Il vento dentro

Page 1


Il vento dentro di Emmanuel Christian Kellermann

c/o Enrica Ciabatti Via Sciolze 4/1 10090 CINZANO (TO) Tel.: 0141-909168 347-4270472 enricia@email.it


PROLOGO La metafora perfetta - Scusa Roberto, ti dispiace se richiamo più tardi? Sono a letto con Emmanuel, sì, quello che te lo faresti pure tu. No, un discorso a tre è prematuro per il momento. Dici che Patrick sarebbe pronto? Se ne può parlare. Sento che è lì con te, salutamelo. Oh, ricordagli che dobbiamo provare ancora il pas des deux, c'era qualche sbavatura. E digli di depilarsi le ascelle. Adesso scusami tesoro, ci siamo appena fatti e non è che posso stare qui al telefono. Sì, buona scopata anche a te Riattaccò e tirò via la spina per non essere più interrotta. Si voltò verso di me sorridendo: - Dov'eravamo rimasti? I suoi lunghi capelli scuri sfiorarono il mio viso. La conoscevo da qualche settimana, ma ogni volta che la guardavo rimanevo incantato dalla singolare bellezza del suo volto. Sembrava una madonna del Perugino; a prima vista l'espressione dolce dei suoi occhi non tradiva in nessun modo la sua vera natura, ma ad osservarli meglio quegli occhi neri avevano una strana opacità, una fissità impermeabile. Del resto era proprio per questo che mi piaceva. Accarezzò il mio corpo con mani di velluto. - Un po' più di definizione ai pettorali non guasterebbe. Ma già, hai solo diciassette anni, c'è tempo. Per il resto niente da dire: complimenti a mamma Helena, proprio un bel lavoro. Hai mai pensato di fare il fotomodello? Sorrisi senza rispondere. Non mi era mai passato per la testa di usare il mio corpo per fare carriera, ed era significativo che lei non lo capisse. Ma non era per la sua sensibilità che stavo con lei. - Peccato - concluse, e si sdraiò in attesa. Mi distesi al suo fianco ad occhi chiusi e lasciai che il mio cervello esaurisse gli ultimi barlumi di lucidità pensando al nostro rapporto. Era la figlia di alcuni amici di famiglia, una tossica d’alto bordo pressoché insospettabile, una ventiduenne bella e perversa, alta, con un corpo stupendo. I suoi erano dell’alta borghesia romana, ma suo padre era di origine alsaziana; in casa sua si parlavano correntemente, oltre all'italiano, il tedesco e il francese, due lingue che detesto in ugual misura. Era la solista dei Magma, un gruppo cittadino di danza moderna piuttosto famoso; qualche volta ero andato a vederla a teatro e l’avevo trovata decisamente arrapante. Il suo ragazzo, un certo Roberto Morra, ballerino pure lui, era un pervertito dall’aspetto angelico. Come lui era ricca, viziata, abituata a prendersi tutto quello che le piaceva, perciò si era presa anche me. Si chiamava Michelle Kerschbaumer. Viveva sola in uno spettacolare appartamento vicino all'Eremo, un grande monolocale senza mobili, con il pavimento coperto di tappeti persiani antichi; al centro c’erano uno stereo e un letto con le lenzuola di seta viola; davanti al letto uno specchio enorme, simile a quelli che si usano nelle scuole di danza. Le pareti erano tappezzate di poster di Egon Schiele. Nell’intimità voleva che la chiamassi Gerti, come la sorella del pittore. A me il suo nome piaceva da impazzire, ma lei diceva che faceva tanto Beatles. Quando andavo a trovarla indossava sempre sulla pelle nuda una vestaglia di raso nero con un serpente d’oro ricamato sulla schiena, lo stesso che si era fatta tatuare sull'inguine. Credo che appartenesse a qualche setta delle tante che ci sono nella nostra città, che ne fosse anzi la sacerdotessa o qualcosa di simile. Non saprei dire quale, non mi è mai interessato saperlo: nulla mi attira meno dell’occultismo. Condivideva i miei gusti musicali, anzi era più avanti di me in certe esplorazioni, e questo mi aveva illuso che esistesse fra noi una certa affinità spirituale: invece, dopo i primi tempi di euforia, il vuoto assoluto di quel rapporto aveva cominciato a pesarmi e ad incidere in modo imbarazzante sulle mie prestazioni sessuali. Lei non era indulgente da quel punto di vista. Un giorno, mentre eravamo a letto, mi aveva accarezzato, leccato e morso sussurrando qualche irripetibile oscenità: era il tipo di ragazza al quale piace farlo, si divertiva a vedermi arrossire; la mia timidezza la eccitava molto, ma su di me aveva effetti fisici disastrosi. S’era tirata su a guardarmi e mi aveva detto vedi di darti una mossa bello, d’accordo che sei un fico da fartisi all’impiedi (diceva fico con la c, come tutti i romani), ma neanch’io sono da buttare, m’hai vista bene? Naturalmente le avevo assicurato che


era la più bella ragazza da letto che avessi mai frequentato (non le dissi proprio così, ma il concetto era esattamente quello), ma lei voleva che glielo dimostrassi, e quella era tutta un’altra storia. - Senti frocetto, - aveva concluso - così non va Il serpente aveva sfiorato le mie vene con le sottili zanne d’oro mentre lei voltandomi le spalle si sfilava la vestaglia; avevo istintivamente ritirato il braccio; ma lei, aprendo un cassetto del comodino con la chiave che teneva appesa al collo ad una catenina d’oro, s’era girata sorridendo, non avere paura, la gente pensa banale, se non vede buchi sulle braccia non sospetta. Lascia fare a me. L’avevo lasciata fare, e non quella volta sola. Il mio pensiero vacillava, andava e veniva, qualcosa mi succhiava l’anima, era già come fare sesso. Lei mi guardò negli occhi e vide l'onda salire. - Ci siamo - disse sorridendo. Mise su P.J. Harvey e cominciammo. Scopare al ritmo di Rid of me con quella roba in corpo è un'esperienza indescrivibile, ancora adesso se ci ripenso il sangue mi sale al cervello, e tutto considerato è meglio che non ci pensi troppo. Tento di razionalizzare mentre scrivo, ma non è facile: diciamola tutta, mi vergogno un po'. So che la destinataria di questi appunti la prenderà male; del resto, non peggio di tante altre cose. Una serie di orgasmi che avevano poco a che fare con quel che stavo facendo cominciò ad accavallarsi nella mia spina dorsale, sicché da quell'esperienza in poi non ebbi più dubbi sul fatto che il piacere parta dal cervello e non dagli organi sessuali, come del resto avevo già capito con Eloisa. Quello che proprio era perfetto in quei momenti era che lei non c'era più, come se non fosse mai esistita. Spariva tutto, la mia mente era vuota. Non saprei descrivere esattamente quel che accadeva, era tutto terribilmente confuso; ricordo solo che non controllavo più in nessun modo le mie reazioni fisiche, il piacere non riusciva a liberarmi da quella terribile eccitazione, smettevo solo per ricominciare e alla fine gli spasmi di quelle contrazioni erano così violenti che sentivo un crampo al basso ventre e non sapevo più se gemevo di piacere o di dolore. Lei rideva. Non ero contento che mi vedesse così, ma non potevo farci niente. Ero assolutamente in suo potere. Credo di essere stato bravo, ammesso che la parola abbia un senso in questo contesto. Si alzò dal letto soddisfatta. - Hai visto frocetto, - mi disse - a tutto c'è rimedio Mi lasciava sempre solo alla fine. Mi avvolsi nel lenzuolo viola come in un sudario e rimasi a fissare il soffitto immerso nei miei e nei suoi liquidi organici, mentre la musica finiva e il flash si riassorbiva alla rovescia con una sensazione di vuoto pauroso. Il sudore mi aveva sciolto il rimmel, lacrime nere solcavano il mio viso, il rossetto sbavato mi macchiava di rosso il mento, le braccia. Sentivo freddo e il sangue mi pulsava alle tempie, il mio cuore era agitato da una strana tachicardia, la mia schiena spezzata. Pensai che più in basso di così non si poteva, ed era esattamente ciò di cui avevo bisogno. Michelle era la metafora perfetta della mia vita. _._ A questo punto sento di dovermi fermare. Il senso di incredulità che provo, pur a distanza di anni, è indescrivibile. Emmanuel si racconta così, senza veli né pudori. E si racconta a me, alla ragazza che avrebbe dovuto sposare. Mi domando chi ho avuto al mio fianco per un anno della mia vita. Non riesco in nessun modo a collegare la creatura mite e gentile che ho conosciuto ed amato con l'individuo per molti versi spregevole che emerge da questo autoritratto. Eppure è lui, lo riconosco; semplicemente, lo vedo ora come avrei dovuto vederlo sempre. Mentirei se dicessi di non avere mai avuto sentore della sua ambiguità: me ne ha dato prova in diverse occasioni. Ma in questi casi siamo tutti pronti - più che altro noi donne - a credere che l'altro "cambierà" per amor nostro. Che stupidaggine. Nessuno può cambiare veramente. Mi resta la consolazione di pensare che Emmanuel ci ha provato, mi ha voluto bene davvero, ha fatto del suo meglio; sennoché, com'era inevitabile, ha fallito.


Ora però non devo lasciarmi trasportare dalla suggestione e dal sentimento: mi servono pazienza, freddezza ed autocontrollo. Non sarà facile. Devo impormi di procedere con metodo e ordine, spiegando anzitutto chi era Emmanuel e perché la sua insolita eredità è toccata a me. _._ Emmanuel se n’è andato una mattina di settembre del 1997 lasciando solo un biglietto di addio per sua madre, poche righe in cui le raccomandava di star bene e di non preoccuparsi per lui. Non aveva neanche vent’anni. Tutte le nostre ricerche sono state vane. Non che i nostri appelli siano caduti nel vuoto, anzi: le segnalazioni sono state anche troppe, specialmente dopo la trasmissione televisiva. C’è chi afferma di averlo riconosciuto fra i volontari di una missione nel Ruanda, chi a Milano tra gli squatters di un centro sociale occupato, chi ancora, suggestionato forse dalla sua rassomiglianza con un famoso cantante rock, nel solista di un’oscura band di Seattle, chi tra i monaci buddisti di un convento a tremila metri di quota, chi in un celebre fotomodello australiano (cosa evidentemente impossibile per ragioni anagrafiche), chi tra i ricercatori di un centro svedese per l’inseminazione artificiale, chi in un transessuale che si fa chiamare Michelle e si esibisce nei locali notturni di Barcellona, chi, meno fantasiosamente, fra i membri di una comunità per il recupero dei tossicodipendenti ad Amsterdam, angelo all’inferno o sacerdote del dolore altrui, a seconda di quello che l’immaginazione suggerisce al mitomane di turno. Nessuno avanza l’ipotesi più scontata: che sia morto. Il fatto è che Emmanuel era una creatura di rara bellezza, e l’essere umano rifiuta istintivamente di associare la bellezza alla morte. Quanto a me, il mio timore è che la sua psiche, minata da un malessere represso ma mai sconfitto, abbia definitivamente ceduto, inducendolo a rifugiarsi in una zona di margine tra la realtà e il sogno, nel limbo oscuro della pazzia. È da escludere che il movente della sua fuga sia la tragica fine di Eloisa, trovata cadavere nel suo letto in un lago di sangue, violentata da un maniaco e poi freddata con un colpo di fucile al volto. Questa ipotesi, avanzata da qualche individuo non bene informato, non tiene conto del fatto che la morte di Eloisa è posteriore di ben tredici mesi alla scomparsa di Emmanuel. Secondo ogni evidenza, lui non ne ha mai saputo nulla. Qualche tempo dopo la sua partenza, mentre mettevo via le sue cose, di cui non sopportavo più la vista, mi venne fatto di accendere il suo computer. Si bloccò quasi subito: sullo schermo, in alto a sinistra, era apparsa la scritta Non-system disk or disk error. Replace and strike any key when ready. Non sono un’esperta di computer, ma so che, quando appare quel messaggio di errore, vuol dire che c'è rimasto dentro un floppy. Premetti il pulsante e il meccanismo di espulsione mi restituì un dischetto viola; sull’etichetta c’era una dedica scritta di suo pugno, “Alla mia bambina troppo saggia”, e una frase in inglese: loose your dreams and you will loose your mind. Qualcuno mi ha detto in seguito che si tratta del verso di una canzone. Avviai il computer ed inserii il dischetto. Provavo un'emozione indicibile. Apparve un'icona con uno strano titolo: "Non ricordo più il mio nome". Aprii il file e lo stampai. Seppi così come aveva impegnato le sue notti insonni ed ebbi finalmente la risposta ad un interrogativo che mi tormentava da tempo. Mi ero sempre chiesta per quale motivo, una volta saputa la verità, Emmanuel non mi avesse lasciata. Era ritornato da me un pomeriggio di fine agosto, dicendo semplicemente ciao, con l’aria di chi non ha nulla da spiegare; poi aveva inscenato una gelida commedia, comportandosi come se niente fosse per una ventina di giorni. Avevo accettato tutto questo come un dato di fatto, senza trovare il coraggio di fare domande e senza comprenderne il senso. Ora mi è evidente: voleva concludere indisturbato il suo scritto ed evitare penose discussioni che, alla luce di quanto aveva già deciso, sarebbero risultate perfettamente inutili. Mi aveva sorpresa, e confusamente allarmata, l’insolito trasporto di cui aveva dato prova quella notte di settembre, prima di andarsene all’alba senza un saluto. Sono passati molti anni da allora. Pubblicare adesso il diario delle allucinazioni di Emmanuel potrebbe sembrare poco sensato, tanto più che agisco di testa mia, contro il parere dei suoi genitori e di mio marito. Ma di questo sono arbitra io sola, dal momento


che il floppy era destinato a me. Ho vissuto per anni con quei fogli chiusi a chiave nel cassetto della scrivania. Ora sono io ad essere irrazionale, ma il fatto è che la sua voce gridava in quel cassetto e non ce la facevo più a sentirla. Inoltre mi riprometto di ricavarne un duplice vantaggio. Anzitutto spero che questo scritto possa fungere da monito per coloro che, come lui, si ostinano a pensare che la vita debba avere a tutti i costi un significato “altro”. Per quanto mi riguarda, da tempo ho compreso che ciò che rende vivibile quest’esistenza sono le piccole banalità quotidiane. Ogni rincorsa dell'eccezionale, dell’irraggiungibile, dell’inimitabile è destinata ad essere coronata dall’infelicità. Purtroppo gli scrittori (tutti gli scrittori, dai cosiddetti classici a quelli commerciali) portano su di sé il peso di una responsabilità immensa: quella di farci credere che la realtà sia il risultato delle azioni di persone straordinarie nel bene e nel male, che trascorrono la loro esistenza nell’anelito di compiere imprese esaltanti, buone o cattive che siano. Ora, l’esperienza di Emmanuel sta a testimoniare nel più eloquente dei modi, se ce ne fosse bisogno, come questa continua ricerca del diverso e del sublime abbia come naturale sbocco l’autodistruzione. In larghissima misura il suo tormento esistenziale era legato alla sua bellezza, da lui vissuta nel più autolesionistico dei modi; Emmanuel ha bruciato la sua breve esistenza nel tentativo fallimentare di comprenderne quello che chiamava “il senso”: come se tutto ciò che esiste dovesse avere un senso. Gli mancava la capacità, che più o meno abbiamo tutti, di restare a galla sulla superficie delle cose. Il secondo scopo di questa pubblicazione è quello di continuare la macabra caccia al tesoro iniziata da Emmanuel. Credo che non abbia il diritto di lasciarci ancora nell’incertezza. Sua madre si è rifugiata nell'illusione: dato il tenore del biglietto d’addio, lo crede impegnato in qualche missione umanitaria ed è certa che ritornerà; come in passato non ha mai voluto vedere i rischi che suo figlio correva, così adesso si ostina a non tener conto della subdola autoironia che caratterizza tutti i suoi scritti. Suo padre tace e si immerge nel lavoro. La più pessimista è Teresa, la domestica, che nutriva per lui una particolare devozione: un giorno ha detto che le ricerche dovremmo farle nel torrente ed è scoppiata a piangere. La settimana dopo si è licenziata. Suo fratello invece non si rassegna: continua a farlo cercare. Credo che Giuliano sia quello che ha sofferto di più, e più ingiustamente, di tutta questa storia; io sono sempre al suo fianco, lo aiuto come posso. È uno splendido padre per i due bambini di Eloisa, che ormai sono diventati i nostri bambini. Sono forte, Emmanuel lo sa; sapeva anche che non avrei passato tutta la vita ad aspettarlo. Però non mi sembra di avere meritato tutto questo: se era la vendetta che cercava, ebbene, penso che si sia vendicato abbastanza. Ma l'intuito mi dice che la sua vendetta più raffinata consiste proprio nel sottrarsi al confronto, nel rimanere identico nel nostro ricordo mentre tutto intorno cambia e cambiamo noi stessi. Noi stiamo invecchiando, il nostro corpo inesorabilmente declina: lui invece avrà per sempre vent'anni. Il lettore, se un lettore ci sarà, potrà notare come nelle varie sezioni del racconto Emmanuel assuma di volta in volta identità diverse, in un caleidoscopio di punti di vista che ha come unico denominatore comune quello di un disperato narcisismo. Questo, a mio parere, è il segno tangibile di una crisi di identità già in atto: Emmanuel come Zelig, insomma. Leggendo i brani che lui immagina raccontati da me ho trovato sorprendente, anche se a tratti velleitaria, la sua capacità di immedesimazione. Insomma, sono io, sono riconoscibile; devo ammettere che ha saputo cogliere parecchi lati nascosti della mia personalità e riprodurre con discreta precisione i miei pensieri, le sensazioni che provavo, perfino quando ero chiusa fra le quattro pareti della mia stanza. Poco dopo aver trovato il testo avevo voluto farlo leggere ad Eloisa (ci eravamo riavvicinate nel frattempo, scottate dal medesimo dolore) e l’effetto che aveva prodotto sulla sua psiche, già duramente provata, mi aveva fornito un’ulteriore conferma di quanto già supponevo: Emmanuel si era calato anche in lei con inquietante naturalezza. Non solo aveva riprodotto con esattezza fotografica molti momenti vissuti con lei, ma aveva anche ricostruito con sicuro intuito, sulla base delle sue confidenze, scene alle quali non aveva assistito, e perfino dedotto a partire dalle conseguenze fatti ed episodi che avevamo cercato in ogni modo di tenergli nascosti.


Rispetto al testo originale ho lasciato intatta l’ambientazione vaga, fatta solo di cenni; il lettore attento, però, potrà riconoscere facilmente i luoghi. Mi sono permessa qualche taglio in presenza di scene gratuitamente spinte, che non mi sembravano aggiungere gran che a quanto emerge con chiarezza anche eccessiva dallo scritto; ho sostituito con eufemismi alcuni termini troppo crudi e, naturalmente, ho cambiato i nomi dei protagonisti, per un’ovvia forma di discrezione nei confronti dei suoi familiari. Nella sostanza, non ho modificato quasi nulla. Perciò, se Emmanuel leggerà queste pagine, non potrà fare a meno di riconoscersi. Questo è il mio messaggio in bottiglia per te, dovunque tu sia. Mi manchi, non so come dirtelo. Ti ho cercato dappertutto, nei tuoi libri, nelle persone che hai amato, nella tua musica. Mi sono procurata tutti i dischi che ti piacevano, li ho ascoltati uno per uno; dicevi che ero sorda alla musica e un po' avevi ragione: all'inizio è stata una sofferenza, ma poi ho imparato ad apprezzarli; non sono una stupida, lo sai. E adesso non ci sei, sciocco ragazzo, per condividere le mie scoperte, per ascoltare con me Hope there's someone. Sono sicura, sai, che ti piacerebbe. Torna, per favore. Torna per essere qualunque cosa tu voglia, per stare con chi ti pare, non importa. Sono stanca di giocare: ti sei nascosto troppo bene. Mi arrendo, hai vinto tu. Io torno a casa. Ti aspetto per la merenda. Fatti vivo, per favore. Arianna Martorelli Kellermann


L'enigma della filatrice

- Niente zucchero, grazie La donna, una bellezza mediterranea dell'apparente età di venticinque anni, indossava un corpetto scarlatto sopra la camicia candida con maniche corte a sbuffo, che scivolavano a scoprire le spalle lasciando intravedere il florido seno; il colore sanguigno della gonna era interrotto dal candore del grembiule a righe annodato in vita, dal quale traspariva l'oro delle spighe, contrappuntato dal rosso dei papaveri appena raccolti. Una collana con un cornetto di corallo scaramantico adornava il suo collo. Sentii la mano di Giuliano posarsi sulla mia. - Allora, lo farai? La cornice era quella di un campo di grano al tramonto, ma qualcosa di incongruo conferiva all’insieme una suggestione surreale: la ragazza sorrideva impercettibilmente, con il braccio sinistro levato nell'atto di reggere una rocca e il destro abbassato a stringere fra il pollice e l'indice la punta di un fuso. Osservando attentamente si poteva scorgere il sottilissimo filo che collegava i due strumenti. Era una filatrice. Non aveva alcun senso ambientare quell'attività in un campo di grano. Misteriosamente allusivo, poi, appariva il sorriso enigmatico della donna. Cercai di leggere il nome dell’autore sulla targhetta in fondo alla cornice: Rudolph Lehmann. Mai sentito. Lo avrei cercato sull’enciclopedia appena possibile. Ad un cenno della signora la robusta domestica peruviana si chinò su di me e con gesti garbati e precisi riempì la tazzina di porcellana; poi si ritirò nel suo angolo, composta nella divisa azzurra, le mani intrecciate sul grembiule bianco bordato di pizzo, lo sguardo fisso nel vuoto. - Di che cosa si tratta esattamente? - Ripetizioni di latino e greco - rispose Giuliano. - Naturalmente - disse la signora - il suo impegno sarà ricompensato - No, mamma, - disse con dolcezza Giuliano - Eloisa non accetterebbe mai - Che tipo di problemi ha? - chiesi, immergendo il limone nella tazzina. - Mio fratello è tutto un problema. Non assomiglia a nulla di razionalmente classificabileSorrise, chissà perché. Ci conoscevamo solo da pochi mesi, ma la maggior parte dei meccanismi psicologici di Giuliano, non troppo complessi a dire il vero, mi era ormai chiara; fra questi, uno dei più evidenti era proprio l'intenso legame che lo univa al clan dei suoi familiari, un istinto tribale che i più consideravano parte integrante del suo profilo di bravo ragazzo. Conoscevo tutta la famiglia Kellermann, con la quale intrattenevo rapporti educati e cortesi, tranne il fantomatico fratellino. - Voglio dire, - ripresi - quali sono i suoi problemi scolastici? - Può ritirarsi, Teresa La signora Helena congedò la domestica con un gesto vago ed elegante. Intravidi lo scintillio del brillante all’anulare. Teresa uscì. La signora attese un attimo e poi riprese: - Se l'è sempre cavata bene. È un ragazzo intelligente- Non ne dubito - dissi diplomaticamente - Che liceo frequenta? - Il Gioberti - rispose Giuliano - Non c’è stato verso di iscriverlo al D’Azeglio, come avrebbe voluto nostro padre. Dice che ci sono troppi figli di papà Avrei anche potuto condividere il giudizio, se non fosse stato formulato da un figlio di papà. Ma non c'era da stupirsi: quasi tutti i cosiddetti alternativi dei centri sociali lo sono. Sentivo crescere in me una sorda irritazione. - Finché ho potuto - riprese la signora - mi sono occupata personalmente di lui: conosco piuttosto bene la vostra cultura; forse Giuliano le avrà detto che è proprio per studiare l’arte italiana che ho lasciato Utrecht e mi sono trasferita a Firenze a ventidue anni - La mamma di cognome fa Harmenszoon, come Rembrandt - Abitavo vicino alla Pieterskerk, ha presente? - Non sono mai stata in Olanda - dissi. - Oh, ma è un monumento famoso, un raro esempio di architettura romanica olandese: risale all’undicesimo secolo. Ho il romanico nel sangue: sarà per questo che in Toscana mi sono sempre sentita come a casa mia -


- E mentre era in vacanza a Punta Ala ha conosciuto papà. Le lontane origini nordiche della famiglia Kellermann sono state galeotte: si sono capiti subito La signora abbassò gli occhi ed arrossì leggermente. Non mi commossi affatto. È facile per una studentessa confondere l’amore con l’attrazione per un giovane industriale in carriera, ed è facile per un uomo lasciarsi sedurre da una straniera bionda con gli occhi blu Vermeer. Io non credevo nei colpi di fulmine. Dovevo ammettere però, mio malgrado, che la mamma di Giuliano non era quella persona banale che sembrava a prima vista: era intelligente, oltre che bella, amava l’arte e la cultura, parlava l’italiano con proprietà assoluta, conservando della sua lingua madre appena una leggera inflessione. Peccato che da tutte queste belle doti non avesse saputo ricavare niente di meglio della sua condizione di mantenuta di lusso. - Certo Emmanuel non è come Giuliano - riprese la signora - A volte mi domando se non siano state proprio le nostre aspettative, il continuo paragone con suo fratello, a renderlo così ribelle Ammisi che l’ipotesi era ragionevole. - Non credo che sia questo - intervenne Giuliano - È una questione di carattere. Il suo modo di vedere la vita è diverso da quello di tutti noi - È uno zingaro - sospirò la signora. Giuliano sorrise di nuovo: - Ma lo adora: è il suo cucciolo preferito - Non gli creda, Eloisa: una madre ama tutti i suoi figli allo stesso modo Ibat res ad summam nauseam. - Non saprei, - risposi - sono figlia unica - Era un bambino dolcissimo, - riprese la signora - ma da un paio d'anni a questa parte è cambiato da non riconoscerlo: si è rinchiuso in se stesso, non si confida più con nessuno- È da quando è morto il nonno, mamma, lo sai - disse Giuliano - Era solo in casa con lui quando si è sentito male - Ma sono passati quattro anni da allora. Non riesco a capire cosa gli passi per la testa disse la signora. Io qualche idea ce l’avevo, ma preferii tradurla in una banalità di circostanza: - Quindici anni sono un’età difficile - Sedici. Appena compiuti Nato sotto il segno dei Pesci. - Non ci risulta che abbia la ragazza, se è questo che intendi - disse Giuliano. Non intendevo solo quello, ma evitai di fare domande. Provai ad immaginare il suo aspetto fisico ed ebbi la visione di uno strano uccello di palude: arti screziati di tatuaggi, ferraglia al naso e alle orecchie, una cresta arancione eretta sul cranio rasato. - Non sta mai in casa - aggiunse sua madre, versandomi ancora un po' di tè - Del resto, anche quando c'è, è come se non ci fosse. Si chiude in camera e ascolta in cuffia della musica che lo rintrona completamente. Ma di giorno se ne sta quasi sempre in giro con quel suo cane - Ha un cane orrendo - disse Giuliano. - Morde? - chiesi. - No, è mansueto - rispose la signora - È la sua unica virtù - Sarai costretta a fare lezione all'aperto - continuò Giuliano, dando già per scontato che io accettassi - Mio fratello è una lucertola: scappa fuori dalla tana al primo raggio di soleÈ tipico dei rampolli di uomini annoiati e donne inutili trincerarsi dietro alibi inverosimili pur di continuare a coltivare indisturbati la propria propensione all'ignoranza. Rivolsi il mio segreto sdegno all’argenteria antica che brillava sul ripiano di mogano della credenza e mi concentrai sulla rocca di lana grezza, che certamente simboleggiava il principio generatore della vita. Giuliano mi guardò bere un sorso di tè amaro e comprese il mio stato d’animo, ma non mi aiutò ad evadere da quel vicolo cieco. - Con mio marito - riprese la signora - ho temporeggiato finché ho potuto, ma adesso la situazione sta precipitando: ieri mi ha detto che ne ha abbastanza e che ha intenzione di mandarlo in collegio Che almeno il marito avesse un grammo di buon senso? Improvvisamente la porta si aprì: mi investì una folata di vento bagnato. La signora Helena esclamò qualcosa di simile al tedesco verdammen, poi, in una strana sequenza al


rallenti, vidi qualcosa di biondo entrare, chinarsi ad afferrare per il collare una specie di cane, metterlo fuori della porta, chiudere, voltarsi verso di noi, togliersi un berretto di lana a righe multicolori, scrollare i capelli bagnati, sorridere. - Il mio fratellino - disse Giuliano - Emmanuel, ti presento la mia fidanzata Mi tese la mano. - Piacere di conoscerla - Dalle del tu, coraggio - Ciao Il polso delicato spuntava da un maglione lavorato a mano, troppo largo, colore indefinibile, fili tirati in più punti. - Tu sei Emmanuel? La bruna sfinge mediterranea mi guardava sorridendo. - E tu devi essere Eloisa Bello il mio nome pronunciato da quelle labbra perfettamente irregolari. Bello. Si sedette sul divano accanto a me. - Ti hanno chiesto di darmi lezioni, vero? Blue jeans sdruciti, scarpe da ginnastica logore. Poi, con disarmante dolcezza, disse: - Non ti invidio. Sono un pessimo studente, sai? La filatrice mi comunicò telepaticamente la soluzione dell’indovinello, ma ero distratta, non compresi. - Perché? Rimboccò le maniche troppo lunghe e mi sorrise. Sorridere così dovrebbe essere proibito per legge. - Non mi piace la scuola. Il latino e il greco fanno schifo Giuliano intervenne severo: - Emmanuel, non essere villano: Eloisa è assistente di filologia classica a Palazzo Nuovo- Oh. Allora siamo vicini di casa Blu. Non azzurro, proprio blu. Ma chi c’era nella stanza? - Non ha tutti i torti - dissi - La scuola di solito li fa odiare, il latino e il greco, e lui è così... - Così vivo? - Così poco in sintonia con quel tipo di studi, almeno mi sembra - Vuoi dire che potrebbe esserci qualcosa di interessante in quella roba? - chiese educatamente Emmanuel. - Potrebbe - Meglio così. E adesso ciao Si alzò, mi strinse la mano, aprì la porta, scomparve in una folata di pioggia tirandosi dietro quel cane paleozoico. Ecco la chiave: Atropo, l'assedio della morte, il rischio di spezzare con gesto maldestro il filo delicatissimo... - Scommetto che mi stai odiando - disse Giuliano, appoggiandomi una mano sulla spalla. - Come? - Voglio dire, non ti aspettavi certo una cosa del genere - No - risposi - Hai ragione. Non mi aspettavo proprio niente di simile -


Qualcosa di grigio

L'aria, spazzata per tutta la notte dal vento, si era fermata nell'immobilità inverosimile del cristallo; la spugna verde delle foreste sulle montagne lontane era visibile in ogni minima piega; più in alto si stagliava, nitida, l'ossatura della roccia. Il torrente si era acquetato in una bonaccia liscia e placida, appena increspata da qualche luccichìo superficiale. Di tanto in tanto si accendevano nella valle bagliori come di specchio. Seduta sulla sponda, con un libro sulle ginocchia, guardavo dall'alto Emmanuel che sulla riva sabbiosa, scalzo, i pantaloni rimboccati fino al ginocchio, lanciava pezzi di legno a Tegame; il cane si rizzava sulle zampe posteriori per osservare la traiettoria del bastone: poi si tuffava nel torrente, nuotava fino a raggiungerlo, lo riportava al padrone e ne riceveva carezze e complimenti. Quando i due furono stanchi, Tegame si scrollò ripetutamente addosso ad Emmanuel, come d'abitudine, e cominciò a rotolarsi nella sabbia arandola con il muso; lui si sedette sul greto del torrente e mi fece un cenno di saluto sorridendo, mentre con una mano raccoglieva le scarpe da ginnastica e con l'altra si ripuliva i piedi dalla sabbia. Gli indicai da lontano l'orologio, richiamandolo ai suoi doveri. Annuì sbuffando e cominciò a risalire lungo la sponda. Lo guardai avvicinarsi in una festa di colori accozzati in modo assolutamente casuale: l'oro dei capelli, il blu degli occhi, la porpora delle guance e delle labbra sorridenti, le righe orizzontali bianche e verdi della maglietta, l'azzurro dei blue jeans, i quadretti multicolori della camicia del nonno che usava come giacca. A giudicarlo secondo le convenzioni sociali lo si sarebbe detto ridicolo. Visto con gli occhi della natura era stupendo. Accanto a lui Tegame, grigio e irsuto, pareva il fantasma di un istrice. Si lasciò cadere prono nell'erba, appoggiandosi sui gomiti. - Cuccia, Tegame - intimò al cane che tentava di asciugarmisi addosso. Lo accarezzai e ripetei l'ordine. L'animale si accucciò al sole ansimando, con la bocca aperta e la lingua penzoloni, una stolta espressione di felicità sul muso. Ben presto però si alzò e si mise a rotolarsi sopra il cadavere di qualche bestiola, strofinando coscienziosamente la schiena sui fetidi resti decomposti. - Secondo te perché lo fa? - chiese Emmanuel perplesso. - È una specie di riflesso condizionato: gli sciacalli si rotolano sulle carogne per mimetizzare il proprio odore. Serve per non essere identificati né dalle prede né dai predatori - Quante cose sai Mi tolsi gli occhiali con gesto professorale. - Sono nata un po' prima di te; e poi, io ero una studentessa modello - Senza allusioni, vero? - Senza allusioni - Sicché Tegame discenderebbe da uno sciacallo? - Con ogni probabilità. Ora fai attenzione, probabilmente cercherà di trasmetterti il suo mimetismo odoroso - Puah - Gli lanciò un bastone: il cane si allontanò di corsa per recuperarlo e ritornò poco dopo con il pezzo di legno in bocca. Si accucciò e cominciò a rosicchiarlo, tenendolo fermo fra le zampe anteriori. - Più tardi lo laverò - concluse Emmanuel. Sollevò il viso infantile, che il leggero strabismo degli occhi blu e il broncio del labbro inferiore rendevano un po' imperfetto, e perciò più affascinante. Gli posi dinnanzi il libro e gli dissi: - Hai esattamente mezz'ora di tempo per ripassare il periodo ipotetico. Alla fine ti interrogherò, e se non sei stato attento saprò essere molto vendicativa - Cosa mi farai? - Ti picchierò Ci pensò su un attimo. - Attenta, potrebbe piacermi - concluse provocatorio. Lo guardai a braccia conserte. - Dobbiamo parlare seriamente, noi due Si voltò su un fianco, appoggiandosi su un gomito. - Ti ascolto -


- Sei sleale. Mi stai mettendo in condizione di non poter rispettare gli impegni presi con i tuoi - Scusami - Sei scusato. E adesso vorrei che mi spiegassi una volta per tutte, senza peli sulla lingua, cosa non ti piace della cultura classica Rise: - Farei prima a spiegarti cosa mi piace - Non ridere, non sto scherzando. Non mi accontenterò di risposte generiche: mi aspetto motivazioni serie, precise e fondate; altrimenti sarò costretta a concludere che sei soltanto un ragazzino viziato, cosa che peraltro non mi sembra corrispondere alla tua tipologia di adolescente - La mia tipologia! Hai un modo di esprimerti raccapricciante, professoressa: mi fai sentire un animale da laboratorio - Sto aspettando le tue spiegazioni Scosse la testa e accarezzò Tegame. - Se ti aspetti delle motivazioni razionali, temo che ti deluderò. Tutt’al più posso descriverti le mie impressioni... - Fallo - Okay. Freddo, muffa, cantina, ragnatele... - Continua - Cadavere, tomba, claustrofobia, un ratto di fogna morto a pancia in su... - Ho capito il concetto - Insomma, vuoi che te lo dica? Secondo me ai professori manca tutto quello che serve per essere vivi: una cosa così inutile come le lingue morte sembra il massimo dei loro interessi; non capisco se ci sono o ci fanno - Niente gergo adolescenziale con me: esprimiti come si deve - Voglio dire, se sono così ottusi da pensare che sia davvero una cosa importante o se lo fanno per prenderci in giro. Ogni tanto mi guardo intorno, vedo i miei compagni che seguono le spiegazioni, prendono appunti, alzano la mano per fare domande, e mi viene il dubbio che ci sia qualcosa che non funziona nella mia testa. O nella loro Lo fissai seriamente. - Anzitutto studiare cose inutili non è affatto inutile: se non altro è un’eccellente ginnastica per i tuoi neuroni, che si stanno autodistruggendo a un ritmo vertiginoso - Perché proprio i miei? - chiese risentito. Mi venne da ridere. - E poi forse non è così importante conoscere le lingue morte, ma la conoscenza delle radici della nostra civiltà è assolutamente fondamentale - Sai che palle. È tutto così terribilmente perbene, tutto in bianco e nero. Pazienza i greci, ma come fai a non trovare insopportabili i latini? È tutto finto, è tutta retorica professoressa, non c’è sangue, non c’è sesso, non c’è emozione, nulla di ciò che serve per fare della buona musica - Cosa c’entra adesso la musica? - C’entra, c’entra Raccolsi le ginocchia contro il petto: - Facciamo il gioco delle associazioni mentali, ti va? Rispondi a bruciapelo, senza pensarci su. Io dico un nome e tu rispondi la prima cosa che ti viene in mente. Sei pronto?- È un gioco stupido, ma se ci tieni... Comincia - Archiloco - Il poeta soldato, lo scudo, la manina di Neobùle... - Saffo - Donna brutta e sfigata innamorata di un barcaiolo, il salto dalla rupe di Leucade...- Catullo - Il passero, Lesbia, Sirmione... - Lesbia - Una ragazza tutta passeri, baci e sospiri Scoppiai a ridere. - È una fortuna che detesti quello che studi: in caso contrario saresti di una preoccupante anormalità. Tutto da rifare, ragazzino. Domani cominciamo a leggere l’opera completa di Catullo partendo dal carme novantanove - Perché proprio da quello? Sorrisi senza rispondergli.


Si distese supino a guardare il cielo, solleticando la pancia di Tegame, che per un riflesso condizionato cominciò a mimare con la zampa posteriore il gesto di grattarsi. - Di che cosa ti occupi esattamente nelle tue dotte mattinate? - In questo momento sto facendo un lavoro che ti sembrerà mortalmente noioso: una collazione- Colazione? - Mi aspettavo questa battuta. È vecchia, ragazzino - Non era una battuta, è pura ignoranza - Significa confronto - Cosa stai confrontando? - L'originale greco di un poema astronomico di un tal Arato con le sue tre traduzioni in lingua latina. Trovo interessante la versione di Cicerone: l’ho presa in considerazione in un articolo sull’uso delle cesure nell’esametro latino prima di Virgilio - Pubblichi articoli? - Certo, su riviste specializzate - Allora sei una persona importante - Non prendermi in giro - E che altro fai nella vita, oltre a scrivere cose inutili?- Tengo un lettorato altrettanto inutile - Su cosa? - Attualmente sto verificando la rispondenza tra la trattazione astronomica di Arato e quella della sua principale fonte scientifica, Eudosso di Cnido - E che cosa ne stai concludendo? - Che Arato era un incompetente - È molto importante saperlo? - Da quale punto di vista? - Da qualsiasi punto di vista Ci fu un attimo di silenzio. - Nulla è importante, ragazzino. Si muore comunque - Non offenderti: quel che intendevo dire è che non capisco per quale motivo ti impegni tanto in questo genere di attività. Mi riesce difficile collegare una ragazza carina con cose così noiose - Se voleva essere un complimento t'è riuscito malissimo. Stai dicendo che una ragazza carina dovrebbe tentare di fare l'attricetta in TV o di accalappiarsi un marito ricco? È questo che stai dicendo? - Be', quanto al marito ricco direi che sei sulla buona strada Mi stavo arrabbiando sul serio. - Non t'è mai passato per la testa che io possa essere innamorata di tuo fratello? - Okay, okay, non te la prendere - E piantala di dire okay: sembri la caricatura di Fonzie - Chi è Fonzie? - Già, che sciocca, dimenticavo: la mia è una cultura giurassica - D'accordo, basta, ho capito. Scusami - Non so se ho voglia di scusarti - Sì che ne hai voglia. Dai, non tenermi il muso, per favore. Mi sono espresso male, riconosco di aver detto un sacco di cazzate maschiliste. Volevo solo capire qual è il tuo scopo, ecco tutto - Ho del talento, ragazzino: perché non dovrei coltivarlo? Un maschio lo farebbe. Il mondo pensa ancora al maschile: a parte la maternità, si direbbe che nessun altro tipo di creatività sia riservato alle donne. Hai mai riflettuto sul fatto che l’uomo procede in linea retta, mentre la donna in genere non esce dal ritmo ripetitivo del ciclo? Da una parte la Cappella Sistina, dall’altra i pannolini sporchi da cambiare. Perciò la storia è maschio - Se ti può consolare, io sono maschio, ma non ho nessun talento e di sicuro non lascerò nessuna traccia nella storia. E poi chi se ne frega della storia?- Tu piuttosto, credi di avere un comportamento normale? Non ho mai conosciuto un ragazzo di sedici anni che se ne sta sempre solo in campagna. Non hai amici? - No. Ho solo conoscenti - Cosa c'è che non va in loro? Per esempio nei tuoi compagni di scuola - È difficile da spiegare - Almeno provaci -


Sospirò e incrociò le braccia dietro la nuca. - Prima di tutto capita spesso che mi prendano in giro. Prima perché ero magrolino e portavo l'apparecchio per i denti, adesso perché ho i capelli lunghi, non porto i jeans di marca e non mi piacciono le cose volgari che piacciono a loro. Dicono che assomiglio a una ragazza - Col tempo ti prenderai delle grosse rivincite: aspetta e vedrai - Sì? Può darsi, ma non è che cambi molto. Anzi potrebbe peggiorare tutto - Perché? - Non lo so. È che quello che gli altri danno per scontato a me fa un effetto diverso. Certe volte vengo a casa che sto male dentro, mi sento tutto ammaccato - Ammaccato da cosa? - Da un sacco di cose. La vita picchia duro su di me - Ti capisco Si voltò a guardarmi. - Davvero? - Davvero Si distese di nuovo supino e sorrise. - Questa è una bella cosa - Adesso però studia. Non si costruisce un edificio senza calce e mattoni - ...e se uno volesse costruire un igloo? Lo fulminai con lo sguardo. Aprì il libro brontolando e s'immerse nello studio. Mentre radunavo i suoi libri sparsi nell’erba mi incuriosì la vista di uno spesso quaderno dalla copertina di pelle logora: lo presi in mano senza aprirlo. - Me l’ha regalato il nonno - disse - È il mio diario - Tieni un diario? - gli domandai stupita. - Per forza. Prima di conoscerti non avevo nessuno con cui parlare Questo sì era un bel complimento: me ne sentii lusingata. Posai il quaderno. - Puoi leggerlo, se vuoi - disse ad un tratto. - Mi sentirei molto indiscreta. - Non ho segreti per te, lo sai: sono come un libro aperto - Quanto sei sciocco Sfogliai il diario, provando uno strano brivido di fronte a quella fitta scrittura minuta e aggrovigliata da mancino. A metà dell'agenda scorsi un brano intitolato "Tegame". Mi appoggiai contro un tronco d'albero, usando le ginocchia piegate come leggìo, e cominciai a scorrere le righe dell'agenda. Possiedo un cane grigio di nome Tegame. Come cane non vale un gran che: se è intelligente non lo dimostra; è fifone, noioso, inespressivo come un pesce; fisicamente assomiglia al telaio di una bicicletta; è disobbediente e nemmeno poi troppo fedele. L'ho preso al canile municipale, ma ai miei ho raccontato di averlo trovato. Era dentro una gabbia, sporco e fetido, insieme con altri tre cani più belli e simpatici di lui. Più che un cane, sembrava una grossa pantegana. Guardava inespressivo i passanti e quando mi ha visto ha cominciato ad abbaiare come un pazzo: così ho capito che voleva proprio me. Non mi dà nessuna soddisfazione: quando lo chiamo di solito non viene, ruba nei rifiuti, non sa comportarsi civilmente in pubblico, mi rosicchia tutto e obbedisce solo se minacciato. È privo degli istinti più elementari: non fiuta i pericoli, non è diffidente, non si difende mai, rischia continuamente di finire schiacciato sotto una macchina o sbranato dai cani più grossi; mi è già toccato farlo ricucire un paio di volte: le sue zampe sono tutte buchi e strappi. Ama i gatti, i gatti non amano lui. Un gatto di strada gli ha diviso il naso a metà con un graffio e una delle due metà ha rischiato di staccarsi. Una volta ha tentato di allattare dei gattini abbandonati, radunandoseli sulla pancia e sistemandoli col muso. È un cane scolorito e molliccio, ha il pelo unto, opaco e puzzolente; lo lavo spesso, ma è inutile. Ha occhi tondi e vitrei, senza colore; da piccolo li aveva di un magnifico celeste, ed erano la sua unica bellezza. Si è fatto un suo tesoro personale di cui è molto geloso: ha radunato in un angolo del giardino tutte le pigne che è riuscito a trovare, uno straccio azzurro, un pezzo di carta stagnola e un passero morto; trascorre metà delle sue giornate a guardia del tesoro, rosicchiando le sue pigne. L'altra metà la passa ad abbaiare ai passanti, rizzando il pelo sulla schiena per paura che reagiscano: infatti è anche codardo.


È un essere assolutamente disgraziato, che esiste e sopravvive per errore, privo di qualsiasi qualità positiva; uno sbaglio della natura. Ed è proprio per questo che gli voglio un bene dell'anima. Non mi dà nulla, forse nemmeno affetto; ma io non voglio nulla da lui: mi basta vedere che è felice grazie a me. A volte penso che potrei innamorarmi alla follia di una donna bruttina e sfortunata, non nonostante quello, ma proprio per quello, per poterla proteggere, per guardarla ridere, respirare, vivere, essere felice grazie a me.

La lettura di questo brano mi turbò. Era uno strano adolescente. Lo osservai a lungo mentre, sdraiato nell'erba, con le tempie appoggiate sui pugni, le ginocchia piegate e le caviglie incrociate, terminava il ripasso. Alla fine alzò la testa. - Sono pronto - disse porgendomi il libro. Mentre lo sfogliavo lui si alzò e si sgranchì le gambe saltellando. Poi si accovacciò accanto a me e mi diede un bacio sulla guancia. - Non so perché, ma sono contento, sai? - disse sorridendo. - Anch'io - mi lasciai sfuggire - E lo sarò ancora di più quando avrò sentito cosa sai dirmi del periodo ipotetico -


Attivo, passivo e medio d'interesse

- Non mi spiego quest’afa fuori stagione: che dici, sarà l’effetto serra? - È possibile - Vorrei che mi prendessi più sul serio quando ti parlo dei problemi del pianeta, professoressa - I problemi del pianeta! Lo vuoi un consiglio, ragazzino? Quando senti un politico che parla del futuro del pianeta, fatti subito una bella risata: risparmierai un sacco di tempo. Moriremo asfissiati, seppelliti da montagne di rifiuti, ma senza scendere dalle nostre automobili e con la sigaretta in bocca. - Intanto comincia a spegnere la tua, di sigaretta. E adesso cosa fai, butti il mozzicone nell’erba? Non c’è niente da fare, siete una generazione senza speranza- Sono tutti noiosi come te i tuoi coetanei? Dovevi fare il prete, la guardia forestale, che so io; a parte il fatto che ho l’impressione che tutta questa divagazione servisse solo a distrarmi. Apri il libro e segui la traduzione sul testo - Che pagina? - Pagina 45, riga 15: Facendomi violenza, dunque, fuggo via da lui come dalle Sirene, tappandomi le orecchie, per evitare di invecchiare seduto accanto a lui. E solo con lui, fra gli uomini, ho provato quella sensazione che nessuno penserebbe che alberghi in me: la vergogna. Sì, io provo vergogna solo con lui... - Senti un po’, ma perché nessuno dei miei professori mi ha mai detto che Alcibiade era innamorato di Socrate? - Dunque mi comporto con lui come uno schiavo fuggitivo, e scappo, e quando lo vedo mi vergogno di ciò che gli avevo promesso. E spesso sarei felice di vederlo morto; ma se questo accadesse, so bene che soffrirei molto di più; sicché non so più che cosa farne di quest’uomo. Ora passami il libro di grammatica; non lì, più a destra: ci sei sdraiato sopra - È il mio desiderio inconscio di sopprimere la grammatica greca. Non hai risposto alla mia domanda - Non so proprio cosa riuscirò a ricavare di buono da te, ragazzino - Sei veramente incontentabile: ho preso una cotta per Catullo, hai turbato i miei sogni di adolescente con i facili costumi di Lesbia, mi sto innamorando di Platone, e tutto quello che trovi da dire è che non sai cosa riuscirai a ricavare di buono da me!- Lo ammetto, hai fatto qualche passo avanti: ma non basta. Io parlo, e tu te ne stai a sentire spaparanzato nell’erba. Non concluderai mai nulla di buono finché non ci metti del tuo - Posso almeno rimanere in questa posizione? - No: rischi di addormentarti - Farò del mio meglio per evitarlo: e poi mi stanno dando una mano le mosche - Su, alzati: dobbiamo ripassare gli usi del participio - Qual era l'aspetto fisico di Alcibiade? - Bellissimo - Come fai a saperlo? C’è qualcuno che lo descrive? - Plutarco - E cosa dice? Dai, raccontami! Il participio può aspettare - Dice che fu in ogni età di una bellezza straordinaria. Aveva qualche difetto fisico che lo rendeva ancor più affascinante: per esempio aveva la erre moscia, camminava con la testa un po' piegata di lato... - Così? - Non fare il buffone. Era egoista, sensuale e capriccioso; passava da un’amante all’altra, faceva impazzire uomini e donne - Dev'essere meraviglioso amare un uomo come lui - Più terribile che meraviglioso, direi - Come lo immagini fisicamente? - Alto, bruno, spalle possenti, lineamenti virili - Il tuo Alcibiade assomiglia stranamente a quel ragazzo che giocava a tennis ieri con mio fratello. Valentino Bergamelli, mi pare che si chiami. Ti piace?- Sei un impertinente. Potresti dire al tuo cane di scavare un po' più in là? Mi ha riempito la gonna di terra -


- Non cambiare argomento, professoressa - È impossibile, per una donna, non essere attratta da Vale - Vale? Siamo già a questo punto? Se fossi al posto di mio fratello ti prenderei a schiaffi- Ma per fortuna non sei al posto di tuo fratello - Già, per fortuna - Vogliamo riprendere la lezione, per cortesia? - Più tardi: ora farei volentieri un bagno. Anche Tegame è d'accordo. Ti unisci a noi? - Il bagno ad aprile? Sei matto - Fa caldo - E poi non ho portato il costume - Neppure io: è un problema? - Certo che lo è - Oh, scusi, professoressa - Ti prego di evitare le facili ironie - E tu i falsi pudori - Perché falsi? - Dai, vieni a fare il bagno: ti giuro che terrò gli occhi chiusi - Non se ne parla nemmeno. - Dovevo aspettarmelo. Ecco un’altra conseguenza del divario generazionale che ci separa, come lo chiami tu. In altre parole, sei troppo vecchia per certe cose - Sei molto gentile a farmelo rilevare _._ - Asciugati bene, o ti prenderai un malanno - Sì, mamma - Non stare all'ombra bagnato. Passami quell'asciugamano - Sì, mamma - Mettiti la camicia. Sei proprio buffo, così arruffato; vieni qui, che ti asciugo i capelli - Ti bagno la gonna - Non importa. Vorrei sapere che gusto ci provi a fare il bagno in questo torrente, quando a casa hai la piscina - Sarebbe come chiedere a un uccello perché preferisce stare su un ramo piuttosto che in gabbia. Ah già, dimenticavo: tu forse preferisci la gabbia - Dipende dalla gabbia - Anche se fosse d’oro, è finta, professoressa, è morta. Come la piscina, come l'acquario- Può darsi che tu abbia ragione - E adesso perché sei triste? Non voglio che tu sia triste - A volte penso che dovremmo lasciar perdere tutto, ragazzino - Stai scherzando? Tu sei il mio futuro - Il tuo futuro? - Scolastico! - Peggio di così non potrebbe andare: mi sfuggi dalle mani come un’anguilla - Vuoi che te lo dica? La verità è che comincia a piacermi studiare con te, e questo mi secca: avevo giurato a me stesso di odiare la scuola - Lo dici solo per farmi contenta - Naturalmente. Metti su quel CD, per favore? - Dobbiamo studiare! - Non rompermi le scatole: ti ho appena confessato una verità imbarazzante, ho bisogno di starmene un po’ in pace con me stesso - Che strano pezzo: cosa dicono le parole? - Lasciamo perdere: il testo è un po' pesantuccio per una brava ragazza come te - Pensi che quello che non scandalizza te possa scandalizzare me? - Non lo penso: ne sono assolutamente certo (Silenzio) - Mi vuoi spiegare cosa sta ripetendo? È uno slang impossibile - Lasciami almeno cercare un sinonimo decente: non voglio farti arrossire - Allora? - All'interno della copertina ci sono le parole: leggile, se vuoi. Poi però non incazzarti con me (Silenzio) - Be’, questa poi... -


- Senti, non pretendo che apprezzi questo genere di musica. Leggi i tuoi libri e non rompermi le palle - Ma perché tiri fuori le spine? Non sono scandalizzata. È un testo intenso, forte, disperato. Mi ricorda Catullo, Rimbaud... - Non è necessario che ti ricordi nessuno. Rilassati, professoressa (Silenzio) - Perché bruno? - Perché bruno cosa? - Alcibiade - Stai ancora pensando a lui? Perché il bruno si addice di più al suo temperamento passionale - Che razza di banalità, professoressa! - Spiacente di averti deluso - Non ti piace il biondo? - Meno del bruno - A me non piace il bruno: segna troppo nettamente il confine tra maschio e femmina. La sessualità precisa mi ripugna - Che strani gusti, ragazzino - Strani perché? Preferiresti che io fossi attratto, come la maggior parte degli uomini, dalle sporgenze del corpo femminile? - Sarebbe normale - Non ho mai detto di voler essere normale. La normalità è volgare. Ti faccio un esempio. I miei compagni, quando vedono passare una ragazza carina in corridoio, dicono che vorrebbero farsela. Perché ridi? - Conosco quell'espressione, ragazzino. Il divario generazionale che ci separa non è poi un abisso - Ecco, quell’espressione mi fa schifo: io non amo l’attivo - “Farsi” qualcuno non è attivo: è medio d’interesse - Grazie della precisazione. Il concetto comunque è che io non vorrei farmi nessuno. Io amo il passivo - Non mi piace per niente quello che hai detto - Perché? C'è una profonda saggezza, invece. Da tutti i punti di vista, se ci pensi, è la natura che ti fa: non decidi tu di nascere, non decidi tu di vivere, non decidi tu di ammalarti e di morire; tanto vale lasciarsi fare - È un punto di vista molto pericoloso - Pericoloso è vivere, professoressa, comunque tu la metta (Silenzio) - Spiegami il participio - A cosa devo questa decisione eroica? - Attenta, mamma: se continui a fare domande, prima o poi mi toccherà risponderti-


A carte coperte

Una tozza farfalla nera con le ali punteggiate di rosso si posò sui capelli di Emmanuel: la raccolse con delicatezza sull'indice e si mise ad osservarla. - È ferita - disse - Non credo che ce la farà. È triste, se pensi che aveva solo pochi giorni da vivere La sospinse in aria con un colpetto della mano e la guardò allontanarsi con un goffo volo zigzagante. - Le farfalle - disse - sono i peggiori volatori del regno animale. Ma è sempre meglio che restare a terra La morte di Kurt Cobain, vero e proprio shock generazionale, lo aveva sconvolto. Aveva spesso cadute di umore verticali; perciò facevo il possibile per distrarlo. Mi chinai su di lui. - Ehi, che c’è? - gli chiesi affettuosamente. Ero seduta su un tronco d’albero abbattuto dal vento, in posizione dominante. Rovesciò la testa all’indietro e la appoggiò accanto alle mie ginocchia; la sua espressione era visibilmente sofferente. - Oggi sei molto distratto. Ricominciamo daccapo: dovevi leggere - Chi sarebbe quello distratto? Ho appena letto - Davvero? - Non vorrai che lo rifaccia: detesto i distici elegiaci - Coraggio allora, traduci - Dicevi un tempo, Lesbia, che facevi l'amore solo con Catullo, e che non avresti voluto abbracciare neppure Giove al posto mio. Ti amai, allora, non tanto come il volgo ama un'amante, ma come un padre ama i figli e i generi. Adesso so chi sei: perciò, anche se brucio con maggior violenza, tu sei per me molto più vile e spregevole. Com'è possibile, dici? Il fatto è che un'offesa del genere costringe un amante ad amare di più, ma a voler bene di meno - Molto bene. Attento a qui nel penultimo verso: sta per quomodo. Mi ascolti? Emmanuel, seduto nell'erba a gambe incrociate con il libro appoggiato sulle ginocchia, non rispose e non alzò lo sguardo. Chiuse il volume, strappò un filo d'erba e si mise a masticarlo. Non era il caso di insistere. - Se hai fame ci sono dei panini nel cestino - Cosa contengono? - Prosciutto - Allora no, grazie Tacque un attimo ed aggiunse: - Penso che diventerò vegetariano - Un piccolo seguace di Pitagora? - Ammiro tutto di Pitagora. A parte quella strana storia delle fave, che non ho mai capito- Nemmeno io Raccolse un sasso bianco percorso da venature rossastre. - A saperle osservare, anche le cose più insignificanti si rivelano bellissime - disse. - Be’, sì, per essere un sasso non è niente male - Non ti capita mai di sentire che ti manca qualcosa, senza che tu riesca a capire cosa? Specialmente in certi giorni estivi, dopo la pioggia, non ti è mai successo che l'odore del fieno appena tagliato ti dia un senso di vertigine, una specie di tuffo all'indietro in un'infanzia che non hai mai vissuto? Dura solo un attimo, ma hai l'impressione che in quell'attimo ci sia il senso della vita - Se mi capitasse troppo spesso prenoterei una visita dallo psichiatra - Non scherzare. È una domanda seria - Sì, - ammisi - mi è successo - E che rimedio c'è? - Solo uno: mettersi a fare altro e dimenticarsene al più presto Scosse la testa. - Dimenticare non è un rimedio Una brezza tiepida si levò dal torrente, portando con sé un sentore stagnante di acquitrino.


- Hanno di nuovo buttato nell'acqua dei sacchetti di plastica - disse - Vogliono ucciderlo, questo torrente. Sarebbe ora che si rendesse obbligatorio il riciclaggio dei rifiuti, non credi? - Hai ragione - Ricordami di raccoglierli, prima di andare via. Si sono arenati sotto quella pianta là - È un nespolo - Sei una specie di enciclopedia ambulante, ma le risposte alle cose importanti non le sai- Non le sa nessuno, ragazzino - Io però ti voglio bene lo stesso, anche se sei una professoressa ignorante Tacque a lungo. Poi chiese all’improvviso: - Pensi che io sia un perdente? - Che cosa intendi? - Oggi nell'acquario ho visto un piccolo pesce con una strana muffa bianca addosso; l’ho osservato meglio e mi sono accorto che era ferito. Sono andato a comprare un disinfettante; quando sono tornato l'ho trovato mezzo divorato dagli altri pesci. Non sapevo che fare, ero tentato di andarmene e lasciarlo mangiare vivo. Mentre stavo lì a pensare è passata Teresa. Mi ha detto che era da vigliacchi lasciarlo soffrire, che mi avrebbe aiutato a finirlo; così l'abbiamo tolto dall'acqua e l'abbiamo ucciso con una goccia di formalina. È stato orribile - Non c'è nulla di strano in tutto questo. Gli elementi sani avvertono l'istinto di eliminare quelli malati, deboli o anormali; per questo li uccidono. È un comportamento naturale - Come fanno i pesci sani a distinguere quello malato? - È diverso, si comporta stranamente. Anche le galline fanno così - Teresa è saggia. I miei mi dicono sempre che le dò troppa confidenza. Non trovi insopportabile l’aria di sufficienza che hanno nei suoi confronti? - Purtroppo anche questo è un comportamento naturale Cambiò improvvisamente argomento. - Avere a che fare con un’ex prima della classe è un po' noioso, ma ha i suoi vantaggi: sto scoprendo molte cose Provai un grande piacere per queste sue parole. - Per esempio? - Quei versi di Catullo. Mi hanno fatto star male, non so perché: ho avuto l’impressione che mi riguardassero personalmente Tentai di sdrammatizzare. - Ma cosa vuoi saperne tu? Quando Catullo scrisse quelle parole era stato tradito e umiliato dalla donna che amava; non mi risulta che tu abbia vissuto esperienze analoghe Mi accorsi subito di avere commesso una gaffe; alzò gli occhi a guardarmi con un’espressione profondamente offesa. - Potresti evitare di farmi pesare così la mia inesperienza - disse - E poi, certe cose non c'è bisogno di provarle per saperle Tornò ad abbassare lo sguardo. - Ti lasci coinvolgere troppo, - dissi - ma è normale alla tua età. Crescendo imparerai a frapporre fra te e la realtà esterna un filtro critico e a prendere le distanze dalle esperienze che vivi. Un giorno riderai di tutto questo Non rispose. - A cosa pensi? - gli chiesi. - Al mucchio di cazzate che hai appena detto. Formulate con una certa eleganza, ma pur sempre cazzate: se non sbaglio si chiama retorica - Non essere arrogante - A volte, con tutta la tua cultura, sai essere molto insensibile - Tu mi costringi a credere nelle superstizioni astrologiche, Emmanuel - Cosa c’entra l’astrologia? - Dicono che i nativi del tuo segno zodiacale siano convinti di avere un animo particolarmente delicato: sembra che tutto ciò che accade debba avere una diretta relazione con loro, sia fatto apposta per ferirli. Non ti ha mai sfiorato il sospetto di essere un po’ egocentrico? - Sei molto ingiusta; e superficiale, anche - Ecco un altro cliché tipico del tuo segno: la profondità. Sei una collezione di luoghi comuni, ragazzino -


- Continua pure: a proposito di luoghi comuni, sono anche un po’ masochista. Adoro essere insultato - Scusa, in che senso sarei superficiale? - In tutti i sensi. Manchi di intuito: se le cose non ti vengono spiegate e dimostrate, se non sono razionalmente classificabili, ne concludi che non esistono. Hai una visione parziale e distorta della realtà - Questi discorsi emanano un inconfondibile odore di stregoneria, di alchimia, di Medioevo. Sei figlio della luna, ragazzino - Tu non sei troppo diversa da me, professoressa, solo che non te ne sei ancora accorta- Ecco, ci mancava la profezia Si alzò, appoggiò la schiena e la suola d'una scarpa a un tronco d'albero e si mise a lanciare sassi nel torrente. Di solito lo faceva per scaricare la tensione nervosa. Avvertii un po' di imbarazzo, come se presagissi la piega che stava per prendere il discorso. - A te invece l’esperienza non manca, vero? - chiese a bruciapelo. - Sono una donna, ragazzino - Come ci si sente ad avere quel tipo di esperienza? - È un’abitudine come un’altra - Addirittura un’abitudine? Tacqui. - Allora ne hai molta, di esperienza - incalzò. - Non essere indiscreto Scagliò un sasso al di là del torrente. - Non sono indiscreto, sono geloso - Geloso? - Faccio le veci di mio fratello. Allora? Quanta? - Né troppa né troppo poca. Non ero una ragazza precoce - Quanti anni avevi? - Quanti anni avevo quando? - Lo sai benissimo - Non sono affari tuoi - dissi seccamente - Apri subito il libro: per punizione farai l’analisi da solo; hai dieci minuti di tempo Mi guardò con mite stupore: - Per punizione di che? - Della tua insolenza - Non avevo la minima intenzione di offenderti Tornò a sedersi e aprì il libro. Mentre tentava di destreggiarsi con l’analisi sfogliai il suo quaderno di appunti; l'ultimo brano, vergato di sbieco con una calligrafia contorta, non assomigliava affatto a una traduzione di latino: Sono le due di notte e non riesco a dormire. Di solito quando soffrivo d'insonnia ascoltavo musica in cuffia, ma dopo la sua morte assurda non posso più. Mi devasta, vado in pezzi. Il silenzio è spaventoso. Spaventoso il senso di solitudine. L'impressione è che tutto giri alla rovescia; peggio: che tutto giri per il verso giusto mentre io vado alla rovescia. Vorrei essere uno zingaro, vorrei vivere fluttuando, vorrei lasciare aperte tutte le porte, nessuna esclusa. Ho una terribile paura di scegliere, di perdere scegliendo la disponibilità totale verso la vita. Non permetterò a nessun ideale di rendermi cieco, a nessun dogma di paralizzarmi. Il marasma è completo dentro di me e il sogno di bellezza si fa sempre più intenso e necessario, come la spinta del sangue nel mio corpo. Quando sento gli altri parlare d'amore le corde del mio animo penzolano morte. Non m'importa niente di essere amato in quel modo. Eppure il bisogno dell'amore in me è fortissimo, mi proietta fuori di me a cercar di annullare la solitudine che è la fonte di ogni sofferenza. Ma fuori c'è la vita, e la vita, quella vera, ha un sapore orribile oppure è godimento puro, senza vie di mezzo. La vita è un'amante sadica, mi scopa con violenza. Waste me, rape me my friend, scopami oppure ammazzami, do it and do it again, fa male ma mi piace, e mi piace solo così. Ma ho paura, non sono pronto a morire. Ho bisogno di lei. È sua questa insonnia, l'insonnia di tutte le mie notti: penso a lei finché il sonno mi coglie e il dolore se ne va, la paura scompare, resta solo il suo abbraccio cullante di madre e una sensazione di benessere così intenso che non riesco più a controllare le mie reazioni fisiche, il mio corpo trabocca di piacere e poi sparisco in un sogno, e forse è questa la morte, un'amante più dolce.


Chiusi il quaderno e non volli leggere oltre. Non era più un bambino, dopo tutto. Ero spaventata dalla negatività dei suoi pensieri più segreti, quelli che non comunicava a nessuno, nemmeno a me. E mi sentivo ferita, espropriata di un bene non mio, una sensazione dolorosa e inutile che rimossi immediatamente. Emmanuel era innamorato e non me n'ero accorta. Mi pareva impossibile immaginarlo alla prese con quelle sue notti tormentate guardandolo adesso, tutto concentrato sul testo latino, con le sopracciglia corrugate nello sforzo di sbrogliare la matassa sintattica. A me sembrava così infantile, così lontano da quelle torbide fantasie sessuali; una vampa di rossore mi salì alle guance al solo pensiero di ciò che pure era ben naturale per un ragazzo di sedici anni. Chi poteva essere lei? Forse una sua compagna. E come aveva potuto un'ochetta qualsiasi conquistarsi tanto spazio nella sua anima schiva e introversa? Lo osservai con una specie di strana timidezza mentre si girava e si rigirava cercando inutilmente una posizione comoda nell’erba. Lo sentivo lontano, se ne stava andando. - Comunque i perdenti sono più simpatici, non trovi?- disse a un tratto. Di proposito non lo rimproverai per avere interrotto l'analisi. Avevo voglia di sentire la sua voce. - In che senso? - chiesi. - Pensa a Paperino, a Duffy Duck, al Wilcoyote: tutti tifano per loro. Invece Topolino sta antipatico a tutti - Be’, sai, nei cartoni animati le cose sono un po’ diverse dalla realtà - A te non piacciono i cartoni animati? - Solo quelli classici - Anch’io detesto le animazioni fatte al computer. Mia madre ha dei vecchi filmini di Walt Disney di quand'era bambina; pensa, non hanno nemmeno il sonoro e bisogna proiettarli con quei vecchi trabiccoli che si usavano una volta. Ma hanno un fascino incredibile. Ce n’è uno dove perfino Topolino è simpatico; è il mio preferito: si vede Topolino che porta Pluto a una mostra di cani, fa una figura orribile e i giudici li cacciano. Alla fine Pluto salva una cagnetta rimasta intrappolata in un incendio e gli danno una medaglia al valore - Me lo ricordo: è molto carino - L’hai visto anche tu? - Sì, tanti anni fa - Davvero ti piace? - Moltissimo - Sul serio? Allora mi prometti che guarderemo insieme dei cartoni animati? - Va bene, te lo prometto, ma solo se studi - È un ricatto, professoressa? - In piena regola - Okay, ci sto Si alzò a sedere. - Posso usare le tue gambe come cuscino? - chiese, e prima che io gli rispondessi si distese supino appoggiando la testa sulle mie cosce. Mi raggiunse il suo odore di giovane animale accaldato e mi sentii improvvisamente bene. Gli arruffai i capelli con gesto scherzoso, ma lui trattenne la mia mano. Colsi il suo bisogno di calore umano. Piegai un po' le ginocchia per avvicinarlo a me. - Ti secca se ti tengo la mano? - C’è nient’altro che desideri? - Sì, ma ti arrabbieresti se te lo dicessi, mamma - Le mamme sono comprensive. Lasciami indovinare: preferiresti essere in braccio a qualche tua compagna che non sa una parola di greco? - Acqua - Non una tua compagna? Allora un’amica - Fuochino - Vedi che pian piano ci sto arrivando - Allora è meglio che ti fermi. Il sole ti ha fatto spuntare le lentiggini sul naso - Davvero? - Hai un naso bellissimo - Grazie - Sei rossa naturale, vero? - Sì, ma i miei capelli sono un po' più chiari di così -


- Stai molto bene - Quanti complimenti oggi. È per farti perdonare l'analisi lasciata a metà? Non rispose. Si limitò a sorridere. Ci fu un lungo silenzio pieno di crepe. Alla fine lo ruppe. - Scopriamo le carte? - chiese dolcemente. - Come? - Sei più bambina di me - Non ti capisco Si accorse che avevo i brividi. - Fa freddo - Come non detto. Scusami. Continuiamo pure a carte coperte Chiuse gli occhi, lasciando che gli ravviassi i capelli spettinati per qualche minuto. Poi sospirò profondamente e si alzò, scotendo via con le mani la polvere e i fili d’erba che gli erano rimasti appiccicati addosso. Si voltò a guardarmi e mi tese la mano. - Andiamo - disse - S'è fatto tardi -


Nello specchio

Sembrava un angelo malato, la testa reclinata sull’aureola bionda contro la spalliera della poltrona di velluto. Sembrava, cioè sembravo. Quell’angelo malato ero io, la sua immagine riflessa nella grande specchiera inglese dello studio. Stava cercando di studiare filosofia, ma non poteva. C’era quel ticchettio aritmico, sembrava che l’orologio a pendolo stesse per morire, era impossibile sopportare il suo rantolo, e c’era il naufragio di fango che gli inzaccherava l’anima, e fuori della finestra i suoi pensieri che nuotavano frustati dal vento fradicio, e c’era Eloisa seduta sul divano in salotto con suo fratello ed alcuni amici. Li scorgevo attraverso la porta aperta. Abbandonò Aristotele, chiuse il libro e scivolò silenziosamente in salotto. Io mi spensi, lui accese il televisore abbassando il volume e cominciò a sfogliare una rivista zeppa di belle donne e di begli uomini, come se riprodurre la bellezza fosse alla portata di tutti. Mentre osservava una impossibile bionda dalle labbra vampiriche esibire candori inquietanti attraverso trasparenze nere a sostegno di qualche entimema idiota, dall’altra parte della stanza lei chiacchierava con suo fratello ed i suoi amici, tutti ragazzi bene con villa in zona Val Salice tranne Sergio che non a caso stava quasi sempre zitto, attento a ricalcare accuratamente l’atteggiamento di Giuliano, che poi a ben guardare era quello di tutti quei giovani yuppies. Le ragazze, griffate dalla testa ai piedi, fumavano e tacevano, oppure chiacchieravano di argomenti femminili. Sentivo i suoi pensieri. Voltò una pagina pensando mi fai schifo e lei se ne accorse: si girò con un sorriso e lo salutò come se lo vedesse solo allora. Anche gli altri gli fecero un cenno e bofonchiarono qualche saluto che fu presto riassorbito dal disinteresse generale. Era questo l’atteggiamento abituale degli adulti nei suoi confronti: nessuno gli voleva male, anzi forse gli volevano quasi bene, come si può voler bene ad una creatura innocua, tardigrada, sonnolenta, inetta a vivere. Sfogliava quelle pagine avanti e indietro, sempre le stesse, e ascoltava distrattamente i loro discorsi. - È un mafioso e un figlio di buona donna, - stava dicendo Riccardo - se no come mi spiegate il suo successo in Sicilia? Prima o poi i giudici arriveranno anche a lui - Chi, le toghe rosse? - disse Paolo - Ma fammi il piacere! - La magistratura italiana non garantisce più la certezza del diritto - sentenziò Massimiliano, quello con la erre moscia. - E poi sentite, chi se ne frega? - disse Marco - Quand’anche fosse, è il solo personaggio rappresentativo di questo cesso di paese - Vero - assentì Sergio. Riccardo scosse la testa: - Mi dispiace ma non sono d’accordo: io dai cuginastri baüscia non mi aspetto niente di buono. La politica è una cosa seria, non è come mettere su una squadra di calcio o vendere prosciutti in TV - Sei sicuro che ci sia questa gran differenza, Riky? - intervenne suo fratello, tutto ragionevolezza e buon senso - I cuginastri hanno imparato la lezione da noi. Siamo stati noi i primi a capire che la squadra di calcio è la miglior pubblicità. Poi ti assicuri il controllo di stampa e TV e il gioco è fatto. Si chiama democrazia, no? Era molto elegante quel pomeriggio: indossava un maglioncino girocollo di cachemire azzurro polvere sulla camicia bianca e pantaloni di velluto a coste color crema. Suo fratello, nonostante la sua tendenza all’understatement, era un bel ragazzo. Notai che sorrideva ad una bruna dal seno prorompente, una certa Laura. Eloisa non se ne accorse neppure. - Vorrei vedere voi al suo posto, - disse Marco - se con tutti i suoi soldi fareste la vita che fa lui; io sarei già partito per le Bahamas e chi s’è visto s’è visto - E meno male che non lo fa - disse Giorgio, figlio di un noto penalista - I sinistri non sanno far altro che ammazzarci di tasse e spalarci addosso merda extracomunitaria. Guardate San Salvario - A proposito, - lo interruppe Riccardo - la sapete l’ultima sull’immigrato che vuole iscriversi al Lions? La raccontò: non era affatto divertente. Tutti risero, tranne Valentino, assorto nei suoi pensieri, ed Eloisa, che, appoggiata all’indietro contro lo schienale, dondolava la gamba destra accavallata sull’altra in modo da lasciar intravedere il reggicalze. Colsi di nuovo il suo pensiero, commicta lupa. Valentino ebbe un pallido sorriso guardando a sua volta la


parete davanti a sé: era evidente che Eloisa stava facendo breccia in qualche modo nei suoi sensi distratti. - Comunque è un genio - riprese Giorgio - È riuscito con la pubblicità dove industriali più potenti di lui hanno fallito. Questa è classe, ragazzi - Chiudere tutto - insistette Marco - Chiudere tutto e partire per le Bahamas - Più che giusto - plaudì Sergio. All’improvviso Eloisa parlò: - Evidentemente, se non lo fa, è perché ha il suo tornaconto Giuliano sorrise con l’aria di dire adesso vi spiego tutto io bambini miei: - Sentite, stiamo confondendo due piani diversi: vogliamo parlare del politico o dell’industriale? - Sulla figura dell’industriale non si discute - disse Giorgio - Basta pensare al nuovo centro commerciale di Grugliasco - E qui ti volevo: quel centro commerciale è una vera puttanata - disse Riccardo, e si lanciò in una polemica in difesa dei piccoli commercianti. Ad un tratto si sentì una serie di squilli. Teresa apparve sulla soglia e comunicò che il signorino Giuliano era desiderato al telefono. Il signorino si alzò per rispondere facendo un gesto a Riccardo come per dire ma va’ là mattacchione. La bruna lo seguì con lo sguardo e lui le strizzò l’occhio prima di scomparire nella stanza accanto. - A proposito, - sogghignò Giorgio - lo sapevate che Maurizio ha passato un mese in crociera con suo figlio? C’era anche quell’attricetta porno... Cominciò a raccontare aneddoti spinti: le ragazze si fecero attente, Valentino si alzò e si mise a guardare la pioggia fuori della finestra, con le mani in tasca; Eloisa tamburellava con le dita sul bracciolo della poltrona; dopo un po’ disse: - Ragazzi, il livello della conversazione si sta paurosamente abbassando - Per favore Eloisa, non cominciare - protestò una ragazza bionda - Per una volta che si tocca un argomento un minimo interessante... - Che ci trovi di interessante nelle corna altrui, Mariaelena? - Meglio parlare delle corna altrui che godersi le proprie - sentenziò Marco, e lanciò un appello - Alzi la mano chi è sicuro di non averle Tutti risero e nessuno alzò la mano: notai un frenetico scambio di sguardi fra ragazzi e ragazze. Valentino si voltò, appoggiò le spalle al muro e rivolse un breve sguardo a lei; poi all’improvviso spostò gli occhi su di lui e lo apostrofò: - E tu, Emmanuel? Si guardò attorno: non c’era nessun altro Emmanuel. - Io cosa? - Sei fedele alla tua ragazza? Numerose paia di occhi si posarono su di lui, ma lo sguardo di Eloisa rimase fisso a terra: vedevo il suo profilo immobile. - Io non ho la ragazza, - rispose educatamente - ma se l'avessi cercherei di esserle fedele Spense il televisore, si alzò, uscì dalla stanza e tornò a sedersi davanti a me. Tremava. Chiuse la porta, ma riuscì ugualmente a distinguere le voci che provenivano dal salotto. Suo fratello era ancora al telefono. - Se fossi il padre di Giuliano - disse Riccardo - non mi sentirei per nulla tranquillo con quel ragazzino - Sta diventando caruccio, non vi pare? - disse la voce di Valentino. - Sì, non è male, - ammise Riccardo - ma ha qualcosa che non mi convince - Sentiamo l’opinione delle ragazze - intervenne Giorgio. - Io lo trovo maschilmente inesistente - disse Lucetta. - I ragazzini non sono il mio genere - si schermì Mariaelena. - Piuttosto i cinquantenni, vero Mariaelena? - disse Laura con aria d'intesa. - Stellina? - chiese Giorgio. - Io sinceramente lo trovo arrapante. Ha una bocca...- Devi essere lesbica, Stellina - commentò Mariaelena. - Perché? - Ti piacciono le bionde Ci fu una risata. - Zitti tutti - riprese Riccardo - Sentiamo il parere di un'esperta: Eloisa, che ci dici del tuo cognatino? Lei soffiò via una boccata di fumo.


- È un ragazzo molto particolare - Particolare in che senso? - insistette Riccardo. - Sensibile - rispose secca. - Anche troppo, direi - ironizzò Massimiliano - Se l’è data a gambe - È normale, - disse Eloisa - Valentino l'ha messo in imbarazzo e vorrei proprio capire perché l'ha fatto. Ha solo sedici anni La sentii accendersi un’altra sigaretta. - Io a sedici anni ero più sveglio - disse Giorgio - Lui ha l’aria di pensare ancora ai trenini - Alle bambole, vorrai dire - intervenne Marco. - D’altronde - concluse Sergio - stava leggendo una rivista femminile Si udì un coro di risate. - Adesso basta - disse lei con tono cattivo. Ci fu qualche secondo di silenzio. - Be’, Eloisa, - disse Giorgio - non c’è che dire, la prendi sul serio la tua parte di cognataLei aspirò ancora una boccata di fumo e ripeté perentoria: - Ho detto basta. Parliamo d’altro, d’accordo? Il discorso finì lì, ma lui non lo seppe mai, perché s'era alzato ed era andato a buttarsi sul letto. Verso sera lo vidi uscire dalla sua camera e dirigersi in cucina: chiese una cioccolata calda a Teresa. Incrociò Eloisa sulla soglia del guardaroba; aveva il soprabito sul braccio. La guardò negli occhi con un'espressione che non saprei descrivere e non disse nulla. Lei ebbe una specie di sorriso e lo spinse dentro il guardaroba. - Torna a studiare, ragazzino Fece per andarsene. Sulla soglia si girò, tornò da lui, gli diede un bacio in fronte e disse: - Ci vediamo domani Poi uscì. Non gli fu facile spiegare a sua madre, mezz'ora dopo, cosa ci facesse dentro la sua pelliccia di visone.


Scoprendo le carte

Emmanuel, sdraiato al mio fianco, pareva non avvertire la mia presenza: teneva la zampa a Tegame e osservava la luce del sole filtrare tra i rami. Quel giorno emanava una bellezza ipnotica: non riuscivo a distogliere lo sguardo da lui. Faceva caldo e aveva la camicia completamente aperta; vedevo il suo torace delicato, solcato da un rigagnolo di sudore, sollevarsi in lunghi respiri. L’anno scolastico volgeva al termine: il mio compito poteva considerarsi concluso. Lui aveva riscattato quasi tutti i suoi insuccessi e sarebbe stato promosso. Giuliano era orgoglioso di me; avevo ricevuto i complimenti della signora Helena e perfino del taciturno ingegner Kellermann, un personaggio per me indecifrabile. Ero soddisfatta dei risultati ottenuti, ma sottilmente infelice. Mi ero abituata ad attendere con impazienza il momento in cui mi avrebbe detto sali e mi avrebbe caricata sul suo scomodo motorino per portarmi al torrente, fra scossoni, risate e continui rischi di cadute. C'era qualcosa di strano nel suo silenzio: avevo provato a romperlo con qualche frase di circostanza, ma aveva sempre lasciato cadere il discorso, come se seguisse il filo dei suoi pensieri e non volesse essere disturbato. - È duro essere maschi a sedici anni - disse ad un tratto. - Perché? Sei molto carino, non ti sarà difficile avere successo con le ragazze - Può darsi - Come sarebbe, può darsi? - Voglio dire, penso che potrei averne, di successo. Non ho mai provato - E cosa aspetti? Sei grandicello ormai - Non ho fretta. Non voglio che la mia prima volta sia una qualunque Tacque per qualche minuto. - Perché dai per scontato che io voglia piacere alle ragazze? - chiese all’improvviso, senza guardarmi. - Che intendi dire? - Hai capito benissimo - Non ho capito nulla - Com'è che sei così poco perspicace quando non ti va di capire qualcosa? Comunque ti spiego: io piaccio anche ai ragazzi, e non escludo che i ragazzi possano piacere a me. C'è un mio compagno di seconda, per esempio, che mi intriga moltissimo - Dimmi che stai scherzando, per favore Scosse la testa. - Quanti pregiudizi ti porti dietro Il suo diario parlava di una lei, non di un lui. Non riuscivo più a raccapezzarmi e sentivo un forte dolore allo stomaco. - Non sono pregiudizi, Emmanuel. Vedi, è normale che tu piaccia ai ragazzi: hai lineamenti delicati, non hai ancora la barba; ma sei un maschio, maledizione- È strano che sia proprio tu a farmi questo discorso - Sei un ingenuo se pensi di prendermi in contropiede sul mio terreno: l’omosessualità in Grecia aveva un significato diverso. Non so, c’è qualcosa di violento, da parte di un maschio, nel desiderare te: non mi piace pensarti in questa situazione, non mi piace proprio; a meno che non sia una tua esigenza profonda... - Vuoi dire un'esigenza sessuale? No, non credo: è semplicemente che le mie coetanee non sono interessanti; è addirittura imbarazzante quanto sono limitate le loro prospettive - Stai generalizzando - Molti musicisti sono omosessuali: ci deve pur essere un motivo - Può darsi, ma non ho voglia di capirlo - Fai male: bisogna sempre capire il perché delle cose. Il punto se mai è un altro: qualsiasi abitudine sessuale è bella finché sei giovane. Poi tutto diventa disgustoso - Grazie del complimento - Non ce l'ho con te. E poi tu sei giovane. No, stavo pensando a certe rockstar che erano dei miti a vent'anni, erano completamente fuori di testa e tutto quel che facevano sembrava bello. I più fortunati sono quelli che sono morti subito - Non dire assurdità -


- Non sono assurdità. Guardali adesso, quelli che sono sopravvissuti: banali quelli che si sono integrati, penosi gli altri. Non sono capaci di rassegnarsi all'invecchiamento, credono di combatterlo sposando le fotomodelle, si prendono ragazze sempre più giovani e non si accorgono di essere assolutamente patetici - Sei molto severo - Lo sono anche con me stesso. Il problema è anche mio, non credo che sarei capace d'invecchiare bene. Una cosa comunque è sicura: preferirei morire piuttosto che ridurmi così - Non c'è nessun bisogno che tu ti riduca così: puoi diventare come… - Esitai e mi resi conto che stavo per dire qualcosa di sbagliato. Lui finì la frase: - Come mio padre e mio fratello? Ebbe uno strano sogghigno e scosse la testa. - No, grazie. Non fa per me Stavo cercando una risposta, ma lui cambiò argomento all’improvviso. - Mi stavo domandando se qualcun altro, oltre a me, si è accorto che mio padre ha un’amante - Che stai dicendo? - Hai osservato i suoi occhi da un po’ di tempo a questa parte? Fulmineo come un flash mi attraversò la mente il ricordo di una strana sensazione, come di liquido viscoso e bollente, che avevo sentito posarsi sulle mie gambe accavallate qualche giorno prima in salotto. Alzando lo sguardo avevo incontrato gli occhi di suo padre. Avevo scrutato per un attimo i lineamenti belli ma stranamente sfatti di quel volto che doveva essere stato simile a quello di Giuliano e avevo provato una sensazione di disagio. - Fortuna che la mamma è troppo distratta per accorgersene. Povera mamma, non ha ancora capito come sono fatti gli uomini ricchi. Non voglio diventare come lui per nessuna ragione al mondo - concluse, con un tono che non ammetteva repliche. - Per adesso mi sembri molto diverso - Grazie per essertene accorta: non ci voleva Sherlock Holmes Non riuscivo a capire perché fosse così polemico quel pomeriggio. Si distese supino nell'erba, raccolse un quadrifoglio e se lo portò alle labbra, riassorbito da qualche suo pensiero. Ebbi l’impressione che mi toccasse, ma non erano le sue mani: lui non si era mosso. Poi disse all'improvviso: - Lo sai che è finita, vero? - Finita cosa? - Finita. Non ci rivedremo più, non ce n'è motivo. Sembra che la cosa non ti tocchi - Su col morale, ragazzino: è solo questione di aspettare il prossimo autunno - Insomma, se voglio rivederti devo per forza fare schifo a scuola - Ma no, che sciocchezza. Ci vedremo tutti i giorni a casa tua: sono la fidanzata di tuo fratello Scosse la testa con un sorriso acido. - Quanto sai essere banale - Banale in che senso? - Banale nel senso di banale Mi stavo irritando. - Scusa, potresti chiarire meglio il concetto? - Banale come il tuo comportamento di ieri. Ma dimmi un po', la maschera la porti con me o con loro?- Io non porto maschere - No? Be', allora è peggio di quel che pensassi. Se sei davvero così non vali molto - Bene, - gli dissi - meglio così: almeno non perderai tempo a rimpiangermi - Invece sì - rispose - Vedi, è proprio questo il punto. Ti rimpiangerò lo stesso - Allora sei uno stupido Mi rivolse uno sguardo freddo. - Meglio stupido che stronzo Si tirò su a sedere e mi girò la schiena. Sospirai. - Emmanuel, non ho nessuna voglia di litigare con teRimase di spalle e non disse nulla. - Lo ammetto - dissi - È una maschera. Sono costretta a portarla per non essere tagliata fuori, capisci? -


Annuì senza parlare. Gli accarezzai un braccio. - La vera Eloisa è questa Si voltò e mi fissò con uno sguardo tagliente. - Questa, - disse - o quella che sta cercando di farsi scopare da Valentino? Avvampai. - Non ti permetto queste basse insinuazioni. È solo un gioco, una piccola provocazione innocente, tutto qua Si distese nuovamente prono nell'erba, fissando il quadrifoglio. - Stai giocando un gioco pericoloso, Eloisa - Pericoloso perché? Non me ne importa niente di lui, la mia vita è serena, ho tutto quello che potrei desiderare - Tentai di scherzare - Perfino un fratellino- Che sarei io, naturalmente - disse. - Sì, sei tu. Tu sei importante per me, Emmanuel Scosse la testa con un mezzo sorriso. - Peccato. Avrei dovuto conoscerti prima - Prima di cosa? - Prima di nascere. Com’eri alla mia età? - Sono passati troppi anni: non me ne ricordo più - Bugiarda. Dovevi essere una ragazzina un po' fuori moda, con le trecce e gli occhiali da vista - È vero Mi guardò con una strana malinconia. - Di solito le ragazze come te sprecano la loro prima volta con un imbecille che le prende in giro. È così? Non risposi. Continuò: - Di’ la verità, ti piacerebbe fare un rewind, riavvolgere la cassetta fino a quel punto e vivere quel momento come lo avevi sempre sognato Continuai a tacere. - Perché non rispondi? - Ti diverti a mettermi in imbarazzo? - Rispondi - È un'inutile crudeltà da parte tua chiedermelo, dal momento che non si può tornare indietro nel tempo - Però ti piacerebbe - Sì - ammisi - mi piacerebbe Annuì nuovamente e non disse più nulla. Dopo una decina di minuti il silenzio cominciò a farsi pesante. - Hai strappato la camicia vicino al colletto - gli dissi. - Sì, è diventata scomoda, non riesco più a chiuderla bene. Ma è quella del nonno, la porto lo stesso Sorrisi. - Non è la camicia che è diventata scomoda, sono le tue spalle che si sono allargate. Hai delle gran belle spalle, sai? Si tolse la camicia, la distese nell'erba, vi si sdraiò sopra e mi guardò con stanca ironia. - Tu sì che sai cogliere la spiritualità nelle cose - disse. Rimase disteso con le braccia aperte e lo sguardo al cielo. Era bellissimo da vedere, non potevo fare a meno di tenere gli occhi fissi sul suo corpo, e lui lo sapeva. Non avrei dovuto guardarlo così: avevo paura di quello che stava diventando, degli appetiti carnali che la sua bellezza spirituale suscitava negli altri, avevo paura delle conseguenze. Rimase a lungo in questa posizione. Gli si vedeva battere forte il cuore. - Emmanuel - dissi. - Sì? - rispose senza muoversi. - Forse dovremmo…All'improvviso mi resi conto che non sapevo assolutamente cosa avremmo dovuto. - Sì, credo proprio che dovremmo - confermò. - Non sai neppure cosa volevo dire Posò il quadrifoglio e si voltò a guardarmi. - Io lo so da una vita - disse - Sei tu che non te lo ricordi Mi fissò con una nudità disarmata negli occhi. Provai un dolore acuto al cervello, rivolsi lo sguardo a terra.


Un minuscolo ragno verde tesseva un filo tra due steli d'erba nel silenzio rotto dal gorgheggio di un usignolo. Mi sono sempre chiesta perché il canto di questo uccello generi in me uno stato di tensione e di disagio, un presentimento atroce, come le campane a festa la domenica. Quando sollevai gli occhi e incontrai nuovamente i suoi il cuore mi si fermò nel petto. - Ti proibisco di parlare ancora - gli dissi. Ma lui non aveva nessuna intenzione di parlare. _._ Tornai in me all'improvviso. Lo specchio s'incrinò, esplose in cocci aguzzi, i suoi occhi la sua bocca la mia bocca le mie mani che profanavano il suo corpo, una scheggia mi si piantò dritta nel diaframma mozzandomi il respiro. Mi alzai di scatto, mi allontanai aggrappandomi alle piante come ubriaca, crollai a sedere sotto un albero e mi presi la testa fra le mani. Dopo qualche istante mi raggiunse, s’inginocchiò accanto a me e mi accarezzò una spalla. - Perché fai così? - disse. Evitai il suo contatto: - Lasciami. Mi disgusti. Non voglio rivederti mai più Non ci fu risposta. Sentii i suoi passi allontanarsi. _._ Il silenzio durava da troppo tempo quando improvvisamente ne percepii il suono innaturale. Il mio primo pensiero fu di paura per lui. Mi alzai, corsi a cercarlo, lo chiamai con il cuore in gola, non ebbi risposta. L'istinto mi disse di dirigermi verso il fienile del vecchio cascinale abbandonato che sorgeva lì accanto. Vidi Tegame accucciato ai piedi della scala a pioli, mogio, con il muso appoggiato sulle zampe anteriori incrociate; mosse appena la punta della coda quando mi vide: gli feci una carezza sulla testa. Salii gli scalini di legno, la mia gonna si impigliò in un chiodo, tirai con forza e la strappai. Finalmente fui in cima. Lui era lì. Raggomitolato come un porcospino, il viso nascosto sulle ginocchia piegate, si dondolava leggermente avanti e indietro senza piangere, come i bambini autistici. Mi inginocchiai accanto a lui. - Scusami - dissi. - Vai via, vattene, vattene - rispose. Feci per toccarlo, ma si ribellò con violenza. - Non toccarmi: non vorrei darti il voltastomaco Provai un senso di scoramento e di impotenza. - Ascoltami, per favore - dissi - Devi sapere come stanno le cose Rimase in un torvo silenzio per qualche secondo; poi alzò la testa, appoggiò il mento sulle ginocchia e rispose: - Parla Mi sedetti nel fieno accanto a lui. - Sono io che sono disgustosa, non tu. Tu non hai colpa. Quello che è successo è normale e comprensibile alla tua età, ma per me è assolutamente imperdonabile: sono venuta meno a tutti i miei doveri Si voltò leggermente. - Aspetta - disse con durezza - Ci sono delle cose importanti da chiarire - Quali? - Banalizzi, mi tratti con offensiva indulgenza; mi fai sentire come il protagonista di uno di quegli squallidi filmetti erotici dove il nipote se la fa con la zia. Se è questo che ti ho comunicato fai bene a odiarmi. Però sappi che non è così. Io ti voglio bene sul serio. E non credere che io non mi ponga il problema di mio fratello: mi dispiace per lui e per te, so che la cosa ti fa soffrire - I miei rapporti con tuo fratello non c’entrano. Il problema è fra me e te: tu mi sei stato affidato dai tuoi genitori, hanno avuto fiducia in me; e soprattutto, avrei dovuto avere rispetto per te - Pensi di avermi mancato di rispetto? - Enormemente Scosse la testa. - Allora è tutto inutile -


- Inutile perché? Ti voglio molto bene, Emmanuel, non posso pensare di perderti comportandomi come una sciocca, capisci? - Capisco. Più che inutile, è impossibile - Ci vorrebbe un miracolo, bambino mio Tentò di sorridere. - I miracoli non li so ancora fare, ma con un po' d'impegno…- Pensi che potrai imparare? - Lo dici tu che con l'impegno si ottiene tutto Gli accarezzai i capelli. - Comunque il vero miracolo è già successo - disse. - Quale miracolo? - Ti ho ritrovata. Anche se ci ho messo qualche secoloAppoggiai una mano sul suo braccio. - Emmanuel, certe volte mi preoccupi: dici delle cose che non capisco. Sembrano delle battute, ma il tono con cui le pronunci è maledettamente serio Mentivo a fin di bene. Di recente m'era stato detto da amici psicologi che l'effetto déjà vu è uno dei sintomi tipici del colpo di fulmine, e siccome l'avevo chiesto in riferimento a me stessa, ero perfettamente in grado di capire. - È così - insistette con convinzione - Fin dal primo momento in cui ti ho vista ho provato un grande sollievo - Sollievo? - Ho pensato "finalmente". Mi sono sentito come uno che ritrova qualcuno che aveva perso. Non so quando, non so dove, ma ti ho già conosciuta. Se solo potessi ricordare il mio nome…- Il tuo nome? - Quello vero Cercai di allentare la tensione con una battuta che non avrebbe potuto capire. - Forse ti chiamavi Abelardo Mi guardò stupito. - Perché proprio Abelardo? Che strano nome. Come ti viene in mente? Sorrisi. - Domani ti presto un libro, così capirai - Un altro libro? Va bene, lo leggerò. Se non altro, stando con te mi farò una cultura - Mi scrutò con un po' di ansia - Perché possiamo stare insieme come fratello e sorella, no? - Sì che possiamo - Allora va tutto bene Rimase per un po' in silenzio a fissare l'orizzonte; poi disse: - Ti giuro che non succederà più: hai la mia parola, puoi fidarti - Di te mi fido: è di me stessa che non mi fido più Appoggiai la fronte sulle ginocchia. - Abbiamo combinato un grosso guaio, ragazzino: non sarà facile andare avanti come se niente fosse - Ci sono abituato - Io invece non ci sono abituata. Non posso prevedere quali effetti avrà tutto questo su di me Si voltò a guardarmi con dolce ironia: - Tranquilla, professoressa. Sai come si dice, no? Per certe cose bisogna essere in due -


La legge di natura

- Addio In piedi sul greto sabbioso del torrente, Emmanuel salutò con un gesto della mano la partenza dei pesci rossi che aveva appena liberato. Ripiegò la busta di nylon in cui li aveva trasportati e se la mise in tasca, osservando il disorientato guizzare dei pesci e trattenendo per il collare Tegame che si avventava abbaiando contro di loro. Seduta sull'argine, scossi il capo con disapprovazione. - Non ce la faranno: moriranno prima di essersi adattati al nuovo ambiente - Forse hai ragione. Ma almeno sapranno cosa vuol dire essere liberi Si voltò e venne a sedersi accanto a me. - Ieri ho sorpreso Teresa mentre stava per uccidere un porcellino d’India: dalle sue parti hanno la barbara usanza di allevare quelle povere bestie per mangiarle - Noi non facciamo la stessa cosa con i conigli? - È vero. Comunque la conosci Teresa: non riesce a resistermi quando le faccio gli occhi dolci. Ha protestato un po’, ma poi mi ha regalato il porcellino - E tu cosa ne hai fatto? - Ho liberato anche lui - Sarà finito in bocca al primo cane di passaggio. La libertà può essere il più terribile dei doni, ragazzino: giocare è divertente solo se conosci le regole - Dipende dal gioco - Che intendi dire? - Anche se conoscessi perfettamente le regole di certi giochi, ti dirò di più, anche se fossi sicuro di vincere, non mi andrebbe lo stesso di giocarli - Quali giochi? - Quelli di società, per esempio - Scusa se te lo dico, ma non hai le idee chiare: dici di amare la natura, ma ti fa orrore la crudeltà delle leggi naturali; ti ripugna la legge del più forte, ma rifiuti le convenzioni sociali. Eppure sono proprio le convenzioni, le leggi, gli ospedali, gli ospizi, gli orfanotrofi, a proteggere i deboli. In natura soccomberebbero - Forse è giusto che soccombano. La mia opinione non fa testo: probabilmente le leggi della natura mi fanno orrore appunto perché sono anch’io dalla parte del più debole - Senza contare che è nella natura dell'uomo darsi delle regole. Ci hai mai pensato?Mi guardò severo. - Non barare, professoressa: prima di tutto l’idea non è tua ma di Protagora, e poi non pretenderai che mi metta a confutare le tesi dei sofisti così su due piedi: le mie armi dialettiche non sono ancora abbastanza affilate. L'intuito però mi dice che c’è qualcosa che non va in quel che dici: se è naturale essere convenzionali, perché non c'è niente di bello in chi vive così? - Non capisco dove vuoi arrivare - La natura è crudele, ma è bella. Osserva i politici, gli intellettuali, la maggior parte dei professori, i tuoi colleghi di università, le famigliole della pubblicità in TV, la gente che va a messa la domenica: non sono belli, perciò non sono veri - Dai per scontato che la verità coincida con la bellezza? - Guarda - Accennò con un ampio gesto del braccio alla cornice delle Alpi che svettavano nel cielo azzurrissimo - L'uomo cerca il bello per istinto; senza la bellezza diventa pazzo, malvagio, oppure entra nella commedia della società e rinuncia ad essere vivoScossi il capo: da tempo il velo di Maia non mi avvolgeva più. Tacqui per non rattristarlo. Emmanuel si inginocchiò e cominciò a spazzolare il pelo grigiastro di Tegame. Io mi sedetti e mi misi ad osservarlo. Quando mi aveva giurato che non sarebbe mai più successo nulla fra noi non lo avevo preso troppo sul serio; o meglio, avevo preso sul serio la sua intenzione, ma, conscia della difficoltà con cui un adolescente domina i suoi impulsi, mi ero rassegnata a stare in guardia. Mi ero dovuta ricredere. Emmanuel aveva dato prova di una forza d'animo straordinaria per un ragazzo di quell'età. Il problema era più mio che suo: il ricordo mi tormentava. Ciò che avevo visto in lui per pochi istanti era di una bellezza accecante, così diverso da qualsiasi altra esperienza vissuta in precedenza, destinato a rimanere unico nella mia


vita. Durante l’amore c'era nei suoi occhi un naufragio di gioia, non faceva nulla per nasconderla: non provava alcun pudore della fisicità con cui questa gioia si manifestava. Non c'era nulla di volgare in lui, né gemiti né quel pesante ansimare, quell'agitarsi scomposto che è proprio della maggior parte degli uomini, ma solo un sospiro, un tremito misterioso e profondo. Se non fosse un controsenso, direi che non ho mai visto nulla di più spirituale. Dopo quella volta era stato irremovibile, tutto rinchiuso nelle sue magliette troppo larghe con la stampa dei suoi musicisti preferiti sopra. Non aveva più fatto il bagno nel torrente e non aveva più accennato all’argomento. Un giorno però aveva apertamente polemizzato con me. - Porti sempre la gonna e i tacchi alti? - Quasi sempre - Non è il massimo per camminare in campagna - Dicono che sia tipico delle donne fisicamente fredde vestirsi in un certo modo: una sorta di depistaggio, pare - Che cazzata. Credo piuttosto che tu lo faccia apposta, e questo non è leale Quel suo infantile coraggio mi aveva colpita. Era vero, lo stavo provocando inconsciamente. Da quel giorno indossavo anch'io blue jeans, anonime camicie e scarpe da ginnastica. - Che te ne pare? - mi chiese sorridendo e mostrandomi il risultato del suo lavoro - Non è bello?Tegame non era mai stato bello, ma in quel momento, tirato a lustro, avvilito, con le orecchie basse e il pelo appiccicato addosso, era se possibile ancor più brutto. - È stupendo - risposi. - Puoi andare - gli disse soddisfatto, lasciando andare il collare. Il cane partì a razzo verso il bosco. - Speriamo che non si allontani troppo - dissi. - Non si allontana mai troppo - È la stagione degli amori: non vorrei che andasse in cerca di qualche cagnetta Scosse il capo ridendo. - Tegame innamorato? Non me lo vedo proprio Si distese accanto a me, appoggiandosi sui gomiti. - È davvero una fortuna che non siamo fatti come gli altri mammiferi: trovo terribile l'idea di essere programmato per l'accoppiamento - Non eri tu quello che poco fa esaltava la natura? - Questo è un aspetto della natura che non mi piace - Te l’ho detto, sei incoerente - Ammetto che è un discorso difficile. Ci sono anche altri aspetti della natura che mi spaventano. Per esempio ho il terrore delle malattie. A proposito, non trovi che io sia un po' gonfio qui? - Indicò la gola. Scoppiai a ridere. - È il pomo d'Adamo, ragazzino: stai crescendo - Lo so che sono ridicolo. È da quella volta che il nonno si è sentito male e non c'era nessuno in casa. Tremavo come una foglia, non sapevo che fare, ho chiamato un'ambulanza. Soffocava. È morto praticamente sulle mie ginocchia Gli presi una mano. - Si chiamava Lorenzo - proseguì - Era un gentiluomo di campagna con gli occhi azzurri e i capelli candidi; me lo ricordo bene. Sapeva di whisky e tabacco da pipa. Era il padre di mio padre, ma era completamente diverso dagli altri uomini della mia famiglia, che pensano solo al lavoro e ai soldi; ascoltava musica classica, giocava a scacchi con me, mi insegnava i solitari con le carte. Zoppicava un po’ e camminava appoggiandosi a un bastone, perché in tempo di guerra aveva avuto la poliomielite; nonostante questo gli piaceva passeggiare e mi portava a cercare funghi nei boschi. Quando nevicava mi faceva sempre lo stesso scherzo: appena arrivavamo sotto il grande pino del parco tirava un ramo basso e mi sommergeva sotto la neve. Io lo sapevo già e lo lasciavo fare - Qualcuno dei tuoi nonni aveva il tuo nome? Sorrise. - Il mio nome ha una strana storia: la mia bisnonna materna si chiamava Emma, la nonna Emanuelle; ne è venuto fuori Emmanuel - È un nome bellissimo. E la tua nonna paterna? -


- Si chiamava Giuliana. È da lei che ha preso il nome mio fratello. È morta giovane, non l'ho mai conosciuta; l'ho vista solo in fotografia: era una bella donna con i capelli rossi. Il nonno non si è mai risposato, era un tipo da grandi amori, non gl’interessavano le mezze misure. Dopo di lui non ho voluto più bene a nessuno in quel modo Mi guardò ed aggiunse: - Prima di conoscerti Era la più bella dichiarazione d'amore che io avessi mai ricevuto, anche troppo per me. - E tua madre? - gli chiesi timidamente - Non le vuoi bene? Lei ti adora Sorrise con uno strano pudore. - Certo che le voglio bene. Però vedi, la mamma vive in un mondo tutto suo e bisogna lasciarla stare lì. I problemi non la toccano, li allontana, mette le testa sotto la sabbia e fa finta che non esistano. Ogni tanto guarda fuori e se le acque si sono calmate torna a sedersi in salotto. È adorabile, ma non puoi aspettarti protezione da lei: se mai il contrario. Da quel che ho capito, per esempio, papà è un po' in crisi col lavoro, ma ogni volta che lui e mio fratello ne parlano, lei si alza e se ne va in camera sua. Qualche anno fa il suo adorato gatto siamese ha mangiato un topo avvelenato e si è sentito male. Non ha più voluto vederlo: diceva che non poteva sopportare di vederlo soffrire. Ero solo un bambino, ma ho dovuto pensarci io; ho chiamato il veterinario, l'ho curato per due settimane e alla fine è guarito - Ora dov'è? - È morto. Era un vecchio gatto - Capisco Si sentiva un lamento insistente nell'aria: Emmanuel sollevò lo sguardo. - C'è un rapace lassù - disse. Guardai anch'io e vidi il lento roteare di un grosso uccello scuro sopra di noi. - È una poiana - dissi. - Deve avere avvistato qualche preda. Un coniglio, un topo, chissà All'improvviso udimmo uno stridore di freni lontano. Emmanuel si riscosse, balzò in piedi e si lanciò di corsa attraverso il bosco. Mi alzai e lo inseguii, ma era impossibile tenere il suo passo: volava attraverso gli alberi a lunghi balzi di cervo. Quando, ansante e sfinita, arrivai alla strada, lo vidi immobile in ginocchio: Tegame giaceva a terra sul ciglio della strada. Mi chinai sulla bestiola e le tastai tutto il corpo. - Non è niente di grave - gli dissi - Ha solo una zampa rotta. Sali in macchina, lo portiamo subito dal veterinario _._ Tegame, con una zampa ingessata e un imbuto intorno al muso, se ne stava seduto, pieno di sussiego e mortalmente offeso, nella cuccia nuova che il padrone gli aveva appena comprato: lo vedevo nel retrovisore mentre guidavo di ritorno dal veterinario. Emmanuel sorrise voltandosi a guardarlo: - Non sembra un nobiluomo del Seicento? Gli accarezzò le orecchie. - Scemo, - disse con dolcezza - mio povero piccolo scemo Si voltò e mi baciò una mano. - Grazie - sussurrò. - Di nulla - Ho ringraziato anche Dio, sai? Temevo che andasse a finire come col nonno Dopo qualche minuto, sfinito dalla tensione nervosa, si addormentò e mi scivolò addosso; continuai a reggere il volante con una mano sola, facendo il possibile per evitare di cambiare marcia. Non credevo in Dio. Mentre guidavo gli accarezzavo i capelli e pensavo che no, non ci sono eccezioni, non sono possibili miracoli: la natura segue il suo corso e i deboli i malati i diversi i perdenti vengono sempre, con indifferenza, spazzati via. È solo questione di tempo. Non c'è che un modo per sopravvivere: trovarsi dall'altra parte.


Certi bravi ragazzi

Ho sempre evitato il contatto fisico. Da bambino non cercavo quasi mai la compagnia dei miei simili; la loro presenza era per me poco più che un limite al libero spaziare del mio spirito. Amavo i cavalli di razza e la natura selvaggia, in cui potevo immergermi durante le mie cavalcate serali, liberamente fantasticando senza mai pensare nel senso stretto del termine. Purtroppo nel corso degli anni ho perduto questa sorta di divina incoscienza, ed ora la solitudine della natura mi è divenuta occasione di meditazioni tanto intense quanto inutili. Con i miei coetanei non ho mai stretto una vera amicizia; un mio maestro mi ha detto un giorno che è impossibile essere mio amico, perché io non ho bisogno di nessuno. In realtà ho spesso desiderato un amico, ma mi ha sempre distolto da questo desiderio la stessa ripugnanza che mi impedisce di baciare le donne e che mi rende intollerabili l'indiscrezione, l'invadenza, il contatto intimo, la reciproca infezione. Così, quando immaginavo il mio amico ideale, pensavo sempre ad una creatura muta, che non conoscesse nulla di me e che non fosse curiosa di conoscermi, che intuisse per istinto i miei umori e vi si adattasse senza discuterli; un essere che mi facesse compagnia con la sua sola presenza fisica. Un vegetale, forse. Avevo appena compiuto ventinove anni ed avevo fama di essere bello: di mio padre, celebre chirurgo, ho la corporatura alta ed atletica; da mia madre, di sangue arabo, ho ereditato pelle e capelli scuri, che contrastano, a quanto sembra non sgradevolmente, con il colorito delle mie labbra e il candore del mio sorriso; qualche antenato saraceno mi ha trasmesso i suoi occhi neri; di mio nonno paterno ho il nome, Valentino. Pare che il mio sorriso fosse leggenda fra le mie compagne di università, quasi tutte invaghite di me senza speranza. Al mio disinteresse per l'altro sesso, confinante con il disprezzo, si univa una sorta di diffidenza o di ripugnanza per l'amore, avventura esistenziale che sapevo, per esperienza indiretta, capace di prostrare l'animo di un uomo fino all'umiliazione più abietta. Avevo perso la stima dei miei amici (o dovrei dire conoscenti?) sentendoli pronunciare affermazioni alogiche o paralogiche sotto l’effetto dell’ispirazione amorosa: provavo pena e vergogna per loro accorgendomi che in quei momenti di trita logorrea si credevano particolarmente originali. Per reazione mi ero imposto alcuni mesi di assoluta castità, frequentando chiese deserte e trascorrendo lunghe ore assorto in contemplazione delle vetrate attraversate dal sole al tramonto, non certo in preda a fervori religiosi (il comandamento di Cristo "ama il prossimo tuo come te stesso" mi è sempre parso poco più che un geniale paradosso), ma per rafforzare il mio spirito. Solo quando mi resi conto che ero abbastanza forte da potermi accostare all'altro sesso senza coinvolgimento decisi che era venuto il momento di mettermi alla prova. Frequentavo da qualche tempo la villa del figlio di un piccolo industriale della zona, tale Giuliano Kellermann, laureato come me in economia e commercio, come me appassionato di equitazione e di tennis; lì avevo conosciuto Eloisa, la sua fidanzata. Non bella, fredda e poco femminile, aveva però un che di intrigante. La pelle chiara da rossa. Uno strano sguardo, occhi grigi che mi lasciavano addosso qualcosa ogni volta che mi guardavano. Un corpo androgino, di cui metteva in risalto l'unico punto forte, le lunghe gambe. E una caparbia volontà di sopravvivere all'interno di un mondo che non era il suo, sebbene vi si muovesse con apparente disinvoltura. Era chiaro da tutto, dal gusto discutibile del suo abbigliamento, dalle sue mani ordinarie, dai suoi capelli tinti con un henné scadente, dalla sua risata volgare, dall'eccessiva franchezza di certi commenti, che non era nata in quell'ambiente. Un paragone con le amiche di Giuliano dai bei capelli lisci, dalle dita affusolate, dalle movenze controllate, metteva subito in risalto la sua diversità. Non era un cavallo di razza. Ed era fin troppo evidente che non era innamorata di Giuliano; ma Giuliano era quel che si dice un bravo ragazzo, destinato probabilmente a non accorgersene mai. Chissà cosa trovava in lei. In me suscitava disgusto e curiosità, un cocktail insolito e un punto di partenza interessante. Era assistente alla facoltà di lettere classiche, un'attività senza futuro. Avevo giudicato ridicola la pretesa di Giuliano che proprio lei si occupasse della preparazione scolastica di suo fratello Emmanuel, un imbelle ragazzino senza alcuna personalità.


Da tempo avevo compreso di lei ciò che probabilmente neppure lei sapeva. Si era accorta da un po' di essere osservata da me e di tanto in tanto ricambiava per un istante il mio sguardo. Una sera di fine giugno uscimmo insieme dal cancello della villa di Giuliano. C’era un’aria scura di temporale, si stava alzando il vento: lei corse verso la sua utilitaria, io m’incamminai verso il mio Carrera nero. Eravamo soli. Mi avvicinai a lei sul marciapiede deserto, studiando l’andatura. Sorrisi. - Ti va di fare due chiacchiere? - Abbiamo chiacchierato finora - Non quel genere di chiacchiere Mi fissò negli occhi; il mio sguardo non aveva nulla di allarmante. - Grazie, ma mi sento un po’ stanca - Peccato. Avevo qualcosa di interessante da dirti, ma se non ti va... Ciao, bella Mi avviai verso la macchina. La curiosità è femmina. Poi c’era il Carrera, e c’ero io. Rifletté un attimo e disse: - Devo avvisare mia madre che non torno per cena Mi voltai e le mostrai il cellulare. - Nessun problema. Sali Aprii la portiera della mia auto. - Ti va una pizza? Sorrise e prese posto accanto a me, accavallando le lunghe gambe inguainate in calze scure. Cenammo in una delle migliori pizzerie della città. La feci bere e ridere senza neppure accennare alla cosa importante che avevo da dirle. Appariva rilassata, spensierata, perfino bella a tratti. Raccontava aneddoti insignificanti a proposito della sua attività di ricercatrice universitaria e mi chiedeva di me, delle mie amicizie, della mia famiglia; io rispondevo con frasi fatte, luoghi comuni, banalità di circostanza. Di tanto in tanto le accendevo una sigaretta e le versavo da bere (io non fumo e sono astemio). Ad un tratto si avvicinò a noi un piccolo straccione sudicio, stringendo fra le dita nere alcune rose orribili, mezze sfiorite, che sembravano raccolte dall'immondizia. Ho sempre annoverato fra i più preoccupanti sintomi di decadenza della nostra società il fatto di considerare normali le quotidiane aggressioni dei lavavetri ai semafori, degli zingari al ristorante, degli extracomunitari all'uscita dei negozi, dei posteggiatori abusivi nei parcheggi. Il senso di intollerabile violenza che provo nel vedermi aggredito a tradimento suscita in me una reazione di autodifesa, come dovrebbe essere proprio dei soggetti sani: provo l'immediato impulso di sferrare un pugno al soggetto in questione, o, nel caso specifico del ragazzino, di mollargli un manrovescio. Naturalmente domino questo impulso, più che altro per evitare grane, ma i miei occhi comunicano perfettamente ciò che provo. Considerata la mia conformazione fisica, nessuno si arrischia ad insistere con me. Il ragazzino infatti, non appena posai lo sguardo su di lui, fece dietro-front e uscì dal locale. Eloisa lo seguì con gli occhi, poi mi guardò e disse: - Perché lo hai spaventato? Ha già i suoi problemi con quelle brutte rose: non riuscirà a venderne neppure una Le sorrisi: - Cambiamo argomento, vuoi? Di lì a poco il ragazzino rientrò. Teneva basso il suo mazzo di rose e fissava il pavimento, senza trovare il coraggio di avvicinarsi ai tavoli. Eloisa, attratta dagli squallori esistenziali, lo osservò con attenzione ed improvvisamente alzò su di me gli occhi lucidi. - Lo hanno picchiato. Ha un livido sullo zigomo. Qualcuno fuori lo ha picchiato e lo ha costretto a rientrare Guardai il piccolo zingaro, guardai lei. Era normale che fosse così, era nell’ordine delle cose. Non capivo esattamente di cosa si stupisse, ma la assecondai. Chiamai il bambino con un gesto della mano: mi voltò le spalle impaurito, come se temesse di prendere botte anche da me. Mi alzai, lo raggiunsi, aprii il portafogli e gli porsi una mazzetta di banconote: con quella cifra avrei potuto pagare un fascio di rose rosse degno di una regina. Il ragazzino guardò i soldi, guardò me e fece un passo indietro. Cominciava ad essere seccante: gli afferrai una mano, gli misi il denaro sul palmo, chiusi le sue dita esili e sporche e mi impadronii del mazzo che pendeva inerte nell'altra mano. Rimase immobile per un attimo, poi scappò fuori senza neppure ringraziare.


Scelsi la meno sgualcita fra le rose e restituii le altre all'immondizia alla quale appartenevano di diritto; posai il fiore davanti ad Eloisa, che aveva seguito tutta la scena in silenzio, e le sorrisi di nuovo: - Tutto a posto. Adesso possiamo parlare d'altro? Non rispose: mi guardò a lungo negli occhi, con l'espressione di chi sta perdendo l'orientamento. Quando uscimmo, impregnati degli odori grevi del locale, le proposi una passeggiata sul lungofiume. Sapevo che non avrebbe accettato la proposta, resa poco allettante dalla pioggia che cominciava a cadere. - Non ho portato l’ombrello - disse. - Hai ragione, scusami. Torniamo alla macchina La riportai di fronte alla villa di Giuliano. Le tesi la mano e dissi: - Grazie della bella serata La vidi cercare febbrilmente un appiglio; poi finalmente disse: - D'accordo. Buona notte. Spero che la cosa che dovevi dirmi non fosse poi così importante - Stavo appunto per parlartene, ma si è messo a piovere e detesto parlare in macchina- Abito dalla parte opposta della città, se no potevi venire a prendere un caffè da me Mentiva, naturalmente: non avrebbe mai invitato uno come me nel quartiere popolare dove viveva. - Io abito qui, - dissi indicando la collina dietro la Gran Madre - ma le brave ragazze non salgono a casa degli sconosciuti a quest’ora di notte. Rise. - Se è tutto qui il problema, saliamo pure: non sei uno sconosciuto. La portai a casa mia. La precedetti per l'ampio, lussuoso scalone fino al secondo piano, interamente occupato dal mio attico. Aprii, la feci entrare, richiusi la porta alle mie spalle. Le indicai il divano: - Accomodati - Hai una casa bellissima - Grazie - le risposi voltandole le spalle, intento ad aprire una bottiglia di champagne. - Non voglio più bere - Bene, berrò io - mentii. Posai il calice sul tavolino. Mi sedetti sul divano accanto a lei e cominciai ad inventare una storia assurda su amici comuni. Lei rideva e beveva. Io continuavo ad assecondarla con circospezione. Poteva essere più complicato del previsto, perché di tanto in tanto mi deconcentravo un po’. All’improvviso venne il momento. Tacqui. Un lampo inquieto le attraversò gli occhi e i suoi sensi si tesero. Allungai entrambe le mani ad afferrarle i polsi, pronto a fronteggiare la sua reazione. Si divincolò come una serpe, ma io le strinsi i polsi con maggior decisione e la trascinai sul divano sotto di me. Mi guardava attenta, immobile, senza capire. - Cosa fai? - mi chiese. Mi chinai sul suo orecchio e le sussurrai: - Io so chi sei, Eloisa - Lasciami andare - La verità è che tu non vedevi l'ora di farti sbattere da me. È il tuo giorno fortunato: ti sto offrendo un alibi di ferro Affondai i pollici nei suoi polsi. - Cosa vuoi da me? - sussurrò. - Fotterti, sorellina, che altro? Le strappai il reggicalze nero. Smise finalmente di dibattersi. _._ Quando mi alzai dal divano, lo specchio del salotto mi rimandò l'immagine di una bellezza quasi offensiva. Mi infilai la camicia nei pantaloni e mi rifeci il nodo della cravatta. Era andata bene: avevo mantenuto il controllo della situazione dal primo all'ultimo istante, mentre lei lo aveva perso del tutto. Ora provavo, come previsto, un senso di profonda sazietà, una nausea salutare. Non vedevo l'ora che se ne andasse. La sentii scivolare in silenzio giù dal divano, rivestirsi, raccogliere le sue cose e infilarsi il cappotto. Mi voltai, la precedetti fino alla porta e mentre stava uscendo la bloccai di colpo contro lo stipite. Trasalì. - Non illuderti, - dissi - non voglio ricominciare -


Le sollevai il mento con due dita e la guardai negli occhi infilandole la rosa appassita all'occhiello: - Questa storia non avrà un seguito. Perciò, nell'interesse di entrambi, noi due questa sera non ci siamo visti Aprii la porta e la lasciai andare. Richiusi la porta. Era ora di dare un senso a quella serata. Mi distesi sul divano ad ascoltare il Requiem di Mozart.


Tempisti

Fra i pregi che riconoscevo ad Eloisa non rientrava quello del tempismo: aveva il dono di riuscire a scegliere sempre il momento meno opportuno per parlarmi di questioni serie, o che a lei parevano tali. Sottolineo il parevano: quasi tutti i suoi problemi, infatti, nascevano dalla sua scarsa attitudine sintetica. Ero convinto che la sua tendenza a riservare eccessiva attenzione ai dettagli, lo squilibrio fra il molto tempo che dedicava al pensiero e il poco che concedeva all'azione, non solo l'avrebbero seriamente ostacolata in qualsiasi tipo di carriera (compresa quella universitaria, da lei alquanto velleitariamente intrapresa), ma a lungo andare avrebbero rischiato di compromettere la sua stessa percezione della realtà. Ora so che non mi sbagliavo affatto. Già allora, comunque, temevo che la mia esistenza accanto a lei sarebbe stata movimentata da scossoni esistenziali del tutto gratuiti, dai fantasmi della sua mente iperattiva che non trovava adeguato sfogo nella prassi quotidiana. Subivo con rassegnazione le sue crisi ricorrenti, senza indulgere ad alcun compiacimento psicanalitico: sapevo che l'avrebbe danneggiata. Eloisa, per stare bene, avrebbe avuto bisogno di un sistematico esercizio di semplificazione razionale: io, probabilmente, sarei stato adatto a questo compito, se avessi avuto soltanto lei cui pensare. Ma c'era il lavoro, la necessità di imparare in fretta e bene tutto ciò che era indispensabile per mandare avanti le fabbriche di mio padre, ormai prossimo alla pensione, c'erano necessità materiali urgenti da fronteggiare, l’indotto risentiva della crisi del settore automobilistico e il bilancio non sempre era in attivo: lavoravo fino alle nove di sera e a tutti questi carichi mi sobbarcavo anche per lei, per garantirle quel futuro che certamente, da sola, non sarebbe mai stata in grado di assicurarsi. Perché Eloisa, al di là della sua apparenza svagata e distratta, che costituiva uno dei suoi punti di fascino, era molto sensibile agli aspetti materiali dell'esistenza e tutt'altro che indifferente ai vantaggi che il denaro procura. E io le volevo bene davvero. Quel pomeriggio, benché sapesse che alle sei avevo un appuntamento con il commercialista per tentare di risolvere un imbarazzante problema di arretrati d’imposta, aveva insistito per vedermi. Le avevo dato appuntamento in piazza San Carlo al nostro solito bar per le quattro e mezzo. La mia mente era già dal commercialista quando entrai nel lussuoso locale e la trovai seduta a un tavolino, intenta a versarsi un tè. Appena mi vide sorrise e mi tese la mano. Mi chinai a baciarla e mi sedetti; ordinai un caffè. Attesi per circa dieci minuti che si decidesse a parlare di ciò che le stava a cuore, ma lei tergiversava, mentre io continuavo a guardare l'orologio. Alla fine decisi di rompere gli indugi: - Eloisa, - le dissi con dolcezza - abbiamo esattamente venti minuti a nostra disposizione, dopodiché sarò costretto a lasciarti qui per arrivare in orario all'appuntamento. Perciò, se hai qualcosa da dirmi, per favore, sbrigati Esitò e smise di sorridere. - D'altronde, - ripresi - di qualsiasi cosa si tratti, avremo tutto il tempo di parlarne domani sera, a casa mia. E in un'atmosfera più intima Sospirò. - È proprio di questo che volevo parlarti, Giuliano - disse con una certa fatica - Per qualche giorno non potremo vederci. Mia madre non si sente molto bene e preferirei rimanere a casa la sera - Ma certo, cara, è più che giusto. Cos’ha la mamma? Posso esservi d’aiuto? - Niente di grave, non preoccuparti; è solo che l’influenza quest’anno lascia brutti strascichi - Salutala da parte mia, e se c’è qualsiasi problema chiamami. Con tutti gli specialisti che conosciamo... Tacque e rimase ad occhi bassi per qualche secondo. - Qualcosa non va? - le chiesi. - Sono un po' scossa per via di una brutta storia capitata ad una mia amica - La conosco? - No. È una mia collega di università - Cosa le è successo? -


- È stata violentata da un amico Non potei fare a meno di scoppiare a ridere. - Violentata? Lei era diventata pallida. - Non capisco cosa ci trovi da ridere - disse. - Non fraintendermi, amore. Non è la cosa in sé che mi diverte, ma il fatto che una donna, al giorno d'oggi, si esprima così a proposito dei rapporti che ha avuto con un tizio che lei stessa definisce amico - È evidente che lui non era un amico - Ed è altrettanto evidente che lei lo sapeva. Ma non hai caldo con quella maglia a collo alto?- No, anzi, ho freddo - Sei sicura di star bene? - Le toccai la fronte - Mi pare che tu abbia qualche linea di febbre. Forse hai preso anche tu l’influenza - Sto bene, non preoccuparti. Perché dici che lei lo sapeva? - Ma è ovvio, amore mio: non stiamo parlando di un teppista che ha aggredito la tua amica a tradimento per la strada o dentro un portone, ma di un ragazzo che la conosceva da tempo: o no? - Infatti. È successo a casa di lui - Dunque lei ha accettato di salire a casa sua - Certo, per bere qualcosa, per chiacchierare - Errore: per bere qualcosa o per chiacchierare va benissimo un bar, come vedi - Ma lui l'ha costretta con la forza! Guardai l'orologio e mi strinsi nelle spalle. - Diamo a Cesare quel che è di Cesare. Voglio dire, attribuiamo pure al maschio la sua parte di responsabilità. Ma vedi, mia cara, la parità fra i sessi comporta anche la capacità da parte della donna di assumersi le sue, di responsabilità. Ora, è evidente che la tua amica ha agito con molta leggerezza: perciò è senz'altro corresponsabile di ciò che le è accaduto e non escludo che in qualche modo lo abbia provocato. E se così non fosse, perché non denuncia il presunto violentatore? Eloisa tacque. Sentivo la sua mano fredda e inerte nella mia. Cercai di risollevarle il morale. - Comunque, tesoro, come al solito manchi di spirito pratico: prima di tutto non vedo perché il caso di una tua amica debba coinvolgerti tanto; in secondo luogo, spero bene che costei abbia preso le sue precauzioni per evitare una gravidanza indesiderata - Naturalmente - Infine, voglio augurarmi che l'amico violentatore fosse sano - Credo di sì. Non è un tipo frivolo - E magari è anche bello - Sì, lo è - Allora - conclusi con una risata, per sdrammatizzare - la tua amica dovrebbe augurarsi più spesso esperienze del genere, non credi? - La mia amica è fidanzata - Be’, in questo caso, sempre per ragionare in termini pratici, non le conviene mettere a parte della cosa il malcapitato fidanzato. Se è un tipo geloso, la tua amica corre qualche brutto rischio; se è una persona tollerante, il loro rapporto è comunque destinato a risentirne - E tu - disse senza guardarmi - come reagiresti? - Oh be’, mi conosci, io sono un individuo razionale e possibilista: ammetto di poter sbagliare ed ammetto che anche gli altri possano sbagliare. Certo non mi farebbe piacere, ma i veri drammi nella vita sono altri- Lei però si sente profondamente umiliata e non riesce più ad avere rispetto per se stessa - Questi, tesoro, sono veramente affari suoi Sorrisi, le diedi un bacio in fronte e mi alzai. - E adesso scusami, faccio tardi dal commercialista. Ci sentiamo per telefono. Salutami la mamma, e se hai bisogno, mi raccomando... - Accennai al gesto di telefonare. Le feci ancora una carezza sul viso e andai rapidamente a pagare il conto per tutti e due. Solo più tardi, mentre guidavo nel traffico, mi resi conto che non aveva risposto al mio saluto. Ma era tipico di Eloisa avere di questi malumori incomprensibili, destinati a


passare come i temporali estivi. Non me ne preoccupai piĂš di tanto, anche perchĂŠ, come temevo, ero in ritardo.


Terapie alternative

Sto per ridurre la mia vita a sdolcinata paccottiglia sentimentale, fantasticheria da rivista femminile, rommel. Bene, coraggio Emmanuel, ti tocca. Erano le sette di sera di un mercoledì di luglio. Disteso sul letto, con Tegame arrotolato ai miei piedi, ascoltavo musica e contemplavo il pugno di mosche che avevo conquistato grazie ai consigli di Eloisa. Quella parentesi estiva era un morto guado in cui sostavo con l’acqua alle caviglie, cercando di intravedere l’approdo dall’altra parte; ma ciò che vedevo non mi piaceva affatto. Ora che la mia situazione scolastica era tornata più o meno normale, il suo intervento non sarebbe più stato necessario ed io avrei pagato con la solitudine lo scotto del mio miglioramento. In sintesi, ero un coglione. È solo questione di attendere il prossimo autunno, mi aveva detto; ma io so riconoscere a colpo sicuro le pietose menzogne. Ero perciò a terra quando il telefono squillò. Cercai di non farci caso, ma nessuno dei miei rispondeva e chissà dove s’era cacciata Teresa. Quella sera mi ero imposto di uscire con degli amici, fra cui una certa Erika che da qualche tempo mi tempestava di telefonate e mi chiamava con nicknames ridicoli tipo occhidicielo, dolcetopolino, cazzate del genere. Storpiava il mio nome con un diminutivo idiota, Manu. Odio i diminutivi. Non avevo voglia di sollevare il ricevitore e di sentire la sua voce ciao Manu, che stai facendo di bello? Ero tutto concentrato su un passaggio di chitarra assolutamente imprevedibile che stava cercando di restituire un po’ di senso alla mia vita. Il telefono non la piantava: decisi di rispondere. Il tono del mio "pronto" doveva essere piuttosto seccato. Dall'altra parte sentii una strana esitazione, poi una voce disse: - Emmanuel? Ingoiai le tonsille. - Ciao, Eloisa - Hai da fare stasera? - No, niente, non ho nulla di speciale in programma - Ti andrebbe di accompagnarmi al cinema? Danno "Il re leone" al Lux - Fantastico. Quando? - Al primo spettacolo. Ma forse è meglio di no, sarà un problema per la cena - No, non mangio, io non mangio mai. Cioè, non stasera. Dove ci vediamo? - Fra mezz'ora sotto casa mia. Va bene? - Perfetto Riattaccai subito per timore che cambiasse idea e mi precipitai nell'ingresso. Poi tornai indietro a raccattare il cuore. Forse ero troppo trasandato, diedi un'occhiata allo specchio, andava bene così; corsi alla porta, mi ricordai improvvisamente di Tegame; rientrai in camera, lo presi sotto braccio e raggiunsi in salotto mia madre che guardava la televisione. - Non dovresti guardare tutta questa spazzatura, mamma - le dissi. Mi chinai a darle un bacio sulla fronte - Esco, c'è la festa di compleanno di Maurizio Lei si voltò con aria interrogativa. - Non dovevi andarci dopo cena? - È alle sette e mezza, mi hanno telefonato adesso per dirmelo Era un po' seccata, povera mamma. - La prossima volta avvisami per tempo. E metti fuori il cane - Non aspettarmi alzata, farò tardi: dopo cena si va in discoteca. Mi raccomando, non guardare la solita telenovela da dementi. Ciao, vado, non preoccuparti, mi riporta a casa Max La sentii strillare qualcosa e mi allontanai di corsa. Arrivai in anticipo, ma lei era già sotto casa, in un abito turchese, con un golfino color panna e una sciarpa intorno al collo, i capelli rossi sciolti sulle spalle. Non disse e non fece nulla quando mi vide. Mi accorsi subito che qualcosa non andava: due occhiaie livide, malamente nascoste dal trucco, segnavano il suo viso. Non aveva dormito. L'istinto mi disse di tacere e di prenderla sotto braccio con atteggiamento fraterno. Ci avviammo verso la macchina. Per tutto il viaggio la sommersi di chiacchiere: non la vedevo da tempo e avevo una


montagna di cose da raccontarle. Lei guidava e rispondeva a monosillabi: era evidente che non aveva voglia di fare conversazione. Il cinema era affollato; ci dirigemmo verso le ultime file e ci sedemmo. Continuai a chiacchierare in attesa dell'inizio. Poi le luci si abbassarono e la proiezione incominciò. Il film era bello, ma gli occhi della mia mente erano fissi su di lei che se ne stava a braccia conserte, tutta chiusa in sé, senza distogliere lo sguardo dallo schermo. Continuavo a chiedermi perché avesse voluto vedermi. A un certo punto mi voltai: tremava un po' e le sue dita erano contratte; pensai che stesse male e le circondai le spalle sussurrando cos'hai. Smise di tremare, reclinò la testa sulla mia spalla e disse: - Non è niente, sto bene Rimandai tutto a dopo e mi disposi a godere della più egoistica beatitudine. Ero abbracciato a lei nel buio avvolgente di un cinema, come in tanti miei sogni. C’era l’aria condizionata e lei aveva le mani fredde: le riscaldai sul mio petto. Rovesciò la testa all'indietro sulla mia spalla e chiuse gli occhi. Mi sforzai contro ogni evidenza di interpretarlo come un gesto amichevole. Mormorò sottovoce un’imprecazione, stronzo di un ragazzino, e mi sfiorò il collo con la bocca. Da quel momento i miei ricordi si fanno confusi. Ricordo solo l’odore dei suoi capelli e la temperatura altissima della sua pelle sotto le mie labbra. Ad un tratto sollevò la mano per accarezzarmi i capelli e nel far questo scoprì una parte dell'avambraccio: c’era un livido violaceo sul suo polso. Presi la sua mano fra le mie: non cercò di sottrarla. Le scoprii l'altro polso e vidi che aveva un segno uguale. Anche la sua gola era chiazzata di ematomi. - Che significa? - dissi. Lei non rispose. Si riavvolse la sciarpa intorno al collo e disse soltanto: - Non andartene, per favore Entrai in una zona di vuoto pneumatico dove galleggiai a lungo inerte. La sofferenza mi pulsava intorno senza trovare un varco, altrimenti mi sarebbe scoppiato il cervello. Sentii la sua testa appoggiarsi nuovamente sulla mia spalla, ma rimasi immobile. Cercò la mia mano, la guardai: le sue occhiaie erano diventate viola. Allora strinsi la sua mano sussurrando va tutto bene. Aveva la tosse; disse che era colpa dell'aria condizionata, prese delle pastiglie dalla borsetta e le ingoiò. Dopo qualche minuto o qualche ora disse: - Ho bisogno di parlare Ci alzammo sul più bello di una scena strappalacrime, fra le imprecazioni degli altri spettatori. Aveva cominciato a piovere. Le gambe mi tremavano e non sapevo se le forze mi sarebbero bastate. _._ Guidava da un’ora e non si decideva a fermare. Era stranamente intontita, deconcentrata; ad un certo punto rischiammo di finire giù da un viadotto. Mi accorsi che l'automobile stava sbandando e riuscii a raddrizzare il volante un attimo prima che piombassimo nel vuoto. Stavo per ucciderti disse, come se sull'automobile non ci fosse anche lei. Cercai di rincuorarla, ma ripeté più volte non me lo sarei mai perdonato. Rimise in moto e si concentrò sulla guida. Vidi diversi cartelli segnaletici con sopra nomi sempre più sconosciuti; l’ultimo diceva Albugnano e confusamente avvertii che dovevamo essere finiti in un’altra provincia. Arrivammo ad un bivio; svoltò ed imboccò una discesa, probabilmente senza sapere dove portasse. La strada era senza via d’uscita: rimasi senza fiato quando ci trovammo di fronte un’antichissima abbazia romanica, il cui scheletro imponente s’intravedeva nel buio. Lei non parve sorpresa, forse perché non s’accorgeva di nulla. Fermò la macchina e tirò il freno a mano. Una scomoda utilitaria parcheggiata di notte in un piazzale deserto, sotto la pioggia, con le rane che gracidano intorno: la situazione era tipica fino allo squallore. Provai un attimo di tremendo imbarazzo, ma lo superai presto: in fondo non eravamo lì per quello. Mi voltai sul sedile, mentre lei continuava a fissare il volante come se si aspettasse da lui una risposta. - Ti ascolto - le dissi con dolcezza. Lei tacque per qualche secondo. Poi cominciò: - È successo qualche giorno fa - Mio fratello lo sa? Scosse il capo.


- Il problema non è tuo fratello - Qual è il problema? Appoggiò la fronte sul volante. - Il problema sono io - disse - Cerca di capire, per favore L'amore rende perspicaci. Una serie di particolari sempre più realistici mi arrivò dritta alla bocca dello stomaco. Vidi tutta la scena. Stavo veramente male. - Lui era Valentino, vero? Non rispose. Seppi di avere colto nel segno. - È un bastardo - dissi. - C'è dell'altro - aggiunse. - Lo so - Sai cosa? - Che ti è piaciuto Si contrasse tutta, come un’ostrica quando le spruzzi su il limone. La avvolsi in un abbraccio e continuai: - E che adesso non riesci più a farti toccare dagli uomini. È normale: hai perso il rispetto per te stessaTaceva, stupita dal mio intuito. - Ma puoi guarire - ripresi - Lo vedi, per me non provi disgusto - È vero - disse - Lo speravo tanto. Per questo ho voluto vederti L’allarme scattò immediatamente. Mi scostai da lei. - No - dissi. - Perché? - Perché ti ho dato la mia parola Appoggiò la fronte sulla mia spalla con una strana timidezza. - Emmanuel, ti prego, dimmi la verità La dissi: - Non ce la faccio, Eloisa. Mi fai sentire una terapia alternativa. Scusa, ma davvero non è il massimo come prima volta Mi vergognai subito di questa frase, ma mi aveva chiesto di essere sincero, ed era quello che sentivo. Si rialzò contro lo schienale e disse: - Hai ragione. Scusami. Ti riporto subito a casa Si mise a frugare nella borsetta con mani tremanti; pensai che stesse cercando le chiavi, che erano rimaste infilate nel cruscotto. Le girai senza parlare, avviando il motore. Lei sollevò il viso rigato di lacrime e mi disse grazie della premura, stavo cercando il fazzoletto. Le barriere della mia anima crollarono di colpo. Non potevo lasciarla sola in quell’abisso di sofferenza. Spensi il motore e le soffiai il naso con il mio fazzoletto. Lei respinse la mia mano: - Lasciami, non vorrei sporcarti Le baciai la fronte e gli occhi. - Perdonami - dissi. La presi fra le braccia e non parlammo più. La pioggia cadeva fitta con uno scroscio uniforme e il vetro dell'automobile si era appannato. Lei era molto scossa, avevo l’impressione che non connettesse: tremava, e non di freddo; non osava toccarmi. Fra i due, incredibile a dirsi, ero io il più lucido. Ad un tratto si lasciò cadere col viso sul mio petto, con la strana inerzia di una bambola di pezza. Le presi il volto fra le mani e la guardai attentamente negli occhi. - Eloisa, - le dissi - cos'erano quelle pastiglie? Il suo sguardo oscillava nel mio. - Quali? - chiese. - Quelle per la tosse. Ti porto all'ospedale? Non ho la patente ma so guidare Scosse la testa. - No, no - disse - Non preoccuparti. Erano solo un paio di tranquillanti, niente di pericoloso Le strinsi il viso e le parlai con molta severità. - Non farlo mai più, intesi? Mai Annuì faticosamente. - Va bene - Adesso rilassati. Non devi fare niente, penso io a tutto -


Cercai di rendere rassicurante il rituale prosaico che seguì, aiutandola con dolcezza a liberarsi degli abiti. Non mi fu facile cavarmela da solo in quella situazione senza rendere tutto ridicolo o volgare: chi ha fatto l'amore in una Uno ed è alto più di un metro e ottanta può capirmi. Pensai che poteva andarmi peggio, una Panda per esempio. Lei osservava i miei gesti tra l'affascinato e l'inebetito: non collaborava assolutamente, anzi mi guardò stupita quando reclinai il sedile. Era come se quella cosa che aveva tanto desiderato, e addirittura provocato, le sembrasse di colpo inattuabile; aveva l’aria di stare guardando uno strano film. Alla fine, quando tentai di sbarazzarmi dei pantaloni, ebbe una nuova crisi di pianto e si aggrappò convulsamente a me. D'accordo, le sussurrai, facciamo come vuoi tu, solo che con i jeans addosso non credo che mi verrà tanto bene. Rise fra i singhiozzi, mi disse sei proprio scemo, poi mi strinse fino a farmi male ripetendo frasi sconnesse tipo ho paura ti prego dimmi che non è successo niente dimmi che non è successo niente vorrei morire, e io accarezzandole i capelli dissi non devi aver paura, farò tutto quello che vuoi tu oppure non farò niente e sarà tutto bellissimo lo stesso; lei balbettò non voglio che lo fai per forza e se sbagliava i congiuntivi voleva proprio dire che la sofferenza era tanta; la baciai sulla bocca e portai la sua mano a sentire che no, non era per forza, e già non m'importava più niente di chi c'era stato prima, perché adesso c'ero io. Rivolsi la più pagana delle preghiere alla divinità che abitava l'abbazia e le chiesi di poter compiere il miracolo. Sapevo di dover essere straordinariamente delicato. Baciai tutti i suoi lividi, la accarezzai finché non smise di tremare e i suoi sospiri presero il ritmo regolare della pioggia che cadeva. Fino a un certo punto l’istinto mi suggerì quello che la mia inesperienza non mi permetteva di sapere; poi improvvisamente ebbi un attimo di panico. Temevo l’inevitabile confronto, temevo di rendermi ridicolo. Lei se ne accorse. - Che c’è? - chiese accarezzandomi il viso. - C’è che non l'ho mai fatto - risposi con semplicità. - Lo so - disse - Ma non devi preoccuparti: andrà bene comunque Non pensai più a nulla. Lei chiuse gli occhi e la sua febbre pian piano aumentò, divenne delirio, ripeteva ti amo amore amore mio ma non pronunciò mai il mio nome, non capivo neppure se si rendesse conto di essere con me, poi di colpo sussurrò al mio orecchio ti voglio con un tono di voce che fu come una scarica elettrica nella mia spina dorsale ed aprì gli occhi, si aprì tutta: il momento era venuto. Ebbi un attimo di terrore, poi spalancai le braccia e mi lasciai cadere nel vuoto. Ricordo una sensazione completamente nuova, una vampa di calore che mi spinse di colpo in alto, lei fin dal primo istante sull’orlo di un incomprensibile terrore, io che non pensavo più a me stesso e non avrei potuto perché non c'ero più, ero sparito in lei, ero lei, sapevo esattamente tutto quello che le stava succedendo e quando e quanto, e sapevo dove dovevo condurla e come, mentre un vortice mi risucchiava e ripercorrevo all’indietro tutta la mia vita e l’urlo della luce e nove mesi di dolcissimo nulla, la sua incapacità di uscire da quell’apnea di follia di varcare la soglia, il suo gemito aiutami, lei avvinghiata a me mentre il gorgo la inghiottiva ed io mi alzavo, mi alzavo sempre più, vedevo il campanile dell’abbazia sotto di me e non volevo lasciarla sprofondare, e finalmente il volo insieme al di sopra del buio, la vertigine, la bellezza tremenda del suo viso. Contai tutte le stelle della notte mentre atterravo dolcemente e le donavo quel che restava di me stesso. Aprì gli occhi pieni di lacrime e mi sorrise. Sei bravissimo sussurrò. Ma non ero bravissimo, non ero nulla. Avrei voluto vederla così altre cento, altre mille volte. Ricominciai subito. Quando guardammo l'orologio erano le tre di notte. Mezz'ora dopo mi lasciò davanti al cancello di casa mia. L'inquietudine aveva incominciato a rodermi e non smise finché lei non mi ebbe detto: - Ti va se ci rivediamo ancora? Non ricordo cosa le risposi, ma dovevo essere buffo, perché rise. Nella fretta avevo dimenticato le chiavi di casa. Bussai alla finestra della camera di Teresa; non dormiva, venne ad aprirmi quasi subito. Mi guardò con rimprovero e mi disse di salire le scale senza far rumore. Le diedi un bacio sulla fronte e salii i gradini a quattro per volta.


Il vento dentro

Nel corso dei giorni che seguirono la spiritualità di quella notte si trasformò, chissà come, in uno spasmodico bisogno fisico. Di colpo la mia presunta forza d'animo, della quale ero così orgoglioso, rivelò tutta la sua inconsistenza. Quando la rividi, qualche giorno dopo, mi bastò un'occhiata per comprendere che si sentiva come me. Non vedevamo l’ora di rimanere soli. Lei uscì per prima, io trovai una scusa e la raggiunsi. Durante il viaggio in macchina non dicemmo niente. Saltammo tutti i preliminari, ci togliemmo solo lo stretto indispensabile con gesti frenetici, in un silenzio irreale. Avevamo fretta, una fretta terribile di arrivare alla fine. Lo rifacemmo più volte, sempre con lo stesso esito. Poi rimanemmo a guardarci in silenzio, come scampati a un naufragio. Dopo quella volta ci vedemmo sempre più spesso. Non cercavo più scuse con i miei; uscivo di casa di nascosto, attento solo a non lasciare intuire chi fosse lei, rientravo con la complicità di Teresa. Il giorno trascorreva inutile in una continua narcosi, un conto alla rovescia dei minuti che mi separavano da lei; nel silenzio della mia mente le parole degli altri scendevano ovattate, puri suoni fluttuanti privi di significato; subivo rassegnato i rimproveri di mio padre, guardavo indifferente le lacrime di mia madre. Mi costrinsero a sottopormi a una visita medica per accertare che non fossi drogato; siccome il nome della mia droga non stava scritto nei libri di medicina, ne dedussero che ero sano. Per punizione venni privato della libera uscita. Ne seguì un periodo in cui la nostra imprudenza rasentò la follia: con la scusa di attendere il ritorno di Giuliano, era lei a venire da me tutti i pomeriggi. Saremmo stati colti in flagrante chissà quante volte se non fosse stato per Teresa, che, pur disapprovando quella faccenda, si frapponeva fra me e il resto della mia famiglia come un filtro: quando la sentivo tossire forte o passare l’aspirapolvere senza motivo davanti alla mia camera, sapevo che era il momento di uscire allo scoperto col più innocente dei sorrisi. Conservo un ricordo nitidissimo di quei momenti. Ancora adesso la stessa scarica elettrica mi percorre la schiena quando rievoco le nostre sveltine in bagno, in cantina, nel ripostiglio delle scope (quell’odore di stracci e detersivo ha conservato per me una dirompente carica erotica), dovunque ci sorprendesse un’improvvisa e incontenibile fame che non era di sesso o non solo, era un languore profondo che mi toglieva ogni forza, straziante, intollerabile, da soddisfare immediatamente e a qualunque costo. Cominciava con uno sguardo rapido di sfuggita, una specie di sferzata bollente nelle reni; poi era tutto un inseguirsi fra le stanze fino a trovare finalmente un angolo appartato, un attimo solo, ma che attimo. Era sempre lei a volermi, lei a prendermi. Non c’erano preliminari, io non dovevo fare nulla, era come lasciarsi divorare da una mantide. Sento ancora il suo respiro nei miei capelli, le sue labbra aperte sul mio collo, le sue mani nei miei pantaloni, il bisogno di fare in fretta, in fretta, il piacere che saliva bruciante, vertiginoso, gli orgasmi mozzafiato, quella sensazione calda, viscosa, liquida sul basso ventre, il mio cuore che scoppiava, le mie ginocchia che cedevano, la mia schiena che scivolava contro il muro mentre lei mi sosteneva e mi dava da mordere la sua mano perché non bisognava fare rumore, potevano sentirci, qualche volta potevano perfino vederci, ma credo che non me ne sarebbe importato niente, no, niente del tutto. Mi dicono che col tempo sono diventato un bravo amante. Che stupidaggine. Butterei a mare tutta la mia presunta abilità erotica in cambio di uno solo di quei momenti di sesso elementare, grezzo, crudo, feroce, primitivo. Avevo sempre la febbre, non mi ero mai sentito meglio in vita mia. Quanto a lei, non so cosa provasse esattamente, ma penso che si sentisse più o meno come me. Con una differenza però, che penso di avere sottovalutato: credo che mi temesse tanto più follemente quanto più follemente mi desiderava. Per il momento prevaleva il desiderio, ma l’equilibrio era precario. Io no, non avevo paura. Mi lasciavo vivere con tutto me stesso e basta. Ero un albatros, gareggiavo con i gabbiani, spalancavo le ali, erano ali bianche le mie, grandi, possenti, precipitavo in caduta libera, mi lanciavo in picchiata e poi abilmente cabravo e m’impennavo verso il sole, scendevo a sfiorare le cime degli alberi, sentivo il


solletico delle foglie sulla pancia, la carezza dell’aria sul corpo, mi tuffavo nelle stelle, respiravo la luce, respiravo la notte, sentivo il vento fuori, il vento dentro. Mi sentivo così: divinamente incosciente. Credo che la mia divina incoscienza avrebbe subìto un duro colpo se avessi potuto prevedere che quella sarebbe stata per me la prima e l’ultima volta. La mia inesperienza non mi consentiva di immaginare che con le altre sarebbe stato tutto diverso. Lo intuivo, ma respingevo quel pensiero. Mentivo a me stesso, mi dicevo che no, non poteva essere vero, che il sesso sarebbe stato sempre e comunque stupendo. Non sapevo quanto mi sbagliavo. Solo una volta mi è capitato di vivere un’esperienza altrettanto intensa, ma quello era sesso sporco e non fa testo. Voglio dire, buttarsi in una fogna fa più effetto che tuffarsi in piscina, è normale. Con lei invece non avvertivo nessuna sensazione di sporco. Nulla avrebbe potuto convincermi che era peccato: come poteva essere peccato qualcosa di così bello? Quel delirio, se fosse durato ancora a lungo, ci avrebbe portati entrambi alla pazzia, il che per me non era un problema, ma per lei sì. Era sempre più spaventata. Restava da vedere cosa sarebbe subentrato a quella prima esplosione dei sensi, e francamente non ne avevo la minima idea. Fu una sorpresa, perciò, scoprire che col passare delle settimane il bisogno andava gradualmente placandosi, ma il legame che mi univa a lei non diminuiva né di intensità né di profondità. In altre parole, la amavo. Il giorno in cui compresi questa elementare verità mi sentii folgorato dalla rivelazione, investito di colpo di una dignità sacerdotale. Mi era stato concesso l’incredibile privilegio di amare, amare sul serio, dal profondo dell’anima. Non avevo dubbi che tutto questo fosse sacro. Trascorsi l’intera giornata solo, in meditazione, seduto tra i filari di un vigneto su una collina dalla quale dominavo l’intera vallata senza essere visto. Tegame aveva capito, a modo suo, che il momento era solenne: perciò si arrotolò nell’erba e non si mosse per tutto il giorno. Credo di avere pregato nel solo modo in cui sono capace di pregare, cioè ringraziando il Creatore del dono che mi aveva fatto. Tornai a casa completamente trasfigurato. Lei era in ansia, trovò una scusa per rimanere sola con me in cucina, mi strinse le mani, non capiva. Sorrisi e le baciai teneramente la fronte, poi le dissi di stare tranquilla, le augurai la buona notte ed andai a dormire. Sentivo un nuovo, grande rispetto di me stesso: ero diventato lo scrigno di un inestimabile tesoro, dovevo averne riguardo. Di solito a questo punto i miei interlocutori occasionali (alludo particolarmente ai vari psicanalisti che si sono occupati del mio caso) arrivano alla conclusione che ciò che chiamo amore non era altro che attrazione morbosa, dipendenza sessuale, un comportamento patologicamente deviato, tirano in ballo il complesso di Edipo e altre stronzate del genere. Per lo più evito di contraddirli. Io stesso, in seguito, ho nutrito questo dubbio. Adesso so, come sapevo perfettamente allora, che non è vero. L'attrazione per lei era conseguenza, e non causa, dei miei sentimenti. Attualmente sono indifferente al sesso fin quasi all’impotenza, e questo, se non mi ha impedito di avere rapporti con altre donne, li ha resi per lo più insignificanti. Anche con lei provavo sensazioni fisiche vaghe e remote, nel periodo in cui la sintonia fra noi si era incrinata: e tuttavia averla fra le braccia era per me ogni volta un'emozione indicibile. Io non ho, come molti, la pretesa di definire l'amore; non so come chiamare quel tumulto di emozioni contraddittorie, non so che altro nome dare al mio travolgente desiderio di renderla felice. Chiedo scusa ai professionisti della psiche umana, ma temo che debbano rassegnarsi all'evidenza del fatto che ogni tanto, semplicemente, ci s'innamora, ed è inutile farsi tante seghe mentali per cercar di capire perché. L'istinto mi suggeriva che la via per renderla felice passava attraverso il sesso. Ma non nel senso scontato che viene in mente a chiunque, e soprattutto non in senso patologico. Odio dovermi sempre giustificare. Non so che razza di karma sia il mio, quale strana maledizione io mi porti addosso: sono destinato ad essere sempre frainteso, nessuno è disposto a credermi neppure quando dico la verità; devo sempre motivare tutte le mie affermazioni, quasi che non fossero altro che pretesti per giustificare un comportamento aberrante. È un po' come dover svolgere continuamente un tema di maturità: "Il candidato spieghi esaustivamente i motivi per cui..." Ci proverò ancora una volta. In fondo siamo qui per questo.


C'era in lei un fondo oscuro di solitudine, di immedicabile tristezza, un senso di colpa lacerante del quale lei stessa non era consapevole e di cui non ho mai compreso il significato: ma non era importante comprenderlo, come in genere non è particolarmente importante la comprensione razionale delle cose; l'importante era sentirlo, rispettarlo, cercare di lenire la sofferenza. Osservandola dall'esterno, vedendola muoversi spigliata, elegante, sicura di sé, si poteva facilmente essere tratti in inganno, come lo fu sempre mio fratello. Ma io vedevo al di là dei suoi gesti spavaldi, delle sue gambe accavallate, del suo reggicalze nero, del sorriso provocante, del suo modo di socchiudere gli occhi soffiando in alto il fumo della sigaretta. Certi silenzi, certi smarrimenti, certe durezze, certe inermi dolcezze, il suo sforzo di nascondere la pena per la sofferenza degli esseri inutili e disprezzati, i relitti umani, i ragni schiacciati, le zanzare, i rettili, quel modo nervoso di mordersi le labbra attorcigliando una ciocca di capelli intorno al dito: era quello che vedevo. Vedevo una bambina solitaria, poco desiderata, poco accarezzata, insicura davanti allo specchio che ne rifletteva le spalle ossute, le lunghe gambe magre. Credo che lei non immagini neppure che cosa mi passasse per la testa mentre facevamo l’amore. Se glielo avessi detto l'avrei ferita a morte. L'istinto, dicevo, mi suggeriva che quella bambina troppo magra aveva bisogno di carezze: ma non di quelle profanatrici dei numerosi uomini che l’avevano usata per soddisfare la propria sete di potere; né di quelle superficiali di mio fratello, la cui filosofia di vita, tutta tesa all'azione, escludeva ogni incursione al di sotto dell'apparenza delle cose, classificandola come colpevole perdita di tempo. Nessuno di loro era in grado di arrivare a lei. Sapevo per intuito della sua freddezza, del suo costante fingere, della sua attitudine a eccitarsi intellettualmente senza veri abbandoni: la bambina spaventata poteva arrendersi solo alle carezze di una madre. Ecco perché, in quei primi momenti, nei miei rapporti con lei fui di una dolcezza tutta femminile, che non ho mai riservato a nessun'altra donna. Quello fu forse il solo periodo della mia vita in cui pensai che la mia bellezza avesse un senso: serviva semplicemente a renderla felice. Mi è stato spesso rinfacciato di non avere avuto alcun rispetto per mio fratello, di non avere mai provato rimorso nei suoi confronti. È vero, ma non riesco a vergognarmene. Al di là di ogni evidenza, io avevo l'intima certezza che lei fosse destinata a me da sempre. Per un’imperdonabile distrazione del Demiurgo, era venuta al mondo troppo presto: quando il compiersi del progetto l'aveva condotta accanto a me, un equivoco anagrafico aveva fatto sì che sembrasse riservata a mio fratello. Non gliene volevo per questo, ma era evidente che era lui ad avere usurpato il mio posto, non io il suo. Lui non aveva nulla in comune con Eloisa: erano animali di specie diverse. È naturale che chi legge affermazioni del genere mi prenda per pazzo (fissazione ossessiva mi pare l’abbiano chiamata, ma poi chi lo sa cos'è la pazzia?). Però è un dato di fatto che, quando la vidi per la prima volta, io non la conobbi: la riconobbi. Mi travolse un confuso déjà vu, un'ondata di emozioni che non avevano nulla a che fare con il presente. Col tempo i ricordi cominciarono a riaffiorare alla mia mente: come spiegare altrimenti il fatto che sapevo sempre con certezza, nonostante la mia inesperienza, come suscitare in lei le reazioni che desideravo? Come potevo intuire i suoi bisogni segreti? E come spiegare, anche, la forza dell'attrazione che spingeva lei verso di me suo malgrado? Proverò a chiarire il concetto con un esempio. Quell'anno si giocavano i mondiali di calcio. Obbedendo a un atavico richiamo, mio fratello aveva trasformato il salotto in un accampamento, radunando poltrone e sedie davanti al televisore e costringendo nostra madre, sempre acriticamente condiscendente nei confronti delle esigenze maschili, a sopportare l'invasione quotidiana di orde di amici; di sera si univa alla compagnia anche mio padre, che ridiventava per l'occasione ragazzo e sgranocchiava noccioline accanto a Giuliano, discutendo animatamente con lui: essendo molto simili, infatti, amavano essere in disaccordo su tutto. A questa specie di ammucchiata partecipavano anche le fidanzate di turno, le quali avevano nel contesto una funzione ben precisa: tacere, ricevere pacche sul sedere quando segnava la squadra del cuore, preparare il cibo per gli stanchi eroi del tifo. Solo qualche temeraria, alla quale le rotondità fisiche garantivano un implicito lasciapassare, rimaneva seduta fra gli uomini e ignorava l'esistenza della cucina. Eloisa, alla quale la delicatezza del suo fisico negava questo passaporto, era violentata dalla volgarità della situazione, ma non trovava il coraggio di ribellarsi. Accettava


passivamente il suo ruolo, nascondendosi in cucina ad aiutare Teresa con le sue occasionali compagne di subalternità, scambiando con loro parole di circostanza che umiliavano la sua intelligenza e la sua cultura. Di tanto in tanto si avvicinava a mio fratello per porgergli un piatto o un bicchiere. Sapevo che per lei era una sofferenza continua la presenza di Valentino, quasi sempre in compagnia di ragazze vistose, che esibiva in pubblico senza riservare loro alcun tipo di attenzione. Gli passava davanti in silenzio, con un fruscio di calze. Lui la ignorava con troppa evidenza, come una cosa inutile, segno che la teneva d’occhio. Giuliano la attirava a sé dicendo al televisore grazie amore sei un tesoro. Io, seduto sul divano in fondo alla stanza, la osservavo con disprezzo. Triste destino amare una donna vile. Se qualche uomo mi ascoltasse in questo momento, vorrei dirgli quello che forse avrei dovuto dire allora a mio fratello: una donna (voglio dire una donna che abbia un minimo di intelligenza e di sensibilità) può perdonare molte cose ad un uomo, anche l'infedeltà; se comprende che il movente è forte, che tu sei in difficoltà, può decidere di venirti in aiuto e passare sopra a molte cose. Ma una donna non ti perdonerà mai di averla zittita perché dovevi ascoltare la partita o il telegiornale: perché quella è davvero indifferenza, è arroganza gratuita. Non c'è nessuna ragione davvero valida per anteporre una trasmissione televisiva a lei, non è come innamorarsi di un'altra. Nel preciso momento in cui l'hai zittita per ascoltare il notiziario regionale, hai perso il suo amore per sempre. E ti meriti di essere tradito, cosa che lei presto o tardi farà, innamorandosi in genere del primo venuto. Io questo lo sapevo bene, nonostante la mia giovanissima età, e mi meravigliavo che non lo capisse un cervello di prim'ordine come quello di mio fratello. A volte mi alzavo e andavo in cucina ad aiutarla. Mi mettevo accanto a lei a pelare patate, ad affettare cipolle, senza dire niente. Le altre ragazze mi guardavano come un pazzo. Teresa scuoteva la testa. Lei taceva e sapevo che mi era profondamente grata. Una sera eravamo soli in cucina e stavamo lavando i piatti. - A te non piace il calcio? - le chiesi. - Di solito no. Però mi piace guardare i mondiali - Gusti da donna - Sono una donna - Le donne guardano i mondiali per i giocatori, non per il calcio - È uno sciocco luogo comune - Lo so, l’ho detto apposta - Per chi tieni? - Che domande: per l’Italia, anche se non credo che ripeterà l’exploit dell’’82 - Non per l’Olanda? - Mia madre è olandese, non io. Era una grande tifosa di Cruyff. Ad ogni modo non mi dispiacerebbe se l’Olanda vincesse - È già ai quarti di finale; peccato che debba vedersela con il Brasile: non credo che ce la farà - Difficile azzardare previsioni, dopo l’eliminazione dell’Inghilterra. A proposito d’Inghilterra, che te ne pare di quel nuovo ragazzo del Manchester? - Vuoi dire Beckham? È molto bravo - Bravo, eh? - Era un trabocchetto ingenuo e non ci sono cascata. L’hai chiesto perché ti somiglia un po’ - Ma tu preferisci i bruni, vero? - Già - Se ti piacciono i mondiali perché non vai in salotto?- Non è il momento - C'è un televisore anche in camera mia. Andiamo? - Sei matto? - Pensi che qualcuno sentirà la nostra mancanza? Mi guardò. - Credo proprio di no - rispose asciugandosi le mani. Aprii lo sportello della dispensa e feci man bassa di biscotti e cioccolato. - Tu pensa alle bibite - le dissi.


Da quella sera i mondiali li seguimmo così, chiusi a chiave in camera mia, senza che nessuno prestasse la minima attenzione alla nostra assenza di novanta minuti più eventuali tempi supplementari. Alle partite alternavamo i cartoni animati: mi ero procurato delle videocassette con vecchi cortometraggi di Walt Disney e di Tex Avery e ci divertivamo un mondo a guardarli. Sapevo che aveva bisogno di un grosso risarcimento. Mentre sullo schermo Maradona passava la palla al Wilcoyote e Batistuta dribblava Baggio che vinceva un contrasto con Duffy Duck, noi facevamo l'amore in un modo che è sempre stato il mio preferito. Non sono un esperto di posizioni erotiche e non ho alcun interesse per questo genere di competenze; con le altre donne sono anzi di una sconfortante prevedibilità. Ma con lei era diverso, forse perché il sesso aveva un senso metaforico. Mi piaceva tenerla in braccio senza quasi muovermi, ascoltando in cuffia la musica che amavo, appoggiato allo schienale del letto. In quei momenti, come ho già detto, non pensavo a me stesso: ero un'antenna, ero tutto sintonizzato su di lei, pronto a percepire ogni sua minima reazione fisica. Le sussurravo all'orecchio frasi complici, le dicevo guardati nello specchio sei bellissima, pensa se ti vedesse Vale adesso, puoi pensare a lui se vuoi, e lei a poco a poco si smarriva in un'estasi incosciente. Ogni tanto le riempivo la bocca di cioccolata. In questo modo la costringevo a prendersi quelle rivincite che da sola non era in grado di concedersi, immergendola in un benessere di tutti i sensi, consolandola, per così dire, a trecentosessanta gradi.


Doppio fallo

Con una superba demi-volée di rovescio Valentino si assicurò il punto decisivo: un coro di elogi si levò al suo indirizzo, mentre Maurizio scuoteva la testa: - Va be' ragazzi, non c'è partita quando Vale è così in forma Iniziò il doppio, Giuliano ed Emmanuel contro Giorgio e Michele, mentre Marco fungeva da giudice di sedia. Era un sabato pomeriggio di fine settembre; stavo leggendo e seguivo distrattamente la partita, seduta in panchina mentre Tegame ai miei piedi si mordicchiava qualche pulce immaginaria. Emmanuel era appena ritornato da una vacanza di studio di un paio di mesi a Cambridge, dove i suoi genitori lo avevano costretto a recarsi per perfezionare il suo inglese, lingua che, come molti ragazzi della sua generazione, aveva imparato soprattutto sui testi delle canzoni pop; amava molto la musica americana, e questo aveva conferito alla sua pronuncia un accento un po' yankee che offendeva l’orecchio ipersensibile della signora Helena. Era stato difficilissimo vincere la sua resistenza, dovuta al fatto che non si sarebbe voluto allontanare da me neppure per un giorno, ma in simili frangenti mi imponevo di far prevalere la madre sulla donna; ed era partito. La sera prima mi aveva salutata con un lunghissimo abbraccio, ma io non avevo più l’età per le illusioni romantiche e gli avevo detto non fare il bambino, comportati bene e chiamami appena arrivi. Mi aveva telefonato quasi tutte le sere, non senza stupore di mia madre. Le sue brevi ed intense telefonate erano un ingenuo resoconto delle sue giornate, dei suoi progressi, delle sue malinconie; scherzavo sulle sue conquiste, su una certa Charlotte il cui nome ricorreva troppo spesso nei suoi discorsi; lui non negava di avere infranto qualche cuore, ma il fatto stesso che non vedesse l’ora di raccontarmelo mi rendeva certa del suo affetto, accresciuto dalla forzata lontananza. Una sera, subito dopo i convenevoli iniziali, mi aveva detto a bruciapelo: “Mi sono preso una cotta tremenda”. Poi, dopo una pausa studiata, aveva aggiunto: “Per Shakespeare. Stiamo studiando il primo Amleto, l’edizione del 1603, sai. Letto in lingua originale è da sballo”. Per dissimulare l’emozione violenta mi ero lamentata dell’espressione gergale, rinfacciandogli di avere tradito la lingua italiana per quella inglese. Mi era mancato. Il pomeriggio del suo rientro mi ero precipitata a casa sua: in salotto non c'era nessuno, tranne un ragazzo seduto di spalle sul divano, un tipo molto mod, elegantemente vestito con una camicia azzurro pallido, pantaloni di lino chiari e mocassini color cammello; di lui vedevo solo la nuca rasata e i capelli biondi tagliati con precisione che si dividevano leggermente in mezzo, secondo lo stile inconfondibile dei colleges inglesi. Emmanuel non mi aveva detto di avere invitato un suo compagno. Esitai chiudendo la porta dietro di me: lui si voltò. Non dimenticherò mai lo stupore che mi colse. Hi my love, I missed you so much. Sorrise e si alzò, era più alto di me di tutta la testa, mi venne incontro e mi abbracciò. Rimasi immobile senza ricambiare il suo abbraccio, imbarazzata dal contatto con il seducente estraneo il cui petto emanava un raffinato profumo; un confuso marasma di emozioni si aggrovigliava dentro di me ed alla fine esplose nel più insensato dei sentimenti: l'indignazione. Lo respinsi da me, offesa a morte, e gli dissi semplicemente ma come hai potuto. Lui mi guardò costernato, come ho potuto cosa. Vallo a spiegare. Mi sedetti sul divano. Non riuscivo a tenere lo sguardo fisso su di lui. Infine, decifrando il senso del dolore e del rancore che provavo, mi resi conto di quanto disperatamente mi mancasse il mio ragazzino buffo. Non so come, lui comprese. Si chinò su di me, sussurrò sono sempre io, credevo di piacerti di più, ma non c’è problema, aspettami qui. Si allontanò e ritornò poco dopo indossando i soliti vecchi blue jeans, ormai troppo corti, le scarpe da ginnastica e la camicia a quadri del nonno; sorrise e allargò le braccia come a dire eccomi qua. Lo guardai: era quasi lui. Comunque era abbastanza buffo. Sorrisi fra le lacrime e mentre mi abbracciava compresi una terribile verità: il conto alla rovescia era cominciato. Valentino uscì dal campo. I miei occhi colsero al di sopra delle pagine del libro i suoi forti contrasti: il passo elastico e leggero, le gambe muscolose, la pelle abbronzata, il corpo atletico in maglietta e calzoncini bianchi, il nero dei suoi occhi esotici sotto il nero delle ciglia e dei capelli, il candore del sorriso nel colorito acceso delle labbra e del volto.


Seppi, senza bisogno di alzare lo sguardo, che si stava avvicinando a me. Tegame ebbe un ringhio sordo: Valentino non gli piaceva; lo rabbonii con qualche pacca sulla testa. Mi ero accorta giorno dopo giorno, con profondo stupore, che quell'esperienza umiliante, anziché allontanarci, ci aveva legati in uno strano modo: non soltanto me a lui, ma anche lui a me. Spesso, più spesso di quanto volesse credo, il suo sguardo mi cercava con una intensità distratta, contraddittoria come tutto in lui. Non esprimeva né superiorità né disprezzo, ma una sorta di perplessità mite e distante. Dal canto mio, credo di aver provato per lui, fin dal primo sguardo, un amore violento, primitivo, puro e disinteressato, senza speranza e senza risentimento. Quand’anche mi avesse amata, era impensabile per me condividere la mia esistenza con Valentino: avvertivo in lui un buio profondo, una potenzialità di devastazione che mi incuteva terrore. Era un fenomeno incomprensibile ma degno del massimo rispetto, come un cataclisma naturale. Questa storia non avrà un seguito, aveva detto. In realtà una sorta di strano seguito, o forse dovrei chiamarla appendice, c'era stata, e proprio nei primi giorni dopo la partenza di Emmanuel. Un pomeriggio di luglio, dopo una nuotata in piscina, ci eravamo ritrovati soli nel locale delle docce. Gli altri erano appena usciti. Lui, che per tutto il giorno era apparso incupito e particolarmente distratto, tanto da perdere un paio di partite di pallanuoto con avversari di gran lunga più deboli, stava seduto accanto alla finestra e guardava fuori. - Non fai la doccia? - gli chiesi. - Comincia pure - rispose senza guardarmi. Quando, rivestita e con i capelli bagnati, uscii dalla cabina, lo vidi ancora immobile nella stessa posizione. La muscolatura del suo corpo, sotto la luce radente del tramonto che filtrava dalla finestra, era levigata, scolpita, impressionante. Mi sedetti accanto a lui. - Qualcosa non va? - domandai. - Mia madre ha sei mesi di vita Gli accarezzai una mano. - Dovresti piangere, sfogarti in qualche modo - Non so piangere C'era un altro modo per sfogarsi. Mi alzai in piedi di fronte a lui. Non feci nulla, sapevo di non piacergli molto. Il velluto nero dei suoi occhi accarezzò il mio seno. Oh poter essere bellissima. Abbassai le spalline: il vestito di seta scivolò ai miei piedi. Il mese successivo partì per una crociera con una splendida fotomodella. Mi resi conto di avere sprecato qualcosa, ma non persi tempo a rimpiangerlo. Valentino si sedette in panchina accanto a me e si sfilò la fascia parasudore, scrollando all'indietro i folti capelli; estrasse dalla borsa da ginnastica un asciugamano e se lo passò sul viso e sul petto; mi raggiunse il suo odore caldo di maschio misto alla fragranza amara del suo dopobarba, un odore che ricordavo bene; poi si appoggiò allo schienale per seguire la partita. Da quella posizione nessuno poteva sentirci, ma ci fu ugualmente fra di noi un lungo silenzio. Poi si udì un'esclamazione di Giuliano: - Bravo, Emmanuel! - Trenta quindici - scandì Marco. - Gioca bene, il ragazzino - commentò Valentino - Ha un tipico servizio da mancino, potente, con un bell’effetto. Lo avevo sottovalutato - È una persona molto speciale, quel ragazzino - dissi. - Caruccio, vero? - Molto - risposi voltando una pagina. Tegame ringhiava sommessamente. - Questo cane non mi può soffrire - disse Valentino - Chissà perché - Già, chissà - È un animale orribile, e in più mi sembra anche deficiente. Perché non si decide a buttarlo per la strada e a prendersi un cane come si deve? Ha un fisico elegante, lo vedrei bene con un levriero afghano Alzai gli occhi dal libro e gli rivolsi un breve sguardo senza rispondergli. Ricominciai a leggere. Lui si mise ad asciugare il manico della racchetta. - Che sta succedendo fra voi due? - chiese distrattamente. - Si vede così tanto? - domandai a mia volta. - Io lo vedo -


- Passerà - Stacci attenta Non c'era bisogno di dirgli quanto quella raccomandazione suonasse incongrua sulle sue labbra. Chiusi il libro e fissai il suo profilo. - È un consiglio da amico - disse senza voltarsi. - Credo di avere già avuto qualche saggio eloquente della tua amicizia - Trenta pari - Ti ho fatto del male? - Tu che dici? - Non volevo. Non so quello che volevo. Non so perché l’ho fatto: non sei neppure il mio tipo Da chiunque altro fossero state pronunciate, quelle parole sarebbero suonate profondamente offensive; ma lui non riusciva a fare a meno di essere sincero, e in me, non so perché, l'attenzione per la sua sofferenza e il suo disagio prevaleva sull'orgoglio. - Non pensiamoci più - dissi, appoggiando una mano sulla sua. Tegame ricominciò a ringhiare. Valentino si voltò a guardarmi con un pallido sorriso. - Se vuoi posso provare a rimediare Lo fissai con tutta l'intensità di cui ero capace. - Non se ne parla nemmeno, Vale - Trenta quaranta - Emmanuel, si può sapere a che cazzo stai pensando? - disse Giuliano - È la terza palla che mandi in rete! Volsi lo sguardo al campo: mi raggiunse un muto lampo blu. Valentino abbassò lo sguardo sulla sua racchetta. La partita riprese. - Passerà, te l'ho detto - dissi - Ma per adesso non posso farne a meno Lui mi fissò, aggrottando leggermente le sopracciglia nello sforzo di capire. Poi disse pacatamente: - Sei seduta su una bomba, sorellina: il male che ti ho fatto non è neppure paragonabile a quello che può farti lui. Fra me e te il match è ad armi pari: un uomo contro una donna. Con lui sei perdente in partenza - Perché contro? - Perché è sempre contro Osservò con distratta attenzione una piccola crepa nel manico della racchetta. - Tu ed io possiamo essere amici se vogliamo, tu e lui non lo potrete mai. Lui può farti saltare per aria. In mille pezzetti, capisci? Ma insomma, la vita è tua - Stai cercando di dirmi che vuoi essere mio amico? - Non lo so ancora cosa voglio da te. È incredibile come ti dai via. Mi ecciti e mi disgusti, sorellina Lo fissai freddamente. Ricambiò il mio sguardo da qualche sua astratta lontananza. Sbadigliò, si stirò leggermente come un gatto pigro, si appoggiò pesantemente allo schienale, lasciando che il suo grosso braccio muscoloso sfiorasse il mio. Cominciavo a conoscerlo e sapevo che erano tutti sintomi di malessere. - Come sta tua madre? - gli chiesi. - Pesa trentanove chili - Mi dispiace - Mio padre si è messo con una di vent’anni. Non vivo più con lui, mi sono preso un attico in collina Ci fu un altro silenzio. Poi disse: - Vieni da me stasera? - Doppio fallo Giuliano, spazientito, gettò a terra la racchetta. - Insomma, Emmanuel, - esclamò - dove sei con la testa? - Hai ragione, - rispose lui - non sono proprio in serata Si tolse la fascia dai capelli biondi e corse leggero al bordo del campo, rivolgendo a Valentino un sorriso disarmante: - Ti dispiace se riprendo il mio posto? In panchina, voglio dire Valentino ricambiò il sorriso e si alzò: - D'accordo. Giocherò al posto tuo Giuliano parve molto soddisfatto del nuovo compagno. La partita riprese. Emmanuel si sedette al mio fianco, accarezzò Tegame che si era subito alzato per fargli le feste e


cominciò a strofinare energicamente con un asciugamano il manico della sua racchetta, senza parlare. C'era un'atmosfera di temporale. Ruppi il silenzio: - Stavi giocando bene: cos’è successo? Continuò a riordinare metodicamente le sue cose. - Sei arrabbiato? - gli chiesi con dolcezza. Ignorò la mia domanda. Mi rivolse uno sguardo gelido e disse: - Vado a fare la doccia Si allontanò senza aggiungere altro, seguito dal suo cane. L'informazione era stata formulata con un inequivocabile tono imperativo. Attesi qualche minuto; poi, approfittando di un rovescio finito fuori campo, dissi a Giuliano che avevo freddo e che lo avrei atteso in casa. Mi guardò un po' perplesso, grondando sudore, e mi comunicò che la partita non sarebbe durata più di una mezz'oretta. Valentino intervenne: - Io però vorrei la rivincita per la sconfitta di ieri Giuliano gliela concesse. Valentino sorrise saggiando le corde della racchetta. Mi allontanai a rapidi passi. Il locale delle docce era al pianterreno, in un'ala piuttosto isolata della villa. Mentre vi entravo mi colpì il consueto sentore di muschio e di cloro; sotto le alte volte del soffitto l'eco dei miei passi si alternava al ritmico gocciolare di un rubinetto mal chiuso. - Emmanuel? - dissi con tono interrogativo. Non mi rispose. Lo vidi però improvvisamente dietro di me, tanto che quasi ne ebbi paura. Chiuse a chiave la porta del locale e vi appoggiò le spalle senza parlare, gli occhi di un torbido blu scuro, il petto che si sollevava in lenti respiri. Mi fissò a lungo. Poi disse, con un tono di voce insolitamente basso: - Hai un livido sulla spalla, amore. Sei caduta dalle scale? Mi irritò dovermi giustificare con lui. - Non sono la tua fidanzata, ragazzino - ribattei - Non è a te che devo rendere contoIl tono della sua voce si abbassò ancora. - Quante volte è successo in mia assenza? - Due, tre, dieci. Non ho buona memoria per certe cose - E magari anche qui Lo guardai negli occhi. - Sì, anche qui: su questo pavimento Tacque nuovamente, continuando a fissarmi. - Povera Eloisa, - disse come soprappensiero - devi essere malata Provai un inesprimibile disagio. Ci fu un altro silenzio; poi Emmanuel si mosse improvvisamente. Allungò un braccio verso il guardaroba, prese una manciata di asciugamani e li gettò ai miei piedi, sul pavimento di piastrelle azzurre. - E adesso cosa fai? - chiesi. - Cosa facciamo, amore. Lo sai che faccio sempre quello che piace a te Afferrò i miei polsi con una forza che non avrei mai sospettato in lui. - Chiudi gli occhi - disse - Giuro che non ti accorgerai della differenza _._ Lo scroscio uniforme della doccia durava ormai da un quarto d'ora quando mi decisi ad allontanare la tenda. Mi voltava la schiena, la fronte e i gomiti appoggiati alla parete di piastrelle, stringendosi la testa fra le mani, mentre le sue spalle si contraevano in un singhiozzo irregolare. Disse con ferocia: - Vuoi lasciarmi in pace, per favore? Richiusi la tenda ed uscii dal locale. Mi sentivo benissimo, malissimo, una sensazione completamente nuova. Mentre camminavo ubriaca nel parco ne compresi improvvisamente il senso e dovetti sedermi per non cadere. _._ Erano le sette e mezzo quando scorsi finalmente il suo motorino appoggiato ad un albero sulla riva del torrente. Il cielo si era un po' rasserenato, ma rimaneva nell'aria come un preludio di tempesta, una strana carica elettrica. Svoltai verso la solita radura ed improvvisamente lo vidi seduto sulla sponda erbosa, le ginocchia piegate, intento a lanciare sassi nel torrente; Tegame, compreso della sua stessa tristezza, stava sdraiato con il muso nel suo grembo.


Emmanuel si accorse del mio arrivo, ma non si voltò e non interruppe la meccanica ripetitività dei suoi gesti; il cane invece si lanciò contro di me abbaiando, mostrando i denti e rizzando una cresta di peli grigi sul collo, pronto a tutto pur di difendere il padroncino. Lo chiamai: abbassò immediatamente le orecchie, mi si avvicinò quasi strisciando e dimenando la coda. Lui non disse e non fece nulla. Mi fermai al suo fianco senza parlare. Raccolse un altro sasso e lo scagliò lontano: lo guardò cadere nell'acqua ascoltandone il tonfo; poi disse: - Vorrei restare solo, se non ti dispiace Mi inginocchiai accanto a lui: - Me ne vado subito - risposi. Non parlò; smise di gettare sassi nel torrente ed appoggiò le braccia sulle ginocchia. - Gli aironi hanno fatto il nido in mezzo al canneto - Davvero? - Quello è il maschio - continuò, indicando un uccello grigio immobile in mezzo ad una secca. Seguii con gli occhi il gesto della sua mano e riportai lo sguardo su di lui. - È bellissimo - dissi. Si udì un tuono lontano. - Credo che stia per piovere - riprese. - Lo credo anch'io - risposi, togliendogli un filo d'erba dai capelli. - Non toccarmi, per favore. Fra poco arriveranno i gabbiani. Dopo il tramonto si radunano su quell'isolotto. C'è anche qualche cormorano; se ne vedono sempre di più Gli presi una mano. - È buon segno, - continuò - vuol dire che il torrente non è poi così inquinato Liberò la mano e raccolse un pezzo di plastica staccatosi dal telaio del motorino. - Non si riaggiusta più - disse fra sé. Il buio stava scendendo, nel canto ostinato dei grilli. Appoggiai la fronte sulla sua spalla. - Quelle farfalle - riprese - volano troppo vicino al lampione: si bruceranno le ali - Smettila - sussurrai. Tacque, rigirando il pezzo di plastica fra le mani. Poi disse: - Che cuore ospitale: c'è spazio per me, mio fratello, Valentino. Come ti ci raccapezzi in quella confusione?- Ciascuno di voi occupa un posto tutto suo - risposi. Alzai il viso a guardarlo e vidi freddi laghi di montagna fissarmi con una calma mortale. Scosse il capo: - Così non vale, Eloisa: è finita fra noi Un senso di disperazione mi azzannò lo stomaco. - Adesso non posso - dissi - Dammi un po' di tempo - Quanto? - Quanto vuoi tu Ci pensò un attimo. - Questa notte. Tutta la notte. Ma niente sesso: ho la febbre Accettai incondizionatamente: stavo precipitando in caduta libera e il senso di vertigine era così forte che provai sollievo al pensiero di schiantarmi presto. All’improvviso mi ricordai che aveva solo sedici anni: - I tuoi si preoccuperanno non vedendoti rientrare - Ho con me il cellulare: li avvertirò di non aspettarmi- Dove passeremo la notte? - Nel vecchio fienile Avrei voluto dire qualcosa di importante, ma il mio cervello era pieno di marmellata. Dissi con solennità: - Le zanzare ci divoreranno Un lampo blu attraversò i suoi occhi: scoppiò a ridere suo malgrado. Era ormai buio e fu solo accarezzandomi la guancia che si accorse delle mie lacrime. Mi abbracciò. Lo strinsi a me e lo sentii caldissimo, scosso dai brividi. Non doveva accorgersi che al suo solo contatto tutti i miei sensi si sgangheravano. Rotolai sopra di lui e coprii di casti baci ogni centimetro del suo corpo: rimase immobile ad occhi chiusi, con le braccia aperte, come crocifisso nell’erba: il suo viso sofferente era di una bellezza purissima; intrecciai le mie dita alle sue ed appoggiai la testa sul suo petto, ascoltando il suo respiro, il battito accelerato del suo cuore. Le falene volteggiavano intorno ai lampioni, precipitavano ubriache di luce. Travolta dal paradosso, provai una gioia incontrollabile e un infinito rimorso.


Onnipotenza

Quel pomeriggio di settembre qualcosa si era rotto in me, forse il cordone ombelicale che mi teneva attaccato alla vita, e io vagavo diverso e sconclusionato come una marionetta ubriaca. Ragazzo incauto, avevo accettato la sfida con la donna e avevo perso. Lei era la sintesi perfetta di tutta la mia vita: un volo orizzontale, ininterrotto, strano, un valzer nella nebbia senza radar, alla cieca. Il male che mi aveva fatto irrancidiva dentro di me e non riuscivo a perdonarla. Continuavo ad amarla con la stessa intensità con cui desideravo sbarazzarmene: era come un’ustione nell’anima, bruciava maledettamente. Per qualche settimana i nostri rapporti si mantennero costanti. La scuola era ripresa e dovevo esclusivamente alla sua ostinazione il fatto di riuscire a trascinarla avanti in qualche fiacco modo. Quando studiavo rimaneva accanto a me per ore senza cedere ad alcuna lusinga, immersa a sua volta nella lettura. Poi chiudevo i libri e la guardavo senza dir nulla. E il gioco ricominciava. Sapere che anche lei, sia pure nel suo strano modo, mi amava, mi offriva un'arma sottile di vendetta. Avevo fatto sì che si fidasse ciecamente di me, come testimoniavano i suoi abbandoni fisici; questo mi dava un potere assoluto su di lei: non mi restava che esercitarlo. Saltai il fosso e cominciai a strafare. In breve la conoscevo così bene da prevedere ogni sua reazione; ero anzi in grado di provocare in lei esattamente le reazioni desiderate, di imporgliele, di imporle anche i tempi se bisognava fare in fretta. Un senso di onnipotenza si era impadronito di me. Inventavo per lei giochi sempre nuovi: quando non potevamo vederci, ad esempio, lo squillo del telefono a un'ora prestabilita significava che stavo pensando a lei; sapevo perfettamente che non avrebbe potuto fare a meno di sentire quello che sentivo io, perché il mio corpo era il suo, le mie sensazioni erano le sue, ero in grado di trasmettergliele anche a distanza, dovunque fosse, con chiunque si trovasse. In questo modo l'avevo legata a me ed ero sempre con lei, giorno e notte. Intanto il disgusto che provavo per lei cresceva di pari passo con la mia gelosia. Mi pesava ogni giorno di più la consapevolezza di mescolare le mie carezze e i miei baci, per non parlare del resto, con quelli di qualcun altro. La tempestavo di domande indiscrete mentre facevamo l'amore: volevo sapere quante volte lo aveva fatto, e quando, e dove, e come, e cosa aveva provato. Non mi accontentavo di risposte generiche: volevo conoscere ogni minimo dettaglio dei preliminari, quale posizione avevano scelto, quanto era durato esattamente, quanti orgasmi aveva avuto, di quale durata e intensità, quanto le era piaciuto da uno a dieci, e se rispondeva tre non ci credevo e m’incazzavo, e se rispondeva dieci soffrivo come un cane e le dicevo sei una maledetta puttana mi fai schifo e lei scoppiava a piangere, e allora la baciavo con tenerezza e le dicevo brava amore mio sei stata sincera, non devi nascondermi niente, niente. Lei non riusciva a fare a meno di rispondermi, sopraffatta da quell'eccesso di intimità; e mentre le rivoltavo l'anima come un guanto provavo una nausea fredda e inesorabile. A tratti pareva riscuotersi come da un sogno: la coglievano improvvisi terrori e cominciava a sussurrarmi basta, a tremare come se avesse freddo. Era troppo orgogliosa per chiedermelo, ma sapevo che aveva bisogno di essere abbracciata: sentiva che mi stavo allontanando da lei. Quelle sue mute richieste di aiuto mi causavano un senso di lacerazione così profondo che dimenticavo all'improvviso ogni rancore: la prendevo in braccio avvolgendola nel mio maglione, cullandola leggermente, sussurrandole va tutto bene, finché non smetteva di tremare e si addormentava. Io rimanevo sveglio e ascoltavo le voci della notte, il suo respiro regolare, il battito del mio cuore, il senso di assoluta pienezza della vita. Oh se solo lei fosse stata una bambina cieca, deficiente, una povera creatura handicappata da tenere per sempre così. È questo il più puro ed intenso dei miei ricordi, che istintivamente associo all'idea della beatitudine eterna. Ma presto si faceva largo nella mia mente un'immagine, sempre la stessa. Ero un altro, bellissimo e violento, e lei distesa sotto di me sul pavimento di piastrelle azzurre chiudeva gli occhi per accarezzare i suoi capelli neri al posto dei miei, per graffiare le sue spalle muscolose di uomo al posto delle mie di adolescente, si lasciava insultare, fare del male e ripeteva sì in un crescendo così vertiginoso che alla fine dovevo premerle un asciugamano sulla bocca per impedirle di gridare impazzita il suo nome. Il


piacere che mi coglieva alla sprovvista era orrore innominabile: avvertivo distintamente lo schianto della mia anima. Avevo sempre intuito in lei questa insidiosa fisicità, ma l'avevo accettata come un dato di fatto; ora invece era come un ragno, un disgustoso ragno nero fra noi, e un impulso irrefrenabile mi induceva a schiacciarla. Una notte, senza alcun nesso con quello che stavamo facendo, le dissi: - Ieri Valentino è stato qui - Perché me lo dici? - Nulla, così. Era con una ragazza Tacque, accarezzandomi una mano. - Era molto bella - ripresi - Splendidi capelli, alta, seno stupendo. Giovanissima: avrà avuto più o meno la mia età Smise di accarezzarmi. - Non mi sembravi così sensibile ad un certo tipo di fascino femminile - Io forse no, ma lui a quanto pare sì. E poi sai, crescendo si cambia Anche altre volte cercai, trovai il modo di ferirla. Provavo uno strano piacere nel farlo. Mi ripromettevo quasi quotidianamente di restituire un senso più elevato al nostro rapporto, ma prevaleva in me l'istinto di osare, di sperimentare fino in fondo il mio potere. Una sera non volle vedermi. Le telefonai verso le dieci: non era in casa. Il pomeriggio seguente, mentre stavamo preparando insieme un'interrogazione, ebbe un improvviso slancio di tenerezza e mi circondò il collo con le braccia. Poi si ritrasse leggermente e mi disse: - Hai uno strano profumo Io le dissi a bruciapelo: - Ieri sera sono uscito con un'amica Non disse nulla. Inarcai la schiena. - Non contare su di me oggi: ho un fastidioso mal di reni. Sai, non siamo semplicemente andati a prendere un gelato - Guarda che l'avevo capito - rispose lei. Feci una faccia molto seria. - Volevo parlartene. È la prima volta che ti tradisco, ed è giusto che tu lo sappia. Lo sai che sono sempre sincero con te. Immagino che tu voglia sapere com’è andata. Non male, nel complesso. La parte migliore sono stati i preliminari, il resto è stato piuttosto faticoso: la signorina aveva qualche problema di frigidità. Ma sono stato bravo, sai. Puoi essere orgogliosa di me Tacque ancora. - Spero che non ti dispiaccia - aggiunsi - In fondo non ho fatto altro che mettermi sul tuo stesso piano Uno schiaffo violentissimo mi bruciò la guancia. Da qualche remota lontananza scrutò a lungo i miei lineamenti, come chi rivede una persona cara dopo molti anni e stenta a riconoscerla. Volli dire qualcosa, volli fermarla, ma lei s'era alzata ed era uscita. Corsi nell’ingresso: Teresa mi guardò con occhi severi e mi comunicò che la signorina Eloisa se n’era andata senza prendere la borsa. Sentii il rombo della sua automobile, le gomme che stridevano sull’asfalto della strada. Tornai in camera, mi appoggiai allo schienale del letto e chiusi gli occhi. Stavo sbagliando tutto. Ma non poteva fare a meno di me: sarebbe ritornata. Quanto meno a riprendere la borsa. _._ Non la rividi più. Dovevo averla ferita a morte. Nei primi tempi non sentii niente di niente. Prevaleva su tutto il senso di liberazione dall’incubo. Ero felice di esistere nel sole, di respirare l’aria, di camminare per le strade a naso in su, di guardare le nuvole, libero, solo, pulito. La leggerezza dell’essere mi era perfettamente sostenibile. Dopo qualche settimana la mia libertà cominciò a riempirsi di vuoto. I miei pomeriggi divennero l’apoteosi del nulla. Iniziai a sentirmi trasparente, invisibile; mi stavano proiettando su uno schermo e il film era una noia mortale. Passavo ore ed ore in camera


a fissare il soffitto; non portavo più Tegame al fiume, e quando lui si lamentava lo lasciavo uscire in giardino, solo. Poi, senza motivo apparente, i ricordi del mio passato con lei, che avevo rimosso, cominciarono ad infilarsi nei cassetti, fra le pagine di un libro, nell’odore del mio cuscino, nei sogni. E, filtrati dalla lontananza, non erano più così orribili, anzi portavano con sé una specie di seducente dolore e il ricordo fin troppo tangibile del piacere. Mi accorsi che il mio corpo soffriva. Non avevo mai fatto i conti con l'astinenza. La sua presenza fisica mi mancava ogni giorno di più. Tuttavia, incredibile a dirsi, sulle prime non me ne preoccupai: ancora in preda al mio delirio di onnipotenza, ero certo di poterla surrogare. Cos’era lei in fondo? Una ventinovenne mediocre, una cagnetta in calore con l’aria da intellettuale, un bluff: i maschi annusavano la sua disponibilità all’accoppiamento e la scambiavano per fascino. La mia situazione era ben diversa. Non che mi piacesse vantarmene, ma sapevo di essere un ragazzo di una bellezza fuori del comune. Peggio per lei se era stata così stupida da non apprezzare il privilegio che le avevo concesso, peggio per me se ero così cretino da soffrirne. Al diavolo tutto. Mi procurai alcune storielle con ragazze di cui non ricordo neppure il nome, al solo scopo di assicurarmi l’appagamento dei sensi in cui, venuta meno la stima, pensavo consistesse la mia attrazione per lei. Ero convinto che con quelle esperienze volgari avrei messo a tacere il mio corpo e mi sarei potuto finalmente dedicare alla mia ricerca interiore. Fu una sorpresa indicibile per me accorgermi che durante quegli squallidi incontri tutto restava uguale, i mobili intorno rimanevano mobili, il tappeto sotto di noi era proprio un tappeto, si sentiva l'odore della cera appena passata e quello di deodorante delle loro ascelle, loro dicevano oh Emmanuel come in un fotoromanzo di quart'ordine, io sfoggiavo la tecnica che conoscevo bene e non ero più bravissimo, neppure bravo, anzi appena passabile, perché sinceramente di quello che provavano non me ne fregava un cazzo; e poi alla fine quella sensazione irriconoscibile, che non saliva al cervello e non produceva nessun brivido cosmico, nessun delirio, nessun decollo. Cominciai a trascorrere lunghe ore chiuso in camera, rievocandola con il pensiero: lei finta, lei solo pensata, era mille volte più appagante di quelle ragazze vere. Poi uscivo dalla mia camera e la vedevo chiacchierare indifferente con mio fratello, lanciando appena uno sguardo alle mie occhiaie. Divenni malato, incapace di distinguere la fantasia dalla realtà. Nuotavo nell’acquario con quella strana muffa addosso. Aspettavo soltanto un segno, e il segno arrivò. Un giorno, mentre ero in camera, sentii un guaito provenire dal giardino. Corsi giù e vidi Tegame seduto sulle zampe posteriori in una strana immobilità; un grosso alano nero stava scappando attraverso un buco nella recinzione. Mi avvicinai lentamente: Tegame aveva la giugulare squarciata da un profondo morso, perdeva sangue dal naso e dalla bocca. Tossiva e mi guardava scodinzolando con fatica per chiedermi scusa e farmi coraggio. Mi resi subito conto che non c'era nulla da fare. Gli accarezzai la testa finché non morì. Trasportai il cadavere alla radura nel bosco e con attrezzi di fortuna, pezzi di assi e rami scheggiati, scavai una fossa abbastanza profonda. Qui calai il mio grande amico. Ricoprii la buca di foglie e fiori, in modo che la terra non fosse a diretto contatto con il corpo. Poi la riempii e vi piantai sopra una rudimentale croce. Rimasi al suo fianco fino al tramonto e non piansi. Non ce n’era motivo: quel dolore non sarebbe durato a lungo. Provavo anzi un grande sollievo, perché ora finalmente era tutto chiaro. La mia eliminazione era prossima.


Per altre vie

La fine del gioco non si decideva ad arrivare e nell'attesa non potevo continuare così: stavo impazzendo. Un pomeriggio, mentre mi alzavo faticosamente dal letto, lo specchio mi rifletté gli effetti del mio continuo macerarmi; come Narciso alla fonte fui completamente sedotto da ciò che vidi: una creatura in leggero disfacimento dai torbidi occhi viola, dalle guance smagrite, il cui sguardo sbattuto di bambola ricambiava il mio sguardo attraverso la cortina dei lunghi capelli biondi. Non sarebbe stato difficile tentare una via nuova. Da tempo provavo una speciale simpatia per un mio compagno di scuola più grande di me di un anno, un ragazzo imponente, intelligente e sensibile, con una passione per la politica che rispettavo senza condividerla. Andavo alle assemblee solo per ascoltarlo; era bello sentirlo parlare, anche se non sempre capivo tutto quel che diceva. Me ne stavo in prima fila seduto per terra in aula magna e lo guardavo col naso all’insù; anche lui, ogni tanto, mi guardava. Non ci eravamo mai parlati. Si chiamava Antonio Scicchitano, ma tutti a scuola lo chiamavano Che Guevara, perché gli assomigliava. Era figlio di operai originari di un paesino in provincia di Siracusa. Aveva solo diciott'anni, ma era come se ne avesse venti di più: era l’ultimo dei figli del Sessantotto; si sentiva a disagio fra i ragazzi della mia generazione, immerso nella nostra cultura disillusa e minimalista. Il suo stesso aspetto fisico, i suoi occhi scuri intelligenti, emanavano un carisma naturale; i professori avevano per lui un particolare rispetto, lo trattavano quasi come un loro coetaneo; era un ottimo studente, vincitore di parecchie borse di studio, ed era il leader indiscusso di un movimento politico all’interno del nostro istituto. S’era fatto un nome anche fuori: a Palazzo Nuovo tutti conoscevano Antonio Che Guevara; anche chi non condivideva le sue idee finiva per ascoltarlo quasi con soggezione. Di chiunque altro si sarebbe potuto ridere, ma di lui no: lo stavano a sentire mentre predicava nel suo ibrido italiano dall’accento un po’ greve, con troppe doppie e con tutte le e chiuse, rivolgendo ai presenti il suo sguardo pacato; non alzava mai la voce, non ne aveva bisogno: tutti lo ascoltavano in religioso silenzio, anche se il suo vangelo laico era roba vecchia, merce usata che solo lui vendeva ancora con zelo missionario; e mentre sciorinava perline, vetri rotti, specchietti e fondi di bottiglia, era veramente convinto che fossero diamanti, e gli altri ci credevano perché ci credeva lui. Era un buon parlatore e un ottimo ascoltatore, virtù rara in un giovane politico. Durante le assemblee seguiva gli interventi con rispetto e interesse, appoggiato al muro con le braccia incrociate, chiedendo silenzio con un gesto della mano e imponendolo con sguardo severo quando gli studenti si distraevano e chiacchieravano forte. Poi abbassava la testa, si avvicinava al microfono e dopo un attimo di raccoglimento sollevava gli occhi. Si faceva silenzio. Antonio esordiva quasi sempre con una battuta: la sua arma principale era l’ironia: amava scherzare sui suoi avversari; sapeva che non si può contemporaneamente ridere e credere. Le sue frecciate erano tanto più smitizzanti quanto più l’interlocutore si prendeva sul serio, il che accadeva in genere con il gruppo politico-religioso di Battesimo e Salvezza. Ricordo che una volta durante un’assemblea un biessino (così venivano chiamati gli esponenti del movimento), rivolgendogli uno sguardo di fuoco, disse: “E ricordati che parlo di fronte a Dio”; Antonio senza scomporsi rispose: “Non credevo che mi tenessi in così alta considerazione”. Un’altra volta un biessino, durante una polemica sull’aborto, lo accusò: “E tu dici di essere un credente? Vorrei proprio sapere come ti comporti davanti alla comunione!”. E lui, tranquillo: “Apro la bocca e ingoio l’ostia”. Sommergere gli avversari nel ridicolo era la sua specialità: ma lo faceva senza cattiveria, e perciò tutti gli volevano bene. Un giorno, durante la rituale autogestione, per un pretesto da niente ci fu una rissa fra biessini e gruppi di estrema sinistra. Mentre uno studente stava tenendo un discorso che obiettivamente faceva cascare le palle (tradotto per i profani, era un distillato di melassa reazionaria), si levò prima un mormorio di protesta, poi un grido, “Collaborazionisti del cazzo!”, poi una bordata di fischi, una serie di “Basta!”, un coro di “Va-ffan-cu-lo, va-ffan-cu-lo”. Il biessino esclamò “Eccola la vostra democrazia!”, qualcuno cominciò ad agitare i pugni chiusi e la discussione degenerò in tafferuglio.


Antonio si precipitò sul palco, disse al microfono: “Basta vi prego, stiamo perdendo tutta la nostra credibilità, basta perdìo, ci sono i ragazzini del ginnasio”, ma ormai era troppo tardi. Nel corso della rissa, mentre cercavo di defilarmi, fui urtato da una gomitata: il naso cominciò a sanguinarmi e dovetti uscire di corsa per andare in bagno. Antonio gridò “Siete delle bestie”, scese dal palco, separò i contendenti e pose fine ai disordini. Poi lasciò l’aula magna e venne a cercarmi. Ero seduto sul davanzale della finestra, con il fazzoletto premuto contro il naso, quando lo vidi entrare. - Ti sei fatto male? - mi chiese. - Non è niente - risposi. Mentre mi aiutava a tenere la testa rovesciata all’indietro lo vedevo appoggiare sguardi diffidenti sui miei capelli lunghi, sull’orlo scuro delle mie ciglia, sul mio orecchino, sulla mia maglietta aderente, sui miei jeans sapientemente strappati, sul bracciale d’oro al polso della mano che reggeva il fazzoletto. Commentò con un mezzo sorriso: - Be’, almeno il pregiudizio della virilità siamo riusciti ad eliminarlo; o forse è semplicemente una questione di trend. Ma voi che cazzo di generazione siete? Passate la vita in attesa del prossimo plagio; tra un po’ ti toccherà metterti un orecchino al naso, farti la permanente o rasarti il cranio: e così non ti sarà servito a niente schiarirti i capelli Il sangue mi colava tiepido e dolciastro giù per la gola. - Sono biondo naturale - dissi. Antonio scosse la testa e rise. Aveva una bella risata, franca e aperta. Poi si sedette sul lavabo e percorse con lo sguardo le piastrelle di ceramica verdina piene di disegni osceni e di scritte fatte col pennarello. - Perfino le scritte sono diventate cretine; va be’ che non ci si può aspettare gran che dalle scritte dei cessi... - Non riesco a leggere - dissi; la posizione in cui mi trovavo mi impediva di vedere la parete di fianco a me. Antonio cominciò: - “Marco ama Silvia”; “Barbara la dà a tutti”: conoscerla, questa Barbara; eccone una ermetica: “Davide c’è”; poi si va sul banale: “Paolo frocio”; “In questo cesso mi sono fatto Cristina”; “Io invece in questo cesso mi sono fatto”, che è sicuramente la risposta al precedente. Continuo? - Perché no? Mi diverte - “Debiasi stronzo”: ma il professor Debiasi è andato in pensione cinque anni fa; a quanto pare stiamo esaminando una zona di reperti archeologici. Senti questa, è un vero pezzo d’antiquariato: “Autogestiamoci la vita” - Una femminista - Credo anch’io. Qui abbiamo un pregevole esempio di velleitarismo fine a se stesso: “La sola differenza fra la nostra violenza e la vostra è che noi abbiamo ragione”; e qui: “I migliori hanno perso ogni...” non riesco a leggere: piede? - Fede - azzardai dalla mia scomoda posizione. - Ecco, sì: “I migliori hanno perso ogni fede”. Questa è profonda - Che cosa vuol dire? - Vuol dire troppe cose, non si può spiegarlo così nel cesso di una scuola. Ma ti trema il braccio: vuoi che te lo regga io il fazzoletto? - Sì, grazie: sono un po’ stanco Lasciai che Antonio premesse con delicatezza il fazzoletto sul mio naso; mi parve che provasse un lieve imbarazzo al mio contatto. Volse lo sguardo altrove: - Tanto per cambiare il pavimento è sporco, - disse - sui lavabi non c’è sapone e non c’è carta igienica nei gabinetti. Ci trattano come maiali In effetti avvertivo, pur attraverso il fazzoletto, un miasma ammoniacale di orina. - Di che classe sei? - mi chiese. - Seconda C - Non ti si vede spesso nei corridoi - Non mi faccio vedere molto in giro e soprattutto non frequento le ragazze: ultimamente sembra che da me non si aspettino altro che di essere sbattute contro un muro Rise a questa mia affermazione. - E non sei contento? Come vorresti che ti trattassero? - Come una persona, credo Alzai il polso e guardai l’orologio: era passata una ventina di minuti. - Ti sto facendo perdere tempo - gli dissi - Sei stato molto gentile, ma adesso sto meglio. Puoi andare se vuoi -


Mi morsi la lingua: quel “puoi andare” suonava come la concessione di un giovane principino al suo suddito ed io non volevo apparirgli come quel ragazzo ricco e viziato che in effetti ero. Lui sorrise senza rispondere. Arrossii leggermente cogliendo il suo pensiero inespresso: nonostante il mio travestimento grunge, probabilmente emanavo un inconfondibile odore di razza eletta. Ciò nonostante rimase accanto a me in silenzio. Io appoggiai la nuca al muro, chiusi gli occhi e non dissi più nulla. Mi piaceva, mi piacevano la purezza e la profondità del suo animo; era una persona speciale. Io di speciale non avevo altro che la mia bellezza; pensai che finalmente avevo trovato qualcuno che la meritasse, qualcuno con cui non mi sarebbe sembrato di prostituirmi. Non so cosa mi facesse credere che sarebbe stato disposto ad accettare il mio dono. Dopo quella volta ci vedemmo spesso: trascorrevamo lunghe ore passeggiando ai Murazzi, bevendo birra e mangiando hamburger nei pub, cantando canzoni degli anni Settanta che lui accompagnava con la chitarra. M’insegnò a suonare, una cosa che avevo sempre desiderato, pochi accordi che però mi entravano dritti nel cuore; mi esercitavo spesso sotto il suo sguardo attento, correggeva la posizione delle mie dita, m’incoraggiava. Provai anche a cantare, un’altra cosa che avevo nel sangue e che non avevo mai osato mettere in pratica. Ero molto timido, non avrei mai potuto cantare in pubblico, ma con lui era diverso. Non avevo una gran voce, voglio dire, niente di simile allo yarragh di Kurt Cobain che amavo tanto, ma ero molto intonato. Sussurravo, più che cantare, ma l’effetto complessivo non era male, anche perché la mia pronuncia dell’inglese era perfetta. Antonio diceva che era molto bello ascoltarmi. Stavo bene con lui. Entrammo in contatto con un gruppo teatrale chiamato Tantra, che provava in uno scantinato e si esibiva al Macondo, una birreria sul fiume. Girava molta roba fra gli alternativi, più che altro fumo, eroina, LSD e coca; niente crack e droghe sintetiche, solo roba classica. Antonio disapprovava e si asteneva, ma sembrava che considerasse doveroso frequentare quegli ambienti di scoppiati. Io lo seguivo e osservavo. Giudicavo, anche, ma mi tenevo tutto dentro. Mi piaceva assistere alle prove del gruppo. I loro spettacoli erano allucinazioni collettive, a tratti affascinanti, a tratti solo esibizionistiche. Siccome fra le mie perversioni non rientra il voyeurismo, mi sentivo spesso urtato dalle scene alle quali assistevo. L’autrice dei testi, nonché leader del gruppo, si chiamava Irene Giordano ed era una venticinquenne pallida e terribilmente bionda, un’isterica lucida che probabilmente avrebbe voluto farsi ma non ne aveva il coraggio, e perciò sfogava le sue tensioni con il sesso. Ma lo viveva male. Lo so perché per un certo periodo le sfogò con me. Quasi tutte le sere, alla fine delle prove, passavo un paio d’ore con lei in macchina, cercando di darle quell’animalità di cui aveva bisogno; fu uno strano periodo quello, non brutto da vivere: mi piaceva quel rapporto febbrile, stravolto come un flash da acido, senza futuro, consumato avidamente e frettolosamente sulle rive del Po in mezzo ai passanti, nascosti solo dai finestrini appannati; mi dava quel sapore forte che mi mancava da tempo. Ma presto ne ebbi le scatole piene dei suoi contorsionismi intellettuali. E poi mi ero accorto che questo dispiaceva ad Antonio. Anch’io, sebbene per tutt’altri motivi, mi sentivo completamente estraneo alla mentalità dei miei coetanei, di cui pure ero un esponente abbastanza tipico. Antonio era abbastanza intelligente da capirlo senza bisogno che glielo dicessi; era evidente da tutto, dal fatto che non frequentavo le discoteche, dai miei gusti musicali, dalle mie letture, dal modo in cui parlavo e scrivevo. Spesso lui mi diceva che ero un prodotto tipico del liceo classico, ma, a parte il fatto che lui lo era almeno quanto me, sapevamo entrambi che non era vero; anzi mi dava un po' fastidio che cercasse di banalizzare il mio modo di essere pur sapendo che la mia diversità era nata con me. Già alle medie i miei compagni mi dicevano che parlavo strano. È vero: non ho mai sopportato lo svacco espressivo tipico dei miei coetanei, il loro gergo approssimativo. Detto così tutto diventa di una intollerabile volgarità; e non alludo alla frequenza con cui ricorre la parola cazzo, quello è il meno, le parole crude mi stanno bene purché usate a proposito, mi sta bene tutto quello che arricchisce la vita di significato. Quello che non sopporto è la banalità. Trovo tremendo soprattutto il modo in cui si esprimono le ragazze, il loro stupido modo di scrivere k invece di ch e nn invece di non, la loro punteggiatura sovrabbondante e imprecisa, tutti quei puntini di sospensione e quei punti esclamativi inutili: sono cretine, atroci, un insulto alla decenza linguistica (forse la sola decenza di cui mi preoccupo), non so come possano pensare di piacere a uno come me esprimendosi in


quel modo; e il bello è che ci provano di continuo, come se io fossi un idiota decerebrato che non chiede di meglio che scoparsi la prima venuta. Le evito all’istante. Già la vita non è gran che, se poi ci mettiamo del nostro per imbruttirla… Eppure, pur sapendo tutto questo di me, Antonio aveva l’abitudine di coinvolgermi, chissà perché, nel disprezzo globale che provava per la mia generazione, catechizzandomi paziente per ore. Io lo lasciavo fare perché sembrava che la cosa gli piacesse e sapevo che era in buona fede. Siete acritici, mi diceva, non pensate, non sapete soffrire, volete solo divertirvi; individui come voi, così poco abituati all’esercizio della ragione, finiscono facile preda di vangeli salvifici e falsi miti, sono sempre sull’orlo dell’esaltazione fanatica; attento Emmanuel, fascismo e integralismo religioso, violenza e misticismo hanno radici comuni. Come se non lo sapessi. Aveva una tremenda paura dell’irrazionale. - Abbiamo sbagliato tutto, è colpa nostra - usava sempre la prima persona plurale quando alludeva alla generazione del Sessantotto, alla quale apparteneva idealmente Con i nostri velleitarismi sterili, con il nostro parlarci addosso, con la nostra seriosità e la nostra intolleranza ideologica abbiamo creato il tipo dell’eterno adolescente frustrato, del mezzo alienato, del “cioeista”, del disadattato incazzoso in bilico fra rinuncia globale e affermazione violenta di sé, fra droga e terrorismo. Non abbiamo cambiato la società: quelli di noi che non si sono integrati sono semplicemente scappati, si sono creati delle tane, dei rifugi sotterranei, si sono persi. Voi siete la nostra necessaria conseguenza, generazione del nulla che è figlio del nostro vuoto Non sapevo se condividere questa sua diagnosi, però mi sentivo emotivamente dalla sua parte: c’era una straordinaria forza in lui, ed un’altrettanto straordinaria ingenuità, che m’incutevano rispetto. Al suo fianco mi sentivo meglio, rassicurato. Antonio trascorse molte settimane senza rendersi conto di quello che provava per me. Quando finalmente comprese crollò di colpo, come crollano le querce. Le sensazioni che provai con lui ebbero un sapore completamente diverso da quello che avevo immaginato: il sapore intenso di un tuffo nel fango. Mi rialzai con le penne inzaccherate, impiastricciato, pesante, sporco. Non sapevo più volare.


Cioè proprio a livello

Bastiano (pensoso, a capo chino): Quello che sto cercando di dirvi è che bisogna trovarsi... capite... trovarsi assieme per lavorare... Il resto viene di conseguenza. Tommaso: Ma noi già ci troviamo. Il punto è un altro. Cioè che cazzo, è che qui non sappiamo che cosa fare, su cosa lavorare, questo è il problema, che cazzo. Bastiano (mordendosi il labbro inferiore): Non m’hai capito. Cioè. Volevo dire... (tace). Emilio (in piedi, le spalle contro il muro): Io la mia opinione l’ho già detta l’altra volta, ma c’erano solo quattro compagni. Però credo che m’abbiano capito, almeno. Certo per farsi capire a volte bisogna insultare, ma così almeno ci si chiarisce. Lucia (gentile): Io non c’ero, non lo so cos’hai detto. Emilio: Cioè, a me non mi va di stare a ripetere tutta la scena, anche perché mi sentirei un casino male. Non è che ce l’ho con Irene che ha scritto il testo. Cioè in sostanza ho detto che a me non mi frega un cazzo di fare spettacolo con voi, io voglio fare teatro, che è ben diverso. Mino: A me... pare... che il problema... stia... sia... insomma... una questione di scelte. Fare teatro... è... può essere... una scelta di vita... Perché di teatro ce ne sono quattro tipi... che sono... rozzo... spontaneo... sacro... e morale. È un problema di scelta di vita... Guardate ad esempio Judith Malina... lei, insomma... era... è stata... allieva di Grotowski... Pinuccio: Scusa... Non ho capito la differenza tra rozzo e spontaneo. Mino: Cioè, è implicita. Ho qui degli appunti che... se volete... posso leggervi (tira fuori quattro fogli). Bastiano: Un momento, io credo che forse... Cioè, non so se mi so spiegare... Cioè, preliminarmente dovrebbe esserci un altro problema... cioè quello della disponibilità, dell’impegno collettivo... Cioè, io mi chiedo: quanti di noi sono disposti a garantire una presenza costante? Tommaso: Che vuol dire la presenza? Anche adesso siamo presenti. Siamo sempre presenti. Bastiano: Non mi sono spiegato. Io volevo dire la presenza per fare sul serio. Tommaso: Continuo a non capire. Bastiano (lo fissa come istupidito). Irene (leggermente irritata): Forse Bastiano voleva dire la presenza fisica alle prove. Bastiano: Cioè, no, non del tutto. Io volevo dire la presenza nel senso dell’impegno reale... mi capite? Tommaso: Vabbe’, vabbe’, ho capito, però tu non tieni conto... Pinuccio: Non ho capito. Secondo te, allora, per essere presenti bisogna lavorare? Allora uno non collabora se non fa qualcosa di concreto? Bastiano: E certo, Pinù!


Pinuccio: Ma non è vero. Non è affatto vero. Bastiano: Cioè cazzo, Pinù, se non c’impegniamo che cazzo ci stiamo a fare qui? Pinuccio: Non c’è bisogno di impegnarsi per essere presenti e non c’è bisogno di essere presenti per impegnarsi. Irene: Concretamente parlando, direi proprio di sì. Emilio: Io vi ripeto il mio discorso: se siamo qui per fare sul serio, bene, ma se siamo qui per perdere tempo, non ci sto. Io voglio fare teatro, non spettacolo. Lucia: Scusa Emilio, ma in che senso teatro e non spettacolo? Emilio: Guarda, te lo spiego con un esempio: un libro si può leggerlo, oppure leggerlo. Da come l’ho detto dovresti aver capito la differenza. Lucia: Cioè... credo di afferrare... però se tu me lo spiegassi... cioè, guarda che non è mica chiaro. Emilio: Te lo spiego con un altro esempio: uno si può impegnare così (stende una mano) o così (stende l’altra a palmo in su). Capisci? Lucia: Cioè, sì... Bastiano: E certo, ma che cazzo, è quanto vado dicendo da un’ora! Non mi sono spiegato. Non ci siamo capiti. Tommaso: Vabbe’, d’accordo, ma allora non mi sono spiegato io: impegno, presenza, tutto okay, ma su cosa? Bastiano: Come, su cosa? Su quel che facciamo. Tommaso: Appunto: cosa facciamo? Bastiano: Ma... ci troviamo! Ci si trova, si fa, si vede tutti assieme. Cioè, ci si trova, e dall’eperienza comunitaria nasce qualcosa. Mino: Perché... hai presente il Living... quella era gente che... cioè, proprio ci viveva per il teatro... e vivevano assieme, cioè proprio a livello di comune... Emilio: Certo, vita in comune e concezione mistica dal teatro. Irene: Be’, volete proprio sapere cosa ne penso di tutte ‘ste stronzate? Che la grandezza del Living si chiamava Julien Beck. Senza contare che Grotowski è un tiranno: se uno esprime un dubbio, lo fa sbattere fuori a calci in culo. Bastiano: Be’, e questo che c’entra? Irene: C’entra. Mica penserete, per caso, che stiano a perdere tempo sparando cazzate come noi in attesa che “qualcosa venga fuori”. Bastiano: Be’, ma, e con ciò cosa vorresti dire? Irene: Poche balle, ragazzi: l’arte è un fatto individuale e non collettivo. Tommaso: Cioè, io voglio dire una cosa: se cominciamo con idee di questo genere è meglio smettere subito. Irene: Devo castrarmi per far piacere alla collettività?


Bastiano: Ma chi ti castra, Irene? Irene: Ma fatemi il piacere. (Tace cupamente e si sdraia addosso a Emmanuel). Bastiano: Il punto, secondo me, è un altro: che non c’è impegno. Ora io mi domando: siete disposti a impegnarvi? Tommaso: E ridalli con l’impegno! Ma che cazzo, Bastiano, l’hai già chiesto prima e ti ho già risposto: impegnarsi su cosa? Bastiano: Ma aspetta un momento, sant’Iddio e che cazzo! Prima sentiamo se c’è questa disponibilità. Tommaso: Da parte mia... nei limiti del possibile... compatibilmente con tutti i miei impegni... (Tutti assentono). Irene (sarcastica): Cioè, se non ho capito male, fare teatro viene dopo altri quindici o venti impegni, se resta tempo e voglia. Sentili, quelli che si ispirano al Living e a Grotowski! Bastiano: Ma via, Irene, siamo realistici: un giorno ci guadagneremo il pane, e non col teatro... Irene (giocherellando con le dita di Emmanuel): E lo vieni a dire a me? Siete voi, mica io, che volete l’esperienza mistica. Io i miei trip mistici me li faccio in privato. Emilio: Sapete? Non credo che farò più teatro con voi. Bastiano: E perché? Emilio: Io voglio impegnarmi al cento per cento. Il sessanta non mi sta più bene. Starà bene a voi, ma a me no. Pinuccio: E allora è semplice: te ne vai. Irene (ridendo): Ah, questa è buona! Se ne deve andare proprio Emilio, l’unica persona seria del gruppo! Emilio: Cioè scusa, non ho capito: me ne vado? Pinuccio: Se non ti sta bene, te ne vai. Emilio: No, adesso tu mi spieghi, pretendo che mi spieghi perché cazzo me ne dovrei andare. Pinuccio: Perché a te non sta bene e a noi sta bene. Emilio: Cioè, ma è roba da pazzi... Ma allora non avete capito un cazzo! Ma cosa ho parlato a fare, se manco mi avete ascoltato? Io vorrei sapere chi di voi mi ha ascoltato! Serenella (annoiata): E dai, Emilio, non farla tanto lunga! Emilio: Eh no, adesso voglio sapere. Avanti, Serenella, ripeti quello che ho appena detto. Serenella: Ma dai... Emilio: Visto? Non lo sai ripetere. Parlo al muro.


Serenella: Vaffanculo, Emilio. Emilio: Adesso voglio chiarirmi una volta per tutte. State bene a sentire: anzitutto io esigo di avere il diritto di cambiare idea quando lo trovo giusto, perché non sono un coglione e la coerenza è una virtù del cazzo. Pinuccio: Benissimo. Però i tuoi cambiamenti te li tieni per te. Emilio (molto irritato): Senti Pinuccio, cerca almeno di non essere ipocrita, cazzo. Mi stai dando del dittatore? Pinuccio: In pratica sì. Emilio: E allora dillo chiaramente, che cazzo, sennò che ci stiamo a fare qui? Comunque questo dimostra che ho parlato al vento. E poi tu non c’eri neanche, cosa ne sai? Pinuccio: Be’, e se non lo so, perché non me lo dici? Emilio: Perché sarà la trentesima volta che lo ridico e non mi ascolta nessuno! Irene (usando le ginocchia di Emmanuel come poggiatesta): Povero Emilio. Non è che vuole fare il dittatore. Semplicemente cerca di non subire la dittatura della maggioranza. Emilio: E poi reazionario a me non me lo dice nessuno! Coglione, magari, ma non reazionario. E che cazzo. Nicola (timidamente): Cioè, scusate, volevo dire una cosa anch’io. Cioè a me pare, cioè credo che il problema, ora come ora, sia più che altro di contenuti. Bastiano: In che senso, scusa? Nicola: Cioè, volevo dire questo: cioè è chiaro che un minimo di impegno ce lo metteremo, come ce l’abbiamo sempre messo. Ora il nostro problema è trovare, cioè trovare un punto d’incontro, cioè insomma capire che tipo di teatro vogliamo fare. Proprio a livello di contenuti. Tommaso: Ma che cazzo, se è mezz’ora che lo sto chiedendo: impegnarsi su cosa? E voi continuate a sparare un sacco di cazzate! Bastiano: Ma io proprio non so che dire, non vi capisco... Niente, si vede che stasera non riesco proprio a spiegarmi, che cazzo... vi ho già risposto! Tommaso: Ma che cazzo, Bastiano, non hai fatto altro che ripetere che si farà, che si farà: cosa si farà? Bastiano: Ma l’ho già detto: si farà quello che verrà fuori dalla nostra esperienza collettiva... Tommaso: E cosa ne verrà fuori? Bastiano (sorridendo disarmante): E come faccio a saperlo? Nicola: Cioè, del resto non è il risultato che conta, ma l’essere stati bene assieme, cioè, è questo l’importante. Irene: Non sono d’accordo: a me interessa il risultato. Emilio: Ma il risultato viene dopo.


Irene: Bisogna averlo chiaro in mente fin dall’inizio. Bastiano: Quello non è il risultato, è l’obiettivo. Irene: Vabbe’, l’obiettivo. E qual è il nostro? Nicola: Cioè, secondo me sarebbe meglio fare un giro d’opinioni. Chi vuol cominciare? Emilio: Io so benissimo cosa voglio: qualcosa di violento e insieme lirico. Alla Pasolini. Irene: Quale Pasolini? Emilio: Be’, se vuoi, un misto tra “Salò” e “Il fiore delle mille e una notte”. Bastiano: Scusa Emilio, cosa di Pasolini? Emilio: Ma no, dicevo così per dire. Mino: A me non mi pare... cioè... forse Pasolini... Tommaso: Cioè cazzo, si fa presto a dire Pasolini! Emilio: Ma no, ho detto Pasolini per rendere l’idea! Non è che voglio mettere in scena Pasolini. Nicola: Cazzo, però sarebbe formidabile. Cioè, Pasolini è sempre Pasolini. Cioè, è un’idea. Bastiano: Sì, però Pasolini ha dietro tutta una problematica... Irene: Cazzo ragazzi, basta! Ha detto che era solo un esempio. Nicola: Cioè, io ancora non ho sentito altri pareri oltre a quello di Emilio. Chi vuol parlare? Mino: Cioè, a me andava anche bene l’idea di Irene... Solo che non avevo capito, cioè non tutto. Irene (secca): Io non ho più nessuna idea. Tommaso: Cioè, anche a me andava bene. A me va bene qualunque cosa, purché si decida. E tu che dici, Kellermann? Emmanuel (raccogliendo le palle sotto il tavolo): Eh? Come? Emilio: Io torno a dire che sono disponibile. Anche solo al sessanta per cento. Cioè, però mi riservo di mollare tutto se non mi soddisfa. Mino: Io mi riallaccerei a quanto... si diceva prima... Cioè se vogliamo un teatro sacro... poniamo... o uno morale... o... Tommaso: A me basta sapere cosa si farà. Bastiano: Cioè, che cazzo, io non capisco: basta la presenza, la disponibilità, l’impegno collettivo... e poi ci si trova, si lavora, si fa, e qualcosa salterà fuori... Cioè, forse non mi sono spiegato...


Vuoti d’aria

Selinunte. Per la prima volta, a diciannove anni, ero nella mia terra, la terra dei miei padri e del mito, lontano dal positivismo nordico. Avevo smarrito tutto di quelle radici, perfino l'accento: c'era voluta una gita scolastica per rivelarmi a me stesso. Abituato alle nebbie padane, non riconoscevo i colori netti della natura. Sullo smalto del cielo campeggiava la massa corposa di una nube bianca dipinta di ombre precise. Il nitore dell'aria era quello delle giornate di vento: fermo, assoluto, senza brume in lontananza. La primavera mediterranea stava esplodendo: sul verde forte e pieno dell'erba, ferita a sangue dai primi papaveri, si accendevano le larghe chiazze gialle delle ginestre; tutt'intorno scintillava l'argento degli ulivi. Un cespuglio di rosmarino spandeva un aroma amarognolo dai piccoli fiori azzurro polvere su cui si posavano le api. Nel ronzio sommesso, fuso col frinire delle cicale, si ripetevano a intervalli i richiami degli uccelli. Tutto aveva l'arcana verità dell'eterno; la presenza dell'uomo appariva sgradevole e incongrua, in qualche casa costruita senza amore, nel latrato ossessivo di una sega elettrica, nel lamento meccanico e senza speranza di un cane alla catena. Fra quelle pietre calde, che imprigionavano l'oro del sole, si sentivano ancora passeggiare gli dèi. Uno di loro camminava al mio fianco in blue jeans e scarpe da ginnastica, i capelli lunghi e biondissimi raccolti in una coda di cavallo che accentuava il suo aspetto androgino. E io gli parlavo. - È come se un grande amore si fosse spezzato. La bellezza non comprende più l'uomo. La primavera mi fa sentire vile e colpevole - Non capisco esattamente cosa vuoi dire. Io non mi sento colpevole. Se mai triste, escluso Si chinò a raccogliere un papavero e ne aspirò la fragranza di oppio. - Tutto quello che so è che questo è vero, mentre quasi tutto quello che studiamo non lo è. Se i nostri insegnanti dicono il contrario è solo perché non sono veri neanche loro- Perché continui a studiare, se pensi che sia tutto un inganno? - Ho detto quasi tutto - E cos’è che fa eccezione? - Quel poco che mi sembra vero lo hanno detto i GreciSentivo il bisogno di sdrammatizzare; c’era qualcosa di eccessivo in quello strano adolescente, che lasciava scivolare su di sé gli sguardi delle ragazzine senza ricambiarli. Già, l'indifferenza: la prerogativa degli dèi. - A chi alludi in particolare? - gli chiesi. Si tolse un libro dalla tasca. Allargai le braccia in un gesto rassegnato. - Era scontato: tutti gli adolescenti si lasciano sedurre da Platone - Tu no? - No, io no - risposi - Il suo modello politico è di un agghiacciante totalitarismo e mi irrita profondamente il suo tanto decantato stile. Sovrappone alla razionalità dell'argomentazione filosofica una sensualità da bordello. Pensa al finale del Simposio, con quell’incredibile descrizione di Alcibiade ubriaco, o all'inizio del Carmide, quando Socrate sbircia nella tunica del ragazzino... ma andiamo! - Io li trovo stupendi; e la filosofia non è solo ricerca razionale - Ah già, dimenticavo, la divina follia - sogghignai con sarcasmo. Gli presi di mano il libro, lo aprii a colpo sicuro e lessi un brano che ricordavo quasi a memoria - Dunque l'anima, nel far questo, fermenta tutta e sussulta, e quel tormento alle gengive che viene ai bambini che mettono i denti, appena cominciano a spuntare, quel prurito e fastidio, questa precisa sensazione prova l'anima di colui che incomicia a mettere le ali: fermenta e si irrita e sente un solletico mentre mette le ali Chiusi il libro e glielo restituii. - Vertiginosa altezza filosofica o delirio da psicofarmaci? - dissi - Quando ci si muove in questa pericolosa zona di confine diventa impossibile giudicare - Sei ingiusto - Platone non è meno delirante degli artisti che espelle dal suo stato ideale Emmanuel sorrise e ripose il libro. L'aria era satura di un tepore leggero. Ci sedemmo all'ombra di un rudere, su blocchi di pietra dorata, mentre i nostri compagni prendevano posto nel prato e tiravano fuori i


panini; feci un cenno di saluto ai nostri accompagnatori, il professore di ginnastica e la professoressa di storia dell’arte, e scomparvi con lui dietro un muro diroccato. Insaccato nel solito giaccone verde troppo pesante, mi sentivo accaldato; presi a raccattare sassi e a gettarli davanti a me, cercando di centrare una lattina di pomodori vuota. Emmanuel, le spalle contro una colonna, fissava l'aria accigliato, a braccia conserte. Dopo qualche minuto ruppi il silenzio: - Non capisco come facciamo ad essere amici, io e te: non abbiamo niente in comune. Mi fai venire in mente Konradin, sai, l'amico ritrovato - Non è un bel paragone - Lo so - Posso essere sincero? - Devi - Ti ammiro proprio perché tu hai quel che io non ho e non avrò mai. Tu credi davvero, profondamente, nei tuoi ideali Lo lasciai continuare. - Però ci sono cose che non mi piacciono in te - Per esempio? - Per esempio quando canti una canzone accompagnandoti con la chitarra e stiamo tutti seduti per terra facendo girare una canna: è puerile, serve per sentirci tutti buoni, e l’uomo non è buono. Mi dispiace che ti lasci coinvolgere in queste... - esitò. - Cazzate - tradussi io, scagliando un sasso nella lattina. - Che però servono - proseguì pacato, appoggiando la testa all'indietro - Fanno presa sui ragazzini. Sei un politico e ragioni da politico, no? - Adesso sei tu ad essere ingiusto - gli dissi. Ripresi a scagliare meccanicamente sassolini, in silenzio. - Ti sei offeso? - chiese. - No - Non voglio offenderti. Non voglio fare nulla che possa dispiacerti. Mi piace parlare con te, mi piace starti vicino, aiutarti se posso - Va be’, non parliamone più Mangiammo un panino e ci distendemmo all’ombra. Poi il cielo si rannuvolò, la luce si incupì, mentre un fascio di raggi opachi, filtrando tra le sconnessure del rudere, cadeva sulla scarpa sinistra un po' infangata di Emmanuel. Si alzò a sedere e s’infilò il golf, corrugando le sopracciglia mentre una striscia di sole colpiva il blu irreale dei suoi occhi; sciolse i capelli, li scrollò, li raccolse di nuovo sulla nuca e tornò a distendersi. Quel che soffrono i bambini quando spuntano i denti, quello stesso prurito e fastidio. Un odore di fieno e temporale si diffuse nell'aria scura e chiusa. D'improvviso ci sommerse lo scroscio violento di un acquazzone: guardammo il fuggi fuggi dei compagni che raggiungevano di corsa il pullman, mentre una cortina compatta di pioggia circondava il nostro rudere, trasformandolo in una cappa tiepida e ovattata. Emmanuel rabbrividì. - Che c’è? - gli chiesi. - Ho freddo - rispose. - Non fa freddo - obiettai - Tieni, ti dò il mio giaccone Glielo porsi. Se lo avvolse intorno alle spalle, si strinse le braccia con le dita e serrò la mascella in una contrazione innaturale. Si voltò a guardarmi appoggiando la testa all’indietro: - Forse non mi sento bene - disse, e sorrise in un modo assurdo. Distolsi lo sguardo e lo fissai a terra. Ci fu silenzio per qualche secondo. - Vieni qui Si alzò e venne a sedersi accanto a me. Di quel che accadde dopo conservo un ricordo vago, un senso non di vergogna ma di stupore: il silenzio di vetro assordato dallo scroscio della pioggia, la sabbia nelle mie mascelle contratte, un odore muschiato di farfalle appassite, gesti sonnambuli senza spessore senza eco, le mie mani troppo ruvide per la seta dei suoi capelli. Ad un tratto Emmanuel si alzò. - Andiamo: ha smesso di piovere - disse. Mi alzai anch'io, malfermo sulle gambe, incassandomi nelle spalle come sotto una cappa di piombo. - C’è qualcosa di strano - disse. Mi schiarii la voce.


- Cosa? - gli chiesi. - Non so. Stiamo volando all'ingiù Scosse la testa e si mise a ridere. Il viaggio di ritorno in aereo fu il sogno malato di un mentecatto. Mi sedetti contro il finestrino; lui prese posto accanto a me. Abbandonai contro il suo braccio la spalla inerte, guardando fuori, respirando a labbra semiaperte un’afa densa. Qualcuno dei compagni venne a chiedermi ragguagli a proposito dello sciopero che era in programma per la settimana successiva: risposi qualche monosillabo indecifrabile. Emmanuel, che conosceva la mia opinione, si voltò a farmi da interprete: non è il momento disse, è meglio tentare di risolvere la cosa in modo più ragionevole. I compagni se ne andarono. Gli rivolsi uno sguardo sfinito: i miei occhi non riuscivano a rimanere fermi nei suoi, oscillavano sul suo viso come in un mare in tempesta. Appoggiai la testa all’indietro con un sorriso incurabile. Emmanuel aveva paura di volare e durante il decollo si strinse a me; appoggiai la mia mano sulla sua. Si rilassò, chiuse gli occhi e piegò una gamba contro il petto, appoggiando la scarpa da ginnastica sul sedile, per nascondere il gesto della sua mano sinistra. Pioveva e l’aereo attraversava continue turbolenze: vedevamo i fulmini scoccare intorno a noi illuminando a giorno il nero delle nubi. La paura di Emmanuel si trasformò in eccitazione: ad ogni vuoto d’aria la sua mano premeva la mia, il petto gli si sollevava in lenti respiri, aveva gli occhi lucidi di febbre. Si distese in grembo il golf nero per coprire i nostri gesti. Poi si alzò senza dire nulla ed andò in bagno. Lo raggiunsi. Si voltò: fui risucchiato dal vortice dei suoi occhi. Quando tornai al mio posto, barcollando come un ubriaco, lui stava disteso con le palpebre chiuse e l’espressione ineffabile di una statua arcaica sul volto. Mentre scavalcavo le sue lunghe gambe per sedermi colsi gli sguardi dei compagni e dei professori fissi su di me: non c’era né dileggio né rimprovero nei loro occhi, ma solo un profondo, inesprimibile sgomento. _._ Dopo quel giorno ci incontrammo ancora qualche volta. Fui mortalmente ferito dalla sua gentile, fredda passività. Mi lasciava fare, ma era evidente che non mi desiderava. Conservo distinto il ricordo del suo volto bellissimo nella cornice chiara dei capelli sparsi sul cuscino nero del divano, l'azzurro stagnante dei suoi occhi fissi su di me, fermi e assenti, un accenno di sorriso sulle labbra, la mente altrove. Mi stava uccidendo: smisi di cercarlo. Lui non fece nulla per rivedermi. Spesso lo vedevo tra la folla, seduto sul pavimento dell'aula magna, durante le assemblee scolastiche, dove ero tornato a presentarmi come il paladino della ragione contro il dilagante irrazionalismo delle frange di lotta più estreme; ma mi rendevo conto di essere diventato prolisso e cattedratico e capitava che qualcuno mi fischiasse, perché tra gli spiragli del carisma adamantino si vedevano luccicare vetri rotti e fondi di bottiglia. Se qualche volta lo incontravo lungo il corridoio, scambiavo con lui parole di circostanza sul tempo e sulla scuola; rispondeva cortesemente, senza la minima allusione, finché un gesto uno sguardo involontario non mi riportavano alle narici quell'odore, e allora mi allontanavo con un sorriso imbecille. Ora sono al secondo anno di giurisprudenza. Non credo proprio che farò il politico.


Gigli putrefatti

I mesi successivi si trascinarono torbidi e lenti come un fiume fangoso. Emmanuel, come consumato da una febbre interna, fluttuava da un’esperienza all’altra senza viverne effettivamente nessuna; appariva nel contempo incapace di fermarsi e stremato da quell’insensata deriva. Quando non ne poteva più rimaneva seduto per ore a guardarmi con un’imbarazzante intensità, inseguendomi con quello sguardo blu completamente opaco, così diverso da quello che ricordavo. Mi spaventava la fissità di bambola dei suoi occhi che guardavano senza vedere, distratti da un pensiero ossessivo. Si era incamminato per una strana via. Un giorno, in preda a un oscuro presentimento, entrai in camera sua mentre lui studiava in salotto con un compagno ed aprii tutti i suoi cassetti alla ricerca del suo diario. Lo scorsi infine ai piedi del letto, capovolto e semiaperto come se l'arrivo di qualcuno lo avesse interrotto mentre stava scrivendo. Lo aprii e lessi le ultime parole che vi aveva scritto: Sono ritornato da scuola a piedi passando dalla periferia. Ogni scorcio di muro scrostato mi spellava lo sguardo, ogni effluvio immondezzale mi dava il voltastomaco, ogni cartellone pubblicitario mi aggrediva con violenza. Sentivo l’aria sulla carne viva. Camminavo rasente ai muri come un ubriaco. Rientrato in casa ho subito con rassegnazione lo schiaffo quotidiano dei miei privilegi. Nulla mi appartiene veramente, non ho meritato nulla, sono semplicemente nato in una famiglia di gente ricca. Sono circondato da un lusso sfrenato mentre metà del mondo muore di fame e non sono neppure capace di rinunciare a tutto questo. Faccio schifo. Poco fa in gabinetto, inginocchiato di fronte al water con lo stomaco contratto dagli spasmi, pensavo se valesse la pena di curarmi (e dire che sono sempre stato ossessionato dal terrore delle malattie). Rientrato in camera mi sono seduto sul letto ed ho sentito i miei chiamarmi dal giardino. Non mi sono affacciato. Non ho voglia di fingermi allegro, non ho intenzione di tediare o incuriosire gli altri con il sospetto di strani misteri. Voglio, semplicemente, stare solo. Gli altri sono impotenti di fronte ai miei problemi, quindi parlarne è inutile; e quand'anche potessero aiutarmi, non si vede perché dovrebbero, visto che ciascuno è egoismo dalla testa ai piedi, e solo l'ipocrisia può negarlo, e solo l'amore può illudere del contrario. Ma l'amore, già l'amore, perché mi confondo sempre a questo punto? So che dovrei ricordare qualcosa, ma non ricordo cosa. I did love you once. They say the owl was a baker’s daughter. Lilies that fester smell far worse than weeds. Benvenuto fra le cose possibili, Emmanuel: il mondo è tuo come si suol dire, puoi rotolarti fra le cose, il tuo corpo gode, sei bello e nessuno dice di no ai belli, che effetto fa sentirsi come una caramella che tutti desiderano succhiare? Lasciali fare e così sia, non importa a nessuno se sei diventato un fantasma che non si riflette più nello specchio, squallido oggetto erotico senza più soggetto. Sto male. Dio, mi sento proprio da schifo oggi.

Andai in cucina e pregai Teresa di preparare qualcosa di sostanzioso per la merenda. Mentre la aiutavo ad imbottire alcuni panini la domestica, senza guardarmi, disse seria: - Il signorino Emmanuel non sta bene Finsi di non aver capito e le chiesi: - È malato? Strinse le labbra affettando un uovo sodo: - No. Sta con una nuova ragazza Risi per mascherare la fitta al cuore che provai: - Non è una malattia, Teresa Mi fissò con uno sguardo durissimo, allineando i panini su un vassoio: - Certe donne - disse - sono peggio di una malattia Poi si voltò ed aprì il frigorifero sospirando: - Ay, Madre de Dios! Mi allarmai molto: il fatto che Teresa confessasse la sua impressione proprio a me, vincendo le sue remore nei miei confronti, significava che la situazione era davvero preoccupante. L’intuito di quella donna era infallibile, sorretto dal suo viscerale


attaccamento per Emmanuel: sapeva tutto quello che lui faceva in camera sua come se vedesse attraverso la porta chiusa. Poco dopo entrai in salotto e posai sul tavolo un vassoio con bibite e generi di conforto. L'amico ringraziò; Emmanuel sollevò lo sguardo dal libro di matematica. - Tutto bene? - chiesi. - Alla grande - rispose. L'ombra scura sotto i suoi occhi diceva la fatica, l'insonnia, l'incapacità di comprendere. Uscii dalla stanza. Dalla cucina udii la voce dell’amico: - È giovane tua madre Ci fu un attimo di silenzio. Teresa mi guardò. Emmanuel scoppiò a ridere. Io mi tagliai con il coltello del pane.


Certe brave ragazze

- Senti frocetto, non mi va di prendermi responsabilità del cazzo: ci stai andando un po' pesante negli ultimi tempi - È tutto sotto controllo, non preoccuparti - Sì, e dopodomani arriva Babbo Natale con le renne. Non sei un po' cresciutello per le favole? Ebbe un sorriso pallido e si chinò ad accarezzarmi i capelli. - Di' un po', qual è la tua renna preferita? - disse. - Quella con il naso rosso - risposi. Mi morse piano il labbro superiore, leccando il mio rossetto. - E come si chiama? Mi riusciva un po' difficile risponderle, perché la sua lingua s'era infilata fra le mie labbra e stava sfiorando con delicatezza la mia. Giocava, come sempre. Ero doppiamente in difficoltà perché in casi del genere sono preso da timori di vario genere, l'alito magari un po' pesante, gli occhi che diventano strabici per l'eccessiva vicinanza, il tentativo ridicolo di articolare una risposta mentre la tua lingua è impegnata a fare altro. - Rudolph - balbettai. Scoppiò a ridere. - Sei proprio un bambino, - disse accarezzandomi - un bellissimo bambino. O una bambina? Fece scivolare una mano fra le mie cosce e sorrise: - Ora vediamo L'attirai a me per baciarla. Il suo odore amaro, così diverso da quello delle altre donne, mi dava alla testa. Ma a lei non piaceva essere baciata; si scostò da me e si distese supina. - Conserva le forze per dopo, - disse - ne avrai bisogno. Sono sempre eccitata con te, non puoi lasciarmi così, devi darti da fare - Lo farò - promisi. - Dovresti sentirti orgoglioso, sai? Mica è facile ridurmi in questo stato Prese la mia mano e trovò il modo di farmi capire quale. Non si può dire che amasse i sottintesi. - Lo sono, infatti - confermai. Si appoggiò su un gomito, mi guardò fisso, s'infilò in bocca il mio dito indice e lo succhiò pensosamente per qualche istante; poi appoggiò la mia mano sul cuscino e disse fredda: - Guarda che se succede di nuovo non ci vediamo più. O magari sì, perché no, ci vediamo lo stesso. In tre. Tu mi ecciti e l'altro provvede. Intanto tu guardi. Mi piace che guardi - Non succederà - tagliai corto. - Bisogna proprio che lo facciamo, uno di questi giorni. Eh frocetto, che dici? - Splendida idea - risposi, e le porsi il braccio. Sentii un po' male, ma non le dissi nulla. Mi distesi supino e chiusi gli occhi: quello era un momento tutto mio. - Cinque minuti - sussurrai - e il giro con le renne comincia Lei rise di nuovo ed io mi sentii sconquassato da quella risata in ogni fibra del mio essere. Il mio cuore batteva fortissimo mentre il sangue mi saliva al cervello troppo presto, con troppa violenza. Ricordo di avere pensato con lucidità e freddezza che quella volta sarei morto, ricordo anche di averlo desiderato con tutto me stesso. Morire di fatica, morire d'infarto, esalare il mio ultimo respiro sulla sua bocca mentre lei godeva. Sì, ricordo molto bene di avere desiderato tutto questo, e anche altro che non voglio dire. Strana cosa l'animo umano. Michelle, dunque. Aveva fatto irruzione nella mia vita da poche settimane ed aveva spazzato via tutto il resto, un vento gelido, nient'altro, solo lei. Ero da tempo alla ricerca di un'esperienza estrema e coinvolgente, e finalmente l'avevo trovata. A Michelle permettevo di tutto. Era strana, era folle, era perversa, non aveva un briciolo di morale, mi umiliava, mi distruggeva. La desideravo terribilmente, ma il timore di non essere all’altezza delle sue aspettative mi castrava, e non in senso metaforico. La paura mi faceva regredire all’infanzia. Certe volte, ridotto all’impotenza, avrei voluto supplicarla di prendermi in braccio, ma l’avrei fatta ridere. Era del tutto priva di istinto


materno. Così resistevo stoicamente e ogni tanto mi prendevo le mie piccole rivincite. Come quel memorabile giorno, un paio di settimane prima. Mentre andavo in bagno avevo visto, in una specie di nicchia appartata, un dipinto coperto da un drappo di velluto verde. Di solito evitavo di fare domande, ma quella volta non potevo, la curiosità era troppo forte. Le chiesi che senso avesse tenere in casa un quadro che non si poteva vedere. Lei rispose soltanto: - Deve stare così - Posso almeno sapere chi è l’autore? - No - rispose seccamente - Non può essere nominato Non feci altre domande. Ad un tratto sorrise sibillina e mi chiese se volessi vederlo. Dissi di sì. Sollevò il drappo e sobbalzai per l’orrore. Lei rise della mia reazione. Stando alla targhetta sotto la cornice, il dipinto, non saprei dire se splendido o mostruoso (probabilmente entrambe le cose), era un ritratto a grandezza naturale di Giovanna d’Arco poco prima che fosse arsa viva sul rogo. In realtà, secondo ogni evidenza, la creatura dagli occhi vuoti che avevo di fronte, un essere di spettrale magrezza, asessuato, calvo, verdognolo, non poteva che essere, nelle intenzioni dell’innominabile pittore, un ectoplasma o qualcosa di simile. La fonte d’ispirazione era certamente un cadavere in avanzato stato di decomposizione. Osservai meglio la targhetta: - Scusa, - obiettai - non dicevi che il pittore non può essere nominato? Qui c’è scritto Christian Rosenkreutz Gerti mi osservava nera, vuota. - Amore, - disse stancamente - fortuna che sei tanto bello, sennò… Ma dimmi un po’, ci sei o ci fai? Se c’era una cosa che non sopportavo era di fare brutta figura con lei, il che mi capitava un po’ troppo spesso. Poi, se mi chiamava amore, voleva dire che mi stava classificando come un autentico idiota. Decisi che avrei approfondito l’argomento in solitaria. Per il momento sfoderai il più disarmante dei sorrisi e le dissi: - Già, che stupido, come ho potuto non pensarci? È uno pseudonimo Lei mi osservava in silenzio a braccia conserte, con un’aria del genere ça va sans dire. Continuavo a sentirmi un cretino. Avrei voluto dire qualcosa di intelligente, ma proprio non ci riuscivo. - Curioso, - osservai alla fine - Christian è il mio secondo nome - Sul serio? - disse Gerti - Fossi in te mi farei chiamare Chris, anzi Kris col cappa. Fa più olandese ed è meglio di Emmanuel - Non sopporto i diminutivi - risposi - E poi a me il mio nome piace Ebbe uno sguardo di lontano compatimento, poi rivolse gli occhi al dipinto e disse soprappensiero: - Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus Non mi lasciai sfuggire l’occasione. Avevo letto anch’io il libro e avevo ricevuto qualche buona lezione di latino, seppure avessi rimosso il ricordo dell’insegnante. Sorrisi soavemente, come facevo quando mi sentivo perfido. - Prìstina, non pristìna - la corressi - L’aggettivo pristìnus esiste, ma significa “della Balena” nel senso della costellazione, e non credo che sia esattamente ciò che intendeva Umberto Eco Gerti mi fissò inespressiva. - Stronzetto, - disse - lo sai dove te la puoi ficcare la tua balena? Stronzetto era molto diverso da frocetto. Il barometro segnava tempesta. - No, - risposi con ostinata dolcezza - dove? Mi guardò con un lampo freddo negli occhi: - Dove te lo ficcava il tuo amichetto comunista - disse - Ti piaceva, no? Mi voltò le spalle. - Ricopri il quadro - concluse allontanandosi. Una botta di sangue mi arrivò dritta all’inguine. Diventavo cattivo in certi frangenti, e allora sì che funzionava. Avrei senz’altro trovato il modo di farmi perdonare. Riabbassai il drappo e mi allontanai dal dipinto affrettandomi a raggiungerla a letto. Se perdeva l’ispirazione era capace di lasciar cadere tutto e di mettermi alla porta senza tanti complimenti dicendomi grazie tesoro, so fare da me. Non gliene diedi il tempo. Le afferrai i polsi e portai le sue mani al di sopra della sua testa. Strinsi forte, mi guardò gelida, che cazzo fai mi chiese. Apri le gambe puttana, le sussurrai teneramente, ti farò un po’ male, ma tu sei una gran troia amore, ti piacerà vedrai, fidati.


Non smisi finché non la sentii gridare, e non di dolore. La lasciai senza fiato e senza parole, non ci credeva neppure lei, chi l’avrebbe mai detto, il suo frocetto era in grado di farla godere. Alla fine ero stremato, le avevo dato tutto me stesso senza riserve, provavo una felicità intensa, dolorosa, un tremendo bisogno di piangere. Fui sul punto di dirle ti amo. Sarebbe stato un errore puerile: a scanso di equivoci lei mi afferrò per i capelli e mi disse non montarti la testa ragazzo, hai scopato da dio, ma è solo sesso. Sì, ero stato davvero grande quella volta. Da allora la sua considerazione di me era un po’ cambiata: mi coinvolgeva in giochetti sempre più spinti, affondava distrattamente nel mio corpo i suoi artigli di gatta annoiata, ero diventato il suo topo prediletto. Si divertiva a truccarmi da donna. La prima volta che le venne questa ispirazione mi fece indossare la sua vestaglia di seta nera e mi mise a sedere sul letto con le spalle rivolte allo specchio. Si accovacciò accanto a me completamente nuda e cominciò il suo lavoro. Sorrideva, ricordo, sempre più soddisfatta man mano che vedeva il risultato. Non voleva che la guardassi. Chiudi gli occhi sennò mi distrai disse, ed io rimasi ad occhi chiusi per una mezz’oretta, godendomi la carezza delle sue mani che sfioravano il mio viso con tocchi leggeri e sensuali, inebriato dallo strano profumo di quei cosmetici. Da ultimo mi mise sulle labbra un rossetto di un cupo colore sanguigno stendendolo delicatamente con un pennello, una sensazione incredibilmente eccitante. Mentre lo faceva le morsi un dito e cominciai a succhiarlo, ma lei si arrabbiò, smettila disse, mi rovini il lavoro. Alla fine posò il pennello e disse voltati senza aprire gli occhi. Mi voltai alla cieca rimanendo seduto sul letto a gambe larghe. Mi aveva legato i capelli con un elastico per poter lavorare meglio (in quel periodo li avevo lunghi fin sulle spalle): li sciolse, li sistemò, li divise con la riga da una parte lasciando che ricadessero in disordine. Poi si alzò in piedi accanto a me e mi disse apri gli occhi. Li aprii e mi vidi. Non dimenticherò mai il colpo al cuore che provai. Dapprima avvertii solo un contrasto lancinante, il bianco della pelle il nero della seta il biondo dei capelli il rosso delle labbra. Poi cominciai a mettere a fuoco i dettagli. La conturbante femminilità del mio viso incorniciato dai lunghi capelli era di una bellezza che prendeva alla bocca dello stomaco, in meravigliosa contraddizione con le mie spalle larghe, il petto liscio senza seno, le gambe muscolose, il sesso virile. Ero di una sensualità sconvolgente, mi eccitai nel vedermi. Sei uno schianto disse Gerti, e lo ero in effetti. Volle scoparmi subito. Mi resi conto dal suo strano coinvolgimento che la mia ambiguità soddisfaceva un’esigenza profonda del suo animo. Gerti aveva una forte componente lesbica che non si curava di tenere nascosta e che da quella volta emerse chiaramente allo scoperto. Mi travestiva sempre più spesso da donna, mi metteva le calze nere e le scarpe con i tacchi a spillo, voleva che fossi io a stare sotto. Sei una ragazza stupenda mi disse un giorno, dimmi come ti chiami. Scelsi il suo nome, Michelle, un colpo da maestro. Sorrise. Sei bellissima Michelle disse, ho voglia di fare l’amore con te. Disse proprio così, fare l’amore, non fare sesso o scopare. Si alzò, mise su la vecchia canzone dei Beatles e tornò a letto. Si distese sopra di me e cominciò ad accarezzarmi come non aveva mai fatto, con una dolcezza che mi travolse completamente. Mi faceva impazzire sentirla sussurrare il suo nome al mio orecchio. Provai sensazioni indimenticabili, pensai che valeva la pena di essere donna per sentirsi così. Anche se sapevo che era tutta una finzione, quello fu uno dei momenti più belli della mia vita. Subito dopo mi stese con una botta al cuore altrettanto indimenticabile. Si appoggiò su un gomito a guardarmi, mi accarezzò teneramente i capelli, mi fissò con i suoi occhi finti di bambola e sorrise frocetto non è che per caso ti stai innamorando di me. Ma no le risposi, cosa vai a pensare. No, riprese lei, perché se è così chiudiamo subito, non ci si può permettere d’innamorarsi di me, ci staresti troppo male frocettino mio. Fu quello, credo, il suo unico soprassalto di moralità nei miei confronti. Compresi il rischio che avevo corso ed imparai a sorridere sempre, ingoiando l’umiliazione e l’amarezza. Una sera, mentre stavo indossando i panni di Michelle (ero truccato e travestito a metà, con un’ampia gonna bianca ma ancora a petto nudo), vidi una chitarra buttata in un angolo. Non le chiesi nulla, ma lei intuì la mia domanda inespressa e mi disse che l’aveva dimenticata lì un certo Matteo, uno dei tanti che si avvicendavano nel suo letto. Specificò che il suo ruolo era marginale, trattandosi semplicemente di un superdotato, uno grezzo ma efficace, di cui faceva uso solo quando aveva bisogno di raggiungere in


fretta lo scopo o quando qualcun altro l’aveva lasciata insoddisfatta. Non manifestai la minima gelosia e continuai a vestirmi come se niente fosse. - Sai suonare? - mi chiese. - Un pochino - le risposi. - Ti va di suonare per me? Presi la chitarra, la accarezzai con dolcezza, la imbracciai, mi sedetti per terra a gambe incrociate senza curarmi della gonna bianca, provai qualche accordo e cominciai a suonare una canzone che amavo molto. Cantai come sempre con un fil di voce, poco più di un sussurro, ad occhi chiusi, appoggiando la nuca contro la parete e mettendoci tutta la mia anima. Alla fine aprii gli occhi. Lei mi fissava con uno strano sguardo. - Canti come un angelo - disse. Sorrisi: - Davvero? - Non c’è niente di più arrapante che scoparsi un angelo - concluse, e me lo dimostrò subito. Da allora cantai più spesso. Soffrivo molto, ma il ricordo della sofferenza mi cullava con dolcezza quand'ero accanto a lei. E in quel momento lo ero, la sentivo respirare al mio fianco. Non era ancora pronta, sapevo di dover attendere. Finalmente emise un sospiro. Aprii gli occhi. Si voltò verso di me con lo sguardo annebbiato: - Avanti bambino, portami a fare un giro con la slitta - Uno è poco, - dissi alzandomi in ginocchio di fronte a lei - facciamo due. O magari tre - Ora vediamo - concluse pragmatica, ed afferrò saldamente il mio bacino, come spesso faceva per ricordarmi a cosa servivo. Impostava penetrazione, ritmo e intensità, poi mi lasciava continuare da solo. Cominciai devotamente e ritmicamente ad adempiere alla mia missione, ben conscio degli ostacoli che avrei incontrato. Sapevo che avrei avuto un temibile cedimento dopo la prima mezz'ora, ma era tutto previsto, ero in grado di fronteggiare il problema; la roba mi aiutava, ma era soprattutto un fatto di autocontrollo. Si trattava di superare quel momento con uno sforzo di volontà: poi la stanchezza, la fatica, il dolore alle giunture, la voglia di finire in fretta si trasformavano gradualmente in una condizione quasi estatica, i miei desideri si sublimavano in una specie di doloroso nirvana. Non ero più nulla, solo un docile strumento di piacere, attento a tutti i suoi minimi segnali fisici. Gerti era molto fredda e abituata alla roba: le faceva poco effetto, non era facile portarla all'orgasmo. A volte rischiava di impazzire per l'incapacità di sfogare la sua eccitazione. Nei primi tempi la sua freddezza resisteva ad ogni assalto e il fallimento era terribile per entrambi, soprattutto per me. L'impotenza ne era la logica conseguenza: rinunciavo prima ancora di provare. Poi però, non so bene perché, avevo trovato il coraggio di riprovarci. La verità è che desideravo aiutarla più di quanto desiderassi vivere. Avevo capito che il difficile era farle perdere il controllo: bisognava letteralmente costringerla, domarla come un cavallo selvaggio, strattonarla, guidarla, rabbonirla, sussurrare con dolcezza al suo orecchio qualche cruda volgarità, farle cambiare spesso posizione, accarezzarla anche per ore, fino allo sfinimento. Spesso, stando dietro di lei, la facevo mettere in ginocchio con il viso rivolto verso il grande specchio e la obbligavo a guardarsi mentre facevamo l'amore; era bellissima in quei momenti, ma non le piaceva vedersi quando il suo viso cominciava ad essere trasfigurato dal piacere. Chiudeva gli occhi, inarcava la schiena, rovesciava la testa all'indietro, la cascata dei suoi capelli scuri accarezzava le mie spalle, la bellezza del suo corpo flessuoso riflessa nello specchio era quasi insopportabile, dovevo stare attento a non lasciarmi andare e garantisco che non era facile. Avevo le mie tecniche, per esempio ripassare la tabellina del nove o ripetere a mente tutti gli affluenti del Po. Con dolce fermezza raddrizzavo la sua testa e le dicevo guardati, guardati, devi guardare. Lei riapriva gli occhi e ciò che vedeva nello specchio la eccitava terribilmente, ma proprio questo la innervosiva, sentivo i suoi muscoli guizzare sotto le mie braccia, dovevo tenerla ferma, accarezzarla e baciarle teneramente il collo finché non si tranquillizzava. Finalmente si placava, le sue membra tese si rilassavano, si lasciava fare con mansueta condiscendenza, si abbandonava lasciandosi cullare da quel ritmo uniforme. Era un segnale di implicita rinuncia, al quale ero attentissimo. Quando ormai disperava di poterci riuscire, infatti, era il momento di prenderla in contropiede; a volte le dicevo riposiamoci un attimo, fingevo di smettere ma continuavo ad accarezzarla piano, come per caso, e proprio allora, quando


abbassava le difese, portavo l'attacco finale, un attacco deciso, serrato, inesorabile, di fronte alla quale tutte le sue resistenze erano inutili. Funzionava quasi sempre. Il piacere ottenuto in quel modo era innaturale, rabbioso, disperato, la faceva gridare, la lasciava stremata ma sostanzialmente inappagata. La maggior parte delle donne a quel punto si accontenta e cede alla stanchezza; io invece avevo capito che quello era solo il punto di partenza per il piacere vero, facile da raggiungere e naturale. Vincendo le sue resistenze, la costringevo a ricominciare subito. Il resto era un gioco da ragazzi. Quel giorno andai avanti per ore: aveva una voglia terribile e sapevo che non sarebbe bastata una volta sola, forse neppure le due o tre che le avevo promesso. Mantenni la promessa e addirittura raddoppiai la posta. Alla fine eravamo entrambi esausti ed io provavo un'intensa commozione. Mi aspettavo che dicesse qualcosa, mi aspettavo qualche complimento, non so, qualche commento su quello che era appena successo. Ma lei, distesa supina accanto a me, non diceva nulla. Attesi per qualche minuto e poi le feci la più stupida delle domande: - Ti è piaciuto? Rispose con un mugolio che poteva essere interpretato affermativamente. - A cosa stai pensando? - incalzai, deciso a farmi del male. - Niente, - rispose evasiva - stavo solo ripensando a quella variante Rimasi interdetto per qualche secondo. - Variante? - dissi poi. - Massì, bisognerebbe ottimizzare la prestazione, non credi? Prima l'ho detto per assurdo, ma se ci pensi è un'idea, cazzo se lo è. Ci vuole solo la persona giusta, e la persona giusta è Matteo. È un bestione stupido, non si formalizza. La prossima volta possiamo fare che incominci tu e poi subentra lui: così tu ti stanchi di meno e io ci metto la metà Siccome non rispondevo niente si voltò a guardarmi. Dovevo avere un'espressione comica (comica?), perché scoppiò a ridere: - E non fare quella faccia, mica mi piace Matteo; è solo un elefante e ce l'ha grosso come un elefante, ecco tutto Non dissi nulla. Allora lei si sdraiò sopra di me, sorrise e cominciò a baciarmi teneramente le palpebre. Tenevo gli occhi chiusi e mi mordevo a sangue le labbra. Sapeva che stavo lottando per non piangere, sapeva che non ci sarei riuscito, sapeva che stavo male da morire e forse l'aveva detto apposta. Compresi che voleva vedermi piangere, era un altro dei suoi giochi. L'angoscia mi strozzava, quasi non riuscivo a respirare, stringevo i denti per non cedere. Lei, con sottile perfidia, continuava a baciarmi gli occhi. Portò la mano fra le mie gambe, sfiorò con delicatezza il mio sesso e disse: - Povero piccolo passerotto, senti com'è freddo e triste Coprì di baci leggeri tutto il mio viso. Voltai la testa di lato. Allora lei girò con delicatezza il mio viso ed appoggiò le labbra aperte sulle mie. Non mi aveva mai baciato. Per un po' le mie labbra resistettero alle sue, poi si dischiusero. Accarezzò la mia lingua con la sua, la dolcezza di quel contatto era indescrivibile, lottavo per non lasciarmi andare e la sofferenza di quella lotta si esprimeva in un gemito di desiderio che non riuscivo a trattenere. Fu un bacio lunghissimo, persi la nozione del tempo, dello spazio e di me stesso turbinando in un vortice pieno di schegge taglienti, ricordo solo frammenti di emozioni, lei che mi accarezzava con inesorabile dolcezza, io che cercavo con tutte le mie forze di resistere rendendomi conto che in quel momento il sesso mi avrebbe sgangherato l'anima e nel contempo ricambiavo il suo bacio ormai senza più riserve, appassionatamente, disperatamente, poi cominciai a tremare, l'emozione divenne incontenibile, le lacrime traboccarono, ingoiavo i singhiozzi ma il mio petto si contraeva convulsamente, lei continuava a baciarmi con trasporto e mentre accarezzava il mio viso immergeva le dita nelle mie lacrime e la sentivo sospirare, contrarsi, gemere, la mia sofferenza le procurava un intenso piacere, mi sentii perduto, mi arresi, mi abbandonai al crescendo, lasciai che mi portasse dove voleva. Singhiozzavo come un bambino mentre venivo, ricordo di avere gridato no, e mentre gridavo lei sussurrò qualcosa al mio orecchio, piano, quasi impercettibilmente, ma quel sussurro mi fermò il cuore nel petto: ti amo bambino. Era troppo per me, la mia coscienza si annebbiò. Riemersi a fatica, non so quando, dai resti del mio naufragio. Sbattei le palpebre, mi alzai a sedere spossato, con la testa che mi girava; mi guardai intorno: il sole era tramontato, lei non c'era più.


Entrò in camera dopo qualche minuto, serena e indifferente. Si sedette sul letto accanto a me e mi prese una mano. Mi sentivo come se avessi la febbre, desideravo tanto il suo contatto. Le sorrisi: - Scusami, mi sono comportato come un bambino - Non fa niente, - disse indulgente - hai ragione tu. È solo questione di non farvi incontrare Non compresi. - Incontrare chi? - Tu e Matteo Sorrise a sua volta e riprese: - Se non ti va di vederlo non c'è problema: gli dico di venire dopo che sei andato via Avvertii uno scricchiolio sinistro. - E adesso che c'è? - chiese, un po' irritata dal mio silenzio. Mi guardò severa, incrociando le braccia sul petto: - Oggi proprio facciamo a non capirci, frocetto mio. Cerca di non fraintendermi, non t'ho mica detto che non sei bravo. Non è nulla di personale, è solo che le dimensioni sono un fatto oggettivo, tutto qua Trascorsi tutto il resto di quella giornata, e poi anche i giorni successivi, a cercar di riparare in qualche modo la crepa che mi s'era aperta nel cuore. Faceva molto male. Non riuscivo ad arrestare l'emorragia. A scuola, quando salivo le scale, mi giravo a guardare, avevo l'impressione di lasciare chiazze di sangue sui gradini. Non volli più vederla. Lei mi cercò più volte, sorpresa, mi chiese di tornare da lei. Pensavo che mi prendesse in giro, invece era sincera. Non capivo. Alla fine compresi. Compresi che non c’era altra via per arrivare a lei: bisognava soddisfare ogni suo capriccio, mettere da parte ogni dignità, scordarsi ogni sentimento. Mi misi d’impegno per riuscirci. Compresi che mi offendeva sistematicamente e provocatoriamente, con una distrazione intenzionale che significava scusa non lo faccio apposta, è che non ti vedo neanche, ti schiaccio per sbaglio come un insetto. Compresi anche che questo non era vero: io le piacevo molto più di quanto non volesse ammettere. Perciò la assecondavo in tutto e aspettavo che arrivasse il mio momento. So aspettare, quando ne vale la pena. Solo una volta, scosso da non so quale offesa, mi lasciai sfuggire una domanda ingenua: - Senti Gerti, ma se non t’importa un cazzo di me perché continui a vedermi? Mi fissò stranita come se le avessi chiesto qualcosa di profondamente stupido. - Non fare il coglione frocetto, mi irrita la falsa modestia. Non ce n’è molti in giro con i tuoi mezzi fisici, lo sai - Tutto qua? Sospirò. - Tutto qua dice. Mi piaci, mi ecciti, ho sempre voglia di te, ti par poco? Tentai un bluff clamoroso. - Per me è la stessa cosa - le dissi - Anch’io ho sempre voglia di te Ebbe una breve risata crudele e mi guardò dall’alto di un’incommensurabile superiorità: - No tesoro, non è la stessa cosa. Io ho voglia, tu hai bisogno. C’è una bella differenza Dio quant’ero stupido. Imparai a stare zitto.


Buon compleanno, Emmanuel

In genere detesto la disco music, ma quel giorno andava bene così: il suo ritmo tribale accompagnava il pesante pulsare del mio cuore ed era in sintonia con l'odore di legno bagnato che filtrava dalle imposte socchiuse fra gli scrosci della pioggia; inondava il mio cervello e mi faceva sentire stordito. Era il mio diciottesimo compleanno. Sdraiato sul divano, fra le braccia di un’amica, lasciavo che due ragazze dal trucco pesante si divertissero a intrecciare i miei capelli, come spesso facevano le mie compagne. Mi piaceva la sensazione delle loro carezze, solo apparentemente innocenti, sulla nuca e sul collo. Osservavano di nascosto le mie braccia, l'espressione dei miei occhi, la lucidità delle mie reazioni. A scuola girava voce che mi facessi. Come sempre in questi casi, lo sapevano tutti tranne i miei. In realtà non era del tutto vero: ossia lo era, ma non più come prima. Quel pomeriggio, per esempio, ero stato da Gerti e ci eravamo fatti senza neppure scopare, giusto per ricordare i vecchi tempi. Ormai era finita fra me e lei, non sopportavo più la sua volgarità e la sua freddezza. Sto mentendo. Per dirla tutta, non ce la facevo più: soffrivo troppo, mi stava distruggendo pezzo per pezzo. Un giorno aveva invitato una sua amica e aveva preteso che la guardassi mentre faceva sesso con lei. Impara mi aveva detto, ti servirà per il futuro, non c’è come una donna per accarezzare una donna. Ricordo tutto di quel pomeriggio e ancora adesso rievocarlo mi fa star male, ma voglio provarci. La sua amica entrò in silenzio a piedi nudi con un incedere indolente e maestoso: era alta, snella, con lunghi capelli castano chiaro, indossava un peplo bianco trasparente che le lasciava completamente scoperto il bellissimo seno, aveva la parte superiore del viso nascosta da una mezza maschera simile a quelle del carnevale di Venezia, reggeva in mano strani strumenti che potevano sembrare di tortura. Accese due candele d’incenso, abbassò le luci, mise su una musica new age, chiuse i polsi delicati di Gerti in eleganti manette che si sarebbero dette d’oro, le fissò alla spalliera del letto e cominciò. Per tutto il tempo non disse una sola parola. Gerti invece mi spiegò diverse cose su cui preferirei sorvolare; ne citerò qualcuna giusto per chiarezza. Mi disse per esempio che dai giochetti con le sue amiche era bandita ogni volgarità, non era ammesso l’uso di strumenti moderni come i vibratori elettrici, erano terribilmente kitsch, meglio soluzioni più tradizionali. Mi disse che, se lo desideravo, potevo rendermi utile e collaborare con la sua amica perché in tre viene meglio. Declinai gentilmente l’offerta. Mi disse che l’orgasmo è la miglior cura di bellezza per una donna, e almeno nel suo caso era vero, diventava ancor più bella dopo. Mi spiegò che il maschio in genere è troppo grezzo per capire che ci sono diversi tipi di orgasmo femminile e che ora avrei potuto constatare di persona la differenza. Quel che mi disse in seguito l’ho rimosso, riusciva a mantenersi lucida perfino in certi momenti, era incredibile sentirla descrivere le sue sensazioni nell’istante stesso in cui le provava. Ero in uno stato d’animo spaventoso, non avevo mai sofferto tanto. L’amica era fredda e tecnicamente bravissima, le sue dita, abili come quelle di una concertista, traevano accordi magici dal suo corpo. La fece letteralmente impazzire. Mi vergognavo da morire al pensiero del mio elementare coinvolgimento maschile quando scopavo con lei. Continuavo a guardare, imparavo se così si può dire, tremavo nel profondo dell’anima, ero eccitato fino alla disperazione e mi sentivo una nullità, un inutile idiota. Alla fine lasciò che fosse la sua amica a soddisfarmi. Devo ammettere che ci riuscì. Ci sapeva fare la ragazza. Fu una delle esperienze più umilianti della mia vita. I miei nervi erano a pezzi, corsi in bagno e scoppiai a piangere come un bambino. Mi aspettavo che Gerti mi ignorasse, invece stranamente mi raggiunse, s’inginocchiò accanto a me, mi tirò su il mento e mi disse avanti che c’è. Le chiesi di non farlo mai più in mia presenza. Non so quali scuse accampai, la verità era che volevo avere l’illusione che fosse mia, solo mia, almeno quando eravamo a letto insieme, ma non potevo dirglielo e perciò piangevo disperatamente. Lei mi guardò e disse frocetto, comincio a pensare che tu non sia tagliato per certe cose, che dici, l’apparenza inganna. Arrossii


mio malgrado, le dissi che si sbagliava, che era solo questione di tempo, ero molto giovane in fin dei conti. Mantenne la parola: da allora ci vedemmo sempre da soli. Io però mi resi conto che con lei la partita era persa in partenza e che avevo i minuti contati. La sofferenza era inutile, oltre che devastante. Cominciai a prendere in seria considerazione l’idea di ritirarmi dal gioco prima che fosse lei a buttarmi fuori, non avrei potuto aggiungere al dolore una simile umiliazione. Così l’avevo lasciata. Lei non aveva battuto ciglio quando glielo avevo comunicato. Era rimasta a guardarmi a braccia conserte. Non c’è problema aveva detto, se hai bisogno di me sai dove trovarmi, ciao bello. Giocava in casa. Sapeva benissimo che non ce l’avrei fatta. In certi momenti mi sentivo soffocare, mi mancava l’aria, lasciavo tutto e correvo a bussare alla sua porta, se non era in casa l’aspettavo seduto sul pianerottolo stringendomi forte le braccia e battendo i denti. Lei apriva senza dir nulla, sapeva di cosa avevo bisogno, trovavo sempre tutto pronto, vieni qui diceva rilassati ora passa tutto, mi spogliava dolcemente, cercava subito una vena; dopo pochi secondi non sentivo più né ansia né dolore, c’era solo un meraviglioso benessere. Poi veniva sopra di me e mi sussurrava chiudi gli occhi Michelle, lasciati scopare, faccio tutto io. I rapporti fra noi erano completamente cambiati. Era cominciato un periodo che potrei definire di sesso zen, definizione impropria lo so, perché quello che succedeva era più effetto delle sostanze che avevamo in circolo che del sesso vero e proprio, ma insomma rende l’idea. Sembrava che fosse diventato superfluo tutto ciò che prima era indispensabile, erezione, eiaculazione, il fatto stesso di doversi muovere. Succedeva lo stesso, non so come, ed era anche più bello. Gerti mi accarezzava come accarezzava le donne, il mio corpo rispondeva come quello di una donna. Le mie sensazioni erano tutte interne, dolci, profonde, godevo nel più totale abbandono. Non era più una questione di trucco e di travestimento, praticamente ero diventato una donna. Lasciavo che facesse di me quel che voleva. Mi vestiva come una bambola, intrecciava i miei capelli con nastri colorati, mi faceva indossare guepière e baby-doll, sperimentava nuovi colori per il mio rossetto. Diceva che le mie labbra erano la cosa più eccitante che avesse mai visto. Si spalmava delicatamente del miele su un capezzolo e poi me lo dava da succhiare: ero incapace di farlo in modo erotico, mi veniva semplicemente spontaneo, tornavo bambino, tutto qui. Questo la faceva impazzire: il piacere che provava era in aperta contraddizione con la sua mancanza di spirito materno. Intanto la accarezzavo timidamente come avevo visto fare alla sua amica. Mi sentivo inadeguato, lo facevo con tutta la dolcezza di cui ero capace, e a quanto pare funzionava. Fu appunto in quell’occasione che scoprì il tipo di orgasmo numero tre (mi pare), quello che pochissime donne conoscono e che lei stessa conosceva solo per sentito dire, quello che finisce solo per ricominciare, una cosa fantastica direi, una specie di volo planato tutto picchiate e impennate improvvise nel vento. E le era successo con me. Gerti amava rovinare i momenti più belli con delle terribili volgarità. Alla fine si alzò e mi disse freddamente cazzo frocetto il lenzuolo è fradicio, mi toccherà cambiarlo. Ma ormai la conoscevo, lo presi come un complimento. Avevo guadagnato un milione di punti in un colpo solo. Era tutto finto, tutto recitato, ma che attori grandiosi eravamo. Non posso ripensare a noi due senza provare un tremendo sussulto di eccitazione. Tenevo a bada i miei sentimenti per quanto mi era possibile in quelle condizioni. Una volta, dopo che avevamo fatto sesso, mi disse sai forse mi sbagliavo frocetto, forse ci sei tagliato per queste cose. Io le risposi è piuttosto semplice tesoro, basta capire il trucco, basta rendersi conto che non bisogna sentire niente, niente di niente, nessun coinvolgimento. Io non provo più niente per te Gerti, è per questo che funziona così bene. Mentivo, non era del tutto vero, ma l’importante era che ci credesse lei. Mi guardò per un istante, poi annuì e disse sì, è così che dev’essere. Mi distese sul letto e volle subito ricominciare, ma dal suo tenero abbandono compresi che le cose erano cambiate anche per lei. Credo che si stesse innamorando di Michelle. Sarebbe stato tutto perfetto se non fosse stato per un dettaglio: io ero Emmanuel. Il maschio in me stava scomparendo, o forse dovrei dire che stava scomparendo l’essere umano. Ma per il momento non me ne importava nulla. Non m'importava più nulla di


nulla. Arrivai perfino ad accettare la collaborazione di Matteo, un bestione come diceva lei, ma non stupido e neppure rozzo. Era un ragazzo di Foggia dai lineamenti grossolani, con la mascella squadrata, gli occhi piccoli di un colore qualunque, i capelli neri cortissimi, la nuca rasata da skinhead, un corpo da body builder palestrato e pieno di tatuaggi, in sintesi il prototipo del macho latino che piace alle donne e che io non sopporto. Aveva ventisette anni e faceva il manovale. Di primo acchito lo giudicai di una intollerabile volgarità. In realtà era una persona piuttosto semplice, con una cultura poco più che elementare, però gentile e molto educato, quasi imbarazzato dall'assurda abbondanza di mezzi di cui Madre Natura lo aveva gratificato (ed era stata generosa davvero: quando lo vidi nudo mi resi conto che con lui non c'era partita). Sapeva di essere famoso fra le donne della città per le dimensioni dei suoi genitali e questo non gli sembrava un motivo sufficiente per passare alla storia, il che era già di per sé sintomo d'intelligenza. Si comportava nei miei confronti come un subalterno. Quando arrivava il suo turno mi chiedeva permesso, svolgeva le sue mansioni di bassa manovalanza con solerzia ed efficacia ed era abbastanza giudizioso da non strafare. Alla fine mi chiedeva: - Come sono andato? -. Io gli assicuravo che era andato benissimo e lui si schermiva con modestia dicendo che il merito era tutto mio, perché la parte più difficile sono i preliminari. Curiosa collaborazione la nostra, all'insegna della reciproca cavalleria. Un pomeriggio, mentre Gerti faceva la doccia e noi stavamo rivestendoci nel nostro bagno (lei ne aveva uno tutto per sé), decise di rompere il ghiaccio: - Sai, non sembra, ma non è mica facile per me: con le mie dimensioni ci si stanca presto- Eh sì, - risposi serio, infilandomi i jeans - non foss'altro per la forza di gravità - Ma la cosa peggiore è depilarmi il petto: lei non sopporta gli uomini pelosi Lo guardai di sbieco. - Be', l'effetto però non è niente male: ti mette in risalto i muscoli - Il problema è che non posso usare il rasoio, lei non vuole, mi tocca strapparli con quella cera del cazzo che usano le donne - Terribile - dissi con una smorfia. - Già. Vedo che capisci S'infilò la camicia guardandomi: - Sei intelligente tu, e pure bello. Sembri un principe - Grazie - risposi. Abbottonò la camicia sul suo torace ampio e muscoloso e riprese: - Ma lei non pensa a te? - In che senso? - chiesi evasivo. - Ti lascia così senza farti niente? - La conosci, - dissi - sai com'è fatta. Se glielo fai notare ti dice ragazzo, le mani le hai, usale - Be', sarà pure la più bona della città, ma questo non è giusto Mi tirai su la cerniera. - Sai chi se ne frega della giustizia Esitò un attimo, poi disse: - Se vuoi posso aiutarti io Sollevai lo sguardo su di lui. Doveva essere molto eloquente, il mio sguardo. Poi lo riabbassai senza dire nulla e m'inginocchiai per allacciarmi le scarpe. - Non fraintendermi, - riprese - mi fanno schifo i rapporti contro natura; non lo faccio nemmeno con le femmine, figurati con i maschi Non feci una piega. - Anche perché, - osservai freddamente - considerate le tue dimensioni, un rapporto contro natura, come lo chiami tu, potrebbe essere alquanto sgradevole, non credi? - Già, appunto, almeno penso. Cioè, a dire il vero no, pare che a molti piaccia, ma io ho i miei princìpi, sono religioso, sai. Lei per esempio me l'ha chiesto, - accennò con la testa all'altra stanza - ma le ho detto di no Rimasi inginocchiato ad allacciarmi le scarpe per dissimulare il colpo al cuore. Poi mi alzai in piedi: - Hai fatto bene - dissi con un sorriso spavaldo. Esitò nuovamente, poi riprese: - Dicevo una cosa così, sportiva, tra uomini, cinque minuti e via, giusto per rilassarti un po'. Sei sempre così teso. Mi sei simpatico, e se non ci diamo una mano fra di noi… - Ti ringrazio del pensiero, - dissi educatamente - ma non sono affatto eccitato -


- Questo non è normale - osservò. - No, - confermai - non lo è Tacque un attimo, poi aggiunse: - Senti, te lo dico come a un fratello minore: lascia perdere la roba, ti fa male, lo vedi, poi non ti viene più duro. Da' retta a me, è meglio la pizza di mia madre Scoppiai a ridere. Diventammo quasi amici. Quel bestione scaldava un po' la mia vita, ero contento che ci fosse. Sapevo che non sarei più stato in grado di scoparmi una donna in modo normale, ma non era importante, non ne avevo bisogno. L’unica preoccupazione che cominciava a farsi assillante era quella dei soldi: la roba costava cara, non sapevo più che scuse inventare con mia madre per estorcerle altro denaro. Alla peggio frugavo nella sua borsetta. Mi rendevo ben conto che non era quella la risposta che cercavo; lo sarebbe stata se avessi deciso di morire alla grande, ma per il momento volevo ancora vivere. Quello che facevo con Gerti, però, mi piaceva terribilmente, rimaneva dentro di me come un’oscura inquietudine. Lei era un flash direttamente in vena, mi mandava ogni volta fuori di testa. Non lo dissi mai a Eloisa, è l’unica cosa che le ho sempre nascosto. Semplicemente non potevo farne a meno. Non mi restava che mentire a me stesso e tentare un compromesso con la mia coscienza: avevo la partita in mano, era lei adesso la più debole, io non sentivo più niente, era solo sesso, solo una cosa fisica senza nessun coinvolgimento, e allora perché non continuare? Dove stava il pericolo? Così la nostra storia andava avanti anche dopo che era finita. All'inizio della festa mia madre mi s’era avvicinata, elegantissima come al solito, e mi aveva chiesto dove fosse Michelle. Di solito era gelosa delle mie ragazze, ma per lei faceva un’eccezione. Era un po’ più grande di me, ma faceva una figura magnifica al mio fianco, aveva classe e conosceva le buone maniere. E poi era ricca e mezza nobile. Per invitare Michelle non avevo bisogno di scuse: la porta era sempre aperta per lei. Non stiamo più insieme mamma, le avevo risposto, e lei non era riuscita a dissimulare il disappunto. Ripensaci Emmanuel, mi aveva detto, quella è la ragazza giusta per te. Era la serata di libera uscita di Teresa e mia madre aveva chiesto a Eloisa di darle una mano con i preparativi per la festa. A dire il vero non c’era molto da preparare: Teresa aveva lasciato tutto pronto in cucina. L’avevo sorpresa poco prima sulla soglia: era truccata pesantemente, profumata e ingioiellata come sempre quando usciva con il suo misterioso corteggiatore; con i tacchi alti mi arrivava appena alle spalle. Le avevo detto che era molto elegante; era arrossita sotto il colorito bruno del volto; poi mi aveva guardato dicendomi che ero diventato il più bel ragazzo del mondo, oh se solo mi fossi tagliato i capelli e avessi mangiato qualche uovo sbattuto in più. Era indecisa se uscire o rimanere per festeggiare il mio compleanno; le avevo dato un bacio sulla guancia e le avevo aperto la porta dicendole di divertirsi anche per me. Non desideravo celebrare quell'evento banale, ma sembrava che i miei ci tenessero, e poi dovevo farmi perdonare in qualche modo il mio declino scolastico (da quando frequentavo Gerti avevo altro per la testa che studiare). Così avevo accettato di invitare i miei compagni e qualche mio amico, a condizione che si evitasse il rito della consegna dei regali. Ho sempre trovato imbecille fare regali a un ragazzo ricco. Mia madre, preoccupata del mio perenne stato confusionale, aveva proibito la presenza di alcolici, ma io ero ubriaco di mio. Eloisa si muoveva rapida dal salotto alla cucina portando bibite e pasticcini, elegante in un abito nero corto, ma quanto più insignificante delle ragazze che frequentavo adesso. Non reggeva il confronto con Gerti da nessun punto di vista. Ciò nonostante ci tenevo alla sua presenza: mi dava un intenso piacere essere visto da lei mentre ero fra le braccia delle altre. Giocavo un gioco crudele: per una sorta di transfert ogni mia carezza era riferita a lei, ogni mio sguardo era per lei; lei lo intuiva ma non poteva averne la certezza. Quando si allontanava era come se i riflettori si spegnessero: non avevo più voglia di recitare, cadevo in un apatico torpore. Ora il DJ aveva messo su un pezzo che faceva parte delle mie mitologie di adolescente: un colpo basso nelle mie condizioni. Come ho già detto, di norma non ballo in presenza di estranei. Quel giorno però mi sentivo davvero strano e mi lasciai andare. La mia camicia si aprì sul petto, portavo una strana camicia con un grande jabot di pizzo, mi donava molto lo stile settecento inglese, specie con la coda di cavallo. Era un altro dei suggerimenti di Gerti. Sentii gli occhi delle ragazze posarsi su di me, desiderarmi


spasmodicamente, scivolare sulla mia indifferenza senza trovare un appiglio. Ballare aumentava il mio stato di stordimento e mi faceva sentire bene. Incrociai ad un tratto lo sguardo di Eloisa e seppi esattamente quello che provava. Poi fu la volta di un lento famoso, struggente; tutti si avvinghiarono a qualcuno. Eloisa e mia madre uscirono dalla stanza. Di nuovo provai lo smarrimento di un attore che si accorge di recitare per una sala vuota. Desiderai disperatamente comunicarle il senso di quell'emozione, ma nella penombra, prima ancora di rendermene conto, mi trovai abbracciato ad un'altra. - Sei bellissimo - mi sussurrò a un orecchio. - Grazie - risposi, appoggiando la guancia sui suoi capelli scuri. Sapeva di gelsomino e legno di sandalo, chiudendo gli occhi si poteva immaginare una spiaggia deserta al chiaro di luna in pieno agosto, che cazzate sto scrivendo. - Fa caldo qui dentro - disse a un tratto - Andiamo fuori? - Piove - Non importa, staremo in veranda Mi prese per mano. Mi lasciai condurre in veranda e mi appoggiai alla parete umida, guardando la pioggia cadere. Lei mi circondò il collo con le braccia e, prevedibilmente, mi baciò. - Baci bene - mi disse sorridendo. - Trovi? - risposi. Prese le mie mani inerti e se le infilò sotto il reggiseno. La sensazione era morbida e calda, piacevole in quell'atmosfera piovosa; la assecondai. - Andiamo in camera tua? - sussurrò. - No - risposi. Rimasi appoggiato al muro a guardarla mentre lei, senza parlare, si rimetteva a posto il golfino. Poi aggiunsi: - Scusa Ebbe un sorriso acido: - Non c'è di che La festa finì e mia madre si ritirò in camera sua al primo piano. Io aiutai Eloisa a riordinare il salotto. Non parlammo affatto. Poi lei si sedette sul divano, in penombra, in attesa del rientro di mio fratello; io raccolsi i miei capelli in una coda di cavallo, sapendo che la cosa la indisponeva, e mi sedetti davanti a lei; si sistemò con una gamba piegata sotto di sé, una sua caratteristica posizione da libera pensatrice, aprì una rivista e si accese una sigaretta. C’era un’atmosfera molto tesa fra noi. - Ti accompagna a casa Giuliano? - le chiesi a un tratto. - Sì - A che ora rientra? - Appena finisce la conferenza al Rotary - Non ti preoccupa sposare un massone? - Neanche un po’ Cambiai argomento. - Non dovresti fumare: ti invecchia la pelle Mi lanciò uno sguardo. - Ci sono molte cose che tu non dovresti fare, ragazzino - Ho compiuto diciott’anni, non sono più un ragazzino - L'età non è solo un fatto anagrafico - Che cosa non dovrei fare, per esempio? - Travestirti da educanda perversa, per esempio - Non ti piaccio? - Non saprei. Il tuo ormai è un sesso mitologico, Emmanuel. Perfetto fra le ninfe dell'Arcadia, ma inservibile nella vita reale - Già, dimenticavo che per te ci vogliono i maschi veriSospirò, chiuse la rivista e mi guardò negli occhi. - Parliamo seriamente, Emmanuel - Ti ascolto - Non possiamo continuare così. Ci aspetta una lunga convivenza. Perché sei sempre così sarcastico con me? Non possiamo provare ad andare d’accordo? - Tu che dici? Spense la sigaretta e mi guardò in uno strano modo. - Dico che dovresti affrontare la vita con maggiore serenità - Serenità? -


- Sì, o se preferisci cinismo. Dovresti prendere le cose come vengono, imparare dai ragazzi di strada. Forse non è nel mio interesse dirtelo, ma in fondo anche questo fa parte del mio ruolo educativo La guardai e non dissi nulla. Volevo vedere dove andava a parare. - Diciamo le cose come stanno: non t’importa più niente di me, eppure continui a provocarmi. Perché lo fai? All'inizio poteva avere un senso, ma adesso non ne ha più nessuno. Non ti sei vendicato abbastanza?- È solo un gioco, cognata - La mia diagnosi è un'altra: sei in un momento in cui devi provare a te stesso che il tuo fascino è irresistibile e la storia che c’è stata con me ferisce il tuo orgoglio. Non è così? Non risposi. Continuò: - Se è tutto qui il problema, ti offro subito la soluzione. Tu mi piaci moltissimo, Emmanuel. Non chiederei di meglio che stare con te, se avessi quindici anni di meno e se non fossi fidanzata con tuo fratello. Come vedi il tuo orgoglio può uscirne a testa alta. Sei contento adesso? - Contento di che? - dissi freddamente. Nella sua infinita presunzione si attribuiva più importanza di quanta ne avesse: non occupava più tutto quello spazio nella mia vita. Stavo per dirle qualcosa di offensivo, ma decisi di sorvolare. - Vuoi prenderti la rivincita? - proseguì. Abbassò la testa, si passò una mano fra i capelli, poi rialzò lo sguardo e disse: - Fallo, non mi opporrò. Sono molto stanca, Emmanuel; questa tensione mi sfibra. Non importa se ci starò male. Sarà sempre meglio che continuare così Sorrise e si protese verso di me, appoggiando una mano sulla mia: - E poi vedrai, ti passerà presto. Dopo un paio di volte ne avrai già abbastanza e finalmente potrai essere sereno. Non vedo l'ora che possiamo essere amici, noi due Rimasi interdetto. Avrei dovuto riderle in faccia, invece sentivo montare una rabbia sorda e non riuscivo a capire perché. Qualcosa mi offendeva profondamente. Anzitutto il fatto che pensasse di interessarmi ancora fino a questo punto: possibile che non avesse capito che puntavo più in alto, e da un pezzo ormai? Ma non era solo questo, c'era altro che mi colpiva, la serenità con cui mi stava proponendo di tornare nel suo letto e di dividerlo saltuariamente con altri. È pur vero che Gerti la condividevo con sei o sette uomini e un paio di donne, ma con lei era tutta un'altra storia. Non m’importava più gran che di Eloisa, ma il suo ricordo era come il tesoro di pigne di Tegame: anch'io conservavo nella cassaforte della mia mente quegli stracci come se fossero diamanti. Non sopportavo che mi relegasse fra le esperienze marginali della sua vita, che usasse parole come serenità e amicizia per definire il nostro rapporto. Non era bastato bruciarmi il cervello e le vene, ero ancora uno stupido ragazzino sentimentale che non riesce a dimenticare il primo amore. Ritirai la mano e parlai lentamente, fremendo d'indignazione: - Passare da un letto all’altro ti sta confondendo le idee, cognata. Vediamo di chiarire qualche punto essenziale. Io non sono quello con il quale ogni tanto fai i giochini violenti. Io sono Emmanuel, ricordi? Non ho bisogno di una puttana, io Mi guardò con occhi fermi: - Le idee confuse le hai tu, ragazzino, se credi di essere meglio di lui Non abbassai lo sguardo: - Tu che ne sai della mia anima? - Riesci ancora ad averne una? E come lo trovi il tempo, impegnato come sei a farti mettere le mani addosso da tutte le tue amiche? Dappertutto, anche in veranda, come poco fa - Cosa fai, mi sorvegli? - Ti ho visto per caso Era pateticamente gelosa, altro che amicizia. Mi appoggiai contro lo schienale della poltrona con le braccia incrociate dietro la nuca e non potei fare a meno di guardarla con ironia. - Piaccio, cognata, che ci posso fare? Mi dispiace fartelo notare, ma sono in molti a volermi mettere le mani addosso - Ah già, dimenticavo, anche i tuoi amici. E tu non dici mai di no, vero? - Perché dovrei? - Già, perché dovresti? Mi guardò con un lontano dolore negli occhi: - Vorrei non averti conosciuto prima -


Era proprio lì che l’aspettavo. - Prima di quando? Prima di te? Incassò il colpo con molta eleganza. - Prima di vederti così. Eri un ragazzo meraviglioso, Emmanuel. Non sopporto che ti butti via Stavo perdendo la pazienza. Era troppo facile farla star male, bastava chiarirle meglio il concetto di "buttarsi via", bastava un semplice paragone tra lei e Gerti. Ma era da vigliacchi, mi sarei sentito come uno che ruba le caramelle a un bambino. Fui fin troppo signorile, date le circostanze; mi limitai a dirle freddamente: - Temo che tu non abbia più il polso della situazione, mia cara Comprese di essersi resa ridicola ai miei occhi. Si allontanò da me e appoggiò le spalle contro lo schienale del divano. - E non m’interessa di averlo - rispose altrettanto freddamente - La vita è tua Non feci in tempo a replicare, perché si sentirono i passi di mio padre e di Giuliano nell’ingresso. Eloisa si alzò, andò loro incontro, salutò mio fratello con un bacio. Mentre si alzava in punta di piedi per circondargli il collo con le braccia la gonna le si sollevò ed io vidi lo sguardo di mio padre posarsi sul bordo di pizzo delle sue calze scure e sul reggicalze nero. Giuliano le prese la vita sottile fra le mani, la allontanò da sé per guardarla e le sorrise: - Sei bellissima stasera - Com’è andata la festa? - chiese mio padre appoggiandomi una distratta carezza sui capelli, senza distogliere lo sguardo da lei. - Magnificamente - risposi. - Andiamo? - le chiese mio fratello. Aveva fretta, il porco. Uscirono senza salutarmi. Mio padre mi diede un bacio e andò a dormire. Lo vidi allontanarsi un po' incurvato e per la prima volta in vita mia mi sentii direttamente dentro la sua vecchiaia e la sua stanchezza, una sensazione di pena orribile, il déjà vu del futuro. Rimasi per un po' immobile a guardare la porta. Poi scoppiai in una risata isterica. Caddi riverso sul divano dove poco prima le mie amiche mi avevano accarezzato e continuai a ridere a lungo al pensiero di loro due che scopavano in macchina. Risi fino alle lacrime, fino ad aver male al diaframma, mordendomi una mano per cercare di smettere. Alla fine sentii un'onda di calore percorrermi alla rovescia, salire, scendere, fermarsi nel mio cervello. I nervi mi esplosero all'improvviso, senza motivo. Cominciai a tremare in modo incontrollabile, mi mancava il respiro, avevo lo stomaco contratto da forti crampi. Mi chiusi in camera in preda a una violenta crisi. C’era il mio diario sulla scrivania: lo scaraventai per terra. Si aprì a caso e vi lessi una frase scritta molti mesi prima: Io ti amo, ti amo profondamente. Sei quell'amore che capita una volta nella vita, quando capita, e io non sono all'altezza della situazione. Sparai la musica a tutto volume, presi a calci i muri urlando all'altezza di che maledetto coglione, non te ne frega un cazzo un cazzo, non è più niente per te. Scosso dai brividi, battendo i denti, mi sedetti per terra e mi raggomitolai su me stesso con la faccia nelle ginocchia. Non riuscivo a smettere di tremare. Quella roba in circolo, il sesso con Gerti, qualcosa non funzionava, la vita è tua, ho paura proteggimi da quello che voglio, io non posso essere in pericolo mentre tu scopi con mio fratello brutta troia perché non sei qui non vedi che sto male non vedi, cadere con lei nel vuoto schiantarmi con lei, Dio se quella notte non l'avessi fermata, di nuovo di nuovo con te guidando alla cieca nel buio, che cazzo sto pensando che cazzo mi prende sto male sto male sto male da morire. Mi venne da vomitare, corsi in bagno. Con la testa nel water sentivo la voce di Lennon, I need a fix 'cause I'm going down, ho bisogno di farmi pensai, domani la chiamo. Spensi tutto e mi misi a letto con la febbre. Buon compleanno, Emmanuel.


Molto sexy A Matteo non importava niente di Gerti, se la scopava così, per passatempo. Lo colpiva molto, invece, la mia evidente sofferenza, che cercavo di mascherare sotto un atteggiamento apatico e indifferente. Gli dispiaceva per me. Una sera mi vide particolarmente a terra; in pratica il mio ruolo si era ridotto a quello di una comparsa, era diventato lui il vero protagonista; questo feriva il mio orgoglio in modo indicibile, non c'ero ancora abituato. Ci rivestimmo in silenzio; gli voltavo le spalle, lui era mogio, mortificato, si sentiva in colpa. Quando uscimmo dalla casa di Gerti mi propose di andare in discoteca. Accettai: non vedevo l'ora di immergermi in quel baccano assordante per non pensare più a niente. Ci sedemmo ad un tavolino in un angolo e lui mi fece bere un bel po' di cose mescolate assieme; io non sopporto l'alcool, non ci sono abituato, e perciò mi ubriacai subito. Dopo un po' mi sentivo benissimo, tutti i miei problemi erano spariti. Cominciai a ridere e a scherzare; lui mi guardava con una bella luce negli occhi, rideva delle mie battute, mi dava pacche sulle spalle con le sue manone da camionista, continuava ad offrirmi da bere. Ad un certo punto mi alzai, completamente sbronzo, e gli gridai (non si capiva niente con la musica a tutto volume): - Vieni a ballare con me - Non mi piace ballare - urlò in risposta - Vai tu, io ti guardo - D'accordo - risposi. Scesi in pista. Come ho già detto, di norma non ballo in presenza di estranei. Ma quella sera l'alcool mi aveva disinibito portando a galla il carico di tensione e di disperazione che avevo accumulato per settimane e avevo un tremendo bisogno di buttare a mare quella zavorra. Mi scatenai, diedi libero sfogo all'istinto, dimenticai tutto: avevo bisogno di essere stupido, soltanto stupido, assolutamente stupido, come dovrebbe esserlo un diciassettene felice, euforia e testosterone puro, in una parola boyish. C'è un altro motivo per cui non ballo in pubblico, ed è che so di fare uno strano effetto su chi mi guarda. C'è qualcosa nel mio aspetto fisico che a quanto pare, immerso nel dionisiaco, scatena reazioni incontrollabili in un certo tipo di persone, soprattutto nei maschi; sarà per come muovo il bacino, sarà per l'espressione del mio viso, non so: fatto sta che in genere tutti si fermano a guardarmi e qualcuno comincia anche ad allungare le mani. Così accadde anche quella sera: s'era fatto il vuoto intorno a me, mi guardavano tutti, mi incitavano con cori da stadio, fischiavano, urlavano volgarità. Matteo rideva e batteva le mani, mi gridava bravo. Peccato che non ci fosse lei a vedermi in quel momento. Io continuavo a ballare, allegrissimo e su di giri; ad un certo punto improvvisai anche uno spogliarello, una cosa molto innocente, proprio da ragazzino, senza nessuna tecnica, e mentre facevo roteare sopra la mia testa la maglietta che mi ero appena tolto tre o quattro tizi in prima fila persero la testa e mi si avventarono addosso. Franammo a terra, io ridevo, sentivo le loro mani che mi toccavano sotto la cintura, il loro fiato puzzolente d'alcool e di fumo, le loro barbe ruvide sulla pelle del mio petto. Prima che potessi preoccuparmi degli sviluppi della situazione vidi una mano calare dall'alto sopra di noi, afferrarli uno ad uno per la collottola e scaraventarli ai lati della pista. Naturalmente era Matteo. Rimasi a terra appoggiato su un gomito, ansante. Si fece silenzio. Matteo, immobile, stringeva i pugni e li guardava con ferocia. - Lasciatelo stare - ringhiò. - Ma chi cazzo sei, - disse uno - la sua guardia del corpo? - No, - disse un altro sghignazzando con scherno - è quello che se lo incula, 'sto frocio Finì a cazzotti. Per fortuna Matteo era più forte. Ci buttarono fuori dal locale. Lui mi caricò in spalla come un sacco di patate, tenendomi per le ginocchia con la testa all'ingiù contro la sua schiena, mi diede uno sculaccione per farmi smettere di scalciare e mi portò via. Ridevo come un matto. Penso di essermi addormentato in quella posizione. Quando riaprii gli occhi lui stava dicendo ad una signora quieta e gentile, tutta vestita di nero, di lasciarmi dormire fino a tardi. - Ti preparo il divano - disse lei allontanandosi. Matteo mi tolse le scarpe, mi spogliò, mi mise nel suo letto e mi rimboccò le coperte. Mi costrinse a telefonare a casa per avvisare i miei. Poi si sedette sul letto accanto a me e disse:


- Principe, così non va bene. Ti stai giocando la vita a testa o croce. Devi stare più attentoSbadigliai: - Eh, lo so - Ne riparleremo, adesso mi sa che hai troppo sonno - Sì - confermai. Gli occhi mi si chiusero. - Comunque eri molto sexy, sai? - disse - Avresti un futuro come spogliarellista - Grazie - biascicai nel sonno. Mi diede un bacio in fronte e spense la luce. Uscì senza far rumore.


Roulette russa

A lungo Emmanuel fu convinto di riuscire a controllare il gioco, pur rendendosi conto che stava diventando ogni giorno più simile ad una roulette russa. Un pomeriggio però le cose precipitarono. Eravamo soli in casa. Avevo ricominciato a seguirlo nello studio, perché il suo rendimento scolastico era improvvisamente calato senza motivo apparente. La signora Helena era andata a parlare con i professori e tutti si erano detti preoccupati della cronica distrazione di Emmanuel; qualche firma sul libretto delle assenze, poi, era falsa. Sua madre se n’era accorta, ma aveva fatto finta di nulla. Appena a casa, aveva subito chiesto il mio aiuto. La professoressa di matematica aveva cercato di sdrammatizzare, si sarà preso una cotta aveva detto, è normale alla sua età. Ma io che lo conoscevo bene non riuscivo ad attribuire a una semplice infatuazione quella difficoltà di concentrazione, quell’appannamento delle facoltà mentali così nuovo in lui. Forse la primavera, pensavo fra me, ma non era ancora primavera; forse la crescita, forse un po’ di anemia. Gli avevo suggerito di fare delle analisi del sangue, ma mi aveva riso in faccia dicendo brava, così vedono i buchi sulle braccia e mi prendono per un tossico. Stavo aiutandolo a dipanare il groviglio sintattico di un brano di Tucidide, quando improvvisamente mi venne fatto di chiedergli, abbastanza scioccamente in verità, chi fosse la ragazza che un’ora prima avevo visto uscire dalla sua stanza. Mi aveva colpita molto: era bella, altissima, con un portamento principesco. - È una - mi rispose vago - Una delle tante - Avrà pure un nome - Non serve saperlo, per quello che dobbiamo fare insieme Lo fissai freddamente. - Dovete? - Vogliamo - si corresse. Mi immersi nuovamente nei meandri sintattici del testo greco. - Si chiama Michelle - disse all’improvviso. - Allora te lo ricordi, il suo nome - È un bel nome, non trovi? - Anche lei è bella, ma ha qualcosa che non mi piace - Sei gelosa - Perché dovrei? - Già: perché dovresti? Lo ero, naturalmente, ma quel pomeriggio provavo un intenso trasporto affettivo per lui e non volevo avvelenare con le polemiche quello stato di grazia. Da quell'ultima volta (quanto tempo prima?) non avevo più avuto rapporti con lui. Scollarmi di dosso la sua suggestione era stato ancor meno facile del previsto: appena il sole spariva dietro l'orizzonte il vampiro del ricordo mi s'attaccava alle vene: nessun pensiero, nessuna azione possibile; solo sensazioni, l'odore di lui, continui flash di immagini, sogni di tormentoso realismo, la tentazione di impazzire del tutto. Ma ero ancora abbastanza forte da resistere: sapevo che, al termine di quelle notti, la luce del sole mi avrebbe riportata alla ragione. Ripensare a noi due alla luce del giorno mi dava un senso di inesprimibile disagio. In quelle settimane (mesi?) dall'ultima volta, avevo visto passare di tutto nel blu di quegli occhi: stupore delusione dolore rimprovero disperazione rabbia odio supplica, e finalmente una specie di black out di muta rassegnazione. Avevo fatto del mio meglio per ferirlo, cercando di proposito le occasioni per restare sola con lui e poi sprecandole sistematicamente: di sera sbadigliavo e me ne andavo dicendo ho sonno; di giorno gli parlavo del più e del meno lasciando che l'angoscia dei suoi occhi fissi nei miei gli rimbalzasse addosso. Non provavo alcun rimorso: con quelle zampate, con quei graffi nell'anima, stavo spingendo entrambi verso la vita. Stavo imparando, sia pur con fatica, a stargli vicino come una sorella, e la gioia che provavo nel riuscirci era una vera rivelazione per me. La morsa che stringeva il mio cuore si stava allentando: finalmente potevo sperare di rimanergli accanto senza perderlo. - Credo di aver capito qual è il problema - gli dissi appoggiando una mano sul suo avambraccio - Guarda qui, c’è un anacoluto dopo la concessiva -


Ritirò il braccio. - Molto interessante. È una di quelle cose che, a saperle, ti cambiano la vita Si alzò e mise su uno dei suoi dischi, una strana ballata lenta e insinuante; tornò a sedersi. - Dormi, di notte? - gli chiesi. - Perché questa domanda? - Non so, quelle occhiaie... - Spesso faccio tardi con lei - Dovresti riguardarti di più. Sei un po’ sciupato Mi guardò con una strana espressione. - Avanti, perché non me lo chiedi? - Cosa? - Cosa faccio con lei. Stai morendo di curiosità Chiusi il libro di scatto. - Non ti sembra di esagerare? - È simile a te, per certi versi: a vederla sembra una brava ragazza. E invece... - Cos’è, una sfida? - I tempi sono cambiati, professoressa. Sfidarti non è precisamente la mia attività preferita. Diciamo che mi diverto con qualche piccola provocazione innocente Colsi la citazione e rimasi in silenzio per qualche secondo. Poi dissi: - Mi dispiace Emmanuel, non vedo più traccia di innocenza in te Sostenne il mio sguardo. - Non ti permetto di farmi la morale, proprio tu Si alzò e mi voltò le spalle, cacciandosi le mani in tasca. - Ti sei presa la mia verginità, e non parlo di quella fisica. Ora non hai il diritto di incazzarti se mi arrangio come posso Non dissi nulla. - Ma devo ringraziarti, sai? - proseguì - Michelle è una preda difficile anche per ragazzi più grandi di me, non è per niente facile accontentarla. Fortuna che ho fatto un po’ di pratica con te. Sei una palestra ideale per farsi le ossa Non so cosa successe in me. Pronunciai quelle parole prima ancora di rendermene conto. - Avanti, ragazzino: fammi vedere cosa sai fare, se ne hai il coraggio Si voltò, mi fissò con uno sguardo completamente vuoto. Aspetta senti dissi, ma era troppo tardi. Venne verso di me. Non lo riconoscevo più: aveva un modo di fare l’amore tecnico e genitale, con un’assoluta mancanza di coinvolgimento emotivo, in un silenzio rotto solo da qualche fredda esortazione, girati muoviti così, e da qualche commento crudo, non metterci la solita mezz’ora per favore. Aveva l’odore di quella ragazza sulla pelle, uno strano odore di muschio, sudore e incenso che si mescolava al mio. Ero intimidita, umiliata, non reggevo a quell’orribile confronto. Mi sentivo dilaniata da un misto di emozioni opposte, devastata dalla gelosia al pensiero che pochi minuti prima avesse fatto provare ad un’altra le stesse sensazioni e nel contempo orgogliosa di lui fino alle lacrime perché era bravo, era bravo, il mio bambino era bravo, era un uomo. Quello stato d’animo sarebbe sfociato nella follia se fosse durato qualche secondo in più. Non lo lasciai finire: lo scostai bruscamente da me e mi alzai. Mentre mi ricomponevo davanti allo specchio e vedevo l’immagine riflessa di lui che, disteso su un fianco, mi osservava con freddezza, gli dissi: - Grazie. Davvero, sai. Hai fatto bene a darmi questa lezione. Se prima potevo avere qualche dubbio, adesso mi è chiaro che non hai più bisogno di me da nessun punto di vista. Mettiamola così: ho esaurito la mia funzione storica nei tuoi confronti Mi riagganciai gli orecchini con mani tremanti e mi sistemai la gonna. Ero orribile. - Penso che potrai cavartela da solo anche con lo studio - aggiunsi, e mi allontanai alla svelta. Di solito mi piaceva conservare a lungo il suo odore addosso, ma quella volta non vedevo l’ora di liberarmi di ogni traccia di lui. Corsi in bagno e feci una rapida doccia, mescolando all’acqua le mie lacrime. Poi mi asciugai i capelli e mi rimisi a posto il trucco: dimostravo dieci anni di più. Quando ripassai davanti alla sua stanza i suoi singhiozzi erano così forti che si sentivano distintamente attraverso la porta chiusa. Stavo per andarmene, ma la


preoccupazione prevalse. Aprii la porta. Era completamente sconvolto: teneva la testa sotto il cuscino e lo stringeva convulsamente, come se volesse soffocarsi. Mi sedetti sul suo letto e gli presi una mano: si rivoltò con un’espressione selvatica e disperata, mi morse come un animale rabbioso. Lo ammansii con qualche carezza e lo rimisi in ordine con gesti precisi, asciugandolo con il mio fazzoletto, infilandogli la canottiera nei boxer azzurri con la stampa di piccoli paperi bianchi, tirandogli su i pantaloni di tela militare con grandi tasconi sulle cosce mentre lui sollevava il bacino per aiutarmi, sistemandogli bene il maglione arrotolato sul petto perché non prendesse freddo. - Non volevo - balbettò - Scusami, ti prego - Non è successo niente - dissi con tono rassicurante. - Ti ho disgustata, faccio schifo, lo so - Ma no, sei solo un po’ confuso Mi guardò con le pupille dilatate. - Ti ho mentito. Non sono bravo con lei, non sono per niente bravo Rise senza motivo in un modo che non mi piacque per nulla e aggiunse: - Sta cercando di guarirmi - Non hai nulla da cui guarire: sei bravissimo - replicai secca, offesa da quel sospetto come se mi riguardasse personalmente. Non mi diede ascolto. Mi fissò e disse: - Sembra che abbia trovato la cura, sai? Non ero assolutamente in grado di ascoltare di cosa si trattasse. - Stai dicendo un mucchio di stupidaggini - gli dissi con severità. Mi strinse le mani fino a farmi male. - Non dirlo mai più. Mai, mai, hai capito? - Che cosa? - Che non ho più bisogno di te. Io... se tu non... Non riuscì a proseguire. Voltò il viso di lato, chiuse gli occhi e si morse il labbro. - Non so quello che voglio, non so più niente. Ho paura. Non lasciarmi solo - Sono qui - gli dissi. Mi strinse fortissimo a sé sussurrando ricominciamo ti prego ricominciamo, dimmi dov’è quel maledetto anacoluto, adoro gli anacoluti. Era in uno stato confusionale, aveva il respiro rotto, il cuore gli pulsava in gola: gli suggerii di fare prima un sonnellino. Rispose di sì, a patto che rimanessi accanto a lui; si distese nascondendo il viso nel cuscino. - Così non respiri - gli dissi, cercando con delicatezza di voltargli la testa. - La luce - gemette - mi dà noia la luce La spensi. Portò la mia mano all'altezza della sua guancia. Sentivo il cuscino bagnato di lacrime. - Lei non è una delle tante, vero? - gli chiesi nel buio. Scosse la testa senza dir nulla. Soffrivo molto. - Sei innamorato di lei? - chiesi ancora. Esitò un momento, poi rispose: - Non lo so. Sono molto confuso. Mi fa male, ma non riesco a farne a meno Gli accarezzai la fronte calda. - Non è la ragazza giusta per te, bambino mio Una lacrima bollente cadde sulle mie dita. - Non mi vuole bene - sussurrò con un filo di voce - Non dice mai il mio nome, mai - Io te ne voglio, Emmanuel Mi morse la mano fin quasi a farmi male e non disse nulla. - Te ne voglio davvero - ripetei con voce ferma - Solo che devo imparare a volertene nel modo giusto Allentò la morsa dei denti e staccò la ventosa delle labbra dalla mia mano lasciandovi un segno caldo e bagnato. - E quale sarebbe il modo giusto? - chiese. Strinsi la sua mano nella mia. - Questo - risposi. Rimase per un po’ in silenzio, poi all’improvviso, senza aprire gli occhi, fece un’affermazione farneticante: - Per me va bene se scopi con gli altri, così posso farlo anch’io, capisci? Non capivo affatto, ma gli risposi di sì.


- Non li guardiamo più i cartoni animati? - chiese dopo un po’. - Certo che li guardiamo. Domani li guardiamo - Tegame deve fare pipì. Lo metti fuori tu? Mi venne un nodo alla gola. - Ci penso io, non preoccuparti. Ora dormi Si aggrappò alla mia mano, chiuse gli occhi e mi augurò la buona notte. Mentre gli accarezzavo i capelli provavo una terribile inquietudine. C’era qualcosa di anormale in lui, una strana esaltazione; era scosso da brividi, contrazioni involontarie gli indurivano a tratti i muscoli della mascella; mentre scivolava nel sonno si risvegliava di soprassalto come se cadesse nel vuoto e i suoi occhi si spalancavano atterriti a controllare che ci fossi ancora. Teresa aveva ragione: non stava affatto bene. Era un principio di influenza? Lo sguardo mi cadde su un bicchiere vuoto rovesciato sul suo comodino, con un cucchiaio dentro. All’improvviso ebbi la visione di un buco nero, avido risucchio di antimateria.


Principe Ben presto la presenza di Matteo cominciò a farmi piacere: mi sollevava dalla pesante responsabilità di accontentare Gerti e dalle fatiche del sesso estremo, che ormai, data la piega che aveva preso la situazione, aveva perso ogni attrattiva per me. Matteo era diventato uno strano tramite fra me e il sesso: lo guardavo scopare al posto mio e lui intanto mi faceva l'occhiolino, mi rendeva partecipe delle sue sensazioni. A lui piaceva che mi piacesse. In effetti era uno spettacolo piuttosto eccitante, una volta messi da parte futili parametri come la dignità, l'amor proprio e la gelosia. In mancanza di meglio cominciai ad apprezzare il suo interessamento; si creò fra di noi una strana complicità tutta maschile. Matteo compensava con la sua partecipazione l'indifferenza di Gerti, che, troppo impegnata a soddisfare se stessa, non si accorgeva neppure di quel che provavo, o fingeva di non accorgersene. In quei momenti io non esistevo per lei. Eppure, se lasciavo passare qualche giorno senza cercarla, era lei a farsi viva con me. Suppongo che la mia presenza le facesse piacere per ragioni puramente estetiche: ero un elemento indispensabile del suo arredamento, come il vaso cinese e il tappeto persiano. Io me ne rendevo conto e me lo facevo bastare, anche perché non avevo scelta. Credevo che la situazione mi fosse ormai indifferente, ma non era vero. Un giorno, sconvolto dall'umiliazione di fronte ai facili successi di Matteo, mi sentii improvvisamente male. Mi alzai dal letto e corsi in bagno. Vomitai anche l'anima. Più tardi, mentre Gerti faceva la doccia, lui mi raggiunse, mi vide accasciato sul pavimento in quello stato. Mi afferrò per un braccio, mi strattonò brutalmente. Alzati mi gridò indignato, che cazzo di uomo sei, non ci si può ridurre così per una puttana; io mi alzai malfermo sulle gambe, vacillai avvitandomi su me stesso e ricaddi sul suo petto. Scoppiai in lacrime, singhiozzai ti odio, mi accarezzò teneramente i capelli. Mi lasciai consolare da lui. Fu una cosa sportiva tra uomini, cinque minuti e via, come aveva promesso, senza nessun sottinteso, all'insegna del rude cameratismo. Con mia grande sorpresa, la cosa mi piacque molto: era proprio quello di cui avevo bisogno in quel momento. Divenne un'abitudine, un patto segreto fra noi, una specie di rivincita contro l'universo femminile. Matteo era molto premuroso e sollecito del mio benessere: alla fine voleva sapere se era tuttokkey come diceva lui; io rispondevo che stavo benissimo, lui s'illuminava, mi passava il grosso braccio intorno alle spalle e mi scrollava energicamente dicendo: - Vedi principe, non c'è bisogno di perderci troppo tempo con il sesso, a noi maschi ci bastano cinque minuti. Sono le donne che ci rovinano. Son tutte troie le donne, esclusa mia madre. E la tua, s'intende. Pensa che bello un mondo senza donne. Adesso andiamo a farci una pizza e poi a nanna, che siamo stanchi È strano, ma a volte, ripensando al mio breve passato, mi sembra che gli unici momenti spensierati della mia adolescenza siano quelli che ho trascorso con lui. Era un rapporto a senso unico: lui non mi piaceva, non lo desideravo, non provavo nessuna attrazione per il suo corpo massiccio. In compenso mi piaceva moltissimo piacergli, essere desiderato, toccato da lui. Le sue mani sapevano essere delicate e forti. Ero convinto che continuasse a frequentare Gerti solo per potermi vedere, e sotto sotto ne ero orgoglioso. Non era cosa da poco spuntarla con una rivale come lei. S'innescò nel mio animo esacerbato uno strano meccanismo di rivalsa, piuttosto ignobile, lo ammetto; a mia parziale discolpa posso dire soltanto che non ne ero del tutto consapevole. Un giorno, mentre facevamo la doccia insieme, m'inventai un magnifico ricatto: - Ho pensato una cosa, sai? Forse, se lo facciamo durare un po' di più, riesco a smettere di farmi Ero proprio un verme, e per di più un verme bugiardo. Come tutti i tossici del resto. Naturalmente lui mi assecondò: - Qui però non va bene, bisogna che ci troviamo da qualche altra parte - disse. Era appunto lì che andavo a parare. Cominciammo ad incontrarci da soli, di nascosto. Per evitare gli squallidi alberghi a ore (e l'imbarazzo di farci vedere insieme) restavamo in macchina. Era scomodissima la sua macchina, ma non vedevo l'ora di salirci. Con lui potevo permettermi di essere me stesso, sapevo che non mi avrebbe mai tradito. Ero prossimo all'impotenza in quel periodo, ma questo non era un problema per lui. Non c'era ansia da prestazione, non importava niente come lo facevamo e quante volte, non importavano niente parametri tipicamente femminili come le dimensioni, la durezza, la durata; io gli andavo bene comunque, anzi, proprio il fatto che fossi così fragile rispetto


a lui gli ispirava una grande tenerezza, che a volte esprimeva con carezze e baci affettuosi. In quei momenti mi ricordava certi cagnoni che cercano goffamente di giocare con gattini minuscoli senza far loro del male con le grosse zampe. All'inizio ero un po' diffidente, poi compresi che il suo affetto era sincero e imparai ad abbandonarmi. Fa ridere se dico che aveva nei miei confronti un atteggiamento materno? Sì, fa ridere, ma chi se ne frega. La gente è abituata a pensare ai rapporti omosessuali come a una cosa violenta, tutta fisica. Be', non so che dire: nel nostro caso era diverso. Inoltre, per l'esperienza che ne ho, direi che è vero proprio il contrario: sono le donne ad essere più bestiali nel piacere, come del resto, in genere e salvo eccezioni, sono più attratte dagli aspetti ilici dell'esistenza. Mi faceva sedere in braccio a lui, non faceva mai nulla che non mi piacesse, non mi forzava mai, assecondava i miei desideri e i miei ritmi, mi diceva cose tenere, carine. Mi baciava sul collo con tenera sensualità, mi faceva venire i brividi sentire le sue labbra sulla mia pelle; a volte la sua barba ruvida mi graffiava un po', mi faceva il solletico; scoppiavo a ridere e lui con me, mi diceva che ero proprio un bambino, che sapevo ancora di latte e borotalco. Il mio odore lo faceva impazzire. Non pretese mai nulla per sé: era pienamente appagato dal mio piacere. Ed io non gli diedi mai nulla, neppure l'illusione. Ben presto infatti, com'era inevitabile, fui preso da ripensamenti e scrupoli omofobi. È proprio vero che tra il dire e il fare c'è di mezzo il mare. Avevo sempre pensato ed ammesso serenamente che sarei potuto essere bisessuale, come dimostrava la mia breve parentesi con Antonio; ma in quel caso era tutto diverso: il nostro era un rapporto fra quasi-coetanei, affini per Weltanschauung e per cultura, nutrito di comuni interessi, terribilmente intellettuale, in bilico tra Platone e Thomas Mann. E poi, a dirla tutta, non c'era stato molto di fisico fra di noi. Ci eravamo fermati prima, giusto qualche bacio e qualche carezza. Non mi sentivo in pericolo con lui, era un rapporto tra pari, da maschio a maschio, controllavo perfettamente il gioco, l'attrazione che provavo per lui era più che altro un fatto mentale, anche se la cosa probabilmente non era reciproca (ed era proprio per questo che era finita). Ma nel caso di Matteo la faccenda aveva assunto da subito connotati preoccupanti: prima di tutto lui non era un adolescente, ma un uomo fatto; poi il suo aspetto fisico era quanto di più macho si potesse immaginare; infine, ed era il risvolto più inquietante del nostro rapporto, non avevamo assolutamente nulla in comune: né l'estrazione sociale, né la formazione culturale, né interessi di sorta. In quel caso non potevo accampare pretesti intellettuali né, men che meno, invocare l'attenuante dell'affinità elettiva: era un rapporto puramente fisico, ciò che facevamo aveva una inequivocabile connotazione sessuale. Era una cosa da omosessuali, non da bisessuali; ed era lui il maschio della coppia. Bene, io non ero affatto intenzionato a diventare quel genere di persona. Una sera, mentre io e lui eravamo in macchina in aperta campagna, mi rinchiusi in un ostinato mutismo. Me ne stavo seduto a braccia conserte a guardare l'orizzonte stellato. Lui non diceva niente, aspettava che parlassi io. Finalmente mi decisi a rompere il silenzio. - Senti, - gli dissi - non vorrei che ti mettessi strane idee in testa - Non mi metto in testa niente - rispose tranquillo. - Io non sono gay - Neppure io lo sono, se è per questo. Basta che pensi come ci siamo conosciuti - Allora mi spieghi cosa stiamo facendo insieme? - Questa è una bella domanda, principe - Forse sarebbe ora di trovare una risposta, non credi? - Hai ragione Vuotare il sacco mi aveva fatto bene; mi sentivo più rilassato. Sospirai, mi sedetti con una gamba piegata sotto di me e mi voltai a guardarlo: - Dunque, ricapitoliamo - dissi contando sulla punta delle dita - Né tu né io siamo gay - Esatto - Però ci piace stare insieme - Esatto - E non come due amici, perché due amici non fanno sesso insieme - No, di solito no - Cosa ne deduci? - Non saprei. E tu? - Escludendo a priori l'ipotesi più paradossale… -


- E cioè? - Che ci siamo innamorati - Escludiamola - Escludendo questa ipotesi, secondo te cosa resta? - Non lo so, principe. Io so solo che l'importante per me è che stai bene La risposta, nella sua semplicità, era disarmante. Scossi la testa: - Guarda, forse è meglio che lasciamo perdere tutto Mi accorsi di averlo ferito, ma non fece obiezioni. Disse soltanto come vuoi tu, rimise in moto e ce ne andammo. Mi sentii sollevato.


Ode della gelosia

Erano le tre di un pomeriggio di primavera quando lui entrò in casa con i libri sotto braccio e la sacca da ginnastica appesa alla spalla, mentre io, seduta sul divano in salotto nella fresca penombra, sfogliavo una rivista ed ascoltavo distrattamente la cadenza ritmica del palleggio, interrotta da esclamazioni di soddisfazione o di disappunto. Non avevo voglia di assistere alla partita: sapevo già che Giuliano avrebbe umiliato Massimiliano e Francesco, giocatori troppo modesti per lui. La casa era deserta: la mia futura suocera si era assentata per il rito bisettimanale dello shopping. Godevo avidamente ogni attimo di quella rara solitudine. Non mi sentivo più a mio agio in quella casa. Qualche sera prima, mentre stavo attendendo il rientro di Giuliano, mi ero ritrovata sola con l’ingegner Kellermann; la signora Helena era già andata a dormire, tormentata da una delle sue frequenti emicranie, lui taceva e beveva whisky, seduto in poltrona di fronte a me. Sentivo il peso dei suoi occhi azzurri intorbidati dall’alcool. Dopo qualche minuto d’imbarazzo mi ero alzata dicendo che era tardi e che dovevo tornare a casa. L’ingegnere mi aveva accompagnata alla porta e all’improvviso, sulla soglia, aveva cercato di baciarmi. Mi ero svincolata dalla sua presa dicendo cosa fa ingegnere ha voglia di scherzare ed ero tornata a casa col cuore in gola. Mi era rimasto addosso il suo odore di whisky e dopobarba. La mia notte era stata turbata da strani sogni. Per fortuna non erano frequenti le occasioni in cui potevo incontrarlo. Ma il mio vero problema era Emmanuel. Del male che io stessa gli avevo permesso di farmi non voglio parlare. Aveva prodotto in me qualche guasto irreparabile, ma in fondo era giusto così: me l’ero meritato. Quanto a lui, aveva cominciato da tempo a cercare conforto e sapevo che ben presto lo avrebbe trovato, com'era nella natura delle cose. Emmanuel a diciott'anni era di una bellezza imbarazzante: era cresciuto ancora, ormai superava il metro e ottantacinque di statura, le sue spalle si erano allargate, la mascella aveva assunto un contorno più definito, i lineamenti del viso si erano fatti più precisi; aveva lasciato crescere i capelli fin sulle spalle e li divideva in mezzo come una ragazza, lasciandoli per lo più ricadere in disordine. Non esibiva i suoi mezzi fisici, anzi pareva indossarli con la stessa distratta noncuranza con cui portava i jeans strappati sulle ginocchia; non teneva alta la sua bellissima testa: per lo più il suo sguardo fisso a terra evitava di incontrare quello degli altri. Questa scontrosa timidezza lo rendeva ancor più desiderabile: le sue compagne, che ogni tanto venivano a trovarlo, gli lasciavano gli occhi incollati addosso. A tratti mi pareva di impazzire di gelosia; ma fissavo ostinatamente lo sguardo nel sole, finché le creature della notte non si dileguavano. Non glielo dissi mai, ma avevo rinunciato a lui da sempre. Conoscevo il mito e sapevo che la mortale che si macchia di hybris con un dio finisce incenerita. Come certe splendide meduse, Emmanuel bruciava anche da lontano. Di tutto questo lui era perfettamente inconsapevole. Entrò in salotto e richiuse la porta con un piede, reggendo in una mano i libri e nell'altra un bicchiere. Mi fece appena un cenno di saluto. Aveva il viso acceso dal sole, i capelli raccolti in una coda di cavallo; portava attorno al collo una collanina bianca e un cerchietto d'oro al lobo dell'orecchio sinistro; la guancia cominciava a scavarsi di una delicata ombra grigia, lo sguardo dai toni polverosi era sottolineato da lievi occhiaie come pennellate azzurrastre. Qualcosa non andava. Mi prese una immotivata irritazione: - Non si saluta? Volse verso di me tre quarti di un viso dolce e spigoloso, che non era esattamente quello che ricordavo. - Ti ho salutata Già, il cenno. Avevo voglia di polemizzare e trovai un altro appiglio: indicai il bicchiere. - E non si offre? - È per te: ti ho preparato una spremuta d’arancia - rispose lui porgendomi il bicchiere, ed aprì un libro. - Per me? E perché? - Sto cercando di comprarmi in qualche modo i tuoi favori - disse lui, sfogliando il libro. Prima che io potessi arrabbiarmi sorrise pallidamente e proseguì:


- Non quelli che potresti pensare: domani ho un'interrogazione di greco - Cosa ti fa pensare che ti aiuterò? - Lo hai sempre fatto - Non hai più bisogno di me - Oh sì che ne ho - Mi porse il libro - Dialetto eolico Sospirai. - E va bene. Vieni qui Prese posto accanto a me, scivolando a sedere con i fianchi snelli inguainati nei jeans, e si voltò per cercare qualcosa nella sacca dei libri. Mi raggiunse dalla sua schiena china un odore acre e caldo; ricordai che quel giorno aveva avuto la finale del torneo scolastico di pallavolo. - Com'è andata la partita? - gli chiesi. - Abbiamo vinto, - disse lui aprendo il libro e cercando il brano da tradurre - quelli dell'altra squadra non avevano dei buoni alzatori, e poi il tifo era tutto per noi - Specie quello femminile, immagino Lo sguardo di cui mi degnò era a metà fra il rimprovero ed il compatimento. - Non dico di no - rispose, e tornò a voltarsi come se l'argomento non dovesse interessarmi. Naturalmente l'"Ode della gelosia" di Saffo. Deprecabile mancanza di fantasia. Mi accinsi alla spiegazione, stando attenta a mantenerla su un piano puramente tecnico. Lui mi seguiva annuendo in silenzio, prendendo appunti senza guardarmi. Conclusi, come sempre, con un'interrogazione. - Traduci - "Pari agli dèi mi sembra..." E mentre lui traduceva la celeberrima ode, io guardavo ipnotizzata una ciocca argentea sfuggita alla coda di cavallo sfiorare il suo viso e le sue dita lunghe e leggere accarezzare le righe del testo greco - "...e sorridi soave; e questo a me fa balzare il cuore nel petto..." e l'azzurro delle occhiaie disegnare una traccia pallida sotto l'azzurro degli occhi dalle ciglia innaturalmente scure (perché così innaturalmente?) - ... "subito un fuoco sottile mi corre sotto pelle, con gli occhi nulla più vedo, ronzano le orecchie..." - Rombano, non ronzano - lo corressi soprappensiero e lo scintillio dell'orecchino d'oro trafiggergli il lobo, e la novità della collanina bianca in lui una volta così distratto nell'occuparsi di sé. Il suo corpo fioriva di vezzi femminei: non era esattamente il tipo di metamorfosi che avevo sperato. Giorni prima c'era stato, proprio a proposito dell'abbigliamento di Emmanuel, un litigio con suo padre, che lui aveva ascoltato mite e cocciuto ad occhi bassi, cosicché le recriminazioni paterne si erano trasferite su sua madre che lo aveva difeso come sempre, mentre lui scivolava non visto in camera sua. - Va bene - dissi alla fine - Sentiamo il commento. Come definiresti quest’ode? Rifletté un attimo. - Non sono d'accordo con il titolo - rispose - Secondo me la gelosia non c'entra per niente Stavo per informarlo che la sua impressione era condivisa da buona parte della critica, quando il telefono squillò. - Scusa, è per me - disse Emmanuel, e si alzò per rispondere. Ripresi la rivista e finsi di immergermi nella lettura. Lui sussurrò ciao con uno strano calore e mi voltò la schiena. Lo sentivo rispondere monosillabi indecifrabili, sì no non credo, e non potevo fare a meno di osservarne la figura flessuosa che si era avvolta attorno il filo del telefono appoggiando le spalle al muro; quando si voltò sorrideva e stava dicendo domani forse, poi rise per una battuta spiritosa all'altro capo del telefono e disse va bene come vuoi tu e non la smetteva più di sussurrare cose incomprensibili e sorridere e dire sì. Quella telefonata non finiva mai, aveva la stessa tragica ciclicità della scena di quel film dove lui sta morendo e sale le scale all’infinito ricominciando sempre daccapo, e anch’io morivo di continuo ad ogni suo sorriso. Provai odio per me stessa. Per quanto tempo avevo camminato sull'orlo di un precipizio e com'ero stata vicina a cadere; un brivido, una vertigine mi colsero: mi alzai, andai alla finestra e la aprii, posando lo sguardo sulla campagna abbacinata a perdita d'occhio, sul profilo delle colline disegnate da solchi precisi come di rastrello. Lo sentii concludere la telefonata dicendo sì no, va bene come


vuoi tu, sì sì, ho detto sì, no adesso non posso sono con un'amica, giuro, solo un'amica, sì domani, promesso, ciao. Riattaccò e il sorriso gli cadde dalle labbra. Riprese il suo posto sul divano e mi guardò senza espressione: - Vogliamo finire? - È finita, mi pare, no? - risposi sedendomi accanto a lui e accendendo una sigaretta. Le mani mi tremavano leggermente. - Veramente no, - puntualizzò allontanando il fumo con gesto infastidito - manca ancora il commento Sfogliai il libro, come alla ricerca di qualcosa. - Perché, dunque, dicevi che la gelosia non c'entra per niente? - Perché quello che Saffo esprime secondo me è stupore per l’indifferenza dell'uomo di fronte alla bellezza della ragazza. Non capisce come faccia a non provare quello che prova lei - È la tesi che va per la maggiore. Ne conosci altre? Mi elencò le altre tesi, mentre io annuivo, professionalmente soddisfatta. Ora teneva le spalle leggermente curve ed emanava un odore di animale giovane accaldato. - Chi era al telefono? - buttai lì distrattamente. Non mi risparmiò un breve sguardo stupito; poi disse: - Un amico Aspirai una boccata di fumo per dissimulare la sorpresa. - Vorrai dire un'amica - dissi fredda, seria. Lui scosse il capo e si appoggiò contro lo schienale. Mi guardò e ripeté con dolcezza: - No, un amico Fumai metà della sigaretta e la spensi di colpo contro il portacenere di cristallo. Indugiai a guardare gli ultimi fili di fumo. Poi lo fissai negli occhi. - Fammi capire, ragazzino: nelle nuove generazioni usa parlare agli amici con questo tono? Lui non distolse lo sguardo. - No, non usa Arrotolai e srotolai la rivista, osservando il pavimento. Alla fine dissi gelidamente: - Bene, è una tua scelta, non parliamone più - Infatti non credo che ti riguardi - replicò lui con cortese fermezza. - Possiamo essere amiche, se vuoi. Vedi solo di non farmi concorrenza, per favore: stai diventando più femminile di me Lui non rise della battuta crudele e non disse niente: si limitò a guardarmi, mite e irremovibile come sempre. Poi si alzò, raccolse le sue cose e si avviò verso l’uscita. Sulla soglia si voltò. - Grazie dell’aiuto, professoressa - disse, ed uscì. Il sole era sparito dietro una nuvola. Mi guardai le mani e, per la prima volta in vita mia, mi resi conto di essere vecchia.


Mort Subite Matteo era un uomo di parola, un uomo vero. Non parlò più della nostra storia, non fece nulla per indurmi in tentazione. Quando ci incontravamo da Gerti era freddo e cortese, si limitava a svolgere il suo lavoro con asettica professionalità, senza guardarmi. Se per caso i nostri occhi s'incrociavano abbassava subito i suoi. Io restavo sdraiato sul letto accanto a loro ostentando indifferenza. Era diventata una situazione grottesca, surreale: sembrava il set di un film a luci rosse, mancavano solo le telecamere (che peraltro Gerti aveva in mente di far installare), mi riusciva ogni giorno più difficile capire quale fosse il mio ruolo nel cast. Quando ci vedevamo da soli era molto più rilassato, si comportava come un vecchio amico. Di solito passavamo la serata in birreria ai Murazzi, evitando accuratamente ogni riferimento ai nostri rapporti con lei, chiacchierando del più e del meno; non è che avessimo molti argomenti in comune, ma facevamo in modo di trovarne. Alla peggio stavamo zitti. Matteo era veramente un esperto in fatto di birra; come ho già detto, io non sopporto l'alcool, ma per assecondare la sua passione lo seguivo in tutte le sue esplorazioni nei pub della città; spesso uscivo da quei locali malfermo sulle gambe, ridendo come un imbecille. Fortunatamente non era incline al vizio e non aveva nessuna intenzione di fare di me un alcolizzato: quando mi vedeva brillo mi diceva dài andiamo e mi portava a fare la nanna, come diceva lui. Di solito mi addormentavo in macchina. Avevamo inaugurato una specie di gara. Lui mi spiegava la differenza fra i diversi tipi di birra e me li faceva assaggiare uno ad uno; poi mi faceva chiudere gli occhi e mi metteva davanti un boccale a caso: io dovevo riuscire a riconoscere la birra dal profumo e dal sapore. Ero diventato abbastanza bravo in questo; quanto a lui, era imbattibile: non perdeva un colpo. Ricordo ancora qualche nome fra i tanti che imparai da lui: bitter ale, strong ale (la mitica Bulldog!), stout, dortmunder, rauchbier (rarissima birra affumicata), barley wine, bock e doppelbock, eisbock, la kellerbier, non filtrata e a bassa fermentazione, lambic framboise (una in particolare mi colpì per il suo nome agghiacciante, degno di un titolo di Edgar Allan Poe: Mort Subite), le meravigliose birre trappiste, la weissbier o birra di grano; mi consigliava sempre quest'ultima, diceva che era la migliore per uno come me. Ogni tanto strimpellava la chitarra con le sue dita tozze ma agili, m'insegnava nuovi accordi, mi faceva cantare. Poi mi riaccompagnava subito a casa. Compresi che l'importante per lui era avermi accanto, non importa come, e lo apprezzai molto. Io, invece, dopo il sollievo iniziale, cominciai a sentirmi a disagio senza capire perché. A volte tiravo tardi di proposito, ma lui era irremovibile: a mezzanotte in punto si fermava davanti alla mia casa e mi salutava; se esitavo a scendere si allungava ad aprirmi la portiera e mi guardava come a dire be', che aspetti. Durante questa operazione il suo torace premeva le mie cosce, potevo sentire l'odore acre del suo sudore, lui certamente sentiva il mio, ma pareva che la cosa lo lasciasse del tutto indifferente. La sua gentilezza mi feriva, non era quello che volevo da lui. Non sapevo nemmeno io cosa volevo. Una sera - eravamo al Dottor Sax - stavamo bevendo birra ad un tavolo appartato mentre un gruppo rock cittadino si esibiva sul palco; non ricordo il loro nome, mi pare che cominciasse per s; erano bravi quei ragazzi, Matteo ne era entusiasta, continuava a dire che avrebbero fatto strada; lo pensavo anch'io, ma per qualche strana ragione il loro ritmo contagioso, anziché esaltarmi, mi buttava sempre più giù. Lo osservavo con la coda dell'occhio: non indossava i jeans quella sera, ma un paio di pantaloni di tela militare e una t-shirt girocollo verde scuro a maniche lunghe; lo trovavo elegante, quasi fine, diverso dal solito. Diverso in tutti i sensi. Mi voltava le spalle, non mi degnava neppure d'uno sguardo. Mi domandavo cosa ci fosse che non andava in me: forse il mio look troppo dimesso, una semplice maglietta azzurro polvere sui soliti jeans, le scarpe da ginnastica, i capelli tirati indietro in una coda di cavallo disordinata, gli occhi sbattuti di chi dorme troppo poco. Eppure lo specchio nell'angolo mi rimandava un'immagine niente male. - Non ti riconosco più - mi disse ad un tratto, quasi mi avesse letto nel pensiero - Una volta non ti saresti tenuto. Cazzo, se ti metti a ballare come quella volta li lasci tutti stecchiti - Già, - dissi asciutto - peccato che io non abbia nessuna intenzione di farlo - Perché? -


Non risposi alla sua domanda; la ribaltai su di lui: - Tu, piuttosto, perché vuoi che lo faccia? Alzò le spalle. - Così. Sarebbe divertente Ero indignato, ma cercai di non darlo a vedere: - Divertente vedere tutta quella gente che mi mette le mani addosso? - Tranquillo, - rispose - hai la tua guardia del corpo - Non è questo il punto - dissi. Stavo per chiarirgli qual era il punto, quando due ragazze, una bruna e una rossa, si avvicinarono a noi. Per quanto cercassimo di passare inosservati eravamo una coppia troppo particolare, non mancavamo mai di fare colpo. - Hai da accendere? - gli chiese la rossa sedendosi sul tavolo. La gonna, già di per sé corta, le salì quasi all'inguine. Matteo non fumava, ma portava sempre con sé un accendino. Le accese la sigaretta. La ragazza aspirò qualche boccata e gli soffiò il fumo in faccia. Lui sorrise allontanando il fumo con una mano. Intanto la bruna, che indossava jeans attillatissimi strappati sulle cosce, s'era seduta fra me e lui. Emanava un profumo intenso che mi faceva venire la nausea. Ero molto seccato, non vedevo l'ora che si togliessero dai piedi, ma Matteo dava loro corda. - Come ti chiami? - mi chiese la bruna. La guardai, era carina. Abbassai subito gli occhi. - Giorgio - risposi. Non le chiesi il suo nome. - Sei un gran figo, Giorgio - disse lei senza tanti giri di parole. - Sono gay, tesoro, e di quelli passivi - dissi imperturbabile - Che peccato, eh? Matteo scoppiò a ridere. La ragazza mi fissò stranita, poi si rivolse a lui: - È il tuo ragazzo? - chiese. - No, a me piacciono le donne - Meno male - commentò la rossa. La bruna invece mi rivolse un sorriso compassionevole e disse: - Ti va se ne parliamo un po'? Magari ti fa bene - Non ci siamo capiti - risposi - Sono proprio frocio, assolutamente irrecuperabile Matteo rideva come un matto. La ragazza comprese che non avevo voglia di fare conversazione e mi lasciò in pace. La rossa fingeva di ascoltare la musica e batteva il tempo sul tavolino con le sue insopportabili unghie lunghe laccate di nero. Dopo un po' disse: - Un gruppo con le palle, eh? - Eccezionale - rispose Matteo. - Non si riesce a star fermi, ti fanno ballare anche se non vuoi Poi abbassò lo sguardo su di lui e chiese: - Non ci sono sedie libere, posso? - Prego, fa' come se fossi a casa tua - rispose lui. La ragazza si sedette sulle sue ginocchia e con la scusa di muoversi a ritmo cominciò a strofinarglisi contro come una gatta in calore. Lui teneva le mani a posto, ma non sembrava indifferente. Di sicuro la ragazza sentiva qualcosa d'interessante attraverso i suoi pantaloni, perché ad un certo punto si voltò a guardarlo con evidente ammirazione e disse però. La bruna comprese e cominciò a sua volta a stargli appiccicata. Si mise a ridere e a scherzare, appoggiò il viso su uno dei suoi bicipiti e cominciò a massaggiargli le braccia muscolose. Lui le lasciava fare. Ad un certo punto mi rivolse un breve sguardo d'intesa. Era evidente come sarebbe finita quella serata, ed era altrettanto evidente che una delle due sarebbe toccata a me. Sospirai, appoggiai le mani sul tavolo e mi alzai. Andai a pagare il conto per tutti e due ed uscii senza dir nulla. Mi misi a passeggiare sotto i portici di piazza Vittorio con le mani in tasca, prendendo a calci tutti gli oggetti che incontravo; un tossico mi abbordò, mi chiese diecimila lire: lo mandai al diavolo, ma lui insisteva e si faceva sempre più aggressivo. Lo guardai con ferocia, stavo per mettergli le mani addosso, quando Matteo mi raggiunse di corsa. Lo allontanò con uno spintone, gli ingiunse di lasciarmi in pace. Il tossico se ne andò imprecando. Ricominciai a passeggiare come se nulla fosse successo. Matteo mi stava accanto in silenzio. - Che ti prende? - chiese. - Niente - risposi cupo. Mi passò un braccio intorno alle spalle. Mi fermai a testa bassa. - Dài, che c'è? Cercò di sollevarmi il mento, ma distolsi il viso.


- È solo che non mi va di precipitare nello squallore - dissi - Non più di quanto già stiamo facendo, almeno Mi diede una vigorosa scrollata. - Hai ragione tu - disse - Andiamo, ti porto a casa C'incamminammo verso la macchina. Durante il tragitto verso casa non dissi una sola parola. Ero di umore nero, avevo la gola contratta. La mèta si avvicinava e io sapevo di dover inventare qualcosa al più presto. Trovai una scusa stupida, dissi che volevo vedere le stelle cadenti. Non era neppure il periodo giusto. Matteo non disse nulla: mi accompagnò in collina e ci mettemmo a guardare il cielo sdraiati in un prato. Lui se ne stava supino con le ginocchia piegate e le mani dietro la nuca, senza parlare. Avevo il cuore in gola. Aspettai a lungo, ma lui non prese nessuna iniziativa. Fui costretto a farlo io. - Ho un mal di stomaco terribile - dissi, ed era vero. La mia voce tremava un po'. Lui si riscosse e si voltò a guardarmi. - Forse hai preso un colpo di freddo, eri sudato e sei uscito in maglietta - disse preoccupato - Dov'è che hai male? - Qui - risposi. Presi la sua mano e la appoggiai sopra la mia maglietta, dove sentivo quella fitta dolorosa. - Qui c'è il cuore, non lo stomaco - disse. Alzai gli occhi nei suoi. Quasi piansi per la commozione quando mi ritrovai di nuovo fra le sue braccia. Non mi ero reso conto di quanto mi mancasse. L'abbraccio avvolgente dei suoi possenti muscoli mi faceva sentire di nuovo a casa, al sicuro. Ero sconvolto dallo stupore, non mi ero mai sentito così. Io, che di solito sono così riluttante a manifestare le mie sensazioni, quella volta tremavo tutto, fremevo, vibravo come la corda di una chitarra sotto il tocco delle sue dita, ansimavo, circondavo il suo collo con le braccia, lo attiravo a me, lo stringevo convulsamente, poi ricadevo all'indietro inarcando la schiena, lui sbigottito s'interrompeva per accarezzarmi il viso, mi baciava la fronte sussurrando calmati, io mi sentivo impazzire, pronunciavo frasi sconnesse simili a quelle che si dicono nel delirio della febbre, ti prego ti prego ancora sì così stringimi toccami guardami guardami adesso, lo fissavo negli occhi lasciando che leggesse nei miei tutto quello che provavo, attimo per attimo, senza veli di sorta; finalmente mi placai, c'era solo il mio respiro e il battito accelerato del mio cuore, così forte che potevo sentirlo; poi si fece silenzio, trattenni il respiro, gli occhi nei suoi; ci fu un attimo di vuoto, io e lui sospesi sull'abisso, un'estasi perfetta, un'irresistibile tentazione di morte; sorrisi, rovesciai la testa all'indietro con un gemito e lasciai che la vita fluisse dal mio corpo mentre la mia anima mi sfuggiva dalle mani come un aquilone strappato dal vento. Non ho mai avvertito con tanta chiarezza il valore simbolico di quell'atto. Alla fine ero annientato, in pace con l'universo, perso in un'innocenza primordiale. Completamente e assolutamente felice. Era una serata fresca, piena di grilli; la brezza notturna era umida e pungente ed eravamo entrambi a torso nudo. Mi vennero i brividi; lui mi sollevò di peso e mi portò in macchina. - Si sta scomodi sulla tua macchina - protestai debolmente. - Certo che la BMW di tuo padre è meglio, - disse tirando indietro il sedile - Ma non preoccuparti, ti tengo in braccio Poi mi coprì con un plaid che aveva sul sedile posteriore e mi tenne così, avvolto nel plaid, con le ginocchia rannicchiate e la testa appoggiata sulla sua spalla, cullandomi un po'. Immagino che mi sarei dovuto sentire ridicolo, invece stavo benissimo. - Che sta succedendo? - sussurrai. - Non lo so e non m'importa - rispose. - Ma deve importarti - Perché deve? - Perché è una cosa terribile - Cosa è terribile? Stare insieme? - No. Cioè sì. È terribile per due eterosessuali, voglio dire - Non c'è niente di terribile - Perché? - Perché io non ti chiedo niente. Sei libero di fare tutto quello che desideri, perciò dove sta il problema? -


Esitai un attimo. - Il problema - mi schiarii la gola - è proprio questo: che io desidero stare in braccio a te - Allora stacci, principe - E sono anche geloso - Me ne sono accorto Arrossii. - E mi piace… mi piace quello. Mi piace tanto - Ho visto - Ma non è normale - Sì che è normale - mi baciò la fronte - Hai tanto freddo dentro, tu. Io ti scaldo un po', che male c'è? Sono il tuo termosifone. Rilassati principe, va tutto bene Sorrisi, chiusi gli occhi, sprofondai beatamente con il viso nel suo petto immenso aspirando la fragranza del suo dopobarba, sfiorai con le dita i suoi deltoidi tatuati, i suoi pettorali, i suoi addominali. Mi accorsi che per la prima volta ero pazzamente attratto dal suo corpo. Fu lui a fermare la mia mano. - No, - disse - non va bene per te. Non adesso. Ti disgusterebbe e poi non vorresti vedermi mai più. Mettiti tranquillo, riposati In effetti ero stanco. Mi riposai un po' con la testa appoggiata sul suo petto. Ad un certo punto mi assalì una profonda tristezza; non gli dissi nulla, ma lui se ne accorse. - Che c'è? Sei triste? - sussurrò. - Terribilmente - dissi. Mi strinse fra le braccia. - Perché? - Pensavo a me, a noi. Pensavo che fra pochi anni non sarà più possibile nulla di tutto questo. È una condanna la bellezza, la gente ti cerca solo per quello: guarda Michelle per esempio. La mia poi è una bellezza che non regge al tempo, invecchierò presto e non piacerò più a nessuno - Non dire sciocchezze - disse. - Non sono sciocchezze. Tu ne sei la prova vivente. Se non mi trovassi carino non saremmo qui Sorrise: - Senti, non penserai per caso di essere l'unico ragazzo carino sulla faccia della terra. Ne ho conosciuti tanti, ma tu sei l'unico che mi ha fatto questo effetto Alzai la testa a guardarlo: - Tanti? - Magari proprio tanti no. Qualcuno - Carini come me? Stavo diventando patetico. Si mise a ridere: - Sì, carini come te, anche se tu sei un tipo molto particolare Gli morsi piano un bicipite. Ero profondamente offeso. Mi accarezzò i capelli: - Quello che volevo dirti è che non è una cosa fisica, principe. La tua è una bellezza che viene da dentro, si vede negli occhi Scossi la testa. - Comunque se ne andrà - dissi - E non ti piacerò più Era curioso che io ragionassi così a lungo termine, ma lui non parve stupirsene. Mi baciò la testa e disse: - Tu neanche te lo immagini cosa mi piace in te. Ora sta' zitto e smettila di tormentarti Mi rilassai. Restammo così in silenzio senza fare nulla per parecchio tempo, io con la guancia contro il suo petto, lui che mi teneva la mano, immersi in un piacere perfettamente catastematico. Alla fine appoggiò la fronte sulle mie ginocchia e disse: - Principe, io non lo so cosa farai nella vita. Sinceramente ho un po' paura per te, ti piace troppo cacciarti nei guai. Ricordati una cosa però: io per te ci sarò sempre. Basta che mi fai un fischio e ti raggiungo anche in capo al mondo Gli circondai il collo con le braccia e rimasi ad occhi chiusi lasciando che le sue parole scendessero fino in fondo alla mia anima: le sentivo colare giù attraverso lo stomaco come un liquore forte e caldo, scaldare le mie viscere, invadere le mie vene con un meraviglioso senso di benessere. Avrei dovuto domandarmi il senso di quel benessere, ma per il momento non lo feci. Non volevo conoscere la risposta.


Nessun problema Il mattino seguente mi svegliai con un opprimente senso di vergogna. Trascorsi l'intera giornata in stato confusionale, una specie di torbido dormiveglia, tormentato dai ricordi di quella notte, assalito da improvvisi soprassalti di eccitazione che mi lasciavano un senso di doloroso languore al basso ventre, atterrito dalla violenza del mio desiderio. Avevo una tremenda tentazione di provare di nuovo quelle emozioni e di andare oltre, spingermi fino in fondo, e questa consapevolezza mi lasciava sgomento, svuotato di ogni energia. Mi sforzai di non pensarci più. Sentivo che era assolutamente necessario prendere le distanze prima che la situazione diventasse incontrollabile. Non subito però, non di colpo. Speravo di poter reinventare il nostro rapporto su altre basi, ma mi rendevo conto che questo era impossibile senza un lungo periodo di separazione. Gli volevo bene, sapevo che ne avremmo sofferto entrambi, e così continuavo a rimandare. Ormai anch'io frequentavo Michelle soprattutto per poterlo incontrare; oltre che per dipendenze di altro genere, è ovvio. Non volevo più farmi, da questo punto di vista Matteo aveva avuto un effetto positivo su di me, ma non ero ancora in grado di smettere; perciò, volente o nolente, avevo bisogno di lei. La presenza di Matteo mi rendeva possibile continuare a vederla senza correre troppi rischi, e fra l'altro mi diede anche l'occasione per una formidabile rivincita. Una volta, infatti, lei ci colse in flagrante. Entrò in bagno a piedi nudi alle spalle di Matteo, che non se ne accorse. Io invece la vidi, ma non dissi nulla, non lo interruppi: la guardai fisso con occhi scintillanti di sfida e lasciai che lui arrivasse fino in fondo. Lei non tradiva la minima emozione ma non riusciva a staccare gli occhi dai miei. Volevo che guardasse, che vedesse, che capisse bene quello che stava succedendo: era lei l'esclusa, ero io a godere, ero io il più forte. Questo rese il mio piacere mille volte più intenso. Lei si allontanò in silenzio, senza fare commenti. Solo più tardi, mettendoci alla porta, mi guardò con fredda ironia e disse: - Vedo che avete fraternizzato Mentre scendevamo le scale Matteo mi chiese cosa avesse voluto dire. Alzai le spalle: - Chi se ne frega, è una donna, ragiona con l'utero. Andiamo a farci una birra Grazie a lui avevo riacquistato, se non altro, un barlume di lucidità: sapevo che con Michelle era veramente finita, era solo questione di giorni. La mia storia con Matteo continuò ancora per un po' di tempo, ogni giorno più cruda e bruciante, nonostante tutti i nostri sforzi. Lui si accorgeva che tenevo le distanze, cercava di comportarsi normalmente, ma la finzione ormai era troppo chiara, giocavamo a carte scoperte, non ci credeva più nessuno. Cercavamo in ogni modo di resistere, qualche volta ci riuscivamo, ma la verità è che vederci e provare una tremenda botta di desiderio era tutt'uno. Ci cercavamo dietro tutti gli angoli, i nostri abbracci erano violenti, disperati. A dire il vero lui non prendeva mai iniziative, si sforzava di rispettare il mio stato d'animo, ma arrivava un momento in cui non ce la facevamo più. Ero io a provocarlo, lo guardavo negli occhi senza dire niente. Dimenticavo tutto, la paura era eccitazione, adrenalina pura. Ma più del desiderio mi spaventava la gioia profonda che mi faceva battere il cuore quand'ero con lui. Rimuovevo dalla mia mente la parola impronunciabile che definiva il nostro rapporto, ma un giorno quella parola traboccò dalle mie labbra, fu la mia bocca a lasciarsela sfuggire in un attimo di sublime incoscienza. Ritornai lentamente in me. Sollevai la testa, aprii gli occhi, lo fissai sbattendo le palpebre. Lui mi guardava attonito, conscio della tragica solennità del momento. In quell'attimo seppi che era finita. Gli chiesi di non vederlo più da solo. Trovai delle scuse, ma lui le troncò di netto per non prolungare inutilmente l'agonia. Gli dissi che comunque ci saremmo rivisti da lei. Mi guardò senza parlare, con l'espressione sofferente di chi sa che stai mentendo. Ma non stavo mentendo, volevo davvero rivederlo, la mia anima era lacerata. Lesse nei miei occhi la verità e disse solo va bene, ho capito, nessun problema principe.


Effetti speciali

Ero a letto da due settimane, tormentato da un malessere che i medici, non riuscendo a comprenderne l'origine, finirono per attribuire a un'epatite; il che in parte era vero, ma, per dirla con Tucidide, non era la causa verissima. Violenti crampi allo stomaco, coliche intestinali, febbre intermittente, incubi confusi a colori infrarossi stremarono per giorni le mie membra e il mio cervello; io rimanevo immobile con gli occhi fissi al soffitto immerso in un sudore gelido e ascoltavo in silenzio la sofferenza. La crisi d'astinenza più forte non era quella fisica. Ad ogni nuovo accesso stringevo i pugni, serravo le mascelle, cercavo di associare il suo ricordo al dolore che sentivo, mi dicevo così, sì così, lo senti che fa male; e il male mi divenne così insopportabile che riuscii a rimuoverlo completamente dalla mia mente. La mia anima ritornò vergine, ma il mio corpo quasi ne morì: non provavo più nessun desiderio, non avevo più le normali reazioni fisiche di un adolescente, non mangiavo più. Decisi che andava bene così: potevo farne a meno, anzi era meglio. Non desiderare nulla, specie ciò che non si può avere, non è forse l'anticamera della saggezza? E anche della morte; ma sul significato di questa analogia non avevo la forza di riflettere. Mi bastava la semplice constatazione che il dolore era quasi scomparso, riuscivo di nuovo a respirare, a dormire senza la tortura di quei sogni che finivano sempre troppo presto, sempre nello stesso modo. Cercavo di sorridere e di fare il buffone quando entrava in camera mia madre, che assisteva angosciata e impotente al mio declino fisico e se la prendeva con la cucina della povera Teresa, preoccupata almeno quanto lei. Un pomeriggio, mentre ero immerso in un dormiveglia confuso, sentii le voci dei miei in corridoio. - Mamma, - diceva Giuliano - non mi piace per niente quello che sta succedendo a mio fratello. Non voglio preoccupare papà che ha già tanti grattacapi col lavoro, ma dobbiamo affrontare seriamente la situazione - È solo un'influenza intestinale complicata da un po' di epatite - Non è un'influenza, mamma. Per una volta vuoi vedere le cose come stanno? Questo ragazzo ha qualcosa che non va - Non ricominciare con il tuo solito allarmismo gratuito, Giuliano. Devi sempre dare addosso a tuo fratello, devi sempre trovargli qualcosa che non va. Prima la scuola, poi l’abbigliamento, adesso la salute... Anche tu, da ragazzino, hai avuto degli strani malesseri - Non così strani. Emmanuel è confuso, lo è anche quando sta bene. E, a proposito di scuola, ha di nuovo tre materie sotto. Ora poi sono quindici giorni che è a letto - E con questo? Presto si alzerà. La febbre sta scendendo Sentii Giuliano sospirare. - Mamma, - disse - posso chiederti che fine fa la paghetta settimanale di Emmanuel? - Cosa vorresti insinuare? - Niente. Mi risulta che tu gliel'abbia raddoppiata, ed era già molto più alta di quella di qualunque suo coetaneo. Perché l'hai fatto? - Esce con una ragazza ricca, vuoi che lo faccia sfigurare? O preferisci che il ristorante glielo paghi lei? - Alla loro età si va in pizzeria, non al ristorante - Lei non è tipo da pizzerie - Se è per questo Emmanuel non è tipo da ristoranti di lusso. E di sicuro l’influenza intestinale non se l’è presa cenando al Gatto Nero - Non essere assurdo, Giuliano - Assurdo io, mamma? Papà cosa ne pensa? - Cosa vuoi che ne pensi? È un po’ preoccupato, ma non drammatizza come te Giuliano tacque un attimo. - D'accordo - tagliò corto - Se entro un paio di giorni non migliora, lo faccio ricoverare nella clinica del papà di Riccardo Compresi allora, pur nel mio stato confusionale, che era ora di darsi una mossa: sarebbe stato davvero imbarazzante essere sottoposto ad accertamenti diagnostici più approfonditi. Durante la mia malattia Eloisa venne a trovarmi più volte. Si sedeva accanto a me sul letto e mi passava la mano fresca sulla fronte, sussurrandomi teneri incoraggiamenti di cui percepivo soltanto il suono, perché le mie poche energie erano concentrate su quelle


dita che mi accudivano, mi abbottonavano, mi sbottonavano, mi asciugavano, mi toccavano dappertutto senza desiderio. Io invece, confuso, umiliato e inerme, non riuscivo a dissimulare la mia involontaria eccitazione, di cui lei sorrideva. Seguivo con gli occhi i suoi gesti e sollevavo lo sguardo interrogativo nel suo. Eloisa attribuiva il mio smarrimento alla febbre. Mi ravviava i capelli con materna dolcezza e io piangevo in silenzio. A poco a poco, man mano che riacquistavo la lucidità, cominciai a essere grato al mio corpo di tutto quel dolore. La mia mente alterata, ancora sotto l’effetto dei morsi dell’orchidea carnivora, ricomponeva pian piano il puzzle, mentre il suo caldo abbraccio di madre leniva il mio panico. Il mio ininterrotto turbinare nel vuoto mi aveva riportato al punto di partenza, dal quale in realtà non mi ero mai mosso. Cominciai a riflettere seriamente sul nulla assoluto che era diventato la mia vita; poi, all’improvviso, cessai di mentire a me stesso. L'avevo presa a calci ma lei era sempre accanto a me, sempre al mio fianco nel bene e nel male, e il male era tanto. Il troppo soffrire l'aveva resa folle, guardava il suo piccolo prendere il volo con goffi tentativi, mi spingeva giù dal nido con amorevoli beccate, si stava trasformando in una mamma devota, coraggiosa, inesorabile. Aggrappata a un ramo sull’abisso, incapace di mettersi in salvo senza di me. Eloisa mi amava. Volevo lei, non avevo mai smesso di volerla. Era l’unica cosa vera della mia vita. Nel momento stesso in cui la mia mente formulò questo pensiero, la tensione nervosa che irrigidiva le mie membra si allentò ed una sensazione di perfetta quiete si impadronì di me. Mi addormentai serenamente. Credevo ancora nei miracoli: doveva pur esserci un modo per abbattere il diaframma invisibile che ci separava. Ma quale? Ingelosirla non serviva a nulla, poteva essere addirittura controproducente: lei ormai si era rassegnata a perdermi. Un mattino, mentre fluttuavo in una zona di lucida incoscienza, sentii il sangue affluirmi di colpo al cervello e compresi. C’era solo una strada per raggiungerla e passava proprio attraverso la sua maternità. Era una partita difficilissima, si trattava di costringerla all'incesto, ma decisi di giocarla fino in fondo. Aspettai di stare meglio e un pomeriggio tentai il tutto per tutto. Erano le quattro e non c'era nessuno in casa: avevo costretto Teresa ad uscire per comprarmi un flacone di sciroppo che avevo rovesciato di proposito. Attesi che lei venisse a salutarmi. Ero teso allo spasimo, mi si paralizzava la mandibola. Ripassavo febbrilmente il copione. Entrò, si sedette come al solito sul letto, mi sfiorò la fronte e sorrise: - Non hai più la febbre: credo che lunedì potrai riprendere la scuola - Che gioia - commentai macabro. - E potrai anche rivedere la tua ragazza. Non sei contento? - Non è più la mia ragazza Parve sorpresa. - Perché? - Ho già cercato di fartelo capire: ho dei problemi - Chi non ne ha, ragazzino? Come da copione, la guardai negli occhi e dissi: - I miei sono problemi seri. Davvero non ti sei chiesta quale fosse la causa della mia malattia? Esitò, abbassò lo sguardo. - Un colpo di freddo allo stomaco, credo - rispose. - Temo che ci sia qualche variabile che ti sfugge - dissi. Non aggiunsi altro e, per il momento, aggirai la questione: questo serviva a creare una certa suspence. Mi accarezzò i capelli con dolcezza. - Devi cercare di rimetterti in forze, bambino mio: sei tanto pallido. Mi hai fatta spaventare, sai? Trattenni la sua mano e la guardai serio: - Eloisa, ce l’ho già una mamma - Lo so, scusami. È che ti voglio bene. Non ho mai avuto un fratellino e non credevo che mi piacesse così tanto. Sono contenta di sapere che farò parte della tua famiglia e che potrò vederti tutti i giorni. Ti va di avere una sorella maggiore? Oh no, non così, non così. Questa battuta è da cancellare, lo sceneggiatore da licenziare in tronco. Fast forward, passiamo oltre. Cambiai argomento.


- Comunque ci vediamo ancora. Io e Michelle, voglio dire. Ci sono delle cosette che continuiamo a fare insieme - Non posso darti torto: è molto bella - Non quelle cosette, mammina Mi prese una mano. - Va tutto bene: sei solo un po’ stanco Il mio assalto stava per rimbalzare, come al solito, contro il suo muro di gomma; ma era tutto previsto, quella volta non mi feci cogliere impreparato. Respirai profondamente, cercando la concentrazione giusta per un formidabile ace. - Vediamo se mi riesce di spiegarmi con una metafora - le dissi. Mi sciolsi dalla presa delle sue mani, mi allungai verso lo stereo e misi su un vecchio disco che amavo molto. - È per creare l’atmosfera - le dissi. Non rispose. Continuai: - Sapevi che la colonna sonora della scena iniziale è tratta da Henry Purcell? Music for the funeral of Queen Mary. Grande film, di quelli che fanno la storia del cinema; che dici, ci guardiamo la cassetta una di queste sere? Mi appoggiai contro il cuscino continuando a fissarla. Uno zoom lento, primo piano sugli occhi. Si guardò attorno, riconobbe il Koroba milk-bar. Il messaggio le arrivò dritto al cervello: ebbe un guizzo improvviso e mi afferrò un polso. Portai la mia mano (e di conseguenza la sua) sulla coperta all’altezza del mio inguine e non feci nulla. Il vecchio Stanley è maestro nel creare attese spasmodiche piene soltanto di musica straordinaria. - Cosa fai? - chiese. - Non hai perso il vizio di fare domande retoriche, professoressa La tensione nervosa poteva giocarmi brutti scherzi, mi veniva da ridere al pensiero della prossima battuta, ma mi trattenni. - Forse non te l'ho detto, ma la mia opinione sui verbi è un po’ cambiata da quando non li coniugo più con te: ho scoperto che la mia diàtesi preferita è il riflessivo Strinse con violenza il mio polso e mi guardò con odio. - Mi hai fatto male - dissi con dolcezza. Mi chiese scusa e mi massaggiò la mano. Il crescendo drammatico era quasi all’apice, il mio sangue bolliva. - “Farsi” non è solo medio d’interesse, vero? - dissi - No, non rispondere, anche questa è una domanda retorica Non rispose. Aveva il respiro affannoso. - Non vuoi proprio capire, vero? Mi costringi a dirtelo chiaramente Soffiai via una ciocca di capelli che mi ricadeva negli occhi e le presi il volto fra le mani, concentrando su di lei tutta l'intensità di cui è capace soltanto un ammalato con lo sguardo alla Rhys Meyers e un leggero strabismo di Venere. Cercò di abbassare gli occhi, ma la obbligai a fissarmi mentre scandivo sottovoce quelle parole: - Mi faccio, mammina Allontanò di colpo le mie mani come se scottassero e si piegò su se stessa. Tremava, vedevo le sue spalle sollevarsi in un respiro affannoso. Applauso in sala. Poi, senza guardarmi, chiese: - Perché me l’hai detto, perché? - Non mi andava più di ingannarti Rimase a lungo immobile; poi alzò lentamente gli occhi con l’espressione del killer di Pulp Fiction. - Ucciderò quella puttana - disse - e anche te, se vengo a sapere che la rivedi. Ti giuro che se ti fai ancora del male ti ammazzo con le mie mani, vi ammazzo tutti e due Non c'era troppa coerenza in questa battuta, ma Quentin volle che continuassi sullo stesso tono. - So quello che faccio - dissi altrettanto contraddittoriamente - Conosco i rischi della dipendenza fisica e non sono così stupido da volerli correre Aggiunsi una piccola cattiveria: - A differenza di te Non mi ascoltò. - Perché lo fai? - chiese. Il suo smarrimento m’inteneriva; mi costò non poca fatica recitare la parte fino in fondo. Il copione prevedeva a questo punto una serie di cazzate stile tossico di Almodòvar.


- Perché mi fa sentire bene - dissi. Complimenti per l’originalità Pedro, una battuta davvero mai sentita. Lui mi fece un segno col pollice all'insù come per dire che stavo andando benissimo - Ma posso smettere quando voglio - Hai già provato? - Sì - Ci sei riuscito? - Certo. Finché l'ho voluto - E poi? - Be’, ho ricominciato, naturalmente. Ma è tutto sotto controllo Continuava a respirare con fatica, come chi si sente svenire. - Quante volte è successo? Match point. - Dieci, venti, cento. Non ho buona memoria per certe cose Standing ovation. Gettai una rosa a una ragazza in prima fila ed uscii salutando il pubblico in delirio. Ecco fatto. Mi appoggiai al cuscino con un profondo sospiro. Avrei dovuto vergognarmi, ma l’intensità del mio sentimento mi faceva sentire assolto. I suoi occhi si posarono nei miei e vi rimasero: lasciai che guardasse dentro di me molto a lungo, spogliando la mia anima poco per volta, mettendola completamente a nudo. Cadde ogni maschera. - Perdonami Eloisa, - le dissi con dolcezza - sto facendo del mio meglio per sopravvivere, sai. È che proprio non ci riesco Aveva gli occhi pieni di lacrime. Chinò la testa e appoggiò la fronte sul mio petto. - Dimmi cosa vuoi da me - sussurrò. Aveva tutta l’aria di una resa senza condizioni. Tremava, ricordo, mentre cercava di sbottonarsi il golfino e non ci riusciva. Soffriva come un cane: non potevo continuare a torturarla così. La trascinai nel letto e la strinsi convulsamente a me, non piangere amore mio non è successo niente sto bene, non voglio sesso voglio te, voglio te, muoio senza di te, non vedi non vedi che sto morendo, sto bene non piangere ti prego ti amo ti amo ti amo va tutto bene adesso, va tutto bene, stammi vicino amore, così, voglio sentire la tua pelle, la aiutai a spogliarsi, le calze scure il reggicalze nero, togliti tutto non voglio che Giuliano ti veda così, mai più, gli dirai che le hai smagliate, che sei allergica, inventa una scusa qualsiasi. Si sfilò le calze, venne sopra di me, mi coprì di baci e mi sommerse in un mare di tenerezza repressa di cui rammento solo il mio galleggiare in superficie inebetito e qualche frase di straziante dolcezza fra le tante che sussurrava al mio orecchio, ti prego non farlo più, non farlo mai più bambino mio, se ti succede qualcosa la tua mamma muore, sei tanto bello amore tanto, poi i suoi sospiri, i suoi gemiti soffocati nei miei capelli. Ero sincero quando dicevo che non volevo fare sesso, ma lei moriva dalla voglia e la assecondai. C’era davvero qualcosa che non andava, facevo fatica, molta fatica, era tutto diverso con Matteo. La sensazione non cresceva, il desiderio non trovava sfogo, l'ansia mi chiudeva lo stomaco, avevo paura di deluderla di vedere anche nei suoi occhi quel freddo disprezzo, amore non ci riesco balbettai, ma lei mi sussurrò all'orecchio sì che ci riesci stai tranquillo, devi solo stare tranquillo bambino mio, e io mi rilassai e mi lasciai cullare dalla marea che pian piano saliva, finché fui sommerso da un'onda di dolcezza e provai finalmente la lontana eco di un orgasmo. Vengo amore mio sospirai, e lei si mise a piangere, non so se per la gioia o per la tensione nervosa o perché si rendesse conto che stava facendo l'amore con un cadavere. Rimanemmo a lungo abbracciati in silenzio, fluttuando nella risacca. Avevamo perso la nozione del tempo. La riacquistammo di colpo sentendo i passi di mio fratello nell'ingresso. Quella notte, per la prima volta dopo molti mesi, dormii un sonno sereno e profondo, senza sogni. La gioia che provai al mio risveglio, il mattino seguente, fu così forte che mi spaccò quasi il cuore.


Lucciole e pipistrelli È strano come a volte le esperienze più intense della nostra vita si trasformino in ricordi soffocanti, simili a certi cieli di agosto bianchi di afa. Così è del periodo della mia esistenza che mi sembrò più felice. Ogni giorno, nel tardo pomeriggio oppure durante la notte, Eloisa ed io ci incontravamo nel fienile abbandonato, dove tenevamo nascosti dietro un mucchio di paglia coperte, cuscini, una lampada, flaconi di liquido antizanzare, uno stereo portatile, pile di ricambio, CD, fumetti, bicchieri, bibite, barattoli di cioccolata e libri di scuola, per occupare nel più proficuo dei modi le nostre pause. Avevo l’esame di maturità quell’anno, e lei continuava a sentirsi responsabile della mia preparazione. Ero quasi sempre io ad arrivare per primo. Mi sdraiavo nel fieno e contemplavo le nuvole che si disfacevano nel cielo, respirando l’odore dell’erba, ascoltando le voci della natura, il fruscìo di qualche topo alle mie spalle. Navigavo senza bussola, decifravo i simboli e le allusioni, coglievo le analogie, era tutto assolutamente chiaro. Il senso si riassumeva in un pensiero nudo: “Arriverà”. E lei arrivava infatti. Il momento più bello, che mi dava sempre il batticuore, era quello in cui sentivo i suoi passi avvicinarsi. La accoglievo sorridendo, non potevo fare a meno di sorriderle, e le tendevo le braccia. Avevo smesso di essere geloso: era evidente che la sua anima era solo mia. Come chi ha ricchezze in eccesso, non mi curavo degli spiccioli che mi cadevano dalle tasche, lasciavo che fossero raccolti da altri. Provavo un senso di assoluta appartenenza; forse non era quella la risposta, ma non avvertivo più il bisogno di cercare. Con lei era tutto perfetto, la castità aveva un senso profondo, il piacere non portava con sé alcuno strascico di rimorso. Nel lungo periodo che trascorremmo così mi allontanai completamente dalle esperienze maledette; riacquistai poco per volta la salute, le mie reazioni fisiche ritornarono pressoché normali. Lei ne ricavava una gioia immensa. A volte mi accontentavo di trascorrere con lei lunghe ore di studio, oppure, quando l’urgenza degli impegni scolastici me lo consentiva, le leggevo i miei fumetti preferiti interpretando tutti i personaggi: diceva che ero molto bravo, che avrei avuto un avvenire come doppiatore di cartoons. Altre volte ci concedevamo momenti di pura contemplazione, immersi nella bellezza della musica e della natura. Più spesso cercavamo di soddisfare la nostra inestinguibile sete reciproca. A poco a poco il ragazzo stava lasciando il posto all'uomo; gli sbandamenti adolescenziali andavano scomparendo, sostituiti da una serena consapevolezza di me stesso. Ero bellissimo e sapevo di esserlo. Spesso non facevo nient'altro che spogliarmi e lasciarmi contemplare da lei con appagata indifferenza. Lei invece provava ogni volta, accostandosi a me, un fremito di orrore religioso. L'uomo che stava scoprendo in me le incuteva soggezione. Non opponeva più alcuna resistenza: mi lasciava fare con una dolcezza arrendevole che non ho mai ritrovato in nessun’altra. Ogni tanto mi rendevo conto di sfinirla: allora la nutrivo di cioccolata e pasticcini; lei si lasciava imboccare e sorrideva. Nell'amore tendo a conservare inaccessibile una parte di me stesso: una zona off limits dove nessuno deve entrare; un istintivo riserbo mi induce a tenere gli occhi chiusi, a reprimere i gemiti e i sospiri, a non commentare le mie sensazioni. Ci sono sempre riuscito, con la sola eccezione di Matteo. Con lei però era tutto diverso: non volevo più avere segreti per lei; il mio piacere supremo era proprio quello di manifestarle apertamente ciò che provavo, senza alcun pudore. Era la mia donna, le appartenevo anima e corpo. Ero di un'assoluta imprudenza: la cautela che ha sempre caratterizzato i miei rapporti con le donne scompariva totalmente con lei. Anche se quello di avere un figlio era l'ultimo dei miei desideri, giudicavo offensivo che prendesse precauzioni con me. Sapevo che era inevitabile, date le circostanze, ma non lo accettavo di buon grado; ero convinto che nulla di ciò che le veniva da me potesse essere un male per lei ed ero pronto ad assumermi qualsiasi responsabilità. Ciò che mi appariva atrocemente banale nelle scelte che gli altri mi imponevano, in riferimento a lei acquistava una plausibilità, una legittimità, una sorta di diritto di cittadinanza. Se lei aveva deciso di precipitare nell'ovvietà delle convenzioni borghesi, come pareva evidente dal perdurare del suo fidanzamento con mio fratello, tanto valeva offrirle un paracadute. Con me tutto sarebbe stato meno banale, anche avere un figlio. Non le avrei permesso di farlo nascere


nell’ambiente freddo e asettico di un ospedale; sarebbe nato in mezzo alla natura, lei sarebbe stata immersa nella bellezza, io l’avrei aiutata, le avrei suggerito tutto quello che doveva fare. Il suo corpo non aveva misteri per me. Come all'occorrenza sapevo trasformarmi in un efficace analgesico per i suoi dolori mestruali, così avrei saputo alleviare il suo travaglio, renderglielo addirittura piacevole. Io sì, avrei potuto: ormai ero abituato ai miei miracoli. Una sera di marzo mi osservava mentre studiavo filosofia disteso nel fieno. - Sei stupendo, Emmanuel - mi disse. - Merito tuo - risposi voltando una pagina. Allungò le dita ad allontanarmi i capelli dalla spalla. - Come va con le altre? - chiese timidamente. - Non ci sono altre - risposi con dolcezza. Sorrisi ed aggiunsi: - Né altri Sorrise a sua volta ed abbassò gli occhi. - Dovranno esserci, bambino mio. Delle altre, voglio dire - Senti, non sopporto più che tu mi faccia da mamma - le risposi con durezza - Sei libera di fare quello che vuoi di te stessa, ma non ti permetto di scegliere per me - Non fraintendermi - disse - Per me sarà difficilissimo. Sto solo cercando di dirti che devi pensare al tuo futuro - Ci ho già provato, ma è stato tutto piuttosto disgustoso. Quando mi sento disgustoso faccio cose disgustose, lo sai. E poi non esiste il futuro Appoggiò la testa sulla mia spalla. - Cosa farai quando sarò sposata con tuo fratello? - Tu non sposerai mio fratello - Vuoi che rinunci ad avere una vita mia? E rimanga a tua disposizione finché non ti sarai stancato? E a quel punto cosa mi dirai, scusa mamma è stato bello finché è durato? Tacqui e mi scostai bruscamente da lei. Mi accarezzò un braccio. - Devi abituarti a questa idea: ci sposeremo presto. Ho compiuto trent’anni Non le risposi. Mi distesi supino sul fieno con un braccio piegato dietro la nuca e fissai a lungo il soffitto. - Facciamo una scommessa - riprese lei - Fra un anno o due sarai già fidanzato con un’altra - Cosa scommettiamo? - Quello che vuoi tu Le diedi la risposta che meritava: - Se perdo io, tu passi una notte con me. Se perdi tu, la passo io con te Mi baciò una spalla, ma ormai l’incanto era spezzato. Rimasi immobile e le parlai con rude scortesia: - Passami una coperta: mi è venuto freddo. Vedi di sbrigarti, per favore Obbedì premurosa e si strinse a me sotto la coperta. Non reagii; mi rimisi a studiare. - Devi proprio starmi così appiccicata? - le dissi - Mi togli l’aria Si scostò leggermente. - Sai, - le dissi senza alzare lo sguardo - stavo pensando che forse non è il caso di vederci così spesso - Scusami - sussurrò tutta tremante - Ti prego, scusami - Mi riempì di baci la spalla. Chiusi il libro ed allontanai il suo viso dal mio guardandola con freddezza. Mi sbottonai i jeans, ravviai i suoi capelli con entrambe le mani, li riunii sulla sua nuca, li avvolsi intorno al polso sinistro e tirai con forza verso il basso. Dicono che un’altra caratteristica dei nativi del mio segno zodiacale sia una particolare permalosità, che li rende puerilmente vendicativi nei confronti di chi ferisce il loro animo ipersensibile. Non so se queste dicerie abbiano un qualche fondamento, ma è un dato di fatto che quando mi sentivo offeso insolite tendenze maschiliste si risvegliavano in me; la lasciavo fare guardando il soffitto in silenzio ed accarezzandole i capelli con la distratta benevolenza con cui si accarezza un cane. Non c’era niente per lei, neppure i miei sospiri: annegavo in me stesso le mie sensazioni. Era il mio modo per dirle sei stata una bambina cattiva. E io credo che le piacesse molto, almeno quanto la mia dolcezza. Era fatta così. Avermi tutto per sé le incuteva una confusa sensazione di panico, era sempre all’erta, come se dovesse accadere da un momento all’altro una catastrofe. Essere trattata con indifferenza, come una prostituta, la rassicurava; era un mezzo al quale ricorrevo più spesso di quanto il sentimento non mi suggerisse. Ho la netta sensazione che, se fossi riuscito a fare di lei la mia amante fissa, alternandola con


un’eventuale moglie o con avventure occasionali, sarebbe stata felice e le cose fra noi non sarebbero precipitate. Ma questo, tanto per concludere la divagazione astrologica, non sembra essere nelle corde del mio segno zodiacale. Forse se fossi stato un Gemelli, chissà. Spesso, quando tentavo di fare il duro, crollavo proprio sul traguardo. Successe anche quella volta. Alla fine lei appoggiò il viso sulla mia spalla ed io continuai a non dirle nulla. Cominciò a tremare leggermente: la coprii meglio; poi sentii un singhiozzo soffocato, che c’è le chiesi, lei rispose niente è solo che tu sei così giovane così bello e io invece. Ecco, se c’era una cosa che non ero in grado di sopportare era quella. Non avrei amato altrettanto una donna veramente bella, erano proprio le sue debolezze e i suoi difetti a penetrarmi così profondamente l’anima, ma come spiegarglielo senza offenderla? Mi spezzava il cuore vederla in quello stato; mi chinai su di lei con tutta la dolcezza di cui ero capace, le baciai gli occhi, la accarezzai, le sussurrai devi smettere di frequentare Valentino, è lui che ti fa sentire così, lo fa per umiliarti, smetti di vederlo ti prego, non piangere basta, poi la coprii di baci dalla testa ai piedi allontanando con fermezza le sue mani che cercavano di nascondere il suo corpo, non devi vergognarti mai, non hai niente di cui vergognarti. Ben presto fui pronto per ricominciare, tutto per lei questa volta. Quando ero in quello stato d’animo agivo in preda a una sorta di allucinata esaltazione. Non saprei come ricostruire quei momenti; un comprensibile ritegno blocca le mie dita sulla tastiera del computer, esito, ho la tentazione di sorvolare; mi fa male ripensarci, mi sembra profanazione scriverne. Descrivere ciò che accadeva parrebbe pura pornografia, e non lo era affatto. In realtà, quando ripenso a quei momenti, non sono i fatti che accadevano a sembrarmi significativi, ma il fluire inarrestabile delle mie parole, così diverso dal mio abituale riserbo. Avevo l’impressione, probabilmente corretta, di costruire tutto con quelle parole, una sorta di carme fascinatorio che sussurravo al suo orecchio in un rito di cui ero l’officiante e il cui esito era sempre esattamente quello voluto. Lasciati accarezzare amore, non avere paura lasciami fare, rilassati non preoccuparti ci sono qua io, no amore non va bene stai opponendo resistenza lo sai che non serve, ecco così brava, pensa ad altro pensa ad un bosco d’estate, stai camminando fra gli alberi il sole filtra tra i rami, è bello, respira amore senti il profumo dei gelsomini, ti piace, non irrigidirti rilassati, continua a respirare, sei bellissima amore non credere mai a chi ti dice il contrario, adesso sei fuori del bosco sei in un prato verdissimo, si sta bene qui, no non avere paura non è niente, sono qui sono vicino non ti lascio andare, non tremare respira profondamente, fidati amore coraggio lasciati andare rilassati respira, così brava, ti tengo non avere paura, grida se vuoi non ti sente nessuno, guardami amore guardami ti amo ti amo ti amo sei bella non importa se finisce ricomincio subito, continuo tutta la notte, continuo per sempre. Esiste un motto greco che esprime lo spirito apollineo, medèn àgan, nulla di troppo. Ho sempre ignorato questo monito senza capirne la profonda saggezza. Ora so che è impossibile sopportare a lungo il troppo, e non c’è differenza se è troppo in negativo o troppo in positivo, è troppo e basta. Mi è stato detto che non avvertire l’eccesso, non capire quando bisogna fermarsi, è tipico della psicologia del drogato. Evidentemente la mia, con o senza droga, è la psicologia del drogato. Eloisa era simile a me, l’unica persona simile a me che io abbia mai conosciuto, la metà perduta del mio androgino. Però il suo istinto di sopravvivenza era più forte del mio: quanto più si lasciava attirare dal mio gorgo ipnotico, tanto più ne provava paura. Così l’ho legata a me, così l’ho persa. Ma che sciocchezze. Non so perché sto scrivendo queste cose. Forse la mia mente sta diventando debole, incapace di comprendere quello che ha sempre costituito l'evidenza per me. Forse mi sto lasciando influenzare dal parere degli psicologi e/o psicoterapeuti che mi hanno in cura, come se curare il male di vivere fosse possibile. Forse mi sto arrendendo alle mute richieste di colei che tanto si sta preoccupando della mia sopravvivenza, come se sopravvivere fosse poi così importante. Ma in questo momento sento che tutto si ribella in me, sento che ho scritto una marea di cazzate e che le ho scritte solo perché prima o poi le leggerà lei. E allora basta, voglio dire le cose come stanno una volta per tutte, peggio per lei se ci starà male. È chiaro il concetto se dico che me la scopavo fino a fondermi l'anima?


A certi livelli il sesso è misticismo puro. Il culmine del piacere corrispondeva ad una zona di vuoto estatico, una caduta in un baratro psichico senza fondo in cui turbinavano frammenti di memorie prenatali che mi risucchiavano dolcemente verso il grembo dell'essere, e mentre con il mio seme effondevo in ritmiche ondate la mia anima salivano a galla suoni inarticolati, sussurri primordiali, soffi di lampi nel buio, e due sole parole di senso compiuto riuscivano a formarsi sulle mie labbra, sempre le stesse: ti amo. Io non sono mai riuscito a dire queste parole a nessun'altra, e credo che non ci riuscirò più. Mi sono accorto, non senza dolore, di essere capace di fingere in molte cose, ma non in questo. Sono un'altra persona adesso. È normale, sono morto e risorto, chissà chi sono diventato. Una nullità, comunque. Chi mi sperimenta a letto lo sa. Dio, credo di essere di una mediocrità agghiacciante, mi viene da ridere se ci penso, e il bello è che non c'è nulla da ridere. Con lei era diverso. Con lei era tutto diverso. Io stesso non so perché e non pretendo di capirlo, così come non pretendo di capire perché esiste il mare. La differenza incommensurabile fra me e voi, signori psico-qualcosa, è che io, per l'appunto, socraticamente ammetto di non sapere. Non ho la vostra ridicola presunzione. Era amore quello? Non lo so. Ma vedete, il fatto è che voi non ne sapete più di me, e invece avete la pretesa di giudicarmi, classificarmi, guarirmi perfino, quando l'unica cosa che mi ha mai fatto sentire vivo è stata la mia malattia. Ma chissà se potete capire, chissà se siete mai stati vivi, voi. Trascorsero alcune settimane. Fummo costretti a separarci per qualche giorno durante le vacanze di Pasqua: Eloisa partì per la montagna con mio fratello ed alcuni amici. Io rimasi a casa e trascorsi quei lunghissimi giorni in assoluta e serena castità. Quando la rividi mi parve più bella, ma magra e stranamente pallida al di sotto della leggera abbronzatura, pallido il viso cosparso di piccole efelidi. Fui colpito dall’incandescenza sotterranea del suo sguardo grigioverde che mi inseguiva attraverso le stanze; quella sera stessa ci vedemmo nel fienile e rimasi sbigottito dalla fretta ansiosa con cui volle fare l’amore, senza dire una parola, senza neppure spogliarsi, ansimando, tremando tutta e placandosi man mano, come chi finalmente può dissetarsi a una sorgente dopo una traversata nel deserto. Alla fine, quando ritrovò un minimo di lucidità, le chiesi della sua vacanza, volli che me ne raccontasse qualche episodio, ma ebbi la netta impressione che lei allontanasse con fastidio dalla sua mente quei ricordi, come se le evocassero soltanto sensazioni di pena e di noia. Anche questo fatto mi colpì negativamente: amavo in lei la brillante conversatrice, la divertente e ironica narratrice di aneddoti. Preferì lasciar parlare me, che avevo ben poco da raccontarle, ma a metà del mio discorso smise di ascoltarmi, mi attirò a sé e volle ricominciare. Avvertii qualcosa di stonato in tutto questo, ma la felicità mi rendeva ottuso. Una sera di fine aprile sentii, come al solito, i suoi passi lungo la scala a pioli; arrivata in cima sorrise e improvvisamente scivolò piegandosi su se stessa. In un attimo fui su di lei a sostenerla, riuscendo per miracolo ad evitare che cadesse. La presi fra le braccia e la distesi nel fieno. - Cos’hai? - le chiesi. Avevo il cuore in gola. Aprì gli occhi senza dire nulla. Mi fece segno di attendere, respirando profondamente, come se faticasse a riprendersi. La feci bere sorreggendole la testa. Finalmente allungò una mano ad accarezzarmi il viso: - Sei bello da far male - disse, e mi trascinò giù per i capelli, mordendomi le labbra e tremando tutta. Mi prese una mano e se la portò fra le gambe, ma la ritrassi con orrore: era piena di sangue. Sapevo che non c’era una spiegazione fisiologica per quell’emorragia. - Non preoccuparti, - disse - è una cosa passeggera La guardai fisso negli occhi, cercando di leggervi la verità. C’era un’infinita stanchezza in quegli occhi cerchiati di un alone grigio; e paura, e vuoto. - Non stai bene - le dissi. - Ti prego. Anche se dovessi morire, non mi fa paura morire in questo modo Si riempì il palmo della mano dell’oro dei miei capelli, imprigionandoli nel pugno chiuso. Il suo sguardo si offuscò. Improvvisamente tutto fu chiaro alla mia mente. Mi alzai di colpo e presi a passeggiare per il fienile, guardando la luna sorgere pallida nel crepuscolo. I pipistrelli miei simili svolazzavano fra gli alberi contro la porpora dell’orizzonte. Lei taceva.


Dopo qualche minuto mi sedetti accanto a lei, le ravviai i capelli e la rivestii con paterna fermezza. Poi la guardai negli occhi. - Sono un idiota - dissi. Non rispose: mi guardò interrogativamente. - Devi andare dal dottore - le dissi con dolcezza - E da oggi, basta sesso - Sarà difficile - disse. - Sarebbe difficile - risposi - se non ti amassi - Non ti mancherà tutto questo? - Mi manchi tu: te ne stai andando Mi guardò con profonda gratitudine. Le circondai le spalle con un braccio. A poco a poco si addormentò. La coprii con delicatezza e vegliai a lungo sul suo riposo.


Un cavallo bianco

C’è davvero un cavallo bianco nell’anima: non saprei come spiegare diversamente il mio comportamento nei giorni seguenti. L'impresa appariva titanica perfino per un uomo veramente forte, figurarsi poi per uno come me. Si trattava prima di tutto di dominare i miei impulsi fisici, la mia attrazione per la donna che amavo, poi di mettere da parte ogni forma di gelosia, inevitabile al pensiero che lei avrebbe continuato ad avere rapporti con mio fratello e forse con Valentino (il forse dipendeva da lui, su di lei non mi facevo illusioni), infine di agire con la massima determinazione nei suoi confronti. Era venuto il momento di mettermi alla prova, e posso dire senza falsa modestia che la superai alla grande. Tutti i giorni, verso le sei del pomeriggio, ci incontravamo al solito posto. La salutavo con un bacio, la prendevo per mano e passeggiavo con lei sulla sponda del torrente osservando gli animali selvatici, i colori del cielo e degli alberi, gli impercettibili mutamenti quotidiani della natura. Mi raccontava la sua giornata, piccole cose banali. Poi mi accovacciavo sull'erba e la facevo sedere fra le mie ginocchia piegate, offrendole il mio petto come schienale, circondandole la vita con le braccia; mi mettevo a studiare con il libro aperto sulle sue ginocchia appoggiando il mento sulla sua spalla, una posizione intima e casta nello stesso tempo. A questo punto, di solito, iniziavano le difficoltà. Lei cercava di indurmi in tentazione; la avvolgevo allora in un abbraccio che aveva il duplice scopo di rassicurarla e di tenerla ferma. A volte si scostava bruscamente da me e rimaneva seduta con il viso basso e gli occhi pieni di lacrime come una bambina di fronte al giocattolo rotto dicendo non ti piaccio più; a me si spezzava il cuore, la abbracciavo di nuovo e la stringevo così forte da stritolarla per impedirle di muoversi, basta smettila devo studiare, se continuo così non sarò neppure ammesso all'esame, e lei allora la smetteva finalmente, ma a volte provava piacere anche così, al semplice contatto del mio corpo, mentre io la tenevo stretta ed aspettavo ad occhi chiusi che l’onda passasse sopra le nostre teste. Pian piano cominciò a recuperare la lucidità; si preoccupava del fatto che la mia preparazione scolastica procedesse a rilento a causa delle attenzioni che le dedicavo, si disperava per il suo egoismo, provava vergogna per le sue reazioni, diceva che si sentiva un animale. Io minimizzavo, le assicuravo che era tutto normale e che sarebbe guarita presto. Smise di chiedermi quello che non ero più intenzionato a concederle. Divenne mite e arrendevole, disposta ad accontentarsi di rimanermi accanto in assoluta castità. Una volta, sfiorandomi il viso, mi chiese: - Non lo faremo mai più? Sopraffatto dalla tenerezza, commisi l'errore di lasciarmi andare. Era troppo presto e rischiai, con quella leggerezza, di rovinare tutto quello che avevo fatto di buono fino a quel momento. Inoltre mi preoccupai molto, perché ci fu di nuovo un'emorragia inspiegabile. La esortai insistentemente a farsi visitare da un medico e non ripetei più l'errore. Una sera - eravamo seduti sull'orlo del fienile e guardavamo il crepuscolo dall'alto, dondolando le gambe nel vuoto, mentre la distesa dell’erba sotto le stelle si accendeva dello scintillio intermittente delle lucciole - trovai il coraggio di farle una domanda che fino a quel momento mi ero tenuto dentro. - Come va con mio fratello? Per qualche istante non rispose. - Come al solito, perché? - disse infine. - Non voglio essere indiscreto - ripresi - Mi sto semplicemente domandando se tutti i nostri sacrifici non siano inutili, visto che continui ad avere rapporti con lui Sospirò profondamente e mi accarezzò una mano. Faticava ad esprimere i suoi pensieri. Cominciò con un preambolo: - Vedi Emmanuel, ci sono cose che non è facile spiegare, e forse nemmeno giusto. Io voglio bene a tuo fratello, lo stimo e lo rispetto, anche se il mio comportamento lascerebbe credere il contrario - Questo lo so, ma non vedo il nesso con quello che ti ho chiesto - Ora ci arrivo. Non è possibile che lui generi in me dipendenza: con lui è tutto razionale, rassicurante -


Rimasi sconcertato dalla sua affermazione. - Come può essere razionale fare l'amore? - Nel sesso come in tutto, Giuliano è dolce e tecnicamente inappuntabile, sa esattamente che cosa fare e come farlo Mi sentivo a disagio. - E dunque - insistetti - perché dici che non può generare dipendenza? - Perché nulla di tutto questo genera dipendenza. Non in me, almeno Sapevo per esperienza personale che le cose stavano così, ma non mi aspettavo di sentirlo dire da lei. - E cos'è - chiesi ancora - che genera dipendenza in te? Rifletté un attimo. Poi rispose: - Due qualità opposte che tuo fratello non possiede: la spiritualità e la carnalità - Quale delle due con me? Si voltò a guardarmi con un sorriso negli occhi. - Non vorrei farti troppi complimenti questa sera: potresti montarti la testa. Cambiamo argomento Le diedi un bacio sulla punta del naso. - Nemmeno per sogno - risposi - Continua - La tua bellezza è espressione di qualcosa che non capisco, Emmanuel. Ti sembrerà strano quello che sto per dirti, e magari anche un po' offensivo Ricambiai serenamente il suo sguardo: - Dimmi - Attraverso il sesso tu non trasmetti nulla di fisico - Cosa trasmetto? - chiesi, conoscendo perfettamente la risposta. - La tua anima - rispose. Tacqui a lungo guardandola. Lei non lo sapeva, ma mi aveva detto le parole definitive. Ma c'era ancora una domanda da fare. - E Valentino? - Valentino trasmette maschilità allo stato puro. La sua spiritualità la tiene per sé, non la concede a una femmina Non insistetti oltre su quel tasto dolente. Si voltò di nuovo a guardare l'orizzonte. Poi, senza un motivo apparente, disse: - Mi piacerebbe tanto avere un bambino Quelle parole urtarono la mia anima con la violenza di un pugno. Mi offendeva soprattutto la genericità del suo desiderio; mancava almeno un aggettivo possessivo in quell’affermazione: "tuo". - Perché? - le chiesi. - Non c'è un perché: è naturale, per una donna, desiderare un figlio - Sulla tua bocca queste parole stonano terribilmente: non hai mai desiderato essere naturale - È vero - ammise. - Non eri tu quella che ironizzava sulla mancanza di creatività delle attività femminili? - Anche questo è vero - Volevi far carriera, importi per la tua intelligenza in un mondo che pensa al maschile. Hai i numeri per riuscire, anche per questo ti stimo e ti rispetto. Però, da qualche tempo, ho l’impressione che ti manchi la convinzione. Correggimi se sbaglioAbbassò gli occhi. - No, non sbagli. Credo che abbandonerò la carriera universitaria. Non sto più combinando niente di buono La sua passività mi irritò profondamente. - Meglio farsi mantenere da mio fratello, vero? Tanto i soldi non gli mancano - Non m’importa di essere mantenuta, anche se lui sarebbe disposto a farlo. Posso lavorare, ma non cambia niente. È che proprio non m’interessa più d’impormi nel mondo del lavoro Ero davvero amareggiato. - Mi hai preso in giro? La Cappella Sistina e i pannolini sporchi... Che stupido sono statoMi guardò con un lontano sorriso. - Non prendertela con me: sei stato tu a cambiarmi - Io? -


Rimasi sbalordito da quella sua accusa, che mi pareva molto ingiusta. Ma lei, senza minimamente alterarsi, si voltò verso di me con le ginocchia raccolte contro il petto. Poi mi disse qualcosa che cambiò la mia vita: - Io non sono mai stata felice se non con te, Emmanuel. E questo deve avere un senso. Non è il nostro rapporto a rendermi felice, perché so che è impossibile. Allora dev’essere qualcos’altro. Ci ho pensato molto e adesso ho capito Le sue parole mi ferivano profondamente, andavano a toccare qualche delicatissimo ganglio nervoso del mio essere. Desiderai tapparle la bocca con una mano; invece le chiesi: - Cosa? - Il rapporto ideale per una donna non è quello con un uomo: hanno poco da dirsi, una donna e un uomo. Il rapporto perfetto per una donna è quello con un bambinoMi guardò negli occhi: - Prima di conoscerti non sapevo quanto fosse bello avere a che fare con un bambino Sentivo una terribile verità in quelle parole, intuivo un terribile rischio in quella situazione, un vicolo cieco che vanificava tutti i miei sforzi per rendere possibile il miracolo. Non riuscii lì per lì a trovare uno schermo per difendermi dalla raffica di colpi al cuore che mi stava sparando; mi venne in mente soltanto un’obiezione banale: - Non ero più un bambino, quando mi hai conosciuto- Sì che lo eri. E un po’ lo sei ancora Tacqui. - Se proprio la pensi così, - dissi infine - perché non prendi sul serio il rapporto con me?Sorrise di nuovo, con una stanca dolcezza: - I bambini crescono, Emmanuel: devo lasciarti andare Sentii una fitta allo stomaco. Eppure una soluzione diversa da quell’assurdo circolo vizioso doveva pur esserci; la guardai negli occhi e la profonda tristezza che vi lessi mi infuse all’improvviso coraggio: se la soluzione non esisteva, l’avrei inventata io. Le circondai le spalle con un braccio. - Non preoccuparti, - le dissi - troverò un rimedio. Non crescerò affatto, forse anzi rimpicciolirò, diventerò tascabile e potrai portarmi sempre con te. In fin dei conti sono un fumetto, no? Mi misi a fare il buffone e riuscii a farla ridere. Dovevo amarla molto, perché questo mi fece subito star meglio. Mi domandò: - A te non piacerebbe avere un bambino?Ci pensai un attimo per esserne sicuro. - No, credo proprio di no - risposi. - Che cosa c'è che non va nell'avere un figlio? - Non so, mi sembra... incompatibile - Con cosa? - Con quello che sento - Non capisco Raccolsi le idee e cercai di spiegarle il mio punto di vista. - Avere un figlio, per la maggior parte delle persone, ha due significati. Il primo è quello di delegare ad altri il compito di vivere. Significa rinunciare a considerare se stessi come scopo, come individui ai quali è richiesto di essere importanti, unici e irripetibili. Non è facile vivere in questo modo, è più comodo assegnare questa responsabilità ad un figlio. È una fortuna che non tutti si comportino così, altrimenti non sarebbero mai esistiti i geni, gli artisti, i grandi uomini che hanno lasciato una traccia di sé nella storia. Se Gesù si fosse limitato ad essere un buon padre, nessuno si ricorderebbe di lui Le sorrisi con dolcezza. - Appunto per questo, come ben sai, la storia ricorda così poche donne Mi guardò attentamente. - E il secondo? - Il secondo è l'illusione dell’immortalità: il figlio che rimane dopo la nostra morte è la vita che continua. In realtà, se ci pensi bene, è vero esattamente il contrario: avere un figlio significa costringere un'anima ad immergersi nella materia, a condividere con noi la mortalità - Perché sei così pessimista? - Pessimista? -


Non era pessimismo, era la pura verità. Mi pareva strano che non capisse. La fissai negli occhi: - Eloisa, - le dissi - hai davvero tutto questo desiderio di dare in pasto altra carne umana alla fame del cancro e della guerra? Io credo che sia peccato mortale, sai Mi fissò a sua volta per qualche secondo; poi si voltò a guardare la luna appena sorta, bassa sull’orizzonte, gialla e perfettamente rotonda: - Non c’è solo dolore nella vita. C’è anche questa lunaMi dava un profondo dolore dirle parole così crude, ma era necessario. - Questa luna - le dissi teneramente - è solo un fondale dipinto, amore mio - Dipinto bene, però - Molto bene: altrimenti come potrebbe ingannarci? È l’opera di quel sublime artista che vuole farci credere di essere Dio - E invece non lo è? Scossi la testa. - Dio, se c’è, non è qui - E chi è il sublime artista? La situazione mi apparve per un attimo grottesca: mi parlava con la massima serietà, senz’ombra di ironia, e chiedeva ragguagli a me che ero tanto più giovane di lei. Era come se si aspettasse da me una rivelazione. Dovetti deluderla. - Non ne ho la più pallida idea - Sì che ce l’hai Esitai un istante, poi dissi: - Un geniale burlone, direi, con uno straordinario senso estetico e quasi nessun senso morale Quella sera portava una camicetta di stoffa leggera un po’ trasparente, che lasciava intravedere il reggiseno di pizzo bianco. - Vedi, il tuo seno per esempio - Che c’entra il mio seno? Istintivamente portò una mano a coprirlo. Era delicato, ma lei, come molte donne, lo avrebbe voluto abbondante. Quanto sanno essere sciocche le donne, almeno quanto la maggior parte degli uomini. Allontanai la sua mano prendendola nelle mie. - È uno strumento di seduzione, non è così? - dissi. - Be’, di solito... - cominciò. La interruppi. - È quello che deve sembrare, altrimenti sarebbe troppo evidente che è solo uno strumento di vita e di morte. Produce il latte, produce il cancro. La natura se ne serve per eliminare la donna quando non serve più. Se le donne avessero un briciolo di buon senso, anziché andarne fiere, se ne mutilerebbero come le Amazzoni Si allontanò da me. - Hai un modo orribile di dire le cose - Non è il mio modo di dire le cose che è orribile. Sono le cose ad essere orribili, EloisaRimase in silenzio per parecchi minuti, continuando a fissare la luna. Poi si appoggiò di nuovo a me e mi accarezzò un braccio. - Siamo finti anche noi? - chiese sorridendo. - No - risposi - Almeno una parte di noi è vera. Però rischiamo di perderla, anzi rischiamo di non vederla mai, finché continuiamo ad andare in questa direzione. Io credo che dovremmo muoverci nella direzione opposta - Quale direzione? Non risposi. La presi fra le braccia e rivolsi il suo viso verso il cielo.


Spezzando la crisalide

Una mattina, guardandomi allo specchio, mi accorsi che l'ambiguo arcangelo che vi si rifletteva non mi assomigliava più. Il messaggio che trasmettevo attraverso il corpo era in aperta contraddizione con le mie parole. Le stavo confondendo le idee. Presi immediatamente una decisione. Quel pomeriggio stesso andai da un parrucchiere, uno qualsiasi. Lo rivedo ancora riflesso nello specchio, il sorriso un po' complice, la mano destra levata a impugnare le forbici, la sinistra leggermente abbassata a reggere il pettine: - Allora, come li facciamo? - Corti - È un peccato, lei ha dei capelli magnifici. È sicuro di volerli tagliare? - Sicurissimo - Che taglio? - Il primo che le viene in mente Abbassai lo sguardo su una rivista e non parlai più; vedevo senza rimpianto le ciocche dei miei capelli cadere sul pavimento. Non riuscii a resistere alla tentazione di leggere il mio oroscopo e quello di Eloisa: i nostri due segni zodiacali erano fra i meno favoriti della settimana, per non so quali sciagurate congiunzioni astrali in cui c’entravano Urano e Saturno; il mio diceva: “Tutta in salita la settimana per i nati della prima decade, che dovranno armarsi di pazienza e coraggio per fronteggiare uno spiacevole imprevisto”. Chiusi la rivista con irritazione e pensai che avrei dovuto smetterla di leggere cazzate. Più tardi, a casa, mia madre salutò la mia apparizione con un'esclamazione di sorpresa: - Stai benissimo, tesoro Teresa confermò con un grande sorriso che le allargò il faccione rubicondo. Mi chiusi in camera e mi guardai di nuovo allo specchio. Tutto sbagliato. Il contrasto tra i miei capelli corti e il mio look finto trasandato era dirompente: l'effetto poteva essere opposto a quello sperato. Mi sfilai l'orecchino, mi tolsi la collanina e il bracciale, mi spogliai completamente, via scarponi da moto, blue jeans strappati pieni di scritte fatte con la biro dalle mie compagne, giubbotto di pelle nero, maglietta bianca aderente. Frugai nell'armadio alla ricerca di qualcosa di rassicurante, mocassini di stile inglese, pantaloni di velluto a coste, una maglietta blu girocollo. E finalmente mi parve di essere pronto. Avevo già la patente, ma continuavo a preferire il vecchio motorino. Saltai in sella e raggiunsi la riva del torrente, dove avremmo dovuto incontrarci alle sei. Ero molto emozionato: avevo una cosa importantissima da dirle. L'avrebbe intuita da sola, era implicita nel mio cambiamento fisico. Mi sdraiai sull'erba con le braccia dietro la nuca e mi persi in una fantasticheria dolcissima, tanto da non accorgermi che le sei erano arrivate, poi erano passate da un pezzo, poi da un'ora. All'improvviso sentii freddo. Mi riscossi di soprassalto e guardai l'orologio. Balzai in piedi con il cuore in gola e non ebbi il minimo dubbio sul senso di quel presentimento. Ripercorsi a rotta di collo quel tratto di strada. Mi precipitai in salotto, vidi mio fratello seduto sul divano di fronte a mia madre a capo chino. Teresa gli teneva una mano sulla nuca; vedendomi arrivare mi fissò negli occhi. Mi fermai sulla soglia. Il mio cuore aveva sospeso i battiti. Giuliano mi sentì entrare, si alzò e mi circondò le spalle con un braccio. - Ho bisogno di conforto, fratellino - Perché? Ci sedemmo sul divano. - Eloisa è stata ricoverata d'urgenza all'ospedale. La stanno operando proprio in questo momento Poi si mise a spiegarmi di che cosa si trattava, qualche guaio di natura ginecologica con un nome che cominciava per e, endoqualcosa, entrò nei dettagli tecnici, spiegò quando e come si era sentita male, senza che io percepissi minimamente il senso delle sue parole. Ero assordato dal frastuono del mio sangue. Rimasi così per qualche minuto abbracciato a mio fratello, inebetito, a condividere il suo stesso dolore. Poi gli dissi di non preoccuparsi, che tutto sarebbe andato bene, mi alzai con un sorriso e gli diedi una


pacca sulla spalla. Dissi a mia madre che non sarei rimasto a cena, che avevo un impegno. - A proposito, - disse lei - ti ha cercato Michelle Le dovevo dei soldi. - Non ci sono - dissi bruscamente - Non ci sono mai per lei - Sei veramente villano, Emmanuel. Io non capisco proprio cosa ti ha fatto quella povera ragazza - Anzi, se dovesse richiamare, puoi dirle da parte mia di andare a impiccarsi? - Sarà fatto, signorino Emmanuel - rispose Teresa. Uscii di casa controllando la mia andatura. Appena fuori cominciai a correre come un pazzo. Raggiunsi la solita radura e mi gettai col viso nell'erba. Io non so se c'è un Dio, ma se c'è non capisco perché debba rinchiudersi nelle chiese. Gli parlai a lungo con la faccia nella terra, elencandogli i miei sacrifici uno per uno, chiedendogli perdono di tutti i miei peccati, pregandolo di non ripetere lo stesso vile tradimento di quando si era sentito male il nonno, di quando era morto il mio cane, supplicandolo di avere pietà di me. Perché mai, mai, neppure nei miei incubi più atroci, mi aveva sfiorato il pensiero che Eloisa potesse morire.


Attraverso la palude

- Be’, io ti saluto qui Mi fermai con un piccolo sorriso riparando sotto l’ombrello Martina, che tutti i giorni prendeva il pullman con me all’uscita della scuola. Lei mi sollevò negli occhi uno sguardo di cerbiatta addolorata. - Non vieni a casa? È tardissimo Era quasi buio: il consiglio di classe si era protratto in modo esasperante; mi sentivo irrequieto e nervoso. Guardai di lato. - No, non subito: ho un paio di commissioni da fare - A quest’ora? - A quest’ora - Hai avvertito i tuoi? - Naturalmente Cominciava ad essere seccante. Il fatto che ci fosse stata fra noi una storiella di un paio di settimane, i cui tempi si coniugavano ormai al passato remoto, non la autorizzava a sottopormi a quell’interrogatorio. In quel momento arrivò il pullman ed io la tirai leggermente a me per ripararla dagli spruzzi delle pozzanghere, con una fredda e cortese cavalleria che la ferì. - Grazie - disse - Potevo fare da me La guardai salire sul pullman fra i cappotti bagnati, in un confuso apri e chiudi di ombrelli sgocciolanti. Dal finestrino mi fece un cenno di saluto, che ricambiai svogliatamente. Finalmente solo. Mi allontanai a rapidi passi in una nebbia di pioggia sottile che il vento mi sbatteva in faccia a raffiche improvvise, svoltai al primo isolato e raggiunsi l’altra fermata. Il tram arrivava scampanellando: con due lunghi balzi lo raggiunsi, fui sopra. Mentre nella ressa della carrozza semibuia respiravo un’aria palustre, satura di respiro animale, sentivo che quell’atmosfera malsana sembrava fatta apposta per soddisfare una qualche esigenza del mio spirito. Ma non avevo voglia di comprendere quale: i pensieri mi colavano giù per il collo assieme alla pioggia. Ecco, forse questo: quell’andare liscio e sferragliante, quel farsi trasportare senza responsabilità nella sonnolenza cullante e tiepida di una vecchia carrozza al riparo dal diluvio. Vidi all’improvviso la fermata: chiesi permesso, scesi e fui di nuovo nel vento; l’umidità tagliente mi morse il collo; sentii il tram allontanarsi col suo lamento elettrico. Camminando sul marciapiede guardavo la pioggia cadere pesante e lo smog squagliarsi sotto i miei passi in una melma liquida impregnata di idrocarburi iridati. Il fango la pioggia gli odori sintetici la semioscurità le automobili con i fari accesi in quel crepuscolo tutto mezzi toni mi stordivano il cuore e la mente. Procedevo come in sogno. Mentre avanzavo in uno stretto vicolo, la mia attenzione fu richiamata da un lamento flebile e insistente. Abbassai gli occhi e vidi, rannicchiato nella finestra di un seminterrato, un gattino di un grigio perfetto e uniforme, una sorta di certosino, che miagolava fradicio e tremante. Mi inginocchiai e lo chiamai: uscì dal suo precario riparo e trotterellò verso di me sulle zampine malferme. Quando lo accarezzai sollevò il codino e si alzò sulle punte dei piedi ronfando. Lo raccolsi e lo infilai nella tasca del mio giaccone. Percorsi gli ultimi isolati così, con la mano in tasca; presto si addormentò. Il portone dello stabile ordinario e un po’ malandato era socchiuso. Entrai, salii le scale di marmo bagnato fino al terzo piano, lessi le targhette, cercai, trovai il nome Pagani, suonai il campanello. Dallo spioncino mi osservò un occhio. Mi fu aperto da una signora odorosa di soffritto, con gli occhi e i capelli grigi, che indossava una vestaglia da casa a fiori e un grembiule bianco. - Buonasera, signora. Spero di non disturbare. Sono Emmanuel, il fratello di Giuliano Sorrise e si asciugò le mani nel grembiule per stringere la mia. - Entra. Posso darti del tu? - Certo Posai l’ombrello in un angolo e mi pulii le scarpe sullo zerbino. - Posa qui i libri. Ma sei tutto bagnato: levati quel giaccone, che lo metto ad asciugare - Grazie - Sei venuto a trovare Eloisa, immagino. In questo momento sta dormendo - Non la svegli, per favore. Aspetterò in anticamera -


- Ma no, perché? Seguimi in cucina, così facciamo due chiacchiere Attraversammo la piccola anticamera. Nella penombra le pentole in cucina alitavano vapori di brodo. Un odore del genere lo avevo sentito qualche volta addosso a lei: provai una leggera vertigine. La signora si era rimessa ai fornelli; io mi sedetti al tavolo. - Posso offrirti qualcosa? Un tè? - Solo un bicchier d’acqua, grazie - Non vuoi fermarti a mangiare? - No, grazie, signora: i miei mi aspettano per cena Mi rilassai e cominciai ad osservare l’andirivieni della signora dal frigorifero al fornello, rassicurato dal suo chiacchiericcio, scaldati qui vicino al termosifone, siamo a maggio e continua a fare un freddo cane, già si spende poco per il riscaldamento e poi è buio tutto il giorno, quanti quattrini in fumo per la luce; intanto aveva messo su l’acqua per il tè che avevo appena rifiutato e stava preparando una tazzina. - Latte o limone? - mi chiese affettando un limone. Non ritenni necessario rispondere. Improvvisamente mi ricordai di qualcosa. - Latte! - esclamai balzando in piedi - In un piattino, per favore Corsi via. Rimase interdetta finché non rientrai con il gattino. Come lo vide battè insieme le mani e si sciolse in mille moine, accarezzandolo e grattandogli la testolina. Gli offrì il latte dopo averlo intiepidito sul fornello, e mentre il gattino lo leccava con un piccolo rumore ritmato gli preparò una cuccia di fortuna in un cestino imbottito con qualche straccio. Ebbi finalmente il coraggio di chiedere notizie della salute di Eloisa. - Sta meglio, grazie a Dio - rispose sua madre - Ma mi ha fatto prendere uno spavento terribile Cominciò ad affettare delle cipolle sul tavolo. - Tirati un po’ indietro, - mi disse - se no ti lacrimano gli occhi Obbedii. - Eloisa ha ragione a dire che hai gli occhi più belli del mondo. Ti è molto affezionata, sai: per lei ormai sei come un fratellino. E anche tu devi esserle affezionato, se no non saresti qui - Molto - risposi. - Sei tutto rosso. Hai caldo? - Un po’ - Fra dieci minuti bisogna svegliarla, deve prendere la medicina. Ci pensi tu? - Volentieri Cominciò a sbucciare delle patate. - Gran bravo ragazzo, tuo fratello. Sarebbe piaciuto al mio Fernando Esitai, poi decisi di fare quella domanda. - Eloisa non parla mai di suo padre. Non andavano d’accordo? - Litigavano di continuo, perché avevano lo stesso carattere. Ma si adoravano La lasciai proseguire. - Era un pezzo d’uomo con un animo candido da bambino. Le sue sfuriate sbollivano dopo cinque minuti, se ne dimenticava di colpo; Eloisa invece gli teneva il muso. Era così fin da piccola: andava a letto senza augurargli la buona notte, ma poi, quando soffriva d’insonnia, arrivava in punta di piedi, lo scrollava timidamente, gli diceva papà non riesco a dormire. E lui si alzava e si metteva accanto al suo letto finché non prendeva sonno, anche se al mattino doveva alzarsi alle sei Buttò via un grembiule di bucce. - Diceva che Eloisa non era una ragazza da marito, che era sprecata. Ora dico io, in che senso sprecata? Con un ragazzo come tuo fratello, poi - Quanti anni aveva Eloisa quando... - Quando è morto? La tua età. È stata una tragedia. Quando ha saputo che era malato ho creduto che impazzisse; soffriva in un modo disperato e la faceva soffrire ancora di più il fatto di dover fingere con lui. Eloisa non sapeva fingere con suo padre: così fingeva con se stessa. Quando lui già aveva perso metà del suo peso e camminava a fatica, si ostinava a non accorgersi di niente. Due mesi prima che morisse lo ha rimproverato di non averla mai portata a sciare; lui c’era rimasto male, pover’uomo; e lei: vorrà dire che mi ci porti l’anno prossimo papà. Non ho mai capito se davvero non si rendesse conto o se lo facesse apposta. Usciva con tre o quattro ragazzi assieme e non faceva niente per nasconderlo, anzi, proprio quando lo vedeva più abbattuto se ne veniva fuori con certe frasi che se non la conoscessi bene penserei di avere una figlia poco seria; lo provocava,


lo costringeva a litigare ancora come ai vecchi tempi. Dopo la sua morte non ha mai più messo piede in una chiesa. Ma è ora che prenda la medicina- Vado a svegliarla - Bravo. E dille che è pronto da mangiare _._

La prima cosa che vidi nella penombra della stanza, aprendo gli occhi, furono i miei pupazzi e le mie bambole in bell’ordine sui ripiani degli scaffali di faggio lungo la parete. Alzai lo sguardo e dal poster preferito della mia adolescenza un magnifico ragazzo dai capelli neri mi rivolse uno sguardo familiare. In quel momento però ero troppo depressa per ricambiarlo. - Ma brava - udii sussurrare al mio fianco - Proprio davanti al letto Mi voltai e lo vidi. Rimasi senza parole, mentre nei muscoli del viso sentivo tremare un bisogno irrefrenabile di sorridere, che non vinsi. - Emmanuel - dissi. Si chinò a darmi un bacio in fronte. Gli passai una mano fra i capelli e li sentii corti e bagnati. Non riuscii a nascondere la tenerezza: ero in quello stato d’animo di sincerità trasognata di chi si sente estraneo al mondo. - Ciao, pulcino - gli dissi - Hai preso la pioggia, vedo. Cos’hai fatto ai capelli? - Me ne sono sbarazzato. Ma non parliamo di me. Come stai? - Meglio, ma sono ancora debole Mi prese una mano. - Sei pallida: hai le palpebre quasi trasparenti - Sono orribile, vero? - Sei bellissima Mi accarezzò i capelli. - Ho avuto paura - Davvero? - Non sai quanta - Ora il peggio è passato - Giuliano mi ha detto che è andato tutto bene Abbassai gli occhi. - Che c’è? Mi nascondi qualcosa? - Non essere ipocondriaco come al solito. Non è nulla di quello che pensi - E allora? - L’operazione è stata piuttosto delicata: forse non potrò più avere figli. Dovrò fare delle cure, sospendere l’uso degli anticoncezionali, sottopormi a parecchi controlli - Mio fratello lo sa? - Certo. È preoccupato, anche se non vuole darmelo a vedere. Ci tiene molto ad avere dei bambini - Che razza di egoista - Non pensiamoci, per favore. Passami la vestaglia e aiutami ad alzarmi - Tua madre ti ha preparato qualcosa da mangiare - Non ho fame - Ti imbocco io Mi infilò la vestaglia e mi prese sotto braccio. - Che te ne pare di mia madre? - gli chiesi mentre ci avviavamo verso il salotto - Una chiacchierona insopportabile, vero? - È molto simpatica, invece Mi sedetti sul divano. Solo allora, voltandomi, mi accorsi di un batuffolo color fuliggine che dormiva in un cestino ai miei piedi. Fu amore a prima vista. - Che meraviglia! - esclamai - Da dove arriva? Emmanuel lo raccolse nel palmo della mano. - L’ho trovato per la strada. Era tutto bagnato, piangeva, si era perso; non ho potuto fare a meno di prenderlo - Hai fatto bene: è assolutamente adorabile Mi guardò accarezzare il gattino. - Dicono che il gatto della propria vita si incontri sempre in una giornata di pioggia disse.


- Non solo il gatto - mi lasciai sfuggire. - Vuoi tenerlo tu? - Oh sì, ti prego Mia madre stava arrivando con un vassoio, che mi appoggiò sulle ginocchia; brontolò un po’, non si potevano tenere animali nel condominio, ma sapevo che in quel momento non avrebbe avuto il coraggio di negarmi nulla. Le diedi un bacio. Sospirò e ritornò in cucina. Emmanuel mi guardò mangiare, imboccandomi di tanto in tanto. Quand’ebbi finito prese il vassoio e lo portò a mia madre. Il gattino si era addormentato in braccio a me, acciambellato sulla mia vestaglia, e ronfava sonoramente. Il televisore di fronte al divano era acceso; la trasmissione era davvero stupida, il solito quiz musicale, ma lui alzò il volume per impedire a mia madre di sentire quello che ci saremmo detti. - Stai molto bene anche così - gli dissi, guardando i suoi capelli corti e il sobrio maglioncino bianco a coste. Gli voltai il viso e vidi che al lobo forato dell’orecchio sinistro non portava più l’orecchino. Lui accarezzò il gattino per sfiorare la mia mano. - Sì, sto davvero meglio - confermò, ed era chiaro che non alludeva all’aspetto fisico. - Adesso - gli dissi - sei pronto per diventare il giovane manager in carriera che i tuoi hanno sempre sognato: ti vedo già elegantissimo, in giacca e cravatta, con la barba appena fatta, chiacchierare con i tuoi amici fumando una sigaretta - Perché non la pipa? - Non fa per te. Sarai splendido, sai? I tuoi amici avranno paura a presentarti le loro mogli, ma sarà tutto inutile. Io intanto sarò diventata una quieta signora ossessionata dalle rughe che prende il tè e gioca a bridge con le amiche - Una prospettiva esaltante - Avrò soggezione di te; me ne starò in disparte con un marmocchio seduto in braccio ad ammirare quel giovane affascinante che mi siede di fronte - Non ti darà fastidio ricordare quello che c’è stato fra noi? - Probabilmente sì; quando mi darai il bacio della buona notte mi farà un certo effetto sentire il tuo profumo di dopobarba e tabacco - Quale effetto? - Be’, non avrò ancora raggiunto la pace dei sensi, dopo tutto - E non avrai la tentazione di sperimentare cosa so fare? - Può darsi, ma ci terrò alla mia rispettabilità - Già, dimenticavo - E poi sarò piena di rughe - Io comunque sarò uno zio affettuosissimo per i tuoi bambini, e fra un party e l’altro, se i miei impegni mondani me lo consentiranno, ti accompagnerò anche a fare shopping in centro - Gentile da parte tua - Ti accompagnerò, beninteso, solo se sarai in ordine, ben vestita e ben truccata, perché sarò abituato a farmi vedere in giro solo con femmine splendide - E poi? Continua, mi diverte - Poi, quando ti riporterò a casa, la mia macchina avrà un guasto improvviso in aperta campagna - Non dire sciocchezze - Ne hai dette tante tu finora Non parlammo più. Mise una mano sulla mia, sopra il gattino addormentato; dovetti impedirgli di ravviarmi una ciocca di capelli che mi scendeva sul viso: la spalliera del divano non avrebbe coperto il suo gesto. Mi guardò con un’intensità da far male. - Non lo farò mai più - disse. - Cosa? - gli chiesi. - Di ferirti - rispose. - Non mi hai mai ferita - Oh sì invece Non ebbi la forza di mentire di nuovo; dimenticai mia madre e lasciai che mi accarezzasse il viso. - Ho capito molte cose - sussurrò. - Ma io non voglio saperle - risposi. - Le scoprirai da sola Continuò ad accarezzarmi.


- Devi promettermi una cosa - disse. - Se posso - Quando starai meglio passerai tre giorni sola con me - Dove? - Lontano da qui - D’accordo, ma ad una condizione: che questo non ti distragga dallo studio. Fra un mese hai la maturità Abbassai la sua mano. - Fermo, sei pazzo? - dissi sottovoce. Stava per baciarmi. Sullo schermo era apparsa una famigliola felice seduta a tavola in aperta campagna di fronte ad un improbabile granaio bianco; il marito, un giovane uomo d’affari in giacca e cravatta, stava facendo una serie di affermazioni inconsulte mentre si alzava per recarsi al lavoro: i bambini lo osservavano, comprensibilmente guardinghi, e la moglie sorrideva indulgente alla sua ebete metà, mentre subiva passivamente il suo bacio e lo guardava allontanarsi gesticolando in preda agli inquietanti effetti dei biscotti che aveva appena inzuppato nel caffellatte. Emmanuel rivolse gli occhi al televisore per qualche istante, poi mi guardò. - Davvero vuoi che mi riduca così? - disse. Non potei fare a meno di ridere. Si trattenne ancora mezz’ora; poi si accorse che ero stanca. Si alzò, prese in mano il gattino e strofinò il naso contro il suo. - Come lo chiamiamo? - chiesi. Lo guardò attentamente negli occhi. - Credo che si chiami Gino. Almeno, così dice lui Lo posò sul mio grembo, mi fece una carezza ed andò a salutare mia madre in cucina; fu lei ad accompagnarlo alla porta. Si voltò ancora un attimo a guardarmi con un cenno della mano, poi sparì oltre la soglia. Mia madre richiuse ed attese qualche secondo; poi disse: - Sarebbe questo il tuo futuro cognato? La guardai candidamente. - Sì, perché? Mi fissò negli occhi severa, a braccia conserte. - Sei proprio sicura, figlia mia, di volerti cacciare in un guaio del genere? -


Gli amori dei Templari

“Nessun maggior dolore...” Anche una persona con un’evidente tendenza all'autodistruzione, come me, non può non arretrare con raccapriccio di fronte al ricordo della felicità sfiorata con un dito e subito irrimediabilmente perduta. Di recente lo psicologo ha tentato un vero e proprio lavaggio del cervello per indurmi a ridimensionare la gravità della perdita, il che significa sminuire l’entità del bene perduto, ma non c’è stato verso di convincermi che in quei tre giorni al mare con lei io non abbia vissuto una condizione di perfetta beatitudine. Tutt’al più posso evitare di pensarci per non farmi inutilmente del male, ma se rievoco alla memoria quei momenti l’evidenza delle sensazioni che provo è tale da rendere ridicolo qualsiasi tentativo di convincermi del contrario. Durante la sua convalescenza le ero rimasto accanto con discrezione, concedendomi soltanto brevi passeggiate e chiacchierate amichevoli; avevo rimandato per settimane l’occasione che attendevo con ansia, in modo da non turbare la sua guarigione. Ora il momento era venuto: lei era stata di parola, aveva accettato di trascorrere tre giorni con me, poco dopo gli scritti dell’esame di maturità, che sapevo, dalle indiscrezioni del commissario interno, di avere superato in modo abbastanza brillante. Eloisa, orgogliosa di me, mi aveva concesso quella breve vacanza quasi come un premio ed una piccola parentesi di relax prima della preparazione dell’orale, che avrei dovuto sostenere solo un mese dopo, fra gli ultimi della mia sessione. Avevo scelto una località della Toscana che conoscevo già e che mi aveva lasciato una specie di buco nell’anima, il desiderio di viverci qualcosa d’importante. Descrivere la felicità è impossibile. Tra quello stato di perfetta pienezza e la sua vivisezione narrativa, che lo riduce a una serie di batticuori, languori, tenerezze, sospiri, carezze, sguardi, sorrisi, con esiti per lo più all'altezza dei messaggi nei cioccolatini, c’è la stessa differenza che passa fra il palpitante contatto con un corpo vivo e l’autopsia di un cadavere. Non capisco gli scrittori. Per quanto mi riguarda, scrivere è una pratica di penoso masochismo: mi lascia lo stesso senso di amarezza e frustrazione dell’amore solitario. Lo scrittore è sempre solo: lo è mentre scrive, e non sa se qualcuno leggerà mai le sue parole; lo è altrettanto mentre la sua opera viene letta, perché non può verificarne l’effetto sul suo sconosciuto interlocutore. Di fatto lo scrittore si trova in una condizione di puro autismo: fra lui e i suoi lettori non c’è alcun rapporto. È meno frustrante la condizione dell’attore o del musicista, che per lo meno hanno la possibilità di assistere di persona alla reazione del pubblico. A volte, per alleviare un po’ la pena di questa tortura che mi infliggo quotidianamente, immagino di rivolgere la parola ad un lettore invisibile che sta dietro le mie spalle e legge quello che scrivo in tempo reale; lo interrogo, ascolto le sue risposte, i suoi commenti; questo mi dà qualche conforto. Poi ritorno in me e mi sento un imbecille: eccomi qui chiuso in camera, seduto al computer, solo, mentre gli altri ridono e giocano a carte al piano di sotto. E mi domando cosa sia mai la vita, che senso abbiano i rapporti umani, quando io quasi quotidianamente sono costretto ad accampare il pretesto di un terribile mal di testa per disertare la compagnia delle persone che mi vogliono bene, a inventare scuse per evitare la presenza della ragazza che dico di amare e potermi finalmente rinchiudere qui a svolgere la sola attività in grado di lenire la mia solitudine: dialogare con i fantasmi. In questo momento, se il mio lettore invisibile esistesse, vorrei chiedergli se abbia mai provato una felicità così intensa da sentire male al cuore. Fisicamente, non metaforicamente. Spero proprio di sì, altrimenti non potrà comprendere quello che sto cercando di dirgli. Durante il viaggio di andata guidavo io, male come tutti gli ubriachi, ora premendo troppo sull’acceleratore, ora rallentando insensatamente, mentre lei, un po’ divertita un po’ preoccupata, rideva e mi diceva di stare attento alla strada; man mano che ci allontanavamo dal mondo conosciuto e ci inoltravamo nello splendido paesaggio delle colline fra le quali sorgeva l’antico casale che avevo scelto come albergo, la mia ebbrezza cresceva: mi guardavo attorno ed accarezzavo con lo sguardo i mezzi toni di quelle crete


rossastre disegnate dai solchi di pettine degli aratri, il dorso ondulato dei colli sormontati da piccole macchie di cipressi, come creste di dinosauri biondi addormentati. Ad un bivio imboccai per errore una stradina secondaria che si inerpicava su per i monti e si perdeva fra boschi di querce, lecci e castagni. Adoro perdermi e non riesco ad immaginare esperienza più beatificante che perdermi con lei. Le dissi abbiamo sbagliato strada, non so dove stiamo andando; lei appoggiò la testa sulla mia spalla e disse vai avanti, da qualche parte arriveremo. Mentre procedevamo a caso sentivo di amarla in un modo che mi spaventava quasi: era davvero quello il senso della vita, andare avanti così con lei senza sapere dove. Ricordo che ad un certo punto, sopraffatto dalla commozione, accostai e mi fermai in una piccola radura fra due maestose querce da sughero secolari; ho bisogno di carburante le dissi; lei obiettò che il serbatoio era quasi pieno, poi sorrise e comprese. La baciai ininterrottamente per un quarto d’ora, poi rimisi in moto. Arrivammo a destinazione che era già buio. L’albergo era bellissimo, ristrutturato con molto gusto, pulito e accogliente: lei ne fu entusiasta. Pretesi di pagare tutto io e non volli sentire ragioni quando si oppose: da qualche tempo la paga settimanale che mi passavano i miei, in precedenza sconsideratamente sperperata, finiva per intero in un apposito fondo cassa: potevo permettermi il lusso di farle trascorrere un fine settimana all’altezza di qualunque aspettativa. Volevo che la sua breve vacanza non fosse turbata dalla minima preoccupazione. Non hai mai notato, lettore immaginario, che per lo più, quando ripensi a certi periodi del tuo passato, non ti viene in mente nient’altro che un singolo dettaglio? È come se la sensazione che hai provato in un lungo arco di tempo si fosse concentrata in un particolare, per lo più insignificante: e quel particolare ti resterà per sempre impresso nel ricordo. Io conservo di quei due giorni una serie di istantanee di felicità che ritraggono solo dettagli: il suo vestito bianco con la gonna ampia cosparsa di papaveri rossi, il suo spazzolino da denti accanto al mio, il suo viso leggermente abbronzato, di nuovo sano, il suo sorriso fiducioso mentre si appoggiava alla mia spalla passeggiando per le vie del paese di sera e diceva la gente penserà che hai una mamma molto affettuosa, io che la correggevo baciandole i capelli, se mai una sorella maggiore, poi la gita al mare, quell’angolo di spiaggia fra gli scogli, una specie di piscina naturale con l’acqua di una incredibile trasparenza, noi due sdraiati sul bagnasciuga a prendere le onde, i tuffi da un alto scoglio, il fondale marino ricco di forme di vita che le indicavo sott’acqua tenendola per mano, le cene nel déhors del ristorante, a lume di candela, noi così distratti da rovesciare il vino a forza di ridere e guardarci negli occhi, i vicini di tavolo sussurranti, lei improvvisamente imbarazzata, io che la baciavo ostentatamente davanti a tutti, poi la spiaggia sotto il chiaro di luna a piedi nudi, io fermo di fronte alla distesa nera del mare a respirare l’odore delle alghe notturne, lei fra le mie braccia con la schiena appoggiata al mio petto, in silenzio. Smetto perché sono già nauseato. Rileggendo questo elenco ho avuto l’impressione di scorrere il testo di una canzonetta di Sanremo. Non assomiglia affatto a quello che provavo. Ho omesso di proposito quello che succedeva dopo, e non per un’improvvisa reticenza, ma semplicemente perché non succedeva nulla. Il nostro accordo continuava a proibire il sesso, e il fatto di ritrovarci soli per tre giorni, di dormire nello stesso letto, non cambiava niente. Sapevo benissimo che era difficile, ma su questo punto ero assolutamente intransigente; avevo i miei buoni motivi per esserlo. La prima notte, ricordo, lei si strinse contro il mio pigiama di cotone azzurro, troppo ingenua cintura di castità. Fermai la sua mano. - Non vuoi proprio? - mi chiese. - No - Da quanto tempo non lo facciamo? - Un paio di mesi, non è poi molto - Non ti piaccio più? - Non dire sciocchezze - Ma perché? - Perché ci ha fatto male, Eloisa. Non solo a te: anche a me. Mi ha confuso le idee. Questi due mesi mi sono serviti per disintossicarmi. Ora mi sento perfettamente felice- Perché? - chiese nuovamente.


- Perché so che potrà durare Mi ero sbilanciato un po’ troppo. Non parlai più. Lei mi accarezzò una mano e dopo qualche minuto si addormentò con la testa sul mio petto. E venne il terzo giorno, l’ultimo. Preparavo quel momento da tempo; lo avevo immaginato, studiato, ripetuto infinite volte nella mia mente, in modo che ogni singolo particolare fosse perfetto. Infatti tutto il copione si svolse secondo le mie previsioni, eccezion fatta per un dettaglio: qualcuno aveva cambiato il finale. La buttai giù dal letto di buon’ora: ricordo che era molto assonnata e non voleva saperne di svegliarsi così presto; mi si strinse contro con un sospiro e cercò di trattenermi, ma io non volevo sprecare neppure un minuto di quella preziosa giornata e la costrinsi ad alzarsi facendole il solletico. C’era, in quella zona, il maestoso rudere di una chiesa gotica che pareva avesse ospitato anticamente i riti dei Templari: sorgeva in mezzo ai campi, svettando fra il giallo dei girasoli e il blu del cielo. Erano le otto del mattino di un giorno feriale quando giungemmo fra quelle sublimi rovine: non c’era ancora nessuno. Rimase incantata dallo spettacolo: la rivedo ancora in un indimenticabile controluce, i capelli dai riflessi di rame, l’abito bianco e rosso, immobile di fronte alla pallida ossatura della chiesa, mentre i girasoli, pudichi e concordi, voltavano il viso dalla parte opposta ed io, seduto in una bifora del chiostro diroccato, ringraziavo Dio di esistere. La presi per mano e la portai all’interno della chiesa. Vaste zone del pavimento, ormai quasi scomparso, erano sostituite da chiazze d’erba; il tetto era completamente crollato: sopra di noi, oltre lo scorcio dei muri di travertino, il cielo a perdita d’occhio. Mi sedetti in una nicchia che si apriva lungo una delle navate laterali, sotto il rosone dal quale filtravano i raggi del sole mattutino, e la accolsi sulle mie ginocchia. La larga gonna si aprì a ruota sull’erba. Il silenzio era irreale, rotto solo dal battito d’ala e dal sommesso tubare dei piccioni che volavano da una parete all’altra, raggiungendo i loro nidi nelle sconnessure dei mattoni. In alto, davanti a noi, un albero aveva messo radici nella nuda pietra su cui un tempo poggiava il tetto: viveva succhiando gli umori della polvere disciolti dalla pioggia e si stagliava nitido nell’azzurro profondo del cielo; mi colpì la sua forza, la sua fierezza, il suo evidente orgoglio di essere vivo. Le presi il viso fra le mani e la guardai negli occhi. - Ora, - le dissi seriamente - se vuoi, possiamo farlo - Qui? - Sì, qui Si guardò intorno: eravamo soli. La gonna candida e scarlatta aperta su di noi non lasciava intravedere nulla. Rimasi seduto. Mi baciò con un trasporto incredibile; la interruppi con dolce fermezza: - Non così - Perché? - Non serve a niente tutto quello che abbiamo fatto, se commettiamo di nuovo il medesimo peccato - Quale peccato? - Avidità, amore. Non sono un gelato o una fetta di torta. Guarda nei miei occhi: ci sono io, qui dentro Mi guardò, sembrò comprendere, fece segno di sì con la testa. Le accarezzai il viso e sussurrai: - Ho sempre pensato che mi sarebbe piaciuto riavere la mia verginità per regalartela di nuovo. Prendila, Eloisa Non so descrivere il suo sorriso. Intrecciai le mie dita alle sue, mi impadronii del suo sguardo e non lo lasciai più. Tutto avvenne in assoluto silenzio. Passarono le nuvole nel cielo, passarono i raggi del sole al tramonto fra i merletti del rosone, passarono i corvi di Van Gogh sulla distesa gialla dei girasoli, passarono secoli di buio, passarono i Templari a cavallo con gli scudi crociati, si amarono all’ombra di quelle pietre, passò l’incendio sopra le nostre teste, crollarono le volte del soffitto, passò la pioggia a spegnere il fuoco, passò il vento a portare i semi tra le pietre, a far nascere l’erba, e mentre germogliava il primo esile stelo io avvertii una sensazione indescrivibile, una specie di sisma dell’anima, irradiarsi da me verso di lei attraversando tutto il suo corpo; fu presa da un tremito incontrollabile, le mancò il respiro, per un attimo credetti che morisse: vidi le


sue pupille dilatarsi, il suo sguardo sciogliersi, velarsi, spegnersi; persi la coscienza nei suoi occhi e fui soltanto linfa, fresca giovane linfa che inondava le radici, il tronco, la chioma inaridita dell’albero e gli donava la vita. Quando ritornai in me mi sentivo completamente svuotato e lei mi guardava smarrita, respirando a fatica. - Cosa mi hai fatto? - chiese. Le accarezzai i capelli. - Credo che abbiamo fatto l’amore, Eloisa - È una cosa tremenda - disse. - È una cosa sacra - la corressi. Scivolò a sedere accanto a me, nell’erba. Tremava, appariva sconvolta. Mi inginocchiai di fronte a lei. - Devo dirti una cosa importante - Non voglio sentirla Le alzai il viso e la costrinsi a guardarmi negli occhi. - Devi sentirla Respirò profondamente e mi ascoltò. - Sono passato attraverso l’inferno prima di capire il senso di tutto questo. Ho cercato le risposte più banali e quelle più assurde, sono diventato la scimmia di me stesso, ho buttato via quello che avevo di più bello. Ma alla fine ho capito - Cosa? - chiese con un filo di voce. - Che non è impossibile. Impossibile perché? Perché il tuo corpo invecchierà più in fretta del mio? È così breve la vita rispetto al tempo infinito, un decennio è un attimo, è nulla. L’anima non ha età. Siamo anime di bambini, Eloisa. È questa la risposta che cercavo Pareva sul punto di piangere. - So che cosa pensi - ripresi - Ci sono limiti biologici per una donna, esigenze sociali alle quali non riesci a sottrarti. Ma ho quasi diciannove anni, fra poco sarò un uomo: posso lavorare, so darmi da fare se voglio Chiuse gli occhi. Le accarezzai il viso. - Guardami - le dissi. Riaprì gli occhi con un’espressione di profonda sofferenza. - Ti sto chiedendo di sposarmi, Eloisa Per un attimo rimase ferma in silenzio, tramortita. Poi si alzò di scatto, come morsa da un serpente, scrollando via da sé qualcosa di invisibile, il mio contatto forse, si strinse convulsamente le braccia con le mani, scosse la testa, volle parlare, non ci riuscì, disse soltanto no. Infine mi guardò, contratta da una specie di dolore allo stomaco, gli occhi iniettati di sangue: - Io non credevo, - disse - davvero non credevo - Che cosa? - le chiesi sbigottito. - Che tu potessi essere così cattivo, così maledettamente cattivo con me. Ma perché? Cosa ti ho fatto? Sono stata tutto quello che hai voluto, madre sorella amica puttana suora, ma non basta, no, tu vuoi sperimentare fino in fondo il tuo potere, vuoi distruggermi nel ridicolo, mi vuoi morta. Tu mi vuoi morta! Scoppiò in un pianto irrefrenabile. Stavo andando in frantumi. Mi alzai e feci per avvicinarmi a lei, ma ebbe una reazione violentissima: mi respinse da sé gridando non toccarmi. Corse via singhiozzando e ripetendo ti odio. La vidi allontanarsi come in sogno in una fuga di archi a sesto acuto. Caddi a sedere su un blocco di pietra. Non so per quanto tempo rimasi così, incapace di comprendere dove avessi sbagliato. Poi il silenzio che mi circondava mi diede una fitta tremenda al cuore: mi alzai e corsi fuori a perdifiato, con un orribile presentimento. Lei era già lontana: aveva fatto l’autostop e qualcuno si era fermato a caricarla. Corsi verso l’automobile, che avevo parcheggiato all'ombra di un filare di tigli, e mi lanciai in un inseguimento disperato. Ma ero completamente fuori di me, non ricordavo più nulla, tremavo tutto, vedevo a malapena la strada, dovevo asciugarmi gli occhi di continuo; sbagliai strada, mi persi in un dedalo di viuzze sterrate fra boschi di querce, lecci e castagni e improvvisamente fui travolto dalla ciclicità della situazione, dall’analogia atroce: tutto finiva com’era cominciato. Fermai la macchina davanti a un muro diroccato e piansi disperatamente per un quarto d’ora, singhiozzando con il viso nel sedile vuoto accanto a quello di guida. Poi ritrovai un minimo di lucidità. Cercai di concentrarmi: ricordo che fissai per più di un quarto d’ora un minuscolo ragnetto rosso che camminava tra le crepe del muro, dipanando i miei pensieri lungo le geometrie


essenziali dei suoi andirivieni. Rammentai di avere una cartina stradale nel cassetto del cruscotto, riuscii ad orizzontarmi, raggiunsi la via principale. Mentre correvo all’impazzata fui costretto ad inchiodare all'uscita di una galleria, per non tamponare l’ultima automobile di un lunghissimo corteo nuziale che procedeva nella mia stessa direzione strombazzando in modo assordante. Provai un moto di autentico odio per quegli sconosciuti che mi stavano causando un dolore atroce, sterzai bruscamente e li superai ai duecento all’ora. Mi mandarono al diavolo. Quando finalmente arrivai all’albergo mi precipitai in camera facendo gli scalini tre alla volta. Trovai l’armadio aperto: tutte le sue cose erano scomparse, insieme alla sua valigia. Aveva dimenticato solo lo spazzolino, che si appoggiava al mio nel bicchiere sulla mensola del bagno. Crollai sul letto e non pensai più a nulla. _._ Quando mi svegliai, dopo un sonno confuso, non soffrivo più: ero animato da una determinazione lucida e folle, inesorabile. Sarei andato immediatamente a riprendermela, l'avrei trattata come desiderava, come meritava; me la sarei fatta sul pavimento senza nemmeno aspettare di arrivare in camera, e tanto meglio se ci avessero visti: sarebbe stata la fine di una farsa indecente. Una fretta ansiosa cominciò a divorarmi: avevo già perso troppo tempo. Ero in preda ad una incontrollabile eccitazione nervosa, prossimo all'isteria: le mie mani tremavano mentre mi vestivo, serravo le mascelle per non battere i denti, non riuscivo a coordinare i miei gesti. Ingoiai qualche tranquillante e mi sforzai di compiere tutto il viaggio di ritorno in uno stato di narcosi. Vi riuscii anche troppo bene, tanto che rischiai un paio di volte di finire contro il guard-rail; non avevo più neppure la lucidità per raggiungere una piazzola di sosta: dovetti fermarmi sotto un viadotto, nella corsia di emergenza. Reclinai il sedile e mi distesi; ricordo di avere rimpianto in modo straziante la compagnia di Tegame: se fosse stato lì accanto a me, sul sedile posteriore, non mi sarei sentito così solo; mi sarei addormentato tenendogli la zampa, con il viso immerso nel suo rassicurante odore di pane ammuffito. Piombai in un dormiveglia affannoso e feci uno strano sogno. Ero arrivato a casa e cercavo di attraversare di corsa il giardino, ma le mie gambe erano molli e lente e i miei piedi sprofondavano nella ghiaia del viale come nel fango, si incollavano sul marciapiede. Finalmente riuscivo ad entrare e mi dirigevo a colpo sicuro in salotto, dove sapevo che avrei trovato lei. La vedevo di spalle, seduta sul divano. Si voltò: indossava un abito candido, un velo le copriva il viso. Non parlò, non le dissi niente. Mi avvicinai a lei, la afferrai per i capelli e cominciai a trascinarla come un sacco, con immensa fatica, attraverso i campi, fino ad uno scantinato semidistrutto. La presi fra le braccia ed attraversai la soglia: poi la deposi a terra, la feci rotolare con un calcio giù dalle scale, la gettai contro il muro, sotto un arco a sesto acuto, in un angolo buio. Afferrai con entrambe le mani la sua testa velata e cominciai a sbatterla violentemente contro la parete di mattoni, più e più volte, ma una strana forza tratteneva i miei gesti e li rendeva inefficaci. Lei rideva sommessamente e si lasciava sbattacchiare qua e là come un pupazzo. Alla fine riuscii a spaccarle il cranio: vidi schizzare il sangue sul candore dell'abito. Cercai di aprire la sua testa con le mani, lacerai il velo, immersi le dita nel suo cervello. Inarcò la schiena con un lungo gemito, svenne. Allora afferrai i suoi polsi e li infilai negli anelli di ferro che sporgevano dal muro, le strappai il vestito bianco e cominciai a violentarla al rallentatore. Lo sforzo era enorme, volevo gridare ma ero completamente afono; la disperazione si fece sempre più acuta, insopportabile, si dissolse in intenso piacere. Decollai, il battito delle mie ali divenne fitto e frequente: non avvertivo più alcuna fatica. Rimanevo in quota scivolando sulle correnti, lei pulsava all'unisono con me, il ritmo delle sue contrazioni era leggero e regolare: le sussurrai di non preoccuparsi, avrei continuato così fino ad ucciderla, fino a morire, senza smettere neppure per un istante. Provavo una meravigliosa sensazione di benessere: mi levavo sempre più in alto, mentre il sole emetteva una luce intermittente, un sibilo acuto come di sirena. Sentivo picchiettare la pioggia alla finestra dello scantinato; cercai di non badarvi, ma il ticchettio si fece più insistente: non era pioggia, era grandine. La finestra era proprio sopra di lei, il vetro era rotto: la grandine poteva


farle del male. Alzai un braccio per chiudere le imposte, aprii gli occhi, vidi un poliziotto che bussava al finestrino della mia automobile. Mi riscossi e mi alzai a sedere, completamente frastornato. Abbassai il finestrino. - Non può sostare nella corsia di emergenza - disse - Si tolga immediatamente, prima che faccia il verbale Mi scusai, rimisi in moto e mentre ripartivo colsi attraverso il retrovisore lo sguardo di riprovazione che scambiò con il suo collega, brontolando qualcosa a proposito dei giovani che si sballano in discoteca fino alle quattro del mattino. Mi sentivo rintronato, i sedativi mi avevano messo una insopportabile arsura: mi fermai ad un’area di servizio, bevvi un caffè e trangugiai un litro d’acqua. All’uscita il sole accecante mi diede una fitta agli occhi: mentre inforcavo gli occhiali mi si avvicinò una zingara; prima che io potessi reagire mi afferrò una mano e cominciò a leggerla, sfiorando il mio palmo con le dita sudicie. Mio fratello non ha mai potuto soffrire gli zingari, che rappresentano l’esatto contrario del suo ideale di vita; io invece mi sentivo confortato dal suo contatto. - Tu male - disse - Tu desperado. Io può togliere male, vuoi? Le sorrisi sfinito: - Perché no? - Prende questo - mi disse, consegnandomi un piccolo gomitolo di filo aggrovigliato. Chiuse le mie dita a pugno nelle sue e cominciò a pronunciare incantesimi incomprensibili in chissà quale oscuro miscuglio di linguaggi, accarezzando l’aria con movimenti circolari dell’altra mano aperta sopra la mia. Dischiuse il mio palmo ed ebbe una piccola esclamazione di sorpresa: il groviglio si era completamente sciolto, il filo scorreva docile tirato dalle sue dita. Apprezzai il gioco di prestigio e lo ricompensai adeguatamente. Poi mi diressi alla macchina. Fu solo al casello autostradale che mi resi conto, aprendo il portafogli per pagare e trovandolo completamente vuoto, che la scaltra prestigiatrice era capace di trucchi più raffinati. Dante colloca i traditori di chi si fida nel più basso cerchio infernale; da quel giorno sugli zingari la penso esattamente come mio fratello. Dopo aver compilato un lungo verbale al casello mi diressi verso casa. Attraversai il giardino di corsa come nel mio sogno, con le gambe altrettanto molli, ed entrai in salotto: ma invece di Eloisa trovai mio fratello, seduto sul divano con mio padre e mia madre. Era strano: doveva essere in viaggio per lavoro (di qui la scelta di quel periodo per la mia vacanza con lei). Mi tolsi gli occhiali da sole e li salutai con un sorriso di circostanza. - Che bella abbronzatura - disse Giuliano - Com’è andata la gita in montagna? - Nulla di speciale - risposi evasivo. - Noi invece abbiamo grandi notizie - disse mio padre. Notai che mia madre lanciava occhiate gelide a Teresa, che si affaccendava in attività superflue e toglieva ragnatele invisibili. - Grazie, Teresa, può andare - le disse. - Ah sì? - risposi. - Giuliano ed Eloisa si sposano fra quindici giorni Giuliano allargò le braccia sorridendo: - Non so che dirti, fratellino. Dopo l’operazione è diventata fragile e superstiziosa come una bambina. Mi ha telefonato, mi ha supplicato di ritornare, di affrettare il matrimonio; vuole sposarsi il giorno del suo compleanno, dice che ha paura che le succeda qualcosa, non ho capito cosa, stupidaggini. Ma le voglio bene, non ho saputo dirle di no Non riuscii in nessun modo ad incassare il colpo. Sbiancai, vacillai credo, tanto che mio fratello si alzò, mi si avvicinò e mi circondò le spalle con un braccio. - Ehi, fratellino, - disse affettuosamente - su col morale: non vado mica al patibolo - Congratulazioni - dissi, e indietreggiai con il sorriso di un folle. Andai a sbattere contro Teresa, la guardai, aveva le lacrime agli occhi. Uscii di corsa dalla stanza, dalla casa, dal giardino, dalla strada, dai campi, dal mondo. Avevo una voglia disperata di farmi del male. Mi rifugiai nel fienile e mi gettai a braccia aperte nella paglia, graffiandomi il viso a sangue. Persi la nozione del tempo. Attesi la morte, a lungo, a lungo. Ma non arrivava mai, non sentivo i suoi passi sulla scala a pioli.


Era quasi notte quando riemersi da quello stato di incoscienza. Avevo fatto il pieno di endorfine in quei tre giorni e il dolore che provai ritornando in me mi spezzò quasi il cuore. Rimasi a lungo seduto così nella paglia, piegato in due, respirando a fatica e comprimendomi il petto con le mani. Compresi che quella volta non ce l’avrei fatta. Avevo bisogno di aiuto, e c’era solo una persona che poteva darmelo.


Notturno dell'eroe sconfitto

- Guarda chi si rivede. Lo sai che ora è? - L’una passata - Stavo scopando, se permetti finisco - Sei con Matteo? - No, Matteo non l'ho più visto, non so che cazzo di fine ha fatto. Se mai dovresti saperlo tu, non era il tuo fidanzato? - Aspetto qui _._ - I soldi li hai? - Sì - Bene, entra. Ma che brutta cera hai, che t’è successo? - Niente - Faccio una doccia e sono da te - No ti prego, subito - Okay okay, calma. Siediti sul letto, arrivo - Fai presto - Sono mesi che non ti fai vedere, com’è che adesso sei così impaziente? Togliti la camicia, dammi il braccio. Che bei muscoli ti son venuti, complimenti. E quanto sei abbronzato, sei stato al mare? Stringi il pugno, così. Be’, non dici niente? Hai perso la lingua? - Finiscimi Gerti, per favore - Senti, se sei in vena di sparar cazzate ti metto subito alla porta - Sul serio, sto da cani, non mi va di morire un po’ per volta - Sei ridicolo. Se vuoi farla finita fai pure, ma non in casa mia, chiaro? - Non preoccuparti, tu fallo, tanto un posto vale l’altro per crepare, me ne vado anche per la strada - Sì, e magari alla stazione come Tolstoj. Ma chi sei, Anna Karenina? Non fare il coglione, c’è tempo per crepare. Apri il pugno. Non irrigidirti, sennò fa male e poi ti viene il livido. Ecco, bravo, così. Adesso distenditi, rilassati, goditi il viaggio - Da solo? - Io stasera non ho voglia - Sei arrabbiata con me? - No, perché dovrei? È solo che mi domandavo con chi cazzo sei stato per ridurti così. Ne è valsa la pena almeno? - Non è importante, niente è più importante - Non è importante dice. Sei patetico, frocetto - Michelle - Non chiamarmi Michelle. Mai più, capito? - Gerti - Sì - Dove sei? - Sto qua - Sento un freddo terribile - È che non ci sei più abituato. Vieni qui, appoggiati a me, metti la testa sulla mia spalla. Smetti di tremare, va tutto bene. Ti faccio un massaggio, vuoi? Che strazio, neppure un po’ di eccitazione, stai messo male frocettino mio. Vediamo se mi riesce di rimediare, aiutami a toglierti i pantaloni. Ma che t’è saltato in testa di tagliarti i capelli? Adesso mi toccherà metterti la parrucca - Non posso più Gerti, davvero - Per favore non metterti a piangere. E vabbe', allora piangi. Posso almeno sapere qual è il problema? - Lei non ne vuole più sapere di me, le faccio schifo - Schifo tu? Ma dài - Non si fida di me, sono solo un ex tossico. Si sposa domani con mio fratello - Scusa se rido sai, ma il concetto di ex tossico mi sfugge - Dio, ha ragione lei, faccio schifo davvero, voglio morire -


- Sul serio frocetto, ma che mi sei diventato, un coglione romantico? Non credevo che fossi così stupido da innamorarti. Uno con i tuoi numeri, poi. Ma non ti rendi conto che cazzata è l’amore? - Sì Gerti. Stringimi _._ Dov’è finita la luna? Eccola. Ce ne sono due stasera. Identiche. Un'aria ferma, densa. Ombre di vaniglia nel cielo spento, le nuvole si spostano lentamente, entrano nel fienile, sono viola. Verdi. Di nuovo la civetta, il pianto dell'assiolo. Il fiume tace, non un alito di vento accarezza la pelle fredda del serpente. Scivola in vestaglia il topo di nuovo, di nuovo, ti sento piccolo bastardo dove sei. Ma quante volte ancora, ho freddo sono solo. Stringo i denti, trattengo il respiro, non è facile, davvero tutto questo non è facile. Un respiro profondo, su bello coraggio è fatta, stai morendo. Ed è giusto che accada proprio qui. L'amore con la vita, l’amore con la morte, perché finisce sempre? Quel giorno, ricordo, c'era una luce piatta, e lei alzandosi con un sorriso indolente. Fa freddo stanotte. Guardava la distesa del mare, stagnante metallo liquido. Indugia sul gancio del costume, la schiena abbronzata. Il gancio scatta, la stoffa elasticamente si ritrae. Guardare e non toccare, siamo anime di bambini. Un sorso di candeggina per ritornare vergini. Un altro brindisi, amore? È un po’ forte ma fa bene. Ci sei? Oh sì sei qua. Chi sei? Comincia, finalmente. Dicevo. Cosa dicevo? Vergine guerriera, corpo androgino, fianchi stretti di ragazzo. Affronta le onde con l'acqua al ginocchio. La carezza fredda sale sull’inguine, rovescia la testa all'indietro. Fende l'acqua, è lontana, le braccia si alzano ritmicamente. Sono solo. No ti sento. Toccami. Toccami adesso, con le tue dita di ghiaccio. Ancora ancora così ti prego non finire mai. Di chi sono queste mani? Rido convulsamente. Mi sfugge un singhiozzo che nessuno ascolta. Dio, c’è davvero qualcosa di comico in tutto questo, sai dirmi cosa per favore?


Cuore di mamma Ore 20,30. - Mangia qualcosa: ti ho preparato la pasta con le cime di rapa - Grazie mamma, non mi va. Mettila in forno per domani - Magari se esci ti viene appetito. Vai a farti una bella pizza con gli amici, dammi retta. A proposito, ha telefonato una ragazza per te - No, per carità, che ragazza e ragazza - Dicevo così per dire. Vuoi stenderti un po' sul divano? - Eh, magari una mezz'oretta. Che c'è alla televisione? Ore 1,20. - Possibile che ti trovo di nuovo a dormire colla testa sul tavolo? Non puoi continuare così, figlio mio - Che ci vuoi fare, ma' - Che c'è, stai piangendo? - No, figurati se sto piangendo - Quant'è che non lo vedi? - Quattro mesi - Povero figlio mio - Dio, non è che chiedo niente per me. Vorrei solo sapere dov'è, come sta - Io l'avevo capito subito da come lo tenevi in braccio, gli reggevi la testa contro la spalla che manco un neonato. Pareva un angelo - È tanto bello. Io in confronto sembro uno scimmione - Ma che scimmione, sei bellissimo pure tu. Siete due bellezze diverse - Mi dispiace. Non volevo farti vergognare - Vergognare? E perché? - Perché è una vergogna, non è mica normale. Cioè, era più normale se m'innamoravo di una ragazza - L'amore è amore figlio mio, non puoi farci niente. Adesso vai a dormire, t'ho preparato la borsa dell'acqua calda. Vedrai che tutto s'aggiusta -


Labirinti

- I parenti dello sposo un po' più a sinistra... Così... Fermi, per favore Lisciai la gonna del tailleur azzurro e sorrisi. Il flash mi abbagliò per un attimo, poi finalmente fummo liberi dal rituale delle foto di gruppo. Mi era sembrata una follia affrontare un viaggio di cinquecento chilometri per presenziare alle nozze del figlio di un collega di mio padre; se non fosse stato per le insistenze di mia madre, sempre sensibile al richiamo delle formalità, sarei rimasta a prendere il fresco in villa con Luca, che da qualche tempo era diventato il più assiduo dei miei corteggiatori. Peccato che fosse anche il più noioso. Erano tutti noiosi per il fatto stesso di essere innamorati di me; diffidavo fin dalla nascita della generosità con cui la sorte dispensa l'ammirazione dei giovani maschi alle belle ereditiere. Quel giorno mi sarei dunque annoiata, come di prammatica, se non fosse stato per un filo sottile che da qualche ora, mio malgrado, continuava ad attirare i miei occhi in una direzione, sempre la stessa. Detesto fissare le persone ed essere fissata, ma c'era, tra i parenti dello sposo, un ragazzo da cui non riuscivo a distogliere lo sguardo. E non perché fosse bello. A parte il fatto che non è nel mio stile guardare i bei ragazzi (preferisco lasciare l’iniziativa a loro), a me piacciono gli uomini veri, sicuri di sé, forti, possibilmente bruni; dev'essere un fatto cromosomico: nella mia regione non è frequente il biondo; noi toscani, pare, non siamo di origine indoeuropea. Lui era esattamente l'opposto: emanava un fascino perverso, una seduzione inconsapevole e malata. Quella curiosità che i miei insegnanti interpretavano come "indizio di non comune vivacità intellettuale", e che faceva di me una studentessa brillante, mi rendeva imprudente, incapace di sottrarmi al fascino dei fenomeni che sfuggono alla logica, anche se sgradevoli o pericolosi. Ed era impossibile classificare in base alle mie categorie mentali, forse un po' troppo aristoteliche, l'effetto che faceva su di me quel ragazzo, soprattutto il suo sguardo. Potrei dire che sentivo una sirena d’allarme. Mi guardavo attorno e mi domandavo se fossi l'unica a sentirla. Il naufragio si stava verificando sotto gli occhi di tutti, possibile che nessuno se ne accorgesse? Già durante la funzione era apparso stordito: non si alzava, non si sedeva mai al momento giusto; la signora bionda accanto a lui, composta ed elegantissima, lo fulminava con gli occhi, ma lui non dava segno di avvedersene. Al momento della celebrazione del matrimonio, mentre gli sposi si giuravano eterna fedeltà, aveva avuto un accesso di tosse e s'era portato il fazzoletto alla bocca con una strana espressione: avrei giurato che stentasse a trattenere le risate. Poi aveva sbuffato ma' si crepa di caldo, s'era alzato ed era uscito. Non era più rientrato. Lo avevo rivisto poco dopo davanti alla chiesa, seduto su un gradino a gambe larghe con la giacca buttata in spalla, le maniche della camicia rimboccate e i capelli scarmigliati, gli occhiali da sole per nascondere lo sguardo. Non so se si rendesse conto di essere inopportunamente sexy. Provavo una profonda vergogna per lui. Ma tutti erano troppo distratti dagli sposi: si accalcavano intorno a loro, applaudivano, gettavano manciate di riso, pretendevano il bacio, il rituale lancio del bouquet. Nessuno si accorgeva di lui, tranne, mi parve di notare, la sposa stessa, che, elegante nell'abito corto color crema, gli rivolgeva di tanto in tanto brevi sguardi inquieti, che lui non ricambiava. Quando mi feci avanti tra la folla degli invitati per felicitarmi con gli sposi lo vidi improvvisamente accanto a me, così vicino che sentii il suo profumo, in verità sensualissimo: era venuto il suo turno di baciare la sposa. Mentre lo faceva lo udii distintamente sussurrare: - Cento di questi giorni, mia cara - Lei sorrise inespressiva e si chinò a baciare un altro. Più tardi, durante il banchetto, presi posto fra i ragazzi, che avevano una tavolata a parte. Chiacchieravo del più e del meno con i miei vicini e l’osservavo senza essere notata, perché il grande specchio del ristorante rifletteva la sua immagine di fronte a me. Vidi che non toccava quasi cibo. Ad un certo punto si alzò e si allontanò. Ero certa che fosse andato in bagno a vomitare. Quando rientrò aveva il volto livido e contratto, s’era tolto la cravatta e aveva sbottonato il colletto della camicia; colse il mio sguardo attraverso lo specchio e mi fissò un attimo di troppo: la sensazione che mi comunicò mi diede una stretta allo stomaco, fortissima. Abbassai gli occhi e mi sforzai di non guardarlo più.


Trascorse una ventina di minuti. Nella baldoria generale nessuno si accorse che la sposa s'era alzata ed era uscita dalla sala. D'istinto rivolsi lo sguardo verso di lui: non c'era. Combattei a questo punto una lotta accanita contro me stessa, cercando di dominare l'impulso di andare a cercarlo. Persi la battaglia. Nell'atrio del ristorante non c'era, in bagno neppure. Entrai anche in quello degli uomini, fortunatamente vuoto. Ne approfittai per ritoccarmi il trucco e rimettermi a posto i capelli, non potendo fare a meno di constatare quanto fossi carina quel giorno. Mentre ritornavo in sala li vidi per caso: la sposa era uscita in giardino per sovrintendere ai preparativi del ballo all'aperto e lui l’aveva raggiunta. Non c’era nessuno. Si sentivano lontane note di valzer. Mi fermai sulla soglia, di dove potevo udire le parole che accompagnarono la breve scena che seguì. - Balliamo, signora? - disse lui cingendole la vita. Lei si divincolò, ma lui non la lasciò andare. - Ci vedono, contròllati - le disse sarcastico. Lei si liberò con uno strattone. - Sei ubriaco - gli disse con sdegno, e si allontananò a passi rapidi attraverso il giardino. La signora era, o voleva essere, poco perspicace. Io invece non ebbi il minimo dubbio sulla natura del suo stordimento. Sulle prime non si mosse. Rimase con lo sguardo fisso sul giardino assolato. Poi si voltò, mentre io scivolavo non vista dietro un paravento, attraversò l'atrio con passo deciso, uscì, raggiunse il parcheggio, aprì la portiera. Se ne va, pensai. Provai una stretta al cuore. Ma non fu così: si chinò a prendere qualcosa nel cassetto del cruscotto e rientrò nel locale, con lo sguardo febbricitante e i muscoli della mascella che guizzavano in contrazioni spasmodiche. Si stava dirigendo verso il labirinto vegetale del giardino all'italiana. La sirena d'allarme era assordante: dovevo fare in fretta. Entrai fra le verdi pareti di bosso, che sotto il sole estivo esalavano un odore un po' stordente, seguii le sue impronte sull'erba e dopo qualche giro vizioso finalmente lo vidi seduto su una panchina di pietra, le spalle appoggiate alla spessa muraglia della siepe, gli occhi chiusi. - Ciao - gli dissi, come se fosse normale. Aprì gli occhi e mi rivolse uno sguardo senza collera, semplicemente vuoto. Stentava a connettere. - Chi sei? - Arianna; e tu? - Emmanuel - Il fratello dello sposo? Annuì. La faccenda stava assumendo contorni grotteschi. - Vorrei restare solo, Arianna - Lo so - Lo sai? E allora scusami, perché cazzo non te ne vai? Abbassai gli occhi e mi sentii arrossire. - È stato più forte di me: ho sentito che eri in pericolo- Ma chi sei? Il mio angelo custode, un miraggio, una semplice rompipalle? O mi sono già fatto senza neppure accorgemene? - Vuoi che ti declini le mie generalità? D'accordo. Arianna Martorelli, nata a Siena il 15 febbraio 1979, segno zodiacale Acquario, professione studentessa presso il liceo classico Piccolomini di Siena. Mio padre è socio d'affari con il tuo, ma questo non ha molta importanza - Infatti, non ne ha proprio nessuna. Grazie dell’interessamento, e adesso vattene - No, non me ne vado - dissi, incrociando le braccia - Picchiami, se vuoi, ma non ci sto ad essere complice di un suicidio. Hai già della roba in corpo, si vede. Andresti in overdose Tacque, raccogliendo le idee. Poi finalmente parlò. - Senti Arianna, sei gentile, ma ti prego di lasciarmi in pace. So quel che faccio - Dicono tutti così, finché non li trovano stecchiti - Ti ripeto, so benissimo cosa rischio - E allora perché lo fai? Sorrise con un'espressione terribile. - Prova a indovinare -


- Con una pistola faresti prima - gli risposi duramente. - Detesto la violenza; così è diverso. È come una mamma cattiva che prima o poi, mentre ti sta cullando, ti pianta i tacchi a spillo nel cuore - È un paragone ripugnante: dovresti vergognarti - Insisto, Arianna, non sono cazzi tuoi. Vuoi andartene, per favore, o me ne devo andare io? Ormai non torno più indietro, ho fretta di finire Decisi che doveva piantarla di trattarmi come un'oca. Lo fissai con severità. - E così sei disposto a tutto pur di rovinare il giorno del suo matrimonio Touché. Mi guardò senza rispondere, per la prima volta stupito. - È una specie di vendetta - continuai - o speri che lei pianga per te? Aspetta, fammi indovinare: tutt’e due le cose, non è vero? Rimase in silenzio, continuando a fissarmi. Poi disse: - Diciamo che è un modo come un altro per evitare l’esame di maturità: avrei l’orale fra due giorni - Non vuoi presentarti? - Guardami: ti sembro in condizione di sostenere un esame? - Negli ultimi tempi devi avere avuto altro per la testa che studiare. Ma non è poi così grave: un anno si recupera, la vita no - La mia vita è immondizia, è un pellegrinaggio da un’intossicazione all’altra: sembra che io non sia proprio in grado di viverla così com’è. Ne ho abbastanza di questa storia. Lasciami in pace, per favore - Trovo disgustoso quello che hai detto. Un ragazzo come te, sano, ricco, giovane e bello, non ha il diritto di pensare queste cose - Senti, non sono sano. Anch'io mi trovo disgustoso, ingrato nei confronti della vita, di Dio, se c'è un Dio. Ma la verità è che non m'importa un cazzo di vivere - La tua vita sei tu a deciderla Appoggiò la testa contro la siepe e mi guardò con disarmante dolcezza. Per la prima volta in vita mia provai l'impulso di baciare uno sconosciuto. Scosse il capo con una specie di sorriso: - Arrivi tardi, Adriana - Arianna - lo corressi. S'era già dimenticato il mio nome dopo nemmeno cinque minuti, ma decisi di perdonarlo perché aveva una bocca bellissima - Tardi in che senso, scusa?- Succederà in ogni caso per forza d'inerzia, anche se non mi chiamo fuori, perché non ho alternative alle regole del gioco. Sono quel che si dice un perdente - A me sembri un ragazzo intelligente - Anche la capacità di adattamento fa parte dell'intelligenza - Adattamento a cosa? - Alla logica della vita. È come giocare una partita a bridge senza conoscere il codice delle licitazioni: maledettamente idiota. Io ho bisogno di capire il senso delle cose Parlava: buon segno. Mi sedetti accanto a lui. - Da quanto tempo siete amanti tu e lei? - chiesi a bruciapelo. - Amanti non è il termine esatto - Cos’è, fai il filologo adesso? Mi guardò con ironia. - Tesoro, - disse - sei tu che hai scelto la comunicazione verbale. Io di per me preferisco altri canali, specie con le ragazze carine. E allora dovresti sapere che l'esattezza terminologica è il necessario presupposto per una comunicazione semanticamente corretta In pochi secondi mi aveva fatta sentire una stupida, mi aveva chiamata tesoro, aveva detto che ero carina e aveva alluso a certi altri canali come se desse per scontato che io trovassi interessante sperimentarli con lui. Siccome era proprio così, non riuscii ad evitare di arrossire. Pensai che era una strana creatura: dove trovava le risorse per apparire lucido, nel marasma totale del suo essere? Ad ogni modo mi ricomposi presto. Incrociai le braccia e gli chiesi freddamente: - Allora, da quanto tempo intrattenete i vostri rapporti, quali che essi siano? - Due anni e mezzo - E perché non riesci a farne a meno? - Non posso spiegartelo; è come descrivere il mare a un cieco Sorvolai sul paragone involontariamente offensivo e lo lasciai proseguire. - Ho provato in ogni modo a liberarmene, ma sembra proprio che lei mi sia indispensabile. Mi è entrata nel sangue -


Presi la bustina con due dita. - Un po' come questa roba qui - La feci scivolare nella borsetta insieme al resto, con l'intenzione di buttare tutto nel primo cassonetto dell'immondizia che avessi trovato. Stranamente, non cercò d'impedirmelo. - Non hai capito niente - rispose lui - Quelle sono sensazioni artificiali, false. Le sensazioni che provavo con lei erano assolutamente vere - Sesso, endorfine, soltanto un altro modo di sballarsi - replicai cattedratica, dall'alto della mia assoluta inesperienza - Se vuoi sapere come la penso, è molto semplice: la signora ci sapeva fare a letto Nel momento stesso in cui lo dissi provai una fitta di gelosia. Un lampo attraversò il suo sguardo. - Senti Arianna, non accetto lezioni sul sesso da una ragazzina. Lo conosco bene. Se fosse quella cazzata che dici tu funzionerebbe con chiunque: basterebbe passare la vita a letto. Invece non è così. Il sesso è un mezzo di comunicazione: funziona solo se c'è qualcosa da comunicare - È bello sentirtelo dire - Ora come ora mi è tutto indifferente, studiare lavorare mangiare scopare vivere. Se sopravvivo finirò per sposarmi con una donna qualunque, per fare una carriera qualunque, magari per avere dei figli: come se questo desse un senso alla vita - Lo dà, infatti - ribattei. - No - replicò categorico - E non chiedermi perché, non ho voglia di spiegartelo Desiderai di nuovo tappargli la bocca con la mia per impedirgli di continuare a dire adorabili sciocchezze; ma lui aveva smesso di ascoltarmi e dopo la temporanea distrazione s’era improvvisamente ricordato della realtà. Piombò con la testa fra le mani, appoggiando i gomiti sulle ginocchia. - Dio, dimmi che non è vero - gemette - Non sa quello che fa. Voglio morire prima di vederla star male, soffrirà come un cane. Avrei dato la vita per impedirglielo Se non avessi avuto rispetto per il suo dolore sarei scoppiata a ridere: cosa c’era di terribile, per una ragazza di estrazione sociale modesta (nella nostra regione si dice "senz'arte né parte"), nello sposare un giovane e ricco manager in carriera, oltre tutto fisicamente attraente? Insomma, quel Giuliano era proprio il mio tipo e, anche se ero troppo giovane per sposarmi, mi sarei messa volentieri al suo posto. Quel povero essere era così prostrato dalla sofferenza da preoccuparsi dell’infelicità della signora che, dopo avergli succhiato l’anima, ballava in giardino fra le braccia del suo bel marito, senza curarsi minimamente del rischio mortale che lui stava correndo. Doveva essere proprio sconvolto, per aver perso fino a quel punto il senso della realtà e dell'umorismo. E lei, che donna disgustosa. - Sei semplicemente malato - gli dissi intenerita - Ma puoi guarire: a tutto c'è rimedio Vedevo la sua schiena curva, vedevo il suo tremito. Lo abbracciai maternamente: sapevo che questo lo avrebbe fatto piangere, ma piangere fa bene a chi è disperato. Provavo una profonda emozione mentre lo stringevo a me: era caldo e palpitante come certi cuccioli che avevo tenuto in braccio in campagna. Il profumo dei suoi capelli mi stordiva: nascosi il viso sulla sua spalla per evitare di baciargli il collo. - Mi è venuta un'idea - gli dissi alla fine. - Che idea? - sussurrò. - Hai bisogno di allontanarti da qui. Perché non chiedi il trasferimento in una scuola vicino a Siena? L’anno prossimo anch’io avrò l'esame di maturità: lo prepareremo insieme. I miei ti ospiteranno volentieri: sanno che sono giudiziosa, e poi sono figlia unica di genitori anziani, non mi dicono mai di no. Ti piaceranno, vedrai: sono persone in gamba, semplici, discrete Tacque e si allontanò da me. - Ti ringrazio, ma non posso - disse asciugandosi le lacrime con una mano. Gli offrii il mio fazzoletto. - Perché? Si soffiò il naso e rimase in silenzio. Tradussi: - Perché non puoi resistere così a lungo lontano da lei Fece segno di sì con la testa. Decisi di essere spietata. - Lei ha scelto un altro, non puoi farci niente. Ti ha escluso dalla sua vita Passò dal pianto al riso, improvvisamente confortato da una prospettiva folle. - Non è vero: posso ancora tentare di diventare il suo amante La situazione era più grave del previsto; la affrontai con decisione:


- Senti Emmanuel, facciamo un patto: un anno, ti chiedo solo un anno. Il tempo di una cura disintossicante. Poi, se vorrai, potrai ritornare da lei; nessuno ti impedirà di renderti ridicolo, di prostituire quel che resta della tua dignità Gli indorai un po’ la pillola, perché vedevo che stava soffrendo tremendamente. - Probabilmente ci sarà ancora un posticino per te nel suo letto. Sei molto bello Vidi una lacrima cadere sui suoi pantaloni. - Non era il suo letto che volevo - disse - Ma va bene così, va bene anche così - Adesso no, dammi retta, sei troppo debole per sopportarlo. Fra un anno tornerai a cercarla, se vorrai, ma da una posizione di forza; sarai diventato più lucido, più distaccato. E lei avrà un anno in più, che alla sua età conta. Avrai la partita in mano. Datti un'altra possibilità, per favore. Quali alternative hai?Ci fu un lunghissimo silenzio. - È tutto così strano - sussurrò alla fine - Così incredibilmente strano. Chi sei tu? Voglio dire: chi sei in realtà? Mi guardò negli occhi per la prima volta. - Non importa, tanto meglio se sei un sogno. Non ti direi di sì se fossi vera L'orchestra suonava un valzer al di là della parete di bosso. - Balliamo, hai voglia? - gli chiesi. - Un valzer? Sei matta - Ti guido io Mi alzai e gli tesi la mano sorridendo. Si alzò a sua volta. Gli cinsi le spalle ed accennai a qualche passo di danza. Lui rise, disse di nuovo sei matta, poi si fermò, abbassò lo sguardo e lo fissò a lungo nel mio. Mi sentivo sciogliere. - Portami via, ti prego - disse - Portami via di qui Uscimmo insieme dal labirinto.


Un cono alla fragola

Scivolai giù dal letto cercando di non disturbarla, ma lei mi sentì. - Mmmm. Dove vai amore? Resta qui - Dobbiamo alzarci: i miei ci aspettano per mezzogiorno - Sempre con questi orari, perfino la domenica - Non mi piace arrivare in ritardo. Tu però puoi continuare a dormire ancora un po’: devo farmi la doccia, la barba... Si stiracchiò pigramente. - Dovremo raccontare tutta la luna di miele? - Tutta, giorno per giorno; e proiettare le diapositive, anche - Dio, no. Che razza di banalità - È un modo come un altro per coinvolgere le persone care nelle cose belle che ci sono capitate Sbadigliò e rimase supina con gli occhi rivolti al soffitto. - Dovrò raccontare anche che ho vomitato per tutta la durata della crociera? Non è stata una gran bella esperienza - Su questo sorvoleremo. È strano, però: non avevi mai sofferto il mal di mare - Colpa di quelle onde lunghe _._ Il traffico era congestionato quella domenica mattina e faceva un gran caldo: come al solito c’erano cantieri dappertutto. Da tempo l’amministrazione comunale dava prova del più assoluto sprezzo del buon senso e delle esigenze dei cittadini. La mia bella città era irriconoscibile, stravolta da modifiche insensate alla viabilità portate avanti con una spocchia degna di miglior causa, sulla base di criteri urbanistici assolutamente incomprensibili per una persona normale, che alteravano irrimediabilmente la geometria perfetta, cartesiana direi, dell’originario accampamento romano. Sono ottimista per natura e per scelta (considero l’ottimismo un doveroso esercizio di razionalità), ma devo ammettere che attraversare il centro era per me ogni volta un supplizio: Piazza Castello era diventata un orrore, Piazza Vittorio si avviava a diventarlo, e non immaginavo ancora a quali altri orrori avrei dovuto abituarmi. Il supplizio sarebbe stato quasi intollerabile se non avessimo avuto l’aria condizionata, e la Saab per fortuna monta un impianto eccellente. Eloisa stava semisdraiata sul sedile, godendosi il fresco. Mi fermai all’ennesimo semaforo rosso. - Non tenere la bocchetta dell’aria condizionata diretta proprio in faccia: ti prenderai un malanno Fermò la mia mano che cercava di spostare la bocchetta. - No, ti prego: fa un caldo tremendo - Come vuoi. Poi però non lamentarti se ti viene la tosse. Già che ci siamo, tesoro, dovresti proprio entrare nell’ordine d’idee di metterla, la cintura di sicurezza - Amore, lo sai che non la sopporto. Mi fa sentire prigioniera. Piuttosto ti pago io la multa Indicai la spia lampeggiante. - La Saab protesta Sbuffò. - Che palle, ’sti svedesi Allacciò la cintura con evidente malcontento. Cercai subito il lato positivo della situazione, come sono abituato a fare; e non mi era davvero difficile trovarne, in quel momento della mia vita. Mi voltai a guardarla e le sorrisi. - Sto vivendo un momento magico: ho una bella moglie, una famiglia che amo e il lavoro va bene. Cosa potrei volere di più? - Sì, è un bel momento - confermò lei senza voltarsi. In realtà l’avevo detto anche per cercare di scuoterla dalla strana apatia in cui era caduta subito dopo il matrimonio. Durante la crociera in Grecia si era rilassata e divertita, la sua salute si era ristabilita completamente, fisicamente era come rifiorita: aveva messo su un paio di chili nei punti giusti, era abbronzata e piena di piccole lentiggini che le donavano molto. Però sarebbe stato legittimo aspettarsi un po’ più di


entusiasmo da una sposina in luna di miele. Lei invece era spesso come stordita, distratta, indifferente, perfino in quei momenti. Avevo l’impressione che mi nascondesse qualcosa, anzi che nascondesse qualcosa a se stessa, ma, di qualsiasi cosa si trattasse, non aveva alcuna intenzione di portarla alla luce. Forse era preoccupata di non riuscire a darmi un figlio. Di proposito non toccavo mai quel tasto. Mi sarebbe piaciuto avere dei figli, ma se non potevano venirne, pazienza. Magari avremmo provato ad adottarne uno, anche se sapevo per esperienza indiretta che in Italia all’epoca era quasi impossibile riuscirci, e col tempo sarebbe diventato impossibile del tutto, giacché il potere decisionale era nelle mani delle solite persone sbagliate al posto sbagliato, un malanno endemico del settore pubblico. Mentre i rappresentanti di istituzioni che considero tanto arroganti quanto inutili, come i servizi sociali e quelli di psicologia, disquisiscono per anni interi sull’eventualità che due coniugi, ancorché di sana e robusta costituzione ed apparentemente normali, possano improvvisamente rivelare tratti di devianza patologica (possibilità del resto insita nell’animo di qualsiasi essere umano, come la cronaca nera dimostra quotidianamente) e trasformarsi in una coppia di lupi mannari, intanto i bambini del terzo mondo muoiono di fame, i piccoli colombiani restano nelle mani dei trafficanti di droga, i niños brasiliani girano per le strade sniffando colla con una taglia addosso, tot reales a chi ne fa fuori uno. Chi le capisce, le istituzioni italiane, è bravo: di certo i cavillosi pretesti che accampano per giustificare i loro comportamenti aberranti hanno poco a che fare con la logica, per cui considero eticamente e razionalmente doveroso non capirli. Ad ogni modo, quand’anche fosse stata questa la preoccupazione segreta di Eloisa, non pareva turbarla più di tanto. Si lasciava galleggiare in un pigro torpore e sembrava non desiderare altro dalla vita. - Con l’università quando riprendi? - le chiesi. - A settembre - Tesoro, mi pare che tu te la stia prendendo un po’ troppo comoda. Non dovresti preparare il concorso? - Dovrei - ammise senza minimamente scomporsi - Ma è tutto lottizzato, lo sai. Me l’ha detto chiaramente la Della Corte. Cito alla lettera: “Lei è brava Eloisa, ma se non ha la tessera di qualche partito non se ne parla nemmeno”. In pratica si sa già chi lo passerà, il concorso: quel leccaculo di Bonetti, nipote dell’omonimo parlamentare Sono un tipo pragmatico, per cui sorvolai sulla forma e badai al contenuto. - La ricerca universitaria lottizzata! E poi si stupiscono se i ricercatori bravi se ne vanno in America - Hai presente il mio amico Alberto Collina? - Il genio della storia dell’arte? Quello che non sbaglia un’attribuzione e che quella volta alla conferenza ha confutato il professor Perona? - Proprio lui. Be’, li ha tutti contro. Dico i baroni. Sono dei nani, hanno paura della gente brava, non la vogliono. Si circondano di mediocri perché si sa, fra i ciechi l’orbo è re. Un concorso universitario Alberto non lo passerà mai, appunto perché è il più bravo. Adesso lavora con i privati, fa il consulente per un antiquario - Siamo in una nazione che fa schifo - conclusi nauseato - Ad ogni modo, amore, decidi tu: lo sai che io non avrei problemi a mantenerti. Sarebbe più dignitoso che ridurti a fare la tirapiedi di gente come la Della Corte o Magliano. E se proprio c’è bisogno di una tessera di partito... - Sì, lo so, grazie - tagliò corto lei, e mi sorrise. Finalmente ero riuscito ad attraversare il ponte; mi fermai accanto alla nostra solita gelateria. Non sopporto i gelati confezionati: a me piace il gelato artigianale, e solo se è veramente buono. Fare il gelato è un’arte, e per fortuna è un’arte che nella nostra città non si è ancora perduta. Abbiamo dei gelatieri che sono dei veri maestri, ciascuno col suo inconfondibile stile, come i grandi pittori. - Prendiamo un po' di gelato per il dessert? - proposi. - Buona idea - Aspettami in macchina Parcheggiai all’ombra. Mentre scendevo Eloisa mi trattenne per un braccio. - Mi prendi un cono alla fragola? - Non ti è mai piaciuta la fragola - obiettai. - Sì? Be', adesso mi piace - Agli ordini, signora -


Era sempre più strana mia moglie, sempre più bambina; ma in fondo cosa mi costava accontentarla? Tornai alla macchina reggendo in mano il cono, che, dato il caldo, rischiava di sciogliermisi sul polsino della camicia. - Eccoti il cono alla fragola - le dissi - Un chilo di gelato basterà? - Direi di sì. Che gusti hai scelto? - Frutta assortita e crema: piace alla mamma - Hai dimenticato il cioccolato - A nessuno di noi piace il cioccolato - Piace a Emmanuel Rimasi interdetto per un attimo. Poi feci mente locale. - Non te l'ho ancora detto? - le chiesi - Già. Ma guarda che stupido - Cosa? - Aspettami un attimo, vado a pagare _._ - Partito? - Sì, per la Toscana, pensa che follia. Non si è presentato all’orale di maturità - Ma perché? Gli scritti erano andati bene - Lo sai com’è fatto: è completamente imprevedibile. Lui dice che è molto esaurito e ha bisogno di cambiare aria, ma non la racconta giusta - Cosa vuoi dire? - Si è preso una cotta tremenda per quella ragazza che c'era al nostro matrimonio, quella biondina veramente graziosa col vestito azzurro, una certa Arianna Martorelli, figlia di un piccolo imprenditore in pensione. Un colpo di fulmine di quelli che non perdonano. È da lei che abita adesso - Da quando? - È partito due giorni dopo che ci siamo sposati, mentre eravamo a Corfù. Egoisticamente parlando mi mancherà un po’, ma sono contento per lui: finalmente si è innamorato, il mio fratellino; cominciavo a nutrire qualche serio dubbio sul suo conto. Vedrai che quella ragazza gli farà mettere la testa a posto, e così tu non dovrai più preoccuparti delle sue disavventure scolastiche. Pensa, perfino la mamma si è rassegnata quando Emmanuel le ha presentato Arianna: è così carina e rassicurante che le ha fatto dimenticare la rabbia e la delusione per l’esame mancato. Insomma, come si suol dire, tutto è bene quel che finisce bene; l’unica che l’ha presa male è Teresa: piagnucola di continuo e dice che è tanto preoccupata per il signorino; chi l’avrebbe mai detto che quella donna gli fosse così affezionata. Ma, amore, dovresti stare più attenta: ti sei rovesciata tutto il gelato sulla gonna -


Via dal mondo

Emmanuel si manifestava in me sotto forma di piacere fisico. Era il modo elementare ed istintivo con cui il mio corpo esprimeva la gioia per la sua presenza, come un cane non può fare a meno di scodinzolare alla vista del padrone. Perciò, quando quella mattina mi svegliai alle undici, imbottita di sedativi, ed avvertii quella sensazione inconfondibile, ebbi ben pochi dubbi sul suo significato. Ero precipitata di colpo nell’incubo, una crisi d’astinenza in piena regola, che mi costava immensa fatica nascondere a Giuliano. Appena se ne andava la mattina piombavo con il viso nel cuscino sperando che lui avvertisse telepaticamente il mio richiamo, prendendo a pugni il muro, cercando di farmi del male. Era atroce la domenica entrare nella sua casa silenziosa, passare davanti alla cameretta vuota con i suoi poster alle pareti, camminare lungo il torrente e non vederlo più seduto sulla sponda, ritrovare quel fienile vuoto, morto, con un barattolo di cioccolata ancora mezzo pieno in un angolo, sentire quell’odore, quell’odore. Non mi mancava fisicamente: da quel punto di vista lui stesso mi aveva abituata a farne a meno. Ma i suoi occhi i suoi occhi il suo sorriso la sua musica le sue chiacchiere inconcludenti. Oh poterlo vedere, soltanto vedere, guardarlo esistere non importa come, anche fra le braccia di un’altra. Non avevo mai amato nessuno così. Era la mia punizione: me l’ero meritata fino in fondo. Mi procurai il suo indirizzo, il suo numero di telefono. Gli scrissi, ma le mie lettere furono intercettate. Trovai la forza di telefonare e di chiedere di lui; una voce femminile mi domandò chi lo desiderasse; dissi il mio nome; la voce femminile rispose con cortese fermezza che avevo sbagliato numero. Sapevo che per lui era meglio così; sulla zattera non c’era posto per due. Smisi di cercarlo e cominciai a prepararmi a morire: ma non era facile, a poco più di trent’anni. La soluzione arrivò un giorno; aveva gli occhi arabi e i capelli neri. Si sedette accanto a me, mi guardò, scosse la testa, io te l’avevo detto sorellina te l’avevo detto. Mi spinse per terra e fece del suo meglio per aiutarmi. Era diventato più cauto dopo la mia operazione, ma la rude elementarità del suo modo di fare l’amore era rimasta identica; pronunciava i suoi insulti con tono di voce basso e caldo come se fossero parole d’amore; io ripetevo sì Valentino sì e mi perdevo completamente. Il perfetto nulla che mi regalava era diventato il mio tutto; mi permetteva di sopportare in qualche modo i penosi intermezzi della mia vita coniugale. Quella mattina, dicevo, mi vestii distrattamente e mi recai alla visita. - Congratulazioni, signora: è proprio come pensava Si sfilò i guanti di lattice. - Ce l’abbiamo fatta, a quanto pare: le cure si sono rivelate più efficaci del previsto. Suo marito ne sarà felice Gettò i guanti nella pattumiera. Non risposi. - Da quanti mesi siete sposati? - Quattro settimane Sorrise. - In tal caso è il frutto di un rapporto prematrimoniale: quando lei si è sposata era già incinta da almeno tre settimane, lo sa? Comunque, per sicurezza, faremo un'ecografia L'ecografia confermò: non avevo dubbi in proposito. Giuliano, saggio e prudente come al solito, aveva smesso di prendere precauzioni solo dopo il matrimonio. Uscii così com'ero entrata, camminando a qualche metro dal suolo. Era una bella giornata. Invece di raggiungere l'automobile mi avventurai nel parco e poi lungo il fiume. Osservai i pescatori, i gesti lenti e precisi con cui curvavano all'indietro le lunghe canne per poi lanciare le lenze nell'acqua. Mi tolsi le scarpe e stando attenta a non calpestare qualche siringa camminai nell'erba fino ad un gruppo di canottieri abbronzati e sorridenti, che stavano tirando in secco le imbarcazioni. Una giovane pittrice naïf ritraeva l'eremo sulla collina di fronte: sostai a lungo ad osservare il suo lavoro. Poi scesi lungo l'argine ed aggrappandomi con una mano ad un giovane albero mi lasciai trasportare dal mio peso in un girotondo intorno al suo tronco sottile. Era un gesto dell'infanzia, che avevo dimenticato. Un'infinita gioia si mescolò con un'infinita tristezza. Provai un senso di profonda liberazione: non più menzogne, non più mistificazioni, non più tè alle cinque del


pomeriggio, non più domeniche di cibo e partite a carte, non più tiepide carezze il sabato notte, non più, non più il frastuono intorno e dentro il vuoto, ma la sua musica dentro di me, e fuori il silenzio. Era l'ultimo dei suoi miracoli. Mi costava la vita, ma era dolce andarsene dal mondo così. _._ Giuliano mi trovò seduta su una valigia nell'ingresso, circondata dai miei bagagli. Ricordo il suo stupore, pensava ad uno scherzo, poi la sua angoscia improvvisa, il suo chinarsi su di me in ginocchio, cosa c'è cosa ti ho fatto, avrei voluto piangere ma non c'era nemmeno una lacrima nei miei occhi quando gli risposi non mi hai fatto nulla amore, allora devi essere stanca mi disse, vuoi andare a riposarti, ed io sollevai lo sguardo osservandolo distratta come da lontano, e poi scossi la testa non sono affatto stanca, lui mi sollevò il mento fissandomi negli occhi e allora io gli comunicai con freddezza la notizia. Ci fu un attimo di sospensione. Poi piombò rovinosamente in una dissonanza di ma come ma perché ma cosa dici sei pazza, mi prese una mano e mi fece una domanda. Io mi riscossi e dolcemente, accarezzandogli il viso, gli risposi. Come Emmanuel chi: tuo fratello, Giuliano. _._ - Da quanto tempo andava avanti questa storia? - Da anni, da subito - E non mi hai mai detto niente! - Come avrei potuto? Era una tale follia. Speravo di guarire - E invece? - Invece ho perso completamente la testa, e lui con me - Allora è per questo che se n'è andato - Non odiarlo, ti prego - Non posso odiarlo. È il mio fratellino, l'ho portato in braccio, ero orgoglioso di lui - Non piangere, per favore - Non sto piangendo. Come ho potuto non accorgermi di nulla? - Eri sempre di fretta; avevi sempre altro da fare - Che razza di idiota - Non è colpa tua; un'altra donna ti amerebbe per quello che sei - Già, un'altra - Credo di essere malata: posso amare solo quello che mi distrugge - Davvero Eloisa, come hai potuto? Era solo un bambino! - Non dirmelo per favore, sapessi quante volte me lo sono ripetuto - Adesso che intenzioni hai? - Non rinuncerei a mio figlio per nessuna ragione al mondo - Cosa diremo ai miei? - Qualsiasi cosa, ma per favore lascia fuori Emmanuel - E se lui non volesse essere lasciato fuori? - Devi. Ti prego. Non deve colare a picco con me - Tu lo ami davvero, Eloisa - Sì - Allora è tutto inutile, devo lasciarti andare. Senti, faremo così: per adesso non diremo nulla; ci separeremo consensualmente, per incompatibilità di carattere. Quando sarai andata a vivere da sola dirò loro che stai con un altro e aspetti un figlio da lui - Ti ringrazio, amore mio - Solo, per favore, non chiedermi di rivederti. Almeno per un po' - Mi mancherai tanto - Lo so. Sarà molto difficile per te, e questa volta non ci sarò io al tuo fianco. Ma ti aiuterò economicamente, farò tutto quello che mi è possibile per voi; è figlio di mio fratello, in fondo - Posso darti un bacio? - Meglio di no, Eloisa. Scusami -


L'infermiera

- Misèr Catùlle, dèsinàs inèptire et quòd vidès perìsse pèrditùm ducas... - Emmanuel, - dissi, cercando di non perdere la pazienza - sono scazonti. È mai possibile che io debba ripertetelo tutte le volte? Sembra che tu lo faccia apposta - Non è che lo faccio apposta, è che proprio non me ne frega niente - Un po' di rispetto per Catullo, per favore - Ne ho anche troppo. È per questo che non m'interessa la metrica - Sono stupidaggini e lo sai benissimo: lui le sue poesie le ha scritte in metrica. Daccapo- Misèr Catùlle, dèsinàs inèptìre et quòd vidès perìsse pèrditùm dùcas... Terminò la lettura senza altri intoppi. - Traduci - gli dissi. - Povero Catullo, smetti di impazzire, e ciò che vedi morto consideralo morto S'interruppe. - Che c’è? - Com’è la terza persona plurale del passato remoto di “splendere”? - Splendettero, sant’Iddio, devi sostenere l’esame di maturità o quello di quinta elementare? - Ma fa schifo splendettero! Che lingua del cazzo l’italiano: è artificioso, finto, pieno di limiti espressivi, shit - Sì, se non fosse per un certo Dante Alighieri potrei anche darti ragione - Va be’, Dante... - Prova a farmi una dichiarazione d'amore in olandese- Ik hou van je - E secondo te quest'accozzaglia di suoni suona meglio di "amor che a nullo amato amar perdona"? - Nei momenti intimi non uso Dante - Ma nemmeno l'olandese, spero - No, nemmeno l'olandese. È la lingua di mia madre, non la mia - Che lingua vorresti parlare? - Non lo so. Forse l'inglese di Shakespeare - Ad ogni modo, se non ti piace splendettero, puoi usare in alternativa rifulsero, brillarono - Rifulsero un tempo per te giorni luminosi, quando solevi andare dove ti portava la ragazza... - La fanciulla - Mi spieghi chi è che usa il termine “fanciulla” al giorno d’oggi? - Ma questa è poesia Mi guardò con una luce pericolosa negli occhi. Conoscevo quella luce e mi pentii subito della mia affermazione. - La poesia - disse - è carne e sangue, a volte anche fluidi organici più bassi, mi spiego? Mi dici che cazzo di senso ha, oggi, usare parole come “fanciulla”, “vaneggiare”, “sventurata”? - Hanno un bel suono - Per le mummie passatiste, forse, ma per una persona del nostro secolo dovrebbero risultare semplicemente urtanti. Se a te piacciono, probabilmente sei anche tu una mummia, ragazza mia. O preferisci fanciulla? - Senti, non ricominciare per favore: usa le parole che ti pare - ...dove ti portava la ragazza amata da me quanto nessuna sarà amata. Lì si facevano allora quei molti giochi d’amore che tu volevi e lei non rifiutava - Perché lei? C’è scritto puella - Perché per Catullo lei era lei e basta Quando era di umore polemico, il che gli capitava spesso, non c’era verso di farlo ragionare. - D’accordo - dissi - Ora qualche domanda di grammatica: cos'è desinas? -


- Un congiuntivo esortativo. Ma non ho voglia, dai, lasciamo perdere la grammatica. Ora ti metterai a chiedermi il paradigma di desino e altre stronzate del genere, l'ho già vista questa scena Non volevo irritarlo, ma non potevo neppure dargliele tutte vinte. - Emmanuel, - dissi - così non va. Non dico che tu non abbia buoni mezzi, ma non fai niente per coltivarli - Grazie per la magnanima concessione: guarda che lo so di non essere un cretino - Non sto dicendo questo. È che vai in scioltezza sulle cose che ti piacciono, ma non hai nessuna voglia d'impegnarti sul serio. E senza impegno, nella vita, i risultati non arrivano - Errore - rispose - Nelle cose che contano mi sono sempre impegnato al massimo Naturalmente non volli sapere quali fossero le cose che contavano. - E i risultati - continuò - spesso non arrivano neanche quando t'impegni Il buon senso, di cui per fortuna non sono priva, mi suggerì di non insistere su quel tasto. - Bene, - dissi - vedo che questa parte la sai. Passiamo agli ultimi versi. Comincia da scelesta - Disgraziata, guai a te, che vita ti resta? Chi verrà da te adesso? Chi ti dirà sei bella? Chi amerai ora? A chi dirai sono tua? Chi bacerai? A chi morderai le labbra? Ma tu, Catullo, risoluto resisti Chiuse il libro e si alzò di scatto. - Basta S'incamminò rapidamente verso la porta. - Come basta? Si può sapere dove diavolo vai? Si girò con uno sguardo rabbioso: - Al cesso, se non ti dispiace Chiusi i libri e guardai fuori della finestra: pioveva a dirotto e il cipresso svettava triste accanto all’oleandro sfiorito. Pessima idea quella di rispolverare Catullo per l’esame di maturità; la Contini, la nostra insegnante di latino, aveva creduto di favorire la classe, ma aveva creato un problema in più a me. Fortunatamente la situazione scolastica di Emmanuel era discreta, anche a causa della simpatia che la suddetta insegnante nutriva per lui. I suoi voti erano, a mio parere, largamente immeritati, dovuti più alla sua sensibilità estetica che alle sue effettive conoscenze; gli occhi blu, immensi ormai nel suo viso pallidissimo e sofferente, facevano il resto. I primi giorni erano stati molto difficili. Naturalmente, come tutti i soggetti di quel tipo, aveva sottovalutato gli effetti della dipendenza fisica; per fortuna però la sua frequentazione con le droghe non durava da troppo tempo. Tutto si era ridotto a qualche crisi d'astinenza, che aveva sopportato piuttosto stoicamente. In quei momenti rimaneva disteso sul letto senza un lamento, livido, con i lineamenti del volto contratti, stringendo i pugni, tutto concentrato sulla sua sofferenza, dando quasi l'impressione di assaporarla con voluttà. Non sapevo che fare per lui: mi sembrava terribilmente indiscreto stargli accanto, ma non volevo che si sentisse solo; così bussavo alla sua porta e gli chiedevo il permesso di entrare per portargli qualcosa, un tè, una camomilla, una spremuta d'arancia, una fetta di torta di mele fatta da mia madre. Quando non stava troppo male mi lasciava entrare e si sforzava di cambiare espressione; speravo che mi chiedesse di sedermi accanto a lui sul letto, ma non lo fece mai. Si tirava su a sedere, mi sorrideva, mi ringraziava del pensiero e m'indicava con la mano la poltrona accanto alla scrivania. Era evidente che la mia presenza lo confortava e lo faceva sentir meglio, ma sentiva il bisogno di tenere le distanze. I miei non avevano mai saputo la verità, anche se forse la intuivano: avevo spacciato il suo malessere per un grave esaurimento nervoso, il che in parte era vero; inizialmente avevano mostrato qualche diffidenza nei suoi confronti, ma la mia reazione insolitamente decisa li aveva convinti a cambiare atteggiamento. Nutrivo per lui un affetto possessivo, esclusivo, pronto a tutto. In seguito la dolcezza del suo carattere li aveva rassicurati. Quanto alla dipendenza psicologica, be’, era tutta un'altra storia. Lo avevamo messo in cura presso un bravo analista; si era opposto con tutte le sue forze, ma ero stata irremovibile. Per due mesi lo avevo tenuto letteralmente sotto chiave; poi avevo cominciato a concedergli qualche libertà, ma senza smettere per un solo istante di sorvegliarlo.


Lei lo aveva cercato due o tre volte, ma le avevo sempre fatto rispondere dalla cameriera che aveva sbagliato numero. Per precauzione avevo sequestrato il cellulare ad Emmanuel dicendo di averlo perso; gliene avevo subito regalato uno nuovo, con un numero che lei non conosceva. E così tutto filava liscio. Appena aveva riacquistato la lucidità, in un indimenticabile crepuscolo di ottobre, seduto accanto a me, s’era voltato a guardarmi con profonda dolcezza e mi aveva giurato che non avrebbe più cercato di farsi del male. Aveva mantenuto la promessa; in compenso aveva avuto una reazione strana e quasi altrettanto preoccupante: si stava progressivamente smaterializzando. Era diventato etereo, quasi trasparente: questo, invece di compromettere la sua bellezza, l'aveva accentuata, spiritualizzata. Aveva lasciato crescere i capelli e da qualche tempo li perdeva: anche quella volta ne trovai parecchi sulla scrivania. Quanto avrei preferito vederlo con i capelli corti: avrebbe avuto un'aria più sana e probabilmente avrebbe attirato di meno l'attenzione delle nostre compagne, delle quali ero ferocemente e immotivatamente gelosa. Dico immotivatamente perché Emmanuel non le degnava neppure d'uno sguardo: all'uscita della scuola lo trovavo sempre fermo ad attendermi, solo, a capo chino; mi prendeva sotto braccio e c'incamminavamo verso la fermata dell'autobus. M'inorgogliva essere vista con lui in quell'atteggiamento: in quei momenti ero una ragazza molto invidiata, anche se non ce n'era di che. Emmanuel, infatti, era fuori del mondo, una specie di strano angelo impazzito. Mangiava pochissimo, passava le notti sveglio al computer, le giornate a leggere e ad ascoltare musica. Spesso si chiudeva in bagno e vomitava quel poco che aveva mangiato. A quel pensiero mi alzai e chiesi alla cameriera di preparare un panino ed una spremuta di arancia. Poi tornai a sedere e mi misi a riflettere. Lo amavo molto, ma c’era in lui qualcosa che suscitava in me un inconfessabile ribrezzo; quel suo lasciarsi andare, la sofferenza senza dignità, quel lasciar fare al corpo, così in contraddizione con la sete di spiritualità che diceva di provare. Non so come potesse non rendersi conto che nei malati lo spirito non domina più il corpo, anzi è l’opposto, e proprio questo li rende repellenti per i sani. Arrossisco nel dirlo, ma la verità è che, pur volendogli un bene dell’anima, non avevo più stima per lui di quanta ne avessi per un bambino che si fa la pipì addosso. Probabilmente tutto questo gli derivava dai rapporti con lei, ma se provavo a figurarmeli, superando la gelosia e l’invincibile imbarazzo, le immagini che si affacciavano alla mia mente erano ridicole ed eccessive, oppure del tutto banali. In ogni caso non giustificavano il fascino che quella donna esercitava su di lui. Da che cosa era così irresistibilmente attratto? Non certo dalla sua bellezza: a prescindere dall’età, lei non era certo bellissima. Dal piacere? Ma non era così sensuale; il suo stile di vita, negli ultimi tempi, era addirittura ascetico. Dalla trasgressione? Ma il gusto della trasgressione non dura così a lungo e non produce effetti così devastanti. Da cosa, allora? Da cosa? Cosa gli faceva lei? Mi arrovellavo spesso su questo dilemma senza soluzione, provando autentico odio per quella donna dal nome arcaico e dolciastro; era rancore per il danno provocato a quella splendida creatura, era invidia per ciò che lei sapeva fare e io no, era gelosia per ciò che lui aveva dato a lei e non avrebbe mai dato a me. Ormai doveva essersi reso conto che ero innamorata di lui, ma aveva sempre eluso il problema. Di nascosto dai miei genitori avevo cominciato a prendere la pillola; precauzione inutile: non mi aveva mai dato neppure un bacio. Mi umiliava profondamente l’intensità con cui lo desideravo in certi momenti. Evitavo accuratamente di parlare di lei o anche solo di fare allusioni ai loro passati rapporti. Un giorno, però, non riuscii proprio a trattenermi. Stavamo camminando verso la fermata e una nostra compagna particolarmente spregiudicata fischiò al suo passaggio, aggiungendo anche un commento piuttosto volgare (devo dire che questo è un difetto tipico delle ragazze toscane). Avvampai di rabbia e d'imbarazzo; lui invece si limitò a sorridere e a scuotere la testa. - Emmanuel, - gli dissi - possibile che non ti faccia nessun effetto tutto questo? - No, - rispose sereno - niente del tutto - Hai un autocontrollo che farebbe invidia a Marc'Aurelio - incalzai - Ma allora com'è possibile che in passato… sì, insomma…Venne in mio aiuto: - Com'è possibile che io fossi così sensibile alle sue attenzioni? - Ecco, sì -


- Lei era una donna - rispose, e non disse più nemmeno una parola. Compresi di aver toccato un tasto falso. A forza di arrovellarmi, cominciai a pormi la questione in termini diversi: che cosa gli faceva lei che non potessi fargli anch’io? La prima volta che questo pensiero mi balenò in mente avvampai e mi meravigliai di me stessa. Poi, siccome ci si abitua a tutto, cominciai a non trovare più così assurda quella prospettiva ed a escogitare giustificazioni di comodo: Parigi val bene una messa e via discorrendo. Machiavelli docet. C’era però un ostacolo apparentemente insormontabile: io non avevo la più pallida idea di cosa lei gli facesse. Ma è pur vero che amore è figlio di povertà ed espediente. Un sistema per saperlo c’era, e anche piuttosto ovvio: farmelo dire da lui. Il panino e la spremuta erano pronti, ma lui era ancora in bagno. Sentivo l’acqua scorrere. Nell’attesa sfogliai distrattamente i suoi quaderni. Uno di essi, con la copertina di pelle nera e il bordo rosso, si aprì quasi per caso: era un diario. Senza preoccuparmi dell’indiscrezione, ringraziai il cielo dell’aiuto insperato e pregai che si trattenesse ancora un po’ in bagno. Era uno strano diario, in forma ora di monologo interiore, ora di lettera a lei, ora di immaginaria risposta, ora di racconto in terza persona, talvolta in forma pseudo-poetica. Gli ultimi due brani portavano la data del giorno precedente ed erano concepiti come una sorta di sceneggiatura visionaria. Colonna sonora: Jeff Buckley, Hallelujah. Arriva inaspettato, sereno, senza giustificarsi, come al solito. Fisicamente mostra i segni della rinuncia a cercar di sembrare quel che non è: i suoi capelli nerissimi sono lunghi, non porta più la giacca e la cravatta; indossa un maglione nero pesante e blue jeans. Sa che lei è sola. Gira per casa commentando con ironia distaccata la sua vita, curiosa nelle pentole, si siede. Non si degna di spiegare cosa lo abbia spinto lì, non ce n’è bisogno. È, come sempre, insoddisfatto e indifferente, a metà fra il mistico e il maniaco. Lei gli offre un aperitivo e qualche scusa banale, ora che sono sposata eccetera. Lui è grosso e scuro, di una bellezza invadente; beve l'aperitivo, poi appoggia sul tavolo le braccia pesanti nel maglione nero. Parla con tono di voce piano, tranquillo. Non è una cosa seria vivere. Se sapessi soffrire soffrirei del fatto che gli altri soffrono per cose di cui non soffro. Da tempo immemorabile io le ho classificate come necessarie nella perfetta logica del nulla. Agisco a caso solo perché non posso stare sempre fermo; le mie azioni hanno la sola razionalità del disordine. Quasi sorridendo, quasi senza badarci le dice avevo pensato di uccidermi, ma non sarebbe una cosa seria. Si alza per andarsene. Lei lo ferma, naturalmente. Lo invita a pranzo, è sola fino a sera. Lo osserva e gli dice sei bellissimo con i capelli così. Lui ride, si guarda attorno distratto; poi di colpo, fissandola, non sai proprio fingere sorellina. Se la fa sul tavolo, vestito. Non la bacia mai sulla bocca. Gli piace umiliarla. Mentre si riabbottona i pantaloni le dice che sta con un’altra, una bellissima naturalmente. Lei è sicura che tornerà. Assiderato dal suo stesso gelo, senza il calore della sua piccola puttana è morto. Colonna sonora: Nirvana, Pennyroyal tea (versione unplugged). Sono seduto in macchina accanto a lui. Stiamo parlando da più di un’ora, non posso più aspettare. So che lo vuole da molto tempo. È una notte limpidissima di novembre, c’è un odore di linfa gelata, di melma fredda. Hai la pelle di una ragazza mi dice. L’immagine vacilla, il sonnifero sta facendo effetto. Appoggio la tempia sul poggiatesta, lo guardo negli occhi, pensa che sia desiderio e invece è fretta. Il suo odore amaro mi rimescola tutto dentro, la sensazione del suo abbraccio, perdermi sul suo petto immenso col viso nel suo maglione, lo voglio alla follia, dopo non ci sarà nient’altro, it's better to burn out than fade away. Mi perdo finalmente, non connetto più, solo immagini strane, lumache fradicie morte, per terra la paglia, no non paglia è lana, lana gialla, la pioggia se la porta nel tombino, il pensiero si sbriciola sotto le sue carezze prendimi distruggimi hai vinto tu ti amo ti amo voglio essere tuo voglio essere te gli argani della mente tirano le mie braccia inerti come in certi dormiveglia malati le pareti della mia mente si dilatano in un corto circuito di luce in una lunga caduta nel vuoto in un orgasmo dolce in un urlo muto. Buio freddo silenzio.

Mio Dio, chi era mai questo ragazzo fra le cui braccia voleva perdersi, addirittura morire? Non credevo di dover fronteggiare anche questo tipo di problema. D'altronde l'omosessualità era perfettamente in sintonia con lo stile di vita dei suoi detestabili miti musicali, tutti belli e dannati. La situazione era più grave di quel che credessi: stava


usando la fantasia per continuare a coltivare le sue ossessioni autodistruttive. Ebbi improvvisamente l'impressione che proprio la crisi di identità fosse il denominatore comune dei suoi mali: era evidente che nel primo brano si identificava con lui, nel secondo con lei. La diagnosi era terribile: Emmanuel, come i bambini al di sotto dei tre anni, non sapeva riconoscere la sua immagine allo specchio. Sfogliai a ritroso il diario e vi trovai poche righe dedicate indirettamente a me. Risalivano a qualche giorno prima: Colonna sonora: Non lo so ancora (forse una sonatina di Mozart). Che strano segno è mai l’Acquario? Diametralmente opposto al mio, ma forse in qualche modo complementare. Superficiale, su questo non ci sono dubbi, eppure in grado di cogliere la profondità nelle cose. Respingendola però in una zona di margine che non consente al male di agire fino in fondo. Distruggendola con l’ironia. Hanno sempre ragione loro. I loro occhi rivolti al futuro li rendono distratti nei confronti del presente; inciampano nel dolore altrui, però ti chiedono scusa e se riescono ti tendono la mano. Asettico vetro inanimato che protegge la creatura malata ma viva, qualche goccia di disinfettante per la muffa bianca che ti divora come un cancro. Pesci nell’Acquario: sembra un gioco di parole, e invece è diventata la mia vita.

In quel momento la maniglia girò: feci appena in tempo a chiudere il quaderno e a rimetterlo a posto. Lui rientrò con le occhiaie bluastre, gli occhi congestionati, i capelli appiccicati sulla fronte dall’acqua con cui aveva cancellato i segni delle lacrime. Finsi di non vedere e gli sorrisi indicando il panino. - Ti ho fatto preparare questo, ti va? - Grazie, non dovevi disturbarti - Nessun disturbo Lo guardai attentamente mangiare, distraendolo dal cibo con qualche chiacchiera di circostanza. Si fa così con gli anoressici, bisogna farli mangiare a tradimento. Ogni boccone che inghiottiva era un piccolo passo verso la vita. Alla fine gli chiesi: - Vuoi stenderti un po’ sul letto? Mi sembri stanco - Sul tuo letto? - Sì - Grazie. Ho un mal di testa terribile Si distese. - Mi siedo accanto a te a leggere, posso? - gli dissi. - Come no, - sorrise - Sei in camera tua Mi sedetti e gli accarezzai la fronte, come per allontanargli i capelli bagnati dagli occhi. Trattenne la mia mano e se la portò sul petto. - Sei molto cara - disse con dolcezza. Avevo il batticuore, lui no: lo sentivo benissimo attraverso il maglione. Chiuse gli occhi. Dopo qualche secondo disse: - Catullo, carme 72 - Come dici? - Niente Rimasi così a lungo, finché sentii la stretta della sua mano allentarsi e lo vidi reclinare la testa di lato. Si era addormentato placidamente. Le sue labbra semiaperte accennavano a tratti al gesto infantile del bambino che succhia il latte. In punta di piedi andai a posare il libro. Poi uscii e richiusi la porta senza far rumore.


Quattro passi all’inferno

15 ottobre, ore 21. - Pronto (Silenzio) - Pronto? Sei tu? (Silenzio) - Sto male, fratellino - Non muoverti. Arrivo _._ Ore 21,30. - Sei in uno stato spaventoso - Ho paura di non farcela - Resta seduta. Respira - Mi manca l’aria - Respira (Silenzio) - Va meglio? - Sì, molto meglio - Hai mangiato? - Non mi va di mangiare - Devi. Ne hai bisogno, nelle tue condizioni - Non ci riesco - Neppure se ti porto fuori? - In pizzeria? - In un ristorante di lusso. Il Gatto nero, il Rendez-vous, quello che preferisci - D’accordo - Fatti bella _._

Ore 23,30. - Perché non vai a stare da tua madre? - Non voglio che mi veda in questo stato - Mia madre mi perdonava sempre tutto - Mi perdonerebbe, ma non voglio preoccuparla - Ti manca così tanto? - Da impazzire - Posso fare qualcosa? - Ti prego, no. Non è più come prima. C’è il bambino _._

23 dicembre, ore 23,10. - Come lo facevate tu e lui? - Era una cosa strana. Non so come descrivertela - Proviamo, vuoi? _._ Ore 23,50. - Era sempre così? - Sempre - Eravate pazzi - Perché? - Vi siete divorati l’anima -


_._ Ore 2,35. - Ho voglia di baciarti - Fallo, per favore - Buon Natale, sorellina -


Certe piccole delusioni

Rientrai prima del previsto dal mio giro di compere natalizie. Erano le cinque e in casa c’era solo Emmanuel che mi aspettava per le sei; gli avevo comprato un bellissimo maglione in uno dei negozi più esclusivi di Siena. Mi sorprese il silenzio che regnava nella sua stanza: di solito aveva la pessima abitudine di studiare con lo stereo acceso, immerso in quel fracasso assordante che chiamava musica. Mi avvicinai in punta di piedi: la porta era semiaperta. Ero corazzata contro ogni imprevisto e mi aspettavo di tutto da lui, ma quando nella penombra lo scorsi inginocchiato in una sorta di preghiera pagana, ad occhi chiusi, la fronte appoggiata sul letto, scosso da un tremito convulso, ebbi un autentico shock. Sussurrava dove sei dove sei, darei dieci anni della mia vita per averti accanto mezz’ora. Mi allontanai precipitosamente. Quando mi sentii più calma presi a riflettere ed elaborai una strategia. Per prima cosa, mentre stava guardando la televisione in salotto coi miei, trafugai il suo diario (sapevo dove lo nascondeva ed ero abilissima nel rimetterlo a posto esattamente come lo aveva lasciato) e lessi l'ultimo brano che aveva scritto; risaliva a due giorni prima: Giuliano guarda lei dulce ridentem illuminata dai guizzi rossastri del camino acceso, il profilo di amazzone stagliato contro il fuoco, lo sguardo grigio balenante mentre rimette a posto con la mano una ciocca sfuggita all’acconciatura disordinata. Di fronte a lei siede Valentino e ancora una volta rieccomi negli occhi il corpo atletico il profilo nitido i capelli corvini il pallore invernale del viso gli occhi neri le lunghe ciglia le sopracciglia severe il naso la bocca la sua sfacciata bellezza. Ha un’espressione annoiata e serena: non sai di che cosa possa essere capace uno con quello sguardo. È solo in cima a una montagna; si guarda attorno di lassù e si annoia, si annoia sempre, povero Vale: è un habitué della noia. Ed è maledettamente attraente. Come biasimare Eloisa? Non si può far altro che dirgli di sì, lasciargli sbizzarrire a letto la sua fantasia da pittore fiammingo, rispettare il suo bisogno di solitudine dopo l’amore, quando in mutande bianche spalanca la finestra per lasciar entrare l’aria gelida e dice a se stesso l’alba è stupenda. In quei momenti chissà a cosa pensa mentre fissa l’aria dalla cima della sua montagna e si accarezza le spalle nude. Forse gli ritornano alla mente nenie di carillon, profumi di abeti natalizi, ricordi di una verginità persa durante qualche viaggio di ritorno alla vita; forse, semplicemente, ascolta l’aria nel suo deserto come un asceta in preghiera, domandandosi da quanti secoli continui a veder sorgere lo stesso sole, ad attraversare le stesse acque, a rinascere sempre con gli occhi aperti, quieti e morbidi come il velluto, rendendosi conto fin dal primo sguardo che non è cambiato niente. Eloisa evita di guardarlo, ma la sua mente non smette per un attimo di accarezzarlo in modo osceno. Sorride a Giuliano. Se mio fratello sapesse come lo sta ingannando con quel sorriso, davvero è uno stupido, non merita di meglio, non capisce nemmeno che lei con quel suo sguardo di gatta grigia, che lei con quel suo viso di madonna pallida non può amarlo, non può amare. Eloisa è sterile, lo è nell’anima. Anch’io mi sono lasciato ingannare, e l’alba talvolta mi coglie ancora pesto, affannato, piegato in due a cercar di reprimere quel pesante groviglio di dolore che non vuole sciogliersi. Vorrei riaverla per un attimo, solo un attimo, il tempo di un bacio: la mia mano a detergere le labbra, sputare via il contagio guardandola negli occhi. Chissà se apprezzerebbe la citazione.

Stavo sottovalutando il problema. Continuava a rivivere ossessivamente il suo passato: non voleva lasciarlo morire, lo teneva in vita con un accanimento terapeutico che rasentava la follia. Sicché il ragazzo dai capelli neri aveva un nome, Valentino, e un aspetto fisico, a quanto pare niente male. Ma cosa diavolo ne sapeva lui di cosa faceva dopo l'amore, di quando camminava per la stanza in mutande bianche e altre idiozie del genere? La misura era davvero colma. Decisi che era venuto il momento di passare all’azione. Verso le undici e mezzo di sera, quando i miei erano tutti a letto, bussai alla sua camera. Mi disse entra. Stava leggendo un libro alla luce dell’abat-jour, disteso sul letto, vestito. Il computer era ancora acceso, come se avesse scritto fino a poco prima; lo schermo emanava un fioco chiarore. Senza troppi preamboli mi sedetti accanto a lui, gli chiusi il libro e ad occhi bassi dissi: - Credo che tu abbia bisogno di un po’ di aiuto, Emmanuel - Aiuto di che genere? -


- Per incominciare ti ho prenotato una visita da un altro psicologo per martedì pomeriggio Ebbe un moto di disappunto. - Arianna senti, ti sono grato dal profondo dell’anima, ma vorrei che la piantassi con questa storia degli psicologi: non sono malato, sto solo esercitandomi a... - S’interruppe. Completai il suo pensiero: - A fare a meno del corpo. È proprio questo il problema Sorrise senza motivo e mi sussurrò confidenzialmente: - Ci sono quasi riuscito, sai - A fare che? - Non hai idea di quale schiavitù possa essere il sesso. Senza amore è degradante. Ma ormai mi manca poco per essere libero Lo guardai negli occhi: - Così non va bene, Emmanuel: hai smarrito il senso delle cose. Il sesso non è solo qualcosa di sublime o sporco; può anche essere qualcosa di naturale - Per gli animali, forse - L’uomo è un animale: soltanto, un pochino più evoluto Gli accarezzai una mano e cominciai a sbottonargli la camicia. - Cosa fai? - chiese dopo qualche secondo. - Ti ho appena sbottonato la camicia, Emmanuel, - risposi senza tradire la minima emozione - e adesso sto sbottonando la mia. Ti avverto che non porto reggiseno sotto, non ne ho bisogno Ogni essere umano, anche il più razionale, nasconde in sé qualche oscura contraddizione di cui ignora l’esistenza. Io l’avevo scoperta quel giorno. _._ Ecco fatto, scomparsa ogni traccia. La lavatrice stava facendo il suo dovere. Mi distesi sul letto accanto a lui che dormiva sereno e mi misi a ripensare a ciò che era appena accaduto. Non era andata esattamente come avevo immaginato. Era rimasto immobile, senza aiutarmi. Una luce si era accesa all’improvviso nei suoi occhi, li aveva fissati nei miei come chi ricorda con fatica. Perché no, aveva detto dopo un lungo silenzio, e aveva sorriso. Non ero riuscita a conservare la necessaria freddezza. Mi ero lasciata coinvolgere, lo avevo baciato. Morivo dalla voglia. Baciava come mi ero sempre aspettata, con una dolcezza emozionante. La mia mano era corsa troppo presto ad infilarsi sotto la stoffa dei suoi jeans tesa dalle ossa del suo bacino magro. Lui mi lasciava fare senza dire niente, come se il mio comportamento fosse normale. Poi mi colse in contropiede il più soprendente degli imprevisti: di punto in bianco scoppiai a ridere in un modo che sarebbe potuto risultare molto offensivo, se non lo avessi giustificato dicendogli scusami è l’emozione. Il fatto è che da quel nuovo punto di vista tutto mi appariva improvvisamente ridicolo. Certi goffi armeggiamenti per liberare me e lui dai vestiti, la cerniera della gonna nuova irrimediabilmente rotta, lui così buffo in mutande e calzini. Bellissimo alla fine, pur nella magrezza eccessiva, il suo nudo levigato come marmo, ma irresistibilmente comico il sesso maschile, tanto che per un attimo rimpiansi che la provvida mano del tempo non si fosse allungata sulla statua ad evirarla nascondendo il misfatto con una foglia di fico. Poi le sue carezze si fecero indiscrete. Si distese supino. Questo poi no protestai, ci sono regole da rispettare almeno la prima volta. Disse scusa e mi strinse a sé: la sua pelle era calda e profumata, il contatto straordinariamente gradevole. Venne sopra di me, si fece largo fra le mie gambe. Pareva di essere dal ginecologo; gli dissi così è volgare. Hai ragione rispose. Disfece il letto e ci infilammo sotto le lenzuola. Mi strinse nuovamente a sé sussurrando come sei bella. C’è un problema gli dissi, sono vergine. Non intendo il segno zodiacale. Si fermò e mi guardò intimidito: non ho mai avuto a che fare con ragazze vergini, disse. Ci credo, risposi, se erano tutte come lei. Subito mi morsi la lingua: gli occhi gli si fecero blu cupo, disse sei ingiusta, si voltò, si mise a guardare il soffitto con un braccio piegato dietro la nuca. Una gaffe imperdonabile. Gli chiesi scusa e gli baciai una spalla: avevo una voglia terribile di ricominciare. Mi prese la mano senza guardarmi. Cercai di distrarlo. Sai cos’ho pensato Emmanuel, gli dissi, mi sa che macchieremo di sangue le lenzuola. Ebbe un fremito di orrore. È normale proseguii, non spaventarti; bisogna semplicemente evitare di sporcare il letto, ecco tutto. Mi alzai e andai in bagno a


prendere un grosso asciugamano di spugna, che sistemai, piegato in due, sul lenzuolo. Poi mi distesi, aspettando che l’evento si compisse. Ma non si compiva. Lui mi accarezzò il viso e disse non so come fare. Ma come, pensai, tutti quei fattacci di cronaca, tutte quelle ragazze violentate, e lui non sa come fare? Per essere uno così pieno di esperienza era davvero una frana. Sospirai e dissi coraggio, proviamoci insieme. Dovetti fare quasi tutto da sola, era inorridito all’idea di farmi male. Quando sentii quel dolore fu un vero sollievo: finalmente era successo, ed era successo con lui. Ti ho fatto male domandò ansioso, non preoccuparti non ho sentito nulla risposi, no non guardare sennò il sangue t’impressiona, attento a stare sopra l’asciugamano. Di lì in avanti, se Dio vuole, non c’erano più stati intoppi. Il suo problema non era nulla di così grave in fondo, però mi ero aspettata qualcosa di più di quel leggero ansimare, di quel fremito lieve che alla fine lo percorse tutto. Quando ricadde su di me il cuore gli batteva forte, come se avesse fatto una corsa. Gli accarezzai i capelli. Mi disse grazie e mi baciò una mano. Presto si addormentò. Ed eccomi finalmente sola con me stessa. Cercai di tradurre in un pensiero quello che avevamo provato. Lui lo aveva espresso in un commento, l’unico, sussurrato al mio orecchio, con il quale mi informava che la cosa gli stava piacendo. A dire il vero nei film si vede ben altro, però quel suo sospiro mi aveva causato una profonda emozione. Per esprimere quello che avevo provato io bastavano due parole. Tutto qui?


Certe strane alleanze

Si sedette in punta alla sedia, posando cautamente sul tavolo la borsetta di camoscio color champagne. Il ripiano era mal pulito. Girò lo sguardo all'intorno, con l'aria di pensare che si poteva vivere anche così, con le tendine di cucina a quadretti orlate di pizzo e il gatto accoccolato davanti al camino. - Posso offrirti qualcosa? Accettò un caffè per non offendermi. Mentre lo preparavo cercava le parole giuste e continuava a fissare le mie calze smagliate. - Posso darti del tu? - le chiesi, porgendole lo zucchero. - Come desidera - rispose - Io però non sono abituata a dare del tu a persone più grandi di me; la prego di scusare la mia educazione borghese e di non attribuire la cosa a risentimento personale Le risposi con un cenno affermativo. Non la aiutai a trovare l'ispirazione e la lasciai bere il caffè. Metteva troppo zucchero. - Lei immagina certo - disse finalmente, posando la tazzina - il motivo per cui sono qui: temo anzi che il mio modo di agire le sia parso piuttosto sfacciato. Ma, creda, non è per indiscrezione che mi sono indotta a disturbarla "Mi sono indotta". Interruppi i preamboli con un gesto della mano, come a dire sei scusata. - Sono lieta - riprese - di constatare che lei è ben disposta nei miei confronti. Del resto, se sarà possibile venirsi reciprocamente incontro, la mia visita si ridurrà al minimo indispensabile e non ci sarà bisogno di arrecarle ulteriore disturbo - Nessun disturbo, credimi - Lei sa a cosa mi riferisco Sollevò gli occhi a guardarmi. - Da chi lo hai saputo? - le chiesi. - Amici comuni. Le voci corrono. Ma non devono correre troppo, lei mi capisce Annuii, incrociando le mani sul ventre. - In sostanza si tratta di questo: lei intende occuparsene da sola, non è vero? Le rivolsi uno sguardo fermo. - Questo le fa onore - disse - Chiedo scusa della franchezza, ma avevo qualche dubbio in propositoMi voltai ad accarezzare il gatto Gino, che inarcò la schiena e sollevò la coda. - È strano che lui parli così male di me - dissi. - Oh no, non lui. Lui non parla mai del suo passato Il suo passato, cioè me. Grazie della puntualizzazione. - È un caro bambino - dissi. - Ecco, è questo il punto - riprese lei - È proprio un bambino e ragiona da bambino. Vede, Eloisa, c'è il rischio che, se lui sapesse, la sua generosità lo indurrebbe a compiere un gesto irragionevole. Conosciamo entrambe la sua fragilità psicologica Annuii. - Mi fa piacere - disse - vederla d'accordo con me. Ho comprensione, e simpatia anche, mi creda, per lei, nella delicata situazione in cui ora si trova. Però lei sa meglio di me che sarebbe disumano metterlo di fronte a una scelta così difficile, costringerlo ad assumersi responsabilità alle quali è del tutto impreparato o a torturarsi nel rimorso. La prego di non rovinare la sua vita più di quanto abbia già fatto, involontariamente s'intende A parte qualche giro di frase scontato, un discorsetto davvero toccante. Era curioso sapere che sarebbe stata lei il futuro di Emmanuel, immaginarli darsi il bacio del mattino di fronte ad una tavola apparecchiata di bianco, con due bambini biondi seduti composti e lo sfondo di un prato all'inglese alle spalle. Davvero lui poteva essere felice così? - Rassicurati - le dissi - Non ho nessuna intenzione di coinvolgere Emmanuel in questa faccenda Sospirò profondamente e per la prima volta sorrise. Aveva un bel sorriso. - Grazie - disse. Si rilassò e finalmente si appoggiò allo schienale. La guardai. - Come sta? - Grazie a Dio sta meglio, adesso - rispose, accentuando quell'"adesso".


Mi sentii, come sempre di fronte a quel pensiero, sconfitta, impotente, vile; soprattutto vile. Mi tappavo le orecchie per non sentire, dimmi perché perché, ci sono risposte impossibili sai, che cosa dovrei dirti, se almeno non fossi così bello, se almeno non fossi fatto della materia dei sogni, se almeno non ti desiderassi tanto. Sposami Eloisa, io sposare te bambino che follia, un lungo tunnel di incestuosa ebbrezza e poi lo schianto inevitabile contro il muro all'uscita. Un calcio in faccia, giù dalla zattera, non c’è posto per due: orribile scoperta del mio non-amore, non aver saputo dare la mia vita per te. Adesso sì ero pronta, adesso gli avrei gridato più forte più forte vai più forte mi sarei schiantata ridendo nel buio delle sue pupille dilatate. Ma adesso era tardi. - Sono felice di saperlo - risposi alzando gli occhi. Continuò a fissarmi con rimprovero e non disse nulla. - Devi volergli molto bene - dissi. Abbassò gli occhi azzurri, un azzurro così diverso da quello degli occhi di Emmanuel, e li rialzò fermissimi. - Molto, sì, anche se lui dice che il mio non è vero amore - Lui dice questo? - È abituato a un altro tipo di amore. Secondo il mio modesto parere, gli studi classici non fanno bene a individui come lui - Sono sicura che siete fatti l'uno per l'altra - Anch'io Provavo un grande sollievo. Non era solo, poteva contare sull'appoggio di quella ragazza forte, coraggiosa. E carina, anche: molto carina. Bei capelli, begli occhi, belle tette. La osservai mentre volgeva lo sguardo sulle modeste suppellettili della mia casa e lessi chiaramente una domanda nei suoi occhi: com'era potuto accadere che una persona che viveva in mezzo a quegli squallori conquistasse l'amore di Emmanuel? Sarebbe bastato che io me ne rimanessi al mio posto, fra le mie piccole miserie quotidiane, e nulla di irrimediabile sarebbe successo. Come spiegarti, ragazzina, che l'uomo, non solo voi ricchi ma ogni uomo, ha bisogno di bellezza per vivere, anche quelli che si comprano le bocce di vetro con l'acqua colorata e la neve finta sulla cattedrale e le torri di Pisa imitazione avorio? Ma io no, io mi ero innamorata di ciò che sfugge ai parvenu della bellezza e che sfugge anche a te. Stacci attenta, ragazzina, perché per lui è importante essere adorato in ogni centimetro quadrato del suo splendido essere. La fissai penetrante. Lei avvertì il peso del mio sguardo. Distolse gli occhi ed io mi domandai per quanti secondi ancora avrebbe sopportato la mia presenza. Una grossa cimice ronzava contro il vetro della finestra alla ricerca del pallido sole. Guardò l'orologio. - S’è fatto tardi: bisogna che me ne vada. Le ho già fatto perdere fin troppo tempo Si alzò alla svelta, rassettandosi la gonna, prese la borsetta e mi tese la mano. - Rimanga seduta, non importa - Non mi fa bene stare troppo seduta Mi alzai per farle strada. Il gatto Gino ci seguì e sgusciò fuori, nei campi. Sulla soglia le dissi: - Immagino che non ci vedremo più Mi guardò come a dire che domande, ma si espresse in modo più formale: - Credo che sia meglio evitarlo - Allora addio - Addio, e grazie Si allontanò verso la sua Peugeot azzurra, camminando con la leggerezza di un passero. Mi fece un lieve cenno di saluto, sorridendo impercettibilmente, e se ne andò. Faceva freddo. Richiusi la porta appoggiandovi pesantemente le spalle. Crocifiggimi.


Sorellina

3 aprile, ore 23. - Non adesso, resisti ancora un po’, siamo quasi arrivati - Non dipende da me - Stai molto male? - Sta nascendo, credo - Oddio, no. Non in aperta campagna - Ferma la macchina _._ 15 maggio, ore 21. - È bello il tuo bambino - Sì, bellissimo. Ti ringrazio di tutto, sei stato meraviglioso - Adesso non hai più bisogno di me. Non sei più sola - A che cosa prelude questo discorso? (Silenzio) - Sono innamorato - Innamorato tu? - È la prima volta - È bella? - Bellissima. Distante, inavvicinabile. Fredda come il ghiaccio - Il solo tipo di donna che tu possa amare - Mi sposo fra quindici giorni (Silenzio) - Mi dispiace, sorellina -


Ti sto dimenticando

Gentile Signora Kellermann, E così hai vinto lei. È passato quasi un anno da quando me ne sono andato ed è successo esattamente quello che aveva sperato: lei è diventata una rispettabile signora dell'alta borghesia ed io sto guarendo a poco a poco. Devo questa mia guarigione (o dovrei dire convalescenza) alle cure di una dolce infermiera che mi tiene prigioniero in un castello incantato. E nelle fiabe il lieto fine è d'obbligo: è appunto per comunicarglielo che le scrivo. Arianna e i suoi sono persone splendide. Stiamo preparando l'esame di maturità (le farà piacere sapere anche questo) nel giardino della loro casa di campagna, completamente circondato da un'alta siepe che lo isola dalla strada, ed è da qui che le sto scrivendo. Al di là della siepe si intravede solo la collina brulla e una macchia verdissima di cipressi. Abbiamo sistemato un tavolo e due sedie sotto un ombrellone. La mattina facciamo colazione con tè, fette biscottate e marmellata; poi ci mettiamo a studiare. Di tanto in tanto ci riposiamo sdraiati sull'erba; assorbo i raggi del sole in un torpore assoluto e mi ricarico. La sera per lo più usciamo a passeggio per qualche borgo medievale di questa regione stupenda. C’è solo un posto dove non tornerò mai più, non sto a dirle quale. Tutto perfetto, insomma. La viltà cui mi ha costretto è piacevole: ci sto sprofondando senza scampo, come nelle sabbie mobili. Inutile sondare il fondo dell’indecifrabile tristezza che incrina tutte le mie gioie: manca un significato in queste ore di luce radente e di ombre lunghe, manca il sogno, manca il senso, ma mi dicono che non è importante. Giugno, come lei sa, è il mio mese preferito, un mese pieno e dolce, gonfio di succhi vitali. Il significato del mese di giugno si è sempre riassunto per me nell'odore dei gelsomini in piena fioritura, un odore che è come una promessa. Peccato che sia poi soppiantato dall'inutile luglio, dall'ebete e chiassoso agosto. Ora che l'attesa dell'adolescenza è finita, mi accorgo che avevo atteso qualcosa di infinitamente più vuoto dell'attesa. Mi dirà che è banale, che l’ha già detto Leopardi, ma io lo scopro adesso. Non m'ingannavo, signora: il mondo degli adulti ama la macabra cosmesi del cadavere, ci vuole morti ma presentabili. Siamo già nel museo delle cere. Che dirle, anima mia? Se lei hai dimenticato chi è, io non posso ancora dimenticare chi sono. Dopo di lei non ho avuto nessun credo immanente e riesco a sopravvivere solo con volgari trucchi da prestigiatore. Sono proprio le persone che ci sono più vicine a non poterci capire: quando deridono i voli di gallina che tentiamo, quando per il nostro bene ci sbarrano l'accesso al sogno, dovremmo essere abbastanza onesti da rinunciare a loro piuttosto che ai nostri sogni. Ma è difficile. Io non ho più questo coraggio: l'ho avuto una volta, come forse lei ricorda, e, se mi passa la metafora, non ho ancora finito di raccogliere i miei cocci dalla tazza del gabinetto. Ho scelto di non scegliere; mi lascio vivere accanto alle persone che mi amano e le tengo a bada, lontane dalla sfera dell'intimo. Ci sono verità di una così disperante delicatezza che fa male confessarle a se stessi, senza bisogno dell'ottuso dileggio degli altri, o peggio della loro compassione. E ci sono sentimenti che non si possono esprimere con le parole: non resta che il grido inarticolato, o il silenzio. Suo per sempre Emmanuel P.S.: Ti vorrei qui, fra le mie braccia, per farti vedere come ti sto dimenticando.


Il più bel giorno della mia vita

- Ma le pare, signora? Non lo dica neppure per scherzo! Il suo figliolo è un ragazzo tanto perbene, educato, rispettoso; guardi, è proprio come un figlio per noi. Oh signora, così m'offende: si figuri se per noi è un peso economico… Pensi che dei soldi che gli mandate non tocca niente, dice che sono a nostra disposizione… Sono ancora tutti lì in banca, non chiede mai nulla per sé. E poi sa come si dice da noi, dove c'è da mangiare per tre c'è da mangiare anche per quattro. Anzi, a proposito di mangiare, bisogna quasi pregarlo, povero figliolo, vive d'aria, mangia quanto un uccellino. Adesso va meglio però. Anche a scuola, sa, sono stata a parlare con i professori, son tutti contenti. Sì, stasera le faccio telefonare, non si preoccupi. Ma di nulla, signora, di nulla. A risentirci Mia madre riattaccò e si voltò verso di me. - Arianna, tesoro, cerca di capire: noi si parla per il tuo bene Rimasi a braccia conserte a fissare la parete davanti a me, percorrendo con gli occhi ogni singola voluta degli arabeschi sulla tappezzeria. La sua mano si posò sul mio braccio. - Lo so che è difficile. Adesso non vedi le cose come stanno. Ma il babbo ha ragione: codesto ragazzo non è per te Non risposi. Mio padre teneva le mani giunte e mi guardava con grande apprensione. Non lo avevo mai visto così vecchio, povero babbo: la dentiera gli traballava leggermente quando parlò: - Bambina mia, non abbiamo che te al mondo. Siamo anziani, vorremmo morire tranquilli, saperti al sicuroStrattonai la mano che cercava di tenermi e mi girai con cattiveria verso mio padre: - Morire, babbo? Hai detto bene. Non c'è che una tomba per stare al sicuro Corsi in camera mia e mi ci chiusi dentro sbattendo la porta. Mi buttai sul letto e scoppiai in lacrime. Non volevo piangere, ma il dolore che mi avevano causato le parole dei miei, e la consapevolezza che avevano ragione, mi stavano distruggendo. Emmanuel non c'era: il martedì andava dall'analista. Qualche minuto dopo mia madre mi raggiunse e si sedette sul mio letto. - Non è cattivo, mamma - singhiozzai nel cuscino. - Lo so, - rispose - è un bravo ragazzo. Ma ha qualcosa di strano, figlia mia, non dire di no Mi tirai su a sedere e mi soffiai il naso con il fazzoletto che mia madre mi porgeva. - Ha sofferto tanto, per questo è strano. Ma sta guarendo. Migliora di giorno in giorno, non vedi? - Te l'auguro di cuore - rispose. Era evidente che non vedeva grossi miglioramenti. Sospirò. - E comunque non puoi farne a meno, vero? - No - Neanch'io avrei saputo rinunciare a tuo padre, alla tua età. Che ti devo dire? Va bene, bambina mia. Cerchiamo solo di stare attenti tutti quanti La abbracciai di slancio e nascosi il viso sul suo largo petto che sapeva di basilico e rosmarino. Mi accarezzò i capelli. - Ti ricordi quello che diceva la nonna buonanima? Per capire se un uomo fa per te, devi immaginarlo nudo mentre spinge una carriola in salita. Se ti piace lo stesso, allora vuol dire che sei davvero innamorataNon potei fare a meno di ridere. - È un'idea buffa, mamma - Ma c'è del vero - Per quanto mi riguarda, Emmanuel potrebbe spingere anche un elefante, in salita o in discesa. Non cambierebbe nulla - Lo immaginavo Mi allontanò da sé e mi guardò negli occhi. - Sai cosa dovresti fare? - No, dimmi - Dovresti andare a parlare con don Luciano. Ti conosce fin da bambina, saprà darti i consigli giusti. È parroco a Pieve adesso, lo sai. Portaci anche lui - Non credo che ci verrà, mamma. I preti non gli piacciono -


-

Inventa una scusa. Chiedigli di andare a fare una scampagnata Una scampagnata? È un'idea, mamma. Grazie Adesso vieni, ti preparo un frappé alla fragola No, alla vaniglia. Per favore Quanti vizi, figlia mia Sei tu che mi vizi Fortuna che non hai la mia tendenza a ingrassare Non per vantarmi, ma sono un figurino, mamma _._

- Allora posso contare su di te per il centro estivo? - Certo, don Luciano. Appena avrò dato l'esame. Se tutto va bene, s'intende - Oh, quanto a questo… conoscendoti, andrà benissimo - Speriamo. Studiare ho studiato Faceva caldo. Si asciugò il faccione rubicondo con un fazzoletto a quadri. - Posso contare anche su questo giovanotto? Emmanuel, seduto a cavalcioni del muretto, prendeva il sole davanti alla chiesa, con la schiena appoggiata al tronco di un ippocastano. La sua pelle chiarissima si era subito arrossata. Colto di sorpresa, per un attimo rimase interdetto. Poi, notando la mia espressione, sorrise e disse: - Non so assolutamente cosa devo fare, ma posso provarci Don Luciano gli posò sulla spalla la mano tozza e robusta da prete operaio: - Bravo Rientrammo in sagrestia per prendere gli ultimi accordi. Mentre mi congedavo da lui mi guardò con occhi penetranti e disse: - Dove l'hai conosciuto quel ragazzo? Arrossii. - A un matrimonio di amici. Perché? - Mi pare che non stia bene in salute. È un bel ragazzo, ma è magro, troppo pallido. E quelle occhiaie… - È convalescente da un esaurimento nervoso, don Luciano. Si sta riprendendo un po' alla volta Per qualche secondo non parlò. Poi strinse le labbra e disse solo: - Attenta, Arianna Vide che sbiancavo. Mi fece una carezza sui capelli: - Ad ogni modo non ha lo sguardo cattivo - aggiunse. Arrossii nuovamente e replicai con fermezza: - Don Luciano, lei mi conosce: se fosse cattivo non lo frequenterei - Questo è sicuro: sei sempre stata una ragazza con la testa sul collo - rispose. Mi diede un buffetto sulla guancia e disse: - Salutami il tuo babbo e la tua mamma. E mi raccomando… giudizio! Uscii all'aperto e respirai profondamente. Non vedevo l'ora di andarmene. La giornata era meravigliosa, fresca e soleggiata, con i colori netti, il cielo di un blu profondo, l'aria piena dei canti degli uccelli. Emmanuel era disteso sul muretto, supino, con una gamba piegata e un braccio dietro la nuca. Mi avvicinai a lui e gli feci il solletico sulla pancia. Afferrò la mia mano ridendo; poi si alzò e mi circondò le spalle con un braccio. C'incamminammo verso l'automobile. Mentre stavo salendo al mio posto la gonna mi si sollevò e due passanti rivolsero uno sguardo più che eloquente alle mie gambe. - Hai visto come mi hanno guardata quei due? - gli chiesi mentre avviava l’automobile. Sorrise: - Ho visto, ho visto. È normale, hai delle belle gambe Dopo qualche minuto, un po’ contrariata, gli domandai: - Non sei geloso? - No - rispose con molta tranquillità. - Perché? Uno dei due era un po' grasso, ma l'altro non era niente male - La gelosia non fa parte del mio modo d’essere La sua risposta mi ferì, anche se cercai di non farglielo notare. - È strano che tu non lo sia - gli dissi - Probabilmente non mi vuoi abbastanza bene- Ti sbagli - continuò con lo stesso tono pacato - È che secondo me la gelosia è un sentimento assurdo. Appunto perché ti voglio bene desidero vederti felice. Ora, se sono


in grado di renderti felice non ti potrà capitare di sentirti attratta da un altro, e quindi la gelosia non ha senso. In caso contrario, vuol dire che qualcosa non va. E se è così, è giusto che io lasci il posto ad un altro migliore di me Mi stavo irritando sempre di più. - Emmanuel, - gli dissi - tutti questi bei ragionamenti sono validi in teoria, ma quando uno è innamorato non riesce assolutamente a metterli in pratica. E non mi dire che non lo sai Ci fu un attimo di silenzio. - Sì, lo so - ammise. - E cosa ne deduci? - incalzai. - Che ero un pazzo - Come tutti gli innamorati - conclusi acida. Non rispose. Non ero per nulla soddisfatta di questa conversazione. - Sicché - ripresi dopo un po' - perdoneresti un tradimento come se niente fosse? Si fece molto serio. - Arianna, - rispose - io non perdono affatto i tradimenti - Come sarebbe a dire? Non sei geloso ma non perdoni i tradimenti? - Esattamente - Non credo di capire - Eppure è molto semplice. Ti faccio un esempio: supponiamo che noi due ci accordiamo in anticipo sul fatto che la nostra è una coppia libera e che non siamo tenuti alla fedeltà reciproca... Lo interruppi. - Non se ne parla nemmeno Scoppiò a ridere. - È solo un esempio, sciocchina. Ad ogni modo, supponiamo che sia questo l'accordo: bene, a questo punto so a cosa vado incontro e se l'offerta non mi piace la declino gentilmente - Ecco, appunto - Se invece tu mi giuri eterna fedeltà e poi mi pugnali alle spalle, allora non ti perdono. Ma non c'entra niente la gelosia: non ti perdono la slealtà, il tradimento della parola data - Fa tanto Catullo: il mancato rispetto del foedus... - Infatti. E non ti parlo solo dei tradimenti fisici, ma di qualsiasi tradimento della mia fiducia. Ci sono tradimenti peggiori di quelli sessuali Mi sentii a disagio e lasciai cadere il discorso. Si concentrò sulla guida. - Andiamo a Caprese? - gli chiesi all'improvviso. - Perché no? È un posto stupendo - rispose. - E poi saliamo fino alla Verna Diede uno sguardo alle mie gambe nude accavallate. - Mi sa che avrai freddo vestita così. Si sale a più di mille metri e siamo solo a maggio - Ho portato il golfino - Allora va bene - Certe volte mi stupisco di te: come fai a conoscere così bene la Toscana? - È una regione che ho amato molto - Perché usi il passato? - Ho usato il passato? - Il passato prossimo, per l'esattezza - Non me ne sono accorto La strada s'inerpicava su per la collina attraversando paesaggi da favola; la bellezza della giornata, i profumi dell'aria, la magia dei luoghi e la vicinanza di Emmanuel mi stordivano. Mi venne un po' di nausea, perché lui guidava in uno strano modo zigzagante. Gli chiesi perché lo facesse, mi chiese scusa e smise. Rovesciai la testa all'indietro e chiusi gli occhi. Quando li riaprii vidi alla nostra sinistra una pieve abbandonata che avevo già notato in passato. Un'idea assurda mi balenò in mente. - Svolta di qua, per piacere - gli dissi - Ho sempre desiderato vedere quella pieve da vicino Obbedì. Cominciammo a scendere lungo la stradina di campagna. Parcheggiò la Volvo del babbo accanto ad una macchia di lecci e scendemmo.


Visitare l'interno dell'edificio era impossibile: il portone era chiuso e non c'era anima viva. Facemmo il giro della pieve, bellissima nella sua nudità francescana, inoltrandoci fra cespugli e roveti; io camminavo con cautela, impacciata dai tacchi alti, cercando di non graffiarmi le gambe. Ci fermammo sul retro della chiesa, nascosti dalla cinta diroccata delle mura di quello che doveva essere stato un piccolo convento. Il luogo era incredibilmente suggestivo, la vallata davanti a noi, pressoché disabitata, digradava dolcemente verso le colline che si perdevano all'orizzonte in uno sfumato leonardesco. Gli circondai il collo con le braccia e lasciai che mi baciasse. Poi mi sfilai il golfino, mi ci sedetti sopra e lo trascinai con me nell'erba. All'improvviso ebbe un attimo di sbandamento: la fronte gli s'imperlò di sudore e si passò una mano sugli occhi. - Qualcosa non va? - gli chiesi. - Dobbiamo proprio farlo qui? - disse con voce alterata. - Perché, non ti piace questo posto? - Mi piace - rispose - È solo che tutte queste chiese cominciano a darmi un po' in testa- Tutte queste chiese? - domandai. - Niente, lascia stare, non puoi capire Ricominciò a baciarmi. Mi baciava con molta naturalezza, la stessa naturalezza con cui faceva l'amore. Ed era proprio questo il problema. Di colpo lo interruppi e mi drizzai a sedere. - Che c'è? - mi chiese. - Emmanuel - cominciai, ma non sapevo come proseguire. Mi guardò un po' preoccupato. - Che succede? - chiese di nuovo. - Non so come dirtelo Mi baciò la nuca: - Non farmi paura. Qualsiasi cosa tu mi debba dire, preferisco saperla subito Esitai. Poi dissi con voce ferma: - Emmanuel, non può funzionare fra noi due Ci fu un attimo di silenzio. - Perché? - chiese con un filo di voce. - Perché sono sicura che con lei fosse tutto diverso Non rispose nulla e rimase ad occhi bassi. - È così? Rispondi - Sì, è così - confermò. Sapevo che avrebbe risposto questo, ma le sue parole furono una coltellata nello stomaco. - Lasciamo perdere - dissi freddamente - Cerchiamo di essere buoni amici e basta - Ma perché? - chiese di nuovo. Sembrava che soffrisse. Cercò di abbracciarmi, lo respinsi. Non sopportavo più il suo contatto e nello stesso tempo lo desideravo da impazzire, una sensazione orribile. - Perché non so niente di te - dissi con un nodo alla gola - Non capisco neppure cosa c'era con lei, cosa manca fra noi Sospirò profondamente ed appoggiò la fronte sulla mia spalla accarezzandomi una caviglia. - Che bei piedini che hai - disse - Ti stanno benissimo questi sandali, sono molto femminili. Ma col tuo fisico sottile stai bene con tutto, sei femminile anche in jeans e maglietta Mi irritò profondamente quel suo tentativo di cambiare discorso. - Grazie, lo so - risposi asciutta - Non ho bisogno dei tuoi complimenti Fermai la sua mano che cercava di salire lungo la mia gamba e la appoggiai ostentatamente nell'erba. Non osò più toccarmi. Tacque per qualche secondo. - Arianna, - disse poi con dolcezza - non ho mai pensato di ripetere quell'esperienza con te. A me sta bene così Mi voltai a fissarlo: - E non hai mai pensato che potrebbe non star bene a me? Mi guardò negli occhi. - Credevo che ti piacesse - disse. - Mi piace, infatti, ma non mi basta. Io voglio che tu mi faccia sentire quello che sentiva lei Scosse la testa con un sorriso storto e si allontanò da me.


- No, questo non è proprio possibile - Perché? - gli chiesi. Per qualche istante non seppe che cosa rispondere. - Perché lei…- cominciò, e s'interruppe. - Perché lei provava sensazioni fisiche che io non provo? - continuai. - Be', anche - disse. Era vistosamente in difficoltà, ma non intendevo aiutarlo. - E secondo te - proseguii implacabile - per quale motivo io non le provo? Sono minorata, deficiente, frigida? Si voltò a guardarmi con un'espressione quasi di supplica. Gli occhi mi si riempirono di lacrime, ma erano lacrime di rabbia. - Non lo capisci che mi fai sentire così? - dissi con profondo rancore. Mi accarezzò il viso. - Arianna, ti prego - disse - Tu mi piaci come sei, e io non voglio…- Che cosa non vuoi? Non rispose. Scossi la testa. - Sei di un maschilismo rivoltante, Emmanuel - Maschilismo? Era sbigottito. Lo guardai con occhi durissimi. - Nel tuo immaginario io sono la ragazzina perbene che riscatta il tuo torbido passato con una donna perduta, non è così? Non t'importa niente di sapere chi sono in realtà - Ti sbagli - disse, ma non seppe motivare la sua affermazione. Abbassò gli occhi e rimase fermo in silenzio davanti a me. Mi distesi nell'erba e lo guardai. Era di una bellezza angelica in quel controluce. Portava una semplice maglietta girocollo verde militare a maniche lunghe sui jeans troppo larghi, non gli si vedeva un centimetro di pelle, eppure emanava una sensualità irresistibile. Emmanuel era tanto più attraente quanto più cercava di essere casto, e la cornice era perfetta, una pieve in aperta campagna nei luoghi di San Francesco. Lo desideravo con tutta me stessa, doveva succedere. Piegai le gambe, mi sfilai un sandalo. - Emmanuel, - dissi - io voglio che mi piaccia come piaceva a lei. Perché per me dev'essere diverso? - Lei era una donna - disse intimidito - Tu sei una ragazzina, ed è normale che tu non riesca ancora…Faceva finta di non capire. Lo interruppi. - Non sono affatto una ragazzina. A diciott'anni una donna è adulta Non seppe che dire. Gli presi una mano, la portai sul mio ginocchio e continuai: - Ammettiamo pure che sia normale, Emmanuel. Ma sai cosa credo? - Cosa? - Che sia ora d'imparare - Sì? - Sì. E sai cosa credo anche? - Cosa? - Che nessuno possa insegnarmelo meglio di te Lo tirai giù per un braccio. _._ Il rimpianto incancellabile che ho di Emmanuel è legato soprattutto alla persona che lui cercava in tutti i modi di tenermi nascosta, chissà poi perché. Quella volta riuscii a portarla allo scoperto e ne rimasi commossa fino alle lacrime. Fece tutto il possibile per eliminare ogni volgarità, ogni brutalità, direi ogni fisicità da quella situazione; mi avvolse in un affetto dolcissimo, quasi materno. Solo allora, finalmente, si decise a tirar fuori quello che potrei definire il suo repertorio. E, accidenti, era bravo davvero. Fu molto difficile per me. Ero piena di inibizioni e di barriere razionali, mi pareva impossibile superarle. Mi spaventavo, mi demoralizzavo, mi deconcentravo di continuo; ma lui era come un cane da pastore che non perde d'occhio il suo gregge neppure per un istante, e quando vede una pecora sbrancarsi la risospinge al suo posto con il muso. Non mi permise mai di perdere il filo. Man mano che le mie sensazioni crescevano lui si faceva sempre più attento e premuroso, mormorava al mio orecchio frasi tenere, mi diceva di non aver paura, di stare tranquilla, di rilassarmi, mi baciava gli occhi e la fronte. Ad un certo punto tremò tutto, sussurrò ti voglio bene bambina, mi strinse fortissimo e fu come se un'onda calda


si trasmettesse da lui a me, travolgendomi. Gridai per la sorpresa e chiusi gli occhi aggrappandomi a lui. Quando li riaprii il cuore mi batteva fortissimo. Sorrisi, mi sorrise. - È bellissimo, - gli dissi entusiasta - voglio rifarlo subito - No, - disse dolcemente - non bisogna esagerare, non ti farebbe bene. Aspettiamo un po'Sapevo che parlava per esperienza personale e non osai contraddirlo. - Adesso sono veramente tua - gli dissi. Mi accarezzò i capelli senza rispondere. Mi resi conto che avevo pensato solo a me e che ero stata un'egoista. - E tu? - gli chiesi. - Io sto benissimo. Davvero Non sapevo se considerarlo un complimento o se offendermi per queste sue parole; insomma, se mi avesse trovata davvero attraente non si sarebbe accontentato di stare lì a guardarmi. Ma la sua espressione era così bella, trasfigurata direi, che decisi di lasciar perdere tutto. All'improvviso lo vidi irrigidirsi. I suoi occhi viola assunsero una fissità irreale. - Che c'è? - chiesi spaventata. - Non muoverti - disse. Lentamente mi prese fra le braccia, fece qualche passo indietro con una strana cautela, poi cominciò a correre verso l'automobile. Quando arrivammo sullo sterrato davanti alla pieve rallentò l'andatura e fece per posarmi a terra, ma uno sguardo ai miei tacchi alti e sottili bastò per fargli cambiare idea. Non sono né piccola di statura né molto leggera, per cui mi stupì la forza di cui diede prova in quella circostanza, nonostante il suo fisico debilitato. Mi adagiò sul sedile della macchina e si lasciò cadere al posto di guida, sfinito. Non feci domande, lasciai che riprendesse fiato. Quando riuscì a parlare disse: - C'era una vipera dietro di te, sul muretto Ebbi un fremito di orrore. - Dio, - dissi - chissà da quanto tempo era lì - Già, - rispose - avrà assistito a tutta la scena Cercai di scherzare: - Speriamo che le sia piaciuta Reclinò lo schienale, si distese e mi prese una mano, cercando di rilassarsi. La stanchezza gli aveva accentuato le occhiaie. Chiuse gli occhi e respirò profondamente. Rimasi a guardarlo. - Emmanuel - gli dissi dopo un po'. - Sì - sussurrò. - Ti amo Ci fu un attimo di silenzio. Mi baciò la mano. - Anch'io ti voglio bene - rispose. Non era lo stesso verbo che avevo usato io, ma non dissi nulla, non era il momento. - Ti piacerebbe sposarti qui? - domandai all'improvviso. Non aprì gli occhi. Esitò, poi disse: - Sposarmi? Non è un po' presto? - Dico per dire. Chi vorresti come testimone? - La vipera - rispose ridendo - Ormai sa tutto di noi Feci una pausa. - Noi chi? Si stava parlando di te Intrecciò le sue dita alle mie guardando il cielo e non rispose. Tacque a lungo, seguendo il farsi e disfarsi delle nuvole e dei suoi pensieri che correvano veloci. Poi disse: - Non sai quante volte mi sono vergognato di me stesso, Arianna - no ti prego, non interrompermi, ti sto dicendo la pura verità. Ci sono persone che non hanno bisogno di cercare il senso della vita: lo trovano nella vita stessa. Chiamale superficiali se vuoi, ma è la natura che le vuole così. Sono loro i veri vincenti, superficialità e disprezzo fanno parte del corredo che serve per riuscire nella vita. E ci sono persone che invece hanno bisogno di cercare il senso in qualcos'altro, magari nel dedicare la loro vita al prossimo. Io non riesco a fare né l'una né l'altra cosa. Credimi, ci ho provato, ma proprio non ci riesco. Ammiro le persone che si sforzano di fare del bene al prossimo, ma non riesco ad imitarle. C’è un dubbio che mi paralizza: che cosa farebbero queste persone se il male non esistesse? Perderebbero la loro ragione di vita? E allora cosa bisogna concluderne,


che dal loro punto di vista è un bene che il male esista? Davvero Arianna, c’è qualcosa che non riesco a capire. Il meglio che riesco a fare è lasciarmi trainare da te Sorrise pallidamente: - Non dico che sarò un pessimo animatore al centro estivo. Magari riuscirò anche a divertirli, i bambini. Ma non è una mia iniziativa, capisci? A me non verrebbe mai in mente. Io credo di non avere mai avuto un'iniziativa, se escludi quelle che mi hanno distrutto la vita - Forse dovresti fare l’artista - azzardai - Hai un senso estetico molto sviluppato Scosse la testa. - Non ho nessun talento artistico. Se ne avessi farei il musicista - Sai scrivere - obiettai. Si voltò verso di me e per qualche secondo non disse niente. - Come lo sai? - chiese poi. Arrossii fino alla radice dei capelli. - Mi è capitato di leggere qualcosa di tuo. Qualche tema, roba del genere... Mi fissò con uno sguardo penetrante. - Quello che scrivo - disse - riguarda solo me stesso. Non interessa a nessun altro - Sbagli - dissi timidamente. Tornò a distendersi. - Non ho mai pensato di pubblicare qualcosa di quello che ho scritto - proseguì - Mi vergognerei, e poi a me non interessa il successo. Anche per me lo spelling di success è suck-sess Non compresi. - Per te e per chi altro? - Niente, lascia stare Fissò le colline davanti a sé e riprese il filo di un discorso che credevo avesse lasciato cadere. - Per amare bisogna essere completamente vivi, Arianna, e io lo sono solo per metà. Non lasciarti ingannare dalle apparenze: non sono più vivo di uno sopravvissuto a una catastrofe nucleare. Contaminato, nella migliore delle ipotesi - Guarirai - gli dissi. Scosse la testa. - Tu non mi hai conosciuto prima. Non ero molto diverso, sai? Ero solo più illuso. Ma sono sempre stato un debole, uno che non riesce a vivere se non capisce il senso. E io davvero non lo capisco - Il senso di cosa? - Di tutto. Ti faccio un esempio banale. Poco fa, mentre guidavo per venire qui, cercavo di evitare le lucertole che si erano messe a prendere il sole sull'asfalto - Per questo guidavi così male? Sorrise. - Già, per questo. Mentre andavo avanti le farfalle mi si buttavano sotto. All'inizio cercavo di evitarle, poi ho capito che non era possibile, tu mi hai detto che ti era venuta la nausea, e allora ho cominciato a travolgerle cercando di non pensarci. Ad un certo punto mi sono trovato davanti un ramarro: l'ho preso per una foglia, mi sono accorto troppo tardi che era vivo, che mi guardava, e io quello sguardo non lo dimenticherò mai. Gli ho schiacciato la testa con una ruota. Nel retrovisore ho visto il suo corpo ancora semivivo che si dibatteva. Io non posso farti capire come mi sento quando succedono cose del genere - Emmanuel, - gli dissi con dolcezza - era solo una lucertola verde un po' cresciuta Scosse di nuovo il capo. - La vita è vita, Arianna. È solo la nostra presunzione che ci fa credere il contrario. L’uomo vertice e scopo della creazione! Il che ci autorizza a fare del male a tutto il resto del creato, ci assolve a priori, pensa un po’, non dobbiamo neppure confessarci degli inauditi crimini che commettiamo ai danni degli altri esseri viventi. Non posso capacitarmi che l’intero edificio di diverse religioni, e perfino di qualche filosofia, poggi su questo ridicolo assioma. Per questo non potrò mai credere nella tua religione, per questo in chiesa mi sento un estraneo. Io non vorrei fare del male a una mosca, capisci? Preferisco mille volte soffrire - È la legge della vita, - ribattei, sapendo di dire una banalità - il male di vivere montaliano -


- Ma è proprio questo il punto: io questa legge non la capisco, non la condivido, e quindi non vedo perché devo accettarla. Il fatto che ne abbiano parlato Leopardi, Dostoevskij, Montale, e prima di loro Eschilo e Sofocle e chissà quanti altri, non mi è di nessun aiuto. Il problema che è stato di Montale adesso è mio. Il problema si ripresenta identico a tutti quelli che vengono al mondo, la gente fa figli senza pensarci e tutti sono contenti quando nasce un bambino, come se fosse una bella cosa. Io ho un istintivo orrore verso il matrimonio, mi fanno paura le nascite. Tu penserai che sono pazzo, ma a me sembrano pazzi quelli che pensano il contrario. Hai presente quella terribile pubblicità dove sono tutti felici di cose banali e non si vedono altro che bambini, donne col pancione, mariti innamorati e nonni soddisfatti? - Quella della pasta? - Proprio quella. Quando la vedo in televisione mi sento male, devo scappare via. Mi domando quanto si debba essere stupidi, mediocri, fasulli per sopportarla, anzi per apprezzarla: perché se la trasmettono da anni vuol dire che funziona, e questo è terribile, Arianna, davvero terribile Anch'io trovavo quella pubblicità piuttosto melensa, ma non avevo mai provato il suo sincero orrore, e a dire il vero non lo capivo. Ad ogni modo gli diedi ragione per non contrariarlo. Parve calmarsi un po’ e abbandonò di nuovo la testa contro lo schienale, con un languore estenuato che, in lui, aveva qualcosa di profondamente erotico. - Io non volevo nascere - disse ad un tratto, in modo del tutto irrazionale. - Be’, nemmeno io - tentai di scherzare - Temo che non dipenda da noi - Appunto - confermò con durezza - Ti racconto una cosa che non ho mai detto a nessuno- Ti ascolto - gli dissi. Mi sentivo orgogliosa del privilegio. - Avevo solo sei anni quando zia Luisa, la sorella di mio padre, si ammalò di cancro al seno. Era una donna bellissima e dolce, la mia zia preferita, e aveva solo trentotto anni. Ricordo perfettamente il giorno in cui, per la prima volta nella mia vita, presi coscienza dell’orrore in cui ero precipitato. Sentivo mio padre e mia madre nella stanza accanto parlare sottovoce con mio fratello della zia che stava morendo devastata dalla sofferenza; sottovoce, capisci? Perché io non dovevo sapere, non dovevo capire, dovevo essere tenuto all’oscuro dell’inganno. Mi è rimasto impresso tutto di quel momento. Ero in salotto, raggomitolato in un angolo vicino al termosifone, seduto sul pavimento di marmo gelato; tremavo di paura, ascoltavo le voci dei miei, vedevo la grande specchiera impero davanti a me, il tappeto persiano, la vetrinetta con le maioliche pregiate e le statuette di giada, l’argenteria sui mobili lucidi, sentivo contro la guancia il ruvido della fodera di damasco del divano antico, guardavo tutto quell’inutile lusso e intanto pensavo: “Ma dove sono finito? Che ci faccio io qui? Cosa c’entro con tutto questo?” Prese fiato e s’interruppe. Non dissi nulla. - Ad un certo punto - riprese - sentii la voce di Giuliano che diceva: “Dov’è Emmanuel?”. Smisero di parlare e vennero a cercarmi. Quando vidi apparire mio padre e mia madre mi sentii invadere da un odio cieco e incontrollabile, balzai in piedi e urlai: “Via, via, non toccatemi!” Mia madre era molto spaventata, corse ad abbracciarmi, ma la respinsi con tutte le mie forze e le gridai in faccia: “Cosa mi hai fatto, mamma? Ti odio!”. Poi scappai in giardino. Corsi a perdifiato, quasi non vedevo dove andavo, le lacrime mi accecavano. Alla fine raggiunsi il capanno in fondo al prato, aprii una gabbia e mi rannicchiai nel fieno tra due conigli. Non erano spaventati, forse avevano capito la situazione, chissà. Continuai a piangere disperatamente per molto tempo stringendo fra le braccia un coniglio. Poi mi addormentai. Al mio risveglio aprii tutte le gabbie e liberai i conigli. Rientrai in casa senza dire una parola di scusa e senza salutare nessuno. Avevo completamente perso l’innocenza - A sei anni! - dissi con tenerezza, accarezzandogli una mano - È davvero troppo presto, Emmanuel - Lo so - rispose. Tacque di nuovo per qualche secondo. - Non voglio ripetere i discorsi dei filosofi, - riprese poi - vorrei riuscire a dirtelo con parole mie. Non solo non ho mai creduto che Dio abbia fatto l’uomo a sua immagine e somiglianza, ma non riesco neppure a credere il contrario, e cioè che Dio l’abbiamo inventato noi, come dicono molti. È una soluzione semplicistica. Forse il Dio padre, il Dio misericordioso, quello sì l’abbiamo inventato noi: siamo tutti bambini di fronte al dolore, desideriamo tutti un padre che ci protegga; ma non quello che ha creato il mondo e ha voluto o permesso (non fa alcuna differenza) che ci fosse il male. Quel Dio,


chiunque sia, esiste, le sue leggi sono visibili dappertutto, solo un ottuso materialista può affermare il contrario - Allora credi in Dio? - Purtroppo, Arianna. Preferirei non crederci, ma non riesco a farne a meno - Perché purtroppo? - Perché c’è qualcosa di sbagliato, non capisci? Una persona dotata di un senso etico non dico al di sopra della norma, ma appena normale, non avrebbe creato il mondo così, non sfogherebbe sulle sue creature questa abnorme crudeltà che alcune religioni confondono con la giustizia. E se lui ha creato noi, perché gli assomigliamo così poco? Sarebbe tutto perfettamente comprensibile se fossimo fatti come lui. E invece no: io non ho nulla in comune con l'essere sadico che ha progettato tutto questo e che si fa chiamare Dio. Ma allora da dove arrivo io? È questo il problema dei problemi, Arianna Scossi la testa. - Temo che non abbia soluzione, se non nella fede Si riscosse all’improvviso. - Ecco, la fede. E se fosse proprio questo il suo inganno più raffinato? Il farci credere che non possiamo capire, che dobbiamo credere nei dogmi. E se invece la soluzione ci fosse? Se fosse magari più semplice del previsto? - Cosa intendi dire? - È come quando non capisci il senso di un disegno e poi ti accorgi che stai semplicemente guardandolo capovolto. Basta girarlo, Arianna - Non ti seguo più - dissi sconcertata. - Ascoltami. Che senso avrebbe, da parte di Dio, fornire all’uomo la ragione per poi impedirgli di usarla? Perché credere per fede vuol dire questo - E allora? - Non capisci? Non è lo stesso Dio quello che ci ha dato la ragione e quello che cerca di impedirci di usarla. Sono due entità diverse Lo guardai allibita: temevo che gli avesse dato di volta il cervello. - Il serpente, - proseguì - quello dell’Eden, dice ad Adamo ed Eva che se mangeranno il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male diventeranno simili a Dio, e che è proprio per questo che Dio vuole impedirlo loro - Ebbene? - chiesi. Si voltò a guardarmi con una strana fosforescenza negli occhi: - E se il serpente avesse ragione? Se cercasse semplicemente di metterli in guardia contro le imposture del falso Dio? Se il falso Dio con i suoi comandamenti cercasse semplicemente di perpetuare il suo predominio sulla materia? Per questo incoraggia la procreazione, per questo dice “onora il padre e la madre”, quando, se uno ragionasse secondo logica, sarebbe già troppo non odiarli Questa volta parlai con severità: - Emmanuel, stai bestemmiando - Perché? Perché cerco di capire come stanno le cose?- Parli come un eretico Sorrise stancamente: - Forse lo ero, in un'altra vita. Forse ero una strega, chissà. E forse don Luciano era l’inquisitore che mi ha fatto bruciare sul rogo, mentre tu applaudivi tra la folla - Sei molto ingiusto - gli dissi - Don Luciano è un brav’uomo, si preoccupa del mio bene. E il mio cristianesimo è quello di San Francesco: non per nulla ti ho chiesto di andare alla Verna - Francesco è un uomo che anch'io amo profondamente, ma non dimenticare che i francescani hanno prestato il loro braccio alla Santa Inquisizione - Non hanno capito il suo messaggio - Può darsi Si accorse che ero avvilita e baciò di nuovo la mia mano. Poi disse: - Dammi una sola ragione per credere che la sofferenza abbia un senso e io sarò immensamente felice di cambiare idea. E non parlarmi della vita come banco di prova per l'aldilà e di altre soluzioni di comodo per soli esseri umani, perché io ti sto parlando del male inutile, del male fine a se stesso, la sofferenza di un cane, di una lucertola, di una mosca. Dimmelo tu a cosa serve, Arianna. Dimmelo tu cos'aveva in mente questa intelligenza superiore che chiami Dio per divertirsi a torturare un essere inerme, dimmelo tu qual è il risarcimento previsto per un gatto nero crocifisso da un pazzo che crede di agire a nome e per conto di Dio. E forse è proprio così, forse è proprio lui il vero


interprete di quel Dio. Ma io no, io non intendo permettere a un burattinaio criminale di servirsi di me per il suo gioco perverso. Vuole realizzare il suo piano malefico? Faccia pure, è lui il più forte, non posso oppormi in nessun modo. Ma non gli permetto, proprio non gli permetto di usarmi. E invece lui mi costringe a fare comunque del male, anche involontariamente, e io questo lo giudico il più vile dei tradimenti. Probabilmente sono ottuso, stupido, inetto, ma non me ne importa niente di capire. Tutto quello che so è che non voglio essere suo complice. Preferisco morire, Arianna, e il paradiso non lo voglio, se assomiglia a lui La sua sofferenza era tangibile. Non seppi assolutamente cosa replicare. Si voltò verso di me. - Penso di avere cercato per tutta la vita di uscire dal gioco. Penso che Eloisa e Michelle siano state un modo di morire in anticipo senza soffrire. Io con loro mi dimenticavo di tutto, soprattutto di me stesso - Chi è Michelle? Non l’hai mai nominata finora - Lascia stare, è acqua passata - È per questo che…- mi mancò il coraggio di proseguire. Completò il mio pensiero: - …che mi facevo? Puoi dirlo, sai - Ecco, sì - Per questo e anche per altre cose. Ma non è più importante. Ora sto meglio, sono di nuovo lucido; e poi adesso ci sei tu Tenevo gli occhi bassi per l'imbarazzo. Mi sollevò il mento con due dita. - Guardami, Arianna Lo guardai. I suoi occhi erano immensi, ingigantiti dalle occhiaie, come se il blu delle sue iridi proiettasse un alone azzurrognolo all'intorno. Non c'era nessuno schermo, nessuna finzione. Mi prese una mano e parlò lentamente, con dolcezza: - Se posso vedere ancora queste colline, è perché tu mi presti i tuoi occhi. Se posso ancora fare l'amore, è perché sento attraverso il tuo corpo. Ed è tutto molto bello, perché sei bella tu. Certe volte resto sveglio, la notte, e penso che non può essere vero. Io dovrei essere morto già da un pezzo, ma per qualche strana ragione tu mi vuoi vivo. Tu sei limpida, sincera, coraggiosa. Sei quel poco di sangue pulito che ancora mi scorre nelle vene La mia mano tremava. La chiuse con delicatezza fra le sue. - So che sto per cadere in contraddizione con quello che ti ho detto prima, so che non è saggio per un eretico sposare il proprio inquisitore, ma io non posso permettermi di perderti, e se fosse l’unico modo per averti te lo chiederei, Arianna. Accetteresti? - Accetterei cosa? - domandai. Mi tremava anche la voce. Sorrise e disse: - Ad una condizione però: cerimonia intima e niente abito bianco, intesi? Mi vergogno a dirlo, ma gli buttai le braccia al collo come una bambina e piansi per la gioia.


Giudizi

Giudizio globale di ammissione all'esame di Maturità classica Candidato: Kellermann Emmanuel Christian Personalità enigmatica ed introversa, non ha consentito agli insegnanti di comprendere le ragioni della sua freddezza nei confronti della vita scolastica, che ha reso piuttosto discontinuo il suo rendimento. È dotato di capacità intellettive decisamente buone, di spiccato senso critico ed estetico, di una preparazione di base piuttosto solida, cui si aggiunge il possesso di un efficace metodo di studio: tuttavia il suo approccio nei confronti delle materie scolastiche è spesso puramente accademico e raramente sembra risvegliare echi profondi nel suo animo. Buona comunque la sua preparazione nel settore letterario, a lui particolarmente congeniale, ed in quelli storico-filosofico ed artistico, mentre i risultati in ambito scientifico si mantengono su un livello non più che discreto. Si consigliano studi di tipo umanistico.

Giudizi analitici per singole materie ITALIANO: Alle dimostrazioni di solide qualità intellettuali e di notevole sensibilità estetica del candidato fanno riscontro alterne prove di interesse e partecipazione: non uniforme, quindi, il profitto, per una certa incomprensibile umoralità delle sue scelte. Gli esiti in questa disciplina, comunque, sono buoni tanto nello scritto quanto nell'orale. LATINO: Allievo di grande fascino personale e di notevoli potenzialità intellettuali, ma assai selettivo nei suoi obiettivi culturali e non sempre assiduo nell'impegno scolastico, ha fatto registrare una sensibile crescita di interesse e di rendimento in campo letterario, in cui, favorito anche dalla sicura padronanza dei mezzi espressivi, ha modo di dimostrare acume critico e di far risaltare al meglio le sue doti analitiche e sintetiche; meno solida la preparazione linguistica, che, se non è tale da assicurargli nello scritto risultati uniformemente positivi, ha però raggiunto un livello soddisfacente nello studio degli autori, così da garantirgli una preparazione complessiva pressoché buona. GRECO: Se l'allievo avesse adeguatamente coltivato le sue belle doti intellettuali in questa materia, per la quale appare notevolmente predisposto, avrebbe potuto ottenere risultati lusinghieri anche nello scritto, che si attesta invece su un livello di semplice sufficienza. La sua preparazione orale, condizionata dal suo interesse per le tematiche affrontate, è in genere ottima nel settore letterario, ma discontinua in quello degli autori. Il profitto globale è comunque più che discreto. INGLESE: L’alunno, pur proveniente da un liceo classico di tipo tradizionale, ha aderito alla sperimentazione di lingua straniera in atto nel triennio del nostro Istituto, integrandosi perfettamente nella nuova realtà scolastica. Favorito dall’eccellente pronuncia e dal sicuro possesso delle nozioni grammaticali di base, seppure incostante nello studio, ha manifestato interesse e partecipazione per la materia, di cui ha approfondito particolarmente gli aspetti letterari, conseguendo valutazioni complessivamente più che buone. STORIA: Indubbiamente sensibile ai valori culturali, dotato di buone capacità di analisi e giudizio, ancorché discontinuo nell’impegno, ha dimostrato interesse per la materia ed una certa abilità nel collegare consequenzialmente gli argomenti storici trattati e nel vagliarli criticamente. Il profitto è da ritenersi più che discreto.


FILOSOFIA: L'allievo ha vissuto l'impegno scolastico con atteggiamento alterno: a momenti di spiccato interesse, che lo hanno visto protagonista attivo e brillante durante le lezioni, sono subentrati momenti di distrazione e scarso rendimento; i risultati sono comunque più che discreti. MATEMATICA: Sottilmente autoironico, evidenzia indubbie capacità logico-critiche, spirito di osservazione ed un efficace metodo di studio. La partecipazione e l'interesse per la disciplina, tuttavia, sono assai modesti, anche se l’impegno non è mai venuto meno. Il profitto è sufficiente. FISICA: Dimostra di avere notevole intuito, buone capacità di argomentazione e adeguata consapevolezza critica, ma manca di un regolare ritmo di studio e di lavoro, rischiando a volte di apparire incostante e trascurato. Il giudizio, probabilmente riduttivo, è sufficiente. SCIENZE: L'allievo, pur mostrando interesse per la disciplina e attenzione alle lezioni, non ha saputo superare il limite di una preparazione mnemonica e a volte un po' superficiale. I risultati sono comunque discreti. STORIA DELL'ARTE: Personalità di non facile decifrazione, ha sempre dato l’impressione di poter ottenere risultati ancor più brillanti di quelli, pur positivi, che consegue. Saldo appare il suo possesso degli argomenti storico-artistici e non comune la sua sensibilità estetica; gli esiti sono mediamente più che buoni. EDUCAZIONE FISICA: L'allievo ha dimostrato ottime capacità, anche se il suo impegno non è stato sempre all’altezza delle sue attitudini. Il suo profitto è buono, come pure il suo comportamento.


Certe mezze verità

Una placida giornata di fine luglio goduta nel più ovvio dei modi, in un silenzio caldo e riposante, su un dondolo che cigola piano avanti e indietro, la mano nella mano e gli occhi alla collina. - Hai sentito com’era contenta tua madre? E stasera voglio che parli anche col tuo babbo. Gli telefoni appena arriva dal lavoro. Bisognerà che tu vada a trovarli al più presto: non vedono l'ora di rivederti, poveretti - D’accordo - Siamo tutti orgogliosi di te. Cinquantaquattro è un bellissimo voto - Parli dall’alto del tuo sessanta - Io ho studiato tutto l’anno, non gli ultimi tre mesi - Evidentemente bastavano tre mesi - Diciamo la verità, hai avuto un pizzico di fortuna: quell’orale di latino... - Un po’ istrionico, vuoi dire? - Già. E poi, con la Contini come membro interno... Annuì pigro, la nuca allo schienale. Languido e trasognato, fissava le brume leggere nella valle. Guarito? Fisicamente stava molto meglio. Aveva i capelli corti, si era irrobustito un po’ ed era abbronzato. Da qualche tempo aveva avvolto in un criptico silenzio il suo passato con lei. Non rispondeva più alle mie domande, sembrava non conservare memoria dell’accaduto. Il suo diario era diventato una specie di resoconto impersonale di fatti quotidiani, zeppo di descrizioni naturalistiche, un fiacco esercizio di stile. L’anno era trascorso ed io sapevo di dovergli qualcosa. Lo sapeva anche lui, ma, per una sorta di tacito accordo, nessuno dei due entrava nell’argomento. Avevamo raggiunto con immensa fatica un equilibrio, si viveva bene così, e non volevamo mettere tutto a rischio. I miei anziani genitori si erano affezionati a lui come ad un figlio ed erano felici di vedermi felice, sebbene continuassero ad essere preoccupati per me: Emmanuel non rappresentava certo quel futuro solido e sereno che qualsiasi genitore si augura per la propria figlia. Ma la mia tenacia e la mia determinazione avevano finito per incutere loro rispetto. D’altra parte come non voler bene ad una creatura così educata e remissiva? Quanto a lui, non so se fosse felice, ma pareva sereno e soddisfatto. Ora che aveva recuperato la salute e l’equilibrio si rendeva finalmente conto del pericolo mortale che aveva corso e si aggrappava con forza disperata alle piccole cose di tutti i giorni. Facevamo spesso l’amore. Quasi tutte le notti, verso le due, quando nella nostra casa tutto era silenzio, uscivo dalla mia camera, raggiungevo in punta di piedi la sua e m'infilavo nel suo letto, dove rimanevo fino all'alba. Poi, sempre in punta di piedi, rientravo in camera mia. Avevo presto accantonato l’idea di riprodurre l’atmosfera eccessiva che lo aveva reso dipendente da lei; non solo non faceva per me, ma non sembrava più rispondere ad una sua esigenza. A volte mi riempiva di coccole per tutta la notte, e me ne sentivo a tal punto appagata da dimenticare il sesso. Più spesso il desiderio prendeva il sopravvento. Era diventato un amante perfetto, attento a tutte le mie esigenze, ed era di una fedeltà assoluta e rigorosa. Mi sentivo una regina, avrei voluto gridare al mondo la mia felicità, anche se mi rendevo oscuramente conto che mancava qualcosa. All'epoca, data la mia inesperienza, non avrei saputo dire cosa, ma più tardi l'ho capito. Un uomo che ti ama davvero è forse meno bravo di lui, meno capace di cogliere i dettagli, più grezzo mi verrebbe da dire: ma ti travolge nel fuoco della sua passione, ti fa sentire unica. Lui invece soffocava in se stesso le sue reazioni, non le manifestava, e se talvolta il piacere lo coglieva in contropiede si mordeva le labbra per smorzarne gli effetti visibili e cercava subito di controllarsi. Aveva uno strano pudore. Certe volte lo supplicavo di lasciarsi andare, di farlo per amor mio; non posso dire che ci riuscisse, ma almeno ci provava, ed era per me ogni volta una scoperta meravigliosa. A tutt'oggi, tra la focosa irruenza di un uomo innamorato e la dolcezza coinvolgente di Emmanuel, non saprei dire cosa sceglierei, se me ne fosse data la possibilità. Aveva anche abbandonato il suo assoluto egocentrismo: non solo si occupava con me dei bambini del centro estivo, ma ci eravamo iscritti entrambi ad un’associazione di volontariato che si occupava di anziani non autosufficienti. Dimostrava una commovente abnegazione con i vecchietti, li faceva ridere, li portava all’aperto spingendo


le carrozzelle con braccia robuste. Era bellissimo vederlo così. Mi ripugnava l’idea di turbare in qualche modo la sua serenità. I pochi che erano al corrente della verità erano d’accordo sulla necessità di tacergliela; l'unico che avesse espresso qualche perplessità era suo fratello, con il quale avevo avuto un breve colloquio dopo essere stata a trovare lei. Visto da vicino, Giuliano mi aveva fatto un’impressione molto positiva: era in un certo senso la versione sana di Emmanuel, con lineamenti più pronunciati e colori mediterranei; bellissimo il naso dalla linea forte, tipicamente greca. La sua era una bellezza corporea, resa per così dire opaca dal senso pratico che predominava in lui. Soprattutto, era un uomo. Voleva molto bene a suo fratello e non conservava per lui (né per lei, del resto) alcun rancore. Era nato vincente, sapeva bene chi aveva perso la partita, e non infieriva. Quando lo incontrai stava già con un’altra donna, una bruna volgare, assolutamente non alla sua altezza, che smaniava per lui in un modo patetico. Non ebbi il minimo dubbio che l’avrebbe lasciata presto. Aveva deciso, saggiamente in verità, di nascondere ai suoi genitori i reali motivi della sua separazione da Eloisa e mi aveva pregata di tenere per me il segreto; non avevo avuto esitazioni a prometterglielo, dato che escludevo a priori la possibilità che Emmanuel si assumesse qualche responsabilità in quell’assurda storia. Evidentemente lo mettevo a suo agio, perché mi aveva fatto qualche confidenza. Mi aveva rivelato, ad esempio, di essere rimasto molto scosso dalla reazione della mite signora Helena alla notizia della separazione; gli aveva detto con tono perentorio: - Io quella donna non voglio rivederla mai più. Ha già fatto abbastanza male alla nostra famiglia - Lui aveva risposto semplicemente: - D’accordo, mamma - e non aveva voluto approfondire il discorso, ma aveva avuto la netta sensazione che sua madre avesse capito molte cose. Povero Giuliano. Aveva chiesto ai suoi di non fare parola con Emmanuel della sua situazione matrimoniale, adducendo a pretesto la necessità di non aggiungere ulteriori motivi di turbamento al suo grave esaurimento nervoso. Perciò, durante i colloqui telefonici con i suoi, Emmanuel si sentiva sempre ripetere che andava tutto bene. Giocava a nostro favore anche il fatto che, per ovvi motivi, non chiedesse mai notizie di lei. Quel pomeriggio però stava aspettando. Non diceva nulla, continuava a dondolarsi avanti e indietro, ma proprio quel suo ostinato tacere era un eloquente invito ad attenermi ai nostri patti. Ed io non volevo deluderlo. Così mi feci forza ed affrontai l’argomento. - Emmanuel - Sì? - Dobbiamo parlare - Lo so Ci fu una pausa penosa. - L’anno è passato. Ora tocca a te decidere - Lo so - C’è una cosa che devi sapere, prima - Cosa? Contai fino a dieci prima di rispondere. - Sono stata a trovare tuo fratello Non disse nulla. Le guance ed il collo gli si ricoprirono di chiazze rosse. - Quando? - chiese infine. - Qualche mese fa, durante le vacanze di Pasqua Tacque. Gli si vedeva pulsare il cuore nelle vene. - Perché non mi hai detto niente? - Allora era troppo presto. Mi è piaciuto molto, sai? - Non ne dubito - disse acido - Sareste fatti l'uno per l'altra - Cos'è, - chiesi con tenerezza - sei geloso? Sorrise amaramente. - Dev'essere il mio destino, essere geloso di mio fratello - Non piuttosto il contrario? - No, visto l'esito direi proprio di no Ci fu un lungo silenzio. Poi chiese: - Come stanno? Si era sforzato di usare il plurale.


- Non vive più con Eloisa Fermò il dondolo. - Da quando? - A dire il vero sono rimasti insieme solo poche settimane: il matrimonio non ha funzionato - Ma perché? - Incompatibilità di carattere - Così all'improvviso? - Succede - Con chi sta lei adesso? - Sola - Da chi l’hai saputo? - Amici di amici, come sempre. E poi - mi schiarii la voce - sono stata a trovare anche leiSentivo su di me il suo sguardo come un macigno. Non riuscivo a guardarlo negli occhi. - Mi hai mentito - disse con voce bassa e profonda. - Per il tuo bene - risposi. Per qualche secondo continuò a fissarmi; poi si appoggiò nuovamente allo schienale e ricominciò a dondolarsi. - Che vi siete dette di bello? - Abbiamo parlato di te - Gentile da parte vostra. E a quali conclusioni siete arrivate? - Lei si rende conto del male che ti ha fatto - Oh - Le dispiace - Sì? - Però è serena adesso - Lo immagino: può aprire le gambe a Valentino tutte le volte che ne ha voglia - Desidera che anche tu sia sereno - Commovente. E che restiamo buoni amici no? - Sì, certo, magari fra un po' di tempo - C'è qualche altra banalità da repertorio che mi devi riferire, o può bastare così? - No, è tutto Ci fu un altro pesantissimo silenzio. - Qualcuno l’ha informata che anche in Toscana esistono i telefoni? - È stata una precisa scelta, da parte sua, non cercarti - Come lo sai? - Me l’ha detto lei - Ripetimi le sue parole, per favore Richiamai alla memoria il nostro discorso e mentii a metà. - Ha detto testualmente: “non ho nessuna intenzione di coinvolgere Emmanuel in questa faccenda” Rimase interdetto. Aprì la bocca come per commentare, poi esclamò soltanto: - Ah! Tacque per qualche secondo e di punto in bianco cambiò argomento. - Se uno s’innamora di una persona brutta deve a se stesso e agli altri cento giustificazioni: mi piace perché è buona, perché è simpatica, perché è intelligente... Se s’innamora di una persona bella, magari stupida o cattiva, non sente il bisogno di giustificare niente a nessuno. Nessuno si meraviglia se fai follie per procurarti un tappeto persiano, una Ferrari, un vaso cinese antico, un dipinto d’autore, una bella donna. L’evidenza del bello s’impone da sé. Non è così? Ero sconcertata, non capivo dove volesse andare a parare, ma decisi di stare al gioco. - Sì, è così - riconobbi - È così sempre e dappertutto, soprattutto per le ragazze. Basta guardare la televisione, specialmente le trasmissioni sportive: gli uomini possono essere come gli pare, anche assolutamente sgradevoli, mentre le donne sono obbligate ad essere carine. Magari deficienti, ma carine. Nessuno si chiede che ci stanno a fare lì- È naturale - disse - Sono belle, quindi non c’è bisogno di giustificazioni. Alla stessa stregua, quando vediamo una farfalla siamo tutti contenti, ma quando vediamo un ragno ci vien voglia di schiacciarlo, solo perché una è bella e l’altro è brutto - È vero, purtroppo - E non ti pare - disse - che tutto questo sia una maledetta stronzata? -


- Sì - ammisi. - E che la parola amore venga usata quasi sempre a sproposito? Riflettei un attimo. - A meno che - obiettai - l’amore non sia proprio questo - Questo cosa? - Una maledetta stronzata, come dici tu Sorrise giocherellando con le dita della mia mano. - Sai essere acuta, quando vuoi. E adesso dimmi: cosa ne deduci? - Cosa dovrei dedurne? Si voltò a guardarmi. Ero terribilmente in imbarazzo. - Parliamo seriamente, Arianna: quando tu mi hai conosciuto ero poco più di un tossico, ma ti sono piaciuto lo stesso. Perché? - Be’... - Ma sì, diciamolo: ero un tossico con un certo stile, una certa presenza fisica. Ora supponiamo che io fossi stato esattamente la stessa persona, ma con un aspetto fisico sgradevole o anche semplicemente normale. Come avresti reagito vedendomi? - Ecco, sulle prime... - Te lo dico io: ti avrei fatto semplicemente schifo, Arianna. Avresti girato alla larga. E probabilmente avresti fatto bene. In altre parole: se io fossi meno bello ti piacerei lo stesso? Rispondi sinceramente Non mi aspettavo una domanda del genere. Mi accorsi di essere assolutamente impreparata a rispondere, mi resi conto che la mia esitazione era già una risposta, mi sforzai di rimediare con un giro di parole scontato: - Be’, all’inizio ti ho notato per la tua bellezza, ma col tempo ho imparato a conoscerti, e adesso ti amo per quello che sei - Per quello che sono dentro, vuoi dire? - Sì - E che cosa sono di speciale, dentro? - Io ti trovo molto bello, Emmanuel - Vuoi dire che trovi bella la mia anima? - Sì Scoppiò a ridere appoggiando la nuca contro lo schienale. Rise per qualche secondo scotendo la testa, una risata franca e aperta, proprio di cuore, poi disse: - Sei adorabile, amore mio. Sai mentire con molto garbo Non mi lasciò il tempo di risentirmi per questa sua affermazione. Saltò nuovamente di palo in frasca. - Andiamo al cinema questa sera? Replicano "Trainspotting": l'anno scorso me lo sono perso - Ho paura che non sia il mio genere, ma t'accompagno volentieri. Poi però, quando esce, andiamo a vedere "Full Monty": m'han detto che è divertente - Certo. E domani ti porto al convento dei cappuccini, ti va? - Come no - E ad agosto ce ne andiamo una settimana in qualche posto un po’ selvaggio, io e te da soli. La costa occidentale della Corsica, che ne dici? - Sarà un problema prenotare il traghetto a luglio - Allora andiamo verso sud senza una mèta, a casaccio, come gli zingari - Non sarebbe più ragionevole un albergo? Non rispose. Tacque ostinatamente per dieci minuti. Quel dondolio ossessivo mi aveva fatto venire la nausea. Tirai fuori un biglietto e glielo misi sotto gli occhi. - Il suo nuovo indirizzo - gli dissi. Il dondolo si fermò. I suoi occhi ipnotizzati fissarono il pezzo di carta. Poi si sollevarono su di me. - Buttalo via - disse. Lo baciai piena di gratitudine. La sua guancia era caldissima.


Freddo

20 agosto, ore 19,10. - Già qui? - Posso entrare? - Accomodati - L'hai sistemata bene, la casa - Ho fatto del mio meglio - Hai qualcosa da bere? Si muore di caldo - Ti porto del tè freddo (Silenzio) - Zucchero? - Mi piace amaro, non ricordi? - No - Hai dello chardonnay in fresco? - Da quando in qua bevi? - Non è che bevo. Mi piace lo chardonnay - Ne ho una bottiglia in frigo - Ci contavo (Silenzio) - Il bambino come sta? - Benissimo (Silenzio) - Come va con tua moglie? - È la sola donna che sembri non provare nulla fra le mie braccia - È quel che volevi, no? - Infatti. Sono pazzo di lei - Ma? - Ho freddo, sorellina - Dove lo facciamo? - Sei volgare - Trovi? - Non ti ho chiesto di fare sesso (Silenzio) - Ma perché è sempre così bello con te? - Lascia perdere, Vale. Sta' zitto e scopami -


Incontro (Colonna sonora di Francesco Guccini) Quando tornai a casa a trovare i miei, che non vedevo da un anno, tutto si svolse come da copione: saluti, baci, abbracci, la commozione di mia madre, le lacrime di gioia di Teresa, i complimenti di mio padre per l'esame superato, le felicitazioni di tutti per il mio magnifico aspetto e per il fidanzamento. Mio fratello non era in casa. Nessuno sembrava far caso alla sua assenza, nessuno alludeva a lui. Per un po’ mi comportai come se niente fosse, fingendo di trovare la cosa normale; poi, dopo pranzo, mentre piegavo il tovagliolo, chiesi con la massima naturalezza: - E Giuliano? Mia madre si alzò con un sorriso: - Venga, Teresa: andiamo a disfare la valigia Mio padre le lanciò un’occhiataccia. Allora, ricambiando il sorriso, le dissi: - Tranquilla mamma, so tutto. Arianna me l’ha raccontato Teresa rimase immobile come una statua di sale nell’atto di salire il primo gradino. Mia madre si voltò, palesemente in imbarazzo: - Oh be’, vedi, caro... Mio padre la esonerò dal prosieguo della discussione: - Vai pure a disfare la valigia, tesoro Dopo che mia madre e Teresa erano sparite su per le scale, appoggiò i gomiti sulla tavola e il mento sulle nocche delle dita intrecciate, guardandomi fisso. Il mio volto era una maschera di imperturbabile innocenza. Poi, con un’espressione del genere tra uomini ci s’intende, disse: - Sono cose che capitano, Emmanuel Annuii con serenità: - Certo, papà. Non è nulla di tragico, non ci sono nemmeno bambini di mezzo Si schiarì la voce. - Comunque tuo fratello l’ha presa bene. Lo conosci, è una quercia: ci vuol altro per abbatterlo. Sta già con un’altra. È al circolo adesso, ma stasera verrà a cena da noi- Con lei? - chiesi, senza riuscire a nascondere una smorfia di fastidio. - No. Non è una cosa ufficiale, sai. Non la porta mai a casa - Bene - conclusi - Lo vedrò volentieri Poi mi stiracchiai con uno sbadiglio e mi alzai da tavola, buttandomi in spalla la giacca di lino chiaro intonata ai pantaloni; faceva caldo: mi ero tolto la cravatta, mi ero sbottonato la camicia bianca sul petto e avevo arrotolato le maniche fino al gomito, ma anche così ero molto elegante. Devo ammettere che il travestimento da ragazzo serio mi dona. Mio padre mi guardò allontanarmi. - Stai proprio diventando un uomo - commentò. Mi voltai con un vago sorriso: - Ho quasi vent’anni, pa’ Nel pomeriggio tornai al torrente, dove deposi un fiore sulla tomba di Tegame. Sorvolo sull'effetto che mi fece rivedere quei luoghi: devastante, benché ampiamente previsto. Lo strazio è troppo recente, mi dissi, per forza ci sto così male. Naturalmente girai alla larga dal fienile. Mi concentrai con tutte le mie forze sul pensiero di Arianna, che in quel buio soffocante era come una boccata d'aria, e le telefonai appena possibile. Avevo voglia di fare quattro passi e di rivedere la mia città dalla collina. Uscii in macchina e posteggiai dalle parti dell'Eremo. Naturalmente sarebbe stato meglio scegliere un'altra zona, ma certi automatismi sono duri da vincere. Stavo passeggiando lungo un viale, quando sentii una mano pesante posarsi sulla mia spalla. Mi voltai irritato pensando ad un seccatore. Era Matteo. Non era cambiato per niente, io sì. Mi guardò dritto negli occhi: - Sei proprio tu? - Sì, sono io Ci scambiammo qualche pacca fraterna sulle spalle. Provavo un grande imbarazzo. Lui se ne accorse subito ed evitò di abbracciarmi. - Come stai? - mi chiese. - Bene, anzi benissimo -


- Son contento, è quello l'importante - Mi afferrò per le spalle - Cazzo, ma fatti guardare: sei sempre più bello, principe Mi diede un terribile fastidio sentirmi chiamare così. Non avevo nessuna voglia di mandare avanti quella conversazione, dentro di me si agitava un misto di emozioni opposte e quella che prevaleva su tutte era un bisogno urgente di mettere una pietra sopra il passato; soprattutto quel passato. - Sono fidanzato, - dissi in fretta - lei è una brava ragazza, bella, di buona famiglia; si chiama Arianna; l'ho conosciuta l'estate scorsa - Questa sì che è una notizia: Arianna, proprio un nome da principessa. Era ora che ti trovavi una ragazza come si deve Fui sul punto di correggergli il congiuntivo. Provai subito rimorso della mia meschinità. - E tu? - gli chiesi. Si guardò la punta degli scarponi da moto. - Oh, io, be', come sempre. Cioè, l'unica cosa è che avevo paura per te Mi fece un po' di tenerezza. Gli appoggiai una mano sul braccio e dissi: - No, è tutto a posto, davvero Volevo andarmene, lui se ne rendeva conto, ma era troppo il desiderio di trattenermi ancora un po'. Passeggiammo per qualche minuto l'uno accanto all'altro. Ero teso, nervoso. Lo guardavo con la coda dell'occhio: portava blue jeans sdruciti e una t-shirt bianca aderentissima che metteva in risalto la sua muscolatura paradossale e gli aloni di sudore scuri sotto le ascelle. Io, come ho detto, quel giorno ero elegantissimo. Mi guardavo intorno e speravo che nessuno ci vedesse insieme. - Adesso lavoro per una nuova impresa, - mi disse - una di San Mauro che costruisce case in prima cintura. Mi hanno detto che ha qualcosa a che fare con tuo padre - Ah - dissi. Ci fu un lungo silenzio. - L'hai più vista? - buttai lì. - No, - rispose semplicemente - e tu? - Ho chiuso per sempre con lei - E anche con il resto, spero - disse lanciandomi un'occhiata. Feci finta di non avere capito. - Il resto cosa? Arrossì e non seppe cosa dire. Mi misi a ridere: - Vuoi sapere se ho smesso di farmi? Be', non è stato facile, lo ammetto. Come vedi però ce l'ho fatta. Merito di Arianna - Meno male - disse. Ci fu un altro pesante silenzio. Ad un tratto mi fermai a guardare il panorama, appoggiato ad una balaustra. Lui venne al mio fianco e disse timidamente: - Senti, tu adesso sei messo proprio bene, son proprio contento per te cazzo, te lo meriti, ma insomma, se non sai cosa fare… voglio dire, sentiamoci qualche volta, sempre se ti va. Ecco, tieni, - tirò fuori dalla tasca un biglietto da visita sgualcito e me lo tese questo è il mio nuovo numero di cellulare. Se c'è qualcosa che posso fare per te, qualsiasi cosa… Non so cosa mi successe. Intascai lentamente il biglietto fissando un punto davanti a me. - Perché no? - dissi - Magari qualche ripetizione La sua espressione contratta si distese in un largo e cordiale sorriso: - Ah, ho capito. Ho scoperto diversi tipi di birra nel frattempo, sai? Proprio il tuo genere, ti piaceranno senz'altro. Tre nuove ungheresi, tutto il gruppo delle irlandesi, una trappista olandese favolosa… Lo interruppi. - No, intendevo astronomia Non comprese. - Astronomia? Mi voltai verso di lui con uno sguardo neutro, vuoto: - Stanotte è la notte di San Lorenzo. Pensavo che volessi portarmi a vedere le stelle cadenti È una fogna l'animo umano, una sentina di bassezze che non chiedono altro che un'occasione per venire a galla. Non so perché gli dissi una cosa così perfida, giuro che non lo so: mi venne spontanea, dal cuore. Da allora diffido del mio cuore. Ho fatto molte


cazzate nella mia vita, ma il mio rimorso più incancellabile è quella inutile crudeltà detta alla sola persona che mi abbia mai amato veramente. Accusò il colpo con molta dignità. Una profonda tristezza attraversò i suoi occhi. Poi disse soltanto: - Questa non me la meritavo, principe Fece per andarsene. Afferrai la sua mano: - Scusami - balbettai - Dio ti prego scusami, sono proprio una bestia Mi guardò sereno, senza risentimento; poi disse: - Avrei dato la mia vita per te. E non dirmi che non l'avevi capito Alzò la mano ad accarezzarmi il viso e mi voltò le spalle. S'incamminò a passi lenti, pesanti. Non feci nulla per trattenerlo. Come sotto l'effetto di un incantesimo rimasi immobile a guardarlo, lo vidi allontanarsi, sparire in fondo al viale. Dopo qualche secondo tornai in me, mi riscossi da quel torpore, corsi a cercarlo. Non c'era più, era come se il bosco l'avesse inghiottito. Risalii in macchina di pessimo umore. Raggiunsi mio fratello al circolo. Avevo una gran voglia di vederlo. Stava giocando a tennis con degli amici. Mi avvicinai a lui con le mani in tasca e un sorriso di circostanza. - Ehi, chi si vede! - esclamò. Piantò lì la partita e corse subito ad abbracciarmi. Poi qualche chiacchiera di prammatica, tutto nella norma. Com'era prevedibile, non era in piena forma: lo trovai un po' dimagrito, ma sempre abbronzatissimo, dinamico e reattivo; la maglietta bianca aderente gli metteva in risalto le spalle e le braccia, più muscolose del solito. La palestra, per molti maschi, è un efficace antidoto alla depressione. Evitai di proposito ogni allusione al suo matrimonio. A tavola, la sera, nessuno fece il nome di Eloisa: era come se lei non fosse mai esistita nella nostra vita. Comprendevo che tutto questo era una strategia per evitare a mio fratello penosi ricordi, ma nonostante tutto ci rimasi male. Ero molto stanco per il viaggio e sarei voluto andare a riposarmi subito dopo cena. Telefonai di nuovo ad Arianna, diedi la buona notte ai miei e andai in camera mia. Da quell'idiota che sono, non avevo previsto l'effetto che mi avrebbe fatto rivedere il mio (nostro) letto. Giuliano, pronto ad uscire con la sua nuova fiamma (non so poi fino a che punto nuova), stava uscendo dalla sua camera, elegantissimo e profumato di dopobarba, abbottonandosi un polsino della camicia. Mi vide appoggiato allo stipite della porta e mi chiamò. Mi voltai e, credo, i miei occhi erano due pozzi di disperazione. Allora mi s'avvicinò e mi abbracciò fortissimo. Le braccia mi pendevano inerti lungo i fianchi, ero paralizzato dallo stupore. Poi mi allontanò da sé e mi infilò un biglietto nel taschino della camicia. - Il suo nuovo indirizzo - disse. Rimasi così interdetto che non riuscii neppure a far finta di stupirmi e a chiedere suo di chi. - La troverai un po' cambiata, - aggiunse - ma non credo che questo sia importante per te Poi mi strinse virilmente le spalle: - Coraggio, fratellino Si diresse verso la porta. Sulla soglia si voltò con un sorriso: - A proposito: bel colpo, quella Arianna. Quando la lasci fammi un fischio Ed uscì. Non so per quanto tempo rimasi inebetito senza riuscire a pensare a nient'altro che agli abissi insondabili che si celano nell'animo di uno yuppie, se quello yuppie è fratello del sottoscritto.


Come se fosse normale

Sulla mia lapide non scriverai velut prati ultimi flos. L’aratro è passato da un pezzo, signora. Conoscevi il bruco: ora vedrai la farfalla. Mi sistemai la cravatta di seta, il colletto della giacca. Rivolsi lo sguardo alla strada per controllare se la BMW ingombrasse il passaggio, ma non si vedeva nessuno per quello sperduto viottolo di campagna, fra stoppie giallastre arrugginite come una vecchia ringhiera, con tre casupole in croce e polvere dappertutto. C’era un maledetto vento africano. Respirai profondamente e suonai il campanello sotto la targhetta con il suo nome. E se lei adesso - il cielo si era fatto viola e il vento avviluppava le nuvole come matasse di cotone - d’un tratto si spalancò un abisso di vuoto. Non oggi, non posso. Mi voltai per andarmene, ma era tardi: la porta si aprì. Presentarsi di nuca, oltre ad essere ridicolo, era un errore strategico: in questo modo lei mi avrebbe visto per prima e riconosciuto, sia pure di spalle, e addio superiorità tattica. Quell’attimo trascorso sulla soglia, con la distesa dei campi davanti agli occhi e la porta aperta dietro le spalle, ebbe una fissità irreale: attesi invano la battuta sarcastica (“la porta è da questa parte”). Mi voltai. Sulla soglia, appoggiata allo stipite, stava una donna che aveva una vaga rassomiglianza con lei, ma con dieci anni e dieci chili in più, i capelli raccolti in una crocchia, il corpo inghiottito da un camicione a fiori e una mite dolcezza di mucca negli occhi senza colore, grigi. Nessuno dei due parlò. Il silenzio mi s’era appiccicato addosso, pesante come il vento d’agosto; estrassi dalla tasca un fazzoletto e mi asciugai la fronte. Sorrisi, ma il sorriso mi si rivoltò in una smorfia ebete. - Entra - mi disse gentilmente. - Non vorrei disturbare Orribile la frase di circostanza. - Nessun disturbo Si voltò per farmi strada. Non un fremito nella voce, negli occhi. Come se fosse normale vedermi lì. La seguii come un automa. Nella casa dall'arredamento modesto si annusavano miasmi di soffritto e un ristagno d’amore casalingo che mi colpì dritto al cuore. La sconosciuta era forse protagonista di squallori esistenziali ancor più inconfessabili. Mi colse una vertigine, andai fuori, non so dove. Poi rientrai in me riassorbendomi come il riflusso della marea. Ma lei dov’era? - Siediti Mi aveva condotto in un piccolo giardino sul retro della casa. Mi sedetti sotto un cipresso e mi guardai intorno. Tutto era minuscolo come nella casa delle bambole, insopportabilmente grazioso e ben curato: c’era anche un piccolo orto con carote e cipolle e pomodori e qualche rampicante indefinibile; notai accanto a me un tavolo bianco di ferro smaltato, un dondolo e un’altalena (perché un'altalena?). La polvere mi fece starnutire. - Salute Alzai gli occhi e la vidi, finalmente. Sorrideva intenerita. Provai un violento moto di gioia nel riconoscerla; ma subito si voltò a fissare la collina con un gesto della mano come per scacciare una mosca. - Come stai? - Come vedi - risposi. - Allora molto bene Tacqui significativamente: non potevo certo dire altrettanto. Per circa mezz'ora mandammo avanti una conversazione penosa a base di luoghi comuni e osservazioni metereologiche, mantenendo una fredda cortesia reciproca ed eludendo gli argomenti personali. Eseguivamo una serie di finte eleganti come due spadaccini prima del duello all'ultimo sangue, danzavamo la coreografia stilizzata che precede l'accoppiamento mortale di certi ragni. Non rammento una sola parola di quei convenevoli: ero tutto concentrato su un pensiero ossessivo: non era più la donna che amavo, non mi piaceva più, me n’ero liberato, e


allora perché mi si torceva l'anima? Ero torturato da un profondo strazio, sudavo freddo, avevo lo stomaco contratto. Cominciavo ad intuire una verità terribile: la morte del mio amore non era la soluzione del problema, anzi, era l'inizio di un altro problema del tutto privo di soluzione. Decisi all'improvviso di far precipitare gli eventi. Mi misi le mani sulle ginocchia e dissi con un sorriso spavaldo: - Fammi le congratulazioni: mi sono fidanzato ufficialmente Il suo sguardo non tradì la minima emozione. - Lo immaginavo. Ho vinto la scommessa La fissai negli occhi. - Non ricordo quale fosse la posta in gioco - Nemmeno io Bugiarda. Distolse lo sguardo ed aggiunse: - Siamo sempre stati un po’ smemorati, noi due Sorrise di nascosto, ed era proprio lei. Ma che fine aveva fatto quella sua risata brutale ed esplosiva? Sarà che le mucche non ridono. - Quando vi sposate? - Appena possibile. I suoi vorrebbero che prima mi laureassi, ma non possiamo aspettare cinque anni - A quale facoltà ti sei iscritto? - Economia e commercio - È farina del tuo sacco o di quello di Arianna? - Lo abbiamo deciso insieme. Decidiamo tutto insieme - sottolineai crudelmente - Sono maturato molto da quando sto con lei; è una ragazza intelligente e piena di buon senso, doti piuttosto rare in una ragazza così bella Ferirla era impossibile quel giorno; assentì con serenità: - Sì, è piaciuta molto anche a me - Già, dimenticavo che vi siete conosciute: di cosa avete parlato? - Di te, naturalmente - E cosa vi siete dette? - Niente di speciale. Mi ha detto che stavi bene, che eravate felici insieme - Ti ha detto questo? Mi fissò. - Perché, non era vero? Esitai un attimo di troppo. - Certo che lo era: sono molto felice con lei. Mi piace moltissimo: con lei ho raggiunto una perfetta intesa fisica e spirituale Si chinò a raccattare un pettinino che le era caduto. Aspettai che si rialzasse e la guardai negli occhi con profonda serietà. - Le devo la vita. Ero in pericolo, sai. Davvero non te n’eri accorta? - E il servizio militare? - chiese senza espressione, fermandosi i capelli sulla nuca. Provai un moto di odio. - Sono esonerato - risposi secco - Il mio futuro suocero ha delle conoscenze - Tutto secondo le previsioni più ovvie - Non ho nulla contro l’ovvietà: sono diventato un bravo ragazzo, come mio fratello. Non era questo che volevate tutti? L'allusione a mio fratello, che avrebbe voluto essere offensiva, risultò semplicemente infelice. - Come sta Giuliano? È un po' che non lo vedo Si era improvvisamente incupita, come se gliene importasse qualcosa. - Non preoccuparti per lui: sopravvive benissimo. Adesso sta con Laura, la tettona bruna, te la ricordi?Mi accorsi di avere esagerato: una brace minacciosa attizzò la fuliggine grigia dei suoi occhi: - Ragazzino, ti ho chiesto come sta, non con chi sta Ragazzino. Finalmente un colpo era arrivato a segno, anche se non era quello sperato. Mi rilassai un po’. Distolsi lo sguardo e passai in rassegna i fiori del giardino, le patate, i pomodori, il cipresso, sentendo i suoi pensieri posarsi su di me. Era il caso di vestirsi in quel modo per venire a trovare una vecchia amica? Giacca e cravatta. Eccoli, i resti della crisalide sfracellata. Ed è stata Arianna la levatrice di questa tignola.


- Chi t'ha dato il mio indirizzo? - chiese improvvisamente. - Teresa Sorrise. - Lo immaginavo Non era vero, ma le cose erano andate in un modo così surreale che non avrei saputo come spiegargliele. Ogni volta che ripensavo al colloquio con mio fratello la mia mente si confondeva. C'era qualcosa, qualcosa che proprio non capivo. - Ha detto quando, non se - esclamai ad alta voce. - Come? - chiese Eloisa. Tornai alla realtà. - Qualcosa non va, Emmanuel? - Scusa. Stavo seguendo il filo dei miei pensieri - risposi, notando che finalmente aveva pronunciato il mio nome. La conversazione aveva preso una piega abbastanza confidenziale da giustificare la prossima domanda, che formulai con apparente disinvoltura: - E Valentino? - Si è sposato Non riuscii a nascondere lo stupore. - Sposato? Con chi? - Con una nobildonna svizzera La guardai provando una strana pena, come l'eco di una sofferenza non mia. - Non sembra che te ne importi molto - dissi. Mi fissò con una strana vacuità, sfiorando il braccialetto che portava al polso. - No, non me ne importa molto, in effetti - Credo di capirti - In che senso? - Uno che s'innamora di un frigorifero di marca non vale poi molto Sorrise pallidamente. La guardai in silenzio per qualche minuto. Sedeva composta e dignitosa fra le macerie della sua vita, con le mani in grembo. Pareva contenta di vedermi così. I capelli corti, la giacca, la cravatta di seta, i pantaloni e le scarpe eleganti. Che cosa rimaneva del suo ragazzino, che cosa rimaneva di me? Il vento caldo sollevò d'improvviso la polvere e me la gettò negli occhi. Lei si protese per ripararmi. Una crepa dolorosissima m'incrinò il cuore. - Cominci ad avere l’ombra della barba sul viso - disse, scuotendomi via con delicatezza la sabbia dal colletto. - Dove? - domandai contrariato - L’ho fatta stamattina - Qui - disse. Sfiorò la superficie un po’ sudata del mio viso. Un brivido mi percorse la spina dorsale. - Hai le mani gelate - dissi. - Tu invece sei caldissimo - rispose. Non parlammo più. Trattenni la sua mano sulla mia guancia. Cercò di ritirarla, ma la strinsi con dolcezza. Se ne vergognava, era evidente: era rossa e un po' gonfia, aveva la pelle screpolata e sapeva di candeggina. Mi tornò alla mente il profumo delicato delle mani di Arianna, bianche, morbide e perfettamente curate, e la mia mente formulò all’improvviso un pensiero folle. Dove sei stato per tutto questo tempo, imbecille? Se invece di lasciarti morire come un verme avessi reagito da uomo, questa mano avrebbe potuto continuare a scrivere inutili sciocchezze sulle cesure in Virgilio. Con uno sforzo doloroso l'allontanai dal mio viso, me l'appoggiai sul ginocchio e continuai a tacere. Cos’aveva capito mio fratello che io stesso non capivo? Mi misi ad ascoltare i tonfi sordi del mio cuore, torturato da un dubbio atroce e nello stesso tempo alleggerito da una speranza inconfessabile. Lei non pareva affatto turbata dal mio contatto, anzi sorrideva con uno sguardo dolce e mansueto che non le avevo mai visto. Sembrava non accorgersi di nulla, o forse sì, ma la porta era chiusa e non capivo perché. Aprimi maledizione, aprimi, voglio vedere cosa c’è dietro. Un suono acuto, stridulo, mi rimbalzò a ondate nel cervello. Feci appena in tempo a vedere Eloisa che si precipitava in casa senza una parola di scusa.


Nulla che ti riguardi

Sulle prime non capii. Poi tutto fu assolutamente chiaro. Il silenzio lacerato dai vagiti divenne un attimo eterno di luce bianca intermittente, piena soltanto dei vortici delle nubi spinte dal vento. Riapparve tenendo in braccio un bambino biondo. - Mio figlio - sorrise, come se non fosse evidente. E mentre la più insulsa delle madri chiocciava fa’ ciao con la manina di’ ciao al signore, io andavo chiedendomi chi mi avesse riempito gli occhi di spilli. Evaporai a poco a poco dal mio corpo inerte sulla sedia, fluttuandole intorno, lambendo i contorni impenetrabili della sua maternità. Quella voce che diceva tenere idiozie non poteva essere lo stesso strumento che un tempo aveva intonato l'arcano preludio all’abbraccio coniugale della mantide. E così siamo alla catastrofe tragica, pensai. Questa consapevolezza mi infuse all’improvviso una calma mortale. Parlai con tono pacato: - Vivi con un uomo? - No - rispose lei, come se fosse strano. - Chi provvede a voi? Voglio dire, finché non sarai in grado di lavorare - Tuo fratello. È stato molto generoso, più di quanto io meriti. Avrebbe voluto comprarmi un attico in collina, ma ho rifiutato. Noi stiamo bene qui, vero signorino? - Stampò un bacio sulla guancia del piccolo. - Questo gli fa onore. È un bravo ragazzo Giuliano. Posso fare qualcosa per te? - No, grazie, non ho bisogno di nulla - Tua madre come l’ha presa? Sorrise. - Come vuoi che l’abbia presa? È diventata nonna, dopo tutto La prossima domanda sarebbe stata troppo indiscreta. Una cosa almeno era evidente: il padre non era Giuliano. Conoscevo mio fratello, non si sarebbe mai comportato così se il figlio fosse stato suo. Con un sorriso inamidato mi chinai sul piccolo, che, sprofondato nel nido del grembo materno, si succhiava il pollice rivolgendomi uno sguardo perfettamente azzurro, anzi blu. Lo osservai attentamente. - Come si chiama? - chiesi. - Lorenzo - Come mio nonno? Sorrise. - Già - È bellissimo - dissi - Però non ti assomiglia molto Lei mi guardò e non disse nulla. Arrossii della mia ingenuità e tentai di rimediare con un’osservazione banale: - Da grande sarà un vero rubacuori - Non ci sono dubbi, se assomiglierà al padre Bastava una piccola domanda: - E cioè? - Ma non potevo, era troppo l'imbarazzo, troppa la paura. Incrociai le braccia sul petto e mi rimisi a contemplare il cielo. Le nuvole adesso correvano più veloci nell’aria ardente e il vento le aveva quasi disfatto la crocchia; il bambino si aggrappava con le manine alle ciocche svolazzanti e lei gli sorrideva, finché i capelli le si sciolsero completamente sulle spalle, intorno al viso improvvisamente ringiovanito. - Quanti mesi ha? - chiesi. - Ne ha compiuti cinque la scorsa settimana - rispose. La lavagna della mia mente faceva i calcoli, cancellava e li rifaceva, e otteneva sempre lo stesso risultato. Impossibile. Doveva essere successo praticamente durante la luna di miele. Altro che incompatibilità di carattere. Ma come poteva essersi comportata con tanta leggerezza? Per la prima volta provai un senso di solidarietà nei confronti di mio fratello: in fin dei conti eravamo stati traditi entrambi. I miei sospetti caddero inevitabilmente su Valentino. Stavo cercando una perifrasi elegante per esprimerle quel che pensavo di lei, quando un pensiero mi folgorò la mente. Rifeci i calcoli e la fissai con uno smarrimento infinito. Ma tutto il suo atteggiamento diceva che non era nulla che mi riguardasse.


Posò delicatamente il bimbo sull’erba del giardino e si mise a giocare con lui. Si era completamente dimenticata della mia presenza. La sua indifferenza mi colpì come uno schiaffo. Mi alzai di scatto e le tesi la mano: - Sono contento di averti rivista Lei si riscosse come da un colpo di sonno e mi guardò con occhi stupiti: - Sono solo le quattro: rimani ancora un po’ - Ho un impegno; e poi i miei mi aspettano per le cinque Mi mossi rapido verso l’uscita; lei mi seguì. Sulla soglia ebbe una strana esitazione, abbassò lo sguardo, lo rialzò e disse: - Sono stata una pessima padrona di casa. Scusami. Posso almeno offrirti qualcosa da bere? Un uomo di carattere, un uomo vero, avrebbe risposto di no. Io la guardai, vidi il suo sguardo addolorato e, naturalmente, dissi di sì. Mi ricondusse in giardino, sistemò il bimbo nella carrozzina e lo mise accanto a me. - Posso lasciartelo cinque minuti? - chiese. - Certo - risposi. Sulla soglia di casa si voltò a guardarci sorridendo. - Siete bellissimi - disse, e scomparve nel buio. Appoggiai i gomiti sul tavolo e la faccia tra le mani, in preda a una convulsa amarezza. Improvvisamente sbucò da un cespuglio un grosso gatto color fuliggine con gli occhi giallo-verdi: riconobbi subito il gatto Gino. Trotterellò accanto a me e si mise a strusciarsi contro le mie gambe ronfando. Lui non mi aveva dimenticato, almeno. Lo accarezzai a lungo sussurrandogli che era diventato proprio un bel gattone, mordendomi a sangue le labbra per non piangere. Quando l'angoscia si placò un po' mi misi ad osservare il bambino, tutto intento a succhiarsi le manine sorridendo. Era un bel bambino in verità. Gli sorrisi a mia volta. - Gli sei simpatico: guarda come ride - disse Eloisa di ritorno. Mi versò da bere. - Hai ancora il gatto Gino - Come avrei potuto sbarazzarmi di lui? Già: come avrebbe potuto? Poi il piccolo cominciò a scalpitare e a piagnucolare nervosamente. Eloisa si alzò sospirando: - Scusami, è ora di allattarlo. Abbi pazienza dieci minuti Posai il bicchiere, in bocca una sorsata amarissima. Fino a questo punto era precipitata nella fisicità? Mi venne alla mente una scena che avevo visto una volta nella casa di campagna del nonno: una grossa femmina di ragno portava i piccoli sulla schiena, mentre questi succhiavano il suo ventre come un acino d’uva; la sua pelle si raggrinziva pian piano, svuotata del contenuto, eppure lei, paziente, si lasciava mangiare viva dagli esseri disgustosi e crudeli che aveva partorito. Occidat dum imperet. Il senso di questa scena era così inaccettabile per me che avevo schiacciato sotto la suola della scarpa tutte quelle immonde creature. Il pensiero di lei che sbottonava il camicione e porgeva il cibo di se stessa al bambino, sorreggendogli la testolina, mi era assolutamente intollerabile. Il disgusto si mescolava con una sorda gelosia, di cui cercavo di spiegare a me stesso il senso. Fui costretto a tradurlo in un pensiero di sconfortante puerilità: da tutti i punti di vista io ero stato per lei meno importante di quel piccolo usurpatore; in fin dei conti, per me non era mai riuscita a produrre latte. Mi alzai e feci il giro del giardino, contando e ricontando il numero dei miei passi, raccogliendo faticosamente i miei pensieri sparsi nella ghiaia. Non c’era più il varco per arrivare fino a lei, il rivale era troppo forte questa volta, ero io stesso. Perché la verità era semplice ed evidente: aveva sostituito me con me. Qualunque fosse la ragione per cui era successo, quel bambino ero io. Per questo non si sentiva in colpa nei miei confronti, per questo non avvertiva la mia mancanza. Ma perché a tutti sembrava normale quello che stava accadendo? Forse ero diventato pazzo, forse lo ero sempre stato e loro lo sapevano, per questo mi assecondavano, Arianna non era un angelo, non mi era apparsa davanti per caso, anche lei faceva parte del complotto. Dio mio, perché la sentivo tanto lontana? E in realtà a ben guardare era tutto perfetto, tutti avevano un loro ruolo in quella commedia, c'era un lieto fine per tutti, anche per la donna che amavo; era sufficiente eliminare dal copione il mio personaggio.


La gelosia non aveva senso, e infatti lasciò subito il posto alla più perfetta disperazione. Mi appoggiai con la schiena al tronco d'un cipresso e chiusi gli occhi. Finalmente lei ritornò: un leggero odore di caseificio promanava da tutta la sua persona. - S'è addormentato - disse sorridendo. La guardai senza muovermi. Era così distratta da quel suo bambino da non accorgersi che la mia bocca tremava nello sforzo di reprimere le lacrime. Sollevò la mano a raccogliere i capelli sulla nuca: il braccialetto d’oro brillò al suo polso. Qualcosa mi colpì, la foggia maschile. Riconobbi subito quelle iniziali, V.B. E improvvisamente non seppi più fingere: lei mi lesse nel volto contratto disgusto ed odio e comprese che stavo per dire qualcosa di irrimediabile. Mi fai schifo soltanto schifo ti odio per quel che sei diventata mi odio ti odio mi odio per averti amata, sei una creatura disgustosa un pacco informe di carne e sangue e la tua anima dov'è, la tua anima dov'è, come ho potuto non accorgermi come ho potuto non capire, dove sei finita chi sei chi sei chi sei mai stata, stavo per morire io per te, io per te per questa cosa squallida, la tua biga è sbandata e tu sei sepolta amore mio, rotolerai sotto terra per altri diecimila anni, non posso aspettarti per tutto questo tempo, ti ho aspettata da sempre da sempre capisci, ma no che non capisci, cosa puoi capire tu stupida vacca da riproduzione schifosa vacca da monta, se l'avessi saputo prima ti avrei strangolata amore mio, ti avrei uccisa per salvarti da te stessa. Allora si portò l’indice alle labbra, supplichevole, come a dire silenzio, si sedette e mi tese la mano. - Vieni qui Accolsi il suo invito senza esitazione. Venni, anzi crollai con le ginocchia nell’erba, dimentico dei pantaloni eleganti di lino color crema, aggrappandomi a lei come un naufrago a una boa, una grossa boa a fiori. Volli chiedere pietà, volli dire qualcosa senza riuscirci. Dimmi cosa succede, dimmi cosa succede ti prego sto impazzendo. Il vento africano spazzava via le nuvole e gli ultimi residui di menzogna. Lei mi baciava i capelli in silenzio e io provavo una felicità perfetta: stavo morendo, finalmente stavo morendo fra le braccia della sola donna che avessi mai amato. Attese a lungo prima di parlarmi.


La luna e l'asino

- Allora ciao Tutto qui quello che restava da dirsi. L’orizzonte di ametista era pieno degli ultimi grilli estivi. Non era poi così male quel posto. - Salutami, ragazzino Esitavo con lo sguardo sfuggente all’intorno, non sapendo più cosa fingere di osservare. Sentii le mani di lei toccarmi e stringere con decisione il cappio intorno al collo. Stringi di più, una volta per tutte. Mi fece una carezza sulla guancia e mi tese la mano. Ignorai il gesto convenzionale e la baciai; le infilai in tasca un biglietto: - Il mio numero di cellulare - dissi - Se per caso avessi bisogno di qualcosa Poi, senza salutarla, raggiunsi a rapidi passi la mia automobile, vi salii, girai la chiave nel cruscotto, manovrai in retromarcia per invertire la rotta e fui di nuovo davanti alla sua casa. Non risposi al suo cenno e non pensai più nulla finché non ebbi frapposto parecchi chilometri fra me stesso e lei, premendo rabbiosamente sull'acceleratore. Stavo guidando in trance ai centottanta all’ora da un lasso di tempo imprecisabile, obbedendo ai suoi comandi come una marionetta, quando sentii all’improvviso che aveva tagliato i fili. Allora rallentai, mi fermai, appoggiai la fronte contro il volante e rimasi a lungo immobile ad occhi chiusi, quasi senza respirare. Ebbi di colpo una confusa rivelazione: il viaggio come sola dimensione possibile, metafora di qualcos'altro. Non ebbi più nessuna fretta di arrivare, nessuna fretta di fuggire. Rimisi in moto e decisi di perdermi: imboccai una strada secondaria, cominciai ad arrampicarmi su per le colline, finalmente non riconobbi più nulla. Vidi un cartello, c’era scritto Schierano, un posto mai sentito. Svoltai a caso in una stradina sterrata che si perdeva tra i vigneti. La sera mi avvolse nella carezza dei suoi profumi e l'orizzonte arrossato dal tramonto mi si aprì di fronte lontano, infinito, a perdita d'occhio. Mi sentivo quasi bene: accesi la radio e cominciai a canticchiare; ma ad un tratto vidi i miei occhi nel retrovisore e provai un moto di profonda vergogna. Un altro specchio, fino a pochi minuti prima, aveva riflesso l’immagine di lei che, seduta sul letto, mi teneva fra le braccia frastornandomi con discorsi di cui coglievo solo frammenti sconnessi, devi andartene amore mio, indietro non si torna, non penserai per caso che io abbia intenzione di rimanere così tutta la vita, avevi ragione sai, la maternità ti costringe a identificarti tutta con il tuo corpo come una malattia, prima o poi voglio ricominciare ad essere quella che ero, ero carina una volta lo sai, ma tu devi andartene, il figlio deve andarsene per lasciar vivere la madre, altrimenti l’uno e l’altra si accontenteranno per sempre di amarsi e allora è come morire in anticipo, te lo impedirò a qualunque costo, ti costringerò ad andartene a finire l’università a sposare la tua bella Arianna, tu ami lei ragazzino non me, io sono solo una vecchia malattia. No no no. M'ero divincolato in preda a una rabbia disperata allentandomi la cravatta, strappandomela dal collo, sbottonando il colletto della camicia, piangendo in ginocchio col viso nel suo grembo, senza pudore perché il pudore non ha senso quando si è morti, spiegami come fai a chiamarmi amore se tutto quel che vuoi è mandarmi via, non te ne importa più niente di me, mi hai lasciato morire senza muovere un dito, come hai potuto come hai potuto, io lo so perché mi vuoi mandare via, tra poco arriva Valentino, lo amerò anch’io se lo ami tu, io non sono normale sono malato non voglio guarire, avrò pure il diritto di rimanere malato. E poi la verità finalmente gridata, basta cazzate io non amo Arianna non amo nessun'altra e la ragione è maledettamente semplice, le altre sono fuori e tu invece sei dentro di me, io ti amo Eloisa e tu ami me, e allora perché tutto questo perché perché non possiamo stare insieme adesso, stai cercando di farmi impazzire, perché lo fai, non capisco più niente non capisco più niente aiutami ti prego amore aiutami. Lei mi baciava i capelli, mi passava la mano fresca sulla fronte come fanno le madri quando i figli hanno la febbre e mi sussurrava zitto che svegli il bambino, e io quella mano l’avevo morsa con rabbia, dimmi di chi è il bambino voglio saperlo ho il diritto di saperlo dimmi almeno se è mio, ma lei aveva sorriso dicendo con dolcezza non te lo dirò mai, allora avevo cambiato tattica, facciamo l'amore avevo detto strappandomi la camicia di dosso, non aveva mai saputo resistere quando glielo chiedevo così, ma lei aveva risposto no e me l'aveva infilata di nuovo abbottonandola con dolcezza e accarezzandomi le spalle. Oh no, non dirmi che il momento è arrivato. Lei mi guardava sorridendo


inesorabile. Non ti piaccio più. Gli occhi sbarrati su di lei, ero scivolato aggrappandomi ai suoi occhi. Fucilato al cuore. Poi chi lo sa cos'era successo. S'era fatto buio nella mia mente. Non sentivo più niente, non soffrivo, lei mi cullava, il suo seno era gonfio e tumefatto, pieno di ematomi, così diverso da come lo ricordavo, il suo latte era dolce, la mia vita finiva lì, dov'era incominciata. Il sangue mi pulsava a mille, il caldo era soffocante: aprii il finestrino. Ero pazzo, malato. Era la mia malattia a farmi credere il contrario. La salvezza era a galla, in superficie, dove Arianna si muoveva con l'eleganza razionale di un minuetto. Arianna lo sapeva, sapeva dov’ero in quel momento, sapeva anche che sarei ritornato da lei. Sapeva sempre tutto. Ero un maledetto verme, l'avevo tradita. Ma allora perché non provavo alcun rimorso nei suoi confronti? All'improvviso mi fulminò un pensiero: Arianna sapeva tutto. Lo sapeva da mesi. Decisi di telefonarle immediatamente. Mi voltai di scatto a cercare il cellulare. Non c’era, forse era scivolato sotto il sedile. L’urto fu improvviso e violento. La strada si avvolse su se stessa e fermò la sua corsa contro un albero. _._ Riaprii gli occhi e cercai di sollevare la testa, ma ricaddi all’indietro: la sentii terribilmente indolenzita. Mi mossi cautamente, mi tastai ogni parte del corpo. Miracolosamente incolume. Uscii con fatica dalla BMW: la parte anteriore della fiancata era ridotta a un ammasso di rottami. Papà non sarebbe stato contento. Dovevo avere urtato con una ruota un paracarro; compresi di avere trascorso qualche tempo in stato d’incoscienza. Non riuscivo a rendermi conto di che ora fosse né di dove mi trovassi: l’orologio si era fermato, ma il sole era ormai scomparso dietro l’orizzonte: dovevano essere almeno le otto. Per la strada deserta non passava nessuno, non c’erano cartelli segnaletici e i fitti alberi che fiancheggiavano la carreggiata mi impedivano di vedere oltre. Non potevo chiedere aiuto: il cellulare non prendeva in quella zona collinare e in ogni caso non volevo allarmare i miei. Per un attimo pensai di chiamare un numero d’emergenza, ma non mi pareva di essere poi così malridotto. Decisi di proseguire lungo la salita, senza sapere dove portasse. Mi incamminai, zoppicando leggermente: la mia caviglia destra era gonfia; il naso cominciò a sanguinarmi: dovetti camminare con la testa rovesciata all'indietro e tenere il fazzoletto premuto contro le narici per una decina di minuti, prima che l'emorragia si arrestasse. L’aria era diventata irrespirabile, opprimente, per nulla rinfrescata dal crepuscolo inoltrato: mi tolsi la giacca, mi slacciai la cravatta e mi sbottonai la camicia insanguinata, ma continuavo a sudare. Allora guardai il cielo: il vento aveva trascinato le nuvole giù dalle montagne e c’era l’afa stagnante che prelude ai temporali estivi, quando la notte scende senza portare sollievo e non spira un alito nell’aria appiccicosa. Mi trovai immerso in un blu trasparente che presto sarebbe divenuto inchiostro. Non c’era un lampione in quella strada ed ero solo come un cane. Nel silenzio innaturale un fruscio mi fece trasalire: mi voltai col cuore in gola e non vidi nessuno. Le vene del collo presero a pulsarmi. Con sollievo mi accorsi di essere arrivato alla fine della salita, ma era ormai buio e non si vedeva altro che un bivio; due strade si aprivano davanti a me: una delle due, più larga e agevole, procedeva diritta perdendosi all’orizzonte, l’altra era poco più di una mulattiera sterrata che tornava indietro e scompariva nel bosco. Dolorante e spossato, le ginocchia tremanti, mi sedetti su un paracarro, senza saper che fare. L’atmosfera si fece perfettamente immota: un lampo scoccò dietro le nubi compatte, simile ad un diffuso e muto chiarore. Poi una folata di vento caldo mi investì: tesi la mano a ricevere la prima goccia dell’acquazzone. Una grandine di gocce grosse come nocciole cominciò a cadere picchiettando, sollevando un intenso profumo di polvere bagnata. Non cercai riparo sotto un albero: ho sempre avuto il terrore dei fulmini; rimasi seduto sotto la pioggia battente. Sentivo un fischio assordante nelle orecchie, la testa mi doleva. Mi resi conto di aver preteso troppo dalle mie forze. Dovevo telefonare a qualcuno, chiedere aiuto. Più tardi, più tardi l'avrei fatto. Ora ero troppo stanco, la mia mano pesava come il piombo, avevo bisogno di chiudere gli occhi, riposare, dormire… Sentivo, lontanissimo, il rintocco regolare di una campana a morto. Scivolai a terra col viso nel


fango, forse svenni. Persi la nozione del tempo e di me stesso. Un clavicembalo scordato improvvisò nel mio cervello una fuga di schegge impazzite. Emmanuel... Qualcuno alle spalle mi chiama, mi getta fra le braccia di Arianna vestita da sposa sulla soglia, dai Manu non sgualcirmi la gonna, io trentenne bellissimo con lo sguardo annebbiato rido e parlo di donne con gli amici in piscina, Arianna eternamente giovane grazie allo zio chirurgo estetico gioca a canasta con le amiche sussurrando sottovoce è malato, annuisce indulgente mentre io in cabina strafatto di coca slaccio il reggiseno a un’amante occasionale, la mia freddezza ormai prossima all'impotenza mi rende violento e questo si sa piace alle donne, devo sibilarle alla nuca sta’ zitta stupida ci sentono, è in ritardo perché non arriva, guardo l’orologio il serpente giallo esce dal tombino mal chiuso, ciao frocetto e mi azzanna le vene, schizzo fiotti di porpora sulle piastrelle, colo liquefacendomi, tento inutilmente di aggrapparmi a un vecchio salvagente a fiori, grido senza voce ma Arianna non mi sente, se ne va sorridendo per accompagnare a scuola una mandria di bambini tutti biondi con la pupilla degli occhi verticale come quella dei gatti e dei serpenti, lo scarico mi risucchia e mentre scendo nel gorgo porto con me il ricordo dei miei orribili figli, sto per affogare, una grossa mano cala su di me e mi tira su per la collottola, riemergo sputando liquidi immondi, cammino a tentoni nella fogna, l'acqua sale, non vedo l'uscita, cammino più veloce ma il livello continua a salire, mi sorpassa il cadavere di una grossa pantegana con il collo squarciato e gli occhi sbarrati, i liquami sono all'altezza del mio collo il fetore è insopportabile, sento una trombetta dietro di me e mi faccio da parte per lasciar passare Duffy Duck che mi tende una zampa e mi offre un passaggio, dove ti va di andare, in un posto qualunque della terra, perfetto, tanto un posto vale l'altro per vivere, al primo autogrill ci fermiamo a farci una birra come ai vecchi tempi, oh Dio sì dimmi che è vero dove sei dove sei, attento Emmanuel… c'è qualcuno alle mie spalle, mi volto, un tizio su una biga arriva contromano e per poco non mi travolge, ti conosco dannato pirata della strada, mi accorgo all'improvviso di aver dimenticato qualcosa d'importante ma non ricordo cosa e lo chiedo a Ben Hur che sordo, impazzito, frusta a sangue un ronzino bianco. Improvvisamente smise di piovere. Aprii gli occhi e vidi sopra di me il cielo: il vento avevo spazzato via le nuvole ed era apparso, nell’alabastro luminoso della notte, il disco opaco della luna piena. Per un attimo di sospeso, estatico stupore non pensai più a nulla. Regina del cielo, con qualunque nome... Ricordi, brandelli di parole si affacciarono alla mia mente: dammi pace e riposo, fa’ scomparire quest’orrido animale, restituiscimi al me stesso che sono; e se non mi è lecito vivere, mi sia concesso di morire, almeno! Mi alzai in piedi. La giacca fradicia cadde a terra, la cravatta di seta scivolò nel fango. Mi sfilai con rituale lentezza la camicia. La notte avvolgeva tiepida le mie spalle nude, su cui si rifletteva irreale il candore dell’astro. Alzai le braccia al cielo e respirai la sua luce trasparente. Il fango odorava di muschio e lumache, invitandomi al suo abbraccio. Vidi il bosco vacillare, rovesciarsi, la luna piombarmi addosso. Resi grazie, poi non sentii più nulla.


Lasciami andare adesso

Non è niente il sangue dal naso, ha già smesso. Ho sporcato un po’ il cuscino, mi dispiace. C'è il profumo di lui su questo cuscino. Non dire di no, lo riconosco. Non devi vederlo più. No, non sono geloso, ho paura. Sì, vorrei un cuscino anche sotto il ginocchio. Grazie. Così sto benissimo. No, non voglio il dottore. No, non voglio andare all’ospedale, domani forse. Voglio solo che mi ascolti. Siediti. Mi hai mentito amore non c'era niente da imparare il sogno non ha regole il viaggio non ha mèta e tu che lo sapevi mi hai tradito tu mille volte peggio dei tuoi complici tu che hai svelato al mondo i miei segreti no non ti assolvo è peccato mortale la viltà hai escluso anche me dal miracolo guardami adesso come mi hai ridotto sono tutto un livido dentro e fuori che indegno finale per la nostra farsa amore non ti voglio più ti lascio qua inchiodata al tuo corpo per sempre non voglio te non voglio lei non voglio io non vi voglio più vi disprezzo carnefici aguzzine del malato terminale non vi voglio rivoglio solo me dov'è la mia bellezza dimmi che fine ha fatto la bellezza non sei tu la risposta amore mio codardo e senza cuore è lo stesso con te o senza di te lasciami andare adesso ora che sento più forte la chiamata ora che vedo come una luce in fondo Dio quanto dolore inutile tu non lo sai non sai quanto ho sofferto avrei dato la vita per salvarti ti ho dato la mia anima a te non interessa la mia anima a nessuno interessa la mia anima ascoltami devo dirti una cosa importante io sono morto e tu amore mio distratto e imperdonabile non c’eri al mio funerale è finita è finita è finita potresti almeno piangere potresti almeno fingere di piangere e cosa sono adesso queste lacrime non piangere ti prego vieni qui Dio non lo ricordavo così bello sembra quasi vero come se l’amore esistesse grazie per essere esistita amore grazie di avermi illuso adesso attenta tienimi guardami stringimi le mani sarà una bambina questa volta coi miei occhi e i tuoi capelli prendimi prendila se è questo che vuoi se non mi puoi seguire se è destino che tu rimanga a terra se non c’è un altrove dove possa portarci questo volo . . .


Epilogo Il bambino che aspettavo da te, Emmanuel, l’ho perso un mese dopo che te ne sei andato. Naturalmente tu non ne hai mai neppure sospettato l’esistenza. Eri stato tu a volere che io sospendessi l’uso della pillola. Dicevi che mi faceva male alla salute, e ultimamente non è che tu prendessi molte precauzioni. Non ci hai pensato, vero? Sei sempre stato un po’ distratto. Stavo per dirtelo la mattina in cui mi hai piantata in asso (o dovrei dire in Nasso?). Non sono forte come Eloisa: lei è riuscita a portare a termine anche la sua seconda gravidanza, ed è nata Emma, capelli rossi e occhi blu, un amore di bambina. Eloisa era abituata da sempre a perderti. Invece per me è stato uno shock. Il dolore, la tensione nervosa, la paura per la tua sorte, l’angoscia per le ricerche senza esito, tutto ha congiurato contro di me. I miei hanno fatto del loro meglio per tenermi su di morale: mia mamma stava già preparando il corredino, mio padre aveva tirato fuori dalla soffitta la mia culla di vimini e l’aveva restaurata con le sue mani, era venuta una meraviglia. Ma un giorno ho perso i sensi, mi hanno trovata sul pavimento della cucina e quando mi sono risvegliata ero in ospedale, quasi dissanguata; il bambino non c’era più. Le complicazioni di questo aborto sono state così serie che sono diventata sterile. Avevo perso tutto: tu te n’eri andato, il bambino se n’era andato, la mia vita se n’era andata. Per due anni ho lottato per sopravvivere; ho conosciuto il baratro della depressione, il terrore irrazionale della luce, del sole, del mare; sono stata in analisi per parecchio tempo e ho scoperto che avevi ragione tu: non c’è medico che possa curare i mali dell’anima. Sono colata a picco non sai quante volte, e ogni volta, quando stavo per affogare, una mano mi tirava su per i capelli: la mano di mia madre, di mio padre, di tuo fratello. Ho potuto constatare che avevi ragione anche quando dicevi che da certe esperienze non si esce veramente vivi; in ogni caso non si è più gli stessi. Come diresti tu, sono morta e risorta: chissà chi sono adesso. Ma l’analogia finisce qui, Emmanuel. Certo la vita mi ha portato via molto; per essere più precisi, amore mio, tu mi hai portato via molto. Mi hai fatto un male immenso, proprio tu che non volevi fare del male neppure a una mosca. Ma è passato, ti ho perdonato fino in fondo, so che non avresti voluto. Vorrei potertelo dimostrare, ma rispetto la tua scelta, anche se non la capisco né la condivido. Mi piace pensarti su un’isola tropicale in compagnia di una bella polinesiana, una specie di novello Gauguin: vivo e felice. Quanto a me, che devo dirti? Mi sento ricca. Il mio babbo ci ha lasciati tre anni fa (per fortuna ha avuto la consolazione di vedermi di nuovo in salute), ma ho ancora accanto a me la mia più grande amica, mia madre. È poco avere vicino delle persone che mi amano? È poco vedere ogni giorno il sole, ora che la luce non mi fa più paura? È poco ascoltare della musica, leggere un libro? È poco occuparmi dei tuoi bambini? Mi sarei occupata anche del gatto Gino, ma è scomparso lo stesso giorno in cui te ne sei andato. Eloisa ha telefonato a Giuliano: era fuori di sé. Lo hanno cercato dappertutto, ma inutilmente. A questo proposito, non so perché ti piacesse credere che che per tuo fratello fosse così essenziale avere una prole legittima. Giuliano si occupa volentieri di tutto e di tutti e sa come riempirmi la vita: di recente ha comprato una coppia di pastori maremmani e ha raccolto dalla strada un piccolo cane decisamente brutto che ti sarebbe piaciuto molto. Tra tutto questo, la casa e il giardino, ho un gran da fare. A volte cado in crisi, mi sembra di non avere nessuno scopo, come è tipico delle donne sterili; ma è solo un attimo. La vita è piena di scopi, basta cercarli. E poi anche in questo avevi ragione: la vera eredità non sono i figli, anche se mi sarebbe piaciuto averne uno mio; la vera eredità è quella spirituale, e la tua nessuno potrà togliermela. Neanche tu. La vita mi ha dato molto, Emmanuel: mi ha dato perfino te. Ma basta parlare di me. Perché vedi, in questo siamo profondamente diversi: ci sono persone come te, che presumono che le loro esperienze debbano interessare a tutti; e ci sono persone come me, che ritengono che la loro esistenza sia un fatto strettamente individuale e non riguardi nessun altro se non chi la vive. Già, la vita: questa strana avventura di cui non riuscivi a capire il senso.


Ed io, credimi, non lo capisco meglio di te. Con imutato amore, Arianna


Appendice Conservo ancora la minuta di una lettera di Emmanuel che trovai un giorno nel cassetto del suo comodino. In quel momento la trovai terribile da parecchi punti di vista, ma adesso che è tutto finito non ha senso soffrirne. La trascrivo di seguito:

Arianna, mio povero amore, Rimando continuamente, ma prima o poi quel giorno arriverà. Perché io proprio non ci credo più. Sto giocando a carte scoperte, non so fino a quando reggerò alla finzione. Ti chiedo perdono in anticipo se il mio scritto sarà piuttosto confuso: sto mettendo a fuoco il problema un po’ per volta. L'amore è una cazzata mi disse un giorno qualcuno, e io senza questa cazzata non riesco a vivere. Mi dirai che l’affermazione è contraddittoria, ma tutto è contraddittorio nella vita. La chiave di tutto è la paura della morte. La morte ci fa paura perché avvertiamo la nostra scomparsa come la scomparsa di tutta la vita. Finito l’individuo che la percepisce, la vita stessa finisce. Ma quest’impressione è fasulla: la vita continua anche dopo di noi; il problema sta quindi nel nostro percepire, nel sentirci individui, separati dal Tutto di cui facciamo parte. L’amore risolve questo problema temporaneamente e illusoriamente, come la droga. Spostando il fulcro dei nostri interessi su un'altra persona, noi perdiamo il senso della nostra unicità-individualità-diversità, illudendoci di una fusione avvenuta fra noi e l'oggetto amato. Il segno della perdita della misura individuale è il senso di lacerazione insanabile, di insufficienza di sé, che prova chi è privato della persona che ama. Chi ama non teme la morte semplicemente perché, come individuo, è già morto. L'amore diviene una dolce anticipazione della morte, ci fa sentire tutta l’ebbrezza di questo perdersi. Chi ama abbraccia la morte come una sorella-amante; ed è nel momento del massimo annichilimento, e anche del massimo piacere, che si desidera più intensamente la morte. Così la morte appare dolce essa stessa: è un ragionamento analogico, perciò scorretto, ma suggestivo. Platone dice che l’amore è desiderio di immortalità. Può darsi, ma l’immortalità dell’anima presuppone la morte del corpo. Perciò l’amore è desiderio di morte. Considerato da questo punto di vista, amore mio, l’amore non ti sembra una sublime idiozia? Peggio: una deplorevole debolezza? Non credi che dovremmo trovare la forza di esistere in quanto individui, restando all’interno di noi stessi, eliminando l’amore dalle nostre prospettive? Io non ci sono mai riuscito, e non solo non ne sono orgoglioso, ma mi disprezzo per questo. L'amore cristiano, in cui tu credi, vorrebbe essere superamento dell'individualismo nell’offerta di sé al prossimo, e come tale si pretende più evoluto e meno egoistico di quello fra due amanti. Tradisce però il medesimo bisogno e la medesima matrice psicologica: il desiderio di annientare la solitudine; e propone anche la medesima soluzione, nell'annullamento di sé: chiamalo oblazione, sacrificio, autoimmolazione, martirio, in sostanza si tratta di voluttà autolesionistica e autodistruttiva, com'è evidente in tutte le forme degenerate di misticismo. Morendo, sacrificandosi per gli altri, non si elimina la solitudine altrui: si elimina solo la propria. Soluzione anche questa perfettamente illusoria ed individualistica. Mi domando anzi se non sia la massima forma di egoismo. Come vedi, non credo più in nulla, e senza un credo l'uomo non è più vivo di un relitto in balìa della marea. La tua vita, come quella di quasi tutti gli altri, è assolutamente insignificante ai miei occhi. Ciò che voi intendete per vita, dal mio punto di vista, non è che un’ottusa e insensata attesa della morte. Vi sforzate di renderla il più possibile piacevole, mangiate, bevete, evacuate, guardate la televisione, dormite, copulate, accogliete con gioia i frutti della vostra copula, vi fate compagnia nell’attesa del momento supremo, evadete nel sogno, e a tutto questo date nome amore. Ma il senso di tutto questo, il senso, amore mio, ti capita mai di chiederti qual è? Se il senso della vita è la vita stessa, allora il senso non c’è. Tanto vale che questo gioco finisca.


L'esistenza della maggior parte delle persone, dalla culla alla tomba, è concepita e programmata come una grandiosa e inconsapevole perdita di tempo. Tutta la società congiura in questo senso, a cominciare dalla scuola. Siete tutti colpevoli. Dovrei dire siamo, ma io sto uscendo dal gioco. Tu non ne avrai mai il coraggio, come non lo ha avuto Eloisa. Dio quanto la disprezzo. A differenza di te, lei avrebbe potuto, capisci? Lei aveva le ali, tu no. Sei tutta avvolta nella materia come in un confortevole bozzolo e non avverti mai il bisogno di lacerare l’involucro, tu piccola miope infermiera troppo occupata ad assecondare il regolamento dell’ospedale per avvertire il disagio di essere, di esserci, di essere suoi prigionieri. Che ne sai tu di me? Leggendo queste pagine scoprirai cose che nemmeno immagini e che non potresti capire, il mio lato omosessuale per esempio. Sono stato uomo, sono stato donna, sono stato cavallo, sono stato vento, sono stato puro piacere, puro dolore, pura gioia, pura materia, puro spirito. Tu vorresti fare di me un onesto borghese. Non assolvo nessuno. No, non vi assolvo. La posta in gioco è troppo alta: non ho ancora vent’anni e il futuro è già alle mie spalle. Ma cosa puoi capire tu. Sento che mi chiami dal piano di sotto: mi stai dicendo che la cioccolata calda è pronta. Vorrei tanto poterti amare, bambina mia. Adoro la tua cioccolata, adoro tutto di te, sarà terribile lasciarti. Ma i miracoli accadono raramente, e quando accadono è per caso. Non ti ho mentito, non ti ho mai dato la mia anima; dovresti capirlo da come faccio l’amore. Forse te la sto dando adesso, per la prima e ultima volta. Sarò sempre con te, ogni giorno della tua vita. Con amore, Michelle


INDICE 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17. 18. 19. 20. 21. 22. 23. 24. 25. 26. 27. 28. 29. 30. 31. 32. 33. 34. 35. 36. 37. 38. 39. 40. 41. 42. 43. 44. 45. 46. 47. 48. 49. 50. 51. 52. 53. 54.

Prologo - La metafora perfetta L'enigma della filatrice Qualcosa di grigio Attivo, passivo e medio d'interesse A carte coperte Nello specchio Scoprendo le carte La legge di natura Certi bravi ragazzi Tempisti Terapie alternative Il vento dentro Doppio fallo Onnipotenza Per altre vie Cioè proprio a livello Vuoti d’aria Gigli putrefatti Certe brave ragazze Buon compleanno, Emmanuel Molto sexy Roulette russa Principe Ode della gelosia Mort Subite Nessun problema Effetti speciali Lucciole e pipistrelli Un cavallo bianco Spezzando la crisalide Attraverso la palude Gli amori dei Templari Notturno dell'eroe sconfitto Cuore di mamma Labirinti Un cono alla fragola Via dal mondo L'infermiera Quattro passi all’inferno Certe piccole delusioni Certe strane alleanze Sorellina Ti sto dimenticando Il più bel giorno della mia vita Giudizi Certe mezze verità Freddo Incontro Come se fosse normale Nulla che ti riguardi La luna e l'asino Lasciami andare adesso Epilogo Appendice


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.