I GRANDI ROMANZI DI
NUOVA SERIE
RITRATTO DI FAMIGLIA
Danielle Steel
Ritratto di famiglia
Con tutto il mio amore a Beatrix, Trevor, Todd, Nicholas, Samantha, Victoria e, in modo speciale... proprio speciale, con tutto il cuore... a John.
«Dio colloca i solitari nelle famiglie.» Sono parole consolanti della Bibbia. Le famiglie sono unite dal sangue, dal dovere, dalla necessità, dal desiderio... e qualche volta, se si è molto fortunati, dall’amore. È una parola che sottintende solidità, fondamenta salde come la roccia, un luogo, una casa in cui fare ritorno... una casa da lasciare quando si è cresciuti e tuttavia da ricordare con affetto... gli echi non abbandonano mai l’udito e il cuore, i ricordi sono scolpiti come avorio ricavato da un’unica zanna, dipinto delicatamente in vari toni, alcuni brillanti, altri più dolci, a volte sbiaditi, così tenui da essere quasi dimenticati... e tuttavia mai scordati e abbandonati completamente. Il luogo dove si comincia e dove si spera di finire... ciò che si cerca di costruire con impegno... come un edificio proteso verso il cielo... La famiglia... quante immagini evoca... quanti ricordi... quanti sogni.
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Prologo 1983
il sole era così fulgido che quasi tutti socchiudevano le palpebre sebbene fossero soltanto le undici del mattino. Una brezza lieve agitava i capelli delle signore. Era una giornata così bella che racchiudeva una sorta di sofferenza, un silenzio stupefacente, e in quel silenzio c’erano soltanto i trilli smorzati degli uccelli, qualche strido improvviso, e il profumo onnipresente dei fiori... mughetti, gardenie, fresie piantati in un tappeto di muschio. Ma Ward Thayer non vedeva nulla di tutto questo e sembrava non udire nulla. I suoi occhi erano rimasti chiusi per qualche minuto; e quando li aprì, li tenne a lungo fissi come uno zombi, così incolore e diverso dall’immagine che tutti s’erano fatta di lui da quarant’anni. Quella mattina Ward Thayer non era baldanzoso, affascinante e bello. Era immobile nel sole luminoso e non guardava nulla; richiuse gli occhi, premendo le palpebre, e per un momento pensò che non avrebbe più voluto riaprirle, come non le aveva riaperte lei, come non le avrebbe riaperte mai più. C’era una voce in distanza e diceva qualcosa, ma non era diverso dal ronzio degli insetti intorno ai fiori. E lui non provava nulla. Nulla. Perché? Perché non provava nulla? si chiese. Non aveva provato nulla per lei? Era stata tutta una menzogna? Si sentì assalire da un’ondata di panico... non riusciva a ricordare il suo viso, la pettinatura, il colore degli occhi... Riaprì bruscamente le palpebre come fossero mani contratte, come forzasse un innesto d’epidermide. In un attimo il sole 11
lo accecò, e vide soltanto un lampo di luce e aspirò il profumo dei fiori, mentre un’ape gli volava accanto pigramente e il pastore pronunciava il nome di lei: Faye Price Thayer. Vi fu uno schiocco smorzato sulla sinistra e il lampo d’un flash gli esplose negli occhi mentre la donna accanto a lui gli stringeva il braccio. La guardò mentre i suoi occhi si adattavano di nuovo alla luce, e all’improvviso ricordò. Tutto ciò che aveva dimenticato si specchiava negli occhi della figlia. Le somigliava tanto, eppure erano così diverse. Non sarebbe mai esistita un’altra donna come Faye Thayer. Lo sapevano tutti, e lui lo sapeva meglio di chiunque altro. Guardò la bionda graziosa che gli stava accanto, e ricordò tutto e pregò silenziosamente per Faye. Sua figlia era alta e calma. Era meno bella di quanto fosse stata Faye. I capelli biondi e lisci erano raccolti in un nodo, e al suo fianco stava un uomo dall’aria seria che le toccava spesso il braccio. Adesso erano soli, tutti, e ognuno era diverso e separato, eppure facevano parte di qualcosa di più grande, facevano parte di Faye... e anche di lui. Se n’era andata davvero? Gli sembrava impossibile mentre le lacrime gli scorrevano lente sulle guance e una dozzina di fotografi si affrettava a immortalare il suo dolore per pubblicarlo sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo. Il vedovo affranto di Faye Price Thayer. Era suo, in morte, com’era stato suo in vita. Erano tutti suoi. Tutti. Le figlie, il figlio, i colleghi, gli amici, ed erano tutti lì per onorare la memoria della donna che non sarebbe più tornata. La famiglia gli stava accanto in prima fila. Sua figlia Vanessa, con il marito occhialuto, e la gemella di Vanessa, Valerie, con i capelli di fiamma e il volto dorato, un perfetto abito di seta nera che le aderiva addosso e il successo stampato su di lei; e al fianco aveva un uomo altrettanto sensazionale. Erano una coppia così bella che era impossibile non guardarli, e per Ward era consolante vedere che Val somigliava tanto a Faye. Prima non l’aveva mai notato molto, ma ora... E Lionel, che pure le somigliava moltissimo, sia pure in modo 12
più sobrio. Alto, bello e biondo, sensuale, elegante e delicato e nel contempo fiero. Guardava lontano, ricordando gli altri che aveva conosciuto e amato... Gregory e John, il fratello perduto, il caro amico. Ward pensò che Faye aveva conosciuto bene Lionel, forse meglio di chiunque altro. L’aveva conosciuto meglio di quanto si conoscesse lui stesso, e come lui conosceva Anne, che adesso gli stava vicino, più graziosa che mai, più sicura di sé e ancora così giovane, in netto contrasto con l’uomo dai capelli grigi che le teneva la mano. C’erano tutti, alla fine. Erano venuti a rendere omaggio a tutto ciò che era stata. Attrice, regista, leggenda, moglie, madre, amica. C’erano quelli che l’avevano invidiata, quelli ai quali aveva chiesto troppo. La sua famiglia lo sapeva meglio di chiunque altro. Faye s’era aspettata tanto da tutti loro, eppure aveva dato tanto in cambio, s’era tanto impegnata ed era arrivata tanto lontano. Ward ricordava tutto, mentre li guardava... tutto, fin da quel primo giorno a Guadalcanal. E adesso erano lì, dopo una vita intera, e ognuno la ricordava com’era stata, com’era tuttora per loro. C’era un mare di facce sotto il fulgido sole di Los Angeles. Tutta Hollywood era venuta per lei. Un ultimo saluto, un ultimo sorriso, una lacrima tenera, mentre Ward si voltava a guardare la famiglia che aveva creato con lei, e tutti erano così forti e belli, come lo era stata lei. Sarebbe stata fiera se li avesse visti in quel momento, pensò Ward; e le lacrime gli bruciarono di nuovo negli occhi, così come loro erano fieri di lei... finalmente. C’era voluto molto tempo, e adesso se n’era andata. Sembrava impossibile crederlo quando appena ieri... appena ieri erano stati a Parigi, nel Midi francese, a New York, a Guadalcanal.
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Guadalcanal 1943
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il caldo della giungla era così opprimente che già star fermi era come nuotare nell’aria densa. Era una presenza che si sentiva e si fiutava e si toccava, eppure gli uomini si accalcavano per vederla, per avvicinarsi di più. Stavano seduti spalla a spalla, con le gambe incrociate. Più avanti, nelle prime file, c’erano le sedie pieghevoli; ma le avevano esaurite da ore. Gli uomini erano seduti lì fin dal tramonto, a sudare e attendere. Avevano la sensazione d’essere da cento anni nella giungla fitta di Guadalcanal, ma non se la prendevano. Avrebbero atteso anche metà della vita per lei. Rappresentava tutto, per loro... le madri, le sorelle, le donne, le ragazze che avevano dovuto lasciare, le donne. La donna. C’era un brusio, dopo l’imbrunire, mentre stavano seduti a parlare e a fumare, con i rivoli di sudore che scorrevano sui colli e sulle schiene, le facce lucide, i capelli madidi, le uniformi incollate alla pelle, e tutti erano così giovani, quasi bambini... eppure non erano più bambini. Erano uomini. Era il 1943 ed erano lì da più tempo di quanto fossero disposti a ricordare, e tutti si chiedevano quando sarebbe finita la guerra, se mai fosse finita. Ma quella sera nessuno pensava alla guerra: di quella dovevano preoccuparsi solo gli uomini di servizio. E quasi tutti coloro che stavano aspettando s’erano comprati quella serata con tutti i mezzi di cui disponevano, dalle tavolette di cioccolata alle sigarette, ai contanti, 17
qualunque cosa... qualunque cosa pur di vederla... avrebbero fatto qualunque cosa pur di vedere Faye Price. L’orchestra incominciò a suonare. L’aria era meno afosa, il caldo non era più opprimente ma sensuale, e si sentivano tutti fremere come non avveniva da molto, molto tempo. Non era soltanto desiderio ciò che provavano per lei, era qualcosa di più profondo e tenero, qualcosa che li avrebbe spaventati se l’avessero provato troppo a lungo. Ne sentivano i primi palpiti mentre attendevano, attendevano... ogni momento era un palpito mentre un clarinetto incominciava a gemere. La musica aggrediva le viscere quasi dolorosamente e ognuno tratteneva il respiro e restava immobile. Il palcoscenico era vuoto nell’oscurità. E poi all’improvviso, vagamente, la videro o credettero di vederla... era impossibile esserne completamente certi... un piccolo riflettore la cercò in distanza. Le inquadrò i piedi e fu un lampo d’argento, una scintilla lontana, come una pioggia di stelle cadenti in un cielo estivo. Lo splendore del suo corpo mentre si avvicinava li attanagliò, e all’improvviso fu lì, davanti a loro. Una perfezione abbagliante nell’abito da sera di lamé d’argento. Un sospiro si levò dalle gole degli uomini, un miscuglio di desiderio, d’estasi e di sofferenza. La sua carnagione era un chiarissimo velluto rosato nel fulgore d’argento, i lunghi capelli biondi avevano quasi il colore delle pesche mature ed erano sciolti sulle spalle. Gli occhi splendevano, la bocca sorrideva, e lei teneva le mani protese mentre cantava, e la sua voce era la più profonda voce di donna che gli uomini ricordassero. Era più bella di tutte le donne che avevano visto. Si muoveva e l’abito rivelava la pelle squisita, la perfezione rosea delle cosce. «Oh, Dio...» mormorò qualcuno nelle ultime file, e intorno a lui cento uomini sorrisero. Tutti provavano quei sentimenti per lei, da anni. Non erano riusciti a crederlo quando era stato annunciato che avrebbe fatto uno spettacolo per loro. Ne aveva fatti in tutto il mondo. Nel Pacifico, in Europa, negli Stati Uniti. Un anno dopo Pearl Harbor, il rimorso l’aveva assalita e adesso era in tour18
née da più di dodici mesi. Di recente s’era fermata per girare un altro film, ma poi s’era rimessa in viaggio, e quella sera era lì, lì con loro. La sua voce era diventata più mesta mentre cantava, e gli uomini nella prima fila vedevano la venuzza che le palpitava sul collo. Era viva, era umana, e se avessero proteso le mani sul palcoscenico improvvisato avrebbero potuto toccarla... sentire il profumo della sua pelle. Sembrava guardare ognuno negli occhi, mentre cantava. Faye Price non deludeva nessuno. A ventitré anni Faye Price era già una leggenda a Hollywood. Aveva girato il primo film a diciannove; e da quel momento aveva preso il volo verso il successo. Era bella, affascinante e brava. Aveva una voce che sfumava dalla lava ardente all’oro fuso, i capelli che splendevano come un tramonto aureo, gli occhi verdi come smeraldi in un viso avorio. Ma non erano i lineamenti o la voce o la perfezione della figura sottile che rivelava i fianchi torniti e i seni colmi: era il calore che la illuminava interiormente, il fulgore che le brillava negli occhi, la gaiezza nella sua voce quando non cantava... ecco, era tutto questo che affascinava il mondo. Era una donna nel senso migliore e più puro della parola. Gli uomini avrebbero voluto stringersi a lei, le donne l’ammiravano, i bambini la guardavano incantati. Era una principessa di sogno. Da una cittadina della Pennsylvania s’era trasferita a New York dopo essersi diplomata alle medie superiori, ed era diventata fotomodella. Dopo sei mesi guadagnava più di ogni altra ragazza della città. I fotografi l’adoravano, il suo viso appariva sulle copertine di tutte le riviste importanti del paese; ma in segreto lei confessava agli amici che si annoiava. C’era così poco da fare, diceva: non doveva fare altro che stare lì in posa. Cercava di spiegarlo e le altre ragazze pensavano che fosse matta. Ma due uomini avevano riconosciuto ciò che era in realtà. L’uomo che più tardi era diventato il suo agente, e Sam Warman, il produttore che sapeva riconoscere a prima vista una miniera d’oro. Aveva visto le foto di copertina, e la trovava graziosa; ma solo quando l’aveva incontrata personalmen19
te s’era accorto che era fiabesca. Il modo in cui si muoveva e lo guardava negli occhi mentre parlava, la sua voce... Aveva capito subito che non si aspettava di farsi portare a letto. Non cercava niente, almeno al di fuori di se stessa: Sam aveva avuto questa impressione. Ed era vero tutto ciò che Abe, il suo agente, diceva di lei. Era favolosa. Unica. Una diva. Ciò che Faye Price voleva, lo voleva profondamente. Voleva una sfida, voleva lavorare con impegno, tentare tutto ciò che le avrebbero lasciato fare. E Sam Warman gliel’aveva lasciato fare. Le aveva offerto l’occasione desiderata. Per Abe non era stato difficile convincerlo. Sam l’aveva portata a Hollywood e le aveva dato una parte in un film. Era una particina, non molto impegnativa. Ma Faye era riuscita a entrare nel sangue dello sceneggiatore; e a volte lui ammetteva apertamente che lo faceva impazzire; ma era riuscita a ottenere dalla parte ciò che voleva, e ciò che voleva andava benissimo... benissimo per il film e per lei. La parte era piccola ma intensa, e l’interpretazione di Faye Price toglieva il respiro alla gente. Aveva qualcosa di magico: era per metà bambina e per metà donna, silfide e sirena, e attingeva all’intera gamma dei sentimenti umani, a volte sfruttando solo l’espressione del viso e gli incredibili occhi verdi. Quella parte gliene aveva assicurate altre due, e il quarto film le aveva fruttato un Oscar. Quattro anni dopo il primo ruolo aveva interpretato sette film e, nel quinto, Hollywood aveva scoperto che sapeva cantare. Ed era ciò che stava facendo, ora: cantava per i soldati in giro per il mondo. Donava il suo cuore e la sua vita a quegli uomini, come faceva sempre in tutto ciò in cui s’impegnava. Faye Price non amava le mezze misure, e a ventitré anni non era più una bambina agli occhi di nessuno: era una donna, e gli uomini che l’ammiravano sulla scena lo sapevano. Vedere Faye Price muoversi e sentirla cantare significava capire che cosa aveva avuto in mente Dio quando aveva creato le donne. Era l’infinito, l’assoluto, e quella sera tutti gli uomini che la guardavano sognavano di toccarla, anche per un solo momento... ognuno sognava di essere tra le sue braccia, con 20
le labbra sulle sue labbra, le mani tra i suoi serici capelli biondi, sognava di sentire il suo respiro sulla spalla, di udire i suoi gemiti sommessi. Uno dei ragazzi che la guardavano ansimò e i suoi compagni risero di lui. Ma non gli importava nulla. «Accidenti... non è fantastica?» Gli occhi del ragazzo s’illuminarono come quelli d’un bambino il giorno di Natale e gli uomini intorno a lui sorrisero. L’avevano ammirata a lungo nel silenzio più totale, ma dopo la prima mezz’ora non resistettero più. Gridarono e fischiarono e urlarono per acclamarla. E quando finì l’ultima canzone, la invocarono così a lungo e così intensamente che lei cantò ancora cinque o sei pezzi, e anche se non poterono vederle, c’erano lacrime negli occhi di Faye Price quando lasciò il palcoscenico. Poteva fare così poco per loro, qualche canzone, un abito d’argento, una fuggevole visione delle gambe, un senso di femminilità spartita tra mille uomini in una sera nella giungla, a ottomila chilometri dalla patria. E chi sapeva quanti di loro sarebbero tornati a casa? Quel pensiero le straziava sempre il cuore. Perciò era venuta lì, per loro. E in tutti quei mesi era apparsa una sirena più di quanto avesse mai fatto nella sua esistenza normale. Sarebbe morta piuttosto di indossare a Los Angeles un abito con una spaccatura che arrivava fin quasi all’inguine: ma se era ciò che volevano lì, ed era chiaro che lo volevano, lei era pronta a darglielo. Che male c’era a dispensare un po’ di piacere fittizio dalla sicurezza d’un palcoscenico? «Miss Price?» Faye si voltò in fretta. Uno degli aiutanti del comandante l’aveva chiamata mentre lasciava la scena. Gli uomini gridavano ancora il suo nome, e lei riusciva appena a sentire la voce dell’aiutante. «Sì?» Faye appariva euforica e assorta. Il viso e il seno erano madidi di sudore, e l’ufficiale pensò che era la donna più bella che avesse mai visto. Non soltanto i suoi lineamenti erano perfetti, ma si provava il desiderio di toccarla, di abbracciarla... irradiava qualcosa che lui non aveva mai provato, almeno a quella distanza ravvicinata. Una sorta di magia frammista al fascino, una sensualità che ti met21
teva addosso la voglia di baciarla senza neppure chiedere il suo nome. Stava per lasciarlo e tornare dagli uomini che la invocavano, e istintivamente l’ufficiale tese la mano e le toccò il braccio. Si sentì accendere, e subito si sentì ridicolo per quella reazione. Era assurdo. Cos’era lei, dopotutto? Una diva del cinema truccata e vestita con cura, e se tutto era così convincente era solo perché era un’attrice più abile delle altre. Era tutto un’illusione, no? Ma seppe che non era così quando i loro occhi s’incontrarono e lei sorrise. Non c’era nulla di artificioso nella donna che gli stava davanti. Era esattamente ciò che era. «Devo tornare là fuori.» Faye indicò il palcoscenico e accentuò le parole, e l’ufficiale annuì e gridò. «Il comandante vorrebbe invitarla a cena.» «Grazie.» Gli occhi di Faye si staccarono dai suoi; lo lasciò e tornò a dedicare un’altra mezz’ora agli uomini. Questa volta cantò canzoni divertenti, incluse due in cui le fecero coro, e alla fine una ballata che li costrinse tutti a reprimere le lacrime. E quando li lasciò, lo fece con uno sguardo che parve accarezzare ognuno di loro, come un bacio della buonanotte da parte di una madre, di una moglie, della ragazza... «Buonanotte, amici... Dio vi benedica.» La sua voce era gutturale e all’improvviso il fracasso era diventato silenzio. Quasi nessuno parlò mentre lasciavano i loro posti e se ne andavano. Le sue parole echeggiarono per ore nella mente di ognuno. Avevano gridato e applaudito, ma erano stati pronti quando li aveva lasciati, e adesso volevano tornare alle loro brande per pensare a lei, lasciare che le canzoni aleggiassero nel ricordo... ricordare il suo viso, le sue braccia, le sue gambe... la bocca che sembrava baciarli e poi fioriva in una risata e ridiventava seria. Ricordavano tutti l’espressione nei suoi occhi quando li aveva lasciati. L’avrebbero ricordata per mesi. Ora non avevano altro. E Faye lo sapeva. Era il suo dono. «A una donna straordinaria.» Quelle parole furono pronunciate da un sergente con il collo taurino, e non gli erano abituali. Ma nessuno si stupì. Faye Price faceva affiorare in 22
ognuno qualcosa di speciale. Il loro coraggio, i loro cuori, le loro speranze. «Già...» Un’eco ripetuta mille volte quella notte dagli uomini che l’avevano vista; e quelli che non l’avevano vista, che erano stati costretti ai turni di servizio, fingevano di non sentirsi delusi. E alla fine, non dovettero neppure fingere. La richiesta di Faye era insolita, ma fu accolta prontamente; e il comandante rimase sorpreso quando venne a saperlo. Le aveva persino assegnato il suo aiutante perché le facesse da guida. Faye aveva chiesto il permesso di visitare la base e di incontrare gli uomini in servizio quella sera. Prima di mezzanotte aveva stretto la mano a tutti. E così gli uomini che non avevano visto lo spettacolo l’avevano incontrata di persona, avevano guardato negli incredibili occhi verdi, stretto la mano fresca e forte e avevano sorriso impacciati alle sue parole. E alla fine, ognuno aveva avuto la sensazione d’essere speciale... coloro che l’avevano sentita cantare e coloro che lei era venuta a trovare. All’improvviso, molti si rammaricarono di non essere stati di servizio per poter parlare con lei. Ma nel complesso erano tutti soddisfatti. A mezzanotte e mezzo Faye si rivolse al giovane che le aveva fatto da guida nella base, e vide il calore amichevole nei suoi occhi. In un primo momento non l’aveva guardata così. Ma a poco a poco l’aveva conquistato come tutti gli altri. Lui aveva desiderato dirle qualcosa per tutta la serata, ma non c’era mai stato un momento adatto. All’inizio era stato così scettico sul conto di quella donna, Miss Faye Price di Hollywood... chi credeva di essere, per venire a pavoneggiarsi davanti agli uomini a Guadalcanal? Ne avevano passate abbastanza, avevano visto di tutto. Erano sopravvissuti a Midway e al Mar dei Coralli e alle tremende battaglie navali per conquistare e tenere Guadalcanal. Quella che cosa ne sapeva? aveva pensato Ward Thayer la prima volta che l’aveva guardata. Ma dopo tutte quelle ore al suo fianco, aveva incominciato a vederla in modo diverso. Lei faceva sul serio. Glielo leggeva negli occhi. Mentre la vedeva guardare gli uomini negli occhi, dimentica del proprio fascino e tutta 23
presa dalla gentilezza per loro, aveva incominciato a provare qualcosa nei suoi confronti. C’era una sorta di calore e di compassione in lei che a sua volta esaltava il suo incredibile incanto sessuale. C’erano mille cose che il giovane tenente avrebbe voluto dirle con il passare delle ore; ma sembrò che Faye si accorgesse di lui solo quando ebbe terminato la visita. Gli si rivolse con un sorriso stanco; e per un istante Ward Thayer avrebbe voluto prenderle la mano, quasi per vedere se era reale. Avrebbe quasi voluto confortarla. Aveva passato una serata lunga e faticosa. Ma era stato un anno lungo e difficile... anzi, due anni. «Crede che il suo comandante mi perdonerà se non ho fatto in tempo a cenare con lui?» Faye sorrise stancamente. «Sarà disperato ma sopravviverà.» Il tenente sapeva che un paio d’ore prima il comandante era stato chiamato a una riunione con due generali arrivati in elicottero. Avrebbe dovuto rinunciare comunque alla compagnia di Faye. «Credo che le sarà molto grato di quanto ha fatto per gli uomini.» «Per me è molto importante.» Faye parlò gentilmente, seduta su una grande pietra bianca nella notte calda. Lo guardò. C’era qualcosa di magico nei suoi occhi, e Ward Thayer provò uno strano turbamento. Era quasi doloroso guardarla: faceva riaffiorare sentimenti che aveva desiderato lasciarsi alle spalle negli Stati Uniti. Non c’era posto né tempo, non c’era nessuno con cui condividerli. Lì c’erano soltanto morte e infelicità, e a volte collera, ma le emozioni più gentili erano troppo dolorose, e Ward distolse gli occhi da Faye mentre lei gli guardava la nuca. Era un bell’uomo, alto e biondo, con le spalle larghe e gli occhi azzurri, ma Faye poteva vedere di lui solo le spalle e i capelli color grano. C’era qualcosa che ispirava tenerezza. Ma c’era tanta sofferenza, lì, erano tutti così soli e tristi e giovani. Eppure con un po’ di calore, un tocco della mano diventavano vivi e ridevano e cantavano... era questo che lei amava delle sue tournée, anche se erano faticose. Era come portare una vita nuova a quegli uomini, anche a quel giovane tenente che era così alto e fiero mentre 24
si voltava di nuovo verso di lei, come se cercasse di difendersi da ciò che provava e non vi riuscisse. «Sa, dopo aver passato tutta la serata con lei», disse Faye sorridendo, «non so ancora come si chiama.» Conosceva solo il suo grado: non erano stati presentati. «Thayer. Ward Thayer.» Il nome fece echeggiare una campana remota, ma Faye non sapeva il perché e non se ne curava. Lui le sorrideva, e c’era qualcosa di cinico nei suoi occhi. Aveva visto troppe cose durante l’ultimo anno, e questo Faye lo intuiva facilmente. «Ha fame, Miss Price? Credo di sì.» Lei aveva cantato per ore, e poi per altre tre aveva girato la base stringendo la mano a tutti. Annuì con un sorriso timido. «Sì. Crede che dovremmo bussare alla porta del comandante per vedere se è rimasto qualcosa?» Risero entrambi all’idea. «Penso che riuscirò a scovarle qualcosa da qualche altra parte.» Ward consultò l’orologio mentre lei lo guardava. Che cosa c’era in quell’uomo? C’era qualcosa che le ispirava l’impulso di chiedergli chi era veramente, di conoscerlo meglio. C’era qualcosa che non si poteva conoscere, e che tuttavia s’intuiva. Ma poi le sorrise e apparve di nuovo giovane. «Si offenderebbe se andassimo a controllare in cucina? Scommetto che riuscirò a rimediarle un vero pasto, se vuole.» Lei alzò una mano graziosa. «Un sandwich andrebbe bene.» «Vediamo che cosa possiamo fare.» Si diressero verso la jeep e raggiunsero la lunga baracca Quonset dove venivano preparati i pasti per gli uomini. Venti minuti più tardi Faye era seduta su una panca davanti a un piatto di stufato bollente. Non era il piatto che lei avrebbe scelto per una calda notte nella giungla, ma era così affamata che le sembrò buono. Anche Ward Thayer ne aveva preso un piatto. «Proprio come al “21”, eh?» Lui la guardò con quel suo sorriso cinico e Faye rise. «Più o meno... con la differenza che non è spezzatino», scherzò lei, e Ward rabbrividì. «Oh, Dio, non lo dica. Se il cuoco la sente sarà fin troppo felice di accontentarla.» Risero di nuovo e all’improv25
viso Faye ricordò le cene di mezzanotte dopo i balli della scuola e incominciò a ridere più forte mentre lo guardava. Lui inarcò un sopracciglio. «Mi fa piacere che sia così allegra. Questo posto non mi sembra divertente e sono qui da più di un anno.» Ma sembrava più sereno. Apprezzava la sua compagnia e si vedeva. Faye si spiegò, mentre mangiavano lo stufato. «Sa... è come dopo un ballo della scuola, quando si andava a far colazione in un ristorante alle cinque del mattino... è un po’ così, vero?» Girò lo sguardo nello stanzone illuminato e gli occhi di Ward seguirono i suoi e poi le scrutarono di nuovo il viso. «Dov’è cresciuta?» Adesso erano quasi amici. Erano insieme da ore e c’era qualcosa di speciale nel fatto d’essere insieme in una zona di guerra. Lì tutto era diverso. Più personale, più intenso. Era giusto fare domande che altrove nessuno avrebbe osato formulare e confidarsi come altrove sarebbe stato impossibile. Faye rispose pensosamente. «In Pennsylvania.» «Le piaceva?» «Non molto. Eravamo poverissimi. Io sognavo solo di andarmene, e me ne andai non appena presi il diploma.» Ward sorrise. Era difficile immaginarla poverissima e soprattutto in una cittadina di provincia. «E lei? Di dov’è, tenente?» «Ward. Oppure ha dimenticato ancora il mio nome?» Faye arrossì della battuta scherzosa. «Sono cresciuto a Los Angeles.» Sembrava che non volesse aggiungere altro, e lei non ne comprese la ragione. «E ci tornerà... dopo?» Faye detestava la parola «guerra», e ormai la detestava anche lui. Gli era già costata molto, troppo, e c’erano ferite che non si potevano rimarginare anche se non erano visibili. Ma istintivamente lei sapeva che c’erano. «Sì. Credo di sì.» «I suoi abitano là?» Faye provava curiosità per quel bell’uomo triste e cinico, con i suoi segreti che non voleva rivelare 26
mentre mangiavano lo stufato nella mensa di Guadalcanal. C’erano coperture rigide per l’oscuramento, alle finestre, e davano l’impressione che le finestre non esistessero. Entrambi c’erano abituati. «I miei genitori sono morti.» Lui la guardò con occhi mesti. Aveva ripetuto troppe volte quella parola. «Mi dispiace.» «Non eravamo molto legati.» Tuttavia... Faye lo scrutò di nuovo mentre lui si alzava. «Ancora un po’ di stufato, oppure preferisce qualcosa di più esotico per dessert? Mi hanno detto che c’è una torta di mele nascosta da qualche parte.» I suoi occhi sorridenti la fecero ridere. «No, grazie. In un costume da scena come questo non c’è posto per la torta di mele.» Faye abbassò lo sguardo sull’abito di lamé d’argento; e per la prima volta dopo molte ore anche lui fece altrettanto. Si stava abituando a vederla così. Era diversa da Kathy, naturalmente, così diversa nella divisa bianca inamidata e nell’uniforme da fatica. Ward sparì per un momento e tornò con un piattino di frutta e un bicchiere di tè freddo. Lì era più prezioso del vino bianco, perché era quasi impossibile produrre il ghiaccio. Ma Ward aveva riempito il bicchiere di cubetti di ghiaccio, e Faye sapeva che era un dono raro. Assaporò ogni sorsata della bevanda freddissima mentre alcuni uomini andavano e venivano e la fissavano apertamente. Ma sembrava che non le dispiacesse. Era abituata. Sorrideva con disinvoltura e poi girava di nuovo gli occhi verso Ward. Dovette reprimere un lieve sbadiglio mentre lui si fingeva desolato e scuoteva la testa per prenderla in giro. Scherzava molto, e aveva qualcosa di buffo; nel contempo aveva qualcosa di triste. «È strano, succede sempre così, dopo che hanno parlato con me. Sembra che ogni volta gli faccia venire sonno.» Faye rise e bevve un altro sorso di tè ghiacciato. «Se fosse in piedi da stamattina alle quattro, sbadiglierebbe anche lei. Immagino che voi ufficiali restiate a letto fino a mezzogiorno.» Faye sapeva che non era vero ma si divertiva a punzecchiarlo: spegneva un po’ la tristezza nei suoi 27
occhi, e sentiva che lui ne aveva bisogno. Ward la guardò in modo strano. «Perché fa tutto questo, Faye?» All’improvviso aveva trovato il coraggio di chiamarla per nome; non sapeva perché, ma era piacevole sentirselo sulle labbra, e lei non sembrava offesa. Non disse nulla in proposito. «È una necessità, credo... per ripagare tutte le belle cose che mi sono accadute. Non ho mai pensato di meritarle. E nella vita bisogna pagare i debiti.» Era qualcosa che avrebbe detto anche Kathy, e per poco le lacrime non gli riempirono gli occhi. Non s’era mai sentito in dovere di «pagare i debiti», di ripagare gli altri per la sua fortuna. Adesso comunque non si sentiva più fortunato. Da quando... «Perché le donne si sentono sempre in dovere di pagare i debiti?» «Non c’entra. È così anche per certi uomini. Per lei no? Non vuole fare qualcosa per il prossimo, se le accade qualcosa di bello?» Gli occhi di Ward divennero duri come pietre. «Da molto tempo non mi capita più nulla di bello... almeno da quando sono arrivato qui.» «È vivo, no, Ward?» La voce di Faye era dolce, ma lo sguardo era penetrante. «A volte non basta.» «Sì, invece. In un posto simile è un motivo valido per ringraziare il cielo. Si guardi intorno ogni giorno, guardi quei ragazzi feriti e mutilati e quelli che non torneranno a casa...» Qualcosa, nel tono della voce di Faye, lo colpì al cuore. Per la prima volta dopo quattro mesi dovette lottare per dominare le lacrime. «Mi sforzo di non vedere.» «Forse dovrebbe farlo. E allora sarà lieto d’essere vivo.» Lei avrebbe voluto giungergli al cuore, a ciò che lo faceva soffrire. Si chiese che cos’era mentre Ward si alzava lentamente. «Non me ne importa più nulla, Faye. Vivere o morire per me è lo stesso, come per tutti gli altri.» 28
«È terribile, ciò che ha detto.» Faye appariva sconvolta, quasi offesa. «Che cosa può indurre a parlare così?» Lui la guardò per un momento interminabile, imponendosi di non dire altro. Avrebbe voluto che Faye se ne andasse. Ma la fissava e lei non si muoveva; e così pensò che non gli importava nulla. Che differenza avrebbe fatto, comunque? «Sei mesi fa ho sposato un’infermiera dell’esercito, e due mesi più tardi è stata uccisa da una bomba giapponese. È difficile trovarsi bene qui, dopo una cosa simile. Capisce?» Faye restò seduta immobile e poi annuì. Dunque era questo. Era questo il vuoto che gli vedeva negli occhi. Si chiese se sarebbe stato sempre così o se avrebbe ripreso a vivere. Un giorno. Forse. «Mi dispiace, Ward.» Non si poteva dire di più. C’erano tanti altri casi come quello, o anche più dolorosi. Ma questo non poteva consolarlo. «Mi dispiace.» Lui sorrise tristemente. Era inutile prendersela con Faye. Non era colpa sua. Ed era tanto diversa da Kathy. Kathy era così quieta e semplice, e lui s’era innamorato disperatamente. E questa donna era tutta bellezza e splendore, fino alla punta delle unghie smaltate. «Mi dispiace, ma non volevo dirglielo. Qui ci sono migliaia di casi come questo.» Lei sapeva che c’erano e li aveva sentiti quasi tutti, ma ciò non aveva reso più facile ascoltarli. Provava compassione per lui e mentre lo seguiva verso la jeep, si sentì lieta di non aver cenato con il comandante; e glielo disse mentre Ward le rivolgeva quel suo mezzo sorriso che l’attraeva più di tutti i sorrisi visti a Hollywood almeno negli ultimi due anni. «Ciò che ha detto è molto bello.» Lei avrebbe voluto toccargli il braccio, ma non osò. In quel momento non era Faye Price l’attrice, era se stessa. «Dico sul serio, Ward.» «Perché? Non deve addolorarsi per me, Faye. Non sono un bambino e so badare a me stesso ormai da molto tempo.» Lei vedeva ben di più. Vedeva ciò che aveva visto Kathy, e più ancora. Sapeva com’era disperatamente ferito e solitario, ancora sconvolto dalla morte di sua moglie... era accaduto 29
due mesi esatti dopo il matrimonio, ma Ward non rivelò quel dettaglio doloroso mentre la riaccompagnava alla tenda che le era stata assegnata. «Penso che è stata molto gentile a voler parlare con gli uomini.» «Grazie.» Lui fermò la jeep e rimasero a guardarsi a lungo; avevano molte altre cose da dirsi, ma lì era impossibile. Da dove si poteva incominciare? Qualche anno prima lui aveva letto della sua relazione con Gable e adesso si chiedeva se era finita. E lei, invece, si domandava per quanto tempo Ward avrebbe continuato a struggersi per l’infermiera morta. «Grazie per la cena», disse lei con un sorriso timido mentre Ward le apriva la porta. «Gliel’ho detto... è come al “21”...» «La prossima volta proverò lo spezzatino.» Avevano ripreso a scherzare; sembrava l’unica strada aperta, ma quando lui l’accompagnò all’ingresso della tenda e scostò il telo, c’era qualcosa di più nei suoi occhi, qualcosa di quieto, profondo e vivo che qualche ora prima non c’era. «Mi scusi se le ho detto tutte quelle cose. Non volevo scaricare su di lei i miei guai.» Ward tese una mano e le toccò il braccio mentre lei lo guardava. «Perché no, Ward? Che cosa c’è di male? Con chi altro può parlare, qui?» «Non parliamo mai di queste cose.» Lui alzò le spalle. «Tanto, lo sanno tutti.» E all’improvviso le lacrime che aveva trattenuto gli salirono di nuovo agli occhi; fece per voltarsi, ma Faye gli prese il braccio e lo trattenne. «Non importa, Ward, non importa...» Lo strinse a sé. Piansero entrambi, lui per la moglie morta, lei per una donna che non aveva mai conosciuto e per mille uomini che erano morti e che avrebbero continuato a morire molto tempo dopo il suo ritorno a casa. Pianse per la sofferenza e l’angoscia che lì erano inevitabili, e poi lui la guardò e le passò gentilmente una mano sui capelli di seta. Era la donna più bella che Ward avesse mai visto, e gli sembrò strano che pensarlo 30
non gli desse un senso di colpa. Forse Kathy avrebbe compreso, forse non contava più, non sarebbe più tornata, non l’avrebbe più toccata... e probabilmente non avrebbe più rivisto Faye dopo quella notte. Sapeva anche questo, e avrebbe voluto andare a letto con lei. Prima che uno di loro morisse o che il tempo spegnesse la scintilla con la stessa ineluttabilità d’una bomba. Lei sedette lentamente sull’unica sedia e lo guardò mentre Ward sedeva sul sacco a pelo; e si tennero per mano in silenzio, tutta una vita di parole non pronunciate ma sentite profondamente, intanto che la giungla si svegliava in lontananza. «Non la dimenticherò mai, Faye Price. Spero che lo sappia.» «Anch’io la ricorderò. La penserò, e saprò che non le è successo nulla ogni volta che la penserò.» E Ward le credette. Era una ragazza semplice, nonostante la fama, il fascino e l’abito di lamé d’argento. Lei l’aveva chiamato «costume di scena», e tale lo considerava. Quella era la sua bellezza. «Forse le farò una sorpresa e verrò a trovarla allo studio quando tornerò in patria.» «Deve farlo, Ward Thayer.» La sua voce era sommessa e decisa, gli occhi ancora belli dopo il pianto. «Mi farà buttare fuori?» Lui sembrava divertito a quel pensiero e Faye s’irritò. «No, naturalmente!» «Potrei provarci, sa?» «Bene.» Faye gli sorrise di nuovo e lui vide quanto era esausta. Aveva dato tanto di sé quella notte, agli altri, a lui. Ed erano le quattro passate. Avrebbe dovuto alzarsi dopo meno di due ore, per proseguire e andare a dare un altro spettacolo. Aveva lavorato ininterrottamente per mesi. Due mesi in tournée; e prima ancora tre mesi, senza un giorno di sosta, dedicati al suo film più importante. E al suo ritorno c’era un altro film ad attenderla. Era una grande diva, aveva una grande carriera, ma lì sembrava che questo non avesse importanza. Era soltanto una bella ragazza dal grande cuo31
re e, con un po’ di tempo, Ward avrebbe potuto innamorarsi facilmente di lei. Ward si alzò, quasi con rammarico, le prese la mano e se la portò alle labbra. «Grazie, Faye... se non la rivedessi più, grazie per questa notte...» Lei gli lasciò le dita tra le dita per un lungo momento, guardandolo negli occhi. «Un giorno c’incontreremo ancora.» Ward non ne era altrettanto sicuro, ma voleva credere a quelle parole. E poi il peso del momento divenne insopportabile e sentì la necessità di scherzare. «Scommetto che lo dice a tutti gli uomini.» Faye rise e si alzò mentre lui si avviava lentamente alla porta della tenda. «È un tipo impossibile, Ward Thayer.» Ward si voltò a guardarla. «E lei non è male, Miss Price.» Adesso, nei suoi pensieri era soltanto Faye, ed era difficile ricordare che era anche Faye Price, la diva del cinema, attrice, cantante, personaggio importante... era soltanto Faye, per lui, ora, per quella notte. Ridivenne serio. «La rivedrò prima che parta?» All’improvviso era molto importante per lui, e anche per lei, più di quanto l’immaginasse Ward. Voleva rivederlo prima di andarsene. «Forse potremo bere un caffè in fretta domattina prima che succeda il finimondo.» Sapeva che probabilmente l’équipe era rimasta in piedi tutta notte, a scatenare il pandemonio tra i militari e le infermiere, a cantare e a suonare gli strumenti dell’orchestra. Era sempre lo stesso dovunque andassero, ma avevano bisogno di sfogarsi e sembrava che non gli dispiacesse stare alzati una notte intera. Il problema veniva l’indomani, quando dovevano organizzarsi per partire, e allora all’improvviso regnava il caos per due ore prima che salissero sull’aereo; alla fine tutti si addormentavano a bordo fino alla tappa successiva e la magia ricominciava. Lei ormai era abituata a tutto ciò, ma avrebbe dovuto fare parecchie cose prima di partire e aiutare tutti a caricare, ma forse, forse, avrebbe trovato un momento libero per lui... «La cercherò.» «Sarò in giro.» 32
Ma quando Faye raggiunse gli altri alla mensa il giorno dopo alle sette, lui non c’era. Il comandante l’aveva chiamato, ed erano ormai quasi le nove quando Ward trovò Faye con gli altri mentre l’aereo scaldava i motori. C’era stata una vaga espressione di panico negli occhi di Faye che lo aveva incantato quando era arrivato precipitosamente con la jeep ed era balzato a terra per parlarle. «Mi dispiace, Faye... il comandante...» Il fragore delle eliche sommerse la voce, e il direttore di scena urlava ordini al resto del gruppo intorno a lei. «Non importa...» Faye gli rivolse un sorriso abbagliante, ma Ward vide che aveva l’aria stanca. Non poteva aver dormito più di due ore, e lui ne aveva dormito una sola, ma c’era abituato. Faye portava una tuta rossa con i sandali a zatterone che lo fecero sorridere. L’ultima moda per Guadalcanal... e poi all’improvviso il volto di Kathy gli si affacciò alla memoria, e la sofferenza lo riassalì. I suoi occhi incontrarono quelli di Faye mentre qualcuno da lontano la chiamava per nome. «Devo andare...» «Lo so.» Stavano gridando entrambi nel frastuono. Ward le prese la mano per un momento e la strinse forte. Avrebbe voluto baciarla ma non osava. «Arrivederci allo studio!» «Come?» Lei sembrava turbata; in tutti i suoi viaggi tra i militari, nessuno l’aveva commossa come Ward Thayer. «Ho detto... arrivederci allo studio!» Lei sorrise e all’improvviso si chiese se l’avrebbe mai rivisto. «Abbia cura di sé!» «Certo.» Lì non c’erano garanzie per nessuno. Neppure per lei. Il suo aereo poteva essere abbattuto mentre si dirigeva alla base successiva. Tutti l’accettavano, fino a quando una persona cara moriva... un amico, un compagno... Kathy... Ward scacciò di nuovo la sua immagine dalla mente. «Anche lei.» Cosa poteva dire a una donna come quella? «Buona fortuna.» Non ne aveva molto bisogno. Aveva già tutto. O no? Ward si domandò se c’era un uomo nella sua vita, ma ormai 33
era troppo tardi per chiederlo. Faye aveva incominciato ad allontanarsi con gli altri e lo salutava a gesti. Il comandante era arrivato all’improvviso per un ultimo ringraziamento e Ward la vide stringergli la mano e andare, e poi lei fu a bordo dell’aereo, salutò con la mano per un istante, e la tuta rossa sparì dalla vita di Ward, forse per sempre, pensò. Si disse che non l’avrebbe più rivista. Era probabile che accadesse, e Faye si diceva la stessa cosa. Si sorprese a guardarlo e a chiedersi perché l’aveva tanto colpita. Forse era venuto il momento di tornare a casa, forse gli uomini che incontrava nella tournée incominciavano a commuoverla e questo poteva essere pericoloso... ma non era così, c’era qualcosa d’altro in lui, qualcosa che non aveva mai provato. Non poteva permettersi sentimenti simili, adesso. Era uno sconosciuto, e lei aveva una vita da vivere. Una vita che non lo includeva. Ward stava combattendo una guerra. E lei aveva le sue guerre, la tournée, Hollywood... Addio, Ward Thayer, mormorò tra sé, buona fortuna... e poi sedette e chiuse gli occhi mentre l’aereo decollava, ma il suo volto la perseguitò per settimane... quei profondi occhi azzurri... passarono mesi prima che Ward uscisse del tutto dalla sua mente. E finalmente lo dimenticò.
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Hollywood 1945
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sul set tutti tacevano, e la tensione gravava nell’aria. Avevano atteso quel momento per quasi quattro mesi, e adesso che era venuto volevano fermarlo, rimandarlo a un altro giorno. Era stato uno di quei film magici in cui quasi tutto andava liscio; s’erano formate amicizie, tutti erano pazzi della diva e tutte le donne erano innamorate del regista. Il protagonista era Christopher Arnold e tutti dicevano che era il più grande divo di Hollywood. Era facile capire il perché: era un professionista. E adesso l’osservavano nell’ultima scena, mentre parlava a voce bassa con le lacrime agli occhi. Si sarebbe sentito cadere uno spillo, e Faye Price lasciò il set per l’ultima volta, a testa bassa, mentre lacrime vere le scorrevano sulle guance. Arnold la guardò allontanarsi, devastato... e l’ultima scena terminò. «Buona!» esclamò la voce e vi fu un interminabile istante di silenzio, seguito da un grido, e poi all’improvviso tutti urlarono e risero e si abbracciarono e piansero. C’era champagne per la troupe, e ben presto divenne una di quelle feste chiassose in cui tutti parlavano contemporaneamente e si scambiavano auguri, dispiaciuti all’idea di andarsene. Christopher Arnold abbracciò Faye e la guardò negli occhi. «È stata una gioia lavorare con te, Faye.» «Anche per me.» Si scambiarono un lungo sorriso. Un tempo erano stati legati, quasi tre anni prima, e lei aveva esitato ad accettare il film proprio per quella ragione. Ma tut37
to era andato bene. Lui s’era comportato da gentiluomo dal principio alla fine, e a parte un lampo negli occhi all’inizio quello era il primo segno del ricordo della vecchia relazione. Non aveva affatto intralciato il loro lavoro, durante i tre mesi delle riprese. Lui le sorrise con calore e la lasciò. «Mi mancherai molto. Eppure credevo che fosse passato.» Risero entrambi. «Lo stesso vale anche per me.» Faye girò lo sguardo sugli altri che festeggiavano allegramente. Il regista stava baciando con passione la scenografa, che era sua moglie. Faye s’era trovata bene a lavorare con loro. La regia l’aveva sempre affascinata da quando aveva cominciato a recitare. «Ora cosa farai, Chris?» «Fra una settimana partirò per New York e poi m’imbarcherò per la Francia. Voglio passare qualche giorno sulla riviera prima che finisca l’estate. Tutti mi dicono che è troppo presto per andare in Francia, ma cos’ho da perdere? Pare che non sia cambiato nulla a parte il razionamento.» Le strizzò l’occhio. Aveva vent’anni più di lei, ma non li dimostrava. Probabilmente era l’uomo più bello della città, e lo sapeva. «Vuoi venire con me?» Per quanto fosse attraente, non la affascinava più. «No, grazie.» Faye gli rivolse un sorriso e agitò l’indice. «Non ricominciare. Ti sei comportato bene per tutto il film, Chris.» «Certo, dovevamo lavorare. Questo è diverso.» «Davvero?» Stava per dirgli qualcosa di scherzoso, ma improvvisamente il caos intorno a loro si accentuò e un fattorino accorse sul set gridando qualcosa che Faye non riuscì a capire. Per un momento, un’espressione di panico apparve su molte facce, e poi fu sostituita dallo choc e dalle lacrime; ma Faye non aveva ancora sentito cos’era successo. Tirò ansiosamente la manica di Chris Arnold. «Ha detto...? Cosa?...» Chris stava parlando con qualcuno alla sua destra e Faye si sforzò di sentire nonostante il baccano. «Mio Dio...» Chris si rivolse a lei con aria sbalordita, poi l’abbracciò di nuovo e parlò con voce tremante. «È finita, 38
Faye... la guerra è finita. I giapponesi si sono arresi.» Era terminata in Europa pochi mesi prima, e adesso era finita davvero. Le lacrime le salirono agli occhi; ricambiò l’abbraccio piangendo. All’improvviso tutti, sul set, ridevano e piangevano, altri erano sopraggiunti; e si stavano aprendo altre casse di champagne. Tutti gridavano: «È finita! È finita!» Nessuno pensava più al film, ma alla guerra. Passarono diverse ore prima che Faye lasciasse il set per tornare alla sua casa di Beverly Hills, e ormai la sofferenza della conclusione del film era svanita. Era stata eclissata dalla gioia per la fine della guerra. Era sbalorditivo. Faye aveva ventun anni quando era stata bombardata Pearl Harbor, e adesso ne aveva venticinque: era una donna al culmine della carriera. Ogni anno si diceva che quello era stato il vertice. Non poteva immaginare altri progressi. Com’era possibile? Eppure era avvenuto. I ruoli erano diventati sempre più importanti, gli elogi più entusiastici, i compensi più incredibili. L’unico neo era dovuto al fatto che i suoi genitori erano morti l’anno prima. Suo padre di cancro, sua madre in un incidente d’auto, su una strada ghiacciata della Pennsylvania presso Youngstown. Aveva cercato di convincerla a venire a vivere in California con lei, dopo la morte del padre; ma sua madre non aveva voluto abbandonare la casa. E adesso non aveva nessuno. La casetta di Grove City, in Pennsylvania, era stata venduta l’anno prima. Non aveva fratelli né sorelle. Faye Price era sola, a parte la fedele coppia di domestici che lavorava per lei nella piccola e bella casa acquistata a Beverly Hills. Ma si sentiva sola raramente: c’era tanta gente intorno a lei. Amava il lavoro e gli amici. Eppure, era strano non avere una famiglia, adesso. Non apparteneva a nessuno. Era ancora stupita del suo successo, e la sua vita era divenuta così lussuosa in un tempo tanto breve. Anche a ventun anni, quand’era scoppiata la guerra, la sua vita era stata diversa. Ma adesso, dopo l’ultima tournée per le truppe di due anni prima, la sua esistenza si era assestata. Aveva comprato la casa, aveva fatto sei film in due anni e, sebbene avesse avuto intenzio39
ne di andare ancora in tournée, non ne aveva avuto il tempo. La vita sembrava un vortice interminabile di prime e di foto pubblicitarie e di feste per la stampa; e quando non era impegnata così, si alzava alle cinque del mattino per andare a girare un film. Il prossimo sarebbe incominciato tra cinque settimane, e già leggeva il copione per ore ogni sera prima di addormentarsi; adesso che aveva appena finito l’altro film poteva mettersi all’opera con impegno. L’agente le aveva detto che la nuova parte le avrebbe fruttato sicuramente un Oscar. Ma Faye rideva sempre quando lo sentiva dire così, era così buffo... però ne aveva già vinto uno e per altre due volte era stata candidata. Abe insisteva che il prossimo film sarebbe stato grandioso, e Faye gli credeva. Per lei era diventato una figura paterna. Girò con la macchina in Summit Drive, superò Pickfair e la casa dei Chaplin, e dopo un momento arrivò a casa sua. L’uomo che passava il tempo nella piccola portineria e accorreva ad aprire il cancello per le consegne, per gli amici o per lei, l’accolse con un sorriso. «È stata una bella giornata, Miss Price?» L’uomo era vecchio e canuto, e grato di avere quel posto. Lavorava per lei da più di un anno. «Certo, Bob. Ha sentito la notizia?» Il custode la guardò senza capire. «La guerra è finita!» Lo fissò raggiante, con le lacrime agli occhi. Bob era così vecchio che non aveva partecipato alla prima guerra mondiale, ma vi aveva perso l’unico figlio. E questa nuova guerra gli ricordava tutti i giorni di angoscia che lui e la moglie avevano vissuto durante l’altra. «È sicura, signorina?» «Sicurissima. È finita.» Faye gli strinse la mano. «Dio sia ringraziato», disse il vecchio con voce tremante, e girò la testa per asciugarsi gli occhi. Ma non si scusò quando si voltò di nuovo verso di lei. «Dio sia ringraziato.» Faye avrebbe voluto baciarlo per quei sentimenti comuni a entrambi, ma gli sorrise e attese che le aprisse il bel cancello di ottone sempre tirato a lucido. 40
«Grazie, Bob.» «Buonanotte, Miss Price.» Bob sarebbe venuto più tardi alla casa per cenare in cucina con il maggiordomo e la cameriera, ma Faye non l’avrebbe rivisto fino a che fosse uscita l’indomani. E se avesse deciso di restare in casa non l’avrebbe visto affatto. Bob lavorava soltanto di giorno e di notte era Arthur, il maggiordomo, a farle da autista, e apriva il cancello con la sua chiave. Di solito Faye preferiva guidare da sola. Aveva comprato una bellissima Lincoln Continental blu decapottabile, e la usava per spostarsi in Los Angeles, tranne di sera quando era Arthur a portarla in giro con la Rolls. All’inizio le era sembrato incredibile acquistarla, e s’era quasi sentita imbarazzata nell’ammettere che era sua: ma era così splendida che non aveva saputo resistere alla tentazione. E provava ancora un certo brivido quando saliva a bordo, con il ricco odore di cuoio e i folti tappetini grigi; persino le parti in legno della sontuosa macchina erano uniche. E così, alla fine, Faye s’era decisa. A venticinque anni il successo non la imbarazzava più come all’inizio. Ne aveva diritto, «più o meno», si diceva scherzando, e del resto non faceva male a nessuno. Non aveva nessuno per cui spendere il suo denaro e ne guadagnava tanto. Era difficile sapere che cosa farsene. Ne aveva investito una parte seguendo il consiglio del suo agente, ma il resto attendeva d’essere speso; e Faye era assai meno prodiga della maggior parte delle dive dei suoi tempi. Quasi tutte ostentavano smeraldi e diamanti, compravano tiare che non potevano permettersi per esibirle alle prime dei film altrui, e sfoggiavano pellicce di ermellino e di cincillà. Faye era molto più sobria, sebbene avesse alcuni abiti bellissimi che le piacevano e due o tre pellicce lussuose. C’era una giacca di volpe bianca che adorava e che la faceva sembrare un’incantevole eschimese bionda. L’aveva indossata l’inverno precedente a New York, e aveva sentito la gente prorompere in esclamazioni di stupore al suo passaggio. E poi c’era una pelliccia d’ermellino color cioccolato scuro che aveva comprato in Francia, e un visone molto pra41
tico «per tutti i giorni», pensò sorridendo mentre fermava la Lincoln davanti alla casa. Com’era cambiata la sua vita, da quando era piccola. Aveva sempre desiderato possedere un secondo paio di scarpe per «vestirsi bene», ma a quei tempi i suoi genitori erano poverissimi. La Depressione li aveva colpiti duramente ed entrambi erano rimasti a lungo disoccupati. Suo padre aveva finito per fare lavoretti d’ogni genere e per odiare la vita; la madre era riuscita finalmente a trovare un impiego come dattilografa. Ma a Faye era sembrata un’esistenza così squallida. Per questo il cinema le appariva tanto magico. Era l’evasione ideale. Risparmiava più che poteva, e poi andava a sedersi nella sala buia per seguire a bocca aperta ogni film. Forse era a questo che pensava inconsciamente quando era andata a New York a cercar lavoro come fotomodella... e adesso era lì, e saliva i tre gradini di marmo rosa della sua casa di Beverly Hills. Il solenne maggiordomo inglese le aprì la porta con un sorriso. Era affascinato dalla «giovane signorina», come la chiamava quando parlava di lei alla moglie. Era la miglior datrice di lavoro che avessero mai avuto, e anche la più giovane. E non aveva mai preso le «abitudini di Hollywood». Non era piena di sé, e con loro era sempre gentile e premurosa. La casa non era un peso: c’era molto poco da fare. Faye non dava molti ricevimenti, era quasi sempre impegnata a girare: e bastava che tenessero tutto in ordine, un compito che Arthur ed Elizabeth svolgevano con piacere. «Buonasera, Arthur.» «Miss Price.» Il maggiordomo assunse un’aria molto ufficiale. «È una notizia splendida, vero?» Aveva immaginato che Faye l’avesse saputa e ne aveva trovato la conferma nel suo sorriso raggiante. «Senza dubbio.» Faye sapeva che i due coniugi non avevano figli per cui preoccuparsi; tuttavia avevano parenti in Inghilterra che avevano molto sofferto, e Arthur era sempre in pensiero per loro. Parlava della RAF come fosse una manifestazione divina. Ogni tanto avevano parlato della guerra nel Pacifico; e adesso tutto era finalmente terminato. Men42
tre Faye entrava nello studio e sedeva alla piccola scrivania inglese per aprire la posta, si chiese quanti degli uomini che aveva visto durante le tournée e ai quali aveva stretto la mano erano ancora vivi. Quel pensiero le fece salire le lacrime agli occhi, e si voltò a guardare il giardino perfettamente curato e la piscina. Com’era difficile immaginare l’olocausto, le nazioni distrutte, i morti. Si chiese, come faceva spesso, se Ward era tra i caduti. Non aveva mai avuto sue notizie; eppure, nel corso degli anni, non l’aveva mai dimenticato completamente. E spesso, quando pensava a lui, provava il rimorso di non essere andata ancora in tournée; ma non ne aveva mai avuto il tempo. Non aveva mai tempo, ultimamente, dopo la morte dei genitori e le esigenze della carriera. Tornò alla scrivania e sfogliò la corrispondenza, cercando di allontanare dalla mente i volti che appartenevano al passato. Ma nel presente c’era così poco che la occupasse, a parte il lavoro. L’anno prima aveva avuto una relazione seria con un regista che aveva il doppio della sua età, e aveva finito per capire che aveva amato più le sue opere di lui. Aveva amato sentirlo parlare di ciò che faceva; ma dopo un po’ non era rimasto più nulla di esaltante, e così s’erano lasciati. Da allora non c’era stato più un legame impegnativo nella sua vita. Faye non era abituata ai soliti amori hollywoodiani, e non s’era mai messa con qualcuno se non gli voleva bene sinceramente. Stava quasi sempre sola ed evitava la pubblicità per quanto era possibile. Per una diva famosa conduceva un’esistenza molto tranquilla; ma quando Abe, il suo agente, le rimproverava di «nascondersi» troppo, ribatteva che non avrebbe potuto lavorare tanto se non fosse rimasta a casa a studiare e a prepararsi, e questo era appunto ciò che intendeva fare nelle cinque settimane successive, anche se Abe insisteva perché uscisse, si facesse vedere e si divertisse con i colleghi. Faye, invece, aveva promesso di andare a San Francisco per qualche giorno a trovare un’amica, un’attrice anziana che s’era ritirata a vita privata e che aveva conosciuto all’inizio della carriera. E durante il viaggio di ritorno contava 43
di fermarsi a trovare altri amici a Pebble Beach. E poi aveva accettato di passare un fine settimana con gli Hearst nella grande tenuta di campagna dove c’era persino uno zoo; quindi sarebbe tornata a casa per riposare, studiare e leggere. Non c’era nulla che le piacesse più di oziare al sole in riva alla piscina per aspirare il profumo dei fiori e ascoltare il ronzio delle api. Faye chiuse gli occhi a quel pensiero e non sentì Arthur che entrava in punta di piedi. Lo udì schiarirsi la gola, e aprì le palpebre. Arthur non si sentiva mai, quando entrava. Camminava con un passo felino. Adesso le stava davanti, a tre metri dalla scrivania, in marsina, calzoni a righe e cravatta inamidata, e reggeva un vassoio d’argento con una tazza di tè. Faye aveva acquistato personalmente il servizio a Limoges, e lo trovava molto grazioso. Era d’un bianco puro, con qualche minuscolo fiore azzurro sparso a caso. Quando Arthur posò la tazza con uno dei tovaglioli di lino bianco italiano che lei aveva comprato a New York prima della guerra, Faye vide che Elizabeth le aveva mandato anche un piattino di biscotti. Normalmente, Faye non si sarebbe concessa quello strappo alla dieta, ma mancavano cinque settimane all’inizio del prossimo film: quindi, perché no? Sorrise ad Arthur che s’inchinò e lasciò in silenzio la stanza mentre lei girava lo sguardo sulle cose che amava, gli scaffali carichi di libri vecchi e nuovi, i vasi pieni di fiori, le sculture che aveva incominciato a comprare qualche anno prima, il bellissimo tappeto di Aubusson rosa e celeste, i mobili inglesi scelti con tanta cura, i pezzi d’argento che Arthur lustrava fino a farli brillare; e al di là della porta poteva vedere l’incantevole lampadario francese di cristallo appeso nell’atrio, la sala da pranzo con il tavolo inglese, le sedie Chippendale e un altro lampadario. Era una casa che le dava piacere ogni giorno, non solo per la bellezza dei suoi tesori, ma anche per il contrasto con la povertà in cui era cresciuta. Ogni oggetto sembrava più prezioso, dai candelieri d’argento ai pregevoli pezzi antichi. Ognuno era un simbolo del suo successo. La casa comprendeva anche un bel soggiorno, con un cami44
no di marmo rosa e delicate poltroncine francesi. Faye aveva mescolato lo stile inglese a quello francese, pezzi moderni e antichi, due splendidi quadri impressionisti che erano dono di un caro, carissimo amico. E una piccola, elegante scalinata conduceva al piano di sopra. Lì, la sua camera da letto era tutta specchi e seta bianca, come nelle sue fantasie di bambina innamorata del cinema. Sul letto c’era una coperta di volpe bianca, cuscini di pelliccia sul divano, un’altra pelliccia bianca gettata sulla chaise longue; il camino era di marmo bianco identico a quello dello spogliatoio a specchi. Il bagno era anch’esso tutto bianco, di marmo e piastrelle. C’era un altro salottino, che Faye usava spesso la notte quando studiava un copione o scriveva una lettera a un amico. Ed era tutto. Una minuscola gemma perfetta. C’erano gli alloggi per la servitù dietro la cucina, al piano terreno, e un enorme garage con una stanza dove abitava Bob, il custode. Poi c’erano gli ampi giardini, una grande piscina con un piccolo spogliatoio e un bar per gli amici. Lì aveva tutto ciò che desiderava, un mondo a sé, come diceva spesso. Ormai le dispiaceva allontanarsene, ed era quasi pentita di aver promesso di andare a San Francisco la settimana successiva per far visita alla vecchia amica. Tuttavia quando vi andò ne fu soddisfatta. Harriet Fielding era stata una famosa attrice di Broadway, anni prima, e Faye l’ammirava molto. Harriet le aveva insegnato parecchio, e adesso Faye le parlò del suo nuovo ruolo. Senza dubbio sarebbe stata una vera sfida. Il protagonista maschile aveva fama d’essere un tipo difficile. Faye non aveva mai lavorato con lui e non era molto entusiasta. Si augurava di non aver commesso un errore accettando la parte, ma Harriet sosteneva che aveva fatto bene. Era la parte più impegnativa che Faye avesse mai avuto. «È proprio questo che mi spaventa!» Faye rise con la vecchia amica mentre ammiravano la Baia. «E se facessi fiasco?» Era come avere di nuovo una madre con cui confidarsi, seb45
bene Harriet fosse molto diversa da quella che era stata la sua vera madre. Era più sofisticata e mondana e conosceva meglio il lavoro di Faye. Margaret Price non aveva mai compreso veramente ciò che faceva la figlia e il mondo in cui era entrata: ma era stata fiera di lei. S’era vantata con tutti, e Faye s’era commossa nel vederla tanto entusiasta, ogni volta che tornava a casa. Ma adesso la casa non c’era più, e nella sua cittadina natale non c’era nessuno che le stesse a cuore. C’era Harriet, che per lei era importante. «Dico sul serio. E se facessi schifo?» «Innanzi tutto non lo farai. E in secondo luogo, anche se fosse un fiasco come può capitare a tutti, ti riprenderai e la prossima volta farai meglio. Anzi, molto meglio. Cosa ti succede? Prima non hai mai avuto paura, Faye Price.» Harriet sembrava irritata, ma Faye sapeva che era una commedia. «Studia bene la parte e te la caverai benissimo.» «Spero che tu abbia ragione.» Harriet borbottò, in risposta, e Faye sorrise. La vecchia amica aveva il potere di confortarla. Per cinque giorni passeggiarono sulle colline di San Francisco e parlarono un po’ di tutto: la vita, la guerra, le loro carriere, gli uomini. Harriet era una delle poche persone con cui Faye si confidava veramente: era così saggia e spiritosa. Era una donna eccezionale, e Faye era felice di averla incontrata. Quando la conversazione si imperniò sugli uomini, Harriet le chiese per l’ennesima volta perché non si decideva a sistemarsi con qualcuno. «Non trovo mai l’uomo giusto, credo.» «Qualcuno dovrà pur esserci.» Harriet la scrutò, attenta. «Hai paura?» «Forse. Ma davvero, credo che nessuno fosse l’uomo adatto. Posso avere da loro tutto ciò che voglio, orchidee, gardenie, inviti a feste favolose, regali costosi; ma non è mai stato questo ciò che desidero veramente. Non mi sembra reale. Non mi è mai sembrato reale.» «Grazie a Dio.» Era una delle ragioni per cui Harriet la trovava simpatica. «Non è reale. Sei sempre stata abbastanza intelligente per capirlo. Ma a Los Angeles ci sono anche altri uomi46
ni, oltre ai simulatori e ai playboy.» Tuttavia entrambe sapevano che, con il suo aspetto e la sua posizione di diva, Faye attirava a schiere quelli che Harriet chiamava «i cacciatori di splendore». «Forse non ho avuto il tempo d’incontrare l’uomo giusto.» E la cosa strana era che Faye non riusciva a immaginare di poter vivere con uno di quegli uomini, neppure con Gable. Voleva una versione più sofisticata degli uomini che aveva conosciuto a Grove City: il tipo che avrebbe spalato la neve in una fredda mattina d’inverno e avrebbe tagliato un albero di Natale per i figli, e sarebbe uscito con lei per fare lunghe passeggiate o si sarebbe seduto accanto al fuoco, o avrebbe camminato con lei in riva a un lago d’estate... qualcuno che fosse reale, qualcuno con cui potesse confidarsi, qualcuno che anteponesse lei e i figli a tutto, persino al proprio lavoro, e non qualcuno che pensasse di agganciarsi al carro trionfale d’una diva e di ottenere una parte importante in un nuovo film. Questo pensiero le ricordò il film che doveva girare e chiese di nuovo consiglio a Harriet su alcune sottigliezze del copione e sulle tecniche che intendeva provare. Le piaceva essere innovativa nella recitazione. Dato che per ora non doveva creare una casa e una famiglia, il meno che poteva fare era riversare tutte le energie nella carriera; e finora l’aveva fatto con enorme successo, come sapeva il mondo intero. Ma Harriet si rammaricava ancora perché non era comparso l’uomo giusto. Sentiva che avrebbe fatto affiorare in Faye una dimensione nuova, una dimensione capace di esaltarla come donna e come attrice. «Verrai a vedermi sul set?» Faye si rivolse a lei con aria supplichevole. Ma Harriet sorrise e scosse la testa. «Sai quanto lo detesto, Faye.» «Ma ho bisogno di te.» C’era un’ombra di solitudine negli occhi di Faye. Era la prima volta che Harriet la vedeva e batté la mano sul braccio della giovane amica per rassicurarla. «Anch’io ho bisogno della tua amicizia. Ma non ti sono necessari i miei consigli, Faye Price. Hai più talento di quanto io ne abbia mai avuto. Te la caverai benissimo. Lo so. E se venissi sul set ti distrarrei.» Era la prima volta dopo mol47
to tempo che Faye sentiva la necessità d’un appoggio morale sul set; ed era ancora incerta quando lasciò Harriet a San Francisco, più tardi del previsto, e incominciò il viaggio sulla strada costiera verso la casa di campagna degli Hearst e poi oltre: e per tutto quel tempo continuò a pensare a Harriet. Per qualche ragione che non capiva si sentiva più sola di quanto le fosse accaduto in molti anni. Sentiva la mancanza di Harriet, della sua vecchia casa in Pennsylvania, dei genitori. Per la prima volta dopo molto tempo aveva l’impressione che mancasse qualcosa alla sua vita, anche se non riusciva a immaginare cosa fosse. Cercò di convincersi che era nervosa per la nuova parte, ma c’era di più. Non c’era un uomo nella sua vita, ormai da tempo, e Harriet aveva ragione: avrebbe dovuto sistemarsi. Ma con chi? Non c’era nessuno che l’attraesse, nessuno dal quale sarebbe voluta ritornare, e le feste nella tenuta degli Hearst le sembravano più vuote che mai. C’erano dozzine di ospiti come sempre e svaghi divertenti; ma all’improvviso le sembrava che non vi fosse sostanza nella sua vita e nelle persone che conosceva. Le sole cose importanti erano il suo lavoro e le due persone che le erano più care: Harriet Fielding, che abitava a ottocento chilometri di distanza, e il suo agente Abe Abramson. Alla fine, dopo essere stata costretta a sorridere per giorni e giorni, fu un sollievo tornare a Los Angeles. E quando arrivò, salì nel bianco splendore della sua stanza e si sentì più felice di quanto lo fosse da settimane. Era meraviglioso essere a casa. Le sembrava più bella della grandiosa tenuta degli Hearst. Si buttò sulla coperta di volpe bianca con un sorriso felice, si sfilò le scarpe, alzò gli occhi verso il piccolo, grazioso lampadario, e pensò affascinata al nuovo ruolo. Che importava se nella vita non c’era un uomo? Aveva il suo lavoro che la rendeva felice. Per un mese studiò giorno e notte. Imparò ogni battuta del copione, le sue e anche quelle degli altri. Provò diverse sfumature, passò giorni interi passeggiando nel giardino e parlando a se stessa mentre s’impegnava per diventare la donna 48
che doveva interpretare. Nel film, il marito la spingeva alla follia e le portava via il figlio; lei cercava di uccidere se stessa e poi lui, e a poco a poco si rendeva conto di ciò che l’uomo le aveva fatto. Alla fine lo dimostrava, recuperava il figlio e uccideva il marito. Quel gesto finale di vendetta era molto importante per Faye. Il pubblico si sarebbe disaffezionato? L’avrebbe amata di più? Oppure no? Sarebbe riuscita a conquistarlo? Questo significava tutto per lei. La mattina dell’inizio delle riprese, Faye si presentò allo studio in tempo, con il copione in una borsa di coccodrillo rosso, il beauty case uguale, una valigia piena delle cose che teneva ad avere con sé quando girava, ed entrò nel camerino con quel suo fare tranquillo che rallegrava tanti ed esasperava chi non poteva competere con lei. Faye Price era soprattutto una professionista e una perfezionista. Ma non pretendeva dagli altri nulla che non esigesse da se stessa. Una cameriera stipendiata dallo studio aveva l’incarico di badare agli abiti di Faye e al suo camerino. Alcune attrici si portavano la cameriera personale, ma Faye non riusciva a immaginare lì Elizabeth e perciò la lasciava a casa. La dipendente dello studio le andava bene. Questa volta le avevano assegnato una simpatica negra che aveva già lavorato con lei. Era efficiente e Faye aveva sempre apprezzato il suo spirito. La donna lavorava per lo studio da anni, e le raccontava certi aneddoti che la facevano ridere fino alle lacrime. Perciò, quella mattina, entrambe furono liete di ritrovarsi. La cameriera appese gli abiti di Faye, sistemò i cosmetici e non toccò la cartella perché ricordava che a Faye non piaceva che altri maneggiassero il suo copione. Le servì il caffè con la giusta dose di latte e alle sette del mattino, quando arrivò il parrucchiere per pettinare Faye, le portò un uovo à la coque e una fetta di pane tostato. Tutti sapevano che Pearl sapeva fare miracoli sul set e si prendeva cura delle «sue dive», ma Faye non ne approfittava, e Pearl gliene era grata. «Pearl, finirai per viziarmi», disse Faye mentre il parrucchiere si metteva al lavoro. 49
«È proprio quello che voglio, Miss Price.» Pearl sorrise raggiante. Le piaceva lavorare con quella ragazza. Era una delle migliori, e lo diceva sempre alle sue amiche. Faye aveva una dignità indescrivibile, ma aveva anche spirito e calore umano... e un bellissimo paio di gambe. Dopo due ore i capelli erano a posto, e Faye aveva indossato l’abito blu da scena. Il trucco era esattamente come aveva richiesto il regista, e Faye si teneva pronta. Era incominciato il solito movimento. Le macchine da presa venivano spinte di qua e di là, le segretarie di produzione erano in attesa, il regista parlava con gli elettricisti e quasi tutti gli attori erano arrivati, eccetto il protagonista maschile. Faye sentì qualcuno borbottare «come al solito» e si chiese se lui lavorava sempre così. Sedette con un sospiro. Se fosse stato necessario avrebbero girato una scena che non richiedeva la presenza dell’attore; ma non prometteva bene per i prossimi mesi, se era in ritardo il primo giorno. Faye si stava guardando le severe scarpe blu assegnatele dalla costumista quando ebbe la strana sensazione che qualcuno la fissasse. Alzò lo sguardo e scorse il volto abbronzato di un bell’uomo dai capelli biondi e dagli occhi azzurri. Immaginò che fosse uno degli attori del film e che volesse presentarsi prima dell’inizio. Gli sorrise con disinvoltura, ma il giovane non ricambiò il sorriso. «Non si ricorda di me, vero, Faye?» Per un attimo lei provò la sensazione di disorientamento di ogni donna quando si trova di fronte a un uomo che dà l’impressione di conoscerla bene anche se lei non lo ricorda. Conosco davvero quest’uomo? Ho dimenticato la sua faccia? Possibile? Lui restò a fissarla, con un’intensità che quasi la spaventava. C’era un vago ricordo in fondo alla sua mente, ma non riusciva a identificarlo. Aveva già recitato con lui? «Non c’è motivo perché mi ricordi.» La voce era calma, gli occhi seri e delusi; e Faye si sentì a disagio. «Ci siamo incontrati a Guadalcanal due anni fa. Lei diede uno spettacolo, e io ero l’aiutante del comandante.» Oh, mio Dio... Faye spalancò gli occhi e all’improvviso ricordò tutto... lo stesso volto, la loro conversazione, la 50
giovane infermiera che lui aveva sposato e che era morta... Si fissarono mentre riaffluivano i ricordi. Come aveva potuto dimenticarlo? Il suo volto l’aveva ossessionata per mesi. Ma non aveva immaginato di rivederlo. Quando si alzò e gli tese la mano, le sorrise. Per tanto tempo s’era domandato se si sarebbe rammentata di lui. «Bentornato, tenente.» Lui le rivolse un saluto militare e un lieve inchino, e un’espressione maliziosa gli si affacciò negli occhi. «Adesso sono maggiore.» «Mi scusi.» Era un sollievo sapere che era ancora vivo. «Tutto bene?» «Certo.» Le rispose così in fretta che Faye si chiese se era vero. Ma per la verità aveva un aspetto magnifico. Poi ricordò dov’erano e che il film stava per cominciare. Chissà se era arrivato il protagonista. «Cosa ci fa qui?» «Vivo a Los Angeles, ricorda? Gliel’avevo detto...» Sorrise. «E le avevo detto che sarei venuto a trovarla allo studio.» Faye sorrise. «Di solito mantengo le promesse, Miss Price.» Era facile crederlo. E aveva un’aria audace e tuttavia controllata, come un magnifico stallone trattenuto dalle redini. Faye sapeva che doveva avere ventotto anni e aveva perduto l’aria da ragazzo. Era un uomo. Ma Faye pensava ad altro... all’attore che non era ancora arrivato. Era imbarazzante rivederlo lì per la prima volta. «E come ha fatto a entrare, Ward?» Ricordava ancora il nome, e gli rivolse la domanda con un sorriso gentile. La luce maliziosa gli si riaccese negli occhi. «Ho unto qualche rotella, ho detto che sono un suo vecchio amico... la guerra... le decorazioni... Guadalcanal... insomma, il solito.» Ora Faye rideva. Lui aveva trovato il modo di entrare abusivamente, ma perché? «Le avevo detto che desideravo rivederla.» Ma non le disse quante volte aveva pensato a lei negli ultimi due anni. Mille volte avrebbe voluto scriverle, ma non l’aveva fatto. Forse buttavano via le lettere degli ammirato51
ri, e comunque, dove avrebbe inviato la lettera? A Faye Price, Hollywood, USA? Aveva deciso di attendere fino a che fosse rientrato in patria, se mai fosse rientrato, e c’erano stati momenti in cui ne aveva dubitato. Molti momenti. E adesso era lì. Era come un sogno, guardarla e ascoltarla. Aveva ricordato la voce in tutti i suoi sogni; quella voce profonda e sensuale gli era rimasta nella mente per due anni. «Quando è tornato?» Ward decise di essere sincero. «Ieri. Sarei venuto subito, ma prima avevo diverse cose da sbrigare.» Vedere i suoi legali, firmare documenti. La casa gli sembrava sempre troppo grande, e alloggiava in albergo. «Bene, capisco.» Ma Faye era lieta che adesso fosse lì, era lieta che fosse sopravvissuto e fosse tornato in patria. Era l’esempio vivente di tutti gli uomini che aveva incontrato in tournée. Le stava davanti come in un sogno lontano... l’aveva incontrato in una giungla due anni prima... e adesso era lì e le sorrideva, senza uniforme, come tutti gli altri; ma c’era in lui qualcosa di speciale, qualcosa che prima non aveva mai conosciuto. Poi arrivò il protagonista maschile, e sul set tutto sembrò esplodere. Il regista cominciò a ruggire con tutti e Faye dovette iniziare la prima scena. «Sarà meglio che vada, Ward. Devo lavorare.» Per la prima volta nella vita si sentiva incerta tra il suo lavoro e un uomo. «Posso stare a guardare?» Ward aveva l’aria di un bambino deluso quando lei scosse la testa. «Questa volta no. Il primo giorno è sempre difficile per tutti. Tra qualche settimana, quando saremo più rilassati.» A Ward quella risposta piacque. Piacque a entrambi. «Tra qualche settimana»... come se avessero tutto il tempo del mondo e un futuro in comune. Chi era quell’uomo? si chiese Faye mentre lui la guardava intento. Dopotutto era solo uno sconosciuto. «Ceniamo insieme questa sera?» Ward bisbigliò quelle parole mentre il set si oscurava, e Faye stava per scuotere la 52
testa. Poi il regista ruggì di nuovo; Ward cercò di parlarle e lei alzò una mano. I loro occhi s’incontrarono e Faye sentì la forza di quell’uomo. Aveva combattuto una guerra, era tornato in patria, aveva perso la prima moglie ed era venuto a farle visita. Forse non le occorreva sapere altro. Almeno per ora. «D’accordo», mormorò, e Ward le chiese dove abitava. Faye sorrise e scrisse l’indirizzo, imbarazzata all’idea che lui vedesse il lusso in cui viveva. Era una casa meno splendida di quella che avrebbe potuto permettersi, ma senza dubbio lui sarebbe rimasto impressionato. Non c’era tempo per fissare un appuntamento altrove. Gli porse il foglietto, gli fece un cenno di commiato. Cinque minuti dopo venne presentata al protagonista, un uomo poderoso, affascinante e molto bello. Ma Faye si accorse, mentre lavoravano insieme per ore, che gli mancava qualcosa... il calore umano, la gentilezza... Cercò di spiegarlo a Pearl, più tardi, nel suo camerino. «Sì, so cosa vuol dire, Miss Price. Gli mancano due cose. Cuore e cervello.» Faye scoppiò a ridere e comprese che era così. Ecco: il primo attore non era intelligente. Era pieno di sé, e questo era stancante. C’era un esercito di camerieri, segretarie e tuttofare che provvedevano a tutte le sue esigenze sul set, dalle sigarette al gin. E quando finirono per quel giorno, Faye vide che la spogliava con gli occhi. Poi la invitò a cena per quella sera. «Mi dispiace, Vance, ho già un appuntamento.» Gli occhi dell’attore s’illuminarono come alberi di Natale, e Faye si sarebbe presa a calci. Anche se non avesse avuto un appuntamento per i prossimi dieci anni non sarebbe mai uscita con lui. «Domani sera?» Faye scosse la testa e si allontanò in silenzio. Non sarebbe stato facile lavorare con Vance Saint George, ma c’erano stati momenti in cui la sua interpretazione le era parsa notevole. Comunque, non pensava a Vance mentre tornava in fretta al camerino, quella sera. Erano già le sei e lei era rimasta sul set per dodici ore: ma c’era abituata. Si cambiò, augurò la buonanotte a Pearl e andò a riprendere la macchina. Tor53
nò a Beverly Hills a tutta velocità. Bob era ancora in portineria, le aprì il cancello, e Faye lasciò l’auto davanti all’ingresso senza neppure rialzare la capotte. Diede un’altra occhiata all’orologio. Ward le aveva dato appuntamento alle otto, ed erano le sette meno un quarto. Arthur le aprì la porta e Faye salì correndo la scala. «Un bicchiere di sherry, signorina?» chiese il maggiordomo, e lei si fermò sulla scala per un momento con quel sorriso che gli scaldava sempre il cuore. L’adorava, più di quanto fosse disposto ad ammettere di fronte a Elizabeth. «Qualcuno verrà per un drink alle otto.» «Bene, signorina. Devo mandarle Elizabeth a prepararle il bagno?» Arthur sapeva che a volte lei tornava esausta dal set, ma quella sera non sembrava stanca. «No, grazie, faccio da sola.» «Desidera che faccia accomodare il suo ospite in salotto, signorina?» Era una domanda retorica, e il maggiordomo rimase sorpreso quando la vide scuotere la testa. «Nel mio studio, Arthur; per favore.» Faye gli sorrise di nuovo e sparì, rammaricandosi di non aver dato appuntamento a Ward in centro. Era ridicolo fare la diva con lui, povero ragazzo. Be’, almeno era sopravvissuto alla guerra. Questo era l’importante, si disse mentre correva nello spogliatoio e spalancava gli sportelli degli armadi e poi si precipitava nel bagno candido per far scorrere l’acqua. Scelse un semplice abito di seta bianca che le stava molto bene e non era troppo vistoso, una giacca grigia intonata, un paio di orecchini di perle grigie, scarpine di seta grigia, e una borsetta di seta grigia e bianca. Tutto sommato, il completo era un po’ più elegante di quanto avesse pensato, ma non voleva offendere Ward presentandosi vestita in modo troppo casuale. Dopotutto lui sapeva chi era. L’unico problema era che lei non sapeva nulla di Ward. Indugiò per un minuto a guardare nel vuoto, perduta nei ricordi, mentre chiudeva il rubinetto. Già, era giusto. Chi era Ward Thayer, dopotutto? 54
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alle otto meno cinque, Faye era nel suo studio al piano terreno e attendeva Ward. Aveva messo l’abito di seta bianca, e la giacca grigia era buttata sulla spalliera di una sedia. Camminava nervosamente avanti e indietro, rimpiangendo di non avergli dato appuntamento altrove; ma era stato un tale choc, la sua improvvisa comparsa sul set dopo il breve incontro di due anni prima a Guadalcanal! Com’era strana la vita. Lui era tornato e adesso sarebbero andati a cena insieme, e il cuore le batteva per l’eccitazione. Ward era un uomo molto attraente e aveva qualcosa di misterioso. Il campanello interruppe le sue fantasticherie e mentre Arthur andava ad aprire Faye trasse un profondo respiro e cercò di calmarsi. Poi si ritrovò davanti all’improvviso quegli occhi di zaffiro e provò un’euforia che non sentiva da anni. Era come trovarsi su un ottovolante, solo a guardarlo. Si sforzò di mostrarsi calmissima mentre gli offriva un drink e notò quanto stava bene in borghese. Il vestito grigio gessato era semplice ma gli modellava le spalle alla perfezione; e sembrava ancora più alto. Faye trovava un po’ strano essere lì con lui, il soldato reduce dalla guerra. Ma era comunque un gesto gentile; e se non avevano nulla in comune non sarebbe stata obbligata a rivederlo. Era ancora impressionata dal fatto che s’era intrufolato sul set per vederla; e lui aveva un indubbio fascino. Ma di questo s’era già accorta quando l’aveva conosciuto a Guadalcanal. 55
«Prego, si accomodi.» Il silenzio era imbarazzante. Faye cercò qualcosa da dirgli, quando lo vide sorridere. Si guardava intorno con evidente piacere e sembrava notare tutti i piccoli dettagli della stanza, le statuette, il tappeto di Aubusson. Si alzò per guardare la collezione di libri rari che lei aveva comprato in blocco a un’asta molto tempo prima, e Faye vide un lampo nei suoi occhi. «Dove li ha trovati, Faye?» «A un’asta, qualche anno fa. Sono tutte prime edizioni e ne sono molto fiera.» Per la verità, Faye era fiera di quasi tutto ciò che possedeva. L’aveva guadagnato tutto con il lavoro; e appunto per questo era importante. «Posso vederli?» Ward girò la testa mentre Arthur entrava con i drink su un vassoio d’argento: gin and tonic per Faye e scotch on the rocks per Ward nei raffinati bicchieri di cristallo che portavano la firma di Tiffany. «Certo, guardi pure.» Faye restò a fissarlo mentre Ward prendeva due libri, ne posava uno, apriva l’altro ed esaminava il frontespizio e le pagine della vecchia edizione rilegata in pelle. Lui sorrise e la guardò con aria divertita. «Come pensavo. Erano di mio nonno. Li avrei riconosciuti dovunque.» Ward le porse un volume, indicando un ex libris. «Ci teneva moltissimo. Anch’io ne ho parecchi.» Quelle parole rammentarono a Faye che sapeva ben poco di lui; cercò di farlo parlare un po’ mentre bevevano i drink. Ma Ward restava sul vago: accennò alla passione di suo nonno per le navi, alle estati trascorse alle Hawaii. Tutto ciò che Faye riuscì a scoprire fu che vi era nata sua madre. Ward non parlò molto del padre, e Faye non poté saperne di più. «Lei invece viene dall’Est, no, Faye?» Riportava sempre la conversazione su di lei, come se i dettagli della sua vita non fossero importanti. Sembrava quasi deciso a rimanere un mistero. Era bello e posato e aveva qualcosa di terribilmente mondano. All’improvviso, Faye desiderò saperne di più. Lo avrebbe indotto a confidarsi durante la cena. Ward la osservava in silenzio, assorto. 56
«Vengo dalla Pennsylvania, ma mi sembra d’essere sempre stata qui.» Lui rise. «Hollywood fa questo effetto, credo. È difficile immaginare una vita diversa.» Rifiutò un secondo drink, diede un’occhiata all’orologio e si alzò per porgerle la giacca. «Sarà meglio andare. Ho prenotato per le nove.» Faye avrebbe voluto chiedergli dove erano diretti; ma preferì non mostrarsi curiosa. Passarono nell’atrio e lui si guardò di nuovo intorno. «Ha parecchie cose molto belle, Faye.» Sembrava che capisse la bellezza e il pregio di tutto ciò che vedeva, e riconobbe uno splendido tavolo inglese che stava accanto alla porta. Non comprendeva, invece, la ragione per cui quella casa significava tanto per Faye, dopo i tempi della povertà. «Grazie. Ho scelto tutto personalmente.» «Dev’essere stato piacevole.» Ma era stato qualcosa di più. A quel tempo, per Faye aveva significato tutto. Ora gli oggetti presenti nella sua vita sembravano meno importanti, meno reali. Era più sicura di sé. Ward la guardò negli occhi e le aprì la porta prima che Arthur avesse il tempo di aiutarli, sorrise al maggiordomo inglese, per nulla intimidito dalla sua occhiata di disapprovazione. Arthur riteneva scorretto che avesse aperto personalmente la porta, ma Ward aveva l’aria felice e spensierata mentre uscivano nella sera tiepida e profumata. Scese in fretta i gradini di marmo per raggiungere la macchina che aveva parcheggiato davanti all’ingresso, una Ford decapottabile tutta rossa piena di ammaccature e dall’aria un po’ malandrina. «Che macchina fantastica, Ward.» «Grazie. Me la sono fatta prestare per questa sera.» Era vero. «La mia è ancora ferma. Spero di riuscire a rimetterla in funzione.» Faye non gli chiese che macchina era, e salì sulla piccola Ford mentre Ward le teneva aperta la portiera. Partirono rombando e varcarono il cancello che Arthur era andato ad aprire. Ward passò oltre con un cenno amichevole. «Ha un maggiordomo molto serio», disse con un sorriso che Faye 57
ricambiò. Arthur ed Elizabeth le erano così preziosi che non avrebbe rinunciato a loro per nulla al mondo. «Forse sono un po’ viziata.» Sembrava un po’ imbarazzata e Ward sorrise. «Non c’è nulla di male, Faye. Dovrebbe piacerle.» «Mi piace», ammise impulsivamente lei, e poi arrossì mentre il vento le agitava sulle spalle i capelli biondi. Risero entrambi mentre Faye cercava di tenerli a posto. «Vuole che alzi la capotte?» chiese Ward mentre correvano verso il centro. «No, no... Sto benissimo...» Ed era vero. Le piaceva correre al fianco di quell’uomo. C’era qualcosa di meravigliosamente antiquato in ciò che stavano facendo. Come un appuntamento dei sabato sera a Grove City. Al suo fianco non si sentiva affatto una diva: si sentiva semplicemente una giovane donna e le piaceva ancor più di quanto si aspettasse. L’unica cosa che la preoccupava era che l’indomani mattina avrebbe dovuto alzarsi alle cinque, e non voleva restare fuori fino a tardi. Ward fermò la macchina davanti a Ciro’s e balzò a terra con disinvoltura mentre il portiere gli andava incontro. La faccia del negro s’illuminò nel vederlo. «Mr. Thayer! È tornato!» «Sicuro, John. E credimi, non è stato facile!» Si scambiarono una lunga stretta di mano e un sorriso caloroso. Poi il negro guardò la macchina con aria inorridita. «Mr. Thayer, che fine ha fatto la sua auto?» «È rimasta in garage, bloccata, per tutta la guerra. Spero di tirarla fuori la settimana prossima.» «Grazie a Dio... credevo che l’avesse venduta per questo catorcio.» Faye era un po’ sorpresa da quel commento sulla macchina, e lo era ancora di più per il fatto che Ward era conosciuto da Ciro’s. Il suo stupore aumentò quando entrarono. Il capocameriere per poco non pianse quando gli strinse la mano e si congratulò per il suo ritorno, e anche tutti i camerieri vennero a salutarlo. Ebbero il tavolo migliore e, dopo aver ordinato i drink, Ward la invitò a ballare. «È la donna più bella che ci sia qui, Faye.» La voce era 58
un sussurro al suo orecchio, le braccia che la cingevano erano forti. Lei sorrise. «È superfluo chiederle se ci veniva spesso.» Ward rise e la guidò sulla pista. Era il ballerino più abile che Faye avesse mai incontrato, e di secondo in secondo si sentiva sempre più stupita. Chi era in realtà? Un giovane playboy di Los Angeles? Un personaggio importante? Un attore del quale non aveva mai sentito il nome prima della guerra? Evidentemente Ward Thayer era «qualcuno», e Faye si chiedeva chi era: non voleva nulla da lui, ma era strano essere uscita in compagnia di qualcuno che conosceva appena e che aveva incontrato in un luogo tanto lontano e in modo così anomalo. «Qualcosa mi dice che lei mi nasconde un segreto, Mr. Thayer.» Si guardarono negli occhi. Lui rise e scosse la testa. «No, affatto.» «E sta bene. Chi è?» «Lo sa già. Gliel’ho detto. Ward Thayer di Los Angeles.» Ward recitò il grado e il numero di matricola. Risero di nuovo. «Questo non mi dice nulla, e lo sa. E sa un’altra cosa?» Faye si scostò leggermente per fissarlo. «La diverte, vero? Mi prende in giro, fa il misterioso. Ho la sensazione che in città tutti sappiano chi è Ward Thayer. Tutti tranne me.» «No, solo i camerieri... ecco... ero cameriere anch’io...» Ma all’improvviso vi fu un movimento alla porta ed entrò nella sala una donna dall’abito nero attillatissimo e i fiammanti capelli rossi. Era Rita Hayworth, ed era venuta, come faceva spesso, in compagnia del marito. Rita e Orson Welles avrebbero ballato un po’, in modo che lui potesse metterla in mostra, ed era facile capire perché era così fiero della moglie. Faye pensò che fosse la donna più spettacolosamente bella che avesse mai visto. In passato l’aveva incontrata solo un paio di volte, da lontano, e quando la sfiorò nel ballare trattenne il respiro, impressionata. Poi, come se avesse sentito, Rita si fermò e si voltò di scatto. Faye arrossì fino alla 59
radice dei capelli color pesca; stava per scusarsi quando Rita Hayworth si mosse prontamente, le sottrasse Ward e l’abbracciò stretto stretto. Orson Welles, fermo a pochi passi di distanza, li guardava incuriosito. Rita gettò un gridolino di gioia e si staccò da Ward. «Mio Dio, Ward, ce l’hai fatta! Cattivo, in tanti anni non ci hai fatto sapere se eri vivo o morto. Tutti mi chiedevano di te e non sapevo cosa rispondere...» Lo abbracciò di nuovo e chiuse gli occhi, sfoggiando quel sorriso che faceva piangere di desiderio gli uomini. Faye osservava la scena. Rita non l’aveva neppure notata: era troppo felice di rivedere Ward. «Bentornato, cattivone!» Sorrise e sbirciò Faye, rivolgendole un cenno distratto. Poi un lampo d’interesse le passò negli occhi quando la riconobbe e tornò a rivolgersi a Ward. «Ah, capisco...» disse scherzosamente. «Nessuno è ancora al corrente della novità, Mr. Thayer?» «Andiamo, Rita, santo cielo... sono tornato da due giorni.» «Non hai perso tempo.» Rita sorrise, a lui e a Faye. «Che piacere rivederti.» Erano parole vuote pronunciate per educazione: non erano mai state amiche. «Abbi cura del mio caro Ward.» Gli accarezzò la guancia e tornò da Wells, che salutò da lontano. Mentre marito e moglie si avviavano verso un tavolo d’angolo, Faye si sentiva sul punto di esplodere. Ward la riaccompagnò a sedersi e bevve un sorso del drink mentre lei gli stringeva l’altro braccio. «Bene, maggiore. E adesso fuori la verità.» Lo fissò con collera simulata; Ward rise e posò il bicchiere. «Prima che mi renda completamente ridicola, voglio sapere cosa diavolo succede. Chi è lei? Un attore? Un regista? Un gangster... Era il padrone di questo locale?» Stavano ridendo entrambi, divertiti. «E se fossi un gigolò? Non andrebbe bene?» «Che sciocchezza! Su, accidenti, me lo dica. Tanto per cominciare, come mai conosce così bene Rita Hayworth?» «Giocavo a tennis con suo marito. Per l’esattezza, li ho conosciuti qui.» 60
«Quando faceva il cameriere, giusto?» Faye rideva. Il militare anonimo incontrato a Guadalcanal sapeva essere spiritoso, ma lei moriva dalla voglia di saperne di più. Lo costrinse a guardarla negli occhi e si sforzò di restare seria. «Su, la smetta. Avevo rimorso perché le ho permesso d’invitarmi a cena e di vedere la mia casa, e invece conosce più persone importanti di quante ne conosco io.» «Io ho sentito dire che le cose stanno diversamente, mia cara.» «Oh, davvero?» Faye arrossì e si ributtò i capelli all’indietro. «E Gable?» Il rossore di lei si accentuò. «Non deve credere a tutto quel che si legge sui giornali.» «Credo solo a qualcosa. E poi l’ho sentito dire da alcuni cari amici.» «Non lo vedo da anni.» Faye assunse un’aria vaga e Ward era troppo gentiluomo per insistere. All’improvviso lo guardò di nuovo negli occhi. «Non cerchi di mettermi fuori strada, accidenti. Chi è?» Ward si tese a sussurrarle all’orecchio: «Il Cavaliere Solitario». Lei rise mentre il capocameriere veniva a portare un’enorme bottiglia di champagne e i menu. «Bentornato, Mr. Thayer. Siamo felici di riaverla con noi.» «Grazie.» Ward ordinò la cena, brindò con lo champagne e continuò a scherzare per il resto della serata, fino a quando si fermarono con la Ford davanti alla porta della casa di Faye. Allora le prese la mano. «Sinceramente, Faye, sono un militare disoccupato. Non ho un lavoro e non l’avevo prima di partire. Non ho neppure un appartamento: l’ho lasciato quando mi hanno arruolato. E da Ciro’s mi conoscono perché ci andavo spesso prima della guerra. Non voglio fingere di essere importante: non lo sono. Tu sei una diva, e sono pazzo di te dal giorno in cui ti ho incontrata ma mentirei se fingessi di essere ciò che non sono. Sono quello che pensi tu... Ward Thayer, un uomo senza casa, senza un lavoro e con una macchina prestata.» 61
Faye gli sorrise gentilmente. Se era vero, non le interessava affatto. Da molti anni non aveva trascorso una serata tanto gradevole. Le piaceva stare con lui: era intelligente, spiritoso, bello. Ballava meravigliosamente ed era spontaneo, virile ed eccitante. S’intendeva di tante cose che per lei erano impensabili ed era diverso da tutti gli uomini che aveva conosciuto. Non aveva la superficialità vuota di Hollywood, anche se tutti lo conoscevano. «Mi sono divertita molto, chiunque tu sia.» Erano quasi le due e Faye preferiva non pensare a come si sarebbe sentita al mattino. Doveva essere di nuovo in piedi tre ore dopo. «A domani sera?» Ward aveva un’aria speranzosa, ma lei gli sorrise e scrollò la testa. «Non posso, Ward. Devo lavorare. Ogni mattina sono costretta ad alzarmi alle cinque meno un quarto.» «E fino a quando?» «Fino a quando termineremo il film.» Ward si scoraggiò. Forse Faye non s’era divertita, dopotutto. Dopo due anni passati a sognarla, desiderava che si trovasse bene in sua compagnia. Desiderava uscire con lei ogni sera, invitarla e incantarla come nessuno aveva mai fatto. Non se la sentiva di attendere con pazienza tra le quinte mentre lei finiva di girare. «Diavolo, non posso aspettare tanto. Cosa ne diresti di fare una bella dormita domani notte e di uscire di nuovo con me dopodomani?» Ward guardò l’orologio. «E la prossima volta non ti terrò fuori fino a tardi. Non m’ero accorto che fosse già quest’ora.» La guardò negli occhi e disse con voce profonda e gentile: «È stato meraviglioso, Faye». Era innamoratissimo, e la conosceva appena. Ma l’aveva sognata per due anni come un ragazzetto cotto di una diva; e aveva promesso che sarebbe andato a cercarla al suo ritorno. L’aveva fatto e non intendeva lasciarla fino a che non si fosse innamorata disperatamente di lui. E Faye non sapeva che Ward Thayer otteneva ciò che voleva. Quasi sempre. Adesso la implorava con gli occhi, e lei non seppe resiste62
re. «Sta bene. Ma dovrai ricondurmi a casa entro mezzanotte, o mi trasformerò in una zucca. D’accordo?» «Lo giuro, Cenerentola...» Ward la fissò. Smaniava di baciarla, ma non osava. Era troppo presto. Non voleva che fosse un appuntamento come tutti gli altri che lei aveva avuto, con qualcuno che le metteva le mani addosso perché era bella e famosa. Per lui era molto più importante. Scese dalla macchina, andò ad aprirle la portiera e lei scese con passo leggero, porgendogli la mano. «È stata una bellissima serata, grazie.» Faye lo guardò e Ward la seguì su per i gradini di marmo rosa. Lei era quasi tentata di invitarlo a entrare per bere qualcosa; ma così non avrebbe avuto tempo per dormire e aveva bisogno almeno di un paio d’ore di sonno prima di tornare sul set. Ward si fermò sulla soglia a guardarla e le sfiorò dolcemente i capelli con le labbra, poi le sollevò il mento con una mano per scrutare gli squisiti occhi di smeraldo. «Mi mancherai moltissimo, nei prossimi due giorni.» E allora, impulsivamente, Faye annuì. «Anche tu mi mancherai, Ward...» Come le era mancato all’inizio, dopo Guadalcanal. Dopo quei pochi incontri le era entrato nel sangue come nessun altro uomo. Si sarebbe dovuta spaventare; ma era troppo splendido perché lei avesse tempo di aver paura. Soprattutto di Ward Thayer.
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l’indomani mattina Faye arrivò sul set in orario e Pearl le portò tre tazze di caffè forte. «Così avrò i capelli ritti in testa per tutto il giorno.» «Sì, cara, ma se non beve tutti i caffè si addormenterà fra le braccia di quel manichino durante una scena d’amore.» «Potrebbe succedere comunque.» Le due donne risero. Non era un segreto, già al secondo giorno di lavorazione, che non avevano una grande opinione del protagonista. S’era presentato di nuovo in ritardo e si comportava in modo atroce. Il suo camerino era troppo caldo, e quando avevano messo i ventilatori s’era lamentato perché c’era corrente. Non gli andavano l’acconciatore e il truccatore che gli avevano assegnato, e stava ancora protestando per l’illuminazione e il guardaroba quando il regista, disperato, annunciò la pausa per il pranzo. Quando Faye tornò nel suo camerino, Pearl le porse il giornale. La rubrica di Hedda Hopper rivelava tutto ciò che Faye avrebbe desiderato sapere la notte precedente. Lesse con attenzione le parole e poi rimase a fissarle per un momento per assimilarle, mentre Pearl la scrutava incuriosita. «...Il playboy erede dei milioni dei Cantieri Thayer, Ward Cunningham Thayer IV, è tornato sano e salvo dalla guerra e ha ripreso a frequentare i locali abituali. Ieri sera è andato da Ciro’s, dove ha ricevuto una calorosa accoglienza da Rita Hayworth e consorte. E sembra che al suo braccio vi fosse una nuova accompagnatrice, Faye Price, che ha già all’attivo 64
un Oscar e molti innamorati famosi, incluso uno dei nostri e vostri preferiti, come tutti sappiamo. Anzi, ci stavamo chiedendo se il vedovo solitario si sarebbe fatto avanti di nuovo, ma sembra che Thayer sia in vantaggio. Non ha perso tempo, il nostro Ward! È tornato da tre giorni appena! Faye, tra l’altro, sta lavorando in un nuovo film con Vance Saint George, e il regista Louis Bernstein avrà il suo daffare con questa combinazione... non certo grazie a Faye, possiamo aggiungere... e buona fortuna, Ward! Anzi, buona fortuna a tutti e due. Ci sono fiori d’arancio in vista? Chissà!...» «Caspita, come sono svelti, eh?» Faye sorrise a Pearl, un po’ divertita e un po’ sconcertata. «Il playboy erede dei milioni dei Cantieri Thayer...» Ora riconosceva il nome naturalmente. Il playboy erede... Non era sicura che questo le piacesse molto. Ward non doveva credere che lei volesse mettere le mani sulle sue ricchezze, e d’altra parte Faye non intendeva essere una delle sue tante avventure. All’improvviso le sembrava meno affascinante della notte prima, un po’ meno «reale». Non era come gli uomini di Grove City, dopotutto. Anzi, era ben diverso. Questo la turbava più di quanto volesse ammettere; e Pearl comprese e non insistette. Era già una giornata difficile. Vance Saint George era stato insopportabile e quando lasciarono il set alle sei di sera Faye si sentiva esausta. Non si tolse il trucco, indossò un paio di calzoni nocciola e un maglione di cashmere beige, tenne i capelli color miele sciolti sulle spalle e mise in moto la Lincoln Continental. Proprio in quell’attimo sentì un clacson suonare con insistenza dietro di lei. Guardò nello specchietto, vide la macchina rossa e sospirò. Non aveva voglia di parlare con nessuno, e tanto meno con un «playboy milionario». Lei lavorava e la notte precedente aveva dormito due ore; voleva soltanto che tutti la lasciassero in pace, incluso Ward Thayer. Anche se era un uomo attraente, lei aveva la sua vita da vivere. E adesso Ward era solo un «playboy». Lui balzò a terra, sbatté la portiera della macchina rossa e accorse con un sorriso, le braccia cariche di tuberose bian65
che e gardenie e una bottiglia di champagne. Faye scosse la testa e sorrise, assumendo un’espressione quasi disperata. «Non ha niente di meglio da fare, Mr. Thayer, che dar la caccia alle povere attrici quando finiscono di lavorare?» «Su, Cenerentola, non arrabbiarti. So che devi essere stanca morta. Ho pensato che questi potrebbero rallegrarti un po’ mentre torni a casa... a meno che io riesca a rapirti e a portarti al Beverly Hills Hotel per un drink. Ho qualche speranza?» Ward aveva una tale aria da ragazzino ansioso che per poco Faye non si lasciò sfuggire un gemito. «Chi è il tuo agente stampa, a proposito?» Faye aveva un tono un po’ irritato, e lui la fissò con un’ombra di preoccupazione. «Credo sia stata Rita. Scusami... ti dispiace molto?» Non era un segreto che Hedda Hopper detestava Orson Welles mentre era affezionata a Rita Hayworth. E anche a Ward, ma questo Faye non lo sapeva. Gli sorrise. Era impossibile restare in collera con lui. Era così schietto e generoso, così felice di vederla, e Faye doveva ammettere che, pur sapendo che era un playboy, aveva comunque un enorme fascino. Aveva uno straordinario potere d’attrazione. L’aveva avuto anche a Guadalcanal. E adesso, nel suo elemento, si notava ancora di più. Irradiava sicurezza e sex appeal, e Faye non ne era immune. «Almeno adesso so chi sei.» Ward alzò le spalle con un sorriso. «Sono chiacchiere che non significano molto e non sono neppure molto fondate, lo sai.» Non fece commenti sugli «innamorati» di cui parlava il pezzo, ma le sorrise in un modo che le toccò il cuore. Era un suo dono particolare. «Vogliamo seguire il suggerimento, Faye?» C’era qualcosa di strano nei suoi occhi e lei non lo conosceva ancora abbastanza per capire se parlava sul serio o se scherzava. «Quale?» Era così stanca che non riusciva a pensare; e Ward la guardò attentamente negli occhi prima di rispondere. «Ricordi l’allusione ai fiori d’arancio? Potremmo fare una sorpresa a tutti e sposarci.» 66
«Che idea magnifica», disse ironicamente Faye. Diede un’occhiata all’orologio e socchiuse le palpebre. «Vediamo... sono le sei e venticinque... Potrebbe andare alle otto di sera? Così la notizia uscirebbe sui giornali del mattino.» «Benissimo.» Ward girò intorno alla macchina e salì a bordo senza lasciarle il tempo di obiettare. «Bene, andiamo, piccola.» Si assestò tranquillamente sul sedile e le sorrise. All’improvviso, anche Faye trovò la cosa divertente. Dimenticò quanto fosse stanca. Per la verità era lieta di vederlo, più di quanto avesse pensato. «Vorresti dire che devo guidare io? Che razza di matrimonio sarebbe?» «Hai letto i giornali? C’era scritto che sono un playboy, no? I playboy non guidano, si fanno scarrozzare.» «Quelli sono i gigolò. Non è la stessa cosa, Ward Thayer.» Ridevano entrambi. Lui s’era avvicinato sul sedile, ma a Faye non dispiaceva. «Perché non può farsi scarrozzare anche un playboy? Sono stanco. Oggi ho avuto una giornata faticosa. Sono stato a pranzo con tre amici e abbiamo bevuto quattro bottiglie di champagne.» «Mi piange il cuore, pigraccio. Io ho lavorato da questa mattina alle sei e tu hai bevuto champagne tutto il giorno!» Faye si finse indignata, ma poi scoppiò a ridere quando un’enorme berlina si fermò per prendere a bordo Vance Saint George. «Ecco di cos’hai bisogno, Faye.» Ward aveva un tono quasi serio che la fece ridere più forte. «Una macchina come quella? Non essere ridicolo. Mi diverto a guidare personalmente.» «Non è degno di una signora.» Ward assunse un’aria virtuosa e la guardò. «E poi non è adatto alla vittima di un playboy.» «Sono la tua vittima?» «Spero che lo sarai.» Ward guardò prima l’orologio, poi lei. «A che ora ci sposiamo? Hai detto alle otto? È meglio che ci sbrighiamo... o preferisci fermarti per un drink?» 67
Lei scosse la testa, ma in modo meno convincente. «No, preferirei andare a casa, Mr. Thayer. Ricorda che lavoro e che sono esausta.» «Non capisco perché. Probabilmente ieri sera sei andata a dormire alle dieci.» «No.» Faye incrociò le braccia e sorrise. «Avevo appuntamento con un playboy milionario.» Adesso era divertente; sembrava assurdo come uno scherzo, e Faye rifiutava di prenderlo più seriamente di lui. «No!» Ward si finse scandalizzato. «Chi?» «Non ricordo il nome.» «Era simpatico?» «Più o meno. Un tremendo bugiardo, ma lo sono tutti.» «Bello?» Lei lo guardò negli occhi. «Molto.» «Ecco, hai imparato a mentire da lui. Vieni, ci sono alcuni amici che devi conoscere.» Ward la cinse con le braccia e Faye aspirò la fragranza di spezie del dopobarba, mascolino e sexy. «Beviamo qualcosa. Ti prometto che stasera ti porterò a casa presto.» «Non posso, Ward. Mi addormenterei a tavola.» «Non preoccuparti, ti pizzicherò per tenerti sveglia.» «Davvero hai appuntamento con gli amici?» Era l’ultima cosa che Faye desiderava. Voleva andare a casa. Doveva studiare diverse battute del copione e dato che Saint George recitava così male si sentiva in dovere d’impegnarsi per compensare le sue mancanze ed evitare che il film fosse un disastro. Ward scrollò la testa. «Scherzavo quando ho parlato degli amici. Noi due soli. Ti porterei a casa mia, se venissi; ma non ce l’ho.» Rise. «Questo complica le cose.» «Direi.» «Volevo andare nella casa dei miei genitori, ma è chiusa e troppo grande. Ho preso un cottage al Beverly Hills Hotel in attesa di trovare qualcosa d’altro, quindi per il momento posso offrirti solo il bar dell’albergo.» Sarebbe stato scorretto invitarla a entrare nel cottage per un drink e non ci pen68
sava neppure. Non era quel tipo di donna, anche se era una diva famosa e aveva avuto molti amanti. Aveva ancora qualcosa della ragazza per bene, e gli piaceva così. I giornali non sbagliavano molto, per quanto riguardava le sue intenzioni. «Allora? Mezz’ora, e poi ti accompagno a casa. D’accordo?» «D’accordo, d’accordo... Mio Dio, è difficile mercanteggiare con te. Sono contenta di non lavorare per te, Ward Thayer.» «Ah, piccola mia.» Lui le pizzicò la guancia. «Si potrebbe fare. Ora spostati, guido io.» Scese e andò a mettersi al volante. «Non hai bisogno della tua macchina?» «Prenderò un tassì e tornerò a prenderla dopo averti accompagnata a casa.» «Non è troppo disturbo, Ward?» Ward la guardò divertito. «No, cara. Perché non appoggi la testa sulla spalliera e non riposi fino all’albergo? Hai l’aria stanca.» A Faye piacque il tono della voce, l’espressione degli occhi, il contatto della mano che sfiorava la sua... Lo guardò tra le palpebre socchiuse mentre procedevano. «Come va il lavoro?» «Vance Saint George è insopportabile. Non so come abbia fatto ad arrivare tanto lontano.» Ward lo sapeva, ma non disse nulla. Saint George era andato a letto con tutti, maschi e femmine, e s’era fatto fare favori da tutti quanti. Ma un giorno o l’altro avrebbe finito per pagarla. «È bravo?» «Lo sarebbe, se smettesse di preoccuparsi degli spifferi e del trucco e studiasse le battute. È difficile lavorare con lui; non è mai preparato e ti fa ritardare di ore.» Faye si assestò sul sedile mentre si avvicinavano all’albergo. «Ho sentito dire che tu hai molta professionalità, Miss Price.» Ward la guardò con ammirazione. Lei sorrise. «Chi te l’ha detto?» «Oggi a pranzo ho visto Louis B. Mayer. Ha detto che sei la miglior attrice della città e gli ho dato ragione.» «Chissà come te ne intendi.» Faye rise. «Sei stato lontano quattro anni, e ti sei perso i miei film più belli.» Anche Ward rise. Era felice con lei. Felice come non lo era da anni. 69
«Sì, ma non dimenticare che ti ho vista a Guadalcanal.» La guardò con tenerezza e le toccò di nuovo la mano. «Quanti possono dire altrettanto?» Risero tutti e due, pensando alle migliaia di soldati per i quali lei aveva dato spettacolo. «Be’, lasciamo stare...» Ward fermò la macchina davanti all’albergo e saltò a terra mentre un usciere accorreva per aiutarlo. Poi andò ad aprire la portiera a Faye. Lei si guardò i calzoni. «Posso entrare così conciata?» «Faye Price?» Ward sorrise. «Potresti entrare in costume da bagno e ti bacerebbero i piedi.» «Davvero? O lo farebbero solo perché sono con Ward Thayer?» «Che assurdità.» Ma anche questa volta il capocameriere diede loro il tavolo migliore. Tre persone chiesero l’autografo a Faye; e quando uscirono un’ora dopo dall’albergo, qualcuno aveva chiamato la stampa, e un flash esplose loro in faccia. «Accidenti. Non lo sopporto.» Era irritata mentre si rifugiavano in macchina. Il fotografo li seguì. «Perché non ci lasciano in pace? Perché devono fare così?» Faye era gelosa della sua intimità, e questo le era accaduto altre volte. Ma adesso non aveva neppure una relazione con Ward. Erano al secondo appuntamento. «Fai notizia, piccola. Non c’è rimedio!» Ward si chiese se le dispiaceva sembrare legata a lui; forse c’era un altro. Non ci aveva pensato, ma era logico. E mentre l’accompagnava a casa affrontò con impaccio l’argomento. «Non... non rovinerà qualcosa per te, vero, Faye?» Sembrava preoccupato, e lei sorrise della sua espressione seria. «Non come intendi tu. Ma non mi piace andare in giro a far sapere come passo le mie ore di libertà.» Aveva ancora l’aria irritata, e anche stanca. «Allora dovremo essere discreti.» Faye annuì; ma tutti e due dimenticarono l’impegno la sera seguente, quando Ward andò a prenderla con la sua macchina, una Duesenberg fuoriserie che aveva comprato prima della guerra e aveva lasciato in garage. Era l’auto cui aveva alluso il portiere di Ciro’s, 70
e Faye capiva il perché. Era la macchina più bella che avesse mai visto. Quella sera Ward la condusse al Mocambo e Charlie Morrison, il proprietario dai capelli grigi, accorse ad abbracciare Ward. Come tutti gli altri era felice del suo ritorno, e un’altra gigantesca bottiglia di champagne apparve mentre Faye si guardava intorno e si chiedeva chi c’era. Era stata lì altre volte, naturalmente, ed era il posto più affascinante della città, con i rari uccelli vivi che volavano mentre le coppie danzavano e le grandi celebrità del cinema entravano e uscivano di continuo. «Non credo che la nostra presenza, stasera, passerà inosservata. Può darsi che lo stesso Charlie chiami i giornali, sai?» Ward era preoccupato. «Ti dispiace molto, Faye?» Sospettava che lei non fosse troppo soddisfatta della foto che era apparsa quel giorno sul Los Angeles Times, e che li mostrava mentre lasciavano il Beverly Hills Hotel la sera prima e correvano alla macchina. Ma Faye si limitò a sorridere. «Ho la sensazione, Ward, che tu non sappia renderti invisibile.» Entrambi sapevano che questo era vero. «E per la precisione, non so neppure se m’importa. Non abbiamo niente da nascondere. E sarebbe bello salvare la nostra privacy, ma sembra impossibile per entrambi.» Faye ci aveva pensato molto, la notte precedente; e aveva deciso che non importava nulla, perché non avevano niente da nascondere. «Prima non me ne ero mai preoccupato tanto.» Ward sorseggiava il vino frizzante. Beveva sempre litri di champagne: era una sua caratteristica. «Così vanno le cose.» Se sei l’erede di un cantiere, pensò lei, e se guidi una Duesenberg fuoriserie... E all’improvviso rise. «Quando ho conosciuto quel simpatico tenente a Guadalcanal, non sapevo che fosse così viziato e frequentasse locali alla moda e bevesse fiumi di champagne...» Faye lo punzecchiava e lui non se la prendeva: era tutto vero, ma Ward era anche molto di più. In un certo senso sapeva che la guerra 71
gli aveva fatto bene. Erano stati i quattro anni più duri della sua vita, e aveva dimostrato qualcosa a se stesso: che era capace di sopravvivere a tutto, privazioni, pericoli, sofferenza, sconforto. Per quei quattro anni non aveva mai approfittato delle amicizie o del suo nome, anche se naturalmente c’era chi sapeva chi era. E poi c’era stata la ragazza che aveva sposato. All’inizio aveva pensato che non si sarebbe mai ripreso, quando era morta. Era stata una realtà che non aveva mai affrontato, un’angoscia insopportabile. E adesso c’era Faye con la sua magia e il suo fascino, e il suo senso della realtà e l’enorme talento. Era lieto che all’inizio Faye non avesse saputo chi era. I suoi sentimenti sarebbero stati diversi, lo avrebbe giudicato frivolo. E a volte lo era; amava divertirsi. Ma era anche capace d’essere serio, come Faye stava cominciando a scoprire. Aveva molte dimensioni, come lei. E insieme erano una combinazione sensazionale. Si piacevano per ciò che erano, non per quello che avevano. Erano abbinati bene sotto molti punti di vista, come avevano subito notato Hedda Hopper e Louella Parsons. «Quali sono gli scopi della tua vita, Miss Price?» chiese scherzando Ward al quarto bicchiere di champagne; non sembrava risentire degli effetti ma Faye sapeva che avrebbe dovuto andarci piano o si sarebbe ubriacata, e questo non lo faceva mai. «Cosa vorresti essere fra dieci anni?» Pareva serio mentre glielo chiedeva; e lei aggrottò la fronte e lo guardò. Era una domanda interessante. «Davvero vuoi saperlo?» «Certo.» «Non sono sicura. Quando penso a queste cose vedo sempre due possibilità, come due strade con due destinazioni molto diverse, e non so mai quale sceglierò.» «E dove portano le due strade?» Ward era affascinato da ciò che lei diceva, più affascinato che mai. «Una strada rappresenta tutto questo.» Faye si guardò intorno per un momento. «La stessa gente, gli stessi posti, le 72
stesse cose... la mia carriera... altri film... altra fama.» Era molto sincera con lui. «Sempre così, credo...» La sua voce si spense. «E l’altra strada?» Ward le prese gentilmente la mano. «Dove porta?» La sala parve svanire intorno a loro mentre parlava e lei lo guardava negli occhi. C’era qualcosa che Faye desiderava molto, e ancora non sapeva con certezza cosa fosse. «L’altra strada?» «Porta a una destinazione diversa... un marito, i figli, una vita lontana da tutto questo... più simile a quella che vivevo da piccola. Non riesco più a immaginarla; so che la possibilità c’è, se volessi sceglierla. Ma è una scelta difficile.» Lo guardò onestamente. «Non credi che potresti avere l’uno e l’altro?» Faye scrollò la testa. «Ne dubito molto. Sono incompatibili. Guarda come lavoro. Mi alzo alle cinque e alle sei esco. Non torno a casa prima delle sette o le otto di sera. Quale uomo lo sopporterebbe? E ho visto tanti matrimoni di Hollywood, per anni. Sappiamo tutti come sono. Non è questo che voglio, se deciderò di sistemarmi.» «Che cosa vuoi, Faye... se ti sistemerai, cioè?» Lei gli sorrise. Era una strana conversazione, per il terzo incontro. Ma Faye incominciava a sentire che lo conosceva bene. S’erano visti tre volte in tre giorni e qualcosa di strano era accaduto a Guadalcanal, tanto tempo prima. Era come se si fosse formato un legame che si era rafforzato in silenzio con gli anni; e adesso era ancora tra loro e li vincolava, li faceva sentire più vicini di quanto sarebbe stato possibile se si fossero appena conosciuti. Lei pensò di nuovo alle parole di Ward. «Credo che vorrei la stabilità, un matrimonio destinato a durare anni e anni, un uomo da amare e rispettare, e i figli, naturalmente.» «Quanti?» Lui le sorrise, e Faye rise di nuovo. «Oh, almeno dodici.» Ora scherzava. «Quanti, santo cielo! Non basterebbero cinque o sei?» «Può darsi.» 73
«A me sembra una bella vita.» «Anche a me, ma ancora non riesco a immaginarla.» Faye sospirò. «La tua carriera non è importante per te?» «Non ne sono sicura. Per sei anni ho lavorato con impegno. Sarebbe difficile rinunciarvi... o forse no...» All’improvviso Faye rise. «Qualche film come quello che sto girando ora, e forse abbandonerò tutto senza rimpianti, così.» Schioccò le dita e lui le prese di nuovo la mano. «Mi piacerebbe vederti rinunciare a tutto questo, un giorno.» Il viso di Ward era così serio da stupirla. «Perché?» «Perché sono innamorato di te e mi piace la seconda strada che hai descritto. Dà soddisfazioni. La prima strada porta alla solitudine. Ma credo che tu lo sappia già.» Lei annuì e lo guardò. Le stava facendo una proposta di matrimonio? Non era possibile. Non sapeva cosa dirgli; ritrasse lentamente la mano. «Sei appena tornato a casa, Ward. Ora tutto ti sembra diverso. Per un po’ sarai molto emotivo...» Voleva scoraggiarlo. Era giusto. Lui andava troppo in fretta... santo cielo, lo conosceva appena; eppure sembrava un momento che forse non sarebbe più tornato ed entrambi erano ancora sotto l’influsso del fatto che Ward era sopravvissuto alla guerra. La magia del tempo di guerra era presente per entrambi, eppure questo era molto reale. E molto speciale. Ward le prese di nuovo la mano e le baciò le punte delle dita. «Parlo sul serio, Faye. Non mi sono mai sentito così in tutta la mia vita. E l’ho capito nel momento in cui ci siamo incontrati a Guadalcanal. Allora non sapevo cosa dirti. Poteva darsi che morissi l’indomani. Ma non sono morto e sono tornato, e tu sei la donna più incredibile che abbia conosciuto...» «Come puoi dire così?» Faye sembrava sconvolta e lui voleva prenderla tra le braccia ma non osava farlo, lì nel ristorante, con i fotografi probabilmente in agguato e tutti pronti a riferire cosa avevano visto. «Non mi conosci neppure, Ward. Mi hai vista cantare per due ore a Guadalcanal, poi abbia74
mo parlato per mezz’ora, ci siamo visti due volte dopo il tuo ritorno...» Ora voleva scoraggiarlo, prima che fosse troppo tardi, ma non sapeva neppure il perché. Tutto sembrava procedere così in fretta, eppure provava quel sentimento incredibile per lui, come se quella sera avesse potuto allontanarsi con lui nel tramonto, la mano nella mano, come se tutto fosse destinato ad andare bene per il resto delle loro vite. Ma non andava mai così. Non era possibile... o forse sì... forse era «l’amore vero» di cui parlavano tutti. «È troppo presto, Ward.» «Troppo presto per che cosa?» Lui aveva un’aria pratica. «Troppo presto per dirti che sono innamorato di te? Forse è vero. Ma lo sono, Faye. Sono innamorato di te da anni.» «Allora è un’illusione.» «No. Sei esattamente ciò che avevo immaginato. Sei intelligente, pratica e realista. Sei modesta, calda, spiritosa e bella. Non t’importa niente di come ti descrivono le agenzie stampa. Ti piace ciò che fai e lavori con impegno. Sei la donna migliore che abbia mai conosciuto, e sei brava nel tuo mestiere perché sei tutto ciò che ho detto... e se non ti porto fuori e non ti bacio entro cinque minuti, diventerò pazzo, Faye Price, quindi stai zitta o ti bacerò qui in pubblico!» Lei aveva un’espressione preoccupata negli occhi ma non poté fare a meno di sorridergli. «E se pensassi che tra sei mesi mi odierai?» «Perché dovrei?» «Probabilmente ho abitudini che detesti. Ward, ti avverto, non sai chi sono. E io non ti conosco.» «Benissimo. Allora ci conosceremo.» Ma Ward aveva già scoperto le sue carte e non gliene importava. «Ti starò incollato e non ti darò tregua fino a che dirai di sì.» Sembrava completamente soddisfatto di ciò che aveva appena detto; vuotò il bicchiere di champagne con aria contenta, lo posò e guardò Faye. «Ti sta bene?» «Farebbe qualche differenza se dicessi di no?» «Neppure per idea.» Era il sorriso che lei già amava, la luce maliziosa nei profondi occhi azzurri. Era difficile resistere; e 75
non era neppure certa di volerlo. Voleva soltanto che entrambi dimostrassero un po’ di buon senso. Aveva avuto relazioni con diversi altri uomini, anche se nessuno era come lui. Ma non voleva essere una di quelle donne di cui la stampa parlava continuamente, innamorate di questo, fidanzate con quello... e alla fine tutto si riduceva al fatto che venivano sfruttate come vecchie, stanche puttane di Hollywood. Faye teneva ancora a certe cose, e anche questo piaceva a Ward. Anzi, era convinto che di lei gli piacesse tutto, e sospettava di piacerle a sua volta. Ma non gli avrebbe ceduto, dopo tre giorni. «Sei impossibile.» «Lo so.» Ward parve molto soddisfatto di sé e poi all’improvviso si tese, impensierito. «Ti dispiace il fatto che non lavoro?» Forse era questo, forse era l’etica del lavoro a turbarla. «No, se puoi permetterti di non farlo, credo. Ma non ti annoi, Ward?» Faye si chiedeva cosa faceva nel tempo libero. Lei lavorava duramente e lo faceva da anni, quindi era difficile immaginare una vita in cui non c’era altro da fare che giocare a tennis e uscire a pranzo. Le sembrava tremendo, ma senza dubbio a lui stava bene così. «Faye.» Ward la guardò. «Amo la mia vita. Mi sono divertito fin da quando ero bambino. E quando è morto mio padre mi sono detto che non mi sarei mai massacrato di fatica come lui. Aveva quarantasei anni quando morì per un attacco di cuore. Mia madre ne aveva quarantatré. Credo che morisse di preoccupazione per lui. Non avevano mai un minuto per fare ciò che desideravano, per divertirsi. Diavolo, non stavano neppure un po’ di tempo con me. E così ho giurato che quando avessi avuto dei figli miei, un giorno, e anche molto prima, non avrei vissuto in quel modo. Non c’è ragione. Non potrei spendere tutto il mio denaro neppure se m’impegnassi, a voler essere volgare.» Ma Ward non era quasi mai volgare, come Faye sapeva: era onesto con lei, e lo apprezzava perché le permetteva di conoscerlo meglio. «Mio nonno fece lo stesso... morì a cinquantasei anni per troppo lavoro. E allora? A chi importa quanto hai lavorato, quando muori? 76
Voglio godermi la vita finché sono al mondo, e me la godo. E gli altri dicano quello che vogliono. Non intendo morire per un attacco di cuore a quarantacinque anni, o essere un estraneo per mia moglie e i miei figli. Mi godrò la vita con loro, li conoscerò e mi farò conoscere. Non ho mai saputo come fosse mio padre, Faye. Per me era un estraneo. Come te, vedo la vita che si divide in due strade. La vita che hanno vissuto loro e che non voglio; e quella che sto vivendo ora, e che mi va benissimo. E credo che questo non ti dispiaccia.» La guardò negli occhi e trasse un profondo respiro. «Naturalmente, se vuoi potrò cercarmi un lavoro.» Faye lo guardò sconvolta prima di rispondere. Lui parlava sul serio. Ma com’era possibile dopo tre giorni soli? «Non devi trovarti un lavoro per farmi contenta, Ward. Che diritto avrei di chiedertelo?» E se lui poteva permettersi quel tenore di vita, perché doveva agire diversamente? Non faceva male a nessuno vivendo così. Lo guardò e parlò sottovoce: «Non posso credere che dici sul serio». I loro occhi s’incontrarono a lungo mentre Ward annuiva. Poi, in silenzio, la condusse sulla pista e ballarono senza dire una parola. Quando la riaccompagnò al tavolo la osservò, chiedendosi se l’aveva sconvolta e augurandosi che non fosse così. «Tutto bene, Faye?» All’improvviso era molto pensierosa e lui temeva di averla spaventata dicendole ciò che pensava. «Non lo so.» Lei lo guardò, francamente. «Credo che tu mi abbia tolto il fiato con i tuoi discorsi.» «Bene.» Ward la cinse con un braccio e le strinse le spalle, ammirando ancora una volta l’abito scollato di raso blu. Faye aveva il dono di vestirsi con sottile sensualità, in un modo che gli piaceva immensamente, e smaniava dal desiderio di comprarle abiti, gioielli e pellicce. Per il resto della serata parlarono di argomenti più leggeri. Faye cercava di fingere con se stessa che lui non le avesse già rivelato il proprio amore, e Ward sembrava ancora più felice di prima, perché lei conosceva i suoi sentimenti. Dopo cena, la riaccompagnò a casa, e questa volta Faye l’invitò a 77
bere un cognac, sebbene avesse un po’ paura. Ora conosceva i suoi pensieri e si chiedeva se era pericoloso lasciarlo entrare. E poi, mentre gli versava il cognac, rise tra sé. Diavolo, Ward non l’avrebbe violentata. Gli porse il bicchiere e lui si chiese che significava quel sorriso. «Sei così bella, Faye... ancora più bella di quanto ricordassi.» «Dovresti farti controllare la vista.» Le lodi di Ward a volte la imbarazzavano perché erano troppo prodighe, e l’adorazione era scritta così chiaramente nei suoi occhi. Era un uomo spensierato e felice, con poche delusioni e nessuna preoccupazione attuale, e si vedeva che era molto innamorato. «Cosa fai domani?» Faye lo disse così per dire, e lui rise. «Ti dico subito che cosa non farò. Non lavorerò.» In un certo senso quella sfrontatezza la divertiva. Certamente le aveva detto tutto sull’argomento durante la cena; ma sembrava quasi orgoglioso di non lavorare. Non gli dispiaceva essere chiamato «il playboy milionario». «Vorrei che in questo momento non fossi impegnata con un film, Faye. Così potremmo andare in giro a divertirci.» Lei immaginava i guai in cui si sarebbero cacciati. Pigri pomeriggi sulla spiaggia, giorni di shopping dispendioso, magari qualche viaggio. Doveva ammettere che la prospettiva era allettante, ma per ora non voleva neppure sognarlo. «Mi piacerebbe portarti al Casino di Avalon Bay una di queste sere, ma dovremmo passare la notte sull’isola Catalina. Non credo che avrai un fine settimana libero, vero?» Faye scosse tristemente la testa. «No, finché il film non sarà terminato.» Gli sorrise, aspirando l’aroma inebriante del cognac e pensando a tutte le cose divertenti che li attendevano. «Ci sono tanti posti dove vorrei portarti... Parigi, Venezia, Cannes... Ora che la guerra è finita possiamo andare dove vogliamo.» Lei rise delle sue parole e scosse la testa mentre posava il bicchiere. «Sei già abbastanza viziato, amico mio, no? Almeno uno di noi deve lavorare. Non posso partire così per girare il mondo.» 78
«Perché no?» «Lo studio non me lo permetterebbe. Dopo questo film, il mio agente rinnoverà il mio contratto, e sono sicura che mi terranno occupatissima per molto, molto tempo.» Gli occhi di Ward s’illuminarono. Fissò Faye. «Vuoi dire che dopo questo film scadrà il tuo contratto?» Lei annuì, divertita di quella reazione. «Alleluia, pupa! Perché non ti prendi un anno di vacanza?» «Sei matto? Tanto varrebbe che mi ritirassi definitivamente, Ward. Non posso.» «Non capisco il perché. Sei una delle dive più grandi, santo cielo. Non pensi che potresti concederti un anno di libertà e poi riprendere?» «Ne dubito.» «Non crederlo neppure per un secondo, Faye Price. Potresti andartene e poi tornare quando vuoi.» «È un rischio, Ward. Non vorrei correrlo, con la mia carriera.» Lui la guardava con occhi seri. Le cose stavano andando assai più in fretta di quanto si fossero aspettati. «Di nuovo il bivio, Faye? Quale strada vuoi percorrere? La vecchia? Oppure l’altra di cui abbiamo parlato... matrimonio, figli, stabilità, una vita vera...» Faye si allontanò da lui e guardò il giardino in silenzio. Quando si voltò di nuovo, Ward si accorse che aveva le lacrime agli occhi. Ma sembrava soprattutto incollerita, e questo lo stupì. «Smettila, Ward.» «Che cosa?» Non aveva avuto intenzione di sconvolgerla ed era turbato da quella reazione. «Smettila di torturarmi con queste assurdità. Ci conosciamo appena. Per quel che ne so io, la settimana prossima ti sarai legato a una divetta, o a Rita Hayworth o a qualcun’altra. Ho lavorato come una schiava per arrivare dove sono arrivata, e non intendo ancora rinunciare a tutto. Forse non lo farò mai. Ma di certo non lo farò per un reduce mezzo matto appena tornato dalla guerra che si crede innamo79
rato di me da due anni perché mi ha parlato qualche minuto mentre ero in tournée. Non si butta via la vita così, Ward Thayer. E non m’interessa se sei ricco e spensierato, e se non hai mai lavorato un giorno in tutta la tua vita. Io sì. Ho lavorato ogni giorno della mia esistenza da quando ho compiuto i diciotto anni, e non intendo smettere adesso. Sono arrivata fin qui e intendo restarci, fino a quando saprò di potermene andare senza pericolo.» Ward era interessato a quell’espressione, «senza pericolo»... e aveva ragione lei. Aveva lavorato duramente per arrivare dove voleva, e adesso sarebbe stata pazza se avesse gettato via tutto. Ma con il tempo le avrebbe mostrato che parlava sul serio... se fosse stata disposta ad ascoltare. «Non voglio più sentire questi discorsi.» Ora le lacrime le scorrevano sulle guance. «Se vuoi vedermi, bene. Portami a cena. Balla con me. Fammi ridere. Ma non chiedermi di gettar via la mia carriera per uno sconosciuto, anche se mi piace, anche se gli voglio bene...» Un singhiozzo le eruppe dalla gola. Gli voltò di nuovo le spalle, tremando nello squisito abito da sera di Trigère. Ward le andò accanto e la cinse con le braccia, la tenne vicina, affondando il viso nei suoi capelli serici. «Sarai sempre al sicuro con me, piccola... sempre, te lo prometto. Ma capisco quello che dici. Non intendevo spaventarti. Mi sono eccitato troppo... non potevo farne a meno.» La girò lentamente, e gli si spezzò il cuore quando le scorse il viso bagnato di lacrime. «Oh, Faye...» La strinse a sé e le premette le labbra sulle labbra. Anziché ritrarsi, lei si protese. Sentiva bisogno del conforto che poteva offrirle, di qualcosa che scorgeva in lui, e lo desiderava più di quanto avesse mai desiderato un uomo in vita sua. Si baciarono interminabilmente: Ward le accarezzava la schiena, le cercava la bocca con la bocca, e Faye gli cingeva il collo, gli accarezzava il viso mentre lo baciava, liberata dalla paura e dalla collera che aveva provato fino a pochi minuti prima. Era pazza di quell’uomo e non sapeva ancora perché. Ma forse credeva in ciò che le aveva detto... che con lui sareb80
be stata al sicuro, sempre. Le offriva una protezione che non aveva mai avuto, né con i genitori durante la Depressione, e neppure da sola, o con gli altri uomini che aveva conosciuto. E non era soltanto una questione di denaro. Era la mentalità, il modo di vivere, la certezza di esistere in un mondo perfetto e spensierato. Ed era evidente che Ward l’adorava. Dovettero staccarsi l’uno dall’altra un’ora dopo per evitare qualcosa che al momento nessuno dei due voleva. Ward sapeva che Faye non era ancora pronta e si sarebbe sempre pentita se gli avesse ceduto tanto presto. E lui doveva lasciarla per timore di perdere il controllo. Avrebbe voluto prenderla sul pavimento, davanti al camino, oppure di sopra, nella camera da letto tutta bianca, o nella vasca da bagno, o sulla scala, dovunque... tutto il suo corpo smaniava per lei, ma sapeva di non poterla avere, così subito. E quando si rividero la notte successiva il tormento fu ancora più dolce, quando le loro labbra s’incontrarono istantaneamente, e passarono un’ora a bordo della Duesenberg, dietro il cancello, a baciarsi come due bambini, e poi risero mentre lui l’accompagnava al Biltmore Bowl. C’era in corso una grande festa e i fotografi impazzirono nel vederli. Ma questa volta Faye non si oppose. In quei pochi giorni aveva capito che non poteva sfuggire a Ward Thayer. Non sapeva a cosa avrebbe portato il loro amore, ma non intendeva più resistere. Era andata alla festa indossando la pelliccia lunga di volpe bianca su un abito di raso bianco e nero. Era assolutamente squisita quando entrò al braccio di Ward. Lo guardò con calore per un istante e lui le sorrise, proprio mentre i fotografi si avvicinarono. E per il resto della serata i fotografi continuarono a scattare istantanee. Ma, come aveva promesso, Ward la condusse a casa presto. Faye incominciava a risentire di quelle nottate; ma Vance Saint George arrivava così tardi sul set tutti i giorni che di solito lei aveva il tempo di fare un sonnellino. «Ti sei divertita?» Ward la guardò mentre gli teneva la testa sulla spalla, durante il tragitto di ritorno a casa. «Non 81
era una brutta festa.» Era stato il lancio di un nuovo film, e c’erano tutti i grandi nomi. «Anche a me è sembrata piacevole.» Faye incominciava ad apprezzare quelle uscite serali più di quanto fosse accaduto all’inizio. «Se non avessi questo dannato film da finire, potrei davvero divertirmi.» Lui rise e le tirò una ciocca di capelli dorati. «Capisci perché l’altra sera ti ho detto di non rinnovare il tuo contratto? Così è più divertente, no?» «Finirà per diventare un’abitudine. Ma io lavoro, Ward.» Faye si sforzò di guardarlo con disapprovazione, ma risero entrambi. «Sta a te decidere, ma puoi cambiare idea quando vuoi.» Ward la guardò con aria significativa e lei non rispose; e quando arrivarono a casa la baciò di nuovo sulle labbra, appassionatamente, e questa volta dovette fare uno sforzo per non portarla di sopra. «Vado.» Lo disse in tono di disperazione angosciata, e lei lo baciò di nuovo sulla soglia. La tortura deliziosa continuò per settimane, fino a un tardo pomeriggio domenicale di ottobre, un mese dopo l’inizio del corteggiamento, quando passeggiarono nel giardino di Faye e parlarono della guerra e di altri argomenti. Faye aveva il pomeriggio libero, e Arthur ed Elizabeth se n’erano andati per il fine settimana. Tra loro regnava un senso di pace. Faye gli aveva parlato della sua infanzia, dei genitori, la disperazione che aveva provato nel lasciare la Pennsylvania, l’emozione iniziale del lavoro di modella a New York, e poi la noia. Finalmente confessò che a volte si annoiava anche adesso. «È come se ci fosse qualcosa di più che potrei fare... con la mia intelligenza, non solo con il mio viso e le battute. Non voglio passare il resto della vita a imparare a memoria le frasi scritte da altri.» Quella confessione interessante lo affascinò. «Cosa preferiresti fare? Scrivere?» Come al solito, Ward smaniava di desiderio ma non poteva far nulla. Almeno erano soli, e lei non doveva precipitarsi al lavoro. Arthur non torreggiava sul82
la soglia con un vassoio in mano e non dovevano andare a qualche festa. Sentivano il bisogno di stare soli, e Faye s’era offerta di cucinare quella sera. Avevano passato un pomeriggio bellissimo oziando sul bordo della piscina e poi passeggiando in giardino. «Ti piacerebbe scrivere una sceneggiatura?» Ward si voltò a guardarla e sorrise della sua espressione. Faye scosse la testa, quasi spaventata dall’idea. «Non credo che saprei farlo.» «E allora?» «La regia... un giorno...» Lei mormorò quelle parole. Era una grande ambizione per una donna e Ward non sapeva se ci fosse mai stata qualcuna che avesse diretto un film. «Credi che ti lascerebbero fare?» Faye sorrise e scrollò il capo. «Ne dubito. Nessuno crede che una donna ne sia capace. Ma so che io lo sarei. A volte, mentre vedo Saint George sul set, in questi giorni, vorrei urlare. So cosa vorrei fargli fare, come lo dirigerei, le istruzioni che gli darei. È così stupido che bisogna ridurre tutto al livello dei sentimenti che prova e credimi...» soggiunse roteando gli occhi, «credimi, sono molto pochi.» Ward le sorrise, colse un fiore rosso vivo e glielo mise tra i capelli. «Ti ho detto ultimamente che sei straordinaria?» «Non me l’hai detto da un’ora.» Faye gli sorrise. «Mi vizi, lo sai? Nessuno è mai stato tanto buono con me.» Sembrava sinceramente felice e Ward non resistette alla tentazione di prenderla un po’ in giro. Tra loro c’era una confidenza piacevole. «Neppure Gable?» «Smettila.» Lei gli fece una smorfia e corse via. Ward la raggiunse e la catturò. Si baciarono sotto un pergolato e all’improvviso si sentirono sopraffatti. Ward pensò che non avrebbe voluto che finisse, mai più. Fu quasi una sofferenza staccarsi da lei. «Non è facile, sai.» Aveva un’aria tormentata mentre tornavano lentamente verso casa, e Faye annuì. Non era facile neppure per lei. Ma non voleva commettere un errore con 83
Ward. Le aveva detto chiaramente le sue intenzioni fin dall’inizio, ed era troppo pericoloso scherzare e prenderle alla leggera. Voleva tutto da lei, la sua carriera, il suo corpo, i suoi figli, la sua vita. Voleva che rinunciasse a tutto per lui, e a volte Faye era tentata di acconsentire. Aveva detto al suo agente di non concludere in fretta il nuovo contratto, anche se Abe pensava che fosse una pazzia. Ma Faye aveva detto che voleva un po’ di tempo per pensare: e pensare diventava sempre più difficile quando Ward le era vicino. «Anche tu mi fai impazzire, sai?» mormorò mentre salivano i gradini di marmo rosa ed entravano nello studio. Ma era un ambiente troppo formale e solenne, Faye andò a preparare una tazza di tè, e poi propose di salire nel salottino al piano di sopra, che era più intimo e grazioso. Ward accese il fuoco sebbene non fosse necessario, e sedettero fianco a fianco ad ammirare le fiamme. «Ho ricevuto un’offerta per un film meraviglioso», disse Faye, ma non c’era eccitazione nella sua voce, e non era sicura di volerlo interpretare. Quell’indecisione aveva fatto infuriare il suo agente. «Chi altri lo interpreta?» «Ancora non si sa, ma ci sono molte possibilità interessanti.» «Ci tieni a farlo?» Ward non sembrava sconvolto, ma Faye prese tempo prima di rispondere e continuò a guardare il fuoco. «Non lo so.» Alzò gli occhi verso di lui. Si sentiva contenta, in pace con la vita. «Sei riuscito a farmi impigrire, Ward.» «Che c’è di male?» Lui le strusciò il viso contro il collo e incominciò a baciarla mentre le accarezzava il seno con una mano. Faye gli toccò gentilmente le dita per respingerle, ma era troppo piacevole. Non voleva allontanarlo; non l’aveva mai voluto da quando s’erano incontrati, eppure sembrava più saggio... più saggio... all’improvviso non sentì altro che quelle dita ardenti; le loro bocche s’incontrarono e in entrambi si scatenò una passione irrefrenabile. Sembrava che avessero rinunciato a respirare, mentre la gonna si sollevava lentamen84
te al di sopra delle ginocchia di Faye e la mano di Ward le cercava le cosce. Lei si sentì tremare in tutto il corpo mentre la mano saliva... e all’improvviso Ward si scostò. La guardò, ansimante e angosciato, e le prese il volto tra le mani. «Faye... non posso... devo andare...» Non riusciva più a trattenersi, la desiderava troppo, la desiderava da troppo tempo. La guardò con le lacrime agli occhi e poi la baciò ancora una volta, e fu quel momento a decidere il loro avvenire. Il modo in cui Faye lo baciò gli disse che non voleva lasciarlo andare. Poi si alzò in silenzio e lo condusse dall’altra parte del corridoio, nella spettacolare camera bianca; senza attendere un istante, Ward l’adagiò sulla coperta di volpe bianca. La spogliò, divorandola di baci, parlandole sottovoce, mentre le dita di Faye lo liberavano gentilmente dagli abiti; e dopo qualche minuto giacquero fianco a fianco, nudi, sprofondati nella ricca pelliccia candida. All’improvviso si avvinsero l’uno all’altra, e nessuno dei due pensò più a resistere, ad ascoltare la voce della ragione. Faye gridò la passione che la travolgeva; e Ward era in lei, in preda a un’eccitazione incontrollabile. Si presero con uno slancio che a un estraneo sarebbe parso tormentoso, ed era la passione più pura che avessero mai conosciuto. E quando finalmente Faye giacque in silenzio nel cerchio delle braccia di Ward sopra la soffice coperta di pelliccia, lui la guardò con un amore che non aveva mai conosciuto. «Faye, ti amo più della vita.» «Non dire così...» A volte quella passione la spaventava. L’amava tanto... e se un giorno tutto fosse finito? Non l’avrebbe sopportato. Ora lo sapeva. «Perché no? È vero.» «Anch’io ti amo.» Faye lo guardò con un sorriso sazio e lui si chinò a baciarla ancora. Era sorprendente con quanta prontezza il suo corpo la invocava ancora e con quanta avidità lei l’attirò a sé. Fecero l’amore per ore, instancabilmente, per rifarsi degli anni di lontananza. Era come se avessero atteso quei momenti troppo, troppo a lungo. «E adesso, amor mio?» A mezzanotte Ward sedette sul 85
bordo del letto e le sorrise mentre Faye si alzava lentamente, si stirava e ricambiava il sorriso. «Che ne diresti di un bagno?» All’improvviso Faye rammentò e si coprì la bocca con aria d’orrore. «Oh, mio Dio, ho dimenticato la cena.» «Non l’hai dimenticata.» Ward l’attirò di nuovo a sé. «Così mi è andato benissimo.» Lei arrossì lievemente e Ward le scostò dal viso i lunghi capelli biondi e la seguì nel bagno tutto bianco. Faye riempì la vasca d’acqua calda saponata. S’immersero insieme, e lui le fece il solletico con i piedi e le mordicchiò le dita. «Poco fa ti ho rivolto una domanda.» Faye aggrottò leggermente la fronte, senza riuscire a ricordare. «Quale?» «Ti ho chiesto: “E adesso?”» Lei sorrise con aria misteriosa. «E io ho risposto: “Un bagno”.» «Bene. Ma tu sai che cosa intendo. Non voglio avere soltanto una relazione con te, Faye.» Ward sembrava turbato e nel contempo soddisfatto della serata che avevano trascorso insieme a letto. «Anche se devo ammettere che la tentazione è grande. Ma credo che tu meriti di più.» Faye non disse nulla, rimase a guardarlo con il cuore che le batteva forte. «Vuoi sposarmi, Miss Price?» «No.» Faye si alzò all’improvviso, e lui la fissò sconvolto mentre usciva dal bagno. «Dove vai?» Faye si voltò, magnifica e nuda al centro della stanza di marmo bianco. «Non intendo dire ai miei figli che il loro padre mi ha chiesto di sposarlo dentro a una vasca da bagno. Come potrei spiegare una cosa simile?» Ward si mise a ridere, divertito. «Non è un problema.» Balzò dalla vasca, la sollevò tra le braccia e la posò di nuovo sulla coperta di volpe candida. S’inginocchiò ai suoi piedi e la guardò con aperta adorazione. «Ti prego, amor mio, vuoi sposarmi?» 86
Faye gli rivolse un sorriso malizioso e felice, ma nello stesso tempo era terrorizzata da ciò che stava per fare. Tuttavia sapeva di non avere una possibilità di scelta. Non solo perché era andata a letto con lui. Era ciò che voleva... «l’altra strada», la bella vita, il matrimonio con lui, i figli... e con lui aveva il coraggio di decidere. Significava rinunciare a tutto, ma non aveva importanza. «Sì.» Fu un bisbiglio lievissimo, e Ward le premette le labbra sulle labbra senza darle il tempo di cambiare idea, e quando si staccarono per respirare risero entrambi di gioia e d’eccitazione. «Dici davvero, Faye?» Ward doveva essere sicuro... doveva esserlo, prima d’impazzire completamente e di regalarle il mondo. «Sì... sì... sì... sì... sì!» «Ti amo. Oh, Dio, ti amo.» La strinse a sé, e Faye rise. Non era mai stata così felice. All’improvviso lui la guardò sorridendo, con i capelli biondi spettinati e gli occhi che sembravano due zaffiri purissimi. «Sii sincera, dovrai dire ai tuoi figli che cosa avevi addosso quanto ti ho chiesto di sposarmi? In tal caso ti troverai in difficoltà, Mrs. Thayer.» «Oh, povera me, non ci avevo pensato.» Faye rise mentre Ward la teneva stretta e si sdraiava di nuovo sul letto con lei. Trascorsero ore prima che tornassero nella vasca, e dovettero riempirla di nuovo d’acqua calda. Ormai erano le quattro del mattino e Faye sapeva che non avrebbe dormito prima di andare a lavorare. Rimasero seduti nella vasca per un’ora, parlarono dei loro progetti, delle loro vite, del loro segreto e del giorno in cui avrebbero dato l’annuncio. Risero al pensiero dello sbalordimento che tutti avrebbero provato quando avrebbero saputo che lei rinunciava alla carriera. E quando Faye lo disse provò un fremito; ma era più d’eccitazione che di panico. Ora si rendeva conto che in segreto ci aveva pensato molto. Aveva sempre saputo ciò che Ward voleva da lei, e ciò che voleva darle. Non aveva rimpianti, e pensava che non ne avrebbe mai avuti. A che cosa rinunciava? A una carriera che le piaceva ma che era già arrivata al culmine. Ave87
va conquistato un Oscar, una grande fama, e aveva realizzato una dozzina di film interessanti. Era venuto il momento di lasciare. Aveva un’altra vita da vivere, una vita che desiderava più di quanto desiderasse recitare. Si rilassò nella vasca da bagno sorridendo al futuro marito. Provava qualcosa che non aveva mai conosciuto: una fiducia, una pace, la certezza di aver scelto la strada giusta. «Sei sicura che non te ne pentirai?» Ward era un po’ preoccupato ma soprattutto felice. Quel pomeriggio voleva incominciare ad andare a vedere qualche casa insieme a lei, ma Faye gli ricordò che doveva lavorare almeno per un altro mese. «Non me ne pentirò affatto.» Era assolutamente certa. «Quando credi che finirai il film?» «Il primo dicembre, penso, se Saint George non rovina tutto.» «Allora ci sposeremo il quindici dicembre. Dove andremo in viaggio di nozze? Messico? Hawaii? Europa? Dove vuoi andare?» Ward la guardò raggiante, e Faye si sentì gonfiare il cuore di tenerezza. «Come mai ho avuto la fortuna di trovarti?» Faye non era mai stata felice in vita sua come lo era adesso. Con lui. «Il fortunato sono io.» Si baciarono e uscirono con riluttanza dalla vasca. Qualche minuto più tardi Faye scese, preparò il caffè per entrambi e lo portò di sopra, poi ricordò di lasciare le tazze vuote nel salotto prima di uscire. Ward l’accompagnò al lavoro con la Duesenberg. Avevano voglia di gridare di gioia. I due mesi seguenti sarebbero stati difficili, ma avrebbero avuto tante cose da fare... tante cose piacevoli cui pensare... tanti progetti da preparare per l’avvenire.
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Beverly Hills 1946-1952
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la cerimonia ebbe luogo nella chiesa presbiteriana di Hollywood in North Gower Street, presso Hollywood Boulevard. Faye percorse lentamente la navata in uno squisito abito in raso color avorio incrostato di minuscole perle in fregi delicati. Si muoveva con grazia misurata, a testa alta. I capelli erano raccolti in una corona di raso color avorio incrostata di perle, e il lunghissimo velo candido l’avvolgeva. I capelli d’oro filato ricadevano ai lati della corona, e il collo di cigno era cinto da un alto strangolino di diamanti, un regalo di nozze di Ward: era stato uno dei gioielli preferiti dalla sua nonna materna. Faye era andata all’altare al braccio del suo agente, e Harriet Field era venuta a farle da dama d’onore, nonostante le proteste. Ma Faye l’aveva convinta e adesso la vecchia amica era lì, con il viso inondato di lacrime mentre Abe affidava la sposa a Ward. I due giovani sorridevano raggianti, più belli di qualunque coppia in un film. E quando uscirono dalla chiesa trovarono centinaia di appassionati venuti a fare gli auguri, gente che lanciava manciate di riso e petali di rosa, ragazzine che invocavano l’autografo di Faye, donne che piangevano, uomini che sorridevano teneramente nel guardarli. Gli sposi sparirono a bordo della nuova Duesenberg che Ward aveva acquistato qualche settimana prima per festeggiare le nozze; si recarono al ricevimento al Biltmore dove li aspettavano Abe, Harriet e quattrocento invitati. Fu il giorno più 91
felice della vita di Faye, e i giornali pubblicarono una quantità di fotografie. Ne pubblicarono ancora di più quando, tre settimane dopo, gli sposi tornarono dalla luna di miele ad Acapulco. Faye diede l’annuncio che aveva deciso due mesi prima ma che aveva saggiamente tenuto per sé. Anche Abe si scandalizzò quando glielo disse. Quella sera, i titoli dicevano tutto in poche parole: «Faye Price abbandona la carriera per il marito milionario». Il tono dell’articolo era un po’ eccessivo, ma in sostanza la sua decisione era quella, non tanto perché i milioni di Ward avevano eliminato per lei la necessità di lavorare, ma perché ora voleva dedicarsi interamente al marito e ai futuri figli. Ward non si lamentava certamente per la sua decisione. Era felice di averla tutta per sé: restavano a letto fino a mezzogiorno, facevano l’amore quando ne avevano voglia, consumavano in camera la colazione e magari anche il pranzo e ballavano tutta la notte da Ciro’s o al Mocambo o nelle case degli amici. E Ward si divertiva ad andare a far acquisti con Faye, e le comprava abiti favolosi da aggiungere al già ricco guardaroba. Le tre pellicce di Faye sembravano ben poca cosa accanto alle meraviglie che lui le regalava: due mantelli lunghi d’ermellino in tinte diverse, una favolosa pelliccia di volpe argentata, una di volpe rossa, una di procione argenteo... Adesso lei aveva ogni pelliccia immaginabile e più gioielli di quanti pensasse di poterne indossare in tutta una vita. Raramente passava un giorno senza che Ward sparisse per un paio d’ore e tornasse con una scatola di una pellicceria, di una sartoria famosa o di un gioielliere. Era come se fosse Natale ogni giorno dell’anno, e Faye si sentiva sopraffatta da tanta generosità e dall’amore che Ward le prodigava continuamente. «Devi smetterla, Ward!» Faye rideva, nuda nella nuova pelliccia di volpe rossa, con un filo nuovo di enormi perle intorno al collo e niente altro sul giovane corpo squisito che lui adorava. «Perché?» Ward sedette a osservarla con un sorriso feli92
ce e un bicchiere di champagne in mano. Ne beveva a fiumi ma non si ubriacava mai, e quindi Faye non se ne preoccupava. Gli sorrise teneramente. «Non sei obbligato a farlo. Ti amerei anche in una capanna, anche se dovessimo coprirci di giornali per scaldarci.» «Che idea disgustosa!» Ward fece una smorfia e la guardò. «Pensandoci meglio, saresti favolosa se avessi addosso le pagine sportive e niente altro.» «Sciocco.» Faye corse a baciarlo ancora, lui se l’attirò sulle ginocchia e posò il bicchiere. «Davvero, Ward, puoi permetterti tutto questo? Non dovremmo spendere tanto, dato che nessuno di noi due lavora.» Provava ancora un po’ di rimorso per aver abbandonato il cinema, ma era così impegnata a trascorrere tutto il tempo con Ward che non rimpiangeva la sua carriera. Come aveva detto ai giornali quando s’era ritirata, ormai era fatta. Ma adesso guardava Ward con occhi preoccupati: aveva speso un patrimonio per lei, in quei tre mesi di matrimonio. «Tesoro, potremmo spendere dieci volte di più.» Era un pensiero generoso, anche se non era proprio quello che gli dicevano i suoi legali. Ma sapeva quant’erano pignoli. Non avevano stile né romanticismo. Lo annoiava starli ad ascoltare quando l’ammonivano a essere più prudente. Sapeva quant’era cospicuo il suo patrimonio, e poteva permettersi di divertirsi un po’. Almeno per qualche tempo poteva spendere quanto voleva; e poi si sarebbero adattati a una vita più «ragionevole», e nessuno dei due avrebbe mai avuto bisogno di lavorare. E adesso, a ventotto anni, non intendeva cominciare. Si divertiva troppo, s’era sempre divertito, e la sua vita con. Faye era la perfezione. «Dove vuoi andare a cena, stasera?» «Non lo so ...» A Faye dispiaceva ammetterlo, ma le piaceva il banale ambiente esotico del Cocoanut Grove con le palme e le proiezioni delle navi bianche che s’incrociavano in lontananza. Le dava sempre la sensazione di essere in viaggio, e le palme le ricordavano un po’ Guadalcanal dove aveva conosciuto Ward. «Ancora al Grove, o ti sei stancato?» 93
Ward rise e chiamò il maggiordomo perché facesse la prenotazione. Avevano assunto un esercito di servitori per occuparsi della casa nuova. Alla fine, Ward aveva deciso di non andare a stabilirsi nella vecchia residenza dei genitori. Aveva comprato per Faye una tenuta favolosa che era appartenuta a una regina del cinema muto. C’erano un parco, un lago con i cigni, alcune fontane bellissime, lunghi viali e una casa che sembrava uno château francese. Lì avrebbero potuto tenere senza problemi i dieci figli che Ward dichiarava di volere. Avevano arredato tutto con i graziosi pezzi d’antiquariato della casa di Faye, che era stata venduta appena messa sul mercato, e poi avevano scelto i mobili più belli della villa dei genitori di Ward; il resto l’avevano acquistato insieme, alle aste e nei negozi d’antiquariato di Beverly Hills. La casa nuova era già quasi completamente arredata. E Ward parlava di mettere in vendita quella dei suoi genitori. Era troppo grande, buia e antiquata per i loro gusti, e non aveva senso tenerla ancora. I legali lo avevano sempre consigliato di conservarla per un po’, perché un giorno si sarebbe sposato e ne avrebbe avuto bisogno, e Ward l’aveva fatto per motivi sentimentali; ma ormai era chiaro che non vi avrebbero mai vissuto. E adesso gli avvocati insistevano perché la vendesse; volevano che investisse il ricavato in modo da assicurare una rendita a se stesso e alla moglie, ma lui non se ne preoccupava molto. Quel pomeriggio Ward e Faye passeggiarono nel giardino e sedettero in riva al laghetto a baciarsi e a parlare. Non si stancavano mai l’uno dell’altra: e quelli erano giorni dorati mentre parlavano della vendita della casa dei genitori di lui e di una dozzine d’altre cose. Faye alzò gli occhi con un sorriso sognante quando Arthur portò loro un vassoio con due bicchieri di champagne. Era contenta che Ward le avesse permesso di tenere Arthur ed Elizabeth, che sembravano felici della nuova vita. Arthur aveva l’aria di approvare Ward, anche se a volte era impossibile negare che si comportava come un ragazzino. Un giorno aveva comprato addirittura una carroz94
za con quattro cavalli bianchi perché Faye potesse girare per la tenuta, e nel garage c’erano sei splendide macchine nuove, tenute sempre lustre dai due autisti. Era un tenore di vita che Faye non aveva mai conosciuto, e a volte si sentiva un po’ colpevole. Ma Ward era così felice che il rimorso svaniva e restava solo il divertimento, e i giorni volavano. «Non bevi lo champagne?» Ward le sorrise. Non era mai stata più bella, neppure al culmine della carriera. Era un po’ ingrassata, aveva le guance colorite e gli occhi erano del verde più splendente che lui avesse mai visto. Amava tanto baciarla nel giardino, in camera da letto, in macchina. Amava baciarla dovunque si trovassero... in qualunque momento. Adorava la moglie, e Faye era pazza di lui. Ma soprattutto era contenta, e glielo si vedeva in faccia mentre lo guardava e rifiutava lo champagne. «Preferisco una limonata.» «Puah.» Ward fece una smorfia e lei rise. Tenendosi per mano tornarono lentamente a casa, per fare l’amore prima di prepararsi per la serata. Era una vita idilliaca e in un certo senso Faye sapeva che quei giorni non sarebbero più tornati. Avrebbero avuto dei figli e si sarebbero dovuti comportare da adulti: non avrebbero potuto passare la vita giocando. Ma era divertente, finché potevano farlo: e la luna di miele sembrava protrarsi in eterno. Quella sera, al Grove, Ward le regalò un magnifico anello con tre enormi smeraldi a goccia. Faye restò senza fiato quando lo vide. «Ward! Santo cielo... ma...» Lui amava vedere il suo stupore e la sua gioia di fronte ai nuovi regali. «È per il nostro terzo anniversario, sciocca.» Erano passati tre mesi, i mesi più felici della loro vita. Non c’era una sola nube all’orizzonte. Ward le mise l’anello al dito e ballarono per ore; ma Ward notò che quella sera era un po’ stanca, mentre tornavano al loro tavolo. Erano rimasti alzati fino a tardi ormai da mesi, riconobbe lui con un sorriso, ma era la prima volta che la vedeva così. «Ti senti bene, tesoro?» «Benissimo.» Faye sorrise; tuttavia mangiò poco, non 95
bevve, e alle undici incominciò a sbadigliare. Questo non era nel suo stile. «Bene, ho capito. La luna di miele è finita.» Ward si finse angosciato. «Comincio ad annoiarti.» «No, che idea... scusami, caro, ma...» «Lo so, non importa. Non cercare di spiegarlo.» Ward la prese in giro per tutto il tragitto di ritorno. Andò in bagno a svestirsi e a lavarsi i denti, e quando tornò la trovò addormentata sul grande letto, nella camicia da notte di satin rosa. Cercò di svegliarla, ma inutilmente; e la ragione apparve chiara l’indomani mattina. Faye si svegliò ed ebbe la nausea subito dopo colazione. Era la prima volta che Ward la vedeva star male. Si agitò e insistette per chiamare il medico nonostante le proteste di Faye. «Santo cielo, è solo l’influenza o qualcosa del genere. Non puoi far correre fin qui quel poveretto. Non è niente.» Ma Faye non si sentiva bene. «Ah, no. Sei verde! Torna a letto e restaci fino a quando verrà il medico.» Ma quando il dottore arrivò disse che Mrs. Thayer non aveva nessun motivo di stare a letto, a meno che intendesse restarci per altri otto mesi. Secondo i suoi calcoli, il bambino sarebbe nato in novembre. «Un bambino? Un bambino! Il nostro bambino!» Ward era fuori di sé per l’eccitazione e il sollievo, e Faye rise di lui quando lo vide ballare per la stanza dopo che il dottore se ne fu andato. Ward le andò accanto, la supplicò di dirgli che cosa voleva, di cosa aveva bisogno. Lei era felice della notizia e della reazione di Ward, e naturalmente non appena la cosa si seppe, finì sui giornali. «L’ex regina del cinema attende il primo figlio.» Non c’era niente nella loro vita che potesse restare segreto a lungo, ma Ward sarebbe stato comunque incapace di tenerlo per sé. Lo diceva a tutti, e trattava Faye come un cristallo delicato; se prima l’aveva coperta di doni, adesso lo faceva ancora di più. Faye non aveva più abbastanza cassetti per contenere tutti i gingilli preziosi che le comprava. 96
«Ward, devi smettere! Non ho neppure il posto per mettere tutta questa roba!» «Allora costruiremo un cottage apposta per i tuoi gioielli.» Ward rideva maliziosamente e i rimproveri di Faye erano inutili. Se non acquistava gioielli per lei, comprava carrozzine e passeggini, copertine di visone e orsacchiotti. Fece persino costruire una giostra a grandezza regolamentare nel giardino. Permise a Faye di salirvi a fare un giro, lentamente, quando in ottobre lei andò a vederla. Dopo i primi mesi s’era sentita molto bene, e l’unico rammarico era il fatto d’essere tanto ingrossata. Le sembrava d’essere una mongolfiera. «Non occorre altro che una cesta attaccata ai miei piedi, e potrebbero noleggiarmi per voli turistici su Los Angeles», confidò un giorno a un’amica, e Ward s’indignò. Lui la vedeva bellissima anche così, ed era tanto emozionato che non sopportava l’idea di dover attendere ancora un mese. Faye aveva una prenotazione nell’ospedale più lussuoso della città, ed era seguita dallo specialista più celebre. «Soltanto il meglio per il mio tesoro e il mio bambino», diceva sempre Ward mentre cercava di farle bere un po’ di champagne. Ma Faye non lo gradiva più, e in certi momenti avrebbe voluto che non piacesse neppure a lui. Non si ubriacava quando beveva; ma beveva molto, per tutto il giorno, e passava dallo champagne allo scotch quando uscivano la sera. Ma Faye non voleva lagnarsi. Ward era così buono con lei: come poteva protestare per quella piccolezza? E sapeva che era pieno di buone intenzioni quando aveva ordinato di mandare una cassa del loro champagne preferito all’ospedale, per averlo a disposizione quando fosse venuto il momento. «Spero che lo terranno in frigo.» Ward ordinò a Westcott, l’intendente, di telefonare all’ospedale per spiegare come dovevano fare. Faye rise. «Temo che abbiano altro per la testa, amor mio.» Comunque, all’ospedale dovevano essere abituati a richieste del genere. Era lì che le dive più famose mettevano al mondo i figli. «Non so proprio», disse lui. «Che c’è di più importante dello champagne in ghiaccio per il mio amore?» 97
«Oh, io posso pensare a diverse cose...» Gli occhi di Faye gli dissero ciò che voleva sapere; la prese tra le braccia e si baciarono come avevano sempre fatto. La desiderava anche adesso, ma il dottore aveva detto che non potevano più fare l’amore. E Faye non vedeva l’ora di poter ricominciare. Le sembrava che l’attesa non finisse mai, e Ward le passava tutte le notti le mani sul ventre, pieno di desiderio. «È terribile, come prima che facessimo l’amore per la prima volta», si lamentò una notte con un sorriso amaro mentre scendeva dal letto per versarsi un bicchiere di champagne. Alla data presunta del parto mancavano tre giorni. appena, ma il dottore li aveva avvertiti che il bambino poteva nascere con qualche settimana di ritardo. Spesso accadeva, con i primogeniti, e perciò erano preparati, anche se incominciavano ad avere la sensazione che l’attesa fosse troppo lunga. «Mi dispiace tanto, amore.» Faye aveva l’aria stanca e da qualche giorno il minimo movimento la sfiniva. Non aveva neppure voluto scendere in giardino con lui quel pomeriggio, quando le aveva detto che aveva acquistato un minuscolo pony. «Sono troppo sfinita per muovermi.» E quella sera aveva detto che non se la sentiva di cenare. Era andata a letto alle quattro del pomeriggio, e alle due del mattino era ancora sveglia. Sembrava una nuvola di seta rosa con quelle piume di marabù intorno al collo. «Vuoi un po’ di champagne, tesoro? Ti aiuterà a dormire.» Lei scosse la testa. Le doleva la schiena e da diverse ore aveva un po’ di nausea. Oltre a tutto, temeva di avere un po’ d’influenza. «Non credo che niente, ormai, potrebbe aiutarmi a dormire.» Una cosa avrebbe avuto quel potere, suggerì in tono lascivo dopo un momento: ma era proibito. «Probabilmente sarai di nuovo incinta prima di lasciare l’ospedale. Non credo di poterti stare lontano per più di un’ora dopo la nascita del bambino.» Faye rise. «Almeno è una prospettiva gradevole.» Sembrava mesta, per la prima volta in nove mesi, e Ward la baciò 98
gentilmente e andò a spegnere le luci; ma in quel momento sentì un grido acuto provenire dal letto. Si voltò sorpreso, si accorse che Faye aveva il volto sfigurato dal dolore; poi all’improvviso la sofferenza passò. Si guardarono, sbalorditi. «Cos’è successo?» «Non ne sono sicura.» Faye aveva letto qualche libro, ma non avrebbe saputo indicare con certezza quando incominciava il travaglio. E tutti l’avevano avvertita che nelle ultime settimane ci sarebbero stati molti falsi allarmi: perciò sapevano entrambi che con ogni probabilità il momento decisivo non era ancora venuto. Tuttavia il dolore era stato acuto, e Ward decise di lasciare le luci accese e di attendere, nel caso che si ripetesse. Ma venti minuti dopo, dato che non era successo niente, andò per spegnere la luce e Faye gettò un altro grido. Questa volta si contorse sul letto e Ward notò che aveva il volto sudato, quando le si avvicinò. «Chiamo il dottore.» .Ward sentiva il cuore martellargli nel petto e aveva le mani fradice. Faye era pallidissima, spaventata. «Non essere sciocco, caro, non è niente. Non possiamo chiamare quel pover’uomo tutte le notti per il prossimo mese. Forse non succederà niente per qualche settimana.» «Ma il bambino dovrebbe nascere fra tre giorni.» «Sì, ma probabilmente ci sarà un ritardo. Aspettiamo fino a domattina.» «Devo lasciare le luci accese?» Faye scrollò la testa, e Ward le spense e s’infilò nel letto accanto a lei, delicatamente, quasi temesse che un movimento brusco potesse far precipitare le doglie. Faye rise sommessamente nel buio; e poi all’improvviso lui la sentì soffocare un’esclamazione e prendergli la mano, convulsamente. Faye stava quasi lottando per respirare quando il dolore passò. Si sollevò a sedere sul letto. «Ward...» Lui stava immobile e si chiedeva cosa doveva fare, e il suono della voce di Faye lo commuoveva profondamente. Sembrava così vulnerabile e spaventata che la prese tra le braccia, istintivamente. 99
«Amor mio, chiamiamo il dottore.» «Mi dispiace disturbarlo a quest’ora di notte.» «È la sua professione.» Ma Faye insistette perché aspettassero fino al mattino. Alle sette, comunque, Ward non aveva più dubbi. Era venuto il momento, e non gli importava nulla di ciò che gli avevano detto a proposito dei falsi allarmi. Le doglie arrivavano a intervalli di cinque minuti e Faye si sforzava di non urlare. Disperato, la lasciò un momento per telefonare al dottore: questi sembrò convinto e gli disse di far subito ricoverare la moglie. «Probabilmente ci vorrà ancora un po’, Mr. Thayer, ma è meglio portarla all’ospedale.» «Non può darle qualcosa per i dolori?» Ward era disperato, dopo aver visto soffrire Faye per cinque ore. «Mi farò un’idea più precisa quando l’avrò vista.» Il dottore non si sbilanciò. «Cosa diavolo significa? In nome di Dio, non resiste più, deve darle qualcosa!» Ward sentiva il bisogno disperato di bere qualcosa di più forte dello champagne. «Faremo tutto il possibile, Mr. Thayer. Ora non perda la calma e porti sua moglie all’ospedale il più presto possibile.» «La porterò entro dieci minuti, anche cinque.» Il dottore non disse nulla, ma non aveva intenzione di comparire all’ospedale prima che fosse passata un’ora. Doveva fare la doccia e radersi, non aveva finito di leggere il giornale, e ne sapeva abbastanza per supporre che il parto non sarebbe avvenuto ancora per diverse ore, quindi non era il caso di affrettarsi nonostante il panico del giovane padre. Gli avrebbe detto quel che doveva, al suo arrivo, e poi le infermiere lo avrebbero tenuto a bada. La settimana prima c’era stato un uomo che era entrato a forza in sala parto, e le guardie giurate l’avevano trascinato fuori minacciando di farlo arrestare se non si fosse comportato bene. Ma il dottore non prevedeva di avere qualche problema del genere con Ward Thayer. Del resto, era una soddisfazione assistere Faye Price Thayer. Sarebbe stata un’altra piuma sul suo cappello. 100
Ma Ward rimase inorridito quando tornò nella stanza, e trovò Faye piegata in due sopra una pozza d’acqua sul pavimento di marmo bianco del bagno, sconvolta e spaventata. «Si sono rotte le acque.» La voce era più roca del solito, gli occhi sgranati. «Oh, mio Dio. Chiamo un’ambulanza.» Ma a quelle parole lei rise e sedette sul bordo della vasca. «Ma no. Sto benissimo.» Non aveva affatto l’aria di star bene, comunque, e sembrava atterrita quasi quanto lui. «Cos’ha detto il dottore?» «Di portarti subito all’ospedale.» «Bene.» Faye guardò negli occhi il marito. «Devo dire una cosa. Non credo che sia un falso allarme.» Sembrava un po’ più rilassata. Ward la cinse con un braccio e l’aiutò a tornare nello spogliatoio. «Cosa devo mettere?» Lei fissò gli armadi aperti e Ward gemette. «Oh, Cristo, qualunque cosa.. basta che ti sbrighi. Non può andare una vestaglia?» «Non essere ridicolo. E se ci fossero i fotografi?» Ward la guardò e sorrise. «Non preoccuparti. Vieni.» Prese un abito dall’armadio, l’aiutò a indossarlo e la condusse al piano terreno. Avrebbe voluto portarla in braccio, ma Faye insistette per camminare. E dieci minuti dopo era comodamente sistemata a bordo della Duesenberg, con il plaid d’ermellino sulle gambe e un paio d’asciugamani sul sedile. Dopo altri dieci minuti l’autista fermò davanti all’ospedale e Ward aiutò la moglie a scendere. La misero subito su una sedia a rotelle e la portarono via, e Ward rimase a camminare nervosamente avanti e indietro per sei ore. Chiese invano di vedere il dottore quando arrivò; e finalmente, alle due e mezzo, lo vide venirgli incontro nel corridoio, con il camice azzurro e la mascherina appesa al collo. Il medico gli tese la mano. «Congratulazioni, ha un magnifico maschietto!» Il dottore sorrideva e Ward era stordito, come se non se l’aspettasse nonostante quelle ore d’attesa spasmodica. Adesso era faci101
le capire il padre di cui aveva parlato il medico e che aveva fatto irruzione in sala parto: difficilmente sarebbe riuscito a resistere per un’altra mezz’ora. «Pesa quattro chili, e sua moglie sta bene.» «Posso vederla?» Ward sentì la tensione abbandonarlo all’improvviso. Era un sollievo immenso sapere che era finita, che tutto era andato per il meglio. «Tra qualche ora. Adesso sta dormendo. È una gran fatica, sa, mettere al mondo un figlio.» Il dottore sorrise di nuovo. Non disse che per Faye era stata molto dura e che avevano evitato per poco un taglio cesareo. E non aveva voluto somministrarle l’anestetico prima che uscisse la testa. Avevano atteso fino all’ultimo e poi l’avevano addormentata dopo la nascita del bambino. Così era stato più facile darle i punti, e non c’era ragione perché Faye fosse sveglia. Il suo compito era terminato. «Grazie, dottore.» Ward gli strinse la mano e uscì correndo dall’ospedale. A casa aveva un regalo già pronto, un’enorme spilla di diamanti con un braccialetto e un anello uguali in un astuccio di velluto blu di Tiffany. Voleva andare a prenderlo per portarlo a Faye, ma soprattutto aveva bisogno di bere. Un bisogno disperato. Disse all’autista di condurlo a casa al più presto. Che giornata incredibile. Finalmente, dopo aver bevuto un doppio scotch, sedette e si rilassò, trasse un profondo respiro e finalmente si rese conto di avere un figlio. Era così felice che avrebbe voluto gridarlo dai tetti, e smaniava di rivedere sua moglie. Trangugiò il liquore, ne versò un altro prima di correre di sopra a prendere il regalo. Sapeva che Faye ne sarebbe stata felice, ma lui era più felice ancora. Un maschietto! Un figlio! Il primogenito! Mentre si faceva la doccia, si radeva e si vestiva per tornare all’ospedale, pensò a tutte le cose che un giorno avrebbe fatto con suo figlio: i viaggi, gli svaghi... Suo padre non era mai stato disposto a passare un po’ di tempo con lui, ma sarebbe stato tutto diverso, con suo figlio. Avrebbero giocato a tennis e a polo, sarebbero andati a pesca nel Pacifico meridionale, avrebbero viag102
giato insieme, si sarebbero divertiti moltissimo. Era raggiante quando tornò all’ospedale alle cinque e chiese all’infermiera di portare lo champagne nella stanza di Faye. Ma quando entrò in punta di piedi, la trovò ancora assopita. Lei aprì gli occhi, in un primo momento sembrò non riconoscerlo, e poi sorrise. I capelli biondi erano un’aureola intorno al suo volto pallido. Sembrava quasi eterea mentre lo guardava assonnata. «Ciao... cosa abbiamo avuto?» La voce si affievolì e gli occhi si chiusero di nuovo. Ward le baciò la guancia e bisbigliò. «Non te l’hanno ancora detto?» Sembrava sconvolto, e l’infermiera lasciò la stanza in silenzio. Faye scosse la testa. «Un maschietto!» Lei sorrise, insonnolita, e rifiutò lo champagne. Non aveva la forza di sollevarsi a sedere ed era ancora di un pallore verdastro. Ward era disperatamente preoccupato sebbene le infermiere gli avessero assicurato che andava tutto bene. Le rimase seduto accanto a lungo, tenendole la mano. «È stato molto... difficile, tesoro?» Qualcosa, negli occhi di Faye, gli disse che era stato terribile, ma lei scosse coraggiosamente la testa. «L’hai visto? A chi somiglia?» «Non so... non l’ho visto... spero che somigli a te.» Ward lasciò che si riaddormentasse. Le aveva mostrato il regalo spettacoloso, e lei aveva espresso la dovuta ammirazione; ma era ancora stravolta e Ward sospettava che soffrisse e non volesse ammetterlo. Lui si avviò lungo il corridoio per andare a guardare il figlioletto, che l’infermiera gli mostrò attraverso la vetrata della nursery. Il bimbo non somigliava a lui ma a Faye: era grosso tondo e bellissimo, con i capelli biondi come quelli materni. Mentre Ward lo guardava lanciò uno strillo energico; e Ward non s’era mai sentito tanto fiero in vita sua come quando uscì dall’ospedale e risalì sulla Duesenberg. Andò a cena da Ciro’s, sapendo che avrebbe incontrato tutti gli amici, e si vantò con tutti, distribuì sigari e si sbronzò di champagne, mentre nella sua stanza d’ospedale Faye dormiva e si sforzava di dimenticare quanto era stato tremendo. Lasciò l’ospedale in meno di una settimana. S’era già ripresa. Avrebbe voluto allattare il bambino, ma Ward l’aveva con103
vinta che non era una soluzione pratica, e che aveva bisogno di riposare. Avevano assunto una bambinaia in attesa che Faye recuperasse le forze; ma dopo quindici giorni lei era di nuovo in piedi, e aveva quasi sempre il bimbo tra le braccia. Ward diceva che era più bella che mai. Chiamarono il bambino Lionel e lo battezzarono il giorno di Natale nella chiesa dove s’erano sposati. «È il più bel regalo natalizio.» Ward guardava raggiante il figlio mentre lo teneva fra le braccia durante il tragitto di ritorno a casa, e Faye rise. Lionel aveva quasi due mesi. «È bellissimo, tesoro, e ti somiglia tanto.» «È molto carino, a chiunque somigli.» Faye fissò il piccolo che dormiva beato. Non aveva pianto molto durante la breve cerimonia. Quando fu a casa, si svegliò e non protestò quando tutti cominciarono a passarselo di mano in mano, per vederlo. I personaggi più illustri di Hollywood erano tutti presenti: divi, produttori, registi e amici di Ward. Era un elenco di nomi impressionanti, e quelli del giro del cinema punzecchiavano un po’ Faye perché aveva rinunciato alla carriera. «Hai intenzione di continuare ad aver figli in eterno, Faye?» Lei rispondeva di sì, e Ward le stava al fianco, raggiante. Era così fiero di Faye e di Lionel. Per tutto il giorno lo champagne scorse a fiumi. E quella sera Ward e Faye andarono a ballare al Biltmore Bowl. Lei si era ripresa splendidamente, aveva già recuperato la sua figura e si sentiva in forma. Ward pensava che non fosse mai stata così bella, e i fotografi erano d’accordo. «Pronta per ricominciare?» scherzava Ward. Faye non era molto sicura. Ricordava quanto aveva sofferto, ma adorava Lionel. Forse non sarebbe stato terribile riprovarci, anche se poche settimane prima avrebbe urlato all’idea. «Che diresti di un secondo viaggio di nozze in Messico?» chiese Ward, e lei approvò. Partirono poco dopo Capodanno e per tre settimane si divertirono pazzamente ad Acapulco. Incontrarono molti amici; ma passavano soli gran parte del tempo. Noleggiarono uno yacht e per due giorni andarono a pesca. 104
Fu una vacanza meravigliosa, e lo sarebbe stata ancora di più se durante l’ultima settimana Faye non si fosse sentita male. Diede la colpa al pesce, al caldo, al sole; non riusciva a immaginare altre cause. Ma quando tornò Ward insistette perché andasse dal medico; e così scoprì di essere di nuovo incinta. Ward era entusiasta, e anche lei. Era esattamente ciò che avevano desiderato fin dall’inizio, e questa volta tutti gli amici li presero in giro. «Non puoi lasciare in pace quella povera ragazza, Thayer? Che cos’avete, voi due? Non puoi lasciarla stare almeno per il tempo di rilassarsi un poco?» Ma entrambi erano felici, e questa volta fecero l’amore fino all’ultimo, infischiandosi dei consigli del dottore. Ward diceva che se Faye doveva essere incinta nove mesi su dieci, non intendeva rinunciare a lei. Faye entrò in travaglio con cinque giorni di ritardo, e questa volta fu più facile. Riconobbe i sintomi, che incominciarono in un caldo pomeriggio di settembre. Fecero appena in tempo ad arrivare all’ospedale perché le doglie erano già forti, e Faye stringeva i denti per il dolore. Il bambino nacque meno di due ore dopo; e quando Ward la rivide quella notte, rimase meno sconvolto nel trovarla assonnata. Questa volta le aveva comprato un paio di orecchini di zaffiri con un anello da trenta carati. Il secondogenito era un maschio. Lo chiamarono Gregory e Faye si riprese con la stessa rapidità, ma questa volta promise di essere più prudente, «almeno per un po’». Quando Gregory ebbe tre mesi, Faye e Ward andarono in Europa con il Queen Elizabeth. Portarono anche la bambinaia e i due piccini, in una cabina separata, e scelsero le suite più grandi degli alberghi, in tutte le città che visitavano. Londra, Parigi, Monaco, Roma. Andarono anche a Cannes per qualche giorno in marzo, e trovarono un piacevole clima tiepido; e finalmente tornarono a Parigi e poi rientrarono in patria. Faye era felice per quanto poteva esserlo con il marito che adorava e i due figli. Un paio di volte l’avevano fermata per chiederle un autografo, ma ormai accadeva meno spesso. Di rado la gente la riconosceva. Era ancora bellissi105
ma, ma sembrava diversa, più matronale e meno glamourous, tranne quando usciva la sera con Ward. Ma era felice di portare calzoni, un maglione e una sciarpa sui capelli d’oro per passeggiare con i bambini. Non poteva immaginare una vita più perfetta, e Ward era evidentemente orgoglioso di loro. Quando tornarono a Hollywood, trovarono che stavano imperversando i pettegolezzi più spiacevoli. Mesi prima era apparsa la Lista Nera, e diversi attori, registi, sceneggiatori e altri che conoscevano non trovavano più lavoro. Adesso tutti parlavano di «comunisti», tutti erano ansiosi di additare anche i vecchi amici. Era un momento triste per molta gente, e Faye era lieta di non far più parte di quel mondo. La cosa più spiacevole era che quanti si trovavano sulla Lista Nera avevano scoperto di non avere più amici. La gente aveva paura di farsi vedere con loro. La Warner Bros aveva issato un grande cartellone all’ingresso degli studios: «Noi abbiniamo buoni film allo spirito patriottico», per indicare a tutti che non accettava compromessi. La Commissione per le attività antiamericane era in funzione da dieci anni, ma non era mai stata presa tanto sul serio. Nell’ottobre 1947 i «10 di Hollywood» furono condannati a varie pene detentive per essersi rifiutati di testimoniare. La città sembrava impazzita e Faye si rattristava nell’ascoltare le voci che correvano sul conto di tanti vecchi amici. Nel 1948 molte persone di talento dovettero abbandonare Hollywood e accettare qualunque lavoro che capitava, come idraulici o carpentieri. I loro giorni a Hollywood erano finiti, e Faye si addolorava ogni volta che ne parlava con Ward. «Sono contenta d’esserne fuori. Non credevo che si arrivasse a questo.» Ward la guardò attentamente. Doveva ammettere che sembrava contenta di quella vita, ma a volte si domandava se sua moglie non rimpiangeva la carriera abbandonata. «Davvero non ti manca, piccola?» «Neppure per un minuto, amor mio.» Ma Ward aveva 106
notato che da un po’ di tempo era irrequieta, come se sentisse la necessità di fare qualcosa. Aveva incominciato a lavorare come volontaria in un ospedale locale, e passava molto tempo con i figli. Lionel aveva quasi due anni, e Gregory aveva dieci mesi: era un bambino delizioso, dal sorriso allegro e i riccioli al vento. Ma Faye fu felice soprattutto quando, pochi giorni prima che Greg compisse un anno, annunciò a Ward che era di nuovo incinta. Questa volta fu più difficile. Fin dall’inizio si sentì meno bene. Si stancava più facilmente. Non voleva mai uscire e Ward notò che era molto ingrossata. Sebbene sembrasse più magra del solito, il ventre era diventato enorme quasi subito, e prima di Natale il dottore ne sospettò la ragione. La visitò scrupolosamente e sorrise. «Credo che questa volta il coniglietto pasquale avrà una sorpresa per lei, Faye, se aspetterà tanto.» «Quale?» Faye stentava a muoversi, e mancavano ancora tre mesi. «Ho il sospetto che siano due gemelli.» Lei lo fissò sbalordita. Quella possibilità non le era mai passata per la mente. Pensava d’essere più stanca, ma adesso doveva rendersi conto che era anche più grossa. «È sicuro?» «No. Presto potremo fare una radiografia, e lo sapremo con certezza al momento del parto.» E così fu. Nacquero due belle bambine, a nove minuti di distanza l’una dall’altra; e Ward era fuori di sé per la gioia. Questa volta regalò a Faye due braccialetti di rubini e diamanti, due anelli con rubini e due paia di orecchini. Persino Greg e Lionel rimasero sorpresi quando li videro tornare a casa con due bambine anziché una sola. «Una per ciascuno», disse Ward, mettendo affettuosamente un fagottino rosa tra le braccia di ogni maschietto. Le gemelle entusiasmarono tutti. Non erano identiche, ma si somigliavano molto. La prima, Vanessa, sembrava il ritratto di Faye. Aveva gli stessi occhi verdi, gli stessi capelli biondi, 107
i lineamenti perfetti, ed era la più tranquilla. L’altra, invece, era quella che gridava più forte quando voleva mangiare e che sorrideva per prima. Aveva lo stesso visino perfetto e gli immensi occhi verdi: ma Valerie aveva i capelli rossi e una personalità fiammeggiante. «Mio Dio, da chi ha preso?» Ward sembrava scandalizzato quando i capelli rossi incominciarono a crescere: ma con il passare del tempo Valerie diventava sempre più fulva e più bella. Era straordinariamente graziosa e la gente la guardava con ammirazione. A volte Faye temeva che eclissasse la gemella. Vanessa era molto più quieta, e sembrava rassegnata a vivere all’ombra della sorellina adorata. Anche lei era carina, ma più taciturna ed eterea, ed era felice di guardare i libri illustrati o di osservare Valerie che tormentava i fratellini. Lionel era molto paziente con lei, ma Greg l’afferrava per i capelli rossi. Se non altro, questo servì a insegnarle presto l’arte dell’autodifesa. Ma nel complesso i bambini stavano bene insieme, e tutti dicevano che erano i più belli che si fossero mai visti. Le due bambine adorabili che trotterellavano nel parco e giocavano con il pony acquistato dal padre qualche anno prima, e i due maschietti che folleggiavano, si arrampicavano sugli alberi e riducevano allegramente a brandelli le belle camicie di seta. Tutti e quattro, adesso, si divertivano con la giostra, il pony e gli svaghi forniti dal padre. E Ward adorava giocare con loro. A trentadue anni sembrava ancora un ragazzo, e Faye era contenta della sua famiglia. Quattro figli sembravano l’ideale per tutti. Non ne voleva altri, e Ward sembrava deciso a fermarsi lì, sebbene a volte la prendesse in giro dicendole che voleva dieci figli. Faye roteava gli occhi. I quattro la tenevano molto occupata, e amava passare un po’ di tempo con tutti. Facevano vacanze meravigliose. Ward aveva comprato una casa a Palm Spring, l’anno prima, e ogni anno vi trascorrevano una parte dell’inverno. Faye si divertiva ad andare a New York con lui per fare visita agli amici. Vivevano una bella vita in tutti i sensi, lontano dalla povertà della sua giovinezza e dalla solitudine della sua infanzia. 108
Ward s’era confidato con lei. Aveva fatto la vita del «povero bambino ricco». Aveva avuto tutto, ma i suoi genitori non c’erano mai. Suo padre lavorava di continuo, sua madre era impegnata in vari comitati benefici. Avevano viaggiato spesso insieme, ma non avevano mai portato Ward con loro. E perciò lui aveva giurato che non avrebbe mai fatto altrettanto con la sua famiglia. Ward e Faye portavano i quattro bambini dovunque, a Palm Spring, in viaggio, persino in Messico. Amavano la loro compagnia, e i bambini fiorivano grazie a tante attenzioni. Ognuno a suo modo. Lionel era taciturno, attento, serio, ed era molto vicino a Faye. A volte la sua serietà inquietava Ward: era meno vivace di Greg, che giocava a football per ore sul prato insieme al padre. Greg somigliava di più a Ward bambino, spensierato e atletico... o meglio, somigliava di più a quello che sarebbe stato se si fosse trovato al centro di tante premure. E Valerie diventava sempre più bella. Era la più esigente dei quattro, la più consapevole del proprio fascino; forse per questo, Vanessa non chiedeva mai niente. Valerie le prendeva le bambole, i giocattoli, i vestiti prediletti, e Vanessa non mostrava neppure di accorgersene. Era felice di rinunciare a tutto per la gemella. Le stavano a cuore altre cose: la luce negli occhi della madre, una parola affettuosa di Ward, una gita allo zoo, tenere per mano Lionel, e la sua vita fatta di sogni, mentre sfogliava un libro illustrato o guardava il cielo stando sdraiata sotto un albero. Era la sognatrice della famiglia. Era capace di restare adagiata sull’erba per ore, a contemplare il cielo, immersa nei suoi pensieri. A volte canticchiava tra sé mentre Faye la guardava e sorrideva. «Io ero così, alla sua età», disse sottovoce Faye a Ward mentre guardavano la graziosa bimba bionda. «E tu cosa sognavi, amor mio?» Ward le baciò il collo e le prese la mano. I suoi occhi erano ardenti come il sole del mattino. «Sognavi di diventare una diva del cinema?» «Qualche volta, ma quando ero già più grande.» La piccola Vanessa non sapeva neppure cosa fossero i film. 109
Ward sorrise alla moglie. «E adesso che cosa sogni?» Era così felice con lei. Aveva cancellato la solitudine dalla sua vita. Ed era divertente. Per lui questo era importante. I suoi genitori non s’erano mai divertiti. Suo padre non aveva mai fatto altro che lavorare, e sua madre era sempre indaffarata con le associazioni benefiche. Lui aveva giurato a se stesso che non avrebbe vissuto così. Voleva godersi la vita. I suoi genitori erano morti giovani senza divertirsi mai. Ma per Ward e Faye era diverso. Per loro la vita era gioia e piacere. La guardò di nuovo, così serena e bella. Sembrava un quadro mentre rifletteva sulla domanda che lui le aveva rivolto. «Sogno te, amor mio, e i bambini. Ho tutto ciò che voglio nella vita, e anche di più.» «Bene. È così che dovrà essere sempre.» E Ward lo pensava sul serio mentre i figli crescevano e il tempo passava. A volte beveva troppo champagne ma era innocuo e allegro, e Faye lo amava immensamente, nonostante i suoi difetti un po’ infantili, la sua passione per il divertimento e per l’alcool. Non c’era niente di male. Gli avvocati venivano a trovarlo più spesso d’un tempo, per parlargli dell’eredità dei suoi genitori e di ciò che ne era rimasto, ma Faye se ne disinteressava. Dopotutto, era denaro di Ward, e lei aveva già abbastanza da fare con Lionel, Gregory, Vanessa e Val. Ma quando le gemelle stavano per compiere due anni si accorse che Ward beveva di più, e più scotch che champagne, e questo la preoccupava. «C’è qualcosa che non va, tesoro?» «No, certo.» Lui sorrideva con finta noncuranza, ma in quei giorni c’era un’ombra di paura nei suoi occhi, e Faye si domandava il perché. Ma lui insisteva a ripetere che non era niente. Gli avvocati venivano di frequente o telefonavano. Faye si chiedeva cosa avevano da dirgli. E poi anche questo perse ogni importanza. La decisione presa fu dimenticata una notte, e sullo slancio della passione, di ritorno dalla cerimonia per la consegna degli Oscar nell’aprile 1951, gettarono al vento la prudenza. Verso la fine di maggio Faye fu sicura. 110
«Ancora?» Ward sembrava sorpreso ma non dispiaciuto, anche se questa volta era meno euforico. Aveva troppe cose a cui pensare, anche se non lo diceva. «Sei arrabbiato con me?» Faye era preoccupata, e lui la prese tra le braccia con un gran sorriso. «Solo se non è mio, sciocchina. Certo che non sono arrabbiato. Come potrei arrabbiarmi con te?» «Cinque figli sono tanti, credo...» Faye era un po’ incerta, questa volta. La famiglia sembrava perfetta così com’era. «E se fossero altri due gemelli?» «Allora saranno sei! Mi va benissimo. Potremmo anche arrivare a dieci come avevamo progettato.» Ma mentre lo diceva, i quattro bambini entrarono correndo, strillando, ridendo e tirandosi i capelli, e Faye gridò, sopra le loro teste. «Dio non voglia!» Ward sorrise, e tutto andò bene; e in gennaio nacque Anne Ward Thayer, la più piccola dei figli che Faye avesse messo al mondo. Era così piccola e fragile che c’era quasi da aver paura a toccarla. Ward non osava prenderla in braccio, ma sembrava felice comunque. Regalò a Faye un pendente con un enorme smeraldo; però era meno eccitato delle altre volte, e Faye si diceva che non poteva pretendere che facesse suonare le fanfare per la quinta figlia. Comunque, era delusa che non fosse più soddisfatto. Entro pochi giorni venne a conoscere la vera ragione. Questa volta gli avvocati non tentarono neppure di parlare con Ward. Parlarono con lei, pensando che fosse ora di farle sapere ciò che stava succedendo. Erano passati sette anni dalla fine della guerra, e i Cantieri Thayer non davano un utile da quasi quattro. Erano in passivo, sebbene gli avvocati avessero supplicato Ward di occuparsene, di ridimensionare l’attività e di rendersi conto di ciò che avveniva. Avrebbero voluto che andasse a lavorare nell’ufficio del cantiere, come aveva fatto suo padre. Ward aveva rifiutato seccamente. Aveva ignorato le loro insistenze e non solo aveva lasciato che i cantieri andassero verso la rovina, ma aveva dato fondo all’eredità. Aveva detto che non intendeva sciuparsi la vita 111
lavorando notte e giorno. Voleva stare con la sua famiglia. E non era rimasto più nulla, ormai da quasi due anni. All’improvviso, mentre ascoltava gli avvocati, silenziosa e inorridita, Faye ricordò quando Ward aveva incominciato ad apparire preoccupato e a bere di più, senza ammettere mai nulla. E negli ultimi due anni, senza dirle niente, aveva tirato avanti «a vuoto». Non era rimasto più denaro, ma solo i debiti colossali che avevano accumulato con il loro tenore di vita. Faye Price Thayer ascoltava, pallidissima e tesa, con la fronte aggrottata, quasi in stato di choc. Quando gli avvocati se ne andarono, uscì barcollando dallo studio. E quando quel pomeriggio Ward tornò a casa, la trovò seduta in biblioteca ad attenderlo. «Ciao, piccola. Cosa fai al pianterreno così presto? Non dovresti riposare?» Riposare? Riposare? Come poteva riposare quando non avevano più denaro e avrebbe dovuto cercarsi un lavoro? Erano rimasti soltanto i debiti, e quando Faye alzò gli occhi, lui comprese che era accaduto qualcosa di terribile. «Faye? Tesoro... che cosa c’è?» Lei aveva gli occhi pieni di lacrime e non sapeva come incominciare. Le lacrime le scorsero sulle guance. Singhiozzò. Com’era possibile che Ward avesse giocato quel gioco? A cosa aveva pensato? Quando Faye ricordava tutti i gioielli che aveva comprato, le macchine, le pellicce, la casa a Palm Springs, i cavalli da polo... era un elenco che non finiva mai, e Dio solo conosceva l’entità dei debiti. «Tesoro, cosa c’è?» Ward s’inginocchiò accanto a lei, e Faye singhiozzò. Finalmente trasse un profondo respiro e gli accarezzò dolcemente la guancia. Come poteva odiare quell’uomo? Non se n’era mai resa conto prima d’ora, ma era un ragazzo, un ragazzo che fingeva di essere un uomo. A trentacinque anni era meno maturo del figlio che ne aveva sei. Lionel era già pratico e assennato, ma Ward... Ward... c’era l’angoscia della fine di una vita negli occhi di Faye quando cercò di calmarsi e di parlargli di ciò che aveva scoperto quel pomeriggio. «Sono venuti Bill Gentry e Lawson Burford, Ward.» Non c’era nulla di minaccioso nella sua voce, ma soltanto pena 112
per lui e per tutti loro, e Ward s’irritò. Girò sui tacchi, andò al bar e si versò da bere. Il pomeriggio era stato divertente, fino ad allora. Girò la testa e guardò la moglie. «Non farti impressionare da quei due, Faye. Sono seccatori. Che cosa volevano?» «Che cercassi di farti ragionare, credo.» «E questo cosa significa?» Ward la guardò nervosamente e sedette. «Cos’hanno detto?» «Mi hanno detto tutto, Ward.» Lui impallidì com’era impallidita Faye qualche ora prima. «Mi hanno spiegato che non hai più un soldo. I cantieri dovranno essere chiusi, questa casa venduta per pagare i nostri debiti... dovrà cambiare tutto, Ward. Dovremo diventare adulti e non illuderci più di vivere nel mondo delle favole, di non essere soggetti alle stesse pressioni di tutti gli altri al mondo.» L’unica differenza tra loro e gli altri stava nel fatto che Ward non aveva mai lavorato in vita sua e che avevano cinque figli da mantenere. Se lei avesse saputo, non avrebbe avuto l’ultima bambina. Non provava neppure rimorso per quel pensiero, anche se Anne era così dolce. Adesso erano in gioco le loro vite, e sapeva che Ward non avrebbe fatto nulla per rimediare. Non ne era capace. Ma lei sì. E se Ward non poteva remare per portare a riva la barca, l’avrebbe fatto lei, ecco tutto. «Ward, dobbiamo parlarne...» Lui si alzò di scatto e attraversò la stanza. «Un’altra volta, Faye. Sono stanco.» Anche lei si alzò, sebbene si sentisse ancora molto debole. L’aveva dimenticato: era un lusso, un altro lusso che non poteva più permettersi. «Maledizione, ascoltami! Per quanto tempo hai intenzione di giocare così con me? Fino a quando ti metteranno in prigione per insolvenza? Fino a quando ci butteranno fuori da questa casa? Secondo Lawson e Bill non hai più un soldo. O comunque ti resta ben poco.» Gli avvocati erano stati sinceri con lei. Avrebbero dovuto vendere tutto ciò che avevano solo per pagare i debiti. E poi? Questo era l’interrogativo che Faye si poneva. 113
Ward si fermò a guardarla. «E cosa dovrei fare secondo te? Incominciare a vendere le macchine? Mandare i bambini a lavorare?» Era inorridito. Il mondo gli crollava addosso, e lui non era in grado di affrontare un altro genere di vita. «Dobbiamo guardare in faccia la realtà, anche se è spaventoso.» Faye gli si avvicinò lentamente, con gli occhi accesi di un fuoco verde; ma non era in collera con lui. Aveva riflettuto tutto il pomeriggio, e si rendeva conto di ciò che era Ward, ma non poteva permettere che continuasse a fingere con se stesso e con lei. Doveva capire la necessità di cambiare. «Dobbiamo fare qualcosa, Ward.» «Che cosa?» Lui si lasciò cadere su una sedia, come un pallone sgonfio. Ci aveva già pensato, ma non aveva trovato soluzione. Forse aveva sbagliato a nasconderlo a Faye; ma come avrebbe potuto dirle che la situazione era disperata? Non ne aveva mai trovato il coraggio. Perciò le comprava sempre un gioiello nuovo, e la cosa più stupida era che lei non teneva veramente a quelle cose. Amava i bambini e lui... lo amava, no? Era questo che l’aveva sempre dissuaso dal dirle la verità. E se lei l’avesse lasciato? Era un pensiero che non sopportava. E adesso finalmente la guardava e vedeva la speranza nei suoi occhi. Non l’avrebbe abbandonato. Si chinò, le nascose il viso sulle ginocchia e singhiozzò. Faye gli accarezzò i capelli e gli parlò sottovoce, a lungo, e quando Ward smise di singhiozzare lei era ancora lì. Non se ne sarebbe andata, dopotutto, o almeno non ancora. Ma non gli avrebbe neppure permesso di chiudere gli occhi di fronte alla realtà. «Ward, dobbiamo vendere la casa.» «Ma dove andremo?» Lui parlava come un bambino spaventato, e Faye gli sorrise. «In qualche altro posto. Licenzieremo la servitù. Venderemo la maggior parte della roba, i libri rari, le mie pellicce, i gioielli.» Era un pensiero che la faceva soffrire perché Ward glieli aveva regalati in occasione degli avvenimenti importanti della loro vita. Tuttavia sapeva che i gioielli valevano mol114
to, e che non avrebbero potuto conservarli. «A quanto pensi che ammontino i debiti?» «Non lo so.» Faye gli sollevò il viso con le mani. «Dovremo scoprirlo. Insieme. Siamo insieme in questa situazione, tesoro, e dovremo uscirne.» «Lo credi davvero possibile?» Era terrificante l’idea di affrontare la realtà, anche con lei. «Ne sono sicura.» Almeno, Faye disse così, ma non era più sicura di niente. Ward si sentì sollevato nell’udire il tono della sua voce. Un paio di volte, tra una cassa di champagne e l’altra, aveva pensato al suicidio. E adesso capiva quanto era debole. Era del tutto impreparato ad affrontare ciò che doveva affrontare. Senza Faye non ci sarebbe mai riuscito. E anche con lei non fu molto più facile. Faye l’obbligò ad andare dagli avvocati, insieme, il giorno dopo. Il dottore le aveva raccomandato di non uscire ancora, ma ignorò il consiglio. Dopo la quinta figlia non era impressionabile come era avvenuto la prima volta, e non intendeva lasciare che Ward evitasse l’incontro. Era pronta a restare al suo fianco, ma in un certo senso era disorientata. Dovevano affrontare la realtà. Secondo gli avvocati, avevano tre milioni e mezzo di debiti. Per poco Faye non svenne quando lo seppe; e la faccia di Ward era mortalmente pallida. I legali spiegarono che avrebbero dovuto vendere tutto; se avessero avuto fortuna sarebbe rimasta una modesta somma che avrebbero potuto investire; ma non potevano comunque sperare di vivere come prima. Anzi, disse Bill Gentry guardando in faccia Ward, avrebbero dovuto lavorare; o almeno uno di loro avrebbe dovuto decidersi a farlo. Chiesero se Faye avrebbe ripreso la sua carriera; ma ormai erano passati sette anni da quando aveva girato l’ultimo film e nessuno le chiedeva più gli autografi, i giornali non le dedicavano più titoli a piena pagina come un tempo. Non faceva notizia, ormai. A trentadue anni avrebbe potuto ritornare al cinema, se voleva; ma non sarebbe stata la stessa cosa, e comunque non era ciò che aveva in mente. Aveva un’altra idea, ma era troppo facile pensarci. 115
«E il cantiere?» Le sue domande erano intelligenti e franche, e per Ward era un sollievo non doverlo chiedere. Lo imbarazzava, e aveva un bisogno disperato di bere qualcosa mentre Faye insisteva. Gli avvocati furono inesorabili. «Dovrà chiedere il fallimento.» «E la casa? Quanto pensate che potremo ricavarne?» «Mezzo milione, se trovate qualcuno che se ne incapriccia. Probabilmente molto meno.» «Bene, è già un inizio... Poi abbiamo la casa di Palm Springs...» Faye estrasse un foglio dalla borsetta. La sera prima, dopo che Ward era andato a dormire, aveva preparato un elenco di tutto ciò che possedevano, incluso il cane. Pensava che con un po’ di fortuna avrebbero potuto ricavare cinque milioni di dollari, vendendo ogni cosa. O almeno quattro. «E poi?» Ward la guardò amaramente, per la prima volta. «Vestiremo i bambini di stracci e andremo a mendicare per le strade? Dobbiamo pure vivere in qualche posto, Faye. Abbiamo bisogno di servitori, vestiti, macchine.» Lei scrollò la testa. «Una sola macchina. E se non potremo permettercela, viaggeremo in autobus.» L’espressione del volto di Ward, all’improvviso, le faceva paura. Si chiese se sarebbe riuscito ad adattarsi al cambiamento. Ma avrebbe dovuto farlo perché non avevano scelta, e lei l’avrebbe aiutato. L’unica cosa cui non era disposta a rinunciare era Ward. Dopo due ore, gli avvocati si alzarono e li congedarono, ma Ward era cupo. Sembrava invecchiato di dieci anni; e non disse una parola mentre tornavano a casa con la Duesenberg. Aveva quasi le lacrime agli occhi al pensiero che forse era l’ultima volta che uscivano con quella macchina. Quando arrivarono, trovarono la bambinaia della piccola che li aspettava. Anne aveva la febbre. La bambinaia era sicura che avesse preso il raffreddore da Val ed era preoccupata. Con aria distratta, Faye andò al telefono e chiamò il dottore, ma non prese in braccio la piccina; e quando più tardi la bambinaia gliela porse, Faye fece un gesto brusco. «Non ho tempo.» Aveva altre cose per la mente. «Altre cose» che 116
avrebbero comportato la fine del loro attuale tenore di vita. La prospettiva di ciò che l’attendeva la sfiniva al solo pensiero. Ma era necessario, e sarebbe toccato a lei provvedere a tutto. Ward non ce l’avrebbe fatta. Avrebbe dovuto pensare a tutto Faye, e lui gliene fu grato quando si mise al lavoro l’indomani. Chiamò tutte le agenzie immobiliari della città e prese appuntamenti perché qualcuno venisse a vedere la casa. Telefonò agli avvocati, fissò incontri con diversi antiquari e incominciò a preparare gli elenchi degli oggetti che avrebbero tenuto e di quelli che avrebbero messo in vendita. Ward la guardò sbalordito, quando lei sedette alla scrivania, l’indomani, pratica e sbrigativa, con la fronte aggrottata. Lui scosse la testa, snervato. Faye alzò gli occhi, ancora accigliata; ma non ce l’aveva con lui. «Che cosa fai oggi?» «Vado a pranzo al club.» Era una delle altre cose cui doveva rinunciare: le iscrizioni a tutti i club. Ma al momento Faye non glielo disse. Si limitò ad annuire, e lui uscì quasi subito. Non tornò prima delle sei e rientrò di ottimo umore. Aveva giocato a backgammon tutto il pomeriggio e aveva vinto novecento dollari a un amico. E se avessi perso? pensò Faye in silenzio, e salì la scala. Non voleva vederlo giocare con le gemelle, sapendo che era ubriaco, sapendo tutto ciò che sapeva adesso. E c’era ancora tanto da fare. L’indomani avrebbe incominciato a licenziare la servitù, c’erano le automobili da vendere, e quando avesse terminato lì, ci sarebbe stata ancora la casa di Palm Springs... le salivano le lacrime agli occhi, non solo per il rimpianto, ma anche per il peso che gravava quasi interamente sulle sue spalle. Era impossibile evitarlo. Era un incubo o un sogno stranissimo. In ventiquattro ore la loro vita era andata in pezzi, e non sopportava di pensarlo. Altrimenti si sarebbe messa a urlare. Era così strano: appena pochi giorni prima la sua mente era piena di ben altri pensieri... la bambina appena nata, un altro spettacoloso regalo di Ward. Avevano deciso di passare qualche settimana a Palm Springs e adesso era finito... tutto... per sempre. 117
Era incredibile. Mentre saliva la scala con il cuore pesante, chiedendosi che cosa avrebbero fatto, la bambinaia la fermò di nuovo, come aveva già fatto varie volte quel giorno. Ma Faye non aveva tempo per la piccina, adesso. C’erano troppe cose da fare. La donna biancovestita si fermò in cima alla scala a guardarla cupamente. Teneva con una mano il poppatoio mentre con l’altra stringeva a sé la piccola, avvolta in una copertina rosa ricamata che Faye aveva acquistato a suo tempo per le gemelle. «Vuoi dare da mangiare lei alla bambina, Mrs. Thayer?» La nanny inglese la fissava con malevolenza, o almeno così sembrava a Faye, che stava pensando al suo stipendio e al fatto che per tutto quel giorno s’era sforzata di farla sentire in colpa. «Non posso, Mrs. McQueen. Mi dispiace...» Le voltò le spalle, mentre il rimorso la dilaniava come una coltellata. «Sono troppo stanca.» Ma non era questo. Voleva esaminare i suoi gioielli prima che Ward salisse. Aveva preso un appuntamento da Frances Klein per il giorno seguente, e ora doveva decidere cosa intendeva vendere. Sapeva che avrebbe spuntato un prezzo onesto. E adesso non poteva più tornare indietro... e non aveva tempo per Anne, povera, piccola creatura fragile. «Forse domani sera», mormorò alla bambinaia mentre entrava in fretta nella sua stanza distogliendo gli occhi. Sarebbe stato più facile se non avesse visto la piccina che aveva messo al mondo da così poco tempo. E un paio di settimane prima non aveva dovuto pensare ad altro che a lei. Ma ora non più... non più... Con le lacrime agli occhi corse in camera sua e chiuse le palpebre. Mrs. McQueen la seguì con lo sguardo, scosse la testa e tornò nella nursery.
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in febbraio, quelli di Christie’s vennero a ritirare i mobili. Portarono via tutti i pezzi antichi importanti, i sei splendidi servizi di porcellana antica che Faye e Ward avevano acquistato negli ultimi sette anni, tutti i lampadari di cristallo e i tappeti persiani. Presero quasi tutto, eccetto il minimo indispensabile. Faye aveva organizzato le cose in modo che i bambini fossero a Palm Springs con la governante; ed esortò Ward perché li raggiungesse. «Stai cercando di liberarti di me?» Lui la guardò cupamente al di sopra del bicchiere di champagne che aveva in mano come sempre. Ma adesso il bicchiere era più grande. «Sai bene che non è così.» Faye gli sedette accanto con un sospiro. Per tutto il giorno aveva applicato le etichette ai mobili: rosse per quelli che dovevano essere venduti, blu per quelli che sarebbero rimasti, e non erano molti. Aveva deciso di vendere tutto ciò che avevano di prezioso. I pezzi più semplici li avrebbero utilizzati quando avessero traslocato. Era deprimente per tutti, ma era necessario. Erano parole che Ward aveva finito per odiare, ma lei era spietata. Ora che conosceva la verità, non gli permetteva più di nascondersi. Stava facendo tutto il possibile per aiutarlo, ma non tollerava che mentisse a se stesso e a lei. Era Faye che trattava direttamente con gli avvocati, ormai, e questo la preoccupava. Sapeva che quanto stava facendo era per Ward una specie di castrazione. Ma che cosa poteva fare? Lasciare che conti119
nuasse a vivere nella menzogna? Accumulare altri debiti? Era un pensiero che la faceva rabbrividire. Le sembrava meglio affrontare le difficoltà ora e costruirsi una nuova vita. Erano ancora giovani. Avevano i loro figli. Ogni tanto, anche lei si sentiva terrorizzata come Ward. Era come scalare una montagna ripida; e raramente si permetteva di guardare giù. Era un altro lusso che non potevano più concedersi. Dovevano tirare avanti. «Ieri ho venduto la giostra.» Erano le uniche cose di cui parlavano, ormai: ciò che era stato venduto, ciò che restava ancora. Nessuno s’era fatto avanti per la casa, e questo incominciava ad allarmarla. «L’ho venduta a un albergo, per un prezzo decente.» «Magnifico.» Ward si alzò all’improvviso e tornò a riempirsi il bicchiere. «Sono sicuro che i bambini saranno entusiasti.» «Non potevo evitarlo.» Ma tu l’avresti potuto, pensò all’improvviso Faye, e si affrettò a scacciare dalla mente quelle parole. Non era colpa sua se stavano perdendo tutto. Ma non poteva neppure biasimare Ward. Non aveva mai conosciuto un altro modo di vivere. Nessuno gli aveva insegnato a essere responsabile. E con lei era sempre stato meraviglioso. Nonostante tutto lo amava ancora, ma a volte era difficile non imputargli tutto ciò che stava succedendo. Da tanto tempo si stava preparando la crisi, se lei l’avesse saputo... Lo sorprese a fissarla con un’aria di disperazione negli occhi e il bicchiere in mano. Per un istante, Faye ebbe una visione di come sarebbe apparso da vecchio. Quasi sempre sembrava ancora un ragazzo, un bel giovane spensierato; ma in quegli ultimi due mesi sembrava oppresso da tutto il peso del mondo e questo lo invecchiava. Gli aveva notato qualche capello grigio, e c’erano piccole rughe intorno agli occhi. «Ward...» Lo guardò, chiedendosi cosa poteva fare per attutire il dolore, per mettere entrambi in grado di affrontare la verità. E gli interrogativi e il terrore rombavano come treni nelle loro menti. Dove andremo? Cosa faremo? Cosa succederà quando avremo venduto la casa? «Vorrei non averti trascinata in questo disastro.» Ward sedette. Provava pena per se stesso e rimorso verso di lei. 120
«Non avevo il diritto di sposarti.» Ma l’aveva desiderata così disperatamente, soprattutto dopo la guerra, dopo che la prima moglie era morta... e Faye gli era apparsa così eccezionale. E lo era ancora. Questo rendeva tutto più difficile. Il male che le stava facendo lo sconvolgeva. Faye si avvicinò e sedette sul bracciolo della poltrona. Era più magra di quanto lo fosse stata da anni. Ma lavorava con impegno, si alzava all’alba, riempiva scatoloni e casse, divideva montagne di roba. E sbrigava anche una parte dei lavori di casa, con una delle due cameriere che erano rimaste. Il personale s’era ridotto a due donne che pulivano e cucinavano per tutti, la bambinaia che era con loro dalla nascita di Lionel, e quella che era stata assunta per Anne. Faye intendeva ridurre il loro numero a due; ma per il momento aveva ancora bisogno di loro per aiutarla a preparare tutto e a chiudere la casa. Gli altri se n’erano andati. Arthur ed Elizabeth s’erano congedati piangendo sei settimane prima, addolorati di lasciare Faye dopo tanti anni. Erano stati licenziati i due autisti, l’intendente e mezza dozzina di cameriere. Forse alla fine non avrebbero avuto bisogno di nessuno, se avessero trovato una casa abbastanza piccola. Faye non aveva ancora incominciato ad affrontare il problema. Prima doveva vendere la tenuta. E Ward lasciava fare tutto a lei. «Non preferiresti divorziare?» La fissava, e il suo bicchiere era di nuovo vuoto. Ma non per molto. Non restava mai vuoto a lungo. «No.» Faye lo disse con forza nella stanza semispoglia. «Non lo preferisco affatto. Ricordo che ti ho sposato “nel bene e nel male”, e se adesso la situazione è difficile, pazienza.» «Pazienza? Abbiamo venduto i tappeti, stiamo vendendo la casa, i nostri avvocati ci prestano denaro per comprare da mangiare e pagare le cameriere e tu dici “pazienza”? E come credi che mangeremo, dopo?» Ward si versò di nuovo da bere e Faye dovette resistere all’impulso di chiedergli di smettere. Sapeva che avrebbe finito per farlo. Tutto sarebbe tornato normale. Un giorno. Forse. 121
«Qualcosa troveremo, Ward. Che scelta abbiamo?» «Non lo so. Forse pensi di poter tornare alla tua carriera nel cinema, ma non sei più una ragazzina e lo sai.» Dalla sua voce impastata, Faye capiva che incominciava a essere ubriaco, ma non rabbrividì a quelle parole. «Lo so, Ward.» La sua voce era dolorosamente calma. Da settimane pensava a quel problema. «Qualcosa salterà fuori.» «Per chi? Per me?» Ward si avvicinò minacciosamente, come non aveva mai fatto. Ma erano così tesi che ormai era tutto possibile. «Merda, non ho mai lavorato in tutta la vita. Cosa credi che farò? Credi che troverò un posto da Saks come commesso e venderò le scarpe ai tuoi amici?» «Ward, ti prego...» Faye si voltò perché non le vedesse gli occhi pieni di lacrime e lui le prese il braccio e la trattenne rabbiosamente. «Avanti, dimmi i tuoi progetti, visto che sei tanto realista. Sei tu quella che si dà tanto da fare. Diavolo, se non fosse stato per te, staremmo ancora vivendo come prima!» Dunque era così: dava la colpa a lei, non a se stesso. O forse cercava di farlo. Faye lo conosceva bene, ma questo non le impedì di scattare. «E in tal caso avremmo cinque milioni di debiti, anziché quattro.» «Cristo, parli come quelle due zitelle, Gentry e Burford. Loro non capiscono niente. E se anche abbiamo i debiti?» Ward gridò quelle parole e si scostò. «Facevamo una vita decente, no?» La fissò furibondo: ma era infuriato con se stesso, non con lei. Faye reagì. «Era tutta una menzogna, accidenti! Era solo questione di tempo prima che ci portassero via la casa e i mobili.» Lui rise con amarezza. «Oh, capisco. E cosa credi che stia succedendo, adesso?» «Li stiamo vendendo noi, Ward. E se avremo fortuna, alla fine ci resterà un po’ di denaro. Se avremo buon senso potremo investirlo, e magari usarlo per vivere per qualche tempo. E sai... l’unica cosa che conta è che siamo ancora insieme, noi e i bambini.» 122
Ma Ward non volle ascoltarla. Uscì e sbatté la porta con tanta forza da far tremare gli stipiti. A Faye continuarono a tremare le mani per mezz’ora, ma proseguì i preparativi. E tre settimane dopo vendettero la casa. Fu una giornata tristissima, ma era l’unica via d’uscita. Il prezzo era inferiore a quello che avevano sperato, ma gli acquirenti sapevano che avevano l’acqua alla gola, e del resto la proprietà non faceva una figura splendente. I giardinieri se n’erano andati e il parco era in abbandono; la scomparsa della giostra aveva lasciato solchi antiestetici. I mobili più belli non c’erano più e le grandi stanze sembravano nude senza i lampadari e i tendaggi. La casa fu comprata per duecentocinquantamila dollari da un noto attore e dalla moglie. Lui non era particolarmente simpatico a Faye, e nessuno dei due conosceva Ward. I due si aggirarono per la casa e parlarono con l’agente immobiliare come se Faye non esistesse. L’offerta arrivò l’indomani, e ci volle una settimana di trattative per spuntare quel prezzo. Burford, Gentry e Faye fecero pressioni su Ward perché accettasse. Gli spiegarono che non aveva scelta e alla fine, per disperazione, firmò e poi si chiuse nel suo studio con due bottiglie di champagne e un litro di gin. Rimase a fissare le foto dei genitori appese alle pareti e a piangere in silenzio, pensando alla vita di suo padre e a quella che lo attendeva. Faye non lo vide più fino a notte alta, quando finalmente si decise a salire. Non ebbe il coraggio di dirgli nulla quando entrò. Avrebbe voluto piangere. Per lui era la fine del modo di vivere a cui era abituato, e Faye si chiedeva se sarebbe sopravvissuto al cambiamento. Era già stata povera, anche se da molto tempo non lo era più, ma ricordava ancora quell’esistenza. Per lei non era terrificante quanto lo era per Ward. Aveva la sensazione di correre e correre da mesi, senza sapere se sarebbe mai riuscita a fermarsi, se mai avrebbero potuto incontrarsi di nuovo. Era il peggiore incubo della sua vita, e i loro momenti idilliaci erano finiti. Erano alle prese con il trauma della realtà, la tragedia di ciò che Ward aveva fatto e lo squallore del futuro. Ma Faye rifiutava 123
di rassegnarsi, rifiutava di permettere che Ward si lasciasse andare e diventasse un alcolizzato senza speranze. Lui si fermò, fissandola, come se le leggesse nel pensiero. Aveva un’aria distrutta mentre entrava nella stanza e si sedeva. «Mi dispiace d’essermi comportato da mascalzone, Faye.» Lei si sentì salire le lacrime agli occhi e si sforzò di sorridere. «È stato duro per tutti.» «Ma è colpa mia, questo è il peggio. Non so se sarei mai riuscito a invertire la rotta, ma almeno avrei potuto frenare un po’ la caduta.» «Non avresti potuto risuscitare un’industria morta, Ward, qualunque cosa facessi. Non puoi fartene una colpa.» Faye scrollò le spalle e sedette sul bordo del letto. «In quanto al resto...» gli sorrise tristemente, «... è stato divertente finché è durato.» «E se ci ridurremo alla fame?» Ward sembrava un bambino impaurito. Era una domanda sorprendente da parte di un uomo che aveva vissuto a credito per tanti anni. Ma quella notte Ward aveva affrontato finalmente quei pensieri sgradevoli, e s’era reso conto che, per quanto fosse furioso, aveva disperatamente bisogno di Faye. E lei non lo deluse. Si mostrò calma quando gli parlò, più calma di quanto si sentisse. Ma desiderava dargli ciò che gli mancava. La fiducia. La sicurezza. Era quanto di meglio poteva fare per lui, ormai. Era questo ciò che significava essere sua moglie. «Non moriremo di fame, Ward. Io e te possiamo farcela. Non ho mai fatto la fame, prima, anche se qualche volta ci sono arrivata abbastanza vicina.» Gli sorrise stancamente. Era indolenzita dalla fatica di preparare il trasloco. «Allora non c’erano sette persone.» «No.» Faye lo guardò con tenerezza per la prima volta dopo tante settimane. «Ma sono contenta che ci siano.» «Davvero, Faye?» L’angoscia l’aveva fatto ritornare sobrio. Sembrava che gli fosse impossibile ubriacarsi, ed era meglio così. «Non ti fa paura averci tutti intorno... soprattutto me, che ho più paura dei bambini?» Faye gli si avvicinò e gli acca124
rezzò i folti capelli biondi. Era strano vedere quanto somigliava a Gregory; e a volte sembrava più infantile del figlio. «Andrà tutto bene, Ward... te lo assicuro.» Gli parlò sottovoce e gli baciò la fronte. Quando Ward levò il viso verso di lei, le lacrime gli scorrevano lentamente sulle guance. Dovette reprimere un singhiozzo. «Ti aiuterò, piccola. Te lo prometto... Farò tutto il possibile.» Faye annuì, e lui l’attirò a sé e, per la prima volta dopo tanto tempo, le baciò le labbra. Qualche minuto più tardi la seguì a letto, ma non accadde nulla. Non accadeva nulla da molte settimane. Avevano troppe altre cose a cui pensare. Ma almeno l’amore c’era ancora, incrinato ma non scomparso. Era l’unica cosa rimasta. Tutto il resto era perduto.
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in maggio lasciarono la casa. Ward e Faye piangevano in silenzio. Sapevano di abbandonare un mondo e una vita che non avrebbero più ritrovato. Anche Lionel e Gregory piangevano. Erano abbastanza grandi per capire che lasciavano la casa per sempre. Era stata la dimora della loro infanzia, ed era bellissima, sicura e accogliente. E c’era qualcosa che li spaventava negli occhi dei genitori. All’improvviso tutto era diverso, ma i bambini non capivano la differenza. Vanessa e Vai sembravano meno colpite. Avevano appena tre anni, e non sembravano addolorate sebbene percepissero l’inquietudine di tutti gli altri. Erano emozionate all’idea di andare tutti alla casa di Palm Springs. Ward li accompagnò con l’unica macchina rimasta. Era una vecchia Chrysler station wagon che avevano acquistato a suo tempo per la servitù. Le Duesenberg erano state vendute, come la Bentley coupé di Faye, la Cadillac e tutte le altre automobili. Per Faye e Ward era come lasciarsi per sempre alle spalle la giovinezza. La casa di Palm Springs doveva restare libera prima di giugno, ma per il momento era un posto dove tenere i bambini. Faye aveva preso nota di diverse case offerte in affitto, e i mobili avrebbero atteso in un magazzino. Aveva deciso di andare a Palm Springs con la famiglia, per tornare da sola a Los Angeles in cerca d’una casa, mentre Ward preparava tutto per il trasloco da Palm Springs. 126
Le aveva detto che era il meno che poteva fare, dopo tutte le fatiche che lei s’era addossata a Los Angeles. Questa volta Faye non avrebbe dovuto toccare nulla, ma soltanto trovare un posto decente dove vivere. E sapeva che non sarebbe stato facile. Con la vendita del cantiere, della casa di Beverly Hills, con i mobili, le opere d’arte, la collezione di libri rari, le macchine e la casa di Palm Springs con quasi tutto l’arredamento, sarebbero riusciti a pagare i debiti e a salvare circa cinquantacinquemila dollari che, investiti oculatamente, avrebbero reso appena appena l’indispensabile per mantenerli tutti. Avrebbero affittato una casa, e Faye sperava di trovarne una a buon prezzo. E non appena avessero traslocato e i bambini fossero tornati a scuola in autunno, Faye si sarebbe cercata un lavoro. Naturalmente, anche Ward parlava di cercarlo. Ma lei aveva più fiducia in se stessa, e sapeva che sarebbe stato più facile. Aveva già lavorato e anche se aveva trentadue anni non era affatto in declino per ciò che si proponeva di fare. E Lionel avrebbe incominciato a frequentare la prima, Greg sarebbe andato all’asilo, le gemelle a un nido; così le sarebbe rimasto molto tempo. Intendeva tenere soltanto la governante per badare ai cinque figli, alla casa e a cucinare. La piccola Anne aveva appena quattro mesi e non creava problemi. Era il momento migliore perché Faye potesse lasciare la casa. E mentre rifletteva, lungo il viaggio fino a Palm Springs, all’improvviso si sentì di nuovo in colpa verso l’ultimogenita. Gli altri erano stati sempre con lei, a quell’età; ma adesso non aveva tempo da dedicarle. Era stato così fin da quando era nata. Il disastro era venuto subito dopo, ed era impossibile pensare continuamente ad Anne: Faye aveva troppe cose di cui occuparsi. Ward la guardò di sottecchi molte volte, mentre viaggiavano: notò la sua espressione aggrondata e le strinse il polso. Le aveva promesso che avrebbe bevuto meno quando fossero arrivati a Palm Springs, e Faye si augurava che mantenesse la parola. La casa era più piccola, e i bambini avrebbero avuto modo di accorgersene, se lui si fosse 127
ubriacato. E poi avrebbe avuto molto da fare, e Faye sperava che servisse a distrarlo. Tornò a Los Angeles dopo due giorni, in treno, e all’arrivo prese alloggio in una stanzetta all’Hollywood Roosevelt Hotel. Le case che andò a vedere erano deprimenti in modo indescrivibile: in zone squallide, con giardinetti minuscoli e stanze piccole e brutte. Passò in rassegna i giornali, telefonò a tutte le agenzie e finalmente, all’inizio della seconda settimana, trovò una casa che era meno brutta delle altre e abbastanza grande per tutti. C’erano quattro stanze da letto piuttosto ampie su un unico piano. Faye aveva già deciso di assegnarne una ai due maschi, un’altra alle gemelle, la terza ad Anne e alla bambinaia, e di tenere la quarta per sé e Ward. Al pianterreno c’erano un soggiorno un po’ tetro, un camino che non funzionava da anni, una sala da pranzo che guardava su un giardinetto tetro, e una grande cucina antiquata. I bambini le sarebbero stati certamente più vicini di prima, e cercava di convincersi che per loro sarebbe stato un bene, che a Ward la casa non sarebbe dispiaciuta troppo e che i figli non avrebbero pianto nel vederla. L’unico vantaggio era l’affitto, abbastanza modesto perché potessero permetterselo. La casa si trovava in una zona abitata da famiglie in Monterey Park, ben diversa da Beverly Hills. Non c’era da farsi illusioni; e quando Faye tornò a Palm Springs non cercò d’ingannare nessuno. Disse a tutti che si trattava di una sistemazione «temporanea», una specie di avventura, e che tutti avrebbero dovuto dare una mano e piantare fiori in giardino. E quando rimase sola con Ward, lui la fissò apertamente e le rivolse la domanda tanto temuta. «È davvero così brutta, Faye?» Lei trasse un profondo respiro. L’unica cosa che poteva fare era dirgli la verità. Tanto, presto l’avrebbe scoperta da solo. Era inutile mentirgli. «In confronto a quella che avevamo?» Ward annuì. «È tetra. Ma se per un po’ ci sforzere128
mo di non pensare all’altra, non sarà tanto tremenda. È stata riverniciata da poco, è pulita. Quei pochi mobili che ci sono rimasti andranno bene. E potremo renderla più carina con tende e fiori.» Trasse un secondo respiro, cercando di non guardare l’espressione devastata di Ward. «Almeno saremo insieme. Andrà tutto per il meglio.» Gli sorrise, ma lui distolse il volto. «Continui a ripeterlo.» Era di nuovo in collera con lei, quasi fosse tutta colpa sua. E in segreto, Faye incominciava a credere che fosse così. Forse non avrebbe dovuto costringerlo ad affrontare la realtà. Forse avrebbe dovuto lasciare che continuasse a vivere facendo debiti fino a che fosse diventato impossibile. Ma prima o poi sarebbe stato inevitabile... o no? Non sapeva più cosa pensare. Ward, se non altro, aveva mantenuto la parola e aveva preparato tutto per il trasloco a Palm Springs, e non aveva ripreso a bere fino al suo ritorno. Allora aveva capito che Faye si sarebbe occupata di tutto e che lui avrebbe potuto rilassarsi. Almeno per un po’, fino al momento della partenza. Quando chiusero la casa e tornarono a Los Angeles tutti insieme un martedì pomeriggio, sembrava che ci fossero mille gradi. Faye aveva già dato una sistematina alla casa di Monterey Park prima di raggiungere la famiglia a Palm Springs. Aveva tolto dalle casse quel che aveva potuto, appeso qualche quadro nelle stanze, riempito i vasi di fiori, preparato i letti con le lenzuola pulite. Aveva fatto il possibile perché la casa assumesse un’aria intima; i bambini, all’arrivo, si mostrarono interessati come cuccioli che si aggirano fiutando in un’abitazione nuova, e furono felici quando trovarono le loro stanze e i giocattoli sotto gli occhi speranzosi di Faye. Ma Ward sembrava sul punto di svenire nel momento in cui entrò nel soggiorno buio e rivestito di pannelli di legno. Non disse una parola mentre Faye lo guardava trattenendo le lacrime. Scrutò il giardino socchiudendo gli occhi, girò lo sguardo sulla sala da pranzo, notò un tavolo che avevano conservato dal vecchio studio, alzò istintivamente lo sguardo come se si aspettasse 129
di scorgere il lampadario che era stato venduto mesi prima, e poi scrollò la testa. Non aveva mai visto niente di simile in tutta la sua vita, non era mai entrato in una casa tanto povera e si sentiva ferito. «Speriamo almeno che non sia cara.» Si sentiva schiacciare dal rimorso, ancora una volta, per ciò che aveva fatto alla moglie e ai figli. Lei lo guardò con dolcezza, mentre si fronteggiavano nella casa nuova. «Non ci resteremo per sempre, Ward.» Era ciò che aveva detto a se stessa molti anni prima, quando sognava di sfuggire alla miseria della casa paterna. Era stato ben peggio. E anche questa volta non sarebbe durato per sempre. Ne era sicura. In un modo o nell’altro avrebbero trovato il modo di uscirne. Ward si guardò intorno, dolorosamente. «Non credo di poter resistere molto.» A queste parole Faye sentì la collera traboccare per la prima volta in tutti quei mesi, e perse la calma. «Ward Thayer, in questa famiglia tutti si stanno adattando, e dovrai farlo anche tu! Non posso far tornare indietro il tempo. Non posso fingere che questa sia la nostra vecchia casa. Ma è la nostra... mia, tua e dei bambini.» Lo fissò tremando e Ward la guardò negli occhi. Faye era decisa ad adattarsi, e per questo la rispettava; ma non era certo di avere la forza di fare altrettanto. Ne ebbe la certezza quando andò a letto quella sera. La stanza aveva odore di legno marcio come se le travi fossero impregnate di umidità da anni, c’era un sentore di muffa dovunque; le tende che Faye aveva sistemato provenivano dal vecchio alloggio della loro servitù e avevano misure sbagliate. Era come diventare servi in casa propria, era un orribile sogno surrealista. Ma quella era la loro casa, e Faye sapeva che dovevano adattarsi. Ward si voltò per dirle qualcosa, per scusarsi del proprio comportamento; ma dormiva già, raggomitolata nella sua metà del letto come una bambina spaventata, e Ward si chiese se anche lei aveva paura. Si sentiva terrorizzato, in quei giorni, e neppure l’alcool serviva a qualcosa; e si chiedeva come sarebbe stato il 130
resto della loro vita. Sarebbe continuata cosĂŹ? Non potevano permettersi certamente qualcosa di meglio, e si domandava se mai avrebbero potuto farlo. Faye diceva che era soltanto una soluzione provvisoria, che un giorno se ne sarebbero andati... ma quando, e come, e dove? Non riusciva a immaginarlo neppure in sogno, mentre giaceva nella tetra stanza da letto dipinta di verde chiaro.
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Ancora Hollywood 1952-1957
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erano trascorsi sei anni dal tempo in cui era stato il suo agente e a Faye tremava la mano mentre componeva il numero. Poteva darsi che si fosse ritirato dall’attività, o che non avesse tempo di parlare con lei. L’aveva chiamata, poco dopo la nascita di Lionel, e aveva cercato ancora una volta di convincerla a riprendere la carriera interrotta prima che fosse troppo tardi. E senza dubbio era troppo tardi adesso, sei anni dopo che lei aveva rinunciato al cinema. Non aveva bisogno che fosse lui a dirglielo. Ma aveva bisogno del suo consiglio. Aveva atteso fino a settembre. I bambini erano tutti a scuola, eccetto Anne. E Ward andava in giro e s’incontrava con i vecchi amici: cercava un lavoro, diceva, ma quasi sempre faceva pranzi interminabili nei ristoranti e nei club preferiti, «per stabilire contatti», come raccontava quando tornava a casa. Forse era vero, ma Faye prevedeva che avrebbe continuato per anni senza concludere nulla, come non avrebbe concluso nulla quella sua telefonata, se Abe non avesse voluto parlarle. Si augurava che le cose andassero diversamente, quando diede il nome alla segretaria. Vi fu una pausa interminabile e la segretaria l’invitò a restare in linea, e poi all’improvviso lui rispose... proprio come ai vecchi tempi. «Mio Dio... un’eco dal passato. Sei ancora viva?» La voce le rimbombava nell’orecchio, come allora, e lei rise nervosamente. «Sei proprio tu, Faye Price?» Adesso le dispiaceva di non averlo visto più spesso durante quegli anni, ma era sta135
ta così presa da Ward e dai figli, e Hollywood faceva parte di un’altra vita. «Sono io, Faye Price Thayer, con qualche capello grigio.» «A questo si può rimediare, anche se non credo che mi abbia chiamato per questo. A cosa devo l’onore di tanta sorpresa? E hai già dieci figli?» Abe aveva lo stesso tono affettuoso di un tempo, ed era commovente che fosse disposto a parlare con lei. Erano stati ottimi amici; poi l’agente della sua carriera di stella era uscito dalla sua vita, e adesso lei ricompariva. Faye sorrise. «Non ho dieci figli, Abe, ma solo cinque. Sono arrivata a metà.» «Cristo, siete proprio matti. L’ho capito dalla luce dei vostri occhi che facevate sul serio. È stato per questo che ho rinunciato a insistere. Però eri grande, Faye, e avresti potuto restare al vertice ancora per molto, molto tempo.» Lei non era del tutto d’accordo, ma era piacevole sentirselo dire. Probabilmente un giorno avrebbe incominciato a declinare. Succedeva a tutti, e Ward gliel’aveva risparmiato, ma ora... doveva trovare il coraggio di chiedere ad Abe ciò che voleva, anche se forse lui l’aveva sospettato dal momento in cui aveva sentito il suo nome. Leggeva i giornali come tutti e aveva saputo delle loro difficoltà: la casa venduta, gli oggetti all’asta, il cantiere chiuso. Era stata una rapida caduta, come per altri dei suoi divi. Ma questo non bastava a cambiare i sentimenti di Abe per le persone che gli erano simpatiche; e adesso commiserava Faye, senza denaro, con un marito che non aveva mai lavorato in vita sua, e cinque figli da mantenere. «Rimpiangi i bei tempi, Faye?» Lei era sempre stata sincera con Abe. «No, mai, per dire la verità.» Almeno fino ad allora: e anche in quel momento aveva in mente qualcosa di diverso. «Non credo che ne trovi il tempo, con cinque figli intorno.» Ma Faye sarebbe stata costretta a lavorare. Abe lo sapeva anche troppo bene, e decise di venire al punto per risparmiarle l’imbarazzo. 136
«A cosa devo l’onore e il piacere di questa chiamata, Mrs. Thayer?» Comunque non era difficile immaginarlo: una parte in una commedia, una particina in un film. La conosceva abbastanza per sapere che non avrebbe preteso la luna. «Ho un favore da chiedere, Abe.» «Sentiamo.» Era sempre stato franco e, se avesse potuto, ora l’avrebbe aiutata. «Potrei venire a parlarti?» Abe sorrise, nel sentire quel tono ingenuo, come una volta. «Certo, Faye. Quando vuoi.» «Domani?» L’agente rimase sorpreso da tanta fretta. Dunque erano davvero in una situazione disperata. «Benissimo. Pranzeremo al Brown Derby.» «Magnifico.» Per un momento Faye pensò con nostalgia ai tempi andati. Non ci pensava più da anni. E quando ebbe riattaccato, salì la scala sorridendo tra sé. Si augurava soltanto che Abe non le dicesse che era matta. Quando s’incontrarono l’indomani lui non lo disse; rimase in silenzio, a riflettere sulla richiesta. Era rimasto sconvolto nel sentire i dettagli di quanto era accaduto, nello scoprire che vivevano in Monterey Park. Era così lontano da dove avevano incominciato... ma sembrava che Faye dimostrasse molto coraggio. Ne aveva sempre avuto, ed era abbastanza intelligente per poter fare ciò che si proponeva. Ma Abe si chiedeva se qualcuno gliene avrebbe offerto la possibilità. «Ho letto che Ida Lupino ha diretto un film per la Warner Bros, Abe.» «Lo so. Ma non tutti saranno disposti a darti un’occasione simile, Faye.» Abe preferiva essere franco. «Anzi, saranno molto pochi.» Poi chiese: «E tuo marito cosa ne dice?» Lei trasse un profondo respiro e guardò l’agente negli occhi. Non era cambiato molto in quegli anni, era ancora rotondo, grigio, esigente ma gentile, e soprattutto onesto. E aveva compreso subito che era ancora un amico. L’avreb137
be aiutata, se avesse potuto. «Non lo sa, Abe. Ho pensato di parlarne prima con te.» «Credi che obietterà se tornerai a Hollywood?» «Non si tratta di questo. Forse lo farebbe se cercassi di riprendere a recitare. Ma ormai sono troppo vecchia, e sono lontana da troppo tempo dagli schermi.» «A trentadue anni, questa è un’assurdità. Non sei troppo vecchia, ma sarebbe difficile un rientro in grande stile dopo tutti questi anni. Il pubblico dimentica. E i giovani di oggi hanno i loro divi. Sai...» Abe aspirò pensosamente una boccata di fumo dal sigaro, «preferisco la tua idea. Se riusciremo a farla accettare da uno studio, sarebbe molto diverso.» «Tenterai?» Abe puntò il sigaro verso di lei. «Mi stai chiedendo di farti di nuovo da agente, Faye?» «Sì.» Lo guardò negli occhi e Abe sorrise. «Allora accetto. Sentirò in giro e vedrò cosa potrò trovare.» Ma Faye lo conosceva troppo bene; sapeva che non avrebbe lasciato nulla d’intentato per scovare qualcosa, e se non ci fosse riuscito questo avrebbe significato che era impossibile. E non sbagliava. Per sei settimane, Abe non si fece vivo; poi la chiamò e l’invitò ad andare di nuovo da lui. Faye non osò chiedergli nulla al telefono. Prese l’autobus da Monterey Park a Hollywood, e poi salì correndo la scala dell’ufficio. Arrivò ansimante. Ma era ancora bella, notò Abe. Portava un abito di seta rossa e un leggero soprabito di lana nera. Aveva conservato alcuni degli abiti dei tempi migliori. Faye stava quasi tremando mentre Abe la guardava: poi lui le prese la mano, commosso da quell’ansia. «Dunque?» «Calma, calma. Non è niente di favoloso, ma è un inizio. Forse. Se ti va. È un posto di aiuto regista, per uno stipendio miserabile, alla MGM. Ma il mio amico Dore Schary ha apprezzato l’idea. Vuol vedere cosa sei capace di fare. Sa che la Lupino non se la cava affatto male alla Warner Bros, e vorrebbe avere anche lui una donna nella sua scuderia.» Da tem138
po Schary aveva fama d’essere il più aperto alle novità tra i capi dei grandi studios, oltre che il più giovane. «Riuscirà a capire se valgo qualcosa, dato che lavorerò per qualcun altro?» Faye era preoccupata. Ma d’altra parte nessuno le avrebbe affidato una regia, così, la prima volta. Abe annuì. «È un regista che hanno sotto contratto, e Dove si rende conto che non vale molto. Se il film riuscirà appena decente, sarà merito tuo. E questo tizio è così svogliato e beve tanto che non comparirà sul set neppure per la metà del tempo. Avrai mano libera, anche se non ne ricaverai molto denaro o molta gloria. Li avrai la prossima volta, se adesso farai un buon lavoro.» Faye annuì. «Il film è interessante?» «Potrebbe diventarlo.» Come sempre, Abe fu sincero. Le riassunse la trama, disse chi sarebbero stati gli interpreti. «Faye, è un’occasione: ed è questo che vuoi, no? Se fai sul serio, credo che dovresti tentare. Che cos’hai da perdere?» «Non molto, credo.» Faye lo fissò, assorta, ripensando alle sue parole. «Quando dovrei incominciare?» Aveva bisogno di un po’ di tempo per studiare la sceneggiatura; e vide Abe deglutire. Lui sapeva che amava il lavoro ed era molto scrupolosa. Le sorrise timidamente. «La settimana prossima.» Faye alzò gli occhi al cielo. «Mio Dio.» Non le restava molto tempo neppure per abituare Ward all’idea. Ma era ciò che voleva: non sapeva come se la sarebbe cavata, ma desiderava disperatamente compiere un tentativo. Ci aveva pensato in segreto per mesi. Guardò Abe Abramson negli occhi e annuì. «Accetto.». «Non ti ho detto quanto pagano.» «Accetto comunque.» Abe le disse il compenso. Era ridicolo e lo sapevano entrambi: ma l’importante era avere un’occasione. «Dovrai essere sul set ogni mattina alle sei, o anche prima se vuoi. Può darsi che ti capiti di lavorare fino alle otto o alle nove di sera. Non so come farai con i bambini. Forse 139
Ward ti darà una mano.» Abe, comunque, non ne era molto convinto. Ward non era il tipo. Era troppo abituato ad avere a disposizione un esercito di servitori. E Abe si chiedeva quale aiuto dava a Faye, adesso. «Ho ancora una bambinaia.» «Bene.» Abe si alzò. Era come ai vecchi tempi... o quasi. Faye sorrise. «Grazie, Abe.» «Non c’è di che.» Faye gli leggeva negli occhi che la commiserava ma la rispettava. Ce l’avrebbe fatta. Era una donna capace e decisa. «Torna domani per firmare il contratto, se puoi.» Sarebbe stata un’altra lunga corsa in autobus: ma era ancora nulla in confronto a quella che avrebbe dovuto affrontare ogni giorno attraverso la città, da est a ovest, fino a Culver City e all’MGM. Comunque, sarebbe stata disposta anche a camminare sui vetri per quell’incarico e per Abe. Sapeva che lui si sarebbe preso il dieci per cento; e il dieci per cento di ciò che avrebbe guadagnato sarebbe stato ben poco. Tuttavia ad Abe sembrava non dispiacesse. E non dispiaceva neppure a lei. Era euforica. Aveva trovato un lavoro! Avrebbe voluto gridare mentre scendeva la scala. Continuò a sorridere durante il tragitto di ritorno e si precipitò in casa con lo slancio di uno dei suoi figli. Trovò Ward in soggiorno, evidentemente sotto l’effetto di un pranzo innaffiato da champagne in compagnia dei suoi amici. Gli sedette sulle ginocchia e gli buttò le braccia al collo. «Indovina!» «Se mi dici che sei di nuovo incinta, mi ucciderò... ma solo dopo aver ucciso te!» Ward rise, e Faye scosse la testa con aria orgogliosa. «No. Riprova.» «Ci rinuncio.» Ward aveva gli occhi arrossati e parlava con voce impastata, ma Faye non se ne curò. «Ho trovato un lavoro!» Quando lui la fissò sbalordito, continuò: «Assistente alla regia di un film che I’MGM incomincerà la settimana prossima». Ward si alzò così in fretta 140
che Faye dovette rimettersi precipitosamente in piedi per non cadere. Lui la fissò. «Sei pazza? Perché l’hai fatto? Eri uscita per questo? Per cercare un lavoro?» Sembrava inorridito, e Faye si chiese come pensava che potessero vivere. Cinquantacinquemila dollari in buoni del tesoro non sarebbero certo bastati a mantenere due adulti, cinque bambini e una cameriera. «Perché diavolo l’hai fatto?» Adesso Ward gridava, e i bambini s’erano affacciati sulla scala. «Uno di noi deve decidersi, Ward.» «Te l’ho detto che sto prendendo contatti tutti i giorni.» «Benissimo. Allora forse presto troverai qualcosa. Ma nel frattempo, io intendo accettare. Potrebbe essere un’esperienza magnifica.» «Perché? È questo che vuoi? Ricominciare con Hollywood?» «Non sarà più come un tempo.» Faye si sforzava di conservare un tono calmo. Voleva essere sincera con lui. E avrebbe voluto che i bambini salissero e smettessero di guardarli; ma quando gli accennò di andare non si mossero. E Ward non badava a loro. Lo faceva di rado, ormai. «Credo che dovremmo riparlarne quando saremo soli.» «Al diavolo! Parliamone subito.» Ward sembrava imbruttire di colpo quando s’infuriava. «Perché non me l’hai chiesto prima di fare una cosa simile?» «È capitato all’improvviso.» «Quando?» Le scagliava contro le parole come se fossero pietre. «Oggi.» «Benissimo. Allora digli che hai cambiato idea. Che non ti interessa.» All’improvviso qualcosa si spezzò nell’animo di Faye. La rabbia la travolse. «E perché dovrei? Ward, tengo molto a questo lavoro. Non m’importa se mi pagano poco, non m’importa quel che pensi tu. Voglio farlo. E un giorno anche tu ne sarai contento. Qualcuno deve pure tirarci fuori dalla situazione in cui siamo finiti.» Immediatamente si pentì di quelle parole. 141
«E pensi che tocchi a te, vero?» «Può darsi.» Ormai il male era fatto, e tanto valeva continuare. «Magnifico.» Ward le lanciò un’occhiataccia e prese la giacca dalla spalliera della sedia. «Allora non hai bisogno di me, no?» «Certo che ho bisogno di te...» Ma Faye non aveva ancora finito di pronunciare queste parole quando Ward sbatté la porta. Valerie e Vanessa scoppiarono a piangere e Gregory la guardò con aria triste. «Tornerà?» «Certo.» Faye salì incontro ai figli. Si sentiva di colpo stanchissima. Perché doveva rendere tutto così difficile? Perché la prendeva sempre come una questione personale? Probabilmente perché beveva troppo, si disse con un sospiro. Baciò Lionel e spettinò con affetto Greg, e poi prese in braccio le gemelle. Era abbastanza forte per portarle entrambe. Era abbastanza forte per fare tante cose. Forse era quello, il problema con Ward. A lui non faceva piacere, e diventava sempre meno facile tenerglielo nascosto. Avrebbe voluto chiedergli perché si comportava così, ma conosceva già la risposta. Ward non era capace di affrontare ciò che era successo, e poteva soltanto dare la colpa a se stesso o a lei. In entrambi i casi, era lei a pagare. Come avvenne quella notte. Rimase sveglia fino alle quattro in attesa che Ward tornasse a casa, pregando il cielo che non avesse avuto un incidente con la macchina. Lui rientrò alle quattro e un quarto. Puzzava di gin. E ce la fece appena a infilarsi nel letto al buio. Era inutile cercare di parlargli. Faye decise di attendere la mattina per esporgli il suo piano. Ma quando lo fece, non sembrò per nulla impressionato. «In nome del cielo, Ward, ascoltami.» Lui era in preda ai postumi della sbronza, e Faye aveva fretta di andare nell’ufficio di Abe a Hollywood per firmare il contratto e ritirare la sceneggiatura. «Non voglio ascoltare le tue fesserie. Sei pazza come lo 142
ero io. Sono soltanto sogni. Sei matta. Non t’intendi di regia più di quanto me ne intendo io, che non ne so niente.» Ward la fissava, furioso. «Anch’io non ne so niente. Ma imparerò. È lo scopo di questo lavoro, e forse del prossimo... forse anche dei prossimi dieci film. Ma poi ne capirò qualcosa, e quello che ti sto suggerendo non è affatto pazzesco.» «Scempiaggini!» «Ward, ascoltami. I produttori sono persone con moltissimi contatti, che conoscono parecchia gente con capitali disponibili. Non è necessario che siano ricchi, e neppure che siano entusiasti del film, sebbene sia utile fingere di esserlo. Sono mediatori. Stabiliscono gli accordi. Non sarebbe l’ideale per te? Pensa a quanta gente conosci, ai contatti che hai. Alcuni dei tuoi amici sarebbero soddisfatti d’investire nel cinema e di entrare nel giro di Hollywood. E un giorno, se tutto andrà bene, lavoreremo insieme. Tu produrrai e io dirigerò.» Ward continuava a guardarla come se straparlasse. «E allora perché non ci fai scritturare per un vaudeville? Sei matta, e riuscirai soltanto a renderti ridicola.» Faye si staccò da lui. Sentiva che non voleva ancora sperare, che non si rendeva conto delle possibilità. Ma lei le intravvedeva. Non sarebbe stato impossibile, se Ward si fosse deciso a tentare. Prese il soprabito e la borsetta e lo guardò. «Ridi pure, se vuoi. Ma un giorno riconoscerai che avevo ragione. E se mai avrai di nuovo il coraggio di essere un uomo, metterai in pratica la mia idea. Non è assurda come vuoi credere tu. Pensaci qualche volta se avrai il tempo tra una bevuta e l’altra.» Faye uscì e chiuse la porta. Per i due mesi che seguirono vide pochissimo il marito. Lui dormiva ancora quando usciva di casa per la lunga corsa in autobus che ogni giorno la portava al lavoro. Doveva partire poco dopo le quattro e l’autobus impiegava un secolo per raggiungere l’MGM. E quando rientrava la sera erano sempre le dieci passate, i bambini dormivano già e quasi sempre Ward era fuori. Non gli chiedeva mai dove andasse la notte. Si 143
buttava sul letto dopo un bagno caldo, uno spuntino e un’occhiata alla sceneggiatura. L’indomani tutto ricominciava. Era massacrante, ma Faye non cedeva. Il regista per cui lavorava disapprovava tutto ciò che faceva e le dava filo da torcere, ma per fortuna non era quasi mai sul set. E a Faye non importava nulla di lui: s’era stabilita una magia tra lei e gli attori, e riusciva a ottenere da loro qualcosa che nessun altro avrebbe ottenuto. Lo si vedeva chiaramente nelle riprese quotidiane, e soprattutto nella copia che alla fine mostrarono a Dore Schary. Abe le telefonò a casa vero la fine di gennaio, una settimana dopo che avevano terminato il film. Al suo rientro, Faye aveva scoperto che Ward era partito per qualche giorno. Aveva lasciato detto alla cameriera che andava in Messico «a vedere certi amici», e non s’era fatto vivo. Un brivido freddo era scorso lungo la spina dorsale di Faye quando aveva ricevuto il messaggio: ma s’era imposta di credere che tutto andava per il meglio e di dedicarsi ai figli, che aveva visto pochissimo dopo l’inizio della lavorazione. Ma una mattina, mentre giocava con Anne, fu interrotta dalla telefonata di Abe. «Faye?» Lei sorrise quando la voce nota le rimbombò nell’orecchio. «Sì, Abe.» «Ho buone notizie.» Faye trattenne il respiro. Dio, fai che il mio lavoro sia piaciuto. Era quasi fuori di sé per l’ansia. «Schary dice che sei favolosa.» «Oh, Dio...» Gli occhi le si riempirono di lacrime. «Vuole affidarti un altro incarico.» «Una regia, questa volta?» «No, ancora come aiuto regista, ma con un compenso più consistente. E stavolta vuol farti lavorare con un regista veramente bravo. Pensa che potrai imparare molto da lui.» Abe pronunciò un nome che lasciò Faye senza fiato. Aveva diretto anche lei, anni prima; e senza dubbio ciò che aveva detto Dore Schary era verissimo. Avrebbe imparato molto da quell’uomo. Tuttavia, aspirava a dirigere un film tutto suo. Sapeva che adesso doveva essere paziente: se lo ripeté men144
tre Abe le esponeva le condizioni del nuovo contratto, che sembravano ottime. «Cosa ne pensi?» «La risposta è sì.» Avevano bisogno di quel denaro, e solo Dio sapeva dov’era Ward. Quel viaggio in Messico era veramente l’ultima goccia, e Faye intendeva dirglielo chiaro, al suo ritorno. E gli avrebbe detto anche altre cose. Gli avrebbe parlato del nuovo contratto. Era meraviglioso, e non aveva nessuno cui confidarlo. Era disperatamente sola, senza di lui. «Quando devo incominciare?» «Fra sei settimane.» «Bene. Così avrò ancora un po’ di tempo da passare con i bambini.» Abe notò che non aveva nominato Ward... non parlava di lui da diverso tempo. Ma l’agente non ne era sorpreso. Non avrebbe scommesso dieci cents sulla possibilità che il loro matrimonio sopravvivesse. Ward, evidentemente, non si adattava alla realtà, a giudicare da quel poco che aveva detto Faye: e prima o poi lei sarebbe riuscita a risalire la china e lo avrebbe lasciato. Era facile prevederlo: o almeno Abe lo credeva. Non aveva mai capito veramente quanto Faye fosse attaccata a Ward. Senza una famiglia, senza amici intimi, aveva rinunciato alla sua carriera di attrice per lui e per i figli, e per anni aveva continuato a dipendere psicologicamente dal marito. Aveva bisogno di Ward come Ward aveva bisogno di lei: comunque, ne era convinta. E fu un trauma quando lo vide tornare dal Messico. Era in forma smagliante, abbronzato, felice, con un lungo sigaro cubano tra i denti, una valigia di coccodrillo in mano e uno dei vecchi abiti di lino bianco addosso. Gli mancava soltanto la Duesenberg parcheggiata davanti alla casa. E sembrava appena intimidito quando entrò. S’era aspettato di trovarla a letto, a quell’ora. Era mezzanotte passata ma Faye stava studiando la nuova sceneggiatura. «Hai fatto buon viaggio?» Il tono gelido della voce nascondeva la solitudine e il dolore che Faye aveva provato dopo la sua partenza. Ma era troppo orgogliosa per rivelarglielo, per il momento. 145
«Sì, scusa se non ho scritto...» «Immagino che non ne avessi il tempo.» Qualcosa, nell’espressione di Ward, la incollerì. C’era sarcasmo nella sua voce, e amarezza. Ward non era affatto pentito d’essersene andato. Lo capì immediatamente e ne intuì la ragione. «Con chi eri?» «Certi vecchi amici.» Lui posò le valige e sedette di fronte. Si rendeva conto che la situazione era più delicata del previsto. «Interessante. È strano che non ne avessi parlato prima di partire.» «È stata una cosa improvvisa.» Una luce cattiva gli balenò negli occhi. «E tu eri occupata con il tuo film.» Dunque si trattava di questo. Era una vendetta perché lei aveva trovato un lavoro. Faye lo sapeva, ma sapeva che era ingiusto. «Capisco. Certo, capisco. La prossima volta che partirai per tre settimane, potresti cercare di chiamarmi per avvertirmi. Ti sorprenderà, ma puoi metterti in contatto con me allo studio per telefono.» «Non lo sapevo.» Ward stava impallidendo sotto l’abbronzatura. «Già.» Faye lo guardò negli occhi e comprese la verità. Non sapeva come obbligarlo a riconoscerla. Ma i giornali dell’indomani resero tutto più facile. C’era scritto tutto quanto. Faye glieli buttò sul letto. «Hai un abile agente stampa, e anche un ottimo agente viaggi. Ma non ho una grande opinione dei tuoi gusti in fatto di donne e del tuo giudizio circa la compagnia da scegliere nelle gite.» Una fitta lancinante le dilaniava le viscere, ma non voleva che Ward se ne accorgesse. Non voleva rivelargli la sofferenza che le aveva causato con quell’avventura sfacciata. E sapeva che per lui quello era un modo per affrontare quanto era accaduto: fingere di fare ancora parte del mondo che aveva perduto. Ma per quanto si sforzasse, per loro era finita... a meno che lui sposasse una donna di quel giro. Ward soffocò un’esclamazione quando lesse la breve notizia. «L’ex milionario Ward Thayer IV e Maisie Abernathie dovrebbero tornare dal Messico ormai da un giorno all’al146
tro. Hanno oziato per due settimane a bordo dello yacht di lei al largo di San Diego, e poi sono andati in Messico a incontrare vari amici e a divertirsi con i pesci. Sembrano molto felici. Tutti si chiedono che cosa ha combinato Ward con la sua ex diva del cinema...» Faye lo fissò con odio e terrore, per la prima volta in vita sua. «Puoi dirgli che me ne vado. Il nome non farà più notizia, ma almeno risolverà le cose per te e Miss Abernathie, figlio di puttana! È così che intendi affrontare ciò che ci è successo? Girando il mondo con donne come lei? Mi fate schifo tutti e due!» Maisie Abernathie era un’ereditiera capricciosa e viziata che era andata a letto con quasi tutti gli uomini del loro ambiente... «eccetto me», diceva scherzando Ward, un tempo. E adesso l’elenco includeva anche lui. Faye uscì dalla stanza da letto sbattendo la porta e quando Ward scese scoprì che era andata ad accompagnare a scuola i quattro bambini più grandi. Da diverse settimane passava quasi tutto il tempo con loro, per ricompensarli dei mesi durante i quali aveva lavorato, e per quelli in cui avrebbe lavorato ancora. Sentiva terribilmente la loro mancanza quando era impegnata con un film. Tuttavia non pensava a loro quando tornò a casa e trovò ad attenderla Ward, che indossava una vestaglia di seta blu acquistata a Parigi anni prima. «Ti devo parlare.» Ward aveva l’aria terrorizzata quando si alzò. Faye gli passò accanto e salì la scala. Aveva intenzione di andare a leggere la sceneggiatura nella biblioteca pubblica. «Non ho niente da dirti. Sei libero di andare dove vuoi. Mi cercherò un avvocato, e lui telefonerà a Burford.» Faye incominciava a convincersi che la storia con Maisie Abernathie fosse una cosa seria. «È tanto semplice, eh?» Ward l’afferrò per il braccio mentre Faye gli passava accanto e cercava di evitare i suoi occhi. Ma poi lo guardò in faccia, e lui ebbe quasi paura. Non aveva mai visto tanto disprezzo, e si sentì spezzare il cuore nel rendersi conto di ciò che aveva fatto. «Faye, ascoltami... è stato uno stupido sbaglio. Avevo bisogno di andarmene da 147
qui... i bambini che gridavano, tu che non c’eri mai, questa casa deprimente... Non lo sopportavo più.» «Benissimo. Ora puoi andartene definitivamente. Puoi tornare a Beverly Hills con Maisie. Sono sicura che ti accoglierà a braccia aperte.» «A che titolo?» Ward guardò la moglie con amarezza. «Come autista? Cristo! Non riesco neppure a trovare un posto, e tu lavori sempre, e cosa diavolo sai di ciò che provo? Non sopporto questa vita. Non ci sono abituato, non so...» Lasciò il braccio di Faye che continuò a fissarlo freddamente. Questa volta aveva ecceduto. L’alcool, l’autocommiserazione, l’inettitudine al lavoro, le menzogne mentre sperperava l’ultimo denaro rimasto prima che lei lo scoprisse... poteva perdonargli tutto, ma questo no. Ward la guardava con aria patetica. «Non è colpa mia. Tu sei più forte di me. Hai qualcosa che io non ho. Non so che cosa sia.» «È il coraggio. E l’avresti anche tu, se ti scuotessi e restassi sobrio abbastanza a lungo per rimetterti in piedi.» «Forse non ne sono capace. Ci hai pensato? Io sì. Ci ho pensato tutti i giorni prima di andar via. E forse c’è qualcosa che dovrei fare, una volta per tutte.» «Che cosa?» Faye rimase impassibile, ma sentì di nuovo un brivido di terrore scorrerle lungo la spina dorsale. Adesso Ward era stranamente più calmo, come se sapesse ciò che doveva fare. «Uscire dalla tua vita.» «Adesso? Che mascalzonata.» Faye era inorridita: non voleva perderlo. Lo amava ancora. Lui e i bambini erano le sole cose che contassero al mondo. «Come potresti fare una cosa simile... a noi?» C’erano lacrime nei suoi occhi; e Ward s’impose di distogliere lo sguardo, come s’era imposto di non pensare a lei in quelle ultime settimane. Non sopportava più il rimorso. Quanto era accaduto era tutta colpa sua, e non poteva far nulla per rimediare. Non aveva niente da offrirle, e sembrava che lei riuscisse a cavarsela bene anche da sola. Almeno, era ciò che aveva detto a se stesso, ciò che si diceva anche ora mentre evitava di guardarla. Se l’avesse guardata, 148
avrebbe visto la sofferenza nei suoi occhi. «Ward, che cosa ci sta succedendo?» La voce di Faye era roca. Con un profondo sospiro, Ward attraversò la stanza per osservare dalla finestra la casa mal dipinta del vicino con i rifiuti ammucchiati nel suo cortile. «Credo che per me sia venuto il momento di andarmene, di trovarmi un lavoro, e lasciare che tu dimentichi che ci siamo incontrati.» «Con cinque figli?» Faye avrebbe riso, se non avesse avuto voglia di piangere. «Intendi dimenticare anche loro?» Gli fissava la nuca, incredula. Non poteva accadere, ma accadeva. Era come un incubo o una pessima sceneggiatura. «Vi manderò tutto quel che potrò.» Ward si girò lentamente verso di lei. «Si tratta di Maisie? Fai sul serio con lei?» Era difficile crederlo ma ormai era tutto possibile. Forse Ward aveva una nostalgia disperata della loro vita di un tempo, e Maisie ne faceva parte. Ma Ward scrollò la testa. «Non è questo. Ma sento il bisogno di andarmene per un po’.» Sembrava quasi amareggiato. «Penso che dovrei lasciarti sola, a costruirti una nuova vita. Probabilmente finirai per sposare un celebre divo del cinema.» «Se l’avessi voluto avrei potuto farlo anni fa. Ma non era questo che volevo. Volevo te.» «E adesso?» Ward provò uno slancio di coraggio, per la prima volta dopo tanti anni. Ormai era tutto finito. Non poteva far altro che andarsene. Non gli era rimasto più nulla da perdere, se aveva perduto Faye. Lei lo guardava con occhi tristi e vuoti. «Non so più chi sei, Ward. Non capisco come abbia potuto andare in Messico con quella donna. Forse è meglio che tu torni a raggiungerla.» Erano parole falsamente spavalde; ma Ward abboccò. «Forse è quel che farò.» Salì le scale, infuriato, e dopo un momento Faye lo sentì muoversi in camera da letto, intento a far le valige. Sedette in cucina e fissò ciecamente una tazza di caffè. Pensò agli ultimi sette anni e pian149
se, fino a quando venne il momento di andare a prendere i bambini a scuola. E quando tornò a casa, lui se n’era andato. I bambini non s’erano accorti del suo ritorno, e quindi Faye non aveva nulla da spiegare. Quella sera preparò per cena uno spezzatino d’agnello troppo cotto, patate al forno troppo crude e spinaci bruciati. Non se la sentiva di cucinare, ma almeno aveva tentato. Quella notte non seppe far altro che pensare a lui. Dov’era? Senza dubbio con Maisie Abernathie. Aveva sbagliato a perdere la pazienza? Quella notte rimase sveglia a lungo, ripensando a Guadalcanal, ai bei momenti vissuti insieme, alla tenerezza e ai sogni. Pianse a lungo e finalmente si addormentò, invocando Ward.
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il secondo film fu molto più difficile del primo. Il regista era sempre presente, avanzava pretese, dava ordini e criticava tutto ciò che lei faceva. In certi momenti Faye avrebbe voluto strozzarlo: ma tutto sommato le aveva fatto un dono raro. Le aveva insegnato tutti i trucchi che aveva bisogno di conoscere per la sua nuova professione: pretendeva da lei il massimo e otteneva anche di più, e qualche volta le lasciava prendere le redini e poi la correggeva. Quando ebbero finito il film, Faye aveva imparato più di quanto sarebbe riuscita ad apprendere altrimenti in dieci anni, e gliene fu grata. Il regista le fece un grande complimento prima di lasciare il set per l’ultima volta, e Faye lo guardò allontanarsi con le lacrime agli occhi. «Che cosa ha detto?» chiese uno della troupe, e Faye sorrise. «Ha detto che gli piacerebbe lavorare ancora con me, ma che sarà impossibile perché la prossima volta dirigerò un film tutto mio.» Faye sospirò guardando gli attori che si abbracciavano e festeggiavano la fine della lavorazione. «Spero che non sbagli.» E infatti fu così. Due mesi dopo, Abe le offrì il primo contratto di regia, anche questo con l’MGM. Dore Schary le aveva offerto la grande occasione, e lei era stata all’altezza. «Congratulazioni, Faye.» «Grazie, Abe.» «L’hai meritato.» Il nuovo film sarebbe incominciato in 151
autunno. Era una sfida immane, e Faye ne era felice. I bambini sarebbero tornati a scuola. Lionel avrebbe frequentato la seconda, Greg la prima, le gemelle andavano ancora all’asilo, e Anne si sforzava di stare dietro agli altri, senza riuscirci. Faye avrebbe sempre desiderato passare un po’ di tempo con lei, ma non lo trovava. Gli altri la reclamavano, e adesso avrebbe dovuto studiare la sceneggiatura per diversi mesi, e poi ci sarebbe stato il film da dirigere. Era difficile abbandonare tutto per stare con una bambina di due anni. Era così diversa dagli altri: non soltanto era la più piccola, ma era molto meno capace di comunicare. Era sempre più semplice lasciarla con la bambinaia che le era affezionata; e Lionel aveva sempre avuto per lei un attaccamento speciale. Faye era emozionata all’idea del nuovo film. Era la grande occasione che aveva atteso. Eppure ogni giorno pensava a Ward e si domandava dov’era. Non aveva più dato sue notizie dal giorno in cui se n’era andato. Una volta Faye aveva visto il suo nome nella rubrica di Louella Parsons, ma il pezzo non le aveva detto nulla. Almeno, non parlava di Maisie Abernathie. Il film le dava qualcosa da fare. Era sempre stata ansiosa di tenere la mente occupata da quando aveva terminato l’altro film. Diversi mesi prima aveva chiesto ad Abe l’indirizzo di un avvocato, ma non s’era mai decisa a telefonargli per quanto si ripromettesse di farlo. Tuttavia succedeva sempre qualcosa, e i ricordi la riassalivano. Poi, in luglio, Ward ricomparve. I bambini stavano giocando nel giardinetto dietro la casa, in cui avevano meticolosamente piantato dei fiori, e dove la bambinaia aveva costruito un’altalena apposta per loro. All’improvviso lui apparve nell’abito di lino bianco, con la camicia azzurra. Sembrava più bello che mai. Per un istante, Faye provò l’attrazione di un tempo; ma poi rammentò che l’aveva abbandonata e che solo Dio sapeva con chi se l’intendeva adesso. Si sentì intimidita e abbassò gli occhi prima di rialzarli per guardarlo. «Sì?» «Posso entrare?» 152
«Perché?» Faye lo fissò nervosamente. Ward appariva a disagio, ma era chiaro che non se ne sarebbe andato se non l’avesse lasciato parlare. «I bambini si agiteranno se ti vedranno qui.» Avevano smesso da poco tempo di chiedere di lui, e Faye immaginava che intendesse sparire di nuovo. «Non vedo i miei figli da quasi quattro mesi. Non posso neppure salutarli?» Mentre Faye esitava, notò che era dimagrito e sembrava più giovane. Le dispiaceva ammettere che era così bello: e non avrebbe avuto senso innamorarsi di lui per la seconda volta. «Dunque?» Ward non cedeva; alla fine, Faye si scostò e gli aprì la porta. La casa sembrava ancora più brutta del solito, ora che la vedeva di nuovo attraverso gli occhi di Ward. Lui entrò e si guardò intorno. «Be’, non è cambiato nulla.» Era una semplice constatazione che la innervosì immediatamente. «Immagino che sarai tornato a vivere a Beverly Hills.» La sua voce tagliente lo ferì come un coltello, esattamente come Faye voleva. Ward l’aveva fatta soffrire in modo terribile quando se n’era andato, e con ogni probabilità era riapparso per tormentarla ancora. C’era da presumere il peggio. Ward si girò con calma verso di lei. «Non vivo a Beverly Hills, Faye. Credi davvero che potrei lasciarvi tutti in un posto simile e tornare a Beverly Hills?» Sembrava inorridito, e Faye si limitò a fissarlo. In un certo senso, era esattamente ciò che lei aveva pensato. «Non so che cosa hai fatto, Ward.» Di certo, lui non aveva mai mandato assegni, ma avevano tirato avanti con la rendita del modesto investimento e con i guadagni di Faye. Adesso si domandava di che cosa aveva vissuto Ward in quegli ultimi mesi, ma non aveva intenzione di chiederlo a lui. In quel momento i bambini entrarono correndo. Lionel si fermò sulla soglia, sbalordito, e poi avanzò con gli occhi sgranati. Ma quando Greg vide il padre, si slanciò superando il fratello e gli si buttò tra le braccia. Le gemelle lo imitarono mentre Anne restava a fissarlo senza capire chi fosse. Non lo ricordava. Guardò Faye e le tese le manine per farsi 153
prendere in braccio. Sua madre la sollevò e guardò gli altri quattro che si buttavano addosso a Ward, ridendo, gridando e facendogli il solletico. Soltanto Lionel sembrava più cauto degli altri tre, e sbirciava spesso Faye, come per chiederle che cosa pensava. «Certo, Lionel», disse gentilmente lei. «Puoi giocare con papà.» Ma Lionel si tenne un po’ in disparte. E alla fine Ward li convinse tutti ad andare a ripulirsi e promise di portarli fuori a mangiare hamburger e gelato. «Ti dispiace?» chiese a Faye quando i bambini salirono. «No.» Lei lo guardò, diffidente. «Non mi dispiace.» Era nervosa, ma lo pareva anche Ward. Quattro mesi erano stati lunghi. Adesso erano ridiventati quasi estranei. «Ho trovato un posto, Faye.» Lo disse come se si attendesse trombe e fanfare, e lei resistette a stento all’impulso di sorridere. «Oh?» «In una banca... non è un posto importante. L’ho avuto da uno degli amici di mio padre. Sto tutto il giorno dietro una scrivania e alla fine della settimana ritiro un assegno.» Ward aveva l’aria sorpresa, quasi avesse immaginato che sarebbe stato più doloroso, come un intervento chirurgico. «Oh?» «Allora, non dici niente, maledizione?» Era di nuovo in collera con lei. Era diventata così difficile da accontentare. Forse riprendere a lavorare l’aveva stancata. Ward sapeva che lei non sedeva tutto il giorno dietro una scrivania ad attendere di ritirare un assegno il venerdì pomeriggio. Trasse un respiro profondo e ritentò. «Stai lavorando?» Sapeva che non era così, altrimenti non sarebbe stata a casa a giocare con i bambini. «No, comincerò tra un mese. Questa volta farò la regia.» Subito Faye s’irritò con se stessa per averlo detto. Ciò che faceva non riguardava più Ward: ma era piacevole dirglielo. Era sempre stato piacevole dirgli tutto. «Magnifico.» Lui si dondolava un po’ su un piede e un po’ sull’altro, senza sapere che dire. «Ci sono divi importanti?» 154
«Qualcuno.» Ward accese una sigaretta. Prima non aveva mai fumato. «Non abbiamo ancora notizie dal tuo avvocato.» «Non ho avuto il tempo di occuparmene.» Ma non era del tutto vero. Era libera da qualche mese, anche se Ward non lo sapeva. «Ma si farà vivo.» «Bene.» E poi i bambini scesero fragorosamente le scale. Ward portò a pranzo i quattro più grandi con la macchina nuova. Era una Ford del 1949 in ottimo stato. Ward guardò Faye con aria di scusa. «Non è una Duesenberg, ma mi serve per andare avanti e indietro dal lavoro.» Faye resistette all’impulso di dirgli che lei prendeva ancora l’autobus. La station wagon era irreparabilmente defunta il mese prima e li aveva lasciati senza mezzi di trasporto. «Vuoi venire a pranzo con noi, Faye?» Lei stava per dire no, ma i bambini la supplicarono a gran voce, e quindi finì per cedere. Era un po’ curiosa di sapere qualcosa di Ward... dov’era stato, cosa aveva fatto, dove viveva adesso. Si chiese se aveva ancora una relazione con Maisie Abernathie, ma si disse che non le importava più, e quasi riuscì a convincersi fino a che si accorse del modo in cui la cameriera la guardava. E allora si sentì arrossire. Ward era ancora un bell’uomo, e le donne lo notavano più di quanto gli uomini notassero lei. Ma d’altra parte lei aveva ancora la fede al dito e si portava dietro i cinque figli dovunque andasse. «Sono meravigliosi», disse Ward mentre tornavano a casa e i quattro bambini si spintonavano sul sedile posteriore della Ford blu. «Hai fatto un ottimo lavoro.» «Tu non te ne sei andato da dieci anni, santo cielo.» «A volte mi sembra che sia proprio così.» Ward tacque per un po’. La guardò quando si fermarono a un semaforo. «Sento molto la mancanza di tutti voi.» Faye avrebbe voluto rispondere: «Anche tu ci manchi», ma s’impose di non dir nulla, e si sorprese quando sentì la mano di Ward sulla sua. «Non ho mai smesso di rimprove155
rarmi ciò che ho fatto, se questo può contare qualcosa.» La voce era così bassa che i bambini non potevano sentire, anche perché stavano facendo un chiasso tremendo. «E non lo rifarei. Non sono uscito con un’altra donna da quando me ne sono andato da casa nostra.» Casa nostra... erano parole strane sulle sue labbra, riferite a quella casa tetra, e Faye si sentì commossa. Si voltò a guardarlo con le lacrime agli occhi. «Ti amo, Faye.» Era ciò che lei desiderava sentire da quattro mesi, e istintivamente gli tese le braccia. Ormai erano arrivati a casa, e i bambini stavano scendendo dalla macchina. Ward disse loro di entrare e promise di raggiungerli. «Piccola... ti amo più di quanto tu possa credere.» «Anch’io ti amo.» Faye scoppiò in singhiozzi e si scostò da lui. «È stato orribile senza di te, Ward...» «Come lo è stato per me. Credevo di morire, senza te e i bambini. All’improvviso ho capito che cosa avevamo, anche senza il vecchio tenore di vita e una casa grande.» «Non ne abbiamo bisogno.» Faye si asciugò gli occhi e sorrise. «Ma abbiamo bisogno di te.» «Meno di quanto io abbia bisogno di te, Faye Thayer.» Lui la guardò, esitando. «Oppure ti chiami di nuovo Faye Price?» Lei rise tra le lacrime. «Neppure per idea!» In quel momento notò che anche Ward portava la fede. E Greg chiamò il padre dalla casa. «Vengo, figliolo! Un minuto solo!» gridò Ward. C’erano ancora tante cose da dire, ma Faye scese dalla macchina. «Vai. Sei mancato molto anche a loro.» «E loro mi sono mancati molto di più.» Con una luce disperata negli occhi, Ward le prese il braccio. «Faye, ti prego, possiamo ritentare? Farò tutto ciò che vorrai. Ho smesso di bere quando me ne sono andato. Ho capito che mi ero comportato da mascalzone. Ho un posto da poco, ma almeno è qualcosa. Faye...» I suoi occhi si riempirono di lacrime. Non seppe più trattenersi. Chinò la testa e cominciò a piangere, e dopo un momento la guardò con franchezza. «Non sapevo cosa fare, quando tu andavi a lavorare. Mi sembrava 156
di non essere più un uomo... di non esserlo mai stato... ma, Dio, non voglio perderti, Faye, ti prego... oh, piccola, ti prego...» La prese tra le braccia e Faye ebbe la sensazione che il suo cuore avesse ritrovato un rifugio. Non aveva mai rinunciato veramente a lui. Non immaginava di poterlo fare. Gli appoggiò la testa sulla spalla e ricominciò a piangere. «Ti ho odiato tanto, per un po’ di tempo... o almeno volevo odiarti...» «Anch’io avrei voluto odiarti, ma sapevo di avere torto.» «Forse avevo torto anch’io. Forse non era giusto che tornassi a lavorare, ma non sapevo cos’altro fare.» Ward scrollò la testa. «No, avevi ragione.» Poi le sorrise tra le lacrime. «Tu e la tua idea pazza di farmi diventare produttore...» Le sorrise teneramente. Era una donna straordinaria, ed era fortunato a riaverla tra le braccia, fosse pure per poco. Faye scrollò la testa. «Non era un’idea pazza. È fattibile, Ward. Io posso insegnarti ciò che devi sapere. Potresti provare a stare sul set del prossimo film.» Lo guardò, speranzosa, ma questa volta fu Ward a scuotere il capo. «Non posso. Adesso lavoro. Dalle nove alle cinque.» Lei rise. «Sta bene. Ma potresti diventare comunque produttore, un giorno, se lo volessi.» Ward sospirò e la cinse con un braccio. «Mi sembra un sogno impossibile, mia cara.» «Forse no.» Faye lo guardò e si chiese che cosa le avrebbe portato la vita. Almeno le aveva riportato Ward. Lui si fermò sulla soglia della brutta casa di Monterey Park e la guardò. «Allora, riproviamo? No... è più esatto chiederti se sei disposta a darmi un’altra possibilità, Faye.» Faye lo guardò a lungo, con fermezza, e un sorriso le spuntò negli occhi. Era un sorriso nato dall’esperienza, dalla delusione e dal dolore. Non era più una ragazzina. La vita non era più quella di qualche anno prima. Il suo mondo era crollato e lei era sopravvissuta. E adesso quest’uomo le chiedeva di tornare al suo fianco. L’aveva fatta soffrire, l’aveva abbandonata, ingannata, tradita. Eppure, in fondo, sapeva che era 157
ancora suo amico, che l’amava come lo amava lei. Non aveva i suoi istinti e non era altrettanto capace di sopravvivere. Ma forse, fianco a fianco, tenendosi per mano... forse... no, ne era sicura. E soprattutto era di nuovo sicura di lui. «Ti amo, Ward.» Gli sorrise, e all’improvviso si sentì di nuovo giovane. Quei mesi erano stati interminabili senza di lui. Non voleva rivivere momenti come quelli. Era la sola cosa a cui non poteva sopravvivere. Ward la baciò mentre i bambini li guardavano, e tutti cominciarono a ridere, e Greg li additò ridendo più di tutti, e risero anche Ward e Faye. La vita era di nuovo bella come lo era stata tanto tempo prima: anzi, era ancora più bella. Entrambi erano discesi nell’inferno e ne erano tornati, e in un certo senso era come dopo Guadalcanal. Ma avevano vinto la guerra. Finalmente. Ora la vita poteva ricominciare. Per tutti.
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Ward lasciò la camera ammobiliata in West Hollywood e tornò nella brutta casa di Monterey Park che odiava tanto, e questa volta non notò neppure quanto era squallida. Gli sembrava meravigliosa, mentre saliva la scala con le valige. Vissero tre mesi idilliaci prima che i bambini tornassero a scuola e Faye incominciasse il nuovo film. E quando lo incominciò, Ward insistette perché prendesse lei la macchina, e questo le risparmiò l’interminabile tragitto in autobus alla mattina presto. Era premuroso con lei, più di prima. E se non c’erano più pendenti di smeraldi e spille di rubini, c’erano le cene che le preparava e teneva in caldo fino a che lei tornava a casa, e piccoli regali che le comprava con lo stipendio, un libro, una radiolina, un maglione morbido da portare sul set. La massaggiava quando era così stanca che avrebbe voluto piangere, e le faceva trovare il bagno pronto con i sali profumati. Era così pieno di attenzioni da commuoverla. Un mese dopo l’altro le dimostrava quanto l’amasse, e Faye lo contraccambiava; dalle ceneri della vecchia esistenza emerse un rapporto più solido. I mesi sgradevoli vennero dimenticati. Raramente parlavano dei bei tempi. Era troppo doloroso per entrambi. Sotto molti aspetti Faye amava la sua nuova vita. La sua prima regia andò bene, e nel 1954 le assegnarono tre film da dirigere, tutti con attori importanti. E tutti ebbero ottimi successi di cassetta. Aveva cominciato a rifarsi un nome a 159
Hollywood, non più come diva, ma come regista dotata d’intelligenza e di grande influenza sugli attori. Abe Abramson diceva che sarebbe stata capace di ottenere un’interpretazione commovente anche da un sasso, e Dore Schary era d’accordo con lui. Entrambi erano orgogliosi di Faye, e quando arrivò la prima proposta del 1955, Faye chiese ciò che desiderava da anni Aveva istruito Ward fin da quando era tornato, e sapeva che era pronto per incominciare. Abe rimase sbalordito quando gli spiegò le sue condizioni. «E vuoi che io lo dica a Dore?» Aveva quasi un’aria scandalizzata. Quel Ward non sapeva niente di cinema e Faye doveva essere impazzita. Abe aveva pensato che doveva essere matta quando s’era ripresa il marito; per la prima volta s’era trovato in disaccordo con lei, anche se non glielo aveva detto. Non glielo aveva detto allora, ma adesso lo disse. «Sei matta! Non accetteranno mai. Non ha esperienza. Ha trentotto anni, Faye, e non sa fare il produttore come non lo saprebbe fare il mio cane.» «Questa è una cattiveria, e non m’interessa quello che pensi tu. Negli ultimi due anni ha acquisito una certa esperienza nel campo finanziario, è intelligente, e ha amicizie importanti.» Ma soprattutto Ward era diventato davvero adulto, e Faye ne era orgogliosa. «Faye, non posso far accettare una combinazione simile.» Abe ne era sicuro. «E allora niente da fare, Abe. Queste sono le mie condizioni.» Era così decisa e irremovibile che l’agente provò la tentazione di strangolarla. «Stai commettendo un grave errore. Rovinerai tutto. Se andrà male, nessuno vorrà più saperne di te. Sai bene quanto è stato difficile, all’inizio, far accettare una donna regista. E tutti stanno ad aspettare un tuo tonfo. Nessun altro ti offrirà l’occasione che ti ha dato Dore...» Abe era rimasto a corto di argomenti. Faye alzò la mano. Portava soltanto la fede che non aveva mai tolto dal giorno del matrimonio. Tutti gli altri gioielli che le aveva regalato Ward erano stati venduti 160
da molto tempo e non ne sentiva più la mancanza. Avevano fatto parte di un’altra vita, di un’altra epoca. «Lo so, Abe. E tu sai che cosa voglio.» Faye si alzò, lo guardò. «Puoi farcela, se tenti. Sta a te. Ma queste sono le mie condizioni.» L’agente provò l’impulso di scagliare qualcosa contro la porta, quando lei se ne andò. Tuttavia rimase sorpreso quando l’MGM accettò le condizioni. «Sono ancora più matti di te, Faye.» «Hanno detto di sì?» Lei stringeva convulsamente il telefono. «Voi due comincerete il mese prossimo. O almeno, comincerà lui per primo, e tu entrerai in scena all’inizio della lavorazione. Sarete il produttore e la regista, con uffici all’MGM.» Abe non s’era ancora ripreso dallo sbalordimento e scrollava la testa. «Buona fortuna... e ascolta, è meglio che voi due vi precipitiate qui a firmare subito i contratti, prima che quelli rinsaviscano e cambino idea.» «Verremo questo pomeriggio.» «Bene», borbottò Abe. E quando andarono nel suo ufficio, Faye si sentì di nuovo fiera di Ward. Dirlo era una crudeltà, ma le disgrazie gli avevano fatto bene. Adesso aveva un’aria posata e matura. Abe incominciò a pensare che forse sarebbe riuscito a cavarsela; e sapeva che Faye avrebbe fatto tutto il possibile per aiutare il marito. Alla fine strinse la mano a entrambi, baciò la guancia di Faye e augurò loro buona fortuna. Poi, quando uscirono, scosse di nuovo la testa. Non si poteva mai sapere... era possibile... sì, forse era possibile... Il film ebbe un enorme successo di pubblico, e la loro carriera decollò. Incominciarono a fare due o tre film all’anno. Nel 1956 poterono finalmente lasciare la casa che Ward aveva tanto odiato, anche se ormai nessuno dei due aveva più tempo di notarla. Ne presero in affitto un’altra per due anni. E 161
nel 1957, cinque anni dopo che se ne erano andati, tornarono a Beverly Hills. Non era più lo splendore glorioso di un tempo, ma era una casa graziosa e ben tenuta, con un giardino davanti e uno sul retro, cinque camere da letto, l’ufficio in casa e una modesta piscina. I bambini ne furono entusiasti, e Abe Abramson era felice per i suoi amici. Ma i più felici erano Ward e Faye Thayer. Ce l’avevano fatta. Era come ritornare ancora una volta dalla guerra; e tenevano immensamente alle loro carriere e le amavano.
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Ancora Beverly Hills 1964-1983
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l’ufficio di Ward alla MGM non aveva un panorama particolare, e lui guardava dalla finestra senza interesse mentre dettava. Quando Faye entrò, guardò il profilo del marito e sorrise tra sé. A quarantasette anni era ancora bello come vent’anni prima, forse ancora di più. I capelli erano diventati bianchi ma gli occhi avevano conservato lo splendido azzurro. Il viso era segnato, ma la figura era ancora diritta, snella e solida. Adesso teneva tra le mani una matita mentre dettava. Era impegnato a preparare il prossimo film che doveva entrare in lavorazione fra tre settimane, e questa volta tutto filava secondo la tabella di marcia. Ward era implacabile. I film della Ward Thayer Productions uscivano sempre puntualmente e altrettanto puntualmente rendevano denaro. E che Dio aiutasse quelli che non collaboravano con Ward: non avrebbero più lavorato con lui. Aveva imparato molto, negli ultimi dieci anni. Faye non aveva sbagliato. Era un genio, quando si trattava di produrre film, molto più di quanto tutti avessero immaginato all’inizio. Sapeva fissare i preventivi in anticipo e portava investimenti da fonti che sorprendevano tutti. All’inizio s’era rivolto ai vecchi amici, ma poi era diventato abilissimo nel trattare con le società intenzionate a diversificare gli investimenti. Come diceva Abe Abramson, «Ward saprebbe incantare anche le bisce». E infatti ci riusciva sempre. Per mesi e mesi, durante i primi anni, lui e Faye avevano lavorato insieme fino a notte alta, per calcolare e stabilire 165
tutto. Ma dopo i primi sei film, Ward aveva incominciato a cavarsela benissimo da solo, e Faye si limitava alla regia. Lui realizzava le combinazioni molto prima che la moglie incominciasse a girare, e insieme producevano un successo dietro l’altro. Spesso li chiamavano «la coppia d’oro» di Hollywood. E anche se a volte avevano anche loro qualche contrattempo, di solito non sbagliavano mai un colpo. Faye era orgogliosa del marito, ormai da molto tempo. Aveva smesso di bere, e non c’erano più state altre donne nella sua vita dopo la separazione ormai lontana del 1953. Aveva lavorato con impegno, aveva avuto successo, e Faye era felice con lui. Più felice di quanto lo fossero stati nei primi anni fiabeschi. Quegli anni non le sembravano più reali, e Ward li rammentava raramente. Lei sapeva che rimpiangeva ancora quella vita facile, i viaggi, la tenuta, le dozzine di servitori, le Duesenberg... ma adesso vivevano nell’agiatezza. Come potevano lamentarsi? Amavano il loro lavoro, e i figli erano quasi grandi. Faye gli sorrise e diede un’occhiata all’orologio. Tra poco avrebbe dovuto interromperlo. Come se avesse sentito la sua presenza, Ward si voltò e le sorrise. I loro occhi s’incontrarono con una tenerezza che la gente invidiava ancora, dopo tanti anni. Ward e Faye Thayer avevano qualcosa di speciale, un amore ancora fulgido che destava l’invidia di tutti gli amici. La loro vita non era stata priva di sofferenze, ma aveva dato loro anche grandi soddisfazioni. «Grazie, Angela, finiremo il resto nel pomeriggio.» Ward si alzò e girò intorno alla scrivania per baciare la moglie. «È ora di andare?» Faye gli sorrise. Dopo tanti anni lui usava lo stesso dopobarba, ed era sempre un annuncio della sua presenza. Se chiudeva gli occhi, Faye riusciva a evocare le stesse immagini romantiche di tanto tempo prima. Ma quel giorno non ne aveva il tempo. Lionel si diplomava alle medie superiori di Beverly Hills. Dovevano essere alla scuola entro mezz’ora, e gli altri figli attendevano a casa che loro passassero a prenderli. 166
Faye diede un’altra occhiata al bellissimo Piaget d’oro e zaffiri che Ward le aveva regalato l’anno prima. «Credo che sia meglio andare, caro. La banda sarà probabilmente isterica.» «No.» Ward sorrise, prese la giacca e la seguì. «Soltanto Valerie.» Risero. Conoscevano bene i loro figli, o credevano di conoscerli. Valerie era la più nervosa, effervescente ed eccitabile, e aveva il carattere più tempestoso abbinato alle pretese più energiche. Quasi sempre era in sintonia con i suoi capelli rossi, in netto contrasto con la gemella. Anche Greg aveva molta energia, ma la usava in modo diverso. Pensava soltanto allo sport e, da un po’ di tempo, anche alle ragazze. E poi c’era Anne, «la figlia invisibile», come la chiamava a volte Faye. Passava quasi tutto il tempo nella sua stanza a leggere o a scrivere poesie. Sembrava distaccata dagli altri, ed era sempre stato così. Solo quando era in compagnia di Lionel affiorava un altro aspetto della sua personalità, e allora rideva e scherzava; ma se gli altri eccedevano un po’, si chiudeva di nuovo in se stessa. Faye aveva l’impressione di non fare altro che chiedere: «Dov’è Anne?» E a volte dimenticava di chiederlo. Era difficile capire quella ragazzina, e non era sicura di riuscirci. Certo, era strano dire una cosa simile della propria figlia: ma per Anne era così. Ward e Faye attesero l’ascensore. Adesso avevano un loro complesso d’uffici elegantemente decorato in bianco, azzurro e cromo. Faye l’aveva fatto rifare personalmente due anni prima, quando la Thayer Productions Inc. s’era insediata ufficialmente nell’MGM. Nei primi tempi avevano avuto un ufficio provvisorio, e poi ne avevano aperto uno dall’altra parte della città, e così avevano finito per sprecare ore in macchina per correre alle riunioni con i dirigenti. Ma adesso erano entrambi indipendenti e nel contempo facevano parte dell’MGM; lavoravano in subappalto con contratti biennali, e si occupavano anche di progetti propri. Era una situazione ideale e Ward era soddisfatto di come andavano le cose benché in segreto pensasse che fosse tutto merito di Faye. Una volta gliel’aveva confessato, anche se lei aveva obietta167
to, rimproverandolo di sottovalutarsi. Ed era così. Faye era sempre stata la diva, la padrona delle situazioni. Da anni conosceva tutti nel mondo del cinema e la rispettavano. Ma adesso rispettavano anche Ward, che lui l’ammettese o no, e Faye avrebbe desiderato che se ne rendesse conto. Era difficile fargli capire quanto fosse diventato importante. Non ne era del tutto sicuro. Ma in un certo senso, questo faceva parte del suo fascino, dell’ingenuità che aveva conservato e che gli dava l’aspetto e la gentilezza della gioventù. Nel parcheggio li attendeva la macchina, una Cadillac nera decapottabile che avevano da due anni. A casa c’era una gigantesca station wagon che usavano per uscire con i figli, e Faye aveva una piccola Jaguar verde-bottiglia che si divertiva a guidare. Ma anche così, sembrava che le macchine non fossero mai sufficienti. Ora che Lionel e Greg avevano la patente, si disputavano di continuo la station wagon: Lionel ancora non lo sapeva, ma quel pomeriggio la situazione sarebbe cambiata radicalmente. Come dono per il diploma e il compleanno, gli avrebbero regalato una delle nuove, piccole Mustang che erano appena uscite. Era una decapottabile color rosso vivo, con le fiancate bianche e i sedili rossi. Faye s’era emozionata ancora più di Ward quando erano andati a ritirarla la sera prima e l’avevano nascosta nel garage dei vicini. Non vedevano l’ora di presentarla al figlio quel pomeriggio, dopo essere andati tutti insieme alla Polo Lounge per festeggiare. E la sera ci sarebbe stato un party in casa. «Sembra incredibile, no?» Faye girò la testa verso Ward, mentre tornavano a casa, e sorrise con nostalgia. «Sta per compiere diciotto anni e si diploma. Sembra ieri, no? quando era un trottolino che imparava a camminare...» Quelle parole evocavano immagini del passato, e Ward aveva l’aria assorta. Tutto era cambiato dodici anni prima; e a volte se ne rattristava ancora, al ricordo. Era stata una vita così bella... Ma anche questa lo era, e l’altra non sembrava più neppure reale. Era un mondo perduto, si disse mentre lanciava un’occhiava a Faye. 168
«Tu non sei cambiata per nulla da allora, sai?» Le sorrise con ammirazione. Era ancora molto bella. I suoi capelli avevano lo stesso biondo pesca, e lei tingeva quelli grigi, in modo che non si vedessero. A quarantaquattro anni aveva sempre una bella figura, la carnagione trasparente e levigata, gli occhi accesi dallo stesso fuoco di smeraldo. Adesso Ward sembrava più vecchio, a causa dei capelli bianchi. Era incanutito presto, ma stava bene così: c’era un netto contrasto con il viso ancora giovanile e spesso Faye pensava che lo preferiva com’era. Sembrava più maturo. Si sporse per dargli un bacio sul collo. «Grazie del complimento, amore. Ma io sembro più vecchia ogni anno che passa mentre tu sei sempre affascinante.» Ward rise, un po’ imbarazzato, e la strinse a sé. «Sarai deliziosa anche fra trent’anni, lo sai? Adesso stai civettando con me in macchina... Magari mi fermerò, e faremo l’amore in fretta sul sedile posteriore...» Faye rise, e lui le guardò il collo flessuoso ed elegante, ancora privo di rughe. Spesso pensava che avrebbe dovuto continuare a fare l’attrice: era ancora bella e sapeva recitare. Ward lo ricordava ogni volta che la vedeva dirigere un film... ma era bravissima anche nella nuova professione. C’erano ben poche cose che Faye Thayer non sapeva fare. Un tempo quella certezza lo aveva sconvolto, ma adesso era fiero di lei. Era una di quelle persone che riescono bene in molte cose. Ma lo era anche Ward, sebbene non se ne rendesse conto e lo negasse quando Faye glielo diceva. Ancora adesso non aveva la medesima fiducia in se stesso, lo slancio, la sicurezza che permetteva a Faye di buttarsi in qualunque impresa con la certezza di riuscire. Faye diede un’altra occhiata al Piaget. «Siamo in ritardo?» Ward aggrottò la fronte. Non voleva deludere Lionel. Non era legato a lui quanto lo era a Greg; ma dopotutto era il primogenito, e quello era il suo gran giorno e quando avrebbe visto la macchina... Ward sorrise di nuovo. «Non siamo in ritardo. E perché sorridi?» Faye lo guardò incuriosita. 169
«Pensavo alla faccia di Li quando vedrà la macchina.» «Dio, morirà di gioia.» Faye rise tra sé e Ward sorrise di nuovo. Lei adorava quel ragazzo, da sempre, quasi troppo... ed era troppo protettiva verso di lui. Non voleva mai che corresse i rischi affrontati da Greg o che si esponesse a molte cose. Diceva sempre che non aveva la forza fisica di Greg, la sua capacità di reggere i colpi emotivi; ma Ward non ne era sicuro. Forse Lionel sarebbe diventato più duro, se Faye gliene avesse lasciato la possibilità. Per certi aspetti le somigliava molto: era ostinato come Faye, deciso a fare ciò che voleva, a tutti i costi. E le somigliava tanto che a guardarli con gli occhi socchiusi sembravano gemelli; spiritualmente lo erano, a volte al punto da escludere tutti gli altri. Se Ward fosse stato sincero con se stesso, avrebbe riconosciuto che a volte era geloso del figlio. Faye gli era stata vicina durante gli anni della crescita, si confidavano tra loro al punto che gli altri si sentivano tagliati fuori... soprattutto Ward, che provava una punta d’amarezza. Lionel era sempre gentile e affettuoso con lui, ma non cercava la sua compagnia, non insisteva per seguirlo di qua e di là, non era come Greg, che correva da Ward appena rientrava in casa, ogni sera, fin da quando aveva imparato a camminare. A volte, quando Ward era rientrato tardi la sera, l’aveva trovato addormentato al suo posto, nel grande letto matrimoniale. Greg aveva qualche avventura sensazionale da raccontargli, e voleva essere sicuro di svegliarsi al ritorno del genitore. Per lui il sole sorgeva e tramontava con suo padre e Ward ammetteva che era difficile eguagliare una devozione tanto appassionata, e al confronto il timido distacco di Lionel appariva ancora più incomprensibile. Del resto, perché tentare quando si aveva l’adorazione di un figlio come Greg? Tuttavia Ward sapeva di dovere qualcosa al figlio maggiore: non sapeva esattamente di che cosa si trattava, ecco tutto. Anche la macchina era stata un’idea di Faye. Avrebbe reso molto più facile a Lionel andare all’UCLA, quell’autunno, e anche al lavoro durante l’estate. Aveva trovato un posto nel170
la gioielleria Van Cleef & Arpels in Rodeo Drive, dove faceva le commissioni e sbrigava vari lavori, e ne era entusiasta. Non era il genere di lavoro che Ward avrebbe preferito per lui; ma Lionel l’aveva trovato da solo e s’era presentato al colloquio con i capelli appena tagliati e l’abito migliore. Evidentemente aveva fatto una buona impressione nonostante l’età, o forse alla gioielleria sapevano chi erano i suoi genitori. Comunque, aveva ottenuto il posto e quando l’aveva annunciato in famiglia quella sera era stato uno dei rari momenti in cui era apparso quasi infantile per la gioia, anziché composto e maturo. Greg era rimasto sorpreso, e le gemelle non s’erano entusiasmate troppo. Ma Faye era stata felice per lui: sapeva quanto aveva desiderato quell’impiego, e l’aveva ottenuto da solo. Perciò aveva insistito perché Ward si congratulasse con il primogenito; e lui l’aveva fatto, ma doveva ammettere che non era molto compiaciuto. «Sei sicuro di non voler andare nel Montana in agosto con Greg?» Greg intendeva andare a lavorare in un ranch per sei settimane, e prima si sarebbe accampato nel Parco di Yellowstone con un gruppo di ragazzi e di insegnanti della scuola. Ma era proprio il genere di cose che Lionel detestava di più. «Mi troverò benissimo qui, papà. Davvero...» Aveva gli occhi grandi e verdi come quelli di Faye, e li aveva sgranati, temendo che non gli permettessero di accettare quel posto dopo tutto il suo impegno per ottenerlo. Ma Ward aveva fatto prontamente marcia indietro nel vedere la sua espressione. «Avevo solo pensato di chiedertelo, così.» «Grazie, papà.» Lionel era sparito nella solitudine della sua stanza. Ward aveva ingrandito la casa qualche anno prima. La camera degli ospiti non c’era più, e la cameriera dormiva in una stanza aggiunta sopra il garage, e adesso ognuno dei figli aveva una camera tutta per sé, incluse le gemelle che erano state ben liete di dormire finalmente separate, anche se all’inizio non l’avevano ammesso. Ward e Faye entrarono nel viale, in Roxbury Drive. Le gemelle erano già in attesa sul prato. Vanessa portava un 171
abito di lino bianco e un nastro azzurro tratteneva i capelli biondi. Aveva i sandali nuovi e una borsa in paglia bianca; e i genitori pensarono subito che appariva molto graziosa. Lo era anche Val, ma in modo assai più sensazionale: indossava un abito verde, così corto che l’orlo era più vicino all’inguine che alle ginocchia. Era scollato sulla schiena e metteva in perfetto risalto la sua bella figura. Diversamente dalla gemella, non dimostrava affatto quindici anni. Si truccava spesso, aveva le unghie laccate, e quel giorno aveva messo un elegante paio di scarpine francesi con il tacco. Faye sospirò e lanciò un’occhiata a Ward quando lui fermò la macchina. «Ci risiamo... ecco la nostra sirena all’attacco.» Ward sorrise affettuosamente e le strinse il polso. «Lascia stare, cara. Non metterti a discutere con lei proprio oggi.» «Vorrei che si togliesse dalla faccia un po’ di quelle porcherie, prima di andare.» Ward scrutò la figlia senza scendere dalla macchina e rise. «Racconta a tutti che sei sua zia.» Poi guardò affettuosamente la moglie. «Un giorno diventerà una bellezza.» «A quel tempo sarò troppo vecchia e rimbambita per apprezzarlo.» «Lasciala fare.» Ward diceva sempre così. Era la sua risposta per tutto, eccetto quando si trattava di Lionel. Se c’era di mezzo Lionel voleva essere sempre informato, per criticare e rimproverare. Si aspettava moltissimo da lui. Troppo, secondo Faye. Ward non aveva mai capito che il ragazzo era diverso, fantasioso, sensibile, e che aveva esigenze tutte sue. Ma Val era differente... testarda, volitiva, bellicosa. Tra i loro figli era la più difficile. O forse anche Anne, sempre così chiusa. A volte Faye non riusciva a capire cosa fosse peggio. Ma quando scese dalla macchina Vanessa le corse incontro con quel suo sorriso limpido e Faye pensò che per quel giorno avrebbe fatto meglio a rallegrarsi perché aveva lei. Era più semplice. Le disse che era molto carina, le circondò le spalle con un braccio e le baciò la guancia. «Tuo fratello sarà fiero di te.» 172
«Stai parlando con Alice nel Paese delle Meraviglie?» Val si avvicinò, innervosita nel vedere che sua madre teneva abbracciata la sorella. Era rimasta a osservarla con attenzione quando aveva baciato la guancia di Vanessa. «Non ti pare che sia un po’ troppo vecchia per conciarsi così?» Valerie era tutta mod e, per contrasto, Vanessa sembrava l’innocenza personificata. E adesso che erano vicine, Faye notò sulle palpebre superiori di Val una linea nera che la fece rabbrividire. «Tesoro, perché non ti togli un po’ di trucco prima che andiamo? È ancora un po’ presto a quest’ora, non ti sembra?» Era più facile riferirsi all’ora che all’età. Quindici anni sembravano un po’ troppo pochi per truccarsi gli occhi alla Cleopatra; e comunque quel genere di maquillage non era mai stato nello stile di Faye. Ma Valerie non aveva adottato nessuna delle abitudini dei genitori. Aveva le sue idee su tutto, e solo Dio sapeva dove le pescava: sicuramente non le prendeva da loro. Sembrava uscita da un film su Hollywood per adolescenti, e alcune delle caratteristiche peggiori erano così accentuate che sua madre avrebbe voluto urlare. Faye, comunque, si sforzò di restare calma mentre Val puntava visibilmente i piedi. «Ho impiegato un sacco di tempo per mettermelo, mamma, e non intendo toglierlo.» «Prova a costringermi» erano le uniche parole che aveva dimenticato di aggiungere; e Faye non era neppure sicura che, volendo, ci sarebbe riuscita. «Sii ragionevole, cara. È un po’ eccessivo.» «Chi lo dice?» «Avanti, scimmietta, togliti quello schifo.» Greg era arrivato correndo. Portava un paio di calzoni kaki e una camicia azzurra con una cravatta tutta storta che sembrava fosse rimasta sotto il letto per qualche anno. I mocassini erano sciupati, e i capelli non stavano giù come avrebbe voluto. Ma nonostante l’evidente contrasto con l’eleganza del padre, sembrava la sua copia a carbone e Faye sorrise mentre Greg sbirciava Val e scrollava le spalle. «Ti dà l’aria scema, davvero.» Le sue parole servirono solo a irritare ancora di più Val. 173
«Fatti gli affari tuoi... non sei altro che uno stupido atleta.» «Be’, posso dirti una cosa. Non uscirei mai con una ragazza che avesse tutte quelle porcherie in faccia.» Greg squadrò la sorella con aria di disapprovazione. «E il vestito è troppo attillato. Ti mette in mostra le tette.» Val arrossì e s’infuriò. Aveva scelto l’abito apposta perché mettesse in risalto il seno ma non voleva che quell’odioso fratello lo facesse notare. «Ti dà l’aria della troietta.» Greg lo disse quasi con indifferenza, ma Val spalancò gli occhi e cercò di sferrargli una sberla proprio nell’istante in cui Ward usciva dalla casa. «Ehi, voi due! Comportatevi bene! Oggi è la festa del diploma di vostro fratello.» «Mi ha dato della troietta!» Valerie era furibonda, e Vanessa aveva l’aria seccata. Quei due litigavano sempre e Vanessa pensava che avesse ragione Greg, anche se questo non serviva a influenzare Valerie. Era così ostinata che faceva sempre ciò che voleva, e se non la spuntava era capace di rovinare la giornata a tutti. Era già successo almeno diecimila volte. «Vero che lo sembra, papà?» Greg cercò di difendersi dall’assalto inferocito della sorella; e Faye, che era lì vicina, sentì il suono della camicia azzurra che si strappava! «Basta!» Era inutile, e quando si comportavano così la sfinivano. Di solito lo facevano quando era stanca morta, dopo una giornata faticosa sul set. Erano passati i tempi sereni, quando la sera leggeva loro le favole accanto al fuoco; e d’altra parte non aveva potuto farlo spesso. Le bambinaie e le cameriere avevano preso il suo posto per anni, e a volte si chiedeva se quello era il prezzo che doveva pagare. In certi momenti, come adesso, erano completamente incontrollabili. Ma Ward si intromise, afferrò il braccio di Valerie e le parlò con un tono fermo che l’ammutolì. «Valerie, vai a lavarti la faccia.» L’ordine non lasciava spazio per le obiezioni. Val esitò un attimo mentre il padre consultava l’orologio. «Noi partiamo fra cinque minuti, con o senza di te, ma penso che dovresti essere presente.» Poi le voltò le spalle e si rivolse a Faye. «Dov’è Anne? Di sopra non 174
l’ho trovata.» Neppure Faye lo sapeva: era rientrata dall’ufficio con lui. «C’era quando ho telefonato. Van? Sai dov’è andata?» Vanessa alzò le spalle. Era impossibile star dietro a quella ragazzina: andava e veniva, non parlava con nessuno e stava quasi sempre chiusa in camera sua a leggere. «Credevo che fosse di sopra.» Greg rifletté un momento. «Mi pare di averla vista attraversare la strada.» «Per andare dove?» Ward incominciava a spazientirsi. La scena gli ricordava le insopportabili vacanze di famiglia che avevano fatto in posti come il parco di Yosemite, fino a quando avevano potuto permettersi di mandare tutti i figli al campeggio per avere un po’ di pace. Stava bene in compagnia della famiglia, ma a volte lo facevano ammattire. «Hai visto dov’è andata?» Notò che Val era rientrata in casa per togliersi un po’ di trucco... e magari anche l’abito. Ma forse era pretendere troppo. Infatti, Val uscì mentre stavano ancora cercando Anne. La linea nera sulle palpebre era appena un po’ meno vistosa, e l’abito era sempre verde e attillato. «Valerie, sai dov’è andata Anne?» La fissò esasperato. «Sì, è andata dai Clark.» Era semplice. Finalmente. Quella ragazzina si perdeva sempre. Ward ricordava il giorno in cui avevano dovuto cercarla freneticamente per tre ore da Macy’s a New York, e alla fine l’avevano trovata fuori, addormentata sul sedile posteriore della berlina presa a nolo. «Ti dispiacerebbe andare a chiamarla?» Ward si accorse che la reginetta di bellezza stava per obiettare; le lanciò un’occhiata e Valerie tacque, annuì e attraversò correndo la strada con la minigonna che le fasciava i fianchi ben modellati. Guardò Faye con un gemito. «Rischierà di farsi arrestare, vestita così.» Faye sorrise. «Vado a mettere in moto la macchina.» Con la coda dell’occhio vide Valerie che riaccompagnava l’ultimogenita attraverso la strada. Anne era vestita in modo più appropriato di tutti; portava un grazioso chemisier rosa 175
ben stirato e della lunghezza giusta. I capelli erano pettinati con cura, gli occhi splendevano, le scarpe rosse erano lucide. Era un piacere guardarla, in contrasto con la vistosa sorella maggiore. Anne salì sulla station wagon e prese posto nell’ultimo sedile. Non era arrabbiata con nessuno; le piaceva stare lì. «Cosa eri andata a fare?» chiese Greg mentre saliva e sedeva tra le gemelle. Anne era sola, anche se di solito Lionel o Vanessa prendevano posto accanto a lei. Non era un mistero che non andava d’accordo con Val, e non aveva molto in comune con Greg. Adorava Lionel, ed era affezionata a Vanessa che si occupava di lei quando non c’era nessun altro. Gli ordini di Faye erano invariabili: «Vanessa, bada ad Anne». «Volevo vedere una cosa.» Anne non soggiunse altro. Ma era andata a vedere il regalo, la bella Mustang rossa, ed era felice per Lionel. Non disse nulla a nessuno per tutto il tragitto fino a scuola. Voleva che fosse una sorpresa e, quando scesero, Faye si chiese se lo sapeva. Ma Anne tacque, seguì gli altri nell’auditorium e sedette in fondo alla fila. Era uno dei giorni più felici della sua vita, ma anche uno dei più tristi. Sapeva che in autunno Lionel si sarebbe trasferito in un appartamento che avrebbe diviso con alcuni amici nel campus dell’UCLA. La mamma aveva pensato che fosse ancora troppo giovane, ma papà aveva ribattuto che gli avrebbe fatto bene. Anne sapeva perché aveva deciso così: era geloso perché Li era tanto vicino alla mamma. Ma adesso se ne sarebbe andato, e Anne non sapeva come avrebbe potuto vivere senza di lui. Era l’unico con cui poteva parlare, lo era sempre stato. Era Li che si prendeva cura di lei, le preparava persino il pranzo da portare a scuola, e sempre con le cose che le piacevano, non la mortadella rinsecchita o il formaggio avanzato come avrebbero fatto Vanessa e Valerie. Lionel le preparava i sandwich di insalata con l’uovo, di roastbeef, di pollo o di tacchino. Le portava libri interessanti da leggere. La sera restava a parlare con lei e le spiegava come fare i compiti di matematica. Era il suo migliore amico. Lo era sempre sta176
to, e veniva a rimboccarle le coperte quando mamma e papà erano al lavoro. Per lei era stato un padre e una madre quasi più dei veri genitori. E all’improvviso, quando lo vide sul podio con la toga e il tocco bianchi, si sentì salire le lacrime agli occhi. Era come vederlo sposarsi, o quasi... e in un certo senso era altrettanto doloroso. Lionel sposava una nuova vita. E molto presto l’avrebbe lasciata. Greg lo guardava con invidia. Avrebbe voluto essere lui a diplomarsi quell’anno, e chissà se ci sarebbe mai riuscito. Nel terzo anno non aveva ottenuto voti molto belli, ma aveva promesso a suo padre che l’anno seguente avrebbe migliorato. Quel fortunato di Lionel andava al college, anche se Greg non approvava la sua scelta. Pensava che l’UCLA fosse una scuola noiosa. Avrebbe voluto andare in un posto come il Georgia Tech, dove avrebbe potuto diventare un asso del football, anche se papà parlava di mandarlo a Yale, se l’avessero accettato, e naturalmente avrebbe potuto giocare a football anche là, gli veniva l’acquolina in bocca al solo pensiero... e le ragazze, poi... Valerie stava guardando un ragazzo seduto nella terza fila. Lionel l’aveva portato in casa qualche settimana prima, ed era il giovane più bello che lei avesse mai visto. Con i capelli lisci e nerissimi, gli occhi scuri, la carnagione chiara. Era alto e ballava come un sogno. E faceva coppia fissa con una stupida dell’ultimo anno. Ma Val sapeva di essere molto più bella di quella ragazza, e se avesse avuto la possibilità di parlare con lui un paio di volte... ma naturalmente Li non voleva saperne di collaborare. Non le combinava mai appuntamenti con nessuno. E poi c’era John Wells, il miglior amico di Greg. Era carino, ma così timido. Arrossiva ogni volta che Val gli parlava. E avrebbe finito per andare anche lui all’UCLA. Sarebbe stato un bel colpo accalappiare un ragazzo del college; ma per il momento era riuscita a conquistare soltanto tre compagni di classe, ed erano tutti mocciosi e non volevano altro che palparle le tette. Lei teneva il resto per un universitario, come il ragazzo nella terza fila... 177
Vanessa osservava la gemella e quasi le leggeva nella mente. La conosceva troppo bene. Sapeva quali ragazzi le piacevano. Era una pena vederla così stracotta dei ragazzi, e lo era sempre stata da quando faceva la settima classe. Anche a Vanessa i ragazzi piacevano, ma per lei non erano un’ossessione: preferiva scrivere poesie e leggere. I ragazzi andavano benissimo, ma non ne aveva ancora trovato uno speciale. E incominciava a chiedersi se Val era già arrivata fino in fondo. Sperava di no. Altrimenti si sarebbe rovinata l’esistenza. Certo, c’era la pillola... ma non potevi procurartela se non avevi più di diciotto anni o se non eri fidanzata. Sapeva che una delle ragazze del terzo anno era riuscita a ottenerla fingendo di avere ventun anni, ma non immaginava di potere o voler fare una cosa simile. Faye sarebbe stata sollevata se avesse potuto leggerle nel pensiero. Anche lei si preoccupava delle stesse cose. In quel momento però non pensava a Greg, ad Anne o alle gemelle, ma solo al figlio maggiore, così bello, alto e innocente, che cantava con gli altri l’inno della scuola, con il diploma in mano, mentre il sole entrava nella sala. Lo guardava: sapeva che quel momento non sarebbe più ritornato, che Lionel non sarebbe più stato così giovane e così puro. Per lui la vita stava appena incominciando. Desiderava tante cose belle per Li, e le lacrime le rigavano le guance. In silenzio, Ward le porse il fazzoletto e lei si voltò a guardarlo con un sorriso dolce-amaro. Quanta strada avevano fatto, e come voleva bene a tutti, specialmente a Ward... e a quel ragazzo... voleva proteggerlo da tutte le sofferenze della vita, le delusioni e le angosce... Istintivamente, Ward le cinse le spalle con un braccio e l’attirò più vicina. Era fiero del figlio, ma voleva per lui qualcosa di ben diverso. «È così dolce», mormorò Faye a Ward. Per lei, Lionel era ancora un bambino. Ward le bisbigliò: «È un uomo». O almeno, sperava che un giorno lo diventasse. Per il momento aveva ancora l’aspetto lievemente effemminato dell’adolescenza, e a volte Ward 178
si chiedeva se sarebbe mai diventato un uomo. Somigliava tanto alla madre e proprio nell’attimo in cui pensava questo, vide Lionel girare lo sguardo sulla folla e trovare gli occhi di Faye. Si guardarono affettuosamente, escludendo tutti gli altri. Ward provò l’impulso di tirarla indietro, per il suo bene e per quello del ragazzo, ma madre e figlio erano irraggiungibili, in un certo senso. Avevano sempre avuto in comune qualcosa che gli altri non potevano toccare. «È meraviglioso.» Ward era doppiamente lieto che Li se ne andasse il prossimo autunno. Aveva bisogno di allontanarsi dalla madre. E fu ancora più certo quando Lionel corse ad abbracciarla dopo la cerimonia. Gli altri diplomati se ne stavano tutti qua e là e tenevano per mano ragazze dall’aria impacciata. «Sono libero, mamma! Non sono più uno studentello delle medie superiori!» Li aveva occhi solo per lei, e Faye era emozionata. «Congratulazioni, tesoro.» Faye lo baciò sulla guancia e Ward gli strinse la mano. «Congratulazioni, figliolo.» Indugiarono ancora un po’ e poi andarono a pranzo alla Polo Lounge del Beverly Hills Hotel. E come Anne aveva previsto, Lionel sedette accanto a lei sull’ultimo sedile, durante il tragitto. Nessuno lo trovava strano. Per anni Lionel s’era seduto lì dietro con lei, come Faye e Ward prendevano posto sul sedile anteriore e Greg e le gemelle su quello di mezzo. I frequentatori della Polo Lounge erano i soliti: sgargianti, vestiti di seta, in minigonna e con pesanti catene d’oro. C’erano registi e sceneggiatori, attrici e attori, gente che chiedeva autografi e camerieri che portavano i telefoni da un tavolo all’altro perché tutti fingevano di ricevere telefonate importanti. A un certo punto Faye uscì e telefonò a Lionel per congratularsi con lui e tutti risero eccetto Ward. A volte madre e figlio si comportavano come due innamorati, e questo lo infastidiva. Dopo il pranzo andarono tutti a casa e fecero il bagno nella piscina. Alcuni amici dei ragazzi vennero a trovar179
li e quindi nessuno si accorse quando Ward e Faye si allontanarono furtivamente e attraversarono la strada per andare a casa dei Clark. Ward guidò la macchina fin quasi alla piscina e suonò freneticamente il clacson mentre Faye rideva seduta su di un asciugamani, così, con il costume ancora bagnato. I ragazzi sgranarono gli occhi senza capire, in un primo momento: forse pensavano che i genitori fossero impazziti. Poi Ward saltò a terra, andò da Lionel e gli porse le chiavi. Li gli buttò le braccia al collo, ridendo e piangendo. «Vuoi dire che è mia?» «Ancora complimenti per il diploma, figliolo.» Anche gli occhi di Ward erano lucidi di lacrime. Era commosso dalla gioia del ragazzo: era un momento magico che non si sarebbe mai ripetuto. Con un grido di gioia Lionel lo abbracciò di nuovo mentre Anne se ne stava in disparte a guardare con un sorriso raggiante. Lionel invitò tutti a salire in macchina, e Ward e Faye assistettero alla scena mentre i ragazzi si ammucchiavano sui sedili e sul portabagagli. «Vai piano, Li», esclamò Faye. Ward le prese la mano e la fece arretrare di qualche passo. «Lascialo fare, amore. Non succederà niente.» E per un istante, solo per un istante, prima di avviare la macchina e di allontanarsi, Lionel indugiò e cercò gli occhi del padre. Si guardarono e si scambiarono un sorriso. Non erano necessari altri ringraziamenti. E mentre la macchina si allontanava, Ward ebbe la sensazione di aver stabilito un contatto con il figlio per la prima volta... finalmente.
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Quella sera c’erano cento persone, quasi tutti giovani, invitate a festeggiare il diploma di Lionel con un barbecue. E Ward e Faye avevano fatto venire un complesso rock che suonava sotto un tendone, nel giardino dietro la casa. Era la festa più grande che avessero dato da molti anni, e tutti erano emozionati. Greg indossava una maglietta a righe sgualcita e un paio di jeans. Era scalzo e i. capelli biondi erano spettinati. Faye stava per rispedirlo di sopra a cambiarsi, ma lui le sfuggì; e quando lo disse a Ward, Ward rispose come sempre: «Lascialo fare, piccola, va bene così». Faye lo guardò con aria di disapprovazione. «Per essere un uomo che si cambiava la camicia tre volte al giorno e portava abiti di lino bianco, non pretendi molto da tuo figlio.» «Forse è proprio per questo. Sono passati vent’anni. Oggi la gente non vive più così, Faye, e già allora era un modo di fare superato. Siamo dinosauri, anche se fortunati. Greg ha cose più importanti per la testa.» «Che cosa? Il football? Le ragazze? La spiaggia?» Faye si aspettava di più da Greg. Si augurava che fosse come Lionel. Ma Ward sembrava più soddisfatto del figlio atleta che dell’intellettuale. Per lei non aveva molto senso, e le era sempre sembrato ingiusto che Ward pretendesse molto meno da Greg e non apprezzasse mai i risultati ottenuti da Lionel; ma non era una cosa che si potesse risolvere da un giorno all’altro. C’erano state diverse discussioni, a volte anche vivaci: 181
ma quello era un giorno speciale e Faye non voleva litigare. Era strano: litigavano molto di rado, ma a volte era proprio a causa dei figli che si trovavano a dissentire e si scambiavano parole aspre, soprattutto per via di Lionel. Ma quella sera no, quella sera no, pensò Faye, e decise di non insistere per quanto riguardava Greg. «D’accordo, non importa.» «Lascia che si diverta. Non ha importanza com’è vestito.» «Spero che la pensi così anche per Val.» Ma per entrambi era molto difficile non dirle niente. Aveva indossato un miniabito in pelle bianca aderentissimo dalla gonna a frange e degli stivali in tinta che evidentemente s’era fatta prestare da un’amica. Ward si tese verso Faye mentre le versava un drink al bar e sussurrò: «Su quale marciapiede lavora la sua amica? Te l’ha detto?» Faye rise e scosse la testa. Le sembrava di avere ormai da tanto tempo i figli adolescenti che nulla la stupiva più: anzi, la preparava ad affrontare gli attori dell’MGM. Nessuno poteva essere più difficile, imprevedibile e capriccioso di un adolescente, anche se molti ci provavano. «Credo che la povera Vanessa stia cercando di contrastare l’effetto Val», disse Ward. Aveva scelto un abito rosa e bianco che sembrava più adatto a una bambina di dieci anni, e scarpe rosa da ballerina. Era pettinata ancora come Alice nel Paese delle Meraviglie. Quelle due non avrebbero potuto essere più diverse, e Faye sospettava che non fosse un caso. E Lionel con un vestito leggero estivo, splendido e dignitoso con la camicia celeste a righine e una delle cravatte del padre, si sforzava di darsi l’aria da adulto e aveva sistemato la macchina nuova bene in vista sul prato davanti alla casa... Greg con gli abiti gualciti... Valerie fasciata di pelle bianca... Vanessa abbigliata come una bambina... ognuno aveva una sua individualità, senza dubbio. All’improvviso, Faye ricordò qualcosa e guardò Ward. «Hai visto Anne?» «Poco fa era sul bordo della piscina con un paio di amiche. Non le succederà niente. Lionel la terrà d’occhio.» Li 182
lo faceva sempre, ma quella era la sua grande serata e Ward aveva finto di non accorgersi che s’era versato un bicchiere abbondante di vino bianco. Doveva lasciare che il ragazzo si sfogasse un po’, tanto per cambiare; e se si fosse sbronzato la sera del diploma, che male c’era? Avrebbe potuto appannare un po’ la sua immagine impeccabile, e sarebbe stato tanto di guadagnato. Doveva distrarre Faye perché non lo sorvegliasse: e la invitò a ballare. Valerie restò a guardarli inorridita, Vanessa sorrise, e alla fine Lionel venne a portar via Faye per ballare con lei, e Ward incominciò a chiacchierare con gli amici e a stare attento perché nessuno dei ragazzi eccedesse. Alcuni erano sbronzi, ma avevano tutti l’età di Lionel e anche per loro era la festa del diploma: Ward pensava che avessero il diritto di fare un po’ i matti purché nessuno di loro guidasse la macchina in quello stato per tornarsene a casa, e aveva dato disposizioni precise agli inservienti del parcheggio. Nessuno avrebbe ricevuto le chiavi della propria macchina se sembrava ubriaco, e questo valeva per gli adulti come per i giovani. Trovò Anne seduta accanto alla piscina a parlare con John Wells, il miglior amico di Greg. Era un caro ragazzo che idolatrava Greg, e Ward sospettava che Anne avesse una cotterella per lui; ma non era probabile che John ricambiasse i sentimenti di una ragazzina di dodici anni. Lei doveva ancora crescere, anche se Lionel la trattava come se fosse già adulta e a volte dimostrava una maturità sorprendente. Molto più delle gemelle e persino di Greg. Ward si chiese che cosa stava dicendo a John, ma era così timida e ombrosa che non osava avvicinarsi per timore di metterla in fuga proprio quando aveva l’aria di divertirsi tanto. Dopo un po’ Lionel li raggiunse e Ward vide che John lo accoglieva con un sorriso di ammirazione estatico quanto quello di Anne. Ward andò a recuperare Faye che stava parlando con un gruppo di vicini e di amici. Voleva ballare di nuovo con lei. La riteneva più bella di tutte le ragazze presenti, e glielo si leggeva negli occhi mentre le passava un braccio intorno alla vita. 183
«Ti va di ballare?» Le batté la mano sulla spalla e Faye rise quando vide che era lui. «Certo.» Il complesso era eccellente, i ragazzi si divertivano. E Anne stava bene in compagnia di Lionel e John. La trattavano da adulta, diversamente dagli altri giovani. Era alta per la sua età e aveva gli stessi capelli color pesca che sua madre aveva avuto in gioventù. Un giorno sarebbe diventata molto bella, ma le sembrava impossibile. Pensava di non essere graziosa come Faye, o spettacolare come Val, e neppure distinta come Vanessa. Ma Lionel le diceva sempre che era la più bella di tutti, e lei ribatteva che doveva essere matto, e indicava le ginocchia nodose e i capelli «strani» che le incorniciavano il viso vaporosamente. Stavano appena incominciando a spuntarle i seni e questo la metteva in imbarazzo. Si sentiva quasi sempre impacciata, tranne quando era con Lionel. Lui riusciva a farla sentire meravigliosamente a suo agio. «Ti piace la tua nuova macchina?» John sorrise al fratello maggiore dell’amico e pensò con ammirazione che il nodo della sua cravatta era perfetto. Era entusiasta del suo modo di vestire anche se non avrebbe mai osato dirlo. «Vuoi scherzare?» Lionel sorrise. «È splendida. Non vedo l’ora di tirarla fuori domani per fare un bel giro.» Continuò a sorridere all’amico di Greg. John frequentava la loro casa da anni e l’aveva sempre trovato simpatico. Era più interessante degli altri amici atleti di Greg: Lionel l’aveva scoperto per caso un giorno quando aveva parlato con John mentre Greg era fuori. John fingeva quasi sempre di essere come gli altri, ma non era appassionato di football, di atletica e di tutto il resto che comunque non aveva mai affascinato Lionel. «La settimana prossima comincerò a lavorare, e sarà magnifico avere una macchina mia.» «E dove lavorerai?» John sembrava interessato e Anne assisteva alla conversazione in silenzio, come sempre. Ascoltava il fratello e osservava il viso di John. Aveva sempre pensato che avesse due occhi bellissimi. 184
«Da Van Cleef & Arpels. Una gioielleria di Beverly Hills.» Lionel si sentiva in dovere di spiegarlo. Nessuno degli amici di Greg poteva immaginare che cosa fosse. Ma John rise e Anne lo guardò sorridendo. «La conosco. Mia madre ci va spesso. Hanno molta roba carina.» Lionel era sorpreso e compiaciuto. John non s’era scandalizzato nel sentire che sarebbe andato a lavorare là. «Dev’essere piacevole.» «Sì. Ci tengo molto.» Lionel guardò la Mustang con aria raggiante. «Soprattutto adesso.» «E in autunno andrai all’UCLA. Sei fortunato, Li. Io sono stufo a morte delle medie superiori.» «Ormai non ci vorrà molto. Ti resta un solo anno.» «A me sembra un’eternità.» John gemette e Lionel sorrise. «E poi?» «Non lo so ancora.» Questo non era insolito. Quasi tutti i suoi amici non avevano ancora deciso. «Io studio cinematografia.» «È magnifico.» Lionel scrollò modestamente le spalle. Aveva vinto molti premi fotografici fin da quando aveva quattordici anni e aveva incominciato a occuparsi di film un paio d’anni prima. Era pronto per tutto ciò che l’UCLA poteva offrirgli ed era affascinato all’idea di frequentarla, nonostante quel che diceva suo padre, che avrebbe voluto mandarlo in una famosa università dell’Est. E Lionel aveva i voti per essere ammesso. Ma non gli interessava. Era qualcosa che avrebbe lasciato volentieri a Greg. Guardò John con un sorriso amichevole. «Vieni a trovarmi al college, qualche volta. Potrai guardarti intorno prima di decidere.» «Mi piacerebbe molto.» John lo guardò intento e per un attimo i loro occhi s’incontrarono; poi girò la testa e scorse Greg. Allora si scusò e si allontanò; e Lionel invitò Anne a ballare. Lei arrossì all’idea e rifiutò, ma quando Lionel insistette un po’, si decise infine a seguirlo sulla pista. 185
«Quello che cos’è?.» Il ragazzo che era entrato in casa con Val l’aveva seguita nello studio, con lo scopo di infilarle una mano sotto la gonna. Non doveva essere troppo difficile. Ma un oggetto famoso, in vista su un ripiano del bar, aveva attirato la sua attenzione. «È davvero quello che penso che sia?» Era molto impressionato. Era la prima volta che entrava in una casa dove c’era una di quelle statuette, anche se a Los Angeles se ne sentiva parlare spesso. «Sì. E con ciò? Bella roba.» «È importante.» Il ragazzo la guardò con ammirazione, poi tese la mano per toccarla e per poterlo raccontare al padre quando sarebbe passato a prenderlo. «Chi l’ha vinto? Tua madre o tuo padre?» Sembrava che a Val costasse fatica ammetterlo. «Mia madre. Vuoi una birra, Joey?» Per poco lui non svenne. Ce n’era un’altra. Ne avevano due! «Mio Dio! Ne ha vinti due! Per che cosa?» «Oh, Cristo, non me lo ricordo. Vuoi una birra o no?» «Sì, sì, certo.» Ma il ragazzo era più interessato a sapere perché la madre di Valerie aveva vinto gli Oscar. Suo padre gliel’avrebbe chiesto sicuramente, e anche la mamma; ma Val non aveva nessuna voglia di parlarne. «Era un’attrice, no?» Joey sapeva che adesso era regista: lo sapevano tutti. E il marito era un grosso produttore dell’MGM. Ma davvero, Valerie non ne parlava. A lei stavano a cuore l’alcool e i ragazzi. Almeno aveva quella fama, e quando sedette Joey credette di vedere sotto la gonna di pelle bianca. Ma in realtà non scorse altro che un pezzo di coscia. «Hai mai fumato l’erba?» Joey non l’aveva mai fumata, ma non voleva ammetterlo. Aveva quindici anni e mezzo e aveva conosciuto Val a scuola quell’anno. Non era mai uscito con lei; non ne aveva il coraggio. Lei era così bella e così matura da spaventarlo. «Sì. Una volta.» Poi non seppe più trattenersi. Doveva insistere. «Parliamo di tua madre.» Irritata, Valerie balzò in piedi. Gli occhi le sfolgoravano di rabbia. «E invece no!» 186
«Non fare così, Cristo. Ero solo curioso.» Vai lo guardò con disprezzo, andò alla porta e si voltò a guardarlo. «Allora chiedilo a lei, mascalzone.» Scrollò la criniera rossa e se ne andò. Joey restò a fissare il vano della porta con aria disperata. «Merda», mormorò. «Ehi!» Greg si affacciò per vedere chi c’era, e il ragazzo arrossì e balzò in piedi. «Scusa... mi riposavo un momento... Torno subito fuori.» «Non importa, anch’io vengo sempre qui a riposarmi. Non è niente.» Greg sorrise e sparì all’inseguimento di una ragazza bruna. Joey uscì di nuovo. Finirono tutti quanti in piscina, quella notte, vestiti o in costume da bagno, scalzi o con le scarpe. Si divertirono come pazzi e vennero le tre del mattino prima che gli ultimi invitati se ne andassero. Poi Lionel salì la scala con Ward e Faye, e sbadigliarono assonnati tutti e tre. Faye rise. «Siamo più morti che vivi, vero? Però è stata una festa riuscita.» «La più bella.» Lionel sorrise, diede alla madre il bacio della buonanotte e quando sedette sul letto, avvolto nell’accappatoio che aveva indossato sopra il costume, fissò per un momento la parete pensando a quel giorno... il diploma... la toga bianca... la macchina... i suoi amici... la musica... e stranamente si sorprese a pensare a John e a quanto era simpatico. Ancora più simpatico di tanti amici suoi.
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la mattina dopo la festa del diploma era un altro giorno lavorativo per Faye e Ward. I ragazzi potevano dormire fino a tardi, ma loro dovevano essere allo studio per le nove. Il prossimo film sarebbe incominciato molto presto ed entrambi avevano molte cose da sbrigare. Sembrava sempre necessaria tanta disciplina per tirare avanti e lavorare anche se erano stanchi, soprattutto quando Faye dirigeva il film. Allora arrivava allo studio prima delle sei, spesso addirittura prima che si presentassero gli attori. Doveva andare per respirare l’atmosfera. Anzi, quando giravano le era sempre difficile imporsi di andare a casa, e qualche volta dormiva nel camerino e continuava a studiare la sceneggiatura per assimilarla meglio fino a quando conosceva ogni personaggio come se, in un’altra vita, fosse vissuta nella sua pelle. Era questo a renderla tanto esigente con gli attori che lavoravano per lei; ma insegnava loro una disciplina che non dimenticavano mai, e quasi tutti gli attori di Hollywood parlavano di Faye Thayer con reverenza. Il suo talento era un dono, e si sentiva molto più felice di quanto lo fosse stata ai tempi in cui era lei a recitare. Era la realizzazione che aveva desiderato, e Ward amava vedere quella luce nei suoi occhi, la luce che si accendeva solo quando Faye pensava al suo lavoro. A volte si sentiva un po’ geloso perché lui amava ciò che faceva, ma non con la stessa intensità e lo stesso fuoco. Faye metteva l’anima nel lavoro. Ed era appunto a questo che ora Ward stava pensan188
do. Tra poche settimane l’avrebbe perduta per il nuovo film; ma entrambi erano convinti che fosse il migliore realizzato da loro. Erano tutti e due emozionati ed entusiasti e più di una volta Faye aveva detto quanto le dispiaceva che Abe Abramson non fosse ancora vivo. Lui avrebbe amato quel film. Ma era morto da diversi anni. Era vissuto abbastanza per assistere al loro successo, per vedere Faye vincere il secondo Oscar, questa volta per la regia. Ma poi era morto e Faye ne sentiva ancora la mancanza, come in quel momento. Si assestò sul sedile, guardò Ward e ripensò alla serata precedente. «Sono contenta che i ragazzi si siano divertiti.» «Anch’io.» Ward le sorrise, ma soffriva per i postumi della sbornia, una cosa molto rara di quei tempi. Spesso si chiedeva come mai fosse stato capace di bere tanto in passato. Ora non poteva più farlo senza pagarla cara. La gioventù... sorrise tra sé... tante cose cambiavano con gli anni e i capelli grigi, ma altre cose non cambiavano affatto. Nonostante i postumi della sbronza, lui e Faye avevano fatto l’amore quella mattina, dopo che lui era uscito dalla doccia. Serviva sempre a incominciare bene la giornata. Le posò una mano sulla coscia. «Mi fai ancora impazzire, lo sai?» Faye arrossì leggermente, compiaciuta. Era sempre innamorata di lui, da diciannove anni, e da più tempo ancora se si contava da quando s’erano conosciuti a Guadalcanal nel ’43... ventun anni. «È una cosa reciproca.» «Bene.» Ward aveva l’aria pensierosa mentre entrava nel parcheggio dell’MGM. La guardia al cancello aveva sorriso e aveva fatto cenno di entrare. Si potrebbe regolare l’orologio su quei due, pensò. Erano così simpatici, anche i loro figli... e lavoravano con impegno, bisognava ammetterlo. «Forse dovremmo aprire una porta di comunicazione fra i nostri due uffici, e mettere una serratura al mio uscio.» «Mi pare una buona idea», gli mormorò Faye all’orecchio, e poi gli mordicchiò scherzosamente il collo prima di scendere. «Oggi che cosa devi fare, amore?» «Non molto. Credo di aver sistemato tutto. E tu?» 189
«Devo incontrarmi con tre degli attori.» Faye li nominò. «Sento il bisogno di parlare con tutti prima d’incominciare, per prepararli. Così sapranno cosa dovremo fare.» Era il film più impegnativo che Faye avesse mai realizzato. Era la storia di quattro soldati durante la seconda guerra mondiale, e non era un film leggero. Era brutale e straziante, e quasi tutti i dirigenti degli studios l’avrebbero assegnato a un regista uomo, ma Dore Schary si fidava di lei e Faye non intendeva deluderlo. O deludere Ward. Per Ward non era stato facile trovare i fondi per il film, nonostante i loro nomi. I finanziatori temevano che nessuno avesse voglia di andare a vedere una vicenda deprimente. Dopo l’assassinio di John Kennedy avvenuto l’anno prima tutti desideravano film divertenti o d’evasione; ma Ward e Faye s’erano trovati d’accordo fin dall’inizio, quando avevano letto la sceneggiatura. Era un film geniale, il copione era splendido come il libro dal quale era stato tratto, e Faye era decisa a ricavarne qualcosa di buono. Ward era sicuro che ci sarebbe riuscita, ma sapeva anche che era nervosa. «Andrà tutto bene, vedrai.» Le sorrise davanti alla porta dell’ufficio. Lo pensavano entrambi, ma Ward sapeva che aveva bisogno di essere rassicurata, e ne fu ancora più convinto quando Faye gli rispose. «Sono spaventata da morire.» «Lo so. Rilassati e divertiti.» Ma Faye non riuscì a farlo prima d’incominciare il film e poi si buttò nel lavoro con un impegno addirittura più grande del solito. Non tornava mai a casa prima di mezzanotte o dell’una, se ne andava di nuovo alle cinque, e spesso non rientrava neppure. Ward sapeva che sarebbe continuato così per mesi e le aveva promesso che avrebbe tenuto d’occhio i figli. Si sforzò di farlo. Faye lavorava sempre così: quando dirigeva un film si lasciava coinvolgere completamente, e quando aveva finito passava il tempo ripiegando magliette, facendo il bucato, portando a scuola i figli. Ne era molto orgogliosa; ma per il momento persino i figli erano molto lontani dai suoi pensieri. 190
Una sera tardi Ward tornò a prenderla allo studio: non voleva che guidasse quando era così stanca o così presa dal lavoro. Temeva che finisse per andare a sbattere contro un albero. Passò a prenderla, e Faye si lasciò cadere sul sedile come una bambola di pezza mentre lui si tendeva a baciarle la guancia. Lei aprì un occhio, assonnata, e sorrise. «Forse questa volta non sopravviverò...» Aveva la voce rauca. Aveva bevuto caffè a litri per tutto il giorno, aveva parlato di continuo, esortando e insistendo, e i suoi attori non l’avevano delusa. Guardò Ward, e lui sorrise a sua volta. «Sarà magnifico, piccola. Ho visto le riprese giornaliere per tutta la settimana.» «Cosa te ne sembra?» Anche Faye le aveva viste, e continuava a notare ciò che non andava, mai ciò che andava bene; ma negli ultimi due giorni aveva scorto un barlume di speranza. Gli attori lavoravano con impegno non inferiore al suo, e davano tutto. «Credi che andrà?» Lo chiese con aria atterrita. Si fidava del giudizio di Ward. E lui sorrideva. «Sarà un trionfo, amore. E un Oscar finirà quasi sicuramente nelle tue mani.» «Non importa. Mi basta che il film sia buono. Voglio che possiamo esserne orgogliosi.» «Lo saremo.» Ward ne era sicuro, ed era sempre orgoglioso di Faye come lei lo era di lui. Aveva fatto molta strada per un uomo che non aveva mai lavorato in vita sua fino a trentacinque anni. Era un miracolo, ciò che era riuscito a fare, e lei non lo dimenticava. Era sempre orgogliosa di lui, più di quanto immaginasse Ward. Molto, molto di più. Faye riappoggiò la testa sullo schienale. «Come vanno i ragazzi?» «Tutto bene.» Lei non aveva certo bisogno di preoccuparsi per i piccoli fastidi domestici. La donna delle pulizie minacciava di licenziarsi, Anne e Val avevano litigato furiosamente e Greg aveva ammaccato la macchina, ma erano tutti problemi che Ward poteva risolvere da solo. Comunque si sentiva sollevato quando Faye terminava il lavoro e tornava a dirige191
re la casa. Spesso si chiedeva come faceva a sopportare quelle continue seccature: lui si sentiva impazzire anche se non lo ammetteva. «Sono tutti indaffarati. Le gemelle hanno fatto le baby-sitter tutti i giorni, Greg parte per il ranch la prossima settimana.» Non aggiunse «Grazie a Dio». Almeno ci sarebbe stata un po’ più di quiete, senza il telefono che squillava, le porte che sbattevano e cinque o sei amici di Greg che giocavano a lanciarsi un vaso di valore. «Non vediamo quasi mai Lionel, adesso che lavora.» «Gli piace?» Faye aprì gli occhi. Avrebbe voluto chiederlo personalmente al figlio, ma non lo vedeva da settimane. «Credo. Almeno, non si lamenta.» «Questo non vuole dire nulla. Li non si lamenta mai.» Poi Faye ricordò qualcosa d’altro. «Avrei dovuto pensare a qualcosa per Anne. Non credevo che avremmo cominciato così presto.» Ma i finanziamenti erano arrivati, il set era stato disponibile. Tutto era andato per il meglio e così, anziché verso la fine di settembre, avevano incominciato la lavorazione in giugno. Era una cosa insolita, e Faye non aveva voluto causare difficoltà dicendo che non era libera d’incominciare; ma questo significava abbandonare i figli durante l’estate, ed era una complicazione. Per giunta, Anne aveva rifiutato di andare al campeggio. «Che cosa fa tutto il giorno?» «Oh, si arrangia. Mrs. Johnson si ferma fino a quando rientro io. Anne invita gli amici e oziano intorno alla piscina. Ho promesso che la settimana prossima li porterò a Disneyland.» «Sei un santo.» Faye sbadigliò e sorrise contemporaneamente, e poi si appoggiò a lui quando entrarono in casa. Le ragazze erano ancora sveglie. Val aveva i bigodini in testa e indossava un bikini che avrebbe strappato a Faye un’esclamazione, se avesse avuto la forza di fiatare. Prese nota mentalmente di dirle qualcosa l’indomani se ne avesse avuto il tempo e se l’avesse vista. Stavano ascoltando la musica nello studio. Vanessa era in camicia da notte e parlava al telefono con un’amica, senza badare al frastuono. 192
«Dov’è Anne?» chiese Faye a Val, e Val alzò le spalle continuando a canticchiare le parole della canzone. Dovette chiederlo una seconda volta prima di ottenere una risposta. «Di sopra, credo.» «Dorme?» «Probabile.» Ma Vanessa scrollò la testa. Aveva il dono di seguire contemporaneamente più di una conversazione. Faye salì per andare a dare il bacio della buonanotte alla figlia minore. Sapeva già che Greg era fuori con un gruppo di amici, e Lionel aveva lasciato un biglietto in cucina per spiegare che era andato a cena con alcuni colleghi. Era tutto a posto. Faye ci teneva a sapere dov’erano i suoi figli, e spesso si preoccupava mentre era sul set. Ward era più permissivo e li lasciava fare ciò che volevano, mentre lei avrebbe preferito che li tenesse a freno, ma non lo faceva mai. Sarebbe impazzito se avesse dovuto fare anche quello, oltre a mandare avanti la casa. Mentre saliva la scala Faye avrebbe giurato di aver visto una luce; ma quando aprì dolcemente la porta, la stanza era al buio e Anne era raggomitolata nel letto, con le spalle all’entrata. Faye rimase immobile per un lungo momento, poi si avvicinò e le accarezzò dolcemente i capelli morbidi. «Buonanotte, piccola», mormorò e si chinò a baciarle la guancia. Chiuse la porta e andò nella sua stanza con Ward continuando a parlare del film. Poi fece un bagno caldo prima di andare a letto. Dopo qualche minuto sentì le gemelle salire: bussarono alla porta e le augurarono la buonanotte. Faye non vide Vanessa che entrava nella stanza della sorella minore. La luce era di nuovo accesa e Anne stava leggendo Via col vento. «Hai visto la mamma?» Vanessa la scrutò in viso e scorse qualcosa di strano nei suoi occhi, qualcosa di segreto e remoto che c’era quasi sempre, tranne quando parlava con Li. Anne scrollò la testa. «Come?» Non voleva ammettere che aveva spento la luce per farsi credere addormentata, ma Vanessa lo intuì. «Hai fatto finta di dormire, vero?» Dopo una lunga esitazione, la ragazzina alzò le spalle di nuovo. «Perché?» «Ero stanca.» 193
«Fesserie.» Vanessa s’irritò. Era così esasperante e così tipico. «E non è bello da parte tua. Ha chiesto di te appena è entrata.» Il viso di Anne restò impassibile, gli occhi inespressivi. «È stata una carognata.» Vanessa si voltò per uscire e la voce di Anne la raggiunse sulla soglia. «Non ho niente da dirle.» Vanessa la guardò per un attimo e uscì, senza comprendere la verità che Lionel sapeva intuire così bene. Anne temeva che sua madre non avesse nulla da dirle. Non l’aveva mai avuto. Non le era mai stata vicina quando lei era piccola. Era sempre rimasta nelle mani di una bambinaia o di una cameriera o di uno dei fratelli, mentre sua madre lavorava o stava fuori per una ragione o per l’altra. Era sempre «stanca» o aveva «qualcosa d’altro a cui pensare» oppure doveva «leggere questo copione» o magari «parlare con papà». Quindi che cosa restava da dire, ormai? Chi sei? Chi sono io? Era più facile parlare con Lionel ed evitare Faye, come Faye aveva evitato Anne per tanto tempo. Adesso doveva pagarla.
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faye era ancora impegnata con il film quando Lionel si trasferì in un appartamento con quattro amici e incominciò gli studi all’UCLA. La settimana successiva andò a trovarla sul set. Attese con pazienza fino a quando vi fu una pausa. Gli era sempre piaciuto vederla lavorare; e finalmente, dopo tre riprese di una scena sconvolgente, Faye mandò tutti a pranzo, alzò la testa e vide il figlio. Prima era così assorta che non aveva neppure notato il suo arrivo, e s’illuminò in viso mentre gli andava incontro per dargli un bacio. «Come va, tesoro? Com’è l’appartamento? E a scuola?» Aveva la sensazione di non vederlo da anni; all’improvviso aveva nostalgia di tutti i suoi figli, soprattutto di lui. Non aveva ancora sentito il colpo dell’assenza di Lionel. Era così abituata ad averlo vicino, a fare con lui quelle meravigliose chiacchierate... e adesso se n’era andato. Ma lei era così presa dal lavoro che non aveva ancora avuto il tempo di rendersene conto. «Ti piace l’appartamento?» Gli occhi di Lionel si accesero per l’entusiasmo. «È molto simpatico, e gli altri sono abbastanza ordinati. Grazie a Dio non c’è nessuno come Greg.» Faye rise pensando al caos della stanza del suo secondogenito. Non era cambiato niente. «Sei andato a casa qualche volta dopo il trasloco?» «Appena un paio di volte per prendere un po’ di roba. Ho visto papà e mi ha detto che stavi bene.» «Sì.» 195
«È grande.» Lionel indicò la scena che Faye aveva appena lasciato e lei sorrise soddisfatta. Come il padre, il ragazzo sapeva riconoscere i film di successo. Faye era troppo presa dai dettagli per vedere il complesso, e loro ci riuscivano meglio. Potevano giudicare con maggiore distacco. «È stata una scena magnifica.» Faye sorrise. «Ci stiamo lavorando da una settimana.» In quel momento il protagonista che aveva interpretato la scena si avvicinò lanciando un’occhiata a Lionel e una più intensa a Faye. Era un perfezionista quanto lei e lavoravano bene insieme. Era il secondo film che facevano insieme e Faye era molto soddisfatta. Paul Steele era una delle stelle in ascesa del firmamento di Hollywood. Venne a sedersi accanto a Faye. «Come ti è sembrato?» «Penso che l’ultima fosse buona.» «Anch’io.» L’attore era contento che se ne fosse accorta anche lei. «Ieri stavo cominciando a preoccuparmi. Non credevo che sarei mai riuscito a rendere la scena nel modo giusto. Sono rimasto alzato tutta la notte per prepararla.» Come sempre, Faye rimase impressionata dalla sua diligenza. «Si vedeva. Grazie, Paul. È questo impegno che fa funzionare tutto.» Ma pochi attori erano disposti a lavorare così. Paul lo era. Si alzò e guardò Lionel con un sorriso. «Tu devi essere il figlio di Faye.» La gente lo indovinava sempre, e Faye e Lionel risero. «Come l’ha intuito?» Steele socchiuse gli occhi sorridendo. «Oh, vediamo... i capelli, il naso, gli occhi... Sai, ragazzo, basterebbero la stessa pettinatura e un abito femminile e potreste passare per gemelle.» «Non sono sicura che approverei», rise Faye. «Anzi, te lo dico subito, non approverei affatto.» «Oh, peccato», rise Paul. «La sua ultima scena mi ha molto impressionato, Mr. Steele.» Lionel mostrava per lui un grande rispetto, e Steele era commosso. 196
«Grazie.» Faye li presentò e Paul gli strinse la mano. «Tua madre è il regista più esigente che conosco, ma è così brava che val la pena di sacrificare sangue, sudore e lacrime.» «Quanti complimenti!» Risero tutti e tre e Faye diede un’occhiata all’orologio. «Abbiamo circa un’ora. Posso invitarvi tutti e due a pranzo in mensa?» Paul fece una smorfia. «Cristo, un’altra tortura! Non possiamo fare qualcosa di meglio? Offro io. Ho la macchina davanti allo studio.» Ma tutti sapevano che nelle vicinanze dello studio non si poteva trovare niente di speciale, e non avevano molto tempo. «Va bene, va bene, mi arrendo. Mal di stomaco, eccoci!» «Non è poi tanto male.» Faye cercò di difendere il vitto della mensa, ma inutilmente. Paul e Lionel dissentirono a gran voce. Quando entrarono nella mensa, Paul chiese a Lionel se studiava, e lui rispose che aveva appena incominciato all’UCLA per diplomarsi in cinematografia. «Anch’io ho studiato lì. Hai avuto il tempo di capire se ti piace?» «Mi sembra magnifico.» Lionel sorrideva felice e Paul era divertito. Era così giovane ma, mentre parlavano durante il pranzo, apparve chiaro che era intelligente e sensibile, e sapeva molte cose del campo che aveva scelto. Parlò a lungo con Paul fino a che Faye annunciò che dovevano tornare. Poi Lionel indugiò sul set, per assorbire l’atmosfera. Paul l’invitò in camerino mentre si ritruccava e l’acconciatore dello studio gli sistemava i capelli. Nella scena seguente Paul era prigioniero. Lionel avrebbe voluto restare, ma doveva tornare a scuola. Nel pomeriggio aveva altre tre lezioni. «Peccato. Mi ha fatto piacere parlare con te.» Paul lo guardò con un sorriso sincero. Gli rincresceva lasciarlo andare. Quel ragazzo gli piaceva, forse troppo... ma non intendeva farglielo capire, per rispetto verso Faye e verso quel giovane. Non aveva l’abitudine di corrompere nessuno, e i vergini non erano il suo tipo. Ma Lionel sembrava ansioso di rivederlo e questo lo sorprendeva. 197
«Mi piacerebbe tornare ad assistere alle riprese. Ho un pomeriggio libero alla fine della settimana.» Guardò Paul Steele con aria di speranza, come un bambino che aspetta Babbo Natale, e Paul non capiva se era emozionato per il film o per qualcosa d’altro. Perciò procedette con cautela. «Forse potrei tornare.» Lionel lo guardò negli occhi e Paul non riuscì a capire se aveva di fronte un uomo o un ragazzo. «Spetta a tua madre. È lei la regista... e anche il mio boss.» Risero, e Lionel annuì. «Le chiederò che cosa ne pensa.» Per un momento Paul temette che Faye s’insospettisse: lui non faceva mistero delle sue preferenze. «Arrivederci a venerdì, spero.» Lionel lo guardava ansioso e Paul distolse gli occhi. Non voleva che succedesse nulla, non era giusto, e quel ragazzo era il figlio di Faye Thayer... Cristo, a volte la vita era complicata. Accese uno spinello dopo che il ragazzo fu uscito, sperando di calmarsi; ma fu inutile. Quando tornò sul set c’era in lui un senso di smania e di solitudine dolorosa, e nel film si vedeva. Questa volta la scena risultò subito buona, una cosa che succedeva raramente, e Faye si congratulò con lui. Ma Paul era piuttosto freddo, e Faye si chiese il perché. Non era preoccupata perché era stato gentile con Lionel. Lo conosceva abbastanza bene per sapere che non aveva niente da temere da lui. Era un tipo a posto e, qualunque cosa facesse nel tempo libero, non avrebbe approfittato di suo figlio. Ne era sicura e non si allarmò quando vide Lionel tornare sul set il venerdì pomeriggio. Quando era più giovane, era venuto spesso a vederla lavorare. Ultimamente non aveva avuto molto tempo, ma non era un segreto che amasse assistere alla realizzazione dei film. E quella sarebbe stata la sua carriera. Era contenta di vederlo lì e, sebbene in un primo momento non lo dimostrasse, era contento anche Paul Steele. «Salve, Paul.» Lionel pronunciò quelle parole con esitazione, e si chiese se non avrebbe dovuto chiamarlo Mr. Steele. Paul aveva appena ventotto anni, ma aveva già una solida fama. E Lionel aveva diciotto anni, e davanti a lui si sentiva un ragazzino. 198
«Salve», disse Paul con aria disinvolta passandogli accanto e augurandosi di non incontrarlo più. Ma più tardi Faye gli offrì un bicchiere di vino, durante una pausa. Lionel stava lì, con aria di ammirazione, e Paul non resistette all’impulso di sorridergli. «Che piacere rivederti, Lionel. Come va la scuola?» Forse, se lo avesse trattato come un ragazzino, sarebbe stato più facile. Ma non era facile, quando lo guardava negli occhi. Erano irresistibili. Erano così simili a quelli della madre, ma più profondi, più affascinanti, e nel contempo più saggi e tristi, quasi custodissero un segreto terribile. E istintivamente Paul comprese qual era il segreto. Alla stessa età l’aveva avuto anche lui. Era una solitudine dolorosa fino a che qualcuno non tendeva una mano. Fino a quel momento eri un anormale e vivevi in un inferno solitario, avevi paura dei tuoi pensieri e di ciò che avrebbe detto la gente se avesse saputo. «Come ti sono sembrate le riprese di oggi?» Era inutile trattarlo come un bambino. Era un uomo. Lo sapevano entrambi. Paul lo guardò negli occhi. «Mi sono sembrate straordinarie.» «Vuoi vederle con me?» Paul ci teneva a vedere sempre le riprese giornaliere, quand’era possibile, per poter correggere gli errori. Erano molto importanti per il suo lavoro e Lionel si sentì indicibilmente lusingato di venire ammesso in quel modo speciale. Sgranò gli occhi, e Faye e Paul risero. «Senti, se fai così non te le lascerò vedere. Devi renderti conto che gran parte di quel che vedrai sarà uno schifo. Ma è così che impariamo.» «Mi piacerebbe moltissimo.» Esaminarono le riprese della giornata verso le sei e quando sedettero e le luci si spensero, Paul sentì la gamba di Lionel sfiorargli inavvertitamente un ginocchio. Il brivido che lo scosse era quasi doloroso. Ma spostò la gamba e si sforzò di concentrarsi sullo schermo. Più tardi, quando le luci si riaccesero, Lionel discusse con lui ciò che avevano visto e, stranamente, tutti e due pensavano le stesse cose delle stesse 199
scene. Il ragazzo era intelligente, intuitivo, e aveva un istinto per lo stile e la tecnica. Non era sorprendente, dato l’ambiente in cui era cresciuto. Ma Paul era impressionato. Avrebbe voluto continuare a parlare con lui mentre Faye si preparava a lasciare il set. Quella sera doveva andarsene presto. Per lei le sette e mezzo erano metà pomeriggio, e li guardò divertita mentre i due continuavano a parlare. «Sei venuto con la macchina, tesoro?» chiese a Lionel. Quella sera aveva l’aria stanca. Doveva andare a casa a riposarsi: era stata una settimana faticosa e l’indomani dovevano girare una scena all’alba che l’avrebbe costretta ad alzarsi prima delle tre. «Sì, mamma.» «Bene. Allora vi lascio a chiacchierare. Vado a casa prima di crollare per lo sfinimento. Buonanotte.» Faye baciò il figlio sulla guancia, fece un cenno di saluto a Paul e andò a prendere la sua macchina. Ward era andato a casa prima per cenare con i figli. E Paul rimase sorpreso, quando guardò per la prima volta l’orologio. Erano quasi le nove, e sul set erano rimasti soltanto loro due. Non aveva mangiato niente dopo il pranzo e da quanto gli aveva detto Lionel sapeva che non aveva mangiato niente neppure il ragazzo. Che male c’era a buttar giù un boccone insieme? «Vieni a mangiare un hamburger, Lionel? Devi essere affamato.» Sembrava un invito innocuo, e il figlio di Faye accettò. «Con piacere, se non hai niente di meglio da fare.» Era così giovane e umile... Paul sorrise e gli passò un braccio intorno alle spalle mentre andavano a riprendere le macchine. In giro non c’era nessuno che potesse interpretare malignamente quel gesto. «Credimi, parlare con te è la cosa più piacevole che mi sia capitata da settimane, forse da mesi.» «Sono lusingato.» Lionel sorrise mentre arrivavano alle macchine. Paul aveva una Porsche argentea, e Lionel la Mustang rossa di cui era così orgoglioso. «È magnifica!» 200
«È il regalo per il diploma.» «Che regalo!» Paul era impressionato. All’età di Lionel aveva comprato un catorcio per settantacinque dollari: ma i suoi genitori non erano Ward e Faye Thayer, e lui non abitava a Beverly Hills. Era arrivato in California da Buffalo a ventidue anni, e da allora la vita era sempre stata bella, soprattutto ultimamente. La sua carriera era stata fulminea, all’inizio grazie a un’avventura fortuita con un grosso produttore di Hollywood. Ma poi s’era fatto strada con le proprie forze. Nessuno lo negava. Qualunque cosa si potesse pensare di Paul Steele, era bravo. Quasi tutti coloro che avevano lavorato con lui non avevano brutte storie da raccontare. Era un tipo a posto, stava molto sulle sue, e se lo si conosceva bene era spiritoso e divertente. Tra un film e l’altro a volte si scatenava e fumava erba, sniffava cocaina, si imbottiva di anfetamine e circolavano voci di orge clamorose che si svolgevano in casa sua: ma non approfittava di nessuno, non faceva male a nessuno, e dato che lavorava tanto doveva fare qualcosa per sfogarsi... dopotutto era ancora giovane: Portò Lionel all’Hamburger Hamler in Sunset Boulevard, e gli disse di seguirlo con la macchina e di guidare con prudenza. Si sentiva in ansia per il ragazzo. Non voleva che soffrisse, fisicamente o psicologicamente. Gli piaceva più di quanto gli fosse piaciuto qualcun altro da molto. Era un peccato che avesse soltanto diciotto anni. Una disgrazia. Era così bello e così maledettamente giovane. Non riusciva a staccare gli occhi da lui mentre mangiavano. Poi si fermarono davanti al locale. Lionel non sapeva neppure come ringraziarlo per l’onore; Paul smaniava di invitarlo a casa sua, ma aveva paura di fare una pessima impressione. Perciò rimasero così, impacciati. Paul avrebbe desiderato che Lionel sapesse la verità sul proprio conto, ma non ne era sicuro. Se il ragazzo avesse saputo, forse sarebbe stato diverso, ma se non lo sospettava ancora... A Paul bastava guardarlo per esserne certo, ma Lionel lo sapeva? E all’improvviso, lì nel parcheggio, Paul comprese che doveva prendere il toro per le corna. Forse gliel’avreb201
be chiesto. Forse sbagliava. Forse potevano essere amici. Ma non poteva lasciarlo andare, non ancora... non così presto. «Lo so che ti sembrerà stupido, ma ti andrebbe di venire a bere qualcosa a casa mia?» Si sentiva quasi impacciato mentre pronunciava quelle parole, ma Lionel spalancò gli occhi, felice. «Con piacere.» Forse lo sapeva... Paul cercava disperatamente di capire; indovinare era impossibile. «Io sto a Malibu. Vuoi seguirmi con la tua macchina o preferisci lasciarla qui? Poi ti porterò io a riprenderla.» «Non sarà troppo disturbo?» Malibu era a un’ora di distanza. «No, no. Non vado mai a letto presto. E forse stanotte non ci andrò neppure. Domattina incominceremo a girare alle quattro e in casi come questo lavoro meglio se non dormo.» «La mia macchina sarà al sicuro?» Si guardarono intorno e si tranquillizzarono. Il locale restava aperto tutta la notte, c’erano sempre clienti che andavano e venivano, e nessuno avrebbe osato rubare la macchina finché c’era gente intorno. Lionel prese posto sulla Porsche di Paul ed ebbe la sensazione di essere in paradiso. Era come passare in un altro mondo: il cruscotto sembrava quello di un aereo, e partirono con un rombo. Paul accese lo stereo e la voce di Roger Miller che cantava King of the Road invase l’abitacolo. Era quasi un’esperienza sensuale, la corsa a Malibu. Paul moriva dalla voglia di uno spinello, ma preferiva non fumare l’erba davanti al ragazzo, e aveva un po’ paura di ciò che avrebbe fatto se si fosse drogato. Vi rinunciò. Si scambiarono qualche parola, ascoltarono la musica; e quando arrivarono alla casa sulla spiaggia Lionel si sentiva completamente a suo agio con il nuovo amico. Paul aprì la porta, entrarono. Nella casa c’era la stessa atmosfera. C’era una grande vetrata che dava sull’oceano, il soggiorno era pieno di divani e cuscini, piante enormi e piccoli riflettori che illuminavano le opere d’arte predilette da Paul. C’erano un bel bar, un grande scaffale pieno di libri e 202
uno stereo che parve riempire il mondo intero di musica dolcissima mentre Lionel sedeva e si guardava intorno. Paul buttò sul divano la giacca di pelle, riempì due bicchieri di vino bianco e andò a sedersi accanto a lui. «Allora ti piace?» chiese con un sorriso. Era fiero della sua casa. Il ragazzo povero di Buffalo aveva fatto molta strada, e lì era felice. «Mio Dio, è così bello!» «Sì, vero?» Guardarono la spiaggia, il mare. Il mondo intero sembrava steso ai loro piedi e quando finirono il vino Paul propose una passeggiata. Amava passeggiare sulla spiaggia, di notte, ed erano solo le undici. Si sfilò le scarpe, Lionel lo imitò e uscirono sulla soffice sabbia bianca. Lionel pensava che non s’era mai sentito così felice; provava qualcosa che non aveva mai conosciuto, e lo sentiva ogni volta che guardava quell’uomo. Era confuso. Dopo un po’ tacque e, mentre tornavano indietro, Paul si fermò e sedette sulla sabbia. Guardò l’oceano e poi Lionel, e all’improvviso le parole gli uscirono spontaneamente dalle labbra. «Sei confuso, vero, Li?» Aveva sentito la madre chiamarlo in quel modo, e si chiedeva se quella familiarità l’avrebbe infastidito; ma il ragazzo non obiettò e chinò la testa, quasi sollevato nell’ammettere ciò che provava per lui. «Sì...» Voleva essere sincero, perché forse l’avrebbe aiutato a capire ciò che provava. Si sentiva molto vecchio e molto giovane. «Sì, sono confuso.» «Lo ero anch’io. Prima che venissi qui da Buffalo.» Paul sospirò. «Là non lo sopportavo.» Lionel sorrise. «Doveva essere molto diverso.» Risero entrambi. Quando la risata si spense, Paul lo guardò. «Voglio essere sincero con te. Sono gay.» All’improvviso si sentiva terrorizzato. E se Lionel fosse inorridito, se fosse balzato in piedi e fosse corso via? Per la prima volta dopo molti anni aveva paura di un rifiuto. Era come tornare indietro di un passo gigantesco, ritornare a Buffalo... innamorarsi di Mr. Hoolihan agli allenamenti del baseball in primavera e 203
non trovare il coraggio di dire niente... guardarlo sotto la doccia e desiderare disperatamente di toccargli il viso... il braccio... la gamba... toccarlo dappertutto... toccarlo là... Si girò verso Lionel con occhi spaventati. «Capisci cosa significa?» «Sì, certo.» «Non significa soltanto che sono omosessuale. Immagino che questo lo comprenderai. Voglio dire, sai quale solitudine può causare?» Paul trasfuse la propria anima negli occhi e Lionel annuì senza distogliere lo sguardo. «Credo che tu lo sappia, Lionel... credo che tu provi le stesse sensazioni. Non è così?» Le lacrime scorsero lentamente sulle guance di Lionel mentre annuiva; e all’improvviso non fu più capace di guardare Paul negli occhi. Si nascose il volto tra le mani e incominciò a piangere. Mille anni di solitudine affiorarono dentro di lui, e Paul lo prese tra le braccia e lo tenne così fino a quando Lionel smise di piangere; poi gli sollevò il mento per guardarlo di nuovo negli occhi. «Mi sto innamorando di te. E non so che cosa fare.» Non s’era mai sentito libero come in quel momento. Era meraviglioso confessarlo, e Lionel si sentì pervadere dal fuoco. All’improvviso capiva tante cose che prima non aveva mai compreso di se stesso, tante cose che non aveva mai voluto sapere, o che gli facevano paura... le comprese tutte mentre guardava negli occhi di quell’uomo. «Sei vergine, vero?» Lionel annuì. «Sì», disse con voce rauca. Anche lui si stava innamorando, ma non sapeva ancora come dirlo. Pregava di riuscirci, con il tempo, pregava che Paul non lo mandasse via, che restasse sempre, sempre con lui... «Sei mai andato a letto con una ragazza?» Lionel scosse la testa in silenzio. Era così che l’aveva scoperto. Non l’aveva mai desiderato. Mai. Non gli interessava. «Neanch’io.» Paul sospirò, si riadagiò sulla sabbia, gli prese la mano e gli baciò più volte il palmo. «Forse così è più facile. È una scelta che non dipende da noi. L’ho sempre pensato, per quelli che ci somigliano. So che non è una scelta che dipende da 204
noi: è così fin da quando si è piccoli. Credo di averlo capito già allora, ma avevo paura di saperlo.» Adesso Lionel si sentiva più coraggioso. «Anch’io... avevo paura che qualcuno lo scoprisse, lo intuisse, mi leggesse nel pensiero... mio fratello è il tipo dell’atleta e mio padre avrebbe voluto che fossi come lui. E non potevo, non potevo...» I suoi occhi si riempirono nuovamente di lacrime, e Paul gli strinse più forte la mano. «Nessuno lo sospetta, nella tua famiglia?» Lionel scosse la testa. «Non l’avevo ammesso neppure di fronte a me stesso prima di questa sera.» Ma ora sapeva la verità. Lo sapeva con certezza. Voleva essere così. Con Paul e con nessun altro. Lo aveva atteso per tutta la vita e non intendeva perderlo. Ma Paul l’osservava attento. «Sei sicuro di essere pronto ad ammetterlo, adesso? Non potrai più tornare indietro. Non potrai cambiare idea... alcuni lo fanno, credo, ma io mi domando fino a che punto sono convinti... non so...» Guardò Lionel mentre giacevano fianco a fianco sulla sabbia. Stava puntellato su un gomito a guardarlo, e intorno non c’era nessuno, per chilometri e chilometri. Dietro di loro le case erano illuminate e sembravano gemme, mille anelli di fidanzamento che gli stava offrendo, una corona... «Non voglio fare nulla per cui tu non sei pronto.» «Lo sono. So di essere pronto, Paul... finora sono sempre stato così solo, non lasciarmi solo ancora...» Paul lo prese tra le braccia e lo strinse, e non resistette più. Aveva fatto ciò che riteneva giusto. Gli aveva dato una possibilità di scelta. Non aveva mai approfittato di nessuno e non intendeva incominciare con quel ragazzo. «Vieni, andiamo a casa.» Si alzò con grazia dalla sabbia e tese la mano a Lionel che scattò in piedi con scioltezza e con un sorriso spensierato. Tornarono a casa tenendosi per mano e parlando più animatamente. Lionel aveva la sensazione di essersi liberato da un peso immane. Sapeva chi era e che cos’era, e dove stava andando, e all’improvviso era giu205
sto così. Non era spaventoso. Dopo pochi minuti rientrarono in casa, rinvigoriti dall’aria notturna. Paul versò altro vino, bevve un sorso e accese il fuoco, poi sparì in un’altra stanza e lasciò Lionel al vino e ai suoi pensieri; quando ritornò le luci erano abbassate, la stanza era semibuia, il fuoco divampava. Si fermò, nudo, al centro del soggiorno, e fece un cenno. Non disse nulla e Lionel non esitò. Si alzò e lo seguì.
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Paul riaccompagnò Lionel a riprendere la macchina alle quattro del mattino. Si fermarono nel parcheggio a guardarsi. Sembrava così strano essere tornati lì. Erano accadute tante cose da quando erano venuti a cenare. Era straordinario. Lionel aveva l’impressione che gli fossero spuntate le ali. Era stata la notte più bella della sua vita, e provava un sollievo che non aveva mai conosciuto. Finalmente sapeva che cos’era, e Paul aveva fatto apparire tutto così normale... e soprattutto così bello. Adesso Lionel non sapeva come incominciare a ringraziarlo. «Non so che cosa dire... come ringraziarti...» disse, dondolandosi un po’ su un piede e un po’ sull’altro e sorridendo timidamente all’amico. «Non preoccuparti. Vuoi vedermi questa sera?» Lionel stentava a respirare e si sentiva riassalire dall’eccitazione. Non aveva mai immaginato che sarebbe stato tanto incredibile, ma con Paul lo era. «Mi piacerebbe moltissimo.» Paul socchiuse gli occhi, chiedendosi dove avrebbero potuto incontrarsi. «Ci vediamo qui alle otto? Aspettami in macchina. Poi mi seguirai fino a casa. Se non sarò troppo stanco potremo preparare qualcosa da mangiare o fermarci lungo la strada. Ti va?» Non era così che di solito amava corteggiare i suoi uomini, ma in quel periodo il film lo costringeva a orari impossibili. «Magnifico.» Lionel sorrise raggiante e poi sbadigliò mentre Paul rideva e lo spettinava. 207
«Va’ a casa e dormi un po’, fortunato! Io dovrò lavorare come uno schiavo tutto il giorno.» Lionel lo guardò con aria comprensiva. «Saluta mia madre.» E all’improvviso si sentì inorridito da ciò che aveva detto. Paul rise. «Non credo che sia prudente, per ora.» Forse non lo sarebbe mai stato. Non sapeva come avrebbe reagito Faye se avesse scoperto che il suo primogenito era gay. «Se chiederà qualcosa, le dirò che abbiamo mangiato un hamburger insieme e tu sei andato a casa.» Lionel annuì. E se avesse commesso una gaffe? E se lui si fosse lasciato sfuggire qualcosa con qualcuno, prima o poi? Era un pensiero spaventoso... o no? Alla fine la gente sarebbe venuta a saperlo. Non voleva nascondersi per il resto della sua vita. D’altra parte, non voleva dirlo a nessuno, per il momento, voleva che restasse un segreto tra lui e Paul. «Buon lavoro.» Avrebbe desiderato baciarlo, lì in mezzo al parcheggio, ma non osava. Paul gli toccò dolcemente la guancia, con una luce calda negli occhi. «E tu cerca di riposare, amore.» Lionel sentì l’affetto di quelle parole e si sentì stringere il cuore mentre lo guardava allontanarsi. Salutò con la mano mentre la Porsche argentea si allontanava e salì sulla Mustang, assorto nei suoi pensieri. Non vedeva l’ora che venisse la sera. E quando arrivò, Lionel era ad attendere in macchina, con una camicia nuova e un maglione, un paio di impeccabili calzoni di nappa, i capelli pettinati con cura e un dopobarba che aveva comprato apposta quel pomeriggio. Paul riconobbe tutti i preparativi quando scese dalla macchina, e si sentì commosso. Non aveva avuto il tempo di fare la doccia prima di lasciare il set, ma non aveva voluto arrivare in ritardo. Cinse Lionel con un braccio e lo strinse a sé. Era evidente che il ragazzo era felice di rivederlo. Li era emozionato. «Com’è andata oggi, Paul?» «Magnificamente. Grazie a te.» Paul sorrise e il ragazzo lo ricambiò, raggiante. «Ricordavo tutte le mie battute e filavo come un treno, ma questo pomeriggio abbiamo lavorato come 208
bestie.» Si guardò. Portava ancora l’uniforme da fatica che aveva indossato per girare, ma nessuno gli aveva detto nulla quando se n’era andato. «Corriamo a casa, così potrò pulirmi e cambiarmi.» Avrebbe voluto portare Lionel in un bar gay che gli piaceva molto, per cenare o almeno per bere qualcosa, ma non era pronto a presentarlo a quel modo. Sentiva istintivamente che Lionel non era pronto. Voleva che fosse qualcosa di speciale, qualcosa che esisteva soltanto tra loro; e Paul era disposto a stare al gioco per un po’, a rimanere lontano dai soliti amici per stare solo con lui. Lionel decise di fare il tragitto sulla Porsche, e si fermarono a un supermarket lungo la strada per Malibu. Comprarono una confezione di sei birre, vino, il necessario per preparare un’insalata, un sacchetto di frutta fresca e due bistecche. Era un pasto abbondante per due e Lionel aveva detto che sapeva cucinare. E infatti mantenne la parola. Quando Paul uscì dalla doccia con un asciugamani intorno ai fianchi, Lionel gli porse con un sorriso un bicchiere di vino. «La cena sarà pronta fra cinque minuti.» «Bene. Sono affamato.» Ma Paul posò il bicchiere e si tese per baciarlo. Quando si staccarono continuarono a guardarsi negli occhi, e Lionel si sentì al settimo cielo. «Oggi mi sei mancato molto.» «Anche tu.» L’asciugamani scivolò lentamente dai fianchi di Paul. Mentre sganciava smaniosamente la cintura del ragazzo, gli sussurrò: «Le bistecche si bruceranno se aspettiamo?» Non gli importava molto, comunque... in quel momento non c’era nulla che gli importasse, tranne quella carne giovane. Lionel era uno degli amanti più eccitanti che avesse avuto da molto tempo. Era così entusiasta e novellino, e aveva un buon odore dolce, un corpo giovane e sodo. Gli abbassò i calzoni di nappa fino a quando trovò ciò che cercava e Lionel gemette quando la bocca di Paul lo toccò. Un momento più tardi erano avvinghiati sul pavimento umido, dimentichi della cena e trascinati dalla passione. 209
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la relazione continuò durante l’autunno. Lionel non era mai stato tanto felice in vita sua. A scuola andava bene e Paul stava ancora lavorando nel film dei Thayer. Ogni tanto Lionel capitava sul set; ma era troppo difficile fingere in presenza di Paul. Doveva sforzarsi per non guardarlo continuamente, e temeva che sua madre si accorgesse di tutto. «Non sa tutto, capisci», disse una volta Paul, scherzando. «Anche se è tua madre. E credo che se lo sapesse l’accetterebbe.» Lionel sospirò. «Lo credo anch’io.» Ma poi pensò a Ward. «Mio padre, invece, non capirebbe mai.» Paul annuì. «Penso che tu abbia ragione. Per i padri è più difficile accettare.» «I tuoi genitori sapevano di te?» Paul scosse la testa. «Non lo sanno neppure ora. E sono ancora abbastanza giovane perché non trovino strano il fatto che sono scapolo. Ma fra dieci anni non mi daranno tregua.» «Forse allora sarai sposato e avrai cinque figli.» Risero entrambi di quella possibilità assurda che non attraeva affatto Paul. Non aveva tendenze bisessuali. Le donne non l’avevano mai eccitato. Ma Lionel sì. Trascorrevano quasi tutte le notti facendo l’amore sul letto immenso o sul divano davanti al fuoco, o sul pavimento, o sulla spiaggia. Era una relazione interamente sensuale ed erotica, e tutto contribuiva a eccitarli. Adesso Lionel aveva la chiave della casa di Malibu, 210
e a volte vi andava direttamente da scuola, oppure tornava al suo appartamento e raggiungeva Paul a Malibu quando finiva di lavorare più tardi. Ma per mesi non aveva passato una notte nel suo appartamento, e i suoi compagni lo prendevano in giro. «Dunque, Thayer... chi è la manza? Come si chiama? Quand’è che potremo vederla, oppure è una di quelle ragazze facili che si tengono nascoste agli amici e si sbattono di continuo?» «Spiritosi.» Lionel cercava di tenerli a bada, sopportava i loro scherzi, la loro ammirazione e la loro invidia e si chiedeva che cosa avrebbero detto se avessero conosciuto la verità. Ma lo sapeva. Gli avrebbero detto che era un lurido finocchio e probabilmente l’avrebbero buttato fuori. «L’hai detto a qualcuno dei tuoi amici?» gli chiese Paul una notte mentre giacevano nudi davanti al fuoco dopo aver fatto l’amore. Lionel scosse la testa. «No.» Pensava ai ragazzi con i quali divideva l’appartamento, tipici atleti o giovani intellettuali, che morivano dalla voglia di andare a letto con le ragazze e non pensavano ad altro. Le loro vite sessuali erano molto meno attive di quella di Lionel, ma in modo del tutto diverso. Sarebbero rimasti inorriditi se l’avessero visto in quel momento. Eppure lui era così felice. Guardò con tenerezza Paul che l’osservava come se cercasse di leggergli nella mente. «Hai intenzione di nasconderlo per tutta la vita, Li? È un inferno. Anch’io l’ho fatto per molto tempo.» «Non sono ancora pronto a uscire allo scoperto.» Questo lo sapevano entrambi. «Capisco.» E Paul non insistette. Non lo conduceva in nessun posto, anche se il ragazzo era bellissimo e avrebbe fatto sbavare d’invidia tutti i suoi amici; non voleva che la voce si spargesse. Sarebbe stata solo questione di tempo: se fosse uscito con lui, presto la gente avrebbe scoperto chi era. Il figlio di Fave Thayer... e allora sarebbe stato lo scandalo. Paul voleva risparmiarlo a entrambi, e sembrava la cosa più 211
saggia, soprattutto per Paul, la cui carriera avrebbe corso un pericolo se Faye o Ward si fossero infuriati com’era probabile. Dopotutto il ragazzo aveva appena diciotto anni e Paul ne aveva compiuti ventinove. Sarebbe stato uno sconquasso, e lo avrebbe danneggiato. Il suo addetto alle pubbliche relazioni abbinava tuttora il suo nome a quello di belle attrici, quand’era possibile. La gente teneva a queste cose. Nessuno voleva sentirsi dire che il suo idolo era gay. Lionel passò la festa del Ringraziamento in famiglia. Ma adesso si sentiva diverso da loro, più adulto. Scoprì che non aveva niente da dire, mentre li ascoltava. Greg era così infantile e le ragazze parevano venire da un altro mondo. Non poteva parlare con i genitori, e soltanto Anne era sopportabile mentre lui attendeva che la giornata finisse. Fu un sollievo quando, dopo la cena, poté finalmente andarsene e tornare da Paul. Aveva raccontato ai genitori che sarebbe andato al lago Tahoe in compagnia di alcuni. amici, anche se in realtà avrebbe trascorso il fine settimana con Paul. Mancavano poche settimane alla conclusione del film e tutti e due erano più rilassati. Sembrò che fossero passati solo pochi giorni quando venne Natale. Lionel fece tutti gli acquisti non appena lasciò la scuola per le vacanze e un pomeriggio arrivò sul set mentre Paul era in camerino. Non vide in giro i genitori, e perciò entrò nella stanzetta che ormai conosceva così bene e si lasciò cadere su una sedia. Paul stava fumando uno spinello e glielo offrì; ma a Lionel non era mai piaciuto molto. Tirò una boccata rapida, lo restituì. Si scambiarono un sorriso, e Paul gli toccò la coscia. «Se non fossimo qui avrei un’idea grandiosa.» Risero. Stavano così bene insieme che a volte dimenticavano di avere qualcosa da nascondere. Paul si protese verso Lionel e si baciarono. Non sentirono la porta aprirsi, ma Lionel udì l’esclamazione soffocata e si svincolò. Vide sua madre sulla soglia, con il viso stravolto e gli occhi pieni di lacrime. Lionel balzò in piedi e Paul si alzò più lentamente. Si guardarono. 212
«Mamma, ti prego...» Lionel le tese una mano mentre le lacrime gli salivano agli occhi. Aveva la sensazione di averle trafitto il cuore con una coltellata, ma non si mosse. Neppure Faye si muoveva. Li guardava. Finalmente si lasciò cadere su una sedia. Le gambe non la reggevano. «Non so cosa dire. Da quanto tempo continua?» Faye girò gli occhi da Lionel a Paul. Paul preferì non peggiorare le cose. Fu Lionel a rispondere, lasciando ricadere le braccia lungo i fianchi in un gesto rassegnato. «Da un paio di mesi... mi dispiace, mamma...» Cominciò a piangere, e Paul si commosse. Gli andò al fianco e guardò Faye. Si sentiva in dovere di sostenere il ragazzo, ma sapeva quanto gli sarebbe costato. Faye avrebbe potuto rovinargli la carriera... era stata una pazzia mettersi con suo figlio. Adesso lo rimpiangeva ma era troppo tardi. Ormai il danno era fatto. «Faye. Non è successo niente. E nessuno lo sa. Non siamo mai andati insieme in nessun posto.» Paul sapeva che per lei sarebbe stato un sollievo saperlo. Faye alzò gli occhi. «È stata un’idea tua, Paul?» Avrebbe voluto ucciderlo, ma qualcosa le diceva che aveva torto, che non era interamente colpa sua. Guardò tristemente il volto del figlio, macchiato di lacrime. «Lionel... è... era successo altre volte?» Non sapeva neppure quali domande rivolgergli, non sapeva se aveva il diritto di chiedere. Lionel era un uomo; e se Paul fosse stato una ragazza, avrebbe chiesto i particolari? Ma la realtà di quella relazione la spaventava. Sapeva pochissimo dell’omosessualità e non desiderava saperne di più. A Hollywood c’erano moltissimi gay, ma lei non s’era mai preoccupata di chiedere che cosa facessero, e adesso all’improvviso suo figlio... l’aveva sorpreso a baciare un uomo... Si asciugò le lacrime dalle guance, li guardò di nuovo mentre Lionel sospirava e si lasciava cadere su una sedia. «Mamma, con Paul è stata la prima volta. E non è colpa sua. Sono sempre stato così. Forse lo sapevo da anni, ma non 213
immaginavo cosa potevo fare, e lui...» S’interruppe, guardò Paul quasi con riconoscenza e Faye si sentì sopraffare dalla nausea. «...lui mi ha fatto conoscere tutto questo... non posso cambiare. Sono così. Forse non è quello che vorresti tu e forse...» Lionel dominò un singhiozzo. «Forse non mi vorrai più bene... ma spero che...» Andò ad abbracciarla, le nascose il viso contro le pieghe del vestito. Anche gli occhi di Paul erano pieni di lacrime quando girò la testa. Non s’era mai trovato in una situazione simile, neppure con la sua famiglia. «Ti voglio bene, mamma... te ne ho sempre voluto e te ne vorrò sempre... ma amo Paul...» Era il grande momento da adulto della sua vita, e forse non sarebbe mai stato necessario che si ripetesse. Ma in quel momento doveva difendere ciò che era, anche se la faceva soffrire. Faye l’abbracciò, lo strinse, gli baciò i capelli, poi gli prese il volto tra le mani e lo guardò con fermezza. Per lei era sempre il bambino che era stato per diciotto anni, e il suo affetto era immutato. «Ti voglio bene così come sei, Lionel Thayer. Te ne vorrò sempre. Non dimenticarlo.» Lo guardò negli occhi. «Qualunque cosa succeda, qualunque cosa faccia, sarò sempre dalla tua parte.» Lanciò un’occhiata a Paul, e Lionel sorrise tra le lacrime. «Desidero soltanto che tu sia felice, ecco tutto. E se questa è la tua vita, l’accetterò. Ma voglio che tu stia molto attento a ciò che fai, a chi frequenti, al modo di comportarti. Hai scelto una vita difficile. Non illuderti.» Lionel lo sospettava già; ma con Paul era meno difficile, meno difficile che continuare a nascondersi a se stesso. Si alzò di nuovo e guardò Paul con gli occhi lucidi di lacrime. «Ti chiedo una cosa sola. Non dirlo a nessuno. Non rovinargli la vita. Forse un giorno cambierà idea: lasciagli questa possibilità.» Paul annuì in silenzio e Faye guardò di nuovo il figlio. «E non dire niente a tuo padre. Lui non capirebbe.» Lionel deglutì. «Lo so... io... non posso crederlo... sei stata meravigliosa, mamma...» Si asciugò di nuovo le lacrime e lei si sforzò di sorridere. 214
«Ti voglio molto bene. E anche tuo padre te ne vuole.» Faye sospirò tristemente, guardandoli. Era difficile capire. Erano tutti e due così belli, così virili e così giovani. Era uno spreco terribile, qualunque cosa ne pensassero tutti, e non aveva mai pensato che potesse essere una vita felice. Certo, non lo sarebbe stata per suo figlio. «Tuo padre non capirà mai, anche se ti vuole bene.» Faye fu costretta a sferrare il colpo più duro. «Gli spezzerebbe il cuore.» Lionel si sentì soffocare di nuovo. «Lo so.»
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finirono il film il cinque gennaio, e la festa fu la più bella che Paul avesse mai visto. Durò quasi tutta la notte, e ci furono i soliti abbracci, baci e lacrime. Per quanto lo riguardava, si sentiva sollevato. Anche se lei era stata così comprensiva, era stato difficile lavorare con Faye per quelle ultime settimane; e sapeva che la tensione era affiorata nella qualità della sua interpretazione, benché molte delle scene più importanti fossero state girate in precedenza. Paul sospettava che anche Faye avesse sentito la tensione; e si chiedeva nervosamente per l’ennesima volta se gli avrebbe assegnato ancora una parte. Gli piaceva lavorare per lei, ma stavolta si rendeva conto di averla tradita. Forse era così. Forse avrebbe dovuto stare lontano dal ragazzo, ma era così bello, fresco e giovane, e s’era convinto di essersi innamorato. Adesso sapeva che non era così. Lionel era un caro ragazzo ma era troppo giovane per lui. Ingenuo e privo di raffinatezza. Sarebbe diventato favoloso tra dieci anni, ma per ora non aveva la sostanza adatta a un uomo dell’età di Paul. Quasi sempre aveva l’impressione di essere suo padre, e sentiva la mancanza degli amici, del giro dei gay, delle feste e delle orge a cui partecipava spesso per sfogarsi. Era una vita troppo tranquilla e banale, starsene a casa tutte le notti a guardare il fuoco. E il sesso era piacevole, soprattutto ultimamente con l’aiuto di un po’ di erba o altro. Ma sapeva che non sarebbe durato a lungo. Per lui non durava mai. E poi avrebbe dovuto vivere 216
con quel rimorso. A volte la vita era troppo complicata, pensò mentre tornava a casa in macchina: ma quando trovò Lionel come un giovane dio addormentato sul suo letto, decise di non troncare ancora per molto, molto tempo. Si spogliò senza far rumore e sedette sull’orlo del letto, passandogli in silenzio un dito sulla gamba, fino a quando il ragazzo aprì un occhio. «Sembri un principe dormiente...» Era un sussurro nella stanza buia, rischiarata solo dalla luna, e Lionel sorrise e gli tese le braccia, insonnolito. Era più di quanto potesse desiderare qualunque uomo, pensò Paul mentre si abbandonava ai piaceri della carne. L’indomani dormirono fino a tardi, poi fecero una lunga passeggiata sulla spiaggia e parlarono della vita. Ma proprio in quei momenti Paul si rendeva conto di quanto fosse giovane Lionel. Gli sorrise, e Lionel s’irritò un poco. «Mi giudichi un bambino, vero?» «No.» Ma era una menzogna. «Be’, non lo sono, e ho visto tante cose.» Paul rise e Lionel si stizzì ancora di più; tutto finì con uno dei loro rari litigi, e quella notte Lionel tornò nel suo appartamento. Mentre s’infilava nel suo letto per la prima volta dopo varie settimane si chiese se le cose sarebbero andate in modo molto diverso, ora che Paul non doveva lavorare. Sarebbe stato libero, mentre Lionel doveva andare a scuola. E nonostante la relazione con Paul, aveva continuato a frequentare con diligenza. Dopo qualche settimana apparve evidente che qualcosa non funzionava. Paul era irrequieto, leggeva sceneggiature e cercava di decidere cosa intendeva fare, ed era ancora preoccupato a causa di Faye. All’inizio della primavera s’era stufato del suo studentello. Non gli dava abbastanza. Era durato sei mesi, e per lui era già tanto. Lionel lo intuì prima ancora che Paul dicesse qualcosa. Fu doloroso per entrambi quando finì; ma fu Lionel ad affrontare l’amante. Non sopportava più i silenzi forzati, e la casa di Malibu era opprimente per entrambi. 217
«È finita, vero, Paul?» Non sembrava più tanto giovane; ma lo era, si disse Paul. Non aveva ancora diciannove anni. Cristo. C’erano undici anni di differenza tra di loro. Undici anni. E lui aveva appena incontrato un uomo di quarantadue anni che lo abbagliava. Non aveva mai avuto un amante più vecchio di lui, ed era ansioso di stargli insieme; ma non poteva, con Lionel sempre addosso. Guardò il ragazzo: non provava rimorsi per ciò che avevano fatto. Si chiese se ne provava Lionel, ma non l’aveva mai lasciato capire in tutti quei mesi. Pareva che avesse trovato la sua strada nella vita. Era felice, prendeva ottimi voti. Era come se avesse trovato se stesso. Forse ne era valsa la pena, dopotutto. Paul gli sorrise tristemente. Era venuto il momento di essere sincero e di chiudere. «Credo di sì, amico mio. A volte la vita è fatta così. E siamo stati bene insieme, non ti pare?» Lionel annuì, malinconicamente. Non voleva troncare. Ma da un po’ di tempo non era più piacevole se non a letto. A letto era sempre divertente: ma erano entrambi giovani e sani e non c’era motivo perché non lo fosse. E ora voleva conoscere la verità. «C’è un altro?» Paul fu sincero. «Non ancora.» «Ma ci sarà presto?» «Non so. E non si tratta di questo.» Paul si alzò e fece il giro della stanza. «Ho bisogno di essere libero per un po’.» Si voltò a guardare Lionel. «Non è come il mondo normale, Li. La gente non s’innamora e si sposa e vive felice con tredici figli. Per quelli come noi è molto più difficile. È molto raro che due stiano insieme per molto tempo. Può succedere, certo; ma più spesso è l’avventura di una notte o di un paio di giorni o di una settimana... o se hai fortuna, può durare sei mesi com’è capitato a noi, ma poi non si può più continuare.» «Non mi basta.» Lionel era sconvolto. «Io voglio di più.» Paul sorrise. Conosceva bene il suo modo di vivere. «Buona fortuna. Può darsi che lo trovi, ma è molto improbabile.» «Perché?» L’attore alzò le spalle. «Forse non è nel nostro stile. A noi 218
interessano troppo un bell’aspetto, un bel corpo, un sedere sodo, un corpo giovane come il tuo... e sappiamo che un giorno la giovinezza finirà.» Incominciava già a sentirsi invecchiare. A volte invidiava Lionel, e perciò si stizziva con lui. Ma l’altro, l’uomo più anziano, lo faceva sentire bello e giovane quanto lo era Lionel per lui. «Che cosa vuoi fare, adesso?» «Non so. Forse viaggiare, per qualche tempo.» Lionel annuì. «Potrò rivederti qualche volta?» «Certo.» Paul lo guardò. «Per me è stato meraviglioso, Lionel... spero che tu lo sappia.» Ma Lionel lo guardò ancora più intensamente. «Non ti dimenticherò mai, Paul, mai... per il resto della mia vita...» Gli andò vicino. Si baciarono. Quella notte Lionel rimase. Ma l’indomani Paul lo accompagnò a casa con la macchina e, senza bisogno che gli dicesse nulla, Lionel capì che non l’avrebbe rivisto per molto, moltissimo tempo.
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nel giugno 1965 l’intera famiglia Thayer tornò a sedersi nella stessa fila dell’auditorium delle medie superiori di Beverly Hills dove aveva preso posto l’anno prima. Questa volta era Greg quello che si diplomava; e tipicamente la scena non ebbe la solennità che aveva avuto in occasione della festa di Lionel. Questa volta Faye non pianse, sebbene lei e Ward fossero commossi; Lionel era presente, aveva un’aria molto adulta e un altro abito nuovo. Stava per incominciare il secondo anno all’UCLA e ne era entusiasta. E le gemelle sembravano molto cresciute, Vanessa aveva rinunciato a darsi l’aria della bambina. Portava una minigonna rossa, scarpe con i tacchi e una camicetta rossa e bianca che Faye le aveva comprato a New York, una borsa di vernice rossa a tracolla, e appariva giovane e fresca, con i capelli sciolti sulle spalle come una cascata d’oro. Soltanto Valerie commentò in modo negativo il suo abbigliamento, ma del resto lo faceva sempre: le disse che stava bene, se non le dispiaceva assomigliare a una caramella a due gusti. Lei aveva optato per qualcosa di più sobrio, pensava: indossava egualmente una minigonna, ma la sua era nera, e il maglioncino come al solito era troppo attillato. Aveva un’aria di sorprendente maturità. La figura seducente, il trucco più sfumato, la sensazionale criniera che eclissava tutto, tranne il suo abito. Era molto carina, e sarebbe stata perfetta a un cocktail di Beverly Hills. Era un po’ esagerata per l’auditorium di una scuola medio-superiore alle nove del mattino, ma ormai tutti 220
c’erano abituati. Faye ringraziava il cielo che non avesse scelto un vestito scollatissimo; e la minigonna era una delle più pudiche di Valerie. «Per fortuna», aveva bisbigliato a Ward mentre salivano in macchina e lui aveva sorriso. I figli erano tanti, e stavano crescendo. Persino Anne era maturata. Le erano spuntati i seni e aveva i fianchi arrotondati. Adesso aveva tredici anni e quell’anno non si era persa prima che partissero per la cerimonia. Ma il regalo per Greg non era una sorpresa. Lui aveva assediato a lungo i genitori, e alla fine Ward s’era arreso e gliel’aveva consegnato una settimana prima. Era una Corvette Stingray gialla decapottabile, e Greg era ancora più entusiasta di quanto lo fosse stato Lionel per la Mustang, se era possibile. Per la verità era una macchina più lussuosa della piccola utilitaria rossa di Lionel, ma era stata un’idea di Ward. E Greg passò rombando avanti e indietro per la strada, poi sparì per andare a prendere gli amici e portarli a fare un giro. Ward era sicuro che sarebbe andato a sbattere o si sarebbe fatto arrestare entro un’ora; invece sopravvissero tutti, e nove dei suoi amici più intimi arrivarono gridando evviva mentre la macchina svoltava nel viale con un grande stridore. Poi tutti balzarono a terra e corsero verso la piscina, e Ward si chiese se non aveva commesso un grave errore. Certamente, Greg non era posato come Lionel, e Ward si augurava che guidasse in modo sensato quando sarebbe andato all’Università dell’Alabama. Aveva vinto una borsa di studio perché eccelleva nel football americano, e non vedeva l’ora di partire. Sarebbe tornato a lavorare per un mese nel solito ranch del Montana, ma poi avrebbe raggiunto l’università il primo agosto per incominciare l’allenamento con la squadra e il famoso allenatore «Bear». Ward sognava il momento in cui avrebbe preso l’aereo e sarebbe andato a vederlo per la prima partita. Faye sapeva che quell’anno avrebbe avuto molti impegni, ma non le dispiaceva. Aveva promesso di andare appena ne avesse avuto la possibilità, anche se in autunno avrebbe terminato un film e ne avrebbe incominciato un altro dopo il primo dell’anno: comunque avrebbe fatto il possibile. 221
Videro Greg ricevere il diploma come aveva fatto Lionel l’anno prima, e Greg sorrise intimidito, salutò a gesti i familiari e gli amici e tornò a sedersi, urtando i compagni con le ampie spalle. Era l’eroe della scuola perché aveva vinto una borsa di studio grazie alla sua bravura nel football, e Ward era fuori di sé per l’orgoglio. Lo aveva detto a tutti coloro che conosceva e aveva guardato Lionel con aria di rimprovero, quando aveva appreso la notizia. In quel periodo Lionel stava girando un film sperimentale sul balletto e c’erano momenti in cui Ward si chiedeva che cosa avesse per la mente. Era senza dubbio diverso dal fratello minore, ma almeno andava bene a scuola. E Faye lo vedeva spesso a pranzo. Ward, invece, non aveva avuto molto tempo. Era stato impegnato a mettere insieme i finanziamenti per un altro grosso film e aveva avuto molti pensieri. Ma il ragazzo sembrava a posto. Almeno nessuno della loro nidiata s’era fatto prendere dalla mania dei figli dei fiori e nessuno si drogava, anche se spesso Ward avvertiva Faye di tener d’occhio Val. Quella ragazzina era troppo seducente e aveva la mania di appiccicarsi ai giovani più anziani di lei. In maggio s’era portata a casa uno che aveva confessato di avere ventiquattro anni, e Ward s’era affrettato a troncare il romanzetto. Ma non si poteva negare che Val fosse difficile da controllare: c’era sempre uno come lei in ogni famiglia. Ma finora, nonostante l’abbigliamento pazzesco, il trucco e i ragazzi più anziani, sembrava restare entro i limiti di una certa decenza. La festa che offrirono a Greg quella sera fu molto diversa dal party di Lionel, l’anno prima. A mezzanotte tutti erano sbronzi di birra e parecchi s’erano tuffati nudi in piscina. Faye avrebbe voluto buttarli fuori, ma Ward la convinse a lasciare che si divertissero, e le chiese di mandare a letto Anne e le gemelle; Faye ribatté che era impossibile, a meno di troncare la festa. Poco dopo le due del mattino intervenne la polizia per intimare di smetterla con la musica e il baccano. Tutti gli abitanti della strada s’erano lamentati, soprattutto i coniugi della casa accanto che s’erano visti capitare in giar222
dino dodici robusti giovani venuti a tuffarsi nella loro piscina. Ward l’aveva trovato divertente: ma lui trovava divertente tutto ciò che faceva Greg. Faye era assai meno entusiasta. L’anno prima, la festa di Lionel non aveva causato lamentele. Quando arrivò la polizia, Greg era steso su una chaise longue con un asciugamani avvolto intorno alla vita e cingeva con un braccio la sua ragazza del momento. Tutti e due erano sbronzi e dormivano. Non si svegliarono quando gli altri invitati andarono via commentando che era stata una festa grandiosa. Faye ringraziò il cielo perché, almeno, nessuno era entrato in casa. Solo una coppia s’era infilata a pomiciare nella stanza di Greg: ma Faye li aveva visti entrare in punta di piedi e li aveva immediatamente invitati a uscire. I due avevano obbedito e se n’erano andati abbastanza presto con un gruppetto di altri che erano intenzionati a spassarsela prima di tornare a casa. Ma in maggioranza i ragazzi avevano pensato soprattutto a buttarsi l’un l’altro nella piscina e a ingozzarsi di birra. E quando anche l’ultimo invitato se ne andò, Lionel e John Wells erano ancora seduti un po’ lontano dalla piscina, su un comodo dondolo a due posti, sotto un albero. Parlavano dell’UCLA e Lionel spiegava quali erano le materie che gli interessavano di più e quali progetti aveva. John era riuscito a realizzare il suo sogno: anche lui era stato accettato alla UCLA. Il dondolo oscillava lentamente avanti e indietro mentre i due assistevano alla baldoria generale. Lionel era fuggito un po’ prima, e John l’aveva trovato in quell’angolo. «Io sto pensando alle belle arti», disse John. Ufficialmente era ancora il miglior amico di Greg ma in quell’ultimo anno avevano passato insieme assai meno tempo. Anche John faceva parte della squadra di football; tuttavia non ci teneva quanto Greg e adesso era contento di essere libero. Non intendeva giocare più a football, anche se era tagliato per farlo. Greg gli aveva detto che era matto; gli avevano offerto una borsa di studio al Georgia Tech proprio grazie alla sua bravura, e John 223
aveva rifiutato. Stranamente, da quel giorno la loro amicizia s’era un po’ allentata. Greg non capiva come fosse possibile rinunciare a un’occasione tanto splendida. Aveva guardato l’amico d’infanzia con aria di disgusto, incredulo; e adesso ogni volta che s’incontravano John aveva l’impressione di doversi giustificare ancora, quasi avesse commesso un peccato imperdonabile. Agli occhi di Greg era così. Ma Lionel non era affatto scandalizzato, ed era sempre stato affezionato a John. «C’è un’ottima facoltà di belle arti. E naturalmente, un formidabile dipartimento drammatico.» Lionel sapeva che John non aveva ancora scelto la materia principale. «Non credo che sia il mio stile.» John sorrise timidamente a Lionel, che aveva sempre ammirato. «L’anno prossimo andrai a vivere nel campus?» John era esitante. «Non ne sono sicuro. Mia madre vorrebbe che alloggiassi al pensionato, ma non mi va molto. Preferirei vivere a casa.» Lionel assunse per un momento un’aria pensierosa mentre continuavano a dondolarsi. «Credo che uno dei miei compagni d’appartamento se ne vada.» Scrutò John e si chiese come si sarebbe inserito. Era ancora molto giovane, ma era un bravo ragazzo. Non fumava e non beveva e non amava le chiassate... in questo era molto diverso da Greg. Somigliava di più ai compagni di Lionel, che gli erano quasi tutti simpatici. Ogni tanto si davano alla pazza gioia il sabato sera, ma non erano troppo scatenati; e diversamente da tanti altri studenti del primo e del secondo anno non vivevano nel disordine e nella sporcizia. Tenevano l’appartamento piuttosto pulito; due di loro avevano ragazze fisse che spesso venivano a dormire lì ma non davano fastidio a nessuno, e Lionel andava e veniva a suo piacere. Nessuno gli faceva più domande. Qualche volta aveva il sospetto che sapessero la verità, ma nessuno gli diceva niente. Era un gruppo affiatato e John Wells avrebbe potuto inserirsi bene. «T’interesserebbe, John? L’affitto è molto ragionevole.» Lionel lo guardò. «Cosa direb224
bero i tuoi se per il primo anno vivessi fuori dal campus? È proprio dall’altra parte della strada, per la verità, ma non è il pensionato.» Sorrise, e il sorriso accentuò la sua somiglianza con Faye. In quell’anno era uscito dall’adolescenza, ed era un giovane bellissimo. Spesso la gente si voltava a guardarlo per la strada, colpita dalla figura elegante, gli occhi verdi e grandi, i capelli dorati. Prediligeva gli abiti sobri che facevano spiccare la sua bellezza. Se avesse voluto non avrebbe avuto difficoltà a diventare attore del cinema, ma non era quello che lo interessava. Adesso stava guardando John e il ragazzo provava una sensazione strana. «Cosa ne pensi?» Gli occhi di John s’illuminarono. «Caspita, mi piacerebbe trovare un posto così. Domani lo chiederò subito ai miei.» Lionel sorrise. «Non occorre che ti precipiti. Dirò agli altri che ho trovato qualcuno. Non credo che per il momento ci siano problemi.» «Quanto costa? Mio padre vorrà saperlo.» I genitori di John erano agiati ma parsimoniosi. Lui era il primo di cinque figli, ed entro i prossimi quattro anni ce ne sarebbero stati quattro al college, come i Thayer; tuttavia il padre di Lionel si preoccupava meno di quello di John. Ward segnava al suo attivo due o tre film di successo ogni anno, mentre il padre di John era uno specialista di chirurgia plastica e la madre si occupava un po’ di arredamento per conto delle famiglie amiche, quando ne aveva tempo. Ma era sensazionale. L’anno prima s’era fatta rifare gli occhi e prima ancora s’era fatta ritoccare il naso, e quell’anno si sarebbe fatta modificare il seno. In costume da bagno era splendida. Le sorelle di John erano molto carine. Greg era uscito con due di loro, e una terza adocchiava Lionel da anni. Ma Li non aveva mostrato interesse, e John non s’era mai chiesto perché. «Diviso per cinque, l’affitto viene circa sessantasei dollari al mese, John. È una casa con cinque stanze da letto a Westwood, e la padrona non ci sta fra i piedi. Non c’è la piscina, e il garage ha posto per due sole macchine. Avresti una stanza piuttosto grande, affacciata sulla strada, e il bagno in comu225
ne con altri due ragazzi. Nella camera ci sono un letto e una scrivania, il resto dovresti portarlo tu, a meno che Thompson voglia venderti le sue cianfrusaglie. Tanto, lui andrà a Yale per i prossimi due anni.» «Fiuu!» Gli occhi di John s’erano illuminati. «Aspetta che lo dica a mio padre!» Lionel sorrise. «Vuoi venire domani a dare un’occhiata? Quest’estate saremo due soli, e quindi l’affitto salirà. Ma sarebbe troppo fastidioso trasferirmi di nuovo qui.» Alzò le spalle e assunse un’aria vaga. «E poi, non so... è più facile, una volta che te ne sei andato. Credo che sarebbe un problema tornare a vivere in casa.» Soprattutto perché avrebbe dovuto rispondere a troppe domande che così riusciva a evitare. E apprezzava la libertà. Inoltre, dato che quell’estate sarebbe rimasto solo un altro ragazzo, sarebbe stato come avere una casa tutta sua. E questa era una prospettiva piacevole. «Sì, lo so... posso venire domani?» Era sabato, e Lionel non aveva nessun progetto speciale. Avrebbe dormito fino a tardi e poi avrebbe fatto il bucato. Era invitato a una festa per la sera, ma aveva la giornata libera. «Sicuro.» «Alle nove?» John sembrava un bimbetto in attesa di Babbo Natale e Lionel rise: «Non sarebbe meglio mezzogiorno?» «Benissimo.» Lasciarono il dondolo e Lionel diede un passaggio a John fino a casa. E quando lo ebbe lasciato davanti al castello francese in miniatura dove abitava a Bel-Air, con la Cadillac e la Mercedes parcheggiate in bella vista, tornò a casa a velocità ridotta pensando a John. Provava qualcosa che non poteva negare, ma non sapeva se era appropriato, in quel caso. Sospettava che non lo fosse, e non aveva intenzione di approfittare del ragazzo. L’offerta della stanza nell’appartamento era stata fatta in buona fede. Non voleva tendere una trappola a John: ma doveva ammettere che averlo così vicino avrebbe potuto diventare difficile oppure... i suoi pensieri turbinavano mentre si fermava davanti alla casa che divideva 226
con i quattro compagni. Si chiese se Paul aveva provato gli stessi sentimenti per lui. Era una strana responsabilità, cercare di stabilire un contatto con John, specialmente se era la prima volta... e Lionel sospettava che lo fosse. Che cosa stava pensando? si rimproverò. E se John l’avesse pensata diversamente? Sarebbe stata una pazzia tentare un approccio con lui, e se lo ripeté più volte quando si lavò i denti e andò a letto. Era assurdo, si disse mentre giaceva al buio e si sforzava di non pensare a lui. Ma il viso giovane e innocente di John continuava a riapparirgli... le gambe poderose... le spalle ampie... i fianchi snelli... si sentiva eccitare al solo pensiero. «No», disse a voce alta e si girò, accarezzandosi istintivamente. Cercò di scacciare John dai suoi pensieri, ma era impossibile, e il suo corpo tremava di desiderio al ricordo di John che si tuffava nella piscina quella sera. Per tutta la notte, quando si addormentò, Lionel lo sognò... lo vedeva correre su una spiaggia... nuotare in un mare tropicale... baciarlo... giacere al suo fianco... Si svegliò in preda a una sofferenza sorda che non voleva dileguarsi. Prese la bicicletta e andò a fare un lungo giro prima che gli altri si svegliassero. Attese con ansia che venisse mezzogiorno, e promise a se stesso di dire a John che la stanza era stata affittata a un altro. Era l’unica via d’uscita. Avrebbe potuto telefonargli, ma non voleva. Glielo avrebbe detto quando sarebbe venuto a casa a mezzogiorno... sì, glielo avrebbe detto... era la cosa migliore... dirglielo in faccia... era l’unica soluzione.
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Quando greg si svegliò, la mattina dopo la baldoria per il diploma, era in preda ai postumi della sbronza più tremendi della sua vita, eppure ne aveva già avuti parecchi. La testa gli doleva e aveva lo stomaco sottosopra. Durante la notte s’era svegliato due volte e aveva vomitato, una volta addirittura sul pavimento del bagno; ed era convinto di morire quando alle undici del mattino tentò di alzarsi. Suo padre lo vide scendere barcollando e gli porse una tazza di caffè carico, una fetta di pane tostato e un bicchiere di succo di pomodoro con un uovo crudo dentro. A Greg bastò guardare quella roba per sentirsi riprendere dalla nausea, ma suo padre insistette perché la mandasse giù. «Fai uno sforzo, figliolo. Vedrai, ti farà bene.» Sembrava che parlasse per esperienza, e Greg si fidava di lui. Obbedì e poco dopo, sorprendentemente, si sentì meglio. Ward gli diede due aspirine per il mal di testa e Greg le inghiottì. A mezzogiorno si sentiva già meglio e si sdraiò al sole accanto alla piscina. Alzò gli occhi e scorse Val: portava un bikini che Faye non voleva indossasse quando c’era qualche estraneo... ma in famiglia era ammesso. Era poco più di un pezzo di spago, però Greg doveva ammettere che le stava magnificamente. «È stata una festa grandiosa, no, sorellina?» «Già.» Val aprì un occhio e lo guardò. «E tu hai bevuto parecchio.» Greg non si scompose. «Papà e mamma erano arrabbiati?» 228
«Credo che mamma lo fosse, ma papà continuava a ripeterle che dopotutto era la festa del tuo diploma.» Val sorrise. Anche lei aveva bevuto qualche birra, e la musica era stata entusiasmante. Avevano ballato molto, prima di finire fuori combattimento. «Aspetta che venga il tuo turno. Probabilmente darai i numeri.» «Il mio turno sarà la volta prossima.» Ma sarebbe stata costretta a dividere la festa con Van. Era quello che non sopportava nel fatto di avere una gemella: era sempre costretta a dividere tutto con l’altra. E Faye non aveva mai capito che voleva starsene per conto suo, avere amici tutti suoi. Le aveva sempre trattate come se fossero una persona sola e Valerie aveva passato la vita a combattere quell’idea, a dimostrare quant’erano diverse, a ogni costo. Eppure, nessuno voleva capire. Ma non sarebbe continuato per molto. Ancora due anni in casa e poi se ne sarebbe andata. Vanessa diceva che si sarebbe iscritta a un college all’Est, ma Val aveva le idee molto chiare. Avrebbe seguito un corso di recitazione. Non alla scuola d’arte drammatica dell’UCLA, ma a un corso vero, dove andavano gli attori che lavoravano; e anche lei si sarebbe cercata un lavoro. Avrebbe preso un appartamento tutto suo. Non intendeva sprecare tempo frequentando un college. Che bisogno ne aveva? Sarebbe diventata un’attrice, più famosa di quanto lo fosse stata sua madre. S’era prefissata quel traguardo anni prima e non aveva mai cambiato idea. «Perché hai quell’aria incavolata?» Greg era rimasto a osservarla mentre lei rifletteva, accigliata. Di solito assumeva quell’espressione quando tramava qualcosa ai danni di qualche povero diavolo per il quale aveva le scalmane. Ma questa volta si limitò a ributtare all’indietro i lunghi capelli rossi e alzò le spalle. Non aveva detto a nessuno ciò che intendeva fare. Le avrebbero piantato un mucchio di grane. Greg avrebbe cercato di convincerla a diventare fisioterapista oppure acrobata o a ottenere una stupida borsa di studio per meriti atletici; Vanessa si sarebbe sforzata di indurla ad 229
andare a studiare all’Est con lei; Lionel avrebbe avuto qualche altra idea stupida, come andare all’UCLA perché lui ci andava. La mamma avrebbe fatto un discorso sulla necessità dell’istruzione, il padre le avrebbe detto che il trucco le rovinava la pelle e Anne l’avrebbe guardata come se fosse un fenomeno vivente. Li conosceva tutti troppo bene, dopo aver vissuto con loro per sedici anni. «Stavo pensando a ieri sera», mentì Valerie, sdraiandosi di nuovo sotto il sole caldo. «Già... è stato splendido.» Greg si ricordò di chiedere che fine aveva fatto la sua ragazza. «Papà l’ha portata a casa e per poco lei non gli ha vomitato in macchina.» «Cristo, a me non ha detto niente.» «Per fortuna non è stato uno di noi, gli sarebbe venuto un colpo.» Risero entrambi mentre Anne passava accanto a loro con un libro in mano per andare a sedere sul dondolo. «Dove vai, sgorbietto?» Greg la guardò nel sole e notò che in costume da bagno aveva una figurina graziosa. La vita diventava sempre più snella e i seni erano quasi sviluppati come quelli di Val. La sorellina stava diventando grande, ma non era il tipo al quale si poteva dire qualcosa sull’argomento. Era la più riservata di tutti e non dava mai l’impressione di essere affezionata a qualcuno... eccetto Lionel, naturalmente. Greg l’aveva sentita parlare pochissimo da quando il fratello maggiore se ne era andato. «Dove vai, piccola?» Le ripeté la domanda mentre Anne gli passava accanto, impassibile. Non aveva mai molte cose da dire a Greg. Gli sport non le piacevano, e le ragazze del fratello le sembravano sempre troppo stupide. E litigava furiosamente con Val, che adesso la stava guardando di malumore perché le sembrava che il costume di Anne somigliasse in modo sospetto al suo; ma non ne era sicura, e Anne si sentiva addosso il suo sguardo indagatore. «Da nessuna parte.» Proseguì senza aggiungere una parola e stringendo il libro. Appena fu passata, Greg bisbigliò a Val: «È una ragazzina strana, no?» 230
«Sì, credo di sì.» Ma a Val la cosa non interessava. S’era resa conto che il costume da bagno non era suo. Il suo non aveva la striscia gialla sul fianco. «Però è cresciuta molto. Hai visto che tette?» Greg rise. «Sono grosse quanto le tue.» «E allora?» Val fece rientrare lo stomaco, si alzò e sporse il seno. «Ha le gambe corte.» E non somigliava a nessuno di loro. Non era mai stata sensazionale come loro quattro. Poi Val si guardò le gambe e cercò di decidere se per quel giorno aveva preso abbastanza sole. Se ne avesse preso troppo si sarebbe scottata, sebbene avesse più tolleranza della maggior parte delle fulve. Notò che Greg stava cominciando a diventare rosso. «Stai attento. Sembri un gambero.» «Fra un po’ tornerò in casa. John ha detto che sarebbe passato di qui e voglio andare in centro a prendere i tappetini per la mia macchina.» «E Joan?» Era la biondina che Ward aveva dovuto accompagnare a casa quella notte. Aveva le tette più voluminose che Val avesse mai visto: erano quasi volgari e a scuola tutti dicevano che era una ragazza facile. A Greg andava benissimo così. «La vedrò stasera.» Andava a letto con lei da due mesi, da quando avevano saputo che Greg aveva vinto la borsa di studio per l’Università dell’Alabama. «Uscirete con John?» Val sapeva che John non aveva una ragazza, e sperava sempre che l’invitasse a uscire; ma Greg non l’aveva mai suggerito, e neppure John. «No, ha detto che aveva altri progetti.» Greg lanciò un’occhiata alla sorella. «Perché? Hai le scalmane per lui, sorellina?» Era una punzecchiatura inammissibile e in passato aveva causato litigi rabbiosi. Greg si divertiva a lanciare l’esca e Val abboccava sempre; stava per farlo anche ora. «Diavolo, no. Dicevo così. Ho già un appuntamento», disse Val, mentendo di nuovo. «Con chi?» Greg la conosceva abbastanza bene per fiutare la bugia. «Non ti riguarda.» 231
«È come immaginavo.» Greg tornò a sdraiarsi con un sogghigno. Vai avrebbe voluto strozzarlo, mentre Anne li osservava in silenzio dal vecchio dondolo. «Non hai un appuntamento con nessuno, furbastra.» «Un accidente! Ce l’ho con Jack Barnes.» «Questa è una balla. Lui ha Linda Hall come ragazza fissa.» «Ecco.» Il viso di Valerie era rosso, e non soltanto per il sole. Da lontano, Anne comprese che aveva appena detto una bugia: li conosceva tutti meglio di quanto conoscessero lei. «Forse la tradisce.» Greg si sollevò a sedere e fissò con attenzione la sorella. «No, a meno che tu faccia con lui quello che fa Linda, sorellina. E questo mi porta alla domanda che intendevo rivolgerti: è così?» Val era avvampata. «Vai a farti fottere.» Si voltò di scatto e corse in casa. Greg rise di nuovo e si sdraiò al sole. La sorellina era un tipino caldo: l’aveva saputo da un paio di amici i cui fratelli minori erano usciti con lei. Ma con ogni probabilità era disposta a fare di tutto tranne «quello». Sapeva che era ancora vergine, o almeno lo immaginava; e sapeva che gli aveva raccontato una frottola a proposito di Jack Barnes. Comunque, sospettava che avesse sempre avuto una cotta per John Wells; ma John non aveva mai dimostrato interesse per lei, e Greg preferiva così. Val non era il tipo di John: lui aveva un debole per le ragazze più tranquille e meno vistose. Era ancora timidissimo, e Greg era quasi sicuro che anche lui non l’aveva mai fatto. Povero ragazzo. Avrebbe fatto meglio a sbrigarsi. Probabilmente era l’unico, in tutta la loro classe, che non fosse ancora andato con una ragazza, almeno a sentire quel che raccontavano, e stava diventando imbarazzante avere un amico simile. Diavolo, la gente avrebbe finito per pensare che John era un frocio... e peggio ancora, se fossero rimasti amici tutti avrebbero detto lo stesso anche di lui. Ma poi sorrise tra sé. Dopo quello che aveva combinato con Joan, il rischio non esisteva. 232
«Caspita, che bel posto.» John si guardava intorno nella casa di Westwood, estatico come se fosse Versailles o un set di Hollywood, anziché un modesto alloggio per studenti di fronte all’UCLA. «Mio padre ha detto che l’affitto è basso. E la mamma è un po’ nervosa all’idea che io non viva nel pensionato, ma papà le ha fatto osservare che ci sei tu e che potrai tenermi d’occhio.» Arrossì, vergognandosi delle sue parole. «Voglio dire...» «Non importa.» Lionel si sforzava di reprimere i sogni di quella notte, e aveva la stranissima sensazione di rivivere un film che aveva già visto, con la differenza che questa volta lui interpretava la parte di Paul. Era come una variazione di déjà vu, e non riusciva a sfuggire ai propri pensieri mentre faceva da guida a John. La stanza di Lionel era di fronte a quella che John avrebbe occupato; ma era sicuro che, se fosse stato disposto a rinunciare all’unica stanza della casa con una propria doccia, avrebbe potuto avere la camera a fianco di quella di John. Gli altri sarebbero stati disposti a uccidere qualcuno pur di avere la sua camera, e lui sarebbe stato disposto a lasciarla se... Scacciò quel pensiero e s’impose di concentrare l’attenzione sul suo compito di cicerone. «In garage c’è una lavatrice. Nessuno la usa per settimane, e poi viene la sera in cui tutti pretendono di adoperarla.» Lionel sorrise. «Mia madre ha detto che posso portare la roba a lavare a casa.» Lionel non poteva fare a meno di pensare quanto era diverso da Greg. Era stranissimo che fossero amici; sospettava che fosse più per abitudine che per altro. E se ci avesse pensato, John avrebbe ammesso che era così. Lui e Greg non avevano avuto molto in comune in quegli ultimi due anni, e soprattutto nei mesi più recenti. Erano in disaccordo su tutto, dalla borsa di studio alla compagna di classe con cui Greg andava a letto. John non la sopportava; e di conseguenza aveva frequentato Greg sempre di meno. Aveva passato parecchio tempo da solo, ed era quasi un sollievo poter parlare con Lionel, che aveva tanto buon senso e che frequentava la stessa scuola cui era iscritto anche lui. «Dav233
vero, questo posto mi piace un mucchio, Li. È grande.» Se ne sarebbe innamorato anche se fosse stata una stalla. C’era un’atmosfera che lo faceva sentire adulto; ed era confortante sapere che ci sarebbe stato anche Lionel. Lo intimidiva entrare in una scuola nuova; e aveva detestato la prospettiva del pensionato, dopo essere vissuto in casa per diciotto anni con quattro sorelle. Gli era parso tutto così strano: ma adesso c’era Lionel, ed era diverso. «Ti andrebbe di restare qui quest’estate, John? O preferisci venire in autunno, prima dell’inizio della scuola?» Lionel sentiva il cuore battergli forte, e si rimproverava. Che differenza faceva, se quel ragazzo veniva a stare lì? Lascialo in pace, avrebbe voluto gridare a se stesso. Di colpo, era pentito di aver lanciato la proposta. Gli avrebbe reso la vita difficile. Era stata un’idea stupida ma non poteva tirarsi indietro. Aveva già avvertito due degli altri quella mattina, prima che arrivasse John, ed erano stati contenti che avesse trovato qualcuno: gli risparmiava la seccatura di pubblicare un annuncio economico o di telefonare agli amici. «Potrei venire la settimana prossima?» Per un momento Lionel restò allibito. «Così presto?» «Oh, no...» John arrossì. «No, se per te è scomodo. Avevo pensato che, siccome martedì è il primo del mese, sarebbe stato più semplice per l’affitto... e ho trovato un lavoro da Robinson’s per l’estate. Potrei vivere qui, nel frattempo.» Robinson’s era un grande magazzino, e Lionel ricordò vagamente il suo lavoro dell’anno prima, da Van Cleef & Arpels. Gli era piaciuto molto e gli rincresceva di non poterlo fare ancora; ma quell’anno voleva lavorare nel cinema. Era più logico, e se avesse avuto fortuna gli sarebbe servito ad acquistare merito presso l’UCLA. «No, no, hai ragione tu, John. Non ci avevo pensato. E la stanza è libera. Solo, credevo che volessi rifletterci un po’...» Era troppo tardi. Aveva offerto la stanza a John e John la voleva. Avrebbe dovuto sopportare le conseguenze di ciò che aveva fatto, a qualunque costo. 234
«Non ho bisogno di riflettere, Li. La stanza mi sembra magnifica.» Merda. Lionel guardò il ragazzo dai capelli scuri e dal corpo squisito che l’aveva torturato quella notte. Non restava altro da dire. «Benissimo. Avvertirò gli altri. Saranno contenti: si risparmieranno un mucchio di grattacapi.» E poi, in uno slancio premuroso, chiese: «Vuoi che ti aiuti a far trasloco?» «Mi dispiace disturbarti... pensavo di farmi prestare la macchina di papà per cominciare a portare un po’ di roba domani.» «Verrò io.» Il viso di John s’illuminò di nuovo come quello di un bambino. «Ti sono molto grato, Li. Sei sicuro che non sia troppo disturbo per te?» «Nessun disturbo.» «Mia madre ha detto che mi darà una coperta, qualche lampada e altra roba.» «Benissimo.» Lionel si sentiva stringere il cuore e si chiedeva in quale situazione era andato a cacciarsi, mentre John lo guardava con ammirazione. «Posso invitarti a cena questa sera, Li, per sdebitarmi?» Lionel si sentì imbarazzato e commosso di fronte alla sincerità del ragazzo. «Non importa, John, non devi sentirti in debito. Sono contento che sia andata bene.» Ma non era contento. Era spaventato. E se avesse perduto il controllo? Se avesse fatto qualche stupidaggine? Se John avesse scoperto che era gay? Ma all’improvviso sentì la mano di John sul braccio e un brivido freddo gli corse lungo la schiena. Avrebbe voluto dirgli di non toccarlo più, ma il ragazzo avrebbe pensato che era matto. «Non so come ringraziarti, Li. È davvero una nuova vita.» John era sollevato all’idea di allontanarsi dai ragazzini delle medie superiori di Beverly Hills. Sentiva di non essere come loro: lo sentiva da anni, e l’aveva nascosto per tutto quel tempo. Ora poteva incominciare una vita nuova in un posto diverso. Non sarebbe stato costretto a sforzarsi tanto o ad 235
ascoltare gli atleti o a sfuggire alle ragazze o a fingere di sbronzarsi il sabato sera. Persino lo spogliatoio era diventato un incubo per lui... tutti quei ragazzi, persino Greg, soprattutto lui... e sapeva di essere diverso da loro. Eppure, con Lionel non aveva la sensazione di essere strano. Era così tranquillo e comprensivo, e con lui si trovava benissimo. Anche se non l’avesse mai visto nella nuova casa, sarebbe stato piacevole sapere che sarebbe venuto lì ogni tanto, che le loro strade si sarebbero incrociate e qualche volta avrebbe potuto parlargli. Lo guardò negli occhi. Avrebbe voluto piangere di sollievo. «Odiavo tanto la scuola, Li. Non vedevo l’ora di finire.» Lionel ne fu sorpreso. «Credevo ti piacesse, John. Sei un asso del football.» Andarono in cucina e Lionel gli porse una Coca. John l’accettò con gratitudine, soprattutto perché non era birra. Sarebbe stata una birra, se gliel’avesse offerta Greg. «L’ultimo anno l’ho odiata. Sono stufo di quello schifo.» John bevve un sorso della Coca e sospirò di sollievo. Era una vita nuova, davvero. «Odiavo ogni momento che passavo con quella maledetta squadra di football.» Lionel lo guardò sconcertato. «Perché?» «Non lo so. Non mi è mai importato niente. Forse ero bravo, ma non m’importava niente. Sai, piangevano negli spogliatoi, quando perdevano una partita. Qualche volta piangeva anche l’allenatore. Come se fosse importantissimo. Invece non è altro che lo spettacolo di un branco di giganti che si pestano su un campo. Non mi ha mai eccitato.» «E come mai giocavi?» «Mio padre ci teneva. Aveva giocato al college prima d’iscriversi alla facoltà di medicina. E mi diceva sempre che se giocando mi avessero spaccato la faccia me l’avrebbe ricostruita lui gratis.» John sembrava disgustato. «E questo non migliorava le cose.» Sorrise a Lionel. «Stare qui sarà un sogno.» Lionel ricambiò il sorriso. «Sono contento che la stanza ti piaccia. E sarà simpatico averti qui, anche se non ci sto molto. Comunque, se c’è qualcosa che posso fare...» «Hai già fatto tanto, Li.» 236
L’indomani Lionel andò a prenderlo, abbassò la capotte della piccola Mustang rossa e fece tre viaggi per aiutarlo a trasferire la roba. Ne aveva una quantità; ma sapeva anche fare miracoli e Lionel riconobbe a stento la camera, la domenica sera. Si fermò sulla soglia e spalancò gli occhi. «Mio Dio, come hai fatto?» John aveva ricoperto di stoffa una parete, aveva appeso qua e là cestelli con le piante e aveva messo semplici tende alla finestra e un bel quadro sopra il letto. Due lampade davano una luce calda e l’altra parete era decorata di poster. Sembrava una stanza uscita da una rivista di arredamento. Sul pavimento c’era un piccolo tappeto bianco di flokati. «È stata tua madre?» Lionel sapeva che era arredatrice, e non riusciva a immaginare che John avesse fatto tutto da solo in poche ore. C’erano persino cassette d’arance rivestite di stoffa, cestini per le riviste, e un mucchio di cuscini che creavano l’effetto di un divano sotto la finestra. Lionel era impressionato. «Ho fatto tutto io.» John sembrava soddisfatto dello stupore di Lionel. Tutti dicevano che aveva il bernoccolo dell’arredamento, ed era sempre stato capace di entrare in una stanza e di trasformarla in poche ore, utilizzando il materiale a portata di mano. Persino la madre sosteneva che avrebbe dovuto sfruttare quel dono innato perché lo considerava più bravo di lei. Le costava sempre mesi d’impegno ottenere gli effetti che si proponeva. «È un genere di lavoro che mi piace.» «Uno di questi giorni dovresti dare un colpo di bacchetta magica nella mia stanza. Sembra ancora una cella, e ci vivo da un anno.» John rise. «A tua disposizione.» Si guardò intorno. «Per la verità, ho due piante in più e contavo di chiederti se le vuoi.» Lionel sorrise. «Certo. Ma probabilmente moriranno la prima volta che entrerò in camera mia. Non ho il pollice verde.» «Te le curerò io. Le innaffierò quando innaffio le mie.» I due giovani si scambiarono un sorriso, e Lionel diede un’occhiata all’orologio. Erano le sette. «Vuoi uscire a mangiare un hamburger?» Anche quelle 237
parole avevano un suono di déjà vu. Lionel ripensò a Paul. E fu ancora più strano quando John accettò e propose di andare nello stesso locale dove Lionel era andato con Paul la prima volta. All’inizio, Lionel rimase taciturno e un po’ cupo. Pensava a quella prima notte quando era andato a Malibu con Paul. Da mesi Paul non s’era più fatto vivo, ma una volta l’aveva visto passare in Rodeo Drive, sul sedile del passeggero a bordo di una Rolls beige e marrone guidata da un bell’uomo anziano. Parlavano animatamente e si sorridevano, e Paul aveva riso di qualcosa che l’altro gli aveva detto. E adesso Lionel era lì con John... un amico di suo fratello. Era strano. E gli sembrò più strano ancora quando tornarono nella casa. Gli altri due che alloggiavano lì sarebbero rimasti a passare la notte con le ragazze, e il quinto se n’era già andato, al termine dell’anno scolastico. «Grazie per l’invito a cena.» John sorrise mentre sedevano comodamente in soggiorno. Lionel mise un disco. Due delle lampadine erano bruciate, e la luce era fioca. John accese una candela sul tavolino e si guardò intorno. «Anche questo soggiorno avrebbe bisogno di una sistemata.» Lionel rise. «Tu saresti capace di metterlo in sesto in un batter d’occhio, ma credo che gli altri non vorrebbero saperne. Quando ci sono loro, questo posto sembra sempre come se qualcuno ci avesse buttato una bomba.» Rise anche John. «È così che le mie sorelle tengono le loro camere.» Poi divenne serio. «Non ho mai vissuto con altri uomini, a parte mio padre. Sono così abituato ad avere intorno quattro ragazze che all’inizio mi sembrerà strano.» Poi sorrise. «Pazzesco, non ti pare?» «Non tanto. Io ho tre sorelle.» «Ma c’era anche Greg. Io sono sempre stato molto vicino alla mamma e alle ragazze. Scommetto che per un po’ sentirò la loro mancanza.» «È un allenamento per quando ti sposerai, avere intorno tante donne.» Lionel sorrise ancora e si chiese se stava mettendo alla prova John. Si disse che non era giusto. John era 238
così giovane... ma aveva la stessa età che aveva lui quando aveva incontrato Paul. Paul, però, era tanto più esperto, e adesso l’esperto era lui. Meno di Paul, ma sempre più di quel ragazzo. Come poteva cominciare? Come si faceva a rivolgere a qualcuno una domanda simile? Si sforzò di rammentare ciò che gli aveva detto Paul, ma le parole gli sfuggivano... ricordava che erano andati a fare una lunga passeggiata sulla spiaggia e Paul gli aveva chiesto se era confuso. Ma lì la spiaggia non c’era e John non sembrava confuso. Era un po’ timido e molto meno chiassoso di Greg, ma era felice e simpatico, eppure Lionel non ricordava di averlo mai visto interessato seriamente a una ragazza. Chiacchierarono un po’, e finalmente Lionel si alzò e annunciò che andava a fare la doccia. John disse che l’avrebbe fatta anche lui. Dieci minuti più tardi John bussò alla porta del bagno e si scusò, gridando per farsi sentire nello scroscio della doccia mentre Lionel si sforzava di non pensare a lui e lasciava che i rivoletti d’acqua calda gli purificassero la mente e il corpo. «Scusa, Li, hai lo shampoo? Ho dimenticato il mio.» «Come?» Lionel scostò la tenda per sentire e vide John. Era nudo, con un asciugamani avvolto intorno ai fianchi. Si sentì eccitare, e richiuse la tenda perché John non se ne accorgesse. «Ho chiesto se hai lo shampoo.» «Sicuro.» Lionel l’aveva già usato. «Ecco.» Lo passò a John, che sparì con un ringraziamento e un sorriso, e dopo un po’ tornò a restituirlo. Aveva di nuovo l’asciugamani intorno ai fianchi, i capelli bagnati, i muscoli guizzanti del giocatore di football. Lionel si aggirava nudo per la stanza, canticchiando e rimettendo via la roba. Aveva acceso la radio. Lennon e McCartney stavano cantando Yesterday quando John gli rese lo shampoo. «Grazie.» John indugiò sulla porta, e Lionel gli voltò le spalle augurandosi che se ne andasse. Non voleva tentare niente, non voleva che nessuno soffrisse. Il suo modo di vivere era esclusivamente suo e non voleva coinvolgere nessuno. 239
All’improvviso sentì la mano di John sulla spalla e una scossa elettrica lo pervase. Sarebbe stata una tortura avere vicino quel ragazzo e dovergli nascondere il suo segreto. Senza voltarsi staccò un accappatoio da un chiodo, lo infilò e si voltò. Non aveva mai visto un viso più bello di quello di John, così doloroso e sincero. I loro volti erano vicinissimi e John lo guardava. «Devo dirti una cosa, Li. Avrei dovuto dirtela prima.» C’era angoscia negli occhi del ragazzo, e Lionel ne soffriva per lui. «Qualcosa che non va?» John si lasciò cadere sul bordo del letto e lo guardò con occhi tristi. «Lo so, avrei dovuto dirtelo prima di trasferirmi qui, ma avevo paura che tu... che ti arrabbiassi.» Aveva l’aria impaurita ma franca. Venne subito al dunque. «Credo che tu debba saperlo. Sono gay.» Sembrava che ammettesse di aver appena ucciso il suo migliore amico. Lionel restò a bocca aperta. Tutto era così semplice. John era molto coraggioso a confessarlo senza sapere come lui avrebbe reagito. Commosso, gli sedette accanto e rise. Rise fino a che gli vennero le lacrime agli occhi, mentre John lo guardava nervosamente pensando che fosse isterico o che giudicasse disgustosa e ridicola la sua ammissione. Fu un sollievo quando alla fine Lionel smise di ridere e gli posò le mani sulle spalle. 2«Se sapessi tutte le cose che ho detto a me stesso da quando sei venuto a stare qui... mi stavo torturando!» Era chiaro che John non capiva. «Caro, lo sono anch’io.» «Tu? Sei gay?» John era inorridito, e Lionel ricominciò a ridere. «Tu? Ma non avevo mai pensato...» Eppure non era vero. Tra loro c’era stata una debole corrente incerta durante l’ultimo anno, anche se nessuno aveva accettato la possibilità che l’altro capisse. Parlarono per due ore, sdraiati sul letto di Lionel, finalmente amici. Lionel gli disse di Paul. E John confessò due brevi, terribili relazioni. In nessuna delle due aveva trovato l’amore, ma soltanto uno sfogo sessuale torturato e pieno di rimorsi, una volta con un professore della scuola che aveva minacciato di ucciderlo se avesse parla240
to, l’altra con uno sconosciuto, un uomo anziano che l’aveva agganciato per la strada. E l’unico scopo di quegli incontri era stato rivelargli che cosa era in realtà. L’aveva sospettato da molto tempo, ma l’aveva sempre considerata la cosa peggiore che potesse capitargli. Quelli come Greg Thayer non gli avrebbero più rivolto la parola. Ma Lionel era così diverso, capiva tutto, e adesso lo guardava con comprensione dall’alto della saggezza dei suoi diciannove anni. E c’era qualcosa che incuriosiva John. «Greg lo sa?» Lionel scrollò la testa. «Soltanto mia madre. L’ha scoperto l’anno scorso.» Raccontò a John com’era accaduto. Soffriva ancora, ricordando quanto era rimasta sconvolta; ma da allora era stata meravigliosa con lui, lo aveva accettato così com’era. «Sarebbe bello se tutti avessero una madre come lei.» Faye aveva superato le sue speranze. «Non credo che mia madre potrebbe accettarlo... e mio padre...» John rabbrividì al pensiero. «Ha sempre voluto che diventassi un atleta. Giocavo a football per farlo contento e continuavo a pensare che ci avrei rimesso i denti, e non mi piaceva.» Guardò Lionel con gli occhi pieni di lacrime. «Lo facevo per lui.» «Io non ero bravo come te, ma mio padre aveva appuntato le sue speranze su Greg. E io lasciavo fare.» Lionel sorrise dolcemente al nuovo amico che conosceva da anni. «In un certo senso questo serviva a non tenermi sotto pressione, ma c’erano anche gli svantaggi. Mio padre non mi ha mai approvato. E se sapesse... morirebbe.» S’erano sentiti in colpa per tanti anni, per ciò che non erano, per ciò che non avrebbero mai potuto diventare e, in quegli ultimi mesi, anche per ciò che avevano fatto. A volte era insopportabile. E Lionel ci pensò mentre guardava John negli occhi. «Sapevi di me?» John scosse la testa. «Non credo. Ma a volte me lo auguravo.» Sorrise sinceramente a Lionel, e Lionel gli spettinò i capelli scuri che gli incorniciavano il viso. «Stronzo. Perché non mi hai detto niente?» 241
«Perché mi spaccassi il muso o chiamassi i poliziotti o peggio ancora... lo dicessi a Greg?» John rabbrividì all’idea. Poi chiese: «Gli altri che stanno qui sono gay?» Lionel scrollò la testa. «No, nessuno. Ne sono certo. Lo capisci, quando abiti con qualcuno. E tutti hanno ragazze che vengono qui regolarmente.» «Sanno di te?» Lionel lo fissò. «Faccio in modo che non sospettino e sarà bene che tu faccia altrettanto, o ci butteranno fuori tutti e due.» «Sarò prudente, te lo giuro.» Lionel pensò di nuovo alla possibilità di trasferirsi nella stanza che aveva il bagno in comune con quella di John. Ma poi dimenticò la stanza e guardò John, sdraiato sul suo letto, e all’improvviso si sentì inondare di sollievo e di desiderio e ricordò i sogni della notte precedente. Si tese per toccare John che stava adagiato e attendeva le sue labbra e le sue mani, invocandolo silenziosamente con tutto il suo corpo. E Lionel lo cercò con la bocca, la sua lingua danzò come una fiamma sulle cosce di John. E John gemette e scoprì qualcosa che non aveva mai conosciuto. Questa volta non c’era nulla di furtivo, di spaventoso e d’imbarazzante nell’amore che Lionel gli prodigò per ore e ore, fino a quando, soddisfatti e sereni, si abbandonarono l’uno tra le braccia dell’altro e si addormentarono. Entrambi avevano trovato qualcosa che avevano cercato per molto tempo senza neppure saperlo.
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la scuola incominciò in autunno. Lionel e John non erano mai stati più felici, e nessuno degli altri s’era accorto di nulla. Lionel cambiò stanza prima che gli altri tornassero dalle vacanze, e tutto andò per il meglio. John e Lionel chiudevano a chiave le loro porte, la notte, e nessuno degli altri immaginava in quale dei letti dormissero, mentre loro andavano e venivano in punta di piedi, bisbigliando a notte alta e soffocando i gemiti d’estasi. Solo nelle rare notti in cui gli altri dormivano nelle case delle ragazze o andavano a sciare, si permettevano un po’ più di libertà. Ma erano prudenti perché nessuno lo scoprisse; e per una volta Lionel non disse nulla neppure a Faye. Diceva soltanto che a scuola andava bene. Non aggiungeva altro e Faye si asteneva dal fare domande, sebbene sospettasse che ci fosse qualcuno nella sua vita. Glielo diceva la luce di felicità che suo figlio aveva negli occhi. Si augurava che fosse qualcuno che non lo facesse soffrire. A quanto ne sapeva lei, nel mondo degli omosessuali c’erano infelicità, promiscuità e infedeltà: e avrebbe voluto che suo figlio non fosse condannato a quella vita. Ma sapeva che non c’erano alternative, ed era rassegnata. In novembre lo invitò alla prima del nuovo film. Lionel accettò con gioia, e Faye non si stupì nel vederlo arrivare in compagnia di John Wells. Sapeva che John aveva preso una stanza nella stessa casa di Lionel e che frequentava l’UCLA; ma al termine della serata, quando andarono da Chasen’s a cenare e bere champagne con 243
le gemelle e un gruppo di amici e collaboratori, all’improvviso si chiese se non c’era qualcosa di speciale nelle occhiate che si scambiavano. Non ne era sicura, ma intuiva qualcosa e le sembrava che John apparisse molto più maturo di quanto fosse stato in giugno, come se fosse diventato adulto in quegli ultimi mesi. Sospettava qualcosa; ma ovviamente non disse nulla a nessuno e si stupì della domanda che Ward le rivolse mentre si spogliavano quella notte. Faye gli stava parlando del film, delle reazioni favorevoli del pubblico e delle recensioni che speravano di ottenere, e rimase sbalordita quando lui l’interruppe con aria preoccupata. «Credi che John Wells sia un frocio?» «John?» Faye lo guardò sorpresa, ma sapeva che stava cercando di prendere tempo. «Mio Dio, Ward, che cosa dici? Certo che no. Perché?» «Non lo so. Mi sembra diverso. Non hai notato qualcosa in lui, questa sera?» «No», mentì Faye. «Non so...» Ward andò ad appendere la giacca nell’armadio con la stessa aria aggrondata. «Mi fa un’impressione strana.» Faye si sentì agghiacciare e si chiese se aveva gli stessi sospetti anche sul conto del figlio. Non era sicura che avrebbe potuto sopravvivere alla verità, anche se forse un giorno avrebbe dovuto accettarla. Per il momento, era meglio tenergliela nascosta. «Forse dovrei parlarne a Lionel... Metterlo in guardia... Penserà che sono matto, ma se ho ragione forse un giorno mi ringrazierà. Greg aveva intuito che aveva qualcosa di strano quando ha rifiutato la borsa di studio al Georgia Tech. Probabilmente non sbagliava.» Quello era il criterio massimo, per loro. Faye assunse un’aria irritata. «Santo cielo, se non gli va di giocare a football questo non significa che sia gay. Forse gli interessano altre cose.» «Non lo si vede mai con una ragazza.» Anche Lionel non si faceva mai vedere con le ragazze, ma Faye non lo disse. E sapeva che secondo la convinzione di Ward, Lionel teneva 244
segrete le sue avventure. Non pensava che se la intendesse con altri uomini solo perché non aveva intorno una ragazza. Ma Faye non glielo fece notare. «Per me sei ingiusto. È una specie di caccia alle streghe, santo Dio.» «Non voglio che Lionel viva nella stessa casa con un frocio senza neppure saperlo.» «È abbastanza grande per accorgersene. Se è vero.» «Forse no. È così preso da quei suoi film pazzeschi. A volte credo che sia completamente perso nel suo mondo.» Bene, Ward aveva notato almeno questo del suo primogenito, pensò Faye. «È un ragazzo con un grande spirito creativo.» Era ansiosa di indurre Ward a non parlare più di John. E doveva ammettere che quella sera le era apparso diverso: ma provava istintivamente l’impulso di proteggere Lionel. Sospettava che avesse un legame con John: ma Lionel non sembrava ciò che era, mentre John incominciava a sembrarlo, e aveva parlato troppo a lungo di arredamenti. Forse era venuto il momento di parlare di lui a Lionel. «Hai visto l’ultimo film di Li, tesoro? È molto bello.» Ward sospirò e sedette sul letto. Era ancora un uomo affascinante. A quarantotto anni aveva una figura splendida, come i suoi figli. «Resti tra noi, Faye, ma non è il mio genere.» «È la new wave, caro.» «Comunque io non lo capisco.» Faye gli sorrise. Ward era formidabile nel suo mestiere, ma raramente era aperto alle idee nuove. Trovava i finanziamenti per i suoi film, ma non s’interessava alle ultime tendenze cinematografiche. Quell’anno era rimasto molto deluso del festival di Cannes; ma amava gli Oscar e gli era dispiaciuto che Faye non ne avesse vinto un altro. Le aveva regalato un bell’anello con uno smeraldo per consolarla; e quel dono le aveva ricordato i tempi andati, prima del 1952, prima che tutto cambiasse. «Dovresti essere più generoso con le opere di Li, tesoro. Uno di questi giorni ti farà una gros245
sa sorpresa e vincerà un premio con uno di quei suoi filmetti strani.» Lei ne era convinta, ma Ward non sembrava per nulla impressionato. «Tanto meglio per lui. Oggi Greg si è fatto sentire? Aveva detto che avrebbe telefonato per farci sapere quando vuole che andiamo a trovarlo.» «No, non ha chiamato, e io non credo di poter andare. Per le prossime tre settimane dovrò vedermi tutti i giorni con il nuovo sceneggiatore.» «Davvero?» «Più o meno. Perché non inviti Lionel ad accompagnarti?» Ward non sembrava entusiasta, ma alla fine si decise e l’occasione gli offrì la possibilità di chiedergli di John, quando lo invitò. «Non credi che sia una checca, Li?» Lionel si sforzò di ostentare un’aria sorpresa. Detestava quella parola, e dovette fare appello a tutto il suo autocontrollo per non scattare in difesa dell’amante. «Santo cielo, come ti è venuta in mente una cosa simile?» Ward sorrise. «Sembri tutto tua madre, quando dici così.» Ma subito si oscurò. «Non saprei. Mi è sembrato diverso. E non fa altro che parlare di arredamento.» «Ma è ridicolo. Questo non fa di lui un gay.» «No. Ma non vorrei che corresse dietro agli uomini. Stai attento che non lo faccia con te. E se ti accorgi che è strano, buttalo fuori da quella casa. Non gli devi proprio niente.» Per la prima volta in vita sua, Lionel dovette reprimere l’impulso di prendere a pugni il padre; ma riuscì a fingersi calmo fino a quando lasciò la casa dei genitori. Tornò indietro a centoventi all’ora, smanioso di uccidere qualcuno... in particolare suo padre. Quando arrivò a casa sbatté il portoncino, poi sbatté anche la porta della sua stanza e la chiuse a chiave. Era una delle pochissime volte che i suoi coinquilini l’avevano visto così stravolto, e tutti ci rimasero male. Poco più tardi, John entrò nella sua camera e chiuse egualmente a chiave la porta. Attraversò in fretta il bagno comunicante. 246
«Cos’è successo, amore?» Lionel alzò gli occhi fiammeggianti. Doveva ammettere che John incominciava ad avere l’aria del gay. Nonostante la figura muscolosa, il viso era liscio e puro; si pettinava in modo diverso e i suoi abiti erano quasi troppo perfetti e troppo in ordine. Ma amava quel ragazzo, il suo talento, il suo cuore, la sua dedizione, il suo corpo e la sua anima... amava tutto, di lui... e se fosse stato una ragazza si sarebbero fidanzati e nessuno se ne sarebbe sorpreso. Ma John non era una ragazza, e quindi tutti lo chiamavano frocio. «Cos’è successo?» John sedette e attese che Lionel si sfogasse. «Niente. Non voglio parlarne.» John guardò il soffitto, in silenzio, e tornò a guardare l’amico. «Che idea stupida. Perché non vuoi confidarti?» All’improvviso sospettò che la cosa lo riguardasse. «Ho fatto qualcosa, Li?» Sembrava tanto preoccupato e addolorato che Lionel gli andò vicino e gli accarezzò la guancia. «No, tu non c’entri...» Ma non era così, e non sapeva come spiegarglielo. «Non è niente. Sono arrabbiato con mio padre.» «Ha detto qualcosa di noi?» John s’era accorto del modo in cui l’aveva guardato Ward, la sera prima. «Sospetta?» Lionel avrebbe preferito tenersi sul vago, ma John aveva intuito la verità. «Può darsi. Io credo che spari alla cieca.» «E tu che cosa hai detto?» John era allarmato. E se Ward avesse detto qualcosa ai suoi genitori? Avevano troppe cose da nascondere. Se l’avessero fatto arrestare o allontanare, oppure... era terrificante pensarci. Ma Lionel gli baciò il collo e gli parlò teneramente. Sapeva quanto era preoccupato. «Calmati. Parlava così per parlare. Non sa niente.» John aveva le lacrime agli occhi. «Vuoi che me ne vada?» «No!» gridò Lionel. «No, se no me ne vado anch’io. Ma non è necessario.» «Credi che dirà qualcosa a mio padre?» «Non essere così paranoico. Ha lanciato qualche frecciata e mi ha fatto infuriare, ecco tutto. Non è la fine del mondo.» Ma per tener buono Ward, Lionel andò con lui in Alabama 247
a vedere Greg che giocava, e fu il fine settimana più noioso della sua vita. Odiava il football quasi quanto l’odiava John, e non aveva niente da dire a Greg. E peggio ancora, c’erano gli interminabili, dolorosi silenzi con suo padre, che si scalmanò quando durante la partita s’infortunò uno degli assi e l’allenatore mandò in campo Greg, giusto in tempo perché realizzasse un touchdown negli ultimi due secondi e mezzo di gioco e vincesse l’incontro per la sua squadra. Lionel si sforzò di apparire entusiasta quanto il padre, ma fu inutile; e si sentì sollevato quando presero l’aereo per tornare a casa e parlò con Ward di cinema, cercando di spiegargli ciò che stava facendo. Ma come s’era sentito fuori posto quando guardava giocare Greg, provò la stessa sensazione mentre suo padre lo guardava e lo ascoltava parlare del suo ultimo film d’avanguardia. «Credi davvero che un giorno potrai guadagnare con quella roba?» Lionel lo fissò stupefatto: era un obiettivo al quale non aveva mai pensato. Stavano mettendo alla prova nuove tecniche, modificavano il linguaggio cinematografico. A chi interessava la possibilità di guadagnare? Questo era molto più importante. Padre e figlio si guardarono, confusi e increduli. Ognuno dei due era convinto che l’altro fosse uno sciocco, eppure dovevano fingere di rispettare le reciproche convinzioni. Era uno sforzo tremendo per entrambi; e provarono un senso di sollievo quando videro Faye che li attendeva all’uscita. Ward non finiva più di parlare dello straordinario touchdown di Greg e si rammaricava perché la moglie non l’aveva visto alla televisione; e Lionel guardava la madre come se non ne potesse più. Faye rise tra sé. Li conosceva bene entrambi e sapeva quanto erano diversi; ma voleva bene a tutti e due, come ne voleva all’altro figlio e alle ragazze. Erano tutti persone diverse, e le chiedevano cose diverse. Faye portò Ward a casa e annunciò che avrebbe accompagnato Lionel prima di tornare per prendere un drink con il marito. Così ebbe il tempo di passare qualche minuto con il figlio maggiore e di commiserarlo per il noioso fine settimana. 248
«È stato terribile, tesoro?» Sorrise nel vedere la sua espressione, e Lionel appoggiò la testa alla spalliera con un gemito. Non si era mai sentito così esausto in tutta la sua vita. «Atroce. Come andare su un altro pianeta e cercare di parlare la lingua degli abitanti per tutto il fine settimana.» Faye si chiese se era stata soltanto la noia, o la tensione di fingersi normale. Ma non ne parlò al figlio. «Poverino. Greg come va?» «È sempre lo stesso.» Lionel non aveva bisogno di aggiungere altro. Faye sapeva che avevano ben poco in comune. A volte era difficile credere che erano tutti e due suoi figli. Poi gli chiese ciò che l’aveva impensierita per tutti quei giorni. «Tuo padre ti ha chiesto di John?» Lionel si tese. «No. Perché? A te ha detto altro?» La guardò negli occhi. Non le aveva confidato nulla, ma sapeva che Faye aveva capito comunque, e non era sicuro di ciò che pensava. Aveva la sensazione che secondo lei fosse pericoloso, e in un certo senso non le dava torto. «Dovresti essere prudente, Li.» «Lo sono, mamma.» Faye si sentì commossa... era così giovane! «Sei innamorato di John?» Era la prima volta che glielo chiedeva e lui annuì, solennemente. «Sì.» «Allora sii ancora più prudente, per te e per lui. I Wells sanno di John?» Lionel scrollò la testa e Faye si sentì scossa da un brivido di paura, mentre tornava a casa da sola. Un giorno sarebbe venuto a galla e ci sarebbero state sofferenze per molti... John, Lionel, i Wells, Ward... non si preoccupava tanto per John e la sua famiglia, anche se gli era affezionata, ma era terrorizzata da quello che avrebbero sofferto Ward... e Lionel... Pensava che probabilmente Lionel avrebbe superato la bufera. Stava crescendo e si preparava inconsciamente ad affrontarla un giorno, non soltanto con suo padre, ma con tutti. Lionel non era il tipo che si nascondeva per tutta la vita. 249
Ma Faye non capiva come avrebbe fatto Ward a sopravvivere al trauma. Sapeva che lo avrebbe distrutto, e questo la spaventava. Ma non poteva fare nulla. Lionel aveva promesso di essere discreto. E in quel momento lui aveva chiuso a chiave la porta della sua stanza da letto, aveva baciato John e aveva incominciato a dirgli sospirando quanto s’era sentito solo in quei giorni.
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il giorno di Natale Lionel raggiunse la famiglia per il pranzo tradizionale. Greg era a casa da qualche giorno, anche se sarebbe ripartito presto per preparare un altro incontro, e Ward sarebbe andato con lui. Poi avrebbero preso l’aereo per andare ad assistere al Super Bowl. Ward avrebbe voluto che andasse anche Lionel; lui ribatté che aveva altri progetti e Ward s’irritò, ma Faye li distrasse tutti portando in tavola un enorme tacchino e lo champagne. Valerie bevve un po’ troppo, e tutti presero in giro Vanessa, che era bellissima, con la pettinatura nuova e un abito nuovo. Era innamorata per la prima volta di un ragazzo che aveva conosciuto alla scuola di ballo qualche settimana prima e sembrava divenuta adulta all’improvviso. Anche Anne era straordinariamente cambiata in quegli ultimi mesi. Adesso era alta quasi quanto le gemelle, e stava per diventare «grande». Lionel ricordò a tutti, mentre le faceva un brindisi e lei arrossiva, che poche settimane dopo avrebbe compiuto i quattordici anni. Dopo il pranzo, Lionel e Anne sedettero accanto al fuoco e parlarono. Lui aveva meno occasioni di vederla di quanto avrebbe desiderato, non tanto perché ormai viveva fuori di casa, ma anche a causa della sua attività cinematografica. Tuttavia era evidente che la adorava ancora, e il sentimento era reciproco. Poi lei lo sorprese chiedendogli di John con una strana espressione negli occhi, come se fosse cotta di quel ragazzo; e Lionel si chiese come mai non l’aveva compreso prima. 251
Ma Anne era sempre così enigmatica, e non era strano che le fosse sfuggito. «Sta bene, e credo che vada bene anche a scuola. Non lo vedo molto.» «Però vive ancora nella tua casa, no? L’altro giorno ho visto Sally Wells, e mi ha detto che le piace moltissimo.» Sally Wells aveva la stessa età di Anne ma era molto più matura, e Lionel si augurava che non avesse capito tutto e non l’avesse detto ad Anne. Ma sembrava di no. Anne aveva ancora negli occhi quella luce d’innocenza e di speranza. «Sì, c’è ancora.» «Non lo vedo da molto tempo.» Anne guardò malinconicamente il fratello. Era così dolce che Lionel avrebbe voluto ridere, ma non disse nulla. «Gli porterò i tuoi saluti.» Lei annuì ed entrarono gli altri. Ward attizzò il fuoco. Tutti furono soddisfatti dei loro regali e Ward e Faye si guardarono negli occhi e sorrisero. Era stato un anno felice. Lionel fu il primo ad andarsene, come pure John, da casa dei Wells. Gli altri ragazzi erano partiti per le vacanze e quindi avevano tutta la casa a loro disposizione e non erano costretti a nascondersi e a chiudere a chiave le porte delle loro stanze. Era meraviglioso potersi rilassare ed essere se stessi: fingere continuamente era uno sforzo, soprattutto per John, che sembrava diventare più effemminato di giorno in giorno. Adesso poteva riempire di fiori la casa e passare lunghe ore a letto con Lionel, che durante le vacanze aveva interrotto la preparazione del suo film. Facevano lunghe passeggiate, parlavano molto, e tornavano a casa per cucinare e bere toddies bollenti o vino bianco accanto al fuoco. Era come essere davvero adulti, diceva scherzando John; al punto che non si preoccuparono neppure di chiudere a chiave la porta d’ingresso e non sentirono entrare il padre di Lionel, il giorno dopo Natale. S’era fermato per cercare di convincere Lionel a partire con lui per il sud, per vedere giocare Greg prima di proseguire tutti e tre e andare ad assistere al Super Bowl. Ma subito se ne dimenticò, quando entrò 252
dopo che nessuno era venuto ad aprirgli, e trovò i due ragazzi sdraiati accanto al fuoco. Erano vestiti, ma John teneva la testa sulle ginocchia di Lionel, e Lionel stava chino su di lui e gli mormorava parole tenere. Ward si fermò e si lasciò sfuggire un grido quasi animalesco. I due sussultarono e alzarono gli occhi, e Lionel sbiancò. Balzarono entrambi in piedi. Senza riflettere, Ward avanzò furiosamente verso John e gli sferrò un pugno rabbioso che gli fece sanguinare il naso; poi cercò di colpire anche il figlio, ma Lionel gli afferrò il braccio in tempo. Aveva gli occhi pieni di lacrime mentre suo padre gridava di furore e inveiva contro entrambi. «Stronzo... puttana!...» Le parole erano rivolte a John, ma le gridava anche al figlio. Aveva gli occhi accecati dalle lacrime e dallo sdegno. Non riusciva a credere a ciò che aveva visto. Avrebbe voluto che non fosse vero, ma lo era, e ormai era impossibile negarlo. Lionel si sentiva sopraffatto dalla nausea mentre teneva a bada il padre e John aveva cominciato a piangere. Era una scena d’incubo, e Lionel tentava di non perdere la calma. Sentiva che era in gioco la sua vita e doveva spiegare. Forse suo padre avrebbe capito... doveva tentare disperatamente di spiegargli che era sempre stato diverso da Greg, da tutti... non sentì neppure le lacrime che gli scorrevano sulle guance, o lo schiaffo quando Ward si liberò le mani e lo colpì. «Papà, ti prego... voglio parlarti... io...» «Non voglio ascoltare!» Ward tremava dalla testa ai piedi e all’improvviso Lionel temette che stesse per avere un attacco di cuore. «Non voglio più vedervi! Finocchi!» Li fissò entrambi. «Porci!» Poi si rivolse a Lionel: «Non sei più mio figlio, frocio. Non voglio più vederti in casa mia. Non pagherò più un soldo per mantenerti. Da questo momento sei uscito dalla mia vita, è chiaro? E stai lontano dalla mia famiglia!» Singhiozzava e gridava mentre avanzava di nuovo verso John, minacciosamente. Tutti i suoi sogni erano andati in frantumi. Il suo primogenito era un frocio. Non poteva sopportarlo. Era anche peggio di quando aveva perduto 253
tutta la sua ricchezza, anni prima, o quando poco dopo aveva rischiato di perdere anche la moglie... Ai suoi occhi, questo era anche peggio della morte. Era una perdita che non avrebbe mai compreso, una perdita che in un certo senso si infliggeva da solo, ma non se ne rendeva conto. «Hai chiuso, capito?» Lionel annuì in silenzio. Ward si avviò verso la porta, barcollando, e per poco non cadde dalle scale. Lo choc era troppo forte. Entrò nel bar più vicino, bevve quattro scotch lisci uno dietro l’altro; e alle otto Faye, allarmata, telefonò a Lionel. Gli dispiaceva disturbarlo, ma era in pensiero. Ward sapeva che alle sei avrebbero avuto ospiti, ma non era tornato a casa. Le avevano detto che era uscito dallo studio presto, quel pomeriggio, e non riusciva a immaginare dove fosse andato. «Tesoro, tuo padre ti ha chiamato, oggi?» Lionel era ancora stordito. John singhiozzava sul divano da ore, sconvolto da quanto era successo e timoroso che Ward dicesse la verità ai suoi genitori. Lionel aveva cercato di calmarlo e lo aveva convinto a farsi un impacco di ghiaccio sulla guancia e sul naso gonfio; e adesso era in preda a un’angoscia che nessuno poteva placare. Gli tremava ancora la voce quando rispose al telefono e in un primo momento non seppe cosa dire. All’improvviso, con un brivido gelido, Faye comprese che era successo qualcosa. «Li... tesoro... ti senti bene?» «lo... oh... io...» Le parole erano incomprensibili; poi anche Lionel cominciò a singhiozzare mentre John lo fissava sorpreso. Era rimasto così calmo e così forte, e adesso crollava. «Mamma... io... non posso...» «Oh, mio Dio...» Era accaduto qualcosa di terribile... Forse Ward aveva avuto un incidente e avevano avvertito Lionel. Faye si sentì assalire dal panico. «Calmati. No... dimmi cos’è successo...» «Papà... è... è venuto qui...» Lionel sentiva i singhiozzi che cercavano di erompergli dal petto. «Lui... io...» E Faye comprese. «Ha sorpreso te e John?» Immaginò che li avesse trovati a 254
letto, e si sentì svenire. Persino lei sarebbe inorridita di fronte a una scena del genere, per quanto fosse tollerante verso il figlio. E Lionel era troppo sconvolto per dirle cosa aveva visto suo padre. Riuscì a mormorare una sola parola prima di accasciarsi sul telefono. «Sì...» Trascorse qualche istante prima che potesse parlare di nuovo. «Ha detto che non vuole più vedermi... che non sono suo figlio...» «Oh, mio Dio... tesoro, calmati. Sai che non è vero e che prima o poi cambierà idea.» Faye gli parlò per più di un’ora; gli ospiti se ne erano andati dopo i cocktail. Si offrì di andare da loro, ma Lionel voleva restare solo con John; e in fondo lei lo preferiva. Intendeva essere a casa quando fosse tornato Ward. E quando tornò, rimase inorridita nel vedere com’era ridotto. Aveva fatto tappa in parecchi bar, dopo il primo. Era ubriaco e barcollava, ma ricordava ancora di avere visto Lionel e John e guardava Faye con odio e disperazione. Era furioso anche con lei. «Lo sapevi, vero?» Faye non voleva mentirgli, ma non voleva neppure dargli la sensazione che ci fosse stata una congiura per nascondergli la verità. «Sospettavo di John.» «Quel fottuto figlio di puttana...» Ward si avvicinò barcollando e Faye vide che aveva la camicia macchiata di sangue. Era caduto e s’era tagliato la mano nell’uscire dall’ultimo bar, ma non voleva che gli si avvicinasse. «Ho chiesto se sapevi di nostro figlio... o adesso dovrei chiamarlo nostra figlia?» Puzzava tanto d’alcool che Faye indietreggiò quando le andò vicino e le prese il braccio. «Perché è così, lo sapevi? Lo sapevi?» «Ward, qualunque cosa faccia è sempre la nostra creatura. È un essere umano ed è un bravo ragazzo... non è colpa sua se è quello che è.» «E la colpa di chi è? Mia?» Era questo che lo preoccupava veramente. Perché Lionel era diventato così? S’era torturato 255
a pensarci, di bar in bar, e non gli piacevano le risposte che gli venivano alla mente... lo aveva lasciato troppo con Faye, non era stato abbastanza con lui... lo aveva spaventato, non l’aveva apprezzato abbastanza, aveva sempre preferito Greg... i rimproveri che si rivolgeva erano tanti, ma il risultato era sempre quello. Suo figlio era un frocio. Dove aveva imparato? Com’era successo? Come poteva essere accaduto a lui? Era un affronto alla sua virilità... suo figlio era una checca... quelle parole lo bruciavano come il fuoco. Guardò Faye con gli occhi pieni di lacrime. «Non devi rimproverarti, Ward.» Faye lo cinse con le braccia e lo condusse fino al letto. Sedettero fianco a fianco, e Ward si appoggiò a lei, pesantemente. «Non è colpa mia.» Era il lamento di un bambino spaventato, e Faye provava compassione. Anche lei s’era posta gli stessi interrogativi un anno prima; ma forse per Ward era più doloroso. Lo aveva previsto. Non era forte come lei, non era altrettanto sicuro di sé e di ciò che aveva dato ai figli. «Non è colpa di nessuno... né tua, né mia, né sua, e neppure di John. È fatto così. Dobbiamo rassegnarci.» Ma nell’istante in cui Faye lo disse, Ward la scostò, si alzò barcollando e le strinse il braccio fino a farla rabbrividire. «Non mi rassegnerò mai! Mai! Lo capisci? Gliel’ho detto. Non è più mio figlio.» «Oh, sì, lo è.» Faye divincolò il braccio, indignata. «È nostro figlio, anche se è storpio o invalido o menomato, sordo o muto, o malato di mente, oppure omicida, qualunque cosa sia... e grazie a Dio è soltanto omosessuale. È mio figlio fino al giorno in cui morirò o in cui morirà lui, ed è anche figlio tuo, ti piaccia o no, lo approvi o no...» Anche lei piangeva. Ward rimase sconvolto da quelle parole, da quella veemenza. «Non puoi escluderlo dalla tua vita o dalla mia. È nostro figlio, ed è meglio che l’accetti com’è, altrimenti puoi andare all’inferno, Ward Thayer. Non ti permetterò di far soffrire quel ragazzo più di quanto ha già sofferto. Già così è molto doloroso per lui.» 256
Negli occhi di Ward passò un lampo. «Ecco perché è quello che è. Perché tu l’hai sempre protetto. Lo giustifichi sempre, e lasci che si nasconda dietro le tue gonne.» Si lasciò cadere su una sedia e ricominciò a piangere. «E adesso le tue gonne le ha indossate, accidenti a te. È già una fortuna che non se ne vada in giro vestito da donna, Cristo!» Nel sentirlo parlare così del loro figlio, Faye scattò. Lo schiaffeggiò con forza e Ward non si mosse. La fissò con occhi così freddi e duri da spaventarla. «Non voglio più rivederlo in questa casa. Se verrà qui lo butterò fuori. Gliel’ho detto e lo dico a te, e lo dirò a tutti; e se qualcuno di voi non è d’accordo, può andarsene. Lionel Thayer non esiste più. È chiaro?» Faye era ammutolita per la rabbia. Avrebbe voluto ucciderlo. Per la prima volta in vita sua, dopo tutto ciò che era accaduto, per la prima volta era pentita di averlo sposato. E glielo disse in faccia prima di uscire sbattendo la porta. Quella notte Faye dormì nella stanza di Lionel e l’indomani mattina a colazione vedere Ward le spezzò di nuovo il cuore. Sembrava invecchiato di dieci anni e lei ricordava ciò che aveva detto più volte a Lionel. Aveva temuto che la verità uccidesse Ward, e adesso sembrava possibile che questo avvenisse. Ma quasi si augurava che fosse così. Ward bevve il caffè in silenzio, fissò il giornale senza toccarlo, e poi parlò a tutti con voce secca, inespressiva. Stranamente, era una delle poche volte che s’erano trovati tutti insieme a colazione in quegli ultimi mesi. Greg era a casa per l’ultimo giorno prima di ripartire, entrambe le gemelle erano alzate e Anne era scesa poco dopo di loro. Adesso fissavano tutti Ward mentre annunciava che per lui da quel giorno Lionel non sarebbe più esistito, che era un omosessuale e aveva una relazione con John Wells. Le ragazze lo guardarono inorridite e Vanessa si mise a piangere; ma Greg sembrava sul punto di vomitare. Balzò in piedi e gridò, mentre Faye si aggrappava alla sedia. «Non è vero!» urlò Greg, per difendere il vecchio amico più che il fratello. Sotto molti aspetti Lionel era un estraneo 257
per lui. «Non è vero!» Ward lo guardò minacciosamente e gli indicò la sedia. «Siediti e stai zitto. È vero. Li ho sorpresi io, ieri.» Anne era diventata cinerea e Faye aveva la sensazione che la sua famiglia, la sua vita venissero distrutte. Odiava Ward per ciò che stava facendo a tutti loro e soprattutto al loro primogenito. «Lionel non è più gradito in questa casa. Per quanto mi riguarda, non esiste. È chiaro? Vi proibisco di rivederlo e, se scopro che l’avete fatto, potrete andarvene anche voi. Non intendo mantenerlo, o rivederlo, o parlare con lui. Avete capito tutti?» I ragazzi annuirono, con gli occhi pieni di lacrime, e dopo un attimo se ne andò. Prese la macchina e andò a casa di Bob e Mary Wells, mentre Faye restava seduta al tavolo della colazione a guardare i figli, e i figli la fissavano a loro volta. Greg stentava a dominare le lacrime e pensava a ciò che avrebbero detto i suoi amici quando l’avessero scoperto. Era la cosa peggiore che potesse immaginare e avrebbe voluto morire. Avrebbe voluto uccidere John Wells, quel piccolo stronzo ipocrita... avrebbe dovuto capirlo quando aveva rifiutato la borsa di studio del Georgia Tech... checca fottuta... strinse i pugni e si guardò intorno disperato mentre Vanessa si rivolgeva a Faye. «Anche tu la pensi così, mamma?» chiese Vanessa. Era inutile domandare se era vero, per quanto apparisse incredibile. Il loro padre aveva detto di averli sorpresi, e nessuno poteva immaginare di peggio. Era qualcosa di misterioso e terribile, e tutti pensavano agli atti più osceni, anziché a due ragazzi davanti al fuoco, l’uno con la testa sulle ginocchia dell’altro. Ma era stato molto chiaro, senza possibilità di dubbio. Faye li guardò, uno dopo l’altro, poi rivolse di nuovo lo sguardo verso Vanessa. Parlò con voce misurata. Non aveva mai sofferto tanto. Ward aveva distrutto quello che lei aveva costruito per quasi vent’anni. Cosa sarebbe stato degli altri, adesso? Cosa avrebbero pensato di Lionel? Di se stessi? Del padre che escludeva il fratello maggiore dalle loro vite, della madre che glielo lasciava fare? Doveva dire qualcosa. Al 258
diavolo Ward. «No. Io non la penso così. Voglio bene a Lionel, come gliene ho sempre voluto; e se è fatto così, ed è un bravo ragazzo indipendentemente dalle sue preferenze sessuali... sarò sempre dalla sua parte. E voglio che lo sappiate. Qualunque cosa facciate, dovunque andiate, qualunque errore commettiate, qualunque cosa diventiate, in bene o in male, io sarò sempre vostra madre e vostra amica. Potrete sempre venire da me. Per voi ci sarà sempre un posto nel mio cuore, nella mia vita e nella mia casa.» Si alzò e li baciò uno a uno mentre piangevano tutti e quattro per il fratello che avevano appena perduto a causa del padre, per la delusione che provavano e lo choc del segreto rivelato. Era un po’ difficile capire, ma il messaggio della loro madre era chiaro. «Credi che papà cambierà idea?» La voce di Val era soffocata, e nessuno aveva notato che Anne era sgattaiolata via un momento prima. «Non so. Gli parlerò. E credo che con il tempo si deciderà a ragionare. Ma in questo momento non può capire.» «Be’, non capisco neppure io.» Greg batté il pugno sul tavolo e si alzò. «È la cosa più disgustosa che abbia mai sentito.» «Ciò che pensi in proposito, Greg, riguarda te solo. A me non importa niente di quel che hanno fatto. Purché non facciano male a nessuno, li accetto come sono.» Faye guardò il figlio negli occhi e si rese conto della distanza che c’era tra loro. Greg somigliava troppo a Ward. Aveva chiuso la mente e il cuore. Salì correndo e sbatté la porta; e in quel momento Faye si accorse che Anne era sparita. Sapeva che era stato un colpo terribile per lei; decise di salire a parlarle, ma quando lo fece trovò la porta chiusa a chiave e Anne non volle rispondere. Anche le gemelle andarono nelle loro stanze. Tutta la famiglia si stava comportando come se fosse morto qualcuno. Un po’ più tardi Faye telefonò a Lionel: e ormai lui e John sapevano che Ward aveva parlato con i Wells. Erano tutti isterici. Bob e Mary Wells avevano telefonato. C’erano stati fiumi di lacrime e, dopo la telefonata, John era corso in bagno a vomitare. Ma nonostante le grida e i 259
rimproveri che avevano mosso a entrambi i ragazzi, i Wells avevano fatto sapere a John che era pur sempre il loro figlio, che non condividevano il punto di vista di Ward Thayer, che gli volevano sempre bene e accettavano anche Lionel. Faye si sentì venire le lacrime agli occhi e fu segretamente compiaciuta quando Lionel le riferì che Bob Wells aveva buttato Ward fuori di casa. Quel pomeriggio Faye andò a trovare i due ragazzi. Voleva ripetere a Lionel che lo sosteneva. Madre e figlio si abbracciarono a lungo; e poi Faye si staccò e abbracciò anche John. Non era facile da accettare, e non era ciò che avrebbe scelto per suo figlio: ma ormai era così. E voleva fargli sapere che sarebbe stato sempre il benvenuto in casa loro, che faceva ancora parte della famiglia qualunque cosa dicesse suo padre, e che in avvenire avrebbe provveduto lei a pagargli la scuola e le spese. Se suo padre intendeva tagliargli i viveri era libero di farlo; ma Faye non l’avrebbe abbandonato, si sarebbe assunta la responsabilità. Lionel pianse e promise di trovarsi un lavoro per contribuire al proprio mantenimento. Lo promise anche John. I suoi genitori gli avevano fatto sapere che avrebbero continuato a mantenerlo agli studi, e che per loro non era cambiato nulla. Ma Ward restò irremovibile quando tornò a casa quella sera. Era sparito per tutto il giorno, e a Faye non fu difficile capire che aveva continuato a bere. A cena ricordò a tutti che Lionel non era più gradito in casa sua, e che per lui era morto. Quando pronunciò queste parole, Anne si alzò e lo guardò con occhi pieni di odio. «Siediti!» Era la prima volta che Ward le parlava con tanta asprezza. E con grande sorpresa di tutti, Anne gli tenne testa. Fu un momento che nessuno della famiglia avrebbe potuto dimenticare. «No. Mi fai schifo.» Ward girò intorno al tavolo, l’afferrò per il braccio e la costrinse a sedersi; ma Anne non toccò il cibo e, al termine del pasto, si alzò e lo fissò. 260
«Lui è migliore di te.» «Allora vattene dalla mia casa.» «Sì, me ne vado!» Anne buttò il tovagliolo sul piatto che non aveva toccato e dopo un momento sparì in camera sua. Pochi attimi più tardi sentirono la macchina di Greg che si allontanava rombando. Non riusciva a sopportare la situazione e Vanessa e Valerie si guardarono preoccupate. Erano entrambe spaventate per Anne e delle conseguenze che avrebbero avuto per lei quelle scene. Durante la notte Anne se ne andò furtivamente da casa, e si fece dare un passaggio fino a casa di Lionel. Suonò il campanello e bussò alla porta. Vedeva le luci accese al piano di sopra, ma nessuno veniva ad aprirle. E quando girò l’angolo e chiamò dalla cabina telefonica, nessuno rispose. Lionel e John avevano sentito lo squillo dell’apparecchio mentre stavano seduti silenziosamente in soggiorno. Ma quelle ultime ventiquattro ore erano state per loro un tale incubo che non se la sentivano di affrontare altro. John pensava che avrebbero dovuto andare ad aprire, ma Lionel non era d’accordo. «Se è uno degli altri che è tornato in anticipo, ha la chiave. Con ogni probabilità è mio padre, e sarà ubriaco.» Ne avevano avuto abbastanza: su questo erano d’accordo. Non guardarono neppure dalla finestra per vedere chi era. E Anne estrasse una matita dalla tasca del cappotto, strappò un pezzo di giornale e scarabocchiò un messaggio per Lionel. «Ti voglio bene, Li. Te ne vorrò sempre, Anne.» Aveva gli occhi pieni di lacrime. Avrebbe desiderato rivedere suo fratello prima di andarsene, ma ormai non aveva importanza... Infilò il pezzetto di carta nella cassetta delle lettere. Era quanto doveva sapere Lionel: non voleva pensasse che anche lei gli era contro. Doveva sapere che non lo sarebbe mai stata. Ma non resisteva più. La vita era stata insopportabile da quando lui se n’era andato, e adesso sarebbe diventata anche peggio. Non l’avrebbe più rivisto. Aveva una sola possibilità di scelta e questo le dava un sorprendente senso di sollievo. Quella notte, mentre tutti dormivano, preparò una bor261
sa senza far rumore e uscì di nascosto dalla finestra della sua camera, come aveva fatto quand’era andata in cerca di Li. Non era difficile scendere lungo il lato della casa; l’aveva fatto altre volte. Scivolò giù in silenzio. Aveva indossato scarpe da tennis, jeans e un giubbotto pesante, e aveva intrecciato i capelli biondi. Sapeva che avrebbe trovato freddo. E tutte le cose che contavano per lei erano nella sacca. Non si voltò neppure a guardare quando lasciò la casa. Non le importava nulla di nessuno, come nessuno di loro s’interessava a lei. Si avviò per la strada e raggiunse Los Angeles, e là si fece dare un passaggio sull’autostrada, verso nord. Era così facile. Disse al primo automobilista che studiava a Berkeley e che doveva tornare dopo le vacanze di Natale. L’uomo non le chiese altro e l’accompagnò fino a Bakersfield. Faye, intanto, aveva trovato il biglietto che aveva lasciato sul letto. «Così ti sei liberato di due di noi, papà. Addio, Anne.» Non c’era una parola per nessun altro. Neppure per Faye. Si sentì arrestare il cuore quando trovò il foglietto. Chiamarono immediatamente la polizia. Faye telefonò anche a Lionel, che nel frattempo aveva trovato nella cassetta delle lettere il pezzo di carta da giornale. Per Faye fu il momento più terribile della sua vita, e si chiese se sarebbe riuscita a sopravvivere mentre attendeva l’arrivo della polizia. Ward, stordito, era seduto su una poltrona dello studio e teneva ancora il biglietto tra le mani. «Non può essere andata lontano. Con ogni probabilità è da un’amica.» Ma Valerie stroncò quella speranza. «Non ha amici.» Era un’affermazione dolorosa, ma tutti sapevano che era vero. Il suo unico amico era stato Lionel, e suo padre l’aveva messo al bando. Faye stava fissando il marito con rabbia silenziosa quando suonò il campanello. Era arrivata la polizia. Faye si augurava disperatamente che trovassero Anne prima che le accadesse qualcosa. Era impossibile immaginare dove fosse andata, ed era sparita già da parecchie ore. 262
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Quando il Primo automobilista che le aveva dato un passaggio l’ebbe lasciata a Bakersfield, Anne impiegò diverse ore per trovare qualcun altro disposto a prenderla a bordo: ma questo la condusse sino a Fremont, e di là non le fu difficile proseguire. Ci vollero in tutto diciannove ore per arrivare a San Francisco, ma nel complesso era sorpresa di come fosse semplice. E tutti erano stati gentili e corretti con lei. La credevano una studentessa di college, e un paio l’avevano presa scherzosamente in giro chiedendole se era una «figlia dei fiori». Nessuno immaginava che non avesse ancora quattordici anni. E quando arrivò a San Francisco Anne si avviò per Haight Street, con l’impressione che le vie fossero lastricate d’oro. C’erano giovani dappertutto, e indossavano abiti coloratissimi confezionati in casa. C’erano gli Hare Krishna con le tonache arancioni e le teste rasate, ragazzi in jeans con i capelli che arrivavano alla cintura, e ragazze con i fiori nelle trecce. Sembravano tutti felici di vivere. C’era gente che si spartiva il cibo per le strade. Qualcuno le offrì gratis una dose di acido, ma Anne sorrise timidamente e rifiutò. «Come ti chiami?» domandò qualcuno, e lei bisbigliò: «Anne». Quello era il luogo che aveva sognato per anni, libero dagli estranei che aveva dovuto sopportare tanto a lungo. In un certo senso era contenta che fosse andata così. Lionel aveva John, e forse presto anche lei avrebbe trovato qualcuno. Lionel sapeva che gli voleva bene nonostante tutto, e 263
in quanto agli altri, non le importava nulla. Sperava di non rivederli mai più. Mentre viaggiava verso nord aveva pensato di cambiare nome, ma quando era arrivata per le strade dell’Haight-Ashbury s’era accorta che nessuno se ne sarebbe curato. C’erano altri che sembravano anche più giovani di lei; e nessuno avrebbe sospettato che era venuta lì. Non aveva detto niente ad anima viva. E una ragazza di nome Anne era anonima al massimo. Era scialba, i suoi capelli erano di un biondo normale, non d’oro pallido come quelli di Vanessa o di fiamma come quelli di Val. Le gemelle non sarebbero riuscite a passare inosservate, neppure se avessero voluto. Ma lei sapeva di poterlo fare. Poteva mimetizzarsi tra la folla. L’aveva sempre fatto a casa, per anni. Nessuno si accorgeva se c’era o non c’era, se arrivava o se spariva; ed era così abituata al fatto che tutti chiedessero «Dov’è Anne?» da avere la certezza che anche lì avrebbe potuto fare altrettanto. «Hai fame, sorella?» Alzò gli occhi e vide una ragazza con una specie di lenzuolo bianco avvolto intorno alla figura magra e un lacero giubbotto violaceo. La ragazza sorrise e le offrì una fetta di torta di carote. Anne sospettò che fosse drogata con l’acido o qualcosa d’altro, e la ragazza dal giubbotto notò la sua esitazione. «È pulita. Mi sembri nuova, qui.» «Lo sono.» La ragazza della torta di carote aveva sedici anni ed era lì da sette mesi. Era arrivata da Filadelfia alla fine di maggio. I genitori non l’avevano ancora rintracciata, sebbene lei avesse visto i loro appelli pubblicati sui giornali; ma non aveva nessuna voglia di rispondere. C’era un prete che girava per le strade, offriva consigli e s’impegnava a contattare i genitori dei giovani, se volevano. Ma quelli che lo volevano erano pochi, e Daphne non era tra loro. «Mi chiamo Daff. Hai un posto dove passare la notte?» Anne scosse la testa. «Non ancora.» «C’è un posto in Waller Street, e potrai restarci quanto vuoi. Basterà che dai una mano a tenerlo pulito e aiuti a far da mangiare nei giorni assegnati.» Di recente c’erano stati due 264
casi di epatite virale, ma questo Daphne non glielo disse. In apparenza lì tutto era bellezza e amore. I ratti, i pidocchi, i ragazzi che morivano per overdose non erano argomenti da discutere con una neofita. E comunque erano cose che succedevano dappertutto, no? Era un momento speciale della storia, un tempo di pace, di amore e di gioia. Un’ondata di amore per contrastare le morti inutili nel Vietnam. Il tempo s’era fermato per tutti, e ciò che contava era il presente... e l’amore, la pace e nuove amiche come quella. Daphne le baciò le guance, la prese per mano e la condusse nella casa di Waller Street. C’erano trenta o quaranta persone, quasi tutti vestiti come gli indiani in tutti i colori dell’iride, anche se alcuni portavano i jeans rattoppati o costumi ornati di piume e lustrini. Anne si sentiva molto scialba, con i jeans e il vecchio maglione che aveva portato durante il viaggio; ma una ragazza che l’accolse all’entrata si offrì di prestarle qualcosa, e Anne si ritrovò abbigliata con un costume di seta rosa sbiadita che proveniva da un negozio di saldi in Divisadero Street. Anne calzò un paio di thong di gomma, si sciolse i capelli, vi infilò due fiori e incominciò a sentirsi come tutti gli altri. Mangiarono un piatto indiano e qualcuno aveva preparato il pane. Anne tirò un paio di boccate da uno spinello passato da uno degli altri, e poi si sdraiò su un sacco a pelo, sazia e soddisfatta, girò gli occhi sui nuovi amici e provò un senso di calore che non aveva mai conosciuto. Sapeva che lì sarebbe stata felice. Era tutto così diverso dalla casa di Beverly Hills, dagli editti rabbiosi di suo padre contro Lionel... la perfidia della gente che conosceva... la stupidità di Gregory... l’egoismo delle gemelle... la donna che diceva di essere sua madre e che lei non aveva mai capito... no, il suo posto era lì in Waller Street, con i suoi nuovi amici. E quando la iniziarono, tre giorni dopo il suo arrivo, le sembrò giusto e bello. Era un supremo atto d’amore in una stanza piena d’incenso, con il fuoco che divampava, e le allucinazioni che la portavano dal paradiso all’inferno e dall’inferno 265
al paradiso. Sapeva che sarebbe stata un’altra al suo risveglio. Glielo dissero prima che mangiasse i funghi e poi la zolletta di zucchero intrisa di LSD. Impiegò un po’ di tempo per fare effetto, ma finalmente si accorse di essere attorniata da spiriti amici in una stanza piena di gente che conosceva. Più tardi vide i ragni, i pipistrelli e le cose più orribili; ma loro le tennero le mani mentre gridava e urlava, e quando si sentì straziare dalla sofferenza cantarono per lei e la cullarono come sua madre non aveva mai fatto... neppure Lionel aveva mai fatto tanto per lei... attraversò un deserto muovendosi carponi e finalmente giunse in una foresta incantata popolata di elfi, e sentì le loro mani che la tenevano, gli spiriti che cantavano ancora. Poi i volti che l’avevano attorniata per tutta la notte in attesa che si liberasse dal male della vita precedente vennero verso di lei. Si sentiva già purificata, e sapeva di essere una di loro. Gli spiriti maligni erano stati uccisi, l’avevano abbandonata, e adesso era pura... potevano completare il rituale. La spogliarono dolcemente, la lavarono con oli profumati e massaggiarono con delicatezza il suo corpo tenero... era arrivata molto lontano quella notte, ed era dolorante, ma le donne la massaggiavano e frugavano lentamente in lei, la trattenevano mentre urlava. All’inizio Anne oppose resistenza; ma le sussurravano con tanta dolcezza, e adesso c’era la musica. Le fecero bere qualcosa di caldo e l’aspersero d’olio, mentre due guardiane le massaggiavano teneramente la sua parte più segreta e lei si torceva sotto le loro mani urlando di tormento e di gioia. E poi vennero i suoi nuovi fratelli, gli spiriti che ora le appartenevano e sostituivano gli altri ormai abbandonati, e ognuno di loro le si inginocchiò accanto mentre le sorelle salmodiavano, e ognuno entrò in lei mentre la musica diventava più forte... a volte c’erano fitte acuminate di sofferenza, e ondate d’estasi... e i fratelli venivano in lei e la tenevano ferma e poi se ne andavano... fino a quando ritornarono le sorelle e la baciarono e frugarono dentro di lei e Anne non sentì più nulla. La musica taceva. La stanza era buia. La sua vita passata non esisteva più. Si mosse, chiedendosi se era 266
stato tutto un sogno; ma quando si sollevò a sedere e si guardò intorno, li vide lì ad attenderla. Era rimasta lontana per molto, molto tempo, ed era sorpresa che fossero tanto numerosi. Ma li riconobbe tutti e, piangendo, tese loro le braccia. Vennero a lei e la strinsero. La sua femminilità era completa, ed era come le altre sorelle. Le diedero un altro po’ di acido come ricompensa, e questa volta Anne si librò con loro, vestita di bianco, e quando i fratelli e le sorelle tornarono a lei, era una di loro e ricambiava i baci... toccava le sorelle come l’avevano toccata. Era il suo privilegio, adesso, le spiegarono; ed era un’espressione del suo amore per loro, del loro amore per lei. Nelle settimane seguenti avrebbe partecipato spesso al rito, e quando qualcuno nuovo arrivava nella casa di Waller Street, era Sunflower che l’accoglieva, con i capelli biondi ornati di fiori e un sorriso gentile... Sunflower che era stata Anne... viveva soprattutto di LSD, e non era mai stata tanto felice in vita sua. E tre mesi dopo che era andata a stare con loro, uno dei fratelli la prese per sé. Si chiamava Moon ed era alto, magro e bello, con i capelli argentei e gli occhi gentili. La portava a letto con sé ogni notte e la cullava, e in un certo senso le ricordava Lionel. Anne lo seguiva dovunque, e spesso lui le si rivolgeva con un sorriso mistico. «Sunflower, vieni qui...» Lei conosceva la magia di ciò che gli piaceva di più, sapeva come scaldare le sue pozioni di erbe, e quando portargli le droghe e quando toccarlo. E adesso, quando arrivava una nuova ed eseguivano il rito, era Sunflower che avvicinava per prima le sorelle e le cospargeva di olio caldo, le accoglieva nella tribù e con dita svelte le preparava per gli altri. Moon era sempre fiero di lei, e per questo le dava sempre più acido che agli altri. Era strano quanto fosse diversa la vita, adesso. Era piena di colori luminosi e di persone che amava e che l’amavano. Non era rimasto più nulla della solitudine e dello squallore della sua vita. Aveva dimenticato tutti. E quando in primavera Moon le tastò il ventre e le disse che era incinta e non poteva più partecipare ai riti, Anne pianse. 267
«Non piangere, piccolo amore... devi prepararti per un rito molto più grande. Saremo tutti con te quando questo minuscolo raggio di luna trapasserà i cieli e verrà a te, ma fino ad allora...» Moon le ridusse la dose di acido, anche se le lasciava fumare tutta la marijuana che voleva. E rideva di lei quando la droga le aumentava l’appetito. La gravidanza incominciava appena a vedersi, un giorno, quando Anne percorse Haight Street e vide una faccia che sapeva di aver conosciuto in passato, ma senza sapere chi fosse. Tornò da Moon nella casa di Waller Street con aria pensierosa. «Ho visto qualcuno che conosco.» La cosa non preoccupò molto Moon. A volte tutti vedevano qualcuno con la mente e il cuore, e a volte in modi più concreti. Sua moglie e suo figlio erano morti in un incidente velico poco prima che lui abbandonasse la casa di Boston per venire lì. Molto spesso li vedeva con gli occhi della mente, soprattutto durante i riti. Non era affatto sorpreso che Sunflower avesse visto qualcuno che conosceva. Era segno che stava ascendendo a uno stato superiore, e questo lo rallegrò. Il figlio, che era in parte suo, l’avrebbe innalzata ancora di più, quando fosse nato. «Chi era, piccola?» «Non ne sono sicura. Non riesco a ricordare il nome.» La sera prima Moon le aveva concesso una rara dose di acido, e il nome che tornava alla mente di Anne era quello di Gesù; però era certa che non fosse lui. Moon le sorrise. Più tardi avrebbe potuto avere di nuovo funghi e acido, ma adesso doveva mantenersi pura per il nascituro e quindi poteva prendere appena quanto era necessario per restare in uno stato d’illuminazione. Ma non poteva librarsi troppo in alto, per non spaventare il bambino. Il bambino apparteneva a tutti, fratelli e sorelle. Moon era certo che fosse stato concepito la prima notte, quando Sunflower era al centro del rito. Il bambino sarebbe stato particolarmente benedetto e quando Moon glielo disse, il nome di John le affiorò con chiarezza nella mente, e all’improvviso lo ricordò. 268
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«sei sicuro?» Lionel lo fissava incredulo. John l’aveva già illuso altre due volte. Tre mesi prima avevano lasciato la scuola tra la disperazione di tutti ed erano andati a cercare Anne a San Francisco. Ward non aveva voluto che Faye gliene parlasse, e Bob Wells temeva che l’usassero come pretesto per abbandonare gli studi, andare a San Francisco e unirsi ai gay che vi vivevano liberamente. Ma Lionel sosteneva che Anne doveva essere andata là. Era un rifugio per i minorenni scappati da casa e, sebbene non lo dicesse ai genitori, era certo che i fuggiaschi potevano vivere per anni e anni senza essere riconosciuti e riconsegnati. Erano migliaia, stipati in appartamenti minuscoli, e vivevano come formiche nelle case dell’Haight-Ashbury, quelle case dipinte di mille colori, con i fiori, i tappeti, l’incenso, le droghe e i sacchi a pelo sparsi dovunque. Erano un luogo e un tempo che non sarebbero mai più ritornati e Lionel sentiva istintivamente che Anne ne faceva parte. L’aveva sentito fin dal momento del suo arrivo. Si trattava solo di trovarla, se era possibile. Insieme a John aveva rastrellato le strade per mesi, inutilmente, e ormai non restava molto tempo. Avevano promesso di tornare a scuola entro giugno per la sessione estiva, per rimettersi in pari con lo studio. «Se non la troverete entro tre mesi», aveva detto Bob Wells, «dovrete rinunciare. Non potete cercarla più di tanto. Potrebbe essere a New York, o alle Hawaii o in Canada.» 269
Ma Lionel sapeva che sbagliava. Anne doveva essere andata lì, a cercare l’amore che sentiva di non aver mai avuto dalla famiglia. John era d’accordo con lui; e adesso era certo di averla vista aggirarsi stordita nei pressi di Ashbury, avvolta in un lenzuolo violaceo, con una corona di fiori sui capelli, e gli occhi così vitrei che si domandava se l’aveva veduto. Ma per un istante, per un istante solo, aveva avuto la certezza che Anne sapesse chi era. Poi s’era allontanata. L’aveva seguita fino a una vecchia casa malridotta che ospitava un’intera colonia di drogati e di giovani scappati da casa. L’odore d’incenso dilagava nella strada, e c’era una ventina di giovani sui gradini: cantavano una nenia indiana e si tenevano per mano, ridevano sommessamente e salutavano a cenni gli amici. Quando lei era arrivata alla scala, la piccola folla s’era aperta come il Mar Rosso. L’avevano aiutata a salire; un uomo con i capelli grigi l’attendeva sulla soglia e l’aveva portata dentro, mentre John assisteva alla scena. Era la cosa più strana che avesse mai visto e cercò di spiegarla a Lionel. «Devo ammetterlo, sembrerebbe proprio lei.» Ma anche le altre che John aveva trovato le somigliavano. Ogni giorno s’erano separati per aggirarsi nell’Haight-Ashbury a cercarla. Se era lì, allora era sorprendente che non l’avessero ancora trovata. E la sera tornavano nella stanza d’albergo che avevano preso con il denaro di Faye. Di solito mangiavano un hamburger in qualche posto tranquillo e non frequentavano i bar per gay. E al mattino ricominciavano. Era un impegno d’affetto come Faye non aveva mai visto. Più volte li aveva raggiunti in aereo per partecipare alle ricerche ma, come aveva finito per spiegare Lionel, la sua presenza li ostacolava. Spiccava tra le folle dei figli dei fiori, le sue camicette erano inamidate, i suoi gioielli per quanto ridotti al minimo erano troppo vistosi, i suoi jeans erano troppo puliti. Sembrava esattamente ciò che era, la madre di una ragazza scappata da Beverly Hills e venuta a cercare la figlia, e nel vederla tutti scappavano come ratti. Alla fine, Lionel gliel’aveva detto chiaro. «Torna a casa, mamma. Ti chiameremo se troveremo 270
qualcosa, te lo prometto.» Allora Faye era tornata a preparare un film. Aveva insistito con Ward perché si prendesse un co-produttore, dato che beveva troppo. E tra loro le cose andavano di male in peggio. Ward rifiutava ancora di parlare con Lionel. E quando Lionel chiamava Faye per riferire ciò che aveva visto nell’Haight-Ashbury, non appena sentiva la sua voce Ward riattaccava. Questo rendeva difficilissime le comunicazioni con Lionel e Faye s’infuriava. Aveva finito per far installare un telefono apposta per Lionel. Ma aveva notato che anche gli altri figli lo evitavano come se avessero paura di quel che avrebbe fatto il padre nel caso che fosse venuto a saperlo. Le gemelle non rispondevano mai al telefono sul quale la chiamava Lionel... come se Ward potesse scoprire che l’avevano fatto. L’avevano preso in parola; e Lionel era stato abbandonato da tutti, tranne dalla madre che l’amava più di prima, per compassione, perché si sentiva sola, e per tutto ciò che Lionel faceva per trovare Anne. Parlava spesso con Mary Wells e le ripeteva la sua gratitudine per l’aiuto di John. I Wells sembravano aver preso bene la situazione. Amavano il loro figlio e accettavano anche il suo. Era molto di più di quanto si potesse dire di Ward, che non aveva più parlato con i Wells dal mattino in cui Bob l’aveva buttato fuori quando era andato a dar loro la notizia. Anche tra Ward e Faye le cose non stavano più come un tempo. Lui era andato al Super Bowl con Greg nonostante la fuga di Anne. Aveva detto che alla fine l’avrebbe trovata alla polizia, e allora l’avrebbe punita e l’avrebbe tenuta chiusa in casa per dieci anni, se fosse stato necessario per farle mettere la testa a posto. Ma sembrava che Ward non fosse più in grado di affrontare la realtà: era partito con Greg e s’era divertito moltissimo al Super Bowl. Era rimasto sorpreso quando al suo ritorno la polizia non aveva ancora rintracciato Anne: e nelle settimane seguenti aveva incominciato a camminare avanti e indietro la notte e a buttarsi sul telefono appena lo sentiva squillare. Finalmente s’era reso conto che era una faccenda seria, e alla polizia gli avevano detto brutalmente 271
che poteva darsi che sua figlia fosse morta, o che fosse viva ma impossibile da trovare. Era come perdere due figli in una volta, e Faye sapeva che non sarebbe mai riuscita a riprendersi. Si buttò nel lavoro per attutire la sofferenza ma senza riuscirci. Passava tutto il tempo che poteva con le gemelle, quando erano libere. Ma anche loro risentivano dell’atmosfera. Vanessa era diventata ancora più silenziosa del solito, e il suo grande romanzo d’amore era finito subito dopo essere incominciato. Persino Valerie s’era calmata. Non si truccava e non usciva quasi più. Le sue minigonne erano meno shocking e il suo guardaroba non s’era arricchito. Sembrava fossero tutti in attesa di qualcosa che forse non sarebbe mai venuto; e con il passare dei giorni Faye incominciò a temere che Anne fosse morta. Prese l’abitudine di andare in chiesa, come non faceva da anni; e non diceva nulla a Ward quando non tornava a casa la notte. Dapprima lui era rientrato all’una o alle due, quando chiudevano i bar, e non era difficile capire dov’era stato; ma poi aveva incominciato a non tornare affatto. La prima volta che accadde, Faye ebbe la certezza che fosse morto. Ma quando lui entrò alle sei, l’indomani mattina, in punta di piedi e con il giornale sotto il braccio, Faye scorse sul suo viso un’espressione che la spaventò. Non era ubriaco né in preda ai postumi della sbronza; non diede spiegazioni e all’improvviso lei ricordò un nome al quale non aveva pensato da anni... Maisie Abernathie. Ricordò quando Ward era andato in Messico con lei per cinque giorni, quattordici anni prima. Ovviamente, sapeva che non si trattava di quella donna, ma Ward aveva la stessa espressione... lo stesso modo di evitare i suoi occhi. All’improvviso lei si chiuse completamente. Ward tornava a casa sempre meno spesso, ma Faye era così stordita dalla sofferenza che non provava più nulla. Si sforzava di non perdere la ragione. I suoi giorni erano presi dal lavoro, le sue notti erano dominate dai rimorsi; faceva tutto ciò che poteva per le gemelle, ma ormai la loro famiglia era a pezzi. Alla fine, Faye sentì le chiacchiere che circolavano all’MGM. 272
Ward se l’intendeva con la protagonista di un importante show televisivo diurno, e secondo le voci era una cosa seria. Faye pregava il cielo che la storia non finisse sui giornali, per non essere costretta a spiegarlo alle figlie. Aveva già anche troppe cose cui pensare; e proprio quando si diceva che non ce la faceva più, Lionel le telefonò. Quel pomeriggio era uscito con John e aveva seguito la ragazza che l’amico gli aveva indicato. Adesso anche lui era sicuro che fosse Anne. Sembrava drogata e completamente stordita, ed era più grassa, infagottata in una specie di sari violaceo: ma entrambi erano certi che fosse lei. Le lacrime scorsero sulle guance di Faye. «Siete sicuri?» Lionel pensava che lo erano, in modo quasi assoluto. Lei aveva un’aria così intontita, era infagottata in modo strano e circondata dai membri della sua piccola setta: era difficile avvicinarsi abbastanza per scoprire se era davvero Anne. Non era possibile gridare il suo nome e aspettare che si voltasse. E Lionel non voleva dare troppe speranze alla madre per poi rischiare di deluderla. «No, non siamo sicuri, mamma. E volevamo chiederti cosa desideri che facciamo adesso.» «Alla polizia hanno detto di avvertirli.» «E se non fosse lei?» «Sembra che succeda spesso. Probabilmente risulterà che è un’altra ragazza scappata da casa e che stanno cercando. Hanno detto di non esitare a chiamarli se pensiamo di sapere dov’è, e poi lassù c’è un certo padre Paul Brown che conosce tutti quei giovani. Ogni giorno aiuta qualcuno a tirarsi fuori dal giro.» I ragazzi sapevano chi era, e promisero di contattare anche lui, oltre alla polizia. «Pensi che dovrei venire lì, con l’aereo, stanotte?» Faye non aveva niente da fare la sera, adesso, quando lasciava il lavoro. Non vedeva mai Ward. Lui non fingeva neppure di rientrare la notte, e sembrava aspettarsi che la moglie gli chiedesse spiegazioni; ma lei non ne aveva la forza. Si chiedeva se le chiacchiere erano vere, se era una faccenda seria. Sembrava incredibile, divorziare dopo tanti anni... ma ormai sembrava probabile. Se almeno avessero 273
trovato Anne... e se Lionel fosse tornato a scuola... allora lei avrebbe potuto pensare alla relazione di Ward... al divorzio... Quella notte, la linea privata con Lionel squillò a mezzanotte. Non poteva essere altro che lui. Ward non telefonava neppure quando non rientrava a casa, e del resto l’avrebbe chiamata all’altro numero. Faye sollevò il ricevitore e trattenne il respiro. «Li?» «Anche alla polizia pensano che sia lei. Oggi gliel’abbiamo indicata. Hanno una mezza dozzina di agenti in borghese che tengono d’occhio gli spacciatori di droghe e cercano i minorenni fuggiti da casa. Sono andati a parlare anche con padre Brown. Sembra che lei si faccia chiamare Sunflower. Padre Brown sa chi è, ma non pensa che sia giovane come Anne.» Anne aveva quattordici anni e mezzo ma ne aveva sempre dimostrati di più, soprattutto di recente. Lionel non riferì alla madre il resto delle cose che aveva detto Brown: la ragazza viveva con una setta che praticava strani riti erotici. C’erano già state parecchie retate della polizia, ma sembrava che fosse impossibile dimostrare ciò che succedeva e che alcuni degli adepti erano minorenni. Tutti dichiaravano di avere più di diciotto anni ed era impossibile dimostrare il contrario. Padre Brown aveva detto inoltre che usavano l’LSD, i «funghi magici» e anche il peyote. Ma c’era di peggio: la ragazza che avevano seguito era incinta. Lionel non osava ancora dirlo alla madre: era meglio non allarmarla perché poteva darsi che non fosse Anne. «Mamma, vuoi che venga arrestata o solo interrogata?» Non erano mai arrivati tanto vicini alla soluzione del caso, e Faye si sentì mancare il cuore al pensiero di sua figlia. Non vedeva Anne da cinque mesi, e Dio solo sapeva che cosa le era accaduto in tutto quel tempo. Non osava pensarlo. Si sforzò di concentrarsi su ciò che le aveva chiesto Lionel. «Non possono limitarsi a portarla via, in modo che possiate vederla bene?» Lionel sospirò. Ne aveva discusso per tutto il giorno con la polizia. «Possono farlo, se è davvero Anne. Ma se non è lei, 274
e se non è una ragazza scappata da casa ed è maggiorenne, può denunciarli per arresto illecito. Di solito gli hippy non lo fanno, ma alla polizia ci vanno piano. Credo che siano rimasti scottati un paio di volte.» Aveva una voce così stanca, e Faye si sentì commossa e sospirò. Rivoleva Anne ad ogni costo. «Digli che facciano tutto il possibile, tesoro. Dobbiamo essere certi che sia lei.» «M’incontrerò con gli agenti in borghese domattina alle dieci. Circonderanno la casa e la seguiranno di nuovo. Cercheremo di parlare con lei; se non ci riusciremo la fermeranno per evidente stato confusionale o qualcosa del genere.» Faye inorridì. «È drogata?» Lionel esitò e lanciò un’occhiata a John. Tutti e due erano nauseati dell’Haight-Ashbury, del sudiciume, delle droghe, della feccia, dei ragazzi scappati da casa. Erano quasi pronti a desistere, ma adesso... se era lei... «Sì, mamma, sembra di sì. Se è Anne. Non ha un gran bell’aspetto.» «È malata?» Nella voce di Faye c’era un’angoscia straziante. «No, solo drogata. E vive in un posto stranissimo, con una specie di setta orientale.» «Oh, Cristo...» Forse Anne s’era rasata la testa. Faye non poteva immaginarlo. Era rimasta sconvolta nel vedere quel posto quando era andata a raggiungere Lionel e John a San Francisco per cercare la figlia. Aveva provato un senso di sollievo quando le avevano consigliato di ripartire. Ma adesso doveva tornare. Intuiva che questa volta poteva essere davvero Anne, e voleva essere presente. Ricordava ancora sua figlia come era il giorno in cui era nata. Era difficile credere che fosse passato tanto tempo. «Ti telefoneremo domani, mamma. Appena sapremo qualcosa.» «Sarò in ufficio tutto il giorno.» Poi Faye chiese: «Devo prenotare un posto sul volo del pomeriggio, per precauzione?» Lionel sorrise. «Abbi un po’ di pazienza. Ti telefonerò in ogni caso, per farti sapere se è Anne o no.» «Grazie, tesoro.» Era il figlio migliore che una donna potes275
se augurarsi... e non importava niente se era gay. Per lei era un figlio migliore di quanto fosse mai stato Greg, anche se voleva bene a entrambi. Ma Greg non aveva la stessa sensibilità. Non avrebbe mai abbandonato la scuola per tre mesi per andare a cercare Anne. Anzi, quand’era venuto a casa per Pasqua, aveva dichiarato che secondo lui Lionel era matto. Ma Ward l’aveva fulminato con un’occhiata perché aveva pronunciato il nome proibito e Faye aveva dovuto dominarsi per non ribattere bruscamente davanti a Greg. Ormai ne aveva avuto abbastanza, e forse divorziare sarebbe stato un sollievo. Ma ora non poteva pensarci. Non riusciva a pensare ad altro che ad Anne. Rimase sveglia a lungo dopo aver parlato con Lionel pensando ad Anne bambina, alle cose che aveva fatto, alle cose strane che aveva detto, alla sua abitudine di nascondersi e al suo attaccamento per Lionel. Era nata in un momento sfortunato, e Faye lo sapeva: ma non era colpa di nessuno. II disastro era venuto poche settimane dopo la sua nascita, e Faye aveva avuto troppo da fare per vendere la tenuta, i pezzi d’antiquariato e i gioielli, e per traslocare nella piccola casa squallida di Monterey Park... e poi Ward se n’era andato e lei s’era impegnata per provvedere a tutto da sola. In un certo senso, Anne s’era perduta in quei momenti terribili. Gli altri erano abbastanza grandi per aver meno bisogno di lei, e prima aveva sempre dedicato loro tutto il suo tempo. Ma ad Anne, no, mai... dopo la nascita di Anne aveva sempre lavorato, e Anne ne era andata di mezzo. Faye ricordava i momenti in cui la bambinaia era venuta da lei quando Anne aveva pochi mesi e le aveva chiesto se voleva prenderla in braccio o darle il poppatoio, e Faye aveva risposto: «Ora no... non ho tempo». Aveva risposto così molte volte, e Anne ne aveva pagato il prezzo. Come poteva dire a una figlia così che le voleva bene, che gliene aveva sempre voluto ma che non aveva avuto tempo... che diritto si aveva di mettere al mondo una creatura se non si aveva tempo da dedicarle? Eppure, quando Anne era stata concepita la loro vita era così facile, e Faye 276
aveva a disposizione tutto il tempo del mondo. Un momento sbagliato, la sfortuna... e una cattiva madre, si disse Faye più volte, mentre giaceva nel grande letto vuoto e pensava ad Anne e si chiedeva se era troppo tardi, se sua figlia l’avrebbe odiata per il resto della sua vita. Era possibile, e adesso se ne rendeva conto. Certe cose non si potevano rimediare, come i suoi rapporti con Ward... e con quella figlia... e i rapporti tra Ward e Lionel... il tessuto della loro famiglia sembrava irrimediabilmente lacerato in quegli ultimi mesi e quel pensiero l’opprimeva come un macigno quando Faye si alzò alle sei senza aver chiuso occhio tutta la notte. Ma non poteva dormire, adesso, e si chiedeva se la ragazza che aveva visto Lionel fosse davvero Anne. Si alzò, fece la doccia e si vestì, attese che le gemelle andassero a scuola, poi raggiunse il suo ufficio all’MGM. Era sorpresa che Ward non cercasse neppure di salvare le apparenze. Non le telefonava, non tentava di spiegare dove avesse passato la notte. Ogni tanto tornava a casa, e lei non gli faceva domande. Ormai, quando compariva andava a dormire nella stanza di Greg, e non si scambiavano una parola. Faye lo intravvide più tardi, quella mattina, mentre percorreva il corridoio. Ma non gli disse nulla. Non voleva parlargli di Anne, per il momento. Era inutile farlo prima di essere certa che l’avessero trovata e non era affatto sicuro. La telefonata arrivò poco dopo mezzogiorno e lei si sentì arrestare il cuore. La segretaria le disse che era in linea Lionel, e lei si affrettò a premere il tasto dell’apparecchio. «Li?» «Tutto bene, mamma, tranquillizzati.» Lionel tremava dalla testa ai piedi ma non voleva farglielo sapere. Era stato un problema tirar fuori Anne da quel covo, ma la polizia l’aveva risolto brillantemente e non era successo niente di male a nessuno, neppure ad Anne. Era un po’ stordita. Ma non sembrava neppure sconvolta perché l’avevano portata via, mentre il vecchio s’era infuriato. Aveva agitato un bastone e aveva gridato che gli dei li avrebbero puniti perché gli toglievano 277
la sua bambina. Ma Anne aveva lasciato che la conducessero via, aveva sorriso a Lionel e adesso sembrava che sapesse chi era. Ma era stordita dalla droga ed era possibile che, quando fosse tornata normale, incominciasse a dare in escandescenze. Comunque erano preparati; i poliziotti erano abituati, e c’era un medico pronto a intervenire. Faye trattenne per un attimo il respiro; poi le sue parole esplosero nel ricevitore. «È Anne?» Chiuse gli occhi. «Sì, mamma, è lei. E sta bene. Più o meno...» Ma l’avevano trovata, finalmente. Lionel guardò di nuovo John. In quegli ultimi mesi avevano stretto fra loro un legame che, lo sapevano, sarebbe durato per il resto delle loro vite. Ormai era come se fossero sposati. Ma Lionel concentrò di nuovo l’attenzione sulla madre. «Sta bene, mamma. Siamo in Bryant Street con la polizia. Se vuoi, l’affideranno alla mia custodia. La porterò a casa fra un giorno o due, quando avrà avuto la possibilità di adattarsi.» «Adattarsi a che cosa?» Lionel aveva molte cose da dirle, ma non poteva farlo ora... almeno al telefono. Era necessario prepararla. «È stata lontana da noi per molto tempo, mamma. Dovrà riabituarsi al mondo reale. Negli ultimi mesi ha vissuto un’esistenza molto diversa.» Lionel stava cercando un modo delicato per dirglielo, e si augurava che sua madre non venisse mai a sapere tutto ciò che gli avevano raccontato alla polizia. Conoscevano bene la setta e i suoi riti. Faye sarebbe morta se avesse saputo cosa aveva passato Anne, sebbene Anne non mostrasse di averne risentito. Anzi, a lui sembrava di non averla mai vista così felice: ma quasi tutta la sua felicità era dovuta probabilmente alle droghe, e non avrebbe avuto molti motivi di sentirsi soddisfatta quando fosse finito l’effetto. Alla polizia avevano discusso la possibilità di incriminarla per uso di droghe; ma dato che aveva quattordici anni e con ogni probabilità era stata drogata a forza, avevano deciso di non farne nulla. Adesso volevano sapere se i Thayer intendevano presentare denunce contro i membri della setta per 278
ratto e violenza contro Anne, e Lionel sapeva che spettava ai suoi genitori. Faye stava ancora cercando di decifrare ciò che le diceva il figlio. «È drogata?» Lionel esitò. Ma era necessario dire la verità. «Credo di sì. Sì.» «Droghe dure? Come l’eroina...» Faye impallidì. Se fosse stato così sarebbe stata la fine: nessuno si liberava mai dell’assuefazione all’eroina. Ma Lionel si affrettò a tranquillizzarla. «No, no. Marijuana, probabilmente LSD e altri allucinogeni.» Ormai era diventato un esperto in materia, e Faye sospirò. «La polizia la trattiene?» «No. Ho pensato di portarla al nostro albergo, farle fare un bagno e aspettare che si distenda...» Cioè, che finiscano gli effetti delle droghe... «Arriverò con il primo aereo.» Lionel strinse i denti. Desiderava disperatamente ripulire la sorella prima che arrivasse Faye, e il prossimo aereo non gli avrebbe lasciato molto tempo. Inoltre c’era qualcosa d’altro che Faye doveva sapere. «Mamma, non è tutto...» Faye aveva sentito istintivamente che Lionel le taceva qualcosa. Anne era ferita, malata... qualcosa... «Mamma?» «Dimmi, Li.» «È incinta, mamma.» «Oh, mio Dio.» Faye scoppiò in pianto. «Ha quattordici anni.» «Lo so. Mi dispiace, mamma...» «Hanno preso il ragazzo?» Lionel non ebbe il coraggio di dirle che il bambino non era stato generato da un «ragazzo» ma probabilmente dai trenta o quaranta adepti maschi della setta. Si tenne sul vago e disse che avrebbero dovuto parlarne con Anne. Ma Faye stentò a ritrovare la calma. Scribacchiò un appunto sulla rubrica, «Chiamare il dottor Smythe». Lui avrebbe predisposto un aborto. L’anno prima s’era occupato della protagonista di uno dei suoi film; e se non avesse voluto saperne di far abor279
tire una ragazzina dell’età di Anne, l’avrebbe portata a Londra o a Tokyo. Anne non doveva portare a termine la gravidanza. Con ogni probabilità era stata violentata. L’idea che Anne fosse incinta era ancora più orribile di tutto il resto di quella storia tremenda, e Faye dovette fare uno sforzo per rammentare che era già tanto se sua figlia era stata ritrovata. Riattaccò piangendo e si nascose il volto tra le mani per un momento, prima di trarre un profondo respiro. Si soffiò il naso, raddrizzò le spalle e andò nell’ufficio in fondo al corridoio per parlare con Ward. Doveva dirglielo. Anne era anche figlia sua, sebbene ora avessero ben poco in comune. Si chiese come avrebbero risolto il problema della divisione della loro attività. Finora avevano continuato come al solito; ma sarebbe stato impossibile andare avanti così. E ora che Anne era stata ritrovata, Lionel sarebbe tornato a casa. Lei non aveva più scuse per non affrontare Ward. Si fermò davanti all’ufficio e la segretaria trasalì nervosamente. «C’è mio marito?» Ma Faye sapeva che c’era. L’aveva visto pochi minuti prima. La segretaria la guardò con ansia, lasciò cadere una matita e cercò di evitare i suoi occhi. «No... non c’è...» «Questa è una frottola.» Faye non era dell’umore adatto per ascoltare storie. «So che c’è.» «Non c’è... cioè, sì, c’è... però non vuol essere disturbato.» «Sta sbattendo qualcuna sul divano dell’ufficio?» Gli occhi di Faye lanciarono lampi. Sapeva molto bene cosa stava succedendo... e nei loro uffici! Ward aveva una gran faccia di bronzo. Avanzò verso la porta e, quando la segretaria soffocò un grido, si voltò. «Non si preoccupi. Dirò che sono passata con la forza.» Spalancò la porta ed entrò. La scena che si offrì ai suoi occhi era piuttosto casta. Ward e Carol Robbins, la protagonista dello sceneggiato Segui il mio mondo, erano vestiti e tra loro c’era la scrivania; ma lui le teneva la mano, e tutto indicava l’esistenza di un profondo legame. Carol Robbins era una bionda carina con le gambe lunghe e il seno prosperoso. Nello sceneggiato faceva la parte di un’infermiera, 280
e gli uomini amavano vedere l’uniforme che le andava stretta. Faye fissò Ward che lasciò di colpo la mano della ragazza e la guardò nervosamente. Lei non degnò Carol Robbins di un’occhiata. «Hanno trovato Anne. Pensavo che ci tenessi a saperlo.» Ward spalancò gli occhi. Per un momento dimenticò completamente la presenza dell’attrice e guardò solo la moglie. «Sta bene?» «Sì.» Faye non gli parlò delle droghe o della gravidanza. Non voleva che quella ragazza lo sapesse. Altrimenti prima di sera l’avrebbe risaputo tutta Hollywood. «Sta bene.» «Chi l’ha trovata? La polizia?» Faye scosse la testa. «Lionel.» C’era una luce vittoriosa nei suoi occhi quando lo vide tendersi. «Li raggiungerò fra due ore. Se sarà possibile la porterò a casa stasera. Tu potrai passare a vederla domani, dopo che avrà dormito un po’.» Ward la fissò, sorpreso. «C’è qualche ragione perché non posso venire a casa stanotte?» Faye sorrise amaramente e girò lo sguardo sulla maggiorata seduta di fronte a lui. «Vedi un po’ tu. Per me basta domani.» Tornò a guardare Ward, e lui arrossì. Era molto invecchiato in quegli ultimi sei mesi. Stava per compiere cinquant’anni ma ne dimostrava di più. Da cinque mesi se la spassava con quella ragazza e beveva parecchio, e prima aveva subito due colpi tremendi. Tutto questo aveva lasciato il segno, ma Faye non lo commiserava. Anche lei era invecchiata, e Ward non aveva fatto nulla: l’aveva abbandonata per consolarsi con quella ragazza. Era quasi pentita di non aver fatto qualcosa di simile, ma la preoccupazione per Anne e Lionel era troppo forte. Altrimenti avrebbe potuto concedersi un’avventura. Adesso, comunque, ne avrebbe avuto il tempo e a quarantasei anni non era affatto da buttar via. Guardò il marito con profondo disprezzo. «Dirò ad Anne di telefonarti quando torneremo, se sarà disposta a parlare con te.» Ward sembrava inorridito dal suo tono, dalla sua espressione. Guardò nervosamente la bionda 281
prosperosa mentre Faye usciva e richiudeva la porta. Nell’anticamera, la segretaria stava facendo a pezzi un fazzolettino di carta come se si aspettasse che lui uscisse a farle una scenata, ma Faye le rivolse appena un cenno e tornò nel suo ufficio. Doveva essere all’aeroporto entro un’ora. Stava mettendo nella borsetta lo spazzolino da denti che teneva nella scrivania quando Ward entrò precipitosamente. «Cos’è questa stronzata?» Era rosso in faccia e Faye non poteva sapere che aveva appena detto a Carol di andare a casa. Lei era uscita in lacrime e l’aveva accusato di volerla piantare... e Ward stava pensando di farlo. Era ancora sposato con Faye, anche se Faye sembrava averlo dimenticato. E aveva incominciato quella relazione «per divertirsi», anche se nelle ultime settimane era sfuggita al suo controllo. Faye lo guardò con indifferenza in parte simulata. «Non ho tempo di parlare con te. Il mio volo parte alle tre in punto.» «Bene. Potremo parlare in aereo. Verrò anch’io.» «Non ho bisogno del tuo aiuto.» Gli occhi di Faye erano freddi, quelli di Ward addolorati. «Non ne hai mai avuto bisogno. Ma Anne è anche mia figlia.» Per un momento Faye non parlò. Finalmente alzò gli occhi, incapace di resistere all’impulso di farlo soffrire come lui l’aveva fatta soffrire in quegli ultimi mesi. «Porti anche la tua amichetta?» Ward la guardò. «Ne parleremo uno di questi giorni.» Lei annuì, ma con un’intenzione diversa. «Volevo sistemare le cose con Anne e Lionel, prima di discuterne con te. Ma credo che fra poche settimane tutto sarà tornato normale, per quel che è possibile. Allora avrò tempo di parlare con un avvocato.» «Hai già deciso?» Ward era depresso ma non sorpreso. Non aveva fatto nulla per scongiurare quella possibilità, e ormai era troppo tardi. Si sentiva sconfitto dalla vita. Il suo matrimonio era finito, suo figlio era frocio, sua figlia era scappata, e Dio solo sapeva cosa le era accaduto. Era devastante pensarci, ma Faye sembrava impassibile. Era straordinaria. Non andava mai 282
a fondo. Continuava a nuotare fino a che raggiungeva la riva, e a quanto sembrava ce l’aveva fatta anche stavolta. Ward era contento per lei. «Mi dispiace che siamo arrivati a questo.» Faye parlò con calma e si alzò. Doveva partire. «Dispiace anche a me. E mi pare che sia stato tu a decidere. Non telefoni neppure per inventare una scusa. Non torni a casa e basta. Mi sorprende che non abbia ancora portato via i tuoi vestiti. Ogni sera, quando torno a casa, mi aspetto di non trovarli più.» «Non siamo arrivati a questo punto, Faye.» «Non capisco come possa dire così. Te ne sei già andato: semplicemente, non ti sei ancora degnato di dirlo.» Sembrava ingiusto litigare così proprio quando Anne era stata ritrovata. Avrebbero dovuto gridare di sollievo: ma tra loro c’era troppa amarezza. E s’erano evitati reciprocamente per troppo tempo. «Non sapevo cosa dirti, Faye.» «A quanto pare. Sei uscito dalla nostra vita.» Ward sapeva che era vero, ed era la seconda volta che succedeva. Ma lui non aveva la stessa forza di Faye. E poi era comparsa Carol e l’aveva fatto di nuovo sentire uomo. Aveva addolcito il colpo della scoperta che suo figlio era gay... quella realtà non ricadeva più su di lui, adesso era tutto a posto... ma aveva travolto Faye. Adesso lo capiva. Ma come poteva spiegarglielo? Era impossibile. Lei si avviò alla porta. «Ti telefonerò appena torneremo.» Ward la guardò intimidito. «Anch’io ho prenotato sul volo delle tre. Parti con quello, no?» «È inutile che andiamo tutti e due.» Faye non voleva che la seguisse. Aveva già anche troppe cose a cui pensare, dopo quel che le aveva riferito Lionel. Anne poteva essere drogata, e c’era quella gravidanza da interrompere al più presto: non le mancava altro che Ward impegnato a giustificarsi per il suo comportamento da mascalzone. Non voleva ascoltarlo. Non era il momento. Lo fissò esasperata e lui l’implorò con gli occhi. 283
«Non la vedo da cinque mesi, Faye.» «Non potresti aspettare un altro giorno?» Ward non si mosse, e lei sospirò. Le stava rendendo tutto più difficile. All’improvviso si rassegnò. «Sta bene. C’è una macchina dello studio che mi aspetta.» Uscì, e Ward la seguì. Non le disse nulla durante il tragitto fino all’aeroporto; e lei non nascondeva che non aveva nessun desiderio di parlargli. A bordo i loro posti non erano vicini, e quando l’impiegato si offrì di far loro un favore spostando altri passeggeri, Faye lo scoraggiò. Mentre salivano sull’aereo, Ward era ormai sicuro che il suo matrimonio con Faye era finito. E il peggio era che Carol non significava niente per lui. Era stata solo un mezzo per confermare la sua mascolinità e attutire la sofferenza: ma era troppo tardi per cercare di spiegarlo a Faye. Lei accettò di salire sullo stesso tassì per raggiungere l’albergo di Lionel, ma lo guardò negli occhi e dettò le condizioni. «Voglio chiarire una cosa, Ward. Quei due ragazzi hanno passato sei mesi a cercarla. Hanno rinunciato a un semestre di studi e l’hanno trovata. Se avessimo lasciato fare alla polizia non sapremmo ancora oggi dov’è Anne. Quindi, se dirai una sola parola cattiva a uno dei due, non ti rivedrò mai più e ti farò causa per portarti via tutto quello che hai, solo per saldare il conto. Se vuoi un divorzio consensuale, caro mio, comportati decentemente con tuo figlio e John Wells. È chiaro?» I suoi occhi erano duri come pietre, e quelli di Ward avevano la stessa espressione addolorata che lei aveva visto per tutto quel giorno. Ward sembrava distrutto... ma la colpa era esclusivamente sua. «E se non volessi un divorzio consensuale?» «Allora non tentare neppure di venire in città con me, Ward.» Faye alzò il braccio per chiamare un tassì, e lui la trattenne bruscamente, disperato. «Non è questo che volevo dire. Perché sei così sicura di volere il divorzio? Io non ho acconsentito... anzi, non ho detto niente.» Erano davanti all’aeroporto. Faye rise con amarezza. «Non 284
essere ridicolo. In questi ultimi quattro mesi non ti ho visto quasi mai, non venivi neppure a casa la notte... e pretendi che resti sposata con te? Devi credermi davvero stupida.» E oltre a tutto, Ward aveva causato un disastro probabilmente irreparabile. «La stupida non sei tu, Faye. Lo stupido sono io.» «Perfettamente d’accordo. Ma non è il momento né il luogo per discuterne.» Lei lo guardò con profonda irritazione. «Non so proprio perché sia venuto anche tu.» «Per vedere Anne... e parlare con te... è tanto tempo, Faye...» «Non è stata colpa mia.» «Lo so. È mia.» Sembrava disposto a riconoscere le sue responsabilità, come se avesse ritrovato il buon senso. Ma era troppo tardi. Per tutti e due. Faye lo guardò con aria scettica. «Cos’è successo? La tua infermierina da teleromanzo ti ha piantato stamattina quando vi ho sorpresi in ufficio?» «No. Per l’esattezza sono stato io a chiudere con lei.» Più o meno. Carol se n’era andata arrabbiatissima perché le aveva detto che sarebbe partito per San Francisco con Faye e che ne avrebbero riparlato al ritorno. Ma aveva intenzione di dirle che tra loro era tutto finito, indipendentemente dalla decisione di Faye. Carol aveva ventidue anni, e incominciava a sentirsi ridicolo con lei. Era tutto finito. Era stata una sciocchezza, ma era capitata nel momento in cui ne aveva avuto bisogno. Adesso aveva bisogno di Faye. Sapeva di aver sempre avuto bisogno di lei, ma Faye era così chiusa nel suo dolore che non gli riusciva più di ristabilire una comunicazione. Per breve tempo non avevano avuto nulla da dirsi, eppure lui non chiedeva che un’altra occasione... se fosse stata disposta ad ascoltarlo. Ma sembrava che non ne avesse l’intenzione. Aveva chiamato un tassì e spalancato la portiera, e adesso lo stava guardando. «Allora, Ward, vieni o no?» «Non hai sentito quello che ho detto? Con quella ragazza è finita.» 285
«Non m’importa un accidente.» «Bene. Allora tu sai com’è la situazione.» «Lo sai anche tu. Ward, è finita. Finita. È chiaro?» Faye diede l’indirizzo all’autista e si assestò sul sedile. «Non sono d’accordo.» Faye era così furiosa che si trattenne a stento dal prenderlo a pugni. Si sforzò di abbassare la voce perché il tassista non sentisse, e continuò a discutere. «Hai una fottuta faccia tosta. Per cinque mesi ci abbandoni, mi sputi in faccia, ti rendi ridicolo con una ragazza che ha quasi trent’anni meno di te e adesso, generosamente, decidi di tornare. Be’, vai a farti fottere, Ward Thayer. Voglio il divorzio.» Vide che il tassista li sbirciava attraverso lo specchietto; ma Ward non se ne accorse. «Voglio restare sposato con te.» «Sei un mascalzone.» «Lo so. Ma siamo sposati da ventun anni e non voglio che finisca così.» «Perché no? Non ti sei fatto scrupolo di andartene, cinque mesi fa.» Ma entrambi sapevano il perché. Il trauma causato da Lionel era stato troppo forte. Faye aveva sempre saputo che lo sarebbe stato, e adesso provava un po’ di compassione. «Il perché lo sai.» «Non era una ragione per piantarmi.» «Non avevo altro modo per provare di nuovo la mia mascolinità.» «È una scusa cretina.» «Ma è vero.» Ward guardò dal finestrino, poi si girò di nuovo verso di lei. «Non saprai mai quanto ho sofferto.» «E ora? Intendi punirlo di nuovo?» «Gli sono grato perché ha trovato Anne.» Ma la voce di Ward non lasciava spazio a dubbi. «Però non lo perdonerai mai, vero?» «Non posso dimenticare quello che è.» «È tuo figlio, Ward. E mio.» «Per te è diverso.» 286
«Può darsi. Ma gli voglio bene. È un ragazzo straordinario.» Ward sospirò. «Lo so. Non capisco più che cosa provo... sono così confuso, non è facile capire... e c’è Anne...» Faye aggrottò la fronte e pensò a ciò che le aveva detto Lionel. Si chiese se doveva avvertire Ward, se anche quello sarebbe stato per lui un trauma troppo forte. La sua voce aveva un tono gentile, per la prima volta dopo molti mesi, quando gli parlò di nuovo. «Lionel pensa che sia drogata.» Immediatamente Ward rialzò la testa, allarmatissimo. «Che genere di droghe?» «Non è ancora sicuro. Marijuana, LSD...» «Potrebbe essere peggio, credo.» «È peggio», disse Faye. «È anche incinta.» Ward chiuse gli occhi, li riaprì e la fissò. «Che cosa è successo a tutti noi in questi ultimi sei mesi? La nostra vita è crollata.» Faye gli sorrise gentilmente. Era vero. Ma con il tempo l’avrebbero ricostruita, avrebbero superato tutto. L’avevano già fatto una volta. Ward la guardò e le prese la mano. «È stato un inferno per tutti e due.» Faye non dissentì e non ritrasse la mano. Adesso avevano bisogno l’uno dell’altra, almeno per le prossime ore. All’improvviso era contenta che Ward fosse venuto con lei. Anche se poi non si sarebbero rivisti mai più. Il tassì proseguì la corsa verso la città, mentre tutti e due erano assorti nel pensiero della loro bambina.
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arrivarono al San Marco Hotel poco dopo le cinque. Era un albergo modesto vicino a Divisadero Street, e Lionel e John vi alloggiavano da più di quattro mesi. Faye alzò gli occhi per un istante prima di entrare in fretta, seguita da Ward. Sapeva che i due ragazzi avevano la stanza al secondo piano, e si avviò verso la scala prima ancora che l’impiegato potesse dirle qualcosa. Non voleva parlare con nessuno. Voleva vedere Anne. Aveva persino dimenticato che Ward era con lei, quando bussò leggermente alla porta. Un attimo dopo Lionel aprì. La guardò attraverso la stretta apertura, parve esitare, e spalancò lentamente l’uscio. Dal punto in cui si trovava, Faye vide una figura immobile sdraiata che le voltava la schiena. Era avvolta nella vestaglia di Lionel, i capelli erano lunghi, i piedi scalzi, e per un momento Faye pensò che fosse addormentata; ma poi Anne si voltò per vedere chi era. Il viso era macchiato di lacrime, gli occhi cerchiati erano immensi nel volto smagrito. Faye rimase sbalordita, ma si sforzò di nasconderlo. Anne era cambiata completamente in quei cinque mesi. Era più magra, sembrava più adulta... e il suo viso era così diverso che Faye non era neppure certa che l’avrebbe riconosciuta. In fotografia non l’avrebbe riconosciuta assolutamente. E ringraziava il cielo che John ci fosse riuscito. «Ciao, tesoro.» Faye si avvicinò adagio al letto per non spaventarla, come se Anne fosse un uccellino ferito. Anne gemette, si raggomitolò e voltò le spalle. L’effetto degli allu288
cinogeni che aveva preso per tanto tempo stava passando, e Lionel e John avevano continuato a darle spremute d’arancia e cioccolata per rimetterla in forze. Poco prima le avevano fatto mangiare un hamburger, ma l’aveva vomitato. Comunque, adesso stava un po’ meglio, o almeno così sembrava a John e a Li. L’avevano vista quando l’aveva prelevata la polizia qualche ora prima e Lionel s’era sentito venire i brividi al pensiero del momento in cui sarebbe arrivata sua madre. Girò lo sguardo dalla sorella ai genitori e fu colpito dall’espressione degli occhi di Faye. Non osò guardare direttamente Ward. Era la prima volta che lo vedeva dal giorno terribile in cui l’aveva sorpreso con John. Ma almeno era venuto: se non per loro, per Anne. «Non si sente molto bene, mamma.» Lionel parlò sottovoce e Anne non si voltò quando John le porse un’altra tavoletta di cioccolata: la prese con mano tremante. Aveva fame e nausea, e non avrebbe voluto essere lì. Voleva tornare da loro, all’Haight, da Moon... al rito... quello era il suo posto. Le lacrime la soffocarono mentre cercava d’inghiottire un po’ di cioccolata. Si riadagiò e chiuse gli occhi. «È malata?» Parlavano di lei come se non fosse presente, e Lionel non sopportava l’idea di dover spiegare tutto. «Sta smaltendo l’effetto della roba che prendeva. Fra qualche giorno starà bene.» «Possiamo portarla a casa questa sera?» Faye era ansiosa di condurla via, di farla visitare dal medico che l’aveva seguita per anni, e di accompagnarla dal dottor Smythe prima che fosse troppo tardi per un intervento. Aveva visto Anne solo di spalle e non sapeva quanto fosse avanzata la gravidanza, ma presumeva che non fosse ancora troppo tardi. Non c’era motivo per crederlo. Ma Lionel scosse la testa in risposta alla sua domanda e Faye aggrottò la fronte. «Non credo che sia in grado di viaggiare, mamma. Lasciale un paio di giorni per adattarsi.» «A che cosa?» Faye era scossa. «A noi?» Ward si fece avanti per la prima volta e parlò al figlio evi289
tando di guardarlo negli occhi. «L’ha vista un medico?» Lionel scrollò la testa. «Credo che sia necessario.» Ward girò intorno al letto e guardò la figlia minore. Era ancora lurida, incrostata di sudiciume, con il volto macchiato di lacrime e gli occhi immensi, sgranati. Le sedette accanto e le accarezzò i capelli, commosso. Che cosa aveva spinto quella bambina a ridursi così? Com’era possibile che fosse fuggita lontano da loro? «È così bello rivederti, Anne.» Lei non si ritrasse ma lo guardò come una bestiola spaventata. Ward passò lo sguardo su di lei e si fermò di colpo per un momento, sforzandosi di non tradire lo choc. Ormai era troppo tardi per rimediare. Si rivolse a Faye con aria disperata e si alzò. Lanciò un’occhiata a Lionel. «Conosci un medico qui in città?» «La polizia ci ha dato un nome. Ritengono che sia meglio farla visitare. E vogliono parlare con te e con la mamma.» Ward annuì. Riusciva a parlare con il figlio ma non trovava la forza di guardare John. L’unico letto della stanza, un letto matrimoniale neppure troppo ampio sul quale era sdraiata Anne, era fin troppo eloquente. Si sforzò di non pensarci. C’era un dramma più urgente, e voleva parlare alla polizia. Prese la penna e annotò i nomi degli uomini che avevano collaborato per trovare Anne, soprattutto i due che l’avevano recuperata. Lionel disse che dovevano conoscere tutti i dettagli e Ward rabbrividì al pensiero di doverli ascoltare. Ma sapeva che sarebbe stato inevitabile. Faye andò a sedere sul letto vicino ad Anne come aveva fatto Ward, ma questa volta la ragazzina trasalì. Era come far visita all’ospedale a una bambina gravemente malata. Faye la fissò, e Anne incominciò a piangere. «Vattene... non voglio stare qui...» «Lo so, tesoro, ma presto torneremo tutti a casa... a casa tua. Dormirai nel tuo letto...» «Voglio tornare da Moon e dai miei amici.» Anne singhiozzava. Aveva quattordici anni e parlava come se ne avesse cinque. E Faye non le chiese chi era Moon: probabilmente era il padre del bambino. Abbassò lo sguardo sul ventre di Anne, 290
immaginando che non fosse ancora sporgente, e soffocò un’esclamazione di orrore nel vederlo così gonfio. Doveva essere incinta di quattro o cinque mesi. Decise di chiederlo subito, qualunque cosa ne pensasse Ward. Lui non avrebbe voluto insistere, al momento. Lionel aveva ragione: Anne aveva bisogno di tempo per riadattarsi a loro. Era rimasta lontano troppo a lungo. «Di quanti mesi sei, Anne?» Faye avrebbe voluto dare alla propria voce un tono gentile, ma si accorse che invece era nervoso e brusco. Lionel le guardò disperato. «Non lo so.» Anne rispose a occhi chiusi. Non voleva vederla. La odiava. L’aveva sempre odiata, e adesso la odiava ancora di più. Era colpa sua se l’avevano portata via, se non le permettevano di tornare dove voleva. Aveva sempre rovinato tutto, imponendo la sua volontà agli altri. Ma stavolta non ci sarebbe riuscita. Dovunque la portassero, sarebbe scappata di nuovo. Ormai sapeva che era facile. «Non sei ancora stata da un dottore?» Faye era sconvolta. Anne scosse di nuovo la testa a occhi chiusi. Poi li riaprì lentamente. «I miei amici avevano cura di me.» «Da quanto tempo non hai avuto le mestruazioni?» Era come parlare con i poliziotti, pensò Anne. Anzi, era peggio. Loro, almeno, non le avevano fatto domande come quella. Sapeva che non era obbligata a rispondere. Ma lo faceva sempre. Con Faye era così: come se si aspettasse che tutti facessero quel che voleva. E Anne cedette. «Non le ho più avute da quando sono scappata.» Faye sapeva anche troppo bene che erano passati cinque mesi, e rabbrividì. Doveva essere successo quasi subito. «Sai chi è il padre?» Non avrebbe dovuto chiederlo così presto, e Lionel lanciò un’occhiata a Ward augurandosi che convincesse Faye a non fare quelle domande. Anne non era pronta, e lui temeva che fuggisse di nuovo, prima ancora che la riportassero a casa. E forse questa volta non l’avrebbero trovata. Lionel lo temeva. Ma Anne sorrise ai propri ricordi. 291
«Sì.» «È Moon?» Anne scrollò le spalle. Ma Faye non era preparata alla risposta. «Sì. E tutti gli altri.» A Faye mancò il respiro. Non era possibile. Doveva esserci un equivoco. «Tutti?» Guardò senza capire la sua bambina che non era più una bambina. Era una donna, una donna distrutta; ma non era più una bambina, e aspettava un figlio. All’improvviso Faye comprese e spalancò gli occhi inorridita. «Vuoi dire tutti gli uomini della comune?» «Sì.» Anne la guardò dolcemente, e si sollevò a sedere. La stanza le girò intorno e guardò Lionel per chiedergli aiuto. Lui si avvicinò e la sostenne mentre John le porgeva un bicchiere di spremuta d’arancia. L’avevano sospettato entrambi, da quello che la polizia aveva detto sul conto della setta; ma Faye e Ward non erano preparati. E adesso che Anne s’era messa a sedere, la gravidanza appariva ancora più evidente. Ward intervenne, pensando a tutto ciò che era accaduto alla sua bambina innocente. Guardò con fermezza Lionel, ignorando Anne. «Adesso chiamerò gli ispettori.» Era deciso a mandare in galera tutti quei figli di puttana. Faye piangeva in silenzio mentre usciva. Si aggrappò al marito, quando scesero. Non le importava nulla se anche la gente li guardava. «Mio Dio, Ward, non sarà più la stessa di prima.» Anche lui aveva paura, ma rifiutava di ammetterlo. L’avrebbe aiutata, come Faye l’aveva aiutato tanto tempo prima quando gli aveva dato una carriera che da solo non avrebbe saputo creare, gli aveva insegnato tutto fino a che era stato in grado di cavarsela con le proprie forze. Avrebbe fatto tutto il possibile; e se più tardi lei avesse voluto comunque il divorzio, si sarebbe rassegnato. Faye ne aveva il diritto, dopo ciò che lui aveva fatto. Si sentiva ancora sconvolto quando guardava Lionel e John, ma non voleva pensarci. Dovevano smettere tutti e due di sentirsi in colpa, lui per l’omosessualità di Lionel, Faye per quanto era accaduto ad Anne. Sapeva che 292
entrambi erano divorati dai rimorsi, ma a che serviva? «Si riprenderà, Faye.» Ward avrebbe voluto poter credere alle proprie parole; ma soprattutto voleva convincere sua moglie. «Deve liberarsi di quel bambino, e con tutte le droghe che ha preso Dio solo sa come sarà... un vegetale.» «È probabile. Credi che sia troppo tardi per farla abortire?» Ward la guardò con un filo di speranza e Faye rise amaramente tra le lacrime. «L’hai vista, Ward? È incinta almeno di cinque mesi.» All’improvviso Faye pensò che forse era già incinta quand’era scappata. Non lo pensava, ma ormai, con Anne, chi poteva saperlo? Andarono subito alla stazione di polizia in Bryant Street e salirono a parlare con i funzionari dell’ufficio minorenni. A quanto pareva, c’erano centinaia di casi come quello. I giovanissimi affluivano all’Haight-Ashbury da ogni angolo degli Stati Uniti, e alcuni facevano ben peggio che perdere la verginità... perdevano la vita. C’erano stati undicenni morti per un’overdose di eroina o perché s’erano buttati da una finestra sotto l’effetto dell’LSD. C’erano tredicenni, quattordicenni e quindicenni che partorivano figli illegittimi nei corridoi delle comuni, circondate dai loro amici che salmodiavano. Appena sei settimane prima una ragazza era morta dissanguata senza che nessuno chiamasse un’ambulanza. Mentre ascoltava, Faye ringraziava il cielo perché avevano trovato Anne. Si fece forza quando le parlarono della setta con cui era vissuta sua figlia. Avrebbe voluto uccidere tutti, quando seppe cos’era successo; e Ward insistette perché gli adepti venissero arrestati. Ma non c’erano speranze. Sarebbe stato difficile incriminarli tutti, e impossibile accusare un’intera tribù per lo stupro di una ragazza. E soprattutto, era questo che volevano per Anne? Non sarebbe stato più semplice portarla a casa, affidarla a un bravo psichiatra e lasciare che dimenticasse tutto, anziché coinvolgerla in un lungo processo che sarebbe stato celebrato non prima di un anno o due e che probabilmen293
te si sarebbe concluso con un nulla di fatto? Nel frattempo i giovani sarebbero spariti; le famiglie, che spesso erano ricche e influenti, li avrebbero fatti uscire su cauzione. Non aveva senso. Tra un anno o due tutto sarebbe apparso come un sogno lontano, dicevano alla polizia. Un incubo che la ragazza avrebbe dimenticato. «E la gravidanza? E quel Moon?» chiese Faye. Le dissero che non era possibile provare niente. Moon non aveva trattenuto nessuno dei giovani contro la loro volontà, e nessun membro della setta sarebbe stato disposto a testimoniare a suo carico... probabilmente neppure Anne. Più tardi scoprirono che era effettivamente così. Provava un amore irragionevole per quell’uomo e rifiutava di parlare di lui, persino con Lionel. Non c’era niente da fare, riconobbero alla fine Faye e Ward. E per quanto sembrasse mostruoso, forse alla polizia avevano ragione. Era meglio portarla a casa, farla curare, farla partorire quel figlio mostruoso e lasciare che dimenticasse tutto, se era disposta a farlo. Lionel pensava che alla fine ci sarebbe riuscita, e John non diceva nulla. Aveva ancora terrore di Ward Thayer e temeva che perdesse di nuovo il controllo e lo aggredisse, anche se Lionel giurava che non l’avrebbe permesso e anche se Ward non sembrava perdere l’autocontrollo se non quando parlava di Moon e della setta. Con grande sollievo di John, adesso la sua collera era rivolta contro quegli altri. La notte vegliarono Anne a turno e l’indomani mattina i Thayer parlarono del ritorno a casa, mentre John restava con lei. Faye era ansiosa di portarla via e di accompagnarla in un ospedale per un controllo, sebbene Lionel ritenesse più opportuno aspettare qualche giorno. Adesso Anne era abbastanza lucida, ma era estremamente paranoide; e ci sarebbero voluti ancora alcuni giorni perché ritornasse normale. Ward era d’accordo con Faye, ma non se la sentiva di caricare la figlia su un aereo, così ridotta e disorientata. Alla fine arrivarono a un compromesso. Ward telefonò all’MGM e noleggiò l’aereo dello studio, per tutti. Sarebbe venuto a prenderli a 294
San Francisco quella sera alle sei e li avrebbe portati a Los Angeles. Volle parlare di nuovo con la polizia e poi si mise in contatto con il suo avvocato, che sostanzialmente era della stessa opinione. Non vennero presentate denunce e quel pomeriggio alle quattro e mezzo infagottarono Anne in una vestaglia che Faye le aveva comprato in Union Street, presero un tassì e si recarono all’aeroporto. Anne non fece altro che singhiozzare durante il tragitto, e loro quattro si sentirono un po’ come sequestratori mentre il giovane tassista li guardava irritato. Nessuno parlò. Anne non aveva la forza di camminare e Ward la portò in braccio sull’aereo e per la prima volta dopo due giorni bevve qualcosa di forte, mentre Faye e i due ragazzi si accontentarono di un po’ di vino. Fu un viaggio difficile per tutti, e Lionel e John si sentivano tesi in presenza di Ward. Non parlava mai con loro; quand’era possibile si rivolgeva a Faye e lasciava che fosse lei a girare le domande, come se avesse paura di contaminarsi. Quando la berlina dell’MGM lasciò i ragazzi davanti a casa loro prima di proseguire, John tirò un enorme sospiro di sollievo. «Non sapevo proprio che cosa dirgli.» Aspirò l’aria a pieni polmoni e guardò con aria di scusa Lionel, che lo capiva perfettamente. «Non prendertela. Neppure io so cosa dirgli. Ma anche lui si sente a disagio con noi.» Era stata una tregua inquieta e Lionel era sicuro che suo padre non aveva cambiato idea e non avrebbe revocato il bando. Non si sentiva più gradito in famiglia di quanto lo fosse stato tre o quattro mesi prima, e non sbagliava. «Si comporta come se l’omosessualità sia una malattia contagiosa e temesse di prenderla da noi.» Lionel sorrise. Era piacevole essere tornati, o almeno così pensava. Faye aveva continuato a pagare le loro stanze nella casa vicino all’UCLA per tutti quei mesi; e non avevano visto i coinquilini da quando erano partiti in gennaio. Ma non potevano andare in casa dei genitori di Lionel e neppure dai Wells, che sarebbero rimasti troppo sconvolti se avessero saputo 295
quanto era successo ad Anne. Salirono la scala: erano tornati a casa per la prima volta dopo mesi, e non vedevano l’ora di disfare i bagagli e di mettersi tranquilli. Parlavano entrambi d’incominciare le sessioni estive tra qualche settimana. Ora potevano ritornare alla vita reale... ma avevano dimenticato che cosa significava fingere e nascondersi. E all’improvviso, quando entrarono in un soggiorno pieno di ragazzi del secondo e del terzo anno che bevevano birra, ricordarono la sofferenza che avevano dimenticato dopo cinque mesi passati a vivere in albergo mentre cercavano Anne. Dovevano ricominciare a nascondersi, e questo pensiero li deprimeva entrambi mentre riponevano la loro roba. Lionel entrò nella stanza di John. Si scambiarono un’occhiata. Si chiesero se tutti sapevano di loro. Avevano la sensazione che si vedesse chiaramente e Lionel non sapeva se gli importava di loro o no, ormai. Sì, era gay. Sì, era innamorato di John. Assunse un’aria quasi bellicosa mentre andava in cucina e si versava una birra, ma nessuno disse niente. E quelli che sapevano della fuga di Anne si rallegrarono perché l’aveva trovata. Anche uno degli altri aveva una sorella che era fuggita di casa... una dodicenne che non era stata ancora rintracciata. I genitori temevano che fosse morta, e il fratello era convinto che anche lei fosse andata a San Francisco. Ne parlarono per un po’; e Lionel ebbe l’impressione che ci fosse una luce strana negli occhi del ragazzo, come se volesse chiedergli qualcosa ma non osasse. E in casa Thayer tutti erano depressi. Le gemelle erano rimaste sconvolte quando avevano visto Ward che portava in braccio Anne. Non avevano immaginato che stesse così male, e quando Anne si alzò sulle gambe malferme e le videro il ventre, Vanessa si lasciò sfuggire un’esclamazione e Valerie non riuscì a credere ai propri occhi. «Che cosa farà?» Più tardi, quella sera, lo chiesero a Faye. E Faye, che non s’era mai sentita così stanca in vita sua, non seppe cosa rispondere. L’indomani la portarono da un medico ed ebbero il sollievo 296
di sentirsi dire che non c’erano tracce di violenza. Qualunque cosa avesse fatto, era stato di sua spontanea volontà, e non aveva segni o cicatrici. Il dottore calcolò che il bambino sarebbe nato il 12 ottobre, consigliò di farla riposare per sei settimane, se il parto fosse avvenuto alla data prevista; e poi Anne avrebbe potuto tornare a scuola dopo le vacanze di Natale. Avrebbe perso esattamente un anno, e avrebbe potuto finire l’ottava classe dopo il parto, e in seguito iscriversi alle medie superiori. Parlavano tutti come se fosse la cosa più semplice del mondo, e Anne li fissava. Poi Faye affrontò l’argomento che aveva già discusso con il medico. Naturalmente era tardi per un aborto, che sarebbe stato la soluzione più facile... se Anne avesse acconsentito, ma a questo avrebbe provveduto Faye. Ed era impossibile sapere quali e quante droghe aveva preso dopo il concepimento e quali effetti avevano avuto. Ma anche se il bambino avesse avuto qualche piccola menomazione, c’erano tante coppie senza figli che sarebbero state felici di adottarlo. Per loro, la cultura dell’Haight-Ashbury era stata una benedizione. Adesso c’erano dozzine di bambini che venivano dati in adozione, nati da ragazze che qualche anno prima si sarebbero guardate dal restare incinte. Erano tutte o quasi ragazze del ceto medio che andavano a letto con ragazzi della stessa estrazione sociale nelle comuni spuntate come funghi. E quando nascevano i figli, non volevano tenerli. C’era qualche eccezione, naturalmente, ma in maggioranza volevano essere libere di godersi i giorni del sole, della pace e dell’amore senza il peso sgradevole della responsabilità. E il dottore, spiegò, sarebbe stato felice di dare una mano. Solo a Los Angeles conosceva quattro coppie che desideravano uno di quei bambini. Ognuna di quelle coppie avrebbe potuto assicurare al piccolo una vita agiata, e per Anne sarebbe stata una fortuna. Avrebbe potuto ritornare all’esistenza di una quattordicenne, e dimenticare ciò che era accaduto. Faye e il dottore sorrisero e Anne li guardò inorridita e si trattenne a stento dall’urlare. «Volete dare via il mio bambino?» Scoppiò in pianto. Faye 297
cercò di abbracciarla, ma lei la respinse. «Non lo farò mai! Mai! Hai capito?» Ma Faye non aveva dubbi. L’avrebbero obbligata a rinunciare al bambino. Non aveva bisogno di trascinarsi dietro per il resto della vita un piccolo mongoloide che le avrebbe ricordato un incubo da dimenticare. No, assolutamente no. Scambiò un’occhiata eloquente con il dottore. Avevano quattro mesi e mezzo di tempo per convincere Anne che sarebbe stato meglio per lei. «Più tardi cambierai idea, Anne. Sarai felice di aver rinunciato al bambino. Può darsi che non sia neppure normale.» Faye si sforzò di conservare un tono calmo, ma si sentiva terrorizzata. E se Anne fosse fuggita di nuovo? Se si fosse ostinata a tenere il bambino? L’incubo non voleva finire. Per tutto il tragitto di ritorno Anne restò raggomitolata in un angolo della macchina a guardare dal finestrino mentre le lacrime le rigavano il viso. Quando Faye si fermò davanti a casa cercò di prenderle la mano ma Anne la ritrasse e si rifiutò di guardarla. «Tesoro, non puoi tenere il bambino. Ti rovinerebbe la vita.» Faye ne era sicura, e sapeva che Ward la pensava come lei. «La rovinerà a te o a papà?» Anne fissò cupamente la madre. «Siete imbarazzati perché sono incinta, ecco tutto. E volete distruggere la prova. Che cosa intendi fare di me per i prossimi quattro mesi? Nascondermi nel garage? Puoi fare tutto quello che vuoi, ma non puoi portarmi via il mio bambino.» Scese correndo dalla macchina e Faye non si trattenne più e urlò. Quegli ultimi giorni, anzi quegli ultimi mesi, erano stati troppo per lei. «Sì che possiamo farlo. Possiamo fare tutto quel che vogliamo! Non hai neppure quindici anni!» Si odiava per aver detto quelle parole. E quel pomeriggio Anne sparì di nuovo. Ma questa volta andò soltanto da Lionel, e si confidò singhiozzando con lui e con John. «Non lascerò che me lo portino via... non voglio... non voglio!» Anche lei sembrava una bambina ed era difficile 298
credere che fosse incinta. E anche se nell’Haight era diventata adulta, era ancora così giovane. Lionel non sapeva come dirglielo, ma era d’accordo con sua madre. E anche John. Ne avevano parlato la notte precedente, a letto, bisbigliando perché gli altri ragazzi non li sentissero. In albergo era stato molto meglio, ma adesso dovevano affrontare la realtà anche loro come Anne. «Piccola...» Lionel la guardò con pietà e le prese dolcemente la mano. Somigliava moltissimo alla madre, ma Anne non voleva riconoscere la rassomiglianza tra loro. Il fatto che fosse tanto simile a Faye era l’unica cosa che lo facesse sentire un po’ più vicino a Ward, anche se non molto. «Forse non hanno torto. Sarebbe una responsabilità terribile, e non è giusto imporla alla mamma e a papà.» Anne non ci aveva neppure pensato. «Allora mi troverò un lavoro e provvederò io a mio figlio.» «E chi ne avrà cura mentre tu sarai a lavorare? Capisci cosa voglio dire? Piccola, non hai neppure quindici anni...» Lei si mise a piangere. «Parli come uno di loro...» E Lionel non l’aveva mai fatto. Non sopportava di sentirselo dire da lui; lo guardò con aria straziata. «Li, è il mio bambino... non posso abbandonarlo.» «Un giorno ne avrai altri.» «E con questo?» Anne era inorridita. «E se ti avessero dato via perché un giorno avrebbero avuto me?» Lionel rise di quell’esempio e la guardò affettuosamente. «Credo che dovresti pensarci. Non è necessario che decida subito.» Anne promise che l’avrebbe fatto; ma appena ritornò fece una litigata tremenda con Val, perché pretendeva che restasse in camera ogni volta che venivano i suoi amici. «Diventerei lo zimbello della scuola, se tutti sapessero che sei incinta. E fra un anno ci andrai anche tu, non vorrai che lo sappiano.» Quella sera Faye rimproverò Valerie per la sua crudeltà, ma ormai era tardi. Anne era andata in camera sua, dopo 299
cena, e aveva fatto le valige. Alle dieci era di nuovo nel soggiorno di Lionel. «Non posso più vivere con loro.» Gli spiegò perché e Lionel sospirò. Sapeva quanto era difficile, ma non poteva fare molto per lei. Quella notte le cedette il suo letto e le disse che l’indomani avrebbero trovato una soluzione. Telefonò a Faye per avvertirla; lei aveva già chiamato Ward, e Lionel aveva l’impressione che avesse intenzione di passare la notte a casa... tuttavia non lo chiese. Disse agli altri ragazzi che avrebbe dormito sul pavimento; ma naturalmente dormì con John e raccomandò ad Anne di stare attenta a quel che diceva perché i suoi coinquilini non sapevano che erano gay. E l’indomani, quando uscirono tutti e tre a fare una passeggiata, Lionel rimase imbarazzato per una domanda che gli fece la sorella. «Davvero tu e John dormite insieme tutte le notti?» Lionel stava per dire qualcosa, poi cambiò idea. «Sì.» «Come marito e moglie?» Con la coda dell’occhio, Lionel vide John arrossire. «Più o meno.» «Che strano.» Anne non lo disse maliziosamente e Lionel rise. «Sì, credo di sì. Ma così stanno le cose.» «Non so perché la gente si scandalizza tanto, voglio dire come papà. Se vi amate, che differenza fa quello che siete... un uomo e una donna, oppure due ragazzi o due uomini?» Lionel si chiese che cosa aveva visto sua sorella nella comune, e rammentò ciò che gli avevano detto alla polizia. Con ogni probabilità Anne aveva fatto anche numerose esperienze omosessuali: ma non glielo chiese, e comunque dovevano essere state indotte dalle droghe e praticate in gruppo, date le tendenze della setta. Non voleva chiederglielo. Forse Anne non ricordava più quel che aveva fatto. Era molto diverso dal rapporto tra lui e John, che era un vero rapporto d’amore. Ma guardò Anne e pensò che era strano vederla così, un po’ donna e un po’ bambina. «Non tutti la pensano come te. Per certa gente è spaventoso.» 300
«Perché?» «Perché è diverso dalla norma.» Anne sospirò. «Come il fatto che sono incinta a quattordici anni.» «Forse.» Quelle parole gli ricordarono ciò che avevano deciso di fare con lei. Quella notte ne aveva parlato con John e avevano avuto un’idea. Lionel aveva già telefonato a Faye. In un certo senso, sarebbe stato più facile anche per lei e per Ward. E Lionel aveva ragione, ovviamente. Aveva sempre avuto una grande intuizione e non sbagliava neppure questa volta. Ward aveva passato la notte in casa. Fu lui a rispondere al telefono, ma non disse una parola a Lionel. Ancora una volta Lionel non esisteva nella vita dei Thayer. Adesso che aveva trovato Anne potevano fare di nuovo a meno di lui, o comunque poteva farne a meno Ward. Passò il ricevitore a Faye, e Faye gli riferì la proposta, quando ebbe riattaccato. «Lionel vuole sapere cosa penseremmo se prendessero un appartamento vicino alla scuola e tenessero con loro Anne fino alla nascita del bambino. E più tardi lei potrà tornare a stare qui, e troveranno un ragazzo al quale affittare la stanza. Cosa te ne pare?» Guardò attentamente Ward mentre prendevano il caffè. In un certo senso era bello riaverlo lì anche se era soltanto per una notte o due. Ma le dava un certo sostegno in quei momenti difficili. Ward aggrottò la fronte pensando all’idea di Lionel. «Immagini cosa le toccherà vedere, con quei due?» Il solo pensiero dava la nausea a Ward. Faye scattò. «Immagini quello che ha fatto lei nella comune, Ward? Siamo sinceri!» «D’accordo, d’accordo. Non parliamone.» Ward non voleva pensare a ciò che era successo alla sua bambina. E non voleva che si installasse con Lionel e John in un nido di froci. Ma era evidente che non voleva tornare a casa con loro e quella soluzione avrebbe dato un po’ di tregua a lui e a Faye. Adesso in casa vivevano soltanto le gemelle, e non c’erano 301
mai. Erano sempre in giro con gli amici, soprattutto Val. Ward guardò Faye. «Lasciami il tempo di pensarci.» Non era ancora sicuro che l’idea gli piacesse; ma più rifletteva e più doveva ammettere che non era male. E i ragazzi furono sollevati quando Faye glielo riferì. S’erano resi conto che per loro era impossibile continuare a vivere con gli altri nella vecchia casa, e nessuno dei due voleva più fingere. A vent’anni, Lionel era pronto ad ammettere di essere gay, e anche John. Faye li aiutò a trovare un grazioso appartamentino a Westwood, non lontano dalla casa dove avevano vissuto con gli altri amici, e si offrì di arredarlo; ma in pochi giorni John compì la sua magia con quello che aveva a disposizione e Faye rimase sorpresa nel vedere i risultati. John aveva comprato metri e metri di flanella grigio chiara e di seta rosa e aveva trasformato l’appartamento, tappezzando di stoffa le pareti, rivestendo due divani che avevano comprato d’occasione per cinquanta dollari; aveva scovato alcune belle stampe in negozietti sconosciuti e aveva riportato in vita diverse piante moribonde. Sembrava un appartamento sofisticato realizzato da un arredatore professionista e John si sentì lusingato dagli elogi di Faye. Mary Wells era orgogliosa del figlio; e gli regalò uno specchio molto bello da appendere sopra il camino. Provava una gran pena per la povera, piccola Anne e ringraziava il cielo che non fosse capitato a una delle sue figlie. E Anne non era mai stata tanto felice in vita sua. Teneva in ordine l’appartamento e diceva che si trovava anche meglio che nella comune. Imparò da John a cucinare l’anatra arrosto. John era un ottimo cuoco e ogni sera preparava la cena per tutti. Lionel aveva ripreso gli studi; seguiva la sessione estiva di cinematografia per rifarsi del tempo perduto e riprendere regolarmente in autunno. Ma John aveva compiuto un grande passo. Non voleva andare all’UCLA: l’abbandonò definitivamente e si trovò un lavoro presso un noto arredatore di Beverly Hills. Il principale era cotto di lui ed era un problema tenerlo a bada tutto il giorno; ma l’esperienza nel 302
campo professionale era favolosa. John sbrigava tutto senza avere riconoscimenti; ma adorava le case che andava realizzando e ogni sera parlava del suo lavoro. Aveva incominciato in luglio; verso la fine di agosto l’arredatore aveva finalmente capito e s’era deciso a lasciarlo in pace. Gli aveva detto di Lionel e aveva spiegato che era una cosa seria. L’arredatore aveva riso, pensando che sarebbe stata solo questione di tempo. «Ragazzi», aveva mormorato. Ma era soddisfatto della collaborazione di John e non lo infastidiva più. Faye passava ogni tanto a trovarli. Ward era tornato con lei, e stavano cercando di rimettere insieme i cocci. Ne parlava a Lionel quand’erano soli, ma non di fronte ad Anne; e gli chiedeva se era riuscito a convincerla a rinunciare al bambino. Ormai mancavano meno di due mesi al parto e la poverina era molto ingrossata. Non sopportava il caldo e l’appartamento non aveva l’aria condizionata, ma John aveva comprato ventilatori per tutti. Insisteva per pagare metà dell’affitto, dato che adesso aveva un impiego mentre Lionel studiava ancora, e Faye era commossa dell’impegno con cui lavorava e della cura che aveva per tutti. Un giorno guardò il figlio con tenerezza. «Sei felice, Li, non è vero?» Era importante saperlo. Lionel aveva sempre significato molto per lei. Ed era affezionata a John; lo era sempre stata, ma adesso lo era ancora di più dopo che aveva aiutato a ritrovare Anne. «Sì, mamma.» Era diventato adulto, anche se non era ciò che s’erano aspettati lei e Ward. Ma forse, dopotutto, questo non contava. A volte si poneva tanti interrogativi, ma era ancora impossibile discuterne con Ward. «Ne sono contenta. E Anne? Rinuncerà al bambino?» Il dottore aveva trovato due coniugi che erano interessati all’adozione. Lei aveva trentasei anni, lui quarantadue; entrambi erano sterili e le agenzie dicevano che ormai erano troppo vecchi per adottare un figlio. La moglie era ebrea e lui era cattolico. Non si preoccupavano neppure per la possibilità che il bambino avesse qualche menomazione causata dalle droghe: 303
erano disperati e sostenevano che l’avrebbero amato comunque. In settembre, Faye insistette perché Anne li conoscesse. Erano molti nervosi e molto solleciti, e quasi la imploravano di dare a loro il suo bambino. Le promisero che avrebbe potuto andare a trovarlo, anche se il dottore e gli avvocati lo sconsigliavano. Un paio di volte queste cose avevano portato a incidenti terribili e a rapimenti, dopo che tutti i documenti erano stati firmati. Era meglio dare un taglio netto, dicevano: ma i due coniugi erano pronti ad accettare qualunque condizione. La donna aveva i capelli neri e bellissimi occhi scuri, una figura armoniosa e una notevole intelligenza. Era un’avvocatessa originaria di New York, e il marito era un oftalmologo dai lineamenti che ricordavano un po’ quelli di Anne. Poteva darsi che il piccino somigliasse un po’ a loro, se avesse preso da Anne e non dal resto della comune, pensava Faye. I due coniugi erano care persone, e Anne si commosse. «Come mai non possono avere figli?» chiese mentre Faye la riaccompagnava in macchina a casa di Lionel. «Non l’ho chiesto. So soltanto che non possono averne.» Faye pregava il cielo che sua figlia fosse ragionevole. Avrebbe voluto che anche Ward le parlasse, ma lui era via. Aveva pregato Faye di partire con lui perché pensava che avessero bisogno di una nuova «luna di miele», adesso che erano di nuovo insieme. Ma Faye non si fidava a lasciare Anne prima della nascita del bambino. Se le fosse successo qualcosa, se avesse partorito in anticipo? Il dottore diceva che a volte succedeva, con le adolescenti... e aveva avvertito che soffrivano molto, ancora di più delle donne della sua età, e questo l’aveva sorpresa. Ormai Faye aveva quarantasei anni, e l’ultima cosa cui pensava erano i bambini. Ma aveva troppa paura che Anne soffrisse e perciò aveva rifiutato di partire con Ward. Avevano a disposizione un po’ di tempo tra un film e l’altro, ma lei preferiva restare vicina ad Anne. Così, Ward era andato in Europa con Greg, e Faye pensava che stare lontani per un po’ avrebbe fatto bene a entrambi. Il momento del parto si avvicinava e Anne non aveva anco304
ra deciso nulla. Era così ingrossata che sembrava incinta di due gemelli, e a Lionel faceva una pena immensa. Sembrava che soffrisse di dolori continui e lui sospettava che fosse spaventata. Non le dava torto: al suo posto sarebbe stato terrorizzato. E si augurava di essere a casa quando fosse venuto il momento. Se no, John aveva promesso che sarebbe arrivato dal lavoro in tassì e l’avrebbe accompagnata all’ospedale. Era molto più facile contattare lui che Lionel. Anne aveva espresso l’intenzione di mettere al mondo il bambino in casa, come facevano nella comune; ma l’avevano dissuasa, e Faye aveva fatto promettere che l’avrebbero avvertita immediatamente. Lionel s’era impegnato, ma Anne lo supplicava di non farlo. «Mi ruberà il bambino, Li.» Gli occhi azzurri avevano un’espressione implorante che lo commuoveva. Adesso Anne aveva paura di tutto. «Non lo farà. Vuole soltanto esserti vicina. E nessuno ti ruberà il bambino. Dovrai decidere tu.» Ma Lionel cercava d’influenzarla. Pensava che sua madre avesse ragione. A quattordici anni e mezzo, Anne non aveva certo bisogno del peso di un figlio. Lei stessa era ancora una bambina. E ne fu maggiormente sicuro la notte in cui incominciarono le doglie. Anne si spaventò e si chiuse a chiave nella sua stanza singhiozzando istericamente, e Lionel e John minacciarono di sfondare la porta. Alla fine, mentre lui le parlava in tono suadente, John salì sul tetto, entrò dalla finestra e aprì la porta per farlo entrare. Anne era sul letto e singhiozzava istericamente, disfatta dalla sofferenza, e c’era acqua sul pavimento. Le acque s’erano rotte un’ora prima e i dolori erano tremendi. Ma Anne buttò le braccia al collo di Lionel e singhiozzò. «Oh, Li, ho paura... ho tanta paura...» Nessuno le aveva detto che avrebbe sofferto tanto. Mentre la portavano all’ospedale in tassì, gemette e si piantò le unghie nelle palme delle mani, e poi rifiutò di seguire l’infermiera. Si aggrappò al fratello e lo supplicò di restare con lei; ma poi arrivò il dottore e due infermiere la portarono via, urlante, sulla sedia a rotelle. 305
Lionel era visibilmente sconvolto e John pallidissimo, quando parlarono con il medico. «Non può darle un sedativo?» «No, purtroppo. Rischierebbe di rallentare il travaglio. È giovane, e dimenticherà tutto.» Sembrava difficile crederlo, e il dottore sorrise con aria comprensiva. «È dura per le ragazze della sua età: non sono preparate al parto, fisicamente e psicologicamente. Ma lo supererà e si riprenderà benissimo.» Lionel non ne era sicuro. La sentiva urlare in fondo al corridoio, e si chiedeva se non avrebbe dovuto starle al fianco. «Ha già chiamato sua madre?» Li scosse la testa, nervosamente. Erano le undici di sera, e non sapeva se fosse addormentata; ma sapeva che si sarebbe indignata se non le avessero telefonato, e perciò compose con mano tremante il vecchio numero di casa. Fu Ward a rispondere, e Lionel disse immediatamente: «Sono in ospedale con Anne». Ward non perse tempo a passare il telefono a Faye. Per una volta, parlò direttamente con il figlio. «Veniamo subito.» Mantenne la parola. Dopo dieci minuti erano al Centro Medico dell’UCLA, un po’ in disordine ma sveglissimi. Il dottore fece un’eccezione alla regola e permise a Faye di stare con Anne, almeno finché restava in sala travaglio. Nessuno immaginava quanto sarebbe durato. Neppure il dottore lo sapeva, sebbene di solito fosse in grado di azzeccare le previsioni; ma con le adolescenti non c’era niente di sicuro... poteva darsi che Anne si sgravasse in fretta o che impiegasse tre giorni. La dilatazione procedeva bene, ma dopo ogni fase c’era una pausa di ore, e lei implorava aiuto, supplicava che le dessero qualcosa, stringeva convulsamente la mano della madre, cercava di alzarsi per fuggire e si accasciava in preda ai dolori, si aggrappava alle pareti e chiedeva alle infermiere di lasciarla andare. Era la cosa più tremenda che Faye avesse mai visto e non s’era mai sentita così impotente in tutta la sua vita. Non poteva fare nulla per aiutare la figlia. Uscì una sola volta, per dire qualcosa a Ward. Voleva che l’indomani mattina chiamasse subito l’avvocato, nel caso che Anne accettasse di rinunciare al bambino subito dopo la nascita. 306
Le avrebbero fatto firmare subito i documenti. Dopo sei mesi avrebbero dovuto essere confermati per renderli definitivi; ma allora il bambino sarebbe già stato lontano e Anne avrebbe ricominciato a vivere normalmente. Ward promise di telefonare all’avvocato il mattino seguente, e Faye gli consigliò di andare a casa. Forse ci sarebbero volute molte ore, e i tre uomini acconsentirono. Ward accompagnò Lionel e John al loro appartamento, senza parlare molto, e i due ragazzi salirono. Erano già le quattro del mattino e Lionel si rese conto che quella notte non sarebbe riuscito a dormire. Si alzò più volte furtivamente per telefonare all’ospedale; ma non c’erano novità. Anne era ancora in sala travaglio e il bambino non era nato. Era ancora in sala travaglio il pomeriggio seguente, quando John tornò dal lavoro e trovò Lionel seduto accanto al telefono. Erano le sei, e rimase sbalordito. «Mio Dio, non ha ancora avuto il bambino?» Non poteva immaginare che fosse una cosa tanto lunga. Anne era entrata in travaglio la sera prima alle otto, e soffriva già terribilmente quando l’avevano portata all’ospedale. «Come sta?» Lionel era pallido. Aveva telefonato già tante volte all’ospedale, e c’era andato per qualche ora, ma sua madre non era neppure uscita per parlare con lui. Non aveva voluto lasciare Anne. Lionel aveva notato una coppia che attendeva nervosamente in sala d’aspetto con l’avvocato dei Thayer, e aveva intuito chi erano. Erano ancora più ansiosi che nascesse il piccolo. E il medico prevedeva che ormai mancassero poche ore. Era già tutto il pomeriggio che si vedeva la testa, e Anne era pronta a spingere, ma ci sarebbe voluto ancora un po’ di tempo. E se non ci fossero stati progressi prima delle otto o delle nove di sera, sarebbe intervenuto con un taglio cesareo. «Dio sia ringraziato», disse John. Nessuno dei due se la sentiva di mangiare. Erano troppo preoccupati per Anne. Alle sette Lionel chiamò un tassì per tornare in ospedale. «Voglio starle vicino.» John annuì. «Verrò anch’io.» L’avevano cercata per cinque mesi, e per altri cinque avevano abitato con lei. John 307
aveva l’impressione che fosse un poco anche sua sorella, e la casa non gli sembrava più la stessa, senza i suoi vestiti, i suoi libri e i suoi dischi sparsi un po’ dovunque. Una volta aveva minacciato rappresaglie se Anne non avesse tenuto in ordine i vestiti, e lei aveva riso, l’aveva preso in giro e aveva risposto che avrebbe raccontato a tutti che era frocio. Gli faceva una pena immensa. Doveva soffrire molto, e quando vide la faccia di Faye Thayer, poco dopo le nove, John incominciò a capire cosa stava passando quella ragazzina. «Non riescono a farlo uscire», riferì Faye a Ward, che era tornato all’ospedale. «E il dottore non vuole praticare un taglio cesareo su una di quell’età se non si renderà indispensabile.» Ma Faye non aveva mai visto nessuno soffrire così. Anne urlava e implorava, e delirava per i dolori. Non potevano far nulla per lei. L’incubo continuò per altre due ore mentre Anne li supplicava di ucciderla... di uccidere il bambino... fino a che la testolina emerse, e poi anche il corpo, lentamente, lacerando la madre e causandole sofferenze tremende fino alla fine. E allora tutti capirono perché era stato così tremendo per Anne. Il bambino era molto grosso, pesava più di quattro chili e mezzo, e Faye non riusciva a immaginare uno strazio più atroce per una creatura così fragile. Era come se ogni uomo che l’aveva penetrata avesse contribuito a formare il bambino. Faye lo guardò con le lacrime agli occhi: lacrime per le sofferenze che aveva causato ad Anne e per la sua vita che non avrebbe più sfiorato la loro. Qualche ora prima, Anne aveva accettato di cederlo. In quel momento avrebbe consentito a tutto. Adesso il dottore le mise la maschera per somministrarle l’anestetico. Lei non vide il bambino, non seppe quanto era grosso, non si accorse di nulla mentre la suturavano, e Faye lasciò in silenzio la sala parto, compiangendo la figlia per la sofferenza che aveva sopportato, per l’esperienza che probabilmente non avrebbe dimenticato mai, per il figlio che non avrebbe mai conosciuto, diversamente dai suoi che nel corso degli anni le avevano dato gioie e dispiaceri, ma che non aveva mai rimpianto 308
di avere messo al mondo. E adesso il suo primo nipote stava per essere dato in adozione, e non l’avrebbe più visto. Lo misero in un cestello di polietilene e lo portarono nella nursery per ripulirlo e affidarlo ad altri. Mezz’ora dopo, mentre lasciava l’ospedale con Ward, vide la signora dai capelli scuri che lo teneva in braccio, con il viso rigato di lacrime e un’espressione d’amore negli occhi. L’avevano atteso quattordici anni e lo accettavano com’era, senza sapere chi fosse il padre o quali lesioni avessero causato le droghe. Lo accettavano con affetto, senza condizioni, e Faye strinse forte la mano di Ward mentre uscivano, e aspirò a pieni polmoni l’aria notturna. Il dottore aveva detto che Anne avrebbe dormito a lungo. Adesso, grazie a Dio, era sotto l’effetto dei sedativi. Quella notte, a letto, Faye pianse a lungo tra le braccia di Ward. «Era così terribile... gridava tanto...» Singhiozzava irrefrenabilmente. Era stato quasi insopportabile restare ad assistere; ma adesso era finito. Per tutti. Tranne che per la coppia che aveva preso il figlio di Anne. Per loro era appena incominciato.
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tennero Anne all’ospedale per una settimana perché si riprendesse fisicamente e psicologicamente. Il dottore disse a Faye che con il tempo sarebbe guarita. Le davano il Valium e il Demerol per i dolori. Aveva subito gravi lacerazioni a causa della testa del bambino. Ma soprattutto si rendevano conto che sarebbero rimaste le cicatrici emotive. Tutti i giorni uno psichiatra andava a parlare con lei, ma Anne non diceva mai nulla: restava immobile sul letto a guardare il soffitto o la parete, e ogni giorno dopo un’ora lo psichiatra finiva per andarsene. Non diceva niente a Faye, a Ward, alle gemelle e neppure a Lionel quando veniva con John, a orari diversi da quelli di Ward e Faye. Lionel le portò un enorme orsacchiotto di peluche, augurandosi che non le ricordasse il bambino perduto. Il piccino aveva lasciato l’ospedale tre giorni dopo la nascita. I nuovi genitori se l’erano portato via in un elegante completino bianco e celeste firmato da Dior e avvolto in due copertine confezionate apposta dalla nuova nonna. Avevano mandato ad Anne un enorme cesto di fiori, ma lei non li aveva voluti. Non voleva nulla che le ricordasse quei due. Odiava se stessa per ciò che aveva fatto; ma durante quelle prime ore dopo il risveglio si sentì così male che si augurò di non vedere mai il bambino. Solo molto tempo dopo che l’ebbero portato via rimpianse di non averlo visto in viso, almeno una volta, per poterlo ricordare... e a quel pensiero i suoi occhi si riempirono di lacrime. Tutti dicevano che aveva fat310
to la cosa migliore; ma li odiava, e odiava se stessa, e lo diceva a Lionel, mentre John stentava a dominare le lacrime. Se fosse stata sua sorella, sarebbe morto per lei, e si sforzava di rasserenarla. Anche se le sue battute scherzose erano di cattivo gusto, erano dettate dalle migliori intenzioni. Era molto addolorato per lei. «Potremmo decorare a nuovo la tua stanza in nero. In negozio ho un magnifico velluto a coste nere... e potremmo drappeggiare di tulle nero le finestre e spargere qua e là qualche ragnetto nero.» Socchiuse gli occhi con aria assorta, e Anne rise, per la prima volta dopo una settimana. Ma quando venne il momento di lasciare l’ospedale, furono Ward e Faye che si presentarono. Avevano parlato a Lionel quel giorno, o meglio gli aveva parlato Faye, e gli aveva spiegato che intendevano portarla a casa. Lionel e John erano liberi di affittare la sua stanza a un amico o di farne ciò che preferivano. Ormai non serviva più, e Anne doveva tornare a riprendere la vita in famiglia. Anne fu ancora più depressa quando lo seppe; ormai non aveva la forza di discutere. Durante le settimane che seguirono rimase nella sua stanza; quasi sempre rifiutava di mangiare e mandava all’inferno le gemelle quando si affacciavano per salutarla; per la verità lo facevano di rado anche se Vanessa ci aveva provato diverse volte. Cercava di stabilire un contatto con Anne portandole dischi e libri e qualche mazzo di fiori. Ma Anne rifiutava di lasciarsi incantare. Chiudeva il proprio cuore a tutti. Solo per la festa del Ringraziamento si decise a pranzare di nuovo con gli altri. Lionel non c’era, e non c’era neppure Greg che aveva una partita importante a scuola. E Anne tornò nella sua stanza il più presto possibile. Non aveva nulla da dire a nessuno, neppure a Vanessa che pure era così premurosa, e a Faye, alla quale si leggeva ancora negli occhi la sofferenza. Anne li odiava tutti. Pensava solo al bambino che aveva ceduto. Adesso aveva cinque settimane. Si chiedeva se per il resto della sua vita avrebbe ricordato esattamente la sua età in ogni momento. Adesso, almeno, poteva sedersi; 311
ed era già qualcosa, le disse Lionel quando la venne a trovare in assenza del padre. Ward sapeva di quelle visite ma non diceva nulla, purché Lionel e John non si facessero vedere da lui. Non aveva cambiato idea sul loro conto. Per Natale, Faye lo supplicò di permettere d’invitare Lionel a pranzare con loro, ma Ward rifiutò di piegarsi. «Ho preso una posizione e intendo mantenerla. Disapprovo il suo modo di vivere e voglio che il resto della famiglia lo sappia, Faye.» Era irriducibile, e Faye continuò a discutere con lui giorno e notte. Non era un santo. L’aveva tradita più di una volta. Ma Ward s’indignava nel sentir paragonare le sue avventure eterosessuali con l’omosessualità di Lionel. «Sto solo cercando di farti capire che anche tu sei un essere umano.» «È un frocio, maledizione!» Ward provava ancora l’impulso di piangere quando ci pensava. «È un gay.» «È un anormale e io non lo voglio in casa mia. È chiaro?» Era tutto inutile. Faye non riusciva a smuoverlo. A volte era quasi dispiaciuta che fosse tornato a casa. Il loro matrimonio non era più quello di un tempo, e il problema di Lionel non migliorava la situazione. Era una causa continua di attriti e di angosce. Per fortuna avevano incominciato un altro film e Faye non era quasi mai a casa. Era grata che Lionel venisse a trovare Anne. Qualcuno doveva parlare con lei. Aveva sofferto moltissimo e Lionel aveva sempre saputo come parlarle. Ma le sembrava così ingiusto chiudergli la porta in faccia. Odiava Ward per questo e adesso lo guardava con rancore. Eppure, nonostante la collera, c’era l’amore che aveva sempre provato per lui. Ward Thayer era stato il suo mondo e la sua vita per tanto tempo che, santo o peccatore che fosse, non poteva immaginare di stare senza di lui. E il giorno di Natale Lionel non era con loro, e non appena la famiglia si alzò da tavola Anne uscì e andò a trovarlo. I Wells avevano avanzato un pretesto per non invitare Lionel anche se avrebbero accolto volentieri il figlio; ma non se la 312
sentivano d’invitare anche il suo amante. Sarebbe stato troppo doloroso. E John e Lionel avevano deciso di festeggiare il Natale da soli. Dopo il pranzo furono raggiunti non soltanto da Anne ma anche da alcuni colleghi di lavoro di John e da uno studente gay che era compagno di studio di Lionel. Anne si trovò circondata da una dozzina di giovani omosessuali, e non si sentì per nulla a disagio. Stava molto meglio in loro compagnia che con il resto della famiglia. E stava tornando a essere quella di prima. Era dimagrita e aveva gli occhi più vivaci. Dimostrava qualche anno in più e appariva più matura. Tra poche settimane avrebbe compiuto i quindici anni e sarebbe tornata alla vecchia scuola per finire l’ottava classe. Era una prospettiva che le faceva paura. Avrebbe avuto un anno e mezzo più dei compagni; ma Lionel le diceva che doveva stringere i denti e tirare diritto, e in un certo senso Anne lo avrebbe fatto per lui. Le fecero bere mezzo bicchiere di champagne, e Anne restò con i ragazzi fin dopo le nove. Con i suoi risparmi aveva comprato per Li una sciarpa di cashmere e per John una bella penna d’argento di Tiffany. Erano i suoi migliori amici, tutta la sua vera famiglia. John la riaccompagnò a casa con il maggiolino Volkswagen di seconda mano, mentre Lionel restava con gli amici. Anne sapeva che la festa sarebbe continuata ancora a lungo, ma Lionel aveva preferito che tornasse a casa. Pensava che fosse fuori posto in una festa come quella, dove a volte parlavano molto apertamente: e nessuno dei loro amici era discreto quanto John e Li. Anne aveva abbracciato il fratello prima di uscire; e baciò John sulla guancia prima di scendere dalla macchina. «Buon Natale», disse lui sorridendo. «Anche a te.» Anne lo abbracciò e saltò a terra, poi corse in camera sua per provarsi i regali che le avevano fatto. Li le aveva donato un bellissimo golfino d’angora rosa con la sciarpa uguale, e John un paio di orecchini con minuscole perle. Non vedeva l’ora di metterli: e si pavoneggiò davanti allo specchio con un sorriso felice. Era così assorta che non 313
si accorse neppure quando Val entrò e la sorprese ad ammirarsi. Valerie era di pessimo umore. Greg le aveva promesso di portarla fuori con i suoi amici e all’ultimo momento s’era rimangiato l’impegno. Vanessa aveva un appuntamento con un ragazzo, e Val era rimasta a casa ad annoiarsi. Persino Ward e Faye erano andati a bere qualcosa in casa di amici. Così Valerie e Anne erano sole. «Dove hai preso il golf e la sciarpa?» Valerie avrebbe voluto provarli ma sapeva che Anne non gliel’avrebbe permesso. Molto spesso approfittava degli abiti di Vanessa, ma Anne teneva quasi sempre la porta chiusa a chiave e non offriva mai nulla di suo alle sorelle, come non chiedeva loro niente. Stava sulle sue, ancora più di prima. «Me li ha regalati Li.» «I soliti favoritismi.» Anne si sentì offesa da quel commento ma non lo mostrò. Non lo mostrava mai. Era abilissima a nascondere ciò che provava. Come sempre. «Tu e lui non siete mai stati molto legati.» Era un’osservazione da adulta, e quella franchezza colse Valerie di sorpresa. «E questo cosa c’entra? È mio fratello o no?» «E allora prova a fare qualcosa per lui, qualche volta.» «Se ne infischia di me. Pensa solo ai suoi finocchi.» «Fuori dalla mia stanza!» Anne avanzò minacciosa e Valerie fece un passo indietro. C’erano momenti in cui l’intensità degli occhi di Anne la spaventava. «E va bene, non agitarti.» «Fuori dalla mia stanza, puttana!» Ma questa volta Anne aveva detto qualcosa che non avrebbe dovuto. Val si fermò di colpo e la fissò irritata. «Se fossi in te, starei più attenta a parlare. Non sono io quella che è rimasta incinta e ha dovuto vendere il figlio.» Anne non riuscì a trattenersi. Sferrò un pugno a Val e la mancò, e la sorella le afferrò il braccio e glielo sbatté contro la porta. Si sentì un colpo secco. Le due ragazze rimasero immobili per un momento, poi Anne liberò il braccio e 314
sferrò un altro pugno. Questa volta non sbagliò. Centrò Val in piena faccia e restò a fissarla stringendosi il braccio. «La prossima volta che apri bocca con me ti ammazzo, carogna. È chiaro?» Era così punta sul vivo che sarebbe stata capace di mantenere la parola. In quel momento tornarono Faye e Ward. Videro la faccia di Val, videro Anne che si stringeva il braccio e capirono immediatamente cos’era successo. Le rimproverarono, poi Ward preparò impacchi di ghiaccio per tutte e due; ma Faye volle portare Anne all’ospedale per farle fare una radiografia. Risultò che il braccio non era fratturato; aveva soltanto una distorsione, e glielo fasciarono. Tornarono a casa poco prima di mezzanotte, e avevano appena varcato la soglia quando squillò il telefono. Era Mary Wells, ed era isterica. In un primo momento Faye non riuscì a capire ciò che diceva a proposito di un incendio e dell’albero di Natale... e un brivido di gelo le corse lungo la schiena. Era successo a casa loro o a casa di John? Faye incominciò a gridare nel ricevitore cercando di scoprire cos’era accaduto; finalmente Bob Wells prese la comunicazione. Piangeva senza ritegno. Ward sollevò il microfono della derivazione; e sentirono l’annuncio nello stesso istante. «L’albero di Natale dei ragazzi si è incendiato. L’avevano lasciato acceso quando sono andati a letto. John è...» Bob Wells non riusciva a continuare e si sentivano i singhiozzi della moglie e, lontanissimi in sottofondo, i canti di Natale. C’erano diversi amici in casa Wells quand’era arrivata la notizia e nessuno aveva pensato di fare tacere la musica. «John è morto.» «Oh, mio Dio... no... e Li?» mormorò Faye, mentre Ward chiudeva gli occhi. «È ustionato gravemente, ma vivo. Abbiamo pensato d’informarvi... Ci hanno appena chiamati... la polizia ha detto...» Faye non riuscì a seguire il resto. Si lasciò cadere su una sedia mentre Anne la fissava inorridita. Tutti s’erano dimenticati di lei. «Cos’è successo?» «C’è stato un incidente. Li si è ustionato.» Faye non riu315
sciva ad assimilare la notizia. Ansimava. Per un momento aveva temuto che le dicessero che era morto Li... invece era John... John... povero figliolo... «Cos’è successo?» Anne piangeva, e le due gemelle s’erano affacciate sulla scala. Faye alzò gli occhi verso di loro, incredula. Non era possibile. Aveva parlato con suo figlio poche ore prima. «Non lo so... L’albero di Natale di Li e John ha preso fuoco, John è morto... Lionel è all’ospedale...» Si alzò di scatto mentre le ragazze piangevano. Istintivamente, Vanessa abbracciò Anne, e Anne la lasciò fare. Quando Faye si voltò vide che Ward, con le lacrime agli occhi, stava prendendo le chiavi della macchina. Partirono. Anne s’era accasciata singhiozzando sul sedile e Vanessa le accarezzava i capelli con una mano e con l’altra stringeva la mano di Val. All’ospedale Faye e Ward trovarono Lionel. Lo stavano medicando per diverse ustioni gravi alle braccia e alle gambe. Singhiozzava disperato mentre cercava di spiegare a Faye l’accaduto. «Ho tentato, mamma, ho tentato... oh, Dio, mamma... ma il fumo era così denso... non riuscivo a respirare.» Aveva tentato di praticare a John la respirazione bocca-a-bocca dopo averlo trascinato fuori, ma era troppo tardi, e lui stesso era semisoffocato. I vigili del fuoco erano arrivati quando stava per perdere i sensi ed era rinvenuto all’ospedale, dove un’infermiera gli aveva detto inavvertitamente che John era stato ucciso dai fumi tossici. «Non me lo perdonerò mai, mamma... è colpa mia... ho dimenticato di spegnere le luci dell’albero...» L’enormità della perdita subita lo sopraffece di nuovo. Faye pianse con lui, cercando di rassicurarlo e stringendolo per quanto poteva con tutte le fasciature e le medicazioni, ma sembrava che Lionel non la sentisse. Era così sconvolto per la morte di John che non avvertiva neppure il dolore delle ustioni. Ward se ne stava un po’ in disparte, impotente, a guardarli piangere. Per la prima volta dopo molti mesi provava qualcosa per il figlio. Lo guardò e all’improvviso lo 316
ricordò com’era stato tanto tempo prima, mentre correva sul prato e giocava con il calessino trainato dal pony, nel parco della vecchia casa, prima che cambiasse tutto... era lo stesso bambino, ma era diventato un uomo, e adesso non si comprendevano più. Però era difficile sostenerlo mentre Lionel giaceva in quel letto e piangeva agitando le braccia fasciate; e finalmente Ward lo strinse a sé, con le guance rigate di lacrime, e Faye li guardò, angosciata dalla fine di John... e tormentata dal rimorso perché era felice che quella sorte non fosse toccata al figlio.
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il funerale fu straziante. Era la scena più dolorosa che Faye avesse mai visto. Mary Wells era distrutta, e Bob piangeva anche più della moglie. Le quattro sorelle di John erano in stato di choc e, quando la bara venne portata via, Mary cercò di buttarvisi sopra, e dovettero trattenerla. Lionel era pallidissimo nell’abito scuro, così pallido che Faye temeva di vederlo svenire. Notò, per la prima volta, che all’anulare della mano non fasciata portava una sottile fede d’oro. Non sapeva se Ward se n’era accorto; ma capiva che cosa significava, capiva che cosa aveva significato John per suo figlio. Era la perdita più grande della sua vita, e forse una delle più tremende che mai avrebbe potuto subire. Anne gli stava vicino e piangeva sommessamente in un fazzoletto. Ogni tanto alzava gli occhi per guardarlo. Non c’erano dubbi, ormai, su ciò che sarebbe successo ora. Ward e Faye ne avevano discusso la notte precedente. Lionel sarebbe tornato a casa, a stare con loro per qualche tempo. Dopo il funerale, Ward se lo portò via a fare una breve passeggiata. Greg era scappato non appena erano tornati a casa. John era stato per molto tempo il suo migliore amico, ma sembrava che non fosse troppo addolorato. «Che cosa posso dire?» chiese a Val con una scrollata di spalle dopo il funerale. «Era una checca.» Ma era stato un suo amico, e Valerie ricordava bene di aver preso per John una cotta senza speranza... adesso tutti sapevano il perché. 318
Faye teneva d’occhio Anne, senza parere. In quegli ultimi mesi aveva sofferto tanto, ma sembrava che si fosse ripresa... diversamente da Lionel, che camminava con passo rigido al fianco del padre e non riusciva a pensare ad altro che alla sua lotta contro le fiamme, all’impossibilità di raggiungere John... Ci aveva pensato continuamente, nei tre giorni trascorsi dalla morte di John... non l’avrebbe dimenticato mai, mai... era tutta colpa sua, aveva dimenticato di spegnere le lampadine dell’albero di Natale quand’erano andati a letto... avevano bevuto troppo vino e quelle maledette lampadine lampeggianti... perché non le aveva ricordate... era colpa sua... era come se avesse ucciso John con le sue mani. Lo disse al padre. Non aveva più nulla in comune con Ward, ma doveva confidarsi con qualcuno. Si chiedeva se i genitori di John davano la colpa a lui. «Sarebbe giusto, sai.» Guardò il padre con occhi disperati e Ward si sentì commuovere per il ragazzo che in quell’ultimo anno aveva cercato di odiare. E adesso uno di loro era morto, e doveva finire. Faye aveva ragione. Erano stati fortunati perché non era toccato a Li. I momenti che adesso trascorreva con lui erano un dono del cielo. «Vi abbiamo rimproverato molte cose, a tutti e due, in quest’ultimo anno. E avevamo torto.» Ward sospirò e guardò gli alberi. Era più facile che guardare negli occhi suo figlio... non l’aveva fatto da tanto tempo, sebbene Lionel e John avessero ricuperato Anne. «Non capivo che cosa ti ha fatto diventare come sei. Pensavo che fosse colpa mia, e quindi me la prendevo con te... e avevo torto...» Guardò finalmente Lionel e vide le lacrime che gli scorrevano lentamente sulle guance. «Avevo torto a biasimare me stesso. Come tu hai torto di ritenerti responsabile ora. Non avresti potuto far niente, Li...» Si fermò e prese le mani del figlio. «So che hai tentato», disse con voce spezzata. «So quanto amavi John.» Non voleva saperlo, ma lo sapeva. Abbracciò Lionel. Le loro guance si toccarono, i loro cuori batterono l’uno contro l’altro, le loro lacrime si mescolarono. 319
Lionel lo guardò, e per un momento sembrò che fosse tornato bambino. «Ho tentato, papà... ho tentato... e non sono riuscito a portarlo via in tempo...» I singhiozzi lo squassavano, e Ward continuava a stringerlo come se cercasse di proteggerlo. «Lo so, figliolo... lo so...» Era impossibile consolarlo. Per John non c’era più nulla da fare. E Lionel sentiva che non si sarebbe mai ripreso dal colpo. Era una perdita che nessuno di loro avrebbe mai dimenticato, una lezione imparata a carissimo prezzo. Quando rientrarono in casa gli altri li stavano aspettando. Cenarono in silenzio, poi ognuno se ne andò nella sua camera. Quasi tutto ciò che Lionel possedeva era andato distrutto nell’incendio, eccettuate poche cose che aveva dimenticato nella casa dei genitori, qualche gioiello annerito dal fuoco ma non perduto, e la macchina, che adesso era parcheggiata sul vialetto. Era tornato a dormire nella sua vecchia stanza. Nei giorni seguenti, Faye andò a comprargli un po’ di roba indispensabile, e Lionel ne fu commosso. Ward gli prestò qualche abito. Padre e figlio, adesso, stavano insieme più di quanto avessero mai fatto per molto tempo. Greg tornò al college e, il giorno del suo compleanno, anche Anne tornò a scuola per la prima volta dopo un anno. Era doloroso e difficile, ma doveva farlo. E comunque, servì a distrarla un po’. Qualche settimana più tardi, vennero tolte le fasciature alle braccia di Lionel. Le cicatrici erano visibili... ma quelle più gravi erano psicologiche e nessuno poteva vederle. E nessuno diceva nulla perché non aveva ripreso gli studi: non era ancora pronto. Li colse tutti di sorpresa quando un giorno invitò il padre a pranzo nella Polo Lounge. Sembrava più vecchio della sua età, e Ward lo guardava in silenzio. Non capiva il suo modo di vivere come non l’aveva mai capito, e gli dispiaceva che l’avesse scelto; ma adesso lo rispettava. Apprezzava i suoi valori e il suo modo di ragionare, e rimase molto deluso quando Lionel gli annunciò che non intendeva ritornare a scuola. 320
«Ho riflettuto molto, papà. E volevo che tu fossi il primo a saperlo.» «Ma perché? Ti resta appena un anno e mezzo per finire. Non è un’eternità. In questo momento sei sconvolto.» O almeno, Ward si augurava che fosse solo questo a ispirare la sua decisione. Ma Lionel scosse la testa. «Non posso tornare a scuola, papà. Non è più il mio posto. Ho avuto un’offerta per lavorare in un film, e conto di accettare.» «E quando, fra tre mesi, avrai finito e ti ritroverai senza lavoro?» Entrambi sapevano come andavano le cose nel loro ambiente. «Anche a te succede lo stesso, no, papà?» ribatté Lionel, e Ward sorrise. Ma non era soddisfatto della notizia, sebbene rispettasse il figlio per la franchezza con cui gliel’aveva data. «Ne ho abbastanza della scuola. Voglio provare a volare da solo.» «Hai appena vent’anni. Che fretta c’è?» Ma sapevano entrambi che Lionel aveva già vissuto molto per la sua età, in parte a causa di John. Aveva sofferto, aveva perduto qualcuno che amava moltissimo. Non poteva tornare a essere un ragazzo, per quanto Ward lo desiderasse; e anche se non voleva ammetterlo, lo sapeva anche Ward. La morte di John aveva cambiato tutto, gli aveva permesso di riallacciare i rapporti con il figlio. Ma Lionel non sarebbe più stato giovane e spensierato come un tempo. Forse non sbagliava ad abbandonare gli studi; tuttavia Ward se ne rammaricava. «Mi dispiace, figliolo.» «Lo so, papà.» «Chi ti ha offerto il lavoro?» Lionel sorrise. «La Fox.» La concorrenza, ovviamente. E Ward rise e si portò la mano sul cuore come se fosse ferito a morte. «Che colpo. Avrei preferito che stessi lontano da questo maledetto mestiere.» Era sincero, ma Lionel alzò le spalle. «Sembra che a te e alla mamma piaccia molto.» 321
«E a volte non ne possiamo più.» Da qualche tempo Ward era stanco e voleva convincere Faye a fare un viaggio con lui. Aveva appena finito un film e per un po’ sarebbe stata libera, ormai non aveva scuse. Mentre guardava Lionel, Ward ebbe un’idea. «Non traslocherai subito, vero?» «Pensavo d’incominciare a organizzarmi, uno di questi giorni, e di cercare un appartamento. Non voglio starvi fra i piedi.» «No, affatto.» Ward sorrise per scusarsi, ricordando il modo in cui l’aveva trattato in passato. «Saresti disposto a fermarti ancora un mese e tener d’occhio le gemelle?» «Sicuro.» Lionel era sorpreso. «Come mai?» «Voglio portar via tua madre per un po’. Ha bisogno di un po’ di riposo, e anch’io.» Non erano rimasti più soli per cinque minuti da quando lui aveva troncato la relazione con Carol ed era tornato a casa nove mesi prima; era tempo che facessero un viaggio insieme. Lionel sorrise. «Ne sarei felice, papà. Farà bene a tutti e due.» Ward sorrise mentre uscivano dal ristorante. Erano di nuovo amici. Amici come non lo erano mai stati. Da uomo a uomo... anche se sembrava strano. E quella sera Ward confidò i suoi progetti a Faye. «Non voglio discussioni o scuse. Non voglio sentir parlare del lavoro, dei figli e degli attori con cui deve analizzare la sceneggiatura. Partiremo fra due settimane.» Quel pomeriggio aveva prenotato i biglietti, per un viaggio in varie tappe... Parigi, Roma, la Svizzera. Faye non discusse. S’illuminò in viso. «Dici davvero?» Lo guardò divertita e lo abbracciò. «Sì. E se non verrai spontaneamente, ti sequestrerò. Staremo via per tre settimane, forse anche quattro.» Quel pomeriggio Ward aveva controllato i piani di produzione e sapeva che sua moglie poteva stare lontana per quel periodo. La sera, Faye lo seguì di sopra con passo più leggero, e piroettò su se stessa in camicia da notte mentre Ward le parlava scherzando di Parigi e di Roma. «È da tanto tempo che non facciamo un bel viaggio insieme, Faye.» 322
«Lo so.» Lei sedette sul letto e lo guardò. Avevano rischiato di perdersi una volta o due, avevano rischiato di perdere una figlia e un figlio... avevano rinunciato a un nipote e l’amante del figlio era morto. Non era stato un periodo facile per nessuno. E se un anno prima le avessero chiesto se il suo matrimonio si poteva salvare, avrebbe risposto di no. Ma ora, mentre guardava Ward, sapeva di amarlo ancora, nonostante i suoi difetti, le sue avventure e le delusioni che le aveva dato, e l’angoscia che aveva inflitto al loro figlio. Amava Ward Thayer. L’amava da tanto tempo e probabilmente l’avrebbe sempre amato. Non aveva molte illusioni su di lui dopo ventidue anni, ma l’amava così com’era. E quella notte, quando andarono a letto, fecero l’amore come l’avevano fatto anni e anni prima.
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Quella Primavera Parigi era meravigliosa, mentre passeggiavano lungo la Senna, andavano a Les Halles a mangiare la zuppa di cipolle, si aggiravano sugli Champs Élysées, visitavano Dior, poi pranzavano da Fouquet’s e cenavano da Maxim’s e alla Brasserie Lipp. Andavano per i drink al Café Flore e ai Deux Magots e ridevano e flirtavano e si baciavano tra un boccone di formaggio e un sorso di vino. Era esattamente ciò che aveva desiderato Ward, una seconda luna di miele, una possibilità di dimenticare tutti i dispiaceri degli ultimi anni, i figli, i film, le responsabilità. E quando arrivarono a Losanna, Faye guardò il lago e sorrise a Ward. «Sai, sono contenta di averti sposato.» Lo disse sbrigativamente, sorseggiando il caffè e mangiucchiando un croissant, e lui rise. «Lieto di saperlo. Come mai la pensi così?» «Ecco», mormorò Faye, contemplando il Lemano, «sei un caro uomo. A volte combini pasticci, ma sei abbastanza intelligente e onesto per rimediare.» Faye stava pensando a Lionel: era un sollievo che padre e figlio fossero di nuovo amici. E stava pensando anche alle avventure di Ward. «Io m’impegno come posso. A volte non sono intelligente come te, Faye.» «Stronzate.» «Parli come Val.» Ward la guardò con aria di disapprovazione e Faye rise. 324
«Be’, non sono più intelligente di te. Qualche volta sono più ostinata, ecco tutto.» «Non sempre ho il coraggio di tener duro come fai tu. A volte vorrei scappare.» Finora Ward l’aveva fatto due volte; Faye l’aveva sempre ripreso, e gliene era grato. Ma rimase sorpreso di ciò che lei disse subito dopo. «Qualche volta anch’io vorrei fuggire, sai. Ma poi penso a quello che succederebbe se lo facessi. Chi terrebbe d’occhio Val... chi si curerebbe di Anne... Vanessa... Greg... Li?» Faye gli sorrise. «Tu. Sono così egocentrica da pensare che niente funzionerebbe a dovere se io sparissi. Non è vero, ma mi aiuta a non cedere.» «Ne sono contento.» Ward le sorrise e le prese la mano. Dopo tutti quegli anni tra loro esisteva ancora un sentimento romantico. «Perché hai ragione. Non funzionerebbe più niente se tu sparissi, e sono felice che non lo abbia mai fatto.» «Forse un giorno lo farò. Fuggirò e avrò un’avventura folle con qualche comparsa.» Faye rise, ma Ward non aveva l’aria divertita. «A volte è proprio questo che mi preoccupa. Non sono entusiasta del fatto che tu lavori con certi attori.» Era la prima volta che l’ammetteva e Faye si sentì commossa. «Mi sono sempre comportata bene.» «Lo so. Perché ti tengo d’occhio.» «Oh, è così, vero?» Faye gli tirò l’orecchio e Ward la baciò, e poco dopo rientrarono, dimentichi del Lemano e delle Alpi, dei loro figli e delle carriere. Per il resto del viaggio all’estero pensarono solo a se stessi, e a tutti e due dispiacque quando venne il momento di imbarcarsi sull’aereo per tornare a casa. «È stata una bella vacanza, no, amore?» «Sì.» Ward le sorrise, e Faye gli prese il braccio e gli appoggiò la testa sulla spalla. «Un giorno vorrei passare così tutta la vita.» «No, non lo vorresti», disse ridendo Ward. «Finiresti per impazzire. Tra una settimana sarai tutta presa dal nuovo film, e mi dirai che tutti sono impossibili, che nessuno dei costumi va 325
bene, la scenografia è uno schifo, gli esterni non vanno e gli attori non conoscono le battute. Ti strapperai quei bei capelli biondi. Ma se non fosse così ti annoieresti a morte, vero?» Faye rise di quella descrizione tanto precisa della sua vita professionale. «Ecco, forse non sono ancora pronta per ritirarmi, ma uno di questi giorni...» «Fammelo sapere, quando deciderai.» «Sì.» E Faye sembrava davvero intenzionata a farlo. Ma Ward non sbagliava. Due settimane dopo la vita era esattamente come lui l’aveva descritta: Faye era fuori di sé, la protagonista le dava filo da torcere, due attori importanti si drogavano, un altro beveva sul set e ogni giorno dopo pranzo si presentava ubriaco, un incendio aveva distrutto un set e i sindacati minacciavano scioperi. La vita era tornata alla normalità; ma dopo il viaggio entrambi erano rinvigoriti. Al loro ritorno scoprirono che Lionel aveva fatto filare le ragazze. Anne sembrava riabituata alla scuola, le gemelle si comportavano bene, da Greg arrivavano buone notizie e, un mese dopo, Lionel traslocò di nuovo. Aveva trovato un appartamento e, benché Faye sapesse che si sarebbe sentito solo senza John, pensava che vivere per conto suo gli avrebbe fatto bene. Stava realizzando il film per la Fox e quando telefonava diceva che procedeva per il meglio. L’unico problema era Anne, che avrebbe voluto andare a stare con lui. Lionel l’aveva scoraggiata: le aveva detto che quello non sarebbe stato il suo posto, che lui doveva vivere la propria vita, e anche lei... per un po’ era andata bene così, ma adesso era necessario cambiare. Adesso Anne doveva rifarsi una vita a scuola, stringere amicizie nuove e riallacciare quelle d’un tempo. Ma, le disse, il suo posto era in casa con Ward e Faye. Lionel se ne andò un sabato pomeriggio, e Anne pianse e passò il resto della giornata in camera sua. Ma l’indomani andò al cinema con un’amica e Faye concluse che c’era speranza per lei. Da molto tempo non aveva parlato della sua gravidanza, e non accennava mai al bambino a cui aveva rinunciato; e Faye si augurava che dimenticasse tutto, se era possibile. 326
Anche Faye cercava di dimenticarlo mentre si buttava nel suo lavoro; e si fermò solo per la cerimonia della consegna degli Oscar, che quell’anno si teneva all’Auditorium Civico di Santa Monica. Convinse Lionel e le gemelle ad andare con lei e Ward. Pensava che Anne fosse troppo giovane, e quindi la ragazza restò a casa sola, come al solito, e rifiutò persino di seguire la telecronaca. Faye non pensava che avrebbe vinto; e per tutta la serata, mentre si vestiva, continuò a ripetere a Ward che era assurdo agitarsi... non era più come un tempo, quando era giovane, quando recitava... la prima volta. «E dopotutto», disse allacciandosi le perle intorno al collo, «ne ho già vinti due.» «Uh, quante arie», scherzò Ward, e lei arrossì. «Non è questo che intendevo.» Faye era affascinante nell’abito di velluto nero che faceva risaltare i seni ancora torniti, e Ward le infilò la mano nella scollatura suscitando le sue proteste. Voleva fare una figura splendida, quella sera. Ci sarebbero state tante attrici giovani e belle, e lei aveva quarantasette anni... quarantasette... com’era accaduto tutto così in fretta? Sembrava appena ieri, quando lei aveva ventidue anni... e venticinque... ed era innamorata di Ward Thayer e andavano a ballare tutte le sere al Mocambo. Guardò il marito con aria sognante, ricordando il passato lontano, e lui le baciò il collo. «Stasera sei bellissima, amor mio. E credo che vincerai.» «Non dire così!» Faye non voleva neppure pensarlo. Ma tutto andava meravigliosamente tra loro da quando erano tornati dall’Europa. C’era un’atmosfera romantica che a volte escludeva tutti gli altri, ma non le dispiaceva. Preferiva restare sola con Ward, nonostante i figli che amava tanto. Avevano bisogno l’uno dell’altra. Quella sera, mentre uscivano di casa con le gemelle, in abiti lunghi e con le perle che lei gli aveva prestato, Faye vide Anne nella sua stanza e si fermò per darle il bacio della buonanotte. Sembrava una bambina sperduta e Faye si rammaricò di non averla invitata: ma era così giovane, aveva appena quindici anni... e dopotutto era un lunedì sera, e l’indomani Anne doveva andare a scuola. 327
Tuttavia si rimproverava di non aver portato anche lei. «Buonanotte, tesoro.» Le baciò nervosamente la guancia e Anne la guardò con la solita aria perplessa, come se volesse chiederle chi era. Aveva sperato che sarebbero diventate amiche, dopo che l’aveva assistita durante il parto; ma non era andata così. In segreto, Anne l’accusava di averla costretta a rinunciare al bambino; e da quando era tornata dall’ospedale si era chiusa di nuovo. Era impossibile avvicinarla. L’unica eccezione era Lionel: per Anne era come padre e madre. «Auguri, mamma», disse con noncuranza Anne mentre uscivano, e poi andò a prepararsi qualcosa da mangiare. Passarono a prendere Lionel al suo appartamento. Era splendido in un vecchio smoking di Ward, e chiacchierò ininterrottamente con le gemelle sul sedile posteriore della Jaguar di Faye; durante tutto il percorso Ward si lamentò che la macchina non andava bene e che non capiva perché. Era una di quelle serate cariche di tensione in cui tutti fingevano di non pensare a ciò a cui pensavano in realtà. C’erano tutti: Richard Burton e Liz Taylor, entrambi candidati per Chi ha paura di Virginia Woolf?, e lei portava un brillante grosso come un pugno. C’erano le due sorelle Redgrave, anche loro candidate, e Audrey Hepburn, Leslie Caron e Mel Ferrer. Faye era in concorrenza con Antoine Lebouch, Mike Nichols e altri per la miglior regia. Anouk Aimée, Ida Kaminska, le Redgrave e Liz Taylor erano in lizza per il riconoscimento alla migliore attrice, Scofield, Arkin, Burton, Caine e McQueen per il miglior attore. Bob Hope divertiva tutti come presentatore ufficiale. E poi all’improvviso Faye ebbe l’impressione di sentire il suo nome... aveva vinto di nuovo per la miglior regia. Volò verso il palcoscenico con le lacrime agli occhi, con le labbra ancora calde del bacio di Ward... e poi si trovò lassù a guardare tutti, con la statuetta d’oro stretta fra le mani com’era avvenuto tanto tempo prima, quando l’aveva vinta come migliore attrice nel 1942... un secolo prima, le sembrava... o appena ieri... venticinque anni... ed era ancora emozionata allo stesso modo. 328
«Grazie... grazie a tutti... mio marito, la mia famiglia, i miei collaboratori, i miei amici... grazie.» Lasciò raggiante il palcoscenico e poi non riuscì mai a ricordare chiaramente cos’era accaduto per il resto della serata. Tornarono a casa alle due del mattino. Faye sapeva che era troppo tardi per le gemelle, ma quella era una serata eccezionale. Avevano telefonato ad Anne dal Moulin Rouge ma lei non aveva risposto. Val aveva detto che probabilmente stava dormendo, ma Lionel sapeva che non era così. Era il suo modo di escluderli, di vendicarsi perché non l’avevano invitata. E come Faye, sapeva che era stato un errore non farlo. Più tardi lasciarono Lionel al suo appartamento. Le gemelle rimasero in silenzio per il resto del tragitto. Vanessa era semiaddormentata e Val non aveva detto una parola a Faye per l’intera serata. Era furiosa per il premio vinto dalla madre. Lionel e Vanessa l’avevano capito, ma Faye non sembrava rendersi conto che Val la invidiasse tanto. «Vi siete divertite, ragazze?» Faye si voltò a guardarle in macchina, pensando al suo Oscar. L’avevano portato a far incidere il nome; ma Faye ne sentiva ancora la presenza, come se l’avesse tra le mani. Era impossibile credere che fosse accaduto di nuovo. Ora ne aveva tre. Sorrise a Val e trasalì nel vedere qualcosa di gelido nei suoi occhi, qualcosa che prima non aveva mai riconosciuto con tanta chiarezza. Non era soltanto collera, era gelosia. «È andata bene. Sarai soddisfatta.» Erano parole sgarbate, e sembrava che nessun altro le sentisse come le sentiva Faye... ma erano dirette a lei, e Val l’aveva colpita al cuore. «È sempre emozionante, credo.» Val alzò le spalle. «Dicono che qualche volta li assegnano per commiserazione.» Il commento era così incredibile che Faye rise. «Non credo di essere ancora tramontata fino a quel punto, anche se non si può mai sapere.» E naturalmente era vero: qualche volta escludevano qualcuno e poi lo premiavano l’anno seguente, anche se negavano che le cose andas329
sero così. Ma tutti lo pensavano. «Credi che me l’abbiano dato per questo, Val?» Faye guardò la figlia negli occhi. «Per commiserazione?» «Chi lo sa?» Val scrollò le spalle con indifferenza e guardò di nuovo dal finestrino mentre si avvicinavano a casa. La vittoria di Faye la irritava e non ne faceva mistero. Fu la prima a scendere dalla macchina e a chiudersi nella sua stanza. Non parlò più dell’Oscar, neppure con Anne l’indomani, o quando gli amici gliene parlarono a scuola e si congratularono con lei. Le sembrava strano: dopotutto, non la riguardava e non le importava nulla. Perciò alzava le spalle e rispondeva: «Sì, e con questo? Bella roba». E cambiava argomento, passando a qualcosa che la interessava, come il complesso delle Supremes. Era stufa di sentir parlare di Faye Thayer. Non ne era affatto entusiasta. E un giorno avrebbe dimostrato a tutti che era un’attrice così brava da oscurare Faye Price Thayer. Le restavano ancora pochi mesi, poi avrebbe potuto andarsene e dimostrare quanto valeva; e non ne vedeva l’ora. L’avrebbe dimostrato a tutti. Al diavolo sua madre... tre Oscar? E con ciò?
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le gemelle si diplomarono alle medie superiori due mesi dopo che Faye aveva vinto l’Oscar e Greg tornò a casa in vacanza giusto in tempo per assistere alla cerimonia nella sua vecchia scuola. Quell’anno nessuno pianse. A metà della cerimonia Ward si tese verso Faye per bisbigliare: «Ormai ho l’impressione che dovrebbero dare un diploma anche a noi». Faye rise sommessamente e alzò gli occhi al cielo. Ward aveva ragione: e fra quattro anni sarebbero tornati per il diploma di Anne. Sembrava che non finisse mai. E tra due anni Greg si sarebbe laureato all’Università dell’Alabama. Avevano la sensazione di trascorrere metà della loro vita guardando i giovani che sfilavano in toga e tocco. Ma fu commovente quando toccò alle gemelle, sebbene avessero assistito altre volte a simili scene. Sotto le toghe indossavano semplici abiti bianchi. Quello di Vanessa era molto sobrio, con il collo alto e l’orlo ricamato; quello di Val un po’ troppo pomposo, di organdis con un paio di scarpine a tacco alto che facevano spiccare le gambe. Ma quelle scarpe non costituivano il maggior motivo di dissenso tra Val e sua madre. Valerie aveva rifiutato con fermezza di iscriversi a un college all’Est o all’Ovest. Voleva fare la modella e recitare, e nel tempo libero andare a scuola di recitazione, non al dipartimento drammatico dell’UCLA ma a una scuola dove andavano «gli attori veri» tra un lavoro e l’altro, per perfezionarsi. Era sicura che si sarebbe trova331
ta a studiare con Robert Redford e Dustin Hoffman, ed era altrettanto sicura che avrebbe conquistato il mondo, nonostante tutto ciò che le dicevano Ward e Faye. C’erano state molte discussioni negli ultimi mesi, e Val era più ostinata dei genitori. Per pura disperazione, Ward le aveva detto che non l’avrebbe più mantenuta se non fosse andata al college, e lei aveva ribattuto che le andava bene così. Qualcuno le aveva parlato di un pensionato per giovani attrici a West Hollywood, dove per centodiciotto dollari al mese avrebbe potuto avere un letto in una stanza con altre ragazze. Due delle attrici lavoravano in sceneggiati televisivi strappalacrime, una faceva film porno, anche se Val non l’aveva detto ai genitori, un’altra era stata protagonista di un film dell’orrore l’anno prima, e altre quattro ragazze facevano le modelle. A Faye sembrava una specie di postribolo, e l’aveva detto a Val: ma ormai le gemelle avevano quasi diciotto anni, e Valerie glielo rammentava di continuo. Era impossibile spuntarla. Una settimana più tardi vennero a sapere che Val avrebbe traslocato. Vanessa aveva fatto esattamente ciò che aveva pianificato. Aveva presentato domanda d’iscrizione a diverse scuole all’Est, era stata accettata da tutte e aveva optato per Barnard. Sarebbe rimasta in casa fino alla fine di giugno e poi sarebbe andata a New York per lavorare per due mesi prima d’incominciare la scuola. Aveva trovato un impiego come receptionist in una casa editrice, e ne era entusiasta. Greg, intanto, sarebbe andato in Europa con un gruppo di amici. Quell’estate soltanto Anne sarebbe rimasta a casa. Avevano cercato di convincerla ad andare a un campeggio, ma lei aveva ribattuto che era troppo vecchia e che avrebbe preferito andare in giro con Lionel per una settimana o due: ma Lionel stava lavorando a un nuovo film per la Fox e non ne aveva il tempo. Anche Ward e Faye stavano per incominciare un film. Dopo l’Oscar le offerte erano fioccate ancora più numerose di prima. Faye aveva già tre progetti per l’anno successivo, e non le avrebbero lasciato neppure un giorno di libertà. Ward le diceva che avevano fatto bene 332
a concedersi la vacanza in Europa quando ne avevano avuto l’occasione e lei era d’accordo. La festa per il diploma delle gemelle fu la più chiassosa di tutte e Faye guardò Ward con aria esausta quando gli ultimi invitati se ne andarono alle quattro del mattino. «Forse siamo ormai troppo vecchi per queste cose.» «Parla per te. Personalmente, penso che le diciassettenni siano molto più attraenti di quanto lo fossero una volta.» «Bada!» Faye agitò l’indice per ammonirlo e si sdraiò sul letto per riposare un po’ prima di andare al lavoro alle cinque. C’era una scena importante che voleva preparare, e Ward avrebbe passato la giornata con Lionel e Anne. Val aveva un appuntamento, e Vanessa i suoi progetti. Dio solo sapeva dove fosse Greg, o con chi... ma senza dubbio era alle prese con qualcosa che coinvolgeva lo sport, la birra e le ragazze, e comunque sembrava perfettamente in grado di badare a se stesso. Faye andò al lavoro mentre Ward si addormentava. Quell’estate parve volare. Valerie si trasferì nell’appartamento che le piaceva tanto. C’erano nove ragazze, quando lei arrivò. La casa era grande, e metà dei letti non avevano le lenzuola. In cucina c’erano sei bottiglie di vodka, due limoni, tre bottiglie di soda e niente da mangiare. Val non vedeva quasi mai le altre ragazze. Avevano tutte la loro vita, i loro ragazzi, alcune avevano anche un telefono proprio, e Val non era mai stata più felice in vita sua, come disse a Vanessa poco prima di traslocare. «È quel che ho sempre desiderato.» «Com’è la scuola di recitazione?» chiese Vanessa. Le sembrava impossibile che fossero figlie della stessa madre, cresciute nella stessa casa. Erano troppo diverse. Val alzò le spalle. «Non ho ancora avuto tempo d’iscrivermi. Ho avuto da fare per cercare lavoro.» Ma in agosto fece un colpo a sorpresa. Vanessa era già partita per il Barbizon di New York e stava cercando un appartamento con una collega. Il lavoro alla Parker Publishing era piuttosto noioso e non aveva altro da fare che rispondere al telefono, ma era 333
ansiosa d’incominciare gli studi al Barnard. Una notte Valerie le telefonò per dirle che avrebbe fatto la comparsa in un film dell’orrore. «Non è magnifico?» Erano le tre del mattino e Vanessa sbadigliò. Ma non voleva smontare la sorella. Era contenta che l’avesse chiamata. «E che cosa fai?» «Attraverso il set grondando sangue dagli occhi, dal naso e dalle orecchie.» Vanessa trattenne un gemito. «È magnifico. Quando cominci?» «La settimana prossima.» «Splendido. L’hai detto alla mamma?» . «Non ne ho ancora avuto il tempo. Le telefonerò questa settimana.» Ma tutte e due sospettavano che Faye non sarebbe stata molto contenta, anche se non lo dicevano. Sembrava che non capisse le azioni e i sentimenti di Val e non fosse mai soddisfatta di lei; e probabilmente non lo sarebbe stata neppure questa volta. Ma anche Faye aveva incominciato dalla gavetta. Diavolo, aveva fatto pubblicità alle saponette per un anno, prima che la scoprissero, e Val invece incominciava subito nel cinema... lo disse a Vanessa, e Vanessa non le ricordò che la loro madre non aveva mai dovuto attraversare un set grondando sangue dal naso, dagli occhi e dagli orecchi. «E il tuo lavoro com’è, Van?» Si sentiva generosa. Di solito non le importava nulla di nessuno, e Vanessa lo sapeva molto bene. «Così.» Vanessa sbadigliò di nuovo. «È piuttosto noioso. Ma ho conosciuto una ragazza del Connecticut, molto simpatica, e adesso stiamo pensando di trovare un appartamentino insieme, vicino alla Columbia. La frequenterà anche lei.» «Oh.» Val aveva già un tono annoiato. Decise di riattaccare. «Ti farò sapere com’è andata.» «Grazie. Auguri.» Erano stranamente vicine eppure non lo erano; erano legate ma non avevano niente in comune. Era un legame che Vanessa aveva sempre sentito senza comprenderlo. Invidiava le altre sorelle che sembravano così vicine. 334
Lei non era vicina alle sue, e aveva sempre desiderato una sorella con cui poter parlare e confidarsi. Per questo era contenta di aver trovato l’amica del Connecticut. In California, Anne stava facendo le stesse scoperte. Aveva incontrato una ragazza, un giorno, che passeggiava in Rodeo Drive mangiando un gelato e facendo dondolare una borsetta rosa. Sembrava uscita da una pubblicità su una rivista e aveva sorriso ad Anne. Anne aveva pensato che era molto bella, e un’ora dopo l’aveva rivista pranzare sola al Daisy, dove lei s’era fermata per un hamburger. Sua madre le aveva dato il denaro per comprarsi due paia di scarpe, e Anne s’era aggirata per Rodeo Drive guardando la gente che passeggiava al sole. Faceva caldo ma c’era una brezza piacevole, e Anne s’era seduta al tavolino accanto a quello della ragazza dalla borsetta rosa. Si sorrisero di nuovo e attaccarono discorso. La ragazza aveva morbidi capelli castani che le scendevano fin quasi alla cintura e grandi occhi scuri. Dimostrava diciotto anni, ma avevano la stessa età. «Salve, io sono Gail.» «E io sono Anne.» La conversazione sarebbe finita lì, ma Gail aveva tante cose da dire. Raccontò che aveva visto una gonna deliziosa da Giorgio’s, di pelle bianca e morbida, e c’erano anche stivali bellissimi. Anne rimase molto colpita nel sentire in quali negozi di lusso andava a fare spese, e le parlò delle scarpe che aveva visto in un negozio più avanti sulla stessa strada. Parlarono dei Beatles, di Elvis e di jazz, e finirono per parlare delle scuole. «L’anno prossimo andò a Westlake.» Gail non sembrava molto impressionata, e Anne sgranò gli occhi. «Davvero? Anch’io!» Era un’altra felice coincidenza. Gail confidò ad Anne che aveva avuto la mononucleosi e poi una crisi di anoressia, e così aveva perso un anno di scuola. Alzò le spalle, e Anne ebbe la sensazione che per la prima volta la fortuna fosse entrata nella sua vita. Si confidò anche lei, fino a un certo punto... c’erano cose che non intendeva dire mai a nessuno, come il bambino che 335
aveva ceduto; ma c’erano altre cose che poteva raccontare. «Anch’io sono indietro di un anno con la scuola.» «È favoloso!» Gail sembrava entusiasta e Anne sorrise. Nessuno aveva mai reagito così: e quella ragazza era simpatica. Era pronta per fare amicizia. E si annoiava di oziare sola tutto il giorno intorno alla piscina di casa. Forse Gail sarebbe venuta a trovarla qualche volta. «Che cos’hai fatto quando hai abbandonato la scuola?» Gail sembrava affascinata, e Anne si sforzò di darsi un’aria blasé. «Sono andata all’Haight-Ashbury per un po’.» Gail sgranò gli occhi. «Davvero? Fiuu! E ti drogavi?» Anne esitò per una frazione di secondo e scosse la testa. «Non è tanto piacevole.» Sapeva che non era così; ma conosceva anche il prezzo che si pagava, e quella ragazza non sapeva niente di quella vita. Sembrava così pulita, graziosa, ben vestita e un po’ viziata. Era il tipo classico che molti chiamavano «la principessa ebrea americana», e Anne era affascinata. Tutte le ragazze della sua vecchia scuola erano noiose, e quasi nessuna le aveva più rivolto la parola da quando era tornata dall’Haight, ma questa era diversa. Aveva stile e personalità, e subito s’erano sentite attratte. Prima della fine del pranzo ridevano allegramente insieme e il maître le guardava male perché tenevano occupati due tavoli. Alla fine Gail propose di tornare a fare un giro in Rodeo Drive. «Ti mostrerò gli stivali di Giorgio’s, se vuoi.» Anne rimase ancora più impressionata quando scoprì che lì Gail aveva un conto aperto e che tutti s’erano messi a sua disposizione. Di solito, quando un giovanissimo entrava in un negozio del genere, i commessi non vedevano l’ora di liberarsene. Ma con Gail era diverso: tutti la chiamavano per nome. E offrirono persino una Coca ad Anne. Si divertirono moltissimo, anche se alla fine Gail decise che dopotutto quegli stivali non le piacevano tanto. E continuarono a ridere quando uscirono. «Ti mostrerò le scarpe che ho visto io.» Anne non s’era mai trovata tanto a suo agio. S’erano subito intese, e stavano 336
passando un pomeriggio delizioso. «Tua madre dev’essere una buona cliente di Giorgio’s, visto che sono tutti così gentili.» Per un momento Gail guardò nel vuoto, poi fissò la nuova amica. «Mia madre è morta di cancro due anni fa. Aveva trentotto anni.» Era la cosa più tremenda che Anne avesse mai sentito: sotto molti aspetti era anche peggio di quel che era successo a lei. Sebbene non fosse molto legata a Faye e a volte la odiasse, vederla morire sarebbe stato orribile. E negli occhi di Gail si leggeva ancora la sofferenza. «Hai fratelli e sorelle?» «No, soltanto papà.» Gail guardò con franchezza Anne mentre proseguivano. «Credo sia per questo che mi vizia. Ha solo me al mondo. Io cerco di non approfittarne, ma a volte è difficile.» Sorrise, e Anne notò le lentiggini sparse sul suo viso. «Mi piace averla sempre vinta, e papà ci resta così male quando piango.» Anne rise. «Poveretto.» «Come sono i tuoi genitori?» Anne non voleva parlarne, ma dopo le confidenze di Gail le sembrava ingiusto fare la misteriosa. «Sono a posto.» «Vai d’accordo con loro?» Anne alzò le spalle. Non era mai andata d’accordo. «Qualche volta. Non sono stati molto contenti, quando sono scappata.» «Adesso si fidano di te?» «Credo.» «Lo rifaresti?» Gail era incuriosita. Ma Anne scosse la testa. «No.» «E tu hai fratelli e sorelle?» Erano arrivate alla calzoleria. Anne accennò di sì. «Due e due.» «Fiuu!» Gail sfoggiò il suo sorriso abbagliante. Se avesse voluto avrebbe potuto fare l’attrice; ma suo padre si sarebbe preoccupato troppo. «Fortunata!» «Lo dici tu!» Anne alzò gli occhi al cielo. «Che tipi sono?» «Lionel, il più grande, è simpatico. Ha quasi ventun anni.» Non aggiunse che era gay. «Anche lui ha lasciato gli studi e fa 337
film per la Fox.» Gail sembrava molto impressionata. «L’altro è un atleta e frequenta l’Università dell’Alabama con una borsa di studio. Ormai è al terzo anno. Le mie sorelle sono gemelle. Una è appena andata all’Est per studiare a Barnard e l’altra sta cercando di far carriera qui come attrice.» «Fiuu! È grandioso!» «Lionel è... siamo sempre stati molto vicini. Gli altri, be’...» Anne alzò di nuovo le spalle. «A volte sono un po’ strani.» Lo dicevano anche di lei, ma ormai non le importava più. Aveva trovato un’amica. Gail comprò due paia di scarpe di modello uguale e di colori diversi. Qualche minuto dopo diede un’occhiata all’orologio. «Papà verrà a prendermi alle quattro davanti al Beverly Wilshire. Vuoi un passaggio?» Anne esitò. Era venuta da casa con un tassì, ma sarebbe stato divertente fare un giro in macchina con Gail. «Gli dispiacerà?» «Per niente. Anzi, lo diverte.» Dare passaggi a ragazze sconosciute? Anne rise. Gail era ingenua in certe cose, ma questo le piaceva. Attraversarono Wilshire Boulevard e attesero davanti al lussuoso albergo. Anne rimase impressionata quando vide la macchina. Era una Rolls Royce in due toni di grigio e Gail agitò le braccia mentre si fermava. In un primo momento Anne pensò che Gail scherzasse perché aveva visto quella berlina di gran lusso: ma poi un uomo robusto che somigliava alla ragazza aprì la portiera, e Gail saltò a bordo, chiamò Anne con un cenno e poi spiegò: «Ciao, papà. Ho trovato una nuova amica. L’anno prossimo verrà alla mia scuola». Il padre non sembrava affatto irritato perché Anne scroccava un passaggio; le strinse la mano con calore. Non era bello, pensò Anne, ma aveva l’aria buona e gentile. Si chiamava Bill Stein, era un avvocato con una clientela nel giro dello spettacolo; Anne era sicura che sapeva chi erano i suoi genitori, ma non gli disse i loro nomi. Bill Stein le condusse da Will Wright’s in Sunset Boule338
vard a prendere il gelato, e annunciò una sorpresa a Gail per quella sera: sarebbero andati a cena da Trader Vic’s e poi al cinema con alcuni amici. La cosa più buffa era che si trattava di un film di Ward e Faye; ma Anne disse soltanto che l’aveva visto e che le era piaciuto, e parlarono di altre cose. Sentiva che Bill Stein le teneva gli occhi addosso, come se cercasse di capire chi era, ma soprattutto come se volesse farla sentire a suo agio. Stranamente, Anne si sentiva davvero al sicuro con lui, come le capitava raramente. Quando si separarono, le dispiacque vedere allontanarsi la Rolls grigia. Era ansiosa di rivedere Gail. Le aveva dato il suo numero di telefono e Gail aveva promesso di chiamarla l’indomani e di venire a fare una nuotata in piscina. Anne non vedeva l’ora. Si chiese se sarebbe venuto Mr. Stein ad accompagnarla. Quando arrivò a casa si stupì nel vedere che suo padre era già rientrato: ma poi diede un’occhiata all’orologio e si accorse che erano quasi le sei. «Ciao, tesoro.» Ward alzò gli occhi dal bicchiere di vino che si stava versando. Faye non era ancora tornata e mancavano un paio d’ore alla cena. Ward voleva rilassarsi un po’, guardare il telegiornale, fare una nuotata e bere un bicchiere di vino. Ormai non beveva più molto. Rimase sorpreso nel vedere Anne così soddisfatta, e non riuscì a immaginare la ragione. Di solito si nascondeva in camera sua. «Cos’hai fatto di bello oggi?» Anne lo guardò per un momento e poi alzò le spalle. «Niente di speciale.» Poi salì come al solito e chiuse la porta della sua stanza, questa volta con un sorriso, pensando alla nuova amica.
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il barbizon for Women aveva fornito un alloggio a Vanessa da quando era arrivata a New York. Ci stavano solo donne, era in una zona decorosa all’incrocio tra la 63 a e Lexington; c’erano una piscina e un caffè al piano terreno. A lei andava bene, e comunque non ci stava quasi mai. Anche Louise Matthison viveva lì. Durante i fine settimana andavano a Long Island a trovare gli amici di Louise; e alla fine trovarono un appartamento da affittare insieme. Era nella 115’ Strada in West Side, e sapeva che i suoi genitori sarebbero morti se avessero visto quella zona. Ma era vicino alla Columbia, e tutte le ragazze abitavano là. A Vanessa piaceva meno del Barbizon; ma era più libera. Traslocarono un mese prima che cominciasse la scuola, e fecero a turno ad acquistare le provviste e a sbrigare i lavori di casa. Era il turno di Vanessa, un giorno, mentre saliva faticosamente le scale reggendo due sacchetti con la spesa. C’era un vecchio ascensore che non funzionava mai, e del resto aveva paura di restarci bloccata. Era più facile salire a piedi fino al secondo piano. E mentre saliva, in quell’afoso pomeriggio di agosto dopo il lavoro, si accorse che qualcuno la guardava. Era alto e aveva i capelli fulvi, una faccia simpatica, portava una maglietta e un paio di calzoncini corti e reggeva con una mano un fascio di carte. «Serve aiuto?» Vanessa lo guardò. Stava per rifiutare, ma in quell’uomo c’era qualcosa che le piaceva, un’aria intelligente 340
e pratica. Era il tipo d’uomo che aveva sperato di conoscere alla Parker quando si era fatta assumere. Ma in casa editrice non aveva mai incontrato nessuno interessante; e adesso quel giovane aveva qualcosa che l’attraeva. Non sapeva che cosa fosse: forse soltanto il mucchio di carte che aveva in mano. Sembrava un manoscritto e Vanessa non sbagliava. Era proprio un manoscritto, spiegò lui, mentre le posava i sacchetti della spesa davanti alla porta. «Sei appena arrivata?» Non l’aveva mai vista, e abitava lì da qualche anno, da quando aveva incominciato a frequentare un corso per laureati. Aveva terminato l’anno prima, ma era troppo pigro per traslocare e aveva troppe scartoffie in giro. Stava facendo ricerche per una tesi sulla filosofia e pensava di scrivere un dramma; ma adesso aveva dimenticato tutto, mentre guardava quella ragazza snella dai lunghi capelli biondi. Vanessa annuì in risposta alla domanda e pescò la chiave nella borsetta. «Mi sono trasferita qui con un’amica un paio di settimane fa.» «Incominci i corsi per laureati il mese prossimo?» Lui conosceva il tipo. Per anni era uscito con ragazze come quella. Era alla Columbia dal 1952, e cinque anni erano tanti... quasi sei, anzi. Ma lei sorrideva, divertita. Da qualche tempo la gente la credeva più vecchia di quello che era: un cambiamento piacevole, dopo che per anni tutti l’avevano giudicata meno sofisticata e più giovane della sua gemella. «No. Non mi sono ancora laureata, ma grazie per il complimento.» Lui sorrise: aveva denti piuttosto belli e un sorriso attraente. «Non c’è di che. Be’, ci vedremo qualche volta.» «Grazie ancora per l’aiuto.» Il giovane scese rumorosamente le scale con il manoscritto in mano e Vanessa sentì una porta sbattere al primo piano. Quella sera parlò di lui a Louise, che sorrise mentre si metteva i bigodini. «Dev’essere simpatico. Quanti anni credi che abbia?» «Non lo so. Ma dev’essere vecchio. Ha detto che sta lavorando alla tesi per la libera docenza, e aveva un manoscritto.» 341
«Forse ti prendeva in giro.» «Non credo. Deve essere sui venticinque.» Louise si disinteressò immediatamente. Aveva appena compiuto diciotto anni, e pensava che a diciannove un uomo era già abbastanza vecchio. Quelli di venticinque non erano divertenti. Volevano andare subito a letto fin dal primo incontro, e Louise non si sentiva pronta. Alla fine si scoprì che Vanessa aveva ragione o quasi. Lui aveva ventiquattro anni. S’incontrarono di nuovo una domenica sera, mentre le ragazze tornavano da Quogue. Stavano portando faticosamente le valige e le racchette da tennis, il grande cappello di Louise e la macchina fotografica di Van, ed erano appena scese dal tassì che le aveva condotte da Pennsylvania Station. Lui aveva parcheggiato l’MG scassata dall’altra parte della strada e le osservava, pensando che Vanessa aveva uno splendido paio di gambe. Somigliava molto a Yvette Mimieux, con quel naso all’insù, e aveva due favolosi occhi verdi... li aveva notati quel primo giorno sulla scala. Attraversò la strada in calzoncini, maglietta e mocassini senza calze. «Ehi, salve.» Non si erano presentati e lui non sapeva come si chiamava la ragazza, ma si offrì di dare una mano. Si caricò le due racchette e due valige, oltre alla sua borsa; e non era un’impresa da poco. Vanessa cercò di aiutarlo e lo ringraziò quando lui posò tutto davanti alla porta dell’appartamento e la guardò. «Certo che vi portate dietro un bel mucchio di roba, voi due.» E poi, sottovoce: «Vuoi venir giù a bere un bicchiere di vino?» Vanessa era tentata di accettare, ma aveva l’impressione che lui avesse un secondo fine. Non era abituata ad andare negli appartamenti degli uomini e non sapeva neppure chi fosse. Avrebbe potuto essere anche lo Strangolatore di Boston... ma sembrò che le leggesse nella mente. «Non ti violenterò, giuro. A meno che tu ci stia.» La squadrò con interesse e Vanessa arrossì, mentre lui si chiedeva quanti anni poteva avere, esattamente. Ne dimostrava ventuno, ma aveva detto di non essere laureata. Forse ne aveva venti, o dicianno342
ve. Aveva un’aria calma e serena, e quella sana bellezza bionda che lo incantava. Voleva stare un po’ con lei. Anziché scendere, Vanessa lo invitò a entrare e a bere una birra con lei e la sua amica. Non era l’ideale; ma dato che non aveva molta scelta lui accettò, mise il resto della roba nel corridoio, chiuse la porta e si guardò intorno. Le due ragazze avevano risistemato l’appartamento: l’avevano dipinto di giallo chiaro e c’erano piante e riviste, mobili di rattan e stampe indiane, e a una parete era appesa la foto di una famiglia numerosa sul bordo di una piscina. La fotografia faceva molto California, e lui si stava chiedendo chi erano; poi all’improvviso riconobbe Van, tra Valerie e Lionel. «Sono i miei», disse lei, semplicemente, e lui non chiese chi erano. Louise, che entrava con una lattina di birra in mano, scoppiò a ridere. «Non le chiedi chi è sua madre?» Vanessa arrossì fino alla radice dei capelli. Avrebbe voluto strozzare l’amica. Non le piaceva parlarne; ma Louise era rimasta molto impressionata quando aveva scoperto che sua madre era Faye Thayer. Aveva visto tutti i suoi film, inclusi quelli che aveva interpretato molti anni prima. «Bene.» Il giovane alto e fulvo guardò Vanessa con un sorriso. «Chi è tua madre?» «Dracula, e la tua?» «Ben detto.» «Vuoi un’altra birra?» «Sicuro.» Gli piaceva la luce che le si accendeva negli occhi quando sorrideva. E adesso era incuriosito. Guardò di nuovo la fotografia. Avevano tutti qualcosa di familiare, ma non gli venne in mente nulla mentre guardava di nuovo Vanessa. «Me lo dici tu, o devo tirare a indovinare?» «E va bene. Mia madre è Faye Thayer.» Era più facile farla finita così. Per lei non era molto importante, e aveva smesso di vantarsene fin da quando faceva la terza elementare. Anzi, aveva imparato a stare quasi sempre zitta. Non era facile essere la figlia di una celebrità, soprattutto di una che aveva vinto 343
tre Oscar. In un certo senso, allora la gente si aspettava di più da lei, o era più pronta a criticare. E a Vanessa piaceva vivere tranquilla. Il giovane la guardò a occhi socchiusi e annuì. «Molto interessante. Mi piacciono i suoi film. Alcuni.» «Anche a me.» Van sorrise. Almeno lui non era andato in estasi come facevano molti. «Come hai detto di chiamarti?» Lui non l’aveva mai detto, neppure mentre portava di sopra le valige. «Jason Stuart.» Le sorrise. Sembrava che lei non si desse molte arie. La sua amica era molto più impressionata. Guardò di nuovo la fotografia. «E gli altri ragazzi chi sono?» «I miei fratelli e le mie sorelle.» «Che orda.» Jason era rimasto colpito. Era figlio unico, e le famiglie numerose non l’avevano mai affascinato. Gli piaceva la sua vita così com’era. I suoi genitori erano piuttosto avanti negli anni e si erano ritirati nel New Hampshire. Un giorno avrebbe ereditato tutto, anche se non era molto. Il padre era avvocato, e adesso esercitava la professione in campagna, ma senza molto interesse; e lavorava meno che poteva. Anche Jason aveva pensato per un po’ di studiare legge; poi, pensandoci meglio, aveva deciso che preferiva scrivere. Dopo la tesi avrebbe scritto un dramma, confidò a Vanessa mentre finivano la terza birra. Jason non beveva molto, di solito, ma c’era troppo caldo. Il caseggiato sembrava un forno. Dopo che Louise fu andata a dormire, uscirono per prendere un po’ d’aria. Per un po’ passeggiarono per Riverside Drive, e Jason parlò del New England, e Vanessa di Beverly Hills. «Direi che sono ai poli opposti, no?» Jason le sorrise di nuovo: gli sembrava matura e posata per la sua età. Vanessa rise e gli parlò della sua gemella. «Anche noi siamo ai poli opposti. Lei sogna di diventare un’attrice famosa. Ha appena avuto una parte in un film dell’orrore, con il sangue che le cola dagli occhi.» Jason fece una smorfia, e risero. «Mi piacerebbe scrivere una sceneggiatura, un giorno, ma non reciterei per niente al mondo.» E poi, senza una ragione particolare, Van pensò a Lionel. Ave344
va l’impressione che avrebbe trovato simpatico Jason, e che Jason avrebbe avuto simpatia per lui. Erano entrambi sinceri, intelligenti, senza presunzione. «Anche mio fratello è nel cinema.» «Dovete essere una bella compagnia.» Travolgente, a dir poco. «Credo di sì. Sono abituata. E ormai ognuno va per la sua strada. A casa ne è rimasta una sola.» La povera piccola Anne, con la sua fuga all’Haight, e il bambino cui aveva dovuto rinunciare. A volte Vanessa provava pena per lei anche se continuava a non capirla. Sembravano tutti così lontani, ormai, come se appartenessero a un altro mondo. Si chiedeva quando si sarebbero ritrovati tutti insieme, se mai fosse avvenuto. Sembrava poco probabile, anche se aveva promesso che quell’anno avrebbe fatto il possibile per andare a casa a Natale. Ma chi sapeva cosa sarebbe accaduto nel frattempo, e dove sarebbero andati Lionel, Val e Greg? «Sei affezionata ai tuoi?» «Ad alcuni.» Era sincera con lui senza un motivo particolare, non aveva ragione di non esserlo, purché non gli dicesse troppe cose sul conto di Lionel o di Anne... ma non aveva intenzione di farlo. «A qualcuno mi sento più vicina. Mio fratello maggiore è un tipo a posto.» Vanessa aveva imparato a rispettarlo, e sapeva quanto aveva sofferto. «Quanti anni ha?» «Ventuno. Si chiama Lionel, e l’altro, Greg, ne ha venti. Poi c’è la mia gemella, Val, che naturalmente ne ha diciotto, e Anne ne ha quindici.» «Certo che i tuoi non hanno perso tempo.» Jason sorrise e Vanessa ricambiò il sorriso. Tornarono lentamente verso casa, lungo il fiume. Lui l’accompagnò fino alla porta. «Vuoi pranzare con me domani?» «Non posso. Devo lavorare.» «Potrei venire io.» L’idea non lo affascinava molto. Jason avrebbe preferito restare in casa a scrivere, ma Vanessa gli piaceva. 345
«Non sarà un disturbo?» «Sì.» Lui la guardò con aria franca. «Ma mi piaci, e posso dedicarti un’ora o due.» «Grazie.» Jason andò a prenderla l’indomani alla Parker. Fecero una lunga passeggiata e mangiarono sandwich all’avocado in un ristorante vegetariano che Jason conosceva. Era interessante parlare con lui; in un certo senso si prendeva sul serio, e pensava che avrebbe dovuto farlo anche Vanessa. Riteneva che fare lo sceneggiatore fosse una pessima idea, e le suggerì di scrivere invece un dramma serio. «Perché? Perché lo vuoi fare tu? Non è detto che i film siano sempre boiate, vedi.» A Jason piaceva il modo in cui gli teneva testa, e l’invitò a cena per quella sera; ma Vanessa rifiutò. «Ho promesso di uscire con Louise e alcuni amici.» Jason avrebbe voluto andare con loro, ma non lo lasciò capire. Si chiedeva se c’era di mezzo un altro uomo... e infatti c’era, ma era il ragazzo di Louise. Vanessa, semplicemente, non voleva apparire troppo ansiosa di stare in sua compagnia. Ma le piaceva, e pensò a lui per tutta la serata mentre mangiavano spaghetti alle vongole in Houston Street; e non vedeva l’ora di tornare a casa. Quando arrivarono, notò che lui aveva ancora la luce accesa. Si chiese se stava scrivendo o no, e mentre saliva le scale fece più rumore che poteva e sbatté la porta, sperando che Jason si facesse vivo. Ma non comparve per due giorni. Aveva deciso di fare l’indifferente. E quando si presentò, Vanessa era partita per il fine settimana. Si rividero a metà della settimana seguente, quando una sera lei tornò dal lavoro, stanca e accaldata dopo un’interminabile corsa in autobus. «Come va?» Jason sorrise e Vanessa lo ricambiò. Pensava che si fosse dimenticato di lei. «Abbastanza bene. Come va il dramma?» «Non ho scritto una riga. Ho lavorato su quella maledetta tesi per tutta la settimana.» E quell’autunno aveva accettato una supplenza in una scuola, per far quadrare il bilancio. Non era troppo entusiasta, ma gli avrebbe lasciato tempo libe346
ro per scrivere e questo era l’importante. Vanessa era colpita dalla sua serietà. Ma era serio in tante cose, anche nell’interesse che provava per lei. E questa volta, quando la invitò a uscire, Van era libera. Andarono in un ristorantino italiano nella parte alta della città; bevvero molto vino rosso e parlarono fin quasi all’una, e poi tornarono a casa a piedi. Ogni tanto Vanessa si guardava alle spalle, augurandosi che nessuno li rapinasse. Non era ancora abituata a New York, e quella non era una zona delle migliori. Ma Jason intuì le sue paure e le cinse le spalle con un braccio robusto, e lei si sentì sicura. Jason l’accompagnò di sopra e sembrò esitare quando arrivò al primo piano; ma Vanessa incominciò a salire l’altra rampa e lui le toccò gentilmente il braccio. «Vuoi entrare a bere qualcosa?» Vanessa aveva bevuto abbastanza e aveva qualche sospetto. Erano quasi le due del mattino, e sapeva cosa poteva aspettarsi se avesse accettato. Non era pronta a legarsi ancora con nessuno, neppure con lui, per quanto le piacesse. «Stanotte no, Jason, ma comunque grazie.» Lui sembrava deluso mentre l’accompagnava di sopra; e quando entrò, si sentì delusa anche Vanessa. Per la prima volta in vita sua desiderava un uomo. Prima era stato sempre divertente giocare con i ragazzi; ma lei non era come Val. Non sentiva il bisogno di fare conquiste e non smaniava di desiderio per nessuno. C’era qualche ragazzo che le piaceva, ma non fino a quel punto. Sinora. All’improvviso si rendeva conto che avrebbe voluto andare a letto con Jason. Nei giorni che seguirono si sforzò di distrarsi. Usciva con Louise e i suoi amici. Andò persino a pranzo con il suo principale alla Parker, e si accorse che s’interessava a lei; ma non sopportava neppure che le toccasse il braccio. Pensava soltanto a quel ragazzo alto e fulvo del primo piano, mentre tornava a casa la sera; e fu quasi un sollievo quando lo incontrò quel fine settimana. Lei stava scendendo alla lavanderia automatica. Louise era andata di nuovo a Quogue, e lei era rimasta sola. Ma non lo disse a Jason: non voleva incoraggiarlo. 347
«Come va, piccola?» Lui cercava di farla sentire molto giovane, perché si vergognasse di non andare a letto con lui. E Vanessa se ne vergognava. Ma non lo lasciò capire. «Benissimo. E il dramma?» «Ecco, è un po’ troppo caldo per lavorare.» Vanessa si accorse che era abbronzato: probabilmente aveva preso il sole sul tetto. I suoi genitori lo avevano invitato ad andare nel New Hampshire per qualche giorno, ma lui preferiva restare a New York. Lassù si annoiava mentre la metropoli, adesso, aveva un motivo d’attrazione in più. Gli batteva il cuore più forte per il solo fatto di essere nello stesso caseggiato con Vanessa. Nessuna lo aveva eccitato tanto da molto tempo, e quasi se ne risentiva. Per questo, adesso, si mostrò brusco con lei. «Ci vediamo, piccola.» Sapeva dove stava andando Vanessa, e poteva calcolare per quanto tempo sarebbe rimasta in lavanderia. Quando sentì il suo passo sulla scala, un’ora dopo, si affrettò ad aprire la porta. Aveva indovinato. Lei stava portando di sopra il sacco con la biancheria pulita; si voltò quando sentì l’uscio che si apriva. «Salve. Ti andrebbe di pranzare con me?» Vanessa si sentì il cuore in gola e lo guardò negli occhi, chiedendosi se non aveva altre intenzioni. «Io... sì... certo...» Aveva paura di rifiutare ancora, temendo che non la invitasse più. Non era facile essere così giovane e trovarsi a New York per la prima volta; ed era anche peggio perché Vanessa era vergine e lui aveva già ventiquattro anni. Lo seguì nell’appartamento, posò il sacco accanto alla porta, pensando con sollievo che aveva messo sul fondo i capi di biancheria intima perché così non sarebbero caduti, e lui non li avrebbe visti. Jason preparò sandwich di tonno per entrambi e limonata fredda. Vanessa era sorpresa di sentirsi così rilassata, mentre chiacchieravano e sgranocchiavano le patatine fritte. «Ti piace New York?» Lei sentiva gli occhi che la scrutavano, e stentava a concentrarsi. Tra loro stava succedendo qualcosa di molto intenso, ma stranamente non la spaventava. Aveva la sensazione di galleggiare sull’onda dei pensieri 348
di Jason, su uno strato d’aria calda, soffice e sensuale. L’afa era tremenda e si stava preparando un temporale: ma l’unica cosa che sembrava esistere al mondo era quella stanza. «Mi piace moltissimo.» «Perché?» Gli occhi di Jason le affondavano nell’anima, come se lui stesse cercando qualcosa. Vanessa ricambiò lo sguardo. «Ancora non lo so. Sono felice di essere qui.» «Anch’io.» La voce di Jason era sommessa e sensuale, e lei si sentiva attratta fisicamente. Non si accorgeva che erano le sue mani ad attirarla vicina, le toccavano le cosce, l’accarezzavano. All’improvviso sentì le labbra sulle labbra, le mani sul seno, e il desiderio che le esplodeva dentro mentre le dita di Jason si muovevano con destrezza. Le mancò il respiro mentre si adagiavano insieme sul divano; e poi lo supplicò di smettere. Jason sembrò sorpreso e si sollevò a guardarla. «No, ti prego...» Lui non aveva mai violentato una ragazza, e non intendeva incominciare adesso. Sembrava quasi offeso, e non capiva perché lei aveva gli occhi pieni di lacrime. «Non... non ho mai...» Eppure lo desiderava. All’improvviso Jason comprese e l’attirò più vicina. Van sentì il suo calore, il suo profumo... aveva un odore di limone e di spezie, e lei non sapeva se era il sapone o l’acqua di colonia, ma le piaceva... e Jason la guardava dolcemente: aveva compreso, e per questo la desiderava ancora di più. «Non immaginavo...» Si scostò per lasciarle la possibilità di respirare e di riflettere. Non voleva approfittare di lei, adesso. Era la prima volta. «Preferisci aspettare?» Vanessa si sentiva imbarazzata; ma scosse la testa. Non voleva aspettare. Un attimo dopo Jason la portò sul suo letto, come una bambola, l’adagiò dolcemente e le tolse i calzoncini, la camicetta senza maniche, le mutandine, il reggiseno. Lei si sentiva come una bambina sotto le sue mani, e Jason s’infilò nel letto accanto a lei, si voltò per spogliarsi, per non spaventarla. Poi la toccò, dappertutto, e Vanessa giacque con lui, in estasi mentre venivano i tuoni e i lampi, e non seppe mai se 349
il temporale era vero o se faceva parte di ciò che lui le faceva provare. Ma quando furono esausti, Jason si stese al suo fianco mentre la pioggia batteva sui vetri, e lei gli sorrise. Le lenzuola erano macchiate di sangue, ma lui non se ne preoccupava. Ripeté sottovoce il suo nome, le accarezzò il viso con le mani, e il corpo con le labbra. Poi le allargò di nuovo le gambe e l’accarezzò con la lingua fino a farla gridare, ed entrò di nuovo in lei. Questa volta il temporale non era nel cielo, era soltanto in Vanessa, mentre gridava estatica il nome di Jason e si sentiva andare alla deriva tra quelle braccia forti.
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«azione!» urlò il regista per l’undicesima volta, e Valerie dovette riattraversare il set con il colore rosso che le colava dagli orecchi, dal naso e sulle guance. E ogni volta doveva toglierselo per ricominciare. Era la cosa più noiosa che avesse mai fatto... però dopo quel film sarebbe diventata una grande diva, ne era certa. Qualcuno l’avrebbe scoperta, e allora avrebbe interpretato un ruolo da protagonista con Richard Burton o Gregory Peck o Robert Redford... anche Dustin Hoffman non sarebbe andato male... Il regista urlò «Azione!» per la diciannovesima volta e lei ripeté la scena. Il colore le finiva sempre nei capelli, e il regista strillava con il truccatore perché non era della consistenza giusta. E quando gridò di nuovo «Stop!» Faye si allontanò dal set. Valerie non sapeva che lei era lì, e Faye si sentiva imbarazzata. Era un ruolo da niente, come riferì a Ward quel pomeriggio. Peggio ancora, era patetico. «Preferirei che facesse qualcosa di meglio. Che andasse a scuola, per esempio.» «Forse farà strada, Faye. Come te.» «Sono passati quasi trent’anni, santo cielo. I tempi sono cambiati. Non sa neppure recitare.» «E come puoi giudicarlo, in una particina come quella?» Ward si sforzava di essere obiettivo e pensava che Faye fosse troppo severa. «Allora diciamo così: non sa neppure attraversare il set.» 351
«E tu ci riusciresti, con quelle palline di colore infilate nel naso e negli orecchi? Personalmente, penso che abbia molto spirito.» «E io penso che sia una sciocca.» Ma Val ebbe un’altra parte come la prima. E ne era entusiasta, sebbene Faye si preoccupasse. Cercò addirittura di chiederle con molto tatto se le piaceva girare film del genere, ma Valerie l’interpretò come un insulto; quando le rispose i suoi occhi lanciavano lampi di odio. «Tu hai incominciato con i detersivi e i fiocchi di cereali, e io ho incominciato con il sangue, ma sostanzialmente è la stessa cosa. E un giorno, se vorrò, arriverò dove sei arrivata tu.» Era una meta ambiziosa e, mentre assisteva alla schermaglia tra madre e figlia, Ward commiserò Val. Desiderava tanto competere con Faye che a volte dimenticava di essere se stessa, diversamente da Anne che in quegli ultimi mesi sembrava maturata. Era più calma e si trovava bene nella nuova scuola. Aveva una nuova amica e stava sempre con lei, una ragazza che aveva perso la madre pochi anni prima. Andavano insieme dappertutto. Il padre idolatrava la figlia ed era sempre pronto ad accompagnarle dove volevano, agli spettacoli e ai divertimenti, e poi tornava a prenderle. Per Ward e Faye era una fortuna. Non avevano più respiro, da quando lei aveva vinto l’ultimo Oscar. Erano grati a Bill Stein perché si prendeva tanta cura di Anne. Ward sapeva vagamente chi era e un paio di volte l’aveva incontrato. Sembrava un uomo per bene; e se viziava la figlia era comprensibile, dato che era l’unica e lui non aveva altri al mondo. Oltre a Gail non aveva nessun’altra da viziare, eccetto Anne. Faceva sempre regali molto belli ad Anne: un maglione quando ne comprava uno per Gail, una borsetta rossa di Gucci, un ombrello giallo di Giorgio’s, un giorno che diluviava. E in cambio non chiedeva niente. Intuiva che si sentiva sola e che Faye e Ward stavano poco tempo con lei. Era felice di prodigarsi per Anne come per Gail. «Sei sempre così buono con me, Bili.» Era stato lui a chie352
derle di chiamarlo così, e finalmente Anne s’era decisa a farlo, anche se si sentiva ancora un po’ intimidita. «Perché non dovrei? Sei così simpatica, Anne, e noi apprezziamo molto la tua compagnia.» «E io vi voglio tanto bene, a tutti e due.» Quelle parole erano sgorgate da un’anima assetata d’affetto, e a volte Bill Stein provava pena per lei. Sospettava che portasse chiusa dentro una sofferenza sconosciuta: gliela leggeva sempre negli occhi, per quanto la circondasse di premure. Sapeva che era scappata ed era andata a vivere nell’Haight quasi due anni prima e si chiedeva se allora era successo qualcosa di molto doloroso. Una volta lo domandò a Gail, ma sembrava che non ne sapesse nulla. «Non ne parla mai, papà. Non so... non credo che i suoi genitori siano molto affettuosi con lei.» «Questo l’avevo sospettato anch’io.» Bill Stein era sempre sincero con la figlia. «Non è che la maltrattino o altro. Ma non ci sono mai. Non c’è mai nessuno. I fratelli e le sorelle sono grandi e se ne sono andati per i fatti loro, e lei è sempre sola con la cameriera.» Molte sere Anne cenava da sola, e ormai s’era abituata. «Bene, ora non dovrà più esserlo.» Gli Stein la presero sotto la loro ala. E Anne si crogiolava nel tepore del loro affetto. Era come un fiorellino appena sbocciato, e Bill amava guardarla giocare con Gail. A volte facevano i compiti insieme, oppure restavano a chiacchierare o si tuffavano in piscina e ridevano con intima confidenza. Bill Stein si divertiva a regalare a tutte e due gli oggetti più graziosi e a vederle sorridere. La vita era troppo breve: l’aveva imparato quand’era morta sua moglie. E un giorno stava pensando a lei, mentre sedeva con Anne sul bordo della piscina. Era una calda giornata autunnale e Gail era tornata in casa per prendere qualcosa da mangiare. «Certe volte hai l’aria così seria, Anne.» Adesso lei si trovava a suo agio con Bill e non si spaventava di ciò che le diceva, anche se all’inizio aveva temuto che le facesse qual353
che domanda a proposito di quello che non intendeva dire a nessuno. «A che cosa pensi?» «A tante cose...» All’amico di mio fratello, morto nell’incendio... al bambino che ho abbandonato... Aveva appena quindici anni e già era assediata dai fantasmi. Ma non lo diceva. «Pensi a quando eri all’Haight?» Anne non scappò via. Lo guardò negli occhi, e Bill Stein vi lesse qualcosa che gli spezzò il cuore: una sofferenza che non poteva sanare... e si augurava di riuscirci, un giorno. Per lui era come un’altra figlia, e lo sorprendeva che fosse diventata così importante per loro in quei pochi mesi. Le erano affezionati profondamente, e lei era affezionata a loro. A parte Lionel e John, erano i primi esseri umani che le volevano bene, o almeno così pensava. «Un po’...» E poi, con sua grande sorpresa, si confidò più di quanto avesse previsto di fare. «Una volta ho rinunciato a qualcosa... e spesso ci penso, anche se non cambia niente.» Nel vederle gli occhi pieni di lacrime, Bill le prese la mano, commosso. «Io non ho rinunciato a nulla, ma ho perduto qualcuno che amavo moltissimo. Forse è la stessa cosa. Una perdita terribile. O forse è anche peggio, se la rinuncia è volontaria.» Pensava che Anne si riferisse a qualcuno che aveva amato, e si sorprendeva di una simile profondità di sentimento. Non immaginava che si fosse trattato di un figlio. Anne e Gail gli sembravano ancora tanto innocenti. Ma adesso lei lo guardava negli occhi con un’aria di saggezza che trascendeva di molto la sua età. «Deve essere stato terribile per te, quando è morta.» «Sì.» Lo sorprendeva poter dire quelle parole con tanta semplicità. Ma Anne aveva un’aria così comprensiva, mentre sedevano sul bordo della piscina tenendosi per mano come due vecchi amici. «È stata la cosa peggiore che sia accaduta nella mia vita.» «Come quello che è successo a me.» Anne provava l’impulso di dirgli del bambino che aveva ceduto, ma temeva che lui non le permettesse più di frequentare Gail. C’erano cose che era meglio tacere, e perciò si trattenne. 354
«È stato tremendo, cara?» «Peggio che tremendo.» E ogni giorno Anne si domandava dov’era il suo bambino, si domandava se aveva fatto bene a rinunciare a lui. Forse era malato, o era morto, oppure le droghe che lei aveva preso avevano influito sul piccino, sebbene le avessero detto, quand’era nato, che non sembrava affatto... Guardò Bill negli occhi, e lui ricambiò lo sguardo tristemente. «Mi dispiace moltissimo, Anne.» Le teneva la mano e lei si sentiva protetta e sicura. Dopo un po’, Gail uscì e portò il pranzo per tutti. Le sembrò che Anne fosse un po’ depressa: ma a volte era così. Era il suo modo di fare. E quel giorno Gail non vide nulla di diverso negli occhi di suo padre. Ma dopo quella volta lui prese a fissare molto spesso Anne, e a volte Anne se ne accorgeva. Un giorno, mentre erano soli in attesa che Gail tornasse dalla visita a un’amica, ebbe di nuovo l’occasione di parlare con lui. Era arrivata un po’ prima dell’ora fissata con Gail, e Bill era appena uscito dalla doccia e indossava l’accappatoio. Le disse di comportarsi come se fosse in casa sua, e Anne andò a sdraiarsi nello studio per leggere una rivista; ma poi vide che Bill la osservava; posò la rivista, e si rese conto dei sentimenti che aveva tenuto a freno così a lungo. Senza pronunciare una parola, si alzò e gli andò accanto. Bill la prese tra le braccia e la baciò intensamente, poi si staccò con uno sforzo di volontà. «Oh, Dio, Anne, perdonami... Non so che cosa...» Ma lei lo fece tacere con un altro bacio, lasciandolo stordito. Bill comprese istintivamente che non era una novizia; e quando le mani di Anne lo cercarono sotto l’accappatoio, ebbe la certezza che quella ragazzina aveva segreti impensabili. Le prese le mani con gentile fermezza e gliele baciò. Fremeva di desiderio, e lei l’aveva accarezzato in modo così eccitante da farlo impazzire. Ma non poteva permetterle di continuare. Per lui era una bambina, e sapeva che tutto questo era ingiusto. Era una ragazza quindicenne... quasi sedicenne, ma comunque... «Dobbiamo parlarne.» Le sedette accanto sul divano, 355
si strinse nell’accappatoio e la guardò negli occhi. «Non so che cosa mi sia successo.» «Io lo so.» Anne parlava così dolcemente che gli pareva di sognare. «Sono innamorata di te, Bill.» Era la verità: l’amava, e l’amava anche lui. Era una pazzia. Bill aveva quarantanove anni e lei quindici. Non era giusto... oppure sì? Gli costava uno sforzo ricordare come doveva apparirle, e non riusciva a dominarsi. La baciò ancora. Si sentiva torturato da ondate di passione. Le prese le mani. «Anch’io ti amo, ma non posso permettere che succeda niente.» Aveva un tono angosciato, e gli occhi di Anne s’erano riempiti di lacrime. Aveva terrore che la mandasse via, magari per sempre. Non l’avrebbe sopportato. Aveva già perduto troppo, nella sua vita. «Perché? Cosa c’è di male? Succede anche ad altri.» «Ma non tra due persone della tua età e della mia.» C’erano trentatré anni di differenza tra loro, e lei non era neppure maggiorenne. Forse, se lei avesse avuto ventidue anni e lui cinquantacinque e non fosse stato il padre della sua migliore amica... Ma Anne scuoteva disperatamente la testa. Non voleva perderlo: si rifiutava. Aveva già subito perdite troppo gravi nella sua breve esistenza e non voleva perdere anche lui, qualunque cosa le dicesse. «Non è vero. Succede anche ad altri come noi.» Bill le sorrise. Era così seria e dolce, e adesso si rendeva conto di amarla moltissimo. «Non m’importerebbe neppure se tu avessi cento anni. Ti amo. Ecco tutto. Non rinuncerò a te.» Quelle frasi melodrammatiche lo fecero sorridere di nuovo. La baciò per indurla a tacere. Lei aveva le labbra così tenere, e la pelle di velluto. Ma non era giusto. E nonostante il consenso di Anne, da un punto di vista giuridico era violenza carnale. Bill lo sapeva molto bene. La fissò. «Lo avevi già fatto, Anne? Sii sincera. Non andrò in collera.» Bill aveva un modo gentile di chiedere la verità, e per lei era sempre facile dirgliela. Sapeva più o meno che cosa voleva sapere. Ed era una 356
fortuna che Gail fosse in ritardo. «Non così. Quando ero... nell’Haight...» Sarebbe stato molto difficile spiegarglielo, ma desiderava farlo. «Vivevo in una comune e prendevo l’LSD. E anche altre cose, ma soprattutto LSD e peyote... diverse droghe, ma specialmente l’acido. E il gruppo con cui vivevo aveva strane usanze...» Bill la fissò inorridito. «Ti hanno violentata?» Anne scosse la testa lentamente, senza distogliere gli occhi. Voleva essere sincera, a tutti i costi. «Lo facevo perché lo volevo... e con tutti, mi pare. Non ricordo molto. Ero come in trance e non so che cosa sia un vero ricordo e che cosa sia un sogno... ma quando i miei genitori mi hanno riportata a casa ero incinta di cinque mesi. Tredici mesi fa ho avuto un bambino.» Avrebbe ricordato quella data per il resto della sua vita; avrebbe saputo dire a Bill quanti giorni erano passati oltre ai tredici mesi... cinque, per l’esattezza. «E i miei genitori mi hanno convinta a darlo in adozione. Era un maschietto ma non l’ho mai visto. È stata la cosa peggiore della mia vita.» Era impossibile descrivere quanto aveva sofferto. «E rinunciare al bambino è stato l’errore più grave della mia vita. Non me lo perdonerò mai. Ogni giorno mi chiedo dov’è, come sta.» «Ti avrebbe rovinato l’esistenza, tesoro.» Bill le accarezzò gentilmente il viso, sopraffatto dall’angoscia per lei e per tutto ciò che aveva passato. Era così diversa da Gail. Aveva già conosciuto tante cose della vita, troppe per la sua età. «Lo dicevano anche i miei genitori», sospirò Anne. «Ma non credo che avessero ragione.» «E che faresti ora, se avessi un bambino?» «Avrei cura di lui... come fanno le altre madri...» Gli occhi di Anne si riempirono di lacrime e Bill la strinse teneramente. «Non avrei mai dovuto rinunciare a lui.» Bill avrebbe voluto dirle che un giorno le avrebbe dato un altro figlio... ma gli sembrava immorale. E poi sentirono che Gail stava aprendo la porta di casa. Bill si scostò con un ultimo sguardo e un ultimo tocco, ed entrambi sorrisero felici a Gail. 357
Durante i due mesi successivi, Anne s’incontrò con Bill ogni volta che ne aveva la possibilità, per parlare con lui, passeggiare e confidargli i suoi pensieri. Gail non ne sapeva nulla, e Anne si augurava che non lo sapesse mai. Era un frutto proibito per entrambi, eppure non potevano smettere. Avevano troppo bisogno l’uno dell’altra. Anche Bill si confidava con lei. Era un rapporto casto ma non poteva continuare così a lungo. E quando la nonna di Gail la invitò per le vacanze di Natale, fecero un piano. Anne avrebbe detto ai suoi che sarebbe andata a stare con gli Stein. E dal giorno di Natale fino al ritorno di Gail, Anne sarebbe rimasta con Bill. Era tutto congegnato e pianificato in anticipo. Come una luna di miele.
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louise aveva intuito da un pezzo quello che stava succedendo tra la sua amica e il ragazzo del primo piano. Non disapprovava, anche se pensava che lui fosse troppo vecchio per Van. A ventiquattro anni era già un uomo. Le dispiaceva di non stare più spesso con Vanessa, ma anche lei aveva amici e amiche, e il Barnard le teneva occupatissime con lo studio, i progetti, le ricerche e gli esami. I mesi volavano, ed era difficile credere che fossero già arrivate le vacanze di Natale. Faceva freddo, e subito dopo la festa del Ringraziamento era caduta la prima neve. Vanessa ne era affascinata. Aveva fatto a pallate di neve con Jason in Riverside Park. Avevano sempre tanti posti dove andare... i Cloisters, il Metropolitan, il museo Guggenheim, il Museum of Modern Art, l’opera, il balletto, i concerti alla Carnegie Hall. E per lui c’era sempre il richiamo di Off Broadway. Jason viveva una vita culturale molto intensa, e ora conduceva sempre Vanessa con sé. Da quando era arrivata lei non aveva mai visto un film in sua compagnia, eccettuati alcuni vecchissimi a un festival del Museum of Modern Art: Jason continuava a disapprovare il cinema e lavorava sulla sua tesi mentre Van studiava per gli esami. In un certo senso lei amava quella serietà, quel purismo in fatto di filosofia: ai suoi occhi lo rendevano più amabile. «Mi mancherai molto durante le vacanze.» Era sdraiata sul divano di Jason con un libro sulle ginocchia. Lui la sbir359
ciò con un sorriso al di sopra degli occhiali che gli davano un’aria molto seria. «Probabilmente sarà un sollievo tornare a Plastic Land.» Era così che lui chiamava Los Angeles. «Potrai andare al cinema con i tuoi amici ogni giorno, e mangiare tacos e patatine fritte.» Anche quelle cose lo facevano inorridire. Vanessa rideva di quel suo modo di vedere Los Angeles. Secondo lui tutti andavano in giro correndo di qua e di là, con hamburger, tacos e pizze nelle mani e i bigodini nei capelli, ballando al ritmo del rock e andando a vedere film orribili. E la faceva ridere ancora di più pensare cosa avrebbe detto Jason di Val. Adesso lei stava girando un altro film dell’orrore: in questo sarebbe apparsa coperta di liquame verde, e non era certo così che avrebbe dovuto essere il cinema secondo Jason. Ma sarebbe stato piacevole rivederli tutti. A volte pensava che Jason si prendeva troppo sul serio: ma quella relazione era piacevole, ed era stata sincera quando gli aveva detto che avrebbe sentito la sua mancanza. «Tu cosa farai?» L’ultima volta che ne avevano parlato Jason non aveva ancora deciso. Non sembrava entusiasta dell’idea di andare a casa. Vanessa aveva notato che i suoi genitori non lo chiamavano mai, e lui li nominava raramente. Anche lei non telefonava spesso a casa, ma si riteneva sempre vicina a tutta la famiglia. Comunque, quando alzò gli occhi vide che Jason le sorrideva. C’era un lato tenero del suo carattere che lei amava moltissimo, e che adesso appariva evidente. Gli tese la mano, e Jason la prese e la baciò. «Mi mancherai anche tu, sai. E probabilmente al ritorno impiegherò settimane per rimetterti in sesto.» «Uno di questi giorni dovrai venire in California con me.» Ma nessuno dei due era ancora pronto. A Jason, la famiglia Thayer appariva terrificante, e Vanessa si spaventava un po’ all’idea di condurlo in casa. Sarebbe stata la prova che era una cosa seria, o almeno così avrebbero pensato i suoi genitori... e invece non lo era. Era soltanto un delizioso primo amore. Vanessa non si aspettava di più, o almeno così si diceva. «Ti telefonerò, Jase.» 360
Gli ripeté la promessa all’aeroporto il 23 dicembre. Lui aveva deciso di non andare a casa e di lavorare sulla sua tesi: un modo molto solitario di passare le feste. Ma Jason sosteneva che andava bene così, e Vanessa gli promise di telefonargli ogni giorno. Si scambiarono un bacio, e poi lei salì a bordo. Jason si strinse la sciarpa intorno al collo e affondò le mani nelle tasche, poi uscì nell’aria gelida. Lo spaventava pensare di essere tanto innamorato. Aveva immaginato che sarebbe stata una relazione spensierata, e gli era piaciuta anche la comodità del fatto che abitavano nello stesso caseggiato. Ma questo non aveva più importanza. Gli piaceva tutto di Van: era seria, intelligente, bella, gentile e meravigliosa a letto. Il suo appartamento gli sembrò una tomba quando aprì la porta; sedette alla scrivania e guardò nel vuoto. Forse avrebbe dovuto andare a casa, dopotutto. Ma era così deprimente. La vita nella cittadina era così limitata, e i suoi genitori lo soffocavano in modo insopportabile. Per quanto fosse affezionato a loro, voleva essere libero. E suo padre beveva troppo. Sua madre era invecchiata e questo l’avrebbe depresso ancora di più. Era più felice da solo a New York. Era stato quasi impossibile spiegarlo a Vanessa prima della partenza: la sua famiglia era così diversa. E lei era sinceramente contenta di tornare a casa. Lo sentì nella sua voce quando gli telefonò quella sera. Lo chiamò poco dopo essere scesa dall’aereo. «Allora, come va a Plastic Land?» Jason si sforzò di sembrare meno abbattuto di quanto fosse, e lei rise. «Come al solito. Ma tu non ci sei: ecco cosa non va.» Lei amava Los Angeles, ma aveva finito per amare anche New York. Perché c’era Jason. «La prossima volta dovrai venire anche tu.» Quella prospettiva lo fece rabbrividire. Non poteva affrontare una famiglia simile, affermata, splendente, completamente inserita nel mondo del cinema. Immaginava Faye che preparava la colazione con le scarpette di lamé dorato, e quel pensiero lo fece ridere mentre parlava con Van. «Come sta la tua gemella?» 361
«Non l’ho ancora vista. Ho pensato di farle una visita stasera. Qui sono appena le otto.» «Perché lì non sanno misurare il tempo», scherzò Jason, con una smorfia malinconica. Vanessa gli mancava molto, e le due settimane successive sarebbero state insopportabili. «Salutala da parte mia.» S’erano parlati diverse volte al telefono, e gli era sembrata divertente e spiritosa, anche se completamente diversa da Van. «Senz’altro.» «E fammi sapere se è diventata verde.» Val gli aveva parlato della scena del liquame e Jason l’aveva presa in giro senza pietà, le aveva detto che era tipico di Hollywood, e che probabilmente lì non sapevano fare di meglio. Ma Vanessa s’era adombrata. Sua madre aveva fatto alcuni film molto belli, che un giorno probabilmente sarebbero entrati nell’archivio del Museum of Modern Art. Vanessa aveva appena diciotto anni e quella era la sua famiglia. Da allora Jason era stato più prudente. Ma sarebbe inorridito, Vanessa ne era certa, se avesse visto dove viveva Val. S’era fatta prestare la macchina del padre ed era andata a trovare la sorella nella casa dove viveva con una dozzina di altre ragazze. Non aveva mai visto tanto caos e tanto sudiciume in tutta la sua vita. C’erano piatti sporchi in soggiorno, e letti sfatti in ogni camera, anzi qualcuno non aveva neppure le lenzuola: sul pavimento c’era una bottiglia di tequila vuota, nei bagni erano appese calze di ogni forma e colore e dovunque aleggiava l’odore rancido di troppi profumi. E Val era lì, a laccarsi soddisfatta le unghie mentre parlava a Vanessa della sua parte nel film. «E poi io esco dalla palude, tendo le braccia così...» Le tese, e per poco non rovesciò una lampada. «E urlo...» Diede una dimostrazione anche dell’urlo, e Vanessa si tappò gli orecchi. Le sembrò che l’urlo continuasse per ore: rimase effettivamente impressionata e sorrise alla gemella. Era piacevole rivederla, persino in quel posto orrendo. «In questi ultimi mesi hai perfezionato una gamma di urla interessanti.» 362
Val rise. «Faccio allenamento tutti i giorni.» Vanessa si guardò di nuovo intorno. «Come fai a sopportare questo posto?» Tra l’odore, il disordine, la sporcizia e le ragazze, Vanessa sarebbe impazzita in due giorni, ma Valerie non vi badava: anzi sembrava felice, molto più di quanto fosse stata a casa, e lo confessò alla gemella. «Qui posso fare tutto ciò che voglio.» «E questo che cosa include?» Vanessa era curiosa di sapere cosa aveva combinato negli ultimi tre mesi. Val sapeva di Jason, anche se Vanessa non s’era diffusa nei particolari e non intendeva farlo adesso. «Nessun nuovo grande amore dopo la mia partenza?» Valerie alzò le spalle. C’erano diversi uomini nella sua vita: uno al quale era affezionata e tre con i quali andava a letto, ma sapeva che sua sorella si sarebbe scandalizzata, e perciò non disse niente. Per lei non aveva molta importanza. Un po’ di droga, un po’ d’alcool, una piacevole sbattuta nell’appartamento o nella camera ammobiliata di un ragazzo. A Hollywood ne succedevano tante che non sembrava terribile farne parte; e lì in quella casa tutte le ragazze si passavano le pillole come se fossero mentine. Ce n’era sempre una scatola aperta da qualche parte; e qualcuno le aveva raccomandato di non cambiare marca, ma sembrava che funzionassero lo stesso. E se fosse successo un infortunio, avrebbe saputo come liberarsene. Non era scema come sua sorella Anne. «E tu?» chiese Valerie mentre incominciava a laccare le unghie dell’altra mano. «Com’è il tizio con cui stai sempre?» «Jason?» Vanessa assunse un’aria innocente e Val rise. «No, King Kong. È carino?» «Secondo i miei criteri sì, ma probabilmente non lo è secondo i tuoi.» «Questo significa che ha il labbro leporino, un piede equino, ma è simpatico e tu pensi che faccia sul serio.» «Più o meno. Si prepara a prendere la libera docenza.» Vanessa sembrava fiera di lui e Valerie la guardò ad occhi sgranati. A lei sembrava un individuo orrendo. Detestava gli 363
intellettuali e preferiva i tipi classici di Hollywood, soprattutto quelli con i capelli lunghi, le camicie sbottonate e l’aria del californiano abituato a molte ore sulla spiaggia. Guardò Vanessa con aria sospettosa. «Quanti anni ha costui?» «Ventiquattro.» «Pensi che voglia sposarti?» Era una prospettiva che le faceva orrore, ma Vanessa si affrettò a scuotere la testa. «Non è il tipo, e non lo sono neppure io. Voglio finire gli studi e tornare qui a scrivere sceneggiature.» Vanessa e Jason discutevano sempre: lui la giudicava troppo intelligente per scrivere «quelle boiate», ma lei insisteva che certi film erano ottimi. «Per adesso va bene così.» «Be’, stai attenta a non restare incinta. Prendi la pillola?» Vanessa si sentiva imbarazzata dalla franchezza della gemella. Scosse la testa. Non aveva neppure ammesso che andava a letto con lui, ma Val la conosceva troppo bene. «No?» Valerie era sconcertata di tanta ingenuità. «Jason sta attento.» Vanessa arrossì come un pomodoro mentre una ragazza in tanga di raso rosso attraversava la stanza. Valerie rise e Vanessa si voltò a guardarla. «La mamma è mai venuta qui?» Non riusciva a immaginarlo: se avesse messo piede lì dentro avrebbe portato via Valerie in meno di due ore. «Una volta sola. E prima che venisse abbiamo ripulito tutto. Quel giorno non c’era nessuno.» «Ringrazia il cielo. Altrimenti ti farebbe a pezzi.» Ma questo era vero per quasi tutto ciò che Valerie faceva in quei giorni, dalle sniffate di cocaina all’hashish e agli uomini con cui faceva esperimenti nei ruoli interpretati nei film dell’orrore. Confidò amaramente a Van: «Non vuole mai che mi diverta». E qualcuno le aveva appena offerto per la prima volta un ruolo in un film porno; ma l’aveva rifiutato, per timore che sua madre venisse a saperlo. Mentre Vanessa tornava a casa, ebbe l’impressione che Valerie si fosse messa su una brutta strada. Era incontrollabile e aveva appena diciotto anni. Ma 364
la conosceva abbastanza bene per sapere che sarebbe stato impossibile fermarla. Stava ruzzolando giù per una collina, e prima o poi si sarebbe fermata. Vanessa si augurava soltanto che non dovesse soffrire. «Come sta Val?» Suo padre si voltò mentre lei rientrava, e le lesse negli occhi qualcosa che lei non avrebbe voluto dirgli. «Bene.» E poi: «È così orribile, quel posto?» Era impossibile che i genitori sapessero com’era in realtà. Ma forse sapevano altre cose. Hollywood era una città piccola, in un certo senso, e se Val andava a letto con tutti era inevitabile che l’avessero sentito dire. «Non tanto. C’è una quantità di ragazze che corrono di qua e di là, fanno un gran pasticcio e lasciano i piatti sporchi sul pavimento.» Quello era il meno, ma Vanessa preferiva non aggiungere altro. Cercò di dipingere la situazione un po’ meno disastrosamente della realtà, per difendere Valerie. «Una versione peggiorata delle nostre stanze.» «Allora è un disastro.» Ward rise e riferì che Greg sarebbe arrivato a casa l’indomani. E poco più tardi Anne entrò. Aveva negli occhi una luce che Vanessa non le aveva mai visto. «Ciao, piccola.» Si alzò e le baciò la guancia. Avrebbe giurato di averle sentito nei capelli il profumo di un dopobarba da uomo, ma non ne era sicura. La piccola Anne era ormai grande. Dopo le vacanze avrebbe compiuto i sedici anni, e Vanessa si accorse che stava diventando bella. L’abito corto mostrava le gambe lunghe e snelle, e aveva un paio di scarpine rosse molto eleganti e un nastro nei capelli. Vanessa sorrise della trasformazione avvenuta in quegli ultimi tre mesi. Dimostrava la sua stessa età, ora. «Quando sei diventata così donna?» Anche Ward la guardava con ammirazione. Anne si era assestata in quegli ultimi mesi, e nella scuola nuova aveva fatto diverse amicizie, soprattutto con Gail Stein che sembrava una gran brava ragazza, anche se era un po’ viziata. Sfoggiava borse di Vuitton e scarpe di Jourdan; ma aveva la testa sulle spalle, e il padre le stava molto vicino. Era un cambia365
mento piacevole, dopo la tragedia dell’Haight, e Ward e Faye erano felici che le cose andassero così. Anne non perse molto tempo con loro e si affrettò a sparire in camera sua. Fece altrettanto il giorno di Natale, subito dopo il pranzo; ma tutti c’erano abituati. Anne era rimasta nascosta per molto tempo nella sua camera. Ma questa volta doveva preparare la valigia. L’indomani sarebbe andata a passare le vacanze con Bill.
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Qualche settimana prima, Anne aveva spiegato alla madre che Gail l’aveva invitata a passare dieci giorni con lei e il padre prima di tornare a scuola, e all’inizio Faye aveva esitato. Ma Anne aveva sfruttato abilmente il suo spirito materno, ricordandole che Gail era figlia unica, e non aveva una madre che le tenesse compagnia. E da quando era rimasta orfana per lei le vacanze erano sempre state molto tristi. Alla fine Faye s’era lasciata convincere. «Abita a pochi chilometri, Anne. Perché non venite tutte e due a stare qui? Perché devi andare a dormire in casa sua?» «Qui c’è troppa confusione. E tu e papà non ci siete mai. Che differenza c’è?» Anne aveva un’espressione di panico negli occhi, e l’aveva notato anche Ward. Non voleva che se la prendesse con loro. Ne avevano già passate abbastanza due anni prima. Forse era meglio cedere, in quelle cose senza troppa importanza. «Lascia andare, cara. Non c’è niente di male. Il padre di Gail sembra più premuroso di una chioccia. Andrà tutto bene. E se vorrai, potrà sempre tornare a casa.» «Ci sarà qualcun altro?» Faye non si fidava di nessuno quando c’erano di mezzo i figli, e questa volta aveva ragione. «Solo la donna delle pulizie e la cuoca.» Bill Stein aveva anche un giardiniere, ma non contava. Non contava nessuno. Le due donne sarebbero andate in ferie non appena Bill avesse fatto salire Gail sull’aereo per mandarla a New York 367
dalla nonna. Ma Faye non poteva saperlo. E quando Anne uscì di casa con la valigia, l’aveva riempita dei suoi abiti più graziosi e delle camicie da notte più vaporose, incluse due nuove che aveva comprato apposta. Chiamò un tassì dopo che tutti furono usciti di casa e lasciò un biglietto: «Arrivederci al 3. Sono a casa di Gail». Dieci minuti dopo il tassì si fermò in Charing Cross Road a Bel-Air, e Anne si sentì battere forte il cuore. Bill l’aspettava in soggiorno: Gail era partita poche ore prima, e le cameriere se n’erano andate. Erano finalmente soli. L’avevano pianificato per mesi, e adesso erano entrambi terrorizzati. Per tutta la mattina Bill si era chiesto se stava impazzendo. Sarebbe stato come violentare quella ragazzina di quindici anni; e aveva deciso di riportarla a casa non appena fosse arrivata. Cercò di spiegarglielo mentre stavano seduti nello studio. C’era una pelle di tigre sul pavimento, e alle pareti c’erano tutte le foto che aveva fatto a Gail nel corso degli anni... Gail in prima elementare... Gail con un cappellino da cotillon... Gail che mangiava un gelato quando aveva quattro anni... Ma adesso non vedeva nulla: teneva gli occhi fissi su Anne. E Anne vedeva soltanto l’uomo che amava profondamente e che voleva mandarla via. «Perché devo andarmene? Perché? L’avevamo deciso da settimane.» «Ma non è giusto, Anne. Io sono vecchio, e tu hai quindici anni.» Bill aveva riflettuto per tutta quella notte insonne, e aveva preso una decisione. Non avrebbe permesso che lei gli facesse cambiare idea. «Ne ho quasi sedici.» Anne aveva gli occhi pieni di lacrime. Lui le sorrise, le scostò i capelli dal viso. Ma quel lieve contatto lo elettrizzò di nuovo. Anne era il più dolce dei frutti proibiti, e non poteva permetterle di restare neppure un’ora, altrimenti non sarebbe stato responsabile delle proprie azioni. Si conosceva troppo bene e non aveva mai provato simili sentimenti per nessuna. Era uno scherzo crudele della vita, il fatto che lei avesse appena quindici anni. «Non sono neppure 368
vergine, Bill.» Glielo disse con immensa tristezza. Lo amava moltissimo: era tutto ciò che aveva desiderato nella vita, e la ricompensava della solitudine e delle sofferenze. «Questo non c’entra, tesoro. Le altre tue esperienze non contano. Erano dovute alle droghe, erano sogni e allucinazioni. Non devi neppure pensarci: ormai appartengono al passato. Non è come prendere la decisione di legarti a un uomo. Non potremmo continuare così per molto tempo. E poi che cosa faremmo? Qualcuno finirebbe per soffrirne, e non voglio che sia tu.» Bill non le disse che ne avrebbe sofferto anche lui, che avrebbe potuto finire in carcere se i genitori di Anne avessero saputo della relazione. E forse l’avrebbero scoperta nonostante tutti i loro piani, tutte le precauzioni. Anne aveva detto a Gail di non telefonarle a casa perché non poteva parlare liberamente, con tutti i fratelli e le sorelle che erano lì per le vacanze; l’avrebbe chiamata lei, tutti i giorni, e quindi Gail non avrebbe avuto motivo di cercarla. Avevano pensato a tutto... e adesso Bill le spezzava il cuore. Non le importava nulla di dover soffrire, non le importava neppure di morire, pur di stare con lui. Lo fissò con gli occhi colmi di tristezza. «Se mi mandi via, scapperò di nuovo. Sei la mia unica ragione per vivere, Bill.» Erano parole terribili, e lui si sentì straziare il cuore. Anne aveva passato tanti momenti atroci ed era così giovane; e in un certo senso aveva ragione, era molto più matura di quasi tutte le ragazze della sua età, certo assai più di Gail. L’Haight-Ashbury, la comune, il bimbo che aveva messo al mondo, le difficoltà con i genitori. Era ingiusto farla soffrire ancora: ma era per il suo bene, si disse Bill alzandosi e tenendole dolcemente la mano. L’avrebbe riaccompagnata a casa personalmente. Ma Anne non si mosse. Restò a guardarlo con quell’aria distrutta, quegli occhi pieni di mestizia. «Piccola, ti prego... non puoi restare...» «Perché no?» Bill Stein tornò a sedere sul divano accanto a lei. Non poteva continuare a lottare a lungo, e se Anne non se ne fos369
se andata al più presto... era ingiusto, dopotutto era soltanto un uomo. «Perché ti amo troppo.» La prese tra le braccia e la baciò, deciso a riportarla a casa. Ma la forza di volontà incominciò ad abbandonarlo quando sentì la lingua di Anne insinuarsi nella sua bocca come lava ardente; e istintivamente tese la mano tra le sue gambe. Da settimane, ormai, diventavano sempre più audaci ogni volta che erano soli. «Ti desidero tanto, piccola...» le bisbigliò con voce rauca. «Ma non possiamo... ti prego...» «Sì, possiamo», mormorò lei. Si abbandonò sul divano, attirandolo vicino, e tutti i propositi di saggezza incominciavano a disperdersi... forse quell’unica volta... non l’avrebbero fatto mai più... E all’improvviso Bill ritrovò la lucidità e si scostò. Gli tremavano le gambe, ma scrollò la testa con fermezza. «No. Non voglio, Anne.» «Ma io ti amo con tutto il cuore.» Lei sembrava una bambina maltrattata. «Anch’io. Ti aspetterò per i prossimi due anni, se è questo che dovremo fare. E poi ti sposerò. Ma non voglio rovinarti la vita.» All’improvviso Anne rise, una risata infantile, e gli baciò la guancia. «Ti amo tanto. Vuoi dire che mi sposeresti davvero?» Era stordita, e felice come non lo era mai stata in vita sua. «Sì.» Le sorrise gentilmente. Era stata un’ora molto difficile per lui, soprattutto per lui, e quella notte non aveva dormito. Ma pensava sinceramente ciò che le aveva detto. Aveva riflettuto a lungo, e credeva che un giorno anche Gail avrebbe approvato. C’erano stati altri uomini che avevano sposato ragazze molto più giovani. Non era la cosa peggiore che potesse fare. «Cioè, se tu fossi tanto pazza da sposarmi. Fra due anni tu ne avrai diciotto e io cinquantuno.» «Mi sembra che vada bene», sorrise lei. «E quando tu ne avrai trenta e io sessantatré?» Adesso Bill la stava mettendo alla prova, e la guardava negli occhi. La proposta di matrimonio era seria. Non c’era nulla al mondo che desiderasse di più; ma non c’era motivo per cui non 370
potessero avere tutto... la felicità sua e di Anne. Desiderava avere cura di lei, proteggerla dalla sofferenza per il resto della vita. Intuiva che i suoi genitori non avevano fatto molto per lei da quando era nata... certo meno di quello che lui faceva per Gail. Ma Gail era la sua unica figlia, mentre Anne era l’ultima di una nidiata di cinque; e a quanto aveva saputo era nata in un momento difficile per i genitori. Questa non era comunque una giustificazione valida. E avrebbe trascorso il resto dei suoi giorni cercando di risarcirla di tutto... anche del bambino che aveva dovuto abbandonare. «Mi sembra cha vada bene anche così.» Anne stava rispondendo alla sua seconda domanda a proposito della differenza d’età, e non sembrava impressionata. «So contare anch’io. E quando avrò sessant’anni tu ne avrai novantatré. Questo cosa ti sembra? Sei sicuro che allora non vorrai una donna più giovane?» Risero entrambi, e Bill incominciò a rilassarsi. Era stata una mattina d’incubo, piena di terrore e di rimorsi: ma adesso s’era ristabilita l’atmosfera dei loro momenti più sereni. «Allora è deciso? Siamo fidanzati?» Bill le sorrise, e Anne gli sorrise a sua volta, e poi si tese per baciarlo ancora. «Siamo fidanzati e io ti amo con tutto il cuore.» Bill la baciò così teneramente in risposta a quelle parole che i loro corpi sembrarono fondersi. Dovette fare uno sforzo per staccarsi, ma non lo voleva più... e se un giorno l’avrebbe sposata... sarebbe stato giusto che adesso... solo per quell’unica volta... per consacrare la loro promessa... La guardò negli occhi. Si rendeva conto che non riusciva più a ragionare, lucidamente. «Mi fai impazzire, lo sai?» «Ne sono felice.» Anne sembrava una donna mentre pronunciava quelle parole e lo guardava negli occhi. «Posso restare per un po’?» Non c’era nulla di male. L’avevano fatto altre volte, quando Gail aveva altri impegni e le cameriere avevano la giornata libera. L’unica differenza era che allora sapevano che sarebbero tornate, mentre adesso erano completamente soli. Bill si offrì di riscaldare la piscina per fare il bagno, e Anne disse 371
che era un’ottima idea. Non indossò neppure il costume e si tuffò dal trampolino mentre Bill seguiva con lo sguardo la guizzante figura vellutata. Era una bella ragazza, anche se in famiglia nessuno l’aveva ancora notato. Era soltanto «la piccola Anne», che stava sempre nascosta nella sua camera. Ma adesso non si nascondeva più. Bill si spogliò e si tuffò dietro di lei; nuotarono sott’acqua come delfini, e spiccarono un balzo insieme, tenendosi per la vita. Lentamente, Bill l’attirò a sé. Non resisteva più. La desiderava troppo. I loro corpi s’incontrarono e lui le accarezzò la schiena e il collo, la baciò teneramente, l’aiutò a uscire, l’avvolse in un accappatoio e la portò in casa tenendola fra le braccia. Non c’era più nulla da dire. Non poteva più resistere, e Anne sembrava una principessa delicata, sdraiata sul suo letto. Bill le sorrise. Un giorno avrebbero avuto figli bellissimi, si disse. Ma ora pensava soltanto a lei, mentre la toccava, l’accarezzava e la baciava; e Anne ricordò una specie di amore che non aveva mai conosciuto veramente, e l’accarezzò con dolcezza fino a che Bill non resistette più. I loro corpi si congiunsero. Anne s’inarcò di piacere. E parve che danzassero insieme per ore, ascendendo verso il cielo fino a quando esplosero come un sole.
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Quei giorni trascorsi insieme furono i più idilliaci che avessero mai conosciuto. Questa volta non c’erano droghe, allucinogeni, riti o finzioni, ma soltanto Bill, la tenerezza e la bellezza che portava nella sua vita, e la gioia che lei gli dava. Per dieci giorni dimenticarono quanto sarebbero stati difficili i due anni successivi. Non lasciavano la casa e il giardino, ma correvano e giocavano, ascoltavano la musica; e Bill le offrì un bicchiere di champagne, uno solo, in quella che chiamava la loro notte di nozze. Facevano lunghi bagni nella vasca, Bill leggeva per lei, e la sera la pettinava davanti al fuoco, e l’amava come non era mai stata amata. Era un amore paterno simile a quello che Bill aveva sempre avuto per Gail, ingigantito dall’amore che aveva provato una volta per la moglie e che non aveva più conosciuto da anni. Le rivelava la sua anima; Anne gli rivelava la propria e non s’era mai sentita tanto felice. L’ultima notte che passarono insieme pianse. Aveva telefonato ogni giorno a Gail, che si stava divertendo a New York; ma non aveva mai telefonato a casa. I suoi sapevano dov’era e si sentivano tranquilli. Non immaginavano cosa stesse facendo: ma adesso quello era il suo segreto, un segreto che avrebbero dovuto conservare per i prossimi due anni. «E se Gail lo scoprisse?» chiese Anne mentre erano a letto insieme. In quei dieci giorni lei era rimasta quasi sempre nuda, avevano fatto l’amore di continuo e Bili sembrava incapace di saziarsi: aveva fatto più spesso l’amore in quegli ultimi die373
ci giorni di quanto l’avesse fatto negli ultimi dieci anni. Ora sospirò, pensando alla domanda che Anne gli aveva rivolto. «Non lo so. Credo che all’inizio rimarrebbe sconvolta, ma con l’andare del tempo finirebbe per accettare. Forse sarebbe meglio se non lo scoprisse ancora per un anno: allora sarà più matura e riuscirà a capire meglio i nostri sentimenti.» Anne assentì. Era d’accordo con lui quasi in tutto. «Credo che la cosa più importante sarà quando comprenderà che il nostro amore può essere condiviso anche con lei, che non la escluderà. Io le voglio bene quanto prima. Ma ti amo. Ho il diritto di risposarmi un giorno, dopotutto... forse Gail resterà un po’ sorpresa quando saprà che si tratta di una delle sue amiche.» Anne immaginò se stessa con il velo candido e Gail che le faceva da damigella d’onore. Era un sogno bellissimo, ma ancora molto, molto lontano. In due anni potevano accadere tante cose. E lei lo sapeva meglio di chiunque altro. Aveva parlato a Bill di Lionel e di John, della loro relazione, del fatto che l’avevano ospitata fino alla nascita del bambino... e poi John era morto nell’incendio e Li ne soffriva ancora. Era passato un anno e non era tornato se stesso. Viveva solo e usciva solo per lavoro. Ogni tanto la invitava a pranzo, ma era sempre così taciturno da farle paura. Bill capiva: aveva provato lo stesso quando gli era morta la moglie... ma naturalmente aveva avuto Gail. Adesso incominciava ad avere la sensazione di sapere tutto di Anne, i suoi segreti, le sue paure, i suoi sentimenti per Faye. Era convinta che i suoi genitori non le avessero mai voluto bene, e Bill ne soffriva per lei. «Dovremo essere molto prudenti, piccola. Non solo con Gail, ma con tutti.» «Lo so. E ho già conservato altri segreti.» Anne assunse un’aria misteriosa, e Bill rise e le baciò la punta del capezzolo che s’inturgidì immediatamente. «Non come questo, spero.» «No.» Anne sorrise e poco dopo fecero di nuovo l’amore. Lui non provava più rimorso. Era così, ed era qualcosa che non poteva perdere. Non avrebbe rinunciato a lei. Le sareb374
be rimasto accanto per il resto della vita, e glielo promise quando l’accompagnò a casa il pomeriggio seguente. Avevano entrambi l’aria stanca: per tutta la notte avevano parlato e fatto l’amore. Bill doveva passare a prendere Gail all’aeroporto, e quella sera sarebbero tornate le cameriere. La luna di miele incantata era finita, e adesso dovevano muoversi con prudenza e organizzare quella che sarebbe stata la loro vita per i prossimi due anni. Ma ci sarebbero stati altri momenti come quello, vacanze trascorse insieme, notti rubate ogni tanto. Bill gliel’aveva promesso; e lei aveva ancora gli occhi illuminati dall’amore quando rientrò in casa con la valigia in mano. Si fermò, rimase in ascolto, e sentì la Rolls Royce che si allontanava. «Hai l’aria molto stanca.» Sua madre le lanciò un’occhiata. Quel giorno non avevano girato. Era una domenica pomeriggio. Guardò Anne negli occhi, ma almeno sembrava contenta. «Ti sei divertita, cara?» «Mmmmm.» «Probabilmente è stato un pajama party durato dieci giorni.» Ward sorrise. «Non so cos’abbiano le ragazze della tua età, ma non vogliono mai vestirsi.» Anne sorrise e sparì nella sua camera senza dir nulla, ma quando Vanessa la guardò, scorse qualcosa di più di ciò che avevano notato i genitori, senza sapere con certezza che cosa fosse. Le ispirava un senso d’inquietudine. Avrebbe voluto parlare con la sorella prima di ripartire. Ma non ne ebbe il tempo. L’indomani Anne tornò a scuola. C’erano diversi amici che Vanessa desiderava rivedere, e la sera seguente doveva preparare le valige. E poi partì, senza sapere che cosa avesse acceso quella luce negli occhi di Anne.
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tutti ritornarono alle loro vite. Val tornò ai film dell’orrore, un certo uso di droghe e un uomo nuovo nel suo letto quando capitava, e Vanessa tornò a scuola a New York. Greg era in difficoltà con i voti ma prometteva di riprendersi, e Anne non causava fastidi. Passava gran parte del tempo in casa dell’amica, ma ormai tutti s’erano abituati. Non la vedevano mai. Aveva compiuto sedici anni e aveva concesso a stento una sera alla famiglia per festeggiare l’occasione. Gail e il padre l’avevano invitata al Bistro l’indomani, e Faye non ci vedeva niente di male. Gli Stein erano così gentili con lei, e Faye rammentò ad Anne di comprare ogni tanto qualche regalo per Gail, per dimostrare che le era riconoscente. In febbraio Lionel telefonò a Faye allo studio e chiese se poteva andare a pranzo con lei e Ward. Era strano che lo facesse, e lei si augurò che avesse da dare una buona notizia, come un film interessante, un nuovo genere di lavoro o magari l’annuncio che aveva deciso di riprendere gli studi. Ma nessuno dei due era preparato a ciò che disse. Lionel parve esitare come se fosse riluttante a dar loro un dolore, e Ward si sentì sopraffatto dalla nausea. Forse stava per dire che era innamorato di un altro uomo, e non voleva saperlo. Ma Lionel si confidò in fretta; e non c’era modo di attutire il colpo. «Mi hanno arruolato.» I genitori sgranarono gli occhi. Era il momento peggiore. La guerra nel Vietnam era al massimo dell’intensità. Ward inorridì. Per quanto 376
amasse il suo paese, non voleva sacrificare nessuno dei suoi figli a una guerra che non sentiva in un posto del quale non gli importava niente. E Faye sgranò gli occhi quando sentì la risposta del marito. «Digli che sei gay.» Era la prima volta che aveva pronunciato quella parola, e Lionel sorrise e scosse la testa. «Papà, non posso.» «Non fare il timido, Cristo. Può salvarti la vita.» Era per la stessa ragione che aveva detto a Greg di migliorare la media. Se l’avessero buttato fuori dalla scuola sarebbe finito nel Vietnam. Ma Lionel aveva la giustificazione ideale, e non s’era preoccupato molto per lui. «Abbi un po’ di buon senso, figliolo. O glielo dici, o te ne vai in Canada.» «Non voglio scappare, papà. Non sarebbe giusto.» «E perché no, Cristo?» Ward batté il pugno sul tavolo della mensa, e nessuno gli badò. C’era sempre tanto chiasso che nessuno vi faceva mai caso. Potevi entrare nudo e urlare a pieni polmoni, e gli altri pensavano che stessi provando una parte. Ma Ward faceva sul serio. «Devi tirartene fuori, Li. Non voglio che tu ci vada.» Faye aveva ascoltato con le lacrime agli occhi. «Anch’io non voglio, tesoro.» «Lo so, mamma.» Lionel le toccò la mano, gentilmente. «Non ne sono entusiasta, ma credo di non aver scelta. Ieri sono andato a parlare e credo che sappiano chi sono. Sanno che lavoro nel cinema e vorrebbero che facessi qualcosa in questo campo.» Faye e Ward lo guardarono un po’ sollevati. «Ti hanno detto dove?» Lionel trasse un profondo respiro. «Probabilmente in Vietnam per un anno, e forse in Europa l’anno successivo.» «Oh, mio Dio.» Ward impallidì e Faye si mise a piangere. Furono due settimane tristissime mentre Lionel abbandonava l’appartamentino e il suo lavoro e tornava a casa per qualche giorno prima di partire per il campo d’addestramento. Faye e Ward erano lieti di poter stare un po’ con lui e ogni giorno lasciavano presto il lavoro. Ma l’ultima sera fu dolorosa e 377
piansero brindando a Lionel. E tutti si affollarono a salutarlo, l’indomani mattina alle sei quando il tassì lo portò via, e Faye si abbandonò singhiozzando tra le braccia di Ward. Temeva di non rivederlo più e Ward, mentre la teneva abbracciata, piangeva anche lui disperatamente. Anne fece una lunga passeggiata con Bill e gli confidò ciò che i suoi genitori non osavano dire: Lionel non s’era mai ripreso dopo la morte di John e forse era andato in Vietnam per morire. Era un pensiero agghiacciante. «Sono sicuro che non è così, tesoro. Lionel fa ciò che ritiene giusto. Anch’io ho fatto la guerra, sai, e non tutti muoiono. E se lavorerà nei documentari, sono certo che non correrà pericoli.» Questo non era vero. Sapeva che spesso gli operatori venivano colpiti quando volavano a bassa quota sugli elicotteri per effettuare le riprese; si augurava che il fratello di Anne avesse un po’ di buon senso, e che lei si fosse sbagliata a valutare i suoi moventi psicologici. Ma Ward e Faye avevano segretamente gli stessi timori. Val era l’unica convinta che sarebbe andato tutto bene. Era così presa dalla sua vita che non aveva tempo di pensare ad altro. Aveva appena avuto una parte in un film di mostri che stavano realizzando nei pressi di Roma. Il cast era internazionale e tutto il film veniva doppiato, ma anche lì non aveva nessuna battuta. C’erano diversi vecchi divi al tramonto e disoccupati da tempo. «Non è magnifico?» Aveva telefonato a Vanessa per annunciarle che sarebbe passata da New York. Si sarebbe fermata solo una notte, ma sarebbe stato piacevole. Vanessa l’aveva invitata a stare con lei per conoscere il suo «amico». Valerie scese correndo dall’aereo. Portava una gonna di pelle rossa, collant viola, una pelliccia viola e stivali di nappa che sembravano due insegne al neon. Il golf era scollato fin quasi alla cintura, e i suoi capelli erano la solita criniera spettinata. Vanessa diede un’occhiata curiosa a Jason, sobriamente vestito di verde scuro e di grigio. «Dio mio, ma è proprio vera?» mormorò Jason a Van. Ma 378
era innegabilmente bella nonostante l’abbigliamento assurdo, e Vanessa sorrise. «Plastic Land in tutta la sua perfezione.» Valerie si buttò fra le braccia di Vanessa e baciò Jason un po’ troppo affettuosamente. Era troppo profumata e, quando la baciò, Vanessa le sentì nei capelli l’odore della marijuana. Quella sera andarono al Greenwich Village ad ascoltare musica jazz, poi rientrarono e restarono a chiacchierare nell’appartamento di Jason fino alle quattro del mattino. Lui versò la tequila fino a dar fondo alla bottiglia, e Valerie tirò fuori una scatola di spinelli. «Servitevi.» Ne accese uno con mosse esperte mentre Jason stava a guardare e poi la imitava. Vanessa esitò. Aveva provato una sola volta e non le era piaciuto molto. «Avanti, sorellina, non fare la puritana.» Vanessa stette al gioco e sostenne che non le faceva nessun effetto, ma poi si ritrovarono a cercare sulle Pagine Gialle una pizzeria aperta tutta la notte, finirono per vuotare il frigo di Louise e Van, e risero e scherzarono come matti. Jason fissava Valerie: non riusciva a spiegarsi come mai fosse tanto diversa dalla gemella. Continuò a fissarla con lo stesso stupore anche l’indomani quando lei s’imbarcò sull’aereo, questa volta in un tailleur di pelle verde che i suoi genitori non avevano mai visto. S’era fatta prestare quasi tutto il guardaroba per il viaggio dalle ragazze che abitavano con lei; sembrava che fosse una cosa abituale, nessuna sapeva più a chi apparteneva un abito o l’altro. Val sarebbe rimasta assente solo poche settimane a meno che trovasse altre occasioni di lavoro in Europa. «Ciao-ciao. Statemi bene.» Poi strizzò l’occhio a Van. «È un tipo a posto.» «Grazie.» Le due sorelle si baciarono, e Jason salutò con la mano mentre Vai saliva a bordo. Era come essere stati investiti per due giorni da un ciclone. «Come fa a essere così, quando tu sei quella che sei?» Jason non riusciva a capire e Van rideva nel vederlo quasi in stato di choc. 379
«Non lo so. Siamo completamente diverse, anche se apparteniamo alla stessa famiglia.» «Direi.» «Mi scambieresti con Val?» Era un timore che Vanessa aveva sempre avuto. Valerie era così spettacolare e scandalosa, con la sua scatola di spinelli, la sua morale permissiva e i capelli rossi. Vanessa aveva avuto l’impressione che, se lei fosse sparita, sarebbe andata volentieri a letto con Jason: ma conosceva bene la gemella ed era stata in guardia. Nel corso degli anni aveva perso troppi ragazzi per colpa sua e non si fidava, anche se non le serbava rancore. Val era così, e non poteva farci nulla. «Per il momento no.» Jason sembrava molto sollevato all’idea che gli fosse capitata la gemella meno travolgente. Si allarmò, invece, quando diversi mesi dopo Vanessa gli fece una proposta. La loro relazione continuava; anzi, era andata a vivere con lui, e Louise s’era trovata un’altra coinquilina. S’erano messe d’accordo: se i genitori di Vanessa chiamavano, le due del piano di sopra dicevano di attendere e scendevano ad avvertirla perché salisse in fretta a rispondere. Ma telefonavano raramente. E se fossero venuti a New York, Vanessa sarebbe tornata a stare con l’amica per qualche giorno: finora però non erano comparsi. Erano troppo impegnati con il loro ultimo film. Lionel era ancora nel Vietnam, ma miracolosamente tutto era andato bene fino ad allora, e Valerie non era ancora tornata da Roma. Aveva ottenuto un’altra particina, questa volta in uno spaghetti-western che per lei era una novità, e aveva lavorato come fotomodella a Milano... così disse a Faye, ma dimenticò di aggiungere che aveva posato senza niente addosso. Ormai erano tutti sparsi per il mondo, e l’unica rimasta a Los Angeles era Anne. Ward voleva prendere in affitto una casa sul lago Tahoe per due settimane, e desiderava sapere se Vanessa ci sarebbe andata. Lionel sarebbe venuto in licenza, Greg avrebbe terminato in quel periodo il lavoro estivo, Val aveva annunciato che sarebbe rientrata da Roma e Anne 380
diceva che sarebbe andata se avesse potuto condurre con sé Gail. Adesso Ward voleva una promessa da Van. Lei intendeva farsi accompagnare da Jason, ma Jason era inorridito. «A Plastic Land? Per due settimane?» «Oh, andiamo! Allora avrai finito la tua tesi, e il lago Tahoe non è di plastica. E poi voglio farti conoscere la mia famiglia.» Era appunto ciò che lui temeva. Immaginava che fossero tutti come Val e che l’avrebbero divorato: era un ragazzo di provincia e non avrebbe saputo difendersi. «Conosci già Val, e quindi non saranno tutti estranei.» «Oh, Dio!» Jason fece tutto il possibile per dissuaderla, ma Vanessa fu irremovibile. S’era trovata un lavoro per l’estate in una libreria, e ogni sera, quando tornava a casa, ricominciava l’assedio. «Non puoi parlare di qualcosa d’altro? Hanno assassinato Robert Kennedy, la politica di questo paese è uno schifo, tuo fratello è in Vietnam. E noi dobbiamo parlare di vacanze?» «Sì.» Vanessa capiva che aveva paura ma non ne immaginava la ragione. Per lei, la sua famiglia era innocua. «Continueremo a parlarne, se non accetti di venire.» «Merda!» Jason aveva urlato con lei perché l’amava molto. «E sta bene! Verrò!» «Cristo, finalmente!» C’erano voluti due mesi. E quando Vanessa telefonò ai genitori, rimasero sbalorditi. A parte Anne che voleva farsi accompagnare da Gail, Vanessa era la prima che chiedeva di portare con sé «qualcuno». «Chi è, cara?» Faye si sforzò di assumere un tono noncurante quando la figlia la chiamò nel suo ufficio alla MGM. Temeva che l’ospite fosse un tipo poco raccomandabile, poco adatto a Vanessa. Lei era così ingenua in tante cose. E la settimana prima Faye aveva incontrato Valerie in compagnia di un tizio che aveva l’aria del parrucchiere ed era così intontito dalle droghe che Val doveva sorreggerlo. Doveva passare un po’ di tempo con quella ragazza, si disse Faye. Da quando era stata a Roma s’era scatenata, e le voci che incominciavano a circolare non erano entusiasmanti, soprattutto per quanto 381
riguardava le compagnie frequentate da Val. Ma sapeva che era impossibile tenere a freno quella ragazza. Pensò di nuovo a Vanessa e al misterioso amico. Riteneva che in fatto di uomini Van aveva gusti molto più accettabili, ma non sapeva cosa ne avrebbe pensato Ward, anche se la casa presa in affitto era senza dubbio abbastanza grande. C’era una dozzina di camere da letto ed era sul lago. Per la verità, a Faye non sembrava una cattiva idea, e sarebbe stato meraviglioso avere di nuovo vicini tutti i figli. «Chi è questo ragazzo? Studia alla Columbia?» Faye non voleva essere troppo insistente, ma sapeva che sua figlia l’avrebbe giudicata proprio così. «No, adesso non più. Sta finendo la tesi per la libera docenza.» «Ma quanti anni ha?» Adesso Faye era agitata. «Sessantacinque.» Vanessa non seppe resistere alla tentazione di scherzare, ma sua madre non lo trovò divertente. «Su, mamma, stai tranquilla. Ne ha venticinque. Perché?» «Non è un po’ troppo vecchio per te?» Faye si sforzava di mantenere un tono posato, ma senza riuscirci. «Non me ne sono accorta. Cammina ancora normalmente. Sa ballare e andare in bicicletta...» «Non fare la spiritosa. E una cosa seria? Perché vuoi portarlo qui con te? Cosa c’è fra voi due?» Le domande erano così rapide che Vanessa non riusciva a rispondere, e ringraziava il cielo che la telefonata fosse arrivata mentre Jason era fuori. «No, non è una cosa seria. È solo un amico.» Vivo con lui, mamma... Chissà come ci sarebbe rimasta Faye! «Perché non fai queste domande a Val e non lasci in pace me?» Perché era sempre lei ad andarci di mezzo? Avevano sempre fatto così. Lasciavano che i ragazzi facessero quel che volevano, non riuscivano a controllare Val, e Anne non parlava, sebbene Vanessa avesse il sospetto che avesse segreti ben più grandi dei suoi. Negli ultimi tre anni Greg era corso dietro a tutte le sottane, Dio solo sapeva cosa stava combinando Val e Anne aveva quell’aria misteriosa... ma i genitori tenevano sotto mira lei, perché si comportava docilmente. Non era giu382
sto. Tuttavia si sentì commossa dalla gentilezza della voce di sua madre quando le rivolse un’altra domanda. «Sei innamorata di lui, tesoro?» Vanessa esitò. «Non so. Mi piace molto, e ho pensato che andrà d’accordo con tutti.» «È il tuo corteggiatore fisso?» Vanessa sorrise di quel termine antiquato. «Più o meno, credo.» «Be’, ne parlerò con tuo padre e vedremo cosa dirà.» Ma Ward fece meno domande di Faye, disse di sì, e raccomandò alla moglie di stare tranquilla. Certo, per lui era facile. Ma Faye aveva cinque figli a cui pensare, e per lei erano ancora bambini.
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arrivarono tutti separatamente al lago Tahoe. Ward voleva passare qualche giorno solo con Faye, e la casa presa in affitto era anche meglio di quanto avessero sperato. C’erano torrette alle estremità, un enorme soggiorno al piano terreno, un tavolo per diciotto persone nella sala da pranzo dominata da un gigantesco camino. E di sopra c’erano dodici camere da letto, più che sufficienti per tutti. L’arredamento era rustico e intimo, con trapunte, trofei di caccia e piatti di peltro un po’ dappertutto. C’erano ceste indiane e pelli d’orso sul pavimento. Ward e Faye s’insediarono nell’appartamento principale, completo di un grande bagno antiquato e di uno spogliatoio. L’indomani sedettero a guardare il lago tenendosi per mano e rievocando la vacanza in Svizzera di oltre un anno prima. Un po’ immalinconita, Faye si rivolse a Ward. «Un giorno mi piacerebbe ritirarmi in un posto così.» «Tu? Oh, mio Dio!» Ward sorrise. Non immaginava nulla di più assurdo della possibilità che sua moglie, bella ed elegante, vincitrice di tre Oscar, regista famosa, rinunciasse a tutto per starsene a contemplare un lago per altri quarant’anni. Dopotutto, Faye aveva appena quarantotto anni e gli sembrava impensabile. «Diventeresti matta dopo tre giorni, o forse dopo due.» «Non è vero, tesoro. Prima o poi ti farò la sorpresa di abbandonare tutto.» C’erano ben poche cose che Faye non avesse fatto e che desiderasse fare. Pensava sempre più spes384
so alla possibilità di mollare tutto. Dirigeva film da più di quindici anni, e le sembrava abbastanza. Ward rimase colpito dalla serietà della sua espressione. «Sei troppo giovane per ritirarti, piccola. Che cosa faresti?» Faye sorrise e gli baciò il collo. «Resterei tutto il giorno a letto con te.» «Mi sembra un’ottima idea. Forse dovresti ritirarti, se è questo che hai in mente.» Ward sorrise, pensando alle due settimane che li attendevano. «Credi che riusciremo a sopravvivere per quindici giorni con la nostra nidiata?» Attendeva con ansia di passare un po’ di tempo con Lionel e Greg. Da anni non stava in compagnia dei figli, ed era un sollievo sapere che Lionel riusciva a sopravvivere nel Vietnam. Aveva le lacrime agli occhi quando, due giorni dopo, Li balzò dalla macchina presa a nolo. Fu il primo ad arrivare e Ward l’abbracciò affettuosamente. «Mio Dio, come sei abbronzato, figliolo!» Gli sembrava che avesse un ottimo aspetto e che fosse diventato adulto di colpo. A ventidue anni ne dimostrava cinque o sei di più e Ward non poté fare a meno di notare che non aveva affatto l’aria del gay. Si chiese se aveva cambiato abitudini, ma era pretendere troppo... e quando vi accennò, quella sera, Lionel rise. Era la prima volta che si parlavano da amici, dopo anni. Ma Ward ammirava i documentari che Lionel realizzava nel Vietnam e lo rispettava per i continui pericoli che affrontava. «No, papà», Lionel lo disse gentilmente. «Non ho “cambiato abitudini.”» Ward sembrava imbarazzato e Lionel sorrise. «Non sarebbe possibile. Ma dopo John non c’è più stato nessuno, se è questo che intendi.» Si rannuvolò di colpo al pensiero dell’amore perduto. Era passato un anno e mezzo e sentiva ancora terribilmente la mancanza di John. In un certo senso, era meglio essere in Vietnam: almeno non doveva vedere i posti che avevano frequentato insieme. Era una vita completamente nuova. E Ward non faticava a vedere quanto soffriva ancora. Passarono un giorno e mezzo piacevolmente prima che 385
incominciassero ad arrivare gli altri. Jason e Vanessa avevano preso l’aereo da New York a Reno, e poi avevano noleggiato una macchina. Raggiunsero la casa nel tardo pomeriggio. Vanessa scese e si stirò, e Jason si guardò intorno, sbalordito dalla bellezza di quel luogo. E quando Lionel venne loro incontro, restò ancora più sorpreso. Comprese subito che era gay e si chiese perché Vanessa non glielo avesse detto. «Salve.» Lionel aveva un’espressione gentile negli occhi e somigliava un po’ a Van. «Io sono Lionel Thayer.» «Jason Stuart.» Si strinsero la mano e convennero subito che il posto era magnifico: c’era una veduta spettacolosa del lago. Un attimo dopo, Faye e Ward risalirono dalla spiaggia in costume da bagno. Lui portava una canna da pesca ma non aveva catturato neppure un pesciolino, e lei lo prendeva in giro scherzosamente. Faye indossava un costume nero di maglia che metteva in risalto la figura ancora bella. Adesso Jason capiva le rassomiglianze. Lionel era tutto sua madre; e anche se non era disposto a confessarlo a Van, Jason era impressionato: Faye Thayer era bella, intelligente e piena di idee. Faceva ridere tutti e aveva una voce profonda e sexy. Era una delle donne più interessanti che avesse mai conosciuto, pensò Jason quella sera mentre conversavano tutti insieme. Faye gli faceva domande sulla sua tesi, sui suoi progetti e le sue idee, e Jason incominciava a rendersi conto di quanto doveva essere stato difficile crescere accanto a lei. Era così bella e intelligente che sarebbe stato impossibile mettersi in concorrenza; e questo spiegava perché Vanessa era così seria e riservata e perché la sua gemella, invece, si scatenava in quel modo. Van, evidentemente, aveva deciso di non mettersi in competizione con la madre e di vivere una sua vita tranquilla; ma Val continuava a lottare, pur se nel modo sbagliato. Si sforzava di essere più spettacolare e più bella, tentava di sconfiggere la madre sul suo stesso terreno, e non poteva far altro che perdere. Lionel s’era dedicato al cinema, ma in un campo del tutto diverso. Adesso, Jason era curioso di conoscere gli altri due giovani Thayer. Greg 386
arrivò poco dopo: non parlava altro che di football, di birra e di ragazze. Era stancante stare con lui; ma Jason notò che Ward si illuminava ogni volta che parlava con Greg. Quello era il figlio prediletto, il suo eroe, il suo atleta. Non era difficile immaginare quanto doveva averne sofferto Lionel per quasi tutta la vita. Jason provò a parlare con Greg un paio di volte, il giorno dell’arrivo: ma non aveva molto da dire e sembrava sempre occupato a pensare ad altro. Poi, finalmente, Val arrivò con Anne. Era rimasta in città più che aveva potuto, e aveva accettato di accompagnare la sorella, anche se non aveva molta voglia di lasciare Los Angeles. Stavano scegliendo il cast di un nuovo film dell’orrore, e non voleva perdere l’occasione. Ma non poteva fare tutto e sapeva che tra due settimane avrebbero scelto gli interpreti di un altro. Ormai era specializzata in quel genere, e non le importava che gli amici la prendessero in giro. Lavorava senza sosta e guadagnava discretamente. «Su», scherzarono tutti al suo arrivo. Lionel spense la luce in sala da pranzo. «Su, Val, vogliamo sentire il tuo famoso urlo.» Ormai Vai era abituata: alle insistenze generali rise e poi si alzò nel buio accanto al fuoco, si portò le mani alla gola, fece una smorfia atroce e lanciò un lungo urlo penetrante. Era così convincente che tutti la guardarono spaventati, pensando che stesse per soffocare. Vai continuò l’urlo tremendo e poi si accasciò sul pavimento. Gli spettatori applaudirono e acclamarono, incluso Jason. Quel pomeriggio era andato in canoa con Van e con lei, e Val era stata divertentissima. Jason stava diventando uno dei suoi ammiratori più ardenti. E per dimostrargli che il sentimento era reciproco, mentre tornavano a casa Valerie gli aveva offerto con calma una rana. Lui aveva sussultato, Van aveva gettato uno strillo, e Val aveva detto che si comportavano in modo ridicolo. «Diavolo, nel film che ho fatto a Roma ho lavorato con duecento rane!» Erano scoppiati a ridere tutti e tre e avevano fatto una corsa fino a casa. Era come tornare bambini. Quel giorno Lionel, Ward e Greg erano andati a pescare: torna387
rono con parecchie trote e cercarono di convincere Faye a cuocerle, ma lei ribatté che spettava ai pescatori. Lionel aveva l’impressione che Greg fosse un po’ troppo taciturno, e si chiedeva che cosa lo impensieriva. Ma nel complesso si divertivano tutti. Faye aveva trascorso un pomeriggio tranquillo sulla spiaggia in compagnia di Anne che non aveva voluto uscire in canoa con Jason e le gemelle e neppure a pescare con gli uomini. Faye non era neppure certa che fosse entusiasta di restare con lei. Ma non aveva altro da fare e perciò era rimasta a leggere un libro. La sua amica, Gail, aveva deciso di non venire a intromettersi nella riunione di famiglia, ed era andata a San Francisco con il padre. Così, Anne si sentiva più sola che mai. Scrisse una lettera, poi a un certo momento sgattaiolò in casa, e Faye la vide al telefono. Faye pensava che le fosse dispiaciuto separarsi dall’amica e che quella villeggiatura non l’attirasse molto: ma la vacanza faceva bene a tutti. Prima che incominciasse la seconda settimana erano abbronzati e sereni. Ward e Jason erano diventati amici, le due gemelle si trovavano bene insieme come non succedeva da anni, e Greg sembrava finalmente rilassato. Persino Anne si divertiva. Un giorno andò a fare una lunga passeggiata con Vanessa, mentre Jason aveva accompagnato Faye in città con la macchina. Vanessa la guardava senza parere, e pensava che ormai sembrava adulta. Aveva sedici anni e mezzo ma le esperienze l’avevano molto maturata. «Il tuo amico mi è simpatico», disse Anne, rompendo l’abituale riserbo. «Jason? Anche a me. Ed è un tipo a posto.» «Credo che ti voglia molto bene.» Annuirono entrambe. Era evidente, e sembrava che Jason si fosse affezionato anche alla famiglia. Aveva avuto tanta paura prima di arrivare lì, e aveva confessato che aveva temuto di dover subire una specie di interrogatorio da parte di tutti. Li trovava simpatici, persino la piccola, timida Anne, che adesso stava guardando incuriosita la sorella. «Pensi di sposarlo?» Vanessa sapeva che se lo chiedevano tutti: ma aveva appena diciannove 388
anni e per il momento preferiva non pensarci. Non voleva pensarci ancora per qualche anno. «Non ne parliamo mai.» «Perché no?» Anne era sorpresa. «Ho ancora molto da fare. Voglio finire gli studi... guardarmi intorno... provare a scrivere...» «Ma ci vorrà molto tempo.» «Non ho fretta.» «Ma scommetto che l’ha lui. È più vecchio di te. Questo non ti preoccupa, Van?» Anne si chiedeva cosa avrebbe pensato sua sorella dei trentatré anni di differenza che c’erano tra lei e Bill. In confronto, sei anni non erano nulla. «Qualche volta. Perché?» «Niente, l’ho chiesto per curiosità.» S’erano sedute su una roccia e avevano tuffato i piedi in un ruscello. Anne guardava l’acqua con aria sognante e Vanessa si chiese che cosa le passava nella mente. C’erano appena tre anni fra loro, ma a volte sembravano dieci; e pareva che Anne fosse la più vecchia, come se avesse vissuto troppo e avesse troppo sofferto. Si rivolse a Vanessa come se le leggesse nel pensiero. «Se fossi in te, Van, lo sposerei.» Aveva un’aria così saggia che Vanessa sorrise. «Perché?» «Forse non ne troverai un altro come lui, e un brav’uomo è prezioso.» «Lo pensi davvero?» Vanessa la guardò, scorse di nuovo qualcosa d’indecifrabile nei suoi occhi: e all’improvviso intuì che c’era un uomo nella vita di Anne, e probabilmente era molto importante. Era difficile capirlo. Lasciava trasparire così poco i suoi sentimenti. In quel momento distolse il viso per impedire che Vanessa le leggesse negli occhi. «E tu? C’è qualcuno nella tua vita?» Vanessa si sforzò di mantenere un tono leggero e disinvolto, ma Anne scrollò subito le spalle, quasi troppo in fretta. «No, niente.» «Proprio nessuno?» 389
«No.» Van sapeva che la sorella mentiva; ma non poteva dirle nulla. Dopo un po’ rimisero le scarpe di tela e tornarono a casa. Ma quella sera Vanessa prese in disparte Lionel, che conosceva Anne meglio di tutti. «Credo che Anne abbia una storia con qualcuno.» «Perché lo credi?» Ormai Lionel aveva perso i contatti. Era in Vietnam da sei mesi, e Anne non si confidava più con lui. «È una sensazione... non saprei spiegare il perché... ma sembra cambiata...» Lionel rise e la guardò negli occhi. «E tu, sorellina? Fai sul serio con Jason?» Vanessa si chiedeva se proprio tutti si sentivano in dovere di rivolgerle quella domanda. Sorrise. «Calma, calma. Anche Anne me l’ha chiesto, oggi. Le ho detto che è una cosa temporanea.» In fondo era sincera. Chi poteva sapere che cosa avrebbe portato il futuro? «Peccato. Mi sembra simpatico.» Vanessa guardò il fratello e sorrise maliziosamente. «Non puoi averlo. È mio.» Era la prima volta che lo prendeva in giro così, dopo molti anni. Lionel schioccò le dita e sorrise. «Ah, accidenti!» In quel momento Greg li raggiunse e li guardò. «Cos’è successo?» Ma Vanessa non diede spiegazioni. Buttò là una frase a caso e andò in cerca di Jason. Lo trovò in compagnia di Val, che lo stava punzecchiando spietatamente perché lo giudicava troppo moralista. Ward e Faye erano sotto il portico e Anne era in casa, a telefonare di nuovo a un’amica. «Probabilmente Gail.» Faye sorrise a Ward, e lui alzò le spalle. Non era il caso di essere curiosi. Adesso erano finalmente in compagnia di tutti i loro figli, ed era felice di poter dire che era soddisfatto anche se non tutti erano diventati ciò che aveva previsto. Aveva avuto ben altre speranze per Lionel, naturalmente, e gli sarebbe piaciuto che Val continuasse gli studi anziché imparare a lanciare urla agghiaccianti; ma Anne era tornata sulla strada giusta, Vanessa si comportava nel modo migliore, e naturalmente Greg era il loro grande 390
orgoglio. Tuttavia lo era un po’ meno di quanto Ward avesse immaginato; e proprio in quel momento lo stava confessando a Lionel sulla spiaggia mentre erano seduti su di un tronco per ammirare il tramonto. Lionel aveva finalmente scoperto che cosa aveva preoccupato Greg dal momento dell’arrivo. Fu una specie di confessione torrenziale. «Non so cosa dire a papà, Li... se mi buttano fuori dalla squadra...» Chiuse gli occhi, incapace di continuare. Lionel aveva l’aria cupa. Sarebbe stata una delusione terribile per Ward; ma c’era di peggio, e lo sapeva anche troppo bene. Ogni giorno vedeva ragazzi come Greg che giacevano morti a terra, sventrati da una pallottola, mentre lui faceva ronzare la cinepresa. «Cosa cavolo ti è venuto in testa di fare una cosa simile?» Quella primavera l’avevano scoperto a fumare marijuana e l’avevano messo in panchina. Ward non sapeva la verità: credeva che Greg si fosse fatto male a un piede. Ma i suoi voti erano così scarsi che forse non l’avrebbero neppure rimesso in squadra. «Cristo, se volessero potrebbero addirittura buttarmi fuori dalla scuola.» Greg aveva le lacrime agli occhi. Ma gli faceva bene confidarsi. Erano settimane che si tormentava. Lionel gli strinse il braccio e lo guardò negli occhi con fermezza. «Non puoi permetterlo. Devi tornare e impegnarti al massimo per migliorare i tuoi voti. Prendi lezioni private se è necessario, fai qualunque cosa...» Lionel sapeva bene di cosa parlava; Greg non sapeva che cosa succedeva veramente in Vietnam, ma aveva paura comunque. Guardò il fratello, disperato. «Forse dovrò barare.» Lionel scosse la testa con un gemito. «No, cretino.» Era come essere tornati bambini; e almeno tra loro c’era di nuovo quella confidenza. Non erano mai stati veramente amici da quando erano cresciuti e Lionel s’era accorto di essere diverso, e soprattutto da quando Greg aveva saputo la verità sul suo conto. Ma, stranamente, adesso s’era rivolto proprio a Lionel; da diversi giorni s’era ripromesso di parlare con lui. 391
Non conosceva abbastanza bene Jason, e non poteva dirlo al padre: ma doveva raccontare a qualcuno quello che gli stava succedendo. Lionel lo fissava indignato. «Sei un idiota. Se bari, ti buttano fuori di sicuro. Devi fare tutto in modo regolare... perché se non lo fai e ti espellono dalla scuola, ti spediranno in Vietnam così in fretta da farti girare la testa. Sei esattamente ciò che gli serve: giovane, sano, forte e stupido.» «Grazie.» «Dico sul serio. E quando dico stupido intendo parecchie cose. Non sei abbastanza vecchio per ritrovarti nella giungla a pensare alla moglie e ai figli. Vedrai morire i tuoi compagni e smanierai di ammazzare i vietcong. E sei giovane e sano...» Gli occhi di Lionel si riempirono di lacrime. «Ogni giorno vedo morire tanti ragazzi come te.» Lo inorridiva l’idea di tornare; ma tra qualche settimana l’avrebbe fatto, e Greg lo guardava con un nuovo rispetto. Lionel era sopravvissuto ed era diventato un uomo... se si poteva dire così. Greg aveva ancora le idee confuse sul conto del fratello, ma adesso gli dava ascolto. Sapeva che aveva ragione, e aveva una paura tremenda. «Devo assolutamente rientrare in squadra.» «Pensa a prendere voti decenti, e così non ti butteranno fuori dalla scuola.» «Farò il possibile, Li, te lo giuro.» «Bene.» Lionel gli spettinò i capelli come aveva fatto quand’erano bambini. Sorrisero mentre il sole tramontava. Greg passò un braccio intorno alle spalle del fratello: gli ricordava i tempi in cui andavano insieme al campeggio. «Ma allora ti odiavo», disse Greg. Risero entrambi. «E odiavo Val e Van.» Rise più forte. «Odiavo tutti, credo. Vi invidiavo. Volevo essere figlio unico.» «In un certo senso lo eri. Sei sempre stato il più vicino a papà.» Greg annuì. Non poteva negarlo. «Ma allora non me ne rendevo conto.» Lo impressionava che Lionel la prendesse con tanta filosofia. Negli ultimi anni, l’affetto del padre l’aveva messo in imbarazzo, qualche volta. Si affrettò a cambiare argomento. «Almeno, non ho mai odiato Anne.» 392
Lionel sorrise. «Nessuno di noi la odiava. Era troppo piccola.» Ma adesso non lo era più. Ormai era grande. E in quel momento aveva appena finito di parlare per telefono con Bill. Era un tormento stare lontano da lui e lo chiamava tre o quattro volte al giorno. Tutti se ne accorgevano, ma pensavano che telefonasse a Gail. Vanessa era la sola ad essere convinta che Anne avesse un legame con un uomo, ma non aveva modo di scoprirlo con certezza e non ne parlava a nessuno. Nel complesso, tutti s’erano trovati bene insieme e l’ultima sera Valerie sedette sul pavimento accanto alla porta della sua stanza, a tendere un piccolo agguato a Jason e Van. Ogni notte aveva sentito Vanessa percorrere furtivamente il corridoio per andare da lui; e quando la sentì passare, attese un paio di minuti e poi corse a bussare alla porta di Jason. Sentì una risatina, poi un’esclamazione soffocata, e infine la voce baritonale che diceva: «Avanti». Val entrò, avanzò verso di lui con aria seducente e poi, mentre Jason la fissava allibito, si buttò sul letto, schiacciando Van che gettò uno strillo. Allora capirono che era tutto uno scherzo, risero insieme e parlarono a lungo. Alla fine andarono a chiamare Lionel e Greg e scesero tutti insieme a saccheggiare il frigorifero e a bere birra. Era la conclusione ideale di una vacanza magnifica e, quando l’indomani ognuno di loro ripartì per la sua strada, portò con sé il ricordo di quei giorni felici.
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con sua grande sorpresa, Vanessa riuscì a convincere Jason a fermarsi qualche giorno a Los Angeles. Ma ormai lui conosceva la sua famiglia e sapeva di non avere nulla da temere, ed era curioso di vedere la città che per tanto tempo aveva disprezzato. Accettò di fermarsi soltanto per due giorni, e Valerie fece il possibile perché si trovasse a suo agio. Lo portò negli studios, alle feste, nei ristoranti alla moda. Vanessa non aveva mai visto tanto Hollywood in vita sua come in quei due giorni. Faye e Ward erano già al lavoro per la preparazione di un nuovo film e Anne era tornata alla sua vita. Lionel ripartì per il Vietnam passando dalle Hawaii e da Guam. E dopo due giorni Jason e Vanessa presero l’aereo per New York, e ognuno ritornò alla solita vita. Vanessa tornò al Barnard per il secondo anno, e Greg in Alabama per l’ultimo anno di studi. Ma non durò molto. Al suo rientro seppe che l’avevano escluso dalla squadra. Si ubriacò per una settimana filata per riprendersi dal brutto colpo, e saltò due esami importanti che non aveva fatto durante il semestre precedente. Il 15 ottobre il rettore lo mandò a chiamare e lo «invitò ad andarsene». Erano dolenti che fosse successa una cosa simile a un ragazzo così in gamba. Gli consigliarono di andare a casa a riflettere per il resto dell’anno scolastico; e poi, se si fosse deciso a mettere la testa a posto, sarebbero stati lieti di riaccoglierlo. Ma sei settimane dopo 394
che Greg era tornato a casa con la coda fra le gambe e aveva dovuto vedere il dolore di Ward, l’esercito gli mandò un invito ben diverso. L’avevano arruolato, e questo significava finire in Vietnam. Per tutto un pomeriggio non si mosse da casa, stordito. Era ancora lì quando tornò Anne. Adesso rientrava sempre tardi: dopo la scuola andava da Gail a fare i compiti, e poi Bill l’accompagnava a casa in macchina. Così potevano rimanere soli per qualche minuto e per lei era importante. Di solito ricompariva a casa Thayer a sera tarda: comunque, c’era soltanto la cameriera. Ma da quando Greg era tornato dall’università, le cose erano un po’ cambiate. Anne entrò e lo vide seduto immobile e triste, come se fosse morto qualcuno. Si fermò a guardarlo, e Greg alzò la testa senza neppure vederla. «Cosa ti è successo?» Non gli era mai stata molto vicina, ma le dispiaceva che l’avessero cacciato dalla scuola. Sapeva quanto fosse importante per lui la squadra di football; e Greg era sempre stato depresso da quando era tornato. Ma quel giorno era ancora più avvilito, e doveva essere accaduto qualcosa di grave. Greg la fissò, spaventato. «Stamattina ho ricevuto la chiamata di leva.» «Oh, no...» Anne gli sedette di fronte. Si rendeva conto di ciò che significava. Era già tremendo che Lionel fosse in Vietnam. Erano ancora lì a parlare quando entrarono Ward e Faye. Era piuttosto presto per loro, ed erano di buon umore. Le cose andavano bene, e il cast prendeva forma nel modo migliore. Ma Ward si fermò di colpo appena ebbe varcato la soglia. Lesse subito nell’espressione di Greg che era successo qualcosa di terribile e temette che si trattasse di Lionel. «Brutte notizie?» Lo chiese più in fretta che poté, perché potesse rispondergli con la stessa prontezza. Greg annuì. «Già.» Gli porse in silenzio il foglio. Ward lo lesse e si lasciò cadere su una sedia. Un attimo dopo lo passò a Faye. Aspettavano soltanto che Lionel finisse il turno di ser395
vizio nel Vietnam... e adesso avrebbero dovuto preoccuparsi anche per Greg. Doveva presentarsi tre giorni dopo. Non avevano perso tempo, ed era già il primo dicembre. Pensò di nuovo al Canada, ma gli sembrava ingiusto... Lionel era in Vietnam. E non era giusto che Lionel rischiasse la vita e Greg no. Evidentemente doveva partire. Il 4 dicembre Greg si presentò a Ford Ord e fu mandato a Fort Benning in Georgia per sei settimane di addestramento. Non lo lasciarono neppure tornare a casa per Natale, e quell’anno fu una festa molto triste. Val era andata in Messico con un gruppo di amici, Vanessa s’era recata finalmente nel New Hampshire con Jason, Greg era al corso d’addestramento, Lionel era in Vietnam, e Anne smaniava di correre via. Anche quell’anno aveva preso gli stessi accordi con Bill, e poche settimane dopo avrebbe compiuto diciassette anni. Avrebbero dovuto pazientare un anno appena, si dicevano continuamente. Greg partì il 28 gennaio. Arrivò a Saigon e di là fu mandato alla base aerea di Bien Hoa, più a nord. Non aveva avuto neppure la possibilità d’incontrarsi con Lionel, al quale restavano appena tre settimane di servizio prima che lo mandassero in Germania. Non vedeva l’ora. Ne aveva avuto abbastanza di quella guerra atroce... se fosse sopravvissuto. Troppi uomini che aveva conosciuto erano morti il giorno prima di tornarsene a casa. Avrebbe trattenuto il fiato fino a quando l’aereo fosse atterrato a Los Angeles. Ma sapeva che Greg era in Vietnam; cercò più volte di contattarlo, ma inutilmente. Il comando s’era affrettato a spedire tutte le reclute in zona di combattimento il giorno stesso del loro arrivo a Bien Hoa. Fu un drammatico benvenuto nel Vietnam. Greg vi rimase esattamente per due settimane. Il 13 febbraio il 1° Corpo dell’esercito organizzò varie azioni e attacchi con i razzi contro i vietcong, distrusse due villaggi e prese numerosi prigionieri. Greg assaporò per la prima volta il sangue, la morte e la vittoria. Il migliore amico che s’era fatto al campo d’addestramento era stato ferito al ventre ma i 396
medici dicevano che se la sarebbe cavata. L’unica cosa buona era che sarebbe tornato a casa. Dozzine di ragazzi morirono, e sette scomparvero... questo spaventò tutti. Greg ebbe l’occasione di sparare a due vecchie e a un cane, e gli sembrava spaventoso ed esaltante, come attraversare la linea di meta con la palla fra le braccia. E poi alle cinque del mattino, mentre la giungla si animava e gli uccelli starnazzavano e fischiavano tutto intorno, Greg fu mandato avanti con un gruppo di altri uomini e calpestò una mina. Di lui non restò nulla. Sparì in una nube di sangue e i suoi compagni assistettero alla scena. Molti di loro erano macchiati di quel sangue quando tornarono al campo. Due erano gravemente feriti, e tutti erano in stato di choc. La notizia arrivò a Lionel verso sera. Rimase con lo sguardo fisso sul foglio che qualcuno gli aveva consegnato. Condoglianze. Gregory Ward Thayer era stato ucciso in azione da una mina. E la firma del comandante. Un brivido gli corse lungo la spina dorsale come la notte che aveva guardato il viso di John, davanti alla loro casa incendiata, mentre arrivavano i camion dei vigili del fuoco. Non era mai stato affezionato a Greg come a John. Non avrebbe mai amato qualcuno allo stesso modo. Ma lui e Greg erano fratelli, e adesso non c’era più. Pensò all’angoscia di suo padre quando l’avrebbe saputo, e si sentì trapassare da una fitta di sofferenza. «Figlio di puttana!» Urlò quelle parole davanti al suo albergo, poi si appoggiò al muro e pianse fino a quando qualcuno venne a portarlo via. Era un bravo ragazzo, anche se tutti sapevano cos’era. Non dava fastidio a nessuno, e lo compiangevano. Sapevano che quel giorno era morto suo fratello. Qualcuno aveva visto il telegramma arrivato dal fronte e a Saigon le notizie volavano. Tutti sapevano sempre tutto. Due ragazzi rimasero a far compagnia a Lionel per tutta la notte, mentre beveva e piangeva. E l’indomani mattina lo caricarono sull’aereo. Era sopravvissuto un anno nel Vietnam, aveva realizzato più di quattrocento servizi cinematografici che erano stati proiettati negli Stati Uniti e in tutto il mondo. E 397
suo fratello vi era vissuto appena diciannove giorni. Non era giusto; ma lì non c’era niente di giusto, né i ratti né le malattie né i bambini feriti che gridavano. Quando scese dall’aereo a Los Angeles, Lionel era stordito. Non avrebbe più rivisto il fratello. Aveva tre settimane di licenza prima di partire per la Germania. Qualcuno lo accompagnò a casa. Si sentiva come quando era morto John, appena due anni prima... ventisei mesi... ed era orribilmente intontito come allora. Suonò il campanello perché non aveva più la chiave, e suo padre gli aprì e lo fissò ad occhi sbarrati. Avevano ricevuto la notizia appena la sera prima e c’erano tutti, eccetto Vanessa che sarebbe arrivata con l’aereo del pomeriggio. Non ci sarebbe stato un funerale perché non potevano mandare a casa la salma. Non avevano nulla da mandare, se non i loro fottuti telegrammi. Lionel fissò Ward, Ward gemette d’angoscia e lo abbracciò, sollevato perché il primogenito era ancora vivo e disperato perché Greg non c’era più. Poi lo condusse in casa e piansero a lungo. Lionel teneva il padre stretto a sé come un bambino e Ward piangeva il figlio che aveva tanto amato e sul quale aveva appuntato tante speranze, il suo asso del football. E adesso non c’era più. Non era rimasto nulla di lui, nulla. Soltanto i ricordi. Per qualche giorno rimasero impietriti. Lionel si rendeva conto vagamente che Van era lì, che Val stava con loro, e Anne... ma Greg non c’era... non ci sarebbe stato mai più. Adesso erano soltanto quattro. Tennero un servizio funebre nella Prima Chiesa Presbiteriana di Hollywood. Vennero tutti i suoi insegnanti delle medie superiori. Ward pensava amaramente che se quei mascalzoni dell’Alabama lo avessero tenuto nella squadra o almeno a scuola Greg sarebbe stato ancora vivo. Ma odiarli non serviva a nulla. Era stata colpa di Greg se s’era fatto buttar fuori. Ma chi aveva colpa se era stato ucciso? Doveva essere colpa di qualcuno, no? La voce dell’ecclesiastico continuava monotona, e diceva il nome di Greg... e nulla sem398
brava reale. Poi si fermarono davanti alla chiesa, a stringere la mano alla gente che veniva a fare le condoglianze. Era difficile credere che Greg se ne fosse andato, che non l’avrebbero mai più rivisto. E Ward continuava a guardare Lionel, come per assicurarsi che ci fosse ancora. E c’erano le ragazze. Ma non sarebbe stato più come prima. Uno di loro se n’era andato. Per l’eternità.
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Qualche giorno dopo il servizio funebre Vanessa ripartì per New York, e Val tornò a vivere con le amiche. Lionel trascorreva gran parte del tempo solo in casa. I genitori e Anne non c’erano mai. Ward e Faye erano a lavorare, e lei era a scuola. Lionel provava una specie di attrazione magnetica per la stanza di Greg. Ricordava i giorni in cui lui e John erano stati amici, e adesso non c’erano più... forse erano di nuovo insieme, chissà dove. Sembrava così ingiusto, e Lionel avrebbe voluto continuare a urlare. Un paio di volte uscì a fare un giro in macchina per prendere un po’ d’aria. La sua vecchia Mustang era ancora a casa, dove l’aveva lasciata prima di partire per il Vietnam. C’era anche la macchina di Greg, ma non se la sentiva di guidarla. Era sacra, e solo guardarla gli straziava l’anima. Un pomeriggio uscì con la Mustang rossa, una settimana prima di partire per la Germania, e decise di fermarsi a mangiare un hamburger prima di tornare a casa. Era la prima volta che aveva fame dopo settimane. Quando parcheggiò la macchina ed entrò, vide una Rolls-Royce grigia bicolore. Aveva l’impressione di averla già vista da qualche parte, ma non ricordava dove, e comunque non gli interessava. Sedette al banco, ordinò un hamburger e una Coca, poi guardò nello specchio di fronte e si irrigidì. Dietro di lui, riflessa nello specchio, c’era la sua sorella minore, in compagnia di un uomo molto più anziano. Si tenevano per mano e s’erano 400
appena baciati. Anne stava bevendo un frappè, e lui aveva l’aria di rivolgerle un commento scherzoso. Risero e si baciarono ancora. Lionel rimase inorridito. L’uomo doveva avere l’età di Ward. Avrebbe voluto vedere meglio, ma non osava voltarsi. Poi all’improvviso ricordò chi era: il padre dell’amica di Anne... come si chiamava? Sally? Jane? Gail! Sì, ecco. I due uscirono. L’uomo cingeva Anne con un braccio. Si baciarono di nuovo senza notarlo, poi rimasero a lungo seduti in macchina e Lionel li vide baciarsi ancora. Finalmente partirono mentre lui restava lì a occhi sgranati. Aveva dimenticato l’hamburger e l’appetito. Lasciò il denaro sul banco e tornò a casa. Anne era già di sopra, chiusa in camera sua, e Ward e Faye erano appena tornati. Lionel aveva l’aria di aver visto un fantasma, ma in quei giorni tutti erano ancora stravolti per la morte di Greg. Ward era invecchiato di colpo. Aveva cinquantadue anni e aveva perduto la sua grande speranza. Faye era stanca e pallida. Ma Lionel era più stravolto di loro e Faye se ne accorse subito appena lo vide entrare. Stava lottando con se stesso, incerto se parlare o no. Avevano già tanti problemi... ma non voleva che Anne si mettesse in un nuovo guaio. Era già accaduto una volta, e non doveva ripetersi. «È successo qualcosa, caro?» chiese gentilmente Faye mentre Lionel sedeva nello studio. Ward lo guardò, tristemente, e Lionel decise che sarebbe stato ingiusto dire qualcosa. Prima avrebbe dovuto parlare con Anne... e se lei fosse scappata di nuovo? Questa volta non avrebbe potuto restare per aiutarli a ritrovarla. Non c’era tempo da perdere. Sospirò, si assestò sulla poltrona, guardò i genitori, poi si alzò e chiuse la porta. Quando tornò a voltarsi verso di loro, tutti e due videro la sua espressione preoccupata. «Cosa c’è, Li?» Faye era spaventata. Un incidente? Vanessa a New York?... Val sul set?... Anne?... Lionel decise di venire subito al dunque. «Si tratta di Anne. L’ho vista questo pomeriggio... con qualcuno...» Provò una stretta al cuore al pensiero. Quell’uomo era più vecchio di Ward e non era difficile capire cosa voleva da una ragazzina come quella. 401
«Gail?» Faye s’innervosì. Non avevano tenuto d’occhio quell’amicizia. Gail era così per bene e anche suo padre era un uomo serio, e le due ragazze frequentavano la stessa scuola. Ma le parole di Lionel la lasciarono di sasso. «Non era con Gail ma con il padre, mamma. Erano in un fast-food dove sono entrato io, si baciavano e si tenevano per mano.» Ward sembrava disfatto. Faye guardò il figlio, incredula. «Non è possibile. Sei sicuro che fosse Anne?» Lionel annuì. Non c’era il minimo dubbio. «Come può essere?» «Forse dovresti chiederlo a lei.» Faye si sentì gelare al pensiero di tutte le volte che Anne era stata ospite in casa degli Stein, senza che loro trovassero qualcosa da ridire. E se Gail non fosse stata in casa? O peggio ancora, se ci fosse stata... se quell’uomo era un depravato... Faye cominciò a piangere. Non potevano sopportare altro, soprattutto a causa di Anne. Dio solo sapeva che rapporti aveva con quell’uomo. Faye si alzò di scatto. «Vado a chiamarla.» Ma Ward la trattenne. «Forse prima dovremmo calmarci. Potrebbe essere un errore. Forse Lionel ha sbagliato nell’interpretare ciò che ha visto.» Guardò il figlio con aria di scusa, ma non voleva che fosse vero. Non se la sentiva di affrontare un’altra tragedia, e solo il cielo sapeva in quale altra storia s’era messa quella ragazza. E aveva diciassette anni. Sarebbe stato più difficile controllarla di quando aveva quattordici anni, e anche allora era stato terribile. Faye si rivolse al marito con aria decisa. «Io penso che dovremmo parlarle.» «Sta bene. Allora parlale, ma non accusarla.» Faye aveva le migliori intenzioni quando bussò alla porta; ma appena Anne la vide in faccia comprese che cosa era accaduto, e quando seguì la madre nello studio, rimase sbalordita nel vedere il fratello. «Ciao, Li.» Ma nessuno di loro aveva un’aria amichevole. Lionel le rivolse appena un cenno, e Ward prese subito la parola. 402
«Anne, veniamo subito al dunque. Nessuno ti accusa di niente, ma vogliamo sapere che cosa succede. Per il tuo bene.» La premonizione del disastro assalì Anne; ma non si tradì. Si limitò a scrutarli in viso. Non poteva credere che, anche se Lionel aveva visto qualcosa, l’avesse tradita. Ma s’ingannava. L’aveva tradita e non l’avrebbe mai perdonato. «Tuo fratello crede di averti vista, oggi. Forse non eri tu, cara.» In cuor suo, Ward si augurava che fosse così. Non voleva essere costretto ad affrontare un uomo della sua età e accusarlo di violenza carnale... perché si trattava di questo, con una ragazza di diciassette anni. «Era un fast-food.» Ward si rivolse a Lionel. «Dove, esattamente?» Lionel diede l’indirizzo e Anne si sentì mancare il cuore. «Ma l’importante è che crede di averti vista con un uomo.» «E allora? Il padre di Gail mi ha offerto un frappè prima di accompagnarmi a casa.» Anne si voltò verso Lionel, indignata e bellissima. Non era più una bambina. Era una donna. E Lionel se ne rese conto, quel pomeriggio. Spiegava tutto ciò che era accaduto durante quell’ultimo anno... perché s’era abituata con tanta facilità alla nuova scuola, perché non era mai a casa. «Hai una mentalità perversa.» Anne sibilò quelle parole. «Lo stavi baciando.» Anne fissò infuriata il fratello che una volta le aveva salvato la vita. «Allora, se non altro, non sono omosessuale.» Era una cattiveria, ma Lionel non vi badò. Senza dire una parola l’afferrò per il braccio, sotto lo sguardo inorridito dei genitori. «Ha trent’anni più di te!» «Trentatré, per l’esattezza.» Le sfolgoravano gli occhi. Al diavolo tutti quanti. Ormai non potevano far niente. Era troppo tardi. Apparteneva a Bill. Si ribellò, con uno scatto. «E non m’importa niente di quel che pensate. Nessuno di voi è mai stato buono con me, in tutti questi anni.» Esitò solo un attimo, guardando Li. «Escluso te, ma ormai è passato tanto tempo. E voi...» Fissò con odio i genitori. «Voi non c’eravate mai. Negli ultimi due anni lui mi è stato più vicino di 403
voi, con i vostri film e i vostri impegni e il vostro amoreggiare e i vostri amici. Non sapevate neppure chi ero... e non lo sapevo neppure io. Ma adesso lo so, da quando ho conosciuto Bill e Gail.» «È un ménage à trois?» Lionel sembrava disposto a essere tagliente, e i genitori stavano a guardare. «No, non è vero. Gail non lo sa neppure.» «Dio sia ringraziato. Sei una stupida, Anne, sei la sgualdrinella di un vecchio. A parte gli allucinogeni, non è diverso da quello che facevi all’Haight. Sei la puttana di un vecchio.» Anche allora c’era stato un uomo molto più anziano di lei, Moon. Anne lo ricordava ancora. Ma questa volta era diverso. Si avventò contro il fratello. Liberò il braccio e cercò di colpirlo, ma Lionel la bloccò in tempo. Ward e Faye si alzarono di scatto, e Faye gridò. «Basta! È disgustoso. Finitela tutti e due, Cristo!» «Cos’hai intenzione di fare, mamma?» Lionel era furioso. Anne s’era rovinata l’esistenza per la seconda volta. Perché si ostinava a farlo? Ma lei era incrollabile. «Andate a farvi fottere tutti quanti! Fra dieci mesi avrò diciotto anni, e non potrete farmi più niente. Adesso potete torturarmi quanto volete, potete anche impedirmi di vederlo. Ma fra dieci mesi, non dimenticate le mie parole, io lo sposerò.» «Sei impazzita, se credi che ti sposi. Per lui sei soltanto una troietta!» La cosa più strana era che rappresentava uno sfogo liberatorio gridare con lei, come se Lionel potesse urlare contro il destino che aveva ucciso Greg e John. E comunque era furioso con Anne. «Tu non conosci Bill Stein.» Anne lo disse con calma misurata. Faye la guardò in faccia e all’improvviso si spaventò. Sua figlia faceva sul serio. Non seppe trattenersi dal chiederle: «Non sarai incinta di nuovo, per caso?» Anne la fissò con odio. «No. Ho imparato quella lezione. A spese mie.» Nessuno la contraddisse. Ward si fece avanti, accigliato. 404
«Voglio farti sapere che tu non sposerai quell’uomo, né fra dieci mesi né fra dieci anni. Chiamerò il mio avvocato e la polizia, e lo denuncerò.» «Perché? Perché mi ama?» Anne guardò il padre con aria sarcastica. Non provava nessun rispetto per i genitori. Non avevano mai fatto nulla per lei, e sapeva che non le volevano bene. Forse erano semplicemente in collera perché c’era qualcuno che l’amava, si disse. Ma suo padre le spiegò le sue intenzioni. «Giuridicamente è violenza carnale avere rapporti sessuali con una ragazza della tua età, Anne.» La voce di Ward era gelida. «Quell’uomo può finire in galera per questa storia.» «Io testimonierò contro tutti voi.» Adesso Anne s’era spaventata. «Non cambierà niente.» Anne aveva paura per Bill. E se suo padre diceva la verità? Perché Bill non gliel’aveva mai detto? Doveva proteggerlo. Guardò disperatamente il padre. «Fai quello che vuoi a me, ma non prendertela con lui.» Quelle parole colpirono Faye come uno schiaffo: sua figlia voleva molto bene a quell’uomo per essere pronta a sacrificarsi. Era spaventoso che l’amasse tanto... e se fossero stati loro ad aver torto? Ma non era possibile. Evidentemente quel Bill Stein aveva approfittato di Anne nel peggiore dei modi. Faye si rivolse a Ward. «Forse sarebbe meglio parlare prima con lui e sentire che cosa dice. Se prometterà di non rivederla più, potremmo rinunciare a denunciarlo.» Ward non si lasciò convincere facilmente, ma alla fine Faye ci riuscì. Obbligarono Anne a chiamarlo per convocarlo subito. Dovette spiegargli il perché, e Bill Stein la sentì piangere al telefono. Quando entrò in casa Thayer, si trovò di fronte a una specie di tribunale. Ward lo fece entrare, e dovette fare uno sforzo per non aggredirlo. Lionel stava immobile. Bill li riconobbe tutti, in particolare Faye. Era venuto da solo, e si trovò di fronte Anne che singhiozzava istericamente nell’angolo della 405
stanza. Andò subito da lei, le accarezzò i capelli, le asciugò le guance e si accorse che tutti lo stavano fissando. Bill non addusse scuse. Ammise tutto. Dichiarò che capiva Ward, e gli disse che anche lui aveva una figlia della stessa età; ma nel contempo si sforzò di far capire ai Thayer molte cose sul conto di Anne: quanto si sentiva sola, quanto aveva sofferto per aver dovuto rinunciare al bambino e quanto era tormentata dai rimorsi per ciò che era successo all’Haight-Ashbury. Spiegò che i primi ricordi della presunta indifferenza dei genitori risalivano a quando era piccina, e che s’era sentita sempre rifiutata da tutti. Non addusse scuse per sé, ma spiegò chi era Anne Thayer, e i genitori ascoltarono e si resero conto che la loro figlia era sempre stata una sconosciuta. E la figlia sconosciuta, che aveva finito a sua volta per rifiutarli, aveva trovato Bill Stein che l’aveva accolta nella propria solitudine. Forse non era giusto, ammise con le lacrime agli occhi, ma i suoi sentimenti erano sinceri. Ripeté in pratica ciò che aveva detto Anne, sia pure in tono più mite. Intendeva sposarla tra meno di un anno, con o senza il loro consenso, e persino senza il consenso di Gail, quando l’avesse saputo. Avrebbe preferito che tutti fossero d’accordo; ma ormai durava da molto tempo e se avesse potuto sposarla prima l’avrebbe fatto. Anne avrebbe potuto continuare la scuola e fare ciò che desiderava: ma quando avesse compiuto i diciotto anni lui l’avrebbe aspettata, sia che le permettessero di continuare a vederlo oppure no. E mentre Bill Stein parlava con calma, Anne gli sorrideva raggiante. Non l’aveva abbandonata, era pronto a rischiare tutto per lei. Era come lo aveva sempre giudicato. Gli altri tre erano sconvolti, soprattutto Ward, che guardava quell’uomo e non riusciva a capire cosa vedesse in lui sua figlia. Non era bello né giovane. Era piuttosto banale. Ma aveva offerto ad Anne ciò che loro non avevano mai saputo darle. E indipendentemente dal fatto che volessero capirlo o no, Anne era felice con lui. Era fiorita nella luce del suo amore. Non si preoccupavano di ciò che sarebbe accaduto il prossimo anno. 406
Erano disposti ad aspettare, ed era evidente quali fossero le loro intenzioni. All’improvviso, Ward e Faye si resero conto che non avrebbero potuto opporsi, anche se non era giusto, anche se la differenza d’età era troppo grande, anche se pensavano che Anne fosse una sciocca. Dopo che Bill Stein se ne fu andato e che loro ebbero fatto una predica a Anne, Ward e Faye parlarono a lungo nella loro stanza. Non sapevano cosa pensare; e avevano detto ad Anne che non sapevano se avrebbero sporto denuncia o no. Bill era andato a casa per chiarire la situazione con Gail, e s’era dichiarato a loro disposizione. Non aveva neppure assunto toni di scusa. Amava Anne da due anni e riteneva che non ci fossero molte cose di cui giustificarsi. Non l’aveva fatta soffrire e non l’aveva abbandonata. Ma ormai lei aveva quasi diciotto anni, e a loro due la cosa non sembrava più scandalosa; Bill sospettava che all’inizio Gail sarebbe rimasta sconvolta; ma poi l’avrebbe accettato. E Anne e Bill avevano la loro vita da vivere. L’avevano detto chiaramente a tutti. «Cosa ne pensi?» Faye sedette su una poltrona e guardò Ward. Lui non riusciva ancora a capire cosa ci vedesse sua figlia in quell’uomo... e aveva appena diciassette anni! Era sconvolgente. «Io penso che sia matta.» Faye sospirò. Era peggio di alcuni dei film che aveva diretto. «Anch’io. Ma questa è la nostra opinione, non la sua.» «A quanto pare.» Ward sedette di fronte alla moglie e le prese la mano. «Come fanno a cacciarsi in situazioni del genere? Lionel con la sua maledetta inclinazione verso qualcosa che non capisco, Val con quella carriera assurda, Vanessa che vive a New York con quel ragazzo e crede che non lo sappiamo.» Faye sorrise. Ne avevano parlato altre volte. Vanessa credeva di fare qualcosa di eccezionale, e invece tutti lo sapevano e non si scandalizzavano affatto... lei aveva vent’anni, e Jason era un bravo ragazzo. «E adesso Anne con quest’uomo... Dio, Faye, ha trentatré anni più di lei.» Ancora non riusciva a capacitarsi. 407
«Lo so. E non è neppure bello.» Faye sorrise. «Se somigliasse a te, almeno lo capirei.» A cinquantadue anni Ward era ancora bello come vent’anni prima, anche se in modo diverso. Ma era ancora alto, snello ed elegante, come lei. Quell’uomo non aveva nulla, ed era impossibile capire quale fosse la ragione del suo fascino... a parte il fatto che aveva gli occhi gentili e sembrava che adorasse Anne. Faye alzò gli occhi verso il marito. «Dobbiamo acconsentire, Ward?» Si riferiva in pratica ai dieci mesi successivi. «Non so perché dovremmo.» «Forse sarebbe meglio. Non si può lottare contro il destino.» L’avevano scoperto tante volte, con Lionel, con Val, con Vanessa... e ora con Anne. Facevano tutti ciò che volevano... eccetto il povero Greg. Ward guardò la moglie. «Dovremmo lasciare che Anne abbia una relazione con quell’uomo, così, apertamente?» Era scandalizzato. «Ha appena diciassette anni.» Ma sapevano entrambi che nell’anima era molto più vecchia: ne aveva passate tante ed era maturata. «Tanto, ce l’ha da più di un anno.» Ward socchiuse gli occhi. «Come mai sei tanto permissiva?» Lei sorrise stancamente. «Forse sto invecchiando.» «E diventi più saggia.» Ward la baciò di nuovo. «Ti amo, piccola.» «Anch’io ti amo, tesoro.» Decisero di riflettere per qualche giorno e, quella sera cenarono con Lionel. Anne rimase in camera sua e nessuno insistette perché scendesse. Già così la tensione era troppo forte. E alla fine decisero di cedere. Le raccomandarono di essere discreta per non diventare la favola della città, Bill Stein era piuttosto noto nel mondo dello spettacolo: era un avvocato stimatissimo e aveva molti clienti famosi, e si poteva giurare che anche lui preferisse mantenere il segreto. Così, secondo i piani che avevano fatto inizialmente, decisero di continuare senza dare nell’occhio e di sposarsi dopo il primo dell’anno. Bill Stein regalò ad Anne un anello di fidanzamento enorme che lei metteva solo quando usciva in sua compagnia: era un solitario a 408
goccia che Anne chiamava «il mio uovo di Pasqua». Pesava dieci carati e mezzo, e s’era sentita imbarazzata quando l’aveva mostrato a Gail. Gail era stata molto comprensiva: all’inizio era rimasta sbalordita, ma voleva troppo bene a tutti e due per scandalizzarsi. Le due ragazze decisero di seguire i corsi estivi, per diplomarsi prima delle vacanze di Natale: così Anne non avrebbe dovuto continuare ad andare a scuola dopo aver sposato Bill. Gail aveva deciso di lasciarli soli almeno per qualche tempo, dato che all’inizio sarebbe stato imbarazzante vivere con loro. E voleva iscriversi alla Parsons School of Design di New York. Lionel era ancora in collera con la sorella quando partì per la Germania. Non approvava la sua scelta, qualunque cosa dicessero gli altri. «Te la sei cavata a buon mercato, se vuoi il mio parere», le disse il giorno della partenza, e lei lo guardò freddamente. Non l’avrebbe mai perdonato per aver fatto la spia, gli disse. «E tu sei la persona meno adatta per giudicare gli altri.» «Essere gay non mi ha rovinato l’intelligenza, Anne.» «No, ma il cuore forse sì.» Quando partì, Lionel si chiese se sua sorella avesse ragione. Ormai non provava più gli stessi sentimenti di un tempo per nulla, dopo il Vietnam. Aveva visto troppa gente morire, aveva perduto troppe persone cui era affezionato, e due che aveva amato sinceramente, John e Greg. Era difficile immaginare di poter amare ancora qualcuno. Non lo desiderava, e in segreto si chiedeva se era per questo che era così furioso con Anne. Non poteva comprendere la felicità della sorella, perché la sua era morta con John, e non sarebbe mai più ritornata, mentre la vita si spalancava davanti ad Anne, promettente e scintillante come il suo enorme anello di fidanzamento.
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il 18 gennaio 1970 Anne Thayer e Bill Stein si sposarono nel Tempio Israel in Hollywood Boulevard, alla presenza dei loro familiari e di pochi amici. Anne non avrebbe voluto neppure questo, ma Bill aveva insistito. «Sarà più facile per i tuoi genitori, tesoro, se gli lascerai organizzare qualcosa.» Ma ad Anne non interessava. Da quasi due anni si considerava sua moglie e adesso non aveva bisogno di fanfare. Gail le ripeteva che era una sciocca... era così diversa dalle ragazze della sua età. Non aveva voluto né l’abito da sposa né il velo. È tutto così squallido, pensò Faye ricordando la magnificenza del giorno delle sue nozze. Anne indossava un sobrio abito bianco con il collo alto e le maniche lunghe, e scarpette molto semplici. I capelli biondi erano raccolti in un’unica treccia e ornati da ramoscelli di gypsophila. Non aveva il bouquet da sposa, e non portava gioielli, a parte il gigantesco diamante che le aveva regalato Bill. Anche l’anello nuziale era una fascia di diamanti. Lei aveva l’aria così giovane e innocente che la fede sembrava quasi assurda al suo dito. Ma Anne non si accorgeva di nulla. Vedeva soltanto Bill: non aveva desiderato altro dal giorno in cui l’aveva conosciuto. Si avvicinò a lui con calma, al braccio del padre, e poi Ward si fece in disparte e pensò ancora una volta che in realtà nessuno di loro l’aveva conosciuta veramente in quei diciotto anni. Era come se fosse passata attraverso le loro vite troppo in fretta 410
e troppo silenziosamente, vivendo dietro una porta chiusa e continuando a scomparire. All’improvviso fu come se tutti i ricordi della sua infanzia chiedessero «Dov’è Anne?» Vi fu un pranzo intimo in casa, il massimo che Anne aveva accettato. C’erano fiori dappertutto e lo champagne era ottimo. E Faye era seria e dignitosa in un abito di seta verde che metteva in risalto i suoi occhi: ma non si sentiva veramente la madre della sposa. Le sembrava tutto uno scherzo, un gioco... e alla fine Gail se ne sarebbe andata a casa con il padre. Ma quando partirono a bordo della Rolls grigia, quella sera, Anne andò con loro e si voltò a dare il bacio d’addio a Faye e a Ward. Faye provò l’impulso di chiederle se era sicura di ciò che faceva: ma poi vide l’espressione della figlia e non ebbe più dubbi. Si era data all’uomo che amava e ormai era una donna. Gail era più taciturna del solito, ma era felice. Qualche settimana prima s’era diplomata insieme ad Anne, e adesso sarebbe partita per New York con gli sposi. Lei sarebbe andata alla Parsons School of Design e avrebbe alloggiato al Barbizon, come aveva fatto inizialmente Vanessa. E dopo averla sistemata a New York, Bill e Anne avrebbero raggiunto in volo San Juan e poi avrebbero proseguito per St. Thomas, St. Martin e infine per St. Croix. Sarebbero rimasti lontani diverse settimane, senza nessuna fretta di rientrare. Ma prima Bill voleva condurla a far spese a New York. C’erano parecchie gioiellerie dove intendeva portarla, Harry Winston, David Webb e alcuni altri... e poi c’erano gli altri acquisti. «Bergdorf’s, Bendel’s, Bloomingdale’s», avevano esclamato all’unisono le due ragazze quella sera. «Tu mi vizi troppo!» Anne sorrise e baciò Bill. Non voleva altro che il suo amore. Ma Bill intendeva fare qualche acquisto anche per Gail. «Dunque, Mrs. Stein, cosa ti sembra?» Quella notte le sorrise mentre giacevano nel suo grande letto, questa volta in perfetta legalità per la prima volta dopo due anni. «È meraviglioso.» Anne sorrise come una bambina. Ave411
va ancora la treccia e indossava una camicia da notte di trina che era il regalo di nozze di Val... sebbene fosse evidente che Val non approvava quel matrimonio. Nessuno dei Thayer l’approvava; ma soprattutto non capivano. Non avevano mai capito... eccetto Li... una volta. Ma non era venuto per il matrimonio. Era ancora in Germania, in attesa di essere congedato entro poche settimane. E Van era rimasta a New York, troppo presa dagli studi del penultimo anno. Ma per Anne non aveva importanza. L’unico che voleva avere vicino era Bill e adesso lo guardava felice ripensando al passato. Pareva che nulla fosse mai stato reale prima di quel momento. «Mi sembra di essere sposata con te da tutta la vita.» E la cosa strana era che anche Bill provava la stessa sensazione. «Anche a me.» Tutti gli amici di Bill, naturalmente, avevano fatto i loro commenti, ma alla fine avevano finto di capire. C’erano state molte pacche sulle spalle e molte strizzate d’occhio. «Ti sei trovato una pollastrina giovane, eh, vecchio mio?» Tutti l’invidiavano, qualcuno diceva qualche cattiveria alle sue spalle, ma non gli importava nulla. Avrebbe avuto cura della sua piccola gemma per il resto della sua vita, e Anne lo guardava con occhi pieni di fiducia, certa che sarebbe stato così. Quella notte dormirono abbracciati, felici di poter fare ciò che volevano. Fecero colazione con Gail, nel pomeriggio finirono di preparare le valige e la sera partirono per New York. Anne pensò per un momento di chiamare Ward e Faye per salutarli, ma poi non lo fece. Tanto, non aveva niente da dirgli, confidò a Bil mentre l’aereo decollava. «Sei molto dura con loro, amore. Hanno fatto del loro meglio. Ma non hanno capito, ecco tutto.» Anne non era d’accordo. Le avevano tolto il figlio, avevano minacciato di denunciare Bill, l’avevano trascurata, e se non ci fosse stato lui le avrebbero rovinato la vita. Lo guardò con gratitudine mentre sedevano in prima classe. Bill aveva preso posto con «le sue due ragazze», come le chiamava. Anne era seduta in mezzo e, mentre Bill dormicchiava durante il volo, chiacchierò 412
con Gail. Erano tutte e due ansiose di girare New York per due giorni, prima che Gail s’insediasse al Barbizon e loro proseguissero per il viaggio di nozze. Per il momento avrebbero alloggiato in un appartamento al Pierre. Per due giorni non fecero altro che girare per negozi. Anne non aveva mai visto tante cose belle in vita sua se non nei film di sua madre. Bill regalò a Gail una pelliccia di visone dal taglio sportivo, una quantità di completi da sci, un paio di sci nuovi, mezza dozzina di vestiti da Bendel’s, sei paia di scarpe di Gucci e un braccialetto d’oro che l’aveva entusiasmata da Cartier e che si fissava con un minuscolo cacciavite. Ad Anne piacque moltissimo, e Bill ne regalò uno anche a lei. Ma c’erano doni ancora più numerosi per la sposina: una pelliccia di visone lunga per la sera, una corta per il giorno, abiti, tailleur, camicette e gonne, scatole e scatole di scarpe bellissime, stivaletti italiani, un anello con uno smeraldo, una magnifica spilla di diamanti, enormi orecchini di perle di Van Cleef, e altri due bracciali d’oro che Anne aveva ammirato; e l’ultimo giorno le regalò un pezzo splendido di David Webb, un leone abbracciato a un agnello, ricavato da un massiccio blocco d’oro, così meraviglioso che era difficile distoglierne gli occhi. «Cosa farò di tutta questa roba?» Anne si aggirava a passo di danza in sottoveste nella camera d’albergo, indicando le pellicce e gli abiti, le scatole da scarpe, le borsette, i cappelli, e la valigetta che conteneva mezza dozzina di astucci di gioielli. Era quasi imbarazzante; ma Bill era così felice. Aveva comprato qualcosa anche per sé, un impermeabile foderato di pelliccia e un nuovo orologio d’oro, ma gli piaceva soprattutto fare acquisti per lei. Anche Gail lo trovava divertente. Il padre le aveva regalato tante cose belle che non aveva motivo di serbare rancore ad Anne. Si volevano bene come sorelle, e suo padre avrebbe continuato a comprarle tutto ciò che desiderava, forse ancora più di prima. Era troppo generoso, conclusero le due ragazze l’ultima sera che rimasero insieme. Ma comunque ne erano entusiaste. E Vanessa sgranò gli 413
occhi quando lei e Jason li incontrarono nell’Oak Room per un drink, e Anne entrò con grazia nella sala con uno splendido paio di calzoni rossi e una camicetta di seta crème, una borsetta di coccodrillo rosso di Hermès e una pelliccia di visone che persino a New York attirava gli sguardi della gente. E quando si avvicinò, i diamanti le brillavano alle dita, il braccialetto di Webb spiccava in tutta la sua magnificenza, e due piccoli rubini le splendevano agli orecchi. Era così incantevole e posata che Vanessa stentò a riconoscerla. «Anne?» Rimase a guardarla quasi a bocca aperta. Aveva i capelli stretti in una semplice treccia, con qualche ciocca morbida che le incorniciava il viso; il trucco era sobrio e di buon gusto... ma tutto ciò che portava, dai gioielli agli stivali, sembrava uscito dalle pagine di Vogue. Vanessa non riusciva a immaginarla così, e vedeva che persino Jason era sbalordito. «Abbiamo fatto molti acquisti.» La voce di Anne era sommessa come sempre. Lanciò un’occhiata timida a Bill, e lui rise. «Mi sta viziando troppo.» «Lo vedo.» Anne ordinò un Dubonnet, il suo drink preferito, Vanessa e Jason stavano già bevendo i loro scotch, Bill prese un martini on the rocks e Gail vino bianco. Conversarono amabilmente del più e del meno. I giovani rievocarono la vacanza sul lago Tahoe di quasi due anni prima, e Anne chiese a Jason notizie del suo lavoro. Aveva conseguito la libera docenza qualche settimana dopo aver compiuto i ventisei anni. Era riuscito a eludere per più di otto anni la chiamata alle armi, e adesso insegnava letteratura alla NYU. Non gli piaceva molto, ma lo faceva già da un anno. Continuava a lavorare al suo dramma, senza concludere molto. «Cerco sempre di convincere Vanessa a collaborare con me, e lei non vuole saperne.» «Stento già a star dietro alla scuola», spiegò Vanessa a Bill, che le sembrava simpatico e paterno. Aveva ancora un anno da studiare al Barnard, e per il momento non pensava ad altro. Voleva finire e trovarsi un lavoro. Sembrava pro414
pensa a restare a New York, ma Anne sospettava che fosse a causa di Jason. Stavano insieme da due anni e mezzo, e lei si chiedeva se si sarebbero sposati. Quella sera, Gail le rivolse la stessa domanda e Anne alzò pensosamente le spalle. Non capiva la relazione tra quei due: aveva la sensazione che procedessero su binari paralleli, continuando le loro vite. Non aspiravano a un legame permanente, non ne sentivano il bisogno. E nessuno parlava di avere figli: parlavano soltanto di studi, di lavoro e del dramma di Jason. «Mi sembra una gran noia», commentò Gail. «Ma almeno lui è simpatico.» Jason lo era, effettivamente, ma per Anne l’uomo più bello del mondo era Bill. Quella sera, mentre tornavano a casa in tassì, Vanessa scrollò la testa mentre parlava con Jason. «Non capisco quella ragazza. È praticamente una bambina, ha sposato un vecchio e va in giro in pelliccia di visone, carica di diamanti.» «Forse per lei sono cose che contano.» Neppure Jason la capiva, ma l’aveva sempre giudicata una ragazza a posto. Era meno intelligente e interessante di Van, ma forse era difficile dirlo. Era così giovane e così chiusa che era impossibile capire com’era. Ma Vanessa continuò a scuotere la testa. «Non credo che per lei abbiano importanza. È Bill che vuole coprirla di regali, e probabilmente Anne li porta solo per fargli piacere.» In questo non sbagliava: conosceva abbastanza bene la sorella. L’unica della famiglia che si sarebbe entusiasmata per i gioielli e le pellicce era Val; e anche Greg avrebbe amato la bella vita, ma gli altri avevano gusti più semplici... come li avevano i loro genitori, adesso, contrariamente al passato. Ma Van sapeva che per loro quelle cose non avevano più importanza da anni. «Non so proprio che cosa ci trovi in un uomo di quell’età.» «È molto premuroso con lei, Van, e non soltanto perché le fa tanti regali. Non sa più che fare per vederla contenta. Se lei ha sete, si trova un bicchiere d’acqua in mano prima 415
di aver avuto il tempo di parlare, se è stanca lui la conduce a casa, se si annoia la porta a ballare, in Europa, a incontrarsi con gli amici... e cosa si può desiderare di più?» Jason sorrise a Vanessa e all’improvviso si augurò di poter fare di più per lei. «Un uomo della sua età pensa a tutte queste cose... non ha nient’altro da fare.» Vanessa rise. «Non è una ragione. Vuoi dire che io non avrò un diamante grosso come un uovo?» Jason la guardò con aria seria, mentre rientravano in casa. «È questo che vorresti avere un giorno, Van?» «No.» Lei aveva un tono sicuro. Voleva altre cose dalla vita. Jason. Magari un paio di figli, fra otto o dieci anni. «Che cosa vuoi?» Vanessa scrollò pensosamente le spalle e buttò il cappotto sulla sedia. «Forse pubblicare un libro, un giorno... e avere buone recensioni...» Non le veniva in mente altro, e non intendeva dirgli che avrebbe voluto lui e un paio di figli. Era troppo presto per pensarci e soprattutto per parlarne. «Tutto qui?» Jason sembrava deluso. Van sorrise, addolcendosi. «Magari anche te.» «Mi hai già.» Lei sedette sul divano e Jason accese il fuoco. Si sentivano a loro agio, circondati dai libri e dai giornali, con il Times della domenica ancora aperto sul pavimento accanto ai mocassini di Jason e alle scarpe di Van, e gli occhiali di lui sulla scrivania. «Credo sia tutto ciò che voglio, Jase.» Lui sorrise, soddisfatto. «Hai gusti semplici, amica mia.» La strinse a sé e chiese: «Parlavi sul serio a proposito del libro?» «Lo spero. Quando avrò finito gli studi e avrò trovato un lavoro.» Jason sospirò. «È così difficile scriverli.» Lo sapeva per esperienza. «Sono ancora convinto che dovremmo collaborare per un dramma.» La guardò con aria speranzosa e Van sorrise. Lui era sempre stato convinto che i loro stili si sarebbero integrati armoniosamente. «Un giorno, forse.» Si baciarono, Jason l’adagiò sul divano 416
e le insinuò la mano nella camicetta. Era molto diverso dalla scena tra Bill e Anne al Pierre. Lei era sdraiata sulla coperta di raso, avvolta in un peignoir orlato di marabù mentre Bill le passava pigramente la lingua sulla coscia. I diamanti scintillavano nella luce fioca e lui la toccava dove le piaceva di più. Anne inarcò il dorso con un gemito, Bill le tolse il peignoir e lo lasciò cadere sul pavimento. Ma i sentimenti erano identici. L’amore, il desiderio, il legame. Era sempre la stessa cosa, con le scarpe di tela o con il marabù.
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in maggio, Bill e Anne tornarono a New York per qualche giorno. Anne voleva vedere Gail, e Bill aveva qualche incontro per motivi di lavoro. Presero alloggio al Pierre anche questa volta; Bill condusse la moglie dai suoi gioiellieri preferiti e insistette per farle altri regali. Il tempo era bellissimo. Anne aveva appena acquistato un delizioso abito bianco a giacca da Bendel’s e l’aveva indossato per andare a pranzo con Bill al Cóte Basque, e lui fu immensamente orgoglioso quando la vide entrare nella sala. Si muoveva con la grazia di una cerbiatta, mentre si avviava verso il suo tavolo senza accorgersi degli altri che la guardavano... come se vedesse lui soltanto. Ma Bill vide qualcosa d’altro, la stessa espressione vuota e nervosa che da mesi era negli occhi di Anne. Si augurava che accadesse presto, e sapeva perché per lei era così importante. Anche lui desiderava un figlio, ma non con la stessa disperazione. «Com’è andata da Bendel’s oggi?» «Bene.» A volte Anne parlava come una ragazzina, ma non lo era più. Portava i capelli sciolti e Bill le aveva fatto dare lezioni di trucco a Los Angeles, e adesso dimostrava più venticinque anni che diciotto. Anche Gail se n’era accorta, e aveva approvato: adesso s’era trovata un ragazzo e adorava New York. Bill insisteva perché continuasse ad alloggiare al Barbizon, ma Gail parlava di lasciarlo in autunno per prendersi un appartamento e aveva pregato Anne d’intercedere per lei. «Questo l’ho appena comprato», disse Anne, indi418
cando l’abito e la giacca con la mano perfettamente curata, e Bill notò che portava le perle che le aveva appena acquistato a Hong Kong. Erano così grosse che non sembravano neppure vere. «Ti piace?» «Immensamente.» Bill la baciò, e il cameriere venne a prendere l’ordine dei drink. Bill chiese vino, e lei Perrier. Fecero un pranzo leggero. Anne adorava le quenelles del Cóte Basque, e Bill prese un’insalata di spinaci e una bistecca. Non rendevano giustizia alla cucina squisita del ristorante: ma Bill doveva partecipare a un’altra riunione e Anne voleva andare da Bloomingdale’s e poi passare a prendere Gail a scuola. Qualche volta Bill si chiedeva se anche lei non avrebbe fatto bene a continuare gli studi: aveva bisogno di qualcosa di più che farsi curare le unghie, girare per negozi e attendere che lui tornasse a casa la sera. Aveva bisogno di qualcosa di più che tenere accuratamente il grafico della temperatura basale: doveva pensare a qualcos’altro, ma Bill non osava dirglielo. Continuava ad assicurarle che sarebbe accaduto presto. Tutti e due avevano già avuto un figlio, sapevano di poterne avere altri. Era solo questione di tempo, l’aveva detto anche il medico. «Non hai ancora telefonato a tua sorella, tesoro?» Anne scosse vagamente la testa, giocherellando con il biscotto che aveva preso dal vassoio. «Perché no?» Lei evitava i Thayer, persino Lionel che un tempo le era stato molto caro. Era come se volesse escluderli dalla sua vita. Aveva lui e non voleva altro, ma Bill pensava che non fosse giusto. Gli si sarebbe spezzato il cuore se Gail si fosse comportata così con lui, sebbene sapesse che i Thayer non erano mai stati altrettanto vicini ad Anne. Anne scrollò le spalle. «Mia madre ha detto che aveva gli esami, quando le ho telefonato la settimana scorsa.» Era evidente che non aveva nessuna intenzione di cercare Van. E a Los Angeles non telefonava mai a Valerie. Non le parlava da mesi. «Comunque, potresti darle un colpo di telefono. Forse troverà il tempo di venire a bere qualcosa con noi.» 419
«La chiamerò stasera.» Ma Bill sapeva già che non l’avrebbe fatto. Sarebbe rimasta a pensare e a contare... quattordici giorni... e l’indomani mattina si sarebbe svegliata all’alba per misurare di nuovo la temperatura. Bill avrebbe voluto che la smettesse di agitarsi così. Era nervosa, dimagrita. Lui aveva pensato di portarla in Europa, in luglio, per distrarla un po’; aveva invitato anche Gail, ma lei s’era trovata un lavoro per l’estate da Pauline Trigère, e rifiutava di muoversi. «Cosa ne pensi, tesoro?» Stavano percorrendo Madison Avenue verso il luogo della riunione e Bill cercava d’interessare Anne al viaggio in Europa. Doveva fare in modo che s’interessasse a qualcosa. E se non fosse mai venuto un bambino, o se si fosse fatto attendere per anni? Lei non poteva passare la vita ad aspettarlo, e incominciava a sminuire la loro gioia. Non pensava ad altro, non parlava d’altro, come se potesse sostituire il figlio cui aveva rinunciato. E Bill non osava dirle che non avrebbe mai potuto farlo, come lui non poteva sostituire la prima moglie perduta. Amava Anne nello stesso modo, ma tutto era diverso; e ogni tanto sentiva ancora quel vuoto, quella sofferenza, come Anne avrebbe sempre rimpianto quel bambino. Sarebbe rimasta sempre una lacuna che nessuno poteva colmare, né il marito né un altro figlio. La guardò con tenerezza. «A St. Tropez dev’essere divertente. Potremmo prendere a nolo uno yacht.» Anne gli sorrise: Bill faceva tanto per lei, e non le sfuggivano tutte quelle attenzioni. «Mi piacerebbe. E scusa se sono così malinconica. Ma sappiamo il perché.» «Sì, lo sappiamo.» Bill si fermò in mezzo a Madison Avenue e la prese tra le braccia. «Ma devi lasciare che madre natura faccia con calma. E poi provarci è divertente, no?» «Sì.» Anne sorrise. Ma Bill ricordava ancora come aveva pianto quando aveva avuto le ultime mestruazioni, e la scena che c’era stata quando gli aveva detto che era tutta colpa di Faye, che se non fosse stato per lei avrebbe avuto un bambino di tre anni e mezzo, e Bill s’era rattristato... «È questo che vuoi?» le aveva chiesto, e Anne aveva urlato: «Sì!» Le 420
aveva fatto tanta pena che le aveva proposto di adottare un bambino di tre anni, ma Anne ne voleva uno loro. Voleva riavere «il suo piccino». Era inutile cercare di farle capire che non avrebbe potuto rimpiazzare quello a cui aveva rinunciato. Ed era decisa ad avere un figlio da Bill, immediatamente se era possibile. Sua madre l’aveva sospettato quando avevano pranzato insieme, un giorno; e l’espressione velata negli occhi di Anne accusava Faye come era sempre avvenuto da molto tempo. Non l’aveva perdonata e forse non l’avrebbe perdonata mai. Ora, in Madison Avenue, guardò Bill con aria triste. «Pensi che succederà?» Glielo aveva chiesto un milione di volte da gennaio; ed erano passati solo quattro mesi dal matrimonio. Prima erano sempre stati prudenti... e non certo grazie a lei, come Bill le aveva ricordato diverse volte. Ma sapeva perché voleva essere imprudente. Era sempre così. Il desiderio disperato di avere un figlio, di colmare il vuoto, di rivivere il passato in modo diverso. Non aveva mai perdonato se stessa per aver rinunciato al bambino, e Faye per averla indotta a cederlo... «Sì, succederà, amore. Fra sei mesi sarai ingombrante come una balena, ti lamenterai e te la prenderai con me.» Risero, poi Bill la baciò di nuovo e andò alla riunione, mentre Anne proseguiva per Bloomingdale’s. Si sentì stringere il cuore quando passò davanti agli abitini per bambini. Si fermò un momento ad accarezzarli con nostalgia; avrebbe voluto comprarne qualcuno perché le portasse fortuna, ma poi temette che fosse di cattivo augurio. Ricordò che aveva comprato le scarpine rosa, quando era incinta. Era convinta che avrebbe avuto una femminuccia, e Lionel e John l’avevano presa un po’ in giro. Il ricordo era doloroso anche adesso. E la faceva soffrire pensare a John. Si chiese come stava Lionel. Ormai non si parlavano quasi più. Tutto era cambiato da quando aveva riferito ai genitori di averla vista con Bill, e adesso non aveva più niente da dirgli. L’ultima volta che aveva saputo qualco421
sa di lui stava ancora cercando un lavoro in qualche studio, per rientrare nell’ambiente del cinema. Anne sospirò e scese con la scala mobile. C’era un trionfo di colori, fiori di seta, borsette di vernice, cinture di nappa di tutte le tinte dell’iride. Non seppe resistere e tornò in albergo con una quantità di sacchetti pieni di acquisti. Sapeva che non avrebbe indossato quasi nessuno di quei vestiti, diversamente dal braccialetto di diamanti che Bill le regalò quella sera per consolarla. Sapeva quanto era infelice perché non era ancora incinta, ma era sicuro che presto ci sarebbe riuscita. Era giovane e sana e il dottore l’aveva tranquillizzata. Bill glielo aveva ripetuto la settimana prima che partissero per St. Tropez. «Rilassati e non pensarci», le aveva raccomandato, ma per lui era facile parlare così. Aveva cinquantun anni e aveva imparato a prendere la vita con filosofia. Sebbene fosse ancora sconvolta, durante le tre settimane trascorse sulla spiaggia di St. Tropez, Anne sembrava felice. Portava blue jeans ed espadrilles, bikini e gonne di cotone colorato e lasciava i capelli sciolti, una nuvola bionda schiarita dal sole. Era bella, e diventava più graziosa ogni giorno. Bill fu contento nel vedere che era persino ingrassata un po’; e quando andarono a Cannes a fare spese, Anne non riuscì a entrare negli abiti della solita taglia e dovette sceglierli più grandi. Quando si accorse che stentava a chiudere la lampo dei jeans la prese un po’ in giro e le disse che stava ingrassando; ma gli si affacciò nella mente una domanda che non osava rivolgerle. A Parigi ne fu sicuro quando Anne disse che era troppo stanca per passeggiare sul Lungosenna, si addormentò mentre andavano in macchina al Coq Hardi per pranzare, e diventò verde quando le propose un Dubonnet. Non le disse neppure una parola, ma la protesse come una chioccia e quando tornarono a Los Angeles le rammentò che non aveva avuto le mestruazioni da quando erano partiti il mese precedente. Per la prima volta in sei mesi Anne non ci aveva pensato. Restò a bocca aperta, fece un rapido calcolo mentale e gli sorrise nervosamente. 422
«Credi che...?» Non osò neppure dirlo, e Bill le sorrise gentilmente. Non era passato neppure tanto tempo: sei mesi non erano troppi... lo erano sembrati a lei perché era troppo ansiosa di avere un figlio. «Sì, piccola. Ci ho pensato in queste ultime settimane, ma non volevo rischiare di alimentare una falsa speranza, perciò non ho detto niente.» Anne gridò di gioia e gli buttò le braccia al collo, e lui cercò di calmarla. «Aspettiamo di essere sicuri, e poi festeggeremo.» L’indomani Anne andò a fare le analisi, e quando telefonò nel pomeriggio seppe che i risultati erano positivi. Era così stordita che rimase immobile a fissare il telefono; quando Bill rientrò la trovò ancora abbagliata e accolse la notizia con un evviva. E mentre Anne si aggirava in costume da bagno, notò che era già cambiata. Non era più angolosa come al solito, sembrava più morbida e tornita. «Ci siamo... ci siamo... ci siamo!» Era così eccitata che ballava di gioia, e Bill la condusse a festeggiare al Beverly Hills Hotel, ma lei si addormentò subito, lasciandolo a sognare il figlio che avrebbero avuto. Anche Bill era entusiasta, e stava pensando di trasformare in nursery la camera degli ospiti. Avrebbero potuto costruire sopra il garage un’altra stanza, e sistemare lì una delle cameriere, per lasciare disponibile per la bambinaia quella che adesso era la stanza della domestica... continuò a pensarci tutta la notte mentre Anne dormiva, e l’indomani tornò a casa all’ora di pranzo per vedere come stava e per festeggiare ancora. Sembrava che la gravidanza non alterasse la loro vita sessuale, e Anne non era mai stata tanto felice. Parlava continuamente del loro bambino ed era sicura che sarebbe stato un maschietto, per sostituire quello perduto... che ormai doveva avere quattro anni. Trascorsero il Labor Day tranquillamente, in compagnia di amici. Ormai s’erano abituati ad Anne, e anche se invidiavano Bill non facevano più gli spiritosi. E lei sembrava più adulta di quanto fosse apparsa nove mesi prima. La gravidanza, soprattutto, le aveva conferito una maggiore maturità. 423
Contavano di andare a New York entro qualche settimana per vedere Gail, e il dottore aveva dato il benestare; ma il giorno prima di partire Anne incominciò ad avere qualche perdita, e il medico le consigliò di restare a letto a riposare. Lei era terrorizzata, ma il dottore sosteneva che non c’era da preoccuparsi: molte donne avevano qualche perdita durante i primi mesi, senza che succedesse nulla di grave. Ma dopo tre giorni non erano passate, e Bill era in ansia. Chiamò un altro medico, e quello ripeté lo stesso giudizio. Ma Anne era estremamente pallida nonostante l’abbronzatura ed era sempre più spaventata. Non si alzava dal letto per tutto il giorno se non per andare in bagno; Bill veniva sempre all’ora di pranzo per vedere come stava, e lasciava l’ufficio prima del solito. Non si poteva far altro che aspettare, dicevano entrambi i dottori, ma non erano allarmati. Dopo una settimana di perdite continue, una notte Anne fu assalita da crampi terribili. Si svegliò di colpo e strinse il braccio di Bill. Soffriva tanto che stentava a parlare, le sembrava che un attizzatoio arroventato la trapassasse. Bill chiamò il dottore, avvolse la moglie in una coperta e la portò all’ospedale. Lei aveva gli occhi sbarrati per la paura e gli stringeva convulsamente la mano, al pronto soccorso. Implorò Bill di non lasciarla e il medico gli permise di restare, ma fu atroce. Lei soffriva molto e sanguinava. Dopo due ore perse il bambino che aveva tanto desiderato e si abbandonò singhiozzando tra le braccia di Bill. L’addormentarono e la portarono via per effettuare un raschiamento, e quando riprese i sensi Bill era di nuovo accanto a lei, con gli occhi colmi d’angoscia. Il medico disse che non c’era una spiegazione: in certi casi, l’organismo materno eliminava un feto anormale. Era meglio così, commentò. Ma Anne continuò a essere inconsolabile durante le settimane in cui rimase a letto, dopo il ritorno a casa. Le dicevano che poteva alzarsi, ma non se la sentiva. Era dimagrita di sei chili, aveva un aspetto sofferente e rifiutava di parlare con chiunque e di uscire. Alla fine, Faye venne a saperlo per vie traver424
se. Lionel telefonò ad Anne per salutarla e Bill gli disse quel che era successo; Lionel chiamò Faye, che a sua volta chiamò Anne per sentire come stava. Ma Anne, disse Bill disperato, non voleva parlare con nessuno. E si rifiutò di vedere Faye. Diventò isterica quando Bill gliene parlò, e urlò di nuovo che era tutta colpa sua, che se non l’avesse costretta a cedere l’altro bambino adesso l’avrebbe avuto lì con lei. Odiava tutti, a volte persino Bill. Arrivò novembre prima che riuscisse a convincerla a fare un viaggio con lui e Gail rimase sconvolta quando la rivide a New York. «Ha un aspetto orribile.» «Lo so.» Bill era preoccupatissimo, ma non poteva far nulla se non metterla incinta di nuovo, e per questo forse sarebbe stato necessario un po’ di tempo. «L’ha presa molto male.» Erano già passati due mesi e Anne non ne parlava mai; ma era facile capire che l’aborto l’aveva devastata. Neppure i gioielli che Bill continuava a comprarle l’entusiasmavano molto, neppure il viaggio a St. Moritz per Natale. Finalmente, in gennaio, cominciò a riprendersi. Era stato un periodo terribile e le sei settimane di depressione previste dal medico erano diventate tre mesi; ma almeno adesso era passata. Tornò alla vecchia vita, tra i negozi e gli incontri con qualche amica. Chiamava più spesso Gail a New York, e aveva ripreso a seguire i grafici della temperatura. Questa volta bastarono due mesi. Il giorno di san Valentino scoprì di essere incinta, ma la gravidanza durò appena sei settimane; perse il bambino il primo marzo. Bill si fece coraggio, preparandosi a quel che sarebbe successo, ma questa volta Anne fu più calma. Era taciturna e chiusa, ne parlava di rado, e in un certo senso questo lo angosciava di più. Avrebbe preferito vederla piangere... almeno si sarebbe sfogata. Invece, Anne aveva gli occhi opachi, spenti. Mise via i diagrammi delle temperature, buttò nella spazzatura il termometro basale e incominciò a parlare di tappezzare di verde o di azzurro la stanza degli ospiti. Bill soffriva per lei ma non poteva fare niente. Una notte, al buio, Anne gli confessò che pensava fosse tutto causa425
to dalle droghe che aveva preso anni prima. Ma era passato molto tempo, ribatté Bill: era sicuro che questo non c’entrasse affatto. Ma lei continuava ad abbandonarsi ai rimorsi, ai rimpianti e al ricordo del figlio abbandonato. Evidentemente era ormai convinta di non poterne avere altri e Bill non osava discutere. Era una tensione terribile, ogni volta che facevano l’amore, ma almeno Anne adesso non si misurava più la temperatura. Era una specie di sollievo. Anne continuava a evitare i suoi genitori come se fossero appestati, in particolare Faye. Ogni tanto Bill dava loro notizie. Aveva saputo che stavano organizzando un film molto importante e cercavano la protagonista. «Forse daranno la parte a Val», disse un giorno Bill ad Anne, mentre pranzavano accanto alla piscina. Anche se non le aveva dato un figlio, si diceva lei, le faceva fare una bella vita e la rendeva felice. Era circondata di premure come non mai. E pensava di essere stata lei a deluderlo perché non aveva potuto dargli un figlio. Ma sembrava che Bill ne soffrisse molto meno di lei. «Solo se faranno un film dell’orrore e avranno bisogno di un’attrice che sappia urlare in modo fantastico.» Anne descrisse il famoso urlo di Val, e Bill rise ascoltandola. Questa volta si stava riprendendo più in fretta dalla depressione, e lui se ne sentiva sollevato. Ma ciò che aveva appena detto Bill non era assurdo quanto poteva sembrare. Nei loro uffici, Faye e Ward avevano intorno una quantità di résumés, e sul pavimento c’era un grosso mucchio di proposte scartate. Le avevano prese in considerazione tutte, e nessuna andava bene per la parte. Avevano bisogno di un’attrice nuova, fresca e bella. Qualcuna che sembrasse vera. E Ward espose a Faye la stessa idea che Bill aveva accennato ad Anne. Ma lo disse seriamente. «Val?» Faye sospirò e fissò il marito. «Non credo che sia una buona trovata.» Non aveva mai incluso i figli nei suoi film. Per due decenni aveva tenuto separati i due mondi, che adesso minacciavano di scontrarsi. A parte tutto, Val non ave426
va un carattere facile e Faye non andava d’accordo con lei; inoltre, non aveva nessuna esperienza in fatto di cinema di qualità. Tuttavia, sarebbe stato un dono straordinario. «Non saprei, Ward...» «Be’, abbiamo preso in considerazione tutte le attrici che ci sono qui. E a meno che tu voglia incominciare a cercare in Europa o a New York, dovremo provare a rivoltare i sassi. Perché non provi con lei?» «E se non andasse bene?» «Allora la licenzierai.» «Mia figlia?» Faye era scandalizzata. «Non credo che dovrai farlo.» Ward insistette. «Potrebbe cambiare la sua vita. Potrebbe essere l’occasione di cui ha bisogno. Il fatto è che ha la capacità, ma finora non ha avuto la possibilità di esprimersi.» Faye sorrise con aria malinconica. «Parli come se fossi il suo agente. Non farmi uno scherzo simile, Ward. Non è adatta per la parte.» Non era vero, ma sarebbe stato più facile... «Perché dici così?» Ward prese una foto in cornice dalla scrivania e la mostrò. «Ha esattamente l’aspetto che vuoi, no?» Faye sorrise. «E va bene. Mi arrendo.» Ma sembrava più felice di quanto fosse apparsa da tempo. Anche Ward sorrise. Era fiero di lei, e sapevano entrambi che non sarebbe stato facile. Ward era convinto che fosse giusto, e si riprometteva di fare il possibile per aiutarle. E in effetti aveva ragione. Val aveva l’aspetto che Faye cercava per la protagonista: ma sarebbe stata un’impresa lavorare con la propria figlia. D’altra parte, poteva essere la grande occasione... almeno per Val. Faye si alzò con un sorriso, e Ward le andò accanto. «Sei grande, lo sai?» disse con un sorriso, e lei lo guardò malinconicamente. «Allora non dimenticare di dirlo a tua figlia.»
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«vuoi che faccia... che cosa?» urlò Val nel ricevitore. Stava parlando al telefono. Poco prima se ne stava tranquilla a laccarsi le unghie e a chiedersi se quella sera doveva uscire a cena o no. Come al solito il frigo era vuoto, ma tre delle ragazze avevano parlato di fermarsi al Chicken Delight prima di tornare a casa, e Val non aveva voglia di andare fuori. Ed era stufa degli uomini che frequentava da un po’ di tempo. Non volevano altro che portarsela a letto. E dopo un po’, sembravano tutti uguali. Aveva perso la verginità sei anni prima, e non ricordava neppure tutti gli uomini con cui era andata. «Voglio che tu faccia una lettura per Faye Thayer», ripeté l’agente. Val scoppiò a ridere. «Ma sai a chi hai telefonato?» Evidentemente c’era stato un errore. «Io sono Val Thayer.» Avrebbe voluto aggiungere «imbecille!» ma si trattenne. Quella settimana avrebbe dovuto leggere per un’altra parte, in un film sulle droghe. Non era una grande parte, ma sarebbe servita per pagare l’affitto e per tenerla occupata. Non era ancora disposta a darsi per vinta. Recitava da quattro anni, e sapeva che un giorno o l’altro le sarebbe capitata la grande occasione... anche se non si sarebbe trattato di una lettura per sua madre. Era la cosa più strana che avesse sentito da molto tempo. «Parlo sul serio, Val. Ha appena chiamato l’ufficio di tua madre.» 428
«Sei matto.» Val posò la boccetta di smalto. «È uno scherzo. Giusto? Bene, ah-ah. Perché mi hai telefonato?» «Te l’ho già detto.» L’agente era esasperato. Non capitava tutti i giorni che lo chiamasse l’ufficio di Faye Thayer, e si sentiva nervoso. Aveva una piccola agenzia in Sunset Strip e forniva attori, attrici e modelle per film di serie B o dell’orrore, produzioni semipornografiche e spettacoli in topless. Faye s’era infuriata quando Val le aveva detto che aveva firmato per lui. «Tua madre non scherzava, Val. Vogliono che ti presenti domani alle nove.» «Perché?» Val incominciò a sudare. Perché mai avevano telefonato al suo agente e non a lei? «Vogliono che tu legga senza provare.» L’agente s’era offerto di andare a ritirare il copione perché Val potesse studiarlo quella notte; ma avevano rifiutato. O almeno, aveva rifiutato la segretaria, e aveva aggiunto che Mrs. Thayer non era disponibile. Val doveva presentarsi l’indomani mattina alle nove. La cosa gli interessava o no? L’agente s’era affrettato ad accettare, ovviamente. Ma adesso doveva convincere Val. «E cosa dovrei leggere?» «So soltanto che è una parte nel suo nuovo film.» Era la cosa più strana che Val avesse mai sentito. Alla fine accettò di presentarsi; ma quella sera non resistette alla tentazione di telefonare a casa. I suoi genitori erano usciti e la cameriera doveva avere la serata libera, perché non c’era nessuno. Chiamare a casa la rattristò: un tempo c’era sempre tanta gente, e adesso nessuno rispondeva. Anche Faye provava la stessa impressione, quando tornavano a casa tardi. Ma adesso Val non riusciva a pensare ad altro che alla parte misteriosa. Quella notte dormì pochissimo, si alzò alle sei, si lavò i capelli, si truccò e controllò le unghie. Decise d’indossare un semplice abito nero, caso mai facessero sul serio. Era un po’ impegnativo per le nove del mattino, era molto scollato e molto corto, ma metteva in risalto il seno e le gambe. Lo avrebbe indossato per una lettura con chiunque altro, e quindi decise di non fare eccezione per Faye 429
Thayer. Si sforzò di convincersi che non c’era nessuna differenza, mentre andava in macchina allo studio. Ma le mani le tremarono quando aprì la porta; e aveva impiegato tanto tempo a ritoccarsi il trucco e a sistemarsi i capelli che era arrivata con mezz’ora di ritardo. La segretaria la guardò con aria di disapprovazione e Faye consultò l’orologio, poi lanciò un’occhiata alla scollatura... ma accolse la figlia con un sorriso. Sembrava nervosa non meno di Val. Ward e altri due uomini erano seduti in un altro angolo della stanza e parlavano sottovoce tra loro. Sui tavoli, tutt’intorno, c’erano le foto delle altre attrici che avevano preso in considerazione. A un certo momento alzarono la testa e Val vide che suo padre le strizzava l’occhio. Ma adesso doveva concentrarsi su sua madre... sua madre, la donna per la quale aveva sempre provato risentimento e che finalmente le offriva la grande occasione. «Ciao, Valerie.» La voce era gentile, i modi professionali. Era come se cercasse di dirle qualcosa senza parlare, di darle tutto il possibile incoraggiamento. E mentre la guardava Valerie incominciò a sentirsi più calma. Si sforzò di non pensare ai tre maledetti Oscar, ma solo al copione che aveva in mano. All’improvviso, quel copione significava tutto. Non le era mai capitata la grande occasione, ma era certa di saper recitare ed era decisa a farcela a qualunque costo. Faye Thayer la scrutò, augurandole tacitamente buona fortuna. «Vorremmo che leggessi per una parte, Val.» E le porse il copione. «Me l’ha detto il mio agente. Che parte è?» «Una giovane donna che...» Faye descrisse la parte e Val si chiese ancora una volta perché l’aveva chiamata. Avrebbe voluto domandarglielo, ma preferì tacere. «Posso studiarlo per qualche minuto?» Val aveva un’espressione intensa negli occhi. Era sempre stata così invidiosa di Faye, della sua bellezza e del suo passato, della trionfale carriera di attrice che aveva abbandonato ancora giovanissima. E adesso era lì a leggere per lei. Era lo sviluppo più imprevedibile. Sua madre annuì e Val si accorse che stava invec430
chiando. Aveva appena cinquantun’anni, ma le sofferenze degli ultimi tempi avevano lasciato il segno. Di colpo, Val si rese conto che voleva la parte, la voleva più di qualunque cosa al mondo. Voleva dimostrare a quella donna che sapeva recitare. Sapeva che Faye non ne era convinta, e si chiedeva chi poteva aver avuto l’idea di offrirle l’occasione. Suo padre, probabilmente. «Vai per dieci minuti nell’altra stanza e poi torna.» La voce era calda, gli occhi preoccupati. E se non ce l’avesse fatta? Val interpretò chiaramente i timori di sua madre. Era un aspetto della sua personalità che i suoi figli non avevano mai visto: la professionista consumata, la regista che pretendeva cuore e anima, la donna che aveva dedicato tutta la vita al suo lavoro. E all’improvviso Val comprese chi era, e che cosa faceva, e fino a che punto sapeva essere esigente. Ma questo non la spaventava. Era sicura di essere all’altezza del compito. Andò quasi in trance mentre studiava le battute e assimilava la parte. Quando tornò, sembrava diversa. Ward e gli altri uomini alzarono la testa e la guardarono recitare. Val non lesse. S’infuriò, si agitò e parlò, senza dare neppure un’occhiata al copione. Ward si commosse. Sapeva quanto s’era impegnata e quanto desiderava quel ruolo. E quando Val finì, il viso di Faye era rigato di lacrime di gioia e d’orgoglio. Le due donne si scambiarono un lungo sguardo e improvvisamente anche Val pianse. Si abbracciarono tra le lacrime, e risero, mentre Ward stava a guardare. E finalmente Val guardò i genitori. «Allora, ho avuto la parte?» «Sì, che diavolo!» rispose pronta Faye, e rimase allibita quando Val proruppe nel suo urlo ormai famoso. «Alleluia!»
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val incominciò a girare in maggio. Non aveva mai faticato tanto in tutta la sua vita. Sua madre faceva sgobbare tutti, pretendeva il massimo, lavorava senza tregua, esigeva da Val tutto ciò che poteva dare. Ma non era più di quanto esigeva da se stessa e dagli altri attori. Era il suo modo di lavorare, e grazie a quello aveva vinto gli Oscar che Val aveva disprezzato per tanti anni. Adesso, però, le piaceva. La sera aveva a malapena la forza di trascinarsi a casa, e quasi tutte le sue giornate sul set finivano tra le lacrime. Aveva ventidue anni, non aveva mai faticato tanto in vita sua e non credeva di poter continuare a farlo. E se l’avesse fatto, sarebbe stato solo perché lo voleva lei. Nessuno avrebbe mai preteso tanto... o le avrebbe insegnato tanto... sapeva anche questo. Ed era felice, orgogliosa e riconoscente. Lavorava da tre settimane quando il protagonista maschile del film, George Waterston, le offrì un passaggio fino a casa. Val l’aveva già visto in giro per Hollywood, e sapeva che non era stato affatto entusiasta quando gli avevano detto con chi avrebbe recitato. Aveva sperato che scegliessero un’attrice famosa, e Faye aveva stentato a convincerlo. Poi s’erano accordati: se Val non ci avesse saputo fare, l’avrebbero sostituita. Val aveva sentito le chiacchiere sul set, e le tornarono alla mente ora che George Waterston la guardava negli occhi. Si chiese se era un amico o un nemico e si rese conto che non le importava nulla. Era troppo stanca, e ave432
va bisogno di un passaggio. La sua macchina era in officina da settimane, e lei andava al lavoro in tassì. Perciò gli rivolse un’occhiata di gratitudine. «Sicuro... grazie...» Gli diede l’indirizzo, ma non trovò l’energia per parlare lungo il percorso; si addormentò e rimase inorridita quando George la svegliò davanti a casa. Trasalì quando le toccò il braccio e lo guardò mortificata. «Mi ero addormentata?» «A quanto pare non sono più interessante come una volta.» George aveva i capelli bruni e gli occhi azzurri, un viso forte e segnato. Aveva trentacinque anni e Val lo ammirava da molto tempo. Era un sogno, interpretare un film con lui. La gente stava già dicendo che Val Thayer aveva avuto la parte grazie alla madre, ma non le importava nulla. Avrebbe dimostrato a tutti che sbagliavano. Li avrebbe lasciati di sasso nella parte di Jane Dare. Guardò il co-protagonista con aria di rammarico. «Mi dispiace... ero così stanca...» «Lo ero anch’io, la prima volta che ho girato un film con Faye. Una volta mi sono addirittura addormentato al volante, e mi sono svegliato un attimo prima di andare a sbattere contro un albero. Prima che finissimo il film avevo paura di guidare. Ma lei riesce a mettere in evidenza qualcosa che non riesce a nessun altro: un po’ della tua anima... o del tuo cuore... e alla fine non deve più neppure sforzarsi, sei tu che desideri darlo.» Era esattamente ciò che Val stava incominciando a provare, oltre ai nuovi sentimenti d’amore e di rispetto per sua madre. «Lo so... ancora non riesco a credere che mi abbia dato la parte.» Val lo guardò con franchezza. «Non le era mai piaciuto quel che facevo, e non ho fatto molto. Voglio dire, ho avuto molti ruoli, ma non importanti come questo.» George lo sapeva, e per la prima volta dopo tutte quelle settimane provò un po’ di commiserazione per Val. All’inizio non gli era piaciuta affatto. Gli sembrava una sgualdrinella e aveva pensato che Faye l’avesse scelta per un favoritismo: ma poi 433
s’era reso conto di aver sbagliato, e adesso vedeva che quella povera ragazza aveva paura. Doveva essere tremendo, per lei, lavorare per Faye, recitare con lui. Si trovava in un mondo di professionisti ed era ancora una ragazzina... Adesso gli ispirava sentimenti del tutto nuovi. «Io avevo un terrore folle.» George rise, rilassandosi. Val non aveva più l’aria volgare dell’inizio. Si truccava pochissimo e portava magliette e jeans. Era inutile indossare abiti vistosi e scollati per toglierseli appena arrivava allo studio; e incominciava a vivere il ruolo di Jane Dare, tanto diversa da lei. «Tua madre è eccezionale, Val.» Era la prima volta che la chiamava per nome, e lei sorrise. «Sai, quando sono sul set dimentico che è mia madre. È solo una donna che inveisce contro di me, e a volte mi fa infuriare al punto che l’ammazzerei.» «Giusto.» George conosceva bene Faye, e anche a lui dava le stesse sensazioni. «È appunto quel che vuole che tu provi.» Val sospirò. Stava comoda nella grossa macchina, una Cadillac bianca decapottabile con l’interno rosso. Aveva a malapena la forza di aprire la portiera per scendere. Poi, un po’ innervosita, si rivolse a George. «Vuoi entrare a bere qualcosa? Non so cosa ci sia da mangiare... forse niente. Ma se vuoi possiamo ordinare una pizza per telefono.» «E se invece andassimo a mangiarla da qualche parte?» George diede un’occhiata al suo Rolex. «Potrei riportarti a casa tra un’ora. Stasera voglio studiare ancora la scena per domani.» Poi ebbe un’idea: «Vuoi che la prepariamo insieme?» Val sorrise, incredula. Non poteva essere vero. Lei che studiava le battute con George Waterston per un film? Doveva essere un sogno. Decise di rispondere in fretta, prima che il sogno si dileguasse. «Con piacere, George. Se non mi addormenterò di nuovo.» Lui rise e mantenne la promessa. Mangiarono una pizza lungo la strada e andarono a casa di George a Beverly Hills; per due ore studiarono la scena, provando intonazioni diverse, fino a quando si sentirono soddisfatti. C’era la stessa atmosfera dei corsi di recitazione che Val ave434
va amato tanto; ma stavolta facevano sul serio. Alle dieci in punto George la riportò a casa. Tutti e due avevano bisogno di riposo, in vista del giorno dopo. George la salutò con la mano mentre Val entrava in casa camminando sulle nuvole. Era un piacere non avere a che fare con un ragazzino o con qualcuno che aveva l’aria del magnaccia. Si chiese perché non aveva mai incontrato uno come George. Poi rise. Metà delle donne del mondo sognavano d’incontrare un uomo come quello, e Val Thayer lavorava con lui tutti i giorni. Il film procedeva bene; e Val andò più volte a studiare da George. Avrebbe voluto invitarlo a casa sua, ma c’era troppo caos. Lui le disse che avrebbe dovuto traslocare e cercarsi un posto più adatto. Si comportava con lei quasi come un fratello maggiore, la presentava ai suoi amici, l’introduceva negli ambienti migliori di Hollywood. «Fai una pessima figura a vivere in un posto simile, Val.» Ormai poteva parlarle francamente. Lavoravano insieme per dodici ore al giorno, e ogni sera studiavano per altre due o tre. «Ti giudicheranno volgare.» Era esattamente ciò che le era accaduto per anni, fino a che non era cambiato tutto. «Non posso permettermi di meglio.» Era la verità, e George la guardò sorpreso. I Thayer erano tra i personaggi più importanti di Hollywood, e gli sembrava strano che non sovvenzionassero la figlia. Glielo disse, e Val scrollò la testa. Non era nel suo stile. «Non ho accettato nulla da loro da quando me ne sono andata.» «Ostinata, eh?» George le sorrise. Da un po’ di tempo Val aveva notato un legame che si andava rinsaldando tra loro. Incominciava a contare su di lui. Anche troppo, si diceva. II film che stavano interpretando era un mondo irreale, e prima o poi sarebbe finito. Ma era piacevole stare in compagnia di George... era così amichevole, e sapeva tante cose. Aveva un figlio di quattordici anni, molto simpatico. S’era sposato a diciotto anni, a ventuno aveva divorziato e la sua ex moglie s’era risposata con Tom Grieves, un asso del baseball. George vedeva il figlio la domenica e a volte anche il mercoledì 435
sera; un paio di volte aveva invitato Val ad andare con loro. Il ragazzo si chiamava Dan, e Valerie si trovava bene con lui. George le aveva detto che avrebbe voluto molti figli; ma non si era risposato anche se i pettegolezzi affermavano che aveva vissuto con diverse attrici famose. All’inizio di giugno i giornali abbinarono per la prima volta i loro nomi. Anche Faye vide la notizia e la mostrò a Ward prima che uscissero per andare a lavorare. «Spero che non si stia mettendo con lui.» «Perché no?» Ward sospettava che fosse tutto vero, e comunque stimava George. Lo considerava una delle persone più a posto di Hollywood. Ma Faye vedeva le cose da un punto di vista diverso. Aveva in mente un unico scopo, quando dirigeva un film. «La distrarrà dal lavoro.» «Forse no. George potrebbe insegnarle qualcosa.» Faye mormorò qualcosa d’inintelligibile, e uscirono. Come al solito era preoccupata per Val. Ward aveva avuto ragione... era favolosa nella parte, anche se Faye non glielo diceva per non disorientarla. Quasi le dispiaceva che qualche settimana dopo dovessero andare tutti alla festa di laurea di Vanessa. Durante la lavorazione di un film lei non frequentava i suoi attori: ma in questo caso era impossibile evitarlo. Si sarebbe tenuta lontana il più possibile da Val, sperando che comprendesse. Voleva sempre più bene alla figlia, ma al momento era la sua regista. E questo era l’importante. Quando George seppe che Val sarebbe andata a New York, decise di partire anche lui. «È un anno che non ci vado. E diavolo, potrei portare Dan.» I loro rapporti erano stranissimi. Andavano insieme dappertutto, e George non l’aveva mai toccata. A Val dispiaceva che non lo facesse. Ma non voleva rovinare tutto, e adesso stavano diventando amici. «Potrei portare anche Danny, sicuro. Di solito alloggio al Carlyle.» «Credo che mia madre vada al Pierre, con mio fratello, mia sorella e mio cognato.» L’aveva suggerito Bill, e Faye aveva lasciato che prenotasse una stanza. Stavano diventan436
do amici, a poco a poco, e Ward aveva giocato qualche volta a tennis con lui. Ma adesso George aveva un’idea. «Perché non vieni al Carlyle con noi? Tanto, Faye non vorrà averti spesso intorno.» Val lo sapeva: suo padre gliel’aveva spiegato. Quindi la proposta di George era l’ideale. «Non parla mai con i suoi attori. Dice che la confonde, e che riesce a vedersela solo con un’identità per volta. In questo momento, per lei sei Jane Dare. Non vuole neppure vedere Valerie Thayer o George Waterston.» Il personaggio che George interpretava si chiamava Sam. Val annuì: adesso capiva. E non le dispiaceva affatto l’idea di alloggiare al Carlyle con lui. «Sei sicuro che a Danny non dispiacerà?» «No, che diavolo. Ti adora.» E così partirono tutti e tre per New York, in prima classe. George dovette firmare parecchi autografi mentre Val e Danny assistevano, e alla fine lo presero in giro e gliene chiesero uno anche loro. Val e Danny giocarono a carte mentre George dormiva, e poi guardarono tutti insieme il film, scambiandosi gomitate: era una delle interpretazioni più recenti di George. All’aeroporto di New York c’era una berlina ad attenderli. Li portò subito al Carlyle, dove George aveva prenotato una suite con tre camere da letto. C’erano un cucinino, un pianoforte e un soggiorno arioso affacciato sul parco. Era al trentaquattresimo piano, e Danny era entusiasta. Si fecero servire il pranzo nella suite, e quella sera andarono a cena al «21». «Bene, piccola», disse sottovoce George a Val più tardi, al bar, dopo che Danny era andato a dormire. «Ormai il mondo intero saprà che hai una relazione con me. Credi di poter sopportare le chiacchiere?» Lei rise e rispose di sì. La cosa più strana era che tra loro c’era soltanto un’amicizia. Poi ascoltarono Bobby Short che suonava meravigliosamente il piano e infine salirono nelle loro stanze. Val sapeva che ormai il resto della sua famiglia era arrivato a New York; e l’indomani mattina Vanessa le telefonò per invitarla a pran437
zo. Era emozionatissima per il suo film e voleva sapere tutto. Avevano cenato con Ward e Faye, la sera, ma Faye non aveva rivelato nulla. «Quindi dovrai raccontare tutto tu.» «Bene. Posso portare anche George?» A Val non sembrava giusto abbandonare lui e il ragazzo, ma Vanessa non capì subito. «George? Chi è?» «George Waterston.» Vai lo disse con tanta disinvoltura che per poco Vanessa non cadde dalla sedia. «Stai scherzando? È qui con te?» «Sì, siamo arrivati insieme, e c’è anche suo figlio. Ha pensato che fosse divertente venire a New York per qualche giorno mentre io assisto alla tua cerimonia di laurea. A proposito, congratulazioni! Almeno adesso uno di noi ha un’istruzione.» Ma al momento, Vanessa aveva dimenticato anche la laurea. «George Waterston! Val, non posso crederlo!» Coprì il ricevitore con la mano e riferì l’annuncio a Jason, poi bisbigliò alla sorella: «C’è qualcosa fra te e lui?» «No. Siamo semplicemente amici.» Ma Vanessa non le credette, e lo disse a Jason appena riattaccò. Se lui l’aveva accompagnata fino a New York, dovevano essere qualcosa più che amici. «Non si può mai sapere. Voi di Plastic Land siete così strani, l’ho sempre detto.» Jason sorrise. Tra una settimana avrebbero traslocato. Avevano trovato un loft a Soho e non vedevano l’ora di andare ad abitarvi. Avevano promesso di mostralo a Ward e a Faye: ormai non nascondevano più che vivevano insieme. E Vanessa intendeva continuare così. Faye gliel’aveva chiesto la sera prima, sperando di sentirsi dire che contavano di sposarsi presto, ma sembrava che non ne avessero affatto l’intenzione. E Jason accusò Van di averla fatta soffrire, quando rimase nuovamente con lei. «Povera donna, è così ansiosa di vederti sistemata da persona rispettabile. Potremmo almeno fidanzarci, sai?» «Così rovineremmo tutto.» 438
«Sei matta.» «No. Con te non ho bisogno di un pezzo di carta. Ci sono tante cose che vogliamo fare, prima», gli rammentò Vanessa: il dramma, il libro... e adesso lei doveva cercarsi un impiego. Ma Jason aveva finito con gli studi e pensava di mettersi tranquillo. Vanessa non aveva fretta. Era ancora abbastanza giovane per sentire di avere a disposizione tutto il tempo del mondo... anche se aveva molta fretta di conoscere l’amico di Valerie. Si diedero appuntamento da PJ Clark’s e all’una in punto Valerie, George Waterston e Dan entrarono nel ristorante. George portava i jeans, una maglietta e un paio di mocassini di Gucci senza calze. Danny aveva l’aria di un ragazzo molto normale, con la camicia azzurra e i calzoni kaki. Da un po’ di tempo si vestiva con cura perché aveva incominciato a interessarsi alle ragazze; e aveva una cotta per Val, che quel giorno portava un abito di pelle rossa alla zingara. Ma Vanessa aveva occhi solo per George, e Val la prese continuamente in giro durante il pranzo. Jason andò subito d’accordo con George, parlò di sport con Dan, e promise di portarlo a una partita degli Yankees prima che ripartisse per la California. Era un gruppo perfettamente affiatato; e Vanessa non poté fare a meno di notare il cambiamento che s’era operato nella sua gemella. Era più calma e sicura di sé, meno chiassosa. Sembrava serena e soddisfatta, ed era difficile credere che non fosse innamorata del suo accompagnatore. Lui, senza dubbio, aveva tutta l’aria di essere innamorato di lei. Parlarono molto del film; a Valerie sembrava ancora impossibile aver ottenuto la parte e descrisse a Van il colloquio con sua madre e il terrore che le aveva ispirato. «Mi ha sempre spaventata a morte.» Era la prima volta in vita sua che lo ammetteva e Vanessa la guardò sorpresa. Era davvero cambiata. Finalmente era diventata adulta, era diventata se stessa, e Van non l’aveva mai trovata così simpatica. «Io credevo che ti ispirasse invidia, non paura.» «Tutte e due, credo.» Valerie sospirò e sorrise a George. 439
«Sul lavoro mi fa ancora una paura d’inferno, ma non provo più tanto risentimento per lei. Vedo come s’impegna. Credo proprio che abbia meritato tutti i riconoscimenti che ha avuto. E prima, questo non riuscivo ad ammetterlo.» «Sono davvero impressionata», disse Vanessa. I due uomini si scambiarono un’occhiata. Era straordinario pensare che fossero gemelle. Vanessa era così calma e intellettuale, votata al successo in un campo del tutto diverso. Non voleva più neppure tornare a Los Angeles. La sua vita era a New York, con Jason e i loro amici, e il mondo dell’editoria dove contava di sfondare. Non parlava più di sceneggiare film; pensava solo al suo libro. E Valerie, con i fiammeggianti capelli rossi e la bellezza splendente, faceva parte dell’ambiente del cinema, ma di quello migliore, ormai. Senza che se ne accorgesse, il suo aspetto era cambiato negli ultimi due mesi. I tempi degli urli e del liquame verde erano passati per sempre, e già s’intuiva che era circondata dall’aura della grande attrice. Anche Faye se n’era accorta. Era la stessa aura che un tempo era appartenuta a lei. E l’indomani, alla cerimonia della consegna delle lauree, Faye li osservò tutti, senza farsi notare. Anne, così impeccabilmente abbigliata nei suoi abiti di lusso, con i diamanti agli orecchi, al braccio di Bill, Vanessa così graziosa e seria in tocco e toga, Valerie incredibilmente bella e Lionel, che sembrava più felice di quanto lo fosse stato negli ultimi due anni. Faye si chiese se c’era qualcun altro nella sua vita; ma non voleva chiederlo, e naturalmente non voleva chiederlo neppure Ward. Ciò che faceva Lionel, adesso, era affar suo; dopotutto aveva venticinque anni, e lo avevano accettato, come avevano accettato gli altri sebbene in un certo senso l’accettazione fosse ancora unilaterale. Faye lo sapeva. Sapeva che Anne non l’aveva ancora perdonata per il figlio a cui aveva rinunciato... Val era ancora invidiosa del suo successo... Vanessa s’era allontanata da lei... Lionel aveva la sua vita... e il povero Greg non c’era più. Sentiva più che mai la sua mancanza... Greg, con quel ciuffo di capelli rossi, la passio440
ne per lo sport e le ragazze. Era stato più vicino a Ward che a lei, ma era suo figlio... Strinse il braccio di Ward. Sapeva che stava pensando anche lui a Greg... ed era così doloroso per entrambi. Ma poi vi furono sorrisi e risate, quel pomeriggio quando andarono al Plaza per festeggiare. Faye aveva ordinato un tavolo coperto di fiori bianchi nell’Edwardian Room, e Vanessa rimase senza parole quando Ward le porse il loro regalo. Ne avevano discusso a lungo e alla fine avevano deciso di includere anche Jason: era un modo di confermare la loro approvazione. Le avevano regalato due biglietti per l’Europa, più un cospicuo assegno per coprire le spese e le prenotazioni negli alberghi migliori. Sarebbe stato un viaggio favoloso per entrambi, e Faye fu sollevata quando seppe che anche Jason sarebbe potuto partire non appena si fossero trasferiti a Soho una settimana dopo. Adesso aveva lasciato l’insegnamento per dedicarsi completamente al suo dramma. «Bene, questo dovrebbe tenervi per un po’ lontano dai guai.» Ward sorrise. Avrebbe desiderato che Van e Jason si sposassero, ma sembrava che questo non fosse scritto nelle stelle, almeno per ora. E si chiedeva come stavano le cose tra Val e George Waterston. Quel pomeriggio George era andato in giro con il figlio, ma Ward sapeva che Valerie alloggiava con loro, ed era curioso di saperne di più. Ma non ne aveva parlato per tutto il giorno. E poi, naturalmente, c’erano Bill e Anne. Bill aveva l’aria di integrarsi abbastanza bene con tutti gli altri. Anne aveva invitato Gail, che adesso stava chiacchierando con Lionel. Era entusiasta dei suoi studi nel campo del design e del lavoro estivo presso Bili Blass. E Lionel parlava animatamente del film al quale partecipava. Erano tutti giovani e felici, e scaldava il cuore guardarli... Ward lo disse a Faye mentre tornavano a piedi verso il Pierre. All’improvviso le prese il braccio, l’attirò in disparte, si fermò a parlare con un uomo accanto a una carrozza... e così Faye si ritrovò a girare in carrozzella intorno a Central Park mentre Ward le teneva la mano. Lui la baciò dolcemente un paio di volte, 441
e Faye sorrise. Dopo una vita intera era ancora pazza di lui. «Devo dire che il nostro è un bel gruppo.» Ward ripensò di nuovo a tutti mentre attraversavano il parco, e Faye non lo contraddisse. Non aveva parlato molto con Val e sperava che George le spiegasse il perché. Lui conosceva i suoi metodi di lavoro. «Ma sei ancora la più bella, piccola.» «Oh, amore.» Faye lo baciò e sorrise. «Ora sono sicura che sei pazzo come ho sempre pensato.» «Sono soltanto pazzo di te.» Ward la baciò di nuovo, e si tennero a lungo per mano, felici di essere insieme, felici delle loro vite. Avevano percorso una lunga, lunga strada fianco a fianco.
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«vuoi uscire a cena questa sera, tesoro?» Anne scosse la testa. Era sdraiata sul letto al Pierre. Era andata bene, tutto sommato, anche se non avrebbe voluto venire; ma Bill aveva pensato che fosse doveroso, e comunque avevano potuto rivedere Gail. La prospettiva di vederla l’aveva finalmente convinta. Bill le aveva proposto un viaggio in Europa con tappa a New York; ma Anne non era dell’umore adatto e si sentiva così stanca. Lo era da mesi, fin dal primo aborto. Sembrava che non si fosse mai ripresa completamente, e Bill si preoccupava per lei. «Perché non chiamiamo il servizio in camera e mangiamo qui?» Anne sapeva che Gail sarebbe andata in giro con Lionel. Le piaceva la sua compagnia e aveva molti amici gay. Ma Anne non aveva voluto accompagnarli. Pensava che Bill si sarebbe annoiato non meno di lei. Jason e Vanessa dovevano festeggiare, Val aveva il suo divo e lei non aveva nessuna voglia di rivedere i genitori. Una volta in un giorno era più che sufficiente. Ma Bill pensava che fosse un peccato sprecare una serata a New York. «Sei sicura?» «Davvero, non mi va di uscire.» «Ti senti male?» Bill ricordava quando s’era ammalata la madre di Gail. E voleva portarla da un medico. Ma quando tornarono a Los Angeles, la settimana seguente, Anne si oppose. «Non ho bisogno di andare dal dottore. 443
Sto benissimo.» Questa volta Bill non cedette. Certe cose erano troppo importanti: e Anne era la più importante di tutti. Non voleva perderla, mai. «Non è vero che stai benissimo. Stai male. Non hai neppure voluto saperne di uscire con me a New York.» Avevano cenato in camera e poi erano andati subito a dormire; e adesso Anne faceva lo stesso ogni sera. Bill aveva l’impressione che dormisse anche tutto il giorno. «Se non prendi l’appuntamento tu, lo prenderò io.» E alla fine fu esattamente ciò che fece. Prese l’appuntamento, finse di passare a prenderla, per condurla a pranzo e l’accompagnò dal medico a Beverly Hills. Anne s’indignò. «Mi hai imbrogliata.» Era una delle pochissime volte che gridava così con lui, ma Bill la condusse nello studio come una bambina, e Anne guardò male tutti e due. Il dottore, comunque, non trovò nulla che non andasse. Le ghiandole funzionavano perfettamente, i polmoni erano in ordine, il conto dei globuli rossi era regolare... e poi, senza dir niente, ebbe un’idea. Fece il controllo con il sangue che le aveva prelevato, e quella sera telefonò a Bill per riferirgli il risultato. Bill rimase sbalordito. Sbalordito, emozionato e spaventato. Anne era incinta di nuovo. Questa volta non ci aveva neppure pensato, e temeva che tutto si risolvesse in un altro disastro. «La faccia continuare così. Il suo organismo sa di cos’ha bisogno. Molto riposo, vitto nutriente, niente stress. Non dovrà far altro che stare tranquilla per un paio di mesi e tutto andrà per il meglio.» Bill annuì e andò nell’altra stanza a parlarle. Lei stava guardando la televisione e pensava di telefonare a Gail, e Bill la incoraggiò con un sorriso. «Credo proprio che dovresti chiamarla, tesoro.» «Perché?» «Per darle la notizia.» «Quale notizia?» Anne lo fissò senza capire. Bill si tese a baciarla teneramente. «Devi dirle che sei incinta.» Lei sgranò gli occhi. «Sono incinta? Chi te l’ha detto?» 444
«Il dottore, un attimo fa. Ha telefonato. Non ci aveva neppure detto che avrebbe fatto le analisi, ma il risultato è positivo.» «Davvero?» Anne sgranò gli occhi e gli buttò le braccia al collo: non osava parlare. Non lo disse a Gail, non lo disse a nessuno fino a quando fu passato il periodo critico dei primi tre mesi. E questa volta andò tutto bene. In settembre il dottore dichiarò che non c’erano più motivi di preoccupazione. Il bambino sarebbe nato in febbraio, forse il giorno di san Valentino. L’altro figlio di Anne avrebbe avuto ormai cinque anni e mezzo, anche se non ne parlavano mai. Parlavano del piccino che doveva nascere e Bill sapeva quanto lei lo desiderava. La trattava come se fosse di vetro. Non viaggiavano e uscivano pochissimo. Anne riposava, felice, e Bill la viziava ancora più di prima. Faye telefonò diverse volte per augurare che tutto andasse bene, ma al telefono la voce di Anne era fredda. Lei e sua madre avevano già vissuto momenti come quelli; e ricordava le pressioni che aveva esercitato allora. Detestava parlarle, adesso, perché le rammentava quei giorni. Non le andava neppure di parlare con Lionel, perché le faceva pensare a quando aveva abitato con lui e John, in attesa della nascita del suo primo bambino. Gail chiamava spesso da New York e le chiedeva se era molto ingrossata. Anne rideva e diceva di essere enorme, e quando Val la vide un giorno in Rodeo Drive si dichiarò scherzosamente d’accordo. Ormai era novembre e un mese prima avevano finito il film. Adesso il montaggio procedeva giorno e notte perché Faye voleva lanciarlo per Natale. E soprattutto speravano che venisse incluso nella selezione per gli Oscar e quindi doveva uscire entro la fine dell’anno. E quando Anne incontrò Val, notò che George Waterston era fermo con la Cadillac accanto al marciapiedi ad attenderla. Anne si chiedeva se erano ancora «amici e niente altro», come sosteneva Val. Ma una cosa era certa: Val era anche più bella di prima ed era venuta da Giorgio’s a scegliere un abito per la festa di 445
quella sera. Anne era andata a comprarsi qualcosa da mettere durante le feste. Bill voleva che uscisse un po’, e ormai lei non stava più dentro a tutti quei capi del suo guardaroba, inclusi i vestiti pre-maman. «Come ti senti?» chiese Val. Sembrava interessata sinceramente. Tutti sapevano che cosa significava il bambino per lei, e perché. Anne rise. Nonostante i disagi, era felice di quella gravidanza. «Mi sento grassa.» «Hai un aspetto splendido.» «Grazie. E tu? Come va?» Ormai si telefonavano molto raramente. Era difficile credere che fossero cresciute nella stessa casa. Ma non era neppure esatto. Val era diventata adulta solo di recente, e Anne era cresciuta in casa di Bill. «Mi hanno appena offerto un altro ruolo.» «Non sarà per un altro film della mamma, spero?» Val si affrettò a scuotere la testa. Lavorare con sua madre era stata un’esperienza che non avrebbe mai dimenticato, e gliene sarebbe sempre stata riconoscente. Ma non era ansiosa di rifarlo molto presto. Quasi tutti gli attori che lavoravano per Faye Thayer la pensavano così, incluso George. «Una volta ogni tre anni è il massimo», aveva detto, e Val pensava che fosse vero. «No, con un altro.» Disse i nomi del regista e degli attori, e Anne ne fu impressionata. «Non ho ancora deciso. C’è un altro paio di possibilità.» La carriera di Val era finalmente decollata da un giorno all’altro, dopo cinque anni di urli. Anne era contenta per lei. Quella sera lo disse a Bill. «Un giorno sarà l’attrice più famosa di Hollywood, come lo era tua madre.» Non era difficile crederlo, ora: Val aveva talento, bellezza ed era destinata al successo. Si capiva che era qualcuno quando scendeva da una macchina. Non portava più, come ai vecchi tempi, un abito nero attillato e scarpe con i lustrini alle dieci del mattino. Aveva fatto molta strada, e Anne pensava che George fosse il responsabile della felicità che le brillava negli occhi. «Io credo che siano qualcosa di più che amici, e tu no?» 446
Anne stava cercando di mettersi comoda in poltrona, e quando Bill le sistemò un paio di cuscini dietro la schiena lo ringraziò con un bacio. «Lo credo anch’io. Ma fanno bene a essere discreti. Lui è famoso, e non hanno bisogno di troppo chiasso.» In effetti l’avevano tenuto nascosto a tutti, e persino a Dan, più a lungo che avevano potuto. Ma alla fine avevano dovuto dirglielo, e adesso Val viveva con loro nelle Hollywood Hills, in una bella casa completamente cintata da un alto muro e attorniata da alberi. Neppure i fotoreporter li avevano ancora sorpresi, sebbene la cosa andasse avanti da tre mesi. Val non era mai stata tanto felice in vita sua. Quand’erano tornati da New York e avevano ripreso la lavorazione del film, sembrava che tra loro fosse accaduto qualcosa di diverso. Erano così vicini che capivano ogni respiro e ogni pausa: era una magia che si ripeteva ogni giorno sul set, e anche Faye se ne accorgeva e ne era entusiasta. Non s’intromise e lasciò che le cose continuassero. In agosto, quando Dan partì con la madre, Val andò a vivere in casa di George. Quando Danny tornò glielo spiegarono, e George incominciò a parlare di matrimonio, sebbene nessuno di loro avesse fretta. Volevano un po’ di tempo per essere sicuri. E Val sentiva che sarebbe successo un giorno o l’altro. Ma adesso erano pronti. In un certo senso, era ciò che stavano aspettando. «Credi che resisteresti a vivere qui per sempre con un vecchio e un ragazzino?» chiese George baciandole il collo. Quel pomeriggio Val aveva incontrato Anne. «A me sembra piacevole... Naturalmente», disse Val assumendo un’aria di rammarico molto convincente, «stavo meglio dove abitavo prima.» George proruppe in un’esclamazione esasperante e le spettinò i capelli fulvi. «Vuoi dire quel bordello pieno di vecchie galline? Mi meraviglio che non ti abbiano mai arrestata per il semplice fatto che vivevi lì.» «George, ma cosa dici!» 447
«È vero!» Val s’era finalmente decisa a dire ai genitori che viveva con lui. Era stato un sollievo scoprire che non disapprovavano. Ormai era adulta, ma per lei era importante, soprattutto ora che aveva lavorato con Faye. Dopo ciò che aveva visto provava un rispetto nuovo per la madre, e per la prima volta in vita sua sentiva che sua madre la rispettava. L’aveva persino aiutata a trovarsi un altro agente, e aveva parlato a lungo con lei il giorno dopo la fine della lavorazione. «Val, tu sei brava, molto brava. Tuo padre ne è sempre stato convinto. E me lo diceva. Devo ammettere che avevo qualche dubbio, ma sei una delle migliori e farai molta, molta strada.» Quelle parole significavano tutto per Val, e non riusciva a credere che fosse proprio Faye Thayer a dirgliele. «Ti odiavo, lo sai?» Era una confessione terribile, e Val aveva le lacrime agli occhi. «Ero così gelosa di te e di quei maledetti Oscar nello studio.» «Non vogliono dir nulla, Val.» La voce di Faye era gentile, ma Valerie scrollò la testa. «I miei Oscar siete voi cinque.» «Io dicevo che non avevano importanza, ma non è vero. Significano che hai lavorato con impegno, che ci sai fare. E sei meravigliosa, mamma... davvero, sei la migliore.» Avevano pianto, abbracciandosi, e quel ricordo commuoveva ancora Val. Finalmente s’era riconciliata con la madre. C’era voluto molto tempo, ma c’era riuscita. E sperava che un giorno lo facesse anche Anne. Le ombre non sarebbero mai scomparse dai suoi occhi fino a che non l’avesse fatto. Lo disse a George. Gli confidava tutto. Lui non era soltanto il suo amante, era anche il suo migliore amico. «Sai, invidio un po’ tuo cognato.» George lo disse mentre erano sdraiati davanti al fuoco, quella notte, e Val lo guardò sorpresa. «Bill? Perché? Tu hai tutto ciò che ha lui, e anche di più. Inoltre hai me», continuò con un sorriso. «Cosa potresti pretendere ancora?» «Giusto.» Anche George sorrise, ma nei suoi occhi c’era una malinconia che Val non aveva mai visto. Era un uomo 448
tranquillo, e aveva valori e ideali rispettabili, un modo di vita stabile... era tutto piuttosto insolito in un idolo di Hollywood come lui. «Gli invidio quel bambino.» «Il bambino?» Val era sorpresa. Pensava raramente ai bambini. Pensava che ne avrebbe avuti un giorno: ma tra molto tempo. La sua carriera era importante, aveva faticato per conquistarla e stava appena incominciando l’ascesa verso le vette. Non era affatto disposta a rinunciare, come aveva fatto sua madre più o meno alla sua età. Faye aveva venticinque anni quando s’era ritirata; e Val ne aveva quasi ventitré. «Davvero vorresti un bambino, George?» Anche lui era al culmine della carriera. Sarebbe stato difficile per entrambi, anche se era un’idea da tenere in considerazione per il futuro. «Forse non ora. Ma presto.» «Quando?» Val si voltò, appoggiò il viso sulle mani e lo guardò preoccupata. «Andrebbe bene la settimana prossima?» George rise nel vedere la sua espressione. «Non so, tra un anno o due. Ma è un’esperienza che mi piacerebbe ripetere un giorno.» Dan era un caro ragazzo, e anche Val gli era affezionata. «Non mi dispiacerebbe.» «Bene.» George sorrise soddisfatto. Poco dopo, davanti al fuoco, la spogliò lentamente e disse che era opportuno tenersi in allenamento.
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«come stai, tesoro?» Bill la guardò premurosamente, e Anne rise. «Come staresti, se fossi ridotto così? Che orrore. Non posso muovermi, non posso respirare. Se mi sdraio il bambino mi soffoca, se mi metto a sedere ho i crampi.» Era già il 9 gennaio e mancavano cinque giorni alla data prevista. Anne sembrava felice, nonostante le lamentele. Desiderava tanto quel figlio che non le importava se era ingrossata e se soffriva tanti disagi. Voleva tenerlo fra le braccia, vedere il suo visino. Era sempre convinta che sarebbe stato un maschio, ma Bill sperava che fosse una bambina. C’era già abituato, diceva. «Vuoi che usciamo a mangiare un boccone?» Anne rise e scosse la testa. Non aveva più nulla che le andasse bene, neppure le scarpe, e c’erano solo tre abiti informi che riusciva a indossare. Aveva smesso di andare da Giorgio’s per scegliere qualcosa per uscire perché non se la sentiva più di mettere piede fuori di casa. Si sentiva troppo a disagio, e si limitava ad aggirarsi scalza per le stanze, quasi sempre in camicia da notte. E quella sera, quando ebbero mangiato una zuppa e un piccolo soufflé, fecero due passi intorno alla casa; ma anche questo era troppo faticoso per Anne. Ansimava. Fu costretta a sedere su un macigno davanti al cancello di una villa. Bill si stava chiedendo se non avrebbe fatto meglio ad andare a prendere la macchina, ma Anne sosteneva che ce l’avrebbe fatta ad arrivare a casa a piedi. Aveva un’aria così vulnerabi450
le che Bill si sentiva commosso; tuttavia lei sembrava accettare la realtà. L’indomani mattina si alzò presto per preparargli la colazione. Era piena d’energia e aveva deciso di pulire di nuovo la stanza del bambino anche se Bill non lo riteneva necessario; comunque, Anne insistette e quando lui uscì era indaffaratissima a passare l’aspirapolvere sul pavimento. Bill era un po’ impensierito, e decise di fare una scappata a casa prima di pranzo. La trovò sdraiata sul letto, con il cronometro in mano, intenta a misurare le contrazioni mentre effettuava la respirazione Lamaze. Gli lanciò un’occhiata distratta e Bill le corse al fianco. «Ci siamo?» Anne sorrise serenamente. «Volevo essere sicura prima di strapparti al lavoro in ufficio o al pranzo alla Polo Lounge.» Bill si agitò e le tolse il cronometro dalle mani. «Non dovevi pulire la stanza del bambino.» Ma lei rise. «Dovrò pure averlo prima o poi, lo sai?» Mancavano appena quattro giorni alla data prevista. Bill annullò l’impegno per il pranzo, telefonò al dottore e avvertì la segretaria che non sarebbe tornato in ufficio. Ma per quanto si sforzasse, non riuscì a convincere Anne ad andare in ospedale. Anche il dottore diceva che si poteva aspettare un po’; Bill comunque, temeva che attendessero in casa troppo a lungo. Anne ricordava anche troppo bene l’esperienza precedente, quando c’erano voluti due giorni prima che il bambino nascesse. Non c’era motivo di affrettarsi, e la respirazione l’aiutava a dominare i dolori. Bill le preparò una tazza di minestra e le tenne compagnia. Ogni tanto Anne si alzava e si aggirava per la stanza. Poi, alle quattro, guardò il marito con aria preoccupata. Non ce la faceva più a reggersi e a parlare. Sapeva che era il momento di andare, e Bill si precipitò nello spogliatoio per prenderle la valigia. Mentre Anne si cambiava, si ruppero le acque e le doglie divennero quasi continue. La respirazione non serviva più a molto. Bill era sull’orlo del panico, e Anne cercava di tranquillizzarlo mentre la aiutava a vestirsi. Ma ormai le doglie erano quasi ininterrotte. 451
«Ti avevo detto che non avremmo dovuto aspettare tanto.» Bill era terrorizzato. E se Anne avesse partorito lì? Se il bambino fosse morto? «Va tutto bene.» Lei si sforzò di sorridere e Bill le baciò i capelli. Finì di vestirla, la prese in braccio e la portò in macchina. «Le mie scarpe!» Anne cercò di ridere, ma i dolori erano troppo forti. Si strinse a lui; Bill tornò precipitosamente a prenderle i sandali, e poi corse al Cedars Sinai Hospital senza staccare il piede dall’acceleratore e rispettando a stento i semafori. Anne gettava grida soffocate e diceva che sentiva la testa del bambino. Bill lasciò spalancate le portiere della Rolls quando portò la moglie nell’ospedale, e un’infermiera dovette uscire a chiuderle. Anne ansimava e si sforzava di respirare. Chiamarono il suo medico perché scendesse. Non c’era neppure il tempo di portarla al reparto maternità, e Anne piangeva, sul lettino a rotelle del pronto soccorso. «Sento la testa... oh, Dio... Bill...» La pressione era insopportabile; le sembrava che una palla da bowling la stesse dilaniando. Bill trasaliva a ogni contrazione. Non aveva visto nascere Gail... a quei tempi i padri non assistevano. E non era sicuro di essere pronto a vedere una scena del genere. Non sopportava che Anne soffrisse tanto, ma l’infermiera disse che era troppo tardi per somministrarle qualcosa. Lei gli aveva raccontato quanto era stato terribile la prima volta, e Bill non voleva che rivivesse momenti altrettanto atroci. Anne stava semiseduta e l’infermiera gli disse di reggerle le spalle mentre lei gemeva. «Ora spinga, Anne», disse l’infermiera come se fossero amiche da molto tempo. «Su... con tutte le sue forze.» Anne divenne rossa in viso per lo sforzo e Bill la sentì tendersi con tutte le sue energie e poi smettere, piangendo. «Soffro troppo... non posso... non posso... oh, Dio... Bill... I dolori...» E poi riprese a spingere. Arrivò il medico, in camice bianco e guanti. Afferrò uno strumento e aiutò Anne. La testa emerse alla spinta successiva. Il bimbo nacque così, nel pronto soccorso, sotto gli occhi del padre. All’inizio sem452
brava stranito e bluastro, ma poi divenne tutto roseo e strillò rabbiosamente. Anne pianse e rise, e Bill le baciò il viso e le mani e le disse che era meravigliosa. «È bellissimo! Bellissimo!» Anne non era capace di dire altro mentre girava lo sguardo dal neonato a Bill. Un minuto più tardi si ritrovò il figlioletto tra le braccia, avvolto in una coperta del pronto soccorso che era troppo grande per lui. Non aveva visto il suo primo bambino, e non si saziava di guardare il secondo e ripeteva che somigliava tutto al padre. Più tardi, con Bill che le camminava orgoglioso al fianco, la portarono di sopra, in una stanza privata del reparto maternità. «E la prossima volta le sarò grato se verrà subito, così non partorirà nell’ingresso.» Il dottore finse di assumere un’aria severa, e tutti risero. Bill era immensamente sollevato. Aveva avuto una paura tremenda per Anne, ma adesso lei sorrideva felice, con il bambino tra le braccia. Non avrebbe neppure voluto permettere che lo portassero nella nursery per lavarlo, ma finalmente l’infermiera la convinse. Più tardi lei e Bill telefonarono a Gail, che pianse di gioia nel sentire la notizia. Anne le chiese di fare da madrina, tanto per complicare ancora di più le cose. Poi Bill le disse che doveva dormire un po’, ma Anne era troppo euforica. Era nato finalmente il bambino che aveva tanto desiderato, e si sentiva riscaldare il cuore. Non attese che glielo portassero dalla nursery; suonò per chiamare l’infermiera, che poco dopo venne a consegnarlo con un sorriso. Il piccino era tutto pulito e roseo, e Bill restò a guardare madre e figlio con le lacrime agli occhi. Non aveva mai visto nulla di più bello, e sentiva che l’avrebbe ricordato per tutta la vita. Quella sera Anne chiamò Valerie, Jason e Van, Lionel, e finalmente anche i genitori, dopo qualche esitazione; tutti si complimentarono con lei. Avevano deciso di chiamarlo Maximilian. Faye era felice per Anne. Sapeva con quanta disperazione aveva desiderato quel figlio. E quando l’indomani venne a trovarla, portò un enorme orsacchiotto per Max e una liseuse per Anne, molto simile a quella che lei aveva messo all’ospedale quando aveva avuto Lionel. 453
«Sei bellissima, tesoro.» «Grazie, mamma.» Ma tra loro c’era sempre un abisso che niente poteva colmare, e anche Bill lo sentì quando arrivò da casa dove era andato ad assicurarsi che tutto fosse a posto come voleva Anne. L’indomani l’avrebbe ricondotta a casa. E poi portarono Max: tutti proruppero in esclamazioni, e Faye ammise che somigliava a Bill. Vennero anche Val e George, e per poco le infermiere non svennero per l’emozione. Ma questa volta chiesero l’autografo non solo a George, ma anche a Val. Il film aveva avuto un successo enorme, e la città era tappezzata di manifesti con l’immagine di Val. Ormai tutti la conoscevano. E Faye sorrise, seduta in un angolo nella stanza dell’ospedale, guardando le due ragazze che chiacchieravano. Val rideva mentre Anne le raccontava com’era nato il piccino, e Bill e George contemplavano Max con occhi pieni d’ammirazione. L’indomani Bill si portò a casa madre e figlio, e sistemarono Max nella nursery. Il bambino sembrava sano e contento, mangiava moltissimo, e Bili si prese qualche giorno di ferie per stare con loro. «Sai», disse Anne dopo qualche giorno, «lo rifarei volentieri.» Bill la fissò e gemette. Non era sicuro che avrebbe sopportato di rivivere quei momenti: era ancora impressionato dalle sofferenze atroci della moglie, anche se non s’erano protratte a lungo. A lui era parsa un’eternità, e non voleva che Anne dovesse affrontarle di nuovo. «Dici sul serio?» chiese, inorridito. «Sì.» Anne abbassò lo sguardo sul bimbo che stringeva al seno, e sorrise. «Sì, davvero.» Bill pensò che quello era il prezzo per il fatto di avere una moglie ventenne. Si chinò a baciare prima Anne e poi Max. «Come vuoi.» Lei rise. Adesso i suoi occhi sembravano diversi. Non era come aveva pensato. L’angoscia del passato non era svanita completamente, e ora sapeva che questo non sarebbe mai avvenuto. Ma adesso aveva qualcun altro da amare. Non avrebbe mai saputo dov’era l’altro bambino, e com’era, e 454
come sarebbe diventato da grande... a meno che fosse lui a cercarla. Era sparito per sempre dalla sua vita, perduto irrecuperabilmente. Ma adesso lei poteva continuare. La sofferenza s’era attutita, non era più acuta. Aveva Max... e Bill... e anche se non avessero avuto altri figli, pensò, era felice così. Loro due le bastavano.
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la sera della proclamazione degli Oscar, Anne si rivolse a Bill con un sorriso preoccupato e gli chiese se era troppo grassa. Aveva un abito celeste e oro, portava zaffiri e diamanti alle dita, agli orecchi e alla gola, e Bill pensava che non fosse mai stata così bella. Non era più magra come una volta e aveva perduto quell’aria sofferente. Era serena, felice e radiosa. «Sei più bella di tutte le dive del cinema.» L’aiutò a indossare la pelliccia di visone bianco. Poi si affrettarono a salire in macchina. Non volevano arrivare in ritardo. Avevano promesso di passare a prendere Faye e Ward per dar loro un passaggio. Valerie sarebbe andata con George, e Lionel li avrebbe attesi al Music Center, dove si svolgeva la cerimonia. E quando si ritrovarono tutti insieme, formarono un gruppo sensazionale: gli uomini in cravatta nera, le donne negli abiti dai colori delle gemme. Si somigliavano un po’ tutte, e avevano lo stesso fascino. Valerie portava un abbagliante abito verde smeraldo, aveva i capelli raccolti in alto sulla testa, e sfoggiava gli orecchini di smeraldi prestati da Anne. E Faye era fulgida in un vaporoso abito grigio di Norell. A New York, Vanessa stava raggomitolata con Jason davanti al televisore e rimpiangeva di non essere con gli altri. «Non puoi immaginare quanto sia emozionante, Jase.» Le si illuminavano gli occhi quando vedeva sullo schermo qualcuno che conosceva e quando la telecamera inquadrava il viso di Val. Quell’anno, anche Jason era un po’ emozio456
nato. Non gli era mai importato nulla degli Oscar e prima che Vanessa entrasse nella sua vita non aveva mai seguito la telecronaca. Ma adesso era disposto a restare lì tutta la notte. Prima vennero i premi minori, per gli effetti speciali, per la colonna sonora, i soggetti, le canzoni. Il presentatore, per quella fase della cerimonia, fu Clint Eastwood, perché Charlton Heston era stato trattenuto da una gomma sgonfia. Il premio per la miglior regia andò a un amico di Faye. Sebbene George fosse tra i candidati, non vinse un Oscar; e non lo vinse neppure il loro film. Ma poi Faye apparve per consegnare il premio successivo. «La migliore attrice protagonista...» disse, ed elencò i nomi delle candidate. E Van e Jason videro i volti sullo schermo, e poi un’inquadratura generale. Val era immobile e stringeva la mano di George trattenendo il respiro. Faye si rivolse verso di lei. «La vincitrice è... Valerie Thayer per Miracolo.» Le urla che echeggiarono nel loft di Soho si sarebbero potute sentire fino a Los Angeles. Van si mise a ballare, ridendo e piangendo, e Jason batté i pugni sul letto e rovesciò il popcorn sul pavimento. A Hollywood, anche Valerie stava gridando. Si precipitò sul palcoscenico voltandosi a lanciare un’ultima occhiata a George, e mille cineprese la inquadrarono mentre gli gettava un bacio prima di raggiungere la madre. Ricevette l’Oscar, mentre Faye non tratteneva le lacrime. Si accostò al microfono per un momento e poi disse: «Non potete immaginare quanto si meriti il premio, questa ragazza. Ha avuto il regista più esigente e insopportabile della città». Poi, mentre tutti ridevano, abbracciò Valerie, e Valerie pianse e ringraziò tutti e, piangendo ancora di più, cercò di ringraziare Faye. «Molti anni fa mi ha dato la vita e oggi mi ha dato... mi ha dato qualcosa di più. Mi ha insegnato a lavorare, a fare del mio meglio... mi ha offerto la più grande occasione della mia vita. Grazie, mamma.» Gli spettatori sorrisero commossi mentre Val levava in alto l’Oscar. «E ringrazio mio padre, che ha avuto fiducia in me... e Lionel e Vanessa e Anne per avermi sopportata per tanto tempo...» Si sentì soffocare e conti457
nuò con uno sforzo: «... e Greg... ti vogliamo tutti bene...» Poi lasciò trionfante il palcoscenico e volò tra le braccia di George. Era l’ultimo premio assegnato, e uscirono subito per festeggiare. Val chiamò Vanessa e Jason e anche tutti gli altri parlarono con loro, con frasi felici e sconclusionate. Tutti l’abbracciavano e gridavano; poi abbracciavano George e Ward e Faye. Persino Anne sembrava fuori di sé per la gioia; e da Chasen’s, più tardi, Lionel si fece raggiungere dal suo nuovo amico. Era un attore con il quale George aveva recitato qualche anno prima, e s’inserì facilmente nel gruppo. Aveva all’incirca l’età di George, e sembrava che lui e Lionel si conoscessero molto bene. Faye comprese che era a causa di quell’uomo se negli occhi di Lionel c’era un’espressione diversa, da un po’ di tempo. Era la prima volta che aveva quell’espressione dopo la morte di John, e Faye ne era lieta per lui. Era lieta per tutti... Val, naturalmente... Anne con il suo bambino... Li... Van... era andato tutto bene. E quella sera sbalordì Ward rivolgendogli una proposta che non aveva più fatto da qualche anno. «Cosa ne diresti se presto ci ritirassimo, caro?» «Ci risiamo?» Ward rise. «Credo di aver capito. Ogni volta che non vinci un Oscar parli di ritirarti. È così, amore?» Faye rise e scosse la testa. Era così felice per Val, che il suo Oscar l’aveva guadagnato. «Vorrei che fosse così semplice.» Faye sedette sul letto e si tolse le perle. Erano il primo regalo che le aveva fatto Ward, l’unico gioiello che non avesse venduto quando avevano perso tutto anni prima. Le erano molto care, come lo era la loro vita insieme. Ma adesso era pronta a cambiare. Lo sapeva da tempo. «Credo di aver fatto tutto ciò che volevo, caro. Almeno professionalmente.» «È terribile.» Ward sembrava sconvolto. «Come puoi dire una cosa simile alla tua età?» Faye rise. Era ancora tanto bella. «Ho cinquantadue anni, ho fatto cinquantasei film, ho avuto cinque figli e un nipote.» Rifiutava di contare anche l’altro, ormai era perduto da più 458
di cinque anni. «Ho un marito che adoro e tanti amici. Ecco tutto. Adesso ho voglia di andare a riposarmi e divertirmi. I nostri figli sono sistemati, sembrano felici, noi abbiamo fatto del nostro meglio. A questo punto, caro, sullo schermo compare la parola “Fine”.» Gli sorrise e, per la prima volta, Ward sentì che pensava seriamente a quella decisione. «Cosa faresti se ti ritirassi?» «Non lo so... potremmo passare un anno sulla Riviera francese, magari. Andare da qualche parte a divertirci. Non abbiamo niente in programma.» Le proposte che le avevano presentato ultimamente non le erano piaciute, e forse non aveva atteso altro che l’Oscar di Val, prima di andarsene. Era una prospettiva gradevole, concludere con quel film, il film che aveva lanciato la carriera di Val: era come un’eredità, un dono speciale per la figlia. «Potresti scrivere le mie memorie», scherzò Ward. «Questo dovrai farlo tu. Non voglio scrivere, neppure le mie.» «E invece dovresti.» Avevano vissuto una vita intensa, in effetti. Ward la guardò. Era stata una lunga serata esaltante, e forse Faye non diceva sul serio. «Pensiamoci sopra per un po’, e vedremo se sarai ancora decisa tra un mese o due. Io farò tutto quello che vuoi.» Ward aveva quasi cinquantasei anni, e non gli sarebbe dispiaciuto vivere tranquillamente sulla Riviera francese. Anzi, era una prospettiva gradevole, quasi come nei primi tempi che avevano passato insieme; e adesso potevano permetterselo di nuovo anche se non spendevano più pazzamente come una volta. Nessuno lo faceva più. «Pensiamoci.» E quando ne discussero di nuovo, decisero di partire in giugno. Si sarebbero presi un anno di riposo, per vedere come andava. Affittarono una casa sulla Riviera francese per quattro mesi, e poi un appartamento a Parigi per altri sei. Faye volle vedere tutti i suoi figli, prima di partire. I suoi sospetti sul conto di Lionel era fondati: c’era un altro uomo nella sua vita, e sembrava che l’amasse molto. 459
Vivevano insieme, discretamente, a Beverly Hills. Era l’uomo che Faye aveva conosciuto la serata degli Oscar, ed era molto simpatico. Valerie era impegnatissima a prepararsi per una nuova parte, e lei e George parlavano di sposarsi entro l’anno, quando George avesse finito il film che stava interpretando. Faye si fece promettere che sarebbero andati in Francia in viaggio di nozze. Val sosteneva che si sarebbero sposati senza chiasso in qualche angoletto tranquillo; ma poi sarebbero andati in Francia e probabilmente avrebbero portato anche Danny. La visita ad Anne fu più difficile. Per Faye era sempre problematico parlare con lei. Andò a trovarla un pomeriggio e la trovò con il piccolo Max. Faye ebbe l’impressione che non stesse troppo bene, e si chiese perché. Ma poi Anne confessò di essere di nuovo incinta, e Faye restò sbalordita. «Non è troppo presto?» Anne sorrise. La gente dimenticava così in fretta... «C’erano appena dieci mesi tra Li e Greg.» Anche Faye sorrise. Era vero. Aveva desiderato che i suoi figli fossero diversi, più felici, protetti e saggi, e invece facevano più o meno ciò che lei aveva fatto e dimenticato... Val e la sua carriera, Anne e la sua passione per una famiglia numerosa... gli altri avevano preso strade diverse, ma anche loro avevano preso qualcosa dai genitori. Greg sarebbe diventato come Ward se fosse vissuto... e Anne sembrava ripetere una vecchia storia. «Hai ragione.» Si scambiarono uno sguardo diverso, per la prima volta dopo molto tempo. Era come se Anne l’affrontasse e lo ritenesse necessario prima che Faye partisse. Forse non ne avrebbero più avuto l’occasione. Non si poteva mai sapere. «Anne... io...» Faye non sapeva come incominciare. C’erano vent’anni da spiegare... o forse cinque... tutta una vita in cui non era mai riuscita a stabilire un contatto con la figlia che amava, e non voleva lasciarsi sfuggire l’occasione. «Ho commesso molti errori con te. Non credo che sia un segreto, vero?» Anne la guardò con franchezza, stringendo il figlio tra le 460
braccia. Non c’era più collera nei suoi occhi. «Non credo di averti mai facilitato le cose... Non ti ho mai capita.» «Anch’io non ti ho mai capita. La mia colpa è stata di non avere mai tempo. Se fossi nata un anno o due prima...» Ma chi poteva cambiare la realtà? Ormai era passato. Come tutto il resto che era accaduto ad Anne... l’Haight... la gravidanza... il figlio che aveva ceduto. I loro occhi s’incontrarono di nuovo, e Faye decise di essere sincera. Prese la mano di Anne. «Mi dispiace per l’altro bambino, Anne... avevo torto. A quel tempo pensavo che fosse giusto così...» I loro occhi si riempirono di lacrime. «Ma sbagliavo.» Anne scosse la testa, piangendo. «Non credo... non credo che avessi altre possibilità, allora... avevo quattordici anni...» «Ma non hai mai superato quel dolore.» Ora Faye lo sapeva. «L’ho accettato. Allora era giusto. A volte è la cosa migliore che si possa fare.» Anne abbracciò la madre, continuando a stringere Max. Era come se le dicesse: «Ti perdono per ciò che hai fatto». Ma soprattutto aveva perdonato se stessa. Ora poteva continuare per la sua strada. Più tardi, quando l’accompagnò alla macchina, tese di nuovo la mano. «Mi mancherai, mamma.» «Anche tu mi mancherai.» Faye sapeva che tutti le sarebbero mancati, ma sperava che prima o poi venissero a trovarla in Francia. Un tempo nessuno di loro aveva fatto parte della sua vita, dopotutto: e adesso doveva lasciarli andare. L’avevano accettata, alla fine, e lei li aveva accettati. Tutti. Quando partirono per la Francia, Faye e Ward si fermarono a New York e s’incontrarono con Jason e Van. Erano felici nel loro loft; lui scriveva il suo dramma, lei lavorava in una casa editrice e la sera scriveva il libro. Non parlavano di sposarsi, ma sembravano decisi a restare insieme. E durante il volo verso la Francia, Faye sorrise a Ward. «Sono tutti straordinari, vero?» «Anche tu.» Come sempre, Ward era fiero di lei. Lo era da trent’anni... dal giorno in cui s’erano conosciuti a Guadalcanal. Se soltanto avesse saputo ciò che sapeva ora... se aves461
se immaginato la vita che aveva vissuto con lei. Glielo disse, e Faye gli rammentò che non era ancora finita, e Ward la baciò mentre brindavano con lo champagne che l’hostess aveva appena servito, mentre una signora la fissava e mormorava qualcosa al suo accompagnatore: «Sembra una famosa diva del cinema che mi piaceva molto trent’anni fa». L’uomo sorrise. E Ward e Faye continuarono a parlare a voce bassa, pianificando l’anno che avrebbero vissuto in Francia. Quell’anno che a poco a poco divenne dieci anni. Non riuscivano a capire come mai il tempo volasse così. I loro figli venivano e andavano. Valerie sposò George; e finalmente ebbero una bambina e la chiamarono Faye. Anne ebbe altri quattro figli, e tutti la prendevano in giro e le dicevano che avrebbe dovuto essere pigra come sua madre e mettere al mondo due gemelli. Vanessa pubblicò tre libri e Jason continuò a scrivere drammi: adesso aveva lasciato Off Off Broadway per Off Broadway, e Faye rimase molto colpita quando videro uno dei suoi drammi rappresentato a New York. Valerie aveva vinto un altro Oscar, e finalmente ne aveva vinto uno anche George. Tutto andava per il meglio. E dopo undici anni passati all’estero, a sessantaquattro anni, una notte Faye si spense serenamente nel sonno. Erano a Cap Ferrat per passare l’autunno nella bella villa che avevano acquistato e che contavano di lasciare un giorno ai figli. Sarebbe stato il posto ideale perché si ritrovassero tutti insieme. Poi la portarono a casa. Ward era stordito. Aveva sessantasette anni, e Faye era stata la sua vita da quando ne aveva avuto venticinque... quarantadue anni insieme... La portò a Hollywood, nella città che aveva amato e dove aveva vinto tante volte, come attrice, come regista, come donna, come sua moglie... Ricordava gli anni disperati quando aveva perduto tutto e Faye aveva ricominciato coraggiosamente, aveva intrapreso una nuova carriera e l’aveva aiutato a rimettersi in piedi... E ricordava gli anni precedenti, e quelli successivi, quando avevano fatto per l’MGM un film dopo l’altro... e la 462
grande occasione che aveva offerto a Val. Quelli che non riusciva a ricordare erano gli anni senza di lei. Non era possibile, non era stato vero... ma lo era adesso. Adesso era solo. Faye non c’era più. Anne e Bill vennero ad attenderlo all’aereo; e per fortuna avevano lasciato a casa i bambini. Guardarono il feretro che veniva calato dalla stiva dell’aereo mentre il vento agitava i capelli di Anne. Nel crepuscolo sembrava così simile a Faye. Adesso aveva trentun anni e sua madre non c’era più... Alzò lo sguardo verso Ward e gli prese la mano in silenzio. Aveva parlato con Bill, la sera prima, e avevano deciso di costruire una foresteria dietro la loro casa a Beverly Hills, perché Ward potesse andare ad abitare con loro. La vecchia casa di Ward e Faye era stata venduta, quando avevano acquistato la villa in Francia. Anne guardò il padre. «Vieni, papà, andiamo a casa.» Per la prima volta Ward sembrava vecchio. Non riusciva a credere che Faye non ci fosse più. E Anne voleva che riposasse. C’erano tante cose da fare, e il funerale si sarebbe svolto fra due giorni nella chiesa dove s’erano sposati. E poi avrebbero portato Faye a Forest Lawn. E ci sarebbero stati tutti, naturalmente... tutti, tranne Faye Thayer. Ma ci sarebbe stata la sua famiglia. Per Ward... era difficile immaginare un mondo senza di lei. Non riusciva a immaginarlo, e le lacrime gli rigavano le guance mentre partivano nella notte, seguiti dal carro funebre che portava Faye... Ward poteva immaginare che fosse dovunque, se avesse chiuso gli occhi: era ancora lì con lui, come sarebbe sempre stata con tutti loro... per sempre, per tutto il resto del tempo. I suoi film avrebbero continuato a vivere... i ricordi... l’amore e soprattutto la famiglia... tutti loro... che erano parte di lei, come lei era stata una parte di tutti.
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ette personaggi indimenticabili, drammi laceranti e sconvolgenti felicità in un’epoca di conflitti e di speranze: Faye, star hollywoodiana che abbandona gli
schermi per amore; Ward, erede di una favolosa fortuna che tuttavia non sa amministrare; i loro cinque figli, personalità differenti e complesse, ciascuno alla faticosa ricerca di una propria strada. Un romanzo trascinante, in cui una donna co-
raggiosa lotta appassionatamente, attraverso gli anni e mille traversie, per tenere unita la famiglia in nome dell’amore.
DANIELLE STEEL è la scrittrice più popolare del mondo, con oltre 650 milioni di copie vendute in 69 Paesi. I suoi romanzi, pubblicati in Italia da Sperling & Kupfer Editori, sono tutti bestseller internazionali e dal 1981 l’autrice è sempre presente nella classifica del New York Times, spesso con più di un libro. Nel 2014 le è stata conferita la principale onorificenza francese, la Legion d’Onore.