L A R I V I S T A G E N OV E S E A D IS TR IB UZI O NE GR AT UI T A // A NNO V II // A C PIRRI/ / GRU p p O ED IT ORIA L E IND IPEN DE N T E
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“NUOVE” FAMIGLIE CRESCONO
Fecondazione eterologa e Pacs, Genova e l’Italia
SCOLMATORE DEL BISAGNO il punto sulla grande opera
VUOTI URBANI inchiesta Le “occupazioni a tempo”
Editoriale
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chi diamine può dirlo se esiste una salvezza. Da cosa dobbiamo salvarci? Che ne so. Qualcuno direbbe dal peccato originale, per esempio, ma personalmente non accuso questo atavico peso, non me ne vogliate. “Visioni di anime contadine in volo per il mondo”, questo ci raccontano dai paesi di domani le “Anime Salve” di De André e Fossati. E dai paesi di oggi? Io per non saper nè leggere nè scrivere ho iniziato da mesi a zappare e a fare l’orto. Però vivo ancora in città e qualche sera fa ho fatto un incontro tipicamente urbano: un’amica portava fuori il cane a cagare per strada, raccoglieva l’esito e lo gettava nei cassonetti dei rifiuti, dove qualche cristo sarebbe passato poco dopo a cercare qualcosa da riutilizzare. Non la vedevo da parecchi anni, ci siamo fermati a parlare. “Non me ne frega più nulla, guarda. Ho perso qualsiasi fantasia. È come se avessi intorno un guscio, quello che sta fuori, rimane fuori! Convivo con il mio ragazzo...”, vi risparmio il resto della conversazione perchè è semplicissimo immaginarlo anche senza avere idea di chi sia la mia amica, solito copione: si vedono la sera a casa dopo il lavoro, sono stanchi, cena, tv, nanna presto ecc, arriverà un bambino e lo infileranno anche lui nel guscio. In quel momento ho pensato che salvarsi fosse riuscire a non fare mai una vita come la sua neanche per pochi mesi. Poi mi è sembrato subito un pensiero troppo semplicistico: vuoi dire che basta non avere un lavoro stabile, un cane, una casa formato nido d’amore e una tv accesa per raggiungere la salvezza? Boh, magari può essere un buon inizio, mi sono risposto, forse per rincuorarmi un po’, essendo io tutto fuorché salvo ed appagato nonostante sia libero da cane, lavoro stabile, nido d’amore e tv. Ho ripensato diverse volte a quell’apparentemente inutile conversazione. “Non me ne frega più nulla, guarda. Ho perso qualsiasi fantasia”. Io sto come lei. Questo è il punto. Così oggi penso a tutte le persone nate come me e la mia amica negli anni ‘80. Stiamo come lei, vero? Qualunque sia la vita che stiamo conducendo, ci immagino tutti dentro al guscio, non ce ne frega più nulla e abbiamo perso qualsiasi fantasia. È da ciò che intendo salvarmi. E auguro a chi ancora ha la forza per rimanere attaccato con le unghie a qualsivoglia appiglio, di riuscire a tirare fuori tutto il possibile per non mollare la presa. Arriveranno appigli più sicuri, abbastanza comodi per riprendere fiato, il panorama sarà stupendo e, soprattutto, saremo ancora capaci di apprezzarlo. Con affetto, Gabriele Serpe
DIRETTORE
Gabriele SERPE
EDITORE Associazione Culturale Pirri AMMINISTRAZIONE Manuela STELLA Marco BRANCATO
GRAFICA Constanza ROJAS Valentina SCIUTTI
HANNO COLLABORATO Matteo QUADRONE, Simone D’AMBROSIO, Claudia DANI, Bruna TARAVELLO, Chiara BARBIERI, Diego ARBORE, Gianni MARTINI, Gigi PICETTI, Gianluca NICOSIA, Daniele AURELI, Nicoletta MIGNONE, Emiliano BRUZZONE, Carlo RAMOINO, Andrea GIANNINI COMMERCIALE Annalisa SERPE (commerciale@erasuperba.it) STAMPA Tipografia Meca
CONTATTI www.erasuperba.it redazione@erasuperba.it Autorizzazione tribunale di Genova registro stampa n 22/08
IN COPERTINA //”NUOVE FAMIGLIE CRESCONO...” //p. 17 a cura di Constanza ROJAS
INDICE 4. brevi da erasuperba.it// Edilizia popolare Emergenza rifiuti Impianti sportivi Cannabis terapeutica Centrali a carbone Ttip, cosa significa? 7. polis, critica politica// La riforma del quarto potere 9. inchiesta// Sicurezza sul lavoro 14. focus// Scolmatore del Bisagno 17. approfondimento// “Nuove” famiglie crescono... 23. speciale// Lettere dalla Luna 24. focus// Comunità San Benedetto 26. intervista// Il partito della polizia 28. inchiesta// Vuoti urbani, Recycle Genova 34. l’uomo con la valigia// Berlino 35. il peso dell’impercepibile// Idromicidi premeditati 36. curiosità// Filter bubble 38. una storia, una foto// Aspettando un eroe 39. l’angolo di gianni martini// La canzone d’autore 41. parla come mangi & “vino veritas”// Maiale al chinotto Baci di Alassio Gutturnio 42. agenda eventi//
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EDILIZIA POPOLARE
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BREVI// www.erasuperba.it
abusivismo e sgomberi una guerra fra poveri
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casi di Roma e Milano nelle scorse settimane hanno trovato spazio sulle pagine di tutti i giornali, simbolo di una disperazione alle stelle nei quartieri popolari delle grandi città, dove anno dopo anno si è accumulato un disagio sociale crescente, in zone già prive di servizi essenziali. Anche Genova non è esente da questo processo, ma qui per fortuna la conflittualità non ha ancora raggiunto il livello di guardia. Tuttavia, alcuni segnali indicano un pericolo concreto, se come sembra, l’intervento delle istituzioni si limiterà soltanto al fattore repressivo. Ci riferiamo in particolare al nuovo piano sgomberi del Comune di Genova, volto a stroncare il fenomeno delle occupazioni abusive delle case popolari. Parliamo ufficialmente di una trentina di occupanti abusivi segnalati al Comune e all’Azienda regionale territoriale per l’edilizia (Arte), anche se le occupazioni effettive sarebbero un numero più elevato – circa un centinaio – e presumibilmente in aumento. In città, infatti, gli alloggi pubblici sfitti sono circa 800: «Parliamo di 120 alloggi occupati, numeri decisamente inferiori rispetto a realtà come Milano e Roma in cui è palese l’esistenza di un sistema malavitoso che lucra sull’organizzazione delle occupazioni abusive. Ma i segnali non sono incoraggianti, quindi occorre agire per tempo», dichiara Stefano Salvetti del sindacato inquilini. «Nei nostri quartieri stanno entrando personaggi preoccupanti - rincara la dose Francesco Corso, portavoce comitati quartiere Diamante – Non mi riferisco a famiglie disperate, bensì ad individui che nulla hanno a che vedere con le regolari assegnazioni degli alloggi popolari...» //
EMERGENZA RIFIUTI
necessari oltre 140 milioni in 5 anni
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elle scorse settimane le istituzioni cittadine hanno presentato finalmente le 172 pagine del nuovo piano industriale intitolato “Amiu 2020, recuperare risorse creare lavoro in Liguria” in cui, tra le altre cose, sono contenute le misure per scongiurare la chiusura definitiva della discarica di Scarpino. Dal punto di vista tecnico, il piano industriale è sostanzialmente diviso in tre parti: una riguarda gli interventi necessari per la messa in sicurezza della discarica; la
seconda, quella più corposa, è riferita allo sviluppo impiantistico e alle varie opzioni - tutt’altro che definitive per un aggiornamento costante dal punto di vista tecnologico - fin qui studiate da Amiu; la terza, infine, offre uno sguardo sulle diverse opportunità europee per finanziare almeno parzialmente i nuovi impianti. «È evidente – ha dichiarato il presidente di Amiu, Marco Castagna – che siamo all’interno della tempesta perfetta: sono venuti al pettine tutti i nodi delle non scelte amministrative e legislative degli ultimi decenni. La natura, dopo 20 anni di chiusura dalla discarica di Scarpino 1, ci presenta il conto di lavori fatti 50 anni fa. L’unico modo per uscire dalla tempesta è stabilire in quale direzione andare e avere un equipaggio che remi in maniera coerente. Il piano industriale rappresenta la rotta, ambiziosa, che deve portare alla trasformazione di Amiu da società di servizi a società di tipo industriale, che non si occupi soltanto di raccogliere e smaltire i rifiuti ma anche e soprattutto di recuperare materia e produrre energia». Ma prima di tutto è necessario trovare le risorse, e il tempo a dispozione è limitato. //
CANNABIS TERAPEUTICA
IMPIANTI SPORTIVI
tre progetti in corsa per i finanziamenti
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ella più classica delle zone Cesarini la giunta comunale ha dato il via libera alla presentazione di tre progetti preliminari per la riqualificazione di altrettante strutture sportive cittadine a un bando regionale (scaduto il 31 ottobre) che punta a distribuire circa 25 milioni di euro “avanzati” dagli ex fondi Fas. A beneficiare di questi contributi, che in minima parte potrebbero essere affiancati da qualche spicciolo messo a disposizione dal Comune, potreb-
bero essere due storiche piscine genovesi come la Mameli di Voltri e la Massa di Nervi. Strutture nel degrado ormai da anni. A questi si potrebbe affiancare anche una nuova sede per i galeoni delle regate storiche delle Repubbliche Marinare, che sarebbero custoditi sempre nel complesso del centro veliero di Prà ma in una struttura ad hoc. Ora la palla passa alla Regione: «Non posso sapere come la Regione disporrà di queste risorse – dice l’assessore comunale allo sport Pino Boero – ma a noi interessava dimostrare che davanti a strutture fatiscenti il Comune si è impegnato a cercare una strada sicura, seppure probabilmente non rapidissima, per avviare le riqualificazioni». E se i fondi non dovessero essere concessi? «Non voglio fare nessun piano B almeno finché qualcuno non mi deluderà sul piano A» dichiara l’assessore. «Non voglio certo dire che la Regione ci debba dare tutto e subito ma questi sono i progetti che abbiamo indicato ed è chiaro che qualcosa ci aspettiamo: se non tutto arriverà, aspetteremo il prossimo giro». Per maggiori informazioni sui singoli progetti utilizza il qrcode o visita erasuperba.it //
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Case popolari: da una parte il ripristino della legalità, dall’altra la lentezza dei processi di assegnazione. Intanto i dati di fatto sono l’aumento dell’insicurezza generalizzata nei quartieri popolari e la cronica carenza di risorse destinate alla manutenzione dell’edilizia residenziale pubblica (foto di Daniele Orlandi).
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le testimonianze di pazienti e produttori
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l tema dell’uso terapeutico della cannabis è stato approfondito in più di un’occasione sulle pagine di Era Superba. Siamo tornati sulla questione pubblicando senza censura la testimonianza di malati e produttori con l’intento di comprendere se il diritto di curarsi con la cannabis, riconosciuto dalla legge italiana, sia di fatto inibito a chi ne dovrebbe poter fruire. Ecco una delle testimonianze raccolte, Rosa, 50 anni: «Dall’età di un anno soffro di epilessia. Per gran parte della mia vita sono stata bombardata di medicinali, soprattutto benzodiazepine, con pesanti effetti collaterali [...] A 40 anni, a seguito di un lavoro di documentazione che ho portato avanti negli anni, ho deciso di rivolgermi alle strutture sanitarie per provare a curarmi con la cannabis. [...] La canapa ha migliorato la mia vita [...] ma l’importazione tramite il servizio sanitario nazionale, mai sostenuta veramente dal reparto di neurologia, è troppo costosa, dopo alcuni anni non avevo più soldi per continuare a curarmi e ho deciso di affidarmi a produttori di cannabis e malati come me, partecipando alle spese di produzione. [...] Un aneddoto: una volta sono caduta a seguito di una crisi fortissima come non mi succedeva più da anni e ho riportato delle fratture facciali; in ospedale sulla cartella clinica era correttamente riportato che dovevo assumere cannabis tre volte al giorno, ma in tutto l’ospedale non c’era un vaporizzatore, né qualcuno che poteva farmi infusi. Gli infermieri arrivavano quindi tre volte al giorno e mi portavano sul terrazzo perché potessi farmi una canna, una cosa che per me nel 2014 è assurda». //
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CENTRALI A CARBONE
TTIP: DI COSA SI TRATTA?
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a genova si va verso la totale dismissione
nel a metà ottobre ha annunciato l’intenzione di dismettere una ventina di centrali termoelettriche alimentate a fonti fossili (in particolare a carbone) sul territorio nazionale. «Alcuni impianti termoelettrici non risultano più competitivi», ha spiegato l’a.d. Enel Francesco Starace. Attualmente in Italia le centrali a carbone sono 13, di cui 3 in Liguria: la Centrale Enel di Genova (ubicata proprio sotto alla Lanterna), la Centrale Enel di La Spezia e il caso a parte della Centrale Tirreno Power di Vado Ligure. La centrale a carbone di Genova segue il percorso di graduale dismissione definitiva entro il 2017. I due gruppi principali sono stati chiusi (uno nel 2012, e l’altro alla fine del 2013), adesso rimane solo un gruppo che funzionerà esclusivamente in caso di bisogno. L’assessore all’Ambiente del Comune di Genova, Valeria Garotta, ha recentemente confermato «Entro fine anno Enel chiuderà anche il terzo gruppo, ma lo terrà silente fino al 2017 per poterlo riattivare, su richiesta del gestore nazionale della rete elettrica, in caso di necessità». L’impianto genovese, come spiegano dal sindacato «Era già sotto organico, quindi i lavoratori sono stati utilizzati per ricoprire i “buchi”, garantendo la funzionalità dell’unico gruppo rimasto in opera. Il passaggio più importante, però, avverrà nel 2017». Parliamo di 100 dipendenti diretti Enel e di circa 150-200 persone nell’indotto. Per salvaguardare l’occupazione nel capoluogo ligure «Attiveremo una serie di percorsi, sia con l’azienda sia con gli enti locali, ma gli eventuali accordi vanno stipulati a livello nazionale», chiosa la Cgil. //
quali conseguenze per l’economia genovese?
i chiama TTIP (Transatlantic Trade & Investiment Partnership), è il partenariato transatlantico su commercio e investimenti che da oltre un mese è entrato nell’agenda politica italiana ma che resta ancora un oggetto misterioso nonostante sia stato lanciato ufficialmente nel giugno 2013 da Obama e Barroso. Perché, vi chiederete, ne parliamo su Era Superba? Perché da questo trattato potrebbe sì dipendere il futuro dell’economia mondiale ma anche, a cascata, quello della nostra città
che deve necessariamente compiere alcune scelte cruciali per il proprio sviluppo futuro. Risulta, infatti, alquanto palese come il TTIP rischi di introdurre squilibri eccessivi a favore dei grandi capitali internazionali svilendo ogni sorta di iniziativa locale anche dal punto di vista istituzionale. «L’impatto su Genova – racconta il consigliere comunale Antonio Bruno – può avvenire nel momento in cui facciamo appalti e prevediamo clausole sociali o ambientali o ancora, ad esempio, diciamo che nelle scuole non si possono servire ai ragazzi cibi OGM. Insomma, a essere inficiata potrebbe risultare tutta l’attività amministrativa del Comune che tende a far sviluppare attività basate sulla merce locale. Per non parlare, poi, del controllo dei subappalti o dei subentri in corso d’opera». Per carità, è piuttosto probabile che una multinazionale non abbia troppi interessi a spendere tante energie per piccoli appalti locali, ma la situazione potrebbe cambiare radicalmente se iniziassimo a parlare di gestione dei rifiuti o del servizio idrico (già adesso di fatto in mano a multinazionali su cui il sindaco non ha molto controllo) o di altri cruciali servizi pubblici, tanto più se gestiti da cosiddette multiutility. //
RUBRICA//
Polis
a cura di Andrea GIANNINI
I
n questi anni di crisi gli attacchi al mondo dell’informazione sono diventati quasi l’abitudine. Per un verso questo è il naturale riflesso di vent’anni di conflitto tra berlusconiani ed anti-berlusconiani, che è stato aspro proprio per via del grande potere distorsivo delle televisioni commerciali, considerate in grado di spostare sensibilmente il consenso. Per un altro verso, però, anche a prescindere da questo retaggio, il fallimento di un qualsiasi contesto politico che si suppone democratico finisce comunque per mettere sotto accusa i meccanismi dell’informazione. Questa attribuzione di responsabilità è quasi obbligata per chi critica il governo Renzi, che invece individua nella Costituzione e nel suo “bicameralismo perfetto” il rudere istituzionale da smantellare per far ripartire il paese. Se infatti la nostra Costituzione è ancora valida, e la democrazia è sempre la migliore forma di governo possibile, rimane da spiegare come si sia giunti a un tale livello di disfacimento politico, ossia proprio quell’esito nefasto che le buone costituzioni dovrebbero scongiurare a prescindere dalla qualità della classe dirigente. La risposta, pertanto, non può che rifarsi alle colpe del mondo (extra-istituzionale) dell’informazione, reo di aver restituito un’immagine distorta delle cose e di aver impedito ai cittadini di capire. Personalmente è una critica che abbraccio con molta convinzione. Tuttavia mi stupisce il fatto che, tra i moltissimi che la condividono, quasi nessuno si sia posto il problema di come si possa riformare concretamente il “quarto potere”. Se l’informazione non va, cosa possiamo fare per migliorarla? L’unica ricetta avanzata è di matrice liberista: l’informazione non funziona perché c’è poca concorrenza. La politica controlla la stampa e la televisione: e questo impedisce la formazione di un “mercato” libero e plurale. Temo però che invocare la liberalizzazione dell’informazione equivalga un po’ a mettersi ad aspettare Godot. Negli ultimi decenni abbiamo visto che non
sempre un mercato “libero” è la panacea di tutti i mali. Spesso si parte con l’idea di rendere un settore aperto alla competizione, ma poi si finisce per creare degli oligopoli; perché nella pratica, quando si tolgono regole e limitazioni, chi se ne avvantaggia sono i concorrenti più grossi, che ne approfittano per consolidare le loro posizioni di forza. Il che porta poi ai lamenti per le liberalizzazioni “mal fatte”. Nella fattispecie, chiunque può farsi strada sul web semplicemente con un blog; ed è ancora possibile entrare nell’editoria con un nuovo quotidiano: ma è evidente che non è altrettanto facile liberalizzare il mercato televisivo, dove i canali principali sono naturalmente pochi e tendono a concentrarsi nelle mani di pochi soggetti. Costoro possono poi garantire il loro appoggio mediatico a quei politici disposti a promuovere condizioni legislative che ne rafforzino il potere, in un circolo vizioso che rende virtualmente inaccessibile quel settore che più contribuisce alla formazione del consenso. Di qui l’idea che aprire il “mercato” alla concorrenza (sempre ammesso chi di “mercato delle notizie” si possa in effetti parlare) non basti. L’informazione non va solo liberata: va anche regolata. Naturalmente non si possono imporre delle leggi che vadano a sindacare i contenuti, perché ciò equivarrebbe a limitare la libertà di espressione: ma si può intervenire sul mezzo. È chiaro che la TV non ha pregi che non siano posseduti anche da altri mezzi quali internet, radio e giornali, mentre ne concentra tutti i difetti. La pervasività, la passività dello spettatore, i tempi comunicativi ristretti, la grande forza comunicativa e un settore che opera in regime di oligopolio, ne fanno lo strumento ideale non per informare, ma per orientare il consenso delle masse. Se dunque TG e talkshow possono produrre solo danni, non vale la pena abolirli per legge? Vi invito, come sempre, a scrivermi le vostre considerazioni, polis@erasuperba.it. //
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Polis, critica politica
critica politica
genova e la liguria - fra industrie, porti, edilizia e agricoltura - pagano a caro prezzo la scarsa prevenzione e il disinteresse delle istituzioni Inchiesta di Matteo Quadrone
Nel 2012 gli infortuni sul lavoro in Liguria sono stati 7000 di cui circa 2000 gravi. Fra leggi ignorate, fondi non investiti e proteste inascoltate il futuro non promette nulla di buono (foto di Diego Arbore).
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asta fare un giro per la città e buttare un occhio oltre le sbarre dei cantieri per vedere operai fare qualsiasi tipo di lavoro senza caschetti di protezione (vedi foto qui sopra), senza mascherine o occhialini, insomma senza i famosi DPI “dispositivi di protezione individuale”. Non solo a Genova ma in tutto il Paese l’attenzione al tema della sicurezza sul lavoro è bassa. I controlli sono pochi e
la cultura della sicurezza fra lavoratori e aziende è deficitaria. Quello che vi raccontiamo in queste pagine è solo un aspetto di questo vasto tema, ma fortemente emblematico della situazione generale. Nel nostro territorio gli addetti ai controlli sono appena trenta e nel 2013 hanno potuto controllare solo il 5% delle aziende (minimo previsto dalla legge). Intanto la Liguria è in testa alla classifica nazionale per gli infortuni sul lavoro.
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SICUREZZA SUL LAVORO
INCHIESTA// sicurezza sul lavoro
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INCHIESTA// sicurezza sul lavoro
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entre in Italia l’occupazione continua a calare, gli impieghi sono sempre più precari, e spesso mal pagati, mentre impazza la discussione sull’articolo 18, e il premier Renzi annuncia il Job Acts nell’intento di riformare radicalmente il mercato del lavoro, neppure ai margini del dibattito politico compare un aspetto fondamentale, a maggior ragione in tempi di crisi e di attacco alle residue tutele dei lavoratori: «I tanti infortuni sul lavoro di questo periodo denotano un calo di attenzione. Credo che all’ordine del giorno del Governo vada messa la sicurezza sul lavoro». È il recente appello del procuratore torinese Raffaele Guariniello - noto per le sue inchieste sul tema - che da anni invoca la creazione di una Procura Nazionale per la sicurezza sul lavoro, richiesta finora rimasta inascoltata. Il quadro normativo che disciplina la materia è articolato e complesso. Nello specifico è costituito: da disposizioni del codice civile (articolo 2087); dalla disciplina-quadro, attualmente contenuta nel D.lgs. 9 aprile 2008/81, recante “Attuazione dell’articolo 1 della L. 3 agosto 2007 n. 123 in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro”, così come modificato dal D.L.gs. 3 agosto 2009, n. 106, che ha provveduto contestualmente ad abrogare il D.lgs. 626/1994; dallo Statuto dei lavoratori, per quanto attiene agli aspetti legati al controllo dell’applicazione delle misure antinfortunistiche; dalla contrattazione collettiva. Una rilevante novità è costituita dal D.lgs. 81/2008 che pur non assumendo formalmente la natura di “testo unico” - in realtà nella sostanza opera il riassetto ed il coordinamento in un unico testo normativo della disciplina in materia di salute e sicurezza sul lavoro. I controlli in materia di sicurezza, prevenzione infortuni ed igiene sono attribuiti in via generale alle Aziende Sanitarie Locali (ASL), che li esercitano attraverso i servizi Psal - Prevenzione e Sicurezza Ambienti di Lavoro. Di alcune specifiche attribuzioni sono invece titolari i servizi ispettivi delle Direzioni Provinciali del Lavoro (controllo e verifica del rispetto delle normative che regolano i rapporti di lavoro) e le rappresentanze sindacali. Per la tutela della salute dei lavoratori, le Asl sono dotate di particolari poteri,
tra i quali rientrano la prescrizione ad adempiere in caso di accertamento di contravvenzioni ed il potere di accesso e di disposizione, cioè il potere, rispettivamente, di visitare in ogni parte ed in qualunque ora del giorno aziende, cantieri, opifici, laboratori, ecc., nonché i dormitori e refettori annessi agli stabilimenti, e di imporre al datore di lavoro un determinato comportamento, al fine di colmare eventuali vuoti normativi. Anche i lavoratori, attraverso le loro rappresentanze, hanno diritto di controllare l’applicazione delle norme per la prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali. In tutta Italia sono meno di 2000 i tecnici della prevenzione dei servizi Psal - operatori della sicurezza sul lavoro, così come definito dal D.Lgs 758/94 (Organo di Vigilanza con qualifica di Ufficiali di Polizia Giudiziaria) - che dovrebbero garantire i controlli per la sicurezza sul lavoro nei confronti di una platea complessiva di circa 3-4 milioni di aziende. Troppo pochi per svolgere adeguatamente un compito così delicato, mentre l’importanza del loro ruolo spesso non viene riconosciuta sia all’interno delle Aziende Sanitarie Locali sia nella pianificazione regionale, come vedremo nel dettaglio per quanto concerne la Regione Liguria.
IL SISTEMA DEI CONTROLLI
L’unico vero organo di vigilanza in tema di sicurezza negli ambienti/ luoghi di lavoro, dunque, sono i tecnici della prevenzione delle Asl, deputati a controllare aziende e cantieri tramite visite ispettive, comminare sanzioni in caso di inadempienze, comunque agendo sempre in via prioritaria a fini preventivi, piuttosto che repressivi. Agli operatori Psal è attribuita la qualifica di Ufficiale di Polizia Giudiziaria, la quale comporta l’adozione di specifici atti previsti dal c.p.p. (sequestri, interrogatori per conto dell’Autorità Giudiziaria, ecc.), con relativa particolare e diretta responsabilità personale. «Questo da un lato è un vantaggio - spiega Vincenzo Cenzuales, tecnico della prevenzione Psal-Asl 3 di Genova, delegato del sindacato autonomo Fials) - perché un capo ufficio non può entrare nel merito di un procedimento, ad eccezioni di palesi irregolarità, quin-
Il servizio di Prevenzione e sicurezza nei luoghi/ambienti di lavoro (Psal) dispone a Genova di quattro nuclei territoriali per coprire le diverse zone. L’intento è quello di ridurre ad un unico centro, diminuendo ulteriormente la capacità di controllo dei cantieri sul territorio genovese di la pratica non può essere tolta al singolo operatore, assicurando così una maggiore indipendenza di giudizio. Dall’altro lato, però, il carico di responsabilità grava direttamente su ogni operatore del servizio che svolge una mansione fondamentale, sovente non riconosciuta in maniera adeguata nè dall’Asl nè dalla Regione. Il tesserino di U.P.G. di solito viene rilasciato dalla Prefettura dopo 2-3 anni di servizio, visto che sono necessarie determinate competenze ed una certa esperienza sul campo per esercitare un potere che consente di bloccare piani aziendali e lavori anche milionari». I servizi ispettivi delle Direzioni Provinciali del Lavoro dipendono dal Ministero del Lavoro. Ma soltanto per il settore edile essi svolgono le medesime funzioni anche di polizia giudiziaria - dei servizi Psal delle Asl. Per tutti gli altri comparti l’ispettorato ha competenze specifiche sulla contrattualistica. I servizi Psal, invece, hanno competenza esclusiva sulla sicurezza, e promuovono lo sviluppo di analisi dei cicli lavorativi finalizzate a ridurre l’incidenza infortunistica. «Noi prima di tutto siamo tecnici della prevenzione - sottolinea Cenzuales - il nostro scopo, dunque, non è quello di fare chiudere le aziende. Anzi, noi possiamo supportare le imprese attraverso consulenze tecniche.
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INCHIESTA// sicurezza sul lavoro
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Aiutandole a rimettersi in carreggiata sanando le situazioni irregolari. La misura delle sanzioni comminate è mirata a tale obiettivo, e non alla mera repressione fine a sé stessa».
ASL3, L’EMERGENZA A GENOVA
Il servizio Psal dell’Asl 3 dispone di quattro nuclei territoriali, dispiegati in altrettanti uffici che si occupano delle diverse zone di Genova. Da anni l’Asl 3 paventa l’intenzione di accentrare il servizio Psal - caratterizzato invece dalla peculiare diffusione sul territorio - presso una sede unica all’interno dell’ex ospedale Celesia sulle alture di Rivarolo. Pare che finora il tentativo non sia andato a buon fine a causa della mancanza di risorse economiche necessarie a sistemare i locali. L’ipotesi di accentramento, comunque, rappresenta un grave pericolo per l’effettiva operatività dello Psal genovese, come spiega il delegato sindacale Fials, Cenzuales «Se gli sportelli territoriali a favore dell’utenza, ovvero rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza, sindacati, gli stessi lavoratori, ma anche cittadini comuni, saranno spostati in un luogo non facilmente raggiungibile come il Celesia, senza dubbio ci sarà una diminuzione delle segnalazioni relative a situazioni di rischio e insicurezza sui luoghi di lavoro. Inoltre, noi abitualmente svolgiamo
sopralluoghi in aziende e cantieri, in media tre al giorno. Un domani, con la sede unica, presumo che riusciremo ad effettuarne soltanto uno». La questione dello spostamento al Celesia è un perfetto paradigma di quanto sia scarsa la considerazione che nutre l’Asl 3 nei confronti di un servizio così importante per la collettività. D’altronde le carenze, soprattutto a livello di personale, ma pure in termini di organizzazione del lavoro, sono da lungo tempo denunciate dagli operatori. «Quest’anno siamo arrivati ad-
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97/08; Protocollo 6 Maggio 2009, recepito dalla delibera di Giunta 722/09), assumendo dei precisi impegni in direzione del “...rafforzamento delle strutture regionali deputate allo svolgimento delle attività di vigilanza e controllo sia con l’incremento degli organici, sia con iniziative continue di aggiornamento e formazione, sia con la valorizzazione delle figure professionali...”, impegni rimasti tuttora disattesi. Nel frattempo l’Asl 3 genovese ha chiesto alla Regione delle “deroghe” al blocco assunzioni, una delle quali è sta-
Noi siamo tecnici della prevenzione, il nostro scopo non è fare chiudere le aziende. Anzi, noi possiamo supportarle con consulenze tecniche, aiutandole a rimettersi in carreggiata sanando le situazioni irregolari.” dirittura allo sciopero del 3 aprile scorso (ma la vertenza sindacale va avanti da almeno 7 anni, nda) - continua Cenzuales - penso che il nostro sia l’unico caso in Italia». Nel 2008 l’organico Psal contava 35 tecnici e 13 dirigenti. All’inizio del 2014 il numero dei tecnici è sceso a 29, quello dei dirigenti a 9. La Regione Liguria tra 2008 e 2009 aveva sottoscritto degli accordi con le organizzazioni sindacali (Protocollo 4 Luglio 2008, recepito dalla Delibera di Giunta
ta finalmente concessa nel corso del 2014 (dopo lo sciopero e l’arrivo della Costa Concordia per le operazioni di demolizione), mentre nel prossimo futuro i tecnici della prevenzione Psal dovrebbero raggiungere quota 35 (rispetto alla richiesta dei sindacati di una dotazione organica minima pari a 40 operatori). Il LEA (Livello Assistenziale stabilito quale obiettivo dalla Regione) prevede per il servizio Psal l’obbligo di visitare almeno il 5% delle aziende presenti su ter-
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ritorio (parliamo di un accesso per ogni azienda). «Se da una parte il numero di infortuni e di ditte da visitare sono diminuiti a causa della crisi economica - spiega Cenzuales - dall’altra sono aumentati i cantieri da ispezionare (secondo indicazioni regionali), e ci sono state attribuite nuove competenze sulla vigilanza delle cave e sul Reach (regolamento sulle sostanze chimiche). A ciò si aggiunge la mole di lavoro per la trattazione delle comunicazioni sugli infortuni gravi che ci arrivano direttamente dall’Inail, a seguito della sottoscrizione del Protocollo Infortuni per iniziativa della Procura della Repubblica». La Liguria, terra di industrie pesanti, cantieri navali, porti, edilizia e agricoltura (tutte attività considerate ad alto rischio), compare in testa alle classifiche nazionali relative agli indici infortunistici sui luoghi di lavoro. Secondo i dati che siamo riusciti a visionare numeri non ufficiali, va detto, ma risultato di comunicazioni pervenute al servizio Psal-Asl 3 da vari enti, di conseguenza sottostimati - a Genova nel 2012 gli infortuni sul lavoro denunciati sarebbero stati circa 7.000, di cui circa 2.000 gravi (ovvero con più di 40 giorni di prognosi e perciò procedibili d’ufficio). Nel 2013 il servizio Psal genovese avrebbe ispezionato circa 700 cantieri temporanei mobili (edilizia), e visitato circa 2.000 aziende, poco più del 5% di quelle presenti. La Legge prevede che, in caso di infortuni con prognosi superiore ai 40 giorni, il procedimento parta d’ufficio. Considerando come abbastanza indicativo il rapporto 2000 infortuni gravi su 7000 complessivi in un anno - dai quali vanno sottratti gli infortuni avvenuti in itinere (tragitto casa-lavoro), quelli stradali, gli infortuni che riguardano i titolari, ed altri casi limitati, in pratica poco meno del 50% - gli appena trenta tecnici della prevenzione Psal-Asl 3 dovrebbero eseguire indagini per accertare l’esistenza di eventuali responsabilità relative a circa un migliaio di casi procedibili all’anno. È del tutto evidente come ciò sia impossibile. Il Protocollo d’intesa stipulato il 1 luglio 2013 tra Regione Liguria, Procura Generale della Repubblica, Procure liguri, Aziende sanitarie ed ospedaliere della Liguria, 118, e Inail, si pone l’obiettivo di definire procedure omogenee sul
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A Genova nel 2012 gli infortuni denunciati sarebbero circa 7000 di cui 2000 gravi. Tuttavia l’anno successivo sarebbero stati ispezionati solo 700 cantieri e visitate 2000 aziende, ovvero circa il 5% del totale.” territorio regionale per la trasmissione tempestiva e completa delle notizie di reato concernenti gli infortuni sul lavoro, in modo da consentirne la trattazione in sede giudiziaria nel rispetto dei criteri di priorità stabiliti dalla Legge. Il protocollo prevede a carico dei servizi Psal delle Asl “...lo svolgimento di una preventiva attività di cernita tra tutti i casi pervenuti di infortunio riconducibili all’attività lavorativa, selezionando tra essi, per il tramite di un’apposita procedura... quelli per i quali è necessario condurre indagini...”. «Noi lavoriamo su pratiche particolarmente serie relative ad infortuni gravi, multi-infortuni, in contesti dove sono presenti più realtà produttive, ecc. - conclude Cenzuales Un compito già di per sé difficile, fare indagini significa convocare datori di lavoro, testimoni, infortunati, spesso trovandoci alle prese con cantieri che da un giorno all’altro spariscono, ulteriormente complicato dal fatto di non poter contare su collegamenti strutturati con altri enti quali ad esempio l’Anagrafe, oppure la Camera di Commercio».
DUBBI SULL’UTILIZZO DEI FONDI
I servizi che si occupano di sicurezza sul lavoro comminano sanzioni amministrative secondo il meccanismo previsto dal D.Lgs 758/94. Gli introiti di tali sanzioni sono rimasti a disposizione delle varie Asl - senza chiari e definiti vincoli di spesa - fino all’entrata in vigore del D.Lgs 81/08. Il comma 6 dell’articolo 13 del Decreto 81, infatti, recita: “L’importo delle somme che l’Asl, in qualità di organo di vigilanza, ammette a pagare, integra l’apposito capitolo regionale per finanziare l’attività di prevenzione nei luoghi di lavoro svolta dai Dipartimenti di Prevenzione delle Asl”. In Liguria fino al 2010 la norma è stata ignorata, e le somme sono state totalmente incamerate dalle Asl. Eppure la Regione con la già citata delibera di Giunta 722/2009 aveva dato alcune indicazioni per promuovere l’utilizzo delle risorse da sanzioni irrogate dagli Psal quali
fonti incentivanti agli operatori per svolgere attività preventive. “Assistiamo invece ad un calo degli investimenti - scrive il sindacato autonomo Fials - che si sostanzia con la riduzione del numero degli operatori, il trattenimento, almeno per quanto riguarda la Asl 3, di una parte delle risorse stanziate per il 2009 dalla Regione quali incentivi agli operatori, e la totalità di quelle del 2010”. Alla fine del 2010 la Regione istituisce un nuovo capitolo di entrata per l’introito di somme derivanti da sanzioni (n. 1728 “Fondi provenienti dalle aziende sanitarie locali per il finanziamento delle attività di prevenzione nei luoghi di lavoro”) ed un nuovo capitolo di spesa per il loro utilizzo (n. 4823 “Trasferimento di fondi provenienti dalle aziende sanitarie locali per il finanziamento delle attività di prevenzione nei luoghi di lavoro”). Con la delibera di Giunta 546 del 20/05/2011 sono definite le modalità di versamento delle somme da parte delle Asl al fondo regionale, rimandando a successivi provvedimenti le “linee di indirizzo” per l’utilizzo dei fondi incamerati. «Inizia così una fase in cui si tenta di eludere il disposto (siamo in un periodo, non ancora finito, di tagli lineari dei trasferimenti alle Regioni da parte dei vari Governi succedutesi) - sottolinea il delegato Fials Vincenzo Cenzuales - e la prima azione è il prendere tempo: le Asl versano in ritardo le somme, e la Regione non definisce come spenderle. Nei fatti il meccanismo si attiverà solo per i fondi del 2013». Con la delibera di Giunta 136 del 10/02/2012 la Regione definisce le “Prime linee di indirizzo per l’utilizzo dei fondi derivanti dalle sanzioni ex 758/94” in cui determina che ogni Asl potrà sostanzialmente “riprendersi” il 90% di quanto versato per l’effettuazione di progetti inerenti il Piano Regionale Prevenzione. Per il restante 10% viene stabilito che “...la Regione si riserva di trattenere una quota [...] per attività, progetti, iniziative, ecc. di interesse regionale in materia [...] le Asl sono tenute all’elaborazione dei progetti di preven-
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INCHIESTA// sicurezza sul lavoro
INCHIESTA//
I trenta tecnici della prevenzione PsalAsl 3 dovrebbero eseguire indagini per accertare l’esistenza di eventuali responsabilità relative a circa un migliaio di casi procedibili all’anno. È del tutto evidente come ciò sia impossibile. zione e alla loro realizzazione con i finanziamenti ad essi destinati”. La delibera sembrerebbe contenere numerosi elementi di criticità, in primis l’indicazione: “[...] è altresì possibile destinare parte delle risorse al personale interno dell’ente, purché ciò non costituisca frazione rilevante dell’ammontare del progetto”. I progetti della Asl 3, inoltre, sono criticabili perché non contengono, se non in misura modesta, indicatori di risultato. L’unico obbligo previsto è quello di effettuare le attività come prestazioni aggiuntive. «Nel concreto i progetti si riducono ad un finanziamento sostitutivo dello straordinario - sottolinea Cenzuales - Altro aspetto critico riguarda il fatto che il resto dei soldi viene investito in attrezzature (software, automobili, hardware, fonometri, ecc.) per lo più non “integranti” ma “fondanti” le normali attività. Le risorse economiche vengono così usate per comprare arredi (sedie, armadi e scrivanie) e persino indumenti e DPI (dispositivi di protezione individuale!)». In parole povere, gli addetti ai controlli se non fosse per i proventi
delle multe entrerebbero loro per primi nei cantieri senza protezione... Per capire di quali cifre stiamo parlando ecco alcuni dati relativi all’azienda sanitaria locale genovese: nel 2011 l’Asl 3 ha versato 436.127 € e ottenuto 372.000 (di cui 144.000 per il personale interno); nel 2012 ha versato 281.882 € ottenendo 140.000 (di cui max 70.000 per il personale); nel 2013 ha versato 338.134 €. Nel luglio 2013 la Regione esprime la volontà di trattenere per altre incombenze le somme nel frattempo versate per l’anno 2012, mentre a novembre ai lavoratori viene addirittura ventilata la possibilità di un blocco per quattro annualità dello stanziamento dei fondi. A seguito di questi fatti arriva la dichiarazione di sciopero, effettuato il 3 Aprile 2014. Gli operatori Psal vengono ricevuti dall’assessore regionale alla Salute, Claudio Montaldo, e durante un incontro la Regione annuncia loro di aver predisposto un nuovo documento per l’utilizzo dei fondi ex 758. La delibera di Giunta 443/2014 presenta numerose novità: innan-
zitutto essa destina solo il 50% delle somme per la realizzazione dei progetti da parte delle Asl, mentre “[...] la Regione trattiene la restante quota dei fondi del 2012, pari al 50% dell’importo complessivo, per interventi di interesse regionale”. Inoltre, l’oggetto dei progetti fa riferimento esclusivamente al Protocollo per la gestione delle notizie di reato sugli infortuni, ma i progetti delle Asl dovranno occuparsi della classificazione e della loro selezione ai fini del Protocollo, dunque perseguendo solo in modo remoto i già minimi obiettivi preventivi. Infine, le modalità di incentivazione del personale: la delibera precisa che al personale, anche esterno all’azienda, si potrà destinare solo il 50% delle risorse disponibili (ricordiamo che le risorse disponibili sono solo il 50% di quanto versato da ogni singola Asl), quindi al personale potrà essere corrisposto al massimo il 25% di quanto versato, determinando così un abbassamento della cifra pro capite rispetto ai progetti dell’annualità precedente. //
FOCUS//
SCOLMATORE BISAGNO il punto sulla grande opera
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FOCUS// scolmatore bisagno
di Gabriele Serpe
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remessa. Questo autunno all’ombra della Lanterna ha il segno indelebile della sciagura. Dal dopoguerra e fino al 2011, il Bisagno aveva rotto gli argini ogni ventennio, ora lo ha già fatto due volte in tre anni. Il primo torrente cittadino è una bomba ad orologeria, così come i suoi affluenti e come gli altri principali corsi d’acqua genovesi Polcevera, Sturla, Leira, Cerusa, Varenna, Chiaravagna, per non parlare delle condizioni dei rii minori che scendono dalle alture, spesso terreni abbandonati e quindi maggiormente esposti al rischio frane. Per noi cittadini, ormai coscienti dello stato di salute della nostra terra in piena emergenza idrogeologica, questo autunno deve essere il punto di partenza, o meglio di ri-partenza. Tutti i calendari e le agende politiche, tutti i giornali e le televisioni, tutti i discorsi nei bar e per le strade devono ripartire da qui. Non si può più attendere, non se lo può più permettere nessuno. La situazione genovese è un’emergenza nazionale. Gli elettori di questa città, l’opinione pubblica, sono chiamati a pretendere dallo Stato italiano l’immediato dispiegamento di forze d’ogni sorta per la messa in sicurezza del territorio. Niente più “pezze”, niente più “i soldi non ci sono”. E il primo tassello di questo ragionamento è rappresentato dalla grande opera per eccellenza, lo scolmatore del Bisagno; un progetto che fino a qualche settimana fa era considerato “impossibile” e che oggi è diventato indispensabile per il futuro di questa città, tanto da entrare nell’agenda politica dei nostri governanti. Era fermo da anni, 230 milioni erano considerati fantascienza. Eppure nel momento in cui andiamo in stampa (24 novembre) da Roma registriamo le prime promesse ufficiali; per ora
solo parole, ma quantomeno confortanti. Nei prossimi cinque anni lo Stato, nell’ambito del Piano Nazionale 2014/2020 contro il dissesto idrogeologico, si impegnerebbe a finanziare quasi 380 milioni per il territorio genovese. E, tra le opere da finanziare, ecco comparire lo scolmatore del Bisagno. Nessuna versione “light” come voci di stampa avevano prefigurato, il progetto di riferimento è sempre lo stesso, quello definitivo che risale al 2007 e si basa sulle stime del Piano di bacino che indicano in 1300 mc/s (metri cubi al secondo) la portata massima del torrente con tempo di ritorno di duecento anni (la stima ai tempi del fascismo che portò ai lavori di copertura fu di 500 mc/s, ndr). Attualmente il Bisagno è in grado di “resistere” fino a 700 mc/s, portata elevabile tra gli 800 e i 900 mc/s con i lavori di adeguamento idraulico dell’attuale copertura di via Brigate Partigiane. Livelli che ancora non permetterebbero di mettere in sicurezza il torrente. Ma che cos’è, nel dettaglio, lo scolmatore del Bisagno? Si tratta di un canale sotterraneo di 9,5 m di diametro in grado di “sottrarre” acqua
al torrente in caso di piena alzando la portata di 417 mc/s rispetto ai livelli attuali (mettendo quindi il corso d’acqua in sicurezza). La galleria, lunga quasi 7 km dal ponte Ugo Gallo (altezza Sciorba) sino ai bagni Squash in corso Italia, andrebbe anche ad intercettare le portate dei torrenti Fereggiano, Rovare e Noce (ognuno dei rii con relativa galleria di collegamento a quella principale). Riassumendo, il complesso delle opere previste nel progetto definitivo del 2007 consiste nella realizzazione di: presa e sbarramento del Bisagno, galleria principale, opere di presa sui tre rii minori e tre gallerie di collegamento con la principale. Costo totale 230 milioni, di cui 153 di lavori, i restanti 80 circa fra Iva, spese tecniche, indagini, collaudi ecc. «In questi giorni, avendo il Comune bandito l’appalto per la costruzione dello scolmatore del Fereggiano - ci spiega Simone Venturini, ingegnere idraulico, dirigente di Technital S.p.A e co-firmatario del progetto - abbiamo rivisto il computo del progetto del 2007 dal quale abbiamo stralciato le opere già inserite nel progetto definitivo dello scolmatore Fereggiano (il cui primo stralcio è in via
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Utilizza il QRCODE per consultare il Quadro Economico del progetto definitivo del 2007, quindi ancora comprensivo dei lavori per la realizzazione del mini-scolmatore del Fereggiano.
no - precisa Venturini - avrà sempre e solo funzione idraulica anche in caso di scolmatore del Bisagno, perché in essa sono previsti gli ingressi delle portate di Fereggiano, Rovare e Noce. Essa si collegherà a valle con la futura galleria principale del Bisagno». Accelerazioni dell’iter, che, adesso, dopo questo infausto autunno, devono verificarsi, senza se e senza ma. Perchè, vale la pena ricordarlo, da sola l’opera sul Fereggiano non incide di una virgola sulle piene del Bisagno. «Il progetto del 2007 va aggiornato (anche alle nuove norme tecniche emanate successivamente all’anno di progettazione e va rivista la Valutazione di Impatto Ambientale la cui validità dura solo 5 anni) ma saremmo in grado di renderlo appaltabile nel giro di pochi mesi». E se l’avvio dei lavori per il grande scolmatore
Non esiste nessuna versione “light” dello scolmatore. Il progetto definitivo del 2007 è stato aggiornato eliminando le opere già appaltate per il Fereggiano (45 milioni). Adesso, con Iva al 22%, si può ipotizzare per il Bisagno un finanziamento lordo di 182 milioni”. gno). Sia la galleria che lo sbocco a mare del mini - scolmatore, tuttavia, sarebbero perfettamente integrabili con la galleria principale del Bisagno, per evitare in caso di improvvise accelerazioni verso la realizzazione del progetto completo, di non tornare a lavorare su opere appena concluse. «La galleria più piccola del Fereggia-
arrivasse (c’è da augurarselo) prima di aver terminato il mini - scolmatore (dicembre 2020), i due potrebbero coesistere? «Il programma dei lavori del Fereggiano - conferma Venturini prevede che venga realizzata l’opera di sbocco a mare ed allestito il cantiere presso i bagni Squash durante il primo anno. Poi verrà attivato lo sca-
vo della galleria e l’accesso dei mezzi al cantiere dell’opera di presa di salita Ginestrato (Quezzi) avverrà dalla galleria, in modo da non disturbare la città ed avere effetti negativi sulla viabilità urbana. Se, contemporaneamente, si avviasse lo scavo della galleria del Bisagno, non ci sarebbero controindicazioni. Si consideri anche che la galleria del Bisagno potrebbe per buona parte essere scavata da monte con ingresso ed uscita dei mezzi da Staglieno, come già previsto dal cronoprogramma del progetto 2007. Per la parte di valle, il materiale di scavo potrebbe essere allontanato via mare dal pontile di cantiere che è previsto venga costruito presso i Bagni Squash per caricare il materiale proveniente dalla galleria Fereggiano. I due cantieri si integrerebbero molto bene ed anzi si ridurrebbe il disturbo all’area di spiaggia. Se ci saranno i fondi per avviare entrambe le opere (i lavori al Fereggiano partiranno nei primi mesi del 2015), occorrerà solo disciplinare bene la coesistenza delle due imprese presso il cantiere dei Bagni Squash, anche per ragioni di sicurezza». Cerchiamo di chiudere il cerchio anche per quanto riguarda le tempistiche. «La durata dei lavori dello scolmatore Fereggiano è stimata in cinque anni - conclude Venturini Quanto alla durata del cantiere dello scolmatore del Bisagno (opera di presa + galleria), il tempo necessario è stimabile in circa sei anni, ma questo sarà definito con esattezza nel corso della revisione del progetto prima della gara per l’affidamento dei lavori». //
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di aggiudicazione) e abbiamo aggiornato i prezzi unitari». Stiamo parlando dell’opera di presa e della galleria del Fereggiano (3,7 km, i primi 900 metri già realizzati a fine anni ‘80, e 5,2 m di diametro), oltre ovviamente all’opera di sbocco a mare funzionale anche allo scolmatore del Bisagno. I lavori di presa e di collegamento per Rovare e Noce completano il “progetto Fereggiano” anche se non rientrano nel primo stralcio. «Ne deriva che l’importo residuale dei lavori (ovvero quello che resterebbe da fare, mantenendo l’opera già progettata nel 2007 senza modifiche né “alleggerimenti”) che serve per realizzare lo scolmatore del Bisagno è pari a circa 145 milioni e il finanziamento lordo si può aggirare sui 165-182 milioni circa (a seconda che lo Stato voglia applicare l’Iva al 10%, come per lo scolmatore Fereggiano andato in gara, o al 22%)». Facciamo un passo indietro. Lo scolmatore del Fereggiano, come detto in precedenza, era già previsto nel più ampio progetto dello scolmatore del Bisagno. Una galleria più piccola che da Quezzi si ricongiunge a valle con quella del Bisagno. Dopo gli eventi alluvionali del 2011, il Comune decise di fare di necessità virtù e di utilizzare le risorse a disposizione (45 milioni) per la realizzazione di una parte del progetto del 2007. Si scelse per la realizzazione della sola galleria di scolmo del Fereggiano. Il progetto fu contestato (e “rimandato” in un primo momento dal Consiglio nazionale dei Lavori Pubblici) principalmente per l’incertezza sulla copertura economica (i 45 milioni coprono solo il primo stralcio) e la necessità di aggiornare studi, stime e rilevazioni anche per quanto riguarda il sottosuolo (aspetto quest’ultimo che andrebbe comunque approfondito anche per il Bisa-
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“NUOVE” FAMIGLIE CRESCONO...
Fecondazione eterologa, Genova e l’Italia “Pacs” l’alternativa all’istituto giuridico del matrimonio Illustrazioni a cura di Nicoletta Mignone
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he i paradigmi e i valori fondanti della nostra società siano in trasformazione è un dato di fatto. E non è certo una novità degli ultimi anni. Dopo le dichiarazioni del ministro Alfano di qualche tempo fa che invitavano i Comuni a non registrare matrimoni contratti all’estero fra persone dello stesso sesso, il problema dell’arretratezza del nostro Paese per quanto
riguarda il diritto di famiglia è tornato di stretta attualità. Non abbiamo qui la pretesa di sviscerare la questione nella sua interezza, anche perché i confini sono davvero ampi; ci concentriamo su due aspetti in particolare, la possibilità di procreazione assistita da ovociti o spermatozoi esterni alla coppia (da aprile 2014 legale anche in Italia ma solo per coppie eterosessuali) e il Pacs.
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“NUOVE” FAMIGLIE CRESCONO...// fecondazione eterologa
“NUOVE” FAMIGLIE CRESCONO...//
IL GLOSSARIO FECONDAZIONE DELLA P.M.A. ETEROLOGA Genova e l’Italia, facciamo il punto
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er procreazione medicalmente assistita (P.M.A.) si intende l’insieme di tutti quei trattamenti per la fertilità nei quali i gameti, sia femminili (ovociti) che maschili (spermatozoi), vengono trattati al fine di determinare il processo riproduttivo dell’essere umano. Esistono due tipologie di procreazione assistita: la fecondazione omologa e la fecondazione eterologa. Nel primo caso il seme maschile o l’ovulo femminile appartengono alla coppia. Si parla di fecondazione eterologa, invece, quando il seme maschile o l’ovulo femminile non appartiene a uno dei genitori ma a un donatore anonimo esterno alla coppia. A seconda della tecnica utilizzata esistono tre distinti livelli di fecondazione eterologa. I livello: vengono utilizzate tecniche poco sofisticate e quasi esclusivamente l’inseminazione semplice, cioè tramite l’inserimento nella cavità uterina del liquido seminale che può essere fresco o scongelato (questa tecnica è definita IUI- Intra-uterine-insemination, inseminazione intrauterina). II livello: oltre all’inseminazione semplice, utilizza procedure progressivamente più impegnative, complesse e invasive in base al tipo di infertilità da affrontare. Nello specifico si mettono in atto: FIVET (la tecnica più usata, fecondazione in vitro e trasferimento dell’embrione); ICSI (la seconda tecnica più usata, iniezione intracitoplasmatica dello spermatozoo); prelievo testicolare dei gameti (prelievo percutaneo o biopsia testicolare); trasferimento intratubarico dei gameti maschili e femminili (GIFT), zigoti (ZIFT) o embrioni (TET) per via trans vaginale eco guidata o isteroscopia. III livello: vengono utilizzate tecniche invasive che richiedono un’anestesia generale. Nello specifico si mettono in atto: TESE (estrazione microchirurgica di spermatozoi dal testicolo); MESA (aspirazione microchirurgica di spermatozoi dall’epididimo). I due centri specializzati a Genova (San Martino e Evangelico) applicano il terzo livello.
di Claudia Dani
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a aprile 2014 è possibile sottoporsi a fecondazione eterologa anche in Italia. Dopo anni di polemiche adesso è possibile utilizzare ovociti o spermatozoi di donatori anonimi esterni alla coppia per concepire. Qui non vogliamo porre alcun giudizio di tipo morale, per questo riteniamo che la coscienza di ognuno possa svolgere il suo compito. È stato chiaro da subito però, parlando dell’argomento con istituzioni e ospedali pubblici sul nostro territorio, che ci sono ancora problemi concreti da risolvere e non solo dal punto di vista organizzativo. Problemi che nello specifico riguardano Genova e la Regione Liguria, ma che ritroviamo anche sull’intero territorio italiano. Da un lato manca completamente la cultura della donazione, è tutta da costruire. Dall’altro, non emerge un numero così grande di coppie che ha bisogno dell’eterologa o la cui richiesta immediata riguardi questa tipologia di fecondazione assistita. «Nella maggior parte dei casi si tratta di donne fra i 39 e 43 anni che hanno già affrontato diversi cicli precedenti di fecondazione omologa senza successo», racconta la Dottoressa Paola Anserini, referente del Centro pubblico attrezzato per fare la fecondazione eterologa presso l’Ospedale San Martino. Conferma lo stesso dato il Dottor Costa del Centro dell’Ospedale Evangelico Internazionale «in realtà le coppie che hanno bisogno dell’eterologa sono una su venti». Tornando indietro a leggere articoli e commenti pubblicati nei giorni in cui venne resa nota la decisione della Corte Costituzionale (aprile 2014) che permetteva la fecondazione eterologa, la sensazione diffusa era che l’Italia intera di lì a poco avrebbe dovuto sottoporsi all’eterologa, a ben guar-
dare in Liguria non è così. Certamente qualcosa è cambiato in concreto con la sentenza, prima sentivamo parlare di turismo procreativo, quando le coppie cioè erano costrette ad andare all’estero per poter utilizzare semi altrui, ora non è più necessario e possiamo trovare i donatori in Italia. Ma li troveremo? È molto difficile in una situazione in cui non è ancora chiaro cosa sarà a carico del Servizio Sanitario Pubblico e allo stesso tempo cosa sarà gratuito per donatori e donatrici. Chi paga il farmaco per la donatrice? Chi gli esami a cui devono sottoporsi i donatori? Sarà possibile rimborsare i donatori? «È chiaro che fino a che questi quesiti non troveranno risposte certe sarà sempre più difficile trovare i donatori», sottolinea Costa. Secondo la dottoressa Anserini questi aspetti amministrativi troveranno soluzione a breve, probabilmente già nei mesi prossimi ma «quello che continuerà a mancare nel nostro Paese sarà la cultura della donazione». Quindi, oltre ai dubbi sul pagamento di esami e prelievi (al momento al donatore viene garantito solo il rimborso della giornata di lavoro persa), il fattore di difficoltà in più rispetto all’estero è che in Italia i donatori e donatrici non sono per così dire “incentivati”. Detto in maniera più esplicita: in altri paesi è più facile reperire donatrici o donatori perché questi, oltre ad avere garanzia del rimborso delle spese, vengono direttamente pagati in denaro. Ma se i problemi amministrativo-burocratici troveranno prima o poi una soluzione, rimangono dubbi sugli aspetti prettamente culturali. Genovesi, liguri, italiani... siamo pronti a donare? Forse una campagna informativa adeguata potrebbe essere un primo passo importante in tal senso.
omogeneo a livello nazionale l’accesso alle procedure eterologhe ha concordato una serie di indirizzi operativi che saranno messi in atto dalle singole regioni. Il documento contiene i requisiti di chi può accedere all’eterologa, ovvero coniugi o conviventi di sesso diverso sterili e infertili. L’intenzione sarebbe quella di regolamentare le modalità di selezione di donatori e donatrici e garantire la riservatezza e il loro anonimato. Infine il testo propone che, dal punto di vista finanziario, l’accesso a carico del servizio sanitario segua i criteri della fecondazione omologa cioè solo fino ai 43 anni per la donna e con un massimo di 3 cicli. E quale è la situazione ad oggi nei due centri genovesi specializzati? Sia a San Martino che all’Evangelico i medici si stanno occupando della primissima fase (detta “fase ambulatoriale”), cioè stanno illustrando alle coppie che la possibilità concreta di eseguire la fecondazione eterologa (escludendo le questioni ancora nebulose che riguardano il ticket) è vincolata al reperimento di donatori e donatrici. Le coppie ad oggi vengono inserite in una lista d’attesa e verranno contattate nel momento in cui ci saranno i donatori. A questo proposito è importante ricordare che presso il Centro dell’Ospedale San Martino è attivo un servizio che fornisce tutte le informazioni necessarie a chi voglia intraprendere il percorso di donatore o donatrice (010 5555840 dalle 11,30 alle 13,30). I prossimi passi adesso spettano tutti alla Regione Liguria, i due centri liguri chiedono a gran voce decisioni definitive in merito alla gestione amministrativa. L’assessore regionale alla sanità Claudio Montaldo ci ha dato qualche anticipazione. «Abbiamo definito in conferenza un quadro
che prevede il ticket su ciascuna delle prestazioni che vengono fatte dalla coppia interessata. Il costo medio varia dai 500 ai 600 euro. Presto dovrebbe arrivare una delibera della Giunta che lo confermerà. Al momento il donatore ha garanzia della copertura delle giornate di lavoro perse. Se c’è bisogno di esami sul donatore li renderemo gratuiti, questo è quello che personalmente intendo proporre». In conclusione, la nostra indagine ci ha aiutato a capire che la Liguria ha i mezzi, le strutture e presto avrà anche l’assetto burocratico per avviare il processo di fecondazione eterologa. Ma non esiste nessun programma per quanto riguarda la diffusione delle informazioni sul territorio, indispensabili per una sensibilizzazione sul tema. Non è difficile ipotizzare che se la situazione dovesse rimanere quella odierna fra qualche anno i numeri di richiedenti e donatori continueranno ad essere molto bassi. Da un lato è fondamentale incentivare le persone alla donazione e dall’altro sensibilizzare la comunità su un tema così ampio e delicato. Perché, ad esempio, nonostante gli enormi passi avanti della scienza, ad una certa età non è più possibile pensare di fare figli, anche se abbiamo una prospettiva di vita sempre più lunga. E non è tutto. La fecondazione eterologa potrebbe ovviamente aprirsi anche alle coppie omosessuali, cosa che da anni è più che normale in alcuni paesi europei come ad esempio Spagna e Gran Bretagna. Il futuro non si può fermare, ma pensare di non investire idee e risorse sulla sensibilizzazione e di demandare al caso l’istruzione sui temi legati alla fecondazione sarebbe un gesto profondamente incosciente. E, purtroppo, è quanto sta accadendo. //
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Le difficoltà maggiori, stando ai dati in nostro possesso, riguardano il reperimento di donatrici, rispetto ai già rari donatori. È chiaro che la stessa donazione implica un coinvolgimento diverso e meno “invasivo” per l’uomo. Per la donatrice, oltre alla serie di esami iniziali a cui si deve sottoporre anche il donatore uomo, segue un intervento con anestesia per il prelievo degli ovociti. Abbiamo chiesto lumi alla dottoressa Anserini per comprendere meglio le varie possibilità di donazione di ovociti. Tre potrebbero essere le strade. La prima porta il nome di “Egg-sharing”: le pazienti infertili che fanno la fivet (fecondazione in vitro) per infertilità maschile, potrebbero donare qualche uovo così da poter operare nello stesso ciclo su un’altra paziente. «Personalmente – aggiunge Anserini – provo a proporlo alle mie pazienti». Si tratterebbe di un gesto di pura generosità, perché gli ovociti se non donati vengono conservati ed eventualmente utilizzati sulla stessa donna in caso di insuccesso. Quindi si tratta di ovociti potenzialmente utili alla donatrice stessa. Tutt’altra storia quella che riguarda le donatrici pure, cioè «chi fa la stimolazione ormonale per 15 giorni viene in ospedale 4 o 5 volte per fare il prelievo e le ecografie e poi facciamo un’anestesia per il prelievo degli ovociti che saranno poi donati» mette in evidenza la referente del centro dell’Ospedale San Martino. Un’altra possibilità è quella che ogni coppia trovi da sé la donatrice, anche se questa, dovendo rimanere anonima, dovrebbe come regola essere poi assegnata ad altra coppia. La terza strada, dunque, diventa percorribile solo se il numero di coppie “ricercatrici” sul territorio è elevato. «Anche questa possibilità per attuarsi ha bisogno di una campagna di informazione» conclude. Come detto in apertura, però, fino a che lo Stato non si deciderà a prendere posizioni chiare sul tema, i percorsi appena raccontati rimarranno incerti. Il primo passo è stato fatto poco dopo il pronunciamento della Corte Costituzionale, la Conferenza delle Regioni e delle Provincie Autonome ha infatti emesso un documento con lo scopo di risolvere le problematiche relative alla fecondazione eterologa e che potesse essere sottoscritto da tutte le Regioni. In questo modo si è tentato di coprire un vuoto di linee guida statali. La Liguria ha recepito il documento il 5 settembre 2014. Ma cosa contiene il documento? La Conferenza per poter rendere
“NUOVE” FAMIGLIE CRESCONO...// fecondazione eterologa
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“NUOVE” FAMIGLIE CRESCONO...//
UNA VITA DA “PACS”
la testimonianza di Giacomo e Arnaud
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“NUOVE” FAMIGLIE CRESCONO...// una vita da pacs
di Bruna Taravello
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nnanzitutto, che cos’è il Pacs? Si tratta del “patto civile di solidarietà” stipulato fra i componenti di una coppia di fatto (omosessuale o eterosessuale) che regola l’unione dal punto di vista giuridico ed economico.Un’alternativa concreta all’istituto giuridico del matrimonio, così come i matrimoni gay e le unioni civili (tutte pratiche non contemplate in Italia a differenza della quasi intera Europa e di buona parte degli USA). Incontro Giacomo e Arnaud in una piovosa serata di inizio novembre. Si sono appena attenuati gli echi dell’ultima uscita del Ministro dell’Interno, Angelino Alfano, che ha imposto ai sindaci di sospendere la registrazione dei matrimoni contratti all’estero da coppie dello stesso sesso. Ovviamente ne è nato il solito polverone all’italiana, tutto dichiarazioni e tweet al veleno, buoni per essere dimenticati dopo 24 ore. Anche in ragione di questo mi aspetto di conoscere due persone amareggiate, deluse e magari anche polemiche rispetto ad una società, quella italiana, che non trova il passo con il mondo che cambia. Perché loro a settembre si sono pacsati (il termine è stato approvato persino dalla Treccani) al Consolato francese di Milano, ma per lo Stato italiano non è successo nulla. Invece niente amarezza. Mi vengono incontro due ragazzi sui trent’anni sorridenti e forse un filo imbarazzati per essere al centro dell’attenzione, perché per loro tutte queste cose sono solo uno sfondo: sì, sono contenti di essersi sposati, se no non lo avrebbero fatto; certo, se ne parlava già da un po’ di tempo, visto che sono cinque anni che stanno insieme. E no, non sanno ancora se faranno una festa ma forse sì, almeno una bella cena con gli amici probabilmente si farà. Giacomo è ligure, nato nella Riviera di levante, Arnaud
è un francese del Sud. Abitano a Genova, quindi la prima domanda è d’obbligo. A settembre 57 coppie avevano aderito al Registro delle Unioni Civili di Genova (una registrazione anagrafica di convivenza, da non confondere ovviamente con l’unione civile vera e propria, ndr): ci siete anche voi due? Giacomo: no, veramente di iscriverci qui a Genova ancora non abbiamo pensato, perché non è che agli effetti pratici questa trascrizione garantisca granché, e poi non sappiamo nemmeno se rimarremo a Genova ancora a lungo. Anzi. Arnaud: abbiamo entrambi lavori precari, io lavoro nel turismo, e ogni anno mi rinnovano il contratto
ma per tre mesi almeno non lavoro. Giacomo è borsista all’Università, quindi con un’incertezza professionale ai massimi livelli. Per questo, anche per questo, abbiamo deciso per il Pacs: se andremo in Francia per cercare lavoro, meglio essere una coppia già consolidata. Proviamo a partire proprio dall’inizio: come avete fatto ad arrivare al Consolato? Avete avuto bisogno dell’assistenza di qualche organizzazione, di un legale, o qualcosa del genere? Arnaud: (mi guarda perplesso, forse ignora la nostra assuefazione alle tortuose pratiche burocratiche) ma no, perché? È stato semplice: ho chiamato il Consolato, mi han-
no detto quali certificati servivano, e quando è stato tutto pronto nel mio giorno libero siamo partiti per Milano. Giacomo: non avevamo la sensazione di fare qualcosa di eccezionale, praticamente non lo abbiamo detto a nessuno; anche il Console appena ci siamo presentati ci ha solo chiesto: questo è un Pacs d’amore o di convenienza? E noi gli abbiamo detto che sì, era d’amore. Ma perché scusate, ci sono anche quelli di convenienza? Arnaud: in Francia ci sono tre livelli di legame. Uno è molto semplice, chiunque lo può contrarre semplicemente per difendere un interesse di tipo economico, oppure avere la possibilità di assistere in ospedale e poco altro; anche fratello e sorella possono farlo. Poi c’è il Pacs appunto, che è una sorta di matrimonio attenuato. Ti cambia lo stato civile, c’è l’obbligo di sostentamento e di cura reciproci e dopo tre anni vengono
applicati gli sgravi fiscali e le norme a difesa del reddito, se spettano. Spetta anche il ricongiungimento familiare, però non si deve essere parenti (per evitare che si firmi solo per poter rifiutare trasferimenti di lavoro o per far entrare extracomunitari), non si può cambiare la cittadinanza e neanche adottare bambini: per fare queste cose occorre il vero matrimonio, che Hollande ha istituito anche per le persone dello stesso sesso, poco più di un anno fa. Ecco, sulle adozioni come la pensate voi? Rientra nei vostri sogni, o progetti? Giacomo: vista la nostra precarietà economica, per ora niente è più lontano dell’idea di adottare un bimbo. In ogni caso per farlo dovremmo sposarci, ma per ora ci accontentiamo di sognare una casetta nostra, compreso mutuo e giardino, e dei gatti a farci compagnia. In linea generale, ovvio che se concedi il matrimonio alle persone devi anche accettare che vogliano un figlio, è un’esigenza che ad una coppia non si può negare per principio. Voi siete in un certo senso un “caso di cronaca”: state insieme da cinque anni, vi volete bene e avete deciso di rendere pubblico il vostro legame. Come vi sentite rispetto a questo, orgogliosi di poter essere utili alla causa oppure sentirvi dei pionieri vi infastidisce? Arnaud: pionieri? Nel 2014? No, scusa, io non sono infastidito, ma certo non mi sento un pioniere o un difensore di chissà quale causa. Sono 15 anni che queste cose in Francia sono normali e sono cresciuto con la consapevolezza di avere queste possibilità davanti a me. Giacomo, ridendo: per Arnaud è molto più normale che per noi, in tema di diritti i francesi ci battono su tutta la linea. Comunque io, pur non avendo mai fatto un vero e proprio coming out, quando ho detto a mia madre che stavo andando a Milano per il Pacs con Arnaud lei si è solo preoccupata di non essere stata av-
visata in tempo, di non averci fatto il regalo e di non aver organizzato una festa con parenti e amici. Le ansie di una qualsiasi mamma italiana rispetto ad un matrimonio. Se ha avuto problemi o pensieri nell’accettare questa cosa, non me lo ha certo fatto sentire. Anche mio padre è stato apparentemente sereno, mi ha augurato di essere felice, non ha espresso nessun disappunto. Arnaud: ...persino mia nonna ha dimostrato di capire perfettamente la situazione. Quando siete in Francia vi sentite più a vostro agio, più riconosciuti come coppia, o non avvertite questa grossa differenza con l’Italia? Arnaud: no, per me non c’è nessuna differenza, io mi sento a mio agio comunque; tu Giacomo? Giacomo: anche io veramente non vedo grosse differenze nella sensibilità delle persone, gli italiani sono molto più avanti dei politici che li governano: siamo, con la Grecia, l’unico stato dell’Unione a non aver disciplinato in qualche modo le coppie di fatto, e soprattutto non sembriamo in procinto di farlo. Certo non è il problema più urgente in Italia, ma è comunque un tema di garanzia dei diritti che ci rende lontani dal mondo: che va avanti comunque e si evolve, che ci piaccia o no. In conclusione: Arnaud per la legge italiana è un francese celibe; per la legge francese è coniugato; vivendo qui però non ha nessun diritto nei confronti di Giacomo, né ovviamente nessun dovere; Giacomo per l’italia è celibe, non potrebbe chiedere la cittadinanza francese in virtù del Pacs ma, se vivessero in Francia, sarebbero un nucleo familiare con tutti i diritti e doveri che questo comporta. E anche lui sarebbe coniugato, ma solo per la Francia. Come garbuglio di status e norme non è male, speriamo che una normativa in grado di armonizzare i diritti riconosciuti nel resto d’Europa semplifichi la vita dei cittadini comunitari. Salutando Giacomo ed Arnaud, provo a caldeggiare l’inserimento nel registro delle Unioni del Comune di Genova: in ogni caso, è un documento ufficiale che attesta il vincolo affettivo che li unisce e la loro volontà di stare insieme. Volontà che, di questi tempi, qualunque istituzione dovrebbe proteggere ed incoraggiare (Ministro dell’Interno a parte). //
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Io e Giacomo pionieri? Nel 2014!? No, non direi proprio. Sono 15 anni che queste cose in Francia sono normali e sono cresciuto con la consapevolezza di avere queste possibilità davanti a me.”
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lettere dalla luna
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Let t e re dalla Luna I
mprudente e baldanzoso, non ho paura della noia. La affronto a viso aperto. Lei mi leva il respiro, si sostituisce alla gravità e mi schiaccia al suolo. L’ho provocata, ho vuotato il sacco sino a toccare il fondo e ho resistito all’impulso contrario (aspirare felice a pieni polmoni grandi boccate di ossigeno dalla canna del gas). Non aspettava altro, lei. Perché a forza di strisciare sul fondo alla fine trovi la via d’uscita e dopo la via d’uscita trovi la noia, la noia e l’immenso stellato. Eppure questo è solo l’inizio, sto incamerando, sto imparando a deflagrare senza l’aiuto della miccia. La parola d’ordine è resistere, a me sembra dannatamente intelligente resistere. Avvalersi del diritto al malessere cosciente ed acquisito, con anni di fatica, per mantenere fede ad un unico saldo principio: non lavoro per comprare, non compro per riempire, non voglio collaborare.
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SAN BENEDETTO, ORFANI DEL DON
il presente della comunità dopo la morte di don gallo
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FOCUS// san benedetto
di Simone D’Ambrosio
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ra l’8 dicembre 1970 quando don Federico Rebora accoglieva nella canonica di San Benedetto al Porto don Andrea Gallo, allontanato da pochi mesi dalla “sua” parrocchia del Carmine. La storia della Comunità iniziava così, 44 anni fa, con una Messa: è una storia fatta di accoglienze, di vita al fianco degli ultimi, di giorni vissuti nel territorio. Un territorio che si è allargato a macchia d’olio in città, nel basso Piemonte e persino nella Repubblica Dominicana. Parlare e soprattutto scrivere della Comunità di San Benedetto qui, a Genova, non è mai facile. Il rischio di cadere nella solita retorica o nel ricordo di un passato che – ahinoi – non c’è più, è sempre dietro l’angolo. Ma se la Comunità, anche con qualche inevitabile zoppicatura, è riuscita a sopravvivere oltre un anno e mezzo senza il suo punto di riferimento, significa che i tanti semi lanciati lungo il cammino da don Andrea Gallo hanno trovato terreno fertile.
LA COMUNITÀ OGGI
Nata dall’esigenza di accogliere i più reietti degli emarginati, ovvero i tossicodipendenti abbandonati nella strada da quella che allora era la nuova piaga dell’eroina, la Comunità apre ben presto le porte a chiunque bussasse in cerca di accoglienza. Quella che era una canonica diventa presto una casa. Il filo rosso era rappresentato dal lavoro: lavoro che operatori e accolti svolgevano fianco a fianco, nel tentativo di ridare dignità a chi l’aveva persa e, naturalmente, di autosostenersi dal punto di vista economico. Anche don Gallo nei primi anni
lavorava come fattorino. A metà degli anni ’90 arrivano i fondi pubblici e la collaborazione con Asl e Sert: la Comunità può così ampliare i propri orizzonti, le proprie strutture, dal ristorante alle cascine, dalla libreria al centro di recupero di scarti alimentari fino a diventare quella fucina di progettualità, come detto, sparse tra Genova, Alessandria e la Repubblica Dominicana. Ma che cos’è e che cosa fa oggi la Comunità di San Benedetto al Porto? Da questo siamo voluti partire nella nostra chiacchierata con Domenico Chionetti, noto a tutti come “Megu”, che della Comunità è lo storico portavoce. «Chi vuole conoscere la Comunità di San Benedetto deve passare un po’ di tempo con noi, vivere i nostri spazi, respirare i nostri luoghi». Non riesce a stilare una definizione a tavolino, il Megu. «Non siamo inquadrabili in qualcosa che possa essere valido per tutti. Non è retorica per fare un po’ gli splendidi: semplicemente non siamo definibili perché non siamo un ente specifico o specializzato
in una sola attività. Vero, lavoriamo di concerto con le Asl ma ognuno di noi è arrivato in Comunità per motivi differenti: io sono venuto per questioni di turbamento politico sociale, c’è chi arriva perché affidato dal carcere, chi ha problemi di dipendenza, chi vuole dare una mano, chi perché ha trovato lavoro come operatore e chi perché ha trovato la propria idea di Chiesa. Le motivazioni sono differenti». Un crogiuolo di anime che, per essere scoperto, va cercato. «È una sfida dura, abbiamo anche noi le nostre contraddizioni, non è che siamo il bene assoluto. Ma è esattamente questa la nostra natura: d’altronde, basta pensare a piazza Don Gallo, nel cuore del Ghetto. Non la trovi per caso, non puoi sbatterci dentro con indifferenza: per incontrarla, la devi cercare, ci arrivi perché lo vuoi tu».
L’AUTOGESTIONE COME METODO
Sembrerebbe impossibile tenere insieme, in armonia, tutte queste anime eppure… «la Comunità è un
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IL RAPPORTO CON LA CITTÀ
Ma non vi stanca il continuo paragone tra presente e passato, tra quello che era la Comunità con don Gallo e quello che è San Benedetto oggi? «Non è tanto questo che mi stanca quanto soprattutto il peso di non riuscire ad avere quella presa di voce che prima si aveva su tantissimi temi, dalla politica alla cristianità. Non riusciamo ad essere più quei catalizzatori di indignazione e di forte riflessione che il Gallo riusciva a concentrare su di sé. E credo che non sia una cosa che pesa solo sulle nostre spalle. Credo che quel senso di ebollizione che abbiamo vissuto al funerale di Andrea fosse proprio dovuto a questo, alla rabbia e alla paura che quella libertà, quella forza e caparbietà di opinione andassero disperse». Quindi ci stai dicendo che la Comunità ha perso quel suo ruolo di catalizzatrice di indignazione e che chi dice che non siete più quelli di una volta, non ha tutti i torti? «Lo spazio politico, di relazione, di confronto e di costruzione di per sé ci sarebbe sempre: il problema è che in questo momento non è vissuto dalle parti ed è molto doloroso vedere che non si riescono a cogliere le difficoltà. Mi sembra che ci sia sempre più una distanza maggiore tra la città di sopra e quella di sotto che, tra l’altro, si allarga sempre di più: la crisi fa calare la solidarietà perché se anche io sono con la pancia vuota certamente ho meno disponibilità ad avere at-
La cosa più complessa per noi, e forse quella che rischia di dare addito alle malelingue, è l’impossibilità di essere così inclusivi come lo eravamo quando c’era Andrea. La sua figura garantiva molta più relazione con il territorio...” il territorio: la vera sfida per noi è mantenere l’eredità sconfinata delle sue relazioni e questo vale più di qualsiasi struttura, qualsiasi progetto. Ed è molto difficile farlo con l’umanità che ogni giorno è sempre più sofferente e sempre più incazzata».
tenzioni per gli altri. Questo fa aumentare la divaricazione tra politica, settore pubblico e città di sotto». Eppure tra i maggiori rappresentanti di chi sta sopra c’è un certo Marco Doria per cui lo stesso don Gallo si era speso in prima persona, un ti-
cket che è servito solo in campagna elettorale? «Fare il sindaco oggi è il peggior lavoro che puoi fare in assoluto: il potere locale ha sempre meno forza e disponibilità di risorse ma è anche quello che suscita più aspettative da parte di chi lo vede come la prima interfaccia di risposta. Certo, non posso negare che ci aspettassimo qualcosa di più e che su certi argomenti, come la realizzazione delle grandi opere, la pensiamo in maniera radicalmente opposta al sindaco. Ma non credo che sia tutta colpa di Doria perché non credo alla politica dei singoli, dei fenomeni: non può essere colpa di una persona sola se la città si sta accartocciando su stessa. Anzi, al di là delle divergenze su alcuni temi, Doria è una persona molto onesta, svincolata dalla politica tradizionale, dalle appartenenze partitiche: non è certo uno che si muove in base ai poteri forti. Ma qui è tutto il sistema amministrativo comunale che non va». Un quadro piuttosto sconfortante. «C’è sempre più gente che sta male e ha sempre meno. Difficoltà che vanno ad affiancarsi a quelle di chi già da sempre non ha niente e, oggi, fa ancora più fatica ad avere qualcosa. Genova è una città sempre un po’ più meticcia che però non è ancora riuscita a trasformare in maniera positiva questa sua multiculturalità. E, anzi, sta rischiando di perdere la propria identità. Se io attraverso il centro storico di Napoli, respiro subito che cosa voglia dire essere napoletani. Qui, invece, abbiamo Carige sfondata con un futuro in mano a multinazionali straniere, le due squadre di calcio cittadine non appartenenti a genovesi, nessun imprenditore con rendite importanti in città, la cultura in crisi con il simbolo del Carlo Felice. D’altronde, l’emblema di tutto è la Concordia, la cui demolizione non nego che abbia creato indotto e posti di lavoro ma che ci ha portato a esultare per l’arrivo di uno scheletro, qui dove un tempo le navi le costruivamo. Tutti gli elementi di forza della città sono ormai in crisi di identità». //
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Non riusciamo ad essere più quei catalizzatori di indignazione e di riflessione che eravamo. Credo che quel senso di ebollizione al funerale di Andrea fosse proprio dovuto alla rabbia e alla paura che quella libertà, quella forza e caparbietà di opinione andassero disperse”
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luogo dove ci sono legami naturali, paritari, tra persone profondamente diverse tra loro: d’altronde questo è lo scopo dell’accoglienza. Al nostro interno non ci sono zizzanie, solo i normali problemi che possono derivare dall’autogestione. Ma questo esisteva anche quando c’era il Gallo, soprattutto negli ultimi anni: fino alla fine degli anni ’90 girava per tutte le strutture ed era presente a tutte le riunioni ma col passare del tempo, anche un po’ per la grande esplosione pubblica e mediatica che ha avuto, ha iniziato a smuovere le coscienze in giro per l’Italia. Ma le cose qui non potevano certo stare ferme: per questo il metodo è sempre stato quello dell’autogestione. Andrea non dava ordini: era un riferimento che noi cercavamo. Lui non dava direttive, non era un impositivo». L’autogestione, dunque, sembra essere lo strumento principale che ha aiutato la Comunità a sopravvivere al suo fondatore, unica via per dimostrare che don Gallo forse non aveva proprio tutti i torti nel portare avanti il suo messaggio. Quindi sono false quelle vocine che mettono un po’ in dubbio l’armonia all’interno della Comunità e la funzionalità della Comunità stessa dopo la scompare di don Gallo? «La cosa più complessa per noi, e forse quella che rischia di dare addito alle malelingue, è l’impossibilità di essere così inclusivi come lo eravamo quando c’era Andrea. La sola presenza del “Gallo” - se lo vedevi, lo ascoltavi, gli parlavi, lo toccavi - ti bastava per essere corrisposto e quasi incluso nella Comunità di San Benedetto. La sua figura garantiva molta più relazione con
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IL PARTITO DELLA POLIZIA intervista a Marco Preve
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marco preve
di Chiara Barbieri
È
di poche settimane fa la notizia dell’assoluzione degli imputati per la morte di Stefano Cucchi, deceduto a Roma durante la custodia cautelare il 22 ottobre del 2009. La fine di Stefano, così come quelle di Federico Aldrovandi, di Giuseppe Uva, di Michele Ferulli portano con sé tante domande a cui la giustizia in questi anni ha faticato a dare una risposta. Ed è partendo da questi interrogativi che abbiamo incontrato Marco Preve, giornalista di Repubblica e autore de “Il Partito della polizia” libro inchiesta pubblicato da Chiarelettere. Partendo dalle vicende della scuola Diaz e dai giorni convulsi del G8 genovese, Preve contestualizza l’operato della polizia inserendo i singoli fatti in un quadro più ampio. Il waterboarding e le torture subite negli anni ‘80 dai brigatisti collegati al sequestro Dozier; le false molotov della Diaz; i criteri nebulosi con cui la DIA scelse i suoi uomini di punta negli anni d’oro della lotta alla mafia; e infine le morti di Federico, Stefano, Giuseppe, Michele: episodi apparentemente lontani ma legati da un filo rosso che ci racconta una storia di impunità e omertà il cui protagonista indiscusso è il potere.
Tra le pagine del tuo libro ripercorriamo la genesi e lo sviluppo del “partito della polizia”, un gruppo di potere che negli ultimi decenni ha tenuto saldamente in mano la pubblica sicurezza del nostro paese. Quello che emerge è un mondo caratterizzato da omertà e logiche clientelari al pari della peggiore politica. Come è nata questa inchiesta? Nasce dalla mia esperienza di cronista relativa alle vicende del G8 del 2001. Nel libro parlo soprattutto dell’inchiesta giudiziaria e delle vicende politiche che l’hanno intrecciata. Credo che quanto accaduto nell’inchiesta Diaz sia stato un banco di prova unico per la democrazia in Italia. I vertici della polizia italiana, quelli per intenderci che hanno combattuto la mafia, sono stati accusati di aver falsificato prove e intralciato l’accertamento degli atti come i peggiori sbirri della cinematografia americana. Ancor più delle botte, la costruzione di false prove è il massimo tradimento per un poliziotto. E seguendo l’inchiesta ho anche potuto vedere il timore, e in alcuni casi il clima di complicità che esisteva tra molti politici di destra e sinistra con la polizia di De Gennaro. Alcuni dei personaggi principali di questo scenario li ho ritrovati in
altre vicende italiane spesso legate a periodi oscuri della nostra storia. E questo è uno dei fili che ho seguito nel libro: storie, nomi, politica, gestione di fondi, segreti inconfessabili che uniscono.
Nel 1985 a Palermo di fronte alla morte di Salvatore Marino, fermato per sospetta complicità nell’omicidio del commissario Beppe Montana, Oscar Luigi Scalfaro, allora Ministro dell’Interno, rimosse immediatamente i responsabili del fermo che vennero indagati per omicidio colposo e motivando la sua decisione disse “Un cittadino è entrato vivo in una stanza di polizia ed è uscito morto”. Perché la politica non riesce a fare sua questa fermezza e questa verità tanto elementare? La copertura della politica nei confronti della polizia non è cosa solo italiana. Ma quando si arriva ad un punto in cui la verità emerge dai fatti ancor prima che dai processi, nei paesi civili la politica si fa da
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parte. Da noi questo non avviene perché la polizia è permeata dalla politica, le è strettamente legata in un rapporto malsano, che non premia la meritocrazia ma l’appartenenza e i rapporti clientelari. Nel libro lo racconta bene il criminologo Carrer, collaboratore delle forze dell’ordine, e lo affermano gli stessi funzionari di polizia in un questionario scottante del 2007 a cui è stata data scarsa pubblicità dagli stessi committenti, l’Associazione Funzionari di polizia.
Prendiamo due casi diversi tra loro. La “macelleria messicana” della scuola Diaz e la morte di Federico Aldrovandi. Al di là della violenza ciò che è altrettanto inquietante è la dimestichezza delle forze dell’ordine con il falso e con l’inquinamento della verità. Un atteggiamento che sembra appartenere tanto alle alte sfere quanto alle figure più operative. È un problema di valori, di formazione, di metodo? Deve essere chiara una cosa: è il vertice che deve dare l’esempio. Torno ancora al caso Diaz. Che insegnamento possono trarre gli agenti di volante da un ministero, una politica un sistema che per anni ha premiato a livello di carriera i dirigenti indagati e già condannati per la Diaz? Che non sempre chi sbaglia paga. Comportamenti illeciti al vertice e alla base fanno comodo uno all’altro, consentono a entrambi di sopravvivere. Con che autorevolezza i vertici possono applicare la linea dura nei confronti della truppa se i funzionari coinvolti in quella vergognosa vicenda del caso Shalabayeva sono stati promossi? Ma ancor prima di loro in quella vicenda è stato salvato il ministro Alfano, e allora si torna a monte, alla
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Iniziamo con il dire che il disegno fino ad oggi proposto è assolutamente insoddisfacente perché tende ancora una volta a tutelare le forze dell’ordine. E la responsabilità di questo “ritardo” tutto italiano è di nuovo da imputarsi al rapporto malato tra politica e forze dell’ordine. La politica teme di mostrarsi “anti polizia”. È l’atteggiamento di democrazie insicure, sudamericane si sarebbe detto un tempo. Dimenticando che una legge sulla tortura servirebbe per primi ai poliziotti perbene. Penso comunque che la colpa principale di questo vuoto sia della sinistra. Nel libro parlo del “complesso dello sbirro”. Si è passati dal vecchio Pci che aveva un rapporto conflittuale con le forze dell’ordine a quello del Pds, Ds, Pd che pur di non mostrarsi estremista ha finito per superare a destra la vera destra, temendo che normali e democratiche critiche a comportamenti sbagliati possano essere fraintesi e scambiati per estremismi da vecchi comunisti. Uno dei principali interpreti di questa filosofia, e lo si è visto per il G8 di Genova, è sicuramente Luciano Violante.
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Poche settimane fa la sentenza di secondo grado ha assolto tutti gli imputati del caso Cucchi. Di fronte a questa decisione siamo tornati a parlare del disegno di legge sul reato di tortura. Considerando che anche l’Europa ci ha richiamati all’ordine sulla questione, perché l’Italia arriva così tardi a legiferare su un tema tanto importante?
Foto di Ares Ferrari
responsabilità della politica.
Nel tuo libro evidenzi come anche l’informazione abbia dimostrato in certi momenti quasi una reverenza nei confronti delle forze dell’ordine e in particolare di alcuni superpoliziotti. Quali responsabilità ha il mondo dei media di fronte all’arretratezza italiana su temi quali la tortura e gli abusi delle forze di polizia? I poliziotti sono fonti del giornalista. Fonti importanti. E più sono alti i livelli più l’importanza si moltiplica. Ci sono stati e ci sono rapporti tra stampa e polizia che ritengo siano dannosi all’informazione. Ne parlo in un capitolo dedicato in cui si fanno nomi e cognomi e si parla anche, con l’attenzione dovuta, dell’incapacità di valutare obiettivamente da parte di certa informazione gli eventuali errori commessi anche nella lotta alla mafia da certi metodi d’indagine.
Ad un certo punto nel tuo libro si parla del modello anglosassone. A valle della tua inchiesta, cosa risponderesti a chi dice che ogni paese ha la polizia che si merita? È proprio così e lo dice di nuovo il professor Carrer. In tutti i paesi occidentali mettere sotto accusa la polizia è complicato. Ma lo è perchè la politica non vuol portare sul banco degli imputati un’istituzione. Qui troppo spesso la difesa non è di un corpo ma dei singoli, degli amici degli amici, dei gruppi di riferimento di partiti e singoli politici. //
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vuoti urbani? riempiamoli! Almeno temporaneamente. Da una tesi di laurea in architettura, “Mind The Gap” è un’idea europea di sviluppo per la città Inchiesta di Simone D’Ambrosio
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VUOTI URBANI: “OCCUPAZIONI A TEMPO”
Il progetto “Recycle Genova” è iniziato due anni fa, ha l’obiettivo di studiare le aree dismesse o sottoutilizzate della nostra città e di ipotizzarne un riutilizzo temporaneo (foto di Daniele Orlandi)
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e trovi praticamente una in ogni quartiere. Quelle più note sono già state censite e magari qualcuno sa già che cosa farne nel futuro. Eppure, tutti i giorni ci passi davanti e non cambia mai niente. Stiamo parlando delle aree abbandonate, dismesse, sottoutilizzate. Quelle, cioè, che in una città post industriale come Genova pullulano in ogni quartiere. Come a pullulare sono
anche le proposte di cittadini, comitati, associazioni che vorrebbero occuparle, riqualificarle e restituirle all’uso pubblico. Magari anche temporaneamente, in attesa che la burocrazia delle grandi istituzioni muova qualche passo e qualche mattone verso un progetto di riutilizzo definitivo. Però (perché, quando le cose non vanno, c’è sempre un però) è proprio questo “temporaneamente” che sembra spaventare
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Genova sarebbe possibile pensare a un utilizzo temporaneo di spazi abbandonati? La risposta non può che essere positiva, come dimostra, ad esempio, il parziale smantellamento dell’ex Mercato di Corso Sardegna con il proposito di restituire una piazza ai cittadini della Bassa Val Bisagno. Questo il senso di “Mind the Gap”, lo studio condotto da due studentesse genovesi “guidate” dal professor Ricci. «Abbiamo fin qui catalogato 27 vuoti urbani genovesi – raccontano Laura e Benedetta - ma ovviamente non tutti sono risultati pronti all’uso e così versatili da poter essere riciclati temporaneamente. Tra i requisiti più efficaci abbiamo evidenziato l’accessibilità degli spazi, la proprietà pubblica che può agevolare i rapporti contrattuali tra le parti, la sicurezza dell’area, l’assenza di un progetto definitivo in atto o comunque la mancanza di conflitti tra questo e il riciclo temporaneo, la presenza di un comitato di cittadini disposto a prendersi cura dell’area con un progetto di riqualificazione realizzabile in tempi rapidi e in assoluta economia». La filosofia della ricerca predilige dunque interventi minimi, non strutturali, basati soprattutto sull’inserimento di arredo urbano facilmente removibile. Il concetto di temporaneo, in questi come in tutti i progetti, non implica obbligatoriamente una durata ristretta nel tempo, bensì un carattere di transitorietà. «Le ipotesi progettuali scelte per il momento a puro livello accademico variano a seconda delle necessità dell’area – spiegano le giovani urbaniste – ma in nessun caso vengono previste opere edilizie in modo tale che, come ci è stato spiegato dai tecnici del Comune, sia possibile ipotizzare la messa in opera del progetto temporaneo anche non in conformità con le destinazioni d’uso previste dal Puc. Tuttavia, l’inserimento nel Puc di norme ad hoc per interventi di riciclo potrebbe rendere tali interventi “conformi” e di conseguenza realizzabili con procedure rapide che non richiedano autorizzazione ma semplice comunicazione o SCIA (Segnalazione Certificata di Inizio Attività, ndr)».
TEORIA DELL’ABBANDONO
La tesi dei due neo architetti prende il via da un progetto di ricerca più complesso, intitolato “Recycle Genova” e iniziato due anni fa sotto il coordinamento del professor Ricci con l’obiettivo di individuare, mappare, dimensionare tutte le aree dismesse o sottoutilizzate della nostra città. La mappatura di que-
ste aree viene denominata “Genova Footprint”: un’impronta, o sarebbe meglio dire, un retaggio che i vecchi splendori industriali hanno lasciato alla città come un pesante fardello. «Recycle Genova – racconta Mosè Ricci - è la parte genovese di una grande ricerca che si chiama Recycle Italy realizzata da 11 Università italiane e 8 straniere sul tema della rivalorizzazione del patrimonio urbano architettonico e paesaggistico che non riusciamo a utilizzare e che stiamo abbandonando». Lo studio ha mosso i primi passi a partire dal 2012, grazie a una grande mostra ospitata al Maxxi di Roma. «In Italia – prosegue il docente – negli ultimi 15 anni abbiamo costruito circa 300 milioni di metri cubi/anno, pari a circa una città per un milione e mezzo di abitanti all’anno. È evidente che questo sistema poteva avere successo da un lato con il regime dei mutui, dall’altro con quello degli oneri di urbanizzazione che consentivano alle amministrazioni di offrire servizi ai cittadini in cambio di aree cedute ai privati. Ma con il crollo del mercato edilizio, a partire dal 2007 il sistema non è più stato in grado di reggere. Così, non solo abbiamo iniziato ad accumulare un enorme patrimonio inutilizzato derivante dalla dismissione di aree industriali ma abbiamo anche un sacco di strutture vuote di nuova costruzione». A tutto ciò vanno aggiunti gli spazi liberati da chi ha progressivamente abbandonato i centri storici molto meno funzionali dei nuovi centri cittadini e, anche, tutti gli spazi reali di socializzazione soppiantati da quelli virtuali.
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GENOVA “TEMPORANEA”
chi, nei palazzi, dovrebbe avere in realtà tutto l’interesse a far tornare alla luce spazi di città ormai quasi dimenticati. Una contraddizione molto italiana (con qualche rara eccezione che conferma la regola) e, ancor di più, molto genovese. Anche qui, colpa della burocrazia, sembrerebbe. O di quel grande immobilismo che imperversa da sempre nella Genova rivoluzionaria di cuore e pensiero ma estremamente conservatrice e timorosa nei fatti. Ed è proprio per capire quanto sia possibile restituire ai cittadini, nei fatti, spazi altrimenti destinati al degrado che, la scorsa estate, è nata una tesi di laurea magistrale in Architettura di Laura Nazzari e Benedetta Pignatti che, insieme con il loro relatore, il professor Mosè Ricci, si sono lanciate nello studio di alcune efficaci “Strategie di riciclo temporaneo di aree dismesse o sottoutilizzate nella città di Genova”. “Mind the Gap” è il titolo dello studio da cui partiamo anche noi in questo percorso per capire come questi grandi e piccoli vuoti urbani possano essere riempiti con un po’ di intraprendenza, tanta buona volontà e qualche (seppure minima) risorsa economica.
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INCHIESTA// «Questo enorme spazio di cui disponiamo – commenta Ricci – è dunque un lascito della crisi ma anche l’eredità di un sistema di lavoro, di produzione e di vita che è cambiato profondamente. Può essere un grande vantaggio perché potenzialmente offre opportunità infinite ma anche un grande rischio se questi spazi non vengono utilizzati, tenuti in vita o comunque riaccompagnati alla natura». Insomma, un’eredità di veri e propri vuoti urbani, aree, volumi e infrastrutture che hanno ormai perso la propria funzione originaria o che non portano più sviluppo ma che spesso coincidono ancora con i pochi spazi aperti disponibili e suggeriscono una riqualificazione tanto necessaria quanto rapida. Ecco, allora, che il riciclo diventa la soluzione più sostenibile e auspicabile per ottimizzare al massimo le potenzialità di aree ormai abbandonate. Riciclare, infatti, consente di ridurre gli sprechi, limitare la presenza di degrado e abbattere i costi di mantenimento: in altri termini, riciclare vuol dire creare un nuovo valore e un nuovo senso.
MAPPATURA DELL’ABBANDONO
Al momento, gli studenti della facoltà di stradone Sant’Agostino hanno individuato 27 aree, analizzate secondo alcune macro-categorie come popolazione, mobilità, servizi presenti nei municipi in cui questi spazi sono collocati per soffermarsi in maniera più approfondita sullo stato di progetto degli stessi. Un lavoro che vuole consegnare alla città, attraverso tesi, ricerche e studi di settore, una serie di dati che diano la possibilità all’amministrazione di trasformare il tutto in qualcosa di operativo per gestire il cambiamento, le trasformazioni. Insomma, una buona pratica di ricerca applicata alla città: esattamente quello che dovrebbe fare l’Università. «È molto importante che l’Università formi nuovi architetti in grado di affrontare il mondo e i suoi cambiamenti, non guardando più alle grandi costruzioni ma sapendo mettere mano all’esistente per trasformarlo» commenta il vicensindaco e assessore all’Urbanistica, Stefano Bernini. «Genova, purtroppo, è piena di spazi da riciclare che non devono più essere considerati vuoti urbani ma luoghi che offrono la possibilità di creare qualcosa di nuovo, compatibile con l’ambiente e in grado di variare l’offerta di servizi e opportu-
L’ex ospedale psichiatrico di Quarto è uno dei tanti vuoti urbani censiti da Mind the Gap per un’ipotesi di riutilizzo temporaneo degli spazi in disuso. Nella porzione rimasta di propietà di Asl 3 dovrebbe essere trasferita tutta l’attività sanitaria svolta presso la sede di via Bainsizza, realizzando la cosiddetta “Casa della Salute”.
nità per i cittadini». E, a proposito di vuoti, quelli analizzati dagli aspiranti urbanisti genovesi vanno dal milione e 300 mila metri quadrati delle aree ex ilva agli 800 metri quadrati del mercato di Cornigliano: in mezzo, tanti luoghi ed edifici abbandonati, di cui spesso ci è capito di parlare sulle pagine di Era Superba on e off line. Solo in un caso (e neanche troppo fortunato, ci permettiamo di commentare) esiste un vero e proprio progetto in fase di realizzazione: si tratta del Parco scientifico-tecnologico, o di quel che ne rimane, sulla collina degli Erzelli. Per altre aree esistono proposte di progetto giacenti nel nulla da anni, come Ponte Parodi o l’ex mercato di corso Sardegna. Ma, in molti casi, non c’è neppure un’idea precisa di come trasformare gli spazi per restituirli alla cittadinanza, solo qualche linea guida tracciata nella confusione di un Puc vigente e di uno in attesa di approvazione definitiva. Differenti sono le cause di questa lunga attesa: mancanza di fondi, interessi diversi fra le parti, burocrazia lenta e complessa, solo per citarne alcuni. «A Genova, le aree dismesse rap-
presentano il vero e proprio ventre della città – sostiene il professore – una sacca intrappolata tra le famose linee verde e blu del piano regolatore, dietro la costa e sotto la collina, la sacca delle dismissioni industriali. Un esempio? Il progetto del parco scientifico e tecnologico degli Erzelli prevede più di centomila metri quadrati utili costruiti su una collina distaccata dalla città. Ma, ai piedi della stessa collina, in zona adiacente all’aeroporto e attraversata da linee ferroviarie in dismissione, esiste un’area di 110 mila mq sostanzialmente abbandonata e molto più facilmente raggiungibile. Forse, si poteva guardare un po’ meglio agli spazi disponibili in città». Dai dati incamerati durante le ricerche è interessante notare come emerga che il 57% di questi territori da riqualificare possa essere considerato in fase di trasformazione: si tratta di oltre 2 milioni di metri quadrati in via di dismissione e per cui, nella maggior parte dei casi, il Puc prevede un significativo cambio di destinazione d’uso. Un altro 36% di questi spazi, pari a quasi 1,27 milioni di metri quadrati, è rappresentato da aree già completamente dismesse e in attesa che qualcuno dia loro
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SOLUZIONE DELL’ABBANDONO
una nuova vita. Solo un misero 7% è, invece, occupato da aree totalmente in uso, come la Sopraelevata, sulla cui utilità tuttavia si discute da anni. Proprio a causa della deriva post-industriale, la maggior parte di queste aree si concentra nei quartieri di Ponente della nostra città: il Municipio Medio Ponente vince per distacco con gli oltre 2 milioni di metri quadrati di aree “in attesa”, seguito dalla Valpolcevera (oltre 663 mila mq) e dal Centro Est (poco più di 300 mila); per il momento, invece, non sono state individuate aree “riciclabili” nei Municipi Levante (ad esclusione dell’ex manicomio di Quarto) e Medio Levante. Il 65% (2.317.505 mq circa) delle aree fin qui analizzate dai giovani aspiranti urbanisti è situato in zone industriali (da sottolineare che su questa quota incidono enormemente le aree ex-Ilva che da sole coprono 1.300.000 mq circa), il 13% in aree vuote, il restante 22% equamente diviso tra aree dedicate a servizi e infrastrutture. Alcune aree sono dismesse addirittura da 55 anni e tuttora non hanno un progetto di riqualificazione, come le ex fonderie Bruzzo e l’area petrolifera di Multedo o il Parco Forni fer-
«Il nostro obiettivo – proseguono nel loro racconto Benedetta e Laura – era quello di trovare una chiave per riutilizzare queste aree di cui si discute molto, ma che comunque sono ancora in attesa di un intervento, azione, progetto che conferisca loro un nuovo significato. Solo alcune attualmente possono essere considerate “pronte all’uso”, ossia predisposte a una nuova ipotesi progettuale da realizzarsi nell’immediato con il minor dispendio di tempo, risorse economiche e progettuali». Per passare dalla linea teorica a quella pratica, tuttavia, è necessario che le amministrazioni si dotino di nuovi strumenti urbanistici in grado di cogliere il fermento propositivo delle associazioni e dei cittadini che vogliono sempre più essere protagonisti di questi cambiamenti. «Non possiamo più aspettare – spiega il professor Ricci – che venga eletto un nuovo sindaco, che l’iter burocratico di un nuovo piano regolatore attraversi due cicli amministrativi prima di diventare operativo, che una volta diventato operativo ci si debba mettere alla ricerca di fondi europei e privati per la realizzazione delle opere perché quando giungiamo alla possibilità di partire con i lavori, spesso il progetto è diventato obsoleto e le necessità a cui avrebbe risposto sono state superate.
Dobbiamo smontare, cioè, quella processualità dei piani urbanistici costruiti secondo un sistema di scatole cinesi che devono essere tutte aperte prima di arrivare al nocciolo: cerchiamo di creare una strada che ci consenta di fare qualcosa subito, che permetta ai cittadini di attivarsi e proporre funzioni autogestite e autogovernate che sfruttino il bene in maniera anche solo temporanea nell’attesa della realizzazione di un eventuale progetto più ambizioso». «Certamente - commenta il vicesindaco Bernini - il riciclo temporaneo degli spazi è un obiettivo molto nobile e uno degli strumenti più significativi per riqualificare la città tanto che quando ero presidente di Municipio ho cercato di rispondere sempre positivamente a questo tipo di richieste, ma non si tratta di un percorso facile da gestire». La soluzione arriva guardando all’Europa, in particolare a Paesi Bassi e Germania, e si chiama riciclo temporaneo. «Il concetto di “recycle” – chiarisce il docente – è un po’ diverso da quello di riuso o restauro. Con il restauro il nostro obiettivo è quello di riconoscere un valore in un oggetto deteriorato e potenziarlo facendo tornare a splendere lo stesso bene. Con il riciclo invece, esattamente come succede con i rifiuti quando cerchiamo di dare il via a un nuovo ciclo vitale cambiando il senso dello scarto, cerchiamo di trasformare uno spazio, una struttura in qualcosa di altro rispetto alla sua funzione originaria: ad esempio, da una fabbrica creiamo dei condomini, come successo con Soho a New York». Per poter mettere in pratica questi principi il professor Ricci sostiene che sia necessario smontare alcuni paradigmi dei regolamenti urbanistici moderni: «Sto parlando del divieto di cambio di destinazione d’uso, il divieto di frazionamento o di aumento della superfice utile interna, fatti salvi i vincoli monumentali e statico-strutturali. Insomma, per cominciare a riciclare la città senza più consumare suolo e costruire nuovi edifici dobbiamo imparare a far belli gli edifici che già esistono ma
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roviario; altre, come la Mira Lanza, la Caserma Gavoglio e il Campasso sono in attesa di un cantiere (fantasma) da una decina d’anni. «Il Puc vigente – ci raccontano le due neo laureate – che nella maggior parte dei casi tratta queste aree come “distretti di trasformazione”, delinea diverse destinazioni d’uso e obiettivi che, tuttavia, spesso abbiamo riscontrato essere in contrasto con le vere necessità degli abitanti. Ne è una prova il caso della Valletta Carbonara di San Nicola, per la quale la cittadinanza è riuscita ad ottenere una variazione della destinazione d’uso, da area cementificata destinata a parcheggi, a spazio di verde pubblico e di aggregazione».
vuoti urbani
A Genova le aree dismesse sono il vero e proprio ventre della città, una sacca intrappolata tra le famose linee verde e blu del piano regolatore. Dietro la costa e sotto la collina, la sacca delle dismissioni industriali”
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dobbiamo anche essere più liberi di frazionare, dividere, soppalcare, trasformare la loro destinazione». Un concetto, tra l’altro, che ben si sposerebbe con le linee guida del nuovo Piano urbanistico del Comune di Genova che ha fatto dello slogan “costruire sul costruito” un mantra assoluto e che, a livello quantomeno logico-teorico, dovrebbe sostanzialmente comportare un deciso stop alla cementificazione scriteriata. Il riciclo temporaneo, insomma, si inserisce nel ciclo di vita del bene tra una precedente destinazione d’uso e quella futura, anticipando le lungaggini per la realizzazione del nuovo utilizzo permanente dello spazio stesso: si tratta di una pratica interstiziale con l’unico intento di voler azzerare i tempi di dismissione dello spazio ed evitarne un uso scorretto o il lento degrado. «Questi utilizzi temporanei – dice il responsabile di Recycle Italy - sono strumenti urbanistici importantissimi e come tali devono essere riconosciuti. Se li guardiamo con l’occhio dell’economia tradizionale, non potremmo mai trovare la quadra del cerchio: dobbiamo cambiare prospettiva. Pensiamo, ad esempio, ai tetti del Queens pieni di orti urbani o alle aree ex industriali occupate a Detroit e Chicago dai contadini: non salveremo l’economia mondiale ma potremo dire che dieci, cento o mille famiglie che hanno difficoltà economiche, grazie agli orti urbani riescono a campare». Ad Amsterdam dal 2000 è stato istituito un vero e proprio ufficio comunale per il riciclo temporaneo che si occupa della gestione delle pratiche e del sostegno finanziario per la realizzazione di questi progetti. E l’Italia? «Beh, ad esempio, a Roma ci sono alcune aree lungo il parco del fiume Aniene iper vincolate ma occupate illegalmente da alcuni vecchietti della zona che le hanno trasformate nei propri orti, favoriti anche dalla direzione stessa del parco perché l’uso temporaneo è una forma di controllo e presidio di spazi che il Comune non avrebbe le forze di gestire». Oltre a Roma, c’è anche e soprattutto Milano dove l’associazione “Temporiuso”, un gruppo di ricerca-azione che per primo ha affrontato nel nostro Paese il tema del riciclo temporaneo, sta cercando di mettere in pratica il suo credo. “Temporiuso”, infatti, si propone di avviare progetti che utilizzano il
patrimonio edilizio esistente e gli spazi aperti vuoti, in abbandono o sottoutilizzati di proprietà pubblica o privata, per riattivarli con progetti legati al mondo della cultura ed associazionismo, alle start-up dell’artigianato e piccola impresa, dell’accoglienza temporanea per studenti e turismo low cost, con contratti ad uso temporaneo a canone calmierato, facendo da intermediario tra il Comune e i cittadini. E chissà che dall’arancione dell’amministrazione Pisapia non si possa cogliere qualche spunto prezioso per un altro arancione, quello della Giunta Doria. Ma che cosa manca per rendere questo processo sistematico? La legislazione italiana, con buona compagnia di molti altri paesi continentali, accusa la mancanza di una regolamentazione giuridica sul tema del temporaneo. È quindi possibile solo ipotizzare quali potrebbero essere gli strumenti legali utilizzati e le procedure necessarie per l’attuazione di un siffatto progetto di riciclo in Italia: nel frattempo, non resta che affidarsi all’estro delle singole iniziative locali. «Manca soprattutto l’idea, la cultura di tutto questo – commenta Mosè Ricci - perché il Ministro Lupi, ad esempio, sostiene che per riprenderci dobbiamo fare le grandi infrastrutture ma non dice, invece, che quelle che abbiamo realizzato e che stiamo pagando giacciono sostanzialmente inutilizzate. Poi, bisogna cambiare alcuni paradigmi dell’epoca moderna: un vincolo molto forte è rappresentato dai regimi di proprietà; nelle aree pubbliche il problema è minore ma dobbiamo spingere anche i privati ad aprirsi al riciclo temporaneo». Questo cambiamento deve passare in prima linea dalla volontà dei cittadini comuni: «Dobbiamo fare entrare questo concetto nello stile di vita degli abitanti e nel modo di fare delle amministrazioni. Non si può più andare avanti con i grandi progetti autoriali: se arriva la grande archistar e fa un segno con la matita, non possiamo pensare che questo tratto migliori la vita di chi ne è investito. Anche i grandi progetti devono essere condivisi, per cui l’uso temporaneo, il riciclo devono portare avanti un nuovo tipo di urbanistica, con nuovi attori: non c’è più solo l’amministrazione che decide che cosa costruire ma se i cittadini hanno un’idea intelligente, fattibile e a costi sostenibili devono poter essere essi stessi protagonisti
Ecco le 27 aree mappate. Si parte da Multedo, poi Erzelli, Cornigliano (ex mercato, aree ex Ilva, S. G. D’Acri e Parco Forni), Campasso, Certosa, ex Colisa, Fegino, Teglia (ex Mira Lanza), Trasta, Bolzaneto (ex Bruzzo), Sampierdarena (rimessa Amt e Degola/Pacinotti), Di Negro (waterfront), Lagaccio (Gavoglio), Castelletto (Ist. Brignole e Valletta San Nicola), Foce (waterfront), Staglieno (piastra Ge Est), ex Mercato Cso Sardegna, Terralba e ex manicomio Quarto. Immagine di Nazzari&Pignatti
del cambiamento». Per capire meglio di che cosa abbiamo parlato fin qui, ecco un breve riassunto, da ponente a levante, dei quattro casi particolari presi in esame nella ricerca. «Dopo aver catalogato e studiato una serie di progetti temporanei realizzati in tutto il mondo - raccontano Benedetta e Laura - abbiamo provato a sperimentare a tavolino questa tecnica su quattro aree cittadine, proponendo altrettante ipotesi progettuali in grado di riattivare le aree e riconnetterle al tessuto urbano circostante».
EX MERCATO CORNIGLIANO
Si tratta di una struttura di circa 800 mq in piazza Monteverdi, costruita all’inizio degli anni ‘50 e chiusa nel 2011 a causa della crisi economica. Una rete di associazioni cittadine si sta da tempo muovendo per rilevare l’area per cambiarne la destinazione nel tentativo di trasformare il mercato in un nuovo luogo di aggregazione, con tanto di bar e ludoteca. Tanti i soggetti interessati tra cui il Circolo dei Lucani, il neonato civ e la Pro Loco. Attraverso una pulizia straordinaria degli spazi coperti e senza nessun intervento sulla struttura (la copertura del mercato è vincolata dalla Sovrintendenza), il progetto di Mind the Gap prevede l’apertura del mercato in tempi rapidissimi pun-
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tando sugli eventi culturali e sull’iniziativa giovanile, offrendo gli spazi a start-up, laboratori e spazi espositivi che potrebbero occupare la zona per i prossimi cinque anni.
CAMPASSO
Un’area enorme di oltre 123 mila mq costruita come parco mezzi delle Ferrovie dello Stato nel 1901 e oggi in buona parte dismessa. Nonostante il Puc vigente preveda per una parte dell’area una destinazione residenziale, RFI ha previsto spazi funzionali ai cantieri del Terzo Valico. Il cantiere, però, è in stallo assoluto e secondo l’Ufficio tecnico di RFI, proprietaria dell’area, non avrà inizio prima di un paio d’anni. Ecco allora che una piccola porzione (poco meno di 11500 mq) di questo ingente vuoto, già libera dai binari, potrebbe essere adibita a parco urbano con un percorso pedonale e ciclabile adiacente alla stretta via del Campasso, semplicemente attraverso una profonda pulizia dell’area e l’introduzione di arredi removibili.
CASERMA GAVOGLIO
È sicuramente l’area più nota delle quattro prese in analisi dallo studio dato che è già stata aperta al pubblico in un paio di occasioni allo scopo proprio di sensibilizzare la cittadinanza per un nuovo utilizzo dell’ex caserma che si estende
per oltre 50 mila mq. L’ipotesi progettuale di riciclo temporaneo non fa altro che sposare le iniziative già sperimentate dal comitato “Voglio la Gavoglio” con l’apertura nei giorni festivi, per non intralciare le eventuali operazioni della Marina che occupa ancora parzialmente alcuni edifici, del piazzale interno (1640 mq) già di proprietà del Comune – la restante area è attualmente di proprietà demaniale ma presto passerà anch’essa nella disponibilità di Tursi – ad attività culturali e di socializzazione come pranzi comunitari, cine-
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mila metri quadrati alle spalle dell’Albergo dei Poveri e sotto la collina di San Nicola che hanno ospitato per decenni le serre comunali. Nel 1984 iniziò una lenta dismissione che ha progressivamente lasciato l’area al degrado fatto salvo per alcuni spazi utilizzati da Aster. Nella speranza che il Comune possa definitivamente dirimere la questione con i proprietari dell’Istituto Brignole (e qualche novità dal momento in cui siamo andati in stampa a quello in cui state leggendo l’articolo potrebbe esserci stata e, di conseguenza,
Dopo aver studiato una serie di progetti temporanei realizzati in tutto il mondo, abbiamo provato a sperimentare a tavolino questa tecnica su quattro aree cittadine, proponendo ipotesi progettuali in grado di riattivare le aree e riconnetterle al tessuto urbano.” ma all’aperto, spettacoli per tutte le fasce d’età.
VALLETTA SAN NICOLA
Anche in questo caso il progetto di riciclo temporaneo ricalca le proposte avanzate dai cittadini attraverso il Comitato “Le Serre” che dal 2013 sta cercando di ottenere l’area per trasformarla in un polmone verde di aggregazione grazie anche al sostegno del Municipio I – Centro Est. Stiamo parlando di poco più di 25
debitamente raccontata sulle pagine online di Era Superba), il progetto di riciclo temporaneo è previsto per la durata di un solo anno e riguarda 5500 mq poiché le fasce alte, dove sono collocate le ex-serre comunali, necessiterebbero di una riqualificazione più approfondita. L’ipotesi è quella di realizzare uno spazio verde attrezzato per la creazione di orti urbani comunitari e didattici, affiancati da laboratori a sfondo ecologico e spazi di aggregazione. //
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L’uomo con la valigia
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a cura di Diego ARBORE
BERLINO
a Sprea scorreva torbida come il suo passato, mossa da un vento fresco di fine estate, rifletteva i bagliori di un pigro sole settembrino, tuttavia Berlino aveva il solito sguardo severo e austero. Ascoltavo “People are strange” dei Doors seduto sulle rive del fiume mangiando una pizza acquistata in un forno gestito da un marocchino trapiantato in Germania, parlava con un buffo accento partenopeo e fumava continuamente tra un’infornata e l’altra. La sua pasta morbida e alta profumava di pomodoro fresco e basilico, la mozzarella filante e l’olio d’oliva completavano l’opera, una delle pizze più buone mai mangiate in vita mia. Gli ho chiesto alcune indicazioni stradali ma non conosceva altro che la strada dal suo modesto appartamento al lavoro, il resto non gli interessava, con il ricavato della sua attività ritornerà prima o poi a vivere in Marocco con i figli per costruire una fattoria e coltivare i campi. La mattina, nel famosissimo zoo, guardando l’orso Knut che si annoiava nel suo spazio, uno sbuffo di vento ha trasportato fin sotto i miei piedi il volantino di una mostra fotografica privata esposta all’interno di una vecchia casa. Il figlio del fotografo aveva ritrovato alcuni scatti risalenti alla seconda guerra mondiale, ritraevano famiglie ebree e scene di deportazione. La mostra si trovava a Charlottenburg, quartiere elegante, un tempo piccolo centro abitato unificato in seguito alla grande Berlino; non ho perso tempo e sono salito sulla monorotaia che oltre alla comodità offre una splendida vista sopraelevata della città. Sceso ad Alexanderplatz, la principale piazza del centro, mi sono diretto nella bellissima stazione della metro. Camminare per Berlino è come immergersi dentro le pagine di un libro di storia o un film del dopoguerra, in ogni angolo si celebra la caduta del muro o si ricorda la triste vicenda dell’olocausto. Giunto a Charlottenburg sono entrato in una birreria per chiedere informazioni sull’indirizzo da raggiungere, il barman mi ha messo davanti una birra senza chiedere nulla, ho pagato due euro per il disturbo e sono uscito. Giunto al cospetto della vecchia casa non ho trovato nessuno, il cancello era semiaperto, sono entrato lentamente... Una costruzione molto datata, aveva il profilo di una chiesa sconsacrata e le sue pareti grigiastre erano inquietanti. Un cigolio sinistro e una voce profonda dietro le spalle mi hanno fatto balzare in aria -Guten Abden!- non vedevo nessuno dietro di me, avrei voluto scappare! Qualcuno stava ondeggiando nella penombra, il passo felpato lasciava intatto quel silenzio ovattato, poi il click dell’interruttore della luce e da un lato della stanza è apparso un nano. Era Jimi il custode, sorriso simpatico, quasi compiaciuto per il mio spavento. Mi ha accompagnato fra foto e oggetti d’epoca, vestiti e cimeli... e poi si è chiuso nell’armadio. Che fosse un tipo strano lo avevo intuito, ma non fino a quei punti. L’ho visto infilarsi nell’armadio e subito dopo ho pensato “cosa ci faccio da solo in una vecchia casa con un nano dentro un armadio?”. La sua voce riecheggiava nella stanza, mi stava chiedendo di aprire l’anta e di farlo uscire. Incredulo ho impugnato il pomello e ho aperto in maniera decisa, ma dentro c’era solo una vecchia giacca sgualcita... Jimi era passato dall’altra parte, il passaggio segreto nascondeva una piccola mansarda, arredata con quattro materassi e un tavolino di legno, nulla era stato rimosso dal giorno in cui la famiglia venne scoperta e deportata. Una sensazione di angoscia mi ha pervaso l’anima, dopo aver visto le ultime fotografie ho salutato Jimi e sono uscito nel buio della sera. La luna mi teneva compagnia lungo i viali di Berlino, mentre scalciavo le foglie gialle che cadevano dagli alberi. //
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dell’impercepibile
IDROMICIDI PREMEDITATI
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lla parola “acqua” fino a qualche decennio fa si associava una liquida sostanza, limpida e dissetante, con cui estinguere la sete. Ma ora alla voce acqua la mente accosta subito l’evocazione degli scatenati flussi di un liquido fangoso che abbatte tutto quello che restringe od impedisce il suo trascinante percorso verso il traguardo del naturale sbocco in laghi e mari. I fiumi ci sono da sempre, i mari e i monti anche, laghi, valli e boschi pure, natura, atmosfera e clima da tempo immemorabile. Nei secoli scorsi quello che mancava e che ora c’è è l’accumulo di cupidigia di coloro che per il proprio privilegiato profitto possono utilizzare un potere indebitamente disposto a tutto, anche a far trappole mortali per persone innocenti. E non sono i più noti rappresentanti di un’unica categoria imperante: della banda fan parte, in diversa proporzione, i peggiori esemplari umani composti innanzitutto da costruttori edili e stradali, seguiti dagli immancabili amministratori politici, costellati qua e là da disinvolti istituti finanziari, inquinatori compulsivi e geologi compiacenti. E come si agisce, incurante dei rischi di annientare persone, abitazioni ed attività? Beh, magari una grossa azienda mette gli occhi sopra una consistente fetta di crosta terrestre da cementificare, si fa prefinanziare da chi sa di andare sul sicuro e detta le regole di una gara che viene regolarmente vinta da chi ha offerto la tangente maggiore, ci si procurano infine attestati di sicurezza tranquillizzanti e via! Si può a questo punto anche invadere, ricoprire o deviare l’eventuale corso d’acqua che “intralcia” la costruzione. E quando succede il disastro lo si chiama calamità “naturale” anziché provocata, si fà il fatalistico titolo di “eccezionali acquazzoni” e se ci sono istanze di danni non c’è da temere: ci penseranno pastoie burocratiche, ricorsi e condoni a mandarle in prescrizione, la tomba dei reati. Altre volte si crea l’appalto per un agglome-
a cura di Gigi PICETTI
rato residenziale definito necessario mentre esistono migliaia di abitazioni sfitte, oppure si promuove la Grande Opera di una Superlinea inutile che però è trafficata dall’invisibile diffusione di pulviscolo amiantifero... tanto le conseguenti malattie invalidanti colpiscono nel tempo chi ci abita e ci lavora stabilmente, come sta ancora succedendo in migliaia di casi a Casale Monferrato, per responsabilità dell’Eternit, i cui reati sono stati di recente prescritti dalla Cassazione. A questa associazione a delinquere si uniscono poi indiretti complici: sono i tanti inquinatori ambientali come le raffinerie di petrolio e le centrali elettriche a carbone (quando non nucleari...) che liberano al cielo soprattutto CO2, il velenoso biossido di carbonio, potenziato da anidride solforosa e metalli pesanti. E tutto va a finire in quell’atmosfera che ha smesso di proteggere la Terra. Ora va ad impedire la fuoriuscita dei caldi raggi infrarossi del sole, coibentando il riscaldamento del pianeta fatto passare come spontaneo. Detto questo è inutile domandarsi perché non si sgombrino anzitutto i percorsi dei fiumi, anziché le case occupate da coloro che sono stati ridotti al bisogno. E noi, noi come ci comportiamo in tutta questa situazione nociva? Nel modo che più li tranquillizza: con lamentosi mugugni che non scalfiscono minimamente il loro agire. Non c’è problema se vanno a votare meno della metà degli aventi diritto, tanto il potere che una volta si conquistava catturando il consenso popolare, ora si afferma pressoché indisturbato attraverso il disinteresse indotto. Pio Baldelli nel suo testo “Informazione e Controinformazione” avverte che se ci si limita alla denuncia si fa solo del terrorismo ideologico, perché accanto alla denuncia va anche proposta la possibilre alternativa. Bisogna allora smettere di essere un popolo di tanti sovrani che abdicano perché è meno impegnativo fare i sudditi passivi. O vogliamo continuare così? Speranzosi saluti. //
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Il peso dell’impercepibile
Il peso
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quando navighi, occhio alla bolla!
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di Claudia Dani
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ai avuto l’impressione che, appena pubblicata una foto del vostro weekend fuori città, pare che tutti i vostri contatti di Facebook siano stati lì o abbiano fatto qualcosa di molto simile a voi? Allo stesso modo non vi pare che non sappiate più nulla di qualche amico che aveva idee un po’ lontane dalle vostre? I risultati di Google vi sembrano più che azzeccati nell’ultimo periodo? Niente panico, è tutta colpa della “bolla”, una sorta di mondo su misura che avvolge quasi perfettamente tutti noi quando navighiamo online. Lì troveremo solo cose che ci piacciono o che pensiamo di voler cercare. Un mondo fantastico? Non proprio. Ne abbiamo parlato con Claudia Vago, ligure, vive a Chiavari, social media curator, esperta del web e già nota su twitter come @tigella; ci siamo fatti aiutare dal saggio pubblicato con il titolo “Il filtro” (thefilterbubble.com) di Eli Pariser, attivista ed esperto di web statunitense. Pariser scrive “il clic su un risultato di una ricerca costruisce un indizio della nostra personalità; i termini che cerchiamo rivelano i nostri interessi. Esiste un mercato dei comportamenti, ogni clic è merce e ogni movimento del mouse può essere venduto al miglior offerente...”. Da qui parte la sua definizione di Filter Bubble, in altre parole l’effetto che creano intorno a noi i servizi online che usiamo, come i social media (facebook, twitter, google+...). «Tutte queste aziende, che hanno bisogno di fare soldi, raggiungono i loro obiettivi offrendo servizi sempre più rispondenti alle nostre esigenze - ci spiega Claudia Vago - e quindi tendono a raccogliere su di noi sempre più informazioni in
modo da darci ogni volta la risposta che cerchiamo, che si tratti di consiglio di acquisto, del risultato di ricerca sponsorizzato che più si avvicina al nostro interesse o di un libro su Amazon». Il meccanismo è “semplice” e si basa sulle azioni che facciamo ogni volta che siamo in rete: quando aggiorniamo il nostro stato social, postiamo un tweet, cerchiamo una ricetta di cucina, acquistiamo un volo o prenotiamo un hotel, c’è “qualcuno” che raccoglie da queste azioni informazioni che contribuiranno a creare intorno a noi la bolla più adatta. In modo ancor più semplice: se siamo su Amazon e girovaghiamo fra i titoli, sarà esso stesso a segnarsi quali copertine abbiamo ingrandito, quali recensioni abbiamo letto e ovviamente quale libro abbiamo comprato per poi mandarci via email i prossimi consigli per gli acquisti. E state tranquilli che se cercavate un libro di ricette ora anche gli annunci sul vostro newsfeed di Facebook saranno ricette di cucina, così come gli annunci pubblicitari di qualsiasi sito visiterete.
«Tutte queste operazioni messe in campo dalle piattaforme web – continua Vago - sono dei veri e propri filtri; le informazioni che la rete contiene sono infinite, si parla di information overload, quindi queste piattaforme tendono a volerci orientare in questo sovraccarico di informazioni utilizzando filtri basati su algoritmi, che creano intorno a noi una sorta di bolla nella quale noi ci muoviamo convinti di stare osservando il mondo intero quando invece ne stiamo osservando solo una piccola parte». Una porzione che ci é stata cucita addosso. Tendiamo a vedere sempre più cose che ci assomigliano, a circondarci di persone che la pensano come noi, «ed è qui che arrivano i pericoli: ogni giorno vediamo sempre più rafforzate le nostre opinioni e le nostre credenze perché quello che ci circonda sembra essere sempre sulla stessa lunghezza d’onda. Questo a me spaventa, perché noi consideriamo il web come il luogo nel quale chiunque può esprimere e allo stesso tempo venire a contatto con qualsiasi opinione, poi nei fatti quello che suc-
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cede è che veniamo a contatto solo con le cose che chi gestisce i servizi che usiamo vuole farci vedere». Non rendersi conto, soprattutto sui social network, che il mondo che abbiamo davanti e che viviamo è soltanto una porzione ben selezionata, porta ad una visione ovviamente sbagliata e ci porta a fare valutazioni non corrette. «L’errore è pensare che il mondo virtuale si riduca a ciò che scorre sulla timeline di twitter o facebook, in realtà quello è l’interesse della tua cerchia». Prendere coscienza del fatto che viviamo in una serie di bolle confezionate ad hoc è sicuramente il primo passo per uscirne. Il secondo è approfondire il funzionamento di algoritmi e cookie, non nel dettaglio, ma quanto basta per avere un’idea di quali sono le loro caratteristiche e come funzionano. I cookie sono le traccie (stringhe di testo) che vengono inviate da un server ogni volta che vi accediamo, ogni volta che visitiamo una pagina web o una piattaforma social. Gli algoritmi raccolgono una serie di dati rispetto alle nostre ricerche o ai nostri mi piace ecc.. In entrambi i casi i dati raccolti serviranno (una volta venduti) a creare le bolle intorno a noi. Lo stesso Facebook ce lo dice: “Le notizie che vengono mostrate nella tua sezione Notizie sono determinate dalle tue connessioni e attività su Facebook”. Quindi, che cosa fare? Spingerci ogni volta che navighiamo al di là della bolla significa ad esempio cercare informazioni su account twitter che non seguiamo, oppure per quanto riguarda gli hashtag scorrere sempre oltre quelli propo-
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ragazzi all’utilizzo consapevole del web... Anche partendo dall’abc, perché ancora oggi molte persone sono convinte ad esempio che avere un nickname voglia dire essere anonimi. Il fatto è che questi strumenti fanno parte del nostro quotidiano ma non ne sappiamo assolutamente nulla. É un problema in tutti i campi, un po’ come avere un’auto e non sapere dove mettere le mani in caso di guasto... Così sul web, andando avanti di questo passo dovremo sempre dipendere da altri». Siamo tutti i giorni sui social
Consideriamo il web come il luogo dove chiunque può esprimersi liberamente e venire a contatto con qualsiasi opinione. Accade, invece, che veniamo a contatto solo con ciò che chi gestische i servizi che usiamo vuole farci vedere...” sti e infine “armarsi” di browser che permettano di essere anonimi. É ovvio che non spetti alle stesse aziende spiegare nel dettaglio le dinamiche del loro operare finché queste rimangono nei confini, seppur sottili, della legalità. «Arriverà il momento in cui sarà compito della famiglia e delle scuole formare i
network ma non ne conosciamo i meccanismi, questa è la piaga in cui Claudia mette il dito. Non per forza dobbiamo avere conoscenza di ogni dettaglio tecnico, ma è importante conoscerne nello specifico le funzioni, come sono stati pensati e perché. Questo bagaglio di informazioni ci aiuterà a muoverci
con maggiore furbizia e cognizione di causa, ci aiuterà a selezionare e capire, prima di scegliere o commentare e ci permetterà, soprattutto, di essere “usati” il meno possibile dallo strumento che abbiamo in mano. «Ho l’impressione che meno ci interessiamo allo strumento e più aumenta il rischio di diventare noi stessi strumenti» conclude @Tigella. Arrivati a questo punto forse a qualcuno potrebbe venire da chiedersi: siamo vittime di cospirazioni? Concordiamo con Claudia Vago nel dire che si tratta di grandi aziende, quasi tutte quotate in borsa, il cui scopo è fare soldi. Stop. Usando i loro strumenti gli permettiamo di fare soldi, il loro interesse è sicuramente offrirci un’esperienza online sempre migliore in modo da non abbandonarli per un altro servizio e continuare a permetter loro di vendere a caro prezzo i loro spazi pubblicitari e/o i nostri dati. Non si può ovviamente parlare di cospirazione, ma senza dubbio è molto pericoloso non avere la giusta consapevolezza, perché rischiamo di appiattire sempre di più le nostre coscienze, la nostra capacità di analisi e di confronto. Per cui cospirazione no, ma problema culturale sì. //
RUBRICA//
Una storia Una foto ASPETTANDO UN EROE. (Monologo di una donna coraggiosa: dedicato agli eroi della vita)
Un urlo. Poi una specie di pianto. Questo vorrei sentire, ora. Non il mio, io non piango. Di certo non per questo. Però lo vorrei sentire, ora. In questo preciso momento. Come una specie d’istinto omicida che mi sale dalla punta dei piedi… niente di grave in fondo… lo sento arrivare sopra le unghie che oggi non hanno lo smalto. Niente di pericoloso, succede a tutti. Delle volte capita. Oggi è successo a me. Ho un bisogno: prendere questo mondo e scuoterlo. Prenderlo con due mani, come un pallone… e scuoterlo. Forte! Rovesciare il mondo, rovesciare la terra e tutti giù per terra. Quasi tutti giù per terra. Giù per terra il nero, lo sporco, il male, i disonesti, i perfidi, i falsi, i falsari, i falsi in bilancio, le bilance, le bestemmie, gli infami e tutti gli approfittatori che cambiano le carte in tavola senza neanche invitarti a quella tavola. Vorrei puntare il dito contro ognuno di loro e dire “Spiegami”! E sarebbe bello sentirsi almeno rispondere “Scusa”. Tutti quelli che senza guardarti in faccia ti dicono “il prossimo”, tutti quelli che ti giudicano dietro occhiali scuri e in mezzo al fumo di un sigaro costoso. Tutti gli antagonisti delle favole, quelli brutti e antipatici che mi facevano venire gli incubi la notte. Tutti i clown assassini e gli spacciatori di speranze, compresi quelli che vendono caramelle di contrabbando. … Ma oggi, il mondo non si fa prendere.
a cura di Daniele AURELI foto di Andrea ROVERSI
Corre veloce. E allora mi fermo io. Cerco di respirare. Cerco di vivere. E così sia. Chiudo gli occhi e ascolto l’anima. … Qualcuno arriverà. Arriverà un eroe un giorno che proverà a cambiare tutto! Qualcuno che non andrà scalzo, in salita con una croce in mano… ma anche con uno zaino e una t-shirt scolorita, tirerà fuori l’anima e la voce. Anche questo però, forse non servirà. Un eroe da solo, è solo un eroe… ma uno più uno più uno più uno, non è più nessuno, ma un po’ di più di qualcuno. Solo così si ribalta l’ordinario, si risolvono gli enigmi, si capovolgono le clessidre. Il giorno di carnevale potrebbe essere il giorno migliore per assemblare un esercito di eroi. Non ci saranno certo problemi sul casting. Andranno bene tutti. Ci saranno anche doppioni: 4 Spiderman, 10 Superman e 3 Incredibili Hulk. Tutti. Tutti in schiera. Tutti a difendere la vita. Arriverà, ne sono sicura. Un giorno arriverà un eroe. E mentre aspetto, nel frattempo, inizio anche io a preparami. Una fascia in testa stile Rambo… (Wonder Woman sarebbe troppo scontata) e via, pronta a combattere. E se non riuscirò a cambiare il mondo, almeno proverò a cambiare il mio io. E quando sarò in difficoltà, abbasserò la fascia e mi coprirò gli occhi. Ascolterò la mia anima, per essere almeno onesta con me stessa. Un giorno arriverà un eroe. Speriamo!
di Gianni Martini
Un viaggio a puntate dedicato alla “forma-canzone” con particolare attenzione alla canzone italiana e specificamente alla canzone d’autore. La storia, i filoni stilistici, le “scuole” e gli aspetti formali. Le puntate precedenti su erasuperba.it
T
ra la fine degli anni ’50 e i primi anni ’60 fece la propria comparsa una nuova tipologia di “autore di canzoni”, caratterizzata dal fatto che, questi autori, interpretavano le canzoni scritte da loro stessi. Certo, anche nei decenni precedenti ci fu chi interpretava le proprie canzoni, ma il fenomeno, sociologicamente parlando, non raggiunse mai un rilievo significativo. Adesso, invece, diventa uno dei tratti distintivi della produzione di canzoni, fin dall’inizio degli anni ’60. Alcuni erano autori solo della parte musicale, altri, invece, componevano musica e parole. Un’altra particolarità era costituita dalla giovane età. Tanto per dire, Gaber, quando iniziò la propria carriera, non aveva ancora 20 anni. Questo dato della giovane età, resta un tratto caratterizzante tutta la scena della musica leggera di quel periodo. Non solo i cantautori, ma anche semplici interpreti come: Gianni Morandi, Rita Pavone, Caterina Caselli, Massimo Ranieri ecc… E che dire dei complessi? Pare che il numero 84, che completava il nome “Equipe 84” stesse a significare che, nell’insieme, il gruppo totalizzava 84 anni: si trattava, quindi, di giovani. Probabilmente il fatto penso sia da porre in relazione ai modelli anglo-americani: Bob Dylan, Joan Baez, Elvis Presley erano tutti ragazzi, e poco dopo sarebbe esploso il fenomeno Beatles e Rolling Stones. Tuttavia è opportuno considerare almeno altri 4 elementi: a) la nascita e il rapido sviluppo della macchina televisiva e la “maturazione” di quella cinematografica. In questo quadro i volti giovanili risultavano più comunicativi/ freschi/gioiosi. Nacquero i “film musicali”: copioni e sceneggiature di scarso valore artistico; presenza di qualche attore conosciuto (spesso di ambito “comico”) e via! Un mezzo efficacissimo per “lanciare” sul mercato nuove canzoni e nuovi cantanti o complessi, che subito volavano ai primi posti delle classifiche. b) terminata da poco
la seconda guerra mondiale, era diffuso il desiderio di ricominciare e di “leggerezza”, come a voler dimenticare i terribili momenti vissuti. E cosa, più dei volti giovanili, delle canzoni, potevano rappresentare questo senso di voler tornare a vivere, di andare avanti? c) la modernizzazione del paese e il rapido avvio dei programmi di scolarizzazione di massa (unitamente alla diffusione di radio e televisione, dai cui microfoni – forse banale ricordarlo – si parlava italiano, in un paese ancora caratterizzato dall’economia contadina e, quindi, da idiomi locali ed analfabetismo diffuso), produssero, soprattutto nelle città, un giovane maggiormente “presentabile”, in grado di esprimersi, anche linguisticamente in modo appropriato. d) questo punto riguarda più da vicino i protagonisti delle nostre considerazioni: i cantautori. Le giovani generazioni, che arrivano ad essere adolescenti tra la fine degli anni ’50 e l’inizio dei ’60 – soprattutto nelle grandi città – iniziano a mostrare segni di inquietudine, rivendicando un loro mondo, un diverso modo di sentire/pensare/vivere, in rotta di collisione con la tradizione, il mondo degli adulti e dei padri. L’espressione “mondo giovanile” penso che renda bene l’idea: indica un ambito che vuole essere separato dal resto. Una delle riviste nate in quel periodo s’intitolerà esplicitamente: “Giovani”. E che dire dei concorsi/festival, tipo quelli di Ariccia e Castrocaro, appositamente dedicati alle “voci nuove”? Forse non è superfluo ricordare la frase/manifesto/monito di uno dei leader della controcultura americana: “non fidarsi di chi ha più di 30 anni”! Dentro le coordinate di questo clima culturale i primi cantautori rappresentavano la parte più raffinata/sensibile/critica/musicalmente ed espressivamente innovativa, sul piano della scrittura di canzoni. Ma il termine “cantautore”, da dove salta fuori? Poteva qualcuno rivendicarne la paternità? Continua... //
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L’angolo
L’angolo di Gianni Martini
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Siete sicuri di saper riconoscere anche ad occhi chiusi il gusto del miglior cioccolato? Quali parole usereste per descriverne la ricchezza di profumi? E cosa sapreste raccontare su quel tipico “snap” di quando si spezza una tavoletta di qualità?
Nella degustazione del cioccolato e delle materie prime che lo compongono, come del resto in quella di tutti gli alimenti che consumiamo quotidianamente, sono coinvolti tutti i 5 sensi: saperli riconoscere e interpretare permette di degustare consapevolmente i cibi, comprenderne a fondo le caratteristiche e la qualità. Proprio per promuovere la cultura del mangiare ‘buon cioccolato’, Otto Chocolates ha costruito un percorso dedicato alla degustazione consapevole: si tratta di un viaggio plurisensoriale che permette di scoprire, attraverso i 5 sensi, tutti i piaceri che il cioccolato di alta qualità può offrire. La vista, l’udito, l’olfatto, il tatto e il gusto sono singolarmente fondamentali per comprendere le qualità e il valore di un alimento e nel caso del cioccolato bastano poche attenzioni, elencate nel codice di degustazione consapevole redatto da Otto Chocolates, per riconoscerle.
Da questo approccio all’assaggio è nata inoltre la collaborazione con il Profumificio del Castello di Genova con cui si è costruito un percorso inedito di degustazione olfattiva di cui ha potuto godere il pubblico al Salone del gusto a Torino, al Merano Wine festival e al Cookie’scool a Genova. Il prossimo appuntamento è previsto di nuovo a Genova giovedì 11 dicembre 2014 dalle 17.30 presso l’Atelier del Profumificio del Castello di Genova (Passo San Bartolomeo 12, traversa di Via Assarotti) dove la degustazione plurisensoriale sarà gratuita e aperta al pubblico. Per info contattare info@ottochocolates.com. Otto Chocolates è un’azienda genovese, giovane, dinamica e attenta alla commercializzazione di cioccolato certificato biologico, fairtrade e senza glutine. Il cioccolato è di alta qualità aromatica, poiché prodotto con cacao biologico certificato della qualità Trinitario fino proveniente dalla Cooperativa Acopagro in Perù. Otto Chocolates assiste e monitora la cura di tutte le fasi di raccolto e post-raccolto sui luoghi di origine del cacao, di cui la migliore qualità viene
trasportata e lavorata in Italia per ottenere cioccolati di eccellenza. Otto Chocolates è progetto imprenditoriale etico, sociale e aperto, che garantisce assistenza nelle piantagioni e sviluppa progetti sociali per le popolazioni coinvolte. Il cioccolato di Otto Chocolates è sano, buono e ha un prezzo accessibile a tutti i consumatori poiché prodotto in condizioni di rispetto del lavoro e della salute. Otto Chocolates inoltre promuove la cultura della degustazione per offrire a tutti un’opportunità di assaggio attento e consapevole.
Degustazione consapevole del cioccolato cioccolato s. m. (o cioccolata s. f.; ormai ant. cioccolatto o cioccolatte o cioccolate, tutti s. m.) [dallo spagn. chocolate, che è dall’azteco chocolatl].
Degustazione consapevole:
Attiva i 5 sensi! VISTA UDITO OLFATTO TATTO GUSTO
LONZA DI MAIALE AL CHINOTTO DI SAVONA
BACI DI ALASSIO
Per preparare questa ricetta semplice ma molto raffinata si utilizza una bevanda a base di chinotto. Il chinotto è un profumato agrume che si coltiva prevalentemente nel territorio di Savona, da Varazze a Finale Ligue. I frutti del chinotto, canditi o conservati sotto sciroppo, rappresentano una vera leccornia riconosciuta e protetta da Slow Food.
Alassio deve la sua notorietà anche ai famosi ‘Baci di Alassio’, dolcetti tipici a base di cioccolato nati nel 1910 circa, che hanno permesso alla cittadina di entrare nel club ‘Città del cioccolato’. La tradizione fa risalire la loro creazione al locale storico Caffè Pasticceria Balzola e sono fin dai tempi di D’Annunzio ed Eleonora Duse parte della gloriosa tradizione dolciaria italiana.
Ingredienti 1 kg abbondante di lonza di maiale, una carota, un gambo di sedano, una cipolla, uno spicchio d’aglio, due bottiglie di Chinotto di Savona da 275 ml, burro e olio.
Ingredienti 750 gr di nocciole, 600 gr zucchero, 5 albumi d’uovo, 75 gr di cacao amaro, 75 gr miele, 200 gr di panna liquida, 200 gr di cioccolato fondente.
Preparazione Fate rosolare bene la carne di maiale in una casseruola con il burro e un filo d’olio; preparate un trito con il sedano, la carota e la cipolla e aggiungete le verdure al maiale, facendo rosolare il tutto per qualche minuto. Versate poi il Chinotto all’interno della casseruola avendo cura di coprire bene il maiale e lasciate cuocere a fuoco bassissimo per circa un’ora e mezza fino a ridurre il liquido in un fondo ben denso. Lasciate poi riposare l’arrosto sgocciolandolo bene, nel frattempo passate il liquido di cottura formato dal Chinotto in modo da ottenere una salsa densa e liscia. Affettate l’arrosto e servite con la salsa, potete accompagnare il piatto con un purè di patate.
Preparazione Tostate le nocciole e macinatele insieme allo zucchero. Montate a neve gli albumi e uniteli delicatamente alle nocciole, al cacao e al miele. Fate riposare l’impasto alcune ore e quindi con la tasca da pasticcere con bocchetta a stella fate colare i baci (circa 4 cm di diametro) su una teglia rivestita di carta forno. Fateli asciugare per almeno 12 ore, quindi cuoceteli in forno a 220 gradi per 6-7 minuti. Nel frattempo bollite la panna ed aggiungete il cioccolato fondente già sciolto a bagnomaria amalgamando bene con una frusta. Prendete la crema di cioccolato e utilizzatela per unire a due a due le rosette che comporranno i baci. Conservate i biscottini in una latta.
"Vino Veritas"
a cura di Gianluca NICOSIA Il GUTTURNIO COLLI PIACENTINI DOC è prodotto all’interno di un vasto territorio collinare della provincia di Piacenza, dove si individuano aree di produzione distinte tra cui la sottozona denominata Gutturnio. La menzione “classico” spetta al vino non frizzante ottenuto in un’area più ristretta. È un vino dal colore rosso rubino brillante di varia intensità, profumo estremamente vinoso, sapore secco se fermo, ma fresco e vivace se frizzante. La gradazione alcolica minima è 12°. L’uvaggio è composto da uve Barbera (tra il 50 e il 70%) e Croatina (localmente detta Bonarda) nella restante percentuale. Le tipologie sono due: tranquillo e frizzante. Ottiene la qualifica “riserva” se invecchiato almeno 2 anni, di cui 3 mesi in botti di legno e ha una gradazione di 12,5°. La temperatura di servizio è di 18°c. ABBINAMENTI: piatti della tradizione emiliana, salumi locali, pasta con ragù, risotti, pollo alla griglia e arrosto di maiale.
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Parla Come Mangi
parla come mangi/vino veritas
PARLA COME MANGI / VINO VERITAS//
Agenda
Eventi
LUNA PARK: I BARACCONI IN PIAZZALE KENNEDY
Fino al 18 gennaio. Il più grande parco divertimenti itinerante d’Europa
the wedding singers al teatro della tosse
Dall’11 al 21 dicembre. Uno spettacolo per ripercorrere la storia del rock tra assoli di chitarra e riflessioni di vita
DEGUSTAZIONE PLURISENSORIALE DEL CIOCCOLATO
11 dicembre. Otto Chocolates e Profumificio del Castello conducono un viaggio nella degustazione consapevole del cioccolato. Atelier del Profumificio del Castello, Passo S. Bartolomeo 12, (traversa di Via Assarotti). Dalle ore 17.30, ingresso gratuito. Per info: info@ottochocolates.com
FATHER AND SON: CLAUDIO BISIO IN SCENA
A DANGEROUS CRITIcAL PRESENT: MOSTRA AL MUSEO D’ARTE CONTEMPORANEA DI VILLA CROCE
Dal 12 al 14 gennaio. Inventiva, comicità, brutalità, moralità sono gli ingredienti di questo irresistibile soliloquio. Teatro dell’Archivolto
Fino all’8 febbraio 2015. La prima mostra antologica degli artisti australiani Geoff Lowe e Jacqueline Riva. L’esposizione propone manipolazioni fra quadri, sculture, multipli, performance e forme di interazione con il pubblico, per ribadire che: «Lo scopo primo dell’arte non è la comprensione»
HOTEL CAMPANILE AL TEATRO GARAGE
marlene kuntz live al TEATRO della ’ rchivolto
GENERAZIONE DISAGIO - DOPODICHÈ STASERA MI BUTTO
10 dicembre. Un progetto speciale e un tour della band di Cristiano Godano per celebrare il ventennale di “Catartica”
IL SINDACO DEL RIONE SANITA’ di eduardo de filippo
Dal 2 al 21 dicembre. Una commedia con Eros Pagni, che lo stesso De Filippo amava definire «simbolica e non realistica». Teatro della Corte
24 e 25 gennaio. Spettacolo omaggio all’ironico e geniale autore del ‘900
Dal 7 al 13 gennaio. Uno spettacolo tra comico e tragico che mette in evidenza il disagio di una generazione. Cantiere Campana teatro della Tosse
TUTTI GLI EVENTI AGGIORNATI IN TEMPO REALE SU ERASUPERBA.IT
NATALE
CIRCUMNAVIGANDO: FESTIVAL INTERNAZIONALE DI TEATRO E CIRCO
Dal 26 dicembre al 6 gennaio Genova e Rapallo ospitano spettacoli di giocolieri, acrobati, clown, equilibristi e attori provenienti da tutto il mondo. A Capodanno nel Tendone da Circo del Porto Antico va in scena un’esibizione acrobatica internazionale, dal 3 al 5 gennaio al teatro della Tosse c’è Tesseract, uno spettacolo capace di svelare il significato più puro del fare circo. Programma completo e orari su sarabanda.it
ANTIQUA, FIERA DELLA ’ NTIQUARIATO
Dal 17 al 25 gennaio. Un salotto dell’alto antiquariato con pezzi di grande pregio provenienti da tutta Italia. Fiera di Genova
GEppi cucciari ed elio in scena alla ’ rchivolto
Dal 20 al 25 gennaio. Versione italiana del musical di Broadway La Famiglia Addams interpretato dall’inedita coppia
Tantissimi gli appuntamenti in occasione del Natale: nella Galleria Siri del teatro Carlo Felice fino al 24/12 è aperto il Negozio di Natale di Emergency, con numerose idee regalo per sostenere le missioni umanitarie. In piazza Matteotti è aperta fino al 24/12 la Fiera Macondo, con prodotti da tutto il mondo per uno stile di vita equo e sostenibile, in piazza Piccapietra va in scena il tradizionale appuntamento con il mercatino di San Nicola (5/23 dicembre) tra stand di artigianato tipico ed eventi di solidarietà, alla Fiera di Genova Natale Idea (dal 6 all’8/12 e dal 12 al 21/12). Il 20/12 in piazza Matteotti e a Palazzo Ducale c’è la tradizionale Cerimonia del Confuego, al Porto Antico è aperta la pista di pattinaggio sul ghiaccio (fino al 6/1).