1
2
INDICE CAPITOLO 1 CAPITOLO 2 CAPITOLO 3 CAPITOLO 4 CAPITOLO 5 EPILOGO
3
4
LA NEBBIA NEL CUORE CAPITOLO I Mi viene sempre da vomitare! Mi succede sempre così quando, qualcosa che dovrebbe accadere per sistemare un po’ le cose, va storto; ancor più ora che ho appena buttato al vento gli ultimi 100 Euro che avevo in tasca! Maledetta macchinetta mangiasoldi! Erano 2 giorni che ci giocavo e non ha mai mollato niente, niente di niente! E il barista a dirmi che gli sembrava impossibile che non pagasse, che doveva essere “carica”…sì, carica dei miei soldi! Bastarda, puttana macchinetta mangiasoldi! Sono le due e un quarto di un venerdì bruciato dentro a questo bar di pianura, tra nebbia e tanta periferia, solo case che si mischiano a pezzi di verde, asfalto e rotonde “intelligenti”, che non hanno nessun legame tra loro. Siamo nel profondo nord, il cosidetto “miracolo italiano”. Il miracolo della piccola impresa, che dovrebbe trainare l’intera economia nazionale…ma quale miracolo, dico io! Solo una massa di piccoli e medi artigiani che si rompono la schiena per potersi comprare qualcosa e quindi appartenere finalmente ad uno “status sociale”, che solo in Veneto poteva trovare dignità; lavorare, lavorare anche male, non importa! L’importante è accumulare, mettere da parte, ed alla fine, ostentare qualcosa. Quel qualcosa che poi appare sempre grottesco, banale, impersonale, come queste villette che ho davanti. Un mescolamento di stili al limite del kitch, con un’unica caratteristica ad accomunarle: sono brutte! Aggrappate come sono, a questi portici in pietra facciavista e con gli immancabili nani da giardino! Neppure loro hanno il coraggio di girarsi verso la facciata, e sarà appunto per questo motivo che vengono sempre rivolti verso la strada. Proprio davanti a queste villette voglio vomitare, vomitare tutto quello che ho bevuto stasera, tutto quello che ho dentro..fottuta macchinetta! Non mi ha cacciato neppure un’euro! Sapevo che erano soldi buttati via, ma me la stavo passando male e quando le cose non vanno per il verso giusto, spesso si ha solo la lucidità di fare le cazzate più grandi… Mi chiamo Silvio, Silvio Campana e sarà anche per il mio cognome che mi sento un po’ suonato. Ho 39 anni ed una laurea in architettura presa a fatica, sudata e tirata alla lunga fino a 30 anni. Mi sono laureato proprio il giorno in cui l’Italia è stata cacciata fuori dai mondiali in semifinale con la Francia, in un torrido pomeriggio di luglio. Ricordo che il rinfresco con genitori e parenti l’ho fatto terminare 5 minuti prima del fischio d’inizio, per poi catapultarmi in piazza S. Marco a Venezia insieme a 3 miei compari, (ovviamente dopo aver assicurato il parentado in vaporetto con destinazione stazione dei treni) davanti alla prima bancarella, che vendeva cinture e gondole in miniatura, ad assistere al primo tempo, per poi seguire il secondo in una bettola di terza categoria con TV in bianco e nero, tra giri di prosecco e scarpette di birra, 5
vomitando insulti a più non posso contro il televisore! Non potrò mai dimenticare il giorno della mia laurea…mai! Ma che cazzo conta la laurea poi! Rimane solo un pezzo di carta dimenticato appeso a qualche muro se non riesci a sfruttarla. Di buoni propositi io ne avevo, avrei voluto cambiare il mondo, fare tante cose sensate, non di certo come queste case “bomboniera” cui manca solo il fiocco e progettate da qualche inetto geometra di provincia, ammanicato con chissà quale Commissione Urbanistica che gli ha approvato il progetto per queste porcherie che hanno il coraggio di chiamare residenze! No, non ce l’ho con i geometri, per carità, loro non sono responsabili del loro arricchimento e poi da chi non ha gusto, che vuoi pretendere?? A 16-17 anni, quando frequenti le superiori, che te ne fregha della storia dell’arte, dell’estetica, dell’architettura, specie se chi t’insegna è geometra a sua volta! A quell’età t’importa solo di non portare a casa un 3 in scienza delle costruzioni! Io ce l’ho con gli Uffici Tecnici Comunali, che permettono loro di fare certe cose, e questo accade perché, molto spesso, è proprio in quei luoghi che ristagna l’incapacità di essere critici, di saper valutare un progetto; sì proprio in quegli uffici! Non ho mai visto un bravo architetto occupare quei posti: che volete che vadano a fare dei bravi professionisti con delle valide idee lì? A scavare la fossa della loro fantasia? Ho lavorato in uno studio tecnico di un geometra per qualche tempo, disegnavo le case che lui aveva concordato con i clienti…beh, con il medesimo progetto avrò fatto una decina di case simili, per altrettanti clienti! La tecnica consisteva nell’allungare o accorciare i muri perimetrali a seconda dei metri quadri disponibili, poi con il pc era semplicissimo farlo, e questo non è che un esempio di quanto povera sia la cultura progettuale in questi luoghi. Che freddo boia fa stanotte ed io ho con me solo 6 sigarette e neanche un soldo per comprarne, maledetta macchinetta! Dovrò aspettare che riaprano il bar e mancano ancora 4 ore e mezza! Non ho alcuna voglia di tornare a casa… mi sento terribilmente mediocre in questo momento, anzi peggio, perché ho sempre pensato che una persona mediocre, ha una vita mediocre, ma possiede pure un lavoro mediocre e io in questo momento non ho neppure quello, quindi sono meno di un mediocre..e non riesco a trovare un termine esatto per qualificarmi, un fallito forse..sì, fallito. In questo esatto momento mi calza a pennello questo aggettivo. Mi sono appena visto specchiato nella vetrina del bar, nel mio impermeabile svolazzante e datato di taglio e di anni, mentre cammino nervosamente sul selciato bagnato da questa pioggia di fine novembre. Meglio che io mi sieda su una di queste sedie in plastica lasciate fuori apposta dal barista, per chi vuole fumare tra una partita e l’altra di tre sette. Mediocrità…fallimento…termini astratti ma duri per uno come me… Quando ero piccolo mi piaceva distendermi sull’erba del prato dietro la mia casa a guardare le nuvole (tante volte l’avrete fatto pure voi) e con l’ausilio della fantasia costruivo castelli in aria; che pace scendeva lenta nel mio cuore e, nello stomaco, sentivo volare una miriade di piccole farfalle colorate. In quei momenti mi sentivo padrone della mia vita 6
e del mio futuro! Quante volte mi sono detto: “io diventerò”, “io farò”, “io raggiungerò!”. Quante volte, obbligato da mia madre al riposino pomeridiano, nel silenzio della sua stanza sentivo il cuore perdersi in orizzonti inesplorati, e quanto mi sentivo speciale in quel periodo della mia vita e forse lo ero per davvero. Ultimo di 4 figli e quindi il più coccolato ed assecondato, con un padre che con il suo stipendio è riuscito a farci crescere, soprattutto per merito di mia madre, l’economa di casa, che sapientemente dosava e destinava ogni centesimo nel corso del mese, qualità questa, che a me manca tuttora, altrimenti non sarei qui a piangermi addosso! In quegli anni non avevamo nulla, neppure i miei compagni avevano nulla; ci si divertiva inventando giungle tra i filari di viti, spiagge ed oceani sulle sponde dei fossi, rami di pioppo o canne di granturco diventavano per noi lance e spade. La campagna, fumante ed umida di nebbia, era ancora campagna e non, com’è ora, periferia. Ci si poteva perdere in mezzo mantenendo sempre dei punti di riferimento dati dall’albero più alto, dalla corriva dall’acqua verde, dal campanile della chiesa individuabile da tutte le posizioni. Ed ora, dove sono questi punti di riferimento? Ora ci sono le strade, ognuna col nome di un Santo o di chissà chi, i tralicci dell’alta tensione, i ripetitori della Telecom, i troppi palazzoni accostati uno all’altro come muri di un labirinto..provate voi a trovare dei punti di riferimento ora!…E’ più facile trovare dei punti di spaesamento, sentirsi osservatori e non partecipi dell’intorno, dove niente è fatto a nostra misura, a misura d’uomo, bensì quasi esclusivamente in funzione delle macchine. Siamo pieni di parcheggi che divorano ettari di prato e che non bastano mai, rotatorie che sembrano giostre e alle quali manca solo la coda, appesa al palo, da prendere per vincere un altro giro, lampioni e insegne luminose in ogni dove, che creano un inquinamento luminoso tanto che non riusciamo più a vedere le stelle da anni..anzi, esistono ancora?! E noi? Noi siamo solo il contorno di tutto questo, di tutta questa frenesia periferica: luoghi che un tempo erano nostri non ci appartengono più. Le nostre tradizioni..e chi se le ricorda più le tradizioni! Pensiamo basti portare alla festa del paese una trebbiatrice d’epoca, con qualche comparsa che si diletta a farla funzionare, per portarci indietro di 50 anni a ricordarci chi siamo e da dove veniamo? Non siamo più i figli della terra, la terra non è più sentita e rispettata come bene prezioso che con i suoi frutti ci da sostentamento. Ora è solo uno dei tanti mezzi per fare soldi, specie se edificabile! Se chiedi a qualcuno: “quanta terra hai?” è facile che ti risponda: “ho una trentina di campi, ma non valgono niente”..non valgono niente? Vuol dire che la terra ha valore non più in quanto terra, ma solo se ci si può costruire sopra qualche bel palazzone di cemento..?? Io non possiedo niente, vivo ancora con i miei, relegato in un mini appartamento che ho ricavato dalla casa padronale. A volte sostengo di vivere da solo, ma come si fa a dire ciò se si mangia e ci si fa lavare e stirare la roba dalla mamma? Vivo da solo, perché è la cosa che mi riesce meglio; non sono sposato, non ho figli, non ho una donna fissa, o meglio, una 7
relazione che duri più di qualche mese. Penso che ciò dipenda dal fatto che non dò certezze sul futuro, e ciò è innegabile. Ho cambiato non so quanti lavori, alcuni dei quali anche molto umili, di quelli che neppure gli extracomunitari vorrebbero fare. Ho lavorato molto, ma ho lavorato privo di soddisfazione per quello che facevo; praticamente ho lavorato solo per i soldi, perché mi sembrava che fosse il modo per guadagnare in fretta, come a voler recuperare tutti gli anni passati al liceo e, successivamente, all’università. Ecco la mentalità provinciale, la mentalità che ti viene inculcata in questi luoghi, in cui il vero lavoro è rappresentato da quello che si fa con il sudore, con le mani, con il sacrificio! Ma io possiedo, purtroppo, anche una testa e l’idea che potevo fare e dare qualcosa di più, almeno per me stesso, per le mie aspirazioni, per i miei sogni, ha fatto sì che cominciasse ad insinuarsi in me, pian piano, la convinzione che non si può svolgere un lavoro se quest’ultimo ti rende infelice. Fare ciò che non ti piace né ti soddisfa per otto ore filate, per 5 0 6 giorni la settimana, per 12 mesi, per anni, per una vita..non si può, cazzo!! È così che ci costruiamo le nostre prigioni, dico io, giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno, ci abituiamo alle nostre mura, ai nostri comfort da pagare a rate e ci dimentichiamo la voglia di volere qualcosa in più dalla nostra vita, ancorando al suolo i nostri sogni e negando loro il desiderio di realizzarsi! Un uomo senza speranza e senza sogni, che uomo è? È solo un burattino..ecco cos’è! Sì, un burattino, magari con qualche euro in tasca…domani, invece, io dovrò di nascosto frugare nella borsetta di mia madre e rubare qualche euro per fare benzina e per comprarmi le sigarette..soldi che lei lascia già con tacito assenso, conscia del fatto che il “figliol prodigo” andrà ad arraffarli. Dovrei provare vergogna per questo, vero? Beh..me ne vergogno sì, ma sono messo male in questo periodo e vorrei venirne fuori da solo, anche se mi rendo conto che sarebbe più giusto chiedere aiuto, gridare a tutti che non ce la faccio più da solo ad uscirne! Ma io voglio farcela, voglio credere di potercela fare con le mie sole forze, con la mia testa, con i miei sogni. Fa un freddo cane. Salgo in macchina e accendo il motore per scaldarmi un po’, ma non posso tenerlo acceso molto, c’è poca benzina, dovrò pur tornare a casa prima o poi! Ma non ora, non ancora...ho bisogno di stare un po’ qui, da solo, ad ascoltare il tichettio ritmato della pioggia contro il parabrezza, e ad inseguire con lo sguardo le gocce che scivolano sul vetro, distorcendo i contorni della realtà circostante, camuffandola ed offrendone una visione d’insieme ovattata; ogni nuovo rigagnolo che si forma sul vetro, sembra quasi cambi lo scenario circostante...Resto immobile così, quasi senza respiro, mentre le mie mani cercano nervosamente il pacchetto di sigarette nelle tasche.
8
CAPITOLO II Accendo una delle sei sigarette che mi rimangono e l’aspiro piano, lasciando poi uscire il fumo dalla fessura del finestrino appena aperto; alla radio passa un vecchio successo di Jim Croce: distendo le gambe e appoggio la testa al sedile, quasi mi sento rilassato ora. Ricordo tante sere trascorse così con i soliti 3 balordi, chiusi in una macchina ad ascoltare musica, a fumare qualche canna, a raccontarci cazzate. Si stava bene anche in quel periodo, il periodo dei 20 anni, anche se il nostro stare bene non era del tutto completo. A quell’età non so cosa si abbia in testa..cazzate di sicuro; non si hanno ancora obiettivi ben chiari da perseguire, ma si hanno dinnanzi un sacco di porte aperte ed in mezzo alla nebbia autunnale, che non ti fa vedere niente di ciò che ti circonda, ti viene da pensare di essere in un posto diverso colmo di opportunità solo da cogliere! Altro che questa oleosa periferia, che ti si attacca addosso come una sanguisuga, che ti succhia la voglia di essere migliore e di fare qualcosa in più di quello che ti viene chiesto. Quante camicie aperte sul futuro anche in quel periodo. Con i balordi si volevano realizzare un sacco di progetti: aprire un bar, fare canzoni di successo (anche se, piccolo particolare, nessuno dei tre aveva mai suonato neppure un’armonica a bocca!), magari aprire un’agenzia matrimoniale. Non so perché, ma l’idea dell’agenzia matrimoniale forse avrebbe funzionato in posti come questo, in cui la donna, agli occhi dell’uomo, è vista come un pianeta misterioso, una meta a volte irraggiungibile. Considerazioni e retaggi, frutto senz’altro, di una cultura contadina in cui la donna, madre, angelo del focolare domestico, veniva relegata ad un ruolo subalterno rispetto alla centralità dell’uomo, padre padrone. Un ragazzo di 20 anni, che ha sempre visto la madre o le sorelle zittite con parole o sberle, non può certo andare per il mondo, con idee chiare su come funziona, realmente, il rapporto uomo donna. Così si sente spaesato anche con i rapporti con l’altro sesso, oltre che dal continuo mutamento dei luoghi che lo circondano. Comincia ad interrogarsi sul come mai, se usa un apprezzamento un po’ pesante con una ragazza, questa, di rimbalzo, gli risponda mettendo in bell’evidenza il proprio dito medio con il pugno chiuso. Comincia a chiedersi come mai il suo savoir faire di maschio dominante (-ciao bela figa-) non funzioni mai; a domandarsi come mai il titolare della fabbrica in cui lavora sia una donna ed il notaio che gli ha redatto l’atto di sucessone sia ancora una donna, e non voglia sentirsi chiamare signora, bensì..notaio! In situazioni come queste, il ragazzotto non ha scampo; a poco a poco comincia a farsi strada nella sua mente la paura, la paura della donna dominante e lui, uomo, che fin da piccolo si era fatto un’idea diversa di come dovevano andare certe cose, ora trovandosi di fronte a donne più colte di lui, con una carriera ed un lavoro più redditizio del suo, non capisce e non accetta questa nuova dimensione e così, a poco a poco, comincia a chiudersi in se stesso, sentendosi snaturato nel suo ruolo di 9
uomo-maschio. Se io fossi una donna starei alla larga da uomini del genere! Certi tipi di uomini non portano niente di buono, perché non sono in grado di rinnegare la mentalità che fin da bambini gli è stata inculcata; uomini che potenzialmente possono diventare violenti, in quanto non riescono a capire che un rapporto fondato sul riconoscimento delle parità e sulla fiducia reciproca può giovare anche a loro stessi. Per i primi tempi, magari, sembreranno apparentemente tranquilli e pieni di attenzioni per la loro donna, ma col passare del tempo, nel loro petto rabbia mista a vampate di odio cominceranno a ribollire come lava in un vulcano. Basterà una lavata di testa del datore di lavoro, o il sentirsi sottomessi, o presi per i fondelli dagli amici, per far sì che al loro ritorno a casa, per una qualsiasi banalità, facciano sentire il peso delle loro vigliacche mani. Uomini di questo tipo non sarebbero stati accettati nella nostra agenzia matrimoniale! Noi avremmo accolto l’altro tipo di uomo: quello timido, quello che si sente brutto (e molto spesso lo è veramente), quello che è stato lasciato dalla sua donna e che si sente scoraggiato nell’intraprendere una nuova relazione amorosa. Uomini così molto spesso sono la fortuna delle donne, perché per natura si sentono naturalmente sottomessi a loro e anzi, altro non chiedono che essere guidati, incoraggiati e rinfrancati dalla loro compagna. Ed io, che tipo di uomo sono? Bella domanda mi pongo stasera! Io sono sicuro di aver conosciuto l’amore e questo per me è già abbastanza; so che per amare veramente bisogna darsi incondizionatamente all’altro, sono sicuro di questo, e so che non può essere mai sbagliato. Una delle cose più belle, quando si ama, è dare tutti noi stessi senza egoismo, senza pretendere di ricevere indietro qualcosa. Ma quanto può durare questo amore? Un mese, un anno, una vita? Non so quanto possa durare, ma non credo ci si debba porre questa domanda quando si ama una persona. L’amore può trasformarsi, i sentimenti possono modificarsi, ma credo che l’amore vero abbia radici profonde come una quercia alla quale possono essere tagliati tutti i rami, ma le radici rimangono in profondità e la fanno restare quercia comunque! Provate voi ad estirpare le radici di una quercia, se ne siete capaci! La cosa sbagliata è assuefarsi all’amore dell’altro, abituarsi a ricevere sempre e comunque attenzioni e dolcezza, senza accettare poi che, come un amore nasce, può anche morire; cadere poi nell’errore ancora più grande di pensare che non sia servito a niente amare, se non a farci soffrire. Ma come? Non è servito niente amare ed essere stati amati? Ma lo sapete che c’è gente che non ha mai conosciuto un vero amore in tutta una vita? L’amore è un dono, non può mai essere visto come qualcosa di sbagliato o inutile. Ecco…quando inizio a filosofeggiare, vuol proprio dire che l’ultima sambuca non era da prendere! Senza soldi, senza un lavoro, con 5 sigarette, solo in macchina e con poca benzina tanto da non poterla neppure tenere accesa per scaldarmi un po’…e a cosa penso io? All’amore! Beh…piuttosto di pensare al suicidio è già qualcosa. Il cicalio del cellulare mi distoglie dai 10
pensieri; è arrivato un messaggio, sicuramente m’informerà che il mio credito sta finendo…maledetti! E pensano pure di farti un favore a dirtelo! Invece no, è un messaggio che porta il nome di Barbara che dice: - il pollo è partito per andare a caccia; non è che tu sia ancora in giro ed abbia voglia di scaldarmi un pochettino?? -. Buona questa, un pollo che va a caccia! E sapete chi sarebbe il pollo? Un mio ex datore di lavoro, un “essere” sulla quarantina, disgustosamente pieno di soldi, soldi per lo più ereditati dal padre, il quale era assessore ai lavori pubblici in un paese dell’hinterland padovano che, per mezzo della sua carica politica riusciva a comprare terreni agricoli ad una pipa di tabacco per poi trasformarli in edificabili. Sicuramente non li intestava a suo nome, ma a qualche amico che gli reggeva il gioco, la classica “testa di legno”, con la creazione di qualche fantomatica S.r.l. a copertura di tutto il giochetto. Suo figlio, alla morte del vecchio ladro, aveva continuato l’illecita attività del padre, dal quale aveva ereditato le migliori qualità, diventando ancor più ladro. All’epoca io, all’epoca lavoravo come collaboratore in una delle tre agenzie immobiliari di sua proprietà. Avevo ottenuto il posto in quanto non avevo chiesto alcun fisso, soltanto i soldi della provvigione ricavata dagli appartamenti che sarei riuscito a vendere. Era da un mese che mendicavo un posto di lavoro qualsiasi e, oramai ridotto allo stremo, accettai la sua squallida ed iniqua proposta. In agenzia, oltre a me, c’era un geometra che si occupava di pratiche per acquisto e vendita degli immobili e la moglie del titolare…Barbara, appunto. Lei di cosa si occupasse non lo so proprio! Arrivava quando voleva e se ne andava negli orari più strani; una ragazza della mia età, piccola di statura ma ben proporzionata nel fisico, capelli castani molto folti e ricci: sembrava la capigliatura di Napo Orso Capo! Il suo sorriso spesso sembrava falso, adatto ad ogni circostanza. Non mi aveva mai colpito più di tanto e molto spesso la sua presenza in ufficio m’irritava. Lei aveva l’abitudine di squadrarmi dall’alto in basso attraverso i suoi occhiali griffati ed io con la mia eleganza sfiorita, mi sentivo a disagio; come quella volta che, consapevole di avere un buco nella suola di una scarpa (erano ancora quelle della laurea e di più eleganti non ne avevo), camminavo radente ad una parete affinché nessuno se ne accorgesse…lei, comunque, se ne accorse nel momento in cui dovetti sedermi dietro la mia scrivania che stava proprio davanti alla sua. Mi ero dimenticato, infatti, che la parte bassa del tavolo non era chiusa fino a terra e metteva in bella mostra proprio la mia scarpa bucata! Quando me ne resi conto era troppo tardi, ed il suo sorrisetto fu inequivocabile. Non so se diventai rosso in viso, ma mi alzai e, cercando di darmi un tono, dissi: - Stamattina volevo comprarmi un paio di scarpe nuove, ma mentre pensavo ciò, mi è venuto incontro un uomo a cui mancavano entrambi i piedi ed allora ho deciso di tenermi queste vecchie scarpe lise per ricordarmi di quanto sono fortunato!” -. Lei scoppiò in una risata di sano compiacimento e ciò fu la cosa più vera che avesse fatto da quando la conoscevo, e mi disse: - Scusami, non volevo metterti in imbarazzo, ma se 11
continui a camminare così storto, mi sa che ti viene una bella scoliosi! -. Risi anch’io e, per farla ridere ancora, misi una matita nel buco della scarpa e cominciai a camminare per tutto l’ufficio facendo lo scemo. Da quella volta in lei nacque una certa simpatia nei miei confronti che, di lì a poco, non mancò di manifestarsi. Il mio lavoro consisteva nell’accompagnare possibili acquirenti a vedere degli appartamenti, che il “pollo” aveva costruito..beh, appartamenti è una parola grossa, visto com’erano stati edificati!! L’impresa, a cui venivano affidati i lavori, lasciava molto a desiderare, cominciando dal capocantiere, un avvinazzato sui 55 anni, baffuto, con pochi capelli in testa e tutti arruffati; la circonferenza della sua pancia aveva un inizio, ma difficilmente se ne poteva scorgere la fine. Si chiamava Antonio, per tutti “Toni”; lo trovavi sempre intento, d’estate, a mettere “in fresca” dei bei bottiglioni di vino da circa 2 litri, che in gergo cantieristico vengono denominati “fanali”, oppure, d’inverno a tenerli ad una temperatura tale che, il liquido in essi contenuto, non diventasse troppo freddo..eh sì, Toni ci teneva alla salute! Succedesse mai che il vino ghiacciato gli provocasse una congestione! La volta che lo vidi più arrabbiato di tutte non fu per un architrave sottodimensionato, o per un palazzo di 45 cm più corto del progetto, ma perché un tunisino, con mansioni di manovale, gli aveva bevuto ¾ di “fanale” senza che lui se ne accorgesse… era diventato una belva umana: gli occhi fuori dalle orbite, i capelli rizzati sulla testa e andava ramingo per tutto il cantiere bestemmiando e inveendo contro chiunque gli venisse incontro! Il tunisino se l’era data a gambe per paura di prendere un’accettata in fronte mentre, tra una bestemmia e l’altra, Toni si appoggiava ansimando ad una gamba del ponteggio, per poter riprendere fiato, dicendo sottovoce: - I me putei…i ga tocà i me putei -. Che, tradotto, significa “i miei bambini…hanno toccato i miei bambini”. Da un capocantiere del genere, dico io, non possono certo venir fuori dei capolavori, anche perché, il resto della ciurma capitanata da Toni, era degna del proprio capitano. Io, con i possibili acquirenti, cercavo di mettere in mostra le qualità migliori degli appartamenti, o almeno ci provavo! Ma, quando ti trovi di fronte ad una camera che è poco più di un corridoio, o un soggiorno-cucina in cui non ci starebbe neppure il tavolo, o ancora una mansarda dove sbatti la testa in tutte le posizioni, non è che puoi mentire di fronte all’evidenza. Capisco mini appartamenti, ma i puffi mica esistono veramente! Ad ogni modo, qualcuno riuscivo a venderlo… ricordo quella volta che cercai di rifilarne uno ad una coppia che di lì a poco avrebbe dovuto sposarsi: entrambi sui 25 anni, lei pallida e secca secca, con lunghi capelli rossi che incorniciavano 2 occhi di un azzurro intenso; lui alto e ancora più secco di lei, tanto che, quando camminavano, sembravano due pezzi di garza sfilacciata che si sorreggevano a vicenda. Mi erano simpatici, mi dicevano sempre: - Signor Campana, ci consigli lei..il suo titolare non c’ispira molta fiducia -. Ma io,che dovevo guadagnarmi da vivere, che potevo dirgli io, che era tutta porcheria quello che proponevo loro? … Invece lo feci, cazzo! Dissi loro che con quei 12
soldi avrebbero trovato sicuramente qualcosa di meglio, in cui non c’era come capocantiere un beota e come impresario un ladro, figlio di un ladro e come venditore uno come me, passato di là per caso e che non aveva neppure un fisso, ma soltanto una misera percentuale sulle vendite! Mi guardarono sbigottiti e sconvolti e quasi non riuscirono a sillabare una sola parola. Lei, superando lo choc iniziale, mi chiese: - Perché fa questo signor Campana? Va contro i suoi interessi -. Io sapevo di andare contro i miei interessi, ma ero consapevole anche del fatto che lui non lavorava, in quanto allergico a tutto ciò cui era possibile essere allergici, e che quindi si arrangiava facendo dei lavoretti con la carta che poi, qualche cooperativa gli pagava una miseria, e che lei era impiegata in una ditta di import-export e non guadagnava più di 1000 euro al mese con gli straordinari che portava a casa! Ora, l’appartamento costava 135.000 euro, il pollo ne voleva in nero circa 55.000 e il resto in fattura, cosa significava questo? Significava che dovevano dare tutto ciò che avevano accantonato con sacrificio, i risparmi di tutta una vita, cioè 20.000 euro come caparra e preliminare subito, il resto del nero veniva dato dalla banca compiacente, in veste di pre-finanziamento, e tutto ciò che restava da fatturare, invece, veniva elargito come mutuo ipotecario di minimo 20-25 anni che, riassumendo, significava, per le 2 garze sfilacciate, 850 euro al mese per 20 anni minimo della loro vita (col rischio che, se le cose fossero andate male, la banca avrebbe portato via loro pure l’appartamento)…Un appartamento di merda! Lasciatemelo dire..sì di merda, che non valeva neppure i soldi della benzina spesa per venirlo a vedere..ecco! Mormorai solo: - Una bella coppia come voi, merita molto di più di questo palazzone anonimo! In giro c’è di meglio, credetemi! -. Mi strinsero la mano sorridendomi e, con un filo di voce lui disse: - Lei è sprecato per questo lavoro signor Campana, anzi dottor Campana -. Era questo quello che volevo sentirmi dire; solo questo poteva rialzarmi da una simile situazione, solo questo mi aveva profondamente gratificato. Erano i primi d’aprile, ed avevo appena concluso un contratto di vendita con un paio di cinesi. Il sole, quasi tiepido, era incoraggiante per la stagione ormai alle porte, ed io lasciavo che i suoi caldi raggi mi sfiorassero il viso, come rassicuranti carezze. Entrai in ufficio con il contratto dei cinesi in mano, questi non avevano quasi voluto vederlo l’appartamento, sicuramente gli serviva come investimento per pulire dei soldi sporchi, ma a me ciò non fregava nulla, e al titolare ancora meno di me: a lui bastava solo che chi comprava non fosse zingaro. Gli zingari, qualche tempo prima gli avevano fatto un bello scherzetto. Vennero in due, presentandosi come marito e moglie, ben vestiti e dai modi signorili, videro un appartamento che gli piaceva e lasciarono una bella caparra di 35.000 euro! Di lì a poco, nel giardino del palazzo nel quale avevano comprato l’appartamento, cominciarono ad installarsi un bel po’ di carovane ed un nugolo di bambini a tutte le ore del giorno correva schiamazzando da una parte all’altra del cortile. Per non parlare poi di un paio di ciccione che volevano leggere la mano a tutti 13
quelli che passavano loro vicino! La coppia si era portata i parenti a seguito e non voleva sapere di andarsene via se non veniva dato loro il doppio della caparra versata come previsto dalla legge. Il pollo era sconvolto, lui fregato dagli zingari! Ricordo ancora come si gongolava alla chiusura del contratto e come affermava pieno di orgoglio e a voce alta in mia presenza: - Se potessi seguire sempre io i possibili acquirenti, un contratto al giorno chiuderei..uno al giorno! -. Eccolo invece ora, intento a staccare un assegno di 35.000 + 35.000 euro purché venisse strappato il preliminare. In simili circostanze e con una caciara simile, difficilmente in quel palazzo si sarebbero potuti vendere altri appartamenti! Entrai in ufficio, come stavo dicendo, con il contratto in mano e ad accogliermi trovai il sorriso di Barbara che, nervosamente, stava trafficando con la fotocopiatrice: - Vieni a darmi una mano - disse, - la carta si è incastrata! -. Mi portai dietro di lei, aveva una minigonna che lasciava in bella mostra due gambe ben proporzionate e prive di cellulite. Spostandosi per lasciarmi posto si strusciò contro il mio inguine e, girando la testa per guardarmi in faccia, esclamò: - Oh là là! Come siamo vivaci oggi! Sarà la primavera? -. Al momento non afferrai subito a cosa si riferisse, ma poi capii che, strusciandosi contro di me aveva sentito qualcosa di molto duro, che non era affatto quello che lei aveva pensato, ma il tubo di pomata cinese che i due acquirenti cinesi mi avevano regalato per dar sollievo alle mie cervicali! Lo tenevo in tasca, e questo era ciò che di duro lei aveva sentito! Io al momento mi sentii imbarazzato, ma certamente non ero affatto intenzionato a svelare il segreto e risposi: - Forse sarà quello che la tua minigonna lascia vedere…oltre che immaginare -, - solo immaginare? incalzò lei. - E che altro potrei fare oltre a questo? - aggiunsi. Con fare un po’ gattesco Barbara mi chiese: - Dimmi un po’: ti è mai capitato di pensarmi, quando sei da solo, magari nel tuo letto prima di addormentarti? -. - Sì”risposi timidamente, - E a cosa hai pensato? -. - A tutto quello che un uomo ed una donna possono fare, trovandosi da soli in un bel letto comodo…anzi, più di quello che possono fare! -. Fintamente stupita esclamò: - Di più?! E cosa di più?!” -. Nel frattempo Barbara si tirava su i capelli con entrambe le mani lasciando intravedere, sotto la maglietta, il seno acerbo, ma molto invitante nelle sue forme proporzionate. Il rombo della macchina del marito che stava arrivando ci fece chiudere la conversazione con un mio semplice: Sono cose che non si possono spiegare, ma solo fare -. Mi sedetti dietro la mia scrivania dove, in uno dei cassetti, nascosi con molta cura il tubo di pomata cinese. Per un paio di giorni non la vidi più, ero troppo indaffarato a cercare di chiudere contratti con un gruppo di rumeni appena arrivati in Italia, senonchè, una sera mentre stavo giocando a tressette al bar, ricevetti un messaggio sul mio cellulare che diceva: - Dimmi che mi stai pensando e che sei tutto eccitato come quel giorno in ufficio -. Io tra una mano e l’altra della partita, riuscii a rispondere: - Come fai a saperlo, sono steso nel mio letto e non ho certo un libro in mano -. Di lì a poco, il cellulare mandò il segnale di risposta; guardai al volo e lessi: - Dimmi che vorresti possedermi senza 14
tregua per tutta la notte e che mi faresti urlare..dimmelo! -. Come no, ti farei urlare di sicuro, ma per le sberle, dato che avevo appena buttato via l’asso di briscola, in quanto mi ero deconcentrato! Il mio compagno di partita indirizzò alla mia attenzione una grassa bestemmia ed io risposi che erano cose urgenti, da cogliere al volo. Scrissi nuovamente mentre stavano mischiando le carte: - Ti farei urlare di piacere come mai ti è accaduto prima! Se tu potessi sentire come sono eccitato…capiresti -. Dopo due scarti arrivò la risposta di Barbara, e il mio compagno ribestemmiò con un tono ancora più colorito di prima, dicendomi: - …Ma se hai puttane per la testa, non puoi mandare a puttane anche la partita, siamo sotto di 15 punti Campana! -. Per tenerlo buono feci uno scarto magistrale, chiudendo la mano con un cappotto di 11 punti e solo allora mi lasciò rispondere al messaggio che diceva: - Ti vorrei qui ora, ma non si può perché lui sta dormendo al mio fianco, domani in ufficio ti dico quando…buonanotte e toccati pensando solo a me -. Io le risposi in maniera sbrigativa: - ..A te sola - e ripresi nuovamente il gioco affrontando le lamentele del tavolo. Il giorno dopo, comparve in ufficio verso sera, io ero seduto alla mia scrivania che cercavo di convincere uno dei rumeni, che meglio di così non si poteva fare come prezzo, che era un vero affare. Barbara si avvicinò e si mise dietro la mia sedia, abbassò il capo portando la sua bocca vicino al mio orecchio e bisbigliò: - Domani sera parte con alcuni amici per andare a caccia in Maremma. Se vuoi ti puoi fermare tutta la notte da me -. Devo dire che questa proposta non mi lasciò indifferente, anzi, pur non avendo nessun tubo di pomata in tasca, le parti basse erano diventate parecchio rigide. Quindi, mettendo una mano sulla cornetta del telefono le risposi: - Non mancherò! -. Uscimmo insieme dall’ufficio dopo una mezzoretta e, salutandomi, mi fece cenno che mi avrebbe inviato un messaggio per confermarmi l’ora dell’appuntamento. Dove abitava lo sapevo già. Ci ero stato un paio di volte per prendere dei documenti di vendita. Una villetta appoggiata su di una montagnola di terra seminata a prato inglese, dove si potevano trovare disseminate qua e là, finte anfore, copie in gesso di mezze colonne in stile classico, una fontana con un putto, che pisciava acqua, e gli immancabili nani da giardino a completare la saga del cattivo gusto. All’interno, il soggiorno era immenso: tappeti persiani ovunque ed una ciofeca di mobili in stile diverso tenuti insieme per i capelli, evitai di guardare oltre, ma ero sicuro che le cose non sarebbero migliorate negli altri locali..Ah, dimenticavo: in bagno meraviglia delle meraviglie…il bidet catturò immediatamente la mia attenzione. Che ci crediate o no, era a forma di cigno! Il giorno dopo mi sentivo un po’ nervosetto, mica potevo tirare fuori il tubo di pomata cinese se le cose si fossero messe male, ma mi sentivo fiducioso e, verso sera cominciò ad assalirmi una certa impazienza, dato che il messaggio di Barbara tardava ad arrivare. Giunse mentre ero intento a radermi la barba e, con la faccia ancora schiumata, lo lessi: - Alle 23,00! A quell’ora non c’è più alcun rischio! A dopo -. Bene, pensai, speriamo veramente di non incappare in qualche fucilata! Arrivai all’appuntamento in 15
orario. Parcheggiai l’auto un po’ fuori mano e, con il bavero alzato, suonai il campanello, che fece l’eco fino a fuori e non poteva essere un suono normale, figuriamoci! Era una melodia di campane che mi fecero subito voltare a guardarmi intorno col timore che avesse svegliato l’intero vicinato! Entrai in casa velocemente e non feci in tempo a chiudere la porta dietro me, che me la trovai addosso in un istante. Mi baciò sensualmente sul collo e mi aiutò a togliermi la giacca che fece volare sopra il divano; poi mi fece accomodare in una poltrona stile rococò, con tappezzeria in raso rosso e mi portò prontamente da bere: - Tu non bevi? - le chiesi. - Io berrò dalla tua bocca -rispose lei…Azzzz…pensai, qui la faccenda comincia bene!! Volle bere dalla mia bocca e, con le labbra incollate alle mie, cominciò a sfilarmi la camicia di dosso. Intanto le mie mani, infilate sotto la sua maglia colore arancio che lasciava scoperta la pancia, cercavano il suo seno. Mi si sedette sopra ed io mi lasciai sprofondare nella poltrona rococò, pensando a chissà quante ne aveva viste quella poltrona. Tra un indumento e l’altro che finiva sul pavimento, cercavo di capire se, nella zona “tubo cinese”, tutto stesse funzionando e mi pareva che non ci fossero problemi per fortuna, altrimenti avrei dovuto giocarmi la carta dell’emozione o della paura che il marito rientrasse da un momento all’altro perché si era dimenticato qualcosa…Il fucile per esempio: ce n’erano di tutti i tipi appesi alle pareti, oltre a macabri trofei di poveri cervi o cinghiali, e non volevo di certo che anche la mia testa finisse appesa in bella mostra in qualche muro della casa! Non ebbi il tempo di pensarci a fondo perché le cose procedevano in maniera vorticosa. Me la trovai nuda in un istante, con addosso solo un paio di autoreggenti. La cosa non mi lasciò di certo indifferente e, mentre mi toglievo i boxer davanti al suo sorrisetto falsamente ingenuo, mi guardavo intorno per cercare i miei pantaloni, nelle cui tasche avevo messo 4 preservativi (un po’ troppo ottimista, lo so). Lei però aprì il palmo della sua mano e, con mia sorpresa, notai che su di esso ce n’era uno di colore rosso. Meglio così, pensai, visto che il nero smagra! Rosso e profumato alla fragola, disse, e se lo mise fra le labbra e me lo fece indossare con la sua bocca. Beh! Non male come trovata, data la risposta del “tubo cinese”! Facemmo del buon sesso, direi, in maniera spasmodica, affrontando, oltre alla poltrona rococò, anche il divanetto stile liberty del salottino, un paio di tappeti persiani d’epoca…..e il tavolo della cucina in arte povera. Per il letto in stile svedese le dissi che sarebbe stato meglio rimandare ad altra occasione se non voleva vedermi morto! Prima di andarmene le chiesi di poter usare il bagno, (non potevo assolutamente privarmi del piacere di rinfrescarmi nel suo bidet a forma di cigno) e con quanto piacere lo feci, asciugandomi con la salvietta profumata di bucato con le iniziali del padrone di casa..il mio titolare! Rientrai nel soggiorno mentre Barbara era al telefono con il marito. Gli chiedeva com’era andato il viaggio, se era stanco e, ciliegina sulla torta, se lei gli mancava. Io ero impietrito, ma lei continuava a parlare come se nulla fosse, accarezzandomi sotto la camicia! La salutai verso le 2,30 di notte. Le mie gambe mi portarono alla 16
macchina e, velocemente me la svignai con un sorriso di sollievo. Lasciai quel lavoro dopo circa un mese dal nostro incontro; i contratti erano pochi ed io non riuscivo più a mentire ai clienti, data la schifezza che avevo da proporre loro! Con Barbara mi sono incontrato un’altra volta, sempre a casa sua e sul letto in stile svedese, ma poi, ogni volta che ricevevo un messaggio d’invito, trovavo una scusa, o tiravo in ballo fasulli sensi di colpa nei confronti del marito e rimandavo ad altra occasione. Ora, in una notte da panico come questa, mi messaggia chiedendomi se la vado a scaldare…. farò finta che il cellulare sia già spento ed io a dormire, rinviando, come al solito, ad altra occasione il nostro incontro.
17
18
CAPITOLO III
Ha smesso di piovere. Ho chiuso gli occhi un attimo, che mi è sembrato eterno, ed invece l’orologio digitale sul cruscotto dell’auto mi dice che sono trascorsi solo 5 minuti……. Ho riaperto gli occhi a causa dello strombazzare stonato di un’auto passata a gran velocità di fianco a me, con a bordo certamente qualche ragazzotto di ritorno dalla discoteca, rincoglionito da chissà quale grado alcolico nel sangue. Adolescenti di periferia! Li vedi in gruppi che affollano i locali vestiti come straccioni, con jeans che costano più di 100 euro al paio, pieni di toppe e buchi a determinarne il valore aggiunto, le camicie stropicciate, e più lo sono, più fanno tendenza e visi colmi di ferraglia infilata nei posti più strani, come voler affermare che, chi porta l’orecchino solo sul lobo, è out! No, non mi sento fuori moda e neanche uno che non riesce a stare al passo con i tempi; mi sento solamente un osservatore, un osservatore che, si rende conto di quante simbologie, falsamente tribali, esistano nei costumi dei ragazzi, che vanno dal pearcing più estremo, ai tatuaggi più eclatanti, agli stracci griffati. Ritengo che, questo modo di fare tendenza, sia solo per far parte del branco. Il bello è poi che questi ragazzotti non se ne rendono neppure conto; pensano di essere originali, di star fuori da chissà quale schema sociale, rimanendo invece intrappolati, più di qualunque altro, nelle loro gabbie di finta libertà. Pecoroni vestiti tutti uguali, marchiati con inchiostro indelebile sulla pelle e pieni di ferraglia tintinnante, in modo tale che, riescano sempre a percepire, anche ad orecchio, quale parte dello spazio occupano. Li vedi sempre in branchi, oppure dentro a recinti luminosi ed assordanti, le disco, i videopub, o in birrerie dove si può anche mangiare messicano. In provincia, come in città, le uniformi sono sempre le stesse, l’unica differenza è che i ragazzi di periferia, restano sempre di “periferia”, e cioè sempre e solo dei “boari”. “Boaro” è colui che governa il bestiame, l’addetto all’alimentazione ed alla cura dei capi, oltre che alla pulizia della stalla In pratica “Boaro” deve fare in modo che le bestie abbiano sempre tutto ciò di cui necessitano. Un po’ come i modelli delle nostre “bestie” adolescenziali. Solo che questi modelli non puzzano e non indossano stracci per necessità, ma hanno a disposizione studi televisivi, cartelloni pubblicitari, testate di giornali, copertine di riviste, case discografiche. Questi “boari moderni” hanno mezzi che possono arrivare ovunque, perché la mandria da accudire diventa sempre più vasta ed ogni capo è prezioso e non può essere assolutamente perso. Ma dai Campana…ma dai! Cosa ti metti a giudicare anche tu i ragazzi ora! Loro si vestono e si atteggiano in questo modo, perché a loro piace questa 19
tendenza. Perché tu, Campana, non ti sei mai comprato un paio di pantaloni della Diesel?! Certo che li hai comprati anche tu Campana, ma quel che è peggio, è che li hai comprati a 30 anni, quando avevi i soldi per poterteli permettere..e allora? Allora cazzo! Avrei fatto non so cosa per averli avuti a 16 anni.. cazzo! Quindi, dico io, non è anche questo un modo per tenere una massa per “le palle”? Tutto ciò che noi divoriamo da spot televisivi, soap opera, talk show (che non so nemmeno come si scriva), non è uno sporco mezzo per tenere le masse sotto controllo? Il fatto di continuare a comprare un sacco di cose superflue, che ci portano solo ad indebitarci, non è che sia fatto ad arte per anestetizzarci e non farci pensare ai veri mali della società? Sì, perché la società siamo noi, noi che lavoriamo, noi che paghiamo le tasse, noi che ci innamoriamo, che ci sposiamo, che non arriviamo a fine mese con quei 4 soldi di stipendio, noi che eleggiamo la nostra classe politica…Ma vivere è tutto qui? Avere una bella macchina, un paio di pantaloni griffati, un mega telefono cellulare? Ci basta questo per essere felici? La soddisfazione dei genitori è che i loro figli vestano come i figli dei ricchi, o come chissà quale infernale divo appena arrivato alla ribalta dalla scena internazionale? Ma che cazzo di società siamo noi? Noi che riusciamo a protestare solo di fronte ad un bicchiere al bar e poi sempre a testa bassa, da bravi pecoroni, con il terrore di perdere quelle 4 cagate prese a rate! Che cazzo di società siamo noi, che non riusciamo neanche più a parlarci, se non attraverso le parole di qualche opinionista sentito di striscio alla tv! Ormai si parla solo per sentito dire. La mafia, la corruzione, il clientelismo sono solo il prodotto del nostro disinteresse latente, dell’incapacità a comunicare tra noi, della paura di perdere il nostro pezzetto di torta, o di fare qualcosa che non ci porti nessun guadagno personale; questo è il vero male della società. Certo perché fare qualcosa in modo disinteressato per la comunità, significa solo essere dei coglioni. Fare qualcosa che non ci porti profitto diretto, è una perdita di tempo! E questa ideologia, del nostro pezzetto, ci fa dimenticare che noi, da soli, con il nostro pezzetto, non siamo nulla. Crescere fin da piccoli con questa mentalità, non aiuta di certo a formare la nostra autostima, il nostro sentirci individui unici. Vivere considerando gli altri, solo per quello che ostentano in termini materiali, alla fine ci fa sentire tremendamente poveri. Sempre alla ricerca di quel qualcosa che ci manca per realizzarci. Il vero povero infatti, non è chi possiede poco, ma chi desidera troppo. Bisognerebbe, invece, trovare sicurezza nelle cose alle quali si può tranquillamente rinunciare. Quando andai al liceo, la mia più grande paura fu quella di venire etichettato come un povero boaro. La mia vergogna di venire dalla provincia era ovviamente estremizzata ed infondata, ma quando si hanno 14 anni, non si possiede una dose sufficiente di autostima ben formata e ci si sente smarriti. Pensavo di poter fare gruppo, al limite, solo con qualche altro ragazzo di provincia come me, capitato per caso nella mia classe. Il caso volle invece 20
che tutti i miei compagni e compagne fossero della città. Il Liceo Artistico, a quei tempi, rappresentava una scuola d’elitè, un parcheggio per l’università ed i ragazzi delle “mie parti erano” stati da sempre indirizzati ad una scuola più concreta, come l’istituto per geometri, o ragioneria, con lo scopo che, dopo i 5 anni di scuola si potesse chiudere il capitolo scolastico e trovare subito un lavoro sfruttando il titolo di studio conseguito. Il giorno prima di iniziare la scuola, io e mia madre eravamo stati nel negozio di abbigliamento del mio paese, l’unico che c’era. Optai per un maglioncino azzurro a rombi, una camicia in tinta, ed un paio di jeans Roy Roger‘s presi su insistenza del titolare del negozio. Vestito di tutto punto, il giorno dopo presi la corriera e mi diressi verso la scuola, e dato che si trattava di una scuola ad indirizzo artistico, avevo pensato bene di portarmi dietro anche un album di fogli bianchi in formato A4 (che non si sapeva mai). Nel cortile della scuola, notai immediatamente che nessuno era vestito come me, cioè pulito e stirato, ma la maggior parte dei ragazzi aveva capelli lunghi, orecchini, collane vistose, giubbetti in jeans consunti e stivali ai piedi, mentre io, con i miei mocassini neri, sembravo appena uscito da Messa! Passai tra 2 file parallele di studenti di terza e quarta, pagando lo sbeffeggiamento tipico che si impone alle matricole, per ritrovarmi poi nell’aula designata. Il professore arrivò con una buona mezzora di ritardo e senza neppure scusarsi cominciò a fare l’appello chiedendo ad ognuno il paese di provenienza. Fui l’unico che non disse Padova e tutti si misero a ridere! Ecco, pensai, etichettato “boaro” dal primo giorno e senza aver espresso neppure un concetto! In realtà poi, col passare dei mesi e degli anni, cominciai ad essere misurato dai miei compagni, per le mie qualità, e si dimenticarono ben presto la mia provenienza non del tutto cittadina. Ma non ho voglia di pensare a me adolescente, non ho grandi ricordi, a parte i successi scolastici e le soddisfazioni giocando a calcio. Ricordo solo un malessere generale, dovuto ad una profonda timidezza nei confronti della vita e delle opportunità che mi si presentavano davanti, ed una continua paura di non essere all’altezza, all’altezza di cosa poi! Non ho neppure voglia di pensare a questi ragazzotti che scorazzano con le auto che sputano cavalli dalle marmitte, per andare dove poi, per andare dove! Non ho voglia di pensare a niente e così frugo tra le tasche per cercare il pacchetto quasi vuoto di sigarette. Ne accendo una e osservo contro il buio dell’abitacolo il brillare del tabacco ardente ogni volta che ne tiro una boccata. Alla radio ora stanno passando un pezzo di Bennato: “non farti cadere le braccia”. Facile a dirsi, le mie le stan su con l’attaccatutto e non so per quanto ancora resisteranno! Mi torna in mente Cisco, un tipo incontrato per caso ad una festa di amici. Mi chiedeva sempre di suonare con la chitarra questa canzone; lui la cantava a squarciagola storpiandone continuamente il testo, oppure farfugliando qualcosa di incomprensibile ogni qualvolta non ricordasse una parola, ed alla fine poi, battendomi sulla spalla, mi diceva: - Io e te avremmo un futuro nei pianobar -. Sì, pensavo io, forse come baristi, 21
dato che continuava a riempirsi il bicchiere e a riempire, di conseguenza, anche il mio. Io suonavo la chitarra solo per fargli un piacere e per vedere il suo viso che si allargava a dismisura ogni qualvolta io intonassi una canzone che gli piaceva; arrivava di corsa da qualsiasi posto in cui avesse parcheggiato il proprio sedere e, impugnando una qualsiasi cosa che potesse sembrare un microfono, cominciava ad esibirsi ed ad atteggiarsi come un grande cantante. Mi piaceva molto la sua semplicità, il suo modo di vedere le cose. Cisco sosteneva, in particolare, che quando le cose non vanno bene, bisogna avere il coraggio di cambiarle. Cisco abitava a Contarina, un buco di paese in provincia di Rovigo. Quante volte mi ha invitato a casa sua e quante volte ho trovato una scusa qualsiasi per scansare l’invito!! Una volta, però, decisi di accettare il suo invito: era agosto, in paese non era rimasto nessuno neanche per una partita a tressette. Io avevo messo via qualche centinaio di euro lavorando come imbianchino con un mio amico. Partii alla volta di Contarina il lunedì, con la mia vespa carica di sacco a pelo e un borsone con dentro le cose di prima necessità. Non sapevo quanto sarei stato via ma, conoscendomi, sicuramente fino a quando non fossero finiti tutti i soldi, a parte quelli della benzina per il ritorno. Viaggiando mi sentivo libero e con la mente sgombra; la vespa teneva i giri come un orologio svizzero e, tranquillamente, “macinava” chilometri, quasi fosse sospesa sopra l’asfalto. La mia vecchia vespa, fedele negli anni, non la darò mai via!! Dicevo tra me e me. E invece l’ho venduta 3 mesi fa, in quanto, a corto di denaro, dovevo pagare una rata alla Banca, che da qualche giorno mi marcava stretto! La strada per Contarina passava in mezzo a sconfinata campagna: campi e ancora campi seminati con cura. In particolare mi affascinavano quelli di grano: sembravano un mare che ondeggiava sferzato dal vento con, disseminate qua e là, chiazze infuocate di papaveri. Mi fermai a fumare una sigaretta. Seduto sopra ad un paracarro, mi sentivo un viaggiatore, un esploratore, mi sentivo in pace con me stesso e con l’intero creato! Il cielo cadeva a picco sulla distesa di grano, e si intravedevano dei casolari abbandonati e la mia mente correva tra quelle aie, dentro alle stanze, immaginando quanta vita fosse passata tra quelle mura!…Immaginavo me stesso, portato indietro dalla macchina del tempo, e a come sarebbe stata la mia vita in quei borghi abbandonati dalla civiltà. Pensavo che è solo per caso che siamo ciò che siamo. Il lavoro, gli amici, la famiglia, tutto avviene e si determina solo per delle coincidenze di percorso. Quante volte, seduto sul vagone di un treno inghiottito dentro la notte, in posti e località sconosciute dalla mente, guardavo le finestre illuminate al di là del finestrino. Immaginavo dietro ad ogni finestra una vita, una storia ed io avrei voluto conoscerle tutte, intrecciare la mia vita con ognuna di quelle vite che si celavano dietro a quelle finestre. Qualcosa si muoveva dentro allo stomaco, quando riuscivo a fermare nitidamente qualche fotogramma quotidiano: una coppia che cenava, una donna che lavava i piatti, un’ombra che guardava fuori dal balcone. 22
Sentivo una miscela di nostalgia e disperazione, per il fatto che la mia vita fosse solo una goccia nell’oceano di vite, che i miei occhi avevano intravisto. Due colpi di fucile ed un lamentoso guaire di cani, destò la mia mente da questi pensieri; un cacciatore spuntò improvvisamente dal campo di grano con a tracolla, un paio di lepri senza vita. Un misto di disgusto e rabbia riempì la mia anima. Io odio i cacciatori ma, nella fattispecie, il goffo elemento che avanzava, vestito con una tuta mimetica di tipo militare, con la sua presenza, aveva bruscamente interrotto i miei pensieri. Un colpo sulla pedivella della vespa e me ne andai, facendo sbuffare fumo bianco dalla marmitta. La strada che precede il paese di Contarina, è un lungo rettilineo con alti platani da entrambi i lati e ogni tanto, su uno di questi, potevi trovare attaccato un mazzo di fiori secco, o addirittura una piccola lapide, segno che in quel posto, in un preciso momento, una vita si era spenta. In epoche remote questi alberi erano stati piantati per portare ombra ai carrettieri che, col cavallo, portavano le loro merci in paese. Ora sono solo dei verdi killer, pensa qualcuno, ma io non credo che mai nessuno sia morto nello schianto correndo con un carretto trainato da un cavallo o da un ciuco. Arrivato nel centro del paese, adagiato nell’ansa che fa il fiume Adige, parcheggiai la mia vespa davanti al primo bar che trovai, “Bar Jolly”, ed entrai. Un fumo intenso colpì subito i miei occhi e un forte odore di vino sfuso arrivò al mio naso. Gli avventori stavano seduti a dei tavolini su scricchiolanti sedie in legno. Non appena oltrepassai la soglia, smisero di parlare per un istante tra loro, e quando mi avvicinai al bancone e chiesi un caffè, ricominciarono a giocare a carte e a discutere, ma tenendomi sempre sott’occhio con sguardi furtivi. Bevuto il caffè, domandai al barista, un tipo di età indefinita, magro e con gli occhiali spessi un dito, dove fosse via degli Eroi. Si grattò un po’ sul capo quasi pelato e m’indicò una via laterale alla piazza, percorsa la quale, avrei dovuto svoltare a destra: - Impossibile sbagliare, c’è il capitello con la Madonna - disse. 200 metri più avanti c’era la via che cercavo. Pagai e ripartii. Giunto al capitello, girai a destra e, come per incanto, trovai Via degli Eroi. La casa di Cisco la si scorgeva già in lontananza: un grande casolare dove un tempo abitavano 5-6 famiglie, ma poi, sia per la penuria di opportunità che questi luoghi offrivano, sia per la morte dei vari residenti, vi era rimasto solo lui, con la madre e la sorella. Parcheggiai la vespa all’ombra di un filare di uva fragola, mi tolsi il casco e mi avviai all’ingresso, preceduto da un insistente abbaiare di cani. Da dentro casa una voce urlò: - Laika, Rex, basta! -. E si affacciò sulla porta la sorella di Cisco. Una ragazza delicatamente rotonda, con una prosperosità non esagerata, il viso molto dolce e un sorriso quasi velato. teneva in mano uno di quei piumini per fare le pulizie e, appena mi vide, lo nascose, quasi con vergogna dietro la schiena. Salutai e mi presentai, poi chiesi se Cisco fosse in casa e le avesse parlato di me. Mi rispose che Cisco era andato alla posta per sbrigare alcune faccende e che era molto strano che non ci fossimo 23
incrociati lungo la strada. Mi fece entrare ed accomodare nel soggiorno. Dalla cucina una voce chiese: - Elena, chi è? -. La madre di Cisco stava spennando un paio di oche e, per guardarmi, sporse solo la testa dalla porta che dava nel soggiorno. - Un amico di Cisco, mamma -. La madre lasciò tutto sopra il tavolo e, togliendosi i guanti, venne a tendermi la mano. Al momento del contatto, però, la ritrasse e fissandomi fin dentro agli occhi chiese: -Che tipo di amico? -. Aveva due occhi neri, incavati dentro le orbite e sottolineati da pesanti occhiaie violacee, come quelle di chi non dorme da un mese o sta piangendo da un’ora. Pensai che ciò potesse dipendere dalla vita faticosa di quei posti. Alla sua domanda risposi con la prima cosa che mi venne in mente: - Spero un buon amico -. Lei mi sorrise un po’ forzatamente e mi strinse la mano: una mano secca e nodosa, ma ancora forte nella presa malgrado l’età. Ritornò in cucina dicendo alla figlia che mi preparasse un caffè e che, di lì a poco, Cisco sarebbe arrivato. Dalla poltrona di ciliegio dov’ero seduto comodamente guardavo tutto ciò che stava intorno a me, ora che gli occhi si stavano abituando alla fresca penombra: alcune foto, appese alle pareti, catturarono la mia attenzione, erano vecchie foto di gruppo “in posa domenicale”, cercavo d’intuire i gradi di parentela che legavano quelle persone a Cisco. All’interno della cristalliera erano disposti, in perfetto ordine, pupazzetti in vetro soffiato che brillavano di luce propria e, sopra la credenza in noce nazionale, altri oggetti in argento e peltro. Elena arrivò con “il vassoio delle grandi occasioni” in mano, con tazzine, cucchiaini e zuccheriera. Nello stesso istante i cani, che fino a quel momento erano stati immobili sull’uscio di casa, cominciarono ad agitarsi e a lamentarsi impazientemente: Cisco stava arrivando! Quando entrò in casa mi accolse con un largo abbraccio, come tra due persone che non si vedono da una vita e si sedette sulla poltrona di fianco alla mia. Prese anche lui il caffè e mi chiese prontamente se avessi portato la chitarra. Il suo sorriso si trasformò in una faccia delusa, quando gli dissi che non era certo facile portala con la vespa. Chiamò Elena e mi fece raccontare, con le sue parole, quanto io e lui ci divertissimo a cantare e suonare con gli amici. La madre, invece, scuoteva la testa ad ogni sproposito del figlio. Era quasi l’ora di pranzo ormai, e fui obbligato a sedermi a tavola con loro; il profumo di spezzatino ed anguilla fritta era molto invitante ed accettai il loro gentile invito senza troppi complimenti. Cisco mise in tavola un paio di bottiglie di buon cabernet e ripetutamente mi riempiva il bicchiere, anche se la mia mano gli faceva continuamente segno di no. Mangiai di gusto le pietanze e dedicai molti complimenti alla cuoca, Elena, la quale durante il pranzo cercava il mio sguardo e io le rispondevo con un sorriso discreto. Alle due del pomeriggio la madre di Cisco non rinunciò al suo riposino quotidiano e, pregandoci di non far troppo chiasso, si avviò su per le scale che portavano al reparto notte. Noi uscimmo fuori e ci stendemmo sotto alle viti, che formavano una specie di gazebo naturale, uno di fianco all’altro a contemplare il cielo che spuntava tra un pampano e l’altro. Io, tra Cisco ed 24
Elena mi sentivo completamente a mio agio, in una situazione naturale, in sintonia con quanto mi circondava. Il mio braccio era adagiato vicino a quello di Elena: sentivo la sua pelle sulla mia e questa situazione mi procurava un piacere intenso. Iniziai a muovere il mio braccio in modo quasi impercettibile, poi la mia mano divenne più audace ed andò ad accarezzare quella di Elena. Lei mi lasciò fare, tenendo gli occhi chiusi, come dormisse, mentre Cisco parlava di cose a cui io rispondevo ogni tanto con degli assenti: - Veramente?…ma dai! -. In realtà ero totalmente concentrato su Elena, che nel frattempo si era girata sul fianco, porgendomi la schiena, e si lasciava da me massaggiare ed accarezzare dolcemente. Il fratello non faceva caso a ciò che succedeva, o ne rimaneva completamente indifferente, esclamando ogni tanto: - Hai visto che splendore di sorella che ti ho presentato? -. Io annuivo con la testa ed Elena rideva dandomi spintoni, come per dirmi di smetterla di prenderla in giro. In realtà Elena mi aveva colpito per la sua semplicità, nel suo essere donna affidabile, la classica donna di casa, la cui più grande aspirazione è quella di formarsi una famiglia e dedicarsi completamente a marito e figli. Una donna semplice, poco esigente, capace di commuoversi davanti a qualche stupida soap-opera e di ridere per battute anche stupide. Rimasi praticamente impietrito quando Cisco, ad un certo punto, disse: - Una sorella splendida ed intelligente, appena laureata in filosofia con 110 e lode! -. Bloccai il mio massaggio ad Elena, quasi mi sentissi in colpa dei pensieri appena fatti e, un po’ imbarazzato, dissi: - Complimenti dottoressa -. Preferivo pensare ad Elena non tanto come una letterata, ma piuttosto come “donna di casa” quale era, infatti, di lì a poco, lei disse che si era laureata perché ci si era trovata in mezzo, ma che cucinare era la sua più grande aspirazione. Cisco cominciò ad insistere affinché io lo accompagnassi in paese a prendere alcune cose per la cena. Voleva organizzare una cena “alla grande” disse, in quanto dava per scontato che mi fermassi a cena ed anche a dormire, dato che di camere ce n’erano in abbondanza. Non ebbi il tempo di replicare: Elena mi abbracciò esclamando entusiasta: - Che bello, non c’è mai niente di nuovo da queste parti, almeno tu sarai una bella novità! -. Aprii le braccia in segno che non potevo certo sottrarmi a tale proposta ed, in realtà, oltre a non sapere dove andare, mi piaceva la compagnia di Elena e del fratello, che oramai mi reputava, complice il cabernet, il suo più grande amico. In paese andammo con la mia vespa; Cisco mi faceva fermare ogni volta che gli veniva in mente di comprare qualcosa, ma poi ci ripensava e mi faceva ripartire alla volta di un altro negozio. Alla fine comperammo tutto ciò che serviva, quindi ci sedemmo fuori ad un anonimo bar a bere un caffè. Notai che, per quanto piccolo fosse il paese, Cisco non salutava nessuno degli abitanti e nessuno salutava lui, neppure quando gli sguardi s’incrociavano….strano, pensavo. Bevuto il caffè, non potei fare a meno di notare il sorrisetto ironico del barista mentre mi dava il resto e, girandomi per uscire, due ragazzotti che stavano prendendo un Campari, si scambiarono un 25
paio di gomitate a reciproca intesa. Mah!… pensai: uno straniero fa un effetto così strano da queste parti? Tornammo al casato verso le 6 di sera. Cisco volle farmi vedere quanta terra avrebbero posseduto, se suo padre non l’avesse persa quasi tutta al gioco delle carte, e devo dire che la perdita era stata piuttosto cospicua. Ora gli erano rimasti una decina di campi coltivati a mais, che a dire di Cisco, a malapena coprivano le spese di gestione. Il sorriso di Elena mi accolse dolcemente all’ingresso della cucina. Appoggiai le borse con i viveri sopra il tavolo, mentre Cisco si organizzava per portare fuori tavolo e sedie, perché voleva cenare alla luce della luna. La madre trovò questa proposta inopportuna e cercò il mio consenso. Io, invece, appoggiai l’idea di Cisco e lei si rassegnò dicendo solo: - I mati i va sempre in copia -. Era una splendida serata d’agosto, il cielo si era acceso di un rosso vivo, per poi spegnersi in un blu quasi innaturale; le ombre della sera portavano una miriade di suoni nuovi, che la campagna deserta amplificava in un coro quasi assordante. Seduto su di un vecchio aratro, osservavo le ombre davanti a me, fumando una sigaretta. I ricordi cominciavano ad accarezzarmi lo stomaco…. Da tanto tempo non sentivo più la voce della campagna, il suo odore, la sua forza misteriosa! Quanto tempo era passato da quando avevo ammirato un tramonto! Mi sentivo tra amici, stavo bene lontano dal caos della vita che rincorre solo cose futili. Guardavo la luna, toccavo l’erba per il piacere di toccarla, non pensavo all’angoscia dei conti da pagare, delle scadenze da assolvere…da quanto tempo non mi sentivo così!?!? Le mani di Elena sulle mie spalle, mi riportarono al presente: era pronto in tavola! Mi avviai con lei sottobraccio verso la tavola imbandita, ed illuminata da candele, sia per creare un po’ d’atmosfera, sia per tener lontano le zanzare, che da quelle parti si sa, sono terribilmente aggressive. La cena era deliziosamente iper-calorica, annaffiata dal meglio che la cantina di Cisco poteva offrire. Elena, ogni volta che mi proponeva una nuova pietanza scoppiava a ridere: - Neppure ad un matrimonio si mangia così!-, continuavo a ripetere, mentre la madre, indagava su di me con lo sguardo, quasi volesse capire quali fossero i rapporti che avevo col figlio, dato che era la prima volta che mi vedeva. Il vino mi aveva dolcemente annebbiato la mente e cominciai a fare lo spiritoso. Mi piaceva sentire Cisco ridere e battere i pugni sul tavolo, ma in realtà volevo rendermi simpatico soprattutto agli occhi della sorella e della madre, quasi fosse quello il conto che dovevo pagare per la loro squisita ospitalità. Mentre davo i meglio di me attraverso i miei racconti, squillò il telefono. Elena si alzò di scatto ed andò a rispondere. Tornò di lì a poco dicendo al fratello che la chiamata era per lui. Un silenzio imbarazzante si alzò tutto ad un tratto; la madre nervosamente si torceva le mani guardando fisso negli occhi la figlia, come ad avere risposta di chi fosse in linea. Io mi versai da bere, tanto per fare qualcosa, ed aspettai che qualcuno sbloccasse questa assurda situazione. Lo fece Elena esclamando 26
con finta naturalezza: - E’ l’ora del dolce”-, ed entrò in casa a prendere la torta di mele, di cui andava particolarmente fiera. Dal momento che Cisco tardava ad arrivare, rendendo la madre sempre più nervosa, cominciammo a servirci, ed io non persi l’occasione per ribadire i miei complimenti alla cuoca. Cisco tornò al tavolo dopo all’incirca un quarto d’ora e si sedette al suo posto imbarazzato. La madre prontamente chiese chi fosse a cercarlo a quell’ora a e lui rispose secco e senza guardarla, che era un amico. - Quale amico? - chiese insistente lei, - Un amico e basta! - fu la risposta di Cisco, con un tono che voleva significare, fine delle domande. Alla sua risposta la madre cominciò a sparecchiare la tavola sbattendo le stoviglie in modo plateale. Cisco, senza dare praticamente peso alla reazione della madre, mi versò una Sambuca e, con il bicchiere alzato, brindammo alla nostra salute. A parte quest’ultimo spiacevole avvenimento, la serata era filata liscia e piacevole. Stavo bene seduto fuori a mangiare ed a bere; ogni tanto, qualche sventurata zanzara, volava incontro alla sua fine, attratta dalla luce azzurra della macchinetta friggi-zanzare. Quelle più grosse le sentivi friggere addirittura qualche secondo, e noi giù a ridere e a fare nuovamente un brindisi. Alle 10 di sera la madre si ritirò nella sua stanza, non prima di venire a salutarmi e comunicarmi che aveva cambiato la biancheria nel letto dove avrei dormito. La ringraziai in modo vistosamente confuso, cercando il contegno che non può avere uno con in corpo un bel po’ di cabernet e qualche giro di Sambuca. Elena rise molto del mio continuo inciampare sulle parole ed il mio slang era ormai al top. Verso le undici e mezza decidemmo di andare a dormire, i miei racconti si erano ormai esauriti e la stanchezza cominciava a darmi tra capo e collo, così mi alzai affermando che, per me le danze erano concluse. La camera a me destinata era ordinata e pulita; un intenso profumo di lavanda proveniva dalla biancheria ed il letto era ad una piazza e mezza con testiera e pediera in ciliegio massiccio. Mi lavai i denti nel catino servendomi della brocca che stava in un angolo della stanza, poi, come per abitudine, aprii l’armadio che occupava un lato della stanza e curiosai all’interno. Vi erano appesi dei leggeri bei vestiti femminili a fiori, alcuni con vistose scollature, tutti di ottimo gusto. Pensai fossero i vestiti di Elena e mi sentii quasi in colpa per aver occupato la sua stanza, oltre a sentirmi lusingato della cosa. Cercai d’indovinare quale fosse quello che aveva usato nel giorno della sua laurea e optai per uno molto semplice con dei bellissimi fiori azzurri su fondo bianco. Richiusi l’armadio senza fare rumore e mi distesi sul letto con le mani sotto il capo e a pancia in su. La luce dell’abat jour era di un rosso pallido ed illuminava solo un lato della stanza. Con lo sguardo seguii una crepa sul soffitto che attraversava tutta la stanza, fino ad arrivare in un punto che non potevo vedere per la scarsa luce. Da piccolo, durante il riposino pomeridiano, mi piaceva seguire le crepe sul soffitto della camera di mia madre, le conoscevo tutte a memoria, ognuna era una cosa diversa nella mia fantasia: un fiume, il profilo di un volto, delle montagne inesplorate; questa sorta di rituale mi conciliava il sonno ed, anche 27
in quel momento, mentre cercavo di dare un connotato a quella nuova crepa, sentivo che, di lì a poco, mi sarei abbandonato ad un sonno profondo e ristoratore. Le palpebre stavano diventando pesantissime senonchè una voce, o forse un grido, mi destò immediatamente. Trattenni il fiato per capire se era stato solo frutto della mia fantasia, ma di lì a poco, altre voci, come di chi non vuol farsi sentire, cominciarono a susseguirsi. Era sicuramente Cisco che discuteva con la madre ed ogni tanto, preso dalla foga della discussione, alterava il tono della voce, a cui seguiva un: - …Ssssssss…vuoi farti sentire da tutti come sei? -. Cercai di capire l’oggetto del litigio, sicuramente c’entrava la telefonata di mezza serata. Mi chiedevo chi e cosa, potevano aver fatto stizzire così tanto la madre di Cisco; chi poteva essere la persona che aveva telefonato scombussolando l’armonia familiare? Proprio mentre cercavo delle possibili e plausibili spiegazioni, sentii bussare alla porta. Pensai fosse Cisco che veniva a scusarsi, ed invece era Elena. Dato che non me l’aspettavo, rimasi imbarazzatamente stupito. Lei mi venne incontro con il dito indice sulla bocca, per farmi capire di non fare rumore. Le feci posto sul bordo del letto, e lei si sedette. Indossava una vestaglia leggera, forse di chiffon di seta, da cui s’intravedeva la biancheria intima non esageratamente provocante, anzi, molto sobria e questo, in un certo senso, mi rassicurò. La bellezza di Elena stava proprio in questo, nel suo modo semplice di essere donna, una donna che non ha bisogno di accessori per piacere ed essere seducente. Si scusò per la discussione che nella stanza accanto stava avvenendo e mi spiegò che, ultimamente, i rapporti tra il fratello e la madre, erano divenuti sempre più tesi. Chiesi se c’entrasse qualcosa la telefonata di mezza sera, e lei fece cenno di sì con il capo. Tanto per cambiare discorso, la ringraziai per avermi ceduto la sua camera e le dissi che per me era un grande onore occuparla. Lei, stupita, rispose: - Ma questa è la camera di Cisco -, - Come di Cisco? E che ci fanno i tuoi vestiti nell’armadio di tuo fratello? Non mi dirai che tu, nel tuo, tieni i suoi! -. Lei si coprì il volto con le mani, non so se per vergogna, o perché rideva di questa mia affermazione e, con le mani che ancora coprivano occhi e viso mormorò: - Quelli sono i vestiti di Cisco -. In un lampo tutto mi fu chiaro: i sorrisetti ironici al bar, il fatto che nessuno in paese avesse mai salutato il fratello, la freddezza con cui veniva accolto nei negozi. - No..non esce di casa vestito così, li indossa da solo, qui nella sua stanza, e mia madre, qualche tempo fa, l’ha scoperto ed ha scoperto anche una sua relazione con un ragazzo di Milano…quello che ha telefonato stasera -, aggiunse, e poi, prendendomi la mano, disse: - Ma tu non ne sapevi nulla? -. - Giuro di no -, risposi io, - e comunque, ognuno è e fa come gli pare nella propria vita. Io Cisco lo conosco come un caro amico e questo mi basta -. Avrei voluto chiederle un sacco di cose, ma anche interrogare me stesso su come mai non mi fosse mai passata per la testa una cosa del genere. Mai avevo avuto la sensazione che Cisco fosse gay, non che la cosa avrebbe cambiato l’opinione che avevo 28
di lui, ma il fatto di non sapere una cosa così importante della sua vita, mi faceva sentire un po’ meno amico agli occhi di lui e questo, in un certo senso, mi dispiaceva. Elena si distese al mio fianco e, con la testa appoggiata sulla mia spalla, cominciò a raccontarmi della difficile convivenza tra famiglia, comunità, e diversità del fratello. Le cinghiate del padre ogni volta che trovava il figlio con addosso i vestiti della moglie; l’averlo mandato, “per raddrizzarlo”, a studiare in un Seminario da cui, dopo qualche tempo, scappò e, di conseguenza, ancora cinghiate! Poi, col passare degli anni, in paese cominciò a circolare insistentemente la voce e così la famiglia venne isolata, quasi fossero degli appestati. Il padre cadde in un esaurimento nervoso; cominciò a bere ed una mattina proprio Cisco lo trovò appeso ad una trave del fienile: si era impiccato con la stessa cinghia, di cui lui ben conosceva il sapore! Elena non si vergognava della diversità del fratello. Cisco si sarebbe buttato nel fuoco per salvarle, lei e sua madre. Il dispiacere più profondo del fratello, non erano certo i sorrisi ironici, o lo sbeffeggiamento dei paesani al suo passaggio, ma la consapevolezza che il padre non aveva mai accettato il suo modo di essere, nonostante lui avesse sempre cercato la stima e l’amore di suo padre. Aveva anche provato a giocare a rugby per apparire più uomo ai suoi occhi, ma la sua natura era più forte di qualsiasi altra cosa. Poi, con la voce sul filo del pianto, Elena mi disse che anche il padre lo amava, che, pur picchiandolo per “farghe capire cossa che xe ben e cossa che xe mae!”, si portava dentro una grande disperazione ed un forte senso di colpa nei confronti di quel figlio, di cui non aveva mai preso le difese, neanche quando gli amici del bar dicevano “ga da essere sta on corno!”. Secondo lei, il padre avrebbe voluto prenderlo in braccio e dirgli: - Vai! Vai dove ti senti di andare, fregatene di questi quattro cialtroni che dicono di essere miei amici! Fregatene di tutto! Non fare come me, inchiodato in questo sputo di paese, dove nessuno sa pensare ed agire col cuore! Fregatene della mia mentalità corrotta dall’apparire normale; nessuno sa cosa sia normale e neppure cosa sia giusto o sbagliato! Fai le tue scelte, ed io ti sarò vicino ugualmente e “spaccherò il grugno” a chiunque voglia ostacolare la tua felicità! -. Secondo Elena, questo era quello che il padre avrebbe voluto dire al figlio, ma riuscì solo a scrivere: “Perdonami di tutto Cisco, se puoi”. Lo scrisse in un foglietto che teneva stretto nella mano destra, e fu Cisco a trovarlo, quando tirò giù il padre dalla trave, gridando come un pazzo. Quanto bene ti voglio amico mio! Ora te ne voglio ancor più di prima, ora che so cosa hai dovuto accettare e subire! Ora il tuo ridere di gusto ha un senso, il tuo cantare ed essere spensierato ha un valore aggiunto, la tua amicizia è sacra. Pensavo a questo, mentre mi stringevo ad Elena con gli occhi lucidi, vergognandomi per essermi profondamente commosso. Rimanemmo in silenzio per qualche istante lungo un’eternità. - Non ho mai avuto un vero uomo..sai? - sussurrò Elena con la bocca vicino al mio orecchio. La guardai con aria interrogativa e cominciò a spiegarmi che, 29
a parte qualche flirt giovanile, non aveva mai avuto una relazione di quelle tradizionali, quelle cioè, in cui il moroso viene 4 volte la settimana in casa con tutto ciò che ci va dietro. - E ti sembrerà strano, ma a quasi 30 anni, sono ancora vergine -. Io avevo mezza voglia di grattarmi in testa (faccio sempre così quando mi trovo in imbarazzo), ma non lo feci perché avrei dovuto lasciarla dall’abbraccio. - Non è mica una malattia essere vergine - risposi maldestramente io, - Anzi, questa cosa, la si può vedere come un pregio, sai? -. - Un pregio? - rispose lei alzando un po’ la testa per guardarmi negli occhi. - Si, un pregio - ribadii io, - Un pregio perché, in un’epoca come la nostra, in cui ogni valore appare superfluo, trovare una donna che non è mai stata con un uomo, se non con te soltanto, lo si può vedere come una forma di enorme rispetto per te stessa e per l’uomo a cui deciderai di donare questa tua virtù per amore -. - Ma va là…somaro! - rispose, tirandomi un orecchio, e scoppiammo a ridere. - Ora siamo qui, io e te, un uomo e una donna, nello stesso letto, tu faresti l’amore con me..Silvio? -. La strinsi fortemente a me e, avvicinando le mie labbra al suo orecchio, come un bacio lieve risposi: - Sì che lo farei! Sei una ragazza che mi piace tantissimo, ma credimi, non mi passa neppure per la testa ora; mi basta stare così, condividere con te questi momenti solo nostri, Per fare l’amore c’è tempo, tutto il tempo che si vuole. Quando farai l’amore, sarà perché lo senti e lo vuoi fare, e non perché una situazione ti può portare a farlo -. - Grazie Silvio, tu mi fai sentire una donna normale come tutte le altre - fu la sua dolce risposta. Ci addormentammo in un lungo abbraccio; dormii bene vicino a lei, quasi come fosse una cosa naturale. La mattina fui svegliato da un brusco rumoreggiare di stoviglie. Staranno preparando la colazione, pensai. Elena non c’era più al mio fianco e la sveglia segnava le 8.30. Mi alzai, feci le mie pulizie quotidiane e mi avviai verso la cucina. Stavano tutti e tre aspettando me; il profumo del caffè inondava l’aria e i biscotti con la torta di mele di Elena erano il modo migliore per cominciare la giornata. Cisco e la madre sembravano essersi riappacificati, lui continuava affettuosamente a chiamarla “la me vecia!” mentre lei, in maniera fintamente stizzita, lo spintonava ad ogni sua esclamazione. Anche nei miei confronti la madre aveva una nuova forma di cortesia, forse per il fatto che non ero il tipo di Milano, o un amico “particolare” di Cisco. Facemmo allegramente colazione tutti insieme, ridendo e scherzando, come facessi anch’io parte della famiglia. Di lì a poco avrei dovuto ripartire; il mio viaggio sul delta del Po doveva continuare e le insistenze per farmi rimanere ancora qualche giorno di Cisco e di Elena, non mi fecero desistere dal ricaricare la vespa con le mie cose e ripartire prima ancora di pranzo, promettendo di fermarmi nuovamente al ritorno dal mio viaggio. Abbracciai Cisco, stringendolo forte come si fa con un caro amico, strinsi la mano alla madre e poi fu il turno di Elena. Abbracciandola, le sussurrai piano all’orecchio: - Sono stato bene con te 30
stanotte, sei una persona stupenda…stai in “campana” e quando sentirai una vespa che suona sotto casa, vorrà dire che sono venuto a portarti via con me! -. - Matto! - rispose lei, -Stai attento tu per la strada piuttosto, che ti voglio rivedere ancora! - . Salutai accelerando esageratamente, quasi come se fossi in una gara, poi lasciai bruscamente la frizione impennandomi, e quindi presi la stretta via che mi avrebbe portato sulla statale. L’aria profumava d’estate ed io mi sentivo quasi felice (perché felice tutt’intero è una parola grossa!). Al primo incrocio decisi di prendere l’indicazione verso Ca’ Tiepolo. La provincia di Rovigo è un territorio tutto da scoprire, è racchiuso dentro a due fiumi, L’Adige ed il Po, e confina con il mare. Con il termine “Polesine”, ci si riferisce ad una terra emersa fra le acque, in un’area piena di acquitrini e fango. Il fiume Po, con il suo passaggio verso il mare, ha modificato nel corso di varie epoche, questo territorio, soprattutto lasciando grandi quantità di detriti che, sedimentandosi nel corso del tempo, modificano costantemente la morfologia del luogo. La vita degli abitanti è scandita soprattutto dalla quotidianità, gesti ripetuti infinite volte nel corso degli anni, fino a formare grandi maestranze. La cosa che subito mi colpì, fu la struttura della classica casa polesana: due camere ed un camino con la tipica grande canna fumaria sporgente. Fino a non poco tempo fa, mi spiegarono gli abitanti di quei luoghi, le case erano fatte sfruttando la canna palustre, solo il camino veniva costruito in muratura. Di fronte a questi caseggiati, in simbiosi perfetta con cielo, acqua e terra, la mia mente trovava un perfetto ordine visivo. Niente più nani in giardino, villette bomboniera, appiccicate a palazzotti anonimi, ma ordine delle cose, cose semplici, ma distensive e mai volgari o kitsch. La mia vespa navigava lentamente tra golene ed argini; ad ogni angolo qualcosa di nuovo da imprimere nella memoria. Senza fretta arrivai a Porto Tolle, che pochi sanno essere il Comune con il territorio più esteso d’italia. Mi fermai a mangiare qualcosa dentro ad una locanda, il cui nome sull’insegna era per metà cancellato; poco più avanti il fiume si tuffava dentro al mare: è questa la foce che, da terra, possiamo osservare più da vicino. Ti prende qualcosa allo stomaco nel vedere il fiume che si spinge dentro l’acqua salmastra creando un’infinità di sfumature che l’occhio non può percepire interamente; pare quasi di assistere ad un rito, durante il quale bisogna osservare un religioso silenzio. Dentro al locale si sentiva un forte odore di fritto, che si mescolava a quello del vino, rovesciato tra i tavoli e sul pavimento. L’oste mi guardò strano, ma prima che potesse dirmi qualcosa, dissi che avevo fame e chiesi se la cucina fosse ancora aperta. Annuì e mi fece accomodare di fianco ad un gruppo di pescatori che giocavano a carte. Mangiai della frittura con polenta e, per dolce, una fetta di torta alle mandorle. Presi un caffè, a cui l’oste aveva aggiunto la correzione senza che la chiedessi, e mi fumai una sigaretta all’esterno, disteso su uno sdraio a dondolo tutto sgangherato. Non c’era nulla che potesse disturbarmi, neppure la stridula voce della moglie dell’oste, che si lamentava con il marito per 31
alcune faccende che lo stesso avrebbe dovuto sbrigare, e le relative bestemmie di lui a risposta dei rimproveri. Niente poteva disturbare la mia quiete interiore, in questi posti di cui mi sentivo un visitatore prescelto, in quanto io solo potevo afferrarne l’unicità fino in fondo. Pagando il conto mi accorsi che era quasi sera e mi affrettai a proseguire il mio viaggio. Volevo trovare un posto tranquillo e comodo per trascorrere la notte. Mi fermai in prossimità di un caseggiato verso Scardovari; c’era una piccola insegna con scritto “stanze”. Parcheggiai la vespa nel cortile antistante ed entrai in casa. Una signora con un accento leggermente ferrarese mi accolse nel soggiorno, che fungeva anche da reception; mi chiese se intendevo fermarmi solo per una notte e se volessi cenare. Risposi sì per la cena, ma le dissi di non aver ancora deciso se sarei ripartito subito il giorno dopo, o se avrei tenuto questo posto come base per le mie escursioni. - Ci penserà con calma - mi disse, - intanto venga su che le faccio vedere la sua stanza -. Era una bella stanza, grande, con un letto matrimoniale in ferro battuto; sul un lato trovava posto un ampio armadio in noce nazionale, mentre su quello opposto c’era un tavolino, anch’esso in legno, che fungeva da scrivania. Mi piaceva molto, ma non lo feci intendere alla signora, per paura che un mio apprezzamento potesse farne lievitare il prezzo. La signora mi comunicò l’orario della cena, ed io ringraziai lasciandole la mia carta d’identità e mi feci poi una bella doccia rigenerante. Il bagno non si trovava all’interno della stanza, era situato nel corridoio, in comune con gli altri ospiti, ma, essendo io l’unico ospite, al momento era a mio esclusivo uso. Alle 19.30 scesi per la cena, mangiai da solo nella sala da pranzo: una zuppa di cozze e del branzino ai ferri. Tutto molto buono, anche il vino, di cui non riuscii a capire la provenienza, ma non mi preoccupai minimamente della cosa. Mi fermai in questo luogo per 5 giorni, potendo visitare il delta del Po percorrendolo in lungo ed in largo come avevo sempre sognato fare fin da quando ero adolescente. Mi piaceva cercare di capire come e di cosa si viveva in quei luoghi, fermarmi ad osservare i ritmi di vita dei pescatori di “peòci” (cozze), che venivano raccolti quando erano più piccoli di un’unghia, nella loro caratteristica conchiglia nera e poi appesi, in una specie di calza di rete, a dei trespoli in legno di castagno. Lì, appesi, rimanevano immersi per circa 9 mesi dentro all’acqua del fiume. Successivamente potevano essere venduti a ristoranti o ad industrie. - I guadagni non sono eccezionali -, mi spiegava Giulio, un pescatore con cui avevo fatto amicizia, aggiungendo che da posti come quelli, ormai, tutti tentavano di scappare appena compiuti i 18 anni. Con Giulio uscii un paio di volte in barca; ci spingemmo fin dentro ai canneti, dove si potevano ammirare splendidi germani reale, numerose specie di aironi. Una flora ed una fauna incredibilmente ricche erano nascoste tra quelle canne e, quando ci passavamo in mezzo con la barca, sentivamo un’animarsi frenetico di battiti d’ali. Sentivo il mio vero risveglio!!! 32
CAPITOLO IV Maledetti posti mi verrebbe da dire, come se cercassi di attribuire a loro la colpa per mia attuale situazione. Lo so…lo so che dipende tutto da me, lo so che scappare non servirebbe a niente! Scappare per andare dove poi? La sera dovrei comunque aprire la valigia dei miei problemi, e quelli non si appendono nel nuovo armadio della tua nuova stanza! Quelli ti stanno addosso come la maglietta della salute! Io ho voglia di fare qualcosa di più di quello che mi viene chiesto! Uno, nella vita, si pone degli obiettivi. Ad esempio, se uno vuole diventare ricco, può lavorare fino a spezzarsi la schiena, giorno e notte e quando avrà racimolato il suo bel gruzzoletto, si sentirà soddisfatto, anche se, trarre soddisfazione dal denaro che si ha, non è cosa facile. Quella è una fame che difficilmente si riesce a soddisfare! Io non sono uno che ha fame di denaro, non ne ho mai avuto e quando l’ho avuto, l’ho lasciato andare senza tanti complimenti. Io ho bisogno di guadagnarmi la vita con le cose che più mi gratificano, ho voglia di vivere con quello che so fare meglio, o che sento di fare meglio. Ecco perché affermo che vorrei fare qualcosa di più nella mia vita. Lavorare per fare soldi ed arricchirsi, non comporta necessariamente anche un arricchimento interiore. Io voglio diventare ricco “dentro”, lavorando, vivendo. Voglio essere più ricco (dentro), anche per gli altri. Ecco il punto: vorrei essere una fonte di arricchimento. Sono discorsi delle 4.00 del mattino, lo so. A quest’ora di notte, fuoriesce senza ritegno tutto il mio egocentrismo da due soldi. E’ opinione comune affermare che, se uno vuole arrivare, arriva sempre dove vuole. No…non è così! Andate a chiederlo a Giovanni, un mio amico cantautore, uno che quando suona e canta ti lascia senza fiato: ha bussato a tutte le porte, ha partecipato a 1000 concorsi, vincendone anche parecchi. Andate a chiedergli se qualcuno ha mai creduto in lui per fargli fare un disco! Eppure cantare e suonare è la sua vita, ma per il momento lavora in una lavanderia, con la sua bella laurea in sociologia in tasca! E’ felice? Non lo so. Oppure chiedete a Francesca, la mia vicina di casa: ha fatto di tutto per far conoscere i suoi quadri, mai nessuno l’ha degnata di due righe da nessuna parte; a 45 anni fa, ancor oggi, volantinaggio per racimolare qualche soldo con cui comprarsi i colori per poter continuare a dipingere. E’ felice? Non lo so. Oppure chiedetelo a Giancarlo: fare l’insegnate di storia dell’arte è la sua vita, insegnare in un liceo è il suo sogno, 43 anni, in fondo alla graduatoria, per il momento si accontenta di portare piatti ai tavoli in una pizzeria, o di fare ripetizioni di matematica a qualche ragazzetto di prima o seconda media …proprio lui che ha sempre odiato la matematica! E’ felice? Non lo so. Franco invece è impiegato alle poste, lavoro sicuro, stipendio regolare, una moglie ed un figlio. Ha sempre sperato di avere un buon lavoro dove non ci fosse tanto da faticare con la schiena e avere mezza giornata libera. Ora torna a casa tutti i giorni alle 14.00, mangia la pasta che la moglie gli ha lasciato da scaldare in forno, accende la tv seduto sul divano e si 33
addormenta, finchè non sente il figlio, già un po’ obeso, rientrare da scuola. Poi esce in terrazza a fumare una sigaretta dietro l’altra, guardando i tetti dei palazzi vicini mentre che rientri la moglie verso le 17.30, Franca la acida, così la chiamano le sue colleghe di lavoro. E’ felice? Non lo so. So solo che nella vita bisogna sognare alto. Non è vero che chi persiste nel proprio obiettivo arriva di sicuro; servono conoscenze, belle leccate di culo, compromessi, amici di amici che conoscono altri amici di quel tale che…Ci vuole anche tanta fortuna, essere nel posto giusto al momento giusto. Servono un sacco di cose che esulano dal nostro perseverare, dalla nostra abilità nel saper fare le cose. Spesso i sogni rimangono solo sogni. Le canzoni di Giovanni comunque, a me piacciono, e quando le canta, tutti gli dicono che è molto bravo, perché è vero! Io le ascolto in macchina, perché me le sono fatte registrare “casarecciamente” da lui stesso e, quando viene via con me, le ascoltiamo insieme: - E’ come sentirti cantare alla radio -, gli dico io entusiasticamente! Anche i quadri di Francesca sono belli, sono intensi, trasmettono emozioni, emozioni vere! Me ne ha regalato uno; per me vale una fortuna e l’ho messo nel posto più importante della mia casa, appeso ad una parete tutta per lui. Giancarlo riesce a farmi capire alcune cose, che mai avrei capito con nessun altro insegnante, lui sa farti entrare dentro ai quadri, te li fa vivere, sembra di trovarsi a fianco del pittore e di sentirne persino il pensiero, il perché della scelta di quel soggetto o di quella sfumatura. Mi ha regalato un piccolo trattato di storia dell’arte, scritto da lui e rilegato a sue spese: è il libro più chiaro che io abbia mai letto in vita mia, non è un libro d’arte, è una finestra sull’arte. Di Franco non so che dire, non so neppure se ha dei sogni. Mi auguro solo che sia felice, me lo auguro per lui, anche perché, quello che ha avuto, è quello cui ha sempre affermato di aspirare. Quante volte ho visto persone fragili, anche se piene di talento, venire derise ed umiliate. Nessuno ha mai detto loro: - Dai, dai che ti frega di questi quattro bifolchi che ridono, dai che io credo in te, dai che mi piace quello che fai…dai! -. Quante volte ho visto gente rincorrere un sogno di libertà, di giustizia ed essere messa da parte, solo perché, tra i valori che professava, non trovava posto il dio denaro. Quante volte ho visto sguardi pietosi per quello che facevo, anche se a me piaceva farlo. Quante volte ho visto sguardi compiacenti per ciò che facevo, anche se detestavo farlo. Quante volte sono stato in piedi fino a mattina per sforzarmi di scrivere qualcosa e mi sono sentito poi stanco, ma soddisfatto ed appagato. Quante volte sono tornato tardi, dopo la fatica del mio lavoro e mi sono sentito solo stanco, insoddisfatto e demotivato. 34
Quante volte ho ascoltato professori annoiati ed insofferenti che, dall’alto della loro autorità, si permettevano di giudicare i miei sogni. Quante volte ho ascoltato ubriaconi parlare di poesia come fosse la cosa più naturale del mondo, veri poeti incompresi. Quante volte ho lasciato perdere i miei sogni solo perché a qualcuno non sembravano una cosa facile da raggiungere. Quante volte ho provato a tornare indietro per raggiungere quella cosa che prima avevo lasciato perdere. Quante volte ho pagato io, anche gli errori degli altri. Quante volte gli altri hanno pagato per me, ma facendo anche il mio nome. Quante volte ho ricommesso lo stesso errore, dopo aver giurato che non l’avrei più fatto. Quante volte ho fatto un nuovo errore per non rifarne uno di vecchio. Quante volte ho chiesto aiuto e mi hanno aiutato. Quante volte avrei voluto aiutare qualcuno senza riuscire a farlo. Quante volte ho aiutato qualcuno senza sapere che lo stavo facendo. Quante volte ho amato. Quante volte sono stato amato. Quante volte sono stato amato senza neppure rendermene conto. Quanto tempo ho buttato via, agli occhi della gente. Quanto tempo ho sprecato per fare quello che la gente voleva da me. Quante volte ho pianto guardando un film o leggendo un libro. Quante volte ho pianto senza alcun motivo. Quante volte ho pianto solo per me. Quante volte occorre arrendersi nella vita? Oppure non bisogna arrendersi mai? E cosa vuol dire poi arrendersi? Vuol dire scendere a dei compromessi? Scegliere il male minore? Credo che nella vita ci si arrenda solo quando non si hanno più sogni…o non si crede più ai propri sogni. Marco diceva che bisogna sempre volare in alto nella vita, alto fin dove arrivano le aquile. Marco…che personaggio! L’ho incontrato una sera in un bar di periferia. Io ero di ritorno da una serata spesa ad ascoltare Carmela e Claudio, che si volevano separare, cazzo! Ero il loro testimone di nozze, mica potevo restare indifferente a questa loro scelta! Finì quasi a pugni in faccia: lei voleva la sua vita, lui voleva lei e la sua casa; insomma, non ho ancora capito bene cosa volessero entrambi, ma sicuramente non volevano più stare insieme. Non si resero neppure conto che me n’ero andato via, infatti li sentivo gridare fin in fondo al viale. Mi fermai al bar di Tonino, avevo solo bisogno di una Sambuca, e qui trovai Marco, seduto da solo, con al collo una lunghissima sciarpa grigia. Indossava un cappotto il cui taglio non era certamente all’ultimo grido ed aveva un bicchiere davanti..vuoto. Tonino mi disse sottovoce che era appena stato sbeffeggiato da tutti, e che ormai erano quasi 2 ore che non parlava. Mi avvicinai al suo tavolo con mezzo litro di rosso in mano e gli chiesi se i posti erano tutti occupati, - Non ti 35
ci mettere anche tu Campana eh! Guarda che non è serata -, io neppure lo guardai, quasi non avessi sentito quello che aveva detto, poi, come se parlassi tra me e me, dissi: - Se ti verso da bere nel bicchiere, questo diventa mezzo vuoto o mezzo pieno?! -. Lui si girò sgranando gli occhi, trattenendo una smorfia di sorriso e, quasi gridando, esclamò: - Allora riempilo del tutto somaro, che così non ci saranno dubbi!! -. Ridemmo entrambi come due bambini e di lì a poco arrivò Tonino con un altro mezzo litro di vino offerto dalla casa, quale premio perché ero riuscito a farlo ridere. Marco si era laureato in filosofia col massimo dei voti, era veramente una persona speciale; sapeva parlare di qualunque cosa, ed aveva una sensibilità sprecata per le persone che frequentava, tutta gente che stava con lui senza capire un accidenti di quello che diceva. Gente che lo prendeva in giro credendo che lui non se ne accorgesse, che si beava dicendo: - Hai visto il filosofo quanta strada ha fatto? Di un po’, ma con tutti i libri che hai letto, non hai ancora trovato la maniera per fare soldi? - e così dicendo, vedendolo orgogliosamente chiuso dentro al suo cappotto, si compiacevano di non aver mai letto neppure un fotoromanzo, se non i titoli in grande della Gazzetta dello Sport. Parlammo poco, Marco non aveva una bella serata, si limitò a chiedermi come andava, - Insomma -, risposi io. - Cosa c’è che non va? Che problemi ci sono..sentiamo! -. Gli risposi sorseggiando il vino dal mio bicchiere e guardando verso la porta: - Problemi di soldi, ho un po’ di debiti da pagare -. Debiti con la banca? - chiese - No con qualche amico - risposi. Annodandosi la lunga sciarpa attorno al collo e bevendo l’ultimo sorso che gli era rimasto nel bicchiere, mi guardò e mi si fece vicino con la testa, ed in tono confidenziale mi chiese: - Te li hanno chiesti indietro?-, - No, non ancora risposi, - Ma tu vorresti darglieli lo stesso - , - Si, certo, se potessi lo farei anche ora! - affermai guardando dentro al bicchiere. Spostandosi indietro con la schiena e lasciando cadere le braccia sopra al tavolo, mi osservò in maniera paziente e disse: - Gli amici ci sono per questo, per darti una mano quando serve, loro sanno che non hai un buon periodo e che i loro soldi glieli darai sicuramente, hai mai aiutato loro quando hanno avuto bisogno? -. - Non ho mai avuto soldi, per poter aiutare qualcuno purtroppo - risposi sconsolatamente. - L’aiuto che si dà, non si misura con i soldi, troppo facile mio caro, l’aiuto ad una persona si dà in maniera spontanea, quasi senza accorgersene. Non sempre sappiamo di cosa hanno bisogno le persone. A volte anche un somaro come te, Campana, può essere d’aiuto ad uno come me, te ne rendi conto Campana?! -. Compiaciuto per la sua affermazione, ironicamente dissi: -Cazzo, Marco, devi essere proprio messo male per aver bisogno del mio aiuto!” -. - Hei, hei, hei.. - rispose riprendendomi - Ho detto a volte, ma, soprattutto, potrebbe, quindi cala le alucce, Campana! -. Mi piaceva quel suo tono di superiorità nei miei confronti ed io glielo lasciavo usare, anche se sapevo che, ormai tra di noi, era diventato quasi un gioco. 36
Poco dopo ci salutammo; si era fatto tardi e, come al solito rifiutò un mio passaggio fino a casa. Abitava da solo, in una casa a cui mancava l’intonaco esterno. Viveva con le ripetizioni che impartiva a qualche ragazzo delle superiori, ma non aveva una tariffa fissa, le dava solo a chi vedeva che aveva voglia di apprendere, molto spesso anche gratis (se lo studente non aveva i mezzi) e comunque lasciava alla generosità della famiglia del ragazzo, il compenso finale. Penserete che, con queste tariffe, avesse la fila di ripetenti fuori dalla porta, invece, paradossalmente, erano pochi quelli che usufruivano delle sue ripetizioni, proprio perché la piccola gente di questo paese ha quale pensiero comune, quello che, se non chiedi molto, vuol dire che non vali nulla. Marco, con la sua infinita cultura, poteva insegnare all’università, altro che dare ripetizioni di filosofia a qualche inetto studente di ginnasio! Non so perché non si sia mai allontanato da questa palude di ignoranti, forse per la madre, che non voleva lasciare questa terra dove era nata, sposata e sistemata, con tanti sacrifici suoi e del marito, morto in un incidente stradale, quando Marco era ancora piccolo. Dalla morte della madre, Marco si era ancor più chiuso in se stesso, aveva cessato anche d’incontrare le due sorelle che abitavano in un paese vicino e, sistematicamente, lo trovavi al bar di Tonio tutte le sere, tranne al giovedì che era turno di chiusura. La sera prima che succedesse il fattaccio, Marco era seduto, come al solito, allo stesso tavolo, con attorno i soliti poveri ignoranti che lo sfottevano. Tonino mi chiamò vicino al banco e mi pregò di farli smettere, non vedeva bene Marco in quel periodo, e lui aveva un debole per quel ragazzo che non aveva mai chiesto niente di più di quello che poteva chiedere e che aveva fatto prendere 8 al figlio nell’ultimo compito d’italiano. Come barista, era controproducente invitare i clienti ad uscire dalla porta. I tre imbecilli li conoscevo bene, uno era soprannominato il “biscaro”, era in classe con me alle medie. Aveva tante idee in testa quanti i denti che gli erano rimasti in bocca, e devo dire che, dai tempi delle medie, la sua cultura era pure peggiorata; lavorava come imbianchino nella ditta dello zio. Il secondo elemento era il cugino del “biscaro” detto “putina”, per il viso dai lineamenti effemminati e dolci, che contrastavano con la raffica di bestemmie che colorivano i suoi discorsi. Il terzo, detto “cortivo”, giocava a calcio con me nella squadra juniores del paese; fu squalificato a vita per aver picchiato l’arbitro fin dentro agli spogliatoi. Messi insieme quei tre, a fatica potevi formare mezzo cervello! Mi avvicinai al gruppetto e il “biscaro” esclamò: Oh, Campana, vien qua che sentimo cossa chel ga da dire el filosofo! -. Mi avvicinai al tavolo dov’era seduto Marco: era scuro in viso, la barba, incolta da una settimana, lo faceva apparire ancora più nero, ma non parlava e non alzava neanche per un attimo gli occhi da un punto indefinito ma preciso del tavolo. - Accidenti! È un caso del tuto eccezionale una simile coincidenza dissi con un tono di sorpresa. - Di che coincidenza parli, Campana -, chiese 37
dondolandosi sulle ginocchia, il Putina. - Del fatto che non è mica cosa dai tutti i giorni trovare in un colpo solo i tre più ignoranti del paese, insieme al più intelligente, nel medesimo istante -. - Ciò Campana, testa de casso che non te si altro, te go miga ciamà parchè te offendi, po, saria sta merda qua, el più inteigente del paese? -, urlò il più bestia dei tre, il “biscaro”. - No! - esclamai, el più inteigente so mi! -, parlando in dialetto, e in tono di sfida. Tonino, da dietro al banco, rideva in maniera grassa, e un po’ di gente che giocava a carte aveva smesso per ascoltare ciò che veniva fuori da quell’insolita discussione. Marco non alzava mai lo sguardo. Due bestemmie del Putina e un rigurgito del Cortivo, che sicuramente aveva mangiato pesante, fecero rabbrividire pure i muri del locale, ed anche il parroco del paese che stava passando davanti alla porta e che, sentendo le oscenità che i tre professavano, non tardò molto ad entrare. - Buonasera padre -, fu il mio saluto, pronunciato in modo forzatamente riverente. – Campana - rispose lui, - Fin da bambino ti ho sempre detto una grande verità -, - Quale? -, - Che non combinerai mai niente di buono se continuerai a frequentare le persone sbagliate -, rispose con una rabbia che a stento riusciva a trattenere. - Ti pare di aver fatto qualcosa di buono nella tua vita? -, aggiunse. - Sì, certo -, E cosa, sentiamo! -. Appoggiando il bicchiere sul tavolo e guardando verso i tre elementi che stavano a testa bassa gli risposi ridendo: - Non sono diventato come loro -. Il prete che non aspettava altro, si diresse verso i tre e guardando fisso negli occhi Dennis, (alias il “biscaro”), scatarrò tutta la sua rabbia dicendogli: - Te lo sogni che porto tuo figlio in Cresima a fine mese, te lo sogni! Una bestia di padre come te, non è degno di stare davanti all’altare! -. Il “biscaro” sbiancò. Gli sarà improvvisamente passato davanti agli occhi il film di sua moglie che lo avrebbe ucciso per questo, del suocero, che teneva tanto di diventare padrino del nipote, della nonna, alla quale sarebbe sicuramente venuto un coccolone, dei 500 euro già pagati al ristorante come caparra, ma anche del figlio, che per una cosa come questa, l’avrebbe odiato per tutta la vita. Il prete, detto ciò, se ne andò spedito. Dopo un attimo d’incertezza, il “biscaro” cominciò a corrergli dietro gridando: - Padre, padre….padreeeeeee….-. Gli altri due non tardarono molto a togliere il disturbo, dopo che il loro capo spirituale aveva lasciato il locale e lo si vedeva discutere in mezzo alla strada col prete che non ne voleva assolutamente sapere di ascoltarlo. Il bar era in fermento; son cose che in un paese fanno notizia e tutti uscirono a vedere la scena del prete che prendeva a calci il “biscaro”, che di lì a poco, passando davanti alle vetrine del locale mi urlò: Questa tea paghi Campana, tea paghi!! -. Dopo questa esilerante scenetta popolare, mi sedetti al tavolo di Marco, che sembrava non fosse stato minimamente toccato dalla caciara. Gli versai da bere, ma allontanò il bicchiere con la mano e, guardandomi negli occhi, quasi sottovoce mormorò: - Ti senti un duro, eh Campana? -, - Ma ti pare -, risposi io, - Ti piace darlo a vedere però, ma non sai che storiella stavano raccontando su di te quei tre poveracci? -. Un po’ mi sorprese la sua risposta, 38
ma anche m’incuriosì sapere a che storia si riferisse, dato che, con i tre, non avevo mai avuto a che fare. Lo interrogai per avere la risposta. - Dicevano che sei senza palle, che una sera hai trovato una puttana che piangeva nascosta dietro un cassonetto dell’immondizia, che era disperata perché dopo le promesse di matrimonio fattele in Romania da uno dei suoi aguzzini, l’avevano sbattuta in strada, riempendola di botte -. - Cazzo! Olga! - pensai io. - Tu l’hai caricata in macchina e, invece di scoparla, per aiutarla a guadagnarsi la serata, le hai regalato 50 euro, senza combinare niente. E’ vera questa storia? -. Era vera sì, ed erano anche gli unici 50 euro che mi erano rimasti, ma mi aveva fatto pena la tipa! Una ragazza per bene, raggirata da un paio di farabutti, uno dei quali, rumeno a sua volta, le aveva promesso di sposarla appena fosse arrivata in Italia. Era rimasta nascosta dietro al cassonetto tutta la sera, per vergogna e paura dei possibili “clienti”. Io mi ero fermato con la macchina per pisciare, ed è stato proprio allora, che l’ho sentita singhiozzare. Dopo che l’ho rassicurata, mi ha raccontato la sua storia, quindi l’ho riaccompagnata alla stazione dei treni e le ho dato quegli ultimi 50 euro che avevo. Forse, chissà, gliene avrei dati anche di più se li avessi avuti. Le dissi di prendere il primo treno che partiva e di ricominciare tutto daccapo. Ricordo solo che si chiamava Olga. Ma come cazzo era venuta a galla questa storia..mah! - No, non è vera questa storia - risposi, non le ho dato solo 50 euro, gliene ho dati 500! -. Marco alzò gli occhi e quasi sorridendo mi disse: - Versami da bere il tuo vino Campana, aveva ragione il prete a dire che stando con le persone sbagliate, non impari niente di buono! Ma il prete non ti ha detto che a tanti non basta una vita per salvarsi, mentre ad alcuni, basta un solo istante? -. Marco accettò che lo accompagnassi a casa quella sera. Strana questa cosa pensai, mai prima d’ora aveva accettato un mio passaggio, forse avrà avuto voglia di parlare, dedussi, ma non tirò fuori neanche una parola nel tragitto. Guardava fuori dal finestrino come per cercare qualcosa nell’orizzonte disseminato di qualche luce nell’aperta campagna. Arrivato davanti al cancello, scese in fretta dall’auto, come avesse da non far aspettare qualcuno. Io lo salutai dicendo solo: - Ci vediamo domani sera al bar - e lui rispose frugando nelle tasche per cercare le chiavi: - Riguardati Campana - e si allontanò sparendo nell’ombra della notte. Fu l’ultima volta che lo vidi. Quello che accadde la sera dopo, me lo raccontò Tonino tra i singhiozzi. Marco era entrato in bar come tutte le altre sere e ad accoglierlo c’erano i tre fenomeni, il Biscaro, Putina e Cortivo. Appena entrato avevano subito iniziato a sfotterlo, ma con più rabbia del solito, forse per la ferita della sera prima che ancora non si era rimarginata. Fatto sta che Marco, inprovvisamente, tirò fuori dalla tasca del suo paltò una pistola automatica, roba del padre, mi dissero, e la puntò verso i tre imbecilli. Ci furono attimi di vero panico. Tonino mi raccontò che i tre si inginocchiarono a terra implorando pietà e fu in quel momento che Marco sparò un solo colpo, facendo calare un silenzio innaturale su tutta la sala. 39
Si sparò in bocca. Quando io arrivai, l’avevano già portato via. Tonino stava spargendo segatura sul pavimento e, con le lacrime agli occhi, copriva il sangue e la piscia del Biscaro, che dalla paura se l’era fatta sotto. Non c’era niente da vedere…niente da vedere. Riguardati Campana…sono state le ultime parole che Marco mi disse ed ora quelle parole riecheggiavano assordanti dentro alle mie orecchie, nella mia testa…riguardati Campana!
40
CAPITOLO V E’ quasi giorno, accendo un’altra sigaretta, la penultima. Fa un freddo boia ed il cappotto non basta quasi più. Alla radio passano le informazioni sul traffico. Bella storia questa! Dicono che c’è traffico intenso. Ma dove!? Se di qua non passa neanche un cane! Il traffico bisognerebbe averlo nella vita, non per le strade. Bisognerebbe avere un sacco di traffico, tanto andare e venire e non solo un restare. Invece il traffico io ce l’ho solo nella testa, un sacco di domande e sempre poche risposte. Ma quali risposte dovrei trovare poi? Il problema sta nel fatto che oltre alle risposte, non ho nemmeno le domande giuste. Ho solo pensieri, pensieri, pensieri. Sono stanco di avere pensieri. Servissero a qualcosa poi!!! La più grande paura che hanno gli uomini, credo sia quella di non sapere dove andare o quella di mettere in dubbio che la direzione presa sia quella giusta. Sarà per questo che non ho mai accettato di fermarmi in un unico contesto. Anche se la mia precaria condizione attualmente rasenta la disperazione, mi pare, in questo modo, di essermi sempre tenuto aperti degli spazi, delle occasioni. Il rischio è quello di non sentirsi né carne, né pesce. Il rischio è comunque il tempo che stringe la borsa inesorabilmente. Il rischio è quello di trovarsi, un giorno, impantanato in una situazione da cui non hai più le braccia per tirarti fuori. Vale la pena di correre questo rischio? E sì che le idee chiare, in un determinato periodo della nostra vita, tutti crediamo di averle e, di solito, ciò accade quando siamo molto giovani. Soprattutto in quel periodo, si sente nel cuore cosa vorremmo veramente fare ed essere da grandi. In quel periodo particolare della nostra vita non abbiamo ancora subito contaminazioni, che ci distolgono dai nostri sogni. Forse perché da ragazzi riusciamo ad ascoltare con più attenzione il nostro cuore, riusciamo a vedere più facili anche le imprese più ardue. Abbiamo chiaro nella mente un nostro progetto ed, anche se ci sembra di andare avanti a caso, sentiamo che non è tempo perso quello che stiamo vivendo, perché il nostro cuore ci dice chiaramente dove dobbiamo andare. Cazzo se lo sentiamo dentro, quando la direzione che prendiamo non è dettata dal nostro volere più profondo! La prima volta è la più chiara di tutte. Può essere davanti ad un altare, mentre promettiamo fedeltà ad una donna per tutta la vita. Può essere in un impiego offerto ed accettato per opportunità. O può essere quando rinunciamo ad un sogno, che sembra più grande di noi, o quando, paradossalmente, pensiamo di non meritarne il raggiungimento. Poi, pian piano, rinuncia dopo rinuncia, adattamento dopo adattamento, violenza dopo violenza, non riusciamo più a comunicare con il nostro cuore. Lo sentiamo poco niente anche se lui urla. E’ il nostro affanno nell’autoconvincerci che sono importanti le cose che stiamo facendo, a 41
renderci sordi nei confronti del nostro cuore e, di conseguenza, sordi e ciechi anche nei confronti dei nostri sogni. Ah, i sogni! Ho inseguito sogni come nuvole io! Non mi sono mai stancato di sognare…mai! Un uomo senza sogni che cazzo di uomo è, dico io!? Certo, per la maggior parte della gente sognare non serve a nulla, sognare è solo farsi seghe mentali che ti lasciano la bocca asciutta, è solo fuggire da una realtà che non si vuole accettare. Beh! Io la realtà l’accetto, anche se è del cazzo, la accetto. Che mi frega? Ma non per questo devo rinunciare ai miei sogni! Io voglio sempre sognare alto. Lo voglio fare, perché mi piace, perché ai miei sogni non voglio rinunciare e neppure alle mie seghe, che non sono di certo mentali! Cammino così, senza meta. L’alba ormai è alle porte. Lo sento, perché la campagna circostante comincia ad avere dei nuovi suoni, ma il freddo è veramente pungente ed io, mentre cammino verso la ferrovia, ho appena pestato una merda…cazzo! Porta soldi, dicono. Sta a vedere che ora vado in cerca di pestarne un’altra apposta!!! Cammino pensando e fumando. Da lontano odo il fischio del treno. Mi viene in mente mio padre, un uomo tranquillo, pacifico, buono come il pane. La differenza d’età tra me e miei genitori ha fatto sì che non ci sia mai stato un vero dialogo fra noi. I miei tempi non possono mettersi a confronto con i loro. Io...il grand’uomo, che vive nell’era moderna, che è più avanti col pensiero e con le idee. E che cazzo ho combinato io con i miei sogni e le mie idee moderne??? Mio padre ha fatto la guerra, quella vera, non quella che viviamo tutti i giorni per sopravvivere alla noia dell’ufficio, o per districarci dalla fila negli uffici postali. Quella vera, dove ti mettono un fucile in mano, e ti sbattono in qualche posto nel mondo, completamente diverso dai luoghi nei quali sei vissuto prima, dove devi veramente tentare di sopravvivere senza sapere per chi o per cosa devi combattere. Mio padre è stato fortunato. L’hanno mandato in Africa, ed è tornato dopo tre anni di prigionia sotto gli inglesi. Quelli del paese che sono stati mandati in Russia, sono tornati talmente in pochi che potremmo contarli sulle dita di una mano. Quante volte gli ho chiesto di raccontarmi cosa avesse fatto quando è sbarcato, se avesse sparato a qualcuno, se avesse compiuto qualche atto di eroismo. Non mi ha mai veramente risposto. Ma cosa volete che abbiano sparato, se si sono arresi subito…Ed hanno fatto bene, cazzo! Hai fatto bene papà, a non sparare addosso a nessuno, ad alzare le braccia e a buttare a fanculo il fucile e la patria. Hai fatto bene, sì! Perché quando c’è una guerra, ci sono solo interessi economici di mezzo e tu dovevi tornare alla tua vita vera, alla tua famiglia, ai tuoi campi, al lavoro che ti piaceva fare con le mani, a far nascere questo stolto di figlio che, anche se non te l’ha mai detto, ti considera un eroe, solo per il fatto di essere tornato vivo a casa. Chissà cosa pensano veramente di me mio padre e mia madre, loro che mi hanno sempre assecondato in tutte le mie scelte e nel modo di impostare la 42
mia vita. Quanto vorrei fare qualcosa in più per loro e per i miei fratelli e sorelle, che mi hanno sempre aiutato nei momenti più difficili. Ma cosa posso fare, se non riesco a badare neppure a me stesso? No..basta compatirmi cazzo! C’è sempre una via d’uscita, e ci sarà anche stavolta! Un tale, di cui non ricordo il nome, ha detto che un vincente trova sempre una via d’uscita, mentre un perdente trova sempre una scusa. E io mi sto perdendo tra questi campi umidi di nebbia…Cammino come un barbone tra le piante e i filari di vite. L’umidità mi sta inzuppando tutti i vestiti. Vorrei lavarmi l’anima. Vorrei saper vivere senza sentirmi addosso il peso di questo male di vivere. Vorrei saper apprezzare di più la mia vita e non solo accontentarmi di essa, ma sentirmene fiero, perché è la mia vita ed è unica ed irripetibile. Cammino ancora. Inciampo. Cado per terra. Rotolo tra fango e foglie marcite dall’umidità e dall’inverno ormai alle porte. Sono tutto sporco e bagnato e non mi alzo. E’ così che si sente un verme? Ditemelo! E’ così che si sente un verme? Forse sto piangendo. Dicono che quando si tocca il fondo non resta altro che risalire. Datemi una corda, allora, per rialzarmi. Solo in mezzo a questa campagna indefinita. Solo e ferito nell’anima. Cerco l’ultima sigaretta che mi è rimasta. La cerco nervosamente tra le tasche umide. La cerco spasmodicamente e la trovo. La porto alla bocca, ma non riesco a trovare l’accendino. Dov’è questo cazzo di accendino? Lo vedo un po’ più in là. Cadendo è uscito dalle tasche. Striscio ancora tra le foglie ed il fango per raggiungerlo…Datemi una corda per sollevarmi da questa situazione di merda! Accendo l’ultima sigaretta rimastami e l’accendo mentre il blu della notte comincia a tingersi d’argento. L’ultima sigaretta, penso. Sembra quasi quella che si dà ai condannati prima dell’esecuzione. La porto alla bocca e l’accendo. Sono ancora steso per terra, con il cappotto tutto pieno di foglie marce e di fango. Datemi una corda per sollevarmi da questa situazione di merda! Fumo lentamente. Penso se è davvero tutto qua, penso se può bastarmi tutto ciò, penso a quanta gente dovrei chiedere scusa, con quante persone sono in debito e a quante dovrei sputare in faccia. So bene chi mi ha aiutato e so che lo ha fatto perché ha sempre creduto in me. Ma se mi vedesse ora, tra questi filari di viti, sprofondato nel fango, cosa penserebbe? Sono solo un piccolo uomo. Ecco cosa sono: un piccolo uomo che è solo capace di compatirsi e magari di farsi compatire per trovare un’altra scusa e tirare avanti nella mediocrità. Sono stanco delle mie stupide scuse, sono stufo di dirmi “è andata così, dai non ci pensare”. Sono stanco delle chiacchiere, del fatalismo, dell’aspettare qualcosa o qualcuno che mi conduca da qualche parte. Sono stanco di questo ridicolo teatrino di tutti i giorni, nel quale ogn’uno di noi insegue l’assegnazione di una parte che rappresenti qualcosa in più di una semplice comparsa. Apro gli occhi ed è tutto finalmente chiaro. Vedo dove sono, vedo il fumo che esce dalla mia bocca, vedo la vita che ha ricominciato a popolare questa campagna e vedo me, ancora steso tra questi 43
filari di viti..datemi una corda per tirarmi fuori da questa situazione del cazzo! E mentre dico questo e con le mani gesticolo nell’aria, mi trovo nella mano proprio una corda, una corda di quelle che si usano per fare i legacci tra due viti, una corda abbandonata qui da chissà quanto tempo. Mi alzo con questa corda bagnata dalla pioggia della notte, la osservo, penso che ora una corda ce l’ho, ed ho fumato anche l’ultima sigaretta…
44
EPILOGO Ed è proprio mentre formulo quest’ultimo pensiero che, alle mie spalle sento urlare il mio nome: - Campana, oh..Campana, casso feto qua a sta ora?! -. Mi giro e vedo, è Oreste, Oreste Scarin, per tutti il comandante. - Ciao Comandante, a caccia di buon’ora eh? - gli rispondo quasi dandogli le spalle. - Campana...casso feto con che a corda in man?! Non te farè miga tiri da mato eh?! -. Lascio cadere la corda per terra e non so bene cosa rispondergli se non: - Hai mica una sigaretta Oreste? -. - Tien Campana, adesso te me spieghi -. - Non c’è tanto da spiegare Oreste, ho solo tirato troppo la corda e, come vedi, si è rotta -. A questa mia affermazione, alla quale neppure io so dare un senso, il viso di Oreste si distende e, prendendomi sottobraccio, cerca con finta disinvoltura di trascinarmi lontano da quel posto. Camminiamo uno a fianco dell’altro, fumando le sue sigarette. Io con il cappotto tutto sporco di fango e foglie marce e lui con il fucile a tracolla ed una esagerata tuta mimetica. - Ma a cosa dai la caccia, comandante, in questo periodo? - gli chiedo, passando tra un filare e l’altro. - Macchè caccia! - mi risponde quasi stizzito dalla mia domanda - Il fucile non è neppure carico! Il fatto è che se la gente mi vede camminare per i campi alle prime luci dell’alba così, solo perché mi piace farlo e mi distende, pensa subito che io sia matto! Col fucile in spalla invece…..Come te, ad esempio, se uno ti vede a quest’ora con una corda in mano, cosa va a pensare secondo te? -. - Tranquillo comandante..tranquillo…- gli rispondo quasi sorridendo -. - Tranquillo un’ostia Campana, de disgrassie ghe ne xe abbastanza al mondo, no fare casini anca ti! -. La sua genuina preoccupazione nei miei confronti quasi mi commuove! Che cazzo ci sto a fare lì, con una corda in mano, alle 6.00 di mattina? Non si può dare un calcio a tutto solo perché ci sembra che questo tutto vada male! Cos’è poi il bene, e cos’è il male? Vivere la vita senza aver paura di perdere le cose futili che cerchiamo di conquistarci di giorno in giorno è bene. Fare attenzione alle cose importanti, quelle che abbiamo sotto il naso tutti i giorni, e a cui non diamo quasi più importanza è bene. Cosa ci serve per sentirci felici? E poi cos’è che ci fa felici? Cosa vorrei per essere felice? “Beh…ecco, questa è una buona domanda Campana, che cazzo vuoi tu dalla vita Campana?”, mi chiedo camminando a fianco del comandante. Vorrei non essere impantanato, ma non tra questi filari, ma nei labirinti, che io mi sono costruito per cercare una felicità fatta solo di cose effimere; vorrei farmi bastare quello che sono, quello che ho…e che non è poco: ho due gambe, due braccia, una testa per pensare, una famiglia, degli amici veri. I soldi? Che cazzo sono i soldi paragonati a tutta questa ricchezza! Sono retorico? Beh..se lo sono non mi vergogno di esserlo, non m’interessa essere alternativo ed infelice. Ecco cos’è la mia corda, è la mia nuova consapevolezza di avere tutto ciò che mi serve per essere felice. Ricominciare allora diventa facile, diventa facile anche raggiungere i propri obiettivi, i propri progetti, e non vivere solo inseguendoli. 45
Dare valore alle cose che si hanno: ecco qual è la soluzione! Parlare con mio padre e mia madre e godermeli finchè ci sono è importante, e ugualmente fare con le persone che più ci sono care e che ci vogliono bene. Quanto tempo ho perso a rincorrere cose che mi hanno solo fatto perdere di vista il mio cuore, barattare le mie emozioni per un’esistenza di plastica, fatta di modi di dire, di luci e colori finti, di riflettori accesi solo per abbagliarmi, di comodità firmate e pagate a caro prezzo, di chiacchiere da osteria suggerite da giornali e televisione. Basta essere abbagliato, basta! Rivoglio la mia vita! Camminando senza parlarci, ma con i pensieri che, se stiamo attenti quasi prendono forma sopra le nostre teste, arriviamo davanti al bar dove avevo lasciato l’auto. Ormai è giorno fatto e Tonino, il barista, sta aprendo il bar. Ci accoglie con uno sguardo stupito ed incuriosito…strana coppia da vedere verso le 7.00 di mattina camminare per il paese, specie se uno dei due è tutto impantanato e pieno di foglie marce appese dappertutto! - Dai, Campana, andiamo dentro a prendere un caffè - esclama il comandante con tono deciso. Io annuisco silenziosamente col capo ed entriamo dalla porta col barista che ci segue. Tonino cerca di capire cosa sia successo, ma prima che possa chiederci qualcosa, il comandante dice in modo autoritario: - Fai il caffè e silenzio, che oggi non è giornata da fare grandi discorsi -. Tonino comincia a trafficare con la macchina del caffè, e poco dopo ci vengono serviti i caffè al banco. - Grazie comandante - mi sfugge dalla bocca prima che questa s’incolli al bordo della tazzina. - E di cosa Campana? - chiede, - Del caffè - rispondo sorridendo. Sorride anche lui, sapendo che il grazie non è certo per il caffè che sto bevendo… Prima di uscire dal bar, guardo per un attimo l’infame macchinetta che la sera prima mi aveva fregato gli ultimi 100 euro che avevo, Tonino, accortosi del mio sguardo, non ci mette molto a dire: - Dai Campana, che magari è la volta buona che con un euro ne tiri fuori 200! -. - Fanculo tu e la tua macchinetta, barista infame -, esclamo convinto, guadagnando metri verso l’uscita, - Ho cose più importanti da fare! Voglio fare colazione con i miei stamattina e voglio proprio capire, una volta per tutte, com’è andata quella volta in Africa! -. Tonino e il comandante mi guardano un po’ straniti, poi i loro sguardi s’incrociano e formano un enorme punto di domanda su ciò che ho appena detto. Sto quasi per varcare la soglia, che mi fermo e, girandomi verso il comandante, con un sorriso mezzo ironico stampato sulla faccia, dico: - Certo che di matti ce ne sono in giro, comandante, non devi essere mica tutto a posto a camminare in aperta campagna col fucile scarico tutti i giorni alle prime luci dell’alba…e non è neppure stagione di caccia questa! Stai attento che il paese è piccolo e la gente mormora! -. La sua risposta è breve, ma decisamente chiara: - Vai a fare in culo Campana…vai-a-fare-in-culo tu e la tua fottuta corda! -.
46