dissolvono nel brodo dandogli consistenza. Si fa scottare la polpa, privata della pelle, con cipolla, sedano e aglio, si copre d’acqua e si fa bollire per un’oretta. Il pesce verrà consumato come secondo piatto, con sopra un filo d’olio e un contorno con la rimanenza del broccolo in insalata. Si prepara a parte un soffritto con olio, aglio, un’acciuga, il peperoncino e poco concentrato di pomodoro, il tutto bagnato con un bicchiere di vino bianco secco, non lesinate sulla qualità del vino, mai. Si tolgono al broccolo le cimette esterne, che sono le più tenere e si mettonoa insaporire nel soffritto. Si aggiunge brodo di pesce. Dopo 15 minuti dal bollore aggiungete tutto il resto del brodo e la pasta. Per la pasta fresca bastano pochi minuti. Alla fine cuoce tutto insieme. Il “grande cuoco” comperava i quadrucci da un negozio di ‘pasta fresca’ di sua fiducia. 26


Un piatto di magro ricco di sapori e se l’appartamento, era inevitabile, alla fine profumava di pesce e broccolo, il risultato ripagava. Dopo il passaggio di Gigi, la cucina era un campo di battaglia con le pentole sparse dappertutto, un disordine assoluto. Lui era soddisfatto e indifferente al caos, non faceva altro che sedersi a tavola e prendersi le lodi da tutti i commensali. I GOBBI ALLA PARMIGIANA Gobbi/cardi, si tratta di una pianta selvatica simile al carciofo. Sono duri e di sapore amaro, ma, se coltivati al buio, al freddo, perché amano il gelo, e poi interrati, quando vengono raccoltis ono bianchi e teneri. Questo avviene nel Monferrato dove si mangia crudo nella bagna-cauda. Quello è il gobbo quasi introvabile a Roma, dove invece è facile trovare i cardi. Un piatto della tradizione, che si prepara per la vigilia di Natale, per la cena di ‘magro’. Mettetevi i guanti di gomma, altrimenti vi troverete le dita annerite, e puliteli eliminando le coste esterne filacciose;immergeteli in acqua acidulata con limone, per evitare che annerisca. Cucinati alla parmigiana sono una delizia. Serviranno: un kilo di gobbi che puliti diminuiranno notevolmente di peso uova e farina per l’impanatura, io uso farina di riso, alla cinese parmigiano grattugiato abbondante burro, sale. Lessate i gobbi in abbondante acqua col limone. Preparate una teglia o una pirofila ben unta di burro. Scolate la verdura e tagliatela in orizzontale. Immergete i pezzi dentro l’uovo battuto con un po’ di sale, io allungo con un po’ d’acqua, poi rotolateli nella farina. Avrete intanto messo a scaldare una padella piena di olio, io uso l’olio di semi vari. Friggeteli pochi alla volta, asciugateli sulla carta assorbente e disponeteli a strati dentro la pirofila, a strati sovrapposti. Tra uno strato e l’altro stendete il parmigiano e da ultimo a copertura ancora parmigiano e qualche fiocco di burro. In forno a 180° per 30/40 minuti,finché la copertura imbiondisce. È preferibile servirli caldi. Ma, lo confesso, sono ottimi anche il giorno dopo a temperatura ambiente. Questa ricetta me l’ha passata un amico, appassionato di cucina, uno dei suoi piatti preferiti in assoluto e io cucinandoli ho fatto sempre una bella figura. 27


SCUOLA DI PASTICCERIA: si apre una nuova via Appena in pensione, è successo alla fine del secolo scorso, sono stata travolta da “l’euforia del tempo libero”, mi sembrava di essere onnipossente. Volevo imparare tutto e la cucina, la pasticceria mi sembrava una materia da approfondire. Mia sorella Claudia, mi consigliò una scuola in Prati, “A tavola con lo Chef”, la conosceva bene e pensava fosse per me giusta, a metà strada tra quella professionale e quella amatoriale. Aveva ragione. Mi iscrissi al corso base di Pasticceria ed iniziò per me il viaggio alla scoperta delle meraviglie. Oggi che siamo abituati alle classi di “Master Chef” alla TV, non ci sono più misteri, ma quello che io vidi per la prima volta fu davvero una sorpresa. Eravamo una classe mista per sesso, età e provenienza. La Scuola rilasciava un diploma valido per la professione e quindi c’erano simpatici giovani che già avevano esperienza di cucina e quindi più disinvolti di me che avevo visto,fino ad allora,solo telecamere e studi televisivi. Fu dura ma istruttiva e divertente. Il primo chef di Pasticceria che conobbi fu Nazareno Lavini, giovane ed entusiasta, non severo, rigoroso: accoglieva le mie prove con un sorriso di accettazione scorata. Imparai un metodo, che ancora oggi seguo scrupolosamente. Preparo sempre quella che si chiama “mise en place”, (in pasticceria si usa molto il francese): tutti gli ingredienti pesati e disposti in successione pronti per l’uso. Se serve il forno, lo accendo all’inizio delle preparazioni in modo che sia alla temperatura giusta quando serve. Uso gli ingredienti sempre a temperatura ambiente, esclusi quelli che vogliono solo freddo, per esempio la panna. Nonostante la fatica e un po’ di frustrazione, perseverai e ricevetti anche un diploma, con un voto discreto, 26 su 28 che era il massimo. Sapevano che non sarei andata in giro a far danno nelle pasticcerie del mondo.L’ho tenuto appeso nella mia cucina abbastanza a lungo. Il mio esame richiedeva due preparazioni: la prima era un “profiterole”, una torta pretenziosa e complicata. Richiede piccoli bignè caramellati, pasta sfoglia, crema e la seconda furono i biscotti con le nocciole: i “Tozzetti” che in Toscanasi chiamano “Cantucci” dei quali trascrivo la ricetta. I TOZZETTI detti anche “CANTUCCI” 4 uova intere 160 gr di burro morbido 200 gr di zucchero 400 gr di nocciole tostate 600 gr di farina la scorza di un limone grattugiata 28


una stecca di vaniglia un pizzico di sale Ormai uso soltanto la planetaria, un grande sbattitore elettrico, che ho dai tempi delle lezioni di pasticceria. Accendete il forno a 180°. Mettere insieme il burro, lo zucchero, la vaniglia, la grattata di limone, le uova e infine la farina in questo ordine. Le uova una alla volta attendendo che si siano amalgamate. Alla fine aggiungete le nocciole tostate. Una variante: potete aggiungere pezzetti di cioccolato fondente. Con l’impasto si forma un rotolo, un po’ schiacciato in superfice che, adagiato in una teglia foderata di carta da forno, dovrete spennellare con del rosso d’uovo battuto, oppure del burro fuso. Subito nel forno per 20/30 minuti. Controllare la cottura. Far raffreddare, tagliare a ‘tozzetti’, e infornare di nuovo per pochi minuti. Godetevi il profumo di questi biscotti deliziosi, profumati di natura! Ottimi con un vino passito o vin santo a fine pasto. Usate la bacca di vaniglia, non c’è paragone con quella chimica, tagliatela per la lunghezza e con un coltellino ripulitela del suo interno.

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LA SCOPERTA DEL CIOCCOLATO Nazareno Lavini e Leonardo di Carlo, i miei maestri, tennero insieme un corso sul cioccolato ed io fui una delle allieve. E quello sì che fu una scoperta. Non sapevo niente di quella materia in senso vero e proprio. Da dove arrivava, come si presentava e poi come riuscisse a trasformarsi fino a diventare quel nettare prelibato che tutti conosciamo. A Roma, ma che dico, in tutta l’Italia ci sono città famose per il cioccolato. Due per tutte: Torino e Modica e ho fatto un torto ad altre cento. La temperatura ottima del cioccolato sciolto per coperture di torte o bignè è quasi uguale alla temperatura ottimale del corpo umano. Mi sono chiesta, avrà un senso dire che quella materia è vivente? Una fantasia, tutta mia, però avvincente. Bisogna avere un piano di metallo, è il migliore, dove stendere il cioccolato fuso caldo, appena tolto dal fuoco, due spatole anche quelle di metallo; assomigliano tanto a quelle per stuccare le pareti, anche se non hanno sempre il manico di legno. Scaldate il cioccolato a pezzi, su fuoco medio, finché diventa quasi liquido. Spianatelo e stendetelo con le spatole e misurate la temperatura, con un termometro elettronico. La temperatura di quella massa si aggirerà intorno ai 30°. Il suo aspetto sarà lucido e compatto, fluido, ma non troppo. Un’operazione delicata, quasi una vittoria sulla materia. Questo è il “temperaggio”. A questo punto potete realizzare tutto: dalle praline alle torte tradizionali e quella materia sarà malleabile e resterà lucida. C’è chi riesce a far apparire lo strato di cioccolata uno specchio.

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LA SACHER TORTE Dopo questo felice contatto con il cioccolato, la prima cosa che vuoi fare, in cui vuoi mettere alla prova quello che hai imparato è proprio lei la Sacher. Famosissima in tutto il mondo, questa torta porta il nome del Caffè Sacher della Capitale austriaca, fu creata nel XIX secolo, tempi di valzer, arciduchi e rivoluzione. Se ne disputava molto, adesso non più, a proposito di un segreto tenuto nascosto dal suo creatore. Naturalmente la buona riuscita dipende dalla qualità degli ingredienti. Io propongo la mia ricetta come l’ho imparata dal mio maestro, molti anni fa. La parte principale è il cosiddetto “biscotto sacher”. Gli ingredienti: 10 tuorli 10 albumi 100 gr di zucchero 250 gr di farina 300 gr di burro 300 gr di cioccolato fuso 200 gr di zucchero marmellata di albicocche Accendete il forno a 180°. Montate i tuorli con i 100 gr di zucchero, unite la farina, il burro a pomata e il cioccolato fuso. Pomata: pensate a un barbiere d’altri tempi che metteva il sapone da barba dentro una ciotola e lo montava con il pennello, un rimando molto maschile. Aggiungete gli albumi montati a neve con i 200 gr di zucchero. Infornate per 40 minuti circa. Lasciate raffreddare in forno. Tagliate a metà e ricoprite lo strato intermedio con una buona marmellata di albicocche, che avrete scaldata e filtrata al setaccio. Spennellate tutta la torta con la salsa di albicocche e ricoprite con la glassa di cioccolato, realizzata con il metodo del temperaggio. Decoratela a piacere, la tradizione vuole la scritta “Sacher”, io preferisco la frutta candita, poca. Per l’operazione finale serve un’alzata,un piatto usato comunemente per la frutta, oppure una graticola,qui appoggerete la torta: potrete così recuperare la caduta, sul piano di lavoro, di abbondante cioccolato che riutilizzerete. 31


PAN DI SPEZIE AL CIOCCOLATO Questa è la ricetta di Leonardo di Carlo che io eseguo così com’è. Si tratta di un “pane dolce” per il the e ottimo per accompagnare formaggi saporiti e stagionati. Gli ingredienti: 6 uova intere (300 gr) 200 gr di zucchero di canna 450 gr di panna 700 gr di miele di acacia 300 gr di farina “0” 200 gr di segale 50 gr cacao in polvere 40 gr di lievito chimico 10 gr di miscela di spezie 1 bacca di vaniglia Miscela di spezie in polvere: 40 gr di cannella 30 gr di anice stellato 22 gr di noce moscata 12 gr di chiodi di garofano Macinate tutte le spezie finemente, si può aggiungere altro, come zenzero, cardamomo, ecc. Tenete da parte la preziosa miscela per altre preparazioni. A Torino, a Porta Palazzo, esiste un negozio di spezie davvero interessante. Appena sei lì dentro vieni invaso da un’onda di profumi di spezie e quella miscela ce l’hanno già pronta. Accendete il forno, 180°-200°. Unite le uova con lo zucchero di canna, aggiungete la panna liquida e il miele (un po’ scaldato in modo che diventi liquido) la miscela di farina, cacao e spezie. L’impasto risulterà liscio e molto lento. Versate nella teglia, o in contenitori da plum-cake imburrati e infarinati. Cuocete in forno per 50 minuti. Sfornare e lasciar riposare finché diventa completamente freddo. Si conserva, protetto da pellicola, dopo qualche giorno è ancora perfetta.

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IL SOFFIO DI LIMONE Si tratta di un semifreddo, quasi un gelato, con una base di pan di Spagna”. Si può realizzare anche senza la base, diventa quasi un “sorbetto”. Davide, un amico prezioso, bravissimo fabbro, ne andava ‘matto’. Si impadroniva della ciotola ed era capace di finirla, seduto davanti al camino. I limoni, di solito, erano quelli del suo giardino, alle porte di Roma. Naturalmente anche il limoncello era un prodotto dei suoi limoni fatto dalla moglie Rachele, che mi raccontava questo aneddoto. Ingredienti: Per il Pan di Spagna 7 uova intere 180 gr di zucchero 180 gr di farina un pizzico di sale 30 gr di fecola di patate una bacca di vaniglia o grattugiata di limone Per la mousse 2 albumi con 50 gr di zucchero 2 tuorli con 50 gr di zucchero 70 gr di succo di limone 5 gr di gelatina in fogli, 3 fogli 250 gr di panna limoncello diluito appena tiepido È un mio ‘cavallo di battaglia’, non per scelta, ma mi è stato richiesto spesso. Montare separatamente con lo zucchero, le chiare ei tuorli e unirli delicatamente. Aggiungere il succo dei limoni, la gelatina sciolta in poca acqua tiepida o nel succo del limone. Comporre la torta all’interno di un cerchio foderato con pellicola, Sulla base il pan di Spagna, bagnato con limoncello scaldato e diluito, aggiungete la mousse fino all’orlo. Coprite e passate in freezer a rassodare. Toglietelo dal freezer almeno un’ora prima di servirlo. La mousse tonda e compatta si sfila facilmente dal cerchio, usate l’alzata, come quella per il cioccolato, appoggiate su un piatto da portata e decorate la mousse con spicchi di limone al naturale, io aggiungo anche le foglie. Naturalmente potete cambiare il limone con altra frutta, meglio se agrumi.

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IL GELATO Quando ci siamo trasferiti a Roma, era il 1951, siamo andati ad abitare al IV Miglio, in periferia dove papà aveva costruito una grande casa. In fondo alla stradina che dalla strada principale conduceva fino alla casa c’era un Bar, un locale con annesso un giardinetto con pergolato, dove si riunivano quelli che giocavano a carte tutti i pomeriggi, oppure festeggiavano una vittoria sportiva. Sul davanti due tavolini, un’insegna modesta che si accendeva e segnalava che lì si potevano giocare le schedine e acquistare sigarette. Il padrone e gestore del locale si chiamava Umberto, ma per tutti era il sor’ Umberto. Il sor’ Umberto faceva il gelato. Dieci lire per un cono piccolo, due gusti: crema e cioccolato. La panna montava in un contenitore d’acciaio brillante e si gonfiava sotto il frullino che la sbatteva contro le pareti. Guardavamo attoniti la paletta che affondava lì dentro. Il gelato era un premio. Mio fratello Paulo aveva l’incombenza di andare dal sor’ Umberto a prendere il ghiaccio. Se lo faceva dare già tagliato a misura del contenitore di zinco grigio scuro che stava sotto il coperchio della ghiacciaia in cucina. Un mobile particolare, con chiavistelli e decorazioni di metallo, ancora oggi attrae la mia attenzione. Sta, conservato con cura, nella sua cucina, coperto di libri e giornali. I ciclisti della domenica si fermavano in quel bar a bere o prendere un caffè corretto. Mettevano le bici dai mille colori addosso al muretto che costeggiava la strada. Un ammasso di ferro colorato e luccicante sotto il sole. Il Sor Umberto, sempre con un grembiule bianco lungo fino alle caviglie, estate e inverno in maniche di camicia, camminava con la schiena un po’ piegata da un lato, i piedi piatti che gli davano una camminata quasi da cowboy, il volto rubizzo, specialmente il naso. Non disdegnava il bere. Rideva sempre con noi ragazzini e già sapeva quando entravamo nel bar che cosa volevamo prima che parlassimo. “Come va la scuola? Studi?“. Non era un chiacchierone. Ogni tanto aveva uno sguardo ambiguo, un sorriso un po’ laido, non mi fermavo mai più di quello che serviva : il latte, le sigarette per papà e via. Abitava sopra il bar, la moglie lo trattava male, specialmente quando era ubriaco. Parlava “burino”, non aveva perso l’accento ciociaro del suo paese d’origine. La porta del bar era proprio di fronte, in linea retta, con il grande portone della casa sopra il quale, su un arco poggiava un balcone e mia madre, quando andavamo a fare qualche commissione ci guardava scomparire alla sua vista e aspettava che riapparissimo in quello stesso punto, in cima alla stradina. La rivedo affacciata mentre mi saluta alzando il braccio e resta lì finché non sono scomparsa. Dopo la sua morte, papà, finché visse, la sostituì in quel saluto. Io lo guardavo nello specchietto retrovisore e ogni volta rallentavo prima di svoltare, agitavo la mano fuori del finestrino per rispondere e sentivo una stretta al cuore. 34


SORBETTO ALLE MANDORLE I Siciliani, lo devo confessare, col gelato ci sanno fare perché trasferiscono in quella materia la loro sapienza pasticcera e i sapori della loro terra e che cosa c’è di più squisito di un sorbetto di mandorle? Se possedete una “gelatiera”, detta anche “macchina per il gelato”, l’operazione diventa semplice, una passeggiata. Servirà: latte di mandorle 600 gr, caramello mezza tazza, una manciata di mandorle con la buccia, io aggiungo una mandorla di quelle amare. Tenetene da parte, serviranno per decorare. Unite il latte di mandorle con il caramello e le mandorle tritate, azionate la “gelatiera” e in trenta minuti il gelato sarà pronto da servire. A corredo potete servire un biscottoamaretto morbido. Non posso tralasciare di citare la “granita” alla frutta, un finale di successo per ogni pranzo. Per quella serve un “trita ghiaccio”.

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LA CICORIA DI CAMPO e zi’ Grazia In fondo alla stradina c’era un altro personaggio. Una donna di età indefinibile. Vestita sempre uguale, la vita stretta da un grembiule che arrivava fino a terra come il vestito. In testa un fazzoletto scolorito che calato sulla fronte quasi nascondeva la faccia piena di rughe, guadagnate al sole dei campi. Ai piedi zoccoli chiusi o ciabatte scalcagnate. Viveva con suo marito, che curava un orto bellissimo sul retro della casa. Usciva la mattina all’alba e tornava con grandi buste piene di verdure di campo. Si diceva “…zi’ Grazia è andata a fare la cicoria”. Suonava da noi, mia madre scendeva, non parlavano: lei pronunciava solo monosillabi incomprensibili, in bocca le erano rimasti pochi, isolati denti, prendeva i soldi che mamma le dava e se ne andava. Non ricordo perché ma uno dei nipoti, che era amico di un mio fratello, mi fece entrare nella sua casa che consisteva in una grande stanza al pianoterra. Mi colpì subito il buio e un forte odore di chiuso. In un angolo c’era un letto largo e alto, che faceva un fruscio assordante. Era fatto con foglie di mais. Un piccolo camino, tutto affumicato, acceso, con un piccolo paiolo appeso sopra, e tante fascine legate per bene dappertutto. Un angolo preistorico, un presepe fuori del tempo. Lei era lì seduta su una sedia bassa e teneva d’occhio il paiolo. Non ci degnò neanche di uno sguardo. Quei due vecchi, zi’ Grazia e suo marito, erano stati scardinati dalla loro vita in campagna, ma avevano ricostruito tutto come se vivessero ancora là. Morirono quasi contemporaneamente. Mi commuovevano, non riuscivo a capire quasi nulla di quello che dicevano, ma mi sono rimasti impressi per l’amore che avevano per le loro piccole cose e mi sono sempre domandata che cosa ci fosse sotto quella gonna per essere così gonfia, come una crinolina. La cicoria ripassata Un contorno classico, come le patate, sempre buono. Serve la cicoria, adesso la trovi pulita e pure lavata. Lavare e “capare” quella verdura era un compito lungo e noioso. In mezzo alle cicorie di zi’ Grazia c’era di tutto, una lezione di botanica. Mamma e Tata che avevano un passato campagnolo, per non dire contadino, le riconoscevano e ognuna di loro dava a quelle erbe di campo un nome diverso. Certo, una era marchigiana e l’altra friulana e c’era qualche differenza. Bollite la cicoria in acqua salata, non troppo, e scolatela bene, mantenete un po’ d’acqua di cottura. Prendete una padella grande, aggiungete olio sul fondo e aglio, due spicchi, peperoncino, ci vuole. Quando il tutto soffriggerà buttate la cicoria e mescolate perché si insaporisca. Se minaccia di attaccarsi aggiungete un po’ dell’acqua avanzata. Diventerà lucida, saporita e piccante. 36


Sulla “bruschetta” o dentro una “cirioletta” (ovvero sfilatino) è proprio una merenda appetitosa. Uno dei miei soprannomi era “pagnottella”, me l’aveva dato un vicino di casa, una cara persona. Mi vedeva scendere in giardino, confinante con il suo, il pomeriggio, sempre con uno sfilatino in mano. Facevo merenda e solitamente quel pane era ripieno dell’insalata del pranzo o di cicoria. LA TARTE TATIN Una torta di mele non poteva mancare. Le mele: una meraviglia della n a t u r a , u na gr a n d e r i s o r s a nell’alimentazione. Amo le mele, le cucino, spesso, cotte al forno con limone e una spruzzata di sale. Quando per casa si sente il profumo vengo assalita da un piacere gioioso che mi riporta ad anni lontani, quando le mele cotte, a pezzetti, bollivano sulla stufa accesa e le bucce lasciate sul ripianobollente, profumavano l’aria. Il nome ha origine da due sorelle, appunto Tatin, pasticcere un po’ distratte. Si erano dimenticate di foderare la teglia con l’impasto della base, lo misero per ultimo sopra le mele,così dovettero rovesciare il tutto altrimenti le mele non le avrebbe viste nessuno. Ingredienti: Preparate la pasta frolla e lasciatela riposare, ne bastano 200 gr, 4/5 mele saporite, granny-smith o renette, 140 gr di zucchero (anche di canna o molto grezzo), burro per il caramello, succo di limone. Accendete il forno a 180°. Sbucciate le mele e tagliatele a grandi spicchi, spruzzatele col limone, così non anneriscono. Sciogliete in padella anti-aderente un cucchiaio di burro, con lo zucchero e il succo di limone, diventerà caramello scuro, che stenderete sul fondo della teglia foderata con carta da forno. Arricchite il caramello con mandorle a fettine, uvetta passa ammorbidita, frutta secca. Appoggiate le mele a spicchi e metteteci sopra la frolla, stesa più larga della circonferenza della teglia,rimboccandola verso il fondo. Una spennellata di burro o di tuorlo sbattuto, fate qualche buco con una forchetta sulla superficie e via in forno per 30 minuti. Sfornate, lasciate che si raffreddi e giratela sul piatto di portata, tutto il caramello cadrà sopra le mele, creando un bell’insieme, una pittura autunnale. Meglio se servita tiepida, come lo strudel.

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L’ORGANIZZAZIONE SCIENTIFICA La ‘grazia’ in cucina: Simonetta e i biscotti di Natale Qualche anno fa, era il 2010,la mia amica Simonetta ed io decidemmo di sostituire i cosiddetti pensierini di Natale con biscotti e dolcetti vari. Avevo un buon libro di Pasticceria, acquistato ai tempi della Scuola, “A tavola con lo chef”: “Manuale della Pasticceria Italiana” di Fulvio Scolari e Teresio Busnelli, due maestri che oltre a un numero infinito di ricette, dedicavano molte pagine alla conoscenza e all’analisi di tutti gli ingredienti. Una vera enciclopedia degli alimenti. Un testo di riferimento utilissimo per chiunque voglia avvicinarsi alla Pasticceria. Rigorosamente in bianco e nero, senza foto.La mia biblioteca di cucina e pasticceria occupa un bel posto nella mia libreria, anche se nel tempo, ho dovuto, per ragioni di spazio ahimé,liberarmi di molti di loro. L’esperta in ambito informatico era Simonetta, e preparò uno schema particolareggiato, prezioso.

C’erano segnati i nomi dei biscotti scelti, pesi per ogni ingrediente e la quantità finale di quelli prodotti. Il libro di Scolari e Busnelli, in quell’occasione, ci fu molto utile, era schematico ed essenziale ed io avevo già una certa esperienza in quel campo. Tirammo fuori il grembiule,tutti gli arnesi necessari e ci mettemmo al lavoro. Le teglie da forno si riempivano di pasticcini e biscotti e sembrava proprio di stare nel retro di una vera Pasticceria, un profumo di ‘buono’ ovunque. Le ricette furono tante, ma io ne scelgo due interessanti e facili.

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I BACI DI DAMA. Esistono almeno sei ricette con questo nome, baci Sanremo, baci di strega’,.. Ingredienti: ho scelto quelli con nocciole, ma si usano anche le mandorle. Nocciole tostate in forno Burro 300 gr Farina ‘0’, 300 gr (le farine meriterebbero un lungo discorso a parte d è importante conoscerle) Zucchero 250 gr Impastate tutti gli ingredienti, cercate di non far scaldare la pasta e fatela riposare in frigo. Accendete il forno a 160°. Spianatela e formate dei filoncini da cui taglierete pezzetti a forma di gnocco, se no usate un “copapasta” (dal francese = taglia pasta) e tagliate dei tondini tutti uguali. Infornate e aspettate che prendano un bel colore nocciola scuro. Accoppiateli inserendo marmellata o copertura di cioccolato (vedi “capitolo cioccolato”, il temperaggio). Attenzione a posare il ripieno al centro in modo che non sporchi il biscotto. Aiutatevi con un sac à poche

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“BRUTTI E BUONI” A FREDDO. Facili, facili. Ingredienti: Albume 500 gr (con i tuorli potrete realizzare una grande crema) Zucchero 300 gr Granella di nocciole tostate 250 gr Oppure mandorle tostate o pinoli. Accendete il forno. Montate gli albumi, tenuti a temperatura ambiente, con lo zucchero. La meringa sarà pronta quando perderà la parte liquida e tirando in alto lo sbattitore, resterà attaccata una parte quasi solida a forma di “becco d’aquila”, proprio perché ha quella forma, un ciuffo candido sospeso. Delicatamente aggiungete la granella di nocciole. Formate, sulla teglia foderata di carta forno, piccoli coni usando ilsac à poche o due cucchiai. In forno a 150° per 60 minuti. Così anche lavorando alacremente, non si poteva fare tutto in un giorno. Ci dividemmo la cottura nelle diverse case. Alla fine, come per il pan-pepato della signora Teresa, tutti i biscottini andavano a riempire un sacchetto di cellophane, chiuso da un nastrino, arricchito da un’etichetta e una decorazione natalizia, tutto ideato da Simonetta. Quelli furono “pensierini” apprezzatissimi. Non potevo non diventare amica di Simonetta dato che ci uniscono uguali passioni; oltre che per i dolci, per l’Arte tessile, per quello che si chiama comunemente patchwork: una forma di cucito creativo ormai vecchio di secoli e diffuso in tutto il mondo,e infine per la Musica che ci fa sempre compagnia, quando lavoriamo insieme. Come si dice: “…trovi un amico, trovi un tesoro.”

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LA GRECIA: grande amore Sono stata spesso in Grecia, in viaggio turistico archeologico e per vacanze. Amo quel Paese e la sua gente, mi sento legata da un sentimento nostalgico di quel passato, così presente ovunque. Propongo due ricette: “Caperosalata” ovvero salsa di capperi. “Favata”, minestra di cicerchie, molto simile al nostro purè di fave. Sulle mura, sui monumenti, antichi o moderni i capperi troneggiano, coi loro bellissimi fiori dal cuore viola, i lunghi ciuffi, fogliosi. La “Caperosalata” è un antipasto, una salsa ottima su una fetta di pane abbrustolito. Per qualche anno sono andata in vacanza in un’isola delle Cicladi, si chiama Sifnos, ed è un posto tranquillo, un microcosmo dove non manca nulla: archeologia, spiagge di sabbia contornate dalle tamerici per l’ombra o da rocce, panorami sull’infinito blu e verde, in tutte le ore del giorno. Qui ho conosciuto il padrone di un ristorante, molto cordiale che, visto il mio entusiasmo per questa salsa, me ne ha dato la ricetta. Ingredienti: 1 kg di capperi secchi 800 gr di cipolle dolci, quelle rosse di Tropea vanno benissimo 150 ml di forte aceto di vino 250 ml di olio di oliva sale Tenete a bagno i capperi, che vengono venduti secchi, cambiando l’acqua più volte, affinché perdano amaro e terra. In una padella grande mettete l’olio, le cipolle tagliate a fettine, i capperi ammollati e cuocete tutto a fuoco basso finché diventa una massa morbida. Giratela aiutandovi con un cucchiaio di legno, la cipolla cederà ai capperi tutta la sua dolcezza. Aggiungete il sale e l’aceto, fate evaporare il liquido e rimuovete dal fuoco. Servitela fredda. Ottima col lesso, ma anche, come dicevo, su una bruschetta. I capperi greci sono più grandi di quelli nostrani (penso a quelli pregiati, costosissimi e piccolissimi di Pantelleria), e vengono conservati in salamoia col loro gambo. Si usano anche le foglie, quelle più piccole. Si tratta di un purè con le cicerchie, un legume antico dal sapore di ceci, ma più delicato. Assomiglia molto al “purè di fave” pugliese. Piccoli quadratini gialli secchi e durissimi, vanno tenute in ammollo almeno per 24 ore e bollite per almeno due ore, poco sale, acqua a coprire e tanta pazienza. Potete aggiungere un rametto di rosmarino. 41


“Favata”, purè di cicerchie Un piatto di cucina mediterranea,che sa usare tutti i legumi per minestre e purè deliziosi. Non è una ricetta complicata. Si tratta di un purè con le cicerchie, un legume antico dal sapore di ceci, ma più delicato. Assomiglia molto al “purè di fave” pugliese. Piccoli quadratini gialli secchi e durissimi, vanno tenute in ammollo almeno per 24 ore e bollite per almeno due ore, poco sale, acqua a coprire e tanta pazienza. Potete aggiungere un rametto di rosmarino. Quando sono pronte, passatele col “minipimer”(uno sbattitore verticale), aggiungendo l’olio d’oliva. Diventeranno morbide e saporite. Aggiungete un piccolo soffritto di cipolle. Le cicerchie sono ricche di serotonina,l’ormone del buonumore.

Se parlo di Grecia, non posso tralasciare le feste religiose,“panaghie”, che si svolgono frequenti durante l’estate. Sono cerimonie, ricchedi canti e preghiere. Quella alla quale ho partecipato si svolgeva presso una piccola chiesa in riva al mare. Alla fine della cerimonia, dove il pane, in grandi ciambelle impilate una sull’altra, veniva benedetto e offerto agli astanti, come una comunione, si svolgeva una cena dove tutti potevano sedersi alla stessa tavola. Il piatto principale, servito insieme al pane benedetto, alle alici, le olive nere tipiche dell’isola e il vino bianco, consiste in una minestra di ceci con olio e limone. La prima volta fu una scoperta. Era buonissima: sarà stato l’olio, la cottura perfetta, il limone non so darmi una spiegazione. Un ricordo di semplicità, come l’interno delle piccole chiese bianche, dove a qualsiasi ora del giorno vedi entrare una donna col capo coperto che va ad accendere unasottile candelao bruciare dell’incenso profumato, toccante. Per concludere questo piccolo capitolo sulla Greciavorrei aggiungere che il trionfo della cucina greca sta nei dolci dove l’uso del miele e delle mandorle genera capolavori che sono un attentato.E termino qua perché la lista sarebbe lunga, troppo lunga. 42


VICENZA, Il BACCALA’ ALLA VICENTINA Nessun dubbio, la città in questione è molto bella e merita una visita. Architettura, pittura, accoglienza. La filastrocca dice:”… vicentini magna gatti”. E loro, spiritosi, ci hanno fatto su una torta, ”la Gata”. Un piatto che rende celebre Vicenza, anche in cucina, è il “Baccalà alla vicentina”. L’ho dovuto cercare e farmi consigliare prima di trovare e gustare quello vero. La ricetta. Un kg di stoccafisso di buona qualità. Baccalà - stoccafisso. Si tratta dello stesso pesce, il merluzzo: lo stoccafisso è conservato secco e il baccalà sotto sale. In Norvegia ho visto scheletri di merluzzi a centinaia pendere appesi a un filo, come fazzoletti appena lavati. Battetelo a lungo con un batticarne di legno, e mettetelo a mollo in acqua abbondante per due giorni. Con molta attenzione si tolgono le spine, si lascia la pelle e si taglia a pezzi grandi che leggermente infarinati con l’aggiunta di sale, pepe e cannella in polvere vanno messi in un’ampia teglia dove starà tutto allineato e non sovrapposto, coperto da parmigiano grattugiato. A parte preparate un trito di cipolla con un poco d’aglio, che imbiondirà in un mezzo bicchiere d’olio. Aggiungete 4 acciughe sotto sale, spinate e tagliate a pezzettini che si scioglieranno dentro il soffritto, aggiungete una manciata di prezzemolo tritato e un quarto di vino bianco secco. Fate asciugare il vino e aggiungete tre quarti di litro di latte. Coprite la teglia con la salsa e mettete in forno finché tutto il liquido si sarà asciugato. Tradizione veneta vuole che il “baccalà alla vicentina” venga servito con fette di polenta dura. Il piatto si presenta di colore chiaro, quasi bianco da cui spuntano strisce gialle, l’olio; verdi il prezzemolo; grigio la pelle. Pur essendo pesce, ci si accompagna un bicchiere di vino rosso, robusto, di quelle parti. Almeno una volta l’anno io vado a Vicenza perché questo diventa un punto di incontro imperdibile per tutte quelle come me che si interessano di ‘patchwork’. Posso spiegare in poche parole di che cosa si tratta: un’arte manuale che unisce il cucito alla fantasia, che mettendo insieme, secondo schemi collaudati o ispirazione del momento, pezze di stoffa. Una vera e propria arte ormai diffusa in tutto il mondo e quindi anche da noi. In questa città esiste un’antica tradizione tessile e due volte all’anno vi si svolge un vero e proprio mercato del nuovo e dell’antico mettendo in mostra tutto il bello in questo campo. In margine alle ore passate nella Fiera del tessile, che si chiama ABILMENTE, a Vicenza è fonte di gioia la visita alla magnificenza delle chiese e delle ville che la contornano, e passeggiare nelle piazze e nelle stradette sotto i portici. Si sente l’affinità tra la città, il cibo e la bellezza. 43


A PRANZO CON LE AMICHE Sandra: “spaghettini con la bottarga” Sandra, ci conosciamo da più di quaranta anni, non ha mai cambiato casa e il suo appartamento è un punto di riferimento per tutte le amiche. E’ Sarda, di nome e di fatto e ama la sua terra in modo smisurato. Io che non sono mai stata in Sardegna, tranne che in cinema e letteratura, ho imparato molto da lei. Quello che conosco della cucina di quella terra, che non è tanto lontana, sono gli amaretti morbidi, una versione poetica di questo biscotto, che ho provato a realizzare, senza successo. Dopo un suo soggiorno in Sardegna, in visita alla famiglia, non dimentica mai di portare amaretti e bottarga da assaggiare insieme. La bottarga è un contenitore di uova, in genere di muggine, salato ed essiccato. Il sapore è sapido, si sente il mare. In cucina è considerata una chicca raffinata, infatti è anche costosa. Un’operazione preliminare consiste nel togliere le uova dalla guaina che le contiene e farne fettine che si mangeranno come aperitivo con cracker e un bicchiere di vino fresco. Mentre lo spaghettino cuoce mettete in una terrina olio, bottarga grattugiata in abbondanza, servirà per condire la pasta appena scolata.Aggiungete olio e un po’ di acqua di cottura, tenuta da parte. Servite caldo. La ricetta prevede come condimentol’aglio, poco, solo due spicchi. Lo spaghettino di Sandra,senza aglio, è ottimo lo stesso.

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VIVA ROSSINI! Tutti sanno che quel genio musicale di Rossini, era un buongustaio, un vero gourmet. Negli ultimi anni della sua vita vissuti a Parigi si occupava molto di cucina alla ricerca di sapori eccelsi. Aveva dato tanto con la sua musica che in vecchiaia voleva fare solo peccati: musicali e gastronomici. Quanto segue succedeva nel 2004, il 29 febbraio, perché Gioachino era nato in anno bisestile. Fu una serata indimenticabile, vennero tanti amici e si fece festa in omaggio al mio compositore tanto amato. Nel dì natale di Gioachino offerta di un viaggio eno-gastronomico tra Bologna, Napoli, Parigi e perché no Roma VIVA ROSSINI! prugne con nocciolo di mandorla avvolte in fette di speck miniquiches con salsa alla mortadella e pistacchio pomodori secchi ripieni di acciuga e capperi un pochettino di foie gras ravioli di zucca al burro e salvia pasta con sugo di caponata di melanzana e scamorza timballo di riso ai funghi semolino alla romana con bacon e gruviera un po’ di Musica un’aria da sorbetto “...le femmine d’Italia...” “Sois immobile, et vers la terre “ Guillaume Tell Aria di Don Magnifico “…se a qualcuna delle figlie “ Cenerentola “Dal tuo stellato soglio “ solo e coro tutti... Mosè Qualche “Pechès de veillesse” “stracchini” non quelli purtroppo, qualche formaggio di rango con pan di spezie al cioccolato e mostarda tiramisu al biscotto di mandorla e cioccolato charlotte di mele con panna semifreddo al limone e ai frutti di bosco dolcetti vari Vino rosso e Champagne Bonarda, Lambrusco, Dolcetto. 45


IL VIAGGIO, LA TATA, LA CARNIA Quasi tutti gli anni, durante il periodo estivo Marianna, la nostra tata,tornava al suo paese, la Carnia, per trascorrere un periodo di ferie con la sua famiglia. Durante questa vacanza una delle sue sorelle più giovani faceva il viaggio inverso e veniva a Roma per stare con mamma. Finita la scuola, io e mia sorella di poco più grande andavamo con lei: la mamma si fidava di lei come di sé stessa. Qualche volta veniva anche mio fratello Paulo. Si partiva prestissimo. Papà ci accompagnava in stazione e mamma si raccomandava e un po’ si commuoveva a vederci andar via cariche di bagagli e assonnate . Tutta la volte una po’ la stessa storia. Il treno che ci avrebbe portati a Carnia portava un nome romano, “Romulus” all’andata e “Remo” al ritorno. Un omaggio alla Città eterna. Dopo quasi tredici ore di viaggio e infinite fermate si arrivava a Stazione Carnia situata al centro dell’omonima valle, appena prima della strettoia della Val Canal che conduceva fino in Austria. Marianna scriveva a casa “ …che stavamo bene “, senza dilungarsi in troppi particolari e ci gridava “ venite a mettere i saluti per vostra madre “ ci inseguiva finché non mettevamo il nostro nome su quel foglio pieno di una scrittura ordinatissima, allora io scrivevo : “…tanti baci a tutti dalla Carnia “, erano sinceri ma scritti , come si dice, a zampe di gallina e sparsi sui bordi del foglio. Succedeva qualche volta che fosse mamma a venire fin lassù a riprenderci. Passava con noi qualche giorno di riposo. Era una grande camminatrice e con lei andavamo tutto il giorno in giro. Così il viaggio di ritorno a casa lo facevamo tutte insieme e diventava un regalo insperato, e mi staccavo da quei monti e dai miei amici senza rimpianto. Una delle fermate importanti del treno era Venezia; ci si arrivava che era mattina presto, le 7.30 circa, e il treno si fermava alla stazione di Santa Lucia per quasi un’ora. Quando fui più grande avevo il permesso di scendere dal treno. Andavo a rimirare quel pezzetto di laguna appena fuori le scale di accesso alla stazione. Mi ricordo il freddo pungente, i colori del mare e di quei tetti appena toccati dal sole mi davano uno stordimento. Non potevo andare al di là di quella piattaforma ma quella vista, da sola, mi riempiva di desideri, di sogni. La Stazione di Bologna arrivava quasi subito anche perché dopo Venezia facevamo un sonnellino,e arrivava puntuale l’appetito, il desiderio di mangiare qualcosa ed io avevo un unico desiderio, che non potevo esprimere per vergogna, timidezza, non so. Avrei voluto dire: “… mamma perché non prendiamo un cestino da viaggio ? …quello con le lasagne e le patatine fritte ?“. Sembrava una cosa così facile, bastava allungare una mano fuori del finestrino. I grandi lo facevano. Io desideravo quel sacchetto di carta bianca un po’ rigida, che al tatto faceva sentire il calore del suo contenuto e esalava profumi indicibili. Senza il cestino da viaggio facevo un po’ il muso, ma durava un attimo: in una delle borse da viaggio, sempre numerose, c’erano i panini di Tata, ripieni con il formaggio di Carnia e il salame all’aglio, o con la cotoletta fritta nel burro, saporitissimi. Così la Stazione di Bologna si allontanava, insieme al grido dell’inserviente, con il cappelletto bianco, che gridava “…cestini da viaggio, acqua minerale, caffè .“ Si tornava a 46


casa. Dopo molti anni ogni tanto ci provo a ripensare e sognare quel mitico cestino, inutilmente, perché dovunque io vada trovo soltanto McDonald’s. Un piatto della Carnia, “Polenta e frico” Inutile cercarlo nei ristoranti romani, lo potrete trovare soltanto sulla tavola di qualche friulano trapiantato e nostalgico. Serve il formaggio della malga, quello vecchio e stagionato. Per la polenta è più facile perché quella si trova dappertutto e di tutti i tipi. Molti conoscono il “frico”, (parola friulana che si pronuncia con un leggero accento sulla o), con le patate, che si presenta come una frittata. Quello che conosco io è diverso e si presenta come una sottile crosta bruciacchiata. Cosa serve : una padella antiaderente o una di quelle nere di ferro; formaggio vecchio grattugiato, in genere si usa “Montasio” , molto popolare da quelle parti; burro. Polenta, la ricetta. Farina di polenta dura, bramata, acqua, se avete un paiolo e una stufa a legna o un camino, siete proprio sulla buona strada. Viene benissimo anche sul fuoco di una cucina a gas. Acqua che bolle, sale, gettate dentro a pioggia la farina di polenta e girate finche non si stacca dallepareti della pentola. Rigiratela su un tagliere di legno e tagliatela a pezzi con un filo di spago. Così si faceva tra i monti. Per il “frico”: spargete il formaggio grattugiato nella padella calda appena il burro è pronto, attenzione, non deve fare fumo, aspettate che si rapprenda. Giratelo una volta sola, si trasformerà in una crosta sottile e di colore bruno. Eseguite l’operazione più volte finché avrete raggiunto la quantità sufficiente. Mettete quella specie di frittelle calde accanto a un monticello di polenta e gustatele insieme. Mi piace quel sapore di formaggio bruciacchiato: mi ricordava le croste del formaggio messe sul fuoco che si scioglievano, e noi le mangiavamo di gusto, bruciandoci sempre la lingua.

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IL “BICERIN” Come dopo ogni buon pranzo si serve un caffè, allora alla fine di tutti questi manicaretti ve ne devo proprio servire uno. E’ speciale, lo trovate solo a Torino. In piazza della Consolata, il “Caffè al Bicerin” merita una visita. Sta lì dal 1763 quando l’Italia era ancora un’idea. E’ rimasto come allora, lo spazio è piccolo e bisogna fare la fila per sedersi all’interno. Ti accoglie un’atmosfera d’altri tempi. Il pavimento di legno, il ripiano dei tavolini di marmo bianco, alle pareti elegante boiseries, il profumo del caffè e della cioccolata ti investe con antichi profumi. Il locale nei secoli vanta visite di personaggi illustri, da Alexandre Dumas a Puccini e Nietzsche e il conte di Cavour. La ricetta del “Bicerin” è antica, originale ed esclusiva (ci tengono a dirlo) e gli ingredienti sono: caffè, cioccolato e crema di latte, ma la stravaganza misteriosa di questo torinese, Giuseppe Dentis, che lo ha inventato, è che sono messi insieme a temperature diverse, così da creare al palato una sensazione meravigliosa di caldo e freddo. Era una giornata di dicembre, il cielo di Torino era chiaro e la temperatura davvero fredda; eravamo state in giro tutto il giorno, quel caffè dalla superficie bianca mi fece dimenticare tutta la stanchezza e il freddo.

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Indice delle ricette 1. La capponata per il pranzo di Natale

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2. “Il Casatiello”

7

3. La galantina di pollo con gelatina

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4. Il Monte Bianco, la mia torta preferita

10

5. Le patate alla savoiarda

11

6. Il gateau di patate

12

7. Il flan di spinaci

13

8. L’insalata russa

14

9. I bignè di mamma

15

10. Il pollo arrosto con patate

16

11. La salsa verde e il tagliere di legno.

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12. Adriana e la “pasta al prezzemolo”

19

12. La Pastiera napoletana di Claudia

20

13. Il Pan pepato romano della signora Teresa 14. Il vitello tonnato, ricetta 1e 2

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15. La cucina cinese, spaghetti di riso con verdure

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16. “Oggi cucino io…”

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Minestra di arzilla con cimette di broccolo

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17. I “Gobbi alla parmigiana”

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18. A scuola di pasticceria: si apre una nuova via

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19. I “Tozzetti”

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20. La scoperta del cioccolato, il “temperaggio” 21. La Sacher torte

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22. Pan di spezie al cioccolato

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23. Soffio di limone

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24. Il sor’ Umberto e il gelato

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25. Sorbetto di mandorle

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26. La cicoria di campo, zi’ Grazia

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27. la Tarte-Tatin

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28. L’organizzazione scientifica e la “grazia” in cucina.

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29. Baci di dama

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30. Brutti ma buoni

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Grecia, grande amore

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31. “Caperosalata”

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32. “Favata”, purè di cicerchie

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33. Vicenza, “ il baccalà alla vicentina”

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34. A pranzo con le amiche

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35. Uno dei miei menu: Viva Rossini!

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33. Il viaggio in treno, la Carnia, la Tata.” Polenta e frico”

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34. Torino “Il Bicerin”

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