Network society e azione glocale

Page 1

Enrico Lain NETWORK SOCIETY E AZIONE GLOCALE analisi del processo di Dreamhamar di Ecosistema Urbano per la piazza di Stortorget (Hamar, Norvegia) con un’intervista a Domenico Di Siena

Padova - Venezia 2015


REFERENZE FOTOGRAFICHE Per tutte le immagini riguardanti il progetto e il processo di Dreamhamar © Ecosistema Urbano L’autore è a disposizione degli aventi diritto per eventuali fonti iconografiche non individuate Il libro su Dreamhamar è edito da Ecosistema Urbano e pubblicato da LUGADERO info@ecosistemaurbano.com editorial@lugadero.com


SOMMARIO

1.1.

Premesse: alcuni cenni generali sulle sfide per l’urbanità a venire

1.2.

ICT e gestione della complessità urbana: la retorica sulla “smart city” e la crescente inefficacia di modelli a gestione verticale del territorio urbanizzato.

1.3.

Nuove comunità urbane e città auto catalitiche: il civic hacking come gestione e produzione di beni comuni.

1.4.

Il processo di network design di Dreamhamar.

2.

Intervista al prof. Domenico Di Siena (fondatore di Urbano Humano Agency, e già partner dello studio Ecosistema Urbano)

3


4


1.1.Premesse: alcuni cenni generali sulle sfide per l’urbanità a venire. Questo breve saggio è stato scritto a conclusione del corso di perfezionamento post-laurea in Azione Locale Partecipata, a Venezia, nel 2015. Inevitabilmente, quindi, l’attenzione per il policy making è divenuto, nelle pagine seguenti, un filo rosso che raccorda strumenti, visioni, temi nel raccontare il fare città contemporaneo, tra contesto globale e azione locale, sviluppo sostenibile e rigenerazione urbana, smart city e sharing city. L’intento di questo scritto è quindi quello di raccontare alcuni frammenti di un quadro generale, ancora in fase di definizione. Quanto mi sembra di rilevare è che, nell’intreccio tra simultaneità delle istanze e stati di emergenza, si stia palesando un ‘fuori sincrono’ tra il set consolidato di discipline urbane (anche economiche e sociali) e quello che potremmo dipingere come un fiorire continuo di fenomeni urbani, caratterizzati sostanzialmente da un nuovo tipo di processualità e progettualità. In sintesi, dunque, le città si stanno (ri)trasformando in sistemi di laboratori rivolti alla formazione di valori, codici e significati. Dovremmo dotarci di nuovi strumenti e paradigmi per analizzare, ancora una volta, i codici1 che ogni città “produce” nell’interazione quotidiana tra spazi e cittadini. Oggi questa connessione è più intensa e stratificata di un tempo: i cittadini usano (e interpretano) lo spazio urbano anche mediante gli strumenti di interazione e condivisione digitali che vengono generalmente definiti come social network e web 2.0. Gli abitanti producono abitualmente (con i loro dispositivi portatili) un’incredibile mole giornaliera di dati e rappresentazioni urbane (commenti ed azioni geolocalizzate, foto, filmati) che rendono visibile la città in modo istantaneo e collaborativo. Questo layer urbano alimenta l’interazione tra la scala locale e quella globale, disgrega le gerarchie, rende visibili alcuni processi urbani, alimenta la classe creativa e un certo tipo di ‘nomadismo’ funzionale2 . Al contempo si sviluppano nuovi prototipi di spazi urbani, non solo pubblici ma anche condivisi, attivati, connessi: in sostanza è in questi spazi che la connettività urbana si esprime e alimenta le nuove prassi urbane. Per esse si sta consolidando un nuovo livello di interazione tra funzioni e attori/fruitori urbani. Non sembra trattarsi solamente di comunicazione, né limitarsi ad una traduzione digitale di processi consolidati.

5


Si tratta invece di qualcosa che attiva il nuovo (come fine e come modello). I suoi agenti sono membri di quella moltitudine di cui parlerà Domenico Di Siena, citando Hobbes: non un popolo sovrano ma cittadini attivi. Il primo passo per iniziare a capire alcune di queste nuove strategie è avvicinarsi alle nuove semantiche: emergono così, a lato del termine (ormai abusato?) di smart city, anche nuovi termini, quali p2p urbanism, sharing city, architettura e urbanistica open-source. Se leggiamo, ad esempio, i principi del p2p urbanism3 , ci accorgiamo che essi propongono una fusione tra azione locale partecipata, social network, empowerment dei cittadini e informazionalismo (ne parlerò tra poco, in riferimento al lavoro di Manuel Castells). Si tratta probabilmente di un rinverdirsi ciclico di pratiche partecipative, che pure vengono ibridate da nuove tecnologie e strategie. Come spesso accade quando si entra nel campo dei processi i limiti del discorso si fanno sfumati, per cui è necessario affidarsi ad un caso specifico (e, magari, concreto). Ecco perché ho scelto di raccontare e descrivere Dreamhamar, un recente processo di network design mirato a reimmaginare collettivamente uno spazio pubblico. Si tratta di un processo di progettazione partecipata a firma di Ecosistema Urbano (uno studio di architettura e pianificazione madrileno) per la piazza di Stortorget, ad Hamar (in Norvegia), nel quale sono stati adottati particolari strumenti (sia on-line che off-line) messi a interagire in modo nuovo. Questa best practice è stata ampiamente documentata e premiata (arrivando anche alla Biennale di Venezia), e la sua peculiarità non è solo nei processi che ha messo in campo: si tratta di un laboratorio di prova delle potenzialità della condivisione (sharing) nel progetto dello spazio pubblico urbano. Per questo, grazie al prezioso (e determinante) contributo del prof. Domenico Di Siena4 (che si occupa di sharing city con la sua agenzia Urbano Humano e che ha lavorato attivamente sul processo di Dreamhamar), cercherò di indagare a fondo gli esiti di quel prototipo di partecipazione e progettazione a piattaforma che esso rappresenta. Con i contributi della prof. Francesca Gelli e di Miriam Tedeschi (PhD candidate e consulente in ICT) abbiamo posto alcune domande al prof. Di Siena, giungendo all’intervista che vi proporrò nella seconda parte del saggio.

6

Credo infatti sia necessario prima costruire una piccola mappa che introduca i principali temi e problematiche emergenti, arrivando poi a descrivere il processo di Dreamhamar per come è stato ideato e svolto.


Esso può essere letto come un’applicazione di tecnologia urbana ibrida con fini laboratoriali5 , dedicati ad affinare strategie (per i contesti urbani) tese allo sviluppo di nuovi modelli civici e sociali di interazione (tra cittadini, tra comunità e tra spazi urbani). Personalmente ritengo Dreamhamar un caso esemplare delle opportunità rese disponibili da quella revisione delle prassi urbanistiche a cui accennavo più sopra. Non si tratta di una mera questione accademica (anche se potrebbe sembrarlo), quanto piuttosto di ricostruire strategie in grado di affrontare la crescente spinta demografica verso centri urbani (e aree megalopolitane) la cui complessità mette in scacco le consolidate prassi di pianificazione e sviluppo. I territori sono divenuti sempre più sensibili alle azioni globali, e stanno emergendo progetti di ricerca (dalle aree ad alto sviluppo urbano come Sud America, Cina e India, i futuri epicentri globali di urbanità) che leggono l’intero pianeta (nel 2050) come una città unica6 . In questo panorama complesso le aree urbane (esistenti e di nuova formazione) rappresentano il contesto più interessante in cui attivare laboratori di ricerca sulle nuove forme di urbanità sostenibile. Il previsto sviluppo demografico sta generando un interesse esponenziale per l’urbanità, con un determinante spostamento del focus verso le aree urbane a maggiore intensità di sviluppo.

Plan B - La Città da 7 miliardi di abitanti

7


8

Se fino agli anni ’80 l’Europa (con la sua città storica e i suoi centri) e il Nord America (con la sua urbanità fordista e i suoi suburbia) costituivano i principali centri di interesse dell’urbanistica e della pianificazione, oggi le aree di interesse sono il Sud America, l’India e la Cina. Mentre le discipline (tecniche e umanistiche) tentano di ricostruire adeguati sistemi di indagine per l’urbanità mondiale contemporanea, l’emergere di ecosistemi locali (che, come vedremo, spesso sono coadiuvati da app e ideati da start-upper) rappresenta un sostrato fertilissimo (e assai dinamico) che anima le città come laboratori urbani. Nelle città si sta dunque consolidando uno straordinario panorama di confluenza tra cultura, ricerca, azione politica e prototipazione. Tutte insieme garantiscono la resilienza territoriale urbana. Non esiste ancora una specifica definizione delle modalità in cui queste interazioni nascono e si sviluppano, tuttavia ritengo che esse possano essere viste come l’emergere di connettività creativa attorno ad un nuovo tipo di progettualità in grado di auto organizzarsi e auto rappresentarsi. Queste configurazioni emergenti sembrano essere il risultato (ancora parziale) di almeno quattro linee “di transito” recente della nostra civiltà occidentale: - il depotenziamento del paradigma capitalistico a favore del Commons Collaborativo7 - la maturazione, anche in ambito sociale, nell’utilizzo di Internet come rete connettiva multi direzionale8 - l’espansione sempre più capillare di strumenti e strategie rivolti alla creazione di comunità temporanee (principalmente grazie agli aggregatori sul web, come le piattaforme di blogging e micro-blogging), che stanno indirettamente valorizzando l’importanza della partecipazione9 - l’indebolimento delle logiche ‘di piano’ di fronte alla velocità di adattamento auto catalitico degli insediamenti ad alta e altissima densità abitativa, a favore di soluzioni estemporanee ed autoprodotte. Le conseguenze sulla nostra urbanità10 sono ancora da analizzare (siamo, come ho detto, in fase d’opera). La lettura della complessità urbana ha probabilmente bisogno di strumenti di lettura di nuovo tipo (questo è quello che dichiarano, tra gli altri, i sostenitori dell’urbanologia), trattandosi di indagini sincroniche di fatti, azioni e connessioni. Al contempo questo contesto pone anche un’altra questione: che tipo di sistemi e strumenti sono in grado di gestire la complessità urbana emergente? La domanda non è di poco conto. Non si tratta solamente di una riflessione teorica: l’aggiornamento sistemico delle città (o la realizzazione di nuove città) è un business valutato in qualche centinaio di miliardi di euro. Per questo la semantica (sostanzialmente tecnicistica e progressista) della cosiddetta “smartizzazione” mira alla creazione di specifici mercati (sensori, sistemi operativi urbani,


software in grado di analizzare algoritmi e urban dynamics) che spesso ripropongono visioni tipiche della modernità (dominio, controllo, linearità dei processi). Purtroppo, per queste ragioni, stiamo assistendo ad una semplificazione generalista nella strategie di comunicazione attorno all’idea di città futura: la smart city viene così più spesso dipinta come un elaborato sistema automatizzato piuttosto che come set di nuove strategie urbane. Trattandosi del principale business planetario, le principali multinazionali della tecnologia sembrano voler ignorare volutamente i risultati altalenanti (e con molte zone d’ombra) dell’urban developement degli ultimi due secoli. Non sembra essere particolarmente conveniente entrare nel dibattito attuale sulla nuova questione urbana (questione a cui ha fatto, recentemente, esplicito riferimento Bernardo Secchi11). In questo contesto di semplificazione e tendenziosa contrapposizione, tra l’idea di “vecchio e analogico” e quella di “nuovo e digitale”, propongo invece di indagare brevemente una ‘terza via’, fatta di ibridazioni, condivisioni e collaborazione tra sistemi vecchi e nuovi. Prima di analizzare quindi il caso specifico di Dreamhamar (che considero come una delle applicazioni più riuscite di questa “via mediana”), intendo proporre alcune questioni tematiche, sotto la forma di materiali di lavoro per un’ulteriore codifica del rapporto tra ICT, pianificazione e urbanità. Ritengo che in questo intreccio vi siano infatti alcune tematiche generali che è utile considerare per comprendere il fondamento di meta-processi di pianificazione (come quello di Dreamhamar). Credo inoltre che esistano dei fraintendimenti in merito all’ICT e alla sua effettiva capacità di consolidare ed estendere, autonomamente, la connettività urbana. Se è vero che la pianificazione consiste, oggi, principalmente nella connettività simbolica piuttosto che in trasformazioni sostanziali delle condizioni spaziali , allora l’ICT potrà essere uno strumento utile per rinsaldare le connessioni (oggi sempre più labili), ma non potrà costituire (o sostituire) le relazioni urbane. Oggi, in una prospettiva di pianificazione glocale, la formazione di nuove strategie è un processo continuo e aperto13. In questo contesto è possibile comprendere meglio la pluralità di registri utilizzati nel processo di Dreamhamar (l’integrazione tra il locale e il globale, il set trans mediale di comunicazione del processo, l’ibridazione tra strumenti di partecipazione e creazione di comunità e piattaforme digitali) entrando prima brevemente nel merito di quali orizzonti socio tecnici si stanno aprendo per il futuro delle nostre realtà urbane.

9


1.2. ICT e gestione della complessità urbana: la retorica sulla “smart city” e la crescente inefficacia di modelli a gestione verticale del territorio urbanizzato. L’uso della tecnologia in ambito urbano ha acceso un peculiare dibattito tecno-filosofico attorno alla definizione di ‘intelligenza’: cosa si intende per smart? Secondo alcuni l’intelligenza risiede in punti specifici del sistema (istituzioni, oggetti, sistemi di mobilità, ecc…), mentre per altri è l’intera città ad essere intelligente. Per spirito di sintesi possiamo dire che così si sottendono due definizioni di smart: per i primi intelligente significa ‘efficiente’, per i secondi invece significa ‘che è in grado di produrre nuovi valori urbani’. I più arguti (appassionati del Teorema dell’Incompiutezza di Gődel e delle teorie sviluppate nel consesso dell’Istituto di Santa Fe14) sospettano già che esistano non pochi limiti logici (e informatici) nella pretesa di ricondurre la complessità urbana a semplici urban dynamics, altri si limitano ad affermare che “computer più grossi semplicemente permettono errori più grossi” (Douglass Lee, 1973). La realtà sembra essere il fatto che città e cittadini sono un sistema unico, sempre più interconnesso dalla tecnologia. Questo fatto trasforma la città in un laboratorio interscalare, mentre tende a trasformare i cittadini da consumatori a produttori (di valore d’uso, di idee, di servizi).

10

Non possiamo dunque parlare di città senza coinvolgere anche l’azione umana che in essa opera, incessantemente. Questa idea (che implica la necessità di ri-costruire nuove geografie) pone sul fondo il concetto di opera come definito da H. Lefebvre, per il quale “la città e la realtà urbana dipendono dal valore d’uso. Il valore di scambio e la generalizzazione della merce prodotta dall’industrializzazione tendono a distruggere, subordinandole a sé, la città e la realtà urbana”. (Lefebvre, 1967) Gli schematismi un po’ rugginosi imposti dai consolidati sistemi delle rendite e dei valori di scambio non sembrano poter garantire un’adeguata dinamicità ed efficacia in un contesto complesso come quello attuale. Questa lacuna sembra essere tuttavia parzialmente colmata da un certo aumento di connettività (grazie anche alla disponibilità di accesso a Internet), che si presta ad accelerare alcuni processi delle aree urbanizzate. Oltre le sfide lanciate all’economia gobale da parte di Cisco, IBM e Siemens per la creazione di un monopolio per la fornitura di beni e servizi legati alla smart city, sul fondo rimangono le asimmetrie e le criticità (cicliche) che coinvolgono in modo sempre più pressante le aree urbane (non ultima quella iniziata nel 2006 negli USA e ancora pesantemente in corso nei paesi a crescita quasi-zero, come il nostro).


Leggendo in modo trasversale le Agende europee dedicate al contesto urbanizzato (Territorial Agenda, Urban Agenda e Digital Agenda) emergono quei temi centrali (rischio, adattamento, vulnerabilità, innovazione) attorno ai quali i territori, le città, i cittadini e le comunità dovranno trovare azioni e pratiche corali. In gioco per i nostri territori è la possibilità stessa di avere ancora un futuro. Le Agende europee affidano alle politiche locali (e alle strategie con cui verranno codificate e applicate) il compito di aumentare la resilienza territoriale. La centralità di questo obiettivo è determinante per tutte le pratiche socio-tecniche, dal tipo di imprenditorialità urbana, al set di strumenti dell’ICT (contenute nell’Agenda Digitale), all’attivazione di comunità locali. In estrema sintesi il legislatore dell’UE sembra aver considerato che: - il futuro sarà caratterizzato (in modo discontinuo ma strutturale) da cicli di crisi15 - la resilienza territoriale può emergere solo da una condivisione del rischio tra pubblico e privato, accompagnata al contempo da un nuovo tipo di policy making fondato su partecipazione e attivazione di comunità - maggiore sarà l’intreccio tra ricerca, imprenditorialità e politiche maggiore sarà la resilienza territoriale - il territorio urbano è il principale contesto di ogni possibile futuro.

Mappa tematica delle principali Agende europee, da InTerritori (E. Lain - A. Barollo)

11


12

La connettività tra i livelli che caratterizzano l’urbanità (e che le Agende si prefiggono di rinsaldare e intensificare) sembra essere un insieme vasto e spurio che in molti stanno cercando di analizzare e codificare. Tra i suoi componenti determinanti (ma non l’unico) l’ICT si presenta come una nuova infrastruttura16 del tipo di società che sta emergendo dall’intreccio degli strumenti, tecniche e modelli di produzione prettamente post-industriali. Secondo Manuel Castells si tratta della società dell’informazione17 , con una sua propria cultura estremamente dinamica e sostanzialmente urbana. Essa si è costituita informalmente (e senza sostanziali referenti istituzionali) attorno ad una generale riorganizzazione in reti della società post industriale. Secondo Castells, dal 1995 (dopo l’apertura al pubblico di Internet, l’adozione dei protocolli di trasmissione ‘a pacchetto’ dei dati secondo standard TCP/ IP e l’utilizzo del software World Wide Web nella gestione dei browser dell’intero pianeta) i processi del pianeta hanno iniziato a riconfigurarsi attorno (e grazie) alla socio tecnologia di Internet. Castells, riferendosi alla cultura di Internet (la rete fisica di hardware attivata dal software del WWW), scrive che “(…) è caratterizzata da una struttura a quattro strati: lo strato tecno-meritocratico, quello hacker, quello comunitario virtuale e, infine, quello imprenditoriale.” (Castells, 2001). E’ questa sua (per certi versi ideologicamente contraddittoria) pluralità che ha reso Internet così dinamico e al contempo conflittuale. Inoltre Internet e ‘la città’ sono fin troppo simili: fungendo al contempo come archivio, laboratorio per la ricerca e lo sviluppo open source, piattaforma di condivisione, mercato per la new economy, vetrina e specchio, sistema di comunicazione trans mediale, strumento di lavoro e rete di transito del capitalismo finanziario mondiale, Internet e la sua semantica vengano spesso interpretati ed usati come surrogati dell’urbanità18 . Internet e urbanità hanno dunque un destino incrociato che sarà difficile sciogliere, e che creerà non pochi fraintendimenti e conflitti tra modelli e visioni apparentemente confluenti. Quello che intendo è che la città ha una sua specifica inefficienza sistemica (disperde molte energie interne nell’interazione spesso scoordinata tra i suoi elementi), mentre i sistemi digitali tendono ad eliminarla; tuttavia la ‘vaghezza’ urbana, la sua imprevedibilità, costituiscono la sua resilienza di laboratorio continuo e al contempo la necessità della pianificazione, il suo essere perennemente incompiuta e prototipale. L’incontro tra ICT e urbanità sembra poter avvenire secondo due principali modalità-limite. Da un lato l’ICT potrebbe tradursi in un canale di raccolta e accentramento degli input territoriali, rendendo visibile l’invisibile, nei termini di


rappresentazione delle dinamiche urbane. L’utilizzo di questi dati potrebbe semplicemente estendere la consapevolezza delle amministrazioni aumentando la loro efficienza in termini di decision making. Dall’altro lato l’ICT potrebbe invece aumentare il dialogo bidirezionale tra amministrazioni e risorse emergenti (cittadini attivi, servizi dedicati alla sharing economy, progettazione partecipativa, ecc…), con un incremento simmetrico di complessità dei sistemi urbani e delle procedure di gestione e rifunzionalizzazione urbana. Naturalmente tra questi due poli esiste una certa varietà di processi intermedi, tuttavia (semplificando) risulta abbastanza evidente come la prima modalità sia maggiormente applicabile per le città di nuova fondazione, mentre la seconda riguardi ragionevolmente le città esistenti. A ben vedere, infatti, il discriminante non è tanto l’utilizzo di ICT (in modo verticale o orizzontale) quanto la presenza di potenziali comunità da poter attivare per l’upgrade cittadino. Contrariamente a quanto si immaginava alla fine del XX secolo, Internet ha contribuito a generare simultaneamente dispersione e concentrazione urbana: la geografia dei territori urbanizzati traduce nel mondo reale la ‘geografia’ di Internet. Nelle aree metropolitane la densità abitativa e di flussi è legata in modo biunivoco alla ampiezza di banda: abitare in città significa avere maggiori opportunità e maggiore connettività. Al contempo in Cina e in India ogni anno vengono realizzare nuove città satellite connesse ai grandi hub metropolitani anche grazie a infrastrutture ICT. Secondo Castells “con ogni probabilità, il XXI secolo vedrà un pianeta ampiamente urbanizzato, con la popolazione sempre più concentrata in regioni metropolitane molto ampie e gran parte del pianeta disabitata.” (Castells, 2001). In questo scenario vagamente distopico ma alquanto realistico, l’ICT rimane il principale connettivo della società dell’informazione: è economico, è simultaneo (non risente di differenze di tempo e di spazio) e consente feedback immediati. Il segmento che sembrerebbe ancora particolarmente problematico, nella cultura di Internet e nella società in rete, è proprio il policy making. Si fatica ad elaborare un adeguato intreccio tra istituzioni e ICT (si veda la perpetuata inefficacia della nostra Agenda Digitale nazionale), con ragioni che riguardano sia la mancanza di alfabetizzazione che l’ottusità retrograda dei modelli politici ancora agiti. Il policy making, tuttavia, dovrebbe costituire il principale contraltare alla promozione e adozione indiscriminata di ICT. Leggendo in questa chiave i recenti prototipi di smart city19 (in cui l’ICT diviene prevalente rispetto ad altri principi di organizzazione urbana) risulta evidente di come (senza un buon policy making) la tendenza sia quella di privatizzare la totalità degli spazi urbani, riducendo i cittadini ad essere nuovamente consumatori puri.

13


Mi riferisco qui alle tre più conosciute nuove città ad elevata automazione (Masdar20 , Songdo21 e PlanIT Valley22 ), che dimostrano ai developers e alle municipalità del pianeta come ottimizzare risorse e capacità di controllo dei flussi urbani. In esse la pianificazione ha inteso focalizzarsi sulla connettività on line, piuttosto che elaborare strategie di problem setting, di empowerment delle comunità urbane e di riassetto dei beni comuni urbani (questioni che riguardano principalmente le città esistenti). Queste tre smart city (ampliamente pubblicizzate e coadiuvate dalle più note multinazionali dell’ICT) sono città di nuova fondazione, prototipi in vitro di un capitalismo mondiale che cerca (ancora) nello sviluppo urbano il primo sbocco del proprio surplus23 . Secondo Adam Greefield24 il rischio di un’applicazione eccessiva di tecnologie dell’informazione alle città consiste, in massima sintesi, nel togliere loro ogni possibile resilienza e capacità di adattamento alle inevitabili (e cicliche) crisi urbane future. Greenfield evidenzia25 come (urbanisticamente, tecnicamente e amministrativamente) nelle smart city l’utilizzo massivo di ICT realizzi in realtà un funzionamento piramidale dei processi di gestione delle città, volto principalmente a trasformare completamente la città in un mercato liberista , con costi sociali inaffrontabili. L’ulteriore dato negativo di questa tendenza a produrre tecnologia urbana su “piattaforme proprietarie”27 dedicate risiede nella velocità di obsolescenza dei sistemi operativi urbani, negli eccessivi costi di manutenzione dei sensori hardware e nella sconsiderata corsa verso un futuro prossimo28 mai raggiungibile. Si tratterebbe dunque di una vision molto populista, semplificata ed edulcorata, che tende ad evitare le questioni legate alla difficile interazione tra una certa urbanità consolidata (e endemicamente conflittuale, quindi vitale) e una traduzione digitale delle connessioni urbane. La questione aperta da città come Masdar, Songdo e PlanIT Valley è dunque secondo quali modalità fare interagire (e ibridare) l’ICT con le comunità urbane e le loro capacità e potenzialità. E’ indubbio infatti che il processo di smartizzazione delle città esistenti (con una società urbana radicata e una mixitè di funzioni, di rendite e di proprietà) andrà codificato di pari passo con la necessaria rigenerazione urbana di cui hanno sempre più bisogno le nostre città.

14


Quanto appare urgente, oggi, è migliorare la responsività dei ‘laboratori urbani’. E’ probabile che non possiamo permetterci a lungo di attendere che le sintomatologie entrino a far parte di uno specifico ambito disciplinare che, poi, renda sistemiche e scientificamente trasmissibili (e migliorabili) le prassi comuni. Purtroppo, a causa dell’elevata interattività raggiunta nella connettività globale, accade che i risultati delle nuove prassi e dei prototipi emergenti siano immediatamente disponibili al pubblico, senza intermediazione o sistematizzazione accademica. Ciò non toglie che le accademie possano avere un ruolo fondamentale per il futuro di quel ecosistema planetario che si sta configurando in questi anni, tuttavia esso deve essere riconfigurato e riprogettato in modo specifico29 . Infatti, in un panorama asimmetrico come il mercato globale, il mondo accademico può continuare ad evolvere nella sua figura di partner e garante scientifico delle ricerche emergenti, riallacciando un rinnovato rapporto fiduciario con l‘hacking civico (che descriverò a breve nelle prossime pagine). Si tratta di una visione che mutuo direttamente da Marc Augé, quando scrive che “gli orrori del mondo non hanno diminuito la loro intensità, ma oggi non usciamo da una prova così fondamentale, identificabile e simbolica come quella della seconda guerra mondiale. Fino a prova contraria, le crisi economiche suscitano più inquietudini, più depressioni o violenze incontrollate che non reazioni intellettuali. Ecco perché l’utopia dell’educazione è utopica: non si accorda sufficientemente al momento storico per imporsi da sé. Eppure qualche segno a prima vista contraddittorio potrebbe militare a suo favore. Le rivolte dei giovani nei diversi agglomerati urbani e nei diversi continenti forse non rappresentano un appello diretto a rifondare il sistema educativo, ma non sono neppure soltanto un’espressione di pura violenza o una semplice reazione alla povertà. Nella misura in cui esprimono l’ingiustizia di una situazione di emarginazione sociale, rappresentano una ricerca di verità (…). Ogni protesta sociale ha il suo rovescio, che è la domanda fondamentale: che cos’è il legame sociale? Ogni protesta è una forma di ricerca.”30 Questa ricerca, come detto, è spesso costituita e costruita in modo singolare, complesso, non disciplinato. Tuttavia può costituire una fondamentale domanda di democrazia urbana sulla quale ogni offerta di democrazia dovrebbe poter fondare le proprie prassi e finalità. E’ un percorso difficile, in cui sono messi in discussione i fondamentali stessi della democrazia occidentale31 , e primariamente il tema di come si decide del futuro collettivo. Occorrerà codificare nuovi strumenti per ascoltare le emergenze locali, sintomi di nuovi modelli di attivismo civico e di imprenditorialità sociale che stanno ridisegnando non solo i sistemi di produzione di beni comuni, ma anche

THERE IS NO NECESSARY RELATIONSHIP BETWEEN CREATIVITY AND INEQUALITY. NATIONS CAN CHOOSE WHICH PATH TOWARD CREATIVITY THEY WANT TO TAKE (Richard Florida, 9 luglio 2015)

15


formare un diverso tipo di istituzioni intermedie in grado di articolare in modo più resiliente i rapporti tra il singolo e la società.

1.3. Nuove comunità urbane e città auto catalitiche: il civic hacking come gestione e produzione di beni comuni.

16

Poiché la connettività urbana (on-line e off-line, cioè quella legata ai tradizionali rapporti sociali) è il contesto intermodale in cui si sta profilando uno scontro (che non può propriamente definirsi latente32 ) sulla futura gestione dell’urbanità planetaria (in cui CISCO, Siemens e IBM, come abbiamo visto, divengono improvvisati pianificatori urbani), vale la pena di riflettere sulle possibili integrazioni tra strategie off-line di democrazia deliberativa e condivisione on-line della recente network society. Mi sembra interessante, a questo riguardo, approfondire brevemente il pensiero di Castells sulla network society. Il sociologo spagnolo mette l’accento sulle potenzialità derivanti dall’uso dell’informazione (in campo conoscitivo, economico, sociale, urbano, ecc…), mostrando come società e ICT abbiano un comune destino di interazione reciproca (che i ‘vecchi’ media non rendevano attuabile in modo così simultaneo). Scrive Castells che “ciò che contraddistingue (l’informazionalismo) non è il ruolo centrale della conoscenza e dell’informazione. La conoscenza e l’informazione sono state centrali in molte, se non in tutte, le società storicamente conosciute. (…) Nel corso della storia la conoscenza e l’informazione, e i loro puntelli tecnologici, sono state strettamente associate alla dominazione politico-militare, alla prosperità economica e all’egemonia culturale. (…) Ciò che contraddistingue il nostro periodo storico è un nuovo paradigma tecnologico introdotto dalla rivoluzione dell’information technology, incentrata su un gruppo di tecnologie dell’informazione. Ciò che vi è di nuovo è la tecnologia dell’elaborazione dell’informazione e il suo impatto sulla generazione e l’applicazione della conoscenza.”33 Ci troviamo così, secondo Castells, in un periodo in cui le prassi divengono rilevanti tanto quanto la conoscenza, in quanto fanno parte di un medesimo ecosistema che produce informazioni in modo esponenziale. Non si tratta quindi di semplici contenuti da inserire in sistemi operativi (come abbiamo visto nelle intenzioni dei progettisti di smart city) ma di elementi dal potenziale generativo. Anche il policy making subisce la sua trasformazione, in questo contesto dell’informazionalismo.


“Presi da questo gorgo e ignorati dai network globali del capitale, della tecnologia e dell’informazione, gli stati-nazione non affondano così come avevano previsto i profeti della globalizzazione. Essi si adattano nella struttura e nel funzionamento, diventando essi stessi dei network. (…) In quasi tutto il mondo si sta verificando un processo di decentralizzazione politica, con lo spostamento di risorse dai governi nazionali a quelli regionali e locali, e perfino a organizzazioni non governative, in uno sforzo concentrato di ricostruire una legittimazione e di accrescere la flessibilità nella condotta degli affari pubblici. Queste tendenze simultanee verso la sovranazionalità da una parte e verso il localismo dall’altra spingono in direzione di una nuova forma di stato, lo stato-network, che pare essere la forma istituzionale più elastica per sopravvivere alle tempeste della network society”34. In questo senso ho inteso raccogliere nel titolo di questo breve testo “network society” e “azione glocale”. Sembra infatti che le distinzioni (nelle prassi, nella lettura dei fenomeni, nella loro sistematizzazione disciplinare, ecc…) tra scale e livelli gerarchici di gestione territoriale siano state messe in scacco dalla società dell’informazione, al punto che il learning by doing sta producendo risultati molto interessanti, potendo intrecciare e ibridare le azioni con la connettività on line . Non si tratta di una semplice conseguenza dell’evoluzione dell’ICT, ma del tentativo di ricostruire (in un sistema che genera autonomamente complessità) una possibile futura gestione dei territori urbani, rispondendo al contempo ad un’ulteriore domanda: quale democrazia urbana realizzare? Spesso infatti si ritiene che la tecnologia (oggi è il digitale) possa catalizzare da sola il cambiamento nei paradigmi e nelle strategie di sviluppo. Probabilmente i telaio meccanico, il motore a vapore e l’elettronica hanno avuto questa possibilità (e ancora oggi possiamo leggerne gli effetti nelle città industriali). Tuttavia il digitale è molto più vicino ad una nuova visione del mondo piuttosto che ad una tecnologia. Secondo questa interpretazione è possibile comprendere la straordinaria potenzialità della società dell’informazione: essa appare, al contempo, ricca di propositi innovativi e dirompente35 nei confronti di quanto finora consolidatosi (nelle prassi e nelle discipline). I sistemi gerarchici sono entrati in un conflitto paradigmatico con gli elementi di sussidiarietà e auto-organizzazione che stanno guadagnando sempre maggiore visibilità e operatività (dalle start-up alle esperienze di riappropriazione civile e temporanea degli spazi urbani dismessi o privi di funzione36). Come detto, infatti, siamo in una fase estremamente laboratoriale della nostra civiltà, e non è possibile dire che questa fase possa portare oltre.

17


Union Kitchen mantra.

18

La connettività potrebbe, in questo contesto di “conflitto creativo”, costituire una interessante alternativa alla sintesi dialettica (o ad una visione ancora evolutiva della società). Non si tratterebbe così di ricostruire sistemi ma di gestire i conflitti nel modo più ragionevole. Il conflitto può costituire, se letto in chiave positiva, un’apertura al possibile e una moltiplicazione delle opzioni. Quando il problem setting viene connesso, all’interno del medesimo processo, al problem solving allora avremo quello che viene chiamato hacking. In esso la conflittualità viene incanalata nella ricerca delle soluzioni possibili, senza alcuna pretesa ulteriore. L’hacking costituisce l’idealtipo di ogni prassi laboratoriale contemporanea (e il nuovo panorama culturale dei makers e dei prosumers lo mette al centro di ogni lettura e azione sull’esistente). Vorrei proporvi tuttavia di considerarlo anche come una declinazione complementare del confronto creativo elaborata in un contesto ibrido come quello contemporaneo. Ha perfettamente ragione Marianella Sclavi quando scrive che, senza effettuare un aggiornamento dei sistemi di democrazia occidentale in direzione della partecipazione e del confronto, col “moltiplicarsi dei mezzi di comunicazione di massa non direttamente assoggettabili ai principali gruppi di potere” oggi è “diventato sempre più difficile imporre decisioni non desiderate a minoranze convinte di non essere ascoltate (…)”. Inoltre, quando le minoranze si attivano per cambiare lo status quo in modo propositivo e dal basso, ci troveremo esplicitamente nel campo dell’hacking civico, dunque in una azione propositiva costruita in modo collaborativo dal basso che si impone come prassi migliorativa (e non necessariamente conflittuale) dei processi urbani esistenti. La finalità di un buon hacking è imparare insieme, facendo per tutti37 e condividendo primariamente interessi e conoscenza. Nell’hacking si esplicita in modo diretto la caratteristica generativa dell’informazionalismo: l’informazione, ricombinata, produce altra informazione, con un’attitudine non-schematica nei confronti dei processi e delle tecniche. Emerge qui una certa affinità tra l’hacking e i principi che animano e guidano il Confronto Creativo. Per entrambi la moltiplicazione delle opzioni, l’empowerment, la costruzione collettiva di testi unici e visioni condivise (e costruite in modo comunitario) non sono un’alternativa ideologica alle prassi esistenti e consolidate. Semplicemente funzionano meglio. Riporto qui di seguito alcune recenti strategie di hacking civico, utilizzate con successo nelle città americane ed europee. L’elenco non è certamente esaustivo, tuttavia intende dare una piccola dimostrazione di cosa può accadere quando, attorno a nuove idee, iniziano a consolidarsi e ad attivarsi nuove comunità urbane.


La prima strategia di resilienza urbana è la sharing economy , che riformula la possibilità di condividere la proprietà privata tra diversi utenti. Si tratta di una strategia LCQ (veloce e a basso costo) che permette non solo di suddividere i costi di accesso ai beni (dall’utensile alla casa), ma anche di tradurre nella società civile i principi della cultura open-source e collaborativa emerse grazie al Web 2.0. Ovviamente la sharing economy è resa possibile (e vincente, per efficacia) dall’interazione tra zone urbane ad alta densità e i nuovi strumenti dell’informazionalismo (smartphone, metodi di pagamento on-line, sistemi di ricerca in rete, sistemi di verifica dell’identità degli utenti, mappatura e rappresentazione open source del territorio). Alcuni esempi: Union Kitchen38 (Washington DC), SnapGoods39 , Airbnb40 , Geraround (San Francisco)41 . Altra interessante strategia, tra la sostenibilità e la rigenerazione urbana, sono le nuove ‘fattorie’ acquaponiche (che uniscono quindi l’allevamento dei pesci – acquacultura - con la coltura di vegetali senza uso di terreno – idroponica). I deserti del cibo (food deserts) sono una delle conseguenze negative dello sprawl urbano incontrollato, e la shrinking city americana post-crisi spesso ha dovuto risolvere il tema della produzione di cibo nel vicinato come alternativa alla grande distribuzione. Naturalmente le fattorie urbane hanno anche finalità di ampio raggio, come la riduzione dell’impronta ecologica e il conseguente aumento della resilienza al cambio climatico. La forza di progetti come la box degli svizzeri Urban Farmers42 e la contemporanea attenzione per l’ultra locale (come è l’autoproduzione di cibo) e per il network dei farmers43 risiede in un nuovo tipo di attivismo glocale che può divenire anche attività imprenditoriale44 . Avevo già accennato al guerrilla urbanism come una delle potenziali strategie per impiegare l’attivismo urbano nella riqualificazione di piccole aree urbane dismesse. Un interessante progetto è quello di Walk your City46 che permette di progettare, disegnare e installare nuove segnaletiche urbane per i pedoni; un altro progetto (che come Walk your City è adottabile in qualsiasi città) è Better Block47 . Si tratta di un progetto che opera come una living charrette e che permette alle comunità urbane di attivarsi nel processo di completamento delle strade e nello sviluppo di imprenditorialità istantanea per mostrare il potenziale economico e sociale di un’area urbana.

Fattoria urbana a Berlino (Urban Farmers)

19


Quanto ho riportato intende essere una piccola dimostrazione di come l’informazione può essere un catalizzatore di processi urbani. L’informazione è uno stato di relazione che connette attraverso la condivisione di un contenuto, e i cittadini attuali (con i loro dispositivi mobili) sono i principali produttori di informazioni urbane. L’aspetto affascinante è che questa diffusa digitalizzazione della connettività urbana spinge (contro ogni previsione fatta agli albori di Internet) all’attivazione di fenomeni urbani off-line (agricoltura, comunità, attivismo urbano e politico, ecc..). Ritengo che questo fatto possa aiutarci a comprendere come l’urbanità si stia consolidando e rafforzando secondo un set di strategie ‘auto-catalitiche’ e adattative, caratteristiche dei sistemi complessi. L’informazionalismo sta alimentando la connettività urbana esistente, rinsaldando i rapporti tra cittadini e città. E le aree urbane più complesse e caotiche (dove sembra pressoché impossibile imporre un piano urbanistico sull’esistente), come le favelas brasiliane o le periferie indiane divengono occasioni di ricerca48 per analizzare e comprendere questi processi auto catalitici. Dalla periferia del mondo sembrano emergere molte delle linee di sviluppo futuro del mondo urbanizzato, e la disponibilità di connettere questi luoghi tramite network ICT è una rivoluzione non di poco conto per le ricerche urbane. “La nostra comprensione delle città è stata conformata dalla mentalità dell’Era Industriale, con le sue forme di controllo istituzionale. Tuttavia, con l’esplodere dei centri urbani sul pianeta, stiamo toccando i limiti del vecchio modello di città-macchina. Le metropoli stanno crescendo troppo in fretta per permettere ai nostri modelli istituzionali di funzionare. Il nostro compito, così come affermava Jane Jacobs, autrice e attivista urbana, non è comandare la città ma capire i processi che la fanno funzionare.”49

20


1.4.

Il processo di network design di Dreamhamar.

Il 25 giugno 2010 il comune di Hamar (Norvegia) lanciò un bando di concorso internazionale per il progetto della piazza di Stortorget (di superficie pari a circa 8.000 mq), intitolato “Arte nella piazza cittadina di Hamar, Norvegia”. La deadline era fissata per il 5 novembre 2010. L’invito alla pre-selezione50 recitava quanto segue: “La città di Hamar invita gli artisti alla pre-selezione per un concorso di Arte Internazionale nella piazza principale di Hamar. Si tratta di una generale riqualificazione e ri-progetto della piazza, che è uno dei principali spazi urbani. Hamar è una cittadina di medie dimensioni della Norvegia ed è localizzata a lato del suo principale lago, Mjøsa. Gli artisti possono collaborare con architetti e paesaggisti. Uno degli scopi principali della nuova piazza è quello di permettere all’arte di giocare un ruolo significativo per lo spazio urbano. Verrà apprezzata la proposta artistica con un carattere moderno, distintivo e innovativo. L’opera avrà un ruolo prevalente nel successivo processo di pianificazione. Si impone che il progetto possa essere realizzato con un budget di 550.000 €”. Ecosistema Urbano (uno studio di architettura e pianificazione con sede a Madrid) vinse la pre-selezione e (poi il concorso) proponendo, in luogo di un classico progetto di urban design, il processo, denominato inizialmente OTS (One Thousand Square). Il progetto venne presentato con un pay off esplicito: “cosa accadrebbe se i cittadini potessero sperimentare 1000 piazze e poi scegliere la migliore?”51 . Il comune di Hamar decise quindi di sostenere un approccio pioneristico per la costruzione della nuova piazza di Stortorget, permettendo ai cittadini di partecipare ad un processo di collective brainstorming che avrebbe determinato la nuova configurazione della piazza. La prima proposta di progetto (consultabile on line52) includeva la costruzione fisica di un laboratorio temporaneo al di sopra dell’edificio denominato Bazaar Building, mediante l’utilizzo di un sistema tubolare prefabbricato. I costi valutati in fase preliminare erano di € 16.500 (comunicaz ione+documentazione+mantenimento)+€ 88.000 (realizzazione della struttura temporanea). Il laboratorio di OTS, quando divenne il Laboratorio Fisico di Dreamhamar, venne realizzato all’interno del Bazaar Building, permettendo plausibilmente di investire parte dei previsti costi di costruzione nei processi partecipativi e di network design. 21


Dreamhamar, proposta iniziale (Ecosistema Urbano) EdiďŹ cio dedicato al Laboratorio Fisico nella fase di attuazzione (sotto)

22


Per descrivere il processo di Dreamhamar occorre prima considerarne alcune premesse fondative. Nell’articolo Network Design: Dream your City, a firma di Jose Luis Vallejo e Belinda Tato (cofondatori e direttori dal 2000 dello studio Ecosistema Urbano, d’ora in poi EUr), e pubblicato sulla piattaforma Scribd53 e su Harvard Design Magazine n. 37, Dreamhamar viene descritto come applicazione di network design, inteso come implementazione delle prassi di progettazione partecipata grazie agli strumenti ICT disponibili alla network society. EUr ridefinisce programmaticamente il ruolo dell’urban designer per rendere il network design una prassi in grado (anche) di alimentare il dibattito sulla questione urbana: “(…) poiché i confini professionali e disciplinari si stanno confondendo, abbiamo la necessità di esplorare un nuovo ruolo per il progettista, quello di attivatore, mediatore e curatore di processi sociali in una realtà interconnessa. Sopra a tutto dovremmo sviluppare e testare strumenti di progettazione che permettano al cittadino di essere una parte attiva del processo, invece di rimanere legato al suo status di consumatore di un prodotto finito”. Con l’obiettivo di “implementare la filosofia del network design” EUr ha attivato un processo attorno all’interazione di cinque principali strumenti specifici: 1) AZIONI/EVENTI URBANI (Urban Actions): “eventi effimeri e installazioni temporanee nello spazio pubblico, concepiti per creare aspettativa e attivare i cittadini nella partecipazione al processo, nonché per sperimentare (con modelli in scala 1:1) possibili usi e soluzioni della futura piazza. Le urban actions hanno rappresentato la dimensione più diretta, visibile e locale del progetto” (EUr); 2) LABORATORIO FISICO (Physical Lab54): “Il Bazaar Building, un piccolo edificio storico nella piazza, venne convertito in ufficio temporaneo di Ecosistema Urbano e base culturale operativa, un posto in cui si svolsero il normale lavoro d’ufficio, i laboratori on-site, le letture e le mostre. E’ stato pensato con l’obbiettivo di massimizzare l’interazione con le finalità locali del progetto” (EUr); 3) LABORATORIO DIGITALE (Digital Lab55): “Si trattava di una piattaforma on-line contenente contributi dinamici (come un blog), pagine statiche di pura informazione, un social network ristretto e l’applicazione per mobile dedicata a Dreamhamar. Il laboratorio digitale venne usato per ospitare i laboratori on-line, pubblicare broadcast settimanali e per aggiornare regolarmente i contenuti sull’avanzamento del progetto. Questo spazio digitale (o ‘lab’) era stato concepito primariamente per l’interazione orizzontale peer to peer (p2p), con l’obbiettivo di raggiungere una visibilità e connettività globale per Dreamhamar” (EUr); 4) RETE ACCADEMICA (Academic Network56): “Vennero invitati università internazionali e studenti locali a

23


partecipare a Dreamhamar, mediante contributi progettuali da trasmettere e rappresentare, per soddisfare le aspettative dei cittadini più giovani. La rete accademica aveva una dimensione glocale, ed era principalmente orientata a trasformare idee e progetti nell’opportunità di imparare facendo, permettendo a più di 1500 studenti, facoltà di diverse scuole locali e ad istituti internazionali di diventare parte del processo di progettazione” (EUr); 5) PROGETTAZIONE URBANA (Urban Design57): “Dreamhamar venne presentato unitamente con un primo draft preliminare58, uno studio di fattibilità messo a disposizione dei partecipanti assieme ad una varietà di strumenti e riferimenti da usare nei laboratori e una base per la discussione. Dopo la conclusione del processo di network design, le idee più rilevanti e le tematiche principali vennero riunite in un nuovo progetto urbano per la piazza di Stortorget” (EUr). I cinque strumenti, nelle intenzioni di EUr, avevano l’obbiettivo comune di moltiplicare le opzioni e il target dei partecipanti e dei portatori di interesse, facendo interagire e confluire i risultati di ciascuno strumento nella piattaforma di progettazione urbana condivisa. In fase d’opera vennero aggiunti poi due ulteriori strumenti, ovvero: 6) LABORATORI ON-SITE (Onsite Workshop59), “seguendo la filosofia di Dreamhamar, I laboratori, condotti dagli Ospiti Creativi e dal Team del Laboratorio Locale, seguono una metodologia orizzontale e partecipativa. Usando un’ampia gamma di metodi creativi, i partecipanti saranno aiutati a sviluppare proposte e pensieri sulla piazza di Stortorget e sulla città di Hamar60. Gli scopi dei laboratori sono molteplici – arricchire l’archivio collettivo adducendo idee nuove, creare nuove connessioni tra gli abitanti locali e aumentare la comprensione dei bisogni locali e dei desideri (per Hamar in generale e per Stortorget nel dettaglio”. (EUr); 7) ZAINO CULTURALE (Cultural Rucksack61), “si tratta di un programma nazionale che porta i professionisti in campo artistico e culturale nelle scuole norvegesi. Il programma aiuta gli studenti meritevoli ad approcciarsi a tutti i tipi di arte e espressione artistica. La municipalità di Hamar ha deciso, nel 2012, di connettere il programma al progetto di Dreamhamar. Per questa ragione, 1292 studenti hanno lavorato producendo le loro idee per la nuova Stortorget”. (EUr).

24


Workshop all’interno del Laboratorio Fisico

Screenshot della piattaforma on-line

25


Draft preliminare per l’urban design di Stortorget (Ecosistema Urbano) Arena creativa (dal draft preliminare di Ecosistema Urbano)

Paesaggi urbani vitali (dal draft preliminare di Ecosistema Urbano)

La piattaforma web su cui è possibile accedere a gran parte di queste iniziative (incluse le proposte raccolte on line) è tutt’ora visitabile al sito http://www.dreamhamar. org/category/blog/. Ad una prima indagine è possibile vedere quanto impegno è stato speso (anche in termini di allestimento di piattaforme e occasioni off line di incontro con la comunità locale) per attivare il maggior numero di opzioni progettuali per la sola piazza di Hamar. Una nota importante riguarda la lunga trattativa (durata da aprile ad agosto del 2011) nel corso della quale EUr dovette chiarire ed approfondire alla municipalità di Hamar i punti salienti del processo e le proprie competenze.

Social nature (dal draft preliminare di Ecosistema Urbano)

26

Il primo draft (consegnato alla firma dell’incarico nell’agosto del 2011) è stato poi completamente rivisto (nell’urban design, principalmente) nel corso del progetto finale, che è invece il risultato del processo di network design. Come vedremo poi nel dettaglio di quanto descritto da Domenico Di Siena, Dreamhamar ha attivato una comunità glocale per moltiplicare le opzioni e rendere trasparente il processo attraverso un uso mirato dell’ICT, mentre il processo di sintesi progettuale finale è rimasto in capo a EUr.


Vediamo quindi di ricostruire brevemente i momenti salienti del processo, sviluppato tra il 2010 e il 2012, e l’utilizzo degli strumenti elaborati da EUr.

Diagramma finale delle attività e delle funzioni per Stortorget (di Ecosistema Urbano)

FASE CONCORSUALE : lancio 25 giugno 2010 , scadenza 5 novembre 2010, esiti 5 gennaio 2011. FASE PRELIMINARE – strategie progettuali per la nuova Stortorget (15 agosto 2011). Questo primo draft (liberamente consultabile on line62) era articolato in 6 sottosezioni: 1Mappatura/Scala Urbana 2Mappatura/Scala locale (la piazza) 3La strategia urbana per la nuova Stortorget/Linee guida (persone, ambiente, attività, tecnologia, strategia stagionale) 4La strategia urbana per la nuova Stortorget/Disegni in scala 5La strategia urbana per la nuova Stortorget/Atmosfere urbane 6Da un disegno urbano preliminare a Dreamhamar, processo collaborativo in rete

27


EVENTO DI APERTURA (Painthamar): settembre 2011 EVENTO CONCLUSIVO (Lighthamar): dicembre 2011 CONSEGNA ELABORATI FINALI: 28 marzo 201263, presso la sede municipale di Hamar. RICONOSCIMENTI: Nel 2012 EUr espone il processo di Dreamhamar alla Biennale di Architettura di Venezia, tramite un video dal titolo Dream Your City64. Nei testi del video si afferma che Dream Your City ha come obbiettivo la “realizzazione di comunità proattive e resilienti e permette la creazione di progetti più inclusivi e densi di significato”. nel 2013 la città di Hamar ha vinto un premio relativo all’ambiente urbano (Urban Environment Award) in qualità di committente in un processo di sviluppo urbano di ottimo livello. MILESTONES DEL PROCESSO: Dreamhamar è stato un processo che ha sapientemente attivato (e alimentato) una comunità locale attorno alla possibilità di immaginare nuovi usi per la piazza principale della propria città. Una serie di eventi coordinati (nel Laboratorio Fisico e in quello Digitale) ha reso possibile quattro mesi di intensa attività proposta ai cittadini. Le Azioni Urbane hanno scandito pubblicamente i tempi della partecipazione, utilizzando gli strumenti della convivialità e dell’arte pubblica per cambiare la sedimentata percezione dello spazio (precedentemente usato come parcheggio) e per decostruire/ricostruire l’identità collettiva. “L’idea era di operare direttamente sullo spazio pubblico per incoraggiare la sperimentazione diretta di usi effimeri e temporanei su di uno spazio permanente”65. EUr è stato ad Hamar dall’agosto al dicembre 2011 per attivare la comunità locale. I laboratori on-site si sono svolti sia nei giorni feriali che nei fine settimana da settembre a dicembre dello stesso anno. EUr ha rilasciato on line un’interessante quantità di materiali (foto su Flickr66, i draft iniziali su Scribd, i video di One Thousand Squares, Dream You City su YouTube e Vimeo). Il 18 settembre 2012, tirate le fila del processo e dei suoi ‘numeri’, EUr pubblica il video “From Dreamhamar to a new design for Stortorget”67, contenente i dati finali che qui riporto, suddividendoli nei 7 ‘tool’:

28

1) a. b. c. d. e. f. g. h.

AZIONI/EVENTI URBANI Painthamar Creamhamar Greenhamar Arthamar Playhamar Filmhamar Alicantehamar Lighthamar


2) a. b.

LABORATORIO FISICO Mostre pubbliche Ufficio temporaneo di EUr

3) LABORATORIO DIGITALE a. Piazza Digitale: strumenti di comunicazione e partecipazione, canali su social network, streaming video settimanale b. Laboratori On-line: 6 settimane tematiche (tecnologia, ambiente, persone, strategie stagionali, Hamar futura) 4) RETE ACCADEMICA a. 265 studenti coinvolti b. 9 istituti universitari attivati (tra cui il Politecnico di Milano) c. 5 paesi 6) LABORATORI ON-SITE a. Letture/lezioni b. 10 ospiti creativi c. 8 paesi coinvolti d. Ambiti disciplinari coinvolti: architettura, arte, urbanistica, ingegneria, sociologia, discipline umanistiche, biologia, paesaggio, ICT EUr ha rilasciato poi altre informazioni relative alla quantità di partecipanti coinvolti e di feedback ricevuti sulle piattaforme digitali. Nei laboratori off line e negli eventi urbani sono stati impiegati cinque attivatori di comunità e diciotto artisti da quattro differenti paesi; per i laboratori on line è stato necessaria un’organizzazione maggiore, che ha coinvolto tre direttori, due coordinatori, tre ospiti speciali, 10 progettisti, tre scuole di architettura (per un coinvolgimento di almeno sette paesi di provenienza). Il programma di scolarizzazione all’arte (il Cultural Rucksack) ha infine coinvolto 1292 studenti provenienti da dodici scuole locali. Infine i dati raccolti dalla piattaforma web dreamhamar.org sono ovviamente solo quantitativi: 327 post pubblicati, 10.617 visite nell’arco di tre mesi 25.023 visite alle pagine della piattaforma 4.528 visitatori distinti 496 tweet 288 follower Come detto in precedenza il 28 marzo 2012 è stato presentato da EUr il progetto finale per Stortorget, con le seguenti caratteristiche principali: • Torg anfiteatro - un luogo, sede di concerti, spazio per giocare con acqua in estate e pattinaggio in inverno.

29


• Il giardino d’inverno - un’oasi verde che fiorisce in pieno inverno. Non vi è possibilità per l’uso variegato; punto informazioni, bagni pubblici, ecc • Market Place – realizzato sotto un baldacchino a ridosso di accesso all’acqua e di energia elettrica, con la possibilità di showroom e le attività di vendita.La Piazza del Mercato si apre su Torggata e prevedere camini che creeranno l’atmosfera in occasioni speciali. Saranno realizzati anche dei posti a sedere sulla piazza. Progettazione generale della piazza: • L’asse nord-sud tenuti liberi • Angolo nord orientale a spazio “agricolo” tenuto aperto, per invitare la gente nella piazza. • I piccoli polmoni verdi in grado di funzionare come luoghi di incontro • Arredamento mobile, con panche riscaldate • Sistema di “warming” per la fusione della neve • Illuminazione pubblica Tecnologia: • Teleriscaldamento • Sistema di raccolta dell’acqua piovana per l’irrigazione del verde • layer dedicato all’ICT (come il wi-fi) per interattività digitale Inoltre, si propone una verifica dei costi per ulteriori migliorie: • energia eolica per l’illuminazione pubblica • Riscaldamento geotermico

30

La valutazione conclusiva degli effettivi risultati di Dreamhamar è naturalmente estremamente complessa. Certamente, per il suo pionieristico mix di strumenti e processi on line e off line, si tratta di un processo di disruptive innovation per il quale occorrerà stabilire indici di valutazione specifica, non solo per la sua capacità di indirizzare, gestire e attivare una comunità locale, ma anche per la sua risonanza nei network globali. Operando infatti in modo intergenerazionale e con un vasto target inclusivo (rivolgendosi sia ai nativi digitali che ai non alfabetizzati all’uso di ICT) Dreamhamar ha metodologicamente reso interoperabili nuovi e vecchi strumenti della partecipazione. Personalmente ritengo che vada riconosciuto a Dreamhamar il principale successo di aver raccolto in vari report le diverse fasi di sviluppo del processo, rendendo realmente aperti e disponibili gli esiti (anche spuri) delle attività svolte nei pochi mesi di lavoro. E’ possibile quindi ricostruire le strategie (da quelle rivolte alla partecipazione e al community making, fino a quelle di urban marketing e narrazione trans mediale delle diverse prospettive progettuali).


Certamente Dreamhamar è stato un processo che ha ibridato strategie, discipline, professionalità, e molto probabilmente (per questa sua intensità e complessità) non può essere considerato un modello facilmente ripetibile. Tuttavia esso ha generato un set di strategie innovative che sono in corso di sviluppo e diffusione. Questo è lo straordinario contributo di Dreamhamar e del suo team a quell’emergere di apparati trans-disciplinari di cui l’urbanità contemporanea ha bisogno. Abbiamo chiesto a Domenico Di Siena, che partecipò alla progettazione e attuazione dei processi di network design e di nuovi strumenti digitali per Dreamhamar, di fare il punto su strategie, risultati ed evoluzione di quanto emerso e sviluppato nella lontana piazza norvegese di Stortorget. Ecco, qui di seguito, cosa ci ha raccontato Di Siena.

31


2. Intervista al prof. Domenico Di Siena (fondatore di Urbano Humano Agency, e già partner di Ecosistema Urbano) Prof. Domenico Di Siena

FRAME CULTURALE E PROGETTAZIONE DEL PROCESSO: D: Oggi ci troviamo di fronte alla necessità di inventare nuove forme di interazione e connettività urbana, anche attraverso l’uso di tecnologie specifiche. Potresti descriverci, dal tuo osservatorio, il frame culturale emergente per l’urbanità futura, entrando nel merito di cos’è la sharing city e il p2p urbanism? In cosa sono innovative rispetto alla disciplina della pianificazione? R: Dopo anni di tecnicismi e accesi confronti tra la disciplina urbanistica, quella accademica, e la reale dinamica di sviluppo e gestione del territorio, a mio modo di vedere, oggi è assolutamente necessario promuovere una accurata riflessione sulle dinamiche democratiche, partendo dalle reali possibilità dei cittadini di esserne protagonisti. Il consolidamento degli stati moderni ha progressivamente indebolito le identità locali e spostato il dibattito politico su una scala nazionale che ha purtroppo causato un allontanamento dalla situazione reale dei territori; una dinamica a cui abbiamo assistito purtroppo anche nell’ambito economico e culturale. La tecnologia ha semplificato ed enfatizzato tale processo: le telecomunicazioni e i moderni mezzi di trasporto hanno permesso di ridurre enormemente le naturali barriere fisiche. Come conseguenza abbiamo assistito a un progressivo allontanamento della vita dei cittadini dalle dinamiche che generano le identità ed il carattere dei quartieri in cui viviamo. Abbiamo assistito ad una sorta di indebolimento della realtà “spaziale” del territorio. E’ per questo motivo che oggi dobbiamo prima di tutto ricuperare questa fisicità del territorio e a mio punto di vista solo é possibile se i cittadini ritornano ad essere i protagonisti. Può sembrare un discorso semplicistico o naif, pero è probabilmente l’unica forma per ritornare a parlare di città e territorio in modo serio.

32

Per rimettere i cittadini al centro, il problema non è urbanistico in senso stretto, ma politico-democratico. Dobbiamo riformulare la relazione tra le istituzioni “democratiche” ed il territorio.


Nell’idea moderna della democrazia, lo stato e le autorità locali governano (o almeno ci provano) in modo esclusivo un territorio. Oggi dovremmo spostare la bilancia verso la promozione di una governance, dove il governo e le amministrazioni locali sono “solo” uno dei principali agenti. Dobbiamo cioè cominciare a ragionare in termini di Città Condivise e quindi amministrazioni condivise, dove i cittadini entrano in gioco in forma diretta e attiva. Citando Gregoria Arena: Le funzioni nell’amministrazione condivisa sono svolte sia dai cittadini attivi sia dall’amministrazione. La sussidiarietà è infatti un principio relazionale e l’amministrazione condivisa, che di tale principio è la traduzione sul piano amministrativo, è anch’essa per definizione un modello fondato sulla collaborazione fra due soggetti, entrambi indispensabili affinché l’amministrazione condivisa possa esistere e quindi, di conseguenza, entrambi indispensabili affinché la sussidiarietà sia concretamente realizzata. Potremmo considerare la Città Condivisa, o Sharable City, il risultato di una amministrazione condivisa. In realtà é qualcosa di molto più amplio. E’ importante tener presente che si tratta dell’idea che non tutto debba passare per l’approvazione delle amministrazioni locali. Detto ciò é assolutamente fondamentale specificare che non mi riferisco alla promozione di una politica di laissez faire in cui il governo scompare. Si tratta piuttosto di un modello in cui diventiamo capaci di offrire alla cittadinanza attiva l’opportunità di agire autonomamente, sempre e quando si tratti di azioni che promuovano il bene comune. In altre parole l’elemento essenziale in tutto ciò è la capacità di andare oltre la rappresentatività propria del modello democratico attuale, per cui ogni intervento nella città é misurato in base alla capacità rappresentativa di coloro che la promuovono, essendo le amministrazioni comunali legittimate da votazioni democratiche e gli altri agenti locali legittimati dall’appoggio popolare che riescono ad ottenere. In questo modo risulta difficile per i cittadini, che non si organizzano in strutture formali, poter essere e sentirsi direttamente parte della gestione e autori dell’identità del territorio in cui vivono. In tal senso la Shareable City è una città che promuove attività sociali, politiche ed economiche che nascono dalle relazioni dirette con le realtà locali, mantenendo uno spirito collaborativo basato sull’implicazione diretta delle persone che vivono nel territorio. Ovviamente questo non toglie la capacità ed incluso la necessità di riuscire a collegare costantemente questi processi locali con quanto avviene globalmente, incarnando in modo consapevole ed

33


intelligente la cosiddetta dimensione glocale. In questo nuovo fenomeno ritroviamo un uso della tecnologia che prende un altro piede, non più utilizzata solo per rompere le barriere fisiche ed accelerare i processi di intermediazione, ma anche per promuovere le sinergie e la comunicazione a coloro che condividono un territorio, promuovendo quella che ho chiamato l’Intelligenza Collettiva Localizzata. L’uso delle nuove tecnologie promuovono nuovi modelli di auto-organizzazione in cui diminuiscono gli intermediari e il peso della rappresentatività. Da qui oggi abbiamo una opportunità completamente nuova di ripensare una democrazia realmente localizzata. D: In merito al processo Dreamhamar: quali domande si è posto il team di lavoro nelle fasi di progettazione, quali erano le necessità che avete individuato nel contesto urbano di Hamar? Quanto è stato importante il contesto nel determinare le vostre linee guida? R: Difficile risponder in modo completo. Le domande sono state moltissime e vista la lunga fase di sviluppo del progetto, in realtà abbiamo assistito ad una continua evoluzione delle stesse. Potremmo cominciare dal fatto che si è trattato di un concorso e quindi era imperativo riuscire a proporre qualcosa che fosse certamente innovativo e forse anche insolito pero che allo stesso tempo fosse credibile e fattibile. Il concorso girava attorno alla risignificazione della piazza Stortorget, una delle principali piazze della città di Hamar (Norvegia), all’epoca utilizzata quasi esclusivamente come parcheggio. Il concorso richiedeva un intervento “artistico” che potesse ridare una identità più forte alla piazza. Dietro questo punto di partenza in realtà il bando del concorso specificava tutta una serie di obiettivi che a noi sembravano difficilmente raggiungibili con un “semplice” intervento artistico. Nel bando, infatti, non si parlava di progettare una nuova piazza ma letteralmente di creare un’opera d’arte.

34

Tuttavia gli obiettivi dell’amministrazione erano molto ampi. Quest’ opera artistica avrebbe dovuto essere capace di ridare identità e forza alla piazza ma anche a tutta la città e comunità locale. Tra le altre cose, questa “opera” avrebbe anche dovuto aiutare a trattenere i giovani in città ed evitare che emigrassero verso città più grandi.


Quindi la prima domanda era: come facciamo ad ottenere qualcosa di così difficile da un semplice oggetto? Il concorso sembra effettivamente orientato alla concezione di un oggetto particolare da porre nella piazza; mentre era già in programma un concorso per la progettazione della nuova piazza, in cui sarebbe poi stato chiesto di tener in conto l’opera d’arte che sarebbe risultata vincitrice del precedente concorso. Un’altra importante domanda é stata sulla natura stessa dello spazio pubblico in un paese e soprattutto una piccola città con un modello di vita poco urbano, chiaramente sviluppato intorno allo sprawl suburbano. Un altro importante problema riguardava la necessità di promuovere una visione diversa della città che fosse sufficientemente convincente e attrattiva da far accettare ai residenti la possibilità di rinunciare alla comodità del parcheggio sotto casa o a pochi metri dall’area commerciale del centro urbano? A nostro avviso, visti i presupposti sembrava sempre più “ovvio” e normale promuovere un processo piuttosto che un prodotto. E’ per questo che alla fine la nostra proposta è stata la programmazione di un processo di un anno e mezzo in cui avremmo avuto la possibilità di lavorare con la cittadinanza e con esperti locali ed internazionali, organizzandoci intorno ad attività presenziali ed on-line e con un carattere glocale. Tra le necessità che avevamo individuato c’era senza dubbio quella di coinvolgere la cittadinanza nel progetto, per evitare il classico fenomeno che vede un’operazione urbana atterrare su un territorio senza nessun confronto pubblico con i residenti. Allo stesso modo, visto il carattere provinciale della piccola cittadina ci sembra importante generare una dinamica che potesse dare una maggiore proiezione della realtà locale verso l’esterno e allo stesso tempo utilizzare una dinamica innovativa che potesse posizionare a livello mondiale questa piccola città sconosciuta ai più. Naturalmente il contesto é stato più che determinante. Oltre agli elementi già menzionati c’è da aggiungere che la piazza è configurata dalla presenza di un edificio di proprietà del comune, uno dei pochi con valore storico e con un progetto per la realizzazione di un importante centro culturale su un lato della piazza. Nella descrizione del contesto rientra anche l’iniziale titubanza da parte dell’amministrazione comunale che nonostante la nostra proposta fosse risultata vincitrice del concorso non sembrava disposta a procedere con l’affi

35


damento dell’incarico, perché non del tutto convinta della proposta, per cui c’è stato un lungo periodo di dialogo prima di poter avere un contratto ufficiale che ci permettesse di cominciare i lavori. Altro elemento rilevante è stato senza dubbio la prossimità delle elezioni per il rinnovo del consiglio comunale, che in seguito ha provocato non pochi cambiamenti al processo a causa della volontà politica di accelerare per poter avere risultati spendibili prima delle elezioni. STRATEGIE DI COINVOLGIMENTO DELLA COMUNITA’ E DEGLI STAKEHOLDERS LOCALI: D: Ci sono state fasi di outreach per definire i destinatari del processo partecipativo locale? R: Ci sono state diverse fasi di outreach. Come dicevo, in realtà prima di poter cominciare i lavori c’è stata innanzitutto una fase di dialogo con l’amministrazione comunale che non sembrava del tutto convinta della fattibilità e buona riuscita della nostra proposta. Per poter avere una conferma definitiva era necessaria una delibera ufficiale del consiglio comunale con il consenso di una sorta di assemblea pubblica alla quale partecipano i rappresentanti delle organizzazioni cittadine più importanti del territorio. Ognuno di questi rappresentanti può esprimere la sua posizione favorevole o contraria. La giunta prende in seria considerazione la posizione di questa assemblea cittadina. Per poter cominciare i lavori é stato quindi necessario ottenere il favore di questa assemblea. Durante diversi giorni abbiamo avuto riunioni con tutti i gruppi politici e con tutti i rappresentanti dell’assemblea cittadina. Abbiamo spiegato loro le grandi opportunità del progetto e chiarito qualsiasi dubbio che avessero. Fortunatamente siamo riusciti ad ottenere l’appoggio dell’assemblea cittadina e quindi della giunta. Per la fase successiva è importante dire che abbiamo ottenuto prima un piccolo ufficio nel comune e poi uno spazio nell’edificio storico di proprietà del comune presente sulla piazza stessa. In questo modo abbiamo potuto cominciare a lavorare con le organizzazioni locali comprese le scuole per far conoscere il progetto e poter cominciare a pianificare attività con diversi stakeholders della città.

36

Per migliorare e potenziare il processo due persone dello studio si sono trasferite sul post mentre altre si alternavano per offrire supporto nei momenti piú intensi, specialmente nella fase iniziale e finale. Allo stesso tempo da Madrid lo studio continuava ad offrire supporto. Sul posto inoltre abbiamo ingaggiato alcune figure molto importanti,


innanzitutto un giornalista che si occupasse della comunicazione e delle relazioni con i giornali locali e poi degli educatori e mediatori che ci accompagnassero nelle relazioni con le diverse organizzazioni e con la cittadinanza. Questi mediatori avevano anche il compito di coordinare workshop ed attività collettive. Ci sembrava essenziale avere nel team professionisti del posto. Una volta organizzato tutto il team e chiarita la volontà politica dell’amministrazione c’è stata una riorganizzazione del calendario delle attività. D: Come è stata progettata l’inclusione nel processo? Dunque: chi ha partecipato, e in quanti (e su che bacino di utenza potenziale)? R: Per migliorare ed ampliare al massimo l’inclusione nel processo abbiamo lavorato considerandolo sempre come il risultato di diverse azioni e dinamiche che avvenivano simultaneamente sia su un piano fisico che digitale. Ci sono moltissimi fattori che abbiamo attivato. Cominciamo dalla nostra presenza fisica sulla piazza. Appena arrivati abbiamo chiesto al comune la possibilità di utilizzare uno dei vani rimasti senza uso dell’edificio storico presente nella piazza su cui stavamo lavorando. Durante circa un mese abbiamo lavorato in prima persona per poter trasformare con un approccio low cost lo spazio che anteriormente era un negozio di bici. Ne abbiamo ricavato quello che abbiamo chiamato il Physical Lab: un ufficio di lavoro, uno spazio di esposizioni e un’area per i workshop. E’ stato importantissimo offrire questa visibilità diretta. Non bisogna dimenticare che noi eravamo stranieri e per giunta mediterranei, cosa che per una parte della popolazione costituiva elemento di dubbio sulla nostra effettiva idoneità a lavorare in un contesto completamente diverso da quello delle nostre origini. Questo spazio è rimasto sempre aperto e ha offerto una garanzia di trasparenza sempre visibile. C’è poi da citare l’inteso lavoro fatto con le scuole, i bambini e i professori che ha generato un enorme ritorno in termini di relazione e diffusione del processo, con una esposizione dei lavori realizzati dai bambini sempre accessibile nel nostro spazio aperto sulla piazza. Grazie al lavoro previo realizzato con le diverse organizzazioni e gli stakeholders locali per ottenere l’appoggio che permettesse l’inizio dei lavori abbiamo potuto contare con una amplia collaborazione che ci ha permesso di organizzare diverse attività in diversi luoghi, ampliando la visibilità e l’inclusività. C’è da aggiungere l’elemento digitale e la visione glocale di tutto il processo. Cominciamo dal secondo. Secondo la nostra esperienza, le comunità per sua stessa natura tendono a chiudersi; si caratterizzano per avere le

37


sue proprie dinamiche ed equilibri e tendono ad opporsi agli elementi nuovi che provano a cambiarle. Per questo motivo ci sembra interessante poter introdurre elementi esterni, in modo da ampliare la capacità di immaginare soluzioni nuove. In questo progetto abbiamo introdotto diversi elementi esterni come una rete di università ed un programma di laboratori online che potesse arricchire con nuove proposte il processo in che invece avveniva in loco. La rete di università si basava sulla partecipazione e la connessione con una serie di corsi di progettazione in diversi paesi europei che hanno dedicato il loro lavoro alla piazza Stortorget di Hamar. Alcuni di loro sono riusciti incluso a visitare la piazza e a partecipare a delle azioni di mockup. Per tutti, naturalmente, vista la distanza il punto di riferimento era rappresentato dalle informazioni scambiate e pubblicata nel DIgital Lab, cioè la piattaforma online dove confluivano tutte le info sull’andamento del processo. La nostra presenza online si appoggiava su un blog in cui informavamo costantemente sull’andamento dei lavori: http://dreamhamar.org L’elemento forse più innovativo di questo nostro lavoro di informazione online è stata sicuramente la programmazione costante durante tutti i lavori di sessioni in videoconferenza in cui presentavamo in diretta streaming le diverse fasi e protagonisti delle attività. Questa modalità permetteva anche la possibilità a qualsiasi spettatore di poter porre delle domande in diretta. C’è da aggiungere poi che oltre ai contributi delle diverse università c’erano i quelli dei partecipanti ai laboratori che abbiamo sviluppato online grazie alla collaborazione di alcuni professionisti che ne hanno coordinato i lavori. E’ bene specificare che da Madrid c’era una persona interamente dedicata alla comunicazione per il blog ed un’altra che si occupava di coordinare tutte le attività del Digital Lab. No saprei dare dei numeri riguardo alla partecipazione. Alcune attività e workshop hanno avuto una partecipazione più massiccia che altre. A mio avviso un elemento rilevante é stato il conivolgimento reale della cittadinanza in una dinamica di ri-immaginazione della piazza. Il processo è stato chiaramente presente durante mesi nell’agenda pubblica e possiamo dire che la maggior parte della cittadinanza era consapevole del processo. D: Esisteva già una comunità di riferimento locale o è stato necessario progettare anche uno specifico processo di community-making? 38

R: Il problema è ancora una volta la scala di referenza. Come dicevamo Hamar è una città con una grande area suburbana che ha una scarsa relazione con il centro


urbano. Una buona fetta dei sui abitanti non si interessa alla piazza, visto che la considera unicamente come il luogo in cui una volta all’anno si festeggia la festa nazionale. I vicini invece sono naturalmente molto più attenti alle sorti della piazza, ed al “parcheggio”. Quindi diciamo che esisteva già una comunità pero solo con carattere iperlocale per cui abbiamo dovuto lavorare per coinvolgere il resto della cittadinanza. Come dicevamo il lavoro é stato semplificato grazie alla presenza sul territorio di diverse organizzazioni. D: Come avete innescato, alimentato e valutato in fase d’opera la connettività nel territorio? Quali strumenti avete utilizzato per ampliare il dibattito pubblico ed elaborare le linee guida del processo? R: Il punto di partenza è stato il lavoro con le scuole. Ci ha permesso di confrontarci con moltissimi genitori in modo informale, aprendo le porte alle successive attività organizzate con diverse entità locali. Si è trattato di un lavoro di “conquista” della fiducia dei cittadini, stando sempre molto accorti alla relazione con le persone che di volta in volta si interessavano al progetto. Più che di strumenti all’uso abbiamo basato il processo su un ecosistema di attività che è riuscito a coinvolgere la cittadinanza anche grazie alla nostra continua preoccupazione di comunicare cosa stavamo facendo e perché. La trasparenza è stata essenziale. D: Parlando del Physical Lab e delle Azioni Urbane è interessante capire come sono stati realizzati i mock-up in scala 1:1, sia per quanto riguarda i materiali utilizzati che per le procedure di gestione delle convergenze e dei conflitti. R: Come dicevo, il Physical Lab è stato molto importante. Un elemento di trasparenza e rappresentazione diretta di un processo che era una grande novità per la città. Questo spazio ricordava continuamente il processo in corso, ospitava eventi e offriva a tutti i cittadini la possibilità di venire a conoscere coloro che stavano coordinando un processo così insolito ed innovativo. I mockups hanno avuto un ruolo essenziale per la promozione e la visualizzazione da parte della cittadinanza di nuovi possibili scenari per la piazza. Come dicevo uno dei principali ostacoli per la riconfigurazione della piazza era poter abbandonare la visione della stessa come un parcheggio, è per questo motivo che il primo mockup è stata un intervento di arte pubblica da parte dei Boa Mistura che sono riusciti ad aprire tutto un mondo di scenari grazie alla semplice verniciatura del suolo della piazza con colori e

39


pattern tipici della cultura norvegese. Un modo semplice e tremendamente efficace per lasciare alle spalle la visione del parcheggio e aprire a nuovi immaginari. Ce sono stati diversi mockups, tutti a basso costo e con grande impatto visivo, riutilizzando materiali e pensando in modo accurato alla gestione di tutte le fasi: prima, durante e dopo. Si trattava naturalmente di interventi temporanei, pero è stata nostra premura evitare che si vedessero come una riproduzione scadente della realtà, ma piuttosto come l’opportunità per usare la piazza in modo diverso anche se solo per qualche giorno e ampliare l’immaginazione della cittadinanza. Sono stati chiaramente anche la scusa perfetta per celebrare il processo stesso e raccogliere i cittadini intorno ad eventi festivi del tutto insoliti, non associati cioé alle tipiche e tradizionali feste locali. DALL’AZIONE LOCALE ALLA CONNETTIVITA’ GLOBALE (INTERAZIONI/INTEGRAZIONI/IBRIDAZIONI CON GLI STRUMENTI DELLA NETWORK SOCIETY): D: Parliamo del Digital Lab: come avete codificato e tradotto i risultati quali ‘spazi di condivisione’ delle proposte on-line? quali strategie transmediali sono state adottate per configurare la comunicazione nel Digital Lab? quali le strategie di aggregazione degli input? come è stata condotta la valutazione delle proposte, ovvero: come portare off-line quanto raccolto on-line? R: E’ innanzitutto necessario chiarire una cosa: Dreamhamar non è un processo di partecipazione pubblica. Penso che sia importantissimo chiarire questa cosa. Non si è trattato di un processo in cui abbiamo accompagnato delle persone lungo un percorso di progettazione partecipata che le avrebbe poi condotte ad una soluzione condivisa. Si tratta di un approccio diverso. Non parlerei quindi di “codifica” o “traduzione”, ma piuttosto di inputs. Si tratta di capire come riuscire a gestire un processo in cui molte persone collaborano in modo ibrido alternando attività online ed altre offline. Il centro di snodo siamo stati noi stessi promuovendo un processo di progettazione aperto che ha inglobato inputs che procedevano da molti punti e con modalità diverse. Siamo stati noi stessi i traduttori degli inputs, elaborando delle proposte che poi hanno definito un progetto preliminare. Detto questo si capisce meglio l’importanza della dimensione digitale che è stata fonte di inputs ma anche spazio di trasparenza dove visualizzare le diverse proposte e modalità di partecipazione. 40


D: E’ interessante capire poi come ha funzionato la discussione sui diversi canali aperti on line: è stata molto attiva? Avete avuto modo di verificare il rapporto tra la massa delle interazioni on-line e la partecipazione “off-line” nel Physical Lab? Che idea vi siete fatti della qualità connettiva della vostra proposta? R: La partecipazione online è stata sicuramente inferiore a quella che ci aspettavamo. Personalmente penso che questo sia dovuto a diversi fattori. Da un lato ci aspettavamo un uso più massiccio dei social media ed in generale di internet. In realtà ci siamo sorpresi nel constatare che l’uso di internet per le relazioni e le informazioni locali era molto inferiore a quello che ci aspettavamo. Allo stesso modo canali come facebook o twitter, o l’accesso a blog locali, ancora non erano così diffusi nelle dinamiche di uso quotidiano della rete. Un altro fattore (negativo) importante è stata la mancanza di un responsabile della comunicazione locale. In realtà come ho già accennato avevamo ingaggiato un giornalista del posto, ma la relazione di lavoro con questa persona è stata disastrosa, e la possibilità di risolvere la questione e poter contare con la collaborazione di altre persone è stata praticamente impossibile, in termini di tempo e risorse economiche. Immagino che agli occhi dei cittadini ciò che solitamente consideriamo “tangibile” sia stato considerato il risultato più importante, tuttavia penso che la trasperenza offerta dal Digital Lab è stata essenziale per dare credibilità a tutto il processo. C’è da aggiungere che la dimensione di apertura e di posizionamento del progetto in sé e della città di Hamar a livello internazionale è stato sicuramente raggiunto, proprio grazie a quest’approccio ibrido (digitale e materiale) e glocale (locale e globale). Per quanto riguarda i workshop online e le relazioni con la rete delle università coinvolte il Digital Lab è riuscito ad offrire una piattaforma stabile e produttiva. D: Entrando ancora di più nello specifico dell’ibridazione on-line/off-line in un processo glocale come quello di Dreamhamar ti chiederei di spiegarci come sono stati risolti eventuali conflitti o disaccordi che mi immagino saranno emersi nei social network nel momento in cui avete ‘aperto’ il processo a tutte le interazioni possibili. Avevate previsto un’attività di moderazione/facilitazione/mediazione di queste interazioni? R: Come già accennato in precedenza è importante tener conto che Dreamhamar non è un progetto di partecipazione pubblica ma un processo di progettazione aperta e collaborativa. Non è stata nostra intenzione mettere

41


d’accordo persone con opinioni diverse ma generare un processo ampio, trasparente ed aperto, chiaramente coordinato da noi. Siamo stati noi gli artefici della proposta finale sulla base di quanto avvenuto durante tutto il processo. D: Tra gli strumenti web e digitali utilizzati, quale ritieni sia stato il più efficace? E per quali ragioni? R: Il più efficace è stato il nostro stesso blog che è riuscito a creare un punto di riferimento constante per tutte le attività. Garanzia di trasparenza con un buon ritmo di aggiornamenti. ISTITUZIONALIZZAZIONE E RIPETIBILITA’ DEL PROCESSO DI DREAMHAMAR D: In che modo era stato codificato il rapporto con le amministrazioni pubbliche? (convenzioni, impegni bilaterali, ecc..) Che tipo di sostegno è stato necessario da parte loro? E’ stato necessario implementare in fase d’opera il set di convenzioni (o simili)? R: Come raccontavo all’inizio il rapporto con l’amministrazione è stato intenso e costante. Il punto fondamentale è stata la convenzione ottenuta all’inizio. Successivamente è rimasto sempre in dubbio la possibilità di passare dalla fasi di progettazione alla vera e propria esecuzione dei lavori di trasformazione della piazza, che alla fine sono stati assegnati ad altri. Il sostegno dell’amministrazione è stato costante e indispensabile, anche perché come dicevamo la stampa locale non è stata di molto aiuto. Un fattore molto importante, nel nostro caso è stato l’enorme appoggio ricevuto soprattutto all’inizio dall’architetto responsabile del comune. Questa persona ha capito fin dalla fase di concorso le potenzialità della proposta e da un punto di vista tecnico ha fatto il possibile per far si che l’amministrazione desse il via libera per il progetto, visto che come già detto in realtà non era del tutto convinta. D: Parlando del Academic Network: quali sono state le motivazioni che vi hanno spinto ad estendere il processo di Dreamhamar al mondo accademico? In che modo si è configurata la partecipazione delle Università coinvolte (obiettivi, modalità e finalità)?

42

R: Ho già accennato alle ragioni di questo Academic Network. Innanzitutto si tratta di riuscire ad introdurre una dimensione glocal al processo, introducendo nelle dinamiche di una piccola località degli inputs da studenti


di diversi paesi europei. C’è poi un interesse per la sperimentazione di nuove dinamiche di apprendimento e ricerca che possano finalmente trovare nella partecipazione a processi reali la possibilità di amplificare e migliorare la relazione dell’Università con la società, allontanandola da quell’isolamento che sempre più sembra caratterizzarla. La rete si è configurata grazie alle relazioni che Ecosistema Urbano aveva con professori di diverse università. Quindi come sempre, la rete più che istituzionale è umana, nata e consolidata a partire dalla volontà e la visione di professori che voglia ed energia per sperimentare ed innovare. D: Vorrei concludere tornando al frame culturale che si sta sviluppando oggi attorno ai rapporti tra comunità, partecipazione, ICT e città (mi riferisco anche alla piattaforma che hai recentemente attivato http://civicwise.org/): ritieni che siamo in una fase di ricerca&sviluppo di nuove strategie di pianificazione attraverso nuove modalità (come i civic laboratories di cui parla Townsend) o si tratta (più semplicemente, forse) di un nuovo tipo di attivismo comunitario? Quanti di questi ‘prototipi’ potranno venire codificati (recepiti e adottati) dalle istituzioni (università incluse)? Ritieni che Dreamhamar sia uno di questi e che potrebbe essere replicato? R: Ritorno a quanto dicevo all’inizio. Si tratta di ritornare a dare forza e valore ad ogni singolo cittadino. Questo significa lasciarci dietro la visione della cittadinanza formata da gruppi omogenei. Dobbiamo invece tenere in considerazione l’idea di Multitudine che Hobbes definiva come qualcosa che rimane nella diversità/pluralismo e decentramento evitando l’idea del corpo unico che invece richiama il concetto di Popolo. E’ proprio in questa idea di Multitudine che diventa determinante un uso innovativo ed intelligente delle nuove tecnologie di comunicazione, perché ci aiutano ad aumentare la trasparenza e a ridurre gli intermediari. La sfida pero, va detto, non è tecnologica ma culturale e politica. Spesso giriamo attorno ai nuovi gadgets e nuove tecnologie come una tribù, danzando intorno al dio fuoco, senza poi capirne realmente le possibilità. E’ importante impadronirsi della tecnologia e non esserne semplici consumatori. L’attuale configurazione Economica e Politica promuove invece un atteggiamento passivo nei confronti di tali innovazioni. E’ per questo che a mio avviso è necessario rafforzare l’approccio che da anni viene promosso dalla etica hacker. E’ necessario cioè promuovere dinamiche e spazi che creano le opportunità per la cittadinanza di ri-significare queste tecnologie, impadronirsene ed utilizzarle per la promozione di attività e progetti

43


44

pensati per il bene comune. Non si tratta di buonismo ma di buon senso. E’ questo uno degli obiettivi della piattaforma CivicWise di cui sono promotore: creare una struttura digitale al servizio di una comunità con carattere Glocale, cioè una comunità che si costruisce e si organizza in modo globale, scambiando informazioni e conoscenza sempre globalmente, ma agisce localmente con azioni dirette nel territorio. La comunità CivicWise è formata da quella che chiamiamo Cittadinanza Attiva, cioè persone che si attivano per migliorare la qualità del territorio in cui vive. L’obiettivo del progetto è offrire a questa cittadinanza un maggiore riconoscimento e visibilità, in modo da poter essere protagonista delle politiche di gestione del territorio, non solamente come “volontari” ma anche come “prosumers”, cioè attori del territorio in qualità di “co-produttori” delle sue politiche e non semplici “utenti”. In questo senso è interessante la possibilità di pensare nuovi spazi civici. Le nuove tecnologie di comunicazione sicuramente hanno promosso e semplificato la comunicazione tra persone con interessi comuni. I modelli di comunicazione hanno raggiunto una dimensione sempre più simile a quella naturale, passando dalle email fino all’enorme capacità che abbiamo oggi di parlare in video-conferenza da qualsiasi smartphone. Tuttavia è fondamentale pensare alla necessità di spazi fisici dove potersi incontrare. Con la mia ricerca di dottorato é mia intenzione dimostrare che l’auge della sfera digitale promossa dalle nuove tecnologie, contrariamente all’ opinione di alcuni esperti, soprattutto di qualche anno fa, non aumenta l’isolamento delle persone nelle proprie case, ma al contrario apre a nuove dinamiche di incontro sociale, per motivi di natura professionale, culturale, sociale o semplice svago. I cittadini già si stanno muovendo in questo senso promovendo nuovi spazi di produzione collettiva come possono essere gli hacklabs o fablab, o civic lab soprattutto negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. Attraverso il progetto CivicWise, stiamo promovendo la sperimentazione di un nuovo modello di Spazi Civico. Si tratta di uno spazio in cui proviamo ad eliminare i tipici meccanismi di rappresentanza, cioè anche se è pensato come punto di incontro di persone provenienti dal mondo delle ong, delle università, dell’amministrazione pubblica, delle imprese e vicini di quartiere, in realtà l’idea è che nessuno partecipa come rappresentante della sua categoria, ma semplicemente mette a servizio di tutti la sua esperienza, conoscenza e capitale relazionale, con l’obiettivo di sviluppare progetti civici che possano avere un impatto forte sul territorio e soprattutto essere inseriti in un processo continuo e sostenibile nel tempo. Per finire, vorrei insistere nella urgente necessità delle


università di entrare ed offrire un servizio diretto e reale alla società partecipando a questo tipo di progetti ed attività. Purtroppo siamo ancora lontani, ma qualcosa si muove. Spesso sono singole persone, ricercatori e professori che autonomamente si avvicinano a queste dinamiche aprendole così anche a studenti ed altri ricercatori. Il caso Dreamhamar è sicuramente un’ottima referenza ma si possono pensare a progetti anche a scala più ridotta, promovendo un maggiore coinvolgimento di studenti e ricercatori, perché non lavorino solamente sul territorio, ma si confrontino direttamente con la società partecipando attivamente alle attività che la Cittadinanza Attiva promuove. Questo crea un circolo virtuoso, dando più forza ad entrambi: cittadini ed università. Il modello che proponiamo con CivicWise va proprio in questa direzione. Vogliamo offrire una piattaforma che semplifica e promuove questa relazione costante, quindi non solamente basata su progetti specifici. L’obiettivo è di riuscirci creando una comunità veramente ibrida, quindi composta realmente da cittadini, siano essi professionisti o meno della gestione urbana. In tal senso è necessario pensare ad un nuovo modello di gestione urbana che possiamo definire, come dicevamo, una gestione condivisa, dove i cittadini possono materialmente collaborare, senza la necessità di organizzarsi intorno a figure legali formali. In tal senso dovremmo considerare l’amministrazione locale come una Estituzione, cioè una istituzione che è capace di aprirsi a persone, agenti, programmi e politiche che vengono promosse e sviluppate dall’esterno della stessa. Un esempio a scala ridotta è quello che succede nel centro culturale Centquatre (104) a Parigi che si è ritrovato letteralmente invaso da un ingente numero di giovani che ogni giorno usavano il loro atrio principale come spazio per allenarsi collettivamente con attività di Street Dance. Si trattava di qualcosa che non era per niente previsto, però chi gestisce il centro ne ha capito le potenzialità e invece di frenare questo fenomeno lo ha incoraggiato, fornendo strutture apposite per questa specifica attività di allenamento. Ecco abbiamo bisogno di amministrazioni di questo tipo: Estituzioni quindi! Al contempo dobbiamo aiutare la cittadinanza e implementare la sua capacità di organizzarsi al di lá dei tradizionali schemi formali di rappresentatività, promuovendo processi di Adocrazia, dove ci si preoccupa meno di creare strutture organizzative permanenti e molto di più di promuovere dinamiche di Intelligenza Collettiva centrate sul raggiungimento di un obiettivo concreto. 45


Note ai paragrafi: 1 Dalle premesse metodologiche di William H. Whyte (che indagò per primo l’autorganizzazione di alcuni spazi pubblici a NYC), di Jane Jacobs e di Christopher Alexander, fino al più recente Urban Code di Anne Mikoleit e Moritz Pűrckauer, l’urbanologia ha finora generato almeno 60 anni di ricerche sul campo. Eppure alcuni urbanisti e geografi ortodossi continuano a considerarla una disciplina troppo umanistica ed etnografica, senza evidenze sistemiche e scientifiche rilevanti. In realtà la riproducibilità e la prevedibilità dei fenomeni spesso, nel contesto urbano, sono meno rilevanti della loro comprensione. 2

Per molti versi oggi sembra che alcuni spunti proposti da Henri Lefebvre nel 1967 per l’urbanità (ovvero la ‘società urbana’) stiano prendendo corpo nelle città. Ritengo infatti che la critica di HL verso il razionalismo e funzionalismo (e in generale dello sradicamento dell’urbanità ad opera della borghesia storica) può essere letta come apertura dei sistemi normativi per rifondare l’urbanità stessa, rigenerando i processi di valorizzazione dediti all’uso piuttosto che allo scambio (dunque riportando il valore dal mercato alla società urbana). 3 - L’urbanistica Peer-to-Peer difende il diritto fondamentale degli esseri umani di scegliere l’ambiente in cui vivere. La scelta individuale seleziona tra le molteplici alternative che generano una città compatta sostenibile, quella che incontra meglio i nostri bisogni. - Tutti i cittadini hanno il diritto di accedere alle informazioni riguardanti il loro ambiente, in modo da poter essere coinvolti nel processo decisionale. Ciò è reso possibile ed è attivamente supportato dal ruolo dell’ICT (Information and Communication Technology). - Gli abitanti dovrebbero avere la possibilità di partecipare in ogni livello della pianificazione e in alcuni casi, costruire essi stessi la loro città. Essi dovrebbero essere coinvolti in ogni cambiamento del loro ambiente previsto dalle amministrazioni o dagli imprenditori - Chi mette in pratica l’urbanistica Peer-to-Peer deve generare e diffondere secondo la filosofia open source conoscenza, teorie, principi, tecniche, e pratiche costruttive per un progetto urbano a dimensione umana, in maniera completamente gratuita, in modo da favorirne l’utilizzo e la revisione critica. - I proprietari delle aree edificate devono poter applicare patrimoni in evoluzione di conoscenze, competenze e pratiche, in modo da rendere la strumentazione urbanistica sempre più sofisticata e adattata alla realtà (da http://p2pfoundation.net/P2P_Urbanism) 4

Domenico Di Siena è un architetto, urban planner e ricercatore; è fondatore e direttore dell’agenzia Urbano Humano, che si occupa di innovazione e società della conoscenza. La sua attività professionale è centrata su progetti di ricerca e trasformazione in relazione all’innovazione urbana, alla progettazione partecipativa, alle strategie di rete e alla gestione della conoscenza. Sta attualmente svolgendo ricerca ed elaborando possibili sinergie tra network fisici (lo spazio pubblico) e network digitali (Internet) per il programma di Dottorato di ricerca dell’Università Politecnica di Madrid, dove ha conseguito un DEA nel 2009. Sta sperimentando e sviluppando sistemi ibridi per connettere i campi dell’architettura e dell’urbanistica con quello della comunicazione e dei social media, attraverso un nuovo tipo di progettazione urbana e di gestione dello spazio pubblico (Sharing City). E’ autore dell’ebook “La Città Senziente: la Città della Conoscenza”, una sintesi intellettuale su di un nuovo modello di città basata su di un ecosistema tecnologico e sociale, in cui la conoscenza, l’imprenditorialità collettiva e sociale e le interazioni tra le persone e i luoghi portino a nuove possibilità attraverso l’uso dell’ibridazione fisico-digitale. E’ curatore co-direttore di #OPENmadrid, l’evento annuale dedicato alla progettazione collaborativa (open design) e all’urbanistica P2P (peer to peer, condivisa), in collaborazione con l’Univerisità Rey Juan Carlos. (http://urbanohumano.org) 5

“Local is the perfect scale for smart-technology innovation for the same reasons it’s been good for policy innovation – it’s much easier to engage citizens and identify problems, and the impact of new solutions can be seen immediately” (A. Townsend, Smart Cities, 2013, p. 10) 6

Mi riferisco qui alla recente proposta del team PlanB (vincitrice del premio Latrobe 2013 e finanziata dall’AIA College of Fellows) di ripensare (anche semanticamente) l’urbanizzazione planetaria, senza considerare i limiti amministrativi che (sulla carta) separano le forme fisiche di amministrazione territoriale (dagli stati alle città). “In an age of increasing connectivity, the instability of the future presents a collective dilemma. It demands a confrontation of the exigencies of growth that reconfigure the global terrain. The impact of population growth and resource consumption on the built and natural environment requires an approach that confronts the scale and scope of the entire world.Rather than distinguishing between arbitrary and futile dichotomies of urban and rural, land and water, or developed and natural, a holistic global strategy for the urban sphere is required. “The City of 7 Billion” erases divisions and differences, removing all boundaries of ownership, politics, and responsibility. It projects an understanding of the collective population and global development as one unified urban entity without boundaries. An antidote to the fragmentation of global development, “The City of 7 Billion” demands a shift in interest from city infrastructures to global infrastructures. Design strategies must reframe the scope and scale of global urbanization to reengage speculative approaches that define the world as one single urban entity” – da Joyce Hsiang, Bimal Mendis, The City of 7 Billion: An Index (http://www.miroslavabrooks.com/cityof7billion/) 7

Scrive J. Rifkin che “la democratizzazione dell’innovazione e della creatività nell’emergente Commons collaborativo sta generando un nuovo tipo di incentivo, basato meno sull’aspettativa di un tornaconto economico e più sul desiderio di promuovere il benessere sociale dell’umanità. (…) In un mondo in cui un numero crescente di cose diventa potenzialmente gratuito, il capitale sociale è destinato a svolgere un ruolo molto più rilevante del capitale finanziario e la vita economica andrà sempre più trasferendosi nel Commons collaborativo”. In RIFKIN J., La società a costo marginale zero – l’Internet delle cose, l’ascesa del commons collaborativo e l’eclissi del capitalismo, ed. it. Mondadori, MI 2014, p. 34. 8

Per multi direzionale mi riferisco sia alla capacità di orizzontalizzazione della comunicazione (dunque della possibilità, per chiunque abbia accesso al Web, di disintermediare le gerarchie precostituite) che alla possibilità, per l’utente comune, di poter trasmettere informazioni. 9

Intendo affermare che il senso di appartenenza a una comunità (anche se temporanea e on-line) sembra essere inevitabilmente legato alla partecipazione alle decisioni comunitarie, e che, quindi, anche attraverso contesti non necessariamente impegnati (come i social network sul Web) stiamo riscoprendo il lato politico della comunicazione 2.0. 10

Per ‘urbanità’ qui intendo la società urbana, secondo l’accezione utilizzata da H. Lefebvre nel suo Il Dirtitto alla Città (Parigi, 1967). 11

“Ogniqualvolta la struttura dell’economia e della società cambia la questione urbana torna in primo piano (…). Da queste ‘crisi’ la città è uscita, in passato, ogni volta diversa: nella sua struttura spaziale, nel suo modo di funzionare, nelle relazioni tra ricchi e poveri e nella sua immagine”, in SECCHI B., La città dei ricchi e la città dei poveri, Ed. laterza, BA 2013, p. 8.


12

“The planning process involves setting up a series of temporal, spatial and institutional connections which, it is argued, have been subject to rupture, shrinkage and fragmentation, and so they are themselves contingent, and frequently limited to being symbolic, rather than substantive, connections. Planning, therefore, is as much about symbolic connectivity as about the substantive transformation of spatial conditions.” In MADANIPOUR A., Connectivity and contingency in planning, 2010 13

The nature of the connections that planners attempt to make can be functional, causal, formal, temporal or spatial, each with its own limitations and possibilities. The process of making connections involves an analytical and a synthetic stage, each with its own dynamics, particularly when one set of considerations has to be applied to another stage of the process. The strength of these connections depends on the planners’ place in the decision-making hierarchy, their relationship to the sources of power and their confidence in their ability to shape places and events. The process of making connections also involves giving accounts of the process itself, providing justifications for the connections made and opening the process to analysis and scrutiny by others. This is particularly important as there are always gaps between accounts and actions. So, while planning’s key weapon is making connections, in order to work within and reduce somewhat the levels of uncertainty, these connections are – and should be – always open to questioning.” (Madanipour, 2010)

14

L’Istituto di Santa Fe si occupa di indagare le scienze della complessità (http://www.santafe.edu/)

15

Scrive Harvey che “le sperequazioni geografiche dello sviluppo potrebbero, ancora una volta, salvare il sistema da un crollo globale, come già negli anni novanta, anche se questa volta sono gli Stati Uniti il centro del problema. Ma il sistema finanziario è anche infinitamente più interconnesso di quanto non sia stato prima. Le contrattazioni online, giocate in una frazione di secondo, una volta fuori controllo rischiano di creare enormi squilibri sul mercato (…) e ciò potrà tradursi in una crisi di tale portata da indurre a ripensare radicalmente il funzionamento del capitale finanziario e dei mercati valutari, a partire dal loro rapporto con l’urbanizzazione”. (HARVEY D., Città ribelli – i movimenti urbani dalla Comune di Parigi a Occupy Wall Street, ed. Il Saggiatore, MI 2013, p. 33) 16

L’applicazione di GIS (geographic information system) e nuove mappature digitali dei territori stanno consolidando un nuovo tipo di infrastruttura informatica territoriale, definita SDI, Spatial Data Infrastructure.

17

Nello specific o Castells distingue network society e informazionalismo (che è la infrastruttura materiale nella network society). Tuttavia “società dell’informazione” è un concetto ampiamente diffuso che riassume entrambi i termini. Di seguito userò indifferentemente i termini “società dell’informazione” e “network society”, rimandando al § 1.2 per una breve descrizione dell’informazionalismo secondo Castells. 18

“When the internet was new, its early enthusiasts hoped it would emulate the greatest serendipity machine ever invented: the city”, Lesly I., “In search of Serendipity”, in Intelligent Life, January/February 2012 issue. 19

“I hope we can agree that “the smart city”is a specific rhetorical move within a much larger space of potential. To be precise, it’s almost exclusively a discourse about the instrumentation of the urban fabric and the quantification of municipal processes, specifically for ease and efficiency of management.”, Greenfield, 2013; “I think the more important and interesting question is what do you want a smart city to be? We need to focus on how we shape the technology we employ in future cities.”, Townsend, 2013. 20

Masdar City è stata realizzata ad Abu Dhabi, http://www.masdar.ae/; https://www.youtube.com/watch?v=FyghLnbp20U

21

Songdo City è stata realizzata in Corea del Sud, http://www.songdo.com/; http://www.bbc.com/news/technology-23757738

22

PlanIT Valley è stata realizzata a Paredes, distretto di Oporto, Portogallo, http://www.living-planit.com/

23

“Progetti urbanistici faraonici e stupefacenti, e sotto molti aspetti di un’assurdità criminale, hanno trasfigurato luoghi come Dubai e Abu Dhabi, con l’intento specific di assorbire il surplus di capital del settore petrolifero sperperandolo nel modo più appariscente”. Harvey, 2013, p. 31

24

Greenfield A., Agaist the smart city – Part I of The City is here for you to use, Do Projects, NY October 2013. Adam Greenfield è il fondatore e il direttore dello studio Urbanscale a NYC (http://urbanscale.org/), che opera sul design dei sistemi urbani. 25

Ecco come Greefield riassume gli aspetti negativi di smart city come Masdar, Songdo e PlanIT Valley: 1The smart city is built in generic space 2The s.c. unfolds in generic time 3The s.c. positions technology itself as generic 4The s.c. pretends to an objectivity, a unity and perfect knowledge that are nowhere achievable, even in principle 5The s.c. is built on a proprietary platform 6The s.c. is overspecified 7The s.c. is predicated on a discredited notion of seamlessness 8The s.c. is predicated on an inappropriate model of optimization 9The s.c.’s systems are deployed for the sole benefit of administrators 10The s.c. is predicated on – indie, is difficult to imagine outside of – a neoliberal political economy 11The s.c. presents a set of potentials disturbingly consistent with the exercise of authoritarianism 12The s.c. has little enough to do with cities 13The s.c. replicates in tone, tenor, form and substance most if not all of blunders we associate with the discredited highmodernist urban planning techniques of twentieth century 26

“This is why the apparatus of ubiquitous sensing, data-mining and predictive analytics exists in the first place. It’s been deployed toward the end of a very particular kind of homeostasis: not the rough and ready load-balancing achieved when formal and informal sectors operate in anything approaching synchrony, but the maintenance of an environment where companies can create jobs for citizens and products and services for citizens and other consumers”. Greenfield, 2013. 27 28

Vedi l’Intelligent Operations Center di Rio de Janeiro, costruito da IBM per circa 14 milioni di dollari.

“The dominant tense of ubiquitous computing writing is what we might call the ‘‘proximate future.’’ That is, motivations and frames are often written not merely in the future tense, describing events and settings to come, but describe a proximate future, one ‘‘just around the corner.’’”, in Genevieve Bell, Paul Dourish, Yesterday’s tomorrows: notes on ubiquitous computing’s dominant vision, London Limited 2006 (http://www.ics.uci.edu/~jpd/ubicomp/BellDourish-YesterdaysTomorrows.pdf)


29

E’ quanto ci ricordano M. Sclavi e L. Susskind quando descrivono il “circolo virtuoso fra: 1) esigenze di trasparenza, partecipazione e progettazione creativa nella società civile; 2) centri universitari e di ricerca che offrono una formazione sia di cultura generale che professionale centrata su queste nuove competenze; 3) una pubblica amministrazione che avverte l’utilità di questi nuovi strumenti ed è disposta a favorirne la sperimentazione.” In Confronto creativo, 2011, p. 62. 30

AUGE’ M., Futuro, ed. Bollati Boringhieri, TO 2012, p. 116

31

Mi riferisco qui, a mero titolo esemplificativo del dibattito in corso, ad un saggio di V. Borghi e C. Sebastiani sulla democrazia urbana in Europa e in Italia. In esso gli autori, pur riconoscendo “l’urbanizzazione” della politica e la necessità di buone pratiche di coinvolgimento dei cittadini, si limitano a considerare il processo decisionale e democratico nella sua sola fase conclusiva (in termini di onere e responsabilità della scelta), non ammettendo (per una società complessa e iperconnessa come la nostra) le potenzialità dell’empowerment e del confronto creativo nell’elaborazione stessa delle ipotesi progettuali. “Alla cittadinanza spetta il compito di discutere, criticare, avanzare esigenze e richieste, fornire a chi governa tutte le informazioni e i punti di vista di cui dispongono; ma essa deve essere affrancata dall’onere della decisione”., BORGHI V., SEBASTIANI C., La democrazia urbana, pratica ordinaria di governo, in AA. VV., Un’Agenda per le città – Nuove visioni per lo sviluppo urbano, ed. Il Mulino, BO 2014, p. 61 32

Da Lefebvre a Harvey è opinione di un filone di “marxismo urbano” di considerare la città (e non la fabbrica) come il luogo in cui si concentreranno gli scontri attorno ad un diritto alla città (e dunque, per quella sua centralità nelle politiche urbane future che ho cercato fin qui di raccontare brevemente). 33

CASTELLS M., L’informazionalismo e la network society, in HIMANEN P., L’etica hacker e lo spirito dell’età dell’informazione, ed. Feltrinelli, MI 2001, p. 119, 120.

34

Castells, p. 127-128.

35

Il termine disruptive innovation è stato introdotto in letteratura dal Prof. Clayton Christensen nel 1995 nell’articolo Disruptive Technologies: Catching the Wave (Harvard Business Review) scritto insieme a Joseph Bower. Alla base del concetto di disruptive innovation c’è una riflessione: per quale motivo le aziende di successo investono massivamente in tecnologie che soddisfano i bisogni dei propri clienti “attuali” ma falliscono al contempo nel guardare a nuovi mercati che i clienti del futuro esploreranno? Bower e Christensen sottolineano più volte che i mutamenti tecnologici disruptive, capaci di danneggiare in modo considerevole le aziende consolidate, non sono solitamente particolarmente innovativi o complessi da un punto di vista tecnologico e possiedono due importanti caratteristiche: 1. presentano una serie di attributi che inizialmente non sono valutati dai clienti esistenti; 2. evolvono in modo talmente rapido da invadere i mercati consolidati (Paraboschi A., tratto da http://blog.wired.it/disruptiveinnovations/2013/07/18/cose-una-disruptive-innovation.html) 36

Intendo qui alcune prassi (come il guerrilla gardening, il parking-day o il pop-up urbanism) che, con un atteggiamento giocoso, colto e trasversale, danno periodica dimostrazione della loro capacità operativa e organizzativa nel ricostruire, seppur temporaneamente, i rapporti tra comunità e spazi urbani generalmente residuali o con funzioni inappropriate per i cittadini. 37

Anche in questo caso l’hacking civico sembrerebbe essere un’attuazione ibrida (poiché non è racchiudibile semplicemente nella semantica delle politiche) delle prassi del confronto creativo. “Il motivo per cui tali domande (invenzione, moltiplicazione delle opzioni e sviluppo di soluzioni creative, N.d.A.) e risposte sono vitali per i giovani, oggi più che nel passato, è che oggi i giovani crescono in un mondo che dispiega attorno a loro una quantità di scelte potenziali mai esistita prima. I mezzi di comunicazione di massa li mettono in contatto con stili di vita alternativa ai propri e con opzioni multiple che per essere afferrate richiedono una capacità di iniziativa basata sulla trasformazione delle smentite alle aspettative date per scontate in altrettatnte occasioni di apprendimento”. SCLAVI M., SUSSKIND L.E., Confronto Creativo, ed. Et Al., MI 2011., p. 44 38

http://unionkitchendc.com/

39

http://www.snapgoods.com/

40

https://www.airbnb.it/

41

https://www.getaround.com/

42

http://urbanfarmers.com/intro/

43

http://thinkeatsave.org/

44

http://www.uncommonground.com/

45

http://www.planetizen.com/node/59977

46

https://walkyourcity.org/

47

http://betterblock.org/

48

A titolo esemplificativo a Mumbai è stato fondato nel 2006 l’Istituto di Urbanologia, che si occupa della “comprensione dei processi di sviluppo incrementale e delle pratiche giornaliere in ogni località oggetto di ricerca attraverso il coinvolgimento diretto di persone e luoghi” (http://urbanology.org/). L’Istituto è membro del collettivo URBZ – user generated cities. (http://urbz.net/) 49

Tratto da DE LA PEÑA B., Bottom-up growth, driven by citizens, trumps central command, in AA.VV. City 2.0: The Habitat of the Future and How to Get There (TED Books)

50 51

http://www.hamar.kommune.no/getfile.php/Bilder/HK_kunst_80x167_engelsk.pdf Si veda il video di presentazione su YouTube all’indirizzo https://www.youtube.com/watch?v=_R2EHOnsMB0


52

https://www.scribd.com/doc/45030181/Hamar-Book-Final

53

https://www.scribd.com/doc/229864306/Network-Design-Dream-Your-City

54

http://www.dreamhamar.org/physical-lab/

55

http://www.dreamhamar.org/digital-lab/

56

http://www.dreamhamar.org/academic-network/

57

http://www.dreamhamar.org/preliminary-urban-design/

58

https://www.youtube.com/watch?t=49&v=lcxVdZq2BG8

59

http://www.dreamhamar.org/onsite-workshops/

60

Si veda ad esempio il video sul laboratorio Creamhamar (https://vimeo.com/29857688)

61

http://www.dreamhamar.org/category/rucksack/

62

https://www.scribd.com/doc/66921715/Booklet-Preliminary-Design-Eng

63

http://www.hamar.kommune.no/article30498-5383.html

64

https://www.youtube.com/watch?v=1QdIIj8hAPU

65

ECOSISTEMA URBANO, Dreamhamar – a network design process for collectively reimagining public space, ed. Lugadero (Siviglia – Spagna, 2013), p. 41 66

https://www.flickr.com/photos/dreamhamar/collections/72157632238524672/

67

https://www.youtube.com/watch?v=G3wRuy0RPqg


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.