Lavoro@Confronto - Numero 24-25

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Numero 24-25

Novembre 2017/Febbraio 2018

Lo stellone d’Italia

SOMMARIO:

di Fabrizio Di Lalla

Lo stellone d’Italia Fabrizio Di Lalla

Se gli umori delle persone che frequento sono un campione rappresentativo della collettività, devo trarre la conclusione che l’anno appena iniziato sia percepito con sentimenti contrastanti che vanno dalle speranze alle paure con un’intensità ancora maggiore rispetto al periodo precedente. Emozioni e sensazioni a parte, è facile prevedere che gli eventi a esso legati saranno decisivi per le sorti del nostro Paese sotto vari aspetti. Tra meno di tre mesi, intanto, ci sarà l’appuntamento più importante per una democrazia rappresentativa, le elezioni generali per il rinnovo delle camere e l’inizio della nuova legislatura. Molte sono le nubi che si addensano su questo evento perché il nuovo sistema elettorale, a detta degli esperti, difficilmente riuscirà a dare una maggioranza stabile e omogenea per la formazione di un governo duraturo. Sarebbe una sciagura per la democrazia perché già il ceto politico è mal sopportato dalla pubblica opinione, per proprie responsabilità e in qualche caso per un’ossessiva delegittimazione portata avanti da altri poteri e da gran parte dei mass media che si comportano come fossero le avanguardie di una prossima rivoluzione […] [CO NT INUA A PA G 2 ]

Maternità, capitale umano, solidale e lavorativo

Regole e garanzie nello svolgimento del lavoro agile

di Dorina Cocca e Tiziano Argazzi

di Marica Mercanti

The Replacement, letteralmente “La Sostituta”, è una mini serie TV recentemente mandata in onda dalla B B C. Parla di un’architetta di successo che scopre di essere incinta. Seleziona con cura la persona che la dovrà sostituire per i mesi di assenza. La scelta cade su una sua coetanea, brava, efficiente e preparata, ma anche astuta e perfida che dapprima conquista tutti, con il suo entusiasmo e la sua competenza e poi riesce a metterla in cattiva luce, facendola passare per paranoica anche agli occhi del […]

In data 14 giugno 2017 è entrata in vigore la Legge n. 81 del 22 maggio 2017, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 135 del 13 giugno 2017, contenente “Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato”, la quale ha disciplinato il cosiddetto “smart working” o “lavoro agile”. Sulla necessità di fornire un quadro di riferimento normativo al lavoro agile è intervenuta la Confindustria, la quale ha ritenuto essenziale una […]

[CO NT INUA A PA G 3 ]

[CO NT INUA A PA G 8 ]

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Maternità, capitale umano, solidale e lavorativo Dorina Cocca, Tiziano Argazzi

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Regole e garanzie nello svolgimento del lavoro agile Marica Mercanti

[Pag. 8]

Il lavoro al centro… della terra!

Stefano Olivieri Pennesi, Angelo Romaniello, Eugenio Straziuso [Pag. 15]

L’efficacia probatoria in giudizio delle dichiarazioni rese agli ispettori del lavoro Silvana Massaro

[Pag. 20]

La sicurezza del lavoro nello svolgimento dello smart working Gianluca Meloni

[Pag. 24]

Lo stato delle relazioni industriali nei due livelli di contrattazione Marco Biagiotti

[Pag. 28]

Le prospettive della contrattazione collettiva Claudio Palmisciano

[Pag. 33]

L’intromissione della legge nella contrattazione collettiva della legge Federica Minolfi

[Pag. 38]

Il contrasto all’assenteismo Fabio Pulvirenti

[Pag. 43]

La contrattazione collettiva aziendale Roberto Leardi

[Pag. 46]

Breve storia della previdenza italiana Riccardo Rizza

[Pag. 48]

La fantasia salverà il mondo (forse) Fadila

Hanno collaborato a questo numero

[Pag. 51] [Pag. 52]


Lo stellone d’Italia Uno sforzo comune per riprendere il cammino di Fabrizio Di Lalla [*]

Se gli umori delle persone che frequento sono un campione rappresentativo della collettività, devo trarre la conclusione che l’anno appena iniziato sia percepito con sentimenti contrastanti che vanno dalle speranze alle paure con un’intensità ancora maggiore rispetto al periodo precedente. Emozioni e sensazioni a parte, è facile prevedere che gli eventi a esso legati saranno decisivi per le sorti del nostro Paese sotto vari aspetti. Tra meno di tre mesi, intanto, ci sarà l’appuntamento più importante per una democrazia rappresentativa, le elezioni generali per il rinnovo delle camere e l’inizio della nuova legislatura. Molte sono le nubi che si addensano su questo evento perché il nuovo sistema elettorale, a detta degli esperti, difficilmente riuscirà a dare una maggioranza stabile e omogenea per la formazione di un governo duraturo. Sarebbe una sciagura per la democrazia perché già il ceto politico è mal sopportato dalla pubblica opinione, per proprie responsabilità e in qualche caso per un’ossessiva delegittimazione portata avanti da altri poteri e da gran parte dei mass media che si comportano come fossero le avanguardie di una prossima rivoluzione. Nella storia parlamentare del nostro Paese non c’è mai stato un rapporto idilliaco tra cittadini e classe politica fin dalla nascita del nostro stato. Gli elementi che hanno minato tale rapporto sono stati la continua subordinazione degli interessi generali a quelli clientelari e la diffusa corruzione, che ha impregnato il Palazzo fin dagli albori dell’unità. Lo scandalo della Banca Romana avvenne appena vent’anni dopo l’unità d’Italia e l’inettitudine complessiva del ceto politico si dimostrò tutta di fronte alle spinte di potenti gruppi minoritari del Paese che portarono alle avventure coloniali, alla prima guerra mondiale e all’avvento del fascismo. E poi in anni a noi più vicini, un continuo degrado, da tangentopoli all’attuale diffusa immoralità. E tuttavia nonostante questo stato di cose, nonostante essa non abbia mai posseduto appieno i requisiti di onestà, capacità, spirito d’abnegazione e competenza che ne avrebbero dovuto fare una vera e propria classe dirigente autorevole e non subalterna a questo o a quel potere, l’alternativa sussurrata da tanti, a giudizio dello scrivente, non sarebbe migliore, vale a dire un governo autoritario e antidemocratico con tutte le conseguenze che si possono immaginare. Toccando ferro, quindi speriamo che, anche grazie al buon senso della maggioranza degli elettori, ci sia scongiurata una situazione di stallo che comporterebbe un lungo periodo di pericolosa destabilizzazione, consentendo la nomina di un governo stabile e omogeneo in grado di affrontare con competenza la coda di questo lungo periodo di crisi in modo che il nostro Paese possa riprendere il posto che gli compete tra le società all’avanguardia del progresso. Non sarà facile perché per raggiungere tale obiettivo ci sarà bisogno di tutte le forze in campo e tutti dovranno partecipare a questo sforzo comune dal semplice cittadino ai gruppi organizzati. A questo proposito sarà necessario che le forze politiche e governative prendano coscienza che senza l’apporto dei gruppi intermedi che rappresentano la cerniera tra gli interessi particolari e quelli generali non si va da nessuna parte e anche i colpi di mano che sembrano poter riuscire, vengono poi pagati a caro prezzo. Gli stessi organismi associativi, peraltro, devono scrollarsi di dosso il vecchiume che hanno accumulato nel corso degli anni, dare spazio ai vitali interessi delle nuove generazioni e tornare a saper fare sintesi per il bene comune. Se la politica, attraverso una doverosa rigenerazione deve riacquistare il proprio potere contrattuale evitando la subalternità ad altri poteri che cercano di occupare lo spazio lasciato per propria debolezza, sia, di volta in volta, quello finanziario, burocratico o giudiziario, anche le organizzazioni intermedie, soprattutto quelle rappresentanti il mondo dei lavoratori, devono riappropriarsi del ruolo primario di difesa dei diritti delle categorie che rappresentano, lasciando da parte altri tornaconti. E i dirigenti centrali e intermedi devono lasciare il loro posto dietro una scrivania e tornare in trincea accanto ai rappresentanti locali, per riacquistare la loro credibilità e quella dell’organismo che rappresentano, come si faceva qualche decennio fa. È necessario, dicevamo, uno sforzo comune, come fecero i nostri padri che riuscirono a trasformare in poco più di tre lustri un paese arretrato e in miseria, in uno moderno, ricco, inserito tra quelli più progrediti dell’occidente. Se ognuno dà quel che sa e può, lasciando da parte per un po’ qualunquismo e individualismo, ce la possiamo fare. Per riaccendere il proverbiale stellone che da tempo immemorabile ha protetto l’Italia e negli ultimi tempi si è spento, non abbiamo bisogno di un uomo solo al comando, ma occorre uno sforzo comune e concorde di tutta la collettività. [*] Presidente della Fondazione Prof. Massimo D’Antona Lavoro@Confronto - Numero 24-25 - Novembre 2017/Febbraio 2018

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Maternità, capitale umano, solidale e lavorativo Nella capacità di conciliazione dei tempi di vita e lavoro di Dorina Cocca e Tiziano Argazzi [*]

Introduzione The Replacement, letteralmente “La Sostituta”, è una mini serie TV recentemente mandata in onda dalla BBC. Parla di un’architetta di successo che scopre di essere incinta. Seleziona con cura la persona che la dovrà sostituire per i mesi di assenza. La scelta cade su una sua coetanea, brava, efficiente e preparata, ma anche astuta e perfida che dapprima conquista tutti, con il suo entusiasmo e la sua competenza e poi riesce a metterla in cattiva luce, facendola passare per paranoica anche agli occhi del marito. Una fiction incentrata sui problemi veri che una donna dovrà affrontare dopo il parto per conciliare maternità e lavoro. Uno dei tanti casi che capitano anche nella civilissima Inghilterra. Paola De Carolis, sulle colonne del “Corriere della Sera”, ricorda che Oltremanica il “77 per cento delle mamme che lavorano si sono sentite vittime di trattamenti discriminatori, secondo una ricerca che rileva inoltre che 54.000 donne l’anno perdono il posto come conseguenza della maternità. Solo l’un per cento fa causa”. Per le mamme che conservano il posto di lavoro, si riducono le prospettive di ottenere un aumento di stipendio o una promozione. È difficile promuovere un ricorso giudiziario. L’autorevole quotidiano “The Independent” sottolinea che una denuncia per discriminazione in seguito alla fruizione di un congedo di maternità può costare fino a 1200 sterline (quasi 1400 euro ). La problematica non è molto diversa in altri Paesi europei. Solo nel Nord Europa la situazione è decisamente migliore. Nel 2014 il quotidiano “La Repubblica”, nel riportare un’indagine della CNN, titolava “Il Nord Europa, paradiso delle madri che lavorano: l’elogio della Cnn”. Il plauso dell’emittente televisiva derivava dal fatto che in Islanda, ad esempio, lavora l’85 per cento delle madri con figli sotto i 15 anni: il Paese vanta un congedo di maternità di 5 mesi, uno di paternità della stessa lunghezza, e altri due mesi che i genitori possono gestire come preferiscono. Anche in Svezia il congedo di maternità può essere diviso tra madre e padre, e può essere “spalmato” su diversi anni. I Paesi Bassi garantiscono un’alta qualità della vita dal momento che hanno la settimana lavorativa più corta del mondo. Altro dato importante è la flessibilità che tali Paesi garantiscono alle madri ed anche ai padri lavoratori. Con la certezza che maternità e lavoro costituiscono un binomio vincente. C’è anche la consapevolezza che la neomamma, nella cura quotidiana del proprio piccolo, sviluppa una sorta di“super poteri”, capacità e abilità superiori spendibili anche in ambito lavorativo e che potrebbero costituire un “valore aggiunto” per qualsiasi azienda. Riccarda Zezza, cofondatrice di Maam ( Maternity as a Master – La maternità è un master) ha in più occasioni sostenuto che “È ora di considerare la maternità non più come una malattia da curare ma come un elemento di competitività”[1] . La maternità, o meglio la neogenitorialità, infatti è un vero e costante allenamento al cambiamento che potrebbe costituire una ottima base su cui costruire pratiche di leadership.

Maternità un valore e non un’assenza dal lavoro È altresì ampiamente risaputo che una delle principali motivazioni che porta alla fuoriuscita delle neomamme dal mercato del lavoro è l’impossibilità di contemperare gli impegni lavorativi con quelli familiari, stante l’assoluta rigidità del modello lavorativo imperniato sull’assioma “otto ore di lavoro ed altrettante di riposo”. Però le cose stanno, seppur lentamente, cambiando. Una recente ricerca Randstad nell’ambito del Randstad Employer Brand (il riconoscimento assegnato dalla medesima Società di selezione di personale sulla base di uno studio mondiale di employer branding ) ha messo in evidenza che il fattore più importante ricercato dagli italiani nell’ambito lavorativo è il “work life balance”, cioè l’equilibrio tra lavoro e vita privata. Che, in parole povere, significa un modello di lavoro che consenta di contemperare in maniera attiva i tempi di vita e di lavoro [2] . Poi arrivano l’atmosfera di lavoro piacevole, la sicurezza del posto, la retribuzione, i benefits ed il lavoro stimolante. Lavoro@Confronto - Numero 24-25 - Novembre 2017/Febbraio 2018

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Inoltre come ha ben evidenziato Adele Mapelli, consultant di Wise Growth [3] , per affrontare in modo serio ed incisivo il tema della maternità, occorre inserirlo nel più ampio spettro di riflessioni che riguardano la flessibilità dell’organizzazione del lavoro; flessibilità che dovrebbe dare la possibilità ad ogni attore organizzativo (donna od uomo, sposata/o o single) di gestire in autonomia il proprio tempo di lavoro in base ad obiettivi condivisi ed a processi di delega sostanziali. La sfida per le aziende è quella di lavorare nell’ottica di un modello di conciliazione che non rischi di essere sinonimo di emarginazione, ma che sia invece un’opportunità di equilibrio tra esigenze legate al cambiamento e all’innovazione organizzativa ed esigenze individuali di donne e uomini, a partire da una riorganizzazione complessiva che, destrutturando tempi e luoghi di erogazione della prestazione lavorativa, destrutturi anche la cultura della presenza a favore della cultura della responsabilizzazione. Ciò significa passare ad un sistema di gestione delle persone meno orientato al controllo ed alla presenza e più agli obiettivi raggiunti ed al merito [4] . Senza dimenticare che le neomamme sono un prezioso capitale umano e sociale, un valore economico ancora non del tutto riconosciuto; la loro visione è sempre più necessaria e richiesta per cambiare in meglio il mondo del lavoro ed i contesti organizzativi. Altre due ricercatrici di Wise Growth, Stefania Baucè (senior consultant e coach) e Lucilla Bottecchia (psicologa, psicoterapeuta e senior consultant) hanno messo “nero su bianco” una serie di cose che una mamma che lavora deve sapere sull’arte di “tenere tutto insieme”

cioè famiglia e lavoro [5] . Fra queste, le due studiose evidenziano che la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro “è una ricetta individuale, dinamica nel tempo”, poi è indispensabile “fare pace con il fatto che non si può avere tutto”. Per le due ricercatrici è indispensabile porre la massima “attenzione alle scelte fatte di pancia”. Infatti si attraverseranno periodi duri “con la tentazione di mollare, ma lasciare il lavoro è una decisione che ha conseguenze durature e difficilmente valutabili al momento. Il costo di un asilo nido e di un eventuale “tata” sono tutto sommato un problema temporaneo, a fronte della possibilità di una carriera e di un guadagno di una vita”. Infine non bisogna “avere timore di chiedere al partner, all’azienda, ai nonni”. È fondamentale aprire “un canale di comunicazione di confronto aperto e di negoziazione delle rispettive esigenze con tutti gli “attori”: chiedi al padre di controllare i compiti, all'azienda di essere coinvolta nelle riunioni importanti, ai figli maggiore autonomia, alle amiche nuove modalità di ritrovarsi; ai nonni: anche di non esserci”.

Una maternità vale quanto un master In Italia, accanto a situazioni di conflittualità, ci sono molte aziende, in genere quelle più grandi, che hanno posto in essere programmi di attenzione e sostegno al rientro dal congedo per maternità. Nelle imprese più piccole (che costituiscono la stragrande maggioranza del tessuto imprenditoriale italiano ) la situazione è più complessa. Infatti per attuare politiche di “people care” servono fondi. Ecco perché è cruciale che vengano introdotte detrazioni fiscali vantaggiose per incoraggiare le imprese medio -piccole a imboccare questa strada. Comunque sono sempre di più le imprese, anche piccole e medie, che promuovono dinamiche virtuose per la gestione della maternità e per semplificare il rientro in azienda delle neomamme. Ad esempio nel 2010 ad opera del Gruppo Donne Manager di Manager Italia (la Federazione nazionale dei dirigenti, quadri e professionisti d’azienda) è nato il progetto “Fiocco in Azienda”, a cui hanno da subito aderito decine di imprese di Lombardia, Lazio, Piemonte e Toscana e via via si sta allargando all’intero territorio nazionale. Il progetto contempla un programma concreto per aiutare genitori e aziende ad affrontare serenamente la maternità e facilitare il rientro al lavoro delle neomamme. Altre società invece hanno messo in atto progetti per facilitare la neomamma, ed il neopapà, anche da un punto di vista “privato”, prevedendo ad esempio una maggiore flessibilità in ambito lavorativo, abbinando le ore ed i giorni in cui viene richiesta la presenza in Lavoro@Confronto - Numero 24-25 - Novembre 2017/Febbraio 2018

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ufficio con fasi di lavoro da svolgere da casa o presso altri ambienti; oppure servizi di supporto quali asili aziendali o convenzioni per aiutare chi non può permettersi una baby sitter; ed ancora, disbrigo di pratiche burocratiche, servizi legati al benessere psicofisico come le palestre aziendali e supporto per check up medici. Oltre a questi progetti “nazionali”, sono sempre di più le aziende che considerano la maternità un valore e non un costo, con la consapevolezza che la maternità è accompagnata da crescita intellettiva, esplosione di energie, empatia ed aumento delle capacità relazionali. Sono effetti permanenti che la natura scatena per la sopravvivenza della specie: l’essere umano che accudisce diventa così più forte e veloce: tutte competenze tipiche del leader. Inoltre una lavoratrice che possa contemperare gli impegni lavorativi con quelli familiari è sicuramente soddisfatta e potrebbe fornire un valore aggiunto sul posto di lavoro.

Conciliazione dei tempi di vita e di lavoro: cosa prevede la legislazione italiana Parlare di conciliazione dei tempi di vita privata e di lavoro significa in primo luogo parlare di donne. È questo uno dei nodi più delicati del capitolo “rosa” e ha a che fare con la possibilità concreta di trovare e mantenere un’occupazione, soprattutto dopo la nascita dei figli. Gli impegni familiari si concentrano infatti sulle spalle di donne e mamme, costrette a rocambolesche imprese per incastrare tutti gli impegni della giornata: il lavoro, la casa, i figli. Una gestione invece che dovrebbe essere condivisa all’interno del nucleo familiare[6 ]. Appare da ciò evidente che il tema della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro è un tassello della generale questione delle pari opportunità ed ha come obiettivo finale la riduzione del “gap” di genere che investe, o meglio arriva al cuore, dell’organizzazione aziendale. È peraltro assodato che un’azienda family -friendly ha una marcia in più, in quanto si crea spontaneamente “una situazione win to win”, cioè io vinco e tu vinci, che porta ad un vantaggio per tutte le parti in causa. In Italia la normativa di riferimento in materia di tutela di maternità e paternità è il D.Lgs. 26.03.2001 n. 151, più volte modificato ed aggiornato per ampliare e qualificare il regime delle tutele. Nel 2012 (con la legge 92/2012 ) con lo scopo di promuovere una cultura di maggiore condivisione dei compiti di cura dei figli all’interno della coppia, sono state introdotte delle novità normative sulla genitorialità in generale e sul lavoro delle donne, prevedendo in via sperimentale il congedo obbligatorio e facoltativo anche per il padre, oltre a contributi economici alla madre per favorirne il rientro nel mondo del lavoro. Successivamente il legislatore, con la legge 11.12.2016 n. 232, ha stabilito che il congedo obbligatorio per il padre lavoratore, inizialmente previsto in via sperimentale per il triennio 2013 – 2015 e successivamente prorogato per il 2016 (con legge n. 208/2015 ) fosse ulteriormente prorogato per il biennio 2017 e 2018. L’ultimo intervento normativo, in ordine di tempo, è quello posto in essere con il D.Lgs. n. 80 del 2015 dove sono state ulteriormente ampliate le tutele per i genitori. L’obiettivo è quello di arrivare ad una universalizzazione delle tutele - senza distinzione tra lavoratori dipendenti e non – e favorire, in tal modo, la diffusione di forme di flessibilità nelle aziende.

It Auction e Brazzale Spa due aziende “mamme – virtuose” Fra le tante imprese che considerano la maternità un valore da incentivare, ne abbiamo scelte due, una in Veneto e l’altra in Emilia Romagna. In quest’ultima regione ha sede la It Auction, un network di aste on-line con una settantina di dipendenti concentrati principalmente nella sede sociale di Faenza in provincia di Ravenna e la Brazzale S.p.A., la più antica realtà lattiero casearia italiana attiva ininterrottamente, da otto generazioni, dall’ultimo decennio del X VIII secolo, con sede aziendale a Zanè, in provincia di Vicenza ed altri stabilimenti nella Repubblica Ceca, Cina e Brasile. Una azienda solida con oltre 700 dipendenti concentrati in massima parte in Italia (250 ) e Repubblica Ceca (350 ). I due responsabili, Riccardo Ciccarelli della It Auction e Roberto Brazzale della Brazzale S.p.A hanno ribadito che per loro la maternità è un valore sociale ed aziendale che deve essere riconosciuto e valorizzato. “Per la mia azienda la maternità è un valore – dice Renato Ciccarelli – e la cosa più importante è fare in modo che le stesse lavoratrici sul posto di lavoro, prima della maternità e poi al rientro dopo il parto, si sentano come a casa”. “Fino ad oggi – continua l’imprenditore marchigiano fondatore della IT Auction – abbiamo avuto sei maternità. Il personale è giovane (l’età media è di 28 anni) e quindi ce ne aspettiamo ancora tante. A tutte ho detto di vivere questo importante momento della loro vita con serenità e che l’azienda era loro vicina. Quindi di starsene a casa tranquille. Mi piace rilevare che le lavoratrici sono state al lavoro fino all’ottavo mese e poi sono rientrate subito dopo il congedo obbligatorio. Ed anche quando erano a casa hanno comunque fatto sentire la loro presenza. Questo sta a significare che se nel posto di lavoro stai bene, se quello che fai ti piace e ci tieni, se senti che l’azienda è dalla tua parte e ti sorregge, tutto cambia in meglio”. Per fortuna tutto il contrario di quello che, secondo notizie di stampa, farebbero alcune aziende statunitensi della Silicon Valley che, per invogliare le loro dipendenti ad investire tutto nella professione, offrirebbero come benefits la possibilità di usufruire di tecnologie per il congelamento degli ovuli e rinviare in tal modo la maternità[7] . Infatti la donna, per alcuni imprenditori, sembrerebbe avere in testa solo il desiderio di diventare madre e molti di loro si aspettano comunque una maternità che prima o poi arriverà e questo potrebbe causare problemi all’azienda. Uno scenario preoccupante che ricorda il romanzo distopico “Il Racconto dell’Ancella” di Margaret Atwood, dove Difred, la protagonista, una donna fragile e sottomessa è considerata solo ai fini della procreazione. Lavoro@Confronto - Numero 24-25 - Novembre 2017/Febbraio 2018

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Invece l’esempio positivo della IT Auction fa ben sperare per il futuro. Oggi su 75 dipendenti della società (65 nella sede principale di Faenza in provincia di Ravenna, 4 a Milano, 2 a Vicenza e 4 a Cerreto d’Esi nelle Marche), quasi tutti a tempo indeterminato, la stragrande maggioranza sono donne. “Il segreto dell’azienda – continua Ciccarelli – è quello di gestire in modo attivo la maternità durante tutto il periodo che va dal pre al post partum, dando anche modo alla madre lavoratrice di programmare le sue assenze. Una siffatta pianificazione garantisce entrambe le parti, liberando da un lato la lavoratrice da timori ingiustificati di perdere il lavoro o di essere sostituita nell’attività che svolgeva e, dall’altro, l’azienda che grazie al “clima” positivo, riesce a fare fronte ad ogni problematica, anche la più complessa”. Ed infatti l’atmosfera che si respira alla IT Auction è permeata di “benessere” ed i risultati sono lusinghieri. Infatti i dipendenti che si sentono gratificati sono più coinvolti nella mission aziendale ed in tal modo contribuiscono maggiormente allo sviluppo dell’organizzazione ed al raggiungimento degli obiettivi. “Le nostre dipendenti – sono sempre parole di Ciccarelli - quando rimangono incinte non sono lasciate sole. Ciò con la consapevolezza che il loro benessere rappresenta anche un valore aggiunto per l’azienda. Mantenere il contatto umano favorisce la voglia di rientrare al lavoro. Infatti le mamme dopo il periodo di astensione obbligatoria sono precise, affidabili ed efficaci ed hanno voglia di reinserirsi il prima possibile nel loro gruppo di lavoro”. La policy aziendale è improntata alla “fiducia” che viaggia di pari passo con “soddisfazione” e “solidarietà”; con la consapevolezza che se in un ambiente di lavoro ci si mette un pò di vita tutto viene vissuto con maggiore disponibilità. Non ci sono orologi marcatempo ed ai dipendenti viene garantita massima flessibilità, in entrata ed in uscita. Nell’angolo snack oltre alla macchina per le bevande si può trovare anche frutta fresca di stagione, che arriva tutte le mattine. Questo è un modo per fare sentire tutti come a “casa”, benvoluti ed importanti. Le parole dell’imprenditore marchigiano sono confermate dalle mamme di IT Auction. Ad esempio Jessica, matricola n.1 e mamma di una bambina di due anni e mezzo, dice che “ho vissuto la maternità con grande tranquillità perché sentivo che avevo l’azienda vicina. La chiave di tutto è la flessibilità. In tal modo sono sempre riuscita a contemperare gli impegni familiari con quelli lavorativi. Infatti se ho bisogno di ore per seguire la bambina o per accompagnarla all’asilo posso farlo tranquillamente senza alcun problema”. Non solo. In caso di bisogno le dipendenti hanno la possibilità di portarsi al lavoro i figli. Anche Giulia, che è rimasta incinta appena assunta, dopo gli iniziali comprensibili timori di perdere il lavoro appena “conquistato” si è resa conto che l’azienda ed i colleghi le erano vicini ed ha capito di essere “entrata in un circolo virtuoso che mi protegge e pertanto adesso mi sento tranquilla e serena”. Una flessibilità che però spesso è ancora assente dagli ambienti di lavoro. “Non nego – conclude Ciccarelli – che la legislazione italiana di tutela della maternità è molto rigida. La lavoratrice rimane a casa dal lavoro “per legge” uno o due mesi prima del parto e può ritornare al lavoro non prima di tre mesi dopo la nascita del figlio. Sarebbe auspicabile che le norme prevedessero la possibilità per una neomamma di rientrare in azienda anche solo per poche ore settimanali. Questo a mio avviso contribuirebbe a risolvere molte delle situazioni che oggi, in ragione della rigidità normativa, vengono vissute come irrisolvibili, con tutte le conseguenze del caso. Voglio comunque rimarcare a conclusione che il lavoro è una parte consistente della nostra vita e non deve essere visto solo come uno scambio fra lavoro e retribuzione e soprattutto tutti sono importanti al di là del ruolo rivestito”. Altra città ed altro scenario. Diverse le esigenze organizzative e lavorative ma identico è il rispetto per la donna in dolce attesa. Si sta parlando della Brazzale SpA. che da varie generazioni produce burro e formaggi, oggi con i marchi Gran Moravia, Alpilatte, Burro delle Alpi e Zogi per citarne solo alcuni. “La maternità non deve rappresentare un problema – ricorda il presidente Roberto Brazzale - ma un evento che rende felici e che deve fare parte anche della vita dell’azienda. Al centro di tutto ci deve essere la maternità”. Ed a testimonianza di questo impegno la Brazzale SpA ha deciso di erogare 1.500 euro lordi ad ogni neomamma ed anche ad ogni neopapà. La somma spetta anche in caso di adozione. È evidente che racchiuso in questa cifra vi è un messaggio simbolico: mettere a proprio agio la coppia che dovrà affrontare nell’immediato nuove spese legate al lieto evento. “Oltre a questa cifra che rappresenta un fatto concreto – dice Brazzale con orgoglio - abbiamo deciso di mettere sul piedistallo le mamme e la maternità. Si è pertanto deciso di fare festa per ogni nuovo fiocco azzurro o rosa e di condividere il lieto evento con tutti i dipendenti, con messaggi e foto tramite i social media. Queste scelte aziendali hanno contribuito a migliorare il clima complessivo. Sarebbe bello che questa nostra iniziativa facesse da volano per altre iniziative similari. Che schiere sempre più ampie di imprenditori mettessero in atto iniziative per conciliare il lavoro e la cura della famiglia”. Lavoro@Confronto - Numero 24-25 - Novembre 2017/Febbraio 2018

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“L’idea mi è venuta – continua l’imprenditore vicentino – guardando quello che succede in Repubblica Ceca, dove abbiamo uno stabilimento da 18 anni. Il calo della natalità è stato affrontato con misure intelligenti e concrete. Innanzi tutto viene concesso un periodo di congedo parentale fino a tre anni alla mamma o al papà. Poi è stato previsto un indennizzo, fino a 10 mila euro, rapportato al periodo di astensione. Oltre a questo, sono state create le condizioni per consentire la permanenza della mamma vicino al bambino nei suoi primi tre anni di vita. Posso testimoniare che questa scelta funziona bene. Infatti una mia stretta collaboratrice è stata assente dal lavoro per cinque anni. Ha cresciuto due bambini ed ora, che è tornata in azienda, è felice e realizzata e più concentrata sul lavoro, ottenendo maggiori risultati. Non solo, la persona che l’ha sostituita si è fatta apprezzare ed è stata confermata al lavoro. Voglio anche riportare un altro fatto. In Repubblica Ceca oltre all’impianto caseario abbiamo aperto una catena di negozi, ad oggi 20, con il marchio ‘La Formaggeria Gran Moravia’ che propone tutti prodotti italiani. Ebbene la maggioranza dei 140 dipendenti (commessi, responsabili, direttori di negozio ) sono donne, tutte giovani ed in età fertile. Quando la lavoratrice si assenta per maternità, è possibile assumere un altro lavoratore con un contratto particolare che la legislazione ceca prevede”. “Per tali motivi – sono sempre parole dell’avv. Brazzale – sarebbe utile introdurre anche in Italia una legislazione per mettere al centro la maternità e che prevedesse contratti ad hoc per la sostituzione delle lavoratrici assenti per gravidanza e puerperio. Sono convinto che questo contribuirebbe a ‘smussare gli angoli’ ed a migliorare l’atteggiamento di molti datori di lavoro nei confronti della maternità”. Bisogna infatti tenere sempre presente che le donne al lavoro non sono alla ricerca di punti deboli nei quali “infilarsi”, sono invece abituate ad accettare le sfide e dimostrare, con determinazione, il proprio valore. Le donne inoltre data la continua incertezza lavorativa e normativa hanno imparato “a camminare sulle sabbie mobili”, come avrebbe detto il sociologo Zygmunt Bauman da poco scomparso. Una capacità adattativa tutta femminile. Sono determinate e questo le rende più resistenti e più reattive e la maternità accresce queste potenzialità. Essere donna è già un mestiere difficile. Sempre più spesso però si parla di “sostegno alla genitorialità” anziché di “sostegno alla maternità” che sembrava lasciare da sola la donna nella gestione di questa fondamentale funzione sociale. Nel 1919 un giornale americano, il Weekly dello Smith College, si chiedeva: “Noi non possiamo credere che sia nella natura delle cose che una donna debba scegliere tra la casa e il lavoro, quando invece un uomo può averli entrambi. Deve esserci una via di uscita e trovarla è il problema della nostra generazione”. Da allora sono trascorsi 98 anni e la via d’uscita stenta a trovarsi. E l’ingiustizia rimane. Proprio perché non bisogna abituarsi alle ingiustizie è oggi più che mai opportuno trovare una via d’uscita, che contemperi le esigenze della lavoratrice e del datore di lavoro. Non è un sogno, ma un obiettivo concreto. Un traguardo verso cui tendere e raggiungere il più in fretta possibile anche perché la maternità ha da sempre avuto un ruolo sociale importante ed anche al lavoro deve diventare un fondamentale valore aggiunto.

Note [1]

Maternità.it. Maam: maternità e lavoro, un binomio vincente; Cristina Casadei: Per i lavoratori italiani niente è così importante come il work life balance. Il Sole 24 Ore del 13.04.2017; [3] Wise Growth è un’azienda lombarda attiva da molti anni nel campo dell’individuazione e dello sviluppo di strategie interne per la valorizzazione delle diversità e del management plurale. Letteralmente il nome significa “crescita saggia” ed in concreto aiuta le donne a farsi valere in ambito lavorativo; [4] http://valoremamma.com: Maternità e lavoro, Intervista a Adele Mapelli di Sandra Di Vito; [5] www.pmi.it: Il decalogo per conciliare tempi di vita e lavoro di Annalisa Valsasina ( Matrioska Group ), per lavorare meglio senza sacrificare se stessi; [6] www.cliclavoro.gov.it; [7] Il Giornale.it: “Se anche l'ovulo congelato diventa un benefit aziendale” del 16.10.2014 e La repubblica.it: "Ovociti congelati gratis" il benefit della Silicon Valley fa scoppiare la polemica del 16.10.2014. [2]

[*] Dorina Cocca e Tiziano Argazzi in servizio presso la sede di Rovigo dell’Ispettorato Territoriale del Lavoro di Ferrara Rovigo. Le considerazioni contenute nel presente intervento sono frutto esclusivo del pensiero personale degli Autori e non hanno carattere in alcun modo impegnativo per l’Amministrazione di appartenenza.

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Regole e garanzie nello svolgimento del lavoro agile Le prime indicazioni contenute in una recente circolare dell’INAIL di Marica Mercanti [*]

Le finalità della sua introduzione In data 14 giugno 2017 è entrata in vigore la Legge n. 81 del 22 maggio 2017, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 135 del 13 giugno 2017, contenente “Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato”, la quale ha disciplinato il cosiddetto “smart working” o “lavoro agile”. Sulla necessità di fornire un quadro di riferimento normativo al lavoro agile è intervenuta la Confindustria, la quale ha ritenuto essenziale una regolamentazione in materia, vista la diffusione di tale modalità di lavoro in alcune importanti imprese (tra cui Vodafone, Ferrero, Barilla, ecc.), che hanno provveduto a disciplinare il lavoro agile attraverso accordi aziendali, in funzione delle esigenze della propria attività produttiva. Le finalità della legge sono, come indicate dal 1° comma dell’art. 18, quelle di incrementare la competitività ed agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro. Il lavoro agile si inserisce nella recente tendenza del mercato del lavoro di favorire una sorta di “lavoro sostenibile”, cioè un sistema di organizzazione del lavoro che possa realizzare risultati economici produttivi, promuovendo, allo stesso tempo, lo sviluppo delle capacità e delle competenze del lavoratore e consentendogli un adattamento dinamico delle condizioni di lavoro alle sue esigenze di vita, grazie alla maggiore autonomia di cui essi possono godere, resa possibile dalla mobilità e dall’uso di tecnologia portatile, che permette una dematerializzazione del luogo di lavoro. Dal report “Smart working ed evoluzioni normative” redatto da JobsinAction sulla base dei dati dell’Osservatorio Smart working 2017 del Politecnico di Milano e presentato il 12 dicembre u.s. nella Sala Koch del Senato emerge che sono oltre trecentomila gli “smart workers” in Italia, il 60% in più rispetto al 2013. Un dato importante che esprime la necessità di promuovere, a livello contrattuale, un modello di organizzazione spazio -temporale innovativo del lavoro.

Lavoro agile e “smart working”: equivalente terminologia? L’equiparazione linguistica tra l’espressione inglese “smart working “ e la traduzione italiana “lavoro agile” ha destato qualche dubbio, in quanto, mentre il lavoro agile esprime il concetto di una modalità lavorativa caratterizzata dalla dinamicità, fluidità ed elasticità, lo “smart working” si traduce letteralmente in “lavoro intelligente”, come a voler evocare una realtà lavorativa in cui si combina e si sprigiona efficienza, tecnologia e creatività. Seppur le due espressioni non coincidono, si ritiene che l’uso delle medesime per indicare lo stesso fenomeno si ricolleghi all’esigenza di sottolineare una modalità di lavoro, agile appunto, che miri a diventare “smart” nella qualità. Potremmo, per identificare le due espressioni linguistiche, equiparare il lavoro agile al concetto di mission (cosa fare e con quali modalità nel presente) e smart-working invece a quello di vision (ossia ciò che si prevede, si aspira a diventare nel futuro ).

Definizione L’art. 18 della L. 81/2017 al II Capo definisce il lavoro agile quale modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante un accordo tra le parti. Il lavoro agile non rappresenta quindi una tipologia contrattuale, ma consiste in una prestazione di lavoro subordinato che può svolgersi: anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi; senza precisi vincoli di orario o luogo di lavoro; con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa; Lavoro@Confronto - Numero 24-25 - Novembre 2017/Febbraio 2018

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in parte all’interno dei locali aziendali e in parte all’esterno senza una postazione fissa; entro i soli limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale, derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva. Si pone in evidenza che, all’interno dello stesso comma, viene prima precisato che il lavoro agile può svolgersi “senza precisi vincoli di orario”, ma poi subito specificato “entro i soli limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale”. I l “senza precisi vincoli di orario” risulta necessario dal momento che la prestazione lavorativa può svolgersi al di fuori dei locali aziendali, rendendo di fatto difficile verificare il puntuale rispetto dell’orario di lavoro. Ci si chiede però come, invece, possa essere realizzabile e fattibile una verifica sulla durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale.

L’accordo tra le parti a) Forma scritta Ai sensi dell’art. 19 della L. 81/2017 il lavoro agile deve formare oggetto di un accordo scritto tra le parti, ai fini della regolarità amministrativa e della prova. La forma scritta è una forma scritta ad probationem e non invece ad substantiam, caratteristica questa che avrebbe determinato la nullità dell’accordo se non stipulato per iscritto. b) Elementi dell’accordo L’accordo, che può essere stipulato sia a termine che a tempo indeterminato, disciplina, ai sensi degli artt. 19 e 21 della L. 81/2017: l’esecuzione della prestazione lavorativa svolta all’esterno dei locali aziendali, anche con riguardo alle forme di esercizio del potere direttivo da parte del datore di lavoro ed agli strumenti utilizzati dal lavoratore; i tempi di riposo del lavoratore e le misure tecniche ed organizzative per assicurare la disconnessione del lavoratore dalle strumentazioni tecnologiche di lavoro; l’esercizio del potere di controllo del datore di lavoro sulla prestazione resa dal lavoratore all’esterno dei locali aziendali nel rispetto dell’art. 4 dello Statuto dei lavoratori. L’accordo individua, inoltre, le condotte connesse all’esecuzione della prestazione lavorativa all’esterno dei locali aziendali, che danno luogo all’applicazione di sanzioni disciplinari. c) Recesso ed eventuale proroga Qualora sia convenuto un termine all’accordo non è possibile recedere prima della scadenza, salvo giustificato motivo. Se l’accordo è a tempo indeterminato la legge prevede, sempre salvo giustificato motivo, un termine di preavviso di trenta giorni (elevato a novanta giorni se è il datore di lavoro a voler recedere dall’accordo stipulato con un soggetto disabile ai sensi della L. 68/1999 ). Se l’accordo è a termine, si presume possa essere prorogato con l’accordo di entrambe le parti e non sussiste alcun limite numerico alla proroga, rappresentando il lavoro agile una modalità di esecuzione della prestazione. d) Adempimenti Secondo l’art. 23 della L. 81/2017 l’accordo per lo svolgimento della prestazione lavorativa in modalità di lavoro agile e le sue modificazioni devono essere oggetto delle comunicazioni obbligatorie di cui all’art. 9 bis del D.L. 510/1996 convertito dalla L. 608/1996 e succ. mod.. A decorrere dal 15 novembre 2017 gli accordi bilaterali di smart working possono essere inviati, dalle aziende sottoscrittrici o dai soggetti abilitati dalle stesse delegati, attraverso l’apposita piattaforma informatica messa a disposizione sul portale del Ministero del Lavoro. Per accedervi è necessario possedere il Sistema Pubblico di Identità Digitale ( SPID). I consulenti del lavoro, già in possesso delle credenziali di accesso al portale, possono accedere senza SPID. Nell’invio dell’accordo individuale devono essere indicati i dati del datore di lavoro, del lavoratore, della tipologia di lavoro agile (tempo determinato o indeterminato ) e della sua durata. E’ inoltre possibile modificare i dati già inseriti o procedere all’annullamento dell’invio. Le aziende che sottoscrivono un numero di accordi individuali elevato possono effettuare la comunicazione in forma massiva. Sorgono dei dubbi riguardo al termine per l’invio di tali accordi: entro le ore 24 del giorno precedente l’inizio della prestazione lavorativa in modalità agile come per la comunicazione Unilav di assunzione oppure entro i 5 giorni successivi come per le comunicazioni Unilav di trasformazione/ proroga/cessazione? Si resta in attesa di indicazioni ministeriali in merito.

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Trattamento economico,

certificazione delle competenze e incentivi fiscali: medesimi diritti dei non agili

A garanzia del fatto che il lavoratore agile non venga, con tale modalità di lavoro, ad essere sotto inquadrato o sotto -retribuito, l’art. 20 comma 1 della L. 81/2017 prevede che il “lavoratore che svolge la prestazione in modalità di lavoro agile ha diritto ad un trattamento economico e normativo non inferiore a quello complessivamente applicato, in attuazione dei contratti collettivi di cui all’art. 51 del D.Lgs. n. 81/2015, nei confronti dei lavoratori che svolgono le medesime mansioni esclusivamente all’interno dell’azienda”. Il lavoro agile può essere potenzialmente applicato a tutte le categorie di lavoratori dipendenti. Potrebbero presentarsi delle problematiche per alcune tipologie contrattuali, tipo l’apprendistato. Pur non esistendo nessun divieto per tale tipologia, la modalità di lavoro agile, svolgendosi di fatto anche all’esterno dei locali aziendali, potrebbe risultare incompatibile con le finalità formative previste dall’apprendistato. Al lavoratore impiegato in forme di lavoro agile, inoltre, può essere riconosciuto, nell'ambito dell'accordo sottoscritto ai sensi dell’art. 19, il diritto all'apprendimento permanente, in modalità formali, non formali o informali, e alla periodica certificazione delle relative competenze. L’art. 18 comma 4 della L. 81/2017 prevede che “gli incentivi di carattere fiscale e contributivo eventualmente riconosciuti in relazione agli incrementi di produttività ed efficienza del lavoro subordinato sono applicabili anche quando l’attività lavorativa sia prestata in modalità di lavoro agile”. Tale disposizione chiarisce, con finalità non discriminatoria, come il lavoratore agile possa concorrere all’eventuale bonus di risultato, se previsto, con lo stesso trattamento fiscale e contributivo previsto per gli altri lavoratori. Le norme in materia di imposta sostitutiva del 10% sui premi di risultato prevedono infatti che il ricorso al lavoro agile, quale modalità flessibile di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato, possa essere considerato fattore di miglioramento nella qualità dei processi e, di conseguenza, dare diritto all’applicazione dell’imposta sostitutiva del 10%; si ritiene necessaria però la previa individuazione, nell’ambito della contrattazione collettiva, di appositi criteri di misurazione della performance dei lavoratori agili, viste le particolarità di svolgimento della prestazione lavorativa.

Il lavoro agile nella Pubblica Amministrazione L’art. 18 comma 3 della L. 81/2007 afferma che le disposizioni relative al lavoro agile “si applicano, in quanto compatibili, anche nei rapporti di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1 comma 2 del D.Lgs. n. 165/2001 e succ. mod., secondo le direttive emanate anche ai sensi dell’art. 14 della Legge n. 124/2015 e fatta salva l’applicazione delle diverse disposizioni specificatamente adottate per tali rapporti”, senza aggravare, come precisa il comma 5, la finanza pubblica. La Direttiva n. 3 del 1° giugno 2017 del Presidente del Consiglio dei Ministri, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 165 del 17 luglio 2017, fornisce indirizzi per l’attuazione del lavoro agile nella Pubblica Amministrazione attraverso una fase di sperimentazione e reca delle “linee guida” che disegnano il contesto normativo, l’ambito di applicazione e i destinatari, assegnando un ruolo determinante ai C.U.G. ( Comitati Unici di Garanzia). La Direttiva avvia quindi nel settore pubblico quanto già sperimentato nel settore privato, prevedendo che, entro tre anni, in ogni Pubblica Amministrazione, fino al 10% dei lavoratori pubblici, su richiesta, potrà avvalersi delle modalità di lavoro agile.

Le criticità del lavoro agile Controllo a distanza Una prima criticità riguarda il controllo a distanza, una materia che ordinariamente demandata alla contrattazione collettiva, viene rimessa ad accordi individuali. Si pone il problema che, attraverso eventuali modalità di controllo da remoto del lavoratore (sulla base delle sessioni di collegamento, del numero di pratiche da evadere, ecc.) si possano modificare i confini posti sul controllo a distanza dallo Statuto dei Lavoratori, ai sensi del quale, all’art. 4 comma 3 della L. 300/70 prevede che l’azienda debba fornire al lavoratore Lavoro@Confronto - Numero 24-25 - Novembre 2017/Febbraio 2018

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un’informativa contenente le caratteristiche, le modalità d’uso e le possibili forme di controllo che possono essere presenti negli strumenti tecnologici assegnati. In presenza di software in grado di monitorare l’attività lavorativa, il dipendente dovrà quindi ricevere adeguate informazioni sull’uso degli strumenti forniti, nel rispetto anche di quanto previsto dal Nuovo Regolamento Europeo sulla Protezione dei Dati ( G DPR- General Data Protection Regulation- Regolamento U E 2016/679).

Sicurezza informatica Nell’esecuzione della prestazione lavorativa in modalità agile all’esterno dei locali aziendali, si pone il problema di come assicurare la più assoluta riservatezza sui dati e sulle informazioni aziendali disponibili sugli strumenti tecnologici assegnati al lavoratore per lo svolgimento dell’attività lavorativa, al fine di evitare che ai dati possano accedere persone non autorizzate presenti nel luogo di esecuzione della prestazione di lavoro. Il lavoratore agile, così come gli altri, sarà pertanto responsabile della custodia degli strumenti e della riservatezza dei dati, ma in considerazione della particolarità dello svolgimento della prestazione lavorativa la sua “cura” dovrà essere ancora maggiore, al fine di evitare la diffusione dei dati personali che tratta nello svolgimento delle sue mansioni fuori dei locali aziendali. A tal proposito, il già citato G DPR potrà essere utilizzato come strumento per disciplinare il lavoro agile sotto il profilo della sicurezza dei dati. Tale regolamento, a differenza del precedente codice della privacy, obbliga il titolare del trattamento a prevedere misure tecniche ed organizzative idonee a prevenire la perdita dei dati personali e volte a garantire la sicurezza informatica. Viene in qualche misura superato l’Allegato B del D.Lgs. n. 196/2003 in cui erano elencate le misure di sicurezza, per dare spazio ad una disciplina che responsabilizza ancor di più il datore di lavoro, nel rispetto del principio dell’“accountability”.

Salute e sicurezza Ai sensi dell’art. 22 comma 1 della L. 81/2017 “il datore di lavoro garantisce la salute e la sicurezza del lavoratore che svolge la prestazione in modalità di lavoro agile e a tal fine consegna al lavoratore e al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, con cadenza almeno annuale, un’informativa scritta nella quale sono individuati i rischi generali e i rischi specifici connessi alla particolare modalità di esecuzione del rapporto di lavoro”. I rischi, sia generali che specifici, andranno valutati in collaborazione con il Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione e il medico competente e, previa consultazione del Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, nel rispetto dell’art. 29, commi 1 e 2 del D.Lgs. n. 81/2008; seguirà poi il conseguente e necessario aggiornamento del Documento di Valutazione dei Rischi. L’art. 22 della Legge 81/2017 stabilisce poi al comma 2 che “il lavoratore è tenuto a cooperare all’attuazione delle misure di prevenzione predisposte dal datore di lavoro per fronteggiare i rischi connessi all’esecuzione della prestazione all’esterno dei locali aziendali”. Una domanda si pone. Fermo restando l’art. 2 del D. Lgs. n. 81/2008 comma 1, lett. a) dove viene precisato che per “lavoratore” si intende “la persona che, indipendentemente dalla tipologia contrattuale, svolge un’attività lavorativa nell’ambito dell’organizzazione di un datore di lavoro pubblico o privato, con o senza retribuzione, anche al solo al fine di apprendere un mestiere, un’arte o una professione, esclusi gli addetti ai servizi domestici o familiari”, come può il datore di lavoro, nel caso del lavoro agile, e quindi nel caso di prestazioni svolte al di fuori dei locali aziendali, garantire la salute e la sicurezza del lavoratore? Dando per assodato che il datore di lavoro dovrà fornire ai lavoratori agili i necessari DPI, inviare gli stessi alla visita medica, se prevista, entro le scadenze stabilite dal programma di sorveglianza sanitaria, fornire loro informazione, formazione ed addestramento, aggiornare l’informativa nel caso in cui venissero forniti al lavoratore altri strumenti o mezzi per l’esecuzione della prestazione, qual è il limite della sua responsabilità? Nella sentenza n. 45808 del 5 ottobre 2017 la Cassazione Penale, Sez. IV, propone un orientamento che può rivelarsi funzionale ai fini di una corretta applicazione delle norme di sicurezza del lavoro in rapporto ad attività svolte al di fuori dei locali aziendali. In tale sentenza si precisa che i doveri di valutazione del rischio e di formazione del lavoratore gravanti sul datore di lavoro sorgono dal “generale obbligo di valutare tutti i rischi presenti nei luoghi di lavoro nei quali sono chiamati a prestare attività lavorativa i dipendenti, ovunque essi siano situati”. Viene poi specificato che la restrittiva nozione di “luogo di lavoro” rinvenibile nell’art. 62, comma 1, lett. a) del D.Lgs. n. 81/2008, a fronte del quale si intendono per luoghi di lavoro “i luoghi destinati a ospitare posti di lavoro, ubicati all’interno dell’azienda e dell’unità produttiva, nonché ogni altro luogo di pertinenza dell’azienda o dell’unità produttiva accessibile al lavoratore nell’ambito del proprio lavoro” è posto unicamente in relazione alle disposizioni di cui al Titolo II del citato decreto. Da ciò ne deriva che con l’espressione “ovunque essi siano situati” si intende dare rilevanza, ai fini della salute e della sicurezza, ad “ogni tipologia di spazio che può assumere la qualità di luogo di lavoro, a condizione che ivi sia ospitato almeno un posto di lavoro o esso sia accessibile al lavoratore nell’ambito del proprio lavoro”. Lavoro@Confronto - Numero 24-25 - Novembre 2017/Febbraio 2018

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Il datore di lavoro sarà dunque chiamato a rispondere di violazioni relative alla sicurezza in ogni tipologia di spazio configurabile come luogo di lavoro, a condizione che lo stesso sia informato in tempo utile ai fini della valutazione e prevenzione degli eventuali rischi presenti, che tale valutazione in determinati luoghi di esecuzione della prestazione lavorativa all’esterno dei locali aziendali sia possibile e che risultino adottate le necessarie misure di prevenzione e protezione. In caso contrario, il datore di lavoro non potrà consentire ai lavoratori di eseguire la prestazione lavorativa in tali luoghi di lavoro.

La necessità della disconnessione Come previsto dall’art. 19 comma 1 della L. 81/2017 l’accordo tra le parti deve individuare le misure tecniche ed organizzative necessarie per assicurare la disconnessione del lavoratore dalle strumentazioni tecnologiche di lavoro. Qual è la motivazione che si cela dietro alla “necessità” della disconnessione? Nell’epoca della digitalizzazione delle attività lavorative, laptop, tablet e smartphone sono strumenti che offrono soluzioni snelle e, allo stesso tempo, sono strumenti necessari per rendere la prestazione lavorativa. La prestazione di lavoro eseguita in modalità agile potrebbe però esporre il lavoratore al rischio della cosiddetta “time porosity”, ovvero al pericolo di una reciproca interferenza e sovrapposizione tra tempo di lavoro e tempo di vita. Ciò che si vuole evitare con la disconnessione è che il lavoratore diventi “vittima” della connessione permanente; in effetti essere “always on”, cioè sempre raggiungibili e disponibili per il datore di lavoro attraverso le nuove tecnologie mobili, può rendere difficile prendere le distanze dall’attività lavorativa. Se non fosse possibile questa disconnessione, la modalità di lavoro agile rischierebbe di svilire la ratio per cui è stata introdotta, in quanto, anziché agevolare la qualità della vita, finirebbe per far scomparire, fino ad annullare, il confine tra lavoro e propria sfera personale. Tale disconnessione può essere definita come il “time- out” del lavoratore agile dalle strumentazioni tecnologiche usate per fini lavorativi, una sorta di pausa dal mondo telematico che lo mette in comunicazione con il lavoro, e può consistere nello spegnere il cellulare, nel non accedere alla posta elettronica, ecc.; una necessità che si ritiene sarebbe utile garantire alla platea dei lavoratori digitalizzati e non solo a quelli agili. In questo contesto, la disconnessione appare quanto mai doverosa, al fine di limitare gli eventuali effetti negativi del lavoro agile sulla salute e sul benessere del lavoratore. Il problema principale che si pone con riferimento a tale necessità resta però quello della sua effettività, cioè come assicurarne l’attuazione, in quanto è formalmente dichiarata senza che vengano previsti strumenti per la sua applicazione.

I chiarimenti INAIL sul lavoro agile L’art. 23 comma 1 della L. 81/2017 afferma che “il lavoratore ha diritto alla tutela contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali dipendenti da rischi connessi alla prestazione lavorativa resa all’esterno dei locali aziendali” ed inoltre, come previsto al comma 3, ha diritto alla tutela contro gli infortuni sul lavoro occorsi durante il normale percorso di andata e ritorno dal luogo di abitazione a quello prescelto per lo svolgimento della prestazione lavorativa all’esterno dei locali aziendali, nei limiti e alle condizioni di cui all’art. 2 comma 3 del D.P.R. n. 1124/1965, quando la scelta del luogo della prestazione: 1. sia dettata da esigenze connesse alla prestazione stessa oppure dalla necessità del lavoratore di conciliare le esigenze di vita con quelle lavorative; 2. risponda a criteri di ragionevolezza. Si desume pertanto, in relazione alla tutela prevista per gli infortuni di cui al comma 3, che la scelta del luogo della prestazione debba essere alternativamente giustificata o dall’una o dall’altra motivazione indicata al punto 1 ), ma in entrambi i casi, tale scelta dovrà rispondere a criteri di ragionevolezza. Poiché tanti sono i dubbi emersi dalla formulazione di questa previsione normativa, l’INAIL è intervenuta in data 2 novembre 2017 fornendo le prime indicazioni sul lavoro agile con la Circolare n. 48, sentiti i competenti uffici del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, risolvendo alcune criticità, ma lasciando ancora in sospeso delle altre. a) Obbligo assicurativo I requisiti oggettivi (lavorazioni rischiose) e soggettivi (caratteristiche delle persone assicurate) previsti dagli artt. 1 e 4 del D.PR. n. 1124/1965, ai fini della ricorrenza dell’obbligo assicurativo, sono confermati anche per il lavoro agile, rappresentando lo stesso una modalità di svolgimento dell’attività lavorativa e non una diversa tipologia contrattuale.

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b) Classificazione tariffaria Ai fini della corretta classificazione, nulla cambia rispetto alla classificazione compiuta in ambito aziendale, in quanto si applica l’art. 4 delle modalità per l’applicazione delle tariffe, secondo cui per lavorazione si intende “il ciclo di operazioni necessario perché sia realizzato quanto in esse descritto, comprese le operazioni complementari e sussidiarie purché svolte dallo stesso datore di lavoro e in connessione operativa con l’attività principale, ancorché effettuate in luoghi diversi”. La classificazione tariffaria segue dunque quella a cui viene ricondotta la lavorazione svolta in azienda, in quanto, come ribadito dall’INAIL, a parità di rischio deve corrispondere un’identica classificazione. c) Retribuzione imponibile Nulla di diverso rispetto alla retribuzione imponibile prevista per i lavoratori che prestano l’attività lavorativa all’interno dell’azienda. La retribuzione su cui calcolare il premio sarà individuata nella retribuzione effettiva, costituita dall’ammontare dei redditi di lavoro dipendente di cui al combinato disposto dell’art. 51 del D.P.R. n. 917/86 e dell’art. 29 del D.P.R. n. 1124/1965. Tale reddito, se inferiore, dovrà essere uguagliato ai cosiddetti “minimali” giornalieri, ossia gli importi giornalieri non inferiori a quelli stabiliti dalla legge. d) Tutela assicurativa Per quanto riguarda la tutela assicurativa i lavoratori agili devono essere assicurati se, per lo svolgimento della loro attività, sono esposti alle fonti di rischio previste dall’art. 1 del D.P.R. n. 1124/1965, tra cui anche il rischio elettrico connesso all’uso di macchine di ufficio, quali mezzi telematici, computer, videoterminali. Il lavoratore agile è tutelato non solo per gli infortuni collegati al rischio della sua attività lavorativa, ma anche per quelli connessi alle attività prodromiche e/o accessorie purché strumentali allo svolgimento delle mansioni proprie del suo profilo professionale. Una volta entrati nel campo di applicazione della tutela i lavoratori agili sono assicurati, applicando i criteri di carattere generale validi per tutti gli altri lavoratori, con il solo limite del rischio elettivo. Che cosa si intende per rischio elettivo? Per “rischio elettivo” si intende quello che, “estraneo e non attinente all’attività lavorativa, sia dovuto ad una scelta arbitraria del lavoratore che abbia volutamente creato ed affrontato, in base a ragioni ed impulsi personali, una situazione diversa da quella inerente alla sua attività lavorativa e per nulla connessa ad essa” ( Cass. Civ. n. 2642 del 22 febbraio 2012 ). Si viene a creare, in tal modo, una situazione interruttiva di ogni nesso tra lavoro, rischio ed evento. La circolare prosegue ribadendo che gli infortuni occorsi mentre il lavoratore svolge la propria prestazione lavorativa all’esterno dei locali aziendali e nel luogo prescelto dallo stesso sono tutelati se causati da un rischio connesso con la prestazione lavorativa. La “connessione” che viene richiamata più volte dalla circolare, sottende ad uno degli elementi costitutivi la figura giuridica dell’infortunio indennizzabile, e cioè “l’occasione di lavoro”, di cui al D.P.R. n. 1124/1965, la quale può essere definita come il nesso tra la prestazione lavorativa e l’infortunio, cioè tra il lavoro ed il verificarsi del rischio cui può conseguire la lesione, nesso che può essere anche solo indiretto od occasionale. Lo svolgimento della prestazione costituisce dunque l’occasione dell’infortunio e non la causa, determinando l’esposizione del soggetto protetto al rischio del suo verificarsi. L’assicurazione interviene infatti per indennizzare non solo gli eventi causati da rischi tipici della mansione svolta, ma anche quelli che sono connessi, quindi collegati, alle condizioni socio ambientali nelle quali la prestazione lavorativa viene espletata. e) Infortunio in itinere L’art. 12 D.Lgs. n. 38/2000, inserisce all’art. 2 del D.P.R. n. 1124/1965, “l’infortunio in itinere”, prevedendo che, “salvo il caso di interruzione o deviazione del tutto indipendenti dal lavoro o, comunque, non necessitate, l'assicurazione comprende gli infortuni occorsi alle persone assicurate durante il normale percorso di andata e ritorno dal luogo di abitazione a quello di lavoro, durante il normale percorso che collega due luoghi di lavoro se il lavoratore ha più rapporti di lavoro e, qualora non sia presente un servizio di mensa aziendale, durante il normale percorso di andata e ritorno dal luogo di lavoro a quello di consumazione abituale dei pasti”. Alla base dell’infortunio in itinere vi è il criterio sopra richiamato dell’occasione di lavoro, nel senso che è sempre l’attività lavorativa stessa ad esporre il soggetto al rischio dell’infortunio, anche quello sulla strada, in quanto avviene in un tragitto, definito “normale”, che è necessario percorrere per arrivare alla sede di lavoro o per rientrare a casa dalla sede medesima. Tale criterio diventa estremamente più complesso se viene prevista la possibilità di effettuare la prestazione di lavoro in modalità agile, al di fuori dei locali aziendali. In questo caso la legge introduce, nel rispetto del requisito dell’occasione di lavoro ed al fine di gestire una modalità di lavoro che potrebbe prestarsi a divenire troppo “agile” dal punto di vista della tutela assicurativa, delle condizioni stringenti, prevedendo, per il lavoratore agile, l’indennizzabilità degli infortuni in itinere occorsi durante il normale percorso di andata e ritorno dal luogo di abitazione a quello prescelto per lo svolgimento della prestazione lavorativa all’esterno dei locali aziendali, quando la scelta del luogo della prestazione sia dettata da esigenze connesse alla prestazione stessa oppure dalla necessità del lavoratore di conciliare le esigenze di vita con quelle lavorative e risponda a criteri di ragionevolezza. Questo quanto previsto dalla L. 81/2017. E la circolare INAIL? La circolare ribadisce tali condizioni, ma poi, ai fini della tutela, al “normale percorso di andata e ritorno” previsto dalla legge, aggiunge “… quando il fatto di affrontare il suddetto percorso sia connesso a esigenze legate alla prestazione stessa o alla necessità del lavoratore… omissis…”. Lavoro@Confronto - Numero 24-25 - Novembre 2017/Febbraio 2018

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Da ciò ne deriva che, ai fini del riconoscimento dell’infortunio in itinere per il lavoratore agile, sia la scelta del luogo della prestazione che il percorso di andata e ritorno debbano rispondere ai requisiti sopra descritti. Innegabile che tali restrizioni richiederanno un’ardua attività di accertamento, soprattutto in merito all’applicazione del criterio di ragionevolezza, un concetto -mezzo o, meglio, concetto -fine che lascia ampi spazi di discrezionalità nella ricerca di un equo contemperamento degli interessi in gioco. L’INAIL, nella circolare, mette appunto in evidenza la necessità di accertamenti volti a verificare la sussistenza dei presupposti sostanziali della tutela, in mancanza di indicazioni sufficienti desumibili dall’accordo sottoscritto tra le parti, il quale rappresenta lo strumento utile al fine di individuare i rischi lavorativi ai quali il lavoratore è esposto ed i riferimenti spazio -temporali ai fini del riconoscimento delle prestazioni infortunistiche. Un ruolo determinante è quindi riconosciuto anche dall’INAIL all’accordo tra le parti, che rappresenterà la cartina di tornasole alla base di qualsiasi accertamento; più elementi funzionali a tale scopo esso conterrà meno sarà complicato l’iter dell’accertamento. Tali elementi non sono obbligatori (in quanto non sono previsti dalla legge), ma si ritiene che diventino comunque indispensabili, se si vuole evitare, ad infortunio occorso, il rischio della mancata indennizzabilità dello stesso. f ) Informativa sulle attrezzature/apparecchiature Il datore di lavoro, in merito alle attrezzature/apparecchiature eventualmente messe a disposizione nello svolgimento della prestazione in modalità di lavoro agile, deve fornire al lavoratore un’adeguata informativa circa il loro corretto uso, assicurandosi che detti strumenti siano conformi al titolo III del D.Lgs. n. 81/2008 e succ. mod. nonché alle specifiche disposizioni legislative e regolamentari di recepimento delle direttive comunitarie di prodotto, facendosi carico di garantire nel tempo la permanenza dei requisiti di sicurezza con un’adeguata manutenzione. g) Obbligo della denuncia di esercizio L’obbligo della denuncia di esercizio sussiste solo per i datori di lavoro che non hanno già un rapporto assicurativo in corso con l’INAIL, mentre per gli altri l’obbligo ricorre solo nel caso in cui il lavoratore agile sia adibito a mansioni diverse che determinano una variazione del rischio. h) Monitoraggio sul lavoro agile ed eventuale aggiornamento dei rischi Le informazioni contenute nella comunicazione relativa all’avvenuta sottoscrizione dell’accordo tra datore di lavoro e lavoratore agile saranno trasmesse all’INAIL tramite un accordo di cooperazione con il Ministero concernente il trasferimento dei dati contenuti nelle predette comunicazioni, allo scopo di realizzare un monitoraggio sull’uso di tale strumento e sugli effetti prodotti ai fini assicurativi, oltre che per un eventuale aggiornamento dei rischi assicurati.

Conclusioni La normativa attuale e la circolare INAIL rappresentano un primo quadro generale di riferimento sul lavoro agile. Molti risultano ancora gli aspetti pratici ed operativi che dovranno essere chiariti; sarà necessario trovare in primis un equilibrio tra le esigenze produttive specifiche dell’organizzazione aziendale e gli obblighi di legge. Il lavoro agile implica di fatto un cambiamento radicale su un fronte particolarmente delicato, quello del controllo da parte del datore di lavoro, fino ad oggi prevalentemente ancorato alla presenza fisica del lavoratore nel luogo di lavoro. L’uso del lavoro agile da parte dell’azienda richiede infatti un forte legame fiduciario con il lavoratore; tra le principali barriere emergono i pregiudizi culturali legati al timore che i dipendenti non lavorino, al di fuori dei locali aziendali, con lo stesso impegno. Saranno proprio i lavoratori a determinare il successo e il futuro di tale modalità lavorativa, abbattendo tali barriere, attraverso un'unica strada possibile: lavorare con serietà, diligenza e professionalità, incentivati e ancor più motivati dalla possibilità di poter distribuire il proprio tempo in maniera più favorevole alle proprie esigenze di vita, dimostrando con i risultati che tale modalità può funzionare. Soddisfatta l’azienda, agile e soddisfatto il lavoratore. Lavoro agile quindi come opportunità di cooperare insieme, datore di lavoro e lavoratore, per il raggiungimento di un maggiore e reciproco “benessere”, sia lavorativo che personale, un punto di svolta che potrà garantire lo sviluppo di imprese che si renderanno attente e sensibili a tali dinamiche. La sfida maggiore da superare è pertanto quella di “rinnovarsi”, compiendo un salto culturale non indifferente verso un nuovo approccio al lavoro, un approccio che coniugando l’ottimizzazione dei risultati con un ragionevole mix di flessibilità, autonomia e collaborazione, richiederà una capacità fondamentale e non certo di tutti, la capacità di guardare “oltre”. [*] Funzionaria dell’Ispettorato Territoriale del Lavoro di Ancona. Vincitrice del Premio Massimo D’Antona 2013. Le considerazioni contenute nell’articolo sono frutto esclusivo del pensiero dell’autrice e non impegnano in alcun modo l’amministrazione di appartenenza. Lavoro@Confronto - Numero 24-25 - Novembre 2017/Febbraio 2018

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Il lavoro al centro… della terra! di Stefano Olivieri Pennesi [*], Angelo Romaniello [**] e Eugenio Straziuso [***]

Introduzione Intendiamo aprire questo contributo, sul tema lavoro, menzionando, in maniera necessariamente deferente, alcuni passaggi illuminanti del Santo Padre, Papa Francesco, ripresi dal suo videomessaggio inviato ai partecipanti alla 48° settimana sociale dei cattolici italiani, tenutasi lo scorso ottobre 2017 a Cagliari, avente come tema: “Il Lavoro che vogliamo, libero, creativo, partecipativo e solidale”. Ciò al fine di proseguire poi in un ambito di riflessioni incentrate sul tema più specifico del lavoro in agricoltura e i suoi risvolti legati, inevitabilmente, all’ambito della “sicurezza e gravosità in connessione anche alla “patologia” rappresentata dal fenomeno “caporalato”, già trattato in passato in queste pagine, come pure sui riflessi di natura previdenziale nella sua entità di lavoro agricolo definibile usurante. Sempre sul tema, l’intervento del Santo Padre alla settimana sociale 2017 è stato, infatti: “Nelle Sacre Scritture troviamo molti personaggi definiti dal loro lavoro: il seminatore, il mietitore, i vignaioli, i pescatori, i pastori… Gesù non si è incarnato in un imperatore o re, ha voluto condividere la nostra vicenda umana, inclusi i sacrifici che il lavoro richiede, al punto di essere noto come il falegname o il figlio del falegname. Il Signore chiama mentre si lavora, come è avvenuto per i pescatori che egli invita per farli diventare pescatori di uomini. Anche i talenti ricevuti, possiamo leggerli come doni e competenze da spendere nel mondo del lavoro per costruire comunità, comunità solidali, e per aiutare chi non ce la fa….. Grazie per avere scelto il tema del Lavoro… Senza Lavoro non c’è dignità: lo ripeto spesso. Ma non tutti i lavori sono “lavori degni”. Ci sono lavori che umiliano la dignità delle persone… offendono la dignità del lavoratore anche il lavoro nero, quello gestito dal Caporalato, i lavori che discriminano la donna e non includono chi porta una disabilità. Anche il lavoro precario è una ferita aperta per molti lavoratori, che vivono nel timore di perdere la propria occupazione. Precarietà totale. questo è immorale, questo uccide: uccide la dignità, uccide la salute, uccide la famiglia, uccide la società. Il lavoro nero e il lavoro precario uccidono. Rimane poi la preoccupazione per i lavori pericolosi e malsani, che ogni anno causano in Italia centinaia di morti ed invalidi”. Ebbene, queste affermazioni dell’uomo vestito di bianco, ci portano inevitabilmente ad approfondire alcune tematiche inerenti, in particolare, il “valore del Lavoro in ambito agricolo”, così fortemente connotato da aspetti legati, da una parte, alla sua faticosità, dall’altra, come sopra detto, alla oggettiva esposizione ai fenomeni illegali riconducibili al “mercimonio”, allo sfruttamento e al caporalato.

Previdenza e dintorni: lavori usuranti, Ape, altro Riteniamo sia giusto, in questi passaggi, fare anche una doverosa considerazione circa il dibattito innescato, come pure argomentare circa le iniziative di queste settimane intraprese a livello governativo, relativamente al tema “previdenziale”, rispetto alla individuazione dei cosiddetti “lavori usuranti” (e delle tutele della platea che ne inerisce) per derogare ai vincoli anagrafici dei 67 anni, età indicata come l’ultima soglia indispensabile per il collocamento in quiescenza di chi lavora nel nostro Paese. Ci riferiamo all’innalzamento anagrafico previsto dalle nostre normative in materia previdenziale, dove vige l’obbligo dell’adeguamento anagrafico rispetto ai parametri statistici forniti dall’Istat circa l’aumento delle cosiddette aspettative di vita dei due generi, uomini e donne: tutto questo per il famoso e irrinunciabile vincolo e concetto di “sostenibilità” dell’intero sistema previdenziale allo stato vigente, grazie alle norme in essere. Crediamo siano opportune, al riguardo, le eccezioni e perplessità avanzate in generale dai sindacati confederali e in particolare da quelli del settore agricolo, come pure dalle organizzazioni associative di ambito. Forte è la pressione per riconsiderare, nel sistema pensionistico, la tipologia e tipicità di chi lavora nel comparto agricoltura quale, ad esempio, la figura del bracciante a cui viene richiesto di lavorare fino alla età dei 67 anni. Più in generale, però, può essere complessivamente ritenuto indiscutibilmente gravoso il lavoro agricolo in tutte le sue declinazioni, dalla produzione alimentare alla zootecnia, alla forestazione, o anche al settore della pesca, settori, anche questi, che si contraddistinguono per le tante malattie professionali, i tanti infortuni e, non di meno, le troppi morti sul lavoro. È particolarmente evidente come lasciando in vita l’attuale sistema/norma previdenziale, si conclami una profonda ingiustizia che associa ed anzi, omogeneizza, equiparandolo, il lavoro in agricoltura ad un normale impiego in ufficio, in uno studio, un negozio, ecc... Lavoro@Confronto - Numero 24-25 - Novembre 2017/Febbraio 2018

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Sarebbe quindi opportuno tentare, con un confronto aperto con il governo, il riconoscimento dello status di “lavoro usurante” o gravoso che dir si voglia, anche per le variegate tipologie sopra riportate. Ed è proprio per tali forti pressioni esercitate dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori, come pure delle organizzazioni di rappresentanza del mondo agricolo, che in questo scorcio di novembre, il Governo sta valutando attentamente, aprendo tavoli in tema previdenziale, la possibilità di ampliare l’elenco delle categorie di lavoratori che svolgono attività gravose e stressanti. Evidentemente, però, non soltanto gli appartenenti alla filiera agricola, generalmente intesa, dovrebbero godere di una attenzione particolare (non influenzata da vincoli per garantire equilibri e cespiti di bilancio ). Si dovrebbe di contro, a ben vedere, poter annoverare anche professioni quali ad esempio: di allevatore in ambito zootecnico, di mezzadro, di piccolo agricoltore diretto, di cultore ittico, solo per fare alcuni esempi concreti. Riteniamo che il tema della plurimenzionata ricerca delle attività “usuranti/gravose” si affronti indagando e verificando l’elemento intrinseco e oggettivo, in altri termini il lavoro puntualmente ed affettivamente svolto, piuttosto che la mera denominazione ed identificazione di una professione. Crediamo infatti che le specificazioni della modalità operativa, nello svolgimento delle attività lavorative, ossia chi fa cosa e in che modalità, permetta valutazioni più equanimi su chi realmente dovrebbe rientrare nel novero delle attività da tutelare maggiormente e, quindi, prevederne il giusto inserimento tra le fattispecie realmente usuranti. In una parola declinare attentamente, con elementi oggettivanti, non soltanto il macro settore di appartenenza, ossia la denominazione della professione svolta, ma entrare nel dettaglio della storia e della vita lavorativa delle persone, identificando le peculiarità del lavoro esercitato nel tempo, e per quanto tempo, oppure determinando, magari, una pesatura temporale della usura e gravosità lavorativa, con vincoli certi ed inconfutabili è il percorso corretto al fine della corretta individuazione della platea dei lavoratori beneficiari dell’esenzione dal limite anagrafico dei 67 anni. L’allargamento ad un elenco di quindici professioni, o meglio categorie professionali, come sembra emergere dai tavoli di lavoro governativi con le O O.SS., abbinato alla creazione di una “Commissione Tecnica” che, presumibilmente, verrà diretta dal Presidente dell’Istat, affiancato da rappresentanti dei Ministeri dell’Economia, Lavoro , Salute e degli Enti Inps e Inail, che dovrà concludere i relativi lavori entro l’autunno 2018, sembrerebbe, a parere di chi scrive, una accettabile soluzione e di buon senso. Il sistema sopra delineato dovrebbe servire, anche, per calcolare, analiticamente, l’elemento della “speranza di vita” mestiere per mestiere, non soltanto, quindi, per le undici professioni già contemplate nella cosiddetta APE sociale, ossia l’anticipo pensionistico, ma anche per le ulteriori quattro categorie degli operai agricoli, siderurgici, marittimi e della pesca. Tali categorie, secondo il governo, amplierebbero la platea dei beneficiari di ulteriori 15 -20.000 unità circa in aggiunta ai numeri complessivamente calcolati per i benefici dell’anticipo pensionistico Ape. Secondo l’esperto di previdenza prof. Brambilla, fare i calcoli in tale ambiti è un’operazione particolarmente complessa, che richiede accuratezza e particolare attenzione e, a tale proposito, sarebbe pure fondamentale individuare bene le tipologie dei lavoratori coinvolti, in quanto regolamentate da contratti collettivi diversi. Analogamente distinguere o creare disparità di trattamento, tra le attività, ad esempio degli operai agricoli dai braccianti o mezzadri, oppure dei conduttori di treni dai guidatori di tram, o ancora delle educatrici di asili nido dalle insegnanti di scuola d’infanzia o dagli insegnanti elementari, non parrebbe equo. Tale materia, infatti, merita la massima attenzione in quanto si sta parlando di lunghi anni di vita lavorativa che è stata vissuta, da uomini e donne, con evidente fatica, stress e logorio fisico e psichico. Bene quindi l’idea di nominare la suddetta “Commissione tecnica” che porti a conclusione “una rilevazione di tipo scientifico circa la gravosità delle occupazioni e dei mestieri” ovviamente in maniera strettamente connessa con la loro effettuazione temporale (si pensa ad un periodo di sette anni svolti in attività usuranti negli ultimi dieci anni del percorso lavorativo totale) così da mettere in relazione l’età lavorativa dei soggetti con la loro età anagrafica.

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La sicurezza dei lavoratori nel settore agricolo Appare utile, a questo punto, fare qualche considerazione su un tema di rilevante impatto sociale, data la grave incidenza degli infortuni sul lavoro, in special modo quelli mortali, come pure delle malattie professionali, quale la sicurezza dei lavoratori addetti al settore agricolo che, in presenza di lavoro nero, spesso connesso al cosiddetto fenomeno del Caporalato, è la prima forma di tutela del lavoratore a venir meno. Nel settore agricolo le denunce di infortunio con esito grave o mortale sono superiori sia a quelle del rischioso settore edile che a quelle dell’industria manifatturiera. Il problema della sicurezza sul lavoro, quindi, pone gli imprenditori del settore di fronte ad obblighi ineludibili posti a tutela della salute e della incolumità dei lavoratori e degli altri soggetti a loro equiparabili. La norma di riferimento è oggi il Decreto Legislativo 9 aprile 2008 n°81, d’ora in avanti TUSic, che costituisce una pietra miliare nel complesso quadro normativo nazionale permeando numerosi altri testi di legge in materia di lavoro. Si pensi, a solo titolo di esempio, al richiamo operato nel d.lgs.276/2003 alla possibilità di ricorrere alla somministrazione di lavoro solo per quelle aziende che abbiano effettuato la valutazione del rischio. Anche la Legge 199/2016, che introduce nel Codice Penale l’articolo 603bis per il contrasto all’intermediazione illecita ed allo sfruttamento del lavoro, fenomeno che in agricoltura è noto come “Caporalato”, fa esplicito rimando alle norme di prevenzione degli infortuni e dell’igiene del lavoro indicando individuando nella violazione delle norme sulla sicurezza uno degli indici di sfruttamento che consentono di integrare, unitamente ad altre condizioni quali retribuzione sproporzionata rispetto al lavoro svolto, orario di lavoro prestato in violazione delle norme di legge, degradanti condizioni di lavoro e di alloggio, il grave reato di sfruttamento del lavoro. La domanda ricorrente che viene posta agli organi di vigilanza sia nel corso dell’attività ispettiva che in occasione di incontri e dibattiti sul tema del caporalato in agricoltura è quella di conoscere quali siano gli adempimenti principali da porre in essere per assicurare il rispetto delle norme del Testo Unico in materia di Sicurezza sul Lavoro. Occorre innanzitutto osservare come il legislatore non ha ritenuto di dedicare uno specifico titolo alla sicurezza del lavoro nel settore agricolo diversamente da come ha fatto, per esempio, per l’edilizia a cui è riferito il Titolo IV del TUSic. In alcuni casi e, più in particolare, nel Titolo II, dedicato ai requisiti di sicurezza dei “luoghi di lavoro” i campi agricoli sono esplicitamente esclusi dalle previsioni ivi contenute. Per il settore agricolo, dunque, le norme da rispettare vanno ricercate in modo trasversale in tutto il testo di legge e, in particolare, all’obbligo della valutazione dei rischi lavorativi propri dell’azienda secondo il combinato disposto degli articoli 17, 28 e 29 del TUSic. Le risultanze dell’attività di vigilanza svolta direttamente sui campi consentono di affermare che le problematiche di sicurezza maggiormente ricorrenti nel settore in parola sono quelle riferite alla mancata sorveglianza sanitaria, all’uso di macchine obsolete e, per ciò stesso, pericolose, alla mancata consegna e/o uso dei Dispositivi di Protezione Individuale, alla mancata formazione ed informazione dei lavoratori sui rischi cui sono esposti, all’assenza di condizioni atte a garantire il minimo etico dell’igiene del lavoro. Dall’esame dei dati riferiti agli incidenti in agricoltura si rileva che le macchine e gli agenti materiali ad esse direttamente collegati sono la principale causa di infortunio nel settore agricolo; un infortunio su 4, infatti, è determinato dall’uso improprio delle macchine operatrici o dall’uso di macchine obsolete prive dei dispositivi di sicurezza per il lavoratore. Ad incrementare il rischio di incidenti in agricoltura contribuisce anche l’errore umano dovuto a fatica per turni di lavoro esasperati, spesso superiori alle otto ore giornaliere, a disattenzione, all’inesperienza o, paradossalmente, ad atteggiamenti dovuti alla troppa sicurezza. Queste situazioni critiche diventano ancor più rilevanti se la preparazione tecnica dell’operatore è scarsa e le macchine usate sono tenute ed utilizzate non facendo attenzione ai necessari controlli ed alla manutenzione ordinaria. In siffatti contesti, infatti, il malfunzionamento o, peggio, l’assenza di un dispositivo di sicurezza può diventare estremamente pericoloso e, spesso, letale per la perdita di controllo dell’attrezzatura da parte dell’operatore. È pertanto assolutamente necessario che l’operatore conosca appieno il mezzo che utilizza, il terreno su cui opera e quali sono le situazioni critiche nelle quali può incorrere. In poche parole è necessario che l’operatore abbia sempre la padronanza del mezzo che si usa e la consapevolezza di ciò che può accadere in caso di un anomalo funzionamento o di un suo errato utilizzo. La normativa in materia di sicurezza, oltre ad imporre al datore di lavoro l’uso di macchine ed attrezzature adeguate dal punto di vista della protezione dei lavoratori, prescrive, fra gli altri, l’obbligo di assicurare ai lavoratori stessi informazioni adeguate sulle attrezzature da utilizzare e, in particolare, sulle loro condizioni di impiego, sulle situazioni anormali prevedibili, sui rischi cui sono esposti durante l’uso delle attrezzature di lavoro, sulle attrezzature di lavoro presenti nell’ambiente immediatamente circostante, anche se da essi non Lavoro@Confronto - Numero 24-25 - Novembre 2017/Febbraio 2018

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usate direttamente (si pensi a puro titolo di esempio ai carrelli elevatori per la movimentazione dei cassoni presenti nel campo di raccolta contemporaneamente ai lavoratori). La formazione in materia di sicurezza, generica per lavoratori, deve essere invece specifica per gli operatori delle macchine agricole secondo quanto specificato dall’Accordo Stato Regioni del 22 febbraio 2012. Per quanto attiene all’igiene del lavoro, la mancanza di norme specifiche per i campi da intendere quali luoghi di lavoro, fatta eccezione, se vogliamo, per quanto indicato al punto 6 dell’Allegato IV al TUSic, fa sì che molti datori di lavoro omettano completamente l’allestimento di adeguate strutture di ricovero dotate di servizi igienici ed acqua corrente, ancorché temporanee, che i lavoratori possono utilizzare durante le necessarie pause di lavoro dovute a condizioni ambientali spesso estreme (si pensi alle temperature elevate durante il periodo estivo ) ed ai gravosi turni di lavoro. Mutuando previsioni ed obblighi rivenienti da altri settori lavorativi, nulla vieta al datore di lavoro agricolo, a valle di una specifica valutazione dei rischi, di ricorrere all’uso di bagni chimici nei giorni del raccolto o delle altre lavorazioni temporanee, così come all’allestimento di strutture di ricovero temporanee costituite da gazebo con sedie e tavoli dove i lavoratori possono riposare e consumare i pasti. Nel più generale ambito delle problematiche della sicurezza sul lavoro nel settore agricolo si collocano anche gli adempimenti che il datore di lavoro agricolo è chiamato ad effettuare in caso di utilizzo di lavoratori stagionali. Raccolta del pomodoro, vendemmia, raccolta delle olive. Sono situazioni in cui le aziende agricole, al fine di organizzare il periodo di raccolta nei tempi giusti, procedono all’assunzione di operai stagionali che vanno ad integrare significativamente l’organico aziendale di base. In questi come in altri periodi particolari le aziende agricole possono quindi contare sull’attività svolta da personale assunto come operaio agricolo per un numero di giornate non superiore a cinquanta nell’anno solare (lavoratori stagionali) per il quale il Testo Unico delle norme in materia di sicurezza sul lavoro (d.lgs. 81/2008 e ss.mm.ii,) garantisce adeguate condizioni di tutela della salute e della sicurezza, ivi comprese l’informazione e la formazione sui rischi propri dell’ambiente e delle fasi di lavoro, l’addestramento sulle procedure di lavoro e sul corretto utilizzo di macchine ed attrezzature, la sorveglianza sanitaria preventiva e periodica. Data la particolare caratteristica del lavoratore stagionale, il legislatore già all’articolo 3, comma 13, del d.lgs.81/2008 aveva richiamato la futura emanazione di disposizioni atte a semplificare gli adempimenti in materia di sicurezza per le imprese agricole che impiegano lavoratori stagionali relativamente all'informazione, alla formazione ed alla sorveglianza sanitaria, demandando al Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, di concerto con i Ministri della Salute e delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali l’emanazione di uno specifico decreto. Al fine di richiamare l’impegno da parte dei Ministeri competenti all’emanazione del decreto di semplificazione degli obblighi di sicurezza da parte delle imprese medie e piccole operanti nel settore agricolo, le principali Organizzazioni Sindacali e Datoriali il 16 settembre 2011 hanno firmato un “Avviso comune recante indicazioni per l'attuazione dell'articolo 3, comma 13, del decreto 9 aprile 2008 n°81” in cui si auspicava che le disposizioni di semplificazione fossero emanate nel rispetto dei livelli generali di tutela dei lavoratori e fossero limitate a lavorazioni generiche, semplici e non richiedenti specifici requisiti professionali. Questo principio è stato integralmente recepito dal legislatore con l’emanazione del Decreto Interministeriale 27 marzo 2013 in materia di informazione, formazione e sorveglianza sanitaria dei lavoratori stagionali del settore agricolo nel quale è esplicitamente richiamato l’avviso comune sottoscritto dalle Organizzazioni Sindacali e Datoriali il 16 settembre 2011. Il decreto in parola, infatti, dispone l’attuazione di misure per semplificare gli adempimenti relativi all’informazione, alla formazione e alla sorveglianza sanitaria dei lavoratori agricoli stagionali fatta eccezione per i lavoratori esposti ad attività che comportino rischi specifici (rischio chimico, fisico, biologico ) per i quali, indipendentemente dalla durata del rapporto di lavoro, continuano a trovare applicazione le norme specifiche previste dal Decreto Legislativo 81/2008. Per i lavoratori ai quali si applica il decreto interministeriale del 2013, gli adempimenti in materia di sorveglianza sanitaria si intendono assolti mediante visita medica preventiva eseguita dal medico competente dell’azienda o dal dipartimento di prevenzione della ASL territorialmente competente, con costi a carico del datore di lavoro. La validità della visita medica effettuata è biennale e consente al lavoratore idoneo di svolgere la propria attività di carattere stagionale, nel limite di 50 giornate l’anno, anche prestando la propria opera presso altre imprese agricole nel corso del biennio. Secondo il decreto di semplificazione, gli obblighi di informazione e formazione dei lavoratori stagionali adibiti ad attività che non presentano rischi specifici si intendono assolti mediante la consegna di appositi documenti, certificati dalla ASL ovvero dagli enti bilaterali e dagli organismi paritetici del settore agricolo e della cooperazione di livello nazionale o territoriale, che contengano Lavoro@Confronto - Numero 24-25 - Novembre 2017/Febbraio 2018

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indicazioni idonee a fornire conoscenze per l’identificazione, la riduzione e la gestione dei rischi lavorativi oltre che a trasferire conoscenze e procedure utili per lo svolgimento in sicurezza dei compiti assegnati. È comunque il caso di ribadire che l’opera prestata dai lavoratori stagionali per i quali trova applicazione il decreto di semplificazione non deve prevedere impieghi in attività complesse con esposizione a rischi specifici; in tal caso, infatti, la norma in parola non è applicabile venendo a mancare i criteri base della semplificazione, cioè le lavorazioni generiche e semplici, e pertanto si dovranno applicare le norme definite dal testo Unico in materia di Sicurezza. Affinché gli adempimenti in materia di sicurezza in favore dei lavoratori stagionali, ancorché semplificati, non vengano intesi come mero atto formale di ottemperanza agli obblighi di legge, è auspicabile che il datore di lavoro, attraverso il servizio di prevenzione, progetti ed organizzi specifici eventi formativi in relazione ai compiti che dovranno essere svolti dai lavoratori stagionali, integrando il proprio piano formativo con una specifica sessione dedicata alla categoria dei lavoratori in questione in cui illustrare in dettaglio la documentazione in materia di sicurezza che il decreto di semplificazione prevede debba essere consegnata ai lavoratori. Tali incontri formativi, oltre a trasferire ai lavoratori stagionali le conoscenze minime atte a garantire lo svolgimento in sicurezza dei compiti assegnati, possono essere la giusta sede in cui evidenziare l’importanza del corretto uso dei dispositivi di protezione individuale che il datore di lavoro è comunque obbligato a fornire ai lavoratori, ancorché stagionali, ed illustrare l’organizzazione aziendale ai fini della sicurezza, dal responsabile del servizio di prevenzione e protezione, al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, al preposto. Va da sé l’importanza di quest’ultima figura in presenza di lavoratori stagionali, per loro stessa definizione non stabilmente inseriti nell’organigramma aziendale. In aziende agricole che occupano lavoratori stagionali, infatti, il preposto ai fini della sicurezza, per la conoscenza diretta dell’ambiente di lavoro e delle fasi lavorative, potrebbe utilmente svolgere il ruolo che l’articolo 26 del d.lgs.81/2008 assegna all’incaricato del datore di lavoro committente, in alternativa al DUVRI nei settori di attività a basso rischio di infortuni e malattie professionali, al fine di sovrintendere alle attività di coordinamento delle fasi lavorative svolte all’interno dell’azienda committente dalle imprese esecutrici e dai lavoratori autonomi.

Conclusioni In base agli spunti di riflessione prima riportati, si può ritenere che ad un settore strategico per l’economia del Paese quale è, appunto, quello dell’agricoltura, non venga data la giusta importanza e la giusta considerazione nel quadro complessivo delle norme vigenti anche per far sì che quelle che sono le tradizioni e le radici fondamentali di un’intera popolazione non vadano, nel tempo, svanendo completamente. Peraltro, in questo frangente storico, l’agricoltura italiana si trova a dover fronteggiare la concorrenza spietata dei paesi mediterranei e non solo (vedi produzione olearia). Sicuramente alcune norme già prevedono forme di semplificazione ed agevolazione per il lavoro agricolo, ma molto si può ancora fare, ad esempio, per quanto attiene al settore della sicurezza ed igiene del lavoro. Ci riferiamo ad una regolamentazione chiara, e, ovviamente, concretamente attuabile, di norme ed adempimenti da inserire in uno specifico titolo del TUSic, come già realizzato per l’edilizia, avendo bene a mente che le numerosissime microimprese agricole o, ancor di più, le aziende a carattere familiare che principalmente caratterizzano il substrato lavorativo del settore, hanno necessità di avere regole quanto più possibile snelle e semplici. L’elevata gravosità ed insalubrità del lavoro agricolo, poi, deve essere tenuta ben in vista in tutte le norme che regolamentano gli adempimenti previdenziali, assicurativi e di sicurezza sul lavoro con l’obiettivo dichiarato di consentire ai datori di lavoro di competere sul mercato, sempre più globale, riuscendo anche a modernizzare le aziende, a realizzare profitti che risultino anche stimolanti ai fini degli investimenti nel settore, ad incrementare le retribuzioni dei lavoratori del settore, garantendo nel contempo ai lavoratori la massima tutela attuabile così da limitare quanto più possibile il fenomeno infortunistico e delle malattie professionale. Ciò potrebbe consentire ai giovani di intravvedere nel settore agricolo nuove e stimolanti opportunità di lavoro che consentano loro di fare ritorno nei campi da cui, oggi, sono quasi completamente assenti. [*] Prof. Stefano Olivieri Pennesi - Capo Ispettorato Territoriale del Lavoro di Potenza- Matera [**] Ing. Angelo Romaniello - Responsabile area di coordinamento settore vigilanza Pz. Itl Potenza- Matera [***] Ing. Eugenio Straziuso - Responsabile area vigilanza 2 Pz. Vigilanza tecnica. Itl Potenza- Matera Le considerazioni contenute nel presente scritto sono frutto esclusivo del pensiero degli autori e non hanno in alcun modo carattere impegnativo per l’Amministrazione di appartenenza. Lavoro@Confronto - Numero 24-25 - Novembre 2017/Febbraio 2018

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L’efficacia probatoria in giudizio delle dichiarazioni rese agli ispettori del lavoro

Il rapporto tra testimonianze rese al funzionario ispettivo e quanto riferito al giudice di Silvana Massaro [*] Dopo avere esaminato le varie pronunce della suprema Corte di Cassazione circa l’efficacia probatoria in giudizio delle dichiarazioni acquisite in occasione di una verifica ispettiva (“Le dichiarazioni rese al funzionario ispettivo: l’efficacia probatoria in giudizio secondo la Cassazione”, numero 8, marzo/aprile 2015 ), proseguiamo l’esame sull’altro importante aspetto della questione della possibile divergenza tra quanto dichiarato al personale ispettivo nel corso della procedura sanzionatoria e quanto riferito in giudizio al giudice dell’opposizione ad ordinanza ingiunzione.

Il vincolo attenuato del giudice

di servirsi delle prove offerte dalle parti Il giudice nel formare il suo convincimento circa la verità dei fatti affermati nella domanda dall’attore, nonché nella contro domanda del convenuto, si serve di quegli strumenti tecnici di convincimento circa la verità dei fatti che sono le prove offerte dalle parti in giudizio ai sensi dell’art. 115 c.p.c.[1] (il c.d. principio dispositivo delle prove che, nel rito del lavoro, tuttavia, secondo l’orientamento più accreditato, va contemperato con quello della ricerca della verità materiale).

I poteri istruttori del giudice dell’opposizione ad ordinanza ingiunzione

In particolare, per il giudizio di opposizione ad ordinanza ingiunzione incardinato dal 6 ottobre 2011, strutturato sulla base dell’art. 6 del D.Lgs. n. 150/2011, integrato dalle norme che disciplinano il processo del lavoro, secondo anche quanto chiarito dal Ministero del Lavoro con la circolare n. 28/2011 [2] , i poteri istruttori del giudice vengono disciplinati dall’art. 2 del medesimo decreto e dall’art. 421 c.p.c., con l’esclusione del terzo comma che, secondo l’art. 2 del citato D.Lgs. n. 150/2011, non trova applicazione nelle controversie regolate dal capo II del medesimo decreto, salvo il caso in cui venga espressamente richiamato. Il giudice dell’opposizione, in base a tali norme di riferimento, nel corso del giudizio, ai sensi dell’art. 421, secondo comma c.p.c., può disporre d’ufficio in qualsiasi momento, l’ammissione di ogni mezzo di prova, nel rispetto dei limiti stabiliti dal codice civile (art. 2, comma 4 del citato decreto )[3] inoltre, secondo l’ultimo comma dell’art. 421“ove lo ritenga necessario, può ordinare la comparizione, per interrogarle liberamente sui fatti della causa, anche di quelle persone che siano incapaci di testimoniare a norma dell’art. 246 o a cui sia vietato a norma dell’art. 247”, trovando così soluzione l’annosa questione sulla capacità a testimoniare dei lavoratori dell’azienda ispezionata. Il giudice pertanto, nel processo di opposizione in argomento, dispone di ampi poteri istruttori “officiosi” che costituiscono in ogni caso un’eccezione rispetto alla sopra riportata regola della necessità della indicazione di parte.

Il c.d. principio della libera valutazione delle prove Con riguardo alla questione della contraddittorietà tra le dichiarazioni contenute nei verbali ispettivi da depositare in cancelleria ai sensi dell’art. 6, comma 8 del D.Lgs. n. 150/2011 quali tipiche prove precostituite in materia ispettiva e le deposizioni testimoniali raccolte in udienza, i giudici del merito hanno fornito indicazioni contrastanti in considerazione del principio generale in tema di valutazione delle prove stabilito dall’art. 116 c.p.c.[4] che enuncia il principio della libera valutazione da parte del giudice, secondo il suo prudente apprezzamento. Lavoro@Confronto - Numero 24-25 - Novembre 2017/Febbraio 2018

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Valutazione delle prove secondo l’art. 116 c.p.c.

In particolare: “In tema di valutazione delle prove, nel nostro ordinamento, spetta in via esclusiva al Giudice del merito, in forza del principio generale di cui all’art. 116 c.p.c., il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando così, liberamente prevalenza (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge) all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti” ( Cass. Sez. 3, sentenza n. 7074 del 28/03/2006 ). A n c o r a : “L’esame dei documenti esibiti e delle deposizioni dei testimoni, nonché la valutazione dei documenti e delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata” ( Cass. civ., Sez. Lav., 21 luglio 2010, n. 17097 )[5] . Infine: “in tema di valutazione delle prove, nel nostro ordinamento, fondato sul principio del libero convincimento del giudice, non esiste una gerarchia di efficacia delle prove, per cui i risultati di talune di esse debbano necessariamente prevalere nei confronti di altri dati probatori, essendo rimessa la valutazione delle prove al prudente apprezzamento del giudice” ( Cass. civ., Sez. III, 18 aprile 2007, n. 2945 ), Tanto considerato nella giurisprudenza di merito va registrato l’orientamento in base al quale si ritiene di dare maggiore credito alle dichiarazioni rese in sede di verbale ispettivo rispetto a quelle rese in sede giudiziale. Partendo dall’assunto che nel giudizio di opposizione ad ordinanza ingiunzione irrogativa di sanzione amministrativa, il verbale contenente le dichiarazioni acquisite dal funzionario ispettivo, pubblico ufficiale, essendo un atto pubblico, è dotato della fede privilegiata di cui all’art. 2700 c.c. e, pertanto, in difetto di proposizione dell’unico rimedio all’uopo previsto, ossia la querela di falso, fa piena prova circa la effettiva provenienza delle predette dichiarazioni da parte di coloro che le hanno sottoscritte e sul fatto che tali soggetti hanno reso le dichiarazioni trasfuse nel verbale allo stesso pubblico ufficiale, è stata conferita una maggiore attendibilità alle dichiarazioni rilasciate agli Ispettori rispetto a quelle successivamente rese in giudizio nel ritenere le prime più veritiere e genuine in base alla considerazione di una serie di elementi di fatto. Le testimonianze raccolte in sede giudiziaria davanti al giudice dell’opposizione, valutate ai sensi dell’art. 116 c.p.c., appaiono meno genuine e credibili rispetto alle dichiarazioni raccolte nel corso della verifica ispettiva e ciò in considerazione che la diversa versione dei fatti viene fornita spesso a notevole distanza dall’accertamento o quando gli stessi testi sono ormai presumibilmente venuti a conoscenza della sanzione irrogata e “causata” dalle stesse dichiarazioni laddove, nell’immediatezza dei fatti, i dichiaranti furono “colti di sorpresa” ed impreparati sul da dirsi, al di fuori dunque di ogni condizionamento da parte dell’opponente il quale, peraltro, non può essere presente nel momento in cui viene resa la dichiarazione al funzionario ispettivo e anche quando risultano contenere una dovizia di particolari in ordine ai tempi e alle modalità di esecuzione dell’attività lavorativa, ovvero risultano compatibili e convergenti con altri dati testimoniali e/o documentali raccolti in sede ispettiva. Così, nella sentenza n. 1625 del 14/04/2009 del Tribunale di Milano, Sezione Lavoro, si legge che: “Le dichiarazioni rese nell’immediatezza dei fatti, presentano una spontaneità e genuinità che non possono essere trascurate non avendo i lavoratori sentiti alcun interesse a riferire i fatti che non rispondono al vero. Nè risulta che vi fossero ragioni di astio o rancore tali da giustificare l’esposizione di circostanze non corrette. Inoltre le stesse dichiarazioni contengono una serie di precisazioni e puntualizzazioni in ordine ai tempi ed alle modalità con cui era svolta l’attività lavorativa che non possono che rafforzare tale valutazione”. Un tale valutazione operata dal giudice di merito è stata sottoposta anche al giudizio di legittimità della suprema Corte di Cassazione ( Cass. Civ. sez. lav. n. 13910 del 2001; Cass. Civ. sez. lav. n. 3527 del 9 marzo 2001; n. 9962 del 2002; Cass. Civ. sez. lav. 20 novembre 2007, n. 24128; Cass. Civ. sez. lav. 29 ottobre 2012 n. 18551, Cass. Civ. sez. lav. 8/09/2015 n. 17774 ). Così nella sentenza n. 13910 del 2001, la Corte Suprema di Cassazione civile, sez. lav., nel ritenere infondati il primo motivo di censura di violazione di legge: art. 360, n. 5 c.p.c. [6] per illogicità della motivazione della sentenza, nonché il secondo motivo di violazione di legge, sempre sotto il profilo di cui all’art. 360, n. 5 c.p.c., per carenza di motivazione, afferma che: “I giudici di secondo grado, infatti, basandosi su una serie di elementi di fatto e documentali rettamente valutati e considerati, hanno conferito attendibilità alle dichiarazioni rese all’Ispettore dell’Istituto da due testi, rispetto a quelle rese in giudizio dagli stessi, avendo

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ritenuto le prime più veritiere e genuine, giustamente arguendo che le dichiarazioni rese nell’immediatezza dell’accesso ispettivo e sotto “l’effetto sorpresa” non possono essere messe nel nulla da una dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà resa un mese dopo e troppo precisa nei riferimenti temporali per pervenire da una persona quasi analfabeta (quale uno dei testi) che asserisce di non saper distinguere “un numero da un altro o un anno da un altro”. “Se si ricorda il costante insegnamento di questa Corte, secondo cui la valutazione delle risultanze della prova testimoniale e il giudizio sull’attendibilità dei testi (e sulla credibilità) involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice nel merito, il quale nel porre a fondamento della decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare ogni deduzione difensiva (cfr. ex multis Cass. n. 2008/96 ), ci si convincerà come la sentenza sia del tutto immune da censure o critiche di sorta, e ciò anche alla luce del rilievo che in ricorso non viene indicata quale norma di legge sarebbe stata violata”. Con la sentenza n. 18551 del 29/10/2012, la Corte Suprema di Cassazione ha rigettato il ricorso avverso la sentenza della Corte di Appello che aveva condiviso il giudizio del giudice di primo grado il quale “aveva ritenuto di dare maggiore credito a quanto dichiarato dai lavoratori nel corso dell’accertamento ispettivo rispetto alla versione fornita dai testi in sede istruttoria”. “La Corte di Appello condivideva tale giudizio rilevando che la prima versione si presentava dotata di un maggior grado di attendibilità e genuinità anche per l’univocità delle dichiarazioni e la circostanziata descrizione dei fatti…”. Per la cassazione di tale sentenza, la società proponeva ricorso affidandolo a otto motivi e, in particolare, con i primi tre, denunciava “violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., artt. 1697 e 2700 c.c. (art. 360 c.p.c. n. 3 ) e vizio di motivazione (art. 360 c.p.c. n. 5 ), sostenendo l’erronea interpretazione dei principi che regolano la valenza indiziaria delle informazioni trasfuse nei verbali ispettivi, pure in relazione alla possibilità che queste siano invalidate dalla prova contraria; l’erronea valutazione delle dichiarazioni rese dai lavoratori nel corso dell’ispezione, l’omessa considerazione delle contrarie risultanze della prova testimoniale”. Nel ritenere infondati tali motivi, la Corte di Cassazione ha richiamato anzitutto la propria costante giurisprudenza secondo la quale “i verbali redatti dagli ispettori del lavoro o comunque dai funzionari degli enti previdenziali, fanno fede fino a querela di falso ai sensi dell’art. 2700 c.c. solo relativamente alla loro provenienza dal sottoscrittore, alle dichiarazioni rese ed agli altri fatti che egli attesti come avvenuti in sua presenza o da lui compiuti, mentre, per quanto riguarda le altre circostanze di fatto che egli segnali di avere accertato nel corso dell’inchiesta per averle apprese da terzi o in seguito ad altre indagini, i verbali per la loro natura di atto pubblico hanno un’attendibilità che può essere infirmata solo da una specifica prova contraria” ( Sezioni unite n. 916 del 3/02/1996; conf. nn. 3973 e 7168 del 1998; nn. 3374 e 5141 del 1999; n. 5227 del 2001, n. 13003 del 2003; n. 12009 del 2004 ). È poi riportato: “La censura secondo cui la Corte di appello avrebbe violato i principi di diritto di cui agli artt. 115, 116 c.p.c. e artt. 2697 e 2700 c.c., non è fondata, atteso che non è stato attribuito alcun valore di prova privilegiata, ma le circostanze riferite dai lavoratori sono state motivatamente apprezzate in una valutazione comparativa con le risultanze istruttorie, privilegiando le prime per una serie di argomenti di ordine logico, nemmeno specificamente censurate dalla ricorrente.” “In tema di valutazione delle risultanze probatorie in base al principio del libero convincimento del giudice, la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. è apprezzabile, in sede di ricorso per cassazione, nei limiti del vizio di motivazione di cui all’art. 360 c.p.c. comma 1, n. 5, e deve emergere direttamente dalla lettura della sentenza, non già dal riesame degli atti di causa, inammissibile in sede di legittimità” ( Cass. n. 14267 del 2006; cfr. pure Cass. 12 febbraio 2004 n. 2707 )”. “Il ricorso in esame sollecita, nella forma apparente della denuncia di error in iudicando, un riesame dei fatti, inammissibile in questa sede”. “Quanto al vizio di motivazione (art. 360 c.p.c. comma 1, n. 5 ) premesso che questo può rilevare solo nei limiti in cui l’apprezzamento delle prove, liberamente valutabili dal giudice di merito, costituendo giudizio di fatto, si sia tradotto in un iter formativo di convincimento affetto da vizi logici o giuridici, restando altrimenti insindacabile, deve rilevarsi che risultano enucleabili soltanto tre censure dotate di un sufficiente grado di specificità rispetto alla motivazione della sentenza impugnata. Si sostiene che la Corte di appello avrebbe trascurato di considerare alcuni fatti di importanza determinante: …” e si conclude che “i fatti dedotti con tali censure sono privi di decisività”. La Corte di Cassazione, sezione lavoro, con sentenza dell’8/09/2015 n. 17774 infine, ha rigettato un ricorso avverso la sentenza della Corte di Appello che, confermando la sentenza del Tribunale di Salerno, alla base del decisum, poneva il rilievo fondante secondo il quale la prova del credito dell'INPS era evincibile dalle dichiarazioni rese dai lavoratori in sede ispettiva alle quali doveva darsi prevalenza, rispetto a quelle rese in sede giudiziaria, essendo le stesse fornite nell'immediatezza dei fatti. Avverso tale sentenza la società ricorreva in cassazione in ragione di quattro censure. In particolare, con il primo motivo i ricorrenti, deducendo violazione degli artt. 113, 115, 116, e 244 c.p.c. nonché dei principi generali in materia di formazione e valutazione della prova, sostenevano “che erroneamente la Corte del merito ha attribuito alle dichiarazioni verbalizzate dagli ispettori dell'INPS valore di prova prevalente su quelle raccolte in giudizio”. Lavoro@Confronto - Numero 24-25 - Novembre 2017/Febbraio 2018

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La suprema Corte, nel ritenere infondato tale motivo, ha affermato: “Costituisce, invero, principio ripetutamente affermato da questa Corte quello secondo cui verbali redatti dai funzionari degli enti previdenziali e assistenziali o dell'Ispettorato del lavoro fanno piena prova dei fatti che i funzionari stessi attestino avvenuti in loro presenza o da loro compiuti, mentre, per le altre circostanze di fatto che i verbalizzanti segnalino di avere accertato (ad esempio, per le dichiarazioni provenienti da terzi, quali i lavoratori, rese agli ispettori) il materiale probatorio è liberamente valutabile e apprezzabile dal giudice, unitamente alle altre risultanze istruttorie raccolte o richieste dalle parti ( Cass. 19 aprile 2010 n. 9251 e Cass. 6 settembre 2012 n. 14965 ). “È corretta in diritto, pertanto, la sentenza impugnata che conferisce alle dichiarazioni rese dai lavoratori in sede di verbale ispettivo maggiore attendibilità, per essere state le stesse fornite nell'immediatezza del fatto, rispetto a quelle rese in sede giudiziale. Del resto è al giudice del merito che spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l'attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all'uno o all'altro dei mezzi di prova acquisiti (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge) ( Cass. 12 febbraio 2008 n. 3267 e 27 luglio 2008 n. 2049 )”. In definitiva, considerato che nel nostro ordinamento, al di fuori della prova legale sottoposta dal legislatore ad un’aprioristica valutazione della sua efficacia, non si può attribuire necessariamente una maggiore valenza probatoria alle dichiarazioni rese in sede giudiziale rispetto a quelle rese in sede ispettiva, spettando in via esclusiva al giudice del merito, in forza del principio generale di cui all’art. 116 c.p.c., il compito di individuare di volta in volta le fonti del proprio convincimento dando così, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, e non incontrando altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, si può comunque affermare che l’attività investigativa svolta da personale ispettivo, nel fornire elementi di riscontro sia interni alla stessa dichiarazione di cui è in gioco l’attendibilità (con un contenuto preciso e dettagliato ) che esterni alla stessa, in quanto coerente ad altri dati documentali e/o testimoniali, potrà portare il giudice del merito a dare prevalenza a tali dichiarazioni acquisite nel corso della procedura sanzionatoria rispetto a quelle acquisite in giudizio.

Note [1]

L’art. 115 c.p.c. rubricato “Disponibilità delle prove” così recita: “Salvi i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero, nonché i fatti non specificamente contestati dalla parte costituita. Il giudice può tuttavia, senza bisogno di prova, porre a fondamento della decisione le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza.” [2] Con la circolare n. 28 del 2 novembre 2011, avente ad oggetto il “D.Lgs. n. 150 del 1° settembre 2011”, il Ministero del Lavoro ha fornito le prime istruzioni in merito alla nuova disciplina processuale del giudizio di opposizione ad ordinanza ingiunzione. [3] L’art. 2, c. 4 D.Lgs. n. 150/2011 dispone: ”Salvo che sia diversamente disposto, i poteri istruttori previsti dall’art. 421, secondo comma, del codice di procedura civile non vengono esercitati al di fuori dei limiti previsti dal codice civile”. [4] L’art. 116 c.p.c. rubricato “ Valutazione delle prove” cosi dispone: “Il giudice deve valutare le prove secondo il suo prudente apprezzamento, salvo che la legge disponga altrimenti. Il giudice può desumere argomenti di prova dalle risposte che le parti gli danno a norma dell’articolo seguente, dal loro rifiuto ingiustificato a consentire le ispezioni che egli ha ordinato e, in generale, dal contegno delle parti stesse nel processo”. [5] Conf. Cass. Sez. L. sentenza n. 11933 del 7/08/2003; Cass. n. 9662 del 2001; n. 13910 del 2001; Sez. L. sentenza n. 10739 del 2/12/1996. [6] Occorre fare notare che il punto n. 5 ) dell’art. 360 c.p.c., comma 1, invocato nel motivo di ricorso in esame, così recitava: “per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile di ufficio”, tale formulazione era stata ulteriormente modificata dal legislatore del 2006 (art. 2 del D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40 ), nel senso che il vizio di motivazione avrebbe dovuto riguardare «un fatto controverso e decisivo per il giudizio », sino all’attuale numero 5 ) dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nella versione di testo introdotta dall’art. 54, comma 1, lett. b ), del D.L. 22/06/2012, n. 83, convertito con modificazioni nella legge 7 agosto 2012, n. 134, che consente il ricorso per cassazione solo per “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”. A norma dell’art. 54, c. 3, del medesimo decreto, tale disposizione si applica alle sentenze pubblicate dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione del predetto decreto. [*] Avvocato - Funzionario ispettivo dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro in servizio presso l’ITL di Cosenza – AREA Legale e Contenzioso. Le considerazioni contenute nel presente scritto sono frutto esclusivo del pensiero dell’autore e non hanno in alcun modo carattere impegnativo per l’Amministrazione di appartenenza.

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La sicurezza del lavoro nello svolgimento dello smart working Criticità e scenari futuri di Gianluca Meloni [*]

Premessa L’approvazione della Legge n. 81/2017, recante “Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato”, ha portato a compimento il percorso parlamentare iniziato con la presentazione del DDL n. 2233. La norma approvata è articolata in due sezioni: Il Capo I (“tutela del lavoro autonomo” ), è finalizzato al rafforzamento delle tutele del lavoratore autonomo e all’incremento delle opportunità di accesso al mercato. Il Capo II, dall’altro lato si rivolge ai lavoratori dipendenti interessati al “lavoro agile” (definito anche “smart working”), consentendo “modalità flessibili di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato allo scopo di incrementarne la produttività e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro”. La norma prevede che, nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato, lo smart working consente – senza alcuna discriminazione in relazione all’aspetto retributivo – di realizzare l’attività lavorativa in tutto o in parte al di fuori dei locali aziendali, attraverso l’utilizzo di dispositivi tecnologici che permettono la connessione perpetua. Con riferimento alla specifica regolazione della sicurezza del lavoro nello smart working, la norma prevede quanto segue: Il lavoratore ha diritto: alla tutela contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali dipendenti da rischi connessi alla prestazione lavorativa resa all'esterno dei locali aziendali; alla tutela contro gli infortuni sul lavoro occorsi durante il normale percorso di andata e ritorno dal luogo di abitazione a quello prescelto per lo svolgimento della prestazione lavorativa all'esterno dei locali aziendali, nei limiti e alle condizioni di cui al terzo comma dell'articolo 2 del testo unico delle disposizioni per l'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 1965, n. 1124, e successive modificazioni, quando la scelta del luogo della prestazione sia dettata da esigenze connesse alla prestazione stessa o dalla necessità del lavoratore di conciliare le esigenze di vita con quelle lavorative e risponda a criteri di ragionevolezza. Il datore di lavoro è tenuto alla tutela della salute e della sicurezza del lavoratore che svolge la prestazione in modalità di lavoro agile, e a tale fine deve consegnare al lavoratore e al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, con cadenza almeno annuale, un'informativa scritta nella quale sono individuati i rischi generali e i rischi specifici connessi alla particolare modalità di esecuzione del rapporto di lavoro. Altresì, il lavoratore è tenuto a cooperare all'attuazione delle misure di prevenzione predisposte dal datore di lavoro per fronteggiare i rischi connessi all'esecuzione della prestazione all'esterno dei locali aziendali.

La disciplina della sicurezza nei luoghi di lavoro La piena e corretta applicazione della normativa che disciplina la tutela della salute e della sicurezza del lavoro in un contesto di modalità lavorativa di “smart working” presenta aspetti peculiari che necessitano di una attenta analisi. A tale fine, è necessario richiamare alcune regole generali che possono essere desunte dal Decreto Legislativo 81/2008: La tutela della salute e della sicurezza del lavoro è responsabilità del datore di lavoro, anche qualora l’attività lavorativa si svolga in contesti differenti dai locali aziendali. Con riferimento ai destinatari delle misure, l’art. 2, comma 1, lettera a), specifica che per “lavoratore” si intende la “persona che, indipendentemente dalla tipologia contrattuale, svolge un’attività lavorativa nell’ambito dell’organizzazione di un datore di lavoro pubblico o privato, con o senza retribuzione, anche al solo fine di apprendere un mestiere, un’arte o una professione, esclusi gli addetti ai servizi domestici e familiari”. Lavoro@Confronto - Numero 24-25 - Novembre 2017/Febbraio 2018

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L’art. 3, comma 4, secondo cui “il presente Decreto legislativo si applica a tutti i lavoratori e lavoratrici, subordinati e autonomi, nonché ai soggetti ad essi equiparati”, il D.Lgs. n. 81/2008 si applica integralmente a tutela di qualsiasi persona anche non subordinata che di fatto eserciti l’attività nell’ambito dell’organizzazione di un datore di lavoro, a prescindere dalla tipologia contrattuale. I principi di base della normativa in materia di sicurezza sul lavoro sono necessariamente il punto di partenza per delineare il regime della responsabilità del datore con riferimento alla prestazione svolta nella modalità di lavoro definita “smart working”; in tale contesto occorre ricordare che qualsiasi analisi riguardante la disciplina della sicurezza nei luoghi di lavoro deve avere quale precipuo riferimento la norma generale di cui all’art. 2087 del Codice Civile, il quale prevede l’obbligo a carico del datore di lavoro di adottare “tutte le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. Il datore ha pertanto l’obbligo per individuare e valutare i rischi connessi alle attività svolte e agli ambienti lavorativi specifici (la “particolarità del lavoro” ), nonché di predisporre e aggiornare tutte le misure finalizzate ad ovviare le conseguenze dannose, attraverso gli strumenti disponibili in base alle conoscenze e alle tecniche disponibili. In questo quadro normativo anche il lavoro subordinato svolto all’esterno della sede aziendale è stato incluso nell’alveo protezionistico.

Sicurezza nei luoghi di lavoro e smartworking

Elementi di criticità emersi nel dibattito parlamentare

Nel dibattito parlamentare che ha preceduto l’approvazione della Legge n. 81/2017 sono emersi differenti aspetti di particolare criticità riguardanti le gestione della sicurezza del lavoro nello smartworking; nello specifico il principale nodo è riferito alla possibilità che gli eventi infortunistici e le malattie professionali legati esclusivamente alla scelta discrezionale del luogo da parte del lavoratore - ambito su cui il datore di lavoro non ha un controllo diretto e immediato - possano o meno essere addebitati a titolo di colpa al datore di lavoro. A tale riguardo, il Governo, nella presentazione del disegno di legge, si è impegnato a: dare soluzioni interpretative finalizzate a “garantire al lavoratore un’adeguata tutela e non aggravare la responsabilità del datore di lavoro per eventi che potrebbero andare oltre la sua sfera di controllo”; considerare la consegna dell’“informativa scritta nella quale sono individuati i rischi generali e i rischi specifici connessi alla particolare modalità di esecuzione del rapporto di lavoro” (art. 22, comma 1 Legge n. 81/2017 ) dirimente rispetto ad ogni altro onere del datore in riferimento alla sicurezza del luogo di lavoro esterno alle proprie strutture. Nel corso del dibattito parlamentare è emerso un orientamento di fondo teso a considerare l’informativa scritta, unitamente agli altri obblighi di natura formativa e informativa, quale unico contributo alla sicurezza realizzabile dal datore di lavoro in regime di smartworking. Tuttavia, in tale quadro sono ravvisabili differenti elementi relativi alla garanzia delle sicurezza del lavoro nello smartworking – di seguito descritti - che necessitano di una attenta analisi.

Previsione delle coperture Inail Con riferimento alle coperture Inail, la Legge n. 81/2017 dispone che “Il lavoratore ha diritto alla tutela contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali dipendenti da rischi connessi alla prestazione lavorativa resa all’esterno dei locali aziendali” (art.23, comma 2 ). Riguardo a alla copertura INAIL dell’infortunio in itinere verso il luogo di svolgimento della prestazione di lavoro agile, è necessario individuare se lo spostamento venga considerato verso il luogo di lavoro a prescindere da qualsiasi indagine circa l’occasione di lavoro. Nello specifico, “il lavoratore ha diritto alla tutela contro gli infortuni sul lavoro occorsi durante il normale percorso di andata e ritorno dal luogo di abitazione a quello prescelto per lo svolgimento della prestazione lavorativa all’esterno dei locali aziendali, nei limiti e alle condizioni di cui al terzo comma dell’articolo 2 del testo unico delle disposizioni per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 1965, n. 1124 e successive modificazioni, quando la scelta del luogo della prestazione sia dettata da esigenze connesse alla prestazione stessa o dalla necessità del lavoratore di conciliare le esigenze di vita con quelle lavorative e risponda a criteri di ragionevolezza”.

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Attrezzature di lavoro Con riferimento alle attrezzature di lavoro, la norma non contiene una specifica limitazione della responsabilità del datore di lavoro ai soli strumenti che vengono forniti da quest’ultimo al lavoratore. Tuttavia, l’art. 18, comma 2 della Legge n. 81/2017, specifica che il datore è “il datore di lavoro è responsabile della sicurezza e del buon funzionamento degli strumenti tecnologici assegnati al lavoratore per lo svolgimento dell’attività lavorativa”, ravvisando in tale modo una responsabilità dell’infortunio connesso al malfunzionamento e al difetto di sicurezza degli strumenti tecnologici che abbia affidato al lavoratore per lavorare in smart working.

Responsabilità del datore di lavoro Come già precedentemente accennato, un aspetto centrale della regolazione della sicurezza del lavoro nello smartworking riguarda la responsabilità per l’infortunio connesso al luogo di lavoro esterno scelto dal lavoratore, nonché per qualsiasi rischio connesso all’attività lavorativa. È evidente la difficoltà per il datore di lavoro di prevedere tutti i pericoli incombenti sul prestatore il quale svolga l’attività lavorativa in un luogo la cui scelta è a esclusiva discrezione del lavoratore, con la conseguente difficoltà di prevenire gli infortuni connessi ad un luogo ignoto. In base ad alcune interpretazioni, l’impossibilità della prevenzione antinfortunistica comporterebbe il venir meno del presupposto della responsabilità del datore di lavoro per la sicurezza connessa al luogo di svolgimento della prestazione. A tale proposito è necessario richiamare quanto previsto dalla Legge n. 81/2017, la quale mantiene in capo al datore di lavoro l’obbligo tutela della salute e della sicurezza del lavoratore che svolge la prestazione in modalità di lavoro agile: la norma espressamente prevede che “il datore di lavoro garantisce la salute e la sicurezza del lavoratore che svolge la prestazione in modalità di lavoro agile e a tal fine consegna al lavoratore e al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, con cadenza almeno annuale, un’informativa scritta nella quale sono individuati i rischi generali e i rischi specifici connessi alla particolare modalità di esecuzione del rapporto di lavoro” (art. 22, comma 1 ). Quest’ultima formulazione deve essere ricollegata ai relativi obblighi per il datore di lavoro previsti dalle specifiche norme in materia di sicurezza nei luoghi di lavoro, e in particolare all’obbligo di valutazione dei rischi, e di redazione del Documento Valutazione Rischi il quale deve contenere – in base alla previsione dell’art. 28, comma 2, lett. D D.Lgs. 81/2008 – anche «l’individuazione delle procedure per l’attuazione delle misure da realizzare nonché dei ruoli dell’organizzazione aziendale che vi debbono provvedere, a cui devono essere assegnati unicamente soggetti in possesso di adeguate competenze e poteri». Altresì, il lavoratore è tenuto a cooperare all'attuazione delle misure di prevenzione predisposte dal datore di lavoro per fronteggiare i rischi connessi all'esecuzione della prestazione all'esterno dei locali aziendali (art. 22, comma 2 ). È evidente come il vincolo per il datore di lavoro di rispetto di tali obblighi, e ciò che ne scaturisce in termini di attività preventive e di misure correttive, implichi che la legge n. 81/2017 non possa derogare alla regola dell’applicabilità integrale del D.Lgs. n. 81/2008. Sebbene nell’art. 22, comma 1, secondo periodo, disponga che il datore di lavoro “consegna al lavoratore e al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, con cadenza almeno annuale, un’informativa scritta nella quale sono individuati i rischi generali e i rischi specifici connessi alla particolare modalità di esecuzione del rapporto di lavoro”, non si può affermare che questa “informativa scritta” sia l’unico obbligo del datore di lavoro a tutela della sicurezza del lavoratore agile. Altresì, da un’attenta analisi dell’articolato normativo in materia prevenzionistica e in particolare degli obblighi in materia di valutazione dei rischi sopra indicati, scaturisce che il datore di lavoro ha l’obbligo: di valutare “tutti” i rischi, in linea con quanto prevedono gli artt. 17, comma 1, lettera a), e 28, D.Lgs. n. 81/2008 (quest’ultimo, al comma 1, vincola il datore di lavoro a valutare i rischi “connessi alla specifica tipologia contrattuale attraverso cui viene resa la prestazione di lavoro” ); di individuare, nell’informativa scritta, non solo “i rischi generali”, ma anche “i rischi specifici”, ossia “i rischi connessi alla particolare modalità di esecuzione del rapporto di lavoro”. A tale proposito nel lavoro agile, in base all’art. 18, comma 1, secondo periodo, legge n. 81/2017 “la prestazione lavorativa viene eseguita, in parte all’interno di locali aziendali e in parte all’esterno senza una postazione fissa”: conseguentemente il datore di lavoro ha l’obbligo di individuare i rischi generali e specifici sia “all’interno”, sia “all’esterno”, dei “locali aziendali”. Da un’attenta analisi dell’art. 22, comma 1, è evidente che “l’informativa scritta non è riducibile al rango di una comunicazione generica e astratta: sia perché persegue la dichiarata finalità di garantire la salute e la sicurezza del lavoratore che svolge la prestazione in modalità di lavoro agile; sia perché ha per contenuto l’individuazione dei rischi. Al primo riguardo, è da notare che il legislatore non si limita a disporre l’informativa scritta al fine di garantire la salute e la sicurezza del lavoratore che svolge la prestazione in modalità di lavoro agile, ma prima ancora separatamente e in termini onnicomprensivi prescrive che “il datore di lavoro garantisce la salute e la sicurezza del lavoratore che svolge la prestazione in modalità di lavoro agile” [1] .

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Considerazioni conclusive È evidente che quanto definito dalla nuova normativa che regola lo “smart working” con riferimento alla gestione della sicurezza e della salute sia in linea con la previsione normativa previgente; quest’ultima è però stata definita in un contesto nel quale il telelavoro aveva un ruolo decisamente marginale, e di conseguenza una complessità di gestione della prevenzione e protezione molto bassa. Vi è tuttavia una differenza fondamentale tra lavoro agile e lavoro da casa o telelavoro. La peculiarità del cosiddetto lavoro agile sta, infatti, nella possibilità di espletare la prestazione lavorativa in qualunque situazione, anche sconosciuta al datore di lavoro, e con qualsiasi tipo di strumentazione. In uno scenario di diffusione dello smart working come quello che si prefigura per i prossimi anni, probabilmente affiancato anche da una progressiva flessibilità dell’orario lavorativo dei singoli, l’attuale normativa sulla sicurezza del lavoro rischia di non essere sufficiente: anche in un’attività d’ufficio la valutazione dei rischi ha elementi di rilevanza (microclima, videoterminali, ergonomia, stress lavoro correlato ) che sono di agevole comprensione se il luogo di lavoro è univoco (o comunque limitato alle sedi aziendali), ma la cui complessità aumenta esponenzialmente se i luoghi di lavoro corrispondono agli “n” luoghi scelti discrezionalmente dai lavoratori. In tale contesto, è necessario che il legislatore intervenga al fine di definire con maggiore precisione le modalità di attuazione degli obblighi del datore di lavoro, al fine di garantire la salute e la sicurezza del lavoratore che svolge la prestazione in modalità di lavoro agile, e gli obblighi del lavoratore di cooperare all’attuazione delle misure individuate dal datore di lavoro: sarà da valutare se e come tali specifiche saranno oggetto di successivi decreti attuativi. Infine, vi sono rischi che divengono di difficile valutazione nella modalità di lavoro “smart working”, ma i quali hanno assunto una rilevanza sempre maggiore negli ultimi anni: lo stress lavoro correlato e i rischi ergonomici. È evidente che queste tematiche non possano essere tralasciate: anzi, esse potrebbero avere risvolti che ne amplificano la complessità, in particolare in relazione al rapporto tra lo stress lavoro correlato e le misure tecniche e organizzative necessarie per assicurare la disconnessione del lavoratore dalle strumentazioni tecnologiche di lavoro. Siamo probabilmente agli inizi di una radicale trasformazione delle modalità e delle forme dei rapporti di lavoro, che necessitano la capacità di prevedere scenari nuovi e diversificati, relativamente ai luoghi, ai tempi, agli strumenti, ai ritmi delle attività lavorative: in tale contesto lo smart working rappresenta soltanto un primo esempio di tali mutamenti. Di fronte a tale cambiamenti, la tutela del benessere nei luoghi di lavoro – le cui norme hanno origine in un periodo storico caratterizzato prevalentemente da un’organizzazione tayloristica del lavoro - richiede un radicale ripensamento, che sia fondata su una gestione meramente della sicurezza del lavoro non limitata all’applicazione formalistica di norme cogenti, ma che nella quale abbiano una funzione maggiore gli aspetti organizzativi, partecipativi e culturali.

Note [1]

Raffaele Guariniello, Lavoro agile e tutela della sicurezza, Diritto & Pratica del Lavoro 32 -33/2017.

[*] Laureato in Scienze Politiche all’Università degli Studi di Cagliari, ha conseguito il Master in Safety Management all'Università di Modena e Reggio Emilia. Da oltre dieci anni si occupa professionalmente di consulenza per il mercato del lavoro - in particolare nell’ambito dello sviluppo dei servizi per l’impiego e dei sistemi informativi – e di innovazione e gestione della conoscenza nelle organizzazioni pubbliche e private. www.innovazionelavoro.it

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Lo stato delle relazioni industriali nei due livelli di contrattazione Rappresentanza e rappresentatività dei soggetti contraenti nel settore privato di Marco Biagiotti [*] Ha suscitato scalpore un recente report pubblicato dal CNE L sul proprio sito istituzionale che certifica l’esistenza, in Italia, di 868 contratti collettivi nazionali di lavoro (dati aggiornati al 30 settembre scorso ) distribuiti fra i vari settori produttivi. L’analisi di dettaglio è impressionante: nel settore dell’Agricoltura, ad esempio, sono censiti 49 accordi nazionali vigenti, 34 nei Chimici, 31 nei Meccanici, 39 negli Alimentaristi/Agroindustriali, 68 nell’Edilizia, 65 nei Trasporti, 31 nel Credito/Assicurazioni, 42 nei Servizi, addirittura 213 nel Commercio... Se questo è lo stato dell’arte delle relazioni industriali nel nostro Paese, c'è di che porsi qualche seria domanda sulla direzione verso cui esse stanno evolvendo, almeno per quanto riguarda le evidenze disponibili sulla contrattazione di primo livello. Certo, occorre tener conto del fatto che il report viene compilato secondo una logica che riflette la mission onnicomprensiva dell’Archivio nazionale dei contratti collettivi di lavoro, istituito oltre 30 anni fa e tenuto – per esplicita previsione normativa – ad acquisire, conservare e rendere disponibili alla pubblica consultazione tutti gli accordi di contrattazione collettiva ivi depositati a cura delle parti stipulanti. L’elenco dei contratti nazionali classificati come “vigenti” potrebbe essere sfrondato adottando criteri più selettivi, a seconda delle finalità delle indagini che si vogliono compiere o dei fenomeni che si vogliono mettere in evidenza. Ad esempio, si potrebbero togliere tutti i contratti ‘dinosauro’ (quelli, cioè, che risultano non rinnovati da molti anni, magari perché nel frattempo sono confluiti in altri contratti nazionali), gli accordi di adesione successiva da parte di altre sigle sindacali ad un CCNL capofila, oppure i semplici verbali integrativi di precedenti accordi nazionali: tutte operazioni non particolarmente difficili da compiere, sulla base delle informazioni già contenute nel report stesso; ma il numero totale resterebbe pur sempre alto [1] . E anche ammettendo che la classificazione di cui sopra sia effettuata per comparti molto aggregati e che, ai fini di un’indagine più accurata, essi potrebbero forse essere articolati in un numero maggiore di settori produttivi (magari facendo riferimento ai codici di classificazione professionale ATE CO, oppure distinguendo con più precisione gli accordi in base alle categorie dimensionali delle aziende), resta la chiara percezione di un mondo del lavoro estremamente sfrangiato e disperso, come forse mai era accaduto nella storia economica e sociale dell’Italia negli ultimi decenni. Le conseguenze di questa tendenza in atto nel sistema relazionale, in verità, non sono del tutto chiare, anche perché si tratta di un fenomeno in rapida crescita e ancora relativamente poco esplorato. Occorrerebbe una lettura sistematica e comparativa di tutti i contratti collettivi nazionali vigenti in ciascun settore produttivo [2] per rendersi conto se e dove passi, eventualmente, la sottile linea rossa che divide il pluralismo contrattuale da quel territorio Comanche della democrazia economica in cui il disvalore del lavoro preannuncia e, in qualche misura, configura i segni inequivocabili del dumping. Per adesso, quindi, accontentiamoci degli elementi che è possibile mettere insieme sulla scorta di un’analisi empirica e meramente ricognitiva del materiale disponibile. Il primo elemento che colpisce è che solo una minima parte dei CCNL censiti risultano essere stati siglati dalle tradizionali grandi organizzazioni di lavoratori e datori di lavoro. Molti accordi nazionali portano la firma di sindacati poco noti al grande pubblico e, talvolta, presentano caratteristiche di multisettorialità che li rendono applicabili trasversalmente a più ambiti produttivi, i cui criteri di assemblaggio andrebbero peraltro verificati in termini di coerenza e funzionalità rispetto ai pur flessibili confini dei vari mercati del lavoro esistenti a livello di territorio, di distretto o di filiera. Qualcuno l’ha definita una vera e propria giungla[3] , nella quale si moltiplicano i soggetti rappresentativi che rivendicano la portata nazionale dei propri accordi. Dai quali, beninteso, possono discendere decine (se non centinaia) di accordi di secondo livello presso le imprese che aderiscono alle associazioni nazionali firmatarie o che, più semplicemente, dichiarano di aderire ad accordi da quelle sottoscritti. D’altra parte, gli interventi normativi susseguitisi negli ultimi anni in materia di politiche del lavoro hanno assegnato un ruolo sempre più rilevante al sistema delle relazioni industriali, delegando ad esso – in modo esplicito o implicito – l’attuazione di pezzi importantissimi delle varie riforme messe in campo. Con annessa distribuzione – vedi il caso della defiscalizzazione dei premi di produttività e/o delle prestazioni di welfare aziendale – a lavoratori e imprese di cospicui finanziamenti a carico dell’intera collettività. Bastano queste semplici considerazioni per comprendere come sia divenuto ormai non più solo opportuno, ma forse addirittura necessario e persino urgente giungere alla definizione di criteri oggettivi per misurare la reale rappresentatività delle associazioni che firmano gli accordi nazionali e di secondo livello, anche al fine di evitare, da un lato, il rischio di dumping sociale a danno dei lavoratori e, dall’altro, quello di concorrenza sleale fra imprese che operano nello stesso settore produttivo. Lavoro@Confronto - Numero 24-25 - Novembre 2017/Febbraio 2018

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Come è ben noto da circa 25 anni ai grandi sindacati confederali e alle grandi associazioni datoriali, la misurazione della rappresentatività dei soggetti che firmano gli accordi nazionali è un’operazione complicata, non solo per motivi tecnici. Per adesso si è riusciti ad attuarla solo nella pubblica amministrazione, dove dal 1998 viene regolarmente misurata e certificata ogni tre anni la percentuale di rappresentatività delle organizzazioni sindacali firmatarie degli accordi nazionali; e dove solo quelle che raggiungono la soglia del 5% su base nazionale vengono ammesse alle trattative per i rinnovi dei CCNL. Ma la p.a. è un universo chiuso, stabile e consolidato, regolato da norme e leggi ad hoc e sostenuto da un apparato burocratico che funziona per procedure ed adempimenti, la cui mancata attuazione comporta precise responsabilità amministrative e disciplinari a carico di dirigenti e funzionari incaricati. Nulla a che vedere con il mondo del lavoro privato, che in Italia è formato da una sterminata galassia di circa 4,3 milioni di imprese grandi, medie, piccole e piccolissime, impegnate in una quotidiana lotta per la sopravvivenza ed alla continua ricerca di nuovi assetti e strategie tramite fusioni, scorpori, cessione di rami, acquisizioni, trasferimenti, revisioni organizzative… l’immagine stessa del cambiamento e della trasformazione continua. Come misurare, allora, ciò che per sua stessa natura (e per le leggi del mercato ) muta incessantemente? La soluzione sembrava l’avessero trovata Confindustria, Cgil, Cisl e Uil quando, dopo un percorso di progressiva convergenza durato diversi anni, il 10 gennaio 2014 firmarono insieme il Testo Unico sulla Rappresentanza, ossia una procedura per ‘pesare’ le organizzazioni sindacali ai fini della validità degli accordi nazionali del settore privato. In estrema sintesi, la procedura (che con protocolli successivi è stata estesa a quasi tutti i principali settori del mondo produttivo e ha visto l’adesione di altre importanti confederazioni sindacali e datoriali) prevede che la rappresentatività sindacale venga determinata a livello nazionale calcolando, settore per settore, la media ponderata fra il numero degli iscritti a ciascun sindacato e il numero dei voti riportati da ciascuna lista sindacale nelle elezioni per le rappresentanze sindacali unitarie ( RSU) effettuate in ogni singola unità produttiva a suffragio universale fra tutti i lavoratori, indipendentemente dal fatto che siano iscritti o meno a un’organizzazione sindacale. A grandi linee, il meccanismo ricalca quello già applicato nel settore pubblico, ma con alcune differenze fondamentali. La prima è che nel pubblico le elezioni per le RSU sono obbligatorie e si tengono per legge ogni tre anni, mentre nel privato non esiste l'obbligo per le aziende di costituire, al proprio interno, queste forme di rappresentanza; quindi, in molte imprese esse non sono mai state elette, né forse lo saranno mai. Anzi, nella maggior parte delle imprese di piccole dimensioni, che in Italia sono più del 90%, non è presente alcuna forma di rappresentanza sindacale, per cui non avviene alcun tipo di contrattazione di secondo livello e l’applicazione delle norme sullo sgravio fiscale del salario di produttività e del welfare contrattuale avviene a seguito di formale e spontanea adesione delle imprese ad altri accordi già stipulati a livello territoriale. D’altronde, anche fra le grandi aziende esistono sensibilità alquanto diverse sul tema della scelta delle rappresentanze interne, come dimostra, uber alles, il caso Fiat (ora FCA), in cui le rappresentanze sindacali che firmano gli accordi nazionali e a livello di unità produttiva vengono scelte dai lavoratori (e fra i lavoratori) con criteri che non seguono affatto le indicazioni del Testo Unico del 10 -1 -2014 [4] . La seconda differenza è che nel pubblico la rilevazione del dato associativo e di quello elettorale, dalla cui media ponderata si ricava, appunto, la rappresentatività delle organizzazioni sindacali, viene effettuata a cura (e sotto la responsabilità) della macchina amministrativa, con procedure definite nei minimi dettagli e scandite da precise scadenze temporali. I datori di lavoro privati, viceversa, comunicano all’INPS (peraltro non obbligatoriamente) il numero delle deleghe alle varie associazioni sindacali risultanti in ogni unità produttiva, mentre il compito di rilevare i numero dei voti ottenuti nelle elezioni per le RSU (parliamo ovviamente delle aziende dove le elezioni vengono effettuate, che non sono certo la totalità) è affidato, in ogni territorio e per ciascun settore di applicazione dei CCNL, a una apposita commissione - il Comitato dei garanti – da costituire ad hoc presso gli uffici periferici del Ministero del lavoro, nel frattempo transitati sotto l’egida dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro. Secondo le previsioni del Testo Unico, la media ponderata delle due rilevazioni per il settore privato, nonché la successiva certificazione della rappresentatività delle organizzazioni sindacali ai fini della validità degli accordi nazionali di contrattazione collettiva, spetterebbe al CNE L[5] , che dovrebbe a tal fine ricevere i dati dagli altri due enti previa stipula di apposite convenzioni operative: un sistema, come si vede, nettamente più complesso e dispersivo di quello adottato per la p.a., difficile da far funzionare (infatti finora non ha mai funzionato ) senza che vi sia uno stretto coordinamento strategico -politico, oltre che tecnico e operativo, fra tutti i soggetti pubblici e privati coinvolti. A queste differenze, poi, se ne aggiunge una terza, forse ancora più determinante delle altre due: nel pubblico gli accordi sindacali, nazionali e decentrati, si fanno con un datore di lavoro (la pubblica amministrazione) che non ha bisogno di essere ‘misurato’, dal momento che rappresenta l’interesse generale della collettività e, pertanto, non compete con altri soggetti datoriali omologhi per natura e funzioni; nel mondo delle imprese gli accordi nazionali recano la firma delle organizzazioni (private) dei lavoratori e delle organizzazioni (private) dei datori di lavoro: ma il meccanismo di misurazione della rappresentatività escogitato nel Testo Unico del 10 1 -2014 riguarda solo le prime. Chi garantisce che anche il datore di lavoro privato firmatario di un determinato accordo nazionale di Lavoro@Confronto - Numero 24-25 - Novembre 2017/Febbraio 2018

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categoria sia effettivamente rappresentativo in quel settore? Allo stato attuale, nessuno. E questa è una delle ragioni principali (non l’unica, certo ) che sta alla radice dell’impressionante sequela dei quasi 900 contratti collettivi nazionali oggi esistenti in Italia. Senza voler comprimere la libertà di associazione costituzionalmente tutelata, sono forse maturi i tempi per cominciare ad introdurre qualche elemento di oggettività che consenta di risalire quanto meno al numero di imprese che aderiscono ad una certa associazione imprenditoriale, al numero di addetti coinvolti su base nazionale, al peso del loro fatturato nei settori produttivi dove sono presenti. Analogamente, occorrerebbe poter conoscere con sufficiente approssimazione il numero di lavoratori iscritti ad un certo sindacato, le caratteristiche della sua struttura organizzativa, l’effettiva portata degli accordi sottoscritti in termini di ampiezza della platea di destinatari. Nella situazione attuale, è impossibile impedire a qualunque associazione di auto -definirsi rappresentativa e di concludere accordi ‘nazionali’ negli stessi settori già coperti dagli accordi ‘nazionali’ firmati da altre organizzazioni concorrenti, i quali risultano magari meno vantaggiosi per le imprese che vi aderiscono. Del resto, per i datori di lavoro privati non esiste alcun obbligo di applicare, nella propria azienda, un determinato CCNL piuttosto che un altro. Tanto meno esistono, per le associazioni sindacali del settore privato, norme che stabiliscano soglie minime di rappresentatività (come invece avviene nel settore pubblico ) ai fini della validità degli accordi collettivi nazionali. E se consideriamo che attraverso gli accordi collettivi è possibile disciplinare una quantità enorme di aspetti che riguardano la produttività, la qualità e l’organizzazione del lavoro, oltre a quelli di carattere meramente retributivo, si comprende come la concorrenza fra i diversi CCNL (e, quindi, fra le varie associazioni di categoria che si auto -accreditano come “nazionali”) si stia facendo sempre più serrata: non solo all’interno dei settori produttivi, ma soprattutto nelle zone di confine – spesso incerto – fra un settore e l’altro. Qualche esempio illuminante si può trovare spulciando nella galassia di CCNL che rientra sotto le denominazioni Terziario, Distribuzione e Servizi, all’interno dell’aggregato “Commercio”, nei report CNE L di cui si parlava in apertura[6] . Mentre si avvia a regime la ‘pesatura’ delle rappresentatività sindacali ai fini della validità degli accordi, occorrerebbe forse anche immaginare l’istituzione di un registro ufficiale delle associazioni rappresentative nel settore privato ai fini negoziali, attraverso il quale ciascuna organizzazione renda pubblica ed evidente, secondo criteri di piena trasparenza, le informazioni sulla propria struttura organizzativa, sulla propria consistenza associativa, sulla propria attività e sui settori produttivi di riferimento. Cosa si dovrebbe pensare di un accordo collettivo che si autodefinisca ‘nazionale’, ma che risulti firmato (si tratta ovviamente di una pura ipotesi) da un’associazione datoriale e da una sindacale le cui rispettive sedi risultino collocate nello stesso condominio, o nei cui rispettivi organigrammi si incontrino dirigenti che portano lo stesso cognome? Ma il problema non riguarda, ovviamente, solo il livello nazionale della contrattazione. Se i circa 900 accordi nazionali oggi esistenti costituiscono un giacimento di notizie ancora poco note, le migliaia e migliaia di accordi di secondo livello conclusi ogni anno nelle nostre imprese e nei territori rappresentano un campo d’indagine pressoché inesplorato. La progressiva crescita di importanza della contrattazione di secondo livello sta trasformando dal profondo il sistema delle relazioni industriali e, in misura non trascurabile e per quanto ad essa riconducibili, gli stessi criteri di organizzazione del lavoro nelle imprese. L’applicazione di alcuni istituti di rilevante importanza economica e sociale, come la detassazione dei premi di produttività e/o del welfare aziendale, è strettamente vincolata alle previsioni della contrattazione collettiva integrativa, aziendale o territoriale. Ora, dal momento che, secondo le disposizioni introdotte dalla legge 208/2015, queste agevolazioni fiscali dovrebbero essere collegate ad incrementi di redditività e di produttività delle nostre imprese e, quindi, finalizzate ad accrescere la competitività del nostro sistema produttivo, appare necessario organizzare meglio la conoscenza dei contenuti di questi accordi e – per restare al tema del nostro discorso – avere un quadro il più dettagliato ed aggiornato possibile delle organizzazioni (datoriali e sindacali) che li sottoscrivono [7] . A parte le indagini campionarie pubblicate dai centri studi sindacali o da qualche istituto di ricerca specializzato, la fonte più completa ed attendibile di informazioni è rappresentata dai report periodici del Ministero del lavoro sui contratti aziendali e territoriali depositati Lavoro@Confronto - Numero 24-25 - Novembre 2017/Febbraio 2018

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ai fini dell’ottenimento delle detrazioni fiscali previste dalla legge di Stabilità 2016, ai sensi del decreto interministeriale Lavoro Economia 25 marzo 2016. Il più recente di tali report, rilasciato il 15 dicembre scorso, informa che, a partire dall’inizio della procedura di deposito obbligatorio (luglio 2016 ) sono stati inviati telematicamente agli uffici territoriali dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro 28.515 accordi territoriali e aziendali, di cui 15.639 risultano “ancora attivi”. Le informative ministeriali, ancorché succinte, permettono di ricavare notizie preziose sul rapporto numerico tra accordi aziendali e territoriali (ad esempio, si nota che oltre l’80% degli accordi classificati come “attivi” è di tipo aziendale), sulla loro distribuzione geografica (circa il 70% del totale degli accordi depositati si riferisce a regioni del Nord), sull’incidenza dei contenuti legati a temi per i quali la legge prevede lo sconto fiscale sui premi di produttività (su 15.639 accordi “attivi”, 12.269 contengono clausole concernenti il raggiungimento di obiettivi di produttività, 9.033 di redditività, 7.302 di qualità, 5.236 prevedono misure di welfare aziendale e solo 2.039 prevedono un piano di partecipazione dei lavoratori alle scelte strategiche dell’azienda). Ma sarebbe interessante poter disporre, in futuro, di qualche riscontro più preciso anche sui settori produttivi nei quali maggiormente vengono conclusi questi accordi, sul numero e sull’identità dei soggetti che li sottoscrivono, sull’entità dei premi corrisposti in relazione al settore produttivo e al dimensionamento aziendale. In effetti, negli ultimi tempi iniziano a diventare più frequenti i tentativi di analizzare in modo più sistematico la cospicua massa informativa sulla contrattazione di secondo livello, passando al setaccio i testi degli accordi disponibili per provare a comprendere meglio che cosa stia realmente accadendo dentro le nostre aziende e come si stia realmente trasformando il nostro mercato del lavoro. Piace qui ricordare, innanzitutto, lo sforzo compiuto dalla Fondazione D'Antona nel promuovere e curare l'edizione del prezioso volume sulla contrattazione collettiva aziendale in chiave di comparazione internazionale presentato il 13 dicembre scorso [8] . Indagini sulla base dei dati ricavati dal monitoraggio delle dichiarazioni di conformità allegate al deposito telematico dei contratti aziendali e territoriali, ai fini delle agevolazioni sui premi di produttività, sono in corso di elaborazione da parte dell'INAPP, mentre si affacciano nuove ricerche condotte su basi campionarie sempre più ampie e qualificate, aventi per oggetto i contenuti degli accordi decentrati, aziendali e territoriali, conclusi nelle aziende del settore privato [9] . Ma siamo appena agli inizi di un percorso di sistemazione delle conoscenze che non sarà certo facile, né breve, stante una certa difficoltà nel reperire in modo estensivo i testi aggiornati degli accordi sottoscritti, anche per via della scarsa propensione dei soggetti firmatari a renderne pubblico l’accesso. Ma forse il vero salto culturale spetta alle istituzioni pubbliche che, in vario grado e per diverse finalità, sono interessate all’analisi dello sviluppo e delle tendenze delle relazioni industriali. Superando vecchie logiche autoreferenziali che oggi non appaiono più compatibili con la complessità dei fenomeni in atto, le pubbliche amministrazioni (nazionali e locali) devono riuscire a trovare la capacità di operare in sinergia, mettendo a sistema le rispettive competenze istituzionali ed integrando i rispettivi data-base e i rispettivi know-how tecnico operativi. Su questo terreno si gioca una delle sfide più difficili, ma anche più stimolanti per lo sviluppo del Paese nei prossimi decenni: quella, cioè, di realizzare un servizio pubblico in grado non solo di rendere evidenti e riconoscibili, ma di favorire l’adozione su vasta scala e ad ogni livello di buone e qualificanti prassi negoziali.

Note [1]

Secondo un recentissimo studio della Banca d’Italia, “al netto di quelli scaduti il numero dei CCNL presenti nell’Archivio CNE L si dimezzerebbe, rimanendo tuttavia estremamente elevato (373 nel settembre 2017 )”. Vedi: “I recenti sviluppi delle relazioni industriali in Italia”, di Francesco D’Amuri e Raffaella Nizzi, in “Banca d’Italia – Questioni di Economia e Finanza ( Occasional Papers)” n. 416 – Dicembre 2017, pag. 9. Peraltro, al riguardo, sarebbe interessante poter avere qualche ragguaglio più preciso sui criteri adottati per selezionare i “contratti scaduti”, sino ad abbassare la quota dei vigenti a 373. [2] Curiosamente, per quanto consta a chi scrive, una cosa del genere non è stata sinora mai nemmeno tentata: strana Incongruenza per un Paese che vanta decine di affermate cattedre universitarie in studi economici, giuridici, sociali e delle relazioni industriali, con supporto di relative pubblicazioni accademiche, più un Lavoro@Confronto - Numero 24-25 - Novembre 2017/Febbraio 2018

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numero imprecisato di centri di studio e di ricerca istituzionali, pubblici e privati, ma che fatica a trovare la giusta ispirazione per esplorare a fondo un data-base pubblico di straordinario interesse, continuamente aggiornato, facilmente e gratuitamente consultabile on-line da qualunque cittadino munito di una semplice connessione internet. [3] “La giungla degli 868 contratti collettivi”, di Giorgio Pogliotti e Claudio Tucci, in “Il Sole 24 Ore - Norme e Tributi”, 9 novembre 2017. [4] Vedi, al riguardo, la sezione “Diritti sindacali” del Contratto Collettivo Specifico di Lavoro ( CCSL) 7 luglio 2015, firmato, per la parte datoriale, da FCA e CNH Industrial e, per la parte sindacale, da FIM - CISL, UILM - UIL, FISMIC, UG L Metalmeccanici a dall'Associazione Quadri e Capi FIAT. [5] Ma una recente modifica al Testo Unico, sottoscritta da Confindustria, CG IL, CISL e UIL il 4 luglio 2017, ha spostato tale incombenza sull’INPS, sebbene i soggetti firmatari di parte sindacale abbiano successivamente chiarito che si tratta di un passaggio di consegne provvisorio, in attesa che il CNE L – sopravvissuto alle note vicissitudini legate al tentativo di riforma costituzionale promosso dal precedente governo – completi il proprio processo di riforma e di riorganizzazione. Ad ogni modo, nel protocollo del 4 luglio 2017 Confindustria, CG IL, CISL e UIL hanno definito un calendario serrato di adempimenti che dovrebbe portare, nel 2019, al rilascio della prima certificazione effettiva in riferimento ai dati rilevati nell’anno precedente. Peraltro, anche in questo caso i problemi non sarebbero del tutto risolti, poiché molte associazioni datoriali e sindacali autonome (ne nascono come funghi da qualche anno a questa parte e un censimento ufficiale aggiornato non esiste) non hanno aderito all’accordo del 10 gennaio 2014, né si presume che avvertano una particolare urgenza di farlo. Ciò significa che la certificazione della rappresentatività sindacale (quella datoriale, per il momento, non è presa in considerazione), ove mai avvenisse, riguarderebbe solo le associazioni nazionali che abbiano formalmente aderito alle regole del Testo Unico. Le altre resterebbero libere di muoversi in base al semplice presupposto dell’autocertificazione della rappresentatività, continuando a firmare accordi pienamente legittimi in attesa che una legge del Parlamento intervenga, prima o poi, a stabilire regole uguali per tutti. [6] Anche il già ricordato studio della Banca d’Italia dedica significative riflessioni a questo aspetto del problema, in particolare nel paragrafo “La diffusione di CCNL stipulati da organizzazioni poco rappresentative”, dove, fra le altre cose, a proposito del settore Commercio si legge: “Solo per citare alcuni – rilevanti – esempi relativi a questo settore, nel 2011 si è assistito all’uscita dalla Confcommercio di Federdistribuzione, un’associazione cui attualmente aderiscono imprese che rappresentano circa la metà del fatturato della Grande Distribuzione Organizzata e occupano 200.000 addetti. Federdistribuzione continua al momento ad applicare il CCNL “Terziario distribuzione e servizi”, vigente al momento della sua separazione dalla Confcommercio e ora scaduto, non essendo ancora pervenuta alla stipula di un nuovo contratto di lavoro proprio, e non avendo aderito al successivo rinnovo del citato CCNL Terziario, che ha inizialmente previsto un aumento delle retribuzioni pari al 4 per cento nell’arco di 33 mesi. In altri casi sono stati stipulati nuovi CCNL da parte di organizzazioni minori, che prevedevano trattamenti retributivi inferiori, maggiore flessibilità di orario e nessun aumento retributivo nel periodo di vigenza. È questo il caso, ad esempio, del contratto CIFA- PMI del luglio 2013, che prevede, rispetto a quello Confcommercio, una mensilità in meno, un minimo dei minimi inferiore del 7 per cento circa, nessun aumento retributivo nel periodo di vigenza.” (“I recenti sviluppi delle relazioni industriali in Italia”, di Francesco D’Amuri e Raffaella Nizzi, cit., pag. 10 ). [7] Estremamente interessanti appaiono, sotto questo ed altri profili, i riscontri desumibili dal III Rapporto ADAPT sulla contrattazione collettiva in Italia 2014 -2016 ( ADAPT, University Press, 2017 ), elaborati su una base campionaria di 370 contratti aziendali, ancorché selezionati con criteri non esclusivamente afferenti al tema della detassazione. [8] Federica Minolfi “La contrattazione collettiva aziendale. L’ordinamento dell’Unione Europea e l’evoluzione comparata dell’istituto in Francia e in Italia”, Roma, Fondazione prof. Massimo D’Antona, 2017. [9] Vedi: “Contrattazione integrativa e welfare aziendale: un’indagine empirica”, a cura di Claudio Lucifora ( Università Cattolica/CNE L) e Federica Origo ( Università di Bergamo ), presentato il 6 dicembre u.s. al CNE L in occasione del convegno di presentazione del Rapporto su “Mercato del lavoro e contrattazione collettiva 2016 -2017”, (in www.cnel.it/comunicazione/primo -piano ) e che tiene conto anche di 2.094 accordi detenuti dall’Osservatorio O CSE L/CISL sulla contrattazione di secondo livello, nonché di un’indagine condotta da Federmeccanica nel 2015 e 2016 su circa 1.300 imprese del settore metalmeccanico. Nel quadro dei contributi diffusi in occasione del ricordato convegno di cui sopra, si veda anche: “ Welfare aziendale, organizzazione del lavoro, flessibilità degli orari, maternità e paternità: un’analisi qualitativa dei contratti”, realizzato a cura di Antonella Marsala e Fabiana Alias di ANPAL- Servizi, in: CNE L- INAPP - ANPAL, “Mercato del lavoro e contrattazione collettiva 2016 -2017”, pp. 85 -92 (www.cnel.it/rapporto_mercatodellavoro_contrattazione_2016 -2017 ). [*] Marco Biagiotti, già dipendente del Ministero del Lavoro, lavora presso il C NEL. In passato ha collaborato alla realizzazione, per la U IL Pubblica Amministrazione, della collana di volumi “Lavoro e contratti nel pubblico impiego”. Dal 1996 al 2006 è stato responsabile del periodico di informazione e cultura sindacale “Il Corriere del Lavoro”. Lavoro@Confronto - Numero 24-25 - Novembre 2017/Febbraio 2018

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Le prospettive della contrattazione collettiva Preoccupazioni e proposte dei protagonisti della tavola rotonda sulle relazioni industriali di Claudio Palmisciano [*]

Un’occasione importante di discussione, quello della tavola rotonda tenutasi lo scorso 13 dicembre presso il Ministero del Lavoro sul tema delle relazioni industriali, che ha potuto contare sulla partecipazione di Giuliano Poletti, Ministro del Lavoro, di Fabrizio Di Lalla, Presidente della Fondazione D’Antona, di Marco Biagiotti, in qualità di Esperto e, per le parti sociali, di Pierangelo Albini, Direttore Area Lavoro e Welfare della Confindustria, e di Carlo Podda, per la Segretaria Confederale della CG IL. Alla tavola rotonda ha fatto seguito la cerimonia della consegna del Premio Massimo D’Antona ai giovani studenti, Elena Gramano e Simone D’Ascola, – risultati vincitori nella selezione per le migliori tesi in diritto del lavoro a seguito dell’avviso emanato dal Ministero del Lavoro – nonché la presentazione del libro di Federica MINO LFI "La contrattazione collettiva aziendale", Roma, della Collana Massimo D’Antona – Lavoro e Diritto. All’iniziativa, organizzata dalla Fondazione Prof. Massimo D’Antona e Coordinata dalla Consigliera Nazionale Palmina D’Onofrio – che si è svolta nel salone delle riunioni intitolato al giurista scomparso – hanno presenziato Direttori Generali del Ministero del lavoro, fra i quali il Direttore Generale dei rapporti di lavoro e delle relazioni industriali, Romolo De Camillis, anche nella veste di Presidente della Commissione scientifica giudicatrice del Premio, la Direttrice Generale dei sistemi informativi e dell'innovazione tecnologica, Grazia Strano, il Presidente dell’Agenzia Nazionale Politiche Attive Lavoro ANPAL, Maurizio Del Conte, il Comandante dei Carabinieri per la tutela del lavoro, Col. Nicodemo Macrì, i membri della Commissione Scientifica giudicatrice del Premio Massimo D’Antona. Presenti anche gli esponenti delle Organizzazioni sindacali confederali e categoriali, fra i quali, Matteo Ariano della CG IL, Antonella La Rosa della CISL, Angelo Vignocchi della UIL e Franco Viola della FIALP - CISAL , Dirigenti e Funzionari del Ministero del lavoro ed i membri del Consiglio d’Amministrazione della Fondazione. I lavori della tavola rotonda sono iniziati con la comunicazione svolta dal Presidente della Fondazione, Fabrizio Di Lalla. “L’argomento scelto per il dibattito – ha detto Di Lalla – è un tema di grande attualità che non esaurisce la sua funzione nell’ambito degli addetti ai lavori, non è, in altri termini un elemento di pura accademia, ma coinvolge la parte maggioritaria e più importante del Paese, quella che fa del lavoro l’elemento fondante della propria vita; si tratta, infatti, dell’evoluzione che le relazioni industriali hanno avuto e stanno avendo da alcuni anni. Pressoché inalterate per decenni per quel che riguarda soggetti, rapporti e contenuti, nell’ultimo periodo hanno subito profonde trasformazioni, anche sotto la spinta di eventi eccezionali e mai verificatisi prima in tale estensione come la grave crisi economica e finanziaria, la globalizzazione planetaria e lo straordinario sviluppo tecnologico che ha messo a dura prova il tradizionale rapporto di lavoro modificandone di fatto una serie di elementi. Per quanto riguarda i soggetti – ha aggiunto Di Lalla – mai come in questo periodo, sono arrivati al Ministero, al CNE L, una miriade di contratti collettivi sottoscritti da sigle, di cui si fa fatica a comprendere chi sono e la loro consistenza. Tale proliferazione è anche l'effetto della mancata soluzione della questione della rappresentanza e della rappresentatività nel privato; nel pubblico, va detto, la questione è stata definita egregiamente ma qui è stato tutto più semplice perché non ci sono gli ostacoli e le valutazioni politiche, Lavoro@Confronto - Numero 24-25 - Novembre 2017/Febbraio 2018

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ideologiche e di interessi contrastanti del privato. Restano pertanto al momento senza risposta le domande che si riferiscono al potere contrattuale dei soggetti firmatari e al loro bacino d’utenza.” Al termine dell’intervento di Di Lalla ha preso quindi la parola Marco Biagiotti, in qualità di esperto, che ha svolto una approfondita comunicazione tecnica sul tema delle relazioni industriali. “Il dinamismo delle relazioni industriali – ha esordito Biagiotti – non è una novità. Esso ha accompagnato tutta la storia italiana economica e sociale del dopoguerra, mostrando spesso la capacità di sapersi muovere in anticipo rispetto agli interventi normativi di riforma del mercato del lavoro. Quello che è nuovo però, specialmente negli ultimi anni, è la dimensione del fenomeno ed anche la velocità di accelerazione delle trasformazioni, anche per effetto di alcune previsioni di legge che hanno delegato alla contrattazione collettiva nazionale, aziendale e territoriale, compiti importanti tra cui, persino, l’attuazione di pezzi significativi delle riforme varate nelle ultime legislature. L’impressione è che non abbiamo ancora un quadro di conoscenza esaustivo di quello che sta avvenendo e credo che questa lacuna ci riguardi soprattutto come pubbliche Istituzioni. Oggi – ha aggiunto Biagiotti – abbiamo 900 accordi censiti come nazionali e per il secondo livello non abbiamo neppure la minima idea di quanti possano essere quelli esistenti nelle varie realtà del sistema produttivo o nei territori, per il semplice motivo che nessuno li raccoglie e li classifica in maniera estensiva e sistematica. Esistono diversi centri di ricerca pubblici e privati, come quelli delle organizzazioni sindacali e datoriali, o quelli che fanno capo ad alcune università, che realizzano e pubblicano indagini apprezzabili su base campionaria. Ma c’è un solo ente che possiede un data-base veramente ampio e che, periodicamente, fornisce un report dei dati contenuti in questo data-base, ed è il Ministero del Lavoro, per effetto dell’attività di raccolta dei contratti collettivi di secondo livello legati alla detassazione del premio di produttività. Un aspetto che dovrebbe essere approfondito – ha detto ancora Biagiotti – riguarda la distribuzione territoriale di questi accordi. Da quel che risulta, la maggioranza di questi accordi di secondo livello sono finalizzati alla corresponsione dei premi di produttività, quindi allo sgravio fiscale sui premi in denaro, meno sul welfare aziendale; però, nello stesso tempo, la stragrande maggioranza degli accordi che prevedono il welfare aziendale risulta essere sottoscritta in aziende collocate nelle regioni del Nord. Pochi giorni fa al CNE L – ha concluso Biagiotti – si è tenuto il tradizionale convegno di presentazione del rapporto sul mercato del lavoro e sulla contrattazione collettiva. Quest’anno il rapporto è stato realizzato in modo un po’ diverso dal solito, è stato fatto a tre voci, diciamo così, in collaborazione fra CNE L, ANPAL ed INAPP ed il tema principale (non l’unico, ovviamente, ma è stato il filone costante di tutto l’evento ) è stato appunto il welfare contrattuale, l’evoluzione di questa istituzione alla luce dei dati disponibili. Sono venute fuori alcune cose molto interessanti, cose che fanno riflettere, per cui vi invito a leggere i documenti pubblicati sul sito del CNE L. E penso che molte di più ne verranno fuori nei prossimi mesi, allorché alcuni studi ancora in corso d’opera verranno completati.“ I lavori della tavola rotonda sono quindi proseguiti con gli interventi delle parti sociali. Per le associazioni datoriali ha preso la parola Pierangelo A lb i n i , Direttore Area Lavoro e Welfare della Confindustria. “Uno degli ultimi lavori di Massimo D’Antona – ha detto in premessa Albini – pubblicato su una rivista di diritto delle Relazioni Industriali, per chi ricorda la sua opera, il suo lavoro, è un contributo molto importante perché è lo sforzo che lui ha fatto per cercare di tenere insieme due cose molto difficili, cioè la mancata attuazione dell’art.39 della Costituzione, che è la causa di tutti i mali di cui Biagiotti ci ha parlato, e la realtà di fatto. Di quel contributo mi ha colpito una cosa, perché lui, in quel saggio, diceva una cosa che deve far riflettere ancora oggi e cioè che la Costituzione non tutela le organizzazioni sindacale (comprese quelle datoriali) per ciò che sono ma, in quanto manifestazione della libertà associativa e del pluralismo, per ciò che tipicamente fanno, riequilibrare il Lavoro@Confronto - Numero 24-25 - Novembre 2017/Febbraio 2018

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potere sociale nella sfera della produzione attraverso la rappresentanza collettiva di interessi, l’organizzazione del conflitto e la contrattazione collettiva. Il tema delle identità delle organizzazioni che rappresentano gli interessi complessi – ha aggiunto Albini – è un tema importantissimo oggi perché è chiaro che chi rappresenta la realtà economica che si trasforma, la realtà sociale che si trasforma, a sua volta è portato a trasformarsi e guai se non fosse così. Quindi le relazioni sindacali cambiano perché gli interessi che bisogna rappresentare sono diversi e quindi anche i soggetti che fanno questo tipo di rappresentanza sono portati a trasformarsi, a cambiarsi. Io, che rappresento la Confindustria, una volta era una organizzazione che rappresentava solo le imprese manifatturiere, oggi le imprese manifatturiere in Confindustria sono il 50% del mondo che la Confindustria rappresenta. Ecco questo fatto del cambiamento, porta a sottolineare una sequenza di parole che non sono prive di significato secondo me, perché bisogna distinguere bene la necessità dai bisogni. Ecco la necessità, anche se spesso usiamo questi due termini come se fossero sinonimi, in realtà sono due cose molto diverse, perché la necessità descrive una cosa che è oggettiva, che ti è data dal contesto reale. È evidente – ha proseguito ancora Albini – che la grande sfida, che oggi abbiamo è proprio quella di riuscire a capire nelle condizioni date quali sono i bisogni che devono essere soddisfatti e quali sono le logiche per soddisfarli. E le relazioni sono fatte da due cose: sono fatte dalle relazioni sindacali, le relazioni fra chi rappresenta i lavoratori e chi rappresenta l’impresa, ma anche da relazioni personali cioè le relazioni che nelle aziende più piccole, cioè quelle meno strutturate, quelle dove non c’è la rappresentanza, il datore di lavoro ha con i propri collaboratori. E tutte e due queste dinamiche, come dire, esistono. Funzionano. E stanno profondamente cambiando. Perché oggi la riflessione vera da fare è che l’equilibrio tra le due si sta spostando. Per quanto riguarda la contrattazione di secondo livello – ha concluso Albini – è chiaro che la stessa avrà un futuro, coerente con ciò che le imprese dovranno affrontare, nella misura in cui sarà in grado di sviluppare modelli partecipativi. E comunque, la contrattazione c’è dove ci sono le imprese che hanno ricchezza da dividere, perché se non c’è ricchezza da dividere, difficilmente c’è anche da contrattare.” Dopo l’intervento di Albini, ha svolto il suo intervento, per le associazioni sindacali dei lavoratori, Carlo Podda, Responsabile Gestione e Implementazione Accordi sulla Rappresentatività della CG IL. “Partecipo a questo appuntamento – ha esordito Podda – non senza qualche emozione perché per molti anni ho lavorato fianco a fianco di Massimo, D’Antona, condiviso buona parte del lavoro su quelle che si chiamano Riforme Bassanini e che forse più propriamente potremo chiamare Bassanini- D’Antona, perché conosco il lavoro fatto nel “retrobottega” ed ho avuto la fortuna di poterne dare, sia pure modesto, contributo nelle discussioni che quotidianamente, per un lungo periodo di tempo, ho fatto con Massimo, dal primo decreto legislativo 80 che riformava il sistema contrattuale del lavoro pubblico, fino alla stesura del decreto legislativo 165. Poi, purtroppo ahimè, infelicemente modificato dai governi che si sono susseguiti ed i cui danni i lavoratori pubblici ma io penso che coloro che dei lavoratori pubblici si servono, i cittadini e le imprese pagano ancora la conseguenze. Comincerò con il fare una affermazione – ha proseguito Podda – che non è tipica dell’organizzatore sindacale, dell’agitatore sociale, che normalmente comincia dicendo: “ Viviamo in una fase difficilissima, negativa!”. Io oggi invece dirò così: penso che siamo dentro una straordinaria opportunità, questa opportunità è data dal fatto che ci stiamo lasciando alle spalle una crisi decennale, con una ripresa che molti economisti definiscono a “Canne d’organo”, non avremo una crescita generalizzata, pari in ogni settore. Alcuni non cresceranno più, bisogna saperlo, altri nuovi si affacceranno, altri stanno per fortuna riprendendo. Dentro questo c’è una crescita dell’occupazione, ma proprio dall’analisi dei dati forniti dal Ministero del Lavoro risulta essere in atto una mutazione nel mercato del lavoro con la forte crescita del lavoro precario. Dentro questo c’è una mutazione ulteriore che deriva da quella che originariamente è stata definita industria 4.0, che noi dal punto di vista sindacale chiamiamo lavoro 4.0 e cioè all’alba di una rivoluzione che sta già producendo i suoi effetti e che cambierà radicalmente il lavoro in ogni suo aspetto. Cambia nel settore manifatturiero, nel settore dei servizi e, perché no, lo cambierà anche nel lavoro pubblico. Per questo – ha aggiunto il rappresentante della C GIL – dico c’è un’opportunità, perché questo incantesimo che raccontava che non c’era più bisogno di nessuna rappresentanza sociale si è rotto, è andato in frantumi e siamo di fronte ad una opportunità, una sfida che viene posta a tutte le organizzazioni. Siamo adeguati? ecco questa è la domanda a cui rispondere Beh io dico di no. Lo dico senza problemi, perché se vuoi chiedere conto agli altri, devi essere prima di tutto in grado di fare i conti con te stesso. Io penso che noi abbiamo bisogno di uno svecchiamento delle organizzazioni della rappresentanza, di un loro ammodernamento e di una loro messa a sistema, in un quadro un po' più chiaro, posso dire, senza nessuna connotazione di carattere morale, un po' più trasparente, nel senso che si capisca di più chi siamo, chi rappresenta chi, e che cosa cerchiamo di rappresentare, cosa cerchiamo di fare. Da appassionato del lavoro pubblico – ha detto ancora Podda – ho notato, entrando al Ministero del Lavoro, dalla lettura delle bacheche sindacali che ci sono delle cose che riguardano sia l’ANPAL che l’INL che non stanno andando con la velocità che noi tutti Lavoro@Confronto - Numero 24-25 - Novembre 2017/Febbraio 2018

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vorremmo che andasse. Siccome quella è una strada che noi come obiettivo abbiamo anche condiviso, sono qui a dire anche a nome dei miei colleghi di questo posto di lavoro, che ci aspettiamo un impulso da parte del Ministro perché queste cose vengano messe nelle condizioni di fare quei compiti straordinari che sono chiamati a svolgere. Infine – ha concluso Podda – se pensate alla vicenda del 4.0 ed al fatto che lo sviluppo della competizione, anche internazionale, avviene nei territori, non avviene a livello nazionale, l’Emilia compete con la Baviera, non è l’Italia che compete con la Germania, allora c’è bisogno di un livello di contrattazione triangolare nei territori tra le parti e con la partecipazione delle istituzioni su come si organizza lo sviluppo e quali sono le linee verso le quali si procede. Perché oggi bisogna decidere che direzione prende questo nuovo modello di sviluppo. E pensare di farlo senza il coinvolgimento e la responsabilizzazione dei territori porta alla moltiplicazione dei casi Tap o delle vicende dell’ILVA. Perché se un territorio si sente scavalcato, se la comunità di quel territorio si sente scavalcata sul modello di sviluppo che lì si sta affermando, si crea la sindrome del da me non vi ci potete mettere, fatelo dove volete purché non si faccia da me e noi questo dobbiamo evitarlo, prevenirlo piuttosto che curarlo una volta che il problema si è verificato. Grazie ancora.” Ha preso quindi la parola, per le conclusioni, Giuliano Poletti, Ministro del Lavoro e delle Politiche sociali. “È sempre una bella occasione – ha esordito il Ministro del Lavoro – quella di incontrarci in questa sede e riflettere a partire dal pensiero di Massimo D’Antona, perché anche gli interventi di Pierangelo Albini e di Carlo Podda, dimostrano che quel pensiero continua ad alimentare la possibilità di riflettere, di ragionare, di scavare in quei contenuti ed utilizzarli certo in una dimensione diversa, che è quella odierna, quella di un mondo che è cambiato e sta cambiando, ma dove dei pilastri della nostra riflessioni possono essere individuati, essere utilizzati per costruire anche una prospettiva futura. Accediamo all’idea che siamo di fronte – ha proseguito Poletti – ad una fase di cambiamento importante che ha dentro grandi contraddizioni ma anche grandi opportunità e grandi sfide. E questa situazione non è risolvibile attraverso delle scorciatoie, che siano di disintermediazione o di altra natura. Considero che la complessità, l’innovatività delle situazioni, le dinamiche sociali che abbiamo di fronte sono tali per cui non c’è un’istituzione che ha una risposta, non c’è una persona che ha una risposta, non c’è un contesto che è in grado di dare compiutamente una risposta a questi dati. O siamo in grado veramente di costruire questa grande operazione di integrazione oppure i risultati saranno sempre e comunque minori di quelli che potrebbero essere. Quindi io continuo a pensare che allora il tema dell’adeguatezza è un tema che vale per tutti. Vale per tutti: per la politica, per le istituzioni, per le rappresentanze sociali, per le rappresentanze imprenditoriali, perché, perché così è il dato. Se vogliamo guardare alle tematiche che sono al centro della riflessione di oggi – ha aggiunto ancora il Ministro Poletti – è evidente che c’è stato e c’è un dinamismo delle relazioni e c’è una discussione aperta sul ruolo dei contratti e della contrattazione nazionale, territoriale ed aziendale. Beh io credo che intanto c’è una prima faccenda che è già dentro la discussione, sulla quale forse dovremo lavorare un po' di più e cioè quali sono le materie tipiche da contratto? Perché se andiamo a vedere i contratti nella loro storia, scopriamo che non si è contrattato sempre e solo quelle cose. C’è da un lato un tema del ‘Che cos’è che contrattiamo?’ e dall’altro lato c’è il come ed il dove. Io sono tra i sostenitori della tesi che serve il contratto nazionale e serve la contrattazione aziendale e territoriale. Io credo che non ci sia un assolutismo logico e di teorie, condizioni di fatto che in giro in qualche paese europeo stanno scritte anche nelle leggi, della serie l’alternatività delle forme contrattuali e quindi se hai il contratto aziendale o di gruppo non hai il contratto nazionale. Quindi non stiamo parlando di qualcosa di impensabile, parliamo di qualcosa che oggi è presente. Penso che per la storia del nostro paese la dimensione del contratto nazionale ha una sua ragione, una sua logica ed una sua, credo, finalità importante. Questo non toglie che dovremo provare ad agire sul tema della contrattazione di prossimità, aziendale o territoriale in ragione delle condizioni, anche qui naturalmente provando a fare questo lavoro che si sta provando a fare della discussione che è Lavoro@Confronto - Numero 24-25 - Novembre 2017/Febbraio 2018

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aperta sulle materie, sulla finalità, sul che cosa deve essere riservato eventualmente al contratto nazionale, che cosa, invece, è bene che trovi una sua presenza all’interno di una contrattazione territoriale o aziendale. Mi soffermo brevemente sul tema del Welfare – ha proseguito Poletti – perché credo che questo sia un tema per cui vale la pena riflettere, questo è un elemento che è entrato dentro la contrattazione sulla base di un pensiero che io sostengo e cioè che questa materia è materia delle parti e quindi la parte pubblica, quello che può fare e deve fare è produrre un contesto favorevole ed eventualmente incentivare delle politiche, delle azioni e dei comportamenti. Non sono d’accordo che la legge stabilisca A, B o C, io penso che da questo punto di vista le parti hanno un ruolo, una responsabilità e quel ruolo e quella responsabilità la esercitino. Da qui il tema della rappresentanza e rappresentatività, la misurazione, la determinazione con i problemi che conosciamo tutti perché sappiamo che non è semplicissimo da realizzare ma sappiamo che anche all’interno dei nostri mondi, adesso uso il plurale, tutti noi troviamo delle difficoltà a realizzare questo passaggio, perché dobbiamo raccogliere delle informazioni, dicevate voi, facciamo fatica a farci dare gli accordi anche da chi appartiene alla nostra organizzazione. Quindi vuol dire che c’è una difficoltà, dobbiamo superare. Bene io credo che questo elemento del Welfare sia un elemento importante, noi abbiamo cercato di sostenerlo attraverso interventi normativi che hanno anche un onere per la collettività. Io penso – ha detto in conclusione il Ministro del Lavoro – che la riflessione che si è sviluppata anche oggi, il dialogo che si è continuato a svolgere è esattamente questo qui, dentro questa dinamica non avere paura di guardare queste situazioni ed accedere all’idea che ciò che abbiamo storicamente conosciuto non è detto che abbia al proprio interno le risposte alle domande che abbiamo di fronte. Quindi abbiamo bisogno di quella che continuo a definire una intelligenza collettiva, che è niente di più e niente di meno che la capacità di dialogo, la capacità di confronto, che è la capacità di riflessione, che è la responsabilità della decisione che compete ognuno di noi. Perché se la gestiamo in questo modo a partire dal fatto che prima costruiamo un dato di consapevolezza, poi analizziamo e valutiamo i fenomeni e poi ognuno nella propria responsabilità, svolge i propri compiti, riconoscendo all’interno della società la responsabilità che ogni soggetto ha, beh io credo che su quella strada siamo in grado di costruire la novità. La risposta alla domanda e accettare la sfida. Diversamente se ognuno si chiude nel suo rettangolo, la cosa più banale che ti viene in mente di fare è tenere ciò che hai e siccome il mondo non è fermo se tu ti tieni quello che hai, finisci fuori giri molto, molto presto. Quindi noi non dobbiamo scivolare mai nella tentazione del ma io quello che ho pensato andava bene e va bene, è l’unico modo di difendere quello che sono è, tra virgolette, rimanere quello che sono. Ma pensare di essere un protagonista di una società che sta misurandosi con questi problemi e queste opportunità e tu hai il tuo ruolo da giocare. Lo hai nella consapevolezza che questa è una parte di un insieme che vede tanti protagonisti e che dentro questo insieme, e che questo insieme avrà la forza di costruire una risposta alle domande, che prese singolarmente magari, come posso dire, ti spingono ad avere qualche preoccupazione o qualche paura e quindi a rifugiarti nel teniamoci quello che abbiamo perché quello che verrà è ragionevolmente probabile che sia peggio. Io penso che l’unico, come posso dire, l’unico antidoto a questo impianto, sia appunto, di sapere che tutti quanti viviamo quel contesto, tutti quanti ci misuriamo con quel contesto e tutti quanti insieme, la risposta, come posso dire a quel cambiamento, a quel un pensiero nuovo, siamo in grado di produrla proprio perché non sei da solo a farlo, ma sei dentro un contesto sociale che ti consente di produrre questo risultato. Io ringrazio tutti quelli che hanno lavorato e la Fondazione perché è sempre una buona occasione, almeno dal mio punto di vista, per ragionare su qualcosa che io considero molto importante.” [*] Direttore Esecutivo Fondazione Prof. Massimo D’Antona Lavoro@Confronto - Numero 24-25 - Novembre 2017/Febbraio 2018

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L’intromissione della legge nella contrattazione collettiva della legge Un grave vulnus all’autonomia contrattuale di Federica Minolfi [*] Nel 2011 sulla scia di quanto realizzato con gli Accordi del 2009, nonché in esito alla vicenda “Fiat” che aveva fatto emergere in tutta la sua portata la debolezza del cd. “sistema sindacale di fatto”, per cui il venir meno del consenso di una delle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative avrebbe potuto comportare la paralisi dell’intero sistema[1] , le parti collettive hanno deciso di intervenire nuovamente in materia, dotandosi finalmente di un accordo sulle regole[2] . L’Accordo interconfederale del 28 giugno 2011, infatti, si apre proprio con l’indicazione dei criteri di misurazione della rappresentatività delle organizzazioni sindacali che siedono ai tavoli per la stipula del contratto di categoria, criteri che mai erano stato definiti fino ad ora, stante il limite invalicabile di cui all’art. 39, commi 2 ss. Cost., ma la cui previsione non poteva essere ulteriormente rimandata[3] . L’elemento più significativo dell’Accordo è sicuramente rappresentato dalla circostanza della ritrovata unità sindacale poiché, se nel settore metalmeccanico erano ormai dieci anni che l’unità di azione aveva ceduto il passo alla “separatezza”, a livello interconfederale e di categoria l’agire unitariamente rappresentava da sempre un vero e proprio “pilone portante dell’intero diritto sindacale extra ordinem, costruito e modellato nel vuoto costituzionale” [4] , almeno fino a quando anche qui l’unità di azione non si è interrotta improvvisamente con l’adozione degli Accordi separati, quadro ed interconfederale, del 2009. La ritrovata unitarietà sul fronte sindacale, per ora a livello interconfederale, può essere senza dubbio considerata l’elemento caratterizzate dell’intero Accordo del 2011 [5] . Ciò che stupisce è che l’unità sindacale, persa nel 2009, venga ritrovata nel 2011 proprio sul punto da sempre più delicato e discusso, quello della misurazione della rappresentatività delle organizzazioni sindacali ai fini della legittimazione alla stipula del contratto di categoria, senza che tale legittimazione possa condizionare in alcun modo la validità dei relativi contratti, nonché mediante l’introduzione di un criterio maggioritario a livello aziendale cui invece si ricollega l’efficacia generalizzata degli accordi conclusi a tale livello. In tal modo, viene finalmente raggiunto quel compromesso tra due delle maggiori confederazioni, le cui posizioni così distanti avevano condotto alla firma separata degli Accordi del 2009 [6] . La Cisl accetta, oltre che un sistema contrattuale con un equilibrio tra i due livelli sostanzialmente immodificato, l’introduzione di criteri oggettivi di misurazione della rappresentatività delle organizzazioni sindacali di categoria che fanno riferimento tanto al dato elettorale, quanto a quello associativo, sulla base del modello predisposto per il settore pubblico [7] . Dal canto suo, invece, la Cgil ha accettato la possibilità che vengano realizzate deroghe alla contrattazione nazionale ad opera del contratto aziendale con una formula molto più ampia ed indeterminata di quella delle clausole d’uscita, che la medesima confederazione aveva rifiutato nel 2009 non firmando [8] . La nuova forma nella quale vengono ora declinate le clausole d’uscita finisce per dar luogo ad una vera e propria “apertura” della contrattazione collettiva di categoria[9] . Solo qualche mese più tardi, e precisamente nell’ambito della cd. manovra finanziaria bis adottata dal Governo al fine di conformarsi ai parametri economici e finanziari imposti dall’Unione europea[10] , sarà lo stesso legislatore ad intervenire in materia, per generalizzare i risultati conseguiti dalle parti sociali oltre il loro originario e naturale ambito di riferimento per attribuirgli efficacia vincolante[11] . Le regole contenute in un contratto collettivo, anche se di livello interconfederale, non possono che avere efficacia obbligatoria ed in quanto tale la loro eventuale violazione non potrà che dar luogo ad una responsabilità endoassociativa, che al più potrà comportare, nei confronti dei consociati che abbiano materialmente realizzato la violazione, l’applicazione di una sanzione risarcitoria da parte della confederazione firmataria dell’Accordo, che peraltro molto difficilmente verrà comminata. Se infatti lo Statuto dei Lavoratori del 1970 aveva avuto come referente il ccnl del settore metalmeccanico, l’art. 8 del d.l. 138/2011 ha come referente l’Accordo interconfederale di giugno [12] . Se quello appena richiamato poteva essere forse l’originario intento del legislatore del 2011, come emerge del resto dallo stesso titolo dell’articolo 8 “Sostegno alla contrattazione collettiva di prossimità”, di realizzare solo un mero intervento di sostegno all’autonomia collettiva al pari di quanto era avvenuto con lo Statuto dei Lavoratori, limitandosi a generalizzare i risultati positivamente conseguiti dalle parti sociali in materia, non può dirsi che tale sia stato l’intervento poi effettivamente realizzato. Diversamente, la legge ha finito per tradursi in una fortissima ingerenza nei confronti dell’autonomia collettiva[13] , come dimostra la circostanza che il legislatore sia Lavoro@Confronto - Numero 24-25 - Novembre 2017/Febbraio 2018

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andato ad incidere direttamente sulla struttura della contrattazione collettiva, sul rapporto tra contratti collettivi di diverso livello, nonché sui contenuti della stessa con una sostanziale limitazione della libertà sindacale, di cui al primo comma dell’art. 39 Cost., che implica anche la libertà di organizzarsi[14] . In altri termini, si è di fronte ad una vera e propria conformazione eteronoma dell’architettura contrattuale[15] . Interventi eteronomi, diretti a incidere sull’autonomia collettiva, sono ammessi fintantoché non annullino del tutto la libertà delle parti e si limitino a disciplinare le loro capacità regolatorie, ma non sembra essere questa la logica dell’art. 8 [16] . Oltretutto, nella prospettiva dell’Accordo non era affatto necessario un successivo intervento del legislatore, poiché esso è stato concluso sul presupposto che il sistema sindacale si regge da solo. L’Accordo si è limitato ad offrire una soluzione al problema dell’efficacia soggettiva dei contratti collettivi, del tutto endogena al sistema intersindacale. Tale conclusione troverebbe conferma nella circostanza che il successivo intervento del legislatore è del tutto estraneo alla logica dell’Accordo, finendo in sostanza per disconoscere quanto voluto ed espressamente manifestato dalle parti collettive. Tanto l’Accordo interconfederale, quanto l’art. 8 intendono spostare il baricentro del sistema di contrattazione collettiva a livello decentrato ed in particolare aziendale. L’intento perseguito, che sembrerebbe essere comune, è quello di attribuire a tale livello di negoziazione una funzione di adeguamento dei salari alla dinamica della produttività aziendale, che sia in grado di migliorare la competitività delle imprese nazionali ma senza tradursi necessariamente in una riduzione di tutele per i lavoratori. Alla cd. “contrattazione collettiva di prossimità” si attribuisce la “facoltà” di scambiare vantaggi occupazionali con quella flessibilità normativa che la globalizzazione e la crisi economica e finanziaria richiedono. Conformemente a quanto richiesto dall’Unione europea, le parti sociali ed il governo rafforzano la contrattazione aziendale rispetto agli altri livelli negoziali. È il livello aziendale quello più idoneo a introdurre margini di flessibilità normativa, che siano in grado di ridurre effettivamente la rigidità della legislazione nazionale, in cui gli organismi europei hanno individuato la causa principale di un elevato tasso di disoccupazione, nonché dell’incapacità del Paese di attrarre investitori stranieri[17] . In realtà, il risultato poi effettivamente realizzato dal legislatore è stato ben diverso rispetto all’intento formalmente [18] dichiarato , poiché dietro “la scusa dell’Europa” si è finito per introdurre un meccanismo mediante il quale si autorizza una sostanziale riduzione del livello dei salari, nonché un peggioramento delle condizioni di lavoro [19] . L’art. 8 autorizza infatti la contrattazione di prossimità a derogare anche alla legge, veicolando in tal modo una frammentazione della disciplina lavoristica, poiché le deviazioni dalla disciplina generale sono modellate sulla realtà territoriale, aziendale, se non addirittura di singola unità produttiva[20] . Per una stessa materia o istituto potrebbero allora sussistere diverse discipline, che variano non solo da impresa a impresa ma anche tra unità produttive di una medesima impresa[21] . E se è vero che già in passato la legge aveva autorizzato la contrattazione collettiva anche aziendale a derogarvi, mai lo aveva fatto in una misura così ampia, pressoché illimitata. Una delega di tale portata in favore della contrattazione di prossimità assume la forma di una vera e propria “cambiale in bianco” alle parti sociali, al livello in cui esse sono più deboli, traducendosi pertanto in uno strumento a tutto vantaggio delle imprese con inevitabili conseguenze negative sul piano della concorrenza. Le imprese, infatti, finiranno per utilizzare tale strumento al solo scopo di realizzare un generale adeguamento “al ribasso” delle tutele dei lavoratori[22] . Le parti sociali, dal canto loro, sono autorizzate ad esercitare l’eventuale deroga alla legge senza essere tenute a rispettare alcun criterio di “ragionevolezza”, di cui all’art. 3 Cost. Pertanto, non vi sarà alcuna garanzia che a situazioni differenti venga applicata la medesima deviazione dalla disciplina generale[23] . Se il vantaggio offerto dall’art. 8 vuole essere quello di sperimentare in via temporanea assetti normativi differenti, sarebbe stato preferibile farlo mediante una legge. Quest’ultima, infatti, avrebbe sì consentito di rimodulare la preesistente normativa, ma con certezza ed uniformità piuttosto che con una miriade di varianti in peius che, privando la disciplina generale della sua naturale uniformità, danno luogo ad una serie indiscriminata di discipline differenziate e difformi[24] . Solo apparentemente la contrattazione collettiva consentirà di introdurre “ritocchi” e “aggiustamenti” meno traumatici. Allora, non sembra opportuno pagare un prezzo così alto, quale la perdita di uniformità, poiché è la legge lo strumento più adeguato allo scopo avuto di mira[25] . L’unico tentativo esperibile, a tal punto, potrebbe essere quello di tentare una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 8 al fine di salvaguardarne la legittimità costituzionale, integrandone il contenuto con il richiamo che la stessa norma fa all’Accordo interconfederale. In tal modo i soli contratti aziendali “in deroga” alla legge ammessi, sarebbero quelli adottati entro i limiti che sono stati fissati dalle stesse parti sociali[26] . Tratto da “La contrattazione collettiva aziendale” Federica MINO LFI, Roma 2017, Collana Massimo D’Antona – Lavoro e Diritto. Lavoro@Confronto - Numero 24-25 - Novembre 2017/Febbraio 2018

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Note [1]

Alcuni, infatti, osservano come in realtà con l’Accordo del 2011 le parti si siano limitate ad offrire una soluzione al solo problema del dissenso sindacale, che si manifesti in sede di stipula del contratto aziendale da parte di una delle organizzazioni firmatarie del contratto nazionale. In tal modo, le parti si sarebbero limitate ad incidere sul tema del rapporto tra contratti collettivi di diverso livello, dal quale sarebbe rimasta fuori la delicata questione dell’efficacia dei contratti aziendali. Quanti sostengono una simile lettura dell’Accordo del 2011, continuano a condividere la tesi tradizionale per cui il contratto aziendale quale atto di autonomia privata sta in piedi da solo, anche in assenza di regole legali che consentano di attribuirgli un’efficacia erga omnes. Tali regole non sarebbero affatto necessarie, trovando soluzione il relativo problema dell’efficacia soggettiva all’interno del medesimo sistema sindacale di fatto, almeno fintantoché persiste l’unità di azione sindacale. Pertanto, l’unico problema cui occorre dare una tempestiva soluzione, pena la paralisi del sistema, sarebbe solo quello del rilievo che debba assumere un eventuale dissenso sindacale. Cfr. FE RRANTE V., L’accordo interconfederale del 28 giugno 2011. Opinioni a confronto, in RG L, 2011, n. 3, pp. 661 -662. [2] Tra i primi commenti all’Accordo interconfederale v. FO NTANA G., L’Accordo interconfederale del 28 giugno 2011 (e i suoi avversari). Un commento “a caldo”, in RIDL, 2011, n. 3, pp. 321 ss. [3] In effetti, già nel Protocollo del 1993 le parti avevano espresso l’auspicio che venisse realizzato “un intervento legislativo finalizzato, tra l’altro, ad una generalizzazione dell’efficacia soggettiva dei contratti aziendali che siano espressione della maggioranza dei lavoratori”, mentre da parte sua il Governo si impegnava “ad emanare un apposito provvedimento legislativo inteso a garantire l’efficacia erga omnes, nei settori produttivi dove essa appaia necessaria al fine di normalizzare le condizioni concorrenziali delle aziende” (v. punto 2, par. rappresentanze sindacali lett. F del Protocollo ). Entrambe le previsioni erano rimaste inattuate, così l’intento era stato riproposto con l’Accordo interconfederale del 15 aprile 2009, nell’ambito del quale le parti per l’introduzione delle regole sulla misurazione della rappresentatività sindacale, da effettuarsi eventualmente mediante certificazione all’INPS dei dati di iscrizione sindacale in ossequio al principio di proporzionalità di cui all’art. 39, comma 4 Cost., avevano rinviato ad un successivo e specifico accordo interconfederale ( V. punto 7.1 rappresentanza delle parti nella contrattazione collettiva dell’AI 2009 ). Il cerchio si è chiuso con l’Accordo del 2011, ove le parti premettono innanzitutto che “è interesse comune definire pattiziamente le regole in materia di rappresentatività delle organizzazioni sindacali dei lavoratori”. Con riguardo al settore privato, si ritiene che sia più opportuno affidare l’introduzione delle regole relative alla misurazione della rappresentatività sindacale alle stesse parti sociali, come del resto lo sarebbe stato anche nel settore pubblico, ove invece la materia è stata regolata legislativamente fin dalle prime riforme degli anni novanta tese alla privatizzazione del pubblico impiego, poiché lì la medesima esigenza si è dovuta scontrare con l’incapacità delle parti di offrire in sede sindacale una soluzione autonoma e condivisa al problema. In tale logica di autonomia del sistema di relazioni industriali si pone il medesimo Accordo interconfederale del 28 giugno 2011 che detta le nuove regole in materia di rappresentatività, cui si ricollega l’efficacia generale dei contratti collettivi aziendali. In altri termini, l’Accordo rappresenta la piena espressione del potere normativo dei soggetti dell’ordinamento intersindacale italiano. Cfr. SCARPE LLI F., Rappresentatività e contrattazione tra l’accordo unitario di giugno e le discutibili ingerenze del legislatore, in R GL, 2011, n. 3, pp. 641 -643. Diversamente, una parte autorevole benché minoritaria della dottrina, pur ritenendo apprezzabile la premessa delle parti, resta ancora sorpresa dalla circostanza che una materia così delicata, quale quella della rappresentatività sindacale, venga affidata alla regolazione dell’autonomia collettiva, piuttosto che ad un intervento del legislatore. Si resta poi ancor più meravigliati della scelta fatta dalle parti collettive di intervenire con un accordo interconfederale, piuttosto che con una regolamentazione sindacale. Così CARINCI F., L’accordo interconfederale del 28 giugno 2011: armistizio o pace?, in W P CSDLE “Massimo D’Antona”, n. 125/2011, p. 10. V. anche SANTO RO - PASSARE LLI G., Efficacia soggettiva del contratto collettivo: accordi separati, dissenso individuale e clausola di rinvio, in RIDL, 2010, n. 3, pp. 519 -520 che, ancor prima che fosse adottato l’Accordo del 2011, si era già pronunciato a favore di un intervento legislativo per risolvere il problema del dissenso sindacale. Egli aveva indicato quale unica strada percorribile quella di una revisione dell’art. 39, Comma 4 Cost., pur senza stravolgerne il significato. L’autore aveva infatti prospettato l’eventualità di mantenere quell’equilibrio tra principio sindacale e di maggioranza previsto dalla norma costituzionale, in virtù del quale solo i contratti firmati dalle organizzazioni sindacali maggioritarie potranno avere efficacia erga omnes. [4] CARINCI F., L’accordo interconfederale del 28 giugno 2011: armistizio o pace?, cit., p. 2. [5] V. RICCI M., Dall’accordo interconfederale 28 giugno 2011 all’art. 8 D.L. n. 138/2011, in CARINCI F. (a cura di) Contrattazione in deroga, Collana Leggi e Lavoro, Ipsoa, Milano, 2012, pp. 77-78. [6] L’Accordo interconfederale, stipulato il 28 giugno 2011, sarà poi sottoscritto il successivo 21 settembre da Confindustria, Cgil, Cisl e Uil. [7] La Cisl si è storicamente opposta all’introduzione di un criterio di misurazione della rappresentatività sindacale che facesse riferimento ai dati di iscrizione sindacale, poiché tale meccanismo, seppur rispettoso del principio di proporzionalità di cui al comma 4 dell’art. 39 Cost, implica il conteggio delle deleghe che i lavoratori del settore conferiscono a ciascuna organizzazione e pertanto è in Lavoro@Confronto - Numero 24-25 - Novembre 2017/Febbraio 2018

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grado di rivelare la reale forza rappresentativa dei sindacati che fino ad allora avevano beneficiato della maggiore rappresentatività presunta. L’introduzione di un simile criterio, pertanto, avrebbe comportato per la Cisl perdite in termini di capacità rappresentativa, tanto nei confronti delle controparti sindacali quanto degli associati, rilevandone la debolezza sindacale rispetto alla maggiore confederazione, ovvero la Cgil. [8] Ancora più significativo è che l’unità sindacale venga ritrovata anche con riguardo ad una delle questioni che più aveva contribuito ai dissensi sindacali del 2009. In tal senso v. LIE BMAN S., Sistema sindacale di “fatto”, efficacia del contratto collettivo (aziendale) e principio di effettività, in ADL, 2011, n. 6, p. 1283. [9] Cfr. G ARILLI A., L’art. 8 della legge n. 148/2011 nel sistema delle relazioni industriali, in CARINCI F. (a cura di), Contrattazione in deroga. Accordo Interconfederale del 28 giugno 2011 e art. 8 del D.L. n. 138/2011, Collana Leggi e Lavoro, Ipsoa, Milano, 2012, p. 277; nonché cfr. CARINCI F., L’accordo interconfederale del 28 giugno 2011: armistizio o pace?, cit., p. 22. [10] Con la famosa “lettera” che la Banca Centrale Europea ha inviato al Governo italiano, l’acquisto dei titoli di Stato italiani è stato subordinato al rispetto di una serie di presupposti economici e finanziari. [11] L’Accordo interconfederale si è limitato ad introdurre un’efficacia generale limitata ai contratti aziendali, poiché non avrebbe potuto fare diversamente. L’efficacia delle sue disposizioni resterebbe pertanto circoscritta alle sole confederazioni, nonché alle organizzazioni sindacali a queste ultimi affiliate che hanno firmato la medesima intesa. Con l’art. 8 del D.L. n. 138/2011, poi convertito nella legge n.148/2011, si è inteso rendere tali regole vincolanti per l’intero ordinamento giuridico e non solo per quello sindacale, approdando in tal modo ad una vera e propria efficacia erga omnes dei contratti collettivi aziendali. Il problema che si pone è piuttosto su quale debba essere il criterio maggioritario da prendere a riferimento, questione che verrà poi risolta qualche tempo più tardi dal Testo Unico. [12] Cfr. CARINCI F., Al capezzale del sistema contrattuale: il giudice, il sindacato, il legislatore, Introduzione a CARINCI F. (a cura di), Contrattazione in deroga. Accordo Interconfederale del 28 giugno 2011 e art. 8 del D.L. n. 138/2011, Collana Leggi e Lavoro, Ipsoa, Milano, 2012, p. 21. [13] Alcuni hanno infatti parlato al riguardo di un intervento a “gamba tesa” del legislatore nel sistema di relazioni industriali. V. SCARPE LLI F., Rappresentatività e contrattazione tra l’accordo unitario di giugno e le discutibili ingerenze del legislatore, cit., p. 643. A parere dell’a. si tratterebbe di un’inopportuna ingerenza del legislatore nel sistema di regole autonomamente definito dai soggetti collettivi. [14] Cfr. Z O LI C. Dall’accordo interconfederale 28 giugno 2011 all’art. 8 D.L. n. 138/2011, in CARINCI F. (a cura di), Contrattazione in deroga. Accordo Interconfederale del 28 giugno 2011 e art. 8 del D.L. n. 138/2011, Collana Leggi e Lavoro, Ipsoa, Milano, 2012, p. 153; nonché cfr. CARINCI F., Al capezzale del sistema contrattuale: il giudice, il sindacato, il legislatore, cit., pp. 66 ss. In senso difforme cfr. PE RULLI A. – SPE Z IALE V., L’articolo 8 della legge 14 settembre 2011, n. 148 e la “rivoluzione di Agosto” del Diritto del Lavoro, in CARINCI F. (a cura di), Contrattazione in deroga. Accordo Interconfederale del 28 giugno 2011 e art. 8 del D.L. n. 138/2011, Collana Leggi e Lavoro, Ipsoa, Milano, 2012, pp. 210 -211. Questi ultimi due autori, pur riconoscendo che la legge ha “invaso” un ambito di competenza proprio dell’autonomia collettiva, ritengono che nel caso di specie non vi sia alcun contrasto con il primo comma dell’art. 39 Cost., la cui violazione implicherebbe che le parti sociali fossero “espropriate” delle loro funzioni essenziali. L’art. 8 ha invece “valorizzato” il potere dell’autonomia collettiva, legittimata a derogare non solo ai contratti collettivi di livello superiore ma anche alla legge. Sebbene il legislatore abbia dettato nuove regole in materia, nulla infatti vieterà alle parti, se lo riterranno opportuno, di intervenire per disciplinare diversamente ed in aggiunta all’art. 8 il rapporto tra contratti collettivi di diverso livello. A metà strada si colloca invece la tesi sostenuta da Bavaro, per il quale è vero sì che il legislatore è intervenuto a regolare il rapporto gerarchico tra i livelli contrattuali ma nulla esclude che le parti, nell’esercizio della loro autonomia, possano regolarlo in maniera diversa. Fintantoché i criteri di “uscita” previsti dal sistema intersindacale coincidono con quelli dell’art. 8, non si pone alcun problema in termini di libertà sindacale. Nel momento in cui, invece, si consentono deroghe conformi all’art. 8 ma in contrasto con il sistema di raccordi previsto dal contratto nazionale, senza che a tale violazione venga ricollegata alcuna conseguenza sul piano del sistema contrattuale quale l’estromissione dal sistema stesso delle parti che lo hanno violato, allora sì che si è in presenza di una lesione della libertà sindacale. Pertanto, egli esclude che l’art. 8 violi la libertà sindacale nei limiti in cui i criteri legali coincidano con quelli autonomamente definiti dalle parti, salvo che esse scelgano liberamente di porsi del tutto al di fuori del sistema contrattuale. Cfr. BAVARO V., Azienda, contratto e sindacato, Cacucci, Bari, 2012, pp. 162 -167. Ammette invece la legittimità costituzione dell’art. 8, ma solo nei limiti in cui la regolamentazione eteronoma del rapporto tra i livelli contrattuali sia funzionale a dare attuazione alla seconda parte dell’art. 39 Cost., LE CCE SE V., Il diritto sindacale al tempo della crisi. Intervento eteronomo e profili di legittimità costituzionale, Relazione al X VII convegno nazionale AIDLaSS, Pisa, 2012, pp. 18 -21. [15] In virtù di tale conformazione eteronoma è possibile dedurre, a maggior ragione, la diretta violazione del principio di libertà sindacale di cui all’art. 39, comma 1, Cost. cfr. CARINCI F., Al capezzale del sistema contrattuale: il giudice, il sindacato, il legislatore, cit., p. 64; nonché cfr. SANTO RO - PASSARE LLI G., Accordo interconfederale 28 giugno 2011 e at. 8 D.L. n. 138/2011 conv. con modifiche L. 148/2011: molte divergenze e poche convergenze, in ADL, 2011, n. 6, p. 1245. [16] In tal senso v. TO SI P., L’accordo interconfederale 28 giugno 2011: verso una (nuova) autoricomposizione del sistema contrattuale, in CARINCI F. (a cura di), Contrattazione in deroga. Accordo Interconfederale del 28 giugno 2011 e art. 8 del D.L. n. 138/2011, Collana Leggi e Lavoro, Lavoro@Confronto - Numero 24-25 - Novembre 2017/Febbraio 2018

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Ipsoa, Milano, 2012, p. 134; G ARILLI A., L’art. 8 della legge n. 148/2011 nel sistema delle relazioni industriali, in CARINCI F. (a cura di), Contrattazione in deroga. Accordo Interconfederale del 28 giugno 2011 e art. 8 del D.L. n. 138/2011, Collana Leggi e Lavoro, Ipsoa, Milano, 2012, p. 277; VE NE Z IANI B., Contrattazione collettiva di prossimità e art. 8 della legge n. 148/2011. Presentazione, in RGL, 2012, n. 3, p. 455. In ordine alla violazione del principio di libertà sindacale, ex art. 39, comma 1, Cost. v. SCARPE LLI F., Rappresentatività e contrattazione tra l’accordo unitario di giugno e le discutibili ingerenze del legislatore, cit., p. 657. Diversamente v. PE RULLI A. – SPE Z IALE V., L’articolo 8 della legge 14 settembre 2011, n. 148 e la “rivoluzione di Agosto” del Diritto del Lavoro, cit., p. 211, i quali ritengono che il legislatore non sia intervenuto direttamente sui contenuti della contrattazione collettiva, ma si sia limitato a disciplinare l’autonomo potere regolatorio delle parti sociali in materia. Cfr. FE RRANTE V., L’accordo interconfederale del 28 giugno 2011. Opinioni a confronto, cit., pp. 665 -669. [17] In tal senso v. PE RULLI A. – SPE Z IALE V., L’articolo 8 della legge 14 settembre 2011, n. 148 e la “rivoluzione di Agosto” del Diritto del Lavoro, cit., pp. 171 -177; v. anche DE LUCA TAMAJO R., L’art. 8 del D.L. n. 138/2011: interpretazione e costituzionalità, in CARINCI F. (a cura di), Contrattazione in deroga. Accordo Interconfederale del 28 giugno 2011 e art. 8 del D.L. n. 138/2011, Collana Leggi e Lavoro, Ipsoa, Milano, 2012, p. 293. [18] La riduzione della rigidità normativa implica un complessivo ridimensionamento delle tutele che circondano il lavoratore, che avrà quale principale conseguenza un generale peggioramento delle condizioni di lavoro. Che questo sia l’effetto che poi in concreto si produca risulta dal disegno di legge per il cd. Statuto dei lavori, presentato ufficialmente dal governo il 31 luglio 2010 e poi successivamente abbandonato, nonché dalla cd. riforma Fornero del 2012. [19] Cfr. BARBIE RI M., Il rapporto tra l’art. 8 e l’accordo interconfederale del 28 giugno 2011, in RGL, 2011, n. 3, pp. 464 -465. [20] Cfr. FE RRARO G., Profili costituzionali della disponibilità del sistema di tutele del diritto del lavoro subordinato, in RG L, 2012, n. 3, p. 473, secondo il quale dalla frammentazione dell’architettura contrattuale in una miriade di accordi settoriali o microsettoriali si evincerebbe come il legislatore abbia assunto quale parametro di riferimento il modello di relazioni industriali nordamericano o canadese, tutto incentrato sulla sola contrattazione aziendale, che nulla ha a che vedere per tradizioni ed esperienza con quello italiano. [21] La circostanza che la disciplina potrebbe essere differente anche all’interno della medesima impresa implica il venir meno in via definitiva della funzione di uniformità assolta dal ccnl, con la conseguente impossibilità per i giudici di far riferimento al ccnl di categoria per la determinazione della retribuzione proporzionata e sufficiente, ex art. 36 Cost. Cfr. SANTO RO - PASSARE LLI G., Accordo interconfederale 28 giugno 2011 e at. 8 D.L. n. 138/2011 conv. con modifiche L. 148/2011: molte divergenze e poche convergenze, cit., p. 1244. [22] Cfr. LASSANDARI A., Il limite del “rispetto della Costituzione”, in RGL, 2012, n. 3, p. 503. [23] In tal senso v. CARINCI F., Al capezzale del sistema contrattuale: il giudice, il sindacato, il legislatore, op. ult. cit., pp. 68 -69; v. anche G ARILLI A., L’art. 8 della legge n. 148/2011 nel sistema delle relazioni industriali, cit., p. 277. Secondo l’opinione di un altro autore sono le stesse finalità indicate dall’art. 8, molte delle quali sono dirette a creare nuova occupazione, a rendere inutile qualunque controllo in merito alla razionalità giuridica delle deroghe. Nell’ottica del legislatore, il fine occupazione giustifica oggettivamente qualsiasi deroga, senza che il giudice sia chiamato a valutarne la ragionevolezza. Così BAVARO V., Azienda, contratto e sindacato, op. cit., pp. 148 -151. L’incompatibilità con l’art. 3 Cost. è sollevata anche da parte di quanti difendono l’art. 8, in virtù dei vantaggi che tale norma sarebbe in grado di offrire ad imprese e lavoratori in termini di scambi virtuosi; così DE LUCA TAMAJO R., L’art. 8 del D.L. n. 138/2011: interpretazione e costituzionalità, cit., p. 295. Il contrasto con l’art. 3 Cost. si realizza anche sotto un altro profilo, quello della violazione del più generale principio di eguaglianza. Non si vede come la facoltà di derogare alla legge, legittimando un diritto del lavoro “diseguale”, possa essere attribuita al solo livello decentrato di negoziazione e non anche alla contrattazione di categoria, storicamente perno del sistema di relazioni industriali. Sul punto cfr. FE RRARO G., Profili costituzionali della disponibilità del sistema di tutele del diritto del lavoro subordinato, in RG L, 2012, n. 3, p. 474; nonché cfr. Z O LI C. Dall’accordo interconfederale 28 giugno 2011 all’art. 8 D.L. n. 138/2011, cit., p. 154. [24] Cfr. CARINCI F., Al capezzale del sistema contrattuale: il giudice, il sindacato, il legislatore, op. ult. cit., p. 68. [25] In tal senso v. LASSANDARI A., Il limite del “rispetto della Costituzione”, cit., p. 519; FE RRARO G., Profili costituzionali della disponibilità del sistema di tutele del diritto del lavoro subordinato, cit., p.479. [26] Sul punto v. TO SI P., L’accordo interconfederale 28 giugno 2011: verso una (nuova) autoricomposizione del sistema contrattuale, cit., p. 135. Un autore, pur condividendo simile conclusione, ha ritenuto necessario l’intervento della Corte Costituzionale per integrare il contenuto della norma con le regole previste dall’ordinamento intersindacale. Così Z O LI C. Dall’accordo interconfederale 28 giugno 2011 all’art. 8 D.L. n. 138/2011, cit., p. 153 -154. Altra parte della dottrina si discosta invece da una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 8. Per tali autori non vi sarebbe alternativa, se non una correzione del testo al fine di renderlo compatibile con la Costituzione e con l’assetto contrattuale voluto dalle parti sociali. Cfr. G ARILLI A., L’art. 8 della legge n. 148/2011 nel sistema delle relazioni industriali, cit., p. 278; nonché cfr. PE SSI R., La contrattazione in deroga. Problematica, in CARINCI F. (a cura di), Contrattazione in deroga. Accordo Interconfederale del 28 giugno 2011 e art. 8 del D.L. n. 138/2011, Collana Leggi e Lavoro, Ipsoa, Milano, 2012, p. 323. [*] Avvocato presso il Consiglio dell’Ordine di Parigi e specializzata in diritto del lavoro. Vincitrice del Premio Massimo D’Antona 2015 Lavoro@Confronto - Numero 24-25 - Novembre 2017/Febbraio 2018

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Il contrasto all’assenteismo Misure messe in atto nella contrattazione aziendale di Fabio Pulvirenti [*]

La recente ordinanza della Sezione Lavoro della Corte di Cassazione del 19 ottobre 2017, che ha rimesso alle Sezioni Unite la questione inerente la natura del licenziamento intimato prima del superamento del periodo di comporto, ha riportato all’attenzione degli interpreti la questione mai sopita circa l’efficacia degli attuali strumenti normativi di contrasto all’uso eccessivo ed indiscriminato dell’istituto dell’assenza per malattia[1] . Un dato, statistico, è di tutta evidenza: nell’ultimo anno oggetto di rilevazione da parte dell’Osservatorio dell’INPS sulle certificazioni di malattia si è registrato un aumento di tale tipologia di assenza: dagli 8 milioni di eventi morbosi registrati annualmente nel settore privato (dal 2012 al 2015 ) si è saliti ad oltre 9 milioni del 2016, con innalzamento dei giorni di malattia dai 77.402 del 2012 agli 81.432 del 2016 [2] . È di facile intuibilità che un maggiore ricorso alla malattia da parte dei dipendenti può rappresentare per le aziende un innalzamento dei propri costi, oltre che riverberarsi sulla produttività complessiva dell’impresa. Si comprende, pertanto, l’esigenza di poter attivare meccanismi legali che possano fungere da deterrente nei confronti dei fenomeni di “ripetuta assenza di un dipendente dal posto di lavoro”[3] , meglio noti con il termine di assenteismo. Il legislatore, sul punto, si è tuttavia astenuto dal fornire indicazioni specifiche in grado di ripartire le responsabilità derivanti da atteggiamenti elusivi o arbitrari. L’unica regola in materia è rappresentata dall’art. 2110 del codice civile; tale disposizione, tuttavia, inserita in un tessuto storico -normativo in cui non esisteva una disciplina limitativa dei licenziamenti, si limita a garantire ai dipendenti la conservazione del posto di lavoro in presenza di specifiche cause legittimanti la sospensione della prestazione (infortunio, malattia, gravidanza, puerperio ) fino ad un margine temporale di tollerabilità, detto periodo di comporto, stabilito dalle fonti ivi richiamate (legge, norme corporative, usi o equità). Con l’abrogazione dell’ordinamento corporativo il ruolo integrativo della legge è stato attribuito ai contratti collettivi stipulati da liberi sindacati, i quali, inizialmente, hanno completato il precetto legale fissando i limiti temporali massimi di conservazione del posto di lavoro per ciascun episodio di malattia, singolarmente e continuativamente inteso (c.d. comporto “secco”). A seguito dell’operazione ermeneutica che esteso il concetto di “malattia” alle ipotesi “di un succedersi di malattie a carattere intermittente o reiterato, ancorché frequenti e discontinue”[4] si è diffuso un diverso sistema di calcolo del periodo di comporto, consistente nel cumulo di tutte le assenze dovute a più episodi di malattia all’interno di un determinato arco di temporale, anch’esso stabilito nel Ccnl, entro il quale il dipendente avrà diritto alla conservazione del posto (c.d. comporto frazionato o per sommatoria)[5] . In alcuni casi, inoltre, l’autonomia sindacale ha introdotto un ulteriore periodo di mantenimento del posto di lavoro, sebbene non retribuito, quale estremo bilanciamento tra l’interesse datoriale ad ottimizzare le risorse disponibili e l’esigenza dei lavoratori a non perdere definitivamente la possibilità di affermazione della propria professionalità[6] . Ancor più incisiva è stata la funzione di disincentivo economico rispetto all’uso sostenuto e talvolta abnorme dell’istituto della malattia. È stata la negoziazione interna alle singole aziende, “formalmente libera da vincoli legali”[7] , ad introdurre e regolamentare, in concomitanza con il decentramento delle relazioni collettive avvenuto a partire dalla fine degli anni ’50, sistemi di remunerazione premiale subordinati, tra i vari parametri, anche alla presenza al lavoro, quale indice indiretto di produttività individuale[8] . Tali forme di incentivo retributivo hanno, peraltro, goduto del favor esplicito del legislatore, che ne ha agevolato la diffusione attraverso politiche di detassazione e decontribuzione sin dalla fine degli anni Novanta[9] . La contrattazione collettiva, generalmente, attribuisce alla percentuale di assenteismo un effetto correttivo nei confronti del premio aziendale originariamente calcolato in base al raggiungimento di determinati obiettivi di produttività, qualità e redditività. Sono specificate, inoltre, le assenze escluse da tale percentuale, come quelle derivanti da ricoveri ospedalieri, infortuni sul lavoro e maternità obbligatoria[10] . Non mancano casi in cui, ritenuta la presenza sul lavoro quale parametro primario di misurazione dell’efficienza produttiva, la corresponsione e l’entità del premio di risultato vengono condizionate soltanto alla quantità di assenze effettuate. Ne è un esempio il contratto integrativo sottoscritto il 30.6.2017 da un’impresa cooperativa operante nel settore logistico e dalle articolazioni territoriali delle organizzazioni sindacali di categoria comparativamente più rappresentative: tale accordo, fissata preliminarmente la soglia massima Lavoro@Confronto - Numero 24-25 - Novembre 2017/Febbraio 2018

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(6%) di assenteismo collettivo tollerata dal datore di lavoro ai fini dell’erogazione dell’incentivo retributivo, prevede l’accesso al premio individuale per i lavoratori che nell’arco di ciascun trimestre non abbiano effettuato più di 4 giornate di assenza dal lavoro, fatte salve le assenze derivanti da ferie, infortuni sul luogo di lavoro (rimanendo esclusi quelli in itinere ), permessi per disabilità ed infine congedi parentali (questi ultimi fino al limite di 5 giorni nel trimestre). Vi sono anche accordi aziendali, come quello dei gruppi FCA e CNH Industrial, che in aggiunta alla valorizzazione della presenza al lavoro, ottenuta mediante il riconoscimento di un incentivo economico ad hoc slegato dall’andamento dell’impresa sul mercato, hanno introdotto misure di tipo repressivo, allo scopo di sanzionare l’uso reiterato delle assenze per malattia, come la perdita della copertura retributiva dei primi giorni di sospensione del rapporto di lavoro (c.d. carenza)[11] . La tendenza ad affrontare il tema dell’assenteismo da un lato spiccatamente sanzionatorio ha fatto breccia anche al livello superiore di contrattazione, quella nazionale. A fare da precursore è stato il CCNL del Commercio che, con l’intesa siglata il 26.02.2011 “al fine di prevenire situazioni di abuso”, ha modificato il regime retributivo del periodo di carenza. L’art. 176 prevede, infatti, un meccanismo decrescente di copertura economica dei primi tre giorni di assenza per malattie di durata inferiore a 12 giorni: al terzo evento morboso nel corso dell’anno solare l’integrazione retributiva a carico aziendale scende dal 100% al 66%, si dimezza alla quarta malattia fino ad azzerarsi dal quinto episodio in poi[12] . Meno drastico, ma ugualmente incisivo nel penalizzare le assenze brevi è stato il CCNL del settore Metalmeccanico, che non ha statuito, come nel Commercio, l’azzeramento del trattamento economico della carenza relativa ad episodi morbosi di durata inferiore a 5 giorni, ma una sua riduzione al 66% al raggiungimento della quarta assenza ed al 50% dalla quinta malattia in poi[13] . L’esempio paradigmatico del consolidamento di una “funzione sanzionatoria” propria dell’autonomia sindacale è rappresentato dal CCNL dei servizi ambientali. In tale settore, infatti, l’originaria regolamentazione dell’assenteismo breve, risalente al 17.06.2011, incideva unicamente sull’entità del premio di risultato dei dipendenti che, superata la soglia di assenteismo medio del 4,7% avessero effettuato nell’arco dell’anno solare un determinato numero di assenze per malattia di durata non superiore a 5 giornate lavorative[14] . Il nuovo testo dell’art. 42 del CCNL, frutto dell’intesa siglata dalle parti sociali il 03.05.2017, fermi restando i requisiti di cui sopra, non prevede più una riduzione dell’emolumento premiale, bensì: 1. una trattenuta slegata dall’erogazione di un premio di produttività ed incidente su una voce retributiva mensile fissa, denominata “indennità integrativa”[15 ]; 2. in aggiunta alla trattenuta, nei casi di prolungato assenteismo (a partire dal 12° evento morboso nell’anno ) è previsto che le giornate di assenza vadano computate in misura doppia ai fini del calcolo del periodo di comporto. Anche il CCNL Esercizi Cinematografici, novellato il 15.06.2016, sanziona la reiterazione delle assenze per malattia non superiori a due giorni, cadenti nelle giornate di sabato, domenica e festivi, con il dimezzamento del trattamento economico relativo al terzo episodio di malattia e la cessazione della sua corresponsione a partire dal quarto evento, cui si aggiunge il computo in numero doppio delle assenze ai fini del raggiungimento dei limiti del comporto [16] . Da ultimo, sulla scia tracciata dagli altri settori, si segnala il recentissimo accordo del 03.12.2017 per il rinnovo del CCNL Logistica, spedizione e trasporto merci che ha introdotto una disposizione specifica contro il fenomeno dell’assenteismo, volta a “disincentivare e contrastare” le assenze ripetute da parte del personale viaggiante e di quello adibito alla movimentazione delle merci. Sono previste anche in questo caso penalizzazioni economiche incidenti sia sul compenso per lavoro straordinario che sul pagamento del periodo di carenza, in occasione di assenze per malattia successive a giorni non lavorativi, con progressivo decremento della copertura economica a carico del datore di lavoro fino al suo azzeramento a partire dal settimo evento morboso in avanti[17] .

Note [1]

Le Sezioni Unite sono chiamate a decidere se all’ipotesi in questione sia pertinente il principio di conservazione degli atti giuridici fissato dall’art. 1367 cod. civ., la cui applicazione renderebbe il licenziamento intervenuto prima dell’esaurimento del periodo di comporto né nullo né ingiustificato, ma solo temporaneamente inefficace fino al venir meno dello stato di malattia. L’ordinanza è pubblicata sul sito della Corte di Cassazione, al seguente link: http://www.cortedicassazione.it/cassazione-resources/resources/cms/documents/24766_10_2017_no -index.pdf. [2] I dati dell’Osservatorio sono pubblicati sul sito istituzionale dell’INPS, ed in particolare quelli relativi agli anni 2011 -2013 sono reperibili da: https://www.inps.it/docallegatiNP/News/Documents/StatInBreve_MALATTIA_2013.pdf; quelli del 2014 -2015 da https://www.inps.it/banchedatistatistiche/menu/malattia/StatInBreve_MALATTIA_2015.pdf; quelli dell’anno 2016 da https://www.inps.it/webidentity/banchedatistatistiche/menu/malattia/main.html. [3] La definizione è tratta da Alessandri G.- Monti R., Il fenomeno dell’assenteismo aziendale. Come gestirlo, in Bollettino Adapt n. 20 del Lavoro@Confronto - Numero 24-25 - Novembre 2017/Febbraio 2018

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19.05.2014, da www.bollettinoadapt.it. [4] Il corsivo è tratto dalla sentenza della Cassazione a Sezioni Unite n. 2072 del 29/3/1980 (da Not. Giur. Lav., 1980, pag. 416 ), che amplia l’operatività del divieto di licenziamento di cui all’art. 2110 cod. civ. ai casi di reiterate assenze del dipendente per malattia (c.d. eccessiva morbilità), in precedenza ricondotti nell’alveo del licenziamento per motivo oggettivo o di risoluzione per impossibilità sopravvenuta della prestazione. [5] Il periodo di mantenimento del posto di lavoro in presenza di una pluralità di episodi morbosi è stabilito dalla maggior parte dei CCNL in funzione dell’anzianità di servizio; l’arco temporale varia da un minimo di 6 mesi (es. settore assicurativo, alimentari) ad un massimo di 48 mesi (credito, case di cura private). [6] Il CCNL delle Agenzie Interinali prevede, ad esempio, la proroga del comporto, purché il periodo eccedente i 180 giorni sia considerato “aspettativa senza retribuzione”. [7] Così Rusciano M., in Contratto collettivo e autonomia sindacale, Utet, Torino, 2003, pag. 51. Già la dottrina dell’epoca sottolineava il carattere spontaneo del livello aziendale di contrattazione, quale derivazione ed “invenzione” del sistema sindacale italiano ( Romagnoli U., Il contratto collettivo d'impresa, Giuffrè, Milano, 1963, pag. 5 ). [8] Sui premi di risultato, cfr. G. P. Cella (a cura di), Il ritorno degli incentivi, Franco Angeli, Milano, 1989; più in generale, sulle caratteristiche della contrattazione decentrata, v. F. Lunardon, Il contratto collettivo aziendale: soggetti ed efficacia, in Gior, dir. lav. rel. ind., 2012, 133, n. 1, pagg. 21 e ss. [9] La prima norma a contemplare un regime contributivo agevolato è stata l’art. 2, l. 23.5.1997, n. 135, che escludeva dalla base imponibile le “erogazioni previste dai contratti collettivi aziendali, ovvero di secondo livello, delle quali sono incerti la corresponsione o l'ammontare e la cui struttura sia correlata dal contratto collettivo medesimo alla misurazione di incrementi di produttività, qualità ed altri elementi di competitività assunti come indicatori dell'andamento economico dell'impresa e dei suoi risultati”. Le successive manovre di bilancio hanno via via prorogato i meccanismi di detassazione e decontribuzione. Gli ultimi interventi legislativi (art. 1, comma 182, l. 28.12.2015, n. 208, come modificato dall’art. 55 del d.l. 24.04.2017, n. 50, conv. in l. n. 96/2017 ) hanno incontrato un significativo gradimento da parte delle imprese, tant’è che al 18.09.2017 sono stati depositati ben 25.658 contratti aziendali e territoriali sui premi di produttività (fonte: http://www.lavoro.gov.it/stampa-e-media/Comunicati/). [10] Una recente disamina di accordi integrativi in materia di premi di produttività è contenuta in Perciavalle F., Tomassetti P. (a cura di), Il premio di risultato nella contrattazione aziendale, Scuola di alta formazione in relazioni industriali e di lavoro ADAPT, Labour studies ebook series n. 59/2016. [11] Il Contratto collettivo specifico di lavoro del gruppo, sottoscritto in data 7.7.2015, contempla uno specifico “incentivo di produttività”, calcolato in base alle “ore effettivamente lavorate in regime ordinario” (art. 14 ), e riprende la disciplina sull’assenteismo introdotta dagli accordi FIAT del 2010 ( Pomigliano d’Arco e Mirafiori) che esclude la copertura retributiva a carico dell’azienda (resta solo quella a carico dell’INPS) per i primi due giorni di assenza per malattia di durata inferiore a 5 giorni, ricadenti nelle giornate lavorative che precedono o seguono le festività o le ferie o il riposo settimanale, fatte salve le ipotesi di eventi morbosi comportanti ricovero ospedaliero o gravi patologie che richiedono terapie salvavita (art. 25 ). [12] Sono esclusi, e quindi non computabili, gli eventi morbosi verificatisi durante il periodo di gravidanza, quelli derivanti da ricovero ospedaliero, day hospital, emodialisi, sclerosi multipla o progressiva e da patologie gravi e continuative che comportano terapie salvavita periodicamente documentate da specialisti del servizio sanitario nazionale. [13] Art. 2, titolo sesto, del contratto stipulato il 5.12.2012; anche in questo caso sono escluse tutte le assenze dovute a gravidanza, ricovero ospedaliero, compreso il day hospital, ed a malattie gravi ed invalidanti. [14] La decurtazione era pari a 15 euro, qualora fosse stato superato il terzo evento morboso; dalla sesta assenza in poi l’importo aumentava ad euro 35. La disciplina (art. 42, lettera G ) non operava nei casi di ricovero ospedaliero e di gravi patologie, anche di genere, comportanti terapie salvavita. [15] La trattenuta de qua viene effettuata, fermo restando il requisito del superamento del tasso di assenteismo medio aziendale del 4,7% nel corso dell’anno solare precedente, a partire dalla sesta assenza di durata non superiore a cinque giorni (derivante da malattia o infortunio non avvenuto sul luogo di lavoro ). L’importo massimo che può essere decurtato al raggiungimento del decimo episodio morboso è pari a 45 euro. Non sono computabili le assenze da cui derivi ricovero, ospedalizzazione domiciliare, terapie salvavita e quelle dovute ad eventi morbosi insorti durante la gravidanza. [16] Anche in questo caso sono escluse le assenze per malattia dovute a ricovero ospedaliero e quelle relative a terapie salvavita. [17] La copertura aziendale è del 75% al raggiungimento del quarto episodio morboso, del 50% per la quinta malattia e del 25% per la sesta. Sono eccettuati i casi di ricovero, di patologie gravi e gli episodi di malattia con prognosi iniziale non inferiore a sette giorni. [*] Dottore di ricerca in Istituzioni e mercati, diritti e tutele presso l’Università di Bologna. Ispettore del Lavoro in servizio presso l’I.T.L. di Bologna. Vincitore del Premio Massimo D’Antona 2016. Le considerazioni contenute nel presente scritto sono frutto esclusivo del pensiero dell’autore e non hanno in alcun modo carattere impegnativo per l’Amministrazione di appartenenza. Lavoro@Confronto - Numero 24-25 - Novembre 2017/Febbraio 2018

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La contrattazione collettiva aziendale L’opera di Federica Minolfi presentata a margine dell’iniziativa convegnistica sulle relazioni sindacali organizzata dalla Fondazione D’Antona di Roberto Leardi [*]

A conclusione della giornata di impegno della Fondazione, tenutasi al Ministero del Lavoro lo scorso 13 dicembre, è stato presentato il libro di Federica MINO LFI "La contrattazione collettiva aziendale - L'ordinamento dell'Unione Europea e l'evoluzione comparata dell'istituto in Francia e in Italia", ottavo volume della Collana Massimo D’Antona – Lavoro e Diritto. Esprime tutta la sua soddisfazione Fabrizio Di Lalla, Presidente della Fondazione D’Antona, per questa nuova pubblicazione che va aggiungersi agli altri importanti e numerosi strumenti che la Fondazione mette a disposizione degli studiosi e degli operatori del settore sul tema del diritto del lavoro e della legislazione sociale. “Un’altra perla – ha dichiarato Di Lalla – si aggiunge alla nostra collana “Lavoro e diritto” Un saggio complesso, intrigante, soprattutto attuale, questo dell’autrice Federica Minolfi. Ne è evidente testimonianza l’acceso dibattito nel nostro Paese tra le forze sociali e il governo sul nuovo ruolo che dovrebbe assumere la contrattazione aziendale. Non solo in Italia, tuttavia, ma nell’intera Europa essa è in fase di trasformazione, accelerata dalla grave crisi economica che da anni tiene sotto scacco l’economia.” “Le stesse istituzioni della Comunità europea – ha aggiunto Di Lalla – attraverso norme vincolanti o raccomandazioni, da tempo stanno spingendo le nazioni aderenti a porre in atto riforme ritenute necessarie in materia di diritto del lavoro per istituti considerati non più adeguati all’attuale realtà e per dare maggior peso alla contrattazione aziendale in grado di interpretare al meglio le situazioni specifiche del mondo del lavoro.” “In questa opera – ha proseguito Di Lalla – l’Autrice ha scelto di privilegiare l’aspetto tecnico -giuridico della già complessa normativa in argomento; eppure gli elementi essenziali del dibattito scorrono al suo fianco quando tratta con ampio respiro l’evoluzione di tale istituto in Francia che ha iniziato questo percorso da un quindicennio, dove la sostituzione sembra essere proprio l’obiettivo dell’attuale vertice istituzionale, e in Italia.” “Con questo saggio – conclude Di Lalla – che rappresenta la naturale evoluzione della tesi vincitrice del Premio Massimo D’Antona assegnatole nel 2015, Federica Minolfi mette in luce un requisito fondamentale dello scrivere; quello di trasformare una materia non facilmente accessibile in una piacevole lettura grazie alla levità della sua penna.” È soddisfatta anche Federica Minolfi anche perché l’occasione della presentazione del libro è coincisa anche con il tema della giornata di lavoro organizzata dalla Fondazione. Il tema delle relazioni sindacali – ha detto la Minolfi – “mi ha affascinato da quando l’ho scelto proprio per la sua estrema attualità, che Lavoro@Confronto - Numero 24-25 - Novembre 2017/Febbraio 2018

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ha mantenuto fino ad oggi e negli ultimi anni è stato in continua evoluzione, sia per quanto riguarda l’ordinamento francese che quello italiano, messi in comparazione.” “Quello che è emerso dal mio lavoro di ricerca – ha aggiunto l’Autrice – è il diverso modo di intervenire sulla riforma dei rispettivi sistemi di Relazioni Industriali e dei risultati che potremo considerare opposti, nonostante l’obiettivo comune, dietro spinta delle istituzioni europee, ovvero l’obiettivo di incentivare il livello decentrato di contrattazione.” I risultati – ha aggiunto ancora la Minolfi – hanno dimostrato che nell’ordinamento francese ci si trova oramai in presenza di “un definitivo ed effettivo spostamento dell’ago della bilancia contrattuale a livello di impresa, grazie al modo di intervenire scelto, che è stato, in realtà, un modo congiunto di intervenire, di parti sociali e di Legislatore, ed in quell’ordinamento è stato possibile grazie all’istituzionalizzazione del dialogo sociale. Invece, nell’ordinamento italiano non siamo arrivati ancora ad un effettivo decentramento a livello di impresa, quindi tra i fattori che, forse, possono essere responsabili di una scarsa effettività del decentramento contrattuale, di questo ritardo rispetto all’ordinamento francese possiamo considerare un non intervenire congiuntamente per le parti sociali ed il Legislatore.” Il libro di Federica Minolfi viene distribuito gratuitamente, agli Uffici centrali e periferici del Ministero del Lavoro, alle Associazioni datoriali ed alle Organizzazioni sindacali, ai Componenti degli Organi della Fondazione, nonché ai partecipanti alle iniziative convegnistiche, organizzate periodicamente dalla Fondazione, sul tema del “Diritto del lavoro e della legislazione sociale”.

L'Autrice Federica Minolfi, attualmente Avvocato presso il Consiglio dell’Ordine di Parigi e specializzata in diritto del lavoro, è nata a Napoli il 13 maggio 1982, ha conseguito presso l’Università di Napoli Federico II a pieni voti nel 2008 la laurea in Giurisprudenza discutendo una Tesi dal titolo: “La parità uomo -donna tra ordinamento comunitario e ordinamento nazionale”. Nel 2009 ha partecipato presso la stessa Università al Corso di Perfezionamento post-laurea in diritto comunitario: “La tutela dei diritti”. Nello stesso anno, e fino a novembre dell’anno successivo, ha svolto pratica presso uno studio legale, in Napoli, specializzato in contenzioso societario e bancario. Tra la fine del 2010 e l’inizio del 2011 è stata selezionata ed ha svolto uno stage di tre mesi a Roma presso l’Ufficio Studi dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ( AG CM ). Nel 2013 ha conseguito presso l’Università di Pescara “G. D’Annunzio”, in co -tutela con l’Università di Avignone ( Francia), il dottorato in Diritto Europeo e Comparato dell’Impresa e del Mercato - sezione Diritto del Lavoro, con Tesi dal titolo: “La contrattazione collettiva aziendale in Europa”, ottenendo, altresì, il riconoscimento quale “Doctor Europaeus” e “Docteur en Droit”. L’autrice, nel corso degli anni, ha attivamente partecipato a convegni nazionali ed internazionali presentando contributi, poi puntualmente oggetto di pubblicazione; ha svolto attività di insegnamento in materia di diritto del lavoro e sindacale, sia in Italia che in Francia; ha pubblicato numerosi articoli su riviste giuridiche a diffusione nazio -nale e di riconosciuto rilievo accademico ( Rivista Giuridica del Lavoro e della Previdenza Sociale, Diritti Lavori Mercati, Rivista del Diritto della Sicurezza Sociale, Diritto e Lavoro nelle Marche). Nel 2015 ha ottenuto un Assegno di Ricerca annuale presso l’Università di Pescara, in materia “Crisi d’impresa e nuovi strumenti di ricollocamento dei lavoratori”. Nello stesso anno è stata ammessa all’Ecole de Formation des Barreaux de la Cour d’Appel di Parigi, ai fini dell’abilitazione all’esercizio della professione d’avvocato in Francia. Durante tale formazione ha avuto occasione di effettuare stage della durata di sei mesi ciascuno presso studi professionali di prestigio, specializzati in diritto del lavoro e a dimensione internazionale, quali lo studio “Avvocato Alfonso Vasile & Altri S.t.p.” in Italia e lo studio “Flichy Grangé Avocats” a Parigi. Sempre nel 2015 ha vinto il “Premio Massimo D’Antona”. Nel 2016 ha conseguito il Certificat d’Aptitude à la Profession d’Avocat in Francia, a Parigi, ove oggi esercita l’attività di avvocato ed ha creato il proprio studio legale specializzato in diritto del lavoro italiano e francese.

[*] Segretario della Fondazione Prof. Massimo D’Antona

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Breve storia della previdenza italiana di Riccardo Rizza [*] La previdenza sociale, è utile ricordare, nasce, nel contesto della legislazione sociale, da un’esigenza di protezione del lavoro come momento di equilibrio tra istanze di progresso e volontà di conservazione. L’espressione tipica ed il nucleo originario dello Stato sociale è appunto la previdenza sociale. Essa risponde alla necessità di realizzare una tutela per i lavoratori subordinati (poi gradualmente estesa a tutti i produttori di reddito da lavoro ) che si vengano a trovare in condizioni di bisogno per eventi che ne danneggino la capacità lavorativa e/o di produzione di ricchezza. Questa esigenza trova le sue origini già nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e del cittadino nella Francia del 1793, nonché le sue prime concrete conferme nella legislazione sociale dei vari Paesi europei nell’arco temporale che va dagli ultimi decenni dell’800 ai primi del 1900. Nei diritti previdenziali il cittadino è considerato in relazione alla sua qualità (attuale o potenziale) di produttore di reddito da lavoro; l’oggetto della tutela è l’assenza (parziale o totale, temporanea o definitiva) di questo reddito; il bisogno viene soddisfatto attraverso un trasferimento di ricchezza che sostituisce parzialmente o integralmente il reddito perduto o non acquisito. Al contrario, nei diritti sociali il cittadino è considerato in relazione al suo essere persona umana; l’oggetto della tutela attiene alla promozione della fruizione di prestazioni economiche e/o di servizi che siano idonei a prevenire il generarsi del bisogno o garantirne la sua soddisfazione.

La nascita e la prima evoluzione del sistema previdenziale italiano Nel 1883 il Cancelliere Bismarck, durante il regno di Guglielmo I, introdusse la prima forma di assicurazione sociale, collegando così il suo nome (da qui appunto il c.d. modello bismarckiano ) ad un fenomeno (quello della previdenza sociale) che sarebbe stato assai meno effimero di quello cui aveva dedicato tutta la sua esistenza (l’impero prussiano. In Italia l’emersione della previdenza sociale sarebbe avvenuta alcuni anni dopo, in quanto lo Stato, riteneva di poter ancora governare il bisogno previdenziale attraverso la mutualità volontaria. Cosi la legislazione sociale acquista nuovo impulso: la l. n. 1473/1883 conferisce riconoscimento giuridico alla Cassa nazionale di assicurazione per gli infortuni sul lavoro degli operai che, mediante una convenzione con alcuni istituti di credito, introduceva una prima assicurazione facoltativa; la l. n. 148/1893, sulla polizia delle miniere, cave e torbiere, pone alcune prime norme di vera e propria tutela del lavoro; la l. n. 243/1893 istituisce, seppur solo per la gente di mare, la prima assicurazione obbligatoria. L’atto di nascita della previdenza sociale nel nostro Paese deve attendere tuttavia ancora cinque anni; con la l. 17 Marzo 1898, n. 80, infatti, viene introdotta l’assicurazione obbligatoria degli operai contro gli infortuni sul lavoro. La legge aveva avuto una lunga e sofferta gestazione dovuta non solo all’opposizione di chi temeva oneri troppo gravosi per la nascente imprenditoria nazionale, quanto e soprattutto alla difficoltà di focalizzare il fondamento teorico dell’istituto, al fine di imputare al datore di lavoro l’onere economico e l’obbligo giuridico dell’assicurazione. In ogni caso, il percorso era tracciato; cosi, la l. 17 Luglio 1898, n. 350 istituisce la Cassa nazionale per la vecchiaia e l’invalidità degli operai. L’assicurazione è costituita su basi facoltative, ma lo stato sostituisce al pluralismo delle società di mutuo soccorso un soggetto unitario, controllato e sussidiato, idoneo a promuovere una mutualità diffusa per la potenziale capacità di utilizzo delle più moderne tecniche assicurative e per la garanzia offerta in ordine “al buon fine” dell’accantonamento del risparmio. In Italia la l. 17 Luglio 1890, n. 6972, determina una svolta significativa nella posizione dello stato prevedendo che tutte le opere pie ed ogni altro ente morale che svolga attività assistenziale divenga “Istituzione pubblica di beneficenza”. L’800 si concludeva, quindi, con la nascita della previdenza e dell’assistenza sociale nel nostro Paese.

La legislazione sociale sino alla Seconda Guerra Mondiale All’inizio del nuovo secolo aumentano gli interventi normativi, con il crescere delle pressioni a favore di uno sviluppo della legislazione sociale originate dall’impulso concomitante delle nuove concezioni politico -sociali e dell’associazionismo sindacale. Lavoro@Confronto - Numero 24-25 - Novembre 2017/Febbraio 2018

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Così, con la l. 21 Aprile 1919 n. 603, viene istituita l’assicurazione obbligatoria per l’invalidità e la vecchiaia per tutti i lavoratori dipendenti privati dell’industria, dell’agricoltura e dei servizi; il provvedimento introduce l’istituto della pensione di invalidità e di vecchiaia (requisiti minimi: 65 anni di età e 240 marche versate, pari a 3600 giornate cioè a 12 anni lavorativi); i contributi, ovvero le marche assicurative, sono pari al 4,5% del salario annuo e sono ripartiti pariteticamente tra imprenditori e lavoratori. La gestione è affidata alla Cassa nazionale delle assicurazioni sociali, che opera con un sistema a capitalizzazione, integrato da contributi dello Stato. Sempre nel 1919 viene introdotta l’assicurazione obbligatoria contro la disoccupazione involontaria e vengono riordinati i servizi di collocamento; la gestione è affidata all’ufficio nazionale per il collocamento e la disoccupazione , creato presso il Ministero del lavoro e della previdenza sociale (istituito nel 1920 ) e nel 1923 sarà trasferita alla cassa nazionale delle assicurazioni sociali; a differenza della disoccupazione attuale ( NASPI) che è corrisposta mensilmente per un numero di settimane pari alla metà delle settimane di contribuzione degli ultimi quattro anni, veniva erogata sino a quattro mesi all’anno. Nel 1927, in pieno periodo fascista, la legislazione previdenziale ebbe un nuovo impulso, quando, a seguito del riconoscimento giuridico dei Sindacati con la Carta del Lavoro, i contratti collettivi acquistarono efficacia “erga omnes” (cioè, verso tutti) e quindi tutte le clausole in essi contenute, comprese quelle sulla mutualità e sulla previdenza, trovarono applicazione più rigorosa ed estesa. Nel 1939 nasce la pensione di reversibilità a favore dei superstiti dell’assicurato e si abbassa a 60 anni per gli uomini e a 55 anni per le donne l’età per la pensione di vecchiaia ( R.D.L. 14 aprile 1939, n. 636 ). Il completamento del sistema previdenziale corporativo può, comunque, individuarsi nell’introduzione di alcuni principi fondanti nel codice civile del 1942. Di questi, quello più significativo è individuabile nell’art. 1886 ma non vanno dimenticati l’art. 2087, 2115, 2116, 2117 e 2123 c.c. Il sistema previdenziale assunse un assetto stabile e definitivo sulla base di un modello che, individuati i rischi socialmente rilevanti, impone ai destinatari di assicurarsi per ridurre i bisogni economici connessi al possibile verificarsi dell’evento.

Il passaggio tra il sistema previdenziale corporativo e il modello costituzionale Il 1° Gennaio 1948 entra in vigore la Costituzione, approvata il 22 Dicembre 1947 e promulgata dal Capo Provvisorio dello Stato, Enrico De Nicola, il 27 Dicembre 1947. Quanto al sistema previdenziale, in particolare a quello pensionistico, il problema più grave che aveva dovuto affrontare negli anni che avevano preceduto l’entrata in vigore del testo costituzionale era stato quello della perdita di valore d’acquisto della lira, con la conseguente ineffettività di tutte le prestazioni previdenziali. Così i numerosi interventi legislativi di questi anni avevano come solo obiettivo quello di adeguare in misura più o meno congrua le prestazioni, introducendo vari assegni integrativi, nonché di reperire i mezzi finanziari necessari per una politica di sostegno del reddito dei destinatari della tutela previdenziale. Viene introdotta nel 1952 l’integrazione al trattamento minimo delle pensioni (la cosiddetta “pensione minima”). L’articolo 10 della legge 4 aprile 1952, n. 218, introduce, infatti, nell’ordinamento pensionistico dell’assicurazione generale obbligatoria, l’istituto del trattamento minimo di pensione e ne fissa i diversi importi in relazione sia all’età posseduta dal pensionato, più o meno di 65 anni, sia al tipo di pensione fruita, se di vecchiaia o di invalidità̀ o in favore dei superstiti, e stabilisce che l’importo della pensione o delle pensioni di cui sia titolare uno stesso soggetto, se inferiore a quello minimo pensionistico, deve essere integrato fino a raggiungere l’ammontare dello stesso minimo stabilito dalla legge. Nel 1965 viene istituita la pensione di anzianità, connessa ai 35 anni di contributi, indipendentemente dall’età del lavoratore Con la Legge 88/1989 sono accorpati in un’unica gestione INPS tutte le forme previdenziali temporanee diverse dalla pensione (disoccupazione, cassa integrazione, tubercolosi, ecc). Il processo di armonizzazione e stabilizzazione del sistema previdenziale ha preso avvio con il D.Lgs. n. 503 del 30 dicembre 1992 (cd. riforma Amato ). La riforma, in particolare, ha disposto il graduale innalzamento dell'età pensionabile e l'avvio di un processo di allineamento del regime pensionistico dei pubblici dipendenti e di altre categorie speciali a quello del regime generale. Con il decreto legge 16 febbraio 1993, n. 34, viene istituito l’INPDAP ( Istituto Nazionale di Previdenza per i Dipendenti dell’Amministrazione Pubblica). Con questo decreto vengono soppresse varie gestioni previdenziali, le cui funzioni vengono affidate dal decreto stesso all’INPDAP. Si tratta dell’E NPAS, dell’INADE L, dell’E NPDE P e della Direzione Generale degli Istituti di Previdenza (organismo formato dagli istituti di previdenza amministrati dal Tesoro; scopo dell’organismo era quello di assicurare il funzionamento delle quattro casse previdenziali – CPDE L, CPS, CPI e CPUG – attraverso un’unica struttura amministrativa, cioè stessi organi deliberanti, stessi organi di controllo e di vigilanza). Lavoro@Confronto - Numero 24-25 - Novembre 2017/Febbraio 2018

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La Legge 8 agosto 1995, n. 335 ha modificato i parametri di accesso alla pensione di anzianità. A decorrere dal 1° gennaio 1996 il requisito contributivo, indipendentemente dall'età, è gradualmente innalzato fino al raggiungimento di 40 anni a decorrere dal 2008. Con riferimento alle pensioni di anzianità correlate all'età (pensione di vecchiaia anticipata), l'accesso alla pensione è subordinato al raggiungimento di un'anzianità contributiva pari a 35 anni in aggiunta al compimento di specifiche soglie di età gradualmente più elevate (57 anni nel 2008 ). Nel 2004, la Legge 23 agosto 2004, n. 243 innalza l'età pensionabile dei lavoratori dipendenti portandola a 60 anni e modifica il regime di decorrenza delle prestazioni, riducendo a due (c.d. "finestre" semestrali) le precedenti quattro finestre di accesso al trattamento pensionistico di anzianità. Tre anni dopo, la Legge 24 dicembre 2007, n. 247, introduce il c.d. "sistema delle quote ", caratterizzato dalla sommatoria tra età anagrafica e anzianità contributiva e ripristina le quattro finestre di uscita, estendendone l'applicazione a tutte le pensioni. Nel 2010 il legislatore emana il Decreto Legge 31 maggio 2010, n. 78,convertito con modificazioni dalla L. 30 luglio 2010, n. 122. Nel merito dei provvedimenti adottati, si segnalano: l'ingresso nel sistema previdenziale della c.d. "speranza di vita". L'accesso al pensionamento viene agganciato all'andamento della probabilità di vita, verificato dall'ISTAT con cadenza triennale (biennale a decorrere dal 1° gennaio 2019 per effetto dell'art. 24, comma 13 del D.Lgs. 201/2011 ). Se la probabilità aumenta anche l'età di pensionamento subisce un innalzamento (il primo aggiornamento si è concretizzato nel 2013 con un incremento pari a 3 mesi); il graduale innalzamento a 65 anni dell'età di accesso alla pensione di vecchiaia per le donne del pubblico impiego ( In attuazione della pronuncia del 13 novembre 2008, n. C-46/07 della Corte di giustizia delle Comunità Europee); l'introduzione della c.d. "finestra mobile". Il trattamento pensionistico si consegue decorsi 12 mesi – per i lavoratori dipendenti – ovvero 18 mesi – per i lavoratori autonomi – dalla maturazione del diritto; l'abbandono del sistema gratuito di ricongiunzione dei periodi assicurativi (il collegamento gratuito dei periodi assicurativi finalizzato al pensionamento è, comunque, garantito nelle ipotesi di totalizzazione delle anzianità contributive ai sensi del D.Lgs. 42/2006 ed, ai fini del conseguimento del trattamento di vecchiaia e da poco a seguito delle modifiche apportate dalla legge 232/2016 anche per la pensione anticipata, nell'ipotesi di "cumulo dei periodi assicurativi" ai sensi dell'art. 1, comma 239, della legge 228/2012 ). Il progressivo acuirsi della crisi economica, l'esigenza di dare sostenibilità finanziaria al sistema previdenziale rispettando gli impegni assunti in Europa, portano all'emanazione del Decreto Legge n. 201 del 6 dicembre 2011, convertito nella Legge n. 214 del 22 dicembre 2011 (c.d. riforma Fornero ). Dal 1° gennaio 2012: viene generalizzato, secondo il meccanismo pro rata, il metodo contributivo di calcolo delle pensioni; sono abolite le pensioni di anzianità conseguibili attraverso le quote. I trattamenti previdenziali vengono ricondotti sostanzialmente a due tipologie: la pensione ordinaria di vecchiaia e la pensione anticipata; sono abolite le "finestre" di uscita, in quanto inglobate nei nuovi requisiti di accesso; viene gradualmente incrementata l'età di pensionamento delle lavoratrici dipendenti ed autonome del settore privato; viene anticipato al 2018 l'anno di convergenza dell'età pensionabile tra donne e uomini: 66 anni oltre agli incrementi per speranza di vita; viene introdotta una fascia di flessibilità, per l'accesso alla pensione, compresa tra 66 e 70 anni; viene confermato il sistema di adeguamento alla speranza di vita già disciplinato dal D.Lgs. 78/2010; il requisito minimo dell'anzianità contributiva resta fissato in 20 anni, così come previsto dal precedente ordinamento per la vecchiaia; l'accesso "anticipato" alla pensione è in ogni modo consentito con un'anzianità di 42 anni e un mese per gli uomini e di 41 anni e un mese per le donne, anch'essa indicizzata alla longevità. Si prevedono penalizzazioni percentuali sulla quota retributiva dell'importo della pensione.

Fonti Roberto Pessi, Lezioni di diritto della previdenza sociale INPS [*] Studente della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Udine. Rappresentante Regionale per il Friuli Venezia Giulia della Fondazione Massimo D’Antona.

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La fantasia salverà il mondo (forse) Effemeridi. Pillole di satira e costume di Fadila Le feste natalizie sono appena trascorse, eppure, come quand’ero bambino, ne sento già la nostalgia e il rimpianto; del Natale, poi, in modo particolare perché è la solennità più bella che la fantasia umana del mondo occidentale abbia saputo creare. Nata come evento intriso di profonda religiosità essa ha perso col tempo per tanti esseri umani tale sua caratteristica, restando però per tutti, miracolosamente, il simbolo della pace, della bontà e della celebrazione dei rari momenti di gioia umana. Più che l’abete adorno di festoni e luci colorate, importato da altre contrade, nel nostro Paese, da tempo immemorabile, il suo simbolo è rappresentato dal presepe, una costruzione fantastica, un mondo senza tempo e senza spazio. È oriente e occidente insieme, palme e vette innevate; bianchi e mori, cammelli e buoi, stella polare e croce del sud. È quello che vorremmo nella realtà e che non potremo mai avere e per questo ci affidiamo all’immaginazione. Mi ha accompagnato fin dall’infanzia e a quei tempi il presepe era al suo apice e costruirlo era un rito. Mio padre insieme con i fratelli più grandi si preparava per tempo e dopo aver raccolto il muschio, noi lo chiamavamo vellutello, nei luoghi ombrosi dei campi o nella parte dei tronchi esposta a settentrione, tirava fuori con tutta la delicatezza possibile, lo scatolone pieno del materiale conservato dall’anno precedente perché allora non si buttava niente, tra cui i pupi variopinti, di buona fattura artigianale, incartati amorevolmente uno per uno e conservati per generazioni. Dopo ore di lavoro per la creazione della base con un cielo pieno di stelle, montagne di cartapesta dipinte di bianco sulle loro cime, grotte, paesi lontani e un laghetto alimentato da un torrente, tirava fuori i pupi e li deponeva al loro posto. Tutto, infine, avvolto in una tenue luminosità. Escluso dalla partecipazione perché considerato un impiccio per la tenera età, mi mettevo, offeso, a lavorare in proprio, facendone uno mio, mettendoci gli scarti e anche qualche giocattolino di latta. Nonostante la scarsa considerazione dei visitatori che dopo aver ammirato il presepe di famiglia, davano uno sguardo anche al mio e mi facevano falsi complimenti di circostanza, a me sembrava bellissimo e davanti a esso mi abbandonavo a sogni e fantasie. Questa emozione, d’altra parte, è la vera grande conquista umana, che ci caratterizza dagli altri esseri viventi. Grazie ad essa a volte riusciamo a mitigare o annullare l’istinto di violenza umana, al massimo livello tra gli esseri viventi. Questi ultimi usano la ferocia solo per la sopravvivenza della specie, così per fare qualche esempio, il leone, costretto dalla fame, mangia l’incolpevole gazzella per la continuità della specie, il pesce grande, quello piccolo; gli umani, invece anche per il potere e il piacere. Tale requisito unito all’intelligenza li ha resi padroni del mondo, anche se rispetto all’universo infinito sono irrilevanti ancor meno di un atomo. D’altra parte la violenza è insita in ogni fenomeno naturale. Essa è la causa prima del creato che è stato generato da una grande esplosione, il big bang, non da un atto d’amore. Fenomeni che si ripetono dagli inizi dei tempi nell’immensità dei cieli, mentre sulla terra la natura fa il suo corso a dispetto dell’umanità con terremoti, maremoti, eruzioni vulcaniche, tempeste e tifoni. Tornando alla ferocia dell’umanità, nel corso dei millenni, qualcuno ha cercato di creare regole per tenerla a bada determinando la nascita di codici di convivenza. Tra essi le religioni apparivano le più credibili. Eppure col tempo gli uomini, sempre per il potere, sono riusciti a inquinare anche queste creazioni cariche di spiritualità, Valgano come esempi illuminanti il falso documento sulla donazione di Costantino che ha determinato la nascita del potere temporale della chiesa e le sanguinose conquiste arabe di gran parte dei popoli mediterranei in nome di Allah. Purtroppo, santi o uomini pii, nel genere umano sono un’esigua minoranza, una vera eccezione. Ecco perché ritengo che un antidoto efficace per contrastare la propria e altrui brutalità sia il dono della fantasia. È difficile immaginare un sognatore come essere violento. Essa inoltre ci aiuta a superare le banalità della vita, che, in fondo, nel suo eterno percorso è limitata solo alle funzioni vitali essenziali: nascere, soddisfare i bisogni primari per poi morire, dandoci un’altra immagine della realtà attraverso la visione del buono e del bello, attraverso ogni forma artistica e riesce a darci gioia di vivere. Ci toglie dalla solitudine facendoci sognare cose impossibili nella realtà; è in grado di portarsi in mondi fantastici e tra esseri desiderati; ci mantiene collegati, attraverso il ricordo, alle persone care anche quando non ci sono più. È la fantasia che trasforma il rapporto sessuale da elemento brutale, rapido e necessario per il mantenimento della specie in atto d’amore. Così una donna che ci piace per una serie di elementi istintivi diventa per noi l’essere più virtuoso che ci fa sognare in ogni momento della giornata. Quando l’abitudine la colpisce mortalmente, elimina con essa anche l’amore e la passione. L’uomo senza o con scarsa fantasia si riconosce da lontano. È grigio, triste, rancoroso e vive male fino alla fine. La fantasia è sorriso sulle labbra, gioia di vivere, speranza per il futuro; per questo, credo, riuscirà a salvare il mondo cancellandone l’aspetto violento. Lavoro@Confronto - Numero 24-25 - Novembre 2017/Febbraio 2018

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Hanno collaborato a questo numero

Tiziano Argazzi Marco Biagiotti Dorina Cocca Fabrizio Di Lalla Roberto Leardi Silvana Massaro Gianluca Meloni Marica Mercanti Federica Minolfi Stefano Olivieri Pennesi Angelo Romaniello Eugenio Straziuso Claudio Palmisciano Fabio Pulvirenti Riccardo Rizza LAVO RO @CO NFRO NTO Via Quintino Sella, 23 00187 Roma www.lavoro -confronto.it LAVO RO - CO NFRO NTO @fondazionedantona.it Numero 24 -25 • Novembre 2017/Febbraio 2018 Rivista bimestrale on line della Fondazione Prof. Massimo D’Antona ( Onlus) Registrazione Tribunale di Udine N. 4/2014 - In data 27 febbraio 2014

Direttore Editoriale: Claudio PALM ISC IANO Direttore Responsabile: Renato NIBBIO Capi Redattori: Palmina D’ONOFRIO, Annunziata ELIA Redazione: Michele C AV ALIERE, Fabrizio DI LALLA, Roberto LEARDI, Dario M ESSINEO, Claudio PALM ISC IANO, Stefano OLIV IERI PENNESI, Elena RENDINA

La Rivista LAV ORO@C ONFRONTO è realizzata unicamente su supporto informatico e diffusa per via telematica ovvero on-line; la Fondazione Prof. Massimo D’Antona ONLU S ( Organizzazione Non Lucrativa di Utilità Sociale), in qualità di Editore, non ha fatto domanda di provvidenze, contributi o agevolazioni pubbliche e non consegue ricavi dall’attività editoriale. Gli articoli, approfondimenti e contributi presenti su questa Rivista sono stati ceduti gratuitamente dai rispettivi Autori per la sola pubblicazione su LAV ORO@C ONFRONTO; ciascun Autore è, pertanto, l’unico titolare di tutti i diritti morali e patrimoniali ai sensi della legge sul diritto d'autore e sui diritti connessi. È vietata la riproduzione, anche parziale ed in qualsiasi forma, di quanto pubblicato nella presente Rivista in difetto di autorizzazione scritta dell'Autore.

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