La Bottiglia di Aguardiente

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Titolo della collana: Racconti dalla Terra del Fuoco



Francisco Coloane La Bottiglia di Aguardiente



La Bottiglia Di Aguardiente

Due uomini a cavallo, come due punti neri, macchiano il biancore e la solitudine della pianura innevata. I loro cammini convergono e, man mano che avanzano, le figure diventano sempre più distinte, suscitando reciprocamente quella lieve inquietudine che si avverte quando si incontra un altro viandante in un sentiero solitario. Poco a poco i cavalieri si avvicinano. Uno è un uomo corpulento che indossa una giubba di cuoio nero e monta un cavallo bruno, grosso e resistente ai duri tragitti della Terra del Fuoco. L’altro, un tipo minuto, è avvolto in un poncho di tela bianca, porta il fazzoletto al collo e cavalca un roano malacara*, tirandosi dietro un baio basso e dal pelo lungo, carico di pelli di volpe. <<Salve!>> <<Salve!>> si salutano quando i loro cavalli sono affiancati. L’uomo dalla giubba di cuoio ha la faccia pallida, butterata e slavata, come certi pali di legno esposti alle intemperie. Quello col poncho ha un volto roseo e delicato in cui brillano due occhietti arrossati e umidi, quasi avesse appena pianto, e batte continuamente le palpebre. <<Com’è andata la caccia?>> chiede con voce incerta l’uomo

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dalla faccia di legno consunto, gettando un’occhiata al carico di pelli. <<Normale, niente di più>>, risponde il

l cacciatore,

fissando direttamente negli occhi l’altro che, sempre di sbieco, lo guarda per un istante. Continuano a caminare affiancati senza dire nulla. La solitudine della pampa è tale che il cielo, basso e grigio, sembra essersi avvicinato così tanto alla terra da aver cancellato ogni traccia di vita lasciando soltanto quel silenzio mortale che adesso è rotto dal fruscio degli zoccoli sulla neve. Dopo un po’ il cacciatore di volpi tossisce nervosamente. <<Vuole un sorso?>> dice, tirando fuori una bottiglia da una bisaccia di lana. <<Aguardiente?>> >>Di quella buona!>> ribatte il giovane passandogli la bottiglia. L’altro la stappa e beve una lenta sorsata. Il giovane si serve a sua volta ostentando un certo piacere, poi continuano il cammino in silenzio. <<Neanche un alito di vento!>> dice a un certo punto il cacciatore dopo un altro colpo di tosse nervosa, cercando un motivo di conversazione. <<Mhm... mhm...>> fa l’uomo con la giubba, come se fosse infastidito. Il cacciatore lo guarda più con tristezza che stizza e, intuendo che l’altro è concentrato sui suoi pensieri e non vuole essere distratto, lo lascia in pace e resta in silenzio al suo fianco, cercando anche lui qualcosa

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a cui pensare. I due uomini stanno facendo un tratto di strada insieme, ma solo i cavalli sembrano accorgersene, dal momento che tengolo lo stesso passo e il baio volge ogni tanto lo sguardo sul malacara che risponde con un’altra occhiata; persino quello al traino si lancia in un breve trotto per raggiungere i suoi compagni quando resta indietro. Ben presto il cacciatore si rifugia nel passatempo a cui si dedica da almeno due anni. Stavolta i sorsi di aguardiente rendono più vivo il paesaggio che la sua mente è solita ripercorrere; quello di un’isola verde smeraldo, laggiù, alla fine dell’arcipelago di Chiloé, e al centro dell’isola il bianco grembiule di Elvira, la sua fidanzata, che sale e scende tra il mare e la boscaglia, come l’ala di un gabbiano o la schiuma di un’onda. Quante volte quell’immagine di sogno gli aveva fatto persino dimenticare le volpi, mentre galoppava nelle terre dove aveva disposto le trappole... Quante volte, in preda ad un’inspiegabile inquietudine, risaliva colline e montagne in sella al suo cavallo perchè più in alto si trovava e più vicino si sentiva a quel luogo tanto amato! Di tutt’altra indole sono le immagini che l’aguardiente ha ravvivato nella mente dell’altro uomo. Un ricordo, simile a un moscone ostinato che non si riesce a scacciare, prende a vagare nei suoi pensieri e, assieme al ricordo, un’idea angosciante comincia anch’essa a spingerlo, come una vertigine, verso l’abisso. Si era ripromesso di non bere mai più, a causa di queste due sensazioni; ma il freddo e l’invito l’ha colto di sorpresa,

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così, c’è ricascato. Il ricordo tormentoso risale a più di cinque anni addietro. Esattamente il periodo di tempo che avrebbe già trascorso in carcere se la polizia avesse catturato l’assassino dell’austriaco Bevan, il compratore di oro che veniva dal Pàramo e che era stato ucciso proprio su quella pista, vicino alla macchia di cespugli neri che avevano appena oltrepassato. Che strano. Il tormento del primo colpo inferto dai ricordi sta gradualmente lasciando il passo ad una sorta di passatempo immaginario, come quello del cacciatore. non c’era bisogno, pensa, di molta abilità per commettere l’omicidio perfetto, in quelle sperdute latitudini. la polizia, più per abitudine che per zelo, indaga per qualche tempo e poi lascia perdere. Un uomo che scompare? Ne spariscono tanti! Alcuni, anzi, hanno tutto l’interesse a far perdere le proprie tracce. Di altri si viene a sapere qualcosa solo perchè la primavera ne scopre i cadaveri con il disgelo. La tosse nervosa del cacciatore di volpi torna a rompere il silenzio. <<Un altro sorso?>> chiede tirando fuori la bottiglia. L’uomo dalla giubba di cuoio si scuote come se si rendesse conto solo adesso che accanto a lui c’è qualcuno. Il cacciatore gli passa la bottiglia, mentre batte le palpebre per il suo tic. L’altro stappa la bottiglia, beve, e stavolta la restituisce senza dire neppure grazie. Un’ombra di dispiacere, di malinconia o semplice confusione vela il volto del giovane, che beve a sua volta, arrivando a metà bottiglia.

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Il passo dei cavalli nella neve è un fruscìo monotono e ciascuno dei due uomini torna ai suoi pensieri, uno di fianco all’altro. <<Con quest’ultima partita di pelli avrò il denaro necessario per andarmene dalla Terra del Fuoco>>, pensa il cacciatore. <<A fine stagione tornerò nella mia isola e sposerò Elvira>>. Giunto a questo punto del suo sogno abituale, socchiude gli occhi con espressione di profondo piacere perchè, dopo quella sensazione appagante, per lui non c’è altro da immaginare. L’altro non prova nessuna sensazione appagante; piuttosto, un malsano senso di soddisfazione e, come chi si accomoda sulla sella per intraprendere un lungo viaggio, lui sistema la sua immaginazione a partire da quell’istante, ormai lontano, in cui era avvenuto il crimine. Si trova più o meno nello stesso punto dove aveva incontrato Bevan; ma le circostanze erano diverse. Nell’avamposto di Cerro Redondo aveva saputo che il compratore di oro avrebbe attraversato il Pàramo, dalla costa atlantica, fino a Rìo del Oro, sul Pacifico, dove intendeva prendere la nave per Punta Arenas. A San Sebastiàn aveva controllato la data di partenza della nave e, calcolando il ritmo di marcia con un buon cavallo, si era appostato in anticipo sul luogo da cui sarebbe passato. Era la prima volta che cometteva un simile gesto e si stupì per la sicurezza con cui aveva preso quella decisione, quasi si fosse trattato di andare a cogliere margherite nei campi, e ancor più la serenità con cui aveva messo a punto il piano.

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Nonostante ciò, un sottile brivido, come una lama di gelo, a volte lo raggelava per qualche istante; ma questo lo attribuiva più che altro al fatto di non sapere con chi se la sarebbe dovuta vedere. Un compratore di oro non poteva essere uno qualsiasi, visto che si avventurava da solo in quei paraggi. ma al tempo stesso qualcosa gli diceva che quel brivido, quella lama di gelo, era dovuto a motivi più profondi. Comunque, non si riteneva un codardo nè uno lento di mano; ne aveva già avuto la prova a Policarpo, quando per colpa di un mazzo di carte segnate aveva dovuto fare a revolverate con vari tipi, stendendone definitivamente uno. Certo, stavolta non si trattava di una rissa. Era un po’ diverso ammazzare a sangue freddo un uomo per togliergli quel che aveva con sè dal difendersi per aver barato al gioco. Ma che diamine poteva farci. La stagione quell’anno era

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andata male nella Terra del Fuoco. Era praticamente impossibile far passare uno zepelìn* in una fattoria. E ormai nessuno gli si faceva intorno quando, carte alla mano, proponeva con ostentata cordialità: <<Facciamoci una partitina, ragazzi, giusto per passare il tempo>>. Per di più, erano in molti ad aver perso uno o più annate di sudato lavoro in quele sue <<partitine>>, e diventava sempre più difficile farsi rivedere nei posti dove qualche vittima inferocita era stata tenuta a bada dalla cana della sua Colt. la Terra del Fuoco non offriva più niente, e la <<faccenda>> di Bevan era un buon modo di accomiatarsi per squagliarsela dall’altra parte dello Stretto, verso la Patagonia. <<Bah!>>, si era detto quel mattino, appostato in attesa del compratore di oro, come per scacciare quella sensazione di gelo che non smetteva di tormenterlo in qualche punto della sua mente. <<Se avesse accettato di giocare con me gli avrei vinto fino all’ultimogrammo d’oro e sarebbe finita allo stesso modo, in un duello che avrebbe lasciato in piedi il più svelto dei due.>> Quando si era sdraiato sul bordo di una collina per poter avvistare in lontananza il compratore di oro, uno stormo di ottarde si era levato in volo come un frammento di pampa staccatosi versi il cielo, passando sulla sua testa per poi disporsi in formazione triangolare. le aveva osservate, sorpreso, quasi guardasse allontanarsi da quella terra qualcosa di se stesso; era uno stormo migratorio che cercava il nord della Patagonia. Succedeva ogni anno: a

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metà autunno quel genere di uccelli abbandonava la Terra del Fuoco e restavano solo le bestie e quelli come lui; ma stavolta se ne sarebbe andato via anche lui, proprio come le ottarde, in cerca di altra aria, di altre terre, e chissà, forse di un’altra vita... Non aveva mai osservato la prateria come in quel pomeriggio. La pampa sembrava un mare di oro giallo, accarezzato dalla brezza dell’ovest. Mai, prima d’allora, si era reso conto di quanto fosse viva la natura circostante. Di colpo, in mezzo a quegli spazi sconfinati, aveva anche preso coscienza di se stesso, come se all’improvviso avesse scoperto un altro esere dentro il suo corpo. E quel brivido gelido era tornato a farsi sentire ancor più intensamente, tanto da farlo tremare. Era stato quasi sul punto di alzarsi, montare a cavallo e fuggire via al galoppo; invece, aveva preso la fiaschetta, tolto il tappo di alluminio e bevuto un lungo sorso di aguardiente, con cui era solito scacciare il freddo, e che quella volta aveva messo in fila anche il brivido gelido che si portava dentro. Verso metà pomeriggio era apparso in lontananza un punto nero che diventava sempre più distinto, inequivocabile. Si era precipitato giù dalla collina, aveva sciolto il

cavallo,

era montato, per poi dirigersi al passo veloce come un qualsiasi viandante. Nascosto dietro la collina, aveva diretto il cavallo sulla stessa pista che stava seguendo l’altro, molto prima che questi si avvicinasse. Aveva continuato al passo, con l’andatura

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di un viaggiatore che non ha fretta di arrivare. Si era voltato a guardare indietro, constatando che l’altro veniva al trotto e montava un buon cavallo, portandone un secondo al traino per il cambio. Aveva tirato fuori di nuovo la fiaschetta, ingollando un altro sorso di aguardiente, e si era sentito più sicuro sulle staffe. <<Se tiene quel trotto e mi sorpassa>>, aveva pensato, <<mi sarà più facile liquidarlo alle spalle. Se invece si ferma per mettersi di fianco le cose saranno più difficili>>. Il cavallo aveva avvertito per primo l’avvicinarsi del trottatore; drizzate le orecchie, le aveva mosse come due uccelli spaventati. Poi, anche lui aveva percepito il rumore attutito degli zoccoli sulla pampa; era un suono sordo che gli rimbombava stranamente nel cuore. Ancora quel brivido di gelo, e il tremito. All’improvviso aveva avuto la sensazione che sarebbe stato lui a venire assalito e, senza riuscire a controllarsi, si era voltato. Un uomo imponente, avanti negli anni, veniva verso di lui su un cavallo nero bagnato di sudore e schiuma, tenendo il ritmico trotto all’inglese; al suo fianco, un sauro scuro, di rimpiazzo. Aveva notato una certa armonia tra il corpo dell’uomo e quello delle sue bestie, e per un attimo si era intimorito per la vigorosa prestanza del tipo che si avvicinava. Una volta raggiuntolo, aveva frenato il trotto di colpo, mettendosi alla sua sinistra. Nonostante avesse lasciato spazio a destra, il compratore di oro si era messo prudentemente dalla parte opposta.

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Gli era sembrato più un vagabondo delle praterie che un commerciante di oro. Basco in testa, fazzoletto nero al collo, ampio giaccone di cuoio, pantaloni a sbuffo e stivali corti da cui spuntavano i risvolti bianchi delle calze di lana grossa. Quei vestiti, vecchi, sdruciti e spiegazzati, erano in sintonia con il suo volto non rasato, lungo e stanco; eppure, con una rapida occhiata aveva percepito uno scintillio penetrante in quegli occhi e un modo di guardare di sbieco che tradiva un’energia nascosta o controllata che poteva far scattare vigorosamente, come una molla, tutta quella massa corporea apparentemente spossata. <<Buonasera>>, aveva detto, mettendosi al passo. <<Salve>>, aveva risposto. <<Va a San Sebastiàn?>> <<No, a China Creek.>> Non avrebbe mai dimenticato il tono di quella breve conversazione e gli era sembrata strana anche la sua stessa voce. Sentiva che quell’uomo lo squadrava da capo a piedi, cercando il suo sguardo; ma lui non si era voltato e avevano continuato cisì, in silenzio, uno accanto all’altro, al passo attutito dall’erba alta. A un certo punto, con studiata lentezza, aveva fatto scivolare la mano verso la tasca posteriore. Si era accorto che il commerciante aveva seguito il gesto con la coda dell’occhio e a sua volta aveva portato la mano sinistra, con una rapidità e una naturalezza sorprendente, sotto il giaccone di

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cuoio. Due movimenti quasi all’unisono. Ma lui aveva preso la fiaschetta dell’aguardiente... per poi stapparla e offrirgli un sorso. <<Grazie, non bevo>>, aveva risposto, tirando fuori a sua volta, lentamente, un grande fazzoletto rosso con cui si era soffiato rumorosamente il naso. Erano rimasti per qualche istante in reciproca attesa. L’aguardiente gli aveva fatto recuperare la calma perduta poco prima; non sarebbe durata molto perchè il commerciante, senza perderlo di vista per un solo attimo, aveva spronato il cavallo scartando di lato gridandogli: <<Arrivederci!>> <<Arrivederci>>, aveva risposto; ma al tempo stesso una morsa di angoscia violenta si impossessava di lui, e vide il corpo della sua vittima, i vestiti, il volto, gli stessi cavalli, avvolti in un velo nero, come sull’orlo di un abisso, come se una calamità lo attirasse disperatamente, e senza potersi controllare, con un impercettibile gesto della mano stretta alla cintura, aveva estratto il revolver che portava alla cintura e gli aveva sparato quasi a brucia pelo, colpendolo in pieno slancio. Il corpo del compratore di oro si era piegato a sinistra, abbattendosi pesantemente al suolo, mentre i suoi cavalli scappavano spaventati verso la prateria. Aveva fermato il suo. Teneva gli occhi chiusi per non vedere la sua vittima a terra, e sprofondò in una sorta di torpore dal quale riemerse con un lungo sospiro di sollievo, come se avesse appena attraversato la soglia di quell’abisso o concluso

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la giornata più faticosa della sua vita. Aveva riaperto gli occhi quando il cavallo si era imbizzarrito alla vista del cadavere ma, una volta smontato, l’animale era sembrato calmarsi. Gli occhi del commerciante erano rimasti rovesciati a metà, quasi fossero stati bloccati al momento di spiccare un volo. L’emozine lo aveva sfinito; ma dopo l’intensa vertigine era caduto in una specie di rilassamento nel quale, scoprendo una sensibilità mai provata prima, aveva lentamente percepito la natura di quel brivido interiore. Tremando, aveva guardato il cielo e gli era sembrato di scorgere un’immenso varco vuoto, azzurro e bianco, simile a quello che c’era negli occhi sbarrati di Bevan. Poi aveva finalmente rivolto lo sguardo al cadavere irrigidito e, senza rendersi conto di ciò che stava facendo, si era avvicinato, lo aveva preso e sollevato come un sacco per poi sistemarlo sulla sella, ma il cavallo aveva spiccato un salto ed era fuggito anche lui, lasciandolo col cadavere tra le braccia. Era rimasto così, immobile, con la sua vittima addosso; ma pesava tanto che aveva chiuso gli occhi per lo sforzo; la tensione si stava trasformando in dolore; un dolore che si era poi diluito in una sorta di scoramento infantile che lo faceva sentire immensamente solo in un mondo spietato e ostile. Quando li aveva riaperti, l’erba della pampa era un colore brillante, un rosso intenso, come un manto di fuoco che gli bruciava gli occhi. Si era guardato intorno, sconsolato, e a un centinaio di metri aveva scorto una macchi di cespugli neri. Avrebbe voluto correre fin laggiù per

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nascondervi il cadavere; avrebbe voluto sfuggire nella stessa direzione presa dal cavallo; ma non riusciva a muoversi, era avanzato solo di qualche passo, barcollando, e per non cadere, si era seduto sull’erba. Tremando, aveva stappato la fiaschetta e bevuto il resto dell’aguardiente. Poi, ripresosi, si era rialzato, sempre ossessionato dal pensiero di nascondere il cadavere e, non sapendo dove metterlo, era caduto in preda a un furore cieco, un altro abisso e un’altra vertigine che si aprivano dentro di lui, e, preso il coltello da caccia che portava nello stivale, aveva cominciato a fare a pezzi la sua vittima come se fosse un manzo. Nella torbiera dietro i cespugli neri aveva sollevato dei blocchi di crosta nascondendoci sotto i pezzi avvolti nei vestiti. Quando si era reso conto che sulla torba rimaneva soltanto la testa, lo aveva improvvisamente assalito un pensiero spaventoso: l’oro! Si era dimenticato dell’oro! I cavalli erano ormai scomparsi.


Sulla piana di torba scura non restava che la testa di Bevan, che lo fissava con quegli occhi sbarrati. Non era riuscito a tornare indietro. Era troppo tardi, tutta la torbiera aveva cominciato a tremare sotto i suoi piedi; i cespugli neri, mossi dal vento, sembravano fuggire impauriti, quasi fossero vivi; la pampa divampava in fiamme e la spaccatura in cielo diventava ancor più vasta. Aveva preso la testa mozzata tra le mani per sotterrarla; ma non sapeva dove poterlo fare; tutto fuggiva via, tutto vibrava; il vuoto che vedeva negli occhi del morto e nella volta del cielo cominciavano a risucchiare anche i suoi. Aveva sbattuto ripetutamente le palpebre ma il bruciore aumentava; mille aghi di luce gli trapassavano lo sguardo cancellando l’orizzonte, e allora, come una bestia accecata dal terrore, era corso dietro i cespugli neri che gli sfuggivano, riuscendo a scagliarvi in mezzo la testa, e aveva continuato a correre finchè non era caduto in ginocchio sulla pampa, soffocato dalla paura. <<Che le succede? Sta tremando>>, lo interrompe il giovane cacciatore vedendo che il compagno di cammino è scosso da un tremito, mentre grosse gocce si sudore gli scendono dalle tempie. <<Oh!>> esclama trasalendo e, come riprendendosi da uno spavento, sul suo volto compare per la prima volta un sorriso raggelato, come quello dei morti assiderati, e dice con una voce rotta: <<L’aguardiente... Dovrebbe togliere il freddo, e a me, invece, ne fa venire di più...>>

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<<Se vuole, ne è rimasto un goccio>>, dice il cacciatore, passandogli la bottiglia. La stappa, beve, e la restituisce. <<Questo lo ammazzo come un capretto, con una bastonata sul collo!>> pensa, agitandosi sulla sella, mentre l’aguardiente gli scende in corpo con la stessa malefica sensazione di un tempo. <<Le è passato il freddo?>> chiede il giovane, tentando di scambiare qualche parola. <<Adesso si.>> <<Questa è la mia ultima stagione di caccia. Poi, me ne vado al nord, a sposarmi.>> <<Ha messo da parte abbastanza?>> <<Si, quel che basta.>> <<Questo se l’è proprio cercata, si è offerto come un agnellino>>, pensa dentro di sè, con l’aguardiente che lo ha ritemprato fin nelle ossa. <<Cinque anni fa anch’io passavo da queste parti diretto al nord, ma ho perso tutti i miei soldi!>> <<E come?>> <<Non so. Erano in oro puro.>> <<E non l’ha più trovato?>> <<Neanche l’ho cercato! Sarei dovuto tornare indietro, ma non potevo farlo.>> Il cacciatore di volpi rimase a fissarlo, senza capire. <<Non è un caso, se dicono che la Terra del Fuoco è stregata. A chi vuole abbandonarla succede sempre qualcosa.>>

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<<Da qui, credo che nessuno possa andar via>>, disse, sbirciando il collo della sua vittima, e immaginandolo come quello di un piccolo guanaco, a portata della sua mano. <<Bah...>> pensò, <<questa è la volta buona. Chi se ne andrà via da qui, sarò io! La prima è quella più difficile; poi, tutto diventa più semplice, e stavolta niente pelle d’oca!>> Il silenzio tra i due uomini torna a pesare, e non si sente altro rumore che il monotono fruscìo degli zoccoli nella neve. <<Adesso, adesso è il momento giusto per liquidare questo povero diavolo con una bella botta sulla nuca>>, pensa, mentre l’effetto dell’aguardiente comincia a sfumare e quel brivido che credeva di aver dimenticato torna a emergere dalle sue viscere; ma è meno forte, stavolta; così come è più debole il senso di vertigine che sta provando, e non gli sembra tanto grande l’abisso che si appresta a oltrepassare. Con un’occhiata furtiva misura la distanza. Gira il frustino, lo prende per la parte sottile e appoggia il manico sulla sella, attento a non farsi scorgere. Perso in chissà quali pensieri, il cacciatore sembra seguire soltanto il ritmico frusciare degli zoccoli. <<Con questo non ci sarà da faticare tanto, la neve si prenderà la briga di farlo sparire>>, dice tra sè, pronto a colpirlo col manico del frustino. Tira leggermente le redini per restare indietro di qualche


passo, e... Un attimo prima di sferrare il coplo, il cacciatore si volta, sorridente, battendo le palpebre, e in quel battito lui rivede, identici, patetici, gli occhi di Bevan, la fenditura del cielo, lo sguardo vitreo della testa mozzata sulla torba; i mille aghi tornano ad appannargli la vista e, accecato, anzichè sulla nuca della vittima, sferra il colpo sul garrese del cavallo, affonda lo sperone in un fianco e l’animale scarta di lato, scivolando sulla neve. Con un altro colpo di speroni, l’uomo riesce a farlo rialzare senza dover smontare, facendo forza sulle zampe posteriori. <<E’ mezzo matto, quel ronzino! Che diavolo gli ha preso?>> esclama il cacciatore sorpreso. <<Si, non vale granchè e si spaventa per niente!>> risponde lui, riportando il cavallo sulla pista. Torna a regnare il silenzio, teso, pesante, vivo, e il fruscìo degli zoccoli nella neve; ma, poco a poco, si insinua un altro rumore lieve che sembra tenere lo stesso ritmo: è il vento dell’ovest che comincia a soffiare sulla steppa fuegina. Il cacciatore si stringe nel suo poncho di tela bianca. L’altro alza il bavero del suo giaccone di cuoio nero. In lontananza, simile a una pagliuzza caduta in quell’immensità senza limiti, comincia a scorgesi una staccionata. Si avvicina l’ora del tramonto. Il sibilo del vento aumenta di intensità. Il cacciatore si piega su se stesso e dalla sua mente fugge via il bianco grembiule di Elvira, come la schiuma di un’onda o l’ala di un gabbiano trascinata dal vento. L’altro alza il suo volto di legno

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consunto, come un bue a cui hanno tolto il giogo, e sfida le raffiche senza ripararsi. E il forte vento dell’ovest, che ogni sera viene a ripulire la faccia della Terra del Fuoco, asciuga anche quel volto indurito e spazza via dalla sua mente l’ultima traccia dell’alcol e del crimine. Hanno oltrepassato la staccionata. I sentieri si separano di nuovo. I due uomini si guardano per l’ultima volta e si salutano. <<Adiòs.>> <<Adiòs.>> Due uomini a cavallo, come due punti neri, si allontanano, macchiando il biancore e la solitudine della pianura innevata. Accanto alla staccionata è rimasta una bottiglia di aguardiente ormai vuota. A volte, questa è l’unica traccia lasciata dal passaggio dell’uomo in quella sperduta regione.








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