L'Eretico - Dibattito Scrittura Filosofia

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Anno VIII - n. 0 /74 - Seconda serie ― La Clessidra Editrice

L’Eretico DIBATTITO SCRITTURA FILOSOFIA

«Leggere la contemporaneità» Antologia de «L’Eretico - idee arte pensiero» 2009/2010 la religione degli uomini / il teatro delle vanità / viaggiare, fuggire / le mani e la terra / chi ha ucciso Babbo Natale? / tempo, eternità in movimento / peccati e tentazioni / geometrie del fantastico / lupo contro lupo / buffoni e giullari

N.0/74 L’Eretico

DIBATTITO SCRITTURA Quaderni aperiodici di cultura critica e sdrammatizzazione del FILOSOFIA reale



L’Eretico DIBATTITO SCRITTURA FILOSOFIA

N.0/74

«Leggere la contemporaneità» Antologia de «L’Eretico - idee arte pensiero» 2009/2010

Diffusione e riproduzione completamente libera purchè si citi la fonte: testata, titolo e autore

Quaderni aperiodici di cultura critica e sdrammatizzazione del reale


Cos’è L’Eretico Eresia nella sua etimologia greca significa “scelta”. Nel linguaggio ufficiale della Chiesa Cattolica si definiva eretico colui che opponeva una sua dottrina una scelta consapevole dunque - alla verità dogmatica rivelata e interpretata dalla chiesa. Il rifiuto del dogma, questa la metafora su cui si regge la denominazione di “Eretico”. Essere eretici non significa, tuttavia, opporsi necessariamente all’opinione di tutti e su tutto, ma auspicarsi un punto di vista critico e consapevole e un confronto continuo tra opposti. La storia del progetto si descrive in pochi passaggi: nato dall’idea di un gruppo di studenti universitari, la rivista «L’Eretico» in pochi mesi da dispensa fotocopiata stampata in poche copie, passa alla dignità tipografica e alla registrazione in tribunale come vera e propria testata giornalistica. Dopo quasi sette anni di pubblicazione, dal settembre del 2010 l’editore ha sospeso la pubblicazione dell’edizione cartacea de «L’Eretico». Dopo la cessazione della rivista mensile, «L’Eretico» rimane come gruppo di intellettuali gravitanti intorno ai progetti editoriali della case editrice La Clessidra (Reggiolo – RE). Sullo spirito dell’edizione cartacea rimane attivo lo spazio web che continua a pubblicare contributi di vario genere e questo nuovo progetto. L’approccio a-dogmatico e multidisciplinare con cui guardiamo alla realtà mira a creare una sorta di laboratorio permanente di idee, attraverso un confronto con la società civile e l’associazionismo culturale. Se vi interessate di attualità, filosofia, letteratura, arte, scienza e volete partecipare ai contenuti del sito, se avete progetti culturali da proporre o semplicemente contribuire al dibattito scriveteci: info@ereticoideeartepensiero.com «L’Eretico - dibattito scrittura filosofia», è un quaderno aperiodico che costituisce la continuazione ideale de «L’Eretico - idee arte pensiero» e ne continua la numerazione con la dicitura seconda serie. Tra gli scopi del progetto e del gruppo di persone che attorno a questi si riunisce, c’è quello di proporre letture della contemporaneità; tale lettura dovrebbe anche farsi laboratorio (espressivo-comunicativo) e sug­gerire in termini molto pragmatici proposte di orientamento. L’insieme di letture dovrà concedere ampio spazio a tematiche riguardanti gli ambiti socio-culturali, politici, letterari, artistici, filosofici, scientifici di diverso orientamento.

L’Eretico. Dibattito scrittura filosofia Quaderni aperiodici di cultura critica e sdrammatizzazione del reale L’Eretico - idee arte pensiero Registrazione n. 1163 del 09.05.2006 Tribunale di Reggio Emilia Redazione Davide Donadio

(Direttore responsabile)

Adriano Amati Raffaele Giglietti Maddalena Letari Roberto Rinaldi Redazione: via XXV aprile 33 42046 Reggiolo (RE) tel 0522 210183 e-mail info@ereticoideeartepensiero.com Editore: La Clessidra s.n.c. Sede legale: via Togliatti n. 16 Redazione: via XXV aprile, 33 42046 Reggiolo RE.


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Ripartire da un’antologia

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editoriale

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Sono qui raccolti, in forma variamente riveduta e corretta, i contributi apparsi tra l’aprile 2009 e il giugno 2010 sulle pagine del mensile culturale «L’Eretico – idee arte pensiero». La scelta di creare una sorta di antologia trova la sua ragione nel desiderio di raggruppare e comprendere quell’esperienza editoriale conclusasi a causa della difficile congiuntura economica. Il mensile era nato come dispensa fotocopiata dall’iniziativa di un gruppo di studenti universitari e si era sviluppata prima come testata di carattere locale, poi come mensile culturale diffuso in edicola in varie province emiliane e in quella di Mantova. La nascita de «L’Eretico» era anche stata causa indiretta della formazione della casa editrice La Clessidra, oggi ancora attiva e sopravvissuta al prodotto che ne aveva determinato la nascita. Come detto sopra, la prima fase di vita del periodico aveva privilegiato la cultura territoriale, mentre la seconda fase, ben più ambiziosa, aveva cercato di coniugare lo spirito divulgativo, la vivacità delle immagini e dell’impaginazione, con contenuti inconsueti per una

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04 rivista patinata. Nonostante sia passato quasi un decennio dalla nascita di quell’esperienza, anche in tempi più recenti e fino alla chiusura del periodico vi era una forte componente utopistica nel progetto editoriale de «L’Eretico»: al momento del lancio in edicola e all’abbandono della formula free press si riteneva che i più tradizionali canali di distribuzione (con tutti i costi che ne derivano) e le risorse economiche ed umane a disposizione di una casa editrice molto piccola fossero sufficienti a sostenere un’iniziativa culturale alternativa, provocante, divulgativa e profonda allo stesso tempo. Se molte voci di apprezzamento ci avevano dato ragione, il mercato ci fece capire che nel mare dell’editoria periodica a pagamento non c’era posto per realtà così minute, tanto più in un contesto (quello dell’editoria della carta stampata) in costante recesso a vantaggio della diffusione dei contenuti attraverso la rete. I contenuti proposti, d’altra parte, non erano adeguatamente veicolati dal mercato tipico di una distribuzione tradizionale. Il 2010, dunque, è stato l’anno di sospensione de «L’Eretico». Ma dovevamo pur dare un senso al tanto lavoro fatto per guardare oltre e pensare di riproporre e adattare alla nuova realtà il nostro progetto. Vede così la luce questa collezione di scritti, apparsi sul-

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le pagine de «L’Eretico» tra il 2009 e il 2010; gli articoli verranno diffusi come documento elettronico attraverso la rete e come volume a stampa in un limitato numero di copie su prenotazione. Riunire e dare un contenuto organico, per quanto possibile vista la natura eterogenea degli scritti, è stato difficile. Il titolo sotto cui cade quest’antologia (“Leggere la contemporaneità”) è un’etichetta di comodo e di molte pretese, ma sottolinea il carattere indagatore della realtà contemporanea che ha caratterizzato i numeri del periodico. Oltre alla limitazione temporale, c’è anche una limitazione contenutistica. Riprodurre più anni o addirittura l’intera collezione di scritti pubblicati in 73 numeri avrebbe richiesto migliaia di pagine, comprendendo interventi a carattere molto locale e formalmente poco maturi rispetto a quanto è venuto più di recente. Non compare, inoltre, quella parte di contenuti (in termini di percentuale sul totale molto ampia, in verità) che riguarda la letteratura, l’arte figurativa, la fotografia. Si è scelto di privilegiare le tematiche di tipo socio-culturale attraverso le opinioni dei collaboratori e parte delle interviste che concorrevano a integrarle. Sarebbe però un errore cercare una sistematicità e una puntualità negli scritti che seguono: non si tratta di contributi saggistici, ma di brani nati Settembre 2011


05 in un contesto giornalistico culturale dal sapore divulgativo, seppure molto spesso vi siano aperture all’opinione. Abbiamo dato una nuova veste grafica, estremamente semplice: non più un mensile patinato riccamente illustrato, ma un formato “libro” di solo testo. Un prodotto unicamente per chi ha il tempo e la voglia di faticare nel leggere tante pagine. Insomma, è una vera e propria sfida al vivere frenetico di oggi. Questo mutamento è il preludio ad una trasformazione auspicata, qualora l’esperimento editoriale funzioni (ovvero venga recepito, letto e partecipato, in caso contrario questo costituirà un numero unico). I «Quaderni aperiodici di cultura critica e sdrammatizzazione del reale» nelle intenzioni dovrebbero costituire dopo questo primo esperimento un nuovo «Eretico» caratterizzato dall’assenza di periodicità, divulgato soprattutto in formato elettronico gratuito attraverso la rete e in parte a stampa, un progetto attorno al quale riunire nuovi scritti e nuovi autori che possano con modestia ma determinazione contribuire al dibattito culturale contemporaneo. Una forma riveduta e adattata all’era caotica di internet dei periodici intellettuali tipici del primo ventennio del secondo dopoguerra, con quell’atteggiamento vagamente enciclopedico e con l’ottimismo di creare una nuova cultura che li contraddistinSettembre 2011

gueva. Se oggi l’enciclopedismo è ancora più utopia di allora e se il tentativo di costruzione di una nuova cultura è naufragato, rimane però quel modo di indagare le cose, senza pedanteria accademica e parimenti senza pressappochismo e rassegnazione. Linee privilegiate di interesse del Nuovo «L’Eretico» dovranno essere l’indagine sul mondo contemporaneo da un punto di vista sociologico, economico, politico, con il desiderio di alimentare anche il dibattito filosofico e comprendere e divulgare quanto si va dicendo oggi in ambito letterario e artistico in Italia. Con ambizioni smisurate e con entusiasmo si comincia ogni nuova impresa, e di più non potevamo fare. Davide Donadio

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Sommario CAPITOLO UNO LA RELIGIONE DEGLI UOMINI

p. 39

CAPITOLO QUATTRO LE MANI E LA TERRA

p. 10

Le donne salvate dagli uomini.

p. 40

Ritorno alla terra.

p. 13

Una Chiesa al femminile di Gabriele Maestri

p. 41

Viaggio nella civiltà contadina. di Paola Torelli

Le donne di Gesù. Davide Donadio

p. 49

CAPITOLO DUE IL TEATRO DELLE VANITÀ

CAPITOLO CINQUE CHI HA UCCISO BABBO NATALE?

p. 50

Fenomenologia del consumismo e della tradizione.

p. 09

p. 19

p .21

p. 22

Elogio dell'assimetria.

p. 23

Le icone erotiche femminili. di Adriano Amati

p. 27

CAPITOLO TRE VIAGGIARE, FUGGIRE

p. 28

Poetica del viaggio.

p. 64

p. 29

Appunti di viaggio. di Adriano Amati

p. 66

p. 152

p. 63

p. 32

Dante e il viaggio tra le righe. di Gabriele Maestri

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Le ambiguità di Babbo Natale. di Paola Torelli CAPITOLO SEI TEMPO, ETERNITÀ IN MOVIMENTO Tempo, tra filosofia e vissuto individuale Tempo servitore di sua maestà il caso. di Davide Donadio

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07 Anno VIII - n. 1/74 - Seconda serie

p. 68

Tempus fugit. di Maddalena Letari

p. 71

Organizzare il tempo. di Raffaele Giglietti

p. 73

CAPITOLO SETTE Peccati e tentazioni

p. 74

Peccati e tentazioni.

p. 75

I sette peccati. di Maddalena Letari

p. 79

CAPITOLO OTTO Geometrie del fantastico

p. 80

Complessità e fantasia.

p. 82

Geometrie calviniane. di Davide Donadio e Paola Torelli

p. 88

Essere non è più abbastanza. di Maddalena Letari

p. 92

Letteratura potenziale. di Elena Bonesi

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p. 97

Capitolo nove Lupo contro lupo

p. 98

La violenza umana

p. 99

Uomini e bestie di Elena Bonesi

p. 107

Filosofia della violenza di Giulia Mingucci

p. 113

Escursione nella giungla del mondo del lavoro. di Raffaele Giglietti

p. 119

Capitolo DIECI Buffoni e giullari

p. 120

La scimmia dispettosa.

p. 122

Il riso abbonda sulla bocca degli sciocchi. di Paola Torelli

p. 129

Una risata vi seppellirà. di Adriano Amati

p. 134

Il divertimento e la forza dell'assurdo. di Elena Bonesi

p. 142

Profilo degli autori Profilo degli intervistati

p. 144

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Note al testo Dai testi originali, impostati come articoli culturali, sono stati eliminati i box di approfondimento o di sintesi e tutti gli altri elementi tipici dell’impaginato di magazine e periodici divulgativi. Le stesse informazioni, quando indispensabili al contenuto, sono state riportate come note in appendice al brano. Dove non diversamente indicato, le introduzioni sono di Davide Donadio, e costituivano gli editoriali di apertura ai temi mensili trattati sulla rivista. Gli altri autori sono indicati in fondo agli articoli (Adriano Amati, Elena Bonesi, Raffaele Giglietti, Gabriele Maestri, Giulia Mingucci, Maddalena Letari, Paola Torelli). In appendice al volume è presente un elenco con brevi curricula degli autori e degli intervistati, perlopiù studiosi e docenti esperti nei temi trattati. Accanto agli autori citati sopra, l’editore esprime il suo ringraziamento a collaboratori che per vari motivi non compaiono nella presente selezione, ma che hanno comunque contribuito attiavamente negli anni di pubblciazione dell’edizione cartacea: fra i vari nomi ricordiamo Roberto Rinaldi, Luigi Mausoli, Vittorio Negrelli, e molti altri.


Aprile 2009

la reli gione degli uomini


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La religione degli uomini

LE DONNE SALVATE DAGLI UOMINI

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el mondo occidentale contemporaneo la donna occupa un posto molto simile a quello dell'uomo. Le posizioni sociali sono simili o assimilabili in quasi ogni ambito sociale. Questa la situazione apparente. In realtà il lato femminile dell'umanità rimane subordinato a quello maschile. Le donne, in definitiva, rimangono fedeli devote della “Religione degli uomini”. Con questa formula indichiamo due fenomeni e due differenti livelli di lettura: 1 – Un sistema di credenze e di valori, nonché un sistema di conoscenze creato e regolato dagli uomini e imposto alle donne. Nonostante la presenza importante dell'elemento femminile, i ruoli chiave di ogni decisione rimangono occupati dagli uomini 2 – un pensiero religioso in senso proprio (vale a dire in ogni insieme di credenze che cercano spiegazioni soprannaturali ed extra-sensoriali dell'esistenza e del mondo) rimasto nei secoli come espressione di una “Religione degli uomini”.

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Ma procediamo con ordine. Per quanto riguarda il primo livello di lettura, è facile constatare l'eccezionalità della presenza di donne in ruoli di importanza decisionale in tutti i campi, politica, industria, scienza. Nonostante i movimenti femministi degli anni Sessanta e Settanta, nonché l'intera storia della liberazione femminile e la progressiva presa di coscienza dell'intera società occidentale, questo ruolo di subordinazione rimane. La presenza femminile diminuisce progressivamente salendo nella piramide organizzativa dell'amministrazione dello Stato, nell'associazionismo, negli ordini professionali e così via. Solo alcuni settori professionali hanno subito una “femminilizzazione” quasi totale, ma si tratta di ambiti tradizionalmente legati al concetto di maternità (ad es. l'insegnamento nella prima infanzia o all'assistenza ai malati e agli anziani), alla bellezza (ad es. nelle professioni legate alla cura del corpo da un punto di vista estetico) e al lavoro domestico, da sempre ambito riservato alla donna. Si tratta, quindi, della concretizzazione dei soliti stereotipi di una “Religione di uomini” che le donne continuano subire e in parte ad assecondare.

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La religione degli uomini

Esiste quindi un divario tra la ormai equiparazione giuridica tra i due generi, e una reale situazione sociale. Pari scollatura si rivela tra la donna reale e la donna “metafisica”. Con questo termine improprio e insolito in questo contesto, si vuole indicare una concezione della donna legata ad una visione bene determinata, ancora di subordinazione, tacitamente accettata da entrambi i generi per motivi diversi. Quali sono le differenze oggettive tra i due generi? Certamente quelle biologiche e tutto ciò che ad esse è legato. Probabilmente altri tipi di differenze sono intimamente collegate a queste diversità biologiche di base. Ma se queste diversità avevano un senso pragmatico in una società pre-tecnologica – dove l'uomo dotato di maggiore forza era soldato, cacciatore, lavoratore e la donna accudiva e cresceva la prole mentre amministrava la vita domestica -, ora queste differenze dovrebbero subire un consapevole ridimensionamento. La storia della donna e di questa diversità biologica di base ha poi determinato la formazione di un carattere di genere, ovviamente indirizzato anche dai codici, miti e riti della società dove la donna vive. Le idee romantiche di una donna caratterialmente più mite e dolce, meno aggressiva dell'uomo, sono in parte fondate da queste differenze biologiche e dalla storia di genere. E su questo ci Settembre 2011

allacciamo alla seconda lettura possibile della formula “Religione degli uomini”. Limitiamoci alle religioni monoteiste e in particolare sul cristianesimo: un Dio concepito come maschile (Padre) invia un figlio (uomo) come riscatto del peccato introdotto dalla debolezza di Eva (donna). La donna introduce il peccato nel mondo e viene salvata dagli uomini. Non sono importanti qui spiegazioni teologiche e filosofiche delle credenze religiose o l'idea che la connotazione di genere del divino sia solo simbolica, né tanto meno entriamo nel merito di tali credenze, ma preme sottolineare come questa “religione degli uomini” caratterizzi un mondo di genere e perpetui questa divisione. Il superamento della “Religione degli uomini” passa per la presa di coscienza consapevole della donna a questa subordinazione che affonda le sue radici nella millenaria costruzione di credenze codici, miti, riti e insiemi più o meno strutturati di conoscenze. Occorre chiedersi: rivalutare la storia di genere e le diversità dell'elemento femminile, potrebbe contribuire a smorzare le contraddizioni di un mondo di uomini? La donna è pronta a rinunciare alla comodità di un ruolo che nelle sue forme più evolute e raffinate (la donna-amante dei romanzi cortesi, la Venere irraggiungibile o la Donna dannata dalle passioni) le consente di vivere una vita priva di responsabilità?

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La religione degli uomini

Le scienze storico- sociali hanno scoperto indizi di un passato molto remoto nel quale la società aveva una forma matriarcale. Molte personificazione del divino erano femminili. Pare che il rapporto madra-figlio abbia contribuito alla creazione di queste antichissime forme sociali.

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La società matriarcale comunque si è estinta e ha vinto il mondo degli uomini. Ora si tratta di capire se questa “vittoria” sia stata la cosa migliore da un punto di vista evolutivo. Probabilmente la cultura segue percorsi diversi rispetto a quelli della specie che tende a preservare se stessa a discapito dell'individuo.

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La religione degli uomini

Una Chiesa al femminile Una donna potrà mai diventare prete? San Paolo era antifemminista? Che significa che «Dio è madre»? Don Daniele Moretto, docente di teologia, parla del ruolo delle donne nel cristianesimo, tra luoghi comuni e questioni aperte

A

ncora Pasqua, è il 12 aprile 2009: la festa più importante per i cristiani (gli ortodossi quest’anno la celebrano una settimana più tardi). In tutte le chiese cattoliche, i fedeli ascoltano ogni anno il vangelo della risurrezione, con la nota scena delle “pie donne” (tra loro non manca mai Maria di Magdala, l’unica citata nel testo di Giovanni) che si recano al sepolcro di Gesù e lo trovano vuoto. Sono dunque delle figure femminili ad aver ricevuto per prime l’annuncio della risurrezione del Cristo e ad averlo diffuso tra gli apostoli; eppure, nonostante l’inizio decisamente “in rosa”, è opinione di molti che nel mondo cristiano (soprattutto cattolico) la componente maschile abbia preso in fretta il sopravvento, mantenendo un ruolo di primo piano fino ad oggi. Una Chiesa “maschilista”, dunque? L’etichetta sembra sbagliata, così come alcune convinzioni diffuse tra i fedeli (pur basate su elementi veritieri): ne parla don Daniele Moretto, sacerdote della diocesi di Reggio Settembre 2011

Emilia – Guastalla, docente di teologia sistematica presso lo Studio Teologico Interdiocesano di Reggio Emilia (dopo aver conseguito il dottorato in teologia alla Pontificia Università Gregoriana di Roma nel 1999). «Dio è Madre». Di un’impronta tendenzialmente maschile della religione cristiana sono convinti in molti e fatti di segno contrario destano sempre interesse o curiosità. Non è un caso che, dei 33 giorni di pontificato di Giovanni Paolo I, si ricordi tra l’altro la sua affermazione «Dio è madre». Quella frase è ancora valida? «Certo, è biblica – spiega don Daniele – Nel 1978 papa Luciani ha citato il profeta Isaia, in cui Dio si rivolge ad Israele dicendo: “Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai”. Il pontefice aveva poi concluso: “Noi siamo oggetto da parte di Dio di un amore intramon-

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tabile; sappiamo che ha sempre gli occhi aperti su di noi, anche quando sembra ci sia notte. è papà; più ancora è madre. Non vuol farci del male; vuol farci solo del bene, a tutti”. L’Antico Testamento e Gesù hanno mostrato come il Dio vivo e vero racchiuda in sé le migliori caratteristiche dell’essere padre e dell’essere madre, perché queste da Lui provengono; lo stesso Catechismo della Chiesa Cattolica, al n. 370, citando vari scritti profetici ricorda che “le perfezioni dell’uomo e della donna riflettono qualche cosa dell’infinita perfezione di Dio: quelle di una madre e quelle di un padre e di uno sposo”». Nonostante il solido fondamento biblico, l’affermazione di papa Luciani destò non poca impressione, anche all’interno della Chiesa. «Se qualcuno è perplesso a causa di queste parole – precisa il sacerdote – è solo perché, pensando a “Dio Padre”, crede che le proprie idee più o meno maschiliste bastino a delineare questa categoria biblica; è invece a partire da Gesù, che si rivolge a Dio chiamandolo Abbà (= papà), che si può capire in cosa consista l’affermazione per cui “Dio è Padre”, non dalle nostre categorie sociologiche, più o meno datate». «Maschio e femmina li creò». Molti di coloro che leggono il cristianesimo in chiave maschilista partono dall’episodio della creazione, fondando su di esso la

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teoria della sottomissione della donna. Il Genesi, tuttavia, riporta due racconti sugli inizi, che devono essere letti insieme. «Nel primo capitolo “Dio creò l’uomo a sua immagine […]; maschio e femmina li creò” – ricorda don Moretto – Qui è evidente l’uguaglianza nella differenza: l’umanità che è a immagine di Dio si ritrova in concreto nel maschile e nel femminile. Il secondo capitolo, che descrive il venir all’essere della donna dal costato dell’uomo, dice la stessa cosa, pur con altre immagini. Dio crea gli animali per l’uomo perché “non è bene che […] sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli stia di fronte”, cioè che sia pari a lui, alla sua altezza; l’uomo però sembra rimanere insoddisfatto dalla soluzione, almeno finché non sorge la donna». Solo in quel momento, infatti, l’uomo esclama: «Questa volta essa è carne della mia carne; la si chiamerà donna (in ebraico isshah), perché dall’uomo (ish) è stata tolta», «In questo modo – continua – l’uomo riconosce una parentela stretta che garantisce la possibilità di entrare in comunione profonda. Queste poi sono le prime parole della Scrittura in bocca all’uomo: può iniziare a parlare solo dialogando con l’altro-da-sé, che è insieme anche suo simile». San paolo e la donna. Tra i personaggi chiave del cristianesimo tradizionalmente considerati anti-femministi c’è sicuraSettembre 2011


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mente Paolo di Tarso: alcuni brani delle sue lettere alle varie comunità cristiane hanno contribuito a far nascere questa immagine. «Paolo va inquadrato, prima di estrapolare frasi isolate – chiarisce don Daniele – Dai finali delle lettere emerge un evangelizzatore circondato da molti collaboratori, tra cui diverse donne con incarichi rilevanti. Dalla lettera ai Romani sappiamo di Febe (diaconessa di Cencre), di Priscilla, moglie di Aquila (evangelizzatori che hanno rischiato la vita per il Vangelo e hanno una comunità che si riunisce a casa loro), di Trifena e Trifosa, “che hanno lavorato per il Signore”; nella comunità di Filippi sappiamo di Evodia e Sintiche che, pur non andando d’accordo tra loro, “hanno combattuto per il Vangelo” con Paolo. Dunque Paolo non ha problemi a riconoscere il ruolo della donna, lui stesso scrivendo ai Galati afferma categoricamente che “non c’è più giudeo né greco, non c’è più schiavo né libero, non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù”: queste differenze rimangono, ma non sono più un impedimento all’unità dei discepoli in Gesù». Rimangono alcune frasi che, prese isolatamente, possono fondare sospetti di maschilismo. È il caso della lettera agli Efesini (che peraltro non sembra scritta da Paolo) in cui si legge «Come la Chiesa è sottomessa a Cristo, così anche le Settembre 2011

mogli lo siano ai loro mariti in tutto»: il brano risente di un certo maschilismo dell’epoca, ma non sarà difficile e umiliante per una moglie sottomettersi al marito, se costui avrà come modello Gesù, che ama e protegge la sua Chiesa. Che dire invece della frase – anche qui l’autenticità è discussa – della prima lettera ai Corinzi «Le donne nelle assemblee tacciano perché non è loro permesso parlare […] è sconveniente per una donna parlare in assemblea»? «Qui Paolo – precisa il sacerdote – risponde a problemi concreti della comunità di Corinto, un gruppo fin troppo effervescente che usava i tanti doni ricevuti per entrare in competizione al suo interno. Paolo sente così il bisogno di “dare una regolata” al loro riunirsi, perché “Dio non è un Dio di disordine, ma di pace”: chiede che la carità e l’utilità comune siano i criteri di discernimento, mentre esorta i più esagitati a calmarsi. Tra loro c’erano sì quelli che avevano il dono delle lingue, ma anche alcune donne, invitate a “interrogare a casa i loro mariti”… cioè a chiacchierare meno durante la messa!» Donne prete? Ecco perché no. A proposito di messa, salta agli occhi come nel cattolicesimo il ruolo di celebrante spetti solo agli uomini, non essendo previsto in alcun modo un sacerdozio femminile; ciclicamente, soprattutto con l’emancipazione della donna nel XX se-

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colo, ci si domanda quali siano i fondamenti di questa scelta e se possano essere discussi (non costituendo un dogma, alla pari del celibato dei sacerdoti). La questione – va ricordato – non riguarda solo i cattolici, ma anche gli ortodossi e, per certi versi, la comunione anglicana: proprio le ordinazioni femminili (di sacerdoti dal 1974 e di vescovi dal 1989) hanno riportato più di qualcuno verso il cattolicesimo. «L’ostacolo teologico principale a un’ordinazione sacerdotale femminile – spiega don Moretto – è l’ininterrotta Tradizione della Chiesa, fin dall’epoca degli apostoli: il collegio dei Dodici, scelti da Gesù, era composto solo da maschi e anche la successione episcopale, che per cattolici e ortodossi è il criterio di continuità apostolica, ha visto solo vescovi uomini. Per questo il recente Magistero, fin dal 1976, ha detto di non potere (non di non volere) ordinare donne. La teologia si è chiesta poi se tale opzione di Gesù sia stata condizionata dalla cultura del tempo o, piuttosto, una scelta vera e propria dello stesso Gesù che spesso ha avuto un atteggiamento libero verso le donne, tanto da parlare con loro di questioni religiose, fino a prenderle con sé come discepole, da Maria di Magdala alle sorelle Marta e Maria; il Magistero però ha costantemente sottolineato che tale scelta non è stata dettata da un conformismo di Gesù rispetto alle usanze del tempo e che quindi non può

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essere relativizzata. Spesso si motiva anche dicendo che il sacerdote è colui che impersona Cristo, che era uomo e non donna; la stessa dichiarazione Inter Insigniores del 1976, tuttavia, ammette che si tratta solo di una “profonda convenienza”, che non costituisce “un’argomentazione dimostrativa”». Se questi sono i criteri, tuttavia, non sembrano esistere impedimenti all’ordinazione diaconale delle donne: «Per secoli sono esistite delle diaconesse, mentre su eventuali “preti-donna” le ricerche storiche non sono giunte ad alcun risultato sicuro – chiarisce il sacerdote – Non a caso tutti i documenti del Magistero parlano di proibizione per l’ordinazione sacerdotale, cioè a preti e vescovi, ma tacciono sull’ordinazione diaconale». Al momento, di fatto, il diaconato femminile non è previsto, anche se la donna nel frattempo si è vista riconoscere un ruolo maggiore. «Con il tempo si sono concentrati nella figura del prete tanti aspetti che di per sé non costituiscono la sua essenza – continua don Daniele – andrebbero quindi ricollocati in una diversità di ministeri, già ora accessibili alle donne: penso, ad esempio, al fare teologia o alla presidenza di gruppi e servizi pastorali. È però urgente una riflessione a tutto campo sulla reciprocità, per evitare che l’uguaglianza uomodonna si riduca, come nel femminismo di prima maniera, a una rincorsa della Settembre 2011


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donna verso le modalità di potere maschili: nel caso di un ripristino del diaconato femminile, questo dovrebbe essere la fotocopia di quello maschile?». La donna nei secoli. Scorrendo la storia della Chiesa, si noterà facilmente come le figure maschili di rilievo superino di molto quelle femminili, che pure sono di grande caratura, da santa Chiara d’Assisi a madre Teresa di Calcutta. C’è chi, nel succedersi dei secoli, riconosce periodi in cui la donna ha ricevuto più considerazione, mentre altri sono considerati “bui”: anche questo incasellamento, tuttavia, sembra mostrare delle falle. «In un periodo considerato buio – sottolinea don Moretto – la giovane Caterina da Siena (1347-1380) incitava senza peli sulla lingua un titubante papa Gregorio XI a comportarsi “virilmente”, cioè a tornare a Roma invece di starsene sicuro ad Avignone, o Teresa d’Avila (1515-1582) spendeva un patrimonio per fornire alle sue monache le meditazioni dei teologi più rinomati del suo tempo! Bisognerebbe guardare, al contrario, con occhio un po’ più critico al XIX secolo, in cui la spiritualità d’immolazione (negli ordini femminili) e la retorica stucchevole dell’angelo del focolare (per le spose) non hanno certo aiutato la donna a rispondere in pieno alla vocazione datale da Dio». Sono in molti a ritenere, da questo punSettembre 2011

to di vista, che il Concilio Vaticano II (1962-1965) abbia costituito una svolta per le donne, in particolare quelle laiche. «Credo di poter dire che è stata la rivalutazione dei cristiani laici, dunque la dignità del battesimo anche di fronte al sacerdozio ministeriale, il “motore teologico” che ha spinto il Vaticano II a rivalutare il ruolo della donna – ricorda il sacerdote – In particolare, la costituzione pastorale Gaudium et Spes ha affermato il dovere di aprire gli studi teologici alle donne, inoltre il Concilio si è concluso con un messaggio alle donne, in cui si è valutata positivamente l’accresciuta influenza della donna nella società». Maria: donna, vergine, madre. Non ci sono dubbi, in ogni caso, sull’importanza fondamentale di Maria, madre di Gesù: è lei la figura femminile più alta della fede cristiana. Dopo aver portato in grembo il Signore, lo ha accudito, cresciuto, accompagnato; è stata con lui al banchetto di Cana (dove dolcemente gli “forza la mano”, invitandolo al miracolo dell’acqua mutata in vino) e sotto la croce. Il suo mistero più grande, forse, sta nell’essere allo stesso tempo donna, madre e vergine, un amalgama di caratteri umani e divini che hanno permesso ad artisti diversissimi (da Dante a Fabrizio De André, da Simone Martini a Caravaggio) di dare il meglio di sé. Cosa dire, in breve, su questi tre aspet-

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ti che caratterizzano e rendono pressoché unica Maria? «Che Dio decide di far passare il suo piano attraverso il consenso libero di una donna, anzi di ragazzina di 14-15 anni. Che è divenuta madre di Gesù perché prima ha saputo far fruttificare in sé la Parola di Dio. E

che è rimasta vergine perché solo a questa donna, e non ai tanti teologi uomini, è stato concesso di capire come abbia potuto farsi carne il Figlio di Dio» conclude don Daniele. Gabriele Maestri

Bibliografia essenziale Giovanni Paolo I, Angelus di domenica 10 settembre 1978: Giovanni Paolo II, Lettera apostolica Mulieris dignitatem, 1988; P. Grelot, La coppia umana nella Sacra Scrittura, Vita e Pensiero 1989; S. Spinsanti (ed.), Maschio-femmina: dall’uguaglianza alla reciprocità, Paoline 1990: X. Lacroix, L’alterità uomo-donna e la sua portata spirituale, Qiqajon 1996; Congregazione per la Dottrina della Fede, Lettera su Collaborazione dell’uomo e della donna nella chiesa e nel mondo, 2004. Congregazione per la Dottrina della Fede, Dichiarazione Inter insigniores, 1976; Giovanni Paolo II, Lettera apostolica Ordinatio Sacerdotalis, 1994; I. Ramelli, “Donne diacono”, Il Regno - Attualità 6 (2006) 171-175; A. Piola, Donna e sacerdozio. Indagine storico-teologica degli aspetti antropologici dell’ordinazione delle donne, Effatà 2006.

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Le donne di Gesù

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i è detto in precedenza che nella formula "religione degli uomini" si possono individuare due livelli di lettura: l'insieme di codici, miti, riti e conoscenze di un mondo maschile imposti alla donna e in senso più proprio l'insieme di credenze e spiegazioni dell'esistenza in chiave religiosa. In questa seconda accezione abbiamo ascoltato l'opinione di un teologo (vedi articolo precedente). Ma si trattava per così dire di una concezione "interna" alla teologia e alla dimensione religiosa. Al professor Carlo Prandi – docente di sociologia delle religioni - abbiamo chiesto un’interpretazione sociologica e storica di quella da noi definita "religione degli uomini". Riportiamo l'estratto del nostro colloquio col professore. Il tema proposto ci porta ad una introduzione di rito sul ruolo della donna nel Cristianesimo. Si rivela - secondo il professor Prandi - una discrepanza tra la visione teologica del rapporto uomodonna e la situazione reale (la prassi). Nei vangeli il trattamento riservato alle donne da parte di Gesù dimostra una considerazione alta della donna. Il fondatore del Cristianesimo si rivolge con Settembre 2011

La condizione femminile nella religione, tra prassi e teologia libertà alle donne nelle proprie prediche. Questa visione sostanzialmente egualitaria non si esprime tuttavia in termini di prassi, come ben dimostra il fatto che al momento della scelta degli apostoli Gesù indirizza tale scelta verso soli uomini. Il ruolo della donna - e quindi la mancata nascita di un sacerdozio femminile nell'occidente cristiano - fu determinato dalla condizione di subordinazione storica e sociale della donna, nonostante i presupposti teologici siano stati più vicini ad un egualitarismo di fondo tra i due generi. La Genesi presenta due narrazioni distinte della creazione umana: una dove l'uomo è individuato come un essere diviso in maschio e femmina, ed una seconda versione, quella tradizionalmente più nota, nella quale la donna viene creata attraverso l'asportazione di una costola all'uomo. Questa duplice lettura è indice di una duplice considerazione del rapporto uomo-donna. Negli ultimi decenni stiamo assistendo ad una rivalutazione della componente teologica paritaria all'interno del cristianesimo. Ma l'emancipazione femminile non avviene e non può avvenire all'interno del-

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la credenza religiosa e della teologia. Una costruzione teologica è - come sostengono i sociologi - idealtipica, procede inevitabilmente per modelli. E questo è avvenuto anche rispetto alla concezione della donna. L'emancipazione reale avviene solo con la trasformazione della società, attraverso un processo di cambiamento storicoeconomico che assegna alla donna nuovi ruoli sociali e nuove libertà (ad es. l’autonomia economica). Sotto questo aspetto - rivela ancora Carlo Prandi - il teologo forse è dotato di uno scarso senso storico. Il teologo, infatti, tende alla rilettura dei testi sacri sulla base della condizione attuale. Vengono, cioè, riviste le proprie posizioni teologiche di partenza rispetto alla situazione storica, anche se questo processo avviene lentamente e non senza contraddizioni. Ne abbiamo un esempio attuale con la discussione sui temi morali e legati alla famiglia. La Chiesa cattolica moderna subisce processi di adattamento, più o meno veloce, più o meno forzati, della sua teologia alla realtà storica. E sotto questo aspetto anche il ruolo della donna ha subito cambiamenti importanti. Il ruolo di moglie sottomessa è stato ridimensionato dalla situazione reale. Ma cosa ha determinato questo cambiamento? Sono i processi della modernità che portano all’emancipazione della donna,

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non le credenze teologiche o ideologiche, anche qualora queste concezioni siano tendenzialmente egualitarie. Come contro esempio possiamo considerare la condizione femminile in molti paesi del mondo islamico, entrati cronologicamente nella modernità e utilizzatori di tecnologia, ma strutturalmente rimasti ad una società agro-pastorale. In queste società i processi della modernità non hanno investito i ruoli sociali, la donna non ha trovata una propria dimensione autonoma rispetto al ruolo di moglie o madre che le venivano assegnati nel passato. Alla nostra domanda se la struttura di una società contribuisce alla divisione di genere e all'importanza dei ruoli chiave in una religione (divinità, fondatori, sacerdoti), il professor Pandi risponde con un monito: attenzione alle ideologie con le quali ci avviciniamo e interpretiamo qualsiasi fenomeno storico-sociale. Il modo in cui una società in un tempo determinato vede se stessa confluisce nei testi cosiddetti rivelati di ogni sua rielaborazione religiosa. Il problema è che la teologia ha piegato la storia a fatto “naturale”: diritto, etica, ruoli, sono visti come "naturali" quando sono niente di più che il prodotto della storia da una parte e della dottrina dall'altra.

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Elogio del’asimmetria

lcuni sostengono che vivere significa “abitare” il nostro corpo fino al termine di un’esistenza terrena. Altri ancora ritengono invece che semplicemente siamo il nostro corpo. Entrambe le visioni, tuttavia, concordano nell’importanza di curarlo questo corpo che – almeno fino a prova contraria – coincide con noi stessi. L’uomo, oltretutto, è animale che non vive isolato, e la società crea aspettative, conformismi e inevitabilmente modelli ai quali l’individuo desidera assomigliare. E i modelli cambiano, nello spazio e nel tempo. Il modo in cui ci vediamo (vediamo i nostri corpi) muta nel tempo. Quello che piaceva o sembrava utile nel passato, ora non lo è più. Poiché la guardiamo dall’interno questa umanità, occorre un po’ di indulgenza: un corpo “bello”, senza difetti fisici e funzionali, è un copro in salute, è una vita efficace, una vita felice. Ricercare il bello, dunque, è un po’ come ricercare l’utile e il piacere, rientra nel gioco. Ma la società, come dicevamo prima, crea “sovrastrutture” (termine obsoleto?), bisogni e miti sempre nuovi o rinnovati. E per la sopravvivenza materiale rende incredibilmente complessa la sua economia, fino al gioco odierno di domanda e offerta, di produzione e consu-

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mo, meccanismo aiutato e indirizzato da campagne di comunicazione pubblicitaria e mezzi di informazione. Quando alcune predisposizioni vitali e biologiche (al bello, al piacere, all’utile) vengono alterate da una eccessiva complessità sociale ed economica, e quando una specie perde di vista il suo fine ultimo (semplicemente sopravvivere felicemente il più a lungo possibile e riprodursi), significa che i modelli creati peccano di inefficienza. Il caso, l’ambiente e la genetica determinano le forme del nostro corpo. Le idealizzazioni irreali alternano la nostra visione e ci spingono alla ricerca di qualcosa che non esiste, determinando spreco di energie e frustrazioni emotive. Il corpo nel pieno della sua bellezza (poniamo femminile) è irregolare, impreciso, emana odori corporali naturali, si corrompe. La pelle che ci riveste non è un marmo lucido o un velluto uniforme, la nostra struttura ossea non è una costruzione di perfetta simmetria, così come i nostri pensieri e le nostre convinzioni non sono un corpus stabile e definitivo. Dove è possibile migliorarsi, conviene farlo (intellettualmente e fisicamente), ma accettare l’imperfezione della nostra asimmetria è un passo importante per capire noi stessi. Settembre 2011


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Le icone erotiche femminili All’inizio fu Lolita. Poi venne la soubrette, la showgirl e quindi la velina sexy e ammiccante. Ma oggi, a guardare le percentuali dei sondaggi, la più gradita è la quarantenne… una “mamma” ideale, giovanile e formosa.

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robabilmente tutto iniziò il 20 settembre 1988, poco dopo la nascita della televisione commerciale berlusconiana e poco prima che il paese sprofondasse nel decennio buio degli anni Novanta, con la Guerra del Golfo, Tangentopoli e i primi segnali negativi della globalizzazione. Erano gli anni ’80 dei paninari e dello yuppismo, dell’ottimismo della volontà e della “Milano da bere”, del benessere diffuso e a portata di mano. Era il decennio allegro in cui tutto era possibile, dall’evasione fiscale alle consulenze facili, dalle tangenti ai partiti alla speculazione edilizia, e gli italiani, almeno quelli ricchi, borghesi e del solido ceto medio, si godevano la vita incuranti che il debito pubblico andasse alle stelle e che il loro paese vivesse ben al di sopra delle proprie possibilità. Si viveva il presente, già dimentichi degli “anni di piombo” e ancora ignari che il futuro che s’approssimava sarebbe stato meno ricco e colorato ma soprattutto meno spensierato. Probabilmente tutto iniziò proprio con Settembre 2011

la televisione commerciale e con i nuovi modelli che impazzavano sulle tre reti Mediaset, subito scimmiottate dalla Rai: nuovi stereotipi di bellezza e sex-appeal, più audaci stilemi di moderna telegenia e inediti linguaggi allusivi. A incarnare l’archetipo prototipo del nuovo antropomorfismo televisivo femminile, toccò alla velina, la nuova modella del piccolo schermo che non doveva più sfilare smagrita e sobria in passerella con abiti eleganti bensì ondeggiare davanti alla telecamera con gambe lunghe e seno prosperoso, possibilmente in bikini. La trasformazione che negli anni aveva subito il sostantivo che descriveva la bella ragazza ammiccante e sexy, tutta tette, cosce e tacchi a spillo – al principio si chiamò lolita (dall’omonimo romanzo di Nabokov), poi soubrette e infine showgirl - da quel fatidico settembre si fissò in “velina”, ovvero l’ultima versione della giovane donna “ideale” che approda in video grazie alle sue ineccepibili qualità fisiche. Il termine, inizialmente nato per

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indicare in tono ironico le ragazze che a Striscia la notizia portavano ai conduttori le veline - le notizie, in gergo giornalistico - è stato in seguito usato per indicare spesso in senso dispregiativo, a fronte di un’apparente diffusione di un fenomeno degenerativo denominato anche velinismo, le funzioni svolte da ragazze impegnate in ruoli particolarmente denotati da passività televisiva, per i quali, secondo i critici, non sarebbero necessari particolari meriti artistici o professionali. Erotismo soft. Il trucco col quale il piccolo schermo riuscì a far breccia nel muro di moralismo un po’ bacchettone eretto dalla diffusa morale cattolica fu quello dell’ironia: bastò sostituire al greve blues, che fino ad allora aveva accompagnato le esibizioni erotiche delle spogliarelliste, musichette popolari, marcette e fraseggi ritmati, e suggerire atteggiamenti del corpo più allegri e scanzonati delle sensuali movenze delle professioniste del night, e anche le parti del corpo fino ad allora opportunamente castigate sembrarono più giocose e divertenti. La malizia di ogni allusione sessuale veniva mitigata da una finta ingenuità, e quindi diventò fruibile da grandi e piccini: per tranquillizzare gli uni e gli altri che si trattava solo di giovani mamme amorevoli e non di amazzoni o vampire, fu sufficiente inserire un pupazzo, un bel cucciolo di cane da

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coccolare, e suggerire qualche tenera smorfia adolescenziale. Così tutti pacificarono la propria coscienza, sia i padri, che potevano finalmente guardare le donnine senza nascondersi dai figli, sia i bambini, che data l’ora decente erano autorizzati a sedersi sul divano accanto a lui per soddisfare l’innocente curiosità circa il corpo femminile e le sue misteriose rotondità, senza incorrere nelle reprimende materne. In fondo si trattava di un varietà con pupazzi e cagnolini trattati con scherzose carezze e tanta bonomia, e per di più in fascia protetta, e le pose e i gesti erano sì insinuanti ma talmente conditi con volti sorridenti, battute e balletti clowneschi da risultare del tutto innocui. Cancellata la vibrante passionalità e la drammaticità del piacere fisico, mascherata la sua virulenta componente animale, la ragazza procace dalle movenze sinuose poté sedersi così tra padre e figlio, con la sua pelle di raso odorosa di buono, e ondeggiare il suo seno prorompente da balia (o futura mamma) sotto gli occhi intimiditi di entrambi. Il vizietto femminile di mostrarsi alle vaste platee dilagò: si vedevano giornaliste truccatissime e scollate presentare il telegiornale - di trequarti, per mostrare il profilo del seno o in piedi per lasciar ammirare gambe e tacchi - conduttrici di programmi scosciatissime o con voluttuosi decolleté, vallette con minigonne vertiginose che giravano negli studi delle rubriche sportive Settembre 2011


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col ruolo di “agnello in mezzo ai lupi” (dove i lupi erano virili giornalisti e atleti muscolosi, meglio se con barba incolta). Finanche le presentatrici cinquantenni, meglio se neo-mamme, cominciarono a mostrare il segno inequivocabile della loro fertilità, in gravidanza mostrando con fierezza il pancione e da puerpere esibendo l’orgoglio della loro femminilità: ancora una volta, le tette. Ma perché parlare al passato? Tutto questo accade ancora oggi, anzi, oggi più che mai è sotto gli occhi di tutti il modello di donna ( si badi bene, non l’ideale femminile) seducente e maliziosa che va per la maggiore e che resiste in video da almeno vent’anni. E non serve certo un altro saggio dell’immarcescibile Eco sulla “fenomenologia della velina”, che faccia il paio con quello famoso su Mike Bongiorno, per sviscerare gli aspetti reconditi che stanno alla base del successo della donna-velina: è bella, attraente, disponibile (a mostrarsi) e divertente, tutti ingredienti che vanno bene per qualsiasi ricetta epocale e per almeno tre quarti del pubblico, due quarti maschili e un quarto femminile, costituito per lo più da donne in cerca di modelli vincenti e alla moda. Sondaggi & numeri. Naturalmente non avrebbe senso limitare il discorso alla televisione; infatti a inseguire la donna-velina ci sono giornali e riviste, manifesti pubblicitari, il cinema, numeSettembre 2011

rosissimi centri benessere, le cliniche di chirurgia plastica, l’intero settore della moda e tutto l’abbigliamento al dettaglio. I settori legati alla cura e alla valorizzazione dell’immagine si sono uniformati agli standard proposti dalla tv, con minime variazioni anatomico-anagrafiche epocali: ai tempi di “Non è la rai” andavano le lolite, acerbe adolescenti intriganti, mentre oggi infuriano le quarantenni, che secondo gli intervistati del mensile Playboy hanno un maggior carico di sensualità (almeno così la pensa il 52%). Al trionfo delle bellezze mature contribuisce anche l’eccessiva intraprendenza delle giovanissime, che a quanto pare spaventa gli uomini; i quali, invece, nel gentil sesso apprezzano «la capacità di sedurre, senza cadere nella volgarità» (68%) e i maggiori contenuti rispetto alle ragazze d’oggi (52%). Addirittura un intervistato su due ritiene che le quarantenni siano più sexy e interessanti delle over 20-30. E per il 39% le signore «ageè» sono molto più affascinanti delle ragazze classe «80 o giù di li». Dormano sonni tranquilli, allora, le signore che si sentono attaccate dal velinismo rampante. Sì, perché, un uomo su due ritiene le over 40 perfette nel ruolo di amante ma il 46% le vorrebbe al proprio fianco anche e soprattutto nelle occasioni di rappresentanza. Un trend non solo italiano. Lo dimostrano le celebri coppie internazionali come Demi Moore e Aston Kutcher e Sharon Sto-

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ne e Chase Dreyfous dove al fianco di una super star 40enne compare un baby marito o fidanzato che il 52% ammette di invidiare. E senza andare troppo lontano basti pensare alla coppia italiana più ammirata: Valeria Golino e Riccardo Scamarcio. Ma nello star system del Belpaese, sembrano le conduttrici televisive le più desiderate. Se al primo posto si piazza Paola Perego con un bel 62% delle preferenze, il 58% è ammaliato da Simona Ventura che precede la over 50 Mara Venier (53%). Il sogno proibito è quello di rimanere bloccati in ascensore (54%) o naufragare con la splendida signora su un’isola deserta (51%). L’indagine è stata condotta su 110 opinion maker, sociologi ed esperti di comunicazione, che hanno spiegato i motivi di tanta passione: le quarantenni piacciono per la loro classe innata, i modi accattivanti, la determinazione e la capacità di godersi la vita; per questo gli italiani le sognano come amanti, fidanzate, amiche e persino (udite, udite) capo-ufficio.

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Conclusione (inevitabile). La morale di questa favoletta non è facile da sintetizzare: di cosa abbiamo parlato sino ad ora? Di bellezza? Di pruriti sessuali? Di atteggiamenti psicologici a sfondo edipico? Forse di tutto quanto insieme, quello che giornalisticamente parlando viene definita “nota di costume”? Sì e no, forse abbiamo parlato di società mediatizzata, ovvero di omologazione di massa, senza però poter individuare rimedi o soluzioni virtuose che ci facciano uscire da questo infantilismo dilagante, fatto di semplificazioni e banalizzazioni. Perché, in fondo, di questo si tratta: stiamo leggendo un brutto libro di cui ci limitiamo a guardare le figure, belle immagini senza idee né voce che di certo carpiscono la nostra attenzione - il piacere visivo per le rotondità femminili comincia nella culla - ma che non ci consentono alcuna crescita letteraria. Per restare nella metafora. Adriano Amati

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Viaggio: percorso di conoscenza, desiderio di fuga

d una verità povera ed univoca, ci viene in soccorso la metafora. Il viaggio è un tema complesso, anche se apparentemente poco impegnato, di evasione, tipicamente estivo. Viaggiare significa spostarsi. Muovere il proprio corpo da un luogo all’altro è forse una delle attività vitali che compiamo più spesso, lavorando, spostandoci da casa ai luoghi dediti al lavoro, al divertimento, alla vita sociale e affettiva. Andare da qualche parte ed avere una meta dà un senso a quello che facciamo, un’esistenza completamente stabile non è concepibile. Il viaggio ha, d’altra parte, una forte connotazione “conoscitiva”. Vedere e conoscere paesaggi nuovi, usi e costumi diversi, persone, luci e colori inconsueti: per “seguire virtute e canoscenza”. Ma qual è lo scopo del viaggio? L’esigenza di una pausa dalla ripetitività del quotidiano, fuggire da qualcosa di doloroso, andare lontano per dimenticare qualcuno o qualcosa; il rischio è quello di ritrovarsi davanti, magari lontano nel tempo e nello spazio, a ciò da cui si è fuggiti: ripetitività, dolore, cose e persone che, se non sono forse le

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stesse lasciate indietro, ce le ricordano. Se si vuole sorpassare questa sfumatura di malinconia nostalgica, occorre rivolgersi al viaggio come scoperta. Si pensi a tante immagini della letteratura universale: dalle allegorie dantesche alle descrizioni di immagini dei resoconti di viaggio, dalle avventure sui mari, ai più remoti viaggi nel cosmo o nel tempo. Dal più raffinato apparato di allegorie alla più semplice descrizione realista, rimane l’idea che compiere un percorso sia associato al cambiamento interiore, ad una maturazione, ad un arricchimento. Il viaggio copre la vita intera: il tempo, il mare, il cielo, la morte.

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Appunti di viaggio Capita di trovarsi come turisti nella Tebaide e di affrontare la propria questione esistenziale come una partenza improvvisa. Allora si va senza meta né bagaglio, stupiti d’essere artefici e succubi del proprio smarrimento.

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i può parlare del viaggio anche rasentando la poesia. E si sa che la poesia è innanzi tutto un fatto individuale e intimo, anche dopo che la si è pubblicata. Così dei molti approcci possibili, da quello turistico a quello conoscitivo - esplorativo, per così dire - si può ritenere che quello metafisico, psicologico o esistenziale, rappresenti una prospettiva interessante per cogliere l’aspetto più profondo del viaggio: la suggestione da cui muove, sia che essa si rivolga verso l’esterno, con periodici spostamenti geografici, sia che essa s’indirizzi verso l’interno, con modalità di pensiero e riflessione assolutamente singolari. Insomma, il viaggio come ricerca poetica, di questo si tratta. Tebaide era un’antica provincia dell’Alto Egitto che dal II° al III° secolo dopo Cristo divenne un centro di anacoretismo, un luogo di ricerca: qui vagavano per il deserto persone che avevano lasciato la città e vivevano in orazione e digiuno. Lo scrittore Ernst Junger - il nichilista Settembre 2011

tedesco dalla vita intensa e avventurosa, che si qualificò anche come filosofo ed entomologo di fama - sottolinea come la questione esistenziale ultima sia individuale e comporti un viaggio interiore, un’introspezione: nel saggio Oltre la linea, scritto a quattro mani col filosofo tedesco esistenzialista Martin Heidegger, afferma che “sta qui, nel nostro petto, il centro di ogni deserto e rovina, la caverna verso cui spingono i Demoni. Qui, ciascuno, secondo le proprie possibilità, combatte ogni giorno la propria battaglia, e con la sua vittoria il mondo cambia”. Capita così di abbandonare Tebe per una vasta regione senza confini e frontiere, di lasciare il luogo comune per un pensiero che si affina fino a diventare astruso, talvolta incomprensibile dal senso comune, e di avviare un’avventura spirituale, un progetto di conoscenza che non ha un preciso itinerario né alcuna sicura compagnia.

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Viaggiare, fuggire Tutte le città sono Tebe e tutti i deserti la sua provincia: è geografia politica dell’intelletto, indirizzi e tracce di sabbia. Il poeta è il viatico di Dio senza le tavole della legge né amici tra gli scribi o divisa. Le pagine di Macedonio, Borges, Guillen e Vallejo sono l’acqua che sgorga a Tebaide e disseta il cieco anacoreta.

Tra il “niente” e il dubbio della Sfinge sta la letteratura della crisi, nata da quella suggestione intellettuale che qualcuno chiama nichilismo, ovvero il niente come progetto di elaborazione teorica. Anacoreta o turista del proprio vuoto? Forse entrambe le condizioni, una scelta voluta e dovuta, presa tra l’ineluttabile inquietudine e un’apparente volontà che procede senza alcuna intenzione. Tebaide come questione infinibile, incessante, spesso improvvisa, in cui ciascuno è insieme artefice e succube del proprio smarrimento. Con un solo riferimento: il bordo di quella alterità da sé che rende cieco l’anacoreta e solitario il suo bizzarro cammino. Oggi, turisti più moderni e spicci cercano nuove geografie e comodi ostelli, luoghi attrezzati dal sapore esotico, d’un esotismo che sa come incantare; ed hanno compagni di viaggio rumorosi, macchine fotografiche e depliant illustrati, e girano, comprano, toccano, secondo modalità levigate in anni di agenzie turistiche e manuali aggiornati. Ma un gior-

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no, anche a uno di costoro può capitare un incontro inaspettato che apre un varco di perplessità e di dubbio. Patria con due bandiere sospesa tra i neon e il deserto quasi una parentesi tra Rimini e l’Africa e un mare solcato da rocce diseguali: è bella la Spagna dall’Urena. Il gordo mi grida olà, ride forte dice che settemila vocaboli non bastano all’idioma latino, poi segna con la mano scura i palmizi accecati l’orizzonte del gabbiano invisibile e magico. “Io ho un rifugio per i giorni senza memoria. Ci ho conosciuto perditempo e ciarlatani che alla domenica vanno nella moschea di Valencia, hanno facce brune e vestiti sgualciti, mangiano pesce e vendono monete al mercato dei francobolli. Vengono da lontano lungo strade che hanno muri di siepe e corolle d’aranci, lavorano quella campagna disadorna con pazienza muta e invisibile. Alla festa fanno sosta da El Cordobes a Cullera, bevono e sbuffano fumo e raccontano delle serre di terra rossa: vanno là per un’emozione inconfiscabile che nessun rientro potrà addomesticare”. Descanso solatio, dall’Urena cala un tramonto interminabile sul branco di perros vagabondi senza razza o padrone. Penso che non ci sarà diluvio e che per dormire un posto vale l’altro, in questa bella primavera.

Delle molte forme del viaggio c’è n’è una che consente insperati ritorni: il sogno. E come nella poesia, in esso riaffiorano immagini e fantasmatiche inedite. Settembre 2011


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Viaggiare, fuggire

Ora sappiamo che non c’è più viaggio sul versante di certe nostre vie e che serve un anelito selvaggio per dare stura a certe fantasie.

La nostra avventura allora s’accontenta di un sottile sentire in un’oltranza che non muove passi: andare, toccare, annusare non è più necessario, l’esperienza è fatta di tempo non di cose. Vedevamo una rotta dietro il fiocco teso, e una voglia di viaggio ci assaliva: ora perduta è l’avventura, fatta anch’essa di vento e di nulla. Ma ancora viaggiamo in quel vento che non gonfia vele, e ogni volta che cerchiamo una misura troviamo una distanza, viaggiamo tra parole che sono propositi dell’aria, salotti spensierati e stanze di disperata solitudine, verso luoghi privi di senso e d’attenzione. Ma ugualmente il nostro racconto svaria in rimembranze turistiche. Sì, ho molto viaggiato, ordinatamente ricordo: la calce bianca di Tunisi le terracotte al mercato turco di Berlino le tegole d’oro della vecchia Kyoto le desolate vetrine di Mamaia l’afrore della nafta sul mercantile per Limon la struggente fisarmonica sul Ponte Vecchio di Praga i riottosi scogli di Calais, affacciati sulle turbolenze del Canale le sottane multicolori della Martinica le panchine di Versailles, grevi di storia e austere il cassero di Enrico il Navigatore (e le sue vele che fanno pancia verso Lussin Piccolo) l’efebo magrebino nella soffitta romana di Bellezza

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i caimani che s’immergono nella foce dell’Estéro, in Costa Rica il custode del Museo Britannico, severo e supponente i banchi deserti dell’aeroporto di Caracas le ruote dei ragazzi sui marciapiedi di Dusseldorf i fanatici predicatori di San José nella piazza del teatro i fievoli lampioni del Quai d’Orsai, tra i venditori di libri usati i violini viennesi dell’Augostinakeller e un tiepido dolce di mele il porfido lucido del Tower Bridge che gocciola nebbia gli homeless di Honk Hong nei loro cartoni ordinati il molo galleggiante nel gelo di Amsterdam i pilluelos che ridono lungo le Ramblas di Barcellona i beduini scalzi sui divani dell’areoporto di Bahrein le caraffe decorate di Monaco, odorose di birra la strana domanda di Djerba: “Combien de chameux pour ta femme?” le gambe da giraffa del ponte 25 de Abril a Lisbona i pensionati annoiati sulle panchine di Majorca la pista innevata di Ancourage che fende la tundra scura la fronte di cemento e livida di Basel Basel la polvere di Olimpia desolata e rovente il bimbo di Granada che aspetta i miei avanzi (e ancora sgrana gli occhi e mi sorprende) l’autista corpulenta del trolleibus di Mamaia la casa di Mozart, e un freddo generale di Salisburgo la “trompeta con sordina” per le strade di Santiago de Cuba le geometrie artificiali dei canali di Miami i traghetti di Palma, Lipari, La Maddalena le corolle di oleandri lungo i dossi di Villasimius e un cane corso che rincorre il mio Piccolo Principe. Viaggiatore della vacuità del viaggio ho imparato che la meta svanisce all’arrivo e che nessun destino si compie come un traguardo. Ora celebro il mio viaggio dentro cattedrali di noia, come Salgari ignaro di tutto.

Non ne sapremo mai abbastanza su dove siamo stati, e comunque non troveremmo le parole giuste per raccontarlo. Forse è questa la vacuità del viaggio. Adriano Amati

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Viaggiare, fuggire

Dante, il viaggio tra le righe La «Divina commedia», oltre che una pietra miliare della cultura, è uno degli esempi meglio riusciti di viaggio letterario. Considerazioni su incontri, destinazioni e compagni d’avventura con l’aiuto del dantista Emilio Pasquini; e un occhio di riguardo al viaggiatore per eccellenza, Ulisse.

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on è stato il primo a impostare la propria opera letteraria come un viaggio o ad immaginarsi impegnato in prima persona nel percorso narrato; quando gli è toccato di varcare la soglia dell’aldilà, quella strada era già stata battuta da altri (quasi tutti di religioni diverse, è vero, ma sempre dell’altro mondo si tratta). Eppure, tra coloro che hanno ben meritato la patente di “viaggiatore di carta”, un posto d’onore spetta certamente a Dante: la sua Commedia (a prescindere dall’attributo «divina», coniato da Boccaccio) rappresenta un itinerario che fin dall’inizio è riuscito a coinvolgere ed arricchire i suoi lettori. Purtroppo in sette secoli buona parte del patrimonio di simboli, immagini e riferimenti della Commedia è andato perduto, oggi è difficile (se non pressoché impossibile) identificare alcuni personaggi o comprendere certi accostamenti familiari per i contemporanei dell’Alighieri; ciò nonostante, l’avven-

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tura dello Spirito che Dante propone è un’ottima “guida al viaggio letterario” (benché la parola «viaggio» non appaia nemmeno una volta nell’arco dei cento canti), una sorta di baedeker per chi ha scelto, come suono dei propri passi, il fruscio delle pagine sfogliate. Perché partire. Cosa spinge uno scrittore a concepire la sua opera come un viaggio? Nella vita quotidiana spesso manca il tempo di chiedersi perché si viaggi, essenzialmente perché si è quasi sempre in movimento, per lavoro, necessità quotidiane o piacere (non a caso, afferma Claudio Magris, «Oggi più che mai vivere significa viaggiare»). Chi propone un viaggio ai lettori spesso vuole condurli attraverso un percorso, fisico e interiore: se la strada non è troppo breve, personaggi e sfogliatori di pagine avranno il tempo di conoscere, meditare, e possibilmente di maturare. Il viaggio letterario, dunque, è spesso un’occasione di formazione e la Commedia Settembre 2011


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non fa eccezione. «Per Dante – spiega Emilio Pasquini, professore ordinario di letteratura italiana all’università di Bologna e apprezzato studioso dell’Alighieri – il percorso di formazione si identifica con la conoscenza ed esperienza del male (nell’Inferno), poi dell’espiazione (nel Purgatorio) e dell’andare oltre l’umano (nel Paradiso)». Di quel percorso, tra l’altro, è lo stesso Dante a fare cenno nell’Epistola a Cangrande: «L’obiettivo della Commedia e di questa cantica [il Paradiso, ndr] consiste nell’allontanare i viventi, durante la loro esistenza, dallo stato di miseria spirituale, per condurli alla salvezza». Scopo e itinerario finiscono dunque per coincidere, pronti ad accogliere il viaggiatore Dante e tutti coloro che vogliano mettersi sulle sue orme. Certo, quando il Sommo Poeta decide di intraprendere l’avventura, non parte da zero: nel ‘300 il viaggio era già da tempo un luogo comune letterario molto frequentato da autori di vario genere e in circostanze completamente diverse. «Il viaggio come luogo comune – ricorda Pasquini – era assai diffuso presso i precursori di Dante: è il caso, ad esempio, della Navigazione di san Brandano o del viaggio di Maometto nell’aldilà, ma il luogo comune si ripresenta anche presso i romanzi del cosiddetto “ciclo arturiano”; non mancava neppure il precedente classico della discesa di Settembre 2011

Enea, in Virgilio, nel mondo sotterraneo». L’Alighieri stesso, in un secondo momento, ha fornito l’ispirazione per altre declinazioni del viaggio letterario. Vale la pena chiedersi quanto la biografia dell’autore influisca sulla sua scelta di prendere il largo. Aver percorso chilometri in vita può non essere estraneo ad un viaggio proposto ai lettori, ma l’implicazione non è scontata e può conoscere eccezioni: «Non credo che sulla scelta del viaggio come schema narrativo abbiano influito le peregrinazioni di Dante esule, peraltro limitate solo a una parte della penisola, fra Roma e Verona, con particolare frequenza in Toscana e in Emilia-Romagna – suggerisce lo studioso – Dante è un modesto viaggiatore da un punto di vista fisico o materiale, mentre è grande nell’universo della fantasia. Probabilmente l’esilio ha influito sulla genesi del poema, semmai come ennesima prova, misurata sulla propria pelle, dell’ingiustizia che regna in questo mondo». Dove si va. Una volta che si è deciso di partire, si tratta di scegliere la meta del viaggio letterario. Lo scrittore, in effetti, non ha a disposizione le possibilità alla portata del viaggiatore, come “partire alla ventura”, scoprendo un luogo solo una volta arrivati lì: a meno di rinunciare del tutto a un’ambientazione spaziale della vicenda, il percorso deve avere una scenografia, verosimile o completamen-

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te inventata. In ogni caso, da determinare prima del suo racconto. Nel leggere la descrizione di un “luogo letterario”, viene spontaneo chiedersi quanto abbia giocato la fantasia dell’autore e quanto, invece, siano tornati utili spazi visitati, esperienze, ricordi o anche solo racconti di chi ha davvero compiuto il viaggio. Anche per la Commedia c’è chi si è impegnato a ricercare le possibili fonti di ispirazione per i “cerchi” dell’Inferno e del Purgatorio: resta monumentale, uno studio di fine ‘800 intitolato Orme di Dante in Italia. «L’esperienza di luoghi terreni – fa notare Pasquini – può aver giocato un ruolo importante in certi paesaggi infernali (come il cimitero degli eretici, la cascata dell’Acquacheta, il “castello” di Malebolge, eccetera) e soprattutto purgatoriali: basti pensare alla pineta di Classe evocata per il paradiso terrestre. Quanto al Paradiso, vi domina una fantasia geometrica, tutta giocata fra musica e luce». Diceva il giornalista e scrittore Guido Piovene che «viaggiare dovrebbe essere sempre un atto di umiltà»: certamente vale per il Dante personaggio e per i lettori, che per giungere al Paradiso devono compiere il percorso di formazione già visto, passando attraverso le insidie dell’Inferno. Incontri e compagni. In fondo però la prima cantica è quella più nota e af-

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fascinante, soprattutto per le immagini e le storie in cui ci si imbatte: il viaggio letterario, al pari di quello reale, è fatto soprattutto di incontri e il bilancio finale dipende in gran parte da essi. Certo il rito del riconoscimento dei vari personaggi doveva essere la parte più appassionante per i contemporanei dell’Alighieri: scoprire papi schiaffati all’Inferno (compreso il tanto odiato Bonifacio VIII) e scomunicati “graziati” in Purgatorio (è il caso di Manfredi) doveva provocare non poca sorpresa e stupore, così come i fiorentini dovevano prorompere in mille commenti, ogni volta che un loro concittadino emergeva dalle terzine della Commedia (lo immagina con realismo Roberto Benigni, nel parlare di Ciacco nel suo TuttoDante). Sono davvero molte le sorprese nell’idea dantesca di aldilà, che riesce ad accomunare nella stessa sorte ultraterrena figure anche molto distanti tra loro per cultura e tempo: nel Limbo convivono Ippocrate, Seneca ed Averroè, Paolo e Francesca sono nel girone dei lussuriosi al pari di Semiramide e Didone. «È normale e quasi scontato che Dante abbia immaginato di incontrare personaggi di epoche differenti – puntualizza Pasquini –. Più interessante è che, collocando il viaggio nella primavera del 1300, abbia ottenuto il risultato di immaginare vivi personaggi che erano ormai morti da anni, quando componeva il poema (dopo il 1304): penso soprattutto a Guido Cavalcanti, Settembre 2011


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ma anche a Bonifacio VIII». Certamente non è indifferente la scelta delle persone con cui condividere l’avventura: vale nella vita concreta, ovviamente, ma anche all’interno del viaggio letterario. «Due buoni compagni di viaggio / non dovrebbero lasciarsi mai. / Potranno scegliere imbarchi diversi / saranno sempre due marinai». Anche Dante e Virgilio potrebbero adattarsi benissimo a questi versi di Francesco De Gregori. Il Poeta, nel rivolgersi regolarmente al «duca», si lascia guidare da lui e costruisce un rapporto assolutamente unico, fatto per durare nel tempo (che solo la necessità della fede per raggiungere il Paradiso può interrompere; da quel momento interverrà comunque Beatrice). «Il “compagno di viaggio” – ricorda Pasquini – è un geniale espediente narrativo, garanzia di realismo dialogico, anche perché quasi sempre ci dimentichiamo che Virgilio simboleggia la ragione umana e Beatrice la scienza divina; si veda invece il fallimento di Petrarca nei Trionfi, dovuto anche al fatto che non ha dato concretezza alla guida, rimasta una pura ombra anonima». Ulisse, il folle volatore. Non si può non ammirare la capacità di Dante di dar corpo ai personaggi: è riuscito a imprimere nella nostra memoria personaggi cui ha dedicato un appassionato racconto (è il caso del conte Ugolino), Settembre 2011

come pure quelli tratteggiati con un’unica pennellata, come avviene con papa Celestino V, «colui che fece per viltade il gran rifiuto». Di tutti gli incontri avvenuti nell’aldilà, tuttavia, uno non può essere dimenticato, visto che mette a contatto Dante con il viaggiatore per eccellenza, Ulisse. Il re di Itaca è “costretto” all’Inferno, nella bolgia dei consiglieri di frode, per i vari inganni commessi in vita (il cavallo di Troia non è che il più famoso), ma non si può dire che egli esca perdente dalla narrazione del canto XXVI. Nemmeno quando il suo «folle volo» si conclude alla vista della montagna del Purgatorio, per aver voluto superare i limiti della conoscenza umana: il «legno» si inabissa nel mare, ma Dante rende a Odisseo l’onore delle armi. Non a caso la figura del sovrano itacese ha ispirato poeti e scrittori di oggi e di ieri: ognuno ha colto un aspetto diverso ed ha arricchito di tessere il mosaico di Odisseo, iniziato da Omero e proseguito fino ai giorni nostri. A volte si tratta solo di un tocco rapido, come fa Foscolo in A Zacinto (cogliendo l’eroe mentre bacia «la sua petrosa Itaca», dopo un percorso lungo e faticoso); altre volte l’incontro con Ulisse è enfatizzato, come nella Maia di D’Annunzio, in cui il poeta si imbatte in un Odisseo avanti negli anni, chiede di misurarsi con lui e riceve in risposta uno sguardo penetrante, degno di un “superuomo”.

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Talvolta Ulisse è solo evocato: è il caso di Itaca, di Kostantinos Kavafis, in cui il viaggio è un’esperienza unica per acquisire saggezza, rubare tesori con gli occhi e la mente, per cui «Quando ti metterai in viaggio per Itaca / devi augurarti che la strada sia lunga». Odisseo può persino riscoprirsi come “uomo di terra”, profondamente legato alla sua «isola d’aratro e di frumento», che però non resiste al richiamo del mare, perché «ti esalta l’acqua e al gusto del salato / brucia la mente» (questo è Francesco Guccini, che in Odysseus compendia molti ritratti di Ulisse). Spesso, tuttavia, chi è rimasto affascinato dal figlio di Laerte ha sviluppato una convinzione: prima o poi avrebbe ripreso il mare. Forse perché avevano in mente la profezia “del ventilabro” di Tiresia, per cui una volta eliminati i Proci il sovrano avrebbe di nuovo lasciato Itaca, per raggiungere genti «che non conoscono il mare, non mangiano cibi conditi con sale, non sanno le navi dalle guance di minio, né i maneggevoli remi che sono ali alle navi». Sta di fatto che Ulisse non si rassegna a «far ruggine inesausto, non brillare come arma sguainata» e sprona i marinai che non l’hanno mai abbandonato: «l’abisso d’intorno geme con molte voci. Venite, amici, ché non è troppo tardi per cercare un mondo nuovo» (così immagina Alfred Tennyson nel suo capolavoro Ulysses); «Ragazzi, coraggio, si parte» sono le ul-

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time parole che Luciano De Crescenzo mette in bocca al re itacese in Nessuno, personale rivisitazione dell’Odissea. E può ben essere che anche quegli ultimi marinai, pur sfiniti da tante avventure e accomunati da un destino molto meno luminoso di quello riservato al loro «capitano», abbiano voglia di mollare di nuovo gli ormeggi: «Anche la paura in fondo / mi dà sempre un gusto strano / se ci fosse ancora mondo / sono pronto: dove andiamo?» (Itaca, scritta da Lucio Dalla con Sergio Bardotti e Gianfranco Baldazzi). La fine dell’Ulisse dantesco è solo in apparenza simile a quella poi immaginata da Pascoli in uno dei Poemi conviviali, dal titolo L’ultimo viaggio: la nave si infrange tra due scogli, che per Odisseo hanno il volto delle Sirene, cui egli si rivolge disperato per sapere se le esperienze da lui vissute erano realtà o solo fantasia («Vi prego! / Ditemi almeno chi sono io! chi ero!» sono le sue ultime parole). Tutt’altro motivo spinge l’Ulisse di Alighieri all’ultimo viaggio, condensato nella famosa orazion picciola rivolta ai marinai: «fatti non foste a viver come bruti / ma per seguir virtute e canoscenza». La ragione dell’ammirazione che Dante prova per il «folle volatore» forse sta tutta qui: il Sommo Poeta non avrebbe mai comandato una nave per varcare le colonne d’Ercole, ma l’idea «di seguire la conoscenza come una stella che cade oltre l’estremo limite Settembre 2011


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dell’umano pensare» (per riprendere le parole di Tennyson) doveva affascinarlo molto. Al punto da identificarsi con Odisseo. «Il primo ad avvertire la natura di Ulisse come “doppio” di Dante – precisa Emilio Pasquini – è stato Petrarca: nell’epistola XXI 15 delle Familiari (1359), rievocando il suo unico incontro con Dante uomo quando egli aveva circa sette anni (lo vide a Pisa in compagnia del padre, amico ed esule come lui), lo rappresenta con le stesse parole con cui

Dante autore aveva messo in scena il suo Ulisse nel XXVI canto dell’Inferno (“né dolcezza di figlio, né la pietà / del vecchio padre...”), contrapponendolo a Petracco, che si era dedicato alla famiglia rinunciando alle proprie ambizioni». Per questo Dante non poteva non incontrare Ulisse, regalando ai lettori un imperdibile viaggio nel viaggio. Gabriele Maestri

Un ringraziamento sentito a Gino Ruozzi, per il suggerimento e la disponibilità. Bibliografia essenziale Dante (a cura di Emilio Pasquini), Commedia (Inferno – Purgatorio – Paradiso, 3 voll.), 2002, Garzanti; Vittorio Sermonti, La Commedia di Dante, 2006, Bur; Emilio Pasquini, Dante e le figure del vero. La fabbrica della Commedia, 2001, Bruno Mondadori; Emilio Pasquini, Vita di Dante, 2006, Bur; Alfred Bassermann, Orme di Dante in Italia. Vagabondaggi e ricognizioni, 1992, Arnaldo Forni.

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Ritorno alla terra

Non staremo qui a fare il solito nostalgico canto di una vita perduta di armonia con la natura. Tuttavia, per le ultime generazioni, è innegabile che un contatto più diretto con l’ambiente naturale si sia perduto. L’urbanizzazione non è un fatto nuovo, ma negli ultimi decenni ha raggiunto livelli un tempo impensabili. Non è tanto la presenza della campagna come quinta scenografica ad essere cambiata, presenza che rimane visibile dalle periferie e nei piccoli paesi, quanto lo stile di vita. La produzione di derrate alimentari è diventata merce di consumo come ogni alta cosa: c’è chi produce per mestiere, e chi fa da intermediario tra produttore e rivenditore, fino allo scaffale dei nostri supermercati. In questa semplificazione sta un cambiamento antropologico di grande portata, iniziato nel XVIII secolo e giunto a compimento nella seconda parte del Novecento. È luogo comune l’idea che i bambini di oggi non sappiano la reale provenienza del latte e interrogati rispondano che il latte viene dal supermercato, piuttosto che dalla mucca. Ma i luoghi comuni contengono verità. E la verità potrebbe essere questa: ignorando e allontanandosi dal contesto naturale e ambientale, con più difficoltà si impara a rispettarlo e tutelarlo. Quando l’uomo deve curare un fazzoletto di terra per ricavarne sostentamento per sé e per il proprio nucleo parentale vimetterà dedi-

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zione e fatica, ma qualora la finalità della produzione il guadagno, certamente ogni mezzo ad incremetnarlo sarè bene accetto. Forse si cade nell’ovvio e nell’ideologia a sostenere che l’economia di mercato estesa ed estremizzata nel campo della produzione alimentare (agricoltura e zootecnia) abbia snaturato il rapporto dell’uomo con il pianeta e lo ha reso più insensibile. Ma l’osservazione e l’esperienza ci fanno credere che ci sia qualcosa in questa individuazione di causa-effetto. La nota emergenza ambientale ha aperto un decennale dibattito sulla necessità di riconvertire il nostro modo di vivere il mondo; non solo agricoltura, quindi, ma nei metodi di produzione a 360 gradi. Per alcuni osservatori questa rivoluzione tecnologica, sociale e ambientale dovrebbe partire proprio dal rapporto dell’uomo con la terra. Un ritorno alla cosiddetta filiera corta, al produttore locale o addirittura ad un parziale auto sostentamento degli individui e dei nuclei familiari. Come? Con piccoli spazi pubblici adibiti alla coltivazione di frutta e ortaggi e addirittura all’allevamento di animali da cortile. Difficile pensare di dedicare, come abitudine, una parte della propria giornata lavorativa (conseguentemente ridotta) alla zappa e al rastrello. Idea romantica che non si presenta certo come salvifica, ma perlomeno restituirebbe all’uomo quel rapporto con la terra ormai perduto. Settembre 2011


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Viaggio nella civiltà contadina Come vivevano le famiglie contadine della prima metà del‘900? Lavoro, usi, abitudini e società… Intervista al Prof. Aldino Monti, docente di Storia moderna all’Università di Bologna, sulla figura dei braccianti e sulle lotte politico-sociali che li videro coinvolti

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mmaginate una corte, una della tipiche case di campagna della Bassa padana. Immaginate la grossa casa padronale con davanti l’aia di forma quadrangolare (rigorosamente situata a sud). L’ala con i bassi servizi, costruita a fianco della casa, dove si tenevano gli attrezzi, i carri, gli strumenti da lavoro e la legna da ardere. Di fianco il forno per cuocere il pane e la lavanderia. Più lontani la stalla e l’orto. È verso le cinque di mattina che la casa inizia a prendere vita, quando il suo proprietario si sveglia per compiere i primi lavori della giornata. È, infatti, alle prime luci dell’alba che si alza il protagonista di quella che sembra essere una storia, una favola da raccontare ai bambini, ma che in realtà rimanda a un mondo che non tutti oggi ricordano o conoscono: quello dei contadini. Non dei contadini per così dire moderni, degli ultimi anni, che possono contare (per fortuna!) sulla tecnologia per rendere meno faticoso il loro lavoro, ma quello dei contadini da inizio Novecento fino agli anni ‘50. Settembre 2011

Quella che si potrebbe definire civiltà contadina e che a volte, soprattutto nella mente dei più giovani, sembra essere un mondo lontano, conosciuto solo attraverso i ricordi dei nonni. Ricordare come si viveva una volta, come si lavorava, le problematiche del lavoro, della gestione della casa e le usanze non è solo un modo per fare un tuffo nel passato, è anche un modo per conoscere meglio una terra, come la nostra Pianura Padana, che su questo tipo di vita e di civiltà ha costruito la propria storia e le proprie radici. La giornata del contadino iniziava all’alba, sia d’estate che d’inverno, sia durante la settimana che per le feste. Nella stalla lo aspettavano le mucche da mungere. E allora: una lavata alla faccia per riprendersi dal sonno, stalla e poi colazione. Risvegliarsi non era sempre piacevole. D’inverno, infatti, la camera da letto era invasa dal freddo, visto che mancava il riscaldamento. A volte era perfino possibile vedere sui muri della camera la brina proveniente dall’ester-

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no. Anche il bagno non era come lo conosciamo oggi. Per lavarsi la faccia, in camera era presente un catino con l’acqua, ormai fredda, presa la sera prima appositamente per questo scopo. Il gabinetto vero e proprio era all’esterno della casa, in caso di bisogno durante la notte si usava il vaso da notte da svuotare poi nel gabinetto esterno la mattina seguente. Il bagno, invece, lo si faceva in un mastello nella stalla: la privacy non era granché, ma almeno era uno dei luoghi più caldi della casa. Al mattino prima di colazione e al pomeriggio prima di cena, il contadino era impegnato in stalla. Non solo, bisognava anche dare da mangiare ai maiali e agli animali da cortile, come le galline, i polli e i tacchini. Senza dimenticare il fedele cane da guardia, che, soprattutto di notte, aveva il compito di vegliare sulla casa e sui suoi abitanti. La stalla di un podere di medie dimensioni (dai dieci ai diciassette ettari) ospitava circa venti mucche da latte, più alcuni vitelli e tori per la riproduzione. Nel periodo di maggiore produzione (aprile – agosto) si ottenevano tra i sette e gli otto litri di latte per ogni mungitura. Ogni mucca veniva munta per una decina di minuti e l’intera operazione durava circa due ore e mezza. Il lavoro nella stalla non consisteva solo nella mungitura delle mucche, ma anche nel rigoverno della stalla stessa. Si raccoglieva, infatti, su una carriola il letame prodotto dagli escrementi

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dei bovini e la paglia usata come lettiera. Si trascinavano la paglia, imbevuta di urine, e lo sterco giù nel canaletto di scolo ai piedi dei bovini e poi si portava, spingendola su un ponteggio di assi, la carriola piena sulla concimaia. Quando poi verso l’autunno si decideva che era il momento opportuno, gli escrementi venivano usati per concimare i campi. Dopo la mungitura, il latte veniva portato al caseificio più vicino. Per prima cosa i bidoni pieni di latte venivano pesati, dopo di che il latte veniva depositato per qualche ora nelle vasche di raccolta e, infine, versato nella caldaie per la lavorazione. Il latte, insieme all’uva raccolta durante la vendemmia, era una delle maggiori entrate del magro bilancio della famiglia contadina. Con i soldi ricavati dalla vendita del latte la famiglia poteva definire le spese per l’anno a venire. Si poteva decidere di mettere i soldi da parte o di spenderne una parte per esigenze inderogabili. Di solito le spese maggiori derivavano dalla necessità di incrementare il patrimonio della stalla con l’acquisto di nuovi bovini e del fieno necessario per la loro alimentazione. Inoltre, era sempre necessario soppesare anche le spese necessarie al fabbisogno della famiglia, come comprare i vestiti per i bambini, mettere da parte la dote per le figlie o comprare nuova biancheria per la casa. Le altre entrate della famiglia contadina derivavano dalla vendita del grano, Settembre 2011


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delle barbabietole, dell’uva e dei bovini ceduti. Senza contare che difficilmente la terra che i contadini lavoravano era di loro proprietà. I contratti più diffusi erano la mezzadria e l’affitto. Nel primo caso metà delle entrate, ma anche delle spese per il mantenimento della terra toccavano al padrone. Nel secondo il contadino pagava un affitto, un tanto alla biolca (circa 3.000 m2, ma l’unità di misura varia a seconda delle province dell’area della pianura padana) al proprietario, ma poi tutte le entrate e le uscite erano a carico del contadino. Ritornato dal caseificio, verso le 7,30 – 8, per il contadino era il momento della colazione, che doveva essere abbastanza nutriente da permettergli di lavorare in campagna fino all’ora di pranzo. La colazione tipica era una scodella di caffelatte con il pane del giorno prima affettato dentro accompagnata qualche volta dalla polenta o da qualche fetta di salame casalingo. Poi di nuovo in campagna fino a mezzogiorno. Il lavoro da fare variava a seconda delle stagioni. Ogni mese c’era un’attività diversa da fare. Le attività più impegnative erano la semina primaverile, la mietitura e la trebbiatura estive, la vendemmia e l’aratura autunnale. A gennaio e febbraio era il momento di fare l’erba nei campi di frumento. A marzo, giugno e luglio si dava l’acqua alla vite per proteggerla da eventuali malattie. Giugno e luglio erano anche dedicati alla mietitura e alla Settembre 2011

trebbiatura del grano. Settembre era, invece, il mese in cui il contadino tirava fiato e poteva riposarsi un po’, anche se c’era sempre qualcosa da fare per il buon andamento della casa e della campagna. La vendemmia iniziava più tardi rispetto ad oggi, ad ottobre. La si poteva considerare l’ultima fatica del contadino, sia perché era l’ultima grande attività agricola dell’anno, sia perché le attività necessarie al suo buon svolgimento erano iniziate molto prima, in primavera. Allora si erano tirati su i tralci della vite, per agganciarli ai fili di ferro stesi lungo tutta la vite e quando alle foglie e ai tralci era stato dato il verderame, la mistura liquida verdognola, che doveva impedire il formarsi di malattie della pianta. A novembre e dicembre rimaneva poco da fare nei campi, allora spesso il contadino si dedicava ad altre attività come rifilare e pareggiare le carreggiate delle stradine che portavano verso casa. A pranzo solitamente si mangiava la pasta, rigorosamente fatta in casa. Quasi tutti i giorni le massaie facevano la sfoglia. A volte si mangiavano i quadrettini in brodo, altre i maltagliati. Cappelletti e tortelli erano, invece, un lusso concesso solo qualche volta la domenica o per le feste. In cucina si svolgevano le principali attività della famiglia contadina. I pochi rifiuti e scarti di cibo che uscivano dalla cucina venivano portati agli animali del pollaio (galline, tacchini, oche…) o destinati ai maiali dopo averli

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mischiati con acqua e mangime. Oltre ad essere l’ambiente di ritrovo per i tre pasti della giornata, la cucina era anche la sede delle riunioni dei membri più autorevoli della famiglia quando dovevano prendere decisioni importanti. In cucina si restava anche la sera dopo cena in inverno, visto che era la stanza più calda della casa grazie al caldo che rimaneva dopo la cottura dei cibi e alla presenza della stufa a legno e del camino. Il pomeriggio lo si passava di nuovo in campagna, ma si veniva a casa prima di sera per andare a mungere le mucche e quindi portare nuovamente il latte al caseificio. La cena solitamente era a base di baccalà fritto, polenta, frittelle fritte e patate. Si andava a letto non troppo tardi, verso le 23, stanchi per la giornata trascorsa a lavorare. A volte gli uomini dopo cena andavano al bar ad incontrare gli amici o a giocare a carte, mentre le donne trascorrevano la serata a casa a cucire o a stirare. D’inverno, invece di uscire al freddo, si preferiva trascorrere le serate al caldo nella stalla. Dopo cena ciascuno, portandosi dietro la propria sedia, si recava nella stalla, una metà della quale restava illuminata dalla luce fioca delle lanterne accese per l’occasione, mentre l’altra metà restava nell’oscurità. Non ci si preoccupava dell’odore che proveniva dalla stalla: l’importante era passare un momento di amicizia e condivisione tutti insieme al caldo. In questi riunioni, alla presenza dei familiari e

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dei loro amici, si discuteva di tutto, si raccontavano le fiabe ai bambini e ci si intratteneva con storielle divertenti (il cosiddetto filòs). Le ragazze potevano dirsi molte cose e raccontarsi le loro esperienze. A volte nella penombra, accanto a loro, si sedevano i fidanzati ufficiali che potevano così trascorrere qualche ora di intimità insieme. Un ruolo particolare all’interno della famiglia contadina era riservato alle donne. La donna era soprattutto considerata in relazione al suo rapporto con l’uomo: di volta in volta era dunque figlia, sorella, fidanzata, moglie, madre, vedova, nonna… La moglie del capofamiglia era, tuttavia, la vera e propria padrona della casa. La cucina era il suo regno, da dove dirigeva le operazioni per il buon andamento della famiglia. I suoi orari erano fissi come quelli del marito: sveglia al mattino alle 5 per preparare il mangime per i vitellini, preparare la colazione e preparare i figli da mandare a scuola. Poi c’erano la pulizia della cucina e il riordino delle camere da letto, prima di accompagnare il marito in campagna. Un’altra occupazione che competeva alla massaia era quella del bucato settimanale. Dentro a un grosso pentolone pieno d’acqua e posto sopra un fuoco, veniva immersa, avvolta dentro un telo, la biancheria. Quando l’acqua bolliva si gettava la cenere, che fungeva da detersivo. Successivamente si strofinava Settembre 2011


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energicamente la biancheria con una spazzola di setole dure, poi si strizzava la biancheria e, infine, la si sbatteva su un asse per ripulirla ulteriormente dallo sporco. I vestiti scuri, invece, si lavavano nell’acqua che era rimasta dal lavaggio della biancheria. Evento di festa nella vita della famiglia contadina era il momento dell’uccisione del maiale. Quasi tutte le famiglie contadine allevavano il maiale dedicandogli molta cura sia nell’alimentazione che nell’accudirlo. E prima delle feste natalizie si procedeva alla sua uccisione. Anche se può sembrare una pratica barbara, bisogna pensare che il maiale, in un periodo di povertà e miseria, permetteva al contadino e alla sua famiglia di avere da mangiare per un anno. Il capofamiglia, perciò, iniziava dalla metà di novembre a scrutare quasi giornalmente il maiale per capire quand’era pronto. Quando secondo lui era il momento giusto si metteva d’accordo con i norcini. In genere i norcini lavoravano in un gruppo composto da due adulti e da un ragazzo di 10 - 15 anni, che aveva così modo di imparare il mestiere. L’uccisione del maiale rappresentava un giorno di festa per due motivi. Il primo è perché arrivavano i vicini di casa, essendo ormai il lavoro dei campi terminato, e ci si poteva distrarre raccontandosi gli ultimi pettegolezzi, le novità del paese o parlare di affari. Il secondo è che la famiglia contadina sapeva così che per Settembre 2011

un altro anno avrebbe avuto di sicuro qualcosa da mangiare: la minestra di lardo tutti i giorni, qualche fetta di salame, di coppa o di prosciutto per cena e lo strutto per friggere. Come accennato in precedenza, difficilmente la famiglia contadina possedeva la terra che lavorava. Una figura diversa da quella del contadino era quella del bracciante agricolo. I braccianti erano dei collaboratori che venivano ingaggiati solamente nei momenti di bisogno, cioè per quelle lavorazioni stagionali che richiedevano un incremento del numero dei lavoratori solo per un breve periodo di tempo, come la raccolta della frutta o dei cereali. La figura del bracciante ha avuto un ruolo molto importante non solo in quanto aiutante della famiglia contadina, ma anche perché era il lavoratore al centro di una serie di lotte e di rivendicazioni che hanno influenzato la scena politico e sociale di quegli anni. Per capire meglio la situazione politica e sociale delle campagne italiane di inizio ‘900, con particolare riferimento alla questione bracciantile e alla pianura Padana, abbiamo posto alcune domande al professor Aldino Monti, docente di Storia moderna alla Facoltà di Lingue e Letterature straniere dell’Università di Bologna. Già docente di Storia economica presso l’Università di Pisa e di Storia dell’agricoltura e di Storia moderna sempre all’Università di Bologna, il professore è un esperto del settore. I

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suoi ambiti di ricerca hanno avuto per oggetto la storia delle campagne italiane dal Settecento fino all’età contemporanea, con un particolare riferimento a due problemi legati alla questione agraria e contadina in Italia: il massimalismo bracciantile e il capitalismo della bonifica. Una delle figure più importanti del mondo agricolo di inizio Novecento era quella del bracciante. Chi erano esattamente i braccianti? Che ruolo avevano nel mondo contadino? I braccianti italiani erano lavoratori dipendenti distinti in operai agricoli propriamente detti e contadini senza terra. I primi localizzati nel Nord padano, i secondi nel Mezzogiorno. I braccianti padani a loro volta si dividevano in due categorie: i fissi, detti anche obbligati, appartenenti alla grande azienda capitalistica della pianura lombarda, e gli avventizi, gravitanti nelle aree della bonifica dell’Emilia centrorientale e della bassa veneta, oltre che nelle propaggini delle risaie di Novara, Vercelli e dell’Oltrepò pavese. Gli avventizi sono stati i braccianti tipici, caratterizzati da impiego saltuario nel tempo, spostamento da un’azienda all’altra, retribuzione fissata a tempo oppure a cottimo. Lavoratori precari per eccellenza, che mostrarono, nei confronti dei loro colleghi fissi della cascina lombarda, un forte antagonismo politico e sociale.

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I contadini senza terra sono, invece, figure delle aree mediterranee del Mezzogiorno d’Italia, della Spagna e del Portogallo. Sono sicuramente lavoratori dipendenti privi dei mezzi di produzione, della terra prima di tutto, legati da contratti arcaici e spesso temporanei della tradizione feudale, che li potevano lasciare in ogni momento privi di lavoro e di reddito. Si tratta di proletari ma non completamente, poiché appartengono a un contesto economico in cui sono assenti o quasi l’azienda capitalistica e la controparte imprenditoriale da cui ricevono il salario. Questa diversa tipologia ha giocato un ruolo politico rilevantissimo nelle lotte agrarie dal primo Novecento al Secondo dopoguerra. Quale peso hanno avuto le lotte dei braccianti nella scena politico - sociale di inizio Novecento? Che cosa volevano rivendicare? La strategia rivendicativa dei braccianti si precisò con la fondazione della Federazione nazionale dei lavoratori della terra, nota come Federterra, nel novembre 1901 ad opera dei delegati delle Leghe Contadine di prevalenza padana. Oltre le leghe socialiste vi parteciparono anche le fratellanze coloniche repubblicane, i cui dirigenti però si ritirarono allorché fu approvato a stragrande maggioranza un emendamento che proclamava come finalità ultima della Federazione “la collettivizzazione della terra come uno Settembre 2011


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dei principali mezzi di produzione”. L’attribuzione di un orientamento economico socialista a un’organizzazione sindacale e la confusione degli obbiettivi sindacali con quelli politici furono stigmatizzati già allora come un grave errore da Filippo Turati, uno dei fondatori del PSI, principale esponente della corrente riformista. La formula della “collettivizzazione della terra” non poteva non allarmare mezzadri, affittuari, piccoli proprietari e compartecipanti aspiranti alla piena proprietà, cioè l’insieme dei ceti intermedi rurali, inoltre corrispondeva alla mentalità radicale e classista della componente maggioritaria della Federazione, cioè i braccianti. L’organizzazione bracciantile si proponeva, inoltre, di arrivare a un controllo politico del mercato del lavoro centrato su due rivendicazioni chiave. La prima attraverso il monopolio unilaterale del collocamento del lavoro gestito dagli uffici della Federterra, che si incaricava di assegnare i lavoratori, in prevalenza locali, alle aziende con un sistema di turni rigorosi ed egualitari, per cercare di distribuire a tutti i braccianti disoccupati della zona il poco lavoro disponibile. La seconda, invece, attraverso l’imponibile di manodopera, cioè il potere di definire unilateralmente il fabbisogno di lavoro delle imprese con l’assegnazione d’autorità del carico di lavoro. Questi punti programmatici chiave costituivano la base di un’alternativa politico-sindacale Settembre 2011

all’emigrazione, che era in quegli anni il meccanismo di evacuazione dell’eccedenza demografica del Mezzogiorno d’Italia. Che cosa si intende con il termine “massimalismo bracciantile”? Il catalogo rivendicativo bracciantile si scontrava frontalmente con gli agrari, di cui metteva in discussione le prerogative imprenditoriali, in scontri per altro prevalentemente locali e senza il coordinamento di un partito con una precisa teoria della presa del potere, come ebbero a rimarcare nelle lotte agrarie del primo dopoguerra Gramsci e Togliatti in noti e polemici articoli. Questo catalogo irrealistico e velleitario puntava a un’impossibile e integrale radicamento dei braccianti sulla terra - circa un milione stazionava nella valle padana del primo Novecento - ed era, inoltre, viziato da una prospettiva ideologica artificiosa e non necessaria e cioè l’obiettivo massimo della collettivizzazione o socializzazione delle terre, assolutamente irrealistico, ma declinato come un mito di mobilitazione politica di massa. L’Emilia assunse agli inizi del secolo la fama di “rossa”, fu una regione-contro rispetto allo Stato centrale, e fu centrale negli equilibri politici della età giolittiana, fino a diventare bersaglio della reazione agraria e fascista. Cosa differenzia il capitalismo della

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bonifica, tipico della pianura padana veneta ed emiliana, dal capitalismo agrario delle altre regioni? Il capitalismo della bonifica è la specifica modalità di sviluppo nella Padania centro-orientale del capitalismo agrario del Nord. La pianura irrigua lombarda è l’area del capitalismo agrario classico, dove l’introduzione delle foraggere, l’associazione di cerealicoltura e l’allevamento consentono il decollo di un’industria di trasformazione zootecnicocasearia: qui predominano i salariati fissi o obbligati. Nella Bassa padana, invece, il capitalismo della bonifica è il prodotto della bonifica idraulica che è operazione più complessa della pratica irrigatoria. Si tratta di operazioni di redenzione di terreni salsi, torbosi e acidi che non permettono che in minima parte l’introduzione dei prati artificiali e delle foraggere nel ciclo colturale. Ne derivò un ordinamento colturale prevalentemente cerealicolo, che scarsi margini lasciava a un’alternativa di tipo lombardo a indirizzo foraggero-zootecnico, suscettibile di produzione più diversificate e di più larghi incrementi occupazionali. Nella cerealicoltura infatti la domanda di lavoro è limitata e vincolata necessariamente dal ciclo vegetativo delle piante, che impone la concentrazione dei lavori tra maggio e ottobre con una distribuzione squilibrata dei lavori lungo l’anno, necessariamente stagionali e precari.

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Durante il periodo fascista si è assistito ad una politica di sbracciantizzazione, volta alla diminuzione del numero dei braccianti a favore di mezzadri, affittuari e coloni. Come mai? Che ripercussioni ha avuto questa politica sul mondo agricolo del dopoguerra? La politica della cosiddetta sbracciantizzazione del fascismo, soprattutto per mezzo della bonifica integrale tra gli anni Venti e Trenta, cercò di accompagnare un processo di massa di acquisto della terra da parte dei contadini, che aveva subito un’accelerazione tra il 1919 e il 1926, ma che era iniziato prima grazie alle rimesse degli emigranti. Tuttavia, tale politica non poteva risolvere un problema dalle dimensioni immani come quello rappresentato dalla presenza di centinaia di migliaia di braccianti disoccupati nella Padania orientale, come non poterono risolverlo i primi tentativi di riforma agraria del secondo dopoguerra. Fu l’industrializzazione degli anni ’50 e ’60 a fornire uno sbocco alla questione bracciantile, che all’epoca non poteva trovare soluzione entro l’orizzonte delle campagne. Paola Torelli

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Fenomenologia del consumismo e della tradizione

’ultimo mese dell’anno è un tradizionale periodo di festa. E questa crisi economica sempre presente nei nostri discorsi non impedirà alla famiglie e ai centri dei nostri paesi di abbellire con la tipica iconografia natalizia case, piazze e strade. Vi siete mai chiesti il significato di quello che vedete durante il perido natalizio? L’origine delle credenze, delle tradizioni del mondo occidentale, dell’albero di natale? Festa religiosa per eccellenza (ricorrenza della nascita di Gesù Cristo), il periodo natalizio si caratterizza per il pullulare di immagini fantastiche: Babbo Natale e i suoi elfi e la Befana. In che relazione stanno personaggi della fantasia e del folklore (nordico e indigeno) e l’importante ricorrenza religiosa? Altra importante caratteristica da sottolineare: quello natalizio è un momento di socialità e di generosità. Lo scambio dei regali (anche a se stessi) determina il ben noto momento di fervore e di vivacità commerciale. Sarà così anche quest’anno? Lo vedremo. Quello che qui interessa è comprendere – non senza una certa ironica curiosità – quali siano i sentieri psicologici che ci conducono all’acquisto di qualcosa. Come

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funziona il meccanismo della comunicazione pubblicitaria? Come veniamo attirati – con l’aiuto di un periodo di artificiale leggerezza emotiva come il natale – verso il consumo? Particolare attenzione è dedicata alla figura di Santa Claus (l’italico Babbo natale). Chi è costui, da dove viene? Al di là del suo aspetto famigliare scopriremo che il vecchio Babbo Natale occupa un posto del tutto ambiguo: entità di confine tra il fantastico e il divino. L’ausilio degli studi antropologici (con particolare riferimento al pensiero del filosofo e antropologo Claude Levi-Struss recentemente scomparso) ci aiuterà a scoprire qualcosa di più sull’amabile vecchietto dispensatore di regali. Anche un fenomeno apparentemente leggiadro come un personaggio fantastico ed il periodo di festa che vi gira attorno, sono indizio di una complessità della realtà sociale e culturale. Ovviamente è qui trascurato il lato religioso e più propriamente teologico della Natività e della nascita divina. Questo aspetto trova in parte un suo spazionella critica (o meglio la constatazione) del tutto banale che l’amplificazione dell’aspetto consumistico di Settembre 2011


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una ricorrenza religiosa abbia finito per relegare questo lato spirituale ai margini di questa immensa sarabanda sociale che va sotto il nome di Natale. E se dovessimo rispondere alla inquietante domanda “Chi ha ucciso Babbo Natale?” non sarebbe del tutto improvvisato sostenere che Babbo Natale forse ha goduto di ottima salute fino ad oggi, e non è difficile che le sue condizioni di

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lavoro siano notevolmente migliorate con la crisi economica e il carico decisamente minore di regali da recapitare per tutto il mondo. Forse il grado di bontà o cattiveria dei nostri bambini è lo stesso secolo dopo secolo, ma il portafoglio di mamma e papà risente delle fluttuazioni dell’economia capitalistica.

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Le ambiguità di Babbo Natale Breve excursus della figura di Babbo Natale: simbologie e varietà nel mondo cristiano e pagano. E una riflessione sul suo inaspettato legame con una delle più grandi paure dei nostri tempi: la paura di morire. Intervista all’antropologa Elvira Stefania Tiberini, docente all’Università la Sapienza di Roma, sul valore di questa tradizione.

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rancia, 24 dicembre 1951. Un fatto inaspettato colpisce l’opinione pubblica francese: Babbo Natale è stato ucciso. Per volere delle autorità ecclesiastiche, è stato prima impiccato e poi il suo corpo è stato dato alle fiamme sul sagrato della cattedrale di Digione davanti a 250 bambini. Motivo della sua esecuzione: l’accusa di essere un usurpatore e un eretico e di aver paganizzato la festa del Natale. Il caso, raccontato dall’antropologo Claude Lévi-Strauss nel suo saggio “Babbo Natale giustiziato”, divise in due non solo i cittadini di Digione, ma l’intera Francia. Tanto che in risposta all’esecuzione voluta dal clero, il giorno dopo Babbo Natale fu resuscitato in Municipio, dove dall’alto del tetto dell’edificio, e sotto la luce dei riflettori, si presentò nuovamente ai bambini. La maggior parte dell’opinione pubblica si schierò dalla parte di Babbo Natale, affermando che era così dolce la sua figura e che pro-

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curava tanta gioia ai bambini, che era un peccato pensare di eliminarlo dalle tradizioni natalizie. Eppure quello che bisogna chiedersi non è perché Babbo Natale piaccia tanto ai bambini, ma che cosa abbia spinto gli adulti a crearlo. San Nicola. Il personaggio di Babbo Natale deriva da una figura storica: San Nicola di Mira, un vescovo cristiano del IV secolo. Cresciuto in una famiglia cristiana e benestante, San Nicola perse prematuramente i genitori a causa della peste. Diventato così erede del ricco patrimonio di famiglia, usò questi soldi per aiutare i bisognosi. Solitamente nell’iconografia classica San Nicola viene raffigurato in abiti vescovili, con in mano il bastone pastorale e tre sacchettini di monete che rimandano alla sua leggenda più famosa: quella delle tre fanciulle. L’episodio racconta come San Nicola abbia fornito alle tre figlie di un uomo povero, ma molto devoto, Settembre 2011


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la dote necessaria per sposarsi, così da evitare che fossero costrette alla prostituzione per fronteggiare le difficoltà economiche della famiglia. Nicola, venuto a conoscenza della situazione delle tre sorelle, decise di intervenire: si recò di notte a casa dell’uomo e vi gettò dalla finestra un sacchetto pieno di monete d’oro. Il mattino dopo il pover’uomo, felice per questa inaspettata sorpresa, diede le monete alla figlia maggiore così che questa potesse maritarsi. Qualche tempo dopo a Nicola giunse la notizia che l’uomo era sul punto di fare prostituire la seconda figlia. Così sempre nascosto dal buio della notte, decise di fargli dono di un altro sacchetto di monete. Secondo alcune versioni, per paura che l’uomo potesse attenderlo davanti alla finestra, questa volta Nicola lanciò le monete dall’imboccatura del camino. Tuttavia, quando la stessa cosa si ripeté per la terza figlia, il padre, colmo di gioia, passò molte notti di veglia e riuscì finalmente a vedere in faccia il suo benefattore che stava per depositargli un altro sacchetto di monete: vistosi scoperto Nicola gli fece promettere che non avrebbe mai raccontato a nessuno quello che era successo. Una creazione moderna. Sebbene nell’episodio delle tre fanciulle venga esaltata la figura di San Nicola come portatore di doni e l’immagine del lancio delle monete d’oro dal camino ricorSettembre 2011

di l’immagine di Babbo Natale intento a calarsi giù dalla canna fumaria, il personaggio di Babbo Natale, rappresentato nella sua forma attuale, è tuttavia una creazione moderna. Ancora più moderna è la credenza che Babbo Natale viva in Groenlandia e che si muova usando una slitta trainata da renne. Molto probabilmente questa credenza si è sviluppata durante la Seconda Guerra Mondiale, a causa della permanenza delle truppe americane in Islanda e Groenlandia. Anche il riferimento alle renne non è casuale: documenti inglesi del Rinascimento parlano di trofei di renne esibiti durante le danze natalizie e, quindi, prima ancora della nascita del personaggio di Babbo Natale. Inoltre, anche le diverse varianti dei nomi dati al personaggio che ha il compito di distribuire i doni ai bambini buoni (Babbo Natale, San Nicola, Santa Claus) dimostrano come la figura di Babbo Natale sia in realtà un fenomeno di convergenza di varie tradizioni e leggende e non un semplice prototipo antico conservato uguale dovunque: elementi antichi si sono dunque rimescolati tra loro con l’aggiunta di elementi e formule nuove che hanno fatto rivivere antiche usanze. Ciò spiegherebbe le varianti nelle diverse tradizioni locali. Una divinità. Se si estende il campo di indagine sulla figura di Babbo Natale, rimane comunque un dubbio da ri-

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solvere: a quale categoria appartiene la sua figura? Cioè, come si può definire Babbo Natale? Un mito, una leggenda o addirittura una divinità? Esteticamente l’immagine di Babbo Natale, con il suo vestito rosso riccamente rifinito e ornato di pelliccia, ricorda quella di un vecchio re. Inoltre, il colore rosso è anche il simbolo della funzione regale e sacerdotale. Il suo appellativo di Babbo e il fatto che sia rappresentato come un vecchietto bonario lo rendono l’incarnazione dell’aspetto benevolo dell’autorità degli anziani. La sua immagine è quella di un personaggio fortemente positivo e rassicurante: una specie di nonno buono, pronto ad amare e a premiare con i suoi doni. È una specie di demiurgo capace di ascoltare ed esaudire ogni desiderio che sia stato formulato con lo spirito ingenuo dei bambini: è la proiezione di una figura archetipica, paterna e familiare. Secondo Lévi-Strauss, il personaggio di Babbo Natale non rientrerebbe né nella categoria degli esseri mitici, poiché non esiste nessun mito che racconti la sua origine, né in quella dei personaggi leggendari, dal momento che non figura in nessun racconto storico. Babbo Natale appartiene, invece, al gruppo delle divinità , sia perché il suo aspetto è immutabile, ma soprattutto perché riceve la venerazione dei bambini sotto forma di lettere e di preghiere e ricompensa solo i bambini buoni con i suoi regali. Tuttavia, rispetto alle divinità vere e

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proprie Babbo Natale è la divinità di una sola fascia di età della nostra società: gli adulti non credono in lui, sebbene incoraggino i loro figli a fare il contrario. Babbo Natale rappresenterebbe, quindi, una sorta di rito di passaggio: un rito di iniziazione che separa chi crede, i bambini, da chi non crede, gli adulti. Rito di iniziazione. Scopo dei riti di iniziazione nelle società umane è aiutare gli adulti a mantenere l’ordine e l’obbedienza tra i loro discendenti. Ecco spiegato come mai gli adulti nel corso dell’anno invochino più volte la visita di Babbo Natale per placare le richieste dei bambini e per ricordare loro che i regali che riceveranno saranno proporzionali alla loro bontà. Lévi-Strauss nei suoi studi ha riscontrato diverse somiglianze tra la distribuzione dei doni operata da Babbo Natale e le elargizioni fatte a favore dei bambini in alcuni rituali delle civiltà primitive. Per spiegare la figura di Babbo Natale l’antropologo francese utilizza il mito del rituale dei katchina degli Indiani Pueblo del Sud Ovest degli Stati Uniti. I katchina sono le anime dei primi bambini indigeni, annegati in un fiume durante le migrazioni ancestrali, che periodicamente ritornano dall’oltretomba per minacciare i Pueblo. Per esorcizzare questa visita gli indiani escogitarono un rituale: durante questo rito gli adulti, travestiti da spiriti dei morti, premiavano i bambini buoni e punivano quelli cattivi. Gli adulti si impegnavano Settembre 2011


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a rappresentare mediante maschere e danze i katchina e in cambio questi ultimi non rapivano i bambini dai villaggi. In questa rappresentazione i bambini sono dei non-iniziati, cioè non sono ancora entrati nella società vera e propria, ma proprio per questo motivo si possono considerare anche dei super-iniziati. I bambini in questa rappresentazione rituale rappresentano i morti: sono loro lo strumento di comunicazione con l’aldilà. I doni che vengono fatti ai bambini in realtà servono a placare e a ricacciare le anime dei defunti nel loro regno. Come personificazione degli antenati i bambini-morti esigono dei doni dagli adulti-vivi, che in questo modo li placano e li riscattano dalla loro condizione di estraneità al gruppo. Risulta chiaro da questa prospettiva che i doni fatti ai parenti, agli amici e soprattutto ai bambini sono in realtà offerte originariamente destinate alle anime dei defunti. Mediazione tra vivi e morti. Sebbene sia evidente come esistano analogie tra il personaggio di Babbo Natale e tutti gli altri personaggi a cui la tradizione affida il compito di premiare o punire i bambini portando loro dei regali o negandoli, non si può non notare come Babbo Natale si discosti in parte da questi: egli si presenta come un personaggio positivo, molto distante dalle entità oscure o dell’oltretomba. Il credere dei bambini, la fiducia incondizionata che i genitori cercano di inculcare loro in Babbo Settembre 2011

Natale, serve anche agli adulti, perché credendo in Babbo Natale i bambini aiutano a credere nella vita. Con la nascita di Babbo Natale si interrompe il confronto ravvicinato tra vivi e morti: il compito di portare i doni, di placare le anime dei defunti e di allontanare il pensiero della fine viene affidato a un mediatore, che ne diventa il simbolo. È come se gli adulti avessero firmato una delega per cui non saranno più loro ad entrare in contatto con gli spiriti dei morti, ma questo compito sarà affidato al solo Babbo Natale, che con i suoi poteri (ubiquità, capacità di disporre dei nostri sistemi produttivi) surclassa le caratteristiche dei portatori di doni delle epoche passate. Durante la notte di Natale risultano esserci, quindi, due figure per così dire in concorrenza tra loro: la missione che devono portare a termine è la stessa ma le loro posizioni e i loro strumenti sono molto diversi. Da una parte c’è la nascita di Gesù Cristo che offre la vita eterna attraverso la morte carnale, dall’altra, invece, Babbo Natale, che lotta attraverso la distribuzione dei regali contro la morte. Feste pagane. Da questa prospettiva è possibile collegare la figura di Babbo Natale con altri personaggi e con altre feste che richiamano il dualismo vivi/ morti, come per esempio i Saturnali, festa pagana dedicata a Saturno. Durante l’inverno gli antichi, spaventati dalla

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morte della vegetazione, cercavano di ingraziarsi quelle divinità che credevano avere potere sul mondo agricolo, così che in primavera la natura rinascesse rigogliosa. Particolare importanza aveva il culto del sole, le cui celebrazioni si concentravano nei periodi dell’anno in cui era più evidente la variazione della durata della luce del giorno. Questi fenomeni colpivano molto la fantasia popolare degli antichi, che vedevano rappresentati nei solstizi la metafora della vita e il mito dell’eterno ritorno. Il solstizio d’inverno cade il 21 dicembre, che è il giorno più corto dell’anno per durata della luce: il sole sembra morire, ma in realtà comincia a rinascere. Dal momento che nelle regioni mediterranee un aumento apprezzabile della durata della luce diurna poteva essere notato solo qualche giorno dopo il solstizio reale, i romani collocarono il solstizio d’inverno il 25 dicembre. In questo giorno nel 274 d.C. Aureliano istituì la ricorrenza del Dies Naturalis Solis Invicti. Il 25 dicembre divenne, quindi, il giorno in cui si celebravano con feste e riti religiosi la nascita del sole. Qualche giorno dopo avevano inizio, invece, le feste in onore di Giano e della dea Strenia, durante le quali si sviluppò la consuetudine di scambiarsi dei regali, chiamati strenae, in onore della Dea. Questa tradizione si fissò così tanto presso i Latini che è arrivata fino a noi, visto che ancora oggi chiamiamo strenne i regali che vengo-

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no scambiati a Natale. La diffusione del Cristianesimo non ha cancellato queste usanze, seppure appartenenti al mondo pagano. Piuttosto ne ha trasformato il significato e tutte le consuetudini legate a queste feste furono adattate alle nuove concezioni religiose. Fu così che il 25 dicembre si trasformò da giorno natale del sole a giorno natale di Gesù, il nuovo sole della nuova era. Come si è visto, quindi, Babbo Natale è una figura dai contorni ancora abbastanza ambigui: la sua origine non è storicamente definibile e si ricollega a una molteplicità di feste e di simbolismi. Per avere una visione più chiara della sua figura e delle contraddittorietà che si celano dietro il suo personaggio, abbiamo chiesto a Elvira Stefania Tiberini, professore associato presso la Facoltà di Lettere della Sapienza di Roma e autrice del libro Treat or trick? San Nicola, Santa Claus, Halloween (CISU, 2008) di rispondere ad alcune domande. La figura di Babbo Natale è stata più volte oggetto di studi in ambito antropologico. Lei stessa ha scritto un libro sull’argomento. Quali sono gli aspetti del personaggio di Babbo Natale che suscitano l’interesse dell’antropologia? I fili di continuità fra alcuni aspetti del culto di San Nicola, delle manifestazioni della mitologia nordamericana di Papà Natale e dell’exploit globale del festival Settembre 2011


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di Halloween, a uno sguardo attento sono ineludibili, malgrado le innegabili specificità di ciascuno. In generale è il link che lega le gesta di San Nicola, lo scambio di doni natalizi e le performance di Halloween l’aspetto che stimola scrutini antropologici. E in particolare: la trasmutazione di San Nicola in Santa Claus e, dunque in Papà Natale, e il rifluire di alcune delle funzioni esercitate dall’uno e dall’altro nel teatro di strada di Halloween. Cogliere il senso di questo circolo è possibile pensando retrospettivamente alla drammatizzazione di alcuni episodi della vita di San Nicola, quelli che confluirono nella formazione della figura del “vescovo fanciullo” (episcopus puerorum vel scholariorum), apparso a Rouen già nel secolo XI. Il fanciullo vescovo era un bambino eletto per rappresentare Nicola nel giorno della festa degli Innocenti (28 dicembre) che, generalmente accompagnato da un piccolo servo con un sacco pieno di doni e di fruste - sacco nero, per contrastare simbolicamente il candore di Nicola che indossava i suoi bianchi paramenti episcopali - che distribuiva doni ai piccoli. Il giorno degli Innocenti s’inseriva nel calendario delle feste invernali normalmente caratterizzate dai rituali di rovesciamento dei ruoli che, come le feriae precristiane, i Saturnali, dello stesso periodo dell’anno, avevano lo scopo principale di esorcizzare i fantasmi suscitati Settembre 2011

dalla stagione morente culminante nel solstizio d’inverno. Già da allora la distribuzione di doni espletava funzioni vitali su un doppio versante: contribuiva a disciplinare il comportamento infantile in vista di una ricompensa/punizione, e al tempo stesso l’offerta di doni ai bambini - per la loro posizione presociale e pre-iniziatica, dunque socialmente altra - si configurava come uno scambio fra vivi e morti la cui presenza sembrava pericolosamente più vicina nel periodo solstiziale. E il dono offerto ai bambini, ma nella realtà pensato come un omaggio ai defunti, certifica la relazione di complementarietà fra due parti contrapposte, la prima delle quali rappresenta a pieno titolo i vivi e l’altra, per la sua alterità rispetto alla prima, i defunti. Uno scambio di cui San Nicola prima e Papà Natale poi sono stati investiti del ruolo di mediatori. Estromesso insieme ad altri santi dal calendario liturgico ai tempi della Riforma, San Nicola venne esportato in America nel corso delle ondate migratorie a partire dal secolo XVII e lì americanizzato. La vitalità persistente del santo e la sua capacità di trasmutazione, l’americanizzazione della sua figura e il suo sostanziarsi in un doppio che ne ereditò funzioni, sono tutte ragioni che sollecitano l’universale attenzione di storici, antropologi e sociologi. Quando è nata la figura di Babbo

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Natale? Quali sono state le sue principali evoluzioni nel corso del tempo? Nel corso degli anni è cambiata la percezione dei valori che incarna? Nato in America come alter ego di San Nicola, il passato di Papà Natale è altrettanto misterioso quanto quello del suo ascendente. La ricostruzione della sua origine è infatti più il risultato di congetture che documentata da fatti certi, ed è in buona sostanza messa insieme sulla base di inferenze relative al rifluire intermittente di aspetti già in parte americanizzati della leggenda protestante di San Nicola. Già agli inizi del 1800 la figura di Papà Natale si era diffusa a New York e in tutta la costa Est degli USA e poi da lì in tutto il mondo. Molti furono responsabili della sua affermazione e della sua escalation, da John Pintard a Washington Irving a Clement Clark Moore e James K. Paulding. Tutti contribuirono in diversa misura, insieme a Thomas Nast, a fare di Papà Natale ciò che è. Con indosso l’abito rosso guarnito di pelliccia fu descritto per la prima volta nei versi di Clement Clark Moore apparsi nel 1823 sul Troy Sentinel. La veste iconografica assegnata a Papà Natale, al contrario, si deve a Thomas Nast il cui contributo va in realtà ben oltre la creazione di un’iconografia: la scelta di Nast della popolare immagine d’invadenza ormai globale rappresentò l’approdo

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necessario a impegnare la traslazione di attributi di raccordo con San Nicola, e al tempo stesso atto a dotare il nuovo distributore di doni di un’identità visuale definita che consentisse di rivestire la funzione simbolica di un’immagine mitica. Ogni forma della strumentazione espressiva adottata da Nast fu il prodotto di una scelta accurata e mai casuale, operata sulla base di un preciso codice simbolico: forme e attributi di Papà Natale vennero investiti delle significazioni mediali più idonee a perfezionarne la natura di simbolo socio-rituale. L’immagine del vecchio, ad esempio, oltre a trarre ispirazione dal convenzionale repertorio iconografico del vescovo Nicola, si riallaccia allo statuto diminutivo e liminale della seniorità nelle società moderne: essa pertanto si qualifica come l’ideale medium di comunicazione tra Papà Natale e i bambini, per il loro statuto pre-sociale suoi naturali interlocutori. L’immagine, segnatamente paternalistica, viene inoltre perfezionata dall’aggiunta di attributi quali la grassezza che ne esaltano le qualità rassicuranti. Con il vecchio grasso che plausibilmente indulge a peccati di gola, esplicito manifesto della trasgressione, è possibile intrattenere rapporti di complicità impensabili con figure più austere. Il grasso, inoltre, simbolicamente significante abbondanza e benessere, è l’attributo ideale di un distributore di doni. Orchestrata è anche la scelta del rosso, Settembre 2011


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simbolo di vita ma soprattutto colore ideale per valorizzare il potenziale teatrale della comunicazione estetica nella strutturazione definitiva dell’immagine. Il clima polare, ma soprattutto la slitta e le renne, infine, non sono solo dettagli figurativi di un quadro per sua natura riconducibile ai mesi invernali ma chiamano in causa un protocollo simbolicoiconografico fiabesco: non il cavallo e il cocchio delle vecchie stampe di San Nicola, bensì la renna e la slitta, emblemi di mondi reali ma sufficientemente distanti e suggestivi da sollecitare nei bambini profonde risposte emotive. E malgrado l’accentuazione consumistica inizialmente americana, e poi globale, il carico semantico e simbolico della figura è rimasto pressoché inalterato. Babbo Natale è presente e conosciuto in molte nazioni, seppur con diverse varianti, ad esempio per quanto riguarda il nome o alcune sue caratteristiche. Che cosa accomuna la sua figura nelle diverse tradizioni? Esiste un legame tra le diverse rappresentazioni di Babbo Natale e i diversi tipi di società? Non si tratta in realtà di “diverse tradizioni” quanto di una sola figura in diverse “varianti”, come lei stessa dice, ciascuna ri-localizzata in modo da rispondere a bisogni contestuali. Ad esse soggiacciono però inevitabilmente le stesse valenze globali di Papà Natale diSettembre 2011

stributore di doni, iniziatore, mediatore nei conflitti generazionali e più in generale sociali di cui si diceva. Il legame fra Papà Natale e le comunità, per diverse che esse siano, discende dunque sempre dall’esercizio delle stesse funzioni, prima fra tutte quella da lui assolta in qualità di negoziatore fra generazioni e per estensione fra la società dei vivi e quella dei defunti, fra l’identità e l’alterità. Qual è in generale il ruolo delle tradizioni nella società? Che caratteristiche deve avere una tradizione per riuscire a fossilizzarsi nell’immaginario collettivo? La nozione di tradizione in antropologia ha subito a partire da circa vent’anni una totale revisione: non più pensata come contenitore immobile e impermeabile alla contaminazione, la tradizione è oggi pensata come un patrimonio in costante mutazione in grado di accogliere infusioni sollecitate sia da scambi con l’esterno sia da pulsioni all’interno della cultura di cui è espressione. La resistenza di elementi tradizionali in una società non equivale pertanto a una loro fossilizzazione e si spiega semplicemente con la loro capacità di espletare anche in mutate condizioni funzioni ancora vitali per il gruppo. È questo il caso della “tradizione” di San Nicola/ Papà Natale. Nel suo libro Treat or trick? San Nicola,

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Santa Claus, Halloween ha esaminato da una prospettiva antropologica le figure di San Nicola e di Babbo Natale, ma anche la festa di Halloween. Che cosa accomuna queste due figure ad Halloween? Nella notte della Vigilia di Ognissanti nei paesi anglosassoni, e in Irlanda in particolare, bambini mascherati, che impersonavano i defunti, nel corso delle loro questue passavano di casa in casa «tenendo in mano una lanterna scavata in una rapa o in una barbabietola con la fiamma vacillante a simboleggiare lo spirito instabile dei morti… E chiedevano leccornie che rappresentavano ovviamente le offerte ai defunti» (Markale, J. 2005. Halloween. Storia e tradizioni. Torino: Edizioni L’Età dell’Acquario, 2005 p. 144). Alla rapa, attraversato l’Atlantico all’epoca della grande emigrazione irlandese e scozzese, si è sostituita la zucca che, svuotata e scolpita in modo da rappresentare una forma ibrida a metà fra la testa umana e il teschio, e illuminata da una candelina depositata al suo interno, ha finito col trasformarsi in uno dei più suggestivi simboli della festa di Halloween, Jack O’ Lantern. San Nicola/Papà Natale e Halloween sembrano dunque qualificarsi come due diverse facce della insopprimibile transazione fra defunti/bambini e vivi/adulti - nodo cruciale inerente alla negoziazione dell’identità/alterità e dell’appartenenza, nonché dai bisogni mai rimossi

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di esorcizzare la morte - che trova le sue più vistose e popolari espressioni nel corso della Vigilia di Ognissanti e nel protocollo festivo delle donazioni natalizie. Il festival di Halloween condivide con San Nicola le pratiche delle questue infantili e dell’inversione dei ruoli, e con Papà Natale la dilatazione della partecipazione; nell’uno e nell’altro caso non più limitata ai bambini ma estesa anche agli adulti. Il vortice globale ha infatti favorito un’aumentata adesione ai circuiti simbolici e consumistici di Papà Natale e di Halloween, non più sottomessa a barriere di età, genere, appartenenza etnica o radicamento territoriale, esaltandone al contrario il potenziale di omogeneizzazione e le capacità di diffusione planetaria. Nel suo saggio “Babbo Natale giustiziato” Lévi-Strauss vede nella credenza a Babbo Natale una specie di rito di passaggio che separa chi crede, i bambini, da chi non crede, gli adulti. Si può dire che ancora oggi sia così? O esiste una maggiore consapevolezza nei bambini che non rende più la non credenza a Babbo Natale un rito di iniziazione? È una domanda a cui in realtà potrebbe con maggiore cognizione di causa rispondere uno psicologo dell’età infantile. Ma restando nell’ambito di una prospettiva antropologica direi che la funzione iniziatica con le sue ricadute Settembre 2011


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sulla disciplina del comportamento infantile non può essere derubricata; né, mi sembra, si possa liquidare come tramontata la credenza dei più piccoli in Papà Natale. L’analisi di Lévi-Strauss, ineccepibile nella sua logica strutturalista, illumina le dinamiche attivate al fine di contrarre i tempi riservati al riconoscimento di certi diritti d’esazione ai bambini e, al tempo stesso, gli aspetti della costruzione mitopoietica di Papà Natale. Chiarisce inoltre come l’attestarsi di un cerimoniale natalizio fondato sull’elargizione, «non sia solo una mistificazione inflitta scherzosamente dagli adulti ai bambini, ma anche e in larghissima misura il risultato di una transazione costosissima fra le due generazioni» (Lévi-Strauss, C. 1967. “Babbo Natale suppliziato” in Razza e storia e altri studi di antropologia di C. LéviStrauss pp. 245-264.Torino: Einaudi). Tutto ciò non sembra aver subito se non irrilevanti flessioni semantiche. Alla figura di Babbo Natale sono state spesso mosse critiche dagli ambienti religiosi in quanto è accusato di incarnare l’aspetto più materialistico dello scambio dei doni durante le feste. Eppure nonostante queste critiche, la sua figura continua a durare nel tempo. Come mai secondo lei? Che cosa ne fa un personaggio così duraturo? Pensa che prima o poi il suo mito sia destinato Settembre 2011

a tramontare? Sono certa che Papà Natale sia immortale. E questo per il consistente carico di funzioni religioso-rituali, sociali ed economiche di cui è investito. L’amplificazione attuale del rito della distribuzione di doni e, dunque, del suo aspetto materialistico e consumistico – che pure è innegabile – ha finito col relegare in ombra le sue radici cristiane e religiose, ma negarle non è né ragionevole né corretto. Papà Natale non è che l’alter ego del Vescovo Nicola; e ancora in molti paesi dell’Europa settentrionale, anche nell’iconografia, questa ascendenza è viva ed evidente. Un filo di continuità che non sembra destinato dissolversi e che al contrario, proprio nella ripresa della kermesse di Halloween rifluita in Europa dall’America, manifesta la sua capacità di resistenza culturale in ambiti solo apparentemente inediti. E, in tempi di interconnessioni planetarie, ciò lascia immaginare piuttosto che una dismissione del culto di San Nicola/Papà Natale, al contrario, una sua possibile ulteriore dilatazione. Paola Torelli

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Bibliografia essenziale D’Apremont Arnaud, La vera storia di Babbo Natale, Edizioni L’Età dell’Acquario, 2005 Lagioia Nicola, Babbo Natale: dove si racconta come la Coca-Cola ha plasmato il nostro immaginario, Fazi Editore, 2005 Lévi-Strauss Claude, Babbo Natale giustiziato, Sellerio, 1995 Sacchettoni Carlo, La storia di Babbo Natale, Edizioni Mediterranee, 1996 Tiberini Elvira Stefania, Treat or trick? San Nicola, Santa Claus, Halloween, CISU, 2008

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tempo eter nitĂ in mov mento


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Tempo tra filosofia, e vissuto individuale

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ffrontare un tema così complesso potrebbe sembrare pretestuoso. Ed infatti lo è certamente. Tuttavia, il vantaggio di trattare argomenti difficili con piglio divulgativo è sicuramente quello di stimolare la riflessione e magari attivare un autonomo percorso di approfondimento e interesse da parte dei lettori. Il tempo, cos’è? La vastità dell’argomento è tale da scoraggiare ogni risposta e disorientare. Ma la dimensione temporale ha un valore fondamentale, ci limita e ci pone davanti ad una scadenza ben precisa: la fine della giornata, di un periodo particolare, di un’esperienza piacevole o dolorosa, la fine della nostra vita. Tratteremo il tema del tempo da diversi punti di vista e aree disciplinari. Qual è, ad esempio, l’evoluzione del concetto di tempo nel percorso della storia della scienza (e della fisica in particolare)? Quali implicazioni pratiche e tecnologiche comporta la conoscenza di un tempo relativo”? Pare, d’altra parte, che il sogno eterno dell’umanità, il viaggio nel tempo, sia tecnicamente possibile, almeno verso il futuro. Come si costruisce una macchina del tempo?

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Ma il tempo è necessariamente relazionato al mondo, o meglio al Cosmo. Attraverso i progressi dell’astronomia e della cosmologia possiamo interrogarci sul rapporto tempo-universo. Quando ha avuto inizio tutto, quando finirà, e come? Quali strumenti abbiamo per misurare l’età dell’Universo e capirne l’origine? Andando oltre le risposte del mito e della religione, possiamo avere un’idea scientificamente fondata del destino ultimo del nostro Universo? Accanto a queste implicazioni che la riflessione del tempo comporta, forse lontane dal nostro vissuto quotidiano, possiamo rivolgere le nostre domande ad un tempo a noi più vicino. È il tempo dell’esistenza, della vita reale di ognuno di noi. Ed ecco che il discorso si presta ad una contabilità esistenziale non priva di qualche accenno ironico: quante ore accumuliamo nell’arco di una vita media in coda al semaforo, agli sportelli degli uffici pubblici, o espletando le nostre necessità fisiologiche come dormire, mangiare (fino alle ultime conseguenze di questo nostro bisogno)? Esistono accortezze pratiche per ottimizzare il breve tempo della nostra vita biologica? Poi l’idea di un tempo che non solo acSettembre 2011


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compagna la nostra vita, ma che risulta essere la nostra vita e coincidere esattamente con essa, si fa più serio e malinconico. Essere felici o soffrire sono stati affettivi opposti: quanto influiscono sulla percezione del tempo? Una sfumatura particolare della quale ci occuperemo sarà quella della tonalità affettiva della noia. Noia, ovviamente, non intesa come dolce ozio o fastidio che deriva dal non sapere come occupare il tempo, ma noia come tonalità affettiva legata al sentimento del tempo, evocata da poeti e filosofi, influenzata dal contesto sociale dove un individui nasce e cresce. Eccoci di fronte a differenti sfumature della noia: quella dell’ozio vuoto dell’aristocrazia di qualche secolo fa, o quella della pausa dalla vita veloce di oggi. Tra azione e intervallo, tra senso e progetto di quello che si fa o si dovrebbe e vor-

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rebbe fare, emerge questo sentimento che nasce necessariamente dalla temporalità nella quale siamo immersi. Il tempo, dunque, che sia mera illusione, realtà effettiva o semplice convenzione che ci permette di misurare e suddividere il continuo spazio-temporale di un cosmo freddo e indifferente, rimane questione fondamentale del nostro vivere. Almeno fino a quando non avremo trovato una via per l’eternità.

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Tempo, servitore di sua maestà il caso

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l tempo ciclico degli antichi pareva non aver alcun senso, almeno per le generazioni che sono venute dopo. Il Cristianesimo corresse la prospettiva insensata introducendo una finalità nella Storia: il riscatto dal peccato e il trionfo dell’eternità spirituale. Il tempo “finito” era stato introdotto dal peccato; sarebbe stato sufficiente levare il peccato per levare il male (e la fine del tempo che per ognuno di noi si concretizza nella morte fisica). Poi la scienza e il pensiero sono passate oltre, prima proponendo un tempo matematizzato ed uniforme (Galileo, Newton), poi un tempo ideale, una “forma a priori dell’intuizione empirica” (Kant), fino alla nota messa in discussione del tempo omogeneo fenomeno idealmente irreversibile. Come verrà meglio spiegato nelle pagine che seguono, le scoperte della termodinamica prima, le nuove proposte di unificazione delle due dimensioni spaziotemporali poi, saranno l’apertura che porterà alla relatività di Einsten e alla nuova concezione di tempo nella scienza. Accanto a queste va citato, almeno velocemente, il tempo come “durata” interiore, come diceva il filosofo Bergson, esperienza qualitativa irriducibile a qualsivoglia tentativo di misurarla. In poche righe e con molte lacune e

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supponenza abbiamo ricostruito il cammino del pensiero umano intorno al concetto di tempo. Per comprendere quanto problematiche così astratte possano essere di vitale importanza per il nostro vivere quotidiano, lasciamoci andare ad una contabilità esistenziale, decisamente approssimativa ma emblematica e capace di suscitare riflessioni. La vita media in Italia pare essere di 79 anni per il sesso maschile e 82 per quello femminile: 28.835 giorni per gli uomini e 29.930 per le donne. Circa un quarto del tempo (poniamo 6 ore quotidiane, convenzionalmente) è destinato al sonno quindi sottratto dal vissuto attivo. 173.000 ore di sonno in una vita preservano certamente l’equilibrio dell’organismo, ma sono anche una gran perdita di tempo. Poco male, se si pensa che l’utilità che almeno risiede nel tempo dormito scompare nelle 45.000 ore impiegate in spostamenti (comprese soste semaforo) che in media perdiamo durante l’esistenza, quantificabili in 1,5 ore di media quotidiane. Poco meno di 60.000 ore sono destinate al nutrimento, mentre almeno un terzo dell’esistenza, stando ai parametri lavorativi dell’Occidente, si volatilizza nel lavoro (8 ore lavorative per la durata della vita “attiva” danno 61.440 ore circa). Cosa rimane? Settembre 2011


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Il tempo del divertimento e dell’ozio, dell’amore e del dolore, della noia e della pienezza. Ovvio, quindi, che una tale contabilità esistenziale debba essere inquadrata in un “senso” più generale e possibilmente cosmico. C’è chi cerca giustamente e saggiamente di pianificare e ottimizzare il proprio tempo residuo e chi tenta di capire quando è iniziato il tempo, se e come finirà. Il vivere reale (privato, sociale politico-economico...), e lo scorrere dell’attività bio-fisiologica dei nostri corpi ci distolgono da domande che paiono un po’ distanti sull’origine e la natura del tempo. Ma che tu sia Kant o Alfonso il fruttivendolo, un senso al tempo lo devi dare, almeno da un punto di vista generale. È quello che hanno fatto tutte le culture umane, pare: senza senso del tempo non c’è ordine sociale, non c’è scansione tra attività del lavoro e del riposo, non c’è attenzione sistematica al procurarsi sostentamento (raccogliere bacche nel bosco o progettare veicoli spaziali, è lo stesso), non c’è, quindi, pianificazione di nessun tipo. Senza senso del tempo (un senso certamente convenzionale, inventato, sperato) domina un caos forse romantico, ma probabilmente dannoso da un punto di vista biologico e sociale. Con queste premesse si prova una forte tentazione di scivolare verso una visione esistenzialistica del tempo, nel vedere la temporalità e la finitudine come Settembre 2011

questione cardine, come tratto che caratterizza l’uomo. Ma l’operazione è già stata fatta e ci si arriverebbe con molti decenni di ritardo nonché con poca originalità. D’altra parte, ha forse ragione chi sostiene una prospettiva quadridimensionalista degli oggetti che arredano il mondo (nostri corpi compresi), che l’estensione nel tempo delle nostre vite non è niente di più rispetto all’estensione spaziale del nostro corpo nello spazio. Dare un senso al tempo è un’altra faccia dell’esigenza che abbiamo di dare una giustificazione (essenzialmente a se stessi) a tutto quello che siamo, facciamo, vogliamo. È certamente possibile (come lo era per il senso del tempo) vivere senza giustificarsi e auto-giustificarsi. A nessuno è vietato il lasciarsi andare alla deriva, di provare nausea e spaesamento, di condurre la propria esistenza al seguito di Sua Maestà il Caso. Davide Donadio

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Tempus fugit Elogio all’ozio: un’enorme fatica a passare dai tempi stretti ed affannosi del lavoro a quelli più comodi del dopo-lavoro, si è reperibili ventiquattr’ore su ventiquattro, con doppio impiego, se no non si sbarca il lunario, votati al sacrificio in nome del PIL

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l tempo fugge, scappa lontano da noi, che siamo incapaci di fermarlo o viverlo appieno. Gli ultimi decenni del secolo scorso e i primi dieci anni di quello attuale avrebbero dovuto affrancare l’umanità dalla schiavitù del lavoro, l’imponente sviluppo tecnologico e l’automazione avrebbero dovuto fornire più tempo alla giornata dei lavoratori per coltivare i propri interessi e i propri affetti. L’idea illuminista del progresso che rende liberi si è, però, rivelata una bufala e se il tempo-lavoro ante crisi è stato votato alla produttività senza limiti e senza orari, il tempo della crisi economica odierna ha prosciolto i lavoratori mettendoli in cassa-integrazione, mescolando il riposo all’angoscia. Chi è ancora impiegato sembra faccia, comunque, un’enorme fatica a passaredai tempi stretti ed affannosi del lavoro a quelli più comodi del dopo-lavoro; si è reperibili ventiquattr’ore su ventiquattro, con doppio impiego, se no non si sbarca il lunario, votati al sacrificio in nome del PIL. “Otto ore per lavorare, otto ore per svagarsi, otto ore per dormire” è stato il

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motto del Congresso della Seconda Internazionale a Parigi nel luglio del 1889, ma anche il successivo mito della settimana lavorativa a 35 ore si è rivelato fallimentare e ora chi ha il lavoro se lo tiene stretto a scapito del proprio relax e dei diritti sindacali. Fatti non fummo a viver come bruti, ma rimaniamo ugualmente alla catena di montaggio (al bancone, alla cassa, scrivania...) molto più del dovuto e ringraziando dal profondo del cuore. L’attuale società post industriale fa da scenario al rapporto critico tra individui e tempo. Siamo sommersi da scadenze, con ritmi sempre più sostenuti. L’uomo occidentale o occidentalizzato a fatica rammenta che un arco temporale determinato non è una semplice risorsa di cui disporre e spende, vende, amministra, affitta, scambia o perde il proprio tempo come se fosse una merce. Esistono addirittura Banche del Tempo che vengono incontro alle esigenze di chi, di tempo, non ne ha mai a sufficienza. Queste associazioni mettono in sinergia i soci liberi da impegni professionali, ma con competenze diverse e diversificate, Settembre 2011


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favorendo lo scambio di prestazioni e non la compravendita di servizi. Si sostiene che la percezione del tempo abbia due categorie analitiche: una di tipo ordinativo, che regola le attività sociali e sincronizza gli individui nelle varie attività pratiche, l’altra di tipo orientativo, che pone l’accento sull’utilizzo del tempo “per sé”, al di là della classe sociale. La possibilità, infatti, di coltivare i propri talenti non è certo legata al ceto. Detta in modo più drastico, i cassa integrati avranno tempo, ma né denaro né voglia di andare al cinema, mentre i superimpiegati avranno quattrini, ma nessuna forza residua, né tempo sufficiente per svagarsi. Tra questi due estremi di non-facenti per forza e forzati del lavoro, esiste un’umanità fannullona per scelta o anormalmente attiva e, proprio al centro dello schieramento, ancora uomini e donne che dovrebbero coltivare e mettere a frutto i momenti di distensione, ma non riescono più a goderne. Nonostante ciò, il tempo libero, che diventa veramente libero se si è occupati per una durata ragionevole, ha un valore indiscutibile. Lavorare troppo è deleterio esattamente come non fare nulla, ma l’ozio è salvifico, purché non porti allo stordimento del consumismo estremo, della video dipendenza e all’uso compulsivo di alcool e droghe. Nell’uso comune e per retaggio culturale, dire “ozio” equivale a dire “perdita di tempo”, ma c’è stato un momento in cui Settembre 2011

l’ozio è stato considerato lo spazio necessario per la riflessione personale, una delle strade percorribili per arrivare alla conoscenza. “È il tempo”, diceva Aristotele, “da dedicare a quelle attività che sono eleggibili per se stesse e dalle quali non ci si attende altro che l’attività stessa.” Nei momenti di ozio i saggi ateniesi si sono confrontati su “che campiamo a fà”, fondamentale questione alla base della filosofia. Pur con evoluzioni differenti da Anassagora a Eschilo, da Sofocle ad Erodoto pare che i grandi pensatori del passato abbiano concordato sul fatto che l’Uomo insegue la felicità e la serenità: tutto sommato quello che oggi chiamiamo benessere. Tuttavia il benessere d’allora è lontano da quello odierno e nulla aveva a che vedere con la ricchezza, né con il consumo di beni, né con il potere. Il cittadino della polis cercava saggezza e conoscenza per vivere una vita giusta e felice. Ieri si discuteva nell’agorà, oggi sui blog, ma con quanta minore empatia! Ad Atene si curava l’anima attraverso il convivio e l’ozio “creativo” e, non si può dimenticare, anche grazie ai 28.000 schiavi che permettevano ai 2.000 pensatori di governare ed elucubrare a tempo pieno. In ogni caso, in tempi più recenti, anche Bertrand Russell nel suo Elogio dell’ozio riconobbe che: “Senza le classi con tempo libero, l’umanità non sarebbe mai uscita dall’era barbarica.” Oggi l’automazione ci dà in media mac-

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chine, computer ed elettrodomestici, ma abbiamo perso il gusto di pensare e abbiamo capito che la felicità è ormai un’illusione. Eppure l’ozio ci permetterebbe di interessarci ad ambiti non strettamente inerenti al nostro lavoro, ci consentirebbe di allargare la visuale e di usare la nostra creatività, mentre concentrarci unicamente sulle nostre attività lavorative ci conduce inevitabilmente ad un lento spegnimento di energie ed idee. La nostra giornata è scandita dagli orari lavorativi, da quelli della tv e dagli obblighi casalinghi, dalle necessità sportivo-salutistiche, dai doveri familiari e da quelli alimentari. Rimane fuori da tutto ciò il tempo inerte, come se il fare dovesse comunque e sempre sostituire l’essere e avessimo paura di gestire il nulla da soli; ma se l’ozio non è possibile o male impiegato, l’uomo si ripiega sulle sue frustrazioni, a meno di non aver trovato un lavoro coincidente ai propri desideri ed alle proprie aspirazioni. Proprio in ambito lavorativo, si può incontrare la “cultura organizzativa”, strategicamente favorevole al tempo libero. Quando in un settore lavorativo si sostiene la relazione, la comunicazione, il corretto modo di lavorare in équipe, di gestire lo stress e riconoscere i meriti, il lavoratore può riuscire a far collimare i propri bisogni e i propri sogni. Esistono oggi attività organizzativoaziendali,specialmente nelle imprese statunitensi, attente al benessere di chi lavora, non per spirito filantropi-

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co, ma perché lavorando meno e con più motivazione,si lavora meglio e si è più produttivi. Nondimeno la gestione dell’attività lavorativa e post lavorativa in Italia si distingue ancora da quella europea o d’oltre Atlantico. Dopo i dopolavoro fascista e le case del popolo, oggi il tempo libero degli italiani è conteso da club, circoli ricreativi, associazioni religiose, centri sociali, enti nazionali e chi più ne ha più ne metta, ma siamo ancora lontani dal gardening e da il do-it yourself anglosassoni, pur se giardinaggio ed hobbistica hanno aumentato il proprio fatturato. Abbiamo svaghi più tradizionali e prevedibili: lo sport, il cinema, il ballo. Poche occupazioni manuali, limitate occupazioni artistiche o culturali, diverse collezioni tradizionali: autografi, francobolli, cartoline, figurine e ne sono testimonianza le fiere di memorabilia che raggruppano ormai qualsiasi cosa. Il compartimento culturale è sempre un po’ in affanno, più cinema e meno teatro, più concerti e meno lettura, anche se pare che siamo tutti scrittori. Raramente il senso della nostra esistenza ritorna ancora sul “chi siamo- da dove veniamo- dove andiamo” e nel nostro arrabattarci giornaliero, siamo troppo distratti per proporre risposte, del resto anche chi, in passato, ha avuto più tempo di noi, non è che sia riuscito brillantemente nell’impresa. Maddalena Letari Settembre 2011


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Tempo, eternità in movimento

AMMINISTRARE IL TEMPO

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Time management: questione di buone abitudini

l tempo, governare l’unica risorsa veramente limitata è impossibile ed allo stesso tempo è sentito come un’esigenza. Per fare ciò si possono mettere in atto delle tecniche che, anche se non consentono di fare tutto, permettono il conseguimento del più alto numero di obiettivi possibili Troppo spesso soddisfare le aspettative degli altri, clienti, collaboratori, familiari, porta a lasciarsi influenzare da infondate urgenze e a dedicarsi a cose non strettamente necessarie. In tal caso non siamo noi a gestire il nostro tempo, ma sono gli eventi a gestire noi. Per riappropriarci della nostra capacità decisionale possono essere di aiuto alcune tecniche. Queste, utili soprattutto nell’ambiente di lavoro,possono essere applicate proficuamente nella vita di tutti i giorni, dalle faccende domestiche all’organizzazione di un viaggio. Va subito detto che è vivamente sconsigliata ad alcune persone, particolarmente refrattarie, in quanto si rivelerebbe del tutto inutile. Il tempo è l’unica risorsa veramente limitata e si svolge, e consuma, a prescindere dal nostro operato. Talvolta però è ulteriormente limitato dagli eventi contingenti. Lo sanno bene le neomamme che devono approfittare dei brevi momenti

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di pausa lasciati dai bambini, o lo studente angosciato dalla data di un esame importante. In questi casi l’espressione tipo è “sono incasinato, non ho tempo neppure per guardarmi allo specchio”. “È tardi, è tardi, sono in ritardo, in arciritardissimo!”, urlava Bianconiglio in “Alice nel paese delle meraviglie”. Viceversa talvolta il tempo sembra dilatato e, questa volta, è il contesto a limitare le cose da poter fare, come quando si è in coda, in viaggio o in attesa di un evento; in questi casi si ha l’impressione di perdere tempo e l’assillo diventa “come ammazzare il tempo”. Avere tempo vuol dire non avere urgenze, al contrario quando si vuole continuare ad accumulare risultati, il tempo non basta mai. Questo lo sa bene chi, come qualche politico avanti negli anni, pensa ad accaparrarsi sempre più cose prima della fine e si comporta in maniera insofferente verso chi vuol farlo ragionare sulle cose o vuole semplicemente arginare la sua ingordigia. A quelli come lui giova ricordare che dovrebbero farsi da parte per permettere un naturale avvicendamento anche perché le giovani leve, partendo da punti di vista meno sclerotizzati, potrebbero finalmente affrontare problemi annosi sapendo che

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ne beneficeranno o ne subiranno gli effetti anche a lungo termine. Come dice Albert Einstein: “Tutti sanno che una cosa è impossibile da realizzare, finché arriva quello che non lo sa e la fa!” Alla fine il problema sembra più gestibile se si ragiona sulle priorità ovvero sulle cose veramente importanti da fare rispetto ad altre che potrebbero attendere o che, semplicemente, non cree-rebbero grossi problemi se non fatte. Questo criterio non è esente da effetti perversi, infatti le priorità sono spesso condizionate dagli obiettivi personali e, quindi, dai meccanismi di premio (bonus) insiti nei moderni sistemi manageriali. Esempi sono le acquisizioni di aziende fatte per ingrandire le imprese senza un reale calcolo di convenienza economica ma per raggiungere la cosiddetta dimensione “too big to fail” (troppo grande per fallire) in cui scatta l’aiuto pubblico e delle banche se le cose dovessero andare male. Esempi si sono avuti recentemente con la GeneralMotor o, più vicino a noi, con la Fiat che ha sempre sfruttato la posizione di egemonia per condizionare scelte governative che aiutano a fare affari (rottamazioni), o che accollano al contribuente perdite e onerose ristrutturazioni (cassa integrazione e finanziamenti pubblici per aree tipo Termini Imerese). Tornando agli effetti perversi, altro esempio è il manager che, all’assunzione, ha contrattato un generoso sistema di bonus collegato

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alla misura di alcuni parametri, tale sistema è denominato MbO (Management by Objectives). Ebbene questi manager prenderanno le loro decisioni in funzione dell’effetto che esse avranno sui parametri in questione senza guardare se le conseguenze saranno positive o negative per la stessa azienda. Qualcosa di simile accade in politica dove le decisioni e le dichiarazioni sono condizionate dalla ricaduta che queste avranno sul consenso ovvero sulla possibilità di continuare a sfruttare una situazione di potere. Infatti quelli che hanno maggior successo sono circondati da specialisti il cui compito non è studiare i problemi ed indicare le soluzioni più idonee, ma, unicamente, di valutare in anticipo l’impatto che possono avere dichiarazioni e comportamenti. Sarà poi compito degli sceneggiatori suggerire le argomentazioni e le battute da recitare. A questo proposito è interessante il film Il Portaborse (Daniele Lucchetti 1991). Altra considerazione da fare riguarda la variazione fisiologica delle prestazioni durante la giornata. Alcune attività sembrano più agevoli nel mezzo della mattinata che nel primo pomeriggio o in tarda serata. Raffaele Giglietti

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pecca ti e te nta zioni


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Peccati e tentazioni

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Un binomio indissolubile

l concetto di peccato appartiene indubbiamente alla sfera religiosa. Ma non a questa dimensione della vita sociale e individuale siamo interessati, almeno non esclusivamente. Quello che vediamo, sentiamo, pensiamo condiziona il nostro comportamento. L’azione compiuta ricade tra i peccati o tra le virtù. Ma chi sanziona il peccato come tale, chi ha l’autorità di esprimere un giudizio sull’azione dell’uomo? I religiosi risponderebbero Dio (ognuno il proprio), altri sosterrebbero che la natura impone comportamenti corretti e altri li indica come sbagliati, altri ancora l’interesse, o semplicemente una serie di eventi e giudizi precari determinati dal contesto dove il peccato avviene. Tratteremo il peccato (con particolare attenzione all’elenco entrato nella tradizione dei “peccati capitali”) da più punti di vista. Il peccato come azione biasimevole influenzata dal giudizio di un comportamento sociale dannoso o da un atavico tabù, magari nato per convenienze “naturali” (e qui vi verranno incontro la sociologia e l’antropologia). Qui, come è facile comprendere, il peccato viene completamente umanizzato. Non sarà trascurato l’ambito teologico proprio del Cristianesimo Cattolico. Tra le più alte vette di speculazione religiosa, il pensiero teologico occidentale ha tentato durante il medioevo l’impossibile sintesi tra speculazione razionale e fede religiosa.

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La dottrina Cattolica sul peccato (ma non solo) si è formata in questo lungo processo, sistematizzandosi e irrigidendosi con la Controriforma prima, e con l’urto della scienza poi. Ma il peccato è anche sublime ispirazione per l’arte e la letteratura. Abbiamo scelto di interrogare (attraverso la voce di slavisti) peccati e peccatori della letteratura russa. I peccatori per eccellenza sono certo diavoli e demoni che hanno rinnegato Dio, ribelli che in epoca romantica furono simbolo di autonomia. Dove è stato applicato un moderato filtro d’ironia all’interpretazione del peccato, non è stato certo per la volontà di beffarsi di questo tipo di credenza, quanto piuttosto per disinnescare la bomba del senso di colpa e guardare con più libertà al nostro agire quotidiano. Tuttavia, l’accostamento di credenze religiose che hanno per natura una struttura dogmatica (è così perché il dio ce lo dice) a metodi di ricerca propri delle scienze sociali, non può che favorire una comprensione critica anche da parte di coloro che a queste credenze ispirano la propria vita. Rimane, spogliato dalla pesantezza dei secoli, il peccato rivisto e corretto in chiave moderna: la lussuria attraverso il web, la gola che si alimenta di hamburger e hotdog, la vanità di adolescenti che si pongono come obiettivo assoluto la visibilità televisiva Chi ci perdonerà da questi nuovi peccati? Settembre 2011


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Peccati e tentazioni

I Sette Peccati I peccati capitali erano otto e, un tempo, i peccatori non si dopavano

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ei cose odia il Signore, anzi sette gli sono in abominio: gli occhi alteri, la lingua bugiarda, le mani che spargono sangue innocente, il cuore che medita disegni iniqui, i piedi che corrono frettolosi al male, il falso testimone che proferisce menzogne, e chi semina discordie tra fratelli”. Proverbi, 6:16-19 Considerando le Scritture, non si ravvedono in esse espliciti indicazioni rispetto ai Sette Peccati Capitali; nella Bibbia l’unico riferimento ad una lista invisa a Dio viene riportato integralmente nel sottotitolo di questo articolo, tutto sommato un elenco di sette caratteristiche che sembrano rapportarsi all’identikit della persona iniqua, del peccatore verace. Più affini alla cultura popolare che ai testi Sacri, i Sette Peccati Capitali percorrono in lungo e in largo anche le arti, dalla letteratura alla pittura, dalla musica alla scultura, rappresentandoci tutti possibili colpevoli, comunque fallaci perché troppo umani. Durante il Medioevo i Sette Peccati erano otto, visto che la Chiesa aveva aggiunto alla lista anche la Tristezza, un po’ doppione dell’Accidia, ma più specifica del disprezzo per ciò che Dio aveva creato per gli uomini. Settembre 2011

Ma può ancora avere un senso parlare di peccati e peccatori al giorno d’oggi? Se il senso di colpa ci portasse ad un mondo migliore sarebbe perfino auspicabile. Non è stato così per duemila anni, figuriamoci in questo tempo confuso e neanche tanto felice. Anzi, i Peccati Capitali, forti della tradizione di sempre, si sono talmente integrati nel nostro vissuto da non sembrare più colpe delittuose, ma simpatiche trasgressioni condivisibili. Visto che, come i sette nani, se ne dimentica sempre uno, si tenterà, in questa sede, un loro excursus per ordine alfabetico, seguendo alcune suggestioni atropo-farmaceutiche. Se un tempo, infatti, i peccati si combattevano con il cilicio, se Dante ne dava una precisa collocazione nell’Inferno, oggi se ne può trovare una dettagliata catalogazione in farmacia, con relativo prodotto da assumere sia per sconfiggerli, sia per esaltarli. L’Accidia sembra essere il peccato che più assomiglia ai tempi che viviamo. Certo che l’attuale crisi economica ha dato una grossa mano alla mancanza d’iniziativa, alla depressione, al disinteresse verso gli altri e verso se stessi. È un estremo smarrirsi senza prospettive,

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Peccati e tentazioni

è l’ozio costretto e compulsivo, il male oscuro di cui scriveva Berto, la malattia incomprensibile in un mondo votato alla produzione e al fare che non tollera chi non produce e non fa. Il toccasana più famoso tra gli accidiosi, al secolo i depressi, è il Prozac, ma anche tutti gli altri antidepressivi hanno un fatturato in crescita. L’Avarizia è aumentata sensibilmente nella società del benessere, allargando la distanza tra chi non ha e chi ha troppo e difende con le unghie e con i denti il proprio patrimonio, meritando, per questo peccato, i paradisi fiscali. Se non si è avari di beni, si è avari di sentimenti. Ci danno fastidio i deboli, non c’è posto per i diversi, non si digeriscono i neri e i cinesi. Si vuole tutto senza essere disposti a dare qualcosa, se non due soldi in chiesa per lavarsi la coscienza. Si considera il mondo una proprietà esclusiva in cui gli “altri” non possono far valere i propri diritti, perché i nostri privilegi occupano tutto lo spazio. Camus diceva che “L’enfer c’est les autres”, per lui significava l’alienazione esistenzialista, ma per l’odierno avaro gli altri diventano solo un problema di ordine pubblico. La preoccupazione di avere un patrimonio e di doverlo difendere, porta inevitabilmente ad emicranie, cervicali e stati d’ansia, ci fa investire in sistemi d’allarme e in antidolorifici, ma il confessore o lo psicoterapeuta sono forse maggiormente indicati per guarire dall’ossessio-

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ne per il possesso compulsivo. La Gola è il peccato più manifesto e ingombrante. Le popolazioni dei paesi ricchi stanno progressivamente aumentando di peso, negli Stati Uniti la percentuale di americani in soprappeso sta sfiorando il 60%. In senso lato, il moderno peccatore di gola fagocita di tutto: brutture, violenze, ingiustizie, parolacce, grandi e piccoli fratelli, razzismo, sessismo, gossip, guerre e digerisce tutto con un rutto, senza scalfirsi. La bulimia odierna ci fa comprare qualsiasi cosa e il progresso sembra essere il modello più recente di cellulare e non la scoperta di un farmaco salva-vita. A questo proposito, in farmacia possiamo trovare drenanti, farmaci taglia-fame, digestivi, supposte o purganti. L’Invidia, com’è noto, è una brutta compagnia, è cieca verso quello che si ha e vede troppo bene quello che ha qualcun altro. È una passione che si vergogna di sé e si manifesta attraverso il silenzio e lo sguardo di sbieco, senza osare confessare il proprio desiderio malato. Se questo peccato trova nel confronto la propria dannazione, nell’emulazione ha un momentaneo sollievo. I tentativi di imitazione della bellezza e della giovinezza, oggi condizioni sempre più invidiate e raggiungibili, possono portare a farsi tagliare, succhiare, tirare fino all’inverosimile, a farsi spalmare di creme e di alghe, farsi tirar via parte dello stomaco e aggiungere più taglie al regSettembre 2011


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giseno, per raggiungere un modello ideale. Si arriva persino ad avvelenarsi con il botulino e sul bancone della farmacia le creme contro cellulite, rughe e smagliature tentano i meno giovani e i meno belli. Se questo può sembrare, in fondo, un peccato veniale, senza speranza appaiono quelli che si fanno rifare a somiglianza di qualcun altro, ma se vogliamo sedare quella punta d’acido che sorge alla bocca dello stomaco quando invidia qualcuno o qualcosa, un bel Maalox fa proprio al caso nostro. L’Ira è, come altre passioni, una necessità fisica che danneggia sia quando eccessivamente repressa, sia quando liberata e senza freni. È il peccato più comune, perché comune a tutti, talmente atavico da sembrare contro natura non cedervi. È il nostro Mr. Hyde che salta fuori spernacchiando il dottor Jekyll e ci mette in crisi con noi stessi, facendoci sperimentare l’identità dell’es, in barba alla razionalità e alla buona educazione. Oggigiorno l’ira è diventata il pane e il companatico della televisione più becera e della politica più bieca. Dai dibattiti urlati in TV alle risse tra studenti fuori della scuola, tutto diventa spettacolo da filmare e riproporre su You-tube. Per placare il nervosismo i prodotti da banco o con ricetta medica non mancano, dai calmanti blandi ai sedativi potenti e non a caso il Presidente della Camera ne ha suggerito l’uso ad un collega. La Lussuria, diventa vizio e peccato quando reifica l’oggetto del desiderio,

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quando non c’è più relazione, ma descrizione, non più scambio, ma solo eccesso. Dopo la cacciata dal Paradiso tutto si è complicato, dopo la rivoluzione sessuale tutto è più confuso. Ci conforta il fatto che anche S.Agostino chiedesse a Dio di renderlo casto, ma non subito e che Woody Allen, in ordine di importanza, anteponesse le sue pratiche lussuriose al respirare. Assieme alla Gola, a cui spesso si accoppia, è il crimine più divertente e socievole, il più trasgressivo e commercializzato, sia nelle case d’appuntamento, sia nei sexy shop, sia nei locali dedicati che sulle riviste specializzate. È il pepe che fa vendere di più, l’irresistibile tentazione. Nessuno ne è indenne, purtroppo, però, l’età doma l’istinto e l’estro, in questo caso, il Viagra fa miracoli, ma sarà bene presentare ricetta medica e dare una controllatina alle coronarie, prima di comprarlo. La Superbia per l’alfabeto arriva per ultima e per la Chiesa è storicamente il peggiore dei Sette Peccati Capitali. Nella mitologia pagana l’alterigia era incarnata da Prometeo che rubava il fuoco agli Dei, per il Vecchio Testamento il suo massimo rappresentante è stato Lucifero, che si credeva il più bello tra tutti gli angeli, gli arcangeli e i serafini. Nella società moderna, l’uomo si sente spesso invincibile: fa guerre preventive, pulizie etniche, gioca con le leggi della natura stravolgendole, dà la vita a chi non la vuole e viceversa, manipola la genetica di vegetali ed esseri viventi, oppure

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contribuisce con nonchalance alla loro estinzione, crea buchi nel cielo e costruisce ancora torri di Babele per raggiungere Dio, l’ultima l’ha eretta a Dubai. Per compensare tutto questo sforzo, dopo essersi fatti misurare la pressione, sarà bene chiedere al farmacista anche qualche energizzante di sintesi o omeopatico. I veri superbi, però, per credersi dio in terra, preferiscono essere riforniti dallo spacciatore sotto casa e di superbi ce ne devono essere parecchi in giro, a giudicare dalle analisi delle acque nostrane, che mostrano inquietanti risultati sulle percentuali di cocaina rinvenute nei nostri fiumi. Se un tempo l’espiazione era l’unica via per la salvezza, ora spesso non riusciamo neppure a riconoscere le nostre

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mancanze, tuttavia ne vediamo gli esiti e cerchiamo goffamente di porvi rimedio mettendoci un cerotto. Il minimo dolore necessita un sedativo: farmaci per tirarci su di giri, per calmarci, per riempici e per vuotarci, per toglierci la sofferenza dal corpo, ma non dall’anima, per aiutarci a peccare con più consapevolezza, se non con coscienza. Seguendo questa natura troppo umana difficilmente guadagneremo il Paradiso, ma si dice in giro che l’Inferno, benché abbia un pessimo clima, ha di sicuro una compagnia migliore. Maddalena Letari

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Complessità e fantasia

n approccio che si definisce sistemico si apre ad una concezione più ampia di una visione puramente meccanicistica-deterministica e gerarchica, dove il macroscopico è semplicemente più complesso del microscopico. Questo comporta, come ovvia conseguenze, che la crescita di conoscenza su dettagli sempre più minuti, non comporti di per sé accrescimento del sapere. Questa impostazione concettuale è definita emergenza: diversi elementi concorrono a formare sistemi che nel loro funzionamento non sono riconducibili alla semplice somma degli elementi stessi. L’interazione di elementi, infatti, comporta la modificazione del comportamento e della natura degli elementi coinvolti nel sistema. La cosa interessante è che questo approccio sistemico è applicabile a sistemi fisici, biologici, sociali. Si pensi al comportamento dei flussi economici e commerciali, di singoli volatili in uno stormo di uccelli, delle dinamiche cellulari interne agli organismi viventi. Risulta evidente che la gestione di questi nuovi e più complessi livelli di complessità richiede l’elaborazione di modelli, teorie e interpretazioni adeguate che tengano presente il fenomeno prima descritto dell’emergenza.

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Fin qui abbiamo descritto la teoria dei sistemi (o sistemica, nella forma teorizzata dal biologo matematico Ludwig von Bertalanffy nel 1969). Come questa teoria sia stata accettata e si sia evoluta è questione di storia della scienza e di storia sociale e qui non ce ne interesseremo. Basti solo accennare che le rigide differenziazioni disciplinari che ancora persistono hanno sensibilmente rallentato l’approccio sistemico nella scienza, seppure oggi risulti di fondamentale importanza nello studio di molti fenomeni fisici, biologici e sociali. Quello che qui ci interessa fornire, come spesso facciamo nelle brevi introduzioni al numero della rivista, è un semplice spunto. L’approccio sopra descritto comporta un grado elevato di interdisciplinarietà, ma questi ponti di conoscenza vengono costruiti solo in quello spazio (socioculturale e “filosofico”) che definiamo scienza. Proviamo per un attimo ad immaginare un’estensione impropria di questo approccio. Non si parla, quindi, di una semplice influenza o scambio tra pratica scientifica e pratica non-scientifica (area semantica troppo estesa che comprenderebbe mito-religione, arte, emotività). Settembre 2011


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Questo esiste già e ha provocato talvolta danni – si pensi a quelle vecchie e nuove religiosità superstiziose che tentano di ammantarsi di giustificazione scientifica e razionale – e talvolta hanno prodotto piacevoli esiti di intrattenimento – è il caso della letteratura di fantascienza o dell’arte ad essa ispirata. Proprio al fare un certo tipo di arte, e nello specifico alla dimensione del narrare, si potrebbe e dovrebbe lanciare un ponte di collegamento tra scienza interdisciplinare. La letteratura, avvalendosi di parole-concetti, gode di uno status privilegiato per tale incontro. L’operazione – divertita e seria allo stesso tempo - che qui proponiamo non si riduce all’inserimento di temi scientifici nel narrare letterario o all’estensione di una forma più propriamente narrativa al fare scienza. Nel superamento sempre proclamato e mai realizzato della frammentazione disciplinare e della divisione in comparti stagni del conoscere e dell’espressione umana, si aprono nuovi fronti. Stiamo parlando di nuove forme di immaginazione che racchiudano sia il piacere dell’espressività artistica, sia la proposta di una nuova lettura dell’uomo contemporaneo e del mondo con il quale interagisce. La limitazione al primo caso produce semplice fantascienza o esposizione compiaciuta dell’oceano magmatico dell’interiorità umana, mentre limitarsi Settembre 2011

alla lettura dell’uomo contemporaneo è compito al quale la scienza sociali si dedicano talvolta con profitto. Le domande che qui poniamo come proposta di lavoro e alle quali non diamo risposta sono le seguenti: l’integrazione tra narrare e scienza potrebbe portare alla crescita o alla nascita di nuove forme di conoscenza? Non sono stati proprio i periodi storici che hanno registrato una continuità narrazione-filosofia-scienza quelli che hanno apportato un maggior contributo alla civiltà?

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Geometrie calviniane Il rapporto tra letteratura e scienza nell’opera calviniana e la lettura dell’uomo contemporaneo Sperimentazioni. Le formule schematiche dei testi scolastici ci presentano spesso un Italo Calvino “realista”, contrapposto ad un Calvino “fiabesco e fantastico”. Seppure le schematizzazioni siano spesso fuorvianti, è indubbio che a partire dagli anni Sessanta l’opera calviniana entra in un momento di sperimentazione dai forti connotati fantastici. A posteriori, come verrà anche spiegato più avanti, pare che la fortuna di critica e di pubblico sia stata qualcosa di costante. In realtà, il mondo culturale di allora mosse critiche pesanti al nuovo corso dell’opera calviniana. La contaminazione tra arte e scienza venne vista come una sorta di tradimento della letteratura. Carlo Cassola, uno dei più noti scrittori di allora, poneva, ad esempio, la realtà semplice come elemento fondante del fare letteratura. Non era interassato al fervore di cui godevano in quel periodo – soprattutto sotto l’influenza francese – l’antropologia, la linguistica, lo strutturalismo. In una lettera a Giulio Davico Bonino del 1966 Cassola ribadiva un’incompresione di fondo tra la sua concezione di letteratura e quella di scrittori come Calvino: «Niente da fare, non ci intendiamo. Essi cercano di tra-

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sferire certi fatti culturali nuovi (come la nuova linguistica) di peso nella letteratura: operazione impossibile, fatta a tavolino, che non tiene conto dei fattori letterari essenziali, che sono: la natura e la storia personale di ciascuno di noi». Calvino e la scienza. Che spazio avevano queste nuove discipline, la scienza e la sperimentazione nell’opera di Calvino? Sebbene Calvino sia rimasto per tutta l’esistenza un razionalista, non si deve pensare che il suo interesse fosse teoretico. Tutto ciò che ha il sapore della scienza e della tecnologia (soprattutto in raccolte come le Cosmicomiche e Ti con zero) è in funzione della letteratura. Calvino intendeva rileggere il suo tempo attraverso il dato scientifico. Era proprio la scienza, infatti, a rivelare una realtà sempre più complessa ed un mondo sempre più dilatato. Lungi dall’essere un puro ottimismo sulle potenzialità del progresso, il ricorso alla scienza è per Calvino una via per leggere l’uomo contemporaneo e il suo contesto. E quale poteva essere il punto di partenza migliore di una scienza puntiforme, instabile perchè sempre in movimento? È vero, d’altra parte, che il rapporto CalviSettembre 2011


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no-scienza conserva quella carica “fiabesca” che ormai risulta formula stereotipata, ma che rimane valida. Il fantastico, però, rimane strumento di indagine sul reale, fiaba e scienza si conciliano. Una delle voci più influenti sul nuovo corso delle opere di Italo Calvino era stato sicuramente il filosofo della scienza Giorgio de Santillana. Calvino condivideva la lettura di de Santillana sul mito come forma di razionalizzazione del rapporto tra uomo e cose. La scienza fa esattamente lo stesso. Talvolta Calvino si trovò di fronte alla definizione di autore di fantascienza. Ne era fortemente contrariato. Se, infatti, la fantascienza avvicina ciò che è lontano per renderlo ordinario e accessibile e addomesticare l’immaginazione, l’opera di Calvino mirava a realizzare il contrario: «Io vorrei servirmi del dato scientifico come d’una carica propulsiva per uscire da abitudini dell’immaginazione, e vivere anche il quotidiano in termini più lontani dalla nostra esperienza; la fantascienza invece mi pare che tenda ad avvicinare ciò che è lontano, ciò che è difficile da immaginare, che tenda a dargli una dimensione realistica o comunque a farlo entrare in un orizzonte d’immaginazione che fa parte già di un’abitudine accettata.» (dall’introduzione di La memoria del mondo e altre Cosmicomiche – 1968). La fortuna di Calvino. A venticinque anni dalla sua scomparsa, la fortuna di Settembre 2011

Italo Calvino è ancora in ascesa, nonostante il mercato editoriale sia attualmente dominato da una letteratura di facile consumo. Anche lo stato degli studi delle sue opere è ancora fiorente. Tuttavia, Calvino non è uno scrittore facile: la sua scrittura, così piana e gradevole, presenta in realtà piani di lettura e un retroterra culturale complesso. Per conoscere meglio la figura di Italo Calvino e il perché della sua fortuna, abbiamo posto alcune domande a Gino Ruozzi, docente di Letteratura italiana all’Università di Bologna. Come è possibile spiegare questa sua fortuna? Secondo il Professor Ruozzi «Calvino non è uno scrittore facile, ma non è neanche uno scrittore labirintico come Gadda o altri. È uno scrittore che si fa leggere ed è anche uno dei principali autori del secondo Novecento studiati a scuola e anche questo ha contribuito a renderlo conosciuto. Si può dire che sia uno di quegli autori fortunati. Ha esordito subito: quando aveva poco più di venti anni è diventato celebre con Il sentiero dei nidi di ragno, un classico della letteratura del secondo dopoguerra». Per fare un paragone in tempi più recenti basta pensare a quanti si sono stupiti del successo de La solitudine dei numeri primi, scritto da Paolo Giordano a soli ventisei anni. Ecco, seppur di poco, Giordano è più vecchio del Calvino degli esordi: Calvino aveva, infatti, ventiquattro anni quando scrisse Il sentiero dei nidi di

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ragno. Inoltre, come ricordato dal Professor Ruozzi, il destino letterario di Calvino e in parte la sua fortuna sono da ricondurre anche agli stretti rapporti intercorsi tra Calvino e la casa editrice Einaudi, una delle officine culturali più attive dell’Italia di quel periodo. Calvino per gran parte della sua vita, infatti, ha lavorato per l’Einaudi, quando questa era la casa editrice italiana di riferimento per gli intellettuali. Dopo essersi laureato nel 1947, Calvino ha iniziato la sua collaborazione con l’Einaudi, curandone prima l’ufficio stampa e ottenendo poi nel corso del tempo incarichi sempre diversi e via via più importanti. Questa collaborazione è durata fino al 1961, quando si è trasformata in una consulenza editoriale esterna. Inoltre, il lavoro presso la casa editrice gli ha permesso di respirare quello che era il clima culturale di quegli anni, di conoscere le nuove correnti di pensiero e di frequentare altri grandi autori del suo tempo, come Elio Vittorini, Cesare Pavese, Natalia Ginzburg, Norberto Bobbio e Felice Balbo. Sebbene nato da una famiglia di scienziati - il padre era un agronomo mentre la madre era assistente di botanica all’università - Calvino non si dedicherà alla scienza (“Tra i miei familiari solo gli studi scientifici erano in onore. Un mio zio materno era un chimico, professore universitario, sposato ad una chimica. Anzi, ho due zii chimici spostati a due zie chimiche. Mio fratello

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è un geologo, professore universitario; io sono la pecora nera, l’unico letterato della famiglia”). Eppure lo scrittore ligure rimarrà sempre affascinato dal cercare di capire il funzionamento del mondo e delle sue leggi. Questo suo tentativo di indagare il mondo e la realtà talvolta da un certo periodo in avanti assume le forme di una nuova sperimentazione linguistica: è il periodo che inizia con le Cosmicomiche. Il protagonista di questi racconti è un personaggio dal nome impronunciabile, Qfwfq, vecchio quanto l’Universo e che vive gli eventi epocali dell’intero Cosmo. È presente prima del Big Bang, durante, dopo, nel periodo preistorico, nelle viscere della terra, e così via. Lo spunto per ogni breve racconto è una teoria scientifica, e a questa si riallaccia il discorso del personaggio calviniano. Quello che caratterizza il romanzo è il filo che lega da una parte il divertimento surreale, il gioco della fantasia, e dall’altra invece, l’interesse per l’uomo contemporaneo. L’interesse per questi due aspetti sembra, infatti, andare di pari passo. «La cosa che caratterizza Calvino è questo tentativo di capire la realtà. – sottolinea il Professor Ruozzi – Per questo motivo il fantastico non è fine a se stesso, ma viene usato per spiegare qualcosa. È un fantastico diverso da quello del racconto dell’orrore o della paura. È un tipo geometrico di fantastico, a tratti quasi cabalistico, vi è un ricorso ad una Settembre 2011


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sorta di numerologia, e il tutto è teso al tentativo di capire quelle che sono le proporzioni del mondo. La realtà viene guardata con i suoi simboli, cercando in qualche modo di riprodurla e di capire le sue leggi. Anche tramite il ricorso qui ad una dimensione più cosmica, più esotica». L’insistenza sul fantastico e sul surreale presente nelle Cosmicomiche è solo uno dei momenti dell’opera letteraria di Calvino. Solo pochi anni dopo la pubblicazione delle Cosmicomiche, infatti, si assiste al passaggio dalle divertite Cosmicomiche, ai racconti deduttivi, più freddi e cervellotici, di Ti con zero e Le città invisibili. Come è possibile spiegare questo cambiamento? Secondo il Professor Ruozzi in realtà non è un vero e proprio cambiamento: «Calvino è sempre un po’ freddo. Si può dire che a volte sia addirittura un po’ troppo sulle sue». Questa è una delle critiche mossegli più frequentemente e che ha portato alcuni a vedere come opposti Calvino e Pasolini. Il primo più incentrato sulla letteratura, sul modo di costruire le storie, e perfettamente integrato con il mondo letterario, mentre il secondo principalmente rivolto a un tipo di letteratura ideologica e politica e in conflitto con l’istituzione letteraria. Eppure, entrambi gli autori sono uniti da una forte passione per la letteratura che li ha portati a sperimentare diversi ambiti espressivi. Forse è anche per questo motivo per cui, come ci spiega il Settembre 2011

Professor Ruozzi, «questa opposizione è ricorrente anche nella critica letteraria di oggi; per alcuni non è una vera opposizione, ma una diversità di pensare. Sia Calvino che Pasolini fanno lo stesso percorso, anche se affrontano le cose in modo diverso. Sono in realtà più simili di quello che si pensa». L’introspezione. Calvino diceva di non amare particolarmente un tipo di letteratura introspettiva. Tuttavia, il rimuginare di Palomar, non è in larga parte introspezione, anche se sempre a partire dal confronto di Palomar- Calvino con il mondo? Calvino sosteneva che “è impossibile scrivere se non di ciò che si è vissuto per anni e anni e che lungi dal divertirci e dall’interessarci ci ha annoiato e fatto soffrire” (Lettera a Raffaello Brignetti, 1953). A Calvino riesce, quindi, di eliminare se stesso dalla propria opera o è vittima, come tutti gli autori, dalla sua imprescindibile realtà interiore? «Calvino è uno scrittore dalla poetica ricca: dalla sua penna sono nati romanzi, ma anche saggistica e prefazioni. – precisa il Professor Ruozzi Però ha sempre tenuto a ribadire che la poetica di uno scrittore va giudicata soprattutto dalle sua opera, non sulla base di ciò che uno scrittore può aver detto da un punto di vista puramente teorico. Certo, quella di Palomar non è un’introspezione tradizionale, non si ritorce sull’Io. Libri come Le città invi-

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sibili e Palomar sono introspettivi, però di un’introspezione che è sempre spunto per confrontarsi con la realtà. Questa dichiarazione è quella di un Calvino giovane (ha 30 anni), è una dichiarazione storica, che però appartiene di più a quegli anni. Calvino ci ha dimostrato che è possibile scrivere di tante cose contemporaneamente. Questa forse è la sua più grande qualità». Osservando la produzione letteraria di Calvino, si può notare come da un più terreno Marcovaldo, passando al cosmico Qfwfq, fino al filosofico Palomar, il malinteso, l’incomprensione e lo “sfilacciamento” dei rapporti sociali sembrano avere un ruolo importante nell’economia del rapporto con l’altro. Come confermato dal Prof. Ruozzi, questi elementi hanno un ruolo importante non solo nella poetica di Calvino, ma anche nella costruzione di molti romanzi in generale. Senza le incomprensioni, infatti, molta parte del fare letteratura non esisterebbe. Probabilmente è anche a causa di questa visione disincantata del mondo e dei rapporti tra simili che l’opera di Calvino sembra rivestita, seppur con forma razionale, di un pessimismo a tratti leopardiano, per il quale egli stesso prova pudore. Questa visione della poetica di Calvino trova d’accordo anche il Professor Ruozzi: «Calvino lo sento molto solo, sostanzialmente pessimistico. D’altra parte il termine pessimismo va ripensato. Il pessimismo di Calvino si

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colloca su un piano di realismo. Discorre di tante cose della realtà, della sua realtà. Calvino non ha altri mondi, cerca di parlare di questo mondo e di vari mondi possibili. Certo, le sue conclusioni non sono mai particolarmente luminose: ha uno sguardo disincantato sul mondo. Pensiamo a Palomar, ad esempio, quando il personaggio calviniano entra in una macelleria. Calvino ritiene importante che gli elementi materiali trattati siano elementi della nostra vita. Ecco, lo scrittore ligure si sofferma a lungo su questi elementi materiali, cercando di trarne qualche spiegazione. In questo suo approccio forse è rimasto affascinato e influenzato dalla scuola francese che, per rimanere al tema, è molto più geometrica rispetto alla nostra cultura, molto più attenta alla ricchezza e alla forma costruttiva». Calvino oggi. Per concludere, se si considera la storia della letteratura, quale posto occupa oggi la figura di Calvino nella letteratura italiana del Novecento, e nel complesso della storia letteraria italiana? La sua fortuna internazionale, cominciata già quando l’autore era in vita, continua ancora oggi? Spiega il Prof. Ruozzi: «Calvino è il classico del secondo ‘900 che si propone a scuola. La sua figura giganteggia all’interno della nostra letteratura, molto più di tanti altri e tutto sommato con una vita piuttosto breve: è morto a poco più di sesSettembre 2011


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santa anni. Però la sua carriera è stata molto intensa, in quaranta anni la sua opera ha assunto una mole notevole. È stato certamente il protagonista della nostra vita culturale ed è un protagonista in crescita. Questo su un piano di fortuna editoriale, parlo in sostanza di vendita di libri, sia da parte della critica che continua a dedicargli studi e attenzione. Questa fortuna ha anche importanti risvolti internazionali». A cosa possiamo attribuire questa fortuna? «Calvino interpreta i segni dei tempi del secondo Novecento. La sua letteratura è il tentativo di rispecchiare questo spirito del tempo, è un autore attento al contesto sociale e culturale in cui vive e ai cambiamenti che si verificano. Alcuni ritengono che Calvino non sia fino in fondo un vero e proprio narratore, ma che sia più da considerare alla stregua di un pensatore. Questo perchè, come

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dicevamo prima, rimane una certa impressione di freddezza nelle sue costruzioni e rimase estraneo al grande romanzo. Calvino non ha forse nessun grande romanzo, in termini proprio di consistenza: i suoi romanzi sono poco voluminosi, vi intervengono molti personaggi e la drammatizzazione talvolta ha un sapore non autentico. È questa una delle critiche più forti mosse rispetto alla grandezza di Calvino. Tuttavia, è solo una parte minoritaria della critica a pensarla in questo modo». Testo introduttivo di Davide Donadio Intervista a cura di Paola Torelli

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Essere non è più abbastanza Lo sforzo creativo e la fatica di crescere

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a vostra nuova conoscenza non farà passare cinque minuti dal “piacere, mi chiamo…” al “cosa fai?”, convinta, in questo modo, di conoscervi realmente. Il grosso inganno dei rapporti sociali e affettivi sta tutto qui: aver bisogno di collocare chi si ha davanti in un ruolo definito che rassicuri, cercare di sapere non tanto ciò che si è come persona, ma cosa si fa nella vita e non avere dubbi sullo status sociale. Le nostre azioni sono la nostra carta d’identità e le nuove generazioni vengono su a pane ed efficientismo, cercando, con uno sforzo enorme, di far collimare natura e cultura, coscienza di sé e coscienza del sociale. Racchiuso in una fisicità limitata dall’appartenenza al sesso, l’adolescente materializza ciò che, in potenza, è stato da bambino e deve assumere la dolorosa responsabilità della sua forma definitiva, in cui qualcosa è sempre o “troppo” o “troppo poco”. Cresciuto narcisisticamente nell’affetto ottenebrato della famiglia odierna, non si riconosce e si sente talmente estraneo da sé, da pensare sempre di uccidere il proprio corpo senza farsi male: la pulsione di morte

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convive con il senso di onnipotenza nel faticoso cammino verso l’adultità. Il percorso è costellato da “ingenue” sfide: dall’uso di sostanze, alla guida pericolosa, dal rapporto squilibrato con il cibo, alle relazioni sociali e sessuali sopra le righe, ma non sempre e non solo per l’omologazione necessaria ad essere accettati dentro una comunità. È all’interno al gruppo amicale che il “corpo naturale” si trasforma in “corpo sociale”. A differenza delle generazioni che li hanno preceduti, gli adolescenti di oggi non comunicano più verbalmente, ma attraverso i loro corpi, coprendoli di piercing, tatuaggi, marchi a fuoco, tagli. Il dolore fisico acquieta la sofferenza spirituale della crescita. La crisi che doveva essere “normale” nell’evoluzione adolescenziale, oggi diventa il tentativo di dichiararsi e di annullarsi allo stesso tempo, i ragazzi sono stretti tra l’impossibilità di comunicare efficacemente ed il dovere di uniformarsi e confrontarsi con modelli e valori in costante fluttuazione. In più i cambiamenti nei rapporti sociali e valoriali hanno subito una accelerazione negli ultimi anni tale che gli stessi ragazzi

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non si riconoscono più nei loro quasi coetanei più piccoli: il cambio psico-generazionale si attesta, ormai, sui cinque anni al massimo. Il modello educativo dell’adolescenza di 30/40 anni fa, colpevolizzava rispetto al sesso e al dovere. I rapporti con i coetanei erano ancora regolati da “sani” tabù e bisognava studiare perché era un vincolo e quindi non c’era bisogno di alcuna incentivazione: nessun motorino per la promozione, nessun cellulare per un bel voto. L’alleanza genitori-insegnanti si basava ancora sul rispetto reciproco e sulla necessità di collaborare per segnare dei confini definiti e condivisi. L’etica del successo e del consumismo ha relegato gli insegnanti ad un ruolo marginale e colpevole della non riuscita dei propri figli a scuola. Di fronte ad una nota, se un tempo partiva uno scappellotto senza possibilità di replica, adesso il genitore si sente in dovere di valutare i pro e i contro e di far comunque pendere la bilancia sempre a favore del figlio. Del resto non è un modello da seguire un insegnante che, per due lire, si è spaccato la schiena sui libri senza pensare mai di andare al Grande Fratello e guida un’utilitaria di poche pretese. Oggi, sparito il senso di colpa e cassati gli scappellotti (altrimenti parte la telefonata al Telefono Azzurro), non più costretti da regole rigide ancorché condivise, i ragazzi non vogliono far crescere il proprio corpo: i bambini che Settembre 2011

sono stati si sono pasciuti dello sguardo adorante dei genitori ed è difficile abbandonare l’idea di essere idoli intelligentissimi, simpaticissimi, abili con il computer e con tutti i canali comunicativi dell’hi-tech, che vengono usati meglio da loro che dagli adulti. Trovarsi dentro ad un corpo mediocre, cioè non conforme all’essere meraviglioso che i genitori hanno raccontato loro di essere, porta gli adolescenti direttamente al senso di vergogna ed inadeguatezza. Schiavi dell’ideale narcisistico e del successo, i ragazzi non hanno scampo, se il senso di colpa poteva essere acquietato dal fare, la vergogna diventa un segno indelebile, spesso insostenibile. Se i “no” di un tempo umiliavano, ma facevano crescere, i troppi “sì” di adesso, imputabili alla mancanza di tempo e all’incoscienza di genitori spesso più infantili dei propri figli, fanno cadere nel disorientamento e nell’alienazione. Date queste premesse non è più così impossibile decodificare quello che gli adolescenti ci gridano, senza parlare, nell’isolamento dei loro i-pod o dietro la porta della loro inaccessibile camera da letto. Chiedono comunicazione, condivisione e coerenza. La comunicazione fa difetto perché il linguaggio comune si è sgretolato. I ragazzi confondono conoscere con contattare e reputano amici tutti i loro incontri su Facebook; cercano di sentire passioni profonde facendosi male, ma

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rimangono impassibili di fronte alle scene più crudeli, virtuali o reali, in TV o al cinema; dicono di “amarsi alla follia”, ma lo dicono a tutti e troppo spesso. Non hanno più il senso del tempo, in questo ancora una volta coadiuvati dai genitori, creatori per tornaconto del palinsesto della loro vita che, dall’infanzia, comprende: danza, calcio, compiti, basket, fitness, ripetizioni private. Gli adulti incasellano le loro esigenze lavorative tra un tempo pieno e un allenamento e la famiglia, la sera, si riunisce senza colmare le distanze, ognuno perso dietro ai fatti suoi, come direbbe Vasco. È sparito anche il tempo del gioco, non si condividono né regole reali, né sana competizione se si vive davanti alla play station: si risetta e si riparte dal livello inferiore. Nella frammentazione dei loro avatar i ragazzi sperimentano le sfaccettature del loro divenire, ma gli adulti li lasciano soli in questa ricerca, attenti maggiormente alle prestazioni che al dialogo, sia a casa che a scuola. L’assetto sociale è cambiato e sempre di più le famiglie non reggono all’impatto con la realtà quotidiana, la routine e i sacrifici economici. Normalmente si divorzia e si trattano i figli come ostaggi. Sbriciolata la condivisione degli intenti, mandato all’aria il progetto di vita per sé e per i propri bambini, i genitori non condividono neanche i propri doveri, pensando di avere solo dei diritti. A scuola come a casa, gli adulti barat-

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tano la coerenza con il quieto vivere, così alle mancanze non si fa seguire una punizione certa, si sorride alle marachelle fino a che queste non diventano bullismo e il consiglio di classe è tenuto sempre più a compilare carte e sempre meno a cercare strategie comuni, coerenti e condivise per l’educazione dei suoi alunni, che precede necessariamente l’istruzione agli stessi. In questo desolante scenario la creatività che ci azzecca? Potrebbe essere l’unica possibilità di salvezza, ecco che ci azzecca. Ci vuole uno sforzo creativo, infatti, per spegnere la televisione e parlare con i propri figli, lo stesso impegno lo si richiede in aula aiutando i ragazzi a capire ciò che li circonda. La responsabilità di formare il pensiero passa attraverso la relazione e l’acquisizione di strumenti adatti all’impresa, ma senza una personale, coercitiva lettura della realtà, senza verità assolute e imposte, senza sovrastrutture, ma soprattutto avendo sempre coscienza dei bisogni degli alunni, bisogni che cambiano velocemente e che non permettono di fare, anno dopo anno, le stesse cose o di farle comunque nello stesso modo. Ci vuole tanta fantasia per capire l’exmarito e l’ex-moglie e convenire sul fatto che non si possa essere ex-genitori e altrettanta ce ne vuole per condividere gli obiettivi educativi a scuola e non lasciarsi prendere dal “perquellochemipaganofaccioanchetroppo”. Settembre 2011


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È necessaria parecchia immaginazione per pensare ad un modo coerente di gestire i rapporti adulti-bambini/adolescenti in un mondo che rema contro e vuole tutti uguali e asserviti ed è ancora imprescindibile il fatto che, se non si cambia rotta, dovremo sopportare un creato non creativo, sempre più omo-

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logato e piatto, dove chi ha qualcosa da dire viene zittito con uno sguardo di disprezzo. Maddalena Letari

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Letteratura potenziale Come si produce letteratura? Da dove nascono le opere poetiche e narrative? È tempo di liberarsi dell’immagine tradizionale del poeta ispirato, dotato di un’intelligenza e di una fantasia fuori dalla norma

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ulipo e la letteratura potenziale. Concentriamoci sul secolo appena concluso, il ventesimo, padre di innumerevoli avanguardie artistiche e generatore di sperimentazioni acrobatiche in quasi ogni settore dello scibile umano. Focalizziamo la nostra attenzione sulla letteratura. Restringiamo ancora di più il campo, per individuare i più significativi tra gli esperimenti in campo letterario. Ed ecco che il nostro sguardo finirà inevitabilmente per soffermarsi sulla Francia, la Francia di Oulipo, per la precisione. Oulipo nasce nel 1960, per iniziativa di Raymond Queneau e di Francois Le Lionnais; è l’acronimo di Ouvroir de LIttérature POtentielle, traducibile in italiano come “laboratorio di letteratura potenziale”. Cosa si intende per letteratura potenziale? Questo richiamo aristotelico, molto frequente anche nel linguaggio comune (di solito si dice di uno studente che ha grandi potenzialità proprio quando i suoi risultati in campo scolastico potrebbero essere eccellenti

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mentre, di fatto, risultano scarsi), indica una letteratura che non è ancora stata creata, che di fatto non esiste, ma che può essere portata alla luce partendo da opere preesistenti oppure da nuove regole e procedimenti linguistici. Oltre ai già citati Queneau e Le Lionnais, di Oulipo facevano parte anche George Perec e Francois Roubaud, nonché altri letterati e matematici francesi; e nel 1972 venne invitato a prendervi parte anche il nostro Italo Calvino. La ricerca di nuove strutture. I membri di Oulipo cercavano di distaccarsi dalla seriosità della cultura, in specie quella accademica, e di fare della creazione letteraria un gioco stimolante e ironico. Con un atteggiamento a cavallo tra il rigorismo più rigido e la fantasia più sfrenata, ritenevano che determinate costrizioni (in francese contraints), restringendo il campo delle possibilità, di fatto stimolassero a creare opere innovative. Alcuni di questi vincoli consistevano in limitazioni, ad esempio il divieto Settembre 2011


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di utilizzare una o più lettere dell’alfabeto (in gergo tecnico lipogramma), altri in metodi di auto-generazione di testi, come nel caso dell’imposizione di sostituire ogni termine di un testo preesistente con un altro ricavato per mezzo dei procedimenti più vari (ad esempio, sfogliando il vocabolario sempre di uno stesso numero di pagine). Possiamo dire che lo scopo di Oulipo fossero i mezzi, più che i fini, l’invenzione di procedimenti linguistici e strutturali sempre nuovi e sempre più restrittivi, più che il risultato dato dalla loro applicazione. Ambiguità della letteratura potenziale. Seguendo alla lettera la definizione appena data, potremmo affermare che ogni poesia tradizionale, nel senso di riconducibile ad un dato schema fatto di regole e restrizioni codificate (relative al numero di sillabe, agli accenti, alle rime, ecc.), è di fatto un’opera di letteratura potenziale. Ma allora, ci siamo detti, gran parte della produzione poetica potrebbe rientrare sotto questa etichetta, o trovarsi in una posizione liminare. Qual è dunque il criterio per individuare un’opera di letteratura potenziale? Abbiamo rivolto questa domanda a Ruggero Campagnoli, ordinario di Letteratura Francese presso l’Università di Bologna, nonché traduttore dei lavori oulipiani nel volume Oulipo. La letteratura potenziale. (Creazioni Ri-creazioni Ricreazioni). «È proprio questa, a mio Settembre 2011

parere, la grandezza e la funzione storica dell’Oulipo: aver creato un’ambiguità attraverso la quale può passare il rifiuto del modernismo e delle sue avanguardie sul recupero della tradizione. Non c’è dubbio che il sonetto sia una struttura in senso oulipiano, ovvero un sistema di restrizioni abbastanza forte per essere meravigliosamente produttivo, e in più che sia una struttura dotata, in quanto tale, di una bellezza sublime, già celebrata nei secoli. Tuttavia, non è più una struttura oulipiana, anche se in senso proprio lo è stato al momento della sua invenzione, perché le sue esecuzioni si sono moltiplicate. La logica oulipiana sposta l’attenzione sulla struttura più che sull’esecuzione: anzi, l’esecuzione è solo una dimostrazione della potenzialità, in senso aristotelico, della struttura; quindi una seconda esecuzione è priva d’interesse. Tuttavia, nascosta anch’essa dietro lo scherzo, c’è una chiara implicazione. Quando un oulipiano si accorge di aver proposto una struttura già inventata, capovolge ironicamente il senso della storia e chiama il vecchio modello “plagio per anticipazione”: è l’antico che plagia il moderno. In questo modo l’oulipiano rimuove l’imitazione, concetto che rivelerebbe il fondamento classicheggiante dell’oulipo. Ma, dietro il rifiuto modernistico dell’imitazione, c’è il recupero della confezione contro l’ispirazione, con cui si apre un percorso all’indietro nel tempo. Basta accettare la

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moltiplicazione delle esecuzioni e si torna all’atteggiamento neoclassico.» Divieto di ripetizione. «La struttura rigidamente oulipiana - continua il professor Campagnoli - non può essere utilizzata più volte, pena la ricaduta nell’imitazione. L’oulipo conserva uno statuto sperimentale solo nella produzione di nuove strutture, e non nella produzione di esecuzioni. Dalla seconda esecuzione lo statuto della creazione letteraria non è più sperimentale, è imitativo e, essendo imitativo di restrizioni codificate, è più vicino all’accademia che all’avanguardia. L’Oulipo fa di tutto per rimuovere questa vicinanza, eppure fra i suoi numi c’è il poeta Paul-Jean Toulet, inventore delle “contrerimes”. PaulJean Toulet apparteneva a un gruppo di poeti detti “fantaisistes”, abbastanza legati alla tradizione simbolista, un poeta arretrato dunque, rispetto all’esplosione a lui contemporanea del modernismo antiaccademico –poeta finissimo però, sottovalutato appunto dai modernisti per ragioni ideologiche. Se l’unico modo per mantenere viva la letteratura potenziale è continuare a sperimentare sempre nuovi meccanismi combinatori e restrittivi, sorge spontaneo il dubbio: un giorno essi si esauriranno? Oppure potremo continuare ad inventarne all’infinito? Non esiste a mia conoscenza una teoria abbastanza potente da limitare il numero possibile delle restrizioni, né

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una teoria capace di dimostrarne l’infinità. Quindi le risposte positive o negative sono chiaramente infondate, cioè non hanno fondamento sufficiente.» Oplepo e Opelpo. Ruggero Campagnoli non è solo traduttore, ma poeta egli stesso. Alcuni anni dopo la pubblicazione della raccolta di scritti oulipiani, decide di trasferire l’esperienza francese in Italia, fondando, insieme a Raffaele Aragona e a Domenico D’Oria, l’OPLEPO, ovvero l’OPificio di Letteratura POtenziale. Esso nasce a Capri nel 1990, come scherzosa applicazione del già citato “plagio per anticipazione”, nel senso che sono i francesi dell’OuLiPo ad essere indicati come coloro che hanno plagiato in anticipo sui tempi i lavori dell’italiano OpLePo. I principî guida sono sempre gli stessi: la ricerca e l’elaborazione di strutture, metodi, restrizioni potenzialmente utilizzabili per la produzione di finzioni artistiche di ogni genere e specie. Tuttavia, nel 1998 Campagnoli se ne è distaccato, dando vita, con Marco Maiocchi e Aldo Spinelli, al quasi omonimo OPELPO (OPificio di ELaborazione POtenziale). Abbiamo chiesto al professore di spiegarci il motivo del suo allontanamento, che cosa distingua le attività di un gruppo da quelle dell’altro e in quali rapporti siano i loro membri con quelli dell’ancor vivo Oulipo. Ho promosso la fondazione dell’Oplepo partendo dal Settembre 2011


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lavoro condotto per l’edizione italiana della Letteratura potenziale, e gli ho trovato il nome, come appare da quanto Calvino mi scrisse in proposito, che si può leggere nella raccolta delle sue lettere (1940-1985). Ne sono stato presidente dalla fondazione e ne sono uscito per incompatibilità teorica, essendo contrario alle restrizioni molli accettate dalla maggioranza, e per opposizione al rifiuto del mio Matrimonio delle Principesse, un caso a mio parere notevole di letteratura semiautomatica, da parte di personaggi che non ne avevano capito granché. C’era anche un po’ di noia per la ripetizione dei cerimoniali, cui ovviamente si aggiungeva un’incompatibilità antropologica, perché non sopportavo più la maggior parte dei membri, ed ero felice diconstatare che l’antipatia era reciproca – in questi casi le avanguardie, vere o finte, fanno una scissione. Ne sono uscito con chi la pensava come me e ho potuto liberare Il Matrimonio delle Principesse, che poi è stato rappresentato a Milano e dintorni con buon successo di risate in platea. Uscendo ho promosso la fondazione dell’opelpo, che si distingue dall’oplepo solo per una diversa idea della restrizione, e per l’autonomia totale dall’arrivismo letterario. L’opelpo, ora presieduto dal delizioso Aldo Spinelli, non si prende sul serio, e per questo fa molto poco, né si occupa di assillare gli oulipiani, che pur stima ed ascolta, per ottenerne un riconosciSettembre 2011

mento. Inquadramento storico. Dalle parole di Ruggero Campagnoli, insomma, ci sembra di poter arguire l’ancora attuale vitalità della letteratura potenziale, sia in Francia, dove Oulipo continua a produrre i suoi lavori, sia in Italia, dove abbiamo ben due gruppi che lo emulano. Per tentare di dare un giudizio di tipo storico più generale, abbiamo chiesto al professore come colloca nella storia della letteratura le sperimentazioni potenziali. Esiste una linea continua (come ad esempio sembra sostenere Hocke ne Il manierismo nella letteratura) oppure periodi in cui esse vanno più di moda? E come si pone in questo senso il nostro tempo, la contemporaneità? Si tende a considerare queste esperienze invecchiate o al contrario ancora feconde? Cosa è rimasto di esse, a parte Oulipo e i gruppi ad esso ispirati? «Linea continua e ripresa nella moda non sono per nulla in contraddizione. Lo stesso Hocke afferma la linea continua in termini di qualità, di presenza ritmica, non di quantità permanente. La continuità intermittente è del resto facilmente mostrabile. I famosi calligrammi di Apollinaire, sulla cui innovazione si sdilinquiscono lettori poco informati, si trovano già, per esempio, nel bizantino Simia di Rodi e nel francese barocco Robert d’Angot. Per me l’Oulipo è stata la porta, indispensabile e unica,

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per uscire dalla prigione del conformismo modernistico. Ormai la sua azione propulsiva mi sembra in calo, né m’interessa più tanto, avendone trasferito le conseguenze in una nuova iniziativa, “NeoArcadia”, diretta dal competente Gian Paolo Renello. “NeoArcadia” è il risultato del reinserimento dell’imitazione, anzi torna a fare dell’imitazione la base della produzione letteraria, e il cerchio si chiude – almeno per me.» E per noi? L’idea di una letteratura alla portata di tutti, di una poesia che è anche gioco, ci piace. Senza dare troppo peso alle restrizioni imposte dai gruppi letterari citati (L’oulipo rifugge dalle facilitazioni e cerca il record, cerca la struttura difficilissima da eseguire, ci ha detto il professor Campagnoli), possiamo co-

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minciare a sbizzarrirci nell’applicare a nostro piacimento i vari procedimenti creativi, e magari insegnarli anche nelle scuole (come propone lo stesso Campagnoli nell’Introduzione al volume Oulipo), per mostrare alle nuove generazioni la possibilità di un rapporto più ludico con la poesia. Elena Bonesi Un sentito grazie a Christian Delorenzo, senza il quale articolo e intervista non sarebbero stati possibili.

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La violenza umana

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’aggressività umana è un bel enigma. La condividiamo con altre specie del mondo animale, ma ne facciamo un uso decisamente unico. Aggrediamo e commettiamo violenza contro altri individui della nostra specie e contro oggetti così, per divertimento, andando allo stadio, compiendo spedizioni punitivi contro chi non appartiene alla nostra “cultura”, oppure per trarre benefici o per semplice passatempo verso i più deboli. Come verrà ribadito nelle pagine che seguono, la specie umana è l’unica a godere di un tasso di aggressività intraspecicacosì elevato. Questa violenza all’interno della specie è rara negli animali, e anche quando si manifesta è finalizzata alla conquista del territorio, del cibo o all’opportunità dell’accoppiamento. Tale violenza, tuttavia, si manifesta negli animali con un alto grado di “ritualizzazione”. Si tratta, insomma, di gesti simbolici di rado destinati a ferire davvero l’altro individuo della propria specie. Partendo da questa fondamentale differenza tra homo sapiens e il resto del

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regno animale, analizzeremo la violenza dal punto di vista delle scienze sociali (psicologia, sociologia): quali sono i meccanismi psicologici “umani” che la determinano? Quanto influiscono il fattore biologico, l’ambiente e l’atto volontario sul comportamento aggressivo? Gli scontri con lanci e di pietre del neolitico si sono evoluti nella distruttiva guerra moderna: qual è il panorama mondiale? Le guerre dimenticate, dove sono e cosa le ha scatenate? Non mancherà la trattazione del tema dal consueto punto di vista filosofico: cosa impedisce l’atto di violenza verso un altro individuo? Difficile parlare di guerra e violenza senza scivolare nella retorica di un pacifismo utopico. Il rapporto tra gli uomini è un fenomeno complesso. Ma la complessità del comportamento umano non deve essere un alibi, ed anzi, forse proprio una sorta di sopravvalutazione della nostra tanto celebrata specie nell’economia dell’universo potrebbe essere all’origine dell’arroganza e della superbia, anticamera dell’aggressività.

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Uomini e bestie Il fattore violenza nel comportamento sociale: una prospettiva etologica.Ne abbiamo parliamo con Giorgio Celli, uno dei più stimati etologi italiani

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quanti di noi sarà capitato, in un momento d’ira, di compiere azioni “violente”, dal semplice alzare la voce al più drastico tirare oggetti, calci o pugni. Eppure ci riteniamo esseri razionali e ragionevoli, magari dal carattere mite e poco incline al litigio; ma di fronte a certi individui, certi episodi, certe ingiustizie, proprio non ce la facciamo a mantenere la calma. Magari dall’esterno non si nota, ma dentro ribolliamo, i nervi sono tesi, le mani prudono, e cerchiamo un modo più innocuo per sfogare la nostra rabbia, ad esempio facendo una corsa, o le pulizie maniacali in casa. E allora ci chiediamo se il nostro comportamento sia normale, e da cosa derivi tutta questa aggressività che sentiamo gonfiarsi e premere dall’interno. L’etologia. La risposta che gli etologi tendono a dare a tali questioni è la seguente: l’aggressività è normale ed è un istinto proprio di ogni essere vivente. Cerchiamo di addentrarci nel problema: l’etologia (dal greco ethos e logos,che significano rispettivamente «carattere», o «costume», e «ragionamento») è quella disciplina che studia il comportamento Settembre 2011

animale nel suo ambiente naturale; si dice comparata quando mette a confronto l’atteggiamento animale e quello umano. Quello che vorremmo fare è, servendoci di questa scienza, approfondire la conoscenza delle cause e delle modalità espressive del comportamento aggressivo umano, paragonandolo a quello animale per individuarne analogie e differenze. Nostro punto di partenza sarà il libro di Konrad Lorenz, Il cosiddetto male: per una storia naturale dell’aggressività, scritto nel lontano 1963, ma contenente teorie tuttora valide e tenute come costante riferimento dagli studiosi. Ha accettato di commentarle e approfondirle per noi, arricchendole con le sue osservazioni personali, Giorgio Celli, il più conosciuto e stimato etologo italiano (scomparso di recente. ndr). Istintività della violenza intra-specifica. Asse portante della teoria dell’aggressività lorenziana è la natura istintiva della violenza, che si estrinsecherebbe solo tra individui della stessa specie. Come ci ha spiegato Giorgio Celli, infatti, per aggressività vera e propria si intende, e questa distinzione bisogna

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farla, non quella di un leopardo che mangia un’antilope (quella non è una manifestazione di aggressività, bensì una manifestazione della predazione), ma quella fra individui che appartengono alla stessa specie; questa viene detta intra-specifica (e non inter-specifica, che è invece quella del primo caso). Nonostante quanto si sarebbe portati a pensare, l’aggressività intra-specifica non è nociva alla specie ma, al contrario, è indirizzata alla sua stessa conservazione; nel suo testo Lorenz la definisce uno “strumento essenziale dell’organizzazione di tutti gli istinti per la conservazione della vita”. In particolare, le funzioni del comportamento aggressivo sarebbero tre: la distribuzione equilibrata di esseri di una stessa specie in uno spazio vitale, la selezione del più forte attraverso i combattimenti e infine la protezione della discendenza. Possiamo estendere questo discorso anche all’uomo? Per una persona che crede nell’evoluzione, ci ha riferito Celli, si può supporre che l’aggressività abbia delle radici simili negli animali e nell’uomo. Su questo, però, ci sono diverse ipotesi; per esempio gli psicologi del comportamento, sulla scia del loro fondatore Watson (il continuatore è stato Skinner, ed è una scuola che ancora oggi ha degli adepti), ritengono che l’essere umano nasca come una tabula rasa, privo di ogni istinto. Quindi, per loro,

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l’aggressività verrebbe indotta a livello eminentemente culturale (un soldato va in guerra perché viene indottrinato: gli viene detto che deve difendere la patria, che i nemici non sono esseri del tutto umani, che minacciano le donne e i bambini, che vorrebbero espropriare il suo popolo dalla terra natale, e cose di questo genere). Invece, per gli etologi, l’aggressività ha una base istintiva. Essa avrebbe due facce; e infatti è il “cosiddetto male”, secondo Lorenz. La specificazione che precede il sostantivo “male”, “cosiddetto”, significa che viene considerato tale, ma non del tutto propriamente, perché l’aggressività è anche una funzione vitale. Questo per i motivi che abbiamo spiegato in precedenza, strettamente legati alle teorie evoluzionistiche (e alla cosiddetta lotta per la vita, o “struggle for life”). Tuttavia, il testo di Lorenz, in aperta polemica con le teorie allora dominanti, fu piuttosto osteggiato all’inizio, proprio per questa sua volontà, quasi dissacrante, di mostrare gli effetti positivi del male, visibili appunto da una prospettiva evoluzionistica (la selezione del migliore è favorita dall’aggressività); inoltre, dichiarando le origini istintive della violenza, negli animali come nell’essere umano, sembrava accettare la sua ineluttabilità e ineludibilità (atteggiamento fatalista molto lontano da quello effettivamente espresso dal celebre etologo, come vedremo in seguito). Settembre 2011


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Ritualizzazione e comportamenti inibitori. Continuiamo a seguire passo per passo la teoria di Lorenz. Per evitare che l’aggressività si ritorca contro le diverse specie animali, la natura avrebbe architettato un sistema di inibizioni, che trasformerebbero le azioni violente in comportamenti fissi, stereotipati, ritualizzati, cosa che ne diminuirebbe notevolmente la pericolosità. Così Giorgio Celli ci ha esemplificato questo discorso: negli animali Lorenz ha notato, non per primo, ma teorizzandolo per la prima volta in modo molto forte, il fatto che tra gli individui della stessa specie nascano dei fenomeni inibitori all’aggressività, che fanno sì che gli scontri si ritualizzino; ad esempio, quando due cervi combattono per le femmine, essi non si infliggono delle ferite mortali, ma si danno delle grandi botte con le corna, fino a quando quello con la testa più “rintronata” se ne va via, ma non con delle ferite gravi. Ci sono dei meccanismi negli animali che ritualizzano lo scontro, il caso più evidente è quello dei lupi; quando dei lupi confliggono per la gerarchia, per chi deve essere il capo del branco, un vecchio capo viene sfidato da un giovane lupo. Durante il combattimento le due bestie per lo più si danno delle grandi spallate; poi, quando quello sconfitto cade sulla schiena, l’altro si avvicina, e sembrerebbe che voglia mordergli la giugulare, atto con cui lo ucciderebbe, Settembre 2011

ed invece esso lo minaccia soltanto ringhiando e poi lo lascia andar via incolume, in un modo molto cavalleresco. Quindi, non si è trattato di uno scontro all’ultimo sangue, ma piuttosto di un “torneo”; questo succede negli animali frequentemente, anche se non sempre (alcuni, come gli ippopotami, spesso si provocano delle ferite abbastanza gravi). Comunque, nella generalità, il vincitore non perseguita a morte il vinto. Poi è da notare, continua Celli, che nei gruppi sociali l’aggressività si ritualizza molto di più tra i membri per mantenere l’assetto sociale. Prendiamo ad esempio un gruppo di galline sull’aia, osservando le quali è facile riscontrare una sorta di gerarchia: una gallina becca le altre ma non è beccata; un’altra gallina viene beccata dalla prima, che è la gallina alfa, ma becca tutte le altre, e così via, fino ad incontrare una gallina che viene beccata da tutte e non ne becca nessuna. All’interno di questo ordine di beccata si stabilisce il principio con cui si forma il gruppo; dopodiché, è necessario che quando la gallina alfa incontra le altre assuma un atteggiamento di minaccia, non importa che le becchi, ma deve far sì che esse restino al loro posto. Questo dimostra come la violenza, l’aggressività all’interno di un gruppo dove si è stabilita una gerarchia serva per mantenere in pace il gruppo stesso, perché altrimenti ci sarebbe un perenne conflitto; invece in questo modo, stabilito chi è il capo,e

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stabilito quali sono gli animali più importanti e quelli meno importanti, basta che il più importante mostri al meno importante un atteggiamento aggressivo, che quello assolutamente cederà il campo. In breve, l’aggressività serve per il mantenimento stabile della struttura della società. Abbiamo visto che negli animali l’aggressività viene ritualizzata, osservazione che troviamo ben illustrata e approfondita nel libro di Lorenz. Si parla di ritualizzazione ogni volta che una determinata successione di azioni perde la sua funzione originaria e si trasforma in una cerimonia simbolica; di fatto, quando un comportamento variabile si trasforma in un moto istintivo ereditario. I combattimenti rituali che avvengono tra gli animali assumono così la funzione di ostacolare quegli effetti dell’aggressività che risulterebbero dannosi per la vita comunitaria, senza tuttavia impedire le funzioni indispensabili per la conservazione della specie. In poche parole, la pulsione aggressiva rimane, ma entrano in gioco degli inibitori (i combattimenti rituali, appunto) per evitare che essa diventi troppo pericolosa. Esistono anche altri meccanismi inibitori, sempre secondo Lorenz, il più forte dei quali sarebbe l’instaurazione di legami personali: quando due compagni della stessa specie si conoscono bene, sono sodali o “amici”, risulta più difficile attaccare. E questo ci offre l’occasio-

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ne per spostare la nostra attenzione sulla razza umana, poiché è un fatto oggettivamente osservabile che, ove vi siano legami affettivi forti tra individui, risulta più difficile attaccare. A dire il vero, non è neanche necessario che questi legami siano forti, poiché basta una simpatia, o la condivisione di un’opinione, di una posizione politica, di una passione, perché venga subito abbandonato ogni atteggiamento di ostilità o antagonismo (“che la persona da attaccare sia anonima facilita grandemente l’innesco del comportamento aggressivo”, notava Lorenz). L’aggressività nell’uomo. Dobbiamo quindi pensare che anche il comportamento umano, come quello di ogni altro animale, sia anch’esso dettato e determinato dagli istinti? E come agisce dunque, nella razza umana, il fattore aggressività? Probabilmente anche nell’uomo ci sono delle basi istintuali, risponde Giorgio Celli, però gli istinti nell’uomo hanno avuto una potente interazione con la cultura. Non esistono prove concrete che esista un istinto aggressivo, però Lorenz ed altri etologi hanno fatto notare che l’indottrinamento di cui si servono i governi per mandare le persone in guerra è spesso fin troppo rapido, e questo potrebbe dimostrare la presenza di un istinto più profondo, che fungerebbe da base per l’indottrinamento (che proprio Settembre 2011


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per questo motivo funziona sempre in modo così rapido e puntale). Secondo la teoria di Lorenz, poi, gli istinti crescono se non sono soddisfatti, cioè con il passare del tempo cresce la loro spinta ad estrinsecarsi (un esempio classico è l’istinto sessuale). Sembrerebbe che l’aggressività obbedisca a qualcosa di simile. Un’altra teoria obietta che non è tanto questo istinto che preme, quanto la cultura nostra, del nostro tempo, una cultura di sfruttamento capitalista, espansionista, imperialista, consumista, che genera, per indottrinamento, il desiderio di beni crescenti, e quindi l’idea di appropriarsene, e il desiderio di avere dei mezzi di trasporto comodi, da cui le guerre per il petrolio, etc. Queste due ipotesi sono rimaste sospese, e non si sa bene chi abbia ragione; io penso che abbia ragione, almeno in parte, Lorenz, penso che sia vero che esista un’aggressività istintiva alla base, sulla quale poi agiscono gli indottrinamenti. E qui sorge inevitabile l’interrogativo: qual è dunque la differenza tra l’aggressività umana e quella animale? Lorenz risponde che il comportamento umano è più violento poiché ha subìto un fenomeno di de-ritualizzazione, dovuto al troppo rapido avanzamento della cultura rispetto ai tempi della natura; in pratica, i meccanismi istintivi non sarebbero riusciti a far fronte al rapido avanzamento della cultura, e soprattutto della Settembre 2011

tecnologia, umana. L’aggressività diventa violenza quando esce completamente da qualsiasi ritualizzazione, ci spiega Celli, Essa tende negli animali alla ritualità, ma nel caso dei rapporti tra gli uomini perde questo carattere di regolamentazione, trasformandosi in un fatto negativo e mortale. Per quale motivo nell’uomo sarebbe poi diventata così maligna e priva del fattore rituale? Una prima tesi sostiene che è per colpa delle armi. Infatti, se voglio uccidere qualcuno con un coltello, devo vincere inibizioni profonde, perché la persona colpita urla, si muove, chiede pietà, e muore lentamente; al contrario, se sparo con la pistola da una distanza maggiore e la vedo cadere, o se invio un missile, come diceva Aldous Huxley in un suo romanzo, verso “l’orfanotrofio al di là dell’oceano”, ho quasi l’impressione di non aver compiuto un atto aggressivo. Quindi, il passaggio da un’aggressività ritualizzata a un’aggressività violenta, sarebbe dovuto al fatto che le armi hanno favorito la caduta delle inibizioni. Inoltre, sono convinto che il possesso di un’arma peggiori la natura umana di chi la possiede, nel senso che gli da una possibilità di dominanza sugli altri che lo rende più asociale e più pericoloso di quanto non lo sia un uomo disarmato; armare qualcuno significa predisporlo all’aggressività violenta. A cominciare dall’arco. La pietra scheggiata o l’osso,

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con cui gli uomini primitivi picchiavano in testa l’avversario, erano strumenti di un’aggressività che si esprimeva più a fatica; invece se tiro con l’arco o sparo, cioè se la vittima è lontana, è come se le lanciassi una maledizione, (infatti, sparare o tirare con l’arco sono atti magici: da lontano si uccide una persona), e questo fa sì che venga meno l’inibizione ad uccidere individui della mia stessa specie. Diversi tipi di aggressività? Apparentemente esistono svariate tipologie di comportamento aggressivo. A noi sembra naturale poter distinguere almeno tra due forme alternative di violenza: da un lato quella più istintiva, immediata, causata dalla delusione, dal disappunto, dall’ira tempestiva che sorge contro un avversario durante una discussione accesa, dall’altro quella effetto dell’odio, che appare più meditata, meno spontanea, quasi calcolatoria, ed è quella che accompagna gli atti di intolleranza e discriminazione, e ovviamente le guerre. Non direi, ci smentisce subito Celli, non sono diverse come qualità, ma come intensità, poiché hanno diverse motivazioni profonde. Per esempio, quella contro gli immigrati si fonda su una base di aggressività generale ma è accompagnata da un potente indottrinamento, totale, simile a quello che era stato elaborato contro gli ebrei, verso i quali vi è stato un vero e proprio indottrinamento

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storico. Le idee antisemite circolavano dapprima negli ambienti intellettuali, per poi essere trasmesse da Hitler alla massa critica. Quindi gli ebrei sono stati dapprima perseguitati in una maniera più “leggera” (ad esempio si lanciavano sassi contro i loro negozi), ed in seguito sono stati mandati nei lager. A causa dell’indottrinamento, quella che prima era solo aggressività si è trasformata in violenza vera e propria, trascinandosi a lungo nel tempo. Al contrario, l’aggressività dovuta a frustrazione è una cosa momentanea, però probabilmente le basi sono le stesse: l’una ha bisogno di essere indottrinata perché si manifesti, l’altra no, è più immediata, però io direi che l’aggressività profonda è la stessa, e consiste nel voler fare del male a qualcuno oppure nel voler rimuovere un ostacolo. Anche nel caso degli ebrei si voleva rimuovere l’ostacolo, l’ostacolo alla felicità della Germania, per conservare la purezza del sangue, e così via. Anche allora, tuttavia, l’aggressività tendeva ad essere una funzione di sopravvivenza, perché gli ebrei erano considerati una minaccia per la sopravvivenza del popolo tedesco. In conclusione, la vera differenza tra questi due tipi di aggressività sta esclusivamente nel peso che può assumere la cultura e l’indottrinamento culturale. Come combattere la violenza. Se è vero che l’aggressività è un istinto così Settembre 2011


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radicato nel profondo, ci chiediamo se possano esistere dei modi per eluderla. È vero che non possiamo eliminarla in nessun modo, sosteneva Lorenz, però da un lato possiamo tentare di ri-direzionarla, vale a dire rivolgerla verso un oggetto alternativo (“è l’espediente più geniale che l’evoluzione abbia inventato per costringere l’aggressività su binari innocui”, scriveva il famoso etologo nel libro ad essa dedicato), e dall’altro possiamo sublimarla. La sublimazione, termine freudiano, implica non la sostituzione dell’oggetto, bensì l’introduzione di un gesto diverso; quindi, nel primo caso sfodereremo un bel calcio contro un bidone per non sfogare la nostra rabbia contro la persona con cui siamo infuriati, mentre nel secondo svolgeremo un’attività “purificatrice” che ci permetta di svuotarci dell’energia aggressiva che abbiamo accumulato. Un esempio? Lo sport, oppure l’arte, o la scienza. Lorenz diceva che lo sport inibisce l’aggressività, spiega ancora Giorgio Celli, invece, come si può vedere negli stadi avviene il contrario; però probabilmente Lorenz parlava dei calciatori, non degli spettatori. Chi esercita uno sport ed

è impegnato in competizioni, certamente scarica la sua aggressività; ma non chi assiste, che per questo è così violento. I calciatori a volte sono aggressivi, ma sempre meno dei loro tifosi, poiché nella loro violenza vi è gran parte di ritualità. Io credo che gran parte di questa aggressività nell’uomo dipenda dall’indottrinamento e che una società sana, che non premi la guerra, potrebbe rendere meno virulenta quella parte di aggressività che invece fiorisce perfettamente quando la società promuove la guerra (come il fascismo, il nazismo e adesso parte del popolo americano). Quindi, l’unica possibile soluzione sta nell’avere una società sana: se si vogliono evitare le guerre bisogna fare una cultura della pace, e soprattutto una cultura che dimostri che tutti gli uomini sono uguali, e che tutte le culture hanno in se stesse la propria giustificazione. Elena Bonesi

Bibliografia essenziale Konrad Lorenz, L’aggressività, Milano, Il Saggiatore, 2008 (prima edizione: Vienna, 1963). Konrad Lorenz, L’anello di re Salomone, Milano, Adelphi, 2007 (prima edizione: 1949). Giorgio Celli, Konrad Lorenz: l’etologo e i suoi fantasmi, Milano, Bruno Mondadori, 2001. Settembre 2011

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Sigmund Freud, Tre saggi sulla teoria sessuale. In Opere Sigmund Freud (OSF), vol.4, Torino, Bollati Boringhieri, 1970. Sigmund Freud, Pulsioni e loro destini. In OSF, vol.8, 1976. Sigmund Freud, Il problema economico del masochismo. In OSF, vol.10, 1978.

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Filosofia della violenza

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Fare del male: istinto naturale e debolezza di volontà

ella sua opposizione lessicale al bene, il male non esaurisce la complessità dei suo significati. È perciò difficile dare una risposta univoca al problema del male, che da sempre (o almeno, stando alla Genesi, da quando l’uomo ha mangiato i frutti dell’Albero della Conoscenza del Bene e del Male) assilla l’essere umano. Lasciando da parte la soluzione teologica alla domanda «unde malum?», in filosofia il problema del male può essere affrontato almeno da tre diverse prospettive: metafisica, morale e naturale. Dal punto di vista metafisico e soprattutto per certa tradizione filosofica (antica e medioevale) il Male, essendo l’esatta antitesi del Bene e quindi dell’Essere, si configura come una privazione di Essere o con il Non-essere stesso. Dal punto di vista morale, il male si identifica con il rifiuto, il più delle volte consapevole, di attuare il bene oppure nella scelta di compiere il male; questa concezione del male è dunque strettamente connessa con l’idea del libero arbitrio. Dal punto di vista fisico o naturale, il male è quello immediatamente percepito dai sensi e perciò è il non-desiderabile in quanto Settembre 2011

tale. Quest’ultima prospettiva, di solito ritenuta di minore spessore teorico, è strettamente legata, per genesi o per antitesi, alle altre due, ed è di per sé spunto di importanti riflessioni: basti ricordare che tra i suoi fautori figura Thomas Hobbes (1588-1679), un filosofo che, per il suo spirito critico e antidogmatico, ha costituito un punto di snodo fondamentale tra il pensiero antico e quello moderno. «Qualunque esso sia, l’oggetto dell’appetito o desiderio di un uomo è ciò che egli, per parte sua, chiama bene; l’oggetto del suo odio e della sua avversione, male» (Thomas Hobbes, Leviathan, 1651). L’essere umano, secondo Hobbes, è per natura conatus: sforzo, tendenza, appetito e repulsione. Se ogni uomo tende al proprio bene, ciascuno chiamerà buono l’oggetto del suo appetito o desiderio, e cattivo l’oggetto del suo odio e della sua avversione. La natura pulsionale dell’essere umano è però anche all’origine della «tragicità» della sua esistenza (Vincieri 1984). Abbiamo chiesto a Paolo Vincieri, ordinario di Filosofia morale all’Università

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di Lettere e Filosofia dell’Università di Bologna, di spiegarci la visione tragica sull’esistenza umana che a suo parere caratterizza il pensiero di Thomas Hobbes. «Preferisco parlare di “tragicità” piuttosto che di “pessimismo antropologico”, perché per Hobbes non si tratta di scelte che l’uomo compie in quanto più propenso al male che al bene, ma di una dimensione tragica dalla quale l’uomo non può uscire, se non parzialmente. La tragicità è data dal fatto che senza passioni non c’è vita; poiché per Hobbes l’autoconservazione è il primo dei beni, le passioni non possono che essere, dunque, al contempo positive e negative. Per esempio, la giusta stima di sé è una passione inevitabile, che però sfocia nella vanità, la quale non può essere regolata dalla retta ragione, dal momento che, per Hobbes, la retta ragione in rerum natura non esiste (da qui il suo distacco da Aristotele). È vero che in Hobbes si trova costantemente una condanna della vanità; ma si tratta di una condanna che non esclude mai una sua giustificazione, in quanto Hobbes non condanna gli uomini perché liberamente scelgono di essere vanitosi, ma condanna il male che questa passione naturale provoca». Vanità, superbia, orgoglio sono passioni tanto naturali quanto è naturale il desiderio di autoconservazione, e così il diritto di ciascuno su ogni cosa si scontra con il diritto alla vita, che nello stato di natura

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non è affatto garantito. Infatti, se l’istinto a fare del male è una manifestazione naturale della tendenza all’autoconservazione, lo stato di natura sarà «una guerra di ogni uomo contro ogni altro uomo» (bellum omnium contra omnes) nella quale ogni singolo individuo, per quanto forte, deve mettere in conto la possibilità di essere ucciso. Per uscire da questa impasse esistenziale, l’uomo deve armonizzare i propri interessi individuali con gli interessi degli altri stipulando un contratto (pactum unionis et subjectionis) che «unifica la moltitudine in una persona, nello Stato», ossia nel Leviatano. Nella persona artificiale del Leviatano, architettato «per non avere paura di alcuno», il discrimine tra il bene e il male non è più dettato dall’orgoglio del singolo, ma dalle leggi civili, di cui si fa garante il sovrano (uomo o assembla). «Si tenga presente – puntualizza Vincieri – che per Hobbes il fine da perseguire è sempre la pace; il prezzo da pagare per ottenerla è, appunto, il Leviatano. Hobbes sacrifica la libertà di espressione nella misura in cui può diventare sedizione (“tromba di guerra”) per la libertà di movimento garantita dalle leggi. Quello che si configura in Hobbes è dunque lo Stato assoluto, ma non totalitario, perché ciascuno è libero nel foro interiore». La radicalità del male nella natura costituisce il fondamento della riflessione politica di Hobbes. Certo anche l’uomo, Settembre 2011


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che di questa natura “maligna” è parte, non è buono, e difatti se l’uomo fosse buono per natura, non avrebbe bisogno di leggi per avere salva la vita né di un patto artificiale per mettere fine alla conflittualità latente dello stato di natura. Nello stato civile, poi, l’individuo, nonostante abbia rinunciato al proprio giudizio privato, non abbandona mai del tutto «l’etica del diritto naturale, che è sempre pronta a risorgere in tutta la sua forza distruttiva» (Viola 1988). La vita per Hobbes è perciò un’incessante lotta, non solo con il mondo esterno – contro l’indigenza di una natura matrigna e contro gli altri uomini, «lupi di uomini» – ma anche con se stesso, con quella parte di sé non ancora «razionalizzata» attraverso l’autorepressione. Con ciò si spiega perché la civiltà porti in sé, come dirà Sigmund Freud (Das Unbehagen in der Kultur, 1930), un permanente «disagio» (Vincieri 1984). La posizione di Hobbes rappresenta una delle tappe principali della modernità, punto di riferimento obbligato per ogni discorso etico futuro e, a sua volta, di dialogo critico con le dottrine del passato. Secondo il suo modello convenzionalistico, ‘bene’ e ‘male’ sono concepiti come nomi arbitrari che nello stato di natura ciascun individuo attribuisce all’oggetto del proprio appetito o della propria avversione, compito che nello stato civile spetta alla legge (il suo Settembre 2011

carattere è sempre convenzionale, pur tuttavia universale in seguito al patto). Non è possibile conoscere la loro natura oggettiva, perché «non c’è alcuna regola comune di ciò che è buono e cattivo che sia derivata dalla natura degli oggetti stessi; essa deriva invece dalla persona», o meglio, da quel «movimento in qualche sostanza interna del capo» che, se favorisce il «movimento vitale» (le funzioni fisiologiche del soggetto), produce piacere, se invece lo ostacola, dolore. Proprio sul riferimento oggettivo delle parole ‘bene’ e ‘male’ si erano però divise, nel pensiero antico e medioevale, le teorie etiche, perché se è vero che «per quanto riguarda il nome vi è un accordo quasi completo», è però altrettanto vero che «nel definire che cosa (ti esti) esso sia, regna il disaccordo» (Aristotele, Etica Nicomachea). Identificando bene e conoscenza da un lato, male e ignoranza dall’altro, il Socrate di Platone poteva affermare che «qualora uno conosca il bene e il male, non possa essere vinto da alcun’altra cosa, al punto da fare cose diverse da quelle che la conoscenza comanda» (Platone, Protagora). Questa tesi, in seguito definita come intellettualismo etico, negava l’esistenza dell’acrasia (o debolezza di volontà), un comportamento secondo il quale «l’uomo, pur sapendo che il male è male e pur potendo non farlo, tuttavia lo fa, spinto e sopraffatto dal piacere».

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Il comportamento acratico, nota però il Socrate di Platone, è inconciliabile con un’altra convinzione radicata nei più, ossia che il bene consista nel piacere e il male nel dolore (edonismo etico). L’identificazione tra il bene e il piacere da un lato, e il male e il dolore dall’altro conduce infatti ad un’espressione paradossale, ossia che «l’uomo, pur conoscendo che il male è male, tuttavia lo fa, perché vinto dal bene». Per Socrate il comportamento acratico consiste piuttosto in un errore di calcolo, in un errore, cioè, di ragionamento: l’uomo compie un’azione cattiva, perché è vinto da un piacere presente che gli sembra maggiore, proprio perché più vicino, del piacere futuro che gli comporterebbe l’astenersi dal compiere quell’azione. In altre parole: l’uomo fa il male per ignoranza. Che il bene consista nel piacere e il male nel dolore è, per Aristotele, una tesi volgare, perché piacere e dolore accomunano gli uomini agli animali. Il sommo bene a cui l’uomo tende, la felicità (eudaimonia), consiste piuttosto nell’esercizio di ciò che contraddistingue l’uomo dagli altri esseri viventi: l’esercizio eccellente, «secondo virtù» (kat’areten), della facoltà razionale. Questo non significa però che anche per Aristotele, come per Socrate, il bene consista nella conoscenza e il male nell’ignoranza: per Aristotele si può fare del male pur “sapendo” che è male. Il verbo ‘sapere’ è tra virgo-

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lette, perché l’acratico in un certo senso sa, ma in un altro non sa che ciò che sta facendo è male: lo sa in quanto possiede questa conoscenza; non lo sa in quanto non si serve di questa conoscenza, «non la tiene presente in atto» perché è vinto dal piacere, una condizione che è simile a quella di chi è ubriaco o addormentato. Per esempio, il fatto che qualcuno di noi, pur “sapendo” che fumare fa male, fumi lo stesso, significa che ha letto sul pacchetto di sigarette che «il fumo nuoce alla salute» (e quindi lo sa), ma che nel momento in cui fuma non lo tiene presente, perché è vinto dal piacere della sigaretta: può anche pronunciare le parole «il fumo nuoce alla salute», ma le pronuncia senza comprenderne realmente il significato, senza sapere realmente che questo fa male. Non tutti quelli che dicono «So che non dovrei fare ciò che sto facendo» possono essere paragonati ad una persona ubriaca o impazzita, perché purtroppo c’è anche chi fa il male essendo allo stesso tempo perfettamente consapevole di farlo: il malvagio. Mentre l’acratico fa il male, ma non per convinzione, il malvagio ne è convinto, perché in lui i princìpi morali sono corrotti dal vizio. Quindi, secondo Aristotele, «mentre il primo viene facilmente convinto a cambiare, il secondo no». È il possesso della virtù che permette di stabilire il fine delle proprie azioni e dunque, in ultima analisi, di conseguire il fine ultimo a cui tenSettembre 2011


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de l’agire umano, la felicità.

steriori assunti».

Con il pensiero moderno viene meno la giustificazione in chiave ontologica e finalistica del bene (e dunque anche del male), e si tende a sottolinearne piuttosto il carattere relativo, dipendente dai desideri, dalle opinioni, dagli usi linguistici dei diversi soggetti. Ecco allora che per Hobbes la felicità vaneggiata dagli antichi non sta in nessun luogo della terra, è un’ «utopia», un «non-luogo» (gr. ou topos): «Per quanto riguarda il fine ultimo, nel quale i filosofi antichi posero la felicità, e in merito a quale modo per raggiungerlo discussero a lungo, non c’è una cosa simile in questo mondo né un modo per raggiungerlo più che non ci sia per Utopia: perché finchè viviamo, abbiamo desideri, e i desideri presuppongono un fine a cui tendere». Non esiste un fine ultimo a cui si deve pervenire per essere felici, perché la felicità non è qualcosa da raggiungere, ma qualcosa a cui tendere, qualcosa da desiderare. E chi smette di desiderare, per Hobbes, smette di vivere. Come ricorda Vincieri, «per Hobbes la vita è una corsa il cui esito finale è la morte; però è senza alcun senso (tranne il solo fatto che Gesù è il Cristo!). La sua prospettiva, meccanicistica e nominalistica, che sfocia nella visione artificiale dello stato, lo porta ad avversare tutta la tradizione aristotelica, che lui ritiene dogmatica, anche e soprattutto per gli sviluppi po-

Se non è possibile individuare un fondamento metafisico dell’etica, quali prospettive possono allora darsi per evitare quello che comunemente si chiama relativismo? Lo sforzo kantiano è quello di mostrare che l’universalità della legge morale è la stessa universalità della ragione: ogni uomo, in quanto essere razionale, è un essere libero, responsabile delle proprie scelte, e avverte in sé la legge morale sotto forma di un dovere o imperativo categorico, che vale cioè in modo incondizionato, a prescindere «da condizioni accidentali e soggettive, che distinguono un essere razionale da un altro» (Immanuel Kant, Kritik der praktischen Vernunft, 1788). «Agisci in modo che la massima della tua volontà possa valere sempre, al tempo stesso, come principio di una legislazione universale»: questo è, per Kant, il motivo che determina la volontà morale. Non la materia, dunque, una particolare inclinazione, l’oggetto del proprio desiderio o piacere, la felicità; ma la forma della legge, la sua universalità. Porre leggi o norme di comportamento universali secondo l’insegnamento kantiano può costituire una valida soluzione al relativismo? «Senza entrare nel complesso tema del formalismo etico – risponde Vincieri – si può tuttavia porre in luce come per Kant l’universalità della legge morale è posta a condizione

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del senso della vita umana: la vita ha un senso solo se è possibile uno scopo incondizionato, dato dalla morale. Quindi per Kant l’universalità della legge supera il relativismo e nel contempo la necessità di un fondamento religioso (anche se poi lo recupera postulando l’immortalità dell’anima e l’esistenza di Dio). Per Kant la buona volontà sarebbe risolutiva del problema etico, mentre la nostra esperienza ci pone di fronte a scelte drammatiche nelle quali il bene e il male sono molto più propinqui di quanto si possa dogmaticamente ritenere. Forse

una possibile risposta la troviamo nel neoaristotelismo, che recupera in primo luogo il concetto aristotelico di “prudenza” (phronesis) e di “sovranità della legge” (nomos basileos) in una cornice liberale in cui le leggi siano condivise dalla responsabilità umana». Giulia Mingucci

Bibliografia essenziale Fonti Aristotele, Etica Nicomachea, edizione italiana a cura di Carlo Natali, Roma-Bari: Laterza, 1999. Th. Hobbes, Leviatano, o della materia, forma e potere dello Stato ecclesiastico e civile (1651), edizione italiana a cura di Gianni Micheli, Firenze: La Nuova Italia, 1976. I. Kant, Critica della ragione pratica (1788), edizione italiana a cura di Vittorio Mathieu, Milano: Rusconi, 1993. Platone, Protagora, edizione italiana di Marco Dorati, Milano: Mondadori, 1993. Studi N. Bobbio, Thomas Hobbes, Torino: Einaudi, 1989. D. Neri, Filosofia morale: Manuale Introduttivo, Milano: Angelo Guerini, 1999. M. Vegetti, L’etica degli antichi, Roma-Bari: Laterza, 1989. P. Vincieri, Natura umana e dominio: Macchiavelli, Hobbes, Spinoza (1984), Ravenna: Longo, 20094. F. Viola, Hobbes tra moderno e postmoderno: Cinquant’anni di studi hobbesiani, «Ragioni Critiche», S. III, 4 (1988) 5-6, pp. 6-20.

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Escursione nella giungla del mondo del lavoro L’ambiente lavorativo. Divertite considerazioni su ruoli e relazioni dell’ambiente che costituisce la quasi totalità del nostro tempo vissuto: il lavoro

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ella concezione moderna il lavoro è il fondamento della nostra identità. Enzo Biagi scriveva: “C’è la diffusa tendenza da parte delle imprese, a considerarti un beneficato, per la sola ragione che pagano il tuo lavoro”. Nel lavoro l’individuo si realizza, si emancipa e, grazie ad esso, vive. L’uomo che lavora sente di avere una propria dignità. Mai valutazione fu più bizzarra di questa. Che l’uomo si realizzi sul lavoro è un’invenzione di coloro che sfruttano gli altri, che poi si emancipi è tutto da dimostrare nel momento in cui riscontriamo l’abbrutimento e l’alienazione indotta da tanti lavori. Resterebbe l’ultimo punto: è grazie al lavoro che l’uomo vive; innanzitutto non vive ma sopravvive dal momento che chi lavora è solo un convogliatore di soldi verso gli avvoltoi che glieli toglieranno; è come se il lavoratore non percepisse un salario ma un mazzetto di tagliandi da distribuire allo stato, ai commercianti, all’assistenza sanitaria,

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alle assicurazioni, alla casa, e via elencando tutte le spese in agguato. Dice A. Morandotti: “Vivere del proprio lavoro è una necessità; vivere del lavoro altrui è un’aspirazione”. Allora si scopre che quelli che hanno raggiunto quest’aspirazione sono molti più di quanti lavorano: a parte i cosiddetti padroni ci sono molti politici, i mercanti di illusioni, il clero, le forze armate, e l’elenco potrebbe essere molto lungo inglobando anche categorie “incolpevoli” come i pensionati, certi studenti “a vita”, eccetera. Quindi che dignità ci può mai essere nel venire usato senza ritegno? Oscar Wilde raccontava: “Al miei tempi non si incontrava mai, nella buona società, nessuno che lavorasse per vivere. Era considerata una cosa sconveniente.” e aggiungeva: “Il lavoro è il rifugio di coloro che non hanno nulla di meglio da fare”. In molte realtà industriali, commerciali o di servizio, con più di una ventina di addetti, è possibile incontrare situazioni e personaggi tipici di cui circolano, da

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tempo negli ambienti di lavoro, queste considerazioni (vedi anche riquadro “Campionario di umanità a lavoro”). Normalmente l’organizzazione di un’azienda si basa su di un capo, dei responsabili di funzioni, capetti e manager, e sugli addetti allo svolgimento delle varie attività. Il capo, nelle piccole realtà, può coincidere con il proprietario mentre, nelle grandi multinazionali, è così distante che viene interpretato dal responsabile territoriale. A loro volta, gli addetti si suddividono in operai e impiegati, ma questa specificazione è del tutto irrilevante in questa trattazione. Da non dimenticare la figura del “consulente”, questo personaggio, di solito lautamente pagato, svolge un compito specifico e, normalmente, a termine. I motivi del ricorso a queste figure vanno dal favore da fare a qualcuno, tipico delle situazioni in cui il controllo non è efficace come certe amministrazioni pubbliche o aziende veramente grandi, alla reale esigenza di competenze non reperibili internamente: un nuovo progetto o una riorganizzazione importante. Questi professionisti, in genere, sono mal visti dalle maestranze perché parlano con loro, quando gli serve qualcosa, ma riferiscono direttamente al “capo” ed, inoltre, c’è la convinzione che si sarebbero potuti ottenere risultati migliori adoperando risorse interne. Per tale motivo sono fiorite definizioni denigratorie: c’è il consulente “disone-

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sto”, quello che “ti sottrae l’orologio e poi si fa pagare per dirti l’ora”, l’“inutile”, che all’automobilista che chiede dove si trova, risponde “su di un’automobile”, risposta tecnicamente corretta ma che non serve a niente! Infine c’è lo “stupratore” “colui che mi ha violentata era senz’altro un consulente perché era elegante, aveva a tracolla la borsa porta pc, e, dopo aver fatto fare tutto a me, ha voluto pure essere pagato!!” La categoria dei manager, capi e capetti, detti anche “quadri aziendali”, rappresenta il “trait d’union” tra chi gestisce le leve del comando e chi deve attuarlo. Costoro si sentono gratificati quando capita di parlare con il direttore e riescono, così, ad apprendere un granello della vision aziendale, quella che si può conoscere solo con le frequentazioni giuste. Questa viene usata come rara merce di scambio per avallare lo status di “bene informato” e, poiché rappresenta un vantaggio competitivo, neanche una parola col collega, eh! Per questa categoria alcuni comportamenti sono obbligatori; per prima cosa la chiavetta del caffè deve essere sempre carica, è uno strumento indispensabile per le pubbliche relazioni. Poi quando si esce dall’ufficio bisogna avere sempre almeno un foglio in mano, camminata veloce e faccia seria come chi è stato appena convocato dal gran capo. Farsi vedere con la gente che conta ed ostentare un atteggiamento Settembre 2011


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che denota l’importanza del ruolo che si ricopre. Quando ci si accorge che il ragionamento del principale non fila, guardarsi bene dal farglielo notare. A telefono, specie se si sta parlando con un amico o l’amante, mostrare un’aria attenta e fingere di prendere appunti. Alcuni trucchi per cavarsi d’impaccio: parlare con autorità di fatti ovvi e non contestabili, evitare le discussioni ma, se ci si ritrova, porre una domanda irrilevante, appoggiarsi allo schienale della poltrona con un ghigno soddisfatto e, mentre gli altri cercano di capire cosa sta succedendo, cambiare argomento. Oppure, quando un subordinato fa una domanda pertinente, guardarlo come se avesse detto una corbelleria e, quando lui assume un’aria mortificata, fargli la stessa domanda con altre parole e, ultimo ma importantissimo accorgimento, evitare il più possibile di dare ordini per iscritto. Talvolta si fa ricorso a terminologie salgariane per indicare alcune attività, i più pittoreschi sono i cacciatori ed i tagliatori di teste: i primi, dall’inglese “head hunter”, svolgono una attività di ricerca e selezione del personale da “vendere” all’azienda che ha bisogno di coprire un ruolo specifico senza passare dal collocamento. Il secondo è più odioso e, di solito, è svolto da manager situati in posizioni abbastanza elevata nella gerarchia aziendale, costoro sono pagati per licenziare le persone. C’è tanto di quel Settembre 2011

sadismo in questa attività che è stato inventato un gioco “Layoff ” in cui, per vincere, bisogna licenziare più dipendenti possibile in modo da risparmiare soldi ed evitare il fallimento dell’azienda. Per pietà verso il genere umano, in questo scritto ignoriamo megacapi e padroni vari che, per il proprio tornaconto, considerano i comuni mortali come cose, neppure persone, da utilizzare finché ce n’è bisogno e poi abbandonare senza alcun rimorso al loro destino. Che siano gli altri, governi e associazioni, ad occuparsene! Abbiamo appena accennato ai personaggi che compongono un’azienda, ora facciamo una breve visita ai luoghi dove costoro svolgono la loro attività. L’ufficio è il posto deputato allo svolgimento del lavoro. Esso è arredato con scrivanie, telefoni, computer, ecc. Negli anni ottanta c’era ancora in uso la pratica di arredare il posto di lavoro a seconda del grado dell’addetto. In FIAT i centimetri quadrati di scrivania, il numero dei cassetti e la tipologia di sedia erano indicativi del grado aziendale del lavoratore e, ad ogni passaggio di livello, l’arredamento veniva adeguato di conseguenza. Le piante erano permesse solo ai quadri come pure la linea “esterna” del telefono. L’ufficio individuale arrivava solo col grado di capufficio ed anche quello era più o meno spazioso a seconda dell’importanza. Da manager

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in su si aveva anche diritto ad un tavolo per le riunione ed all’attaccapanni privato. Il luogo più frequentato, subito dopo l’ufficio, è l’area ristoro, più brevemente: la macchinetta del caffè. Qui ci si dà appuntamento per rilassarsi e per gli incontri necessari alle pubbliche relazioni. É il luogo dei pettegolezzi e delle informazioni “riservate”. Tipico è il velenoso commento verso la bella che sta un po’ sulle sue: “quella là … l’ha data a metà azienda”, questa malignità è molto spesso riportata proprio dal gentil sesso; ed io, ahimè, sono sempre stato nella metà sbagliata dell’azienda, quella che non ha fruito dei favori della bella in oggetto. Oggi le cose appaiono esteriormente cambiate anche perché lo sviluppo del terziario ha fortemente incrementato il numero dei posti di lavoro “a vista” del pubblico ma, lo spirito gerarchico e pettegolo, è rimasto. Saltiamo la toilette ed andiamo subito alla pausa pranzo. Nelle aziende più grandi c’è la mensa aziendale che, fino a qualche anno fa, era anch’essa divisa in due ambienti, uno per i “capi” e l’altra per gli altri. Qui era possibile individuare subito il “lecchino” che, con la scusa di parlare di cosa urgente, seguiva il capo anche in mensa così da poter conoscere i “pezzi grossi”. La sala riunioni è un altro posto tipico in cui è possibile assistere, con serietà, alle rappresentazioni più comiche. Le ri-

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unioni, in inglese meeting, si fanno per due motivi principali: 1 – comunicazioni/aggiornamento, i cosiddetti “briefing”, tenuti normalmente dalle persone che sono più rappresentative nell’azienda o nel progetto di cui dare informazione. 2 – presentazione, discussione e approvazione di un progetto o delle soluzioni ad un problema. Ci sono personaggi che, di fatto, vivono nelle sale riunioni; nelle riunioni i lavativi, gli indecisi cronici, gli incapaci, gli esibizionisti e gli arrampicatori trovano: a – un utile mezzo di socializzazione e contatti che possono tornare utili, la cosiddetta “visibilità” b – il modo per scaricare le responsabilità su più persone c – la giustificazione per non fare quanto dovevano “sai, sono stato impegnato in una riunione …” d – l’apprezzamento per la presentazione o per i grafici in cui, ovviamente, i contenuti sono a cura di altri. Gli inglesi, che se ne intendono, hanno coniato uno slogan molto efficace: “the meetings: the best alternative to the work!” La vita in azienda ha inizio con l’assunzione. In molti casi questa segue una selezione tra quanti hanno presentato la Settembre 2011


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propria candidatura. Occorre prepararsi con cura tenendo presente che non verrà concessa una seconda occasione di “fare una buona prima impressione”. Un passo importante è la preparazione del “curriculum vitae” ovvero della presentazione di se stessi propedeutica ad un incontro. Essa deve contenere le informazioni atte alla valutazione delle caratteristiche professionali e, quindi, la rispondenza all’esigenza dell’azienda. Quindi per prima cosa vanno indicate le esperienze lavorative, nome azienda, ruolo ricoperto e risultati conseguiti indicando dati quantitativi come “incrementato del 50% la rotazione delle scorte” invece di un generico “migliorata la gestione dei materiali”. Poi vanno indicate le preparazioni scolastiche, gli stage con particolare evidenza di quelli effettuati all’estero e descrizione del livello di conoscenza delle lingue. Infine i dati anagrafici ed i possibili recapiti, per ultimo accenni ad hobby ed attività svolte nel tempo libero. Due consigli banali: rileggere tutto prima di inviarlo così da accorgersi di aver scritto strafalcioni del tipo: conseguito diploma con votazione 95/110 e lode (?). Evitare di strafare specie con la conoscenza delle lingue come quello che dichiara di conoscere l’inglese come “madrelingua” avendo frequentato corsi “fool immersion” di livello avanzato, e che, come sport, pratica il “futting”. Infine, specie se siete alla ricerca del primo impiego evitate di Settembre 2011

dire che avete una buona “attitudine al comando” oppure di accettare “anche incarichi dirigenziali”. Una volta assunti bisogna effettuare una rapida ricognizione delle persone e delle procedure. Cosa abbastanza agevole perché durante il percorso introduttivo in azienda si viene a contatto con entrambi. Memorizzarli e prendere appunti. Ricordarsi che, in una grossa organizzazione, si può fare di tutto purché si rispettino le procedure; in tal caso nessuno si accorgerà mai di nulla perché si assume che è la procedura stessa ad avere in sé i controlli per evitare gli abusi. Se, invece, si commette una piccola sciocchezza fuori dai percorsi previsti, si viene beccati immediatamente. Questo lo sa bene chi è alle prese con i moduli per il rimborso spese conseguente un lavoro effettuato fuori sede. Poi è di vitale importanza scegliere la persona giusta da servire, la cosiddetta “locomotiva”, per poi abbandonarla quando serve, selezionare con attenzione alleati e nemici, “quando le persone “perbene” si aiutano tra di loro, … fanno carriera”. Salendo, nella scala gerarchica, non bisogna guardarsi indietro perché, essendo già troppo impegnati per difendere le proprie magre figure, non si può sprecare tempo ad aiutare chi è rimasto al palo ... anche se, a suo tempo, ci ha aiutati. Bisogna essere sempre pronti a cogliere l’occasione di un avanzamento ricordando che la per-

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sona “insostituibile” difficilmente sarà promossa. Trovandosi nella posizione di esprimere la valutazione di un collaboratore, è bene evitare forme di stroncature forti del tipo: “io non permetterei a questo impiegato di riprodursi; costui sta privando, da qualche parte, un villaggio del suo idiota”. E’ così poco professionale! Raffaele Giglietti

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La scimmia dispettosa

’autocelebrazione è una debolezza tipicamente umana. Se sfogliate una qualsiasi rivista di scienza o se guardate un programma televisivo di divulgazione sulle ultime scoperte ed invenzioni, non vi sarà difficile imbattervi nello stupore della nostra specie per se stessa, per il percorso di incredibile progresso tecnologico e di sapienza che l’ha caratterizzato lungo la storia. Già Leopardi, nella Ginestra, ironizzava sulle “magnifiche sorti e progressive” del suo tempo. Il “Secol superbo e sciocco”, d’altra parte, ha continuato a glorificarsi ed oggi – mentre canta del pericolo dell’autoestinzione – non smette di guardare con stupore all’opera del proprio ingegno, che siano armi incredibili o pecore clonate. Tuttavia, oggi siamo più indulgenti (autoindulgenti), consapevoli che l’autostima frutto dell’autoelogio è ingrediente fondamentale per portare avanti un qualsiasi progetto e cercare di migliorarsi. L’espediente psicologico vale quindi anche a livello di specie. Date per acquisite le conquiste della nostra civiltà, l’essere umano rimane una scimmia dispettosa che prova un certo divertimento nel creare contrapposizioni tra individui, tra gruppi, tra

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etnie, culture diverse. Il divertimento ad aggredire il prossimo – verbalmente, ironicamente, anche fisicamente – è il filo conduttore, altrettanto ironico ed aggressivo, che si potrebbe dare a questa sommaria antropologia dell’aggressività. I comportamenti che hanno lo scopo di provocare un qualsiasi danno trovano la loro ragione tanto nel lato istintuale (cibo, territorio, accoppiamento), quanto in quello culturale (odio, pregiudizio, invidia). Ma si lascia sempre in ombra il divertimento. Dominare sul prossimo, umiliarlo e degradarlo è un gioco di potere che ancora una volta innalza l’autostima dell’individuo, il gruppo o la società che mette in atto il comportamento aggressivo. Quando non si trovano spiegazioni etologiche, psicologiche o etiche sul male commesso, quando la sempre citata “crudeltà gratuita” si presenta al nostro cospetto, non possiamo fare altro che constatare una verità sconcertante: l’uomo, la scimmietta dispettosa, gioca, gioca solamente. Fa la guerra come si azzuffa per vedere chi è il più forte. E, fingendo di non tollerare le provocazioni, le auspica e in cuor suo si rallegra per avere ancora un motivo per continuare a giocare. Settembre 2011


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I futuristi invocavano la guerra come “igiene del mondo”. Il pacifismo scandalizzato guarda con biasimo a quelle parole (in mezzo c’è un secolo di guerre), ma non si può fare a meno di convivere con il fatto che non c’è progresso materiale, tecnologico o filosofico che fino ad ora ci abbia preservato dall’aggressività. Tifoseria sportiva, appartenenza politica, contrapposizione religiosa, competizione economica. La società umana si basa sullo scontro. Che si sbrighino

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biologi e genetisti a trovare il fondamento naturale che ci solleverà da ogni responsabilità per questa condotta autodistruttiva: il gene della sopraffazione. “Ama il tuo prossimo come te stesso”, diceva un buon filosofo sociale del I secolo d.C. I suoi emuli sono finiti a creare ennesimi gruppi di contrapposizione, talvolta “divertendosi” anche loro ad aggredire verbalmente e fisicamente l’antagonista.

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Il riso abbonda sulla bocca degli sciocchi Breve escursus nel territorio del comico. Dalla serietà della religiosità medievale, alla dissacrazione buffonesca. Ed oggi l’industria del divertimento ha sdoganato il riso come sana componente della vita sociale. E poi ancora: ridere è un’esclusiva umana?

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idere in società. Il riso abbonda sulle labbra degli sciocchi. Ride bene chi ride per ultimo. Ridere è una reazione che tutti proviamo. Nonostante questa familiarità alla risata, le parole rivolte a chi rideva non sempre sono state positive. Detti e proverbi sembrano talvolta stigmatizzare questo comportamento più che comprenderlo o ad incoraggiarlo. Eppure tutti conosciamo la piacevole sensazione data da una risata, dal ridere “di gusto”. Negli ultimi anni forse si è assistito ad un’inversione di tendenza, forse per la rigogliosa industra del divertimento, alla quale il riso è irrimediabilmente legato. Ridere è una sensazione che ci accompagna fin da piccoli: è infatti verso i due mesi che i bambini imparano a ridere in risposta ad uno stimolo esterno, come il solletico. Ed è sempre da piccoli che la risata ha il sopravvento su qualsiasi convenzione sociale. I bambini – ancora non perfettamente inibiti dalle convenzioni sociali - scoppiano a ridere

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in qualsiasi momento o situazione ne sentano l’impulso molto più spontaneamente di quanto faccia l’adulto: a scuola, in chiesa, in mezzo agli sconosciuti. Poi con il tempo, questa abitudine sembra perdersi. Gli uomini crescono e non solo maturano la capacità di controllare questo impulso, ma sembrano perdere in alcuni casi la capacità stessa di abbandonarsi al riso. La comicità e l’umorismo rappresentano un modo particolare di sperimentare la realtà quotidiana e sono esperienze universali, presenti in tutte le culture, sebbene in quanto costanti antropologiche siano storicamente relative: ciò che è considerato divertente in una determinata società può non esserlo in un’altra. Inoltre, la comicità è un’esperienza estremamente fugace, dal momento che ciò che risulta divertente in un certo momento può assumere un connotato completamente diverso un attimo dopo. Quante volte è capitato che una situazione considerata estremamente

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divertente, a distanza di tempo o se raccontata ad un amico non fosse più tale e perdesse la sua vena ironica. Tipologie della dissacrazione. Come tutti sappiamo, esistono vari tipi di riso. Si va da quello vero e proprio, provocato da un’emozione istintiva correlata allo stimolo ambientale, a quello di tipo reattivo puramente meccanico, causato da uno stimolo esterno, come il solletico. Esiste il riso innocente, finalizzato a creare solidarietà all’interno di un gruppo e il riso “cattivo” che ha lo scopo di farsi beffe di uno o più individui che vengono così esclusi dal gruppo. Se dovessimo dare una definizione molto generica, dunque, il comico si potrebbe configurare come un semplice svago, una comicità bonaria senza troppe pretese intellettuali e senza quell’aggressività che caratterizza invece l’ironia e la satira. Il suo scopo è suscitare piacere e simpatia. L’ironia, d’altra parte, può essere messa al servizio dell’intelligenza come vero proprio gioco intellettuale. È questo il caso dei motti arguti, in cui il paradosso e l’ironia servono a riunire aspetti della realtà quotidiana che normalmente vengono tenuti ben distinti. Se, come afferma il filosofo Henri Bergson, il riso è uno strumento di cui la società si serve per scoraggiare e per penalizzare i comportamenti asociali, ecco spiegate altre due accezioni con cui si caratterizza il comico: la tragicommedia Settembre 2011

e la satira. Nella prima il riso viene provocato attraverso il pianto: come dire, si ride per non piangere... Caso un po’ diverso è quello della satira, dove la comicità viene usata come una vera e propria arma di critica. Nella satira l’umorismo viene utilizzato fondamentalmente per finalità “aggressive”. L’intento aggressivo diventa il vero motivo dell’espressione del comico. La maggior parte delle volte l’attacco è rivolto contro le istituzioni e i loro rappresentanti (politici, religiosi...) e il tono è improntato ad una certa malignità per una situazione che si ritiene ingiusta, sbagliata o comunque ambigua. Un’ottica fondata su saldi (e inamovibili) principi morali è naturalmente un bersaglio che può essere attaccato dalla satira. La satira, però, per agire necessita di un pubblico determinato in un determinato contesto sociale. Cristo non ha mai riso. Nonostante i molteplici e diversi aspetti sociali, psicologici e artistici che possono essere coinvolti in una risata, per molti anni il riso è stato ritenuto argomento non degno di attenzione, almeno da parte di scienziati, filosofi ed esperti. Mentre esistono molti saggi sul dolore e sulla sofferenza, sulla risata e sul comico esiste una relativa scarsità di scritti e studi. I motivi possono essere ricercati nella fugacità del comico, ma anche nella convinzione

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che il serio e il faceto si escludano per forza reciprocamente, tanto che è stato coniato un termine apposito, frivolezza, per indicare l’intromissione inopportuna di un elemento umoristico all’interno di una situazione seria. Il comico sembra, quindi, per necessità sociale essere bandito da tutte le situazioni serie. Forse è stata proprio questa estromissione a convincere molti pensatori che il riso non fosse poi un aspetto così importante della vita umana. A rendere sconveniente il riso nel corso delle diverse epoche ha contribuito indubbiamente il particolare rapporto che coinvolge il corpo e la mente di chi ride. Platone affermò nella Repubblica: «Non bisogna essere amanti del riso. Infatti quando qualcuno si lascia andare a una forte risata, ciò provoca anche un forte sconvolgimento del suo animo». Chi ride ha un rapporto con il proprio corpo instabile, dal momento che in preda alla risata, il corpo sembra essere sconvolto da quello che prova la mente. Il controllo che l’individuo ha solitamente su di esso viene meno e l’individuo si abbandona quasi completamente a questa emozione. Quasi completamente e non del tutto, perché, anche in questa situazione a prima vista incontrollata, l’individuo non perde la sua intenzionalità: egli sa esattamente perché sta ridendo. È molto probabilmente anche a causa di questa mancanza di moderazione che spesso forme troppo intense

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o manifeste di riso sono state ritenute sconvenienti in certe epoche nelle classi sociali più elevate. Atteggiamento tipico di certa parte della tradizione occidentale era, infatti, quello di rispettare un ideale di controllo e di moderazione delle proprie emozioni, soprattutto in presenza di altre persone. Oggi la situazione è cambiata. Il riso e la comicità sono entrati a far parte della vita quotidiana senza riprovazione sociale: dalla satira contro il potere (là dove democrazia lo permette), a una battuta spiritosa per sdrammatizzare una situazione particolarmente tesa, all’uso del nonsense in letteratura o al cinema. Certo, forse con un certo progresso sociala e la sempre maggiore complessità dei rapporti tra gli individui, l’umanità ha imparato a sopravvivere attraverso una liberatoria risata. Di strada n’è stata fatta da quando in epoca medioevale il riso era stato etichettato come atteggiamento sconveniente - almeno in ambito religioso -, tanto da far circolare perfino la credenza che Cristo non avesse mai riso... Ridere, un’esclusiva umana? Parlando di risata, sarà capitato a molti di chiedersi se gli animali possono “ridere”. A questo proposito abbiamo posto alcune domande a Stefano Malavasi, ricercatore confermato presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, studioso di Etologia ed Evoluzione. Settembre 2011


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La risata è un’esperienza complessa, che coinvolge elaborati processi psicologici e neuropsicologici. Per questo alcuni la ritengono un’attività esclusiva dell’uomo. Eppure diversi studi hanno dimostrato che anche le scimmie ridono. Anche gli animali hanno quindi la facoltà di ridere, proprio come l’uomo? «Sorriso e risata sono già da molto tempo oggetto d’attenzione e curiosità scientifica da parte di quei naturalisti interessati allo studio del comportamento animale e dell’uomo, già a partire da Darwin con il suo classico “L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali “ (1872), fino ad arrivare ai primi veri etologi umani, come Eibl-Eibesfeldt, tutt’ora vivente e storico allievo di uno dei più famosi padri dell’etologia, l’austriaco Konrad Lorenz. Tuttavia, uno dei primi etologi ad interessarsi alla possibile origine animale del riso e sorriso umani fu l’olandese Jan A.R. A.M Van Hoof, che verso la fine degli anni ’60 condusse una comparazione fra il riso umano e una serie di segnali acustico-visivi emessi dai primati, quale la “messa in mostra silenziosa dei denti” (segnale di sottomissione) o la “messa in mostra dei denti con emissione dei suoni” (segnale di saluto), ravvisando in tali segnali delle possibili omologie del riso umano e ipotizzando dunque un albero filogenetico dei segnali correlati al riso. Recentemente, nel Luglio del Settembre 2011

2009 sulla rivista “Current Biology” è comparso un articolo a firma di psicologi e zoologi afferenti a istituti inglesi, americani e tedeschi, i quali attraverso una fine analisi comparativa dei segnali emessi da giovani scimmie antropomorfe e dai bambini, in risposta al solletico, concludono che i segnali dei primati sono omologhi rispetto a quelli umani (Ross et al. 2009). Nella biologia evolutiva, si parla di tratti omologhi, quando essi discendono da una comune origine a livello di un qualche progenitore vissuto nel passato, mentre è analogo un tratto con funzione simile ma origine differente. Dunque, tutta questa tradizione di studi indica che il nostro sorriso ha una sua base nei nostri progenitori pre-umani, e cioè nei primati. Se si vuole essere prudenti, questo non significa esattamente che le scimmie ridono come noi, ma che esse emettono segnali ed esprimono emozioni in un determinato contesto, quale ad esempio la reazione al solletico, la cui origine è comune a quella del nostro ridere. Tali segnali potrebbero anche avere un contenuto, in termini di informazione ed emotività, assolutamente vicino ai contenuti della nostra risata, ma per confermare ciò occorrono ulteriori informazioni e quindi nuovi studi. Le complesse problematiche neuro-psicologiche della risata, di cui lei appunto parlava, e tutto il problema della possibile funzione che la risata può avere nel contesto della

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comunicazione e quindi della elaborata socialità umana, ci devono indurre ad un minimo di prudenza rispetto ad una conclusione troppo banale e affrettata del tipo “anche gli animali ridono”.» Quali sono gli animali che ridono? E come manifestano visivamente e sonoramente questa emozione? «Alla luce delle premesse e degli studi cui accennavo prima, possiamo dire che le scimmie antropomorfe ridono in risposta al solletico e lo fanno attraverso segnali composti sia da componenti visive, legate alla mimica facciale prodotta da quella serie di muscoli specializzati che tanto loro, quanto noi umani abbiamo ereditato da un comune progenitore e utilizziamo per comunicare; sia da componenti acustiche, che sono simili a quelle del nostro riso, a livello delle loro caratteristiche di base, in termini di tempo e frequenza. Qualche studioso rileva comunque che la risata dei primati abbia parecchie differenze rispetto a quella umana, a causa dell’apparato fonetico, molto meno “limitato” negli umani, grazie alla stazione eretta, e alla netta separazione fra articolazione dei suoni e sistema respiratorio. In altre parole, lo stesso vincolo strutturale che impedirebbe alle scimmie di articolare le parole, avrebbe un effetto nel rendere meno sonora e articolata la loro risata. Se però osserviamo animali con sistemi di comunicazione differente da quello

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dei primati, per esempio altri mammiferi che non possiedono questo sistema di muscoli per la mimica facciale, diventa molto più complesso fare dei confronti e di conseguenza diventa anche difficile individuare l’omologo della risata. Ad esempio, nel ratto un eventuale omologo del riso può essere studiato a livello soltanto di caratteristiche acustiche di segnali ultrasonici emessi durante il gioco, e come reazione al solletico; e alcuni studi indicherebbero tale omologia rispetto al riso umano. Non possiamo dunque escludere che omologie rispetto alla risata umana siano presenti anche in animali, che sono più distanti da noi filogeneticamente rispetto alle scimmie antropomorfe.» In risposta a quali stimoli ridono gli animali? Ridono solo in risposta a stimoli esterni o anche quando provano un’emozione allo stesso modo degli esseri umani? «Abbiamo visto il solletico come stimolo esterno, che può fornire anche lo sperimentatore, e che quindi si è rivelato utile per la comparazione fra uomo e animale. Il solletico è però anche parte del gioco e il gioco è quella, ancora in parte “misteriosa” agli occhi dell’etologo, attività cui anche i giovani di molte specie animali si dedicano in modo spontaneo, coadiuvati in certi casi dai genitori, e che è quindi parte integrante delle cure parentali, della socialità e Settembre 2011


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più in generale del repertorio comportamentale di tali specie. Pur nel suo mistero, riguardo a funzione ed origine, il gioco è parte di una vita sociale che si fa complessa e che richiede un’alta dose di apprendimento, e buone capacità cognitive. La risata come riposta al solletico è stata osservata durante il gioco sociale nei primati anche dalle famose studiose di scimpanzé e gorilla, quali Jane Goodall e Dian Fossey, e ciò suggerisce che l’omologo del ridere potrebbe non essere solo una mera risposta a uno stimolo, come il solletico, ma anche un’espressione spontanea, associata ad un’attività come il gioco, che è a sua volta connesso all’esplorazione, alla scoperta, all’apprendimento e quindi ad un vivere sociale raffinato e complesso.» Anche negli animali la risata è “contagiosa” come per gli uomini? Gli animali ridono per imitazione, osservando il loro prossimo? «Credo che siano necessarie ancora molta sperimentazione e osservazioni sul campo e in semi-libertà, per rispondere a questa domanda. I primati penso continueranno ad essere oggetto di studi del genere e nuove scoperte emergeranno in questo settore. La previsione di massima che possiamo fare è che, se il riso fa parte del gioco, l’imitazione e la contagiosità potrebbero rivestire un ruolo importante, in quanto esse sono modalità di apprendimento sociale, atSettembre 2011

traverso cui le informazioni viaggiano da un individuo all’altro, e quindi un riso contagioso, che viene imitato potrebbe favorire coesione sociale, condivisione di informazioni e rafforzare ulteriormente le attività correlate al gioco, quale l’esplorazione, la scoperta ecc. In altre parole, l’attesa è che il riso sia parte integrante di una socialità raffinata, fondata sull’apprendimento e su quel patrimonio di informazioni collettive, socialmente trasmesse, che chiamiamo cultura, tipica delle specie animali con socialità e capacità cognitive raffinate e complesse, tra cui spicca, pur non unica, certamente Homo sapiens.» Gli animali ridono in tutte le fasi della loro vita o anche nel loro caso, come nell’uomo, con il crescere e maturare ridono di meno? Esistono anche nel mondo animale situazioni in cui risulta sconveniente ridere? «Se continuiamo con la correlazione fra gioco e riso, potremmo immaginare che anche negli animali, calando l’intensità del gioco con l’età, cali anche la frequenza del ridere. Tuttavia, anche su questo punto occorrono ulteriori studi. Quanto più è forte la componente sociale e culturale in una specie animale, tanto più dovremmo aspettarci una più intensa attività ludica, anche sull’intero arco di vita, perché una specie fortemente culturale necessita di trasmettere e accumulare informazioni socialmente

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e il gioco è di tutto questo un viatico importantissimo. E’ il caso di Homo sapiens, che ride e gioca a tutte le età.» Un recente studio dell’Università di Berkeley ha svelato il motivo per cui la iena ride. Sembra che il riso sia in realtà il suo modo di comunicare agli altri informazioni su di sé... Esistono altri casi in natura in cui animali emettono un suono simile al nostro ridere o usano un’espressione del viso simile alla nostra, che in realtà per loro significa qualcosa di completamente diverso? «Ecco, il “riso” della iena è il miglior esempio di banale antropomorfizzazione di una specie animale. E i bestiari medievali hanno visto in questo riso addirittura un elemento diabolico. In realtà, la iena è una specie dalla socialità raffinata, caratterizzata anche da un’alta dose di altruismo, che comunica attraverso segnali che ci ricordano la risata ma che con la risata non hanno nulla a che fare. Non siamo di fronte né ad omologia, comunanza di origine, né ad analogia, funzione comune, ma semplicemente ad una vaga somiglianza, percepita al nostro orecchio umano. Una somiglianza più profonda, in realtà, a pensar bene, c’è : il riso umano e quello della iena sono segnali e come tali, si evolvono per ritualizzazione. La ritualizzazione è un processo evolutivo che trasforma elementi del comporta-

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mento o della morfologia che in origine non hanno funzione comunicativa, in elementi che sono al servizio della funzione comunicativa. Dovendo veicolare informazione, si ha amplificazione di certe parti, semplificazione di altre, ridondanze e stereotipia (costanza nella forma). Riso umano e riso della iena hanno una somiglianza nell’essere messaggi ritualizzati, ma la funzione e l’origine sono diversissime. Il riso della iena è un segnale al servizio della coesione sociale, del riconoscimento individuale e di status, ed è funzionale alla struttura sociale, certamente complessa, tipica di questo carnivoro. Anche qualche richiamo di taluna specie di uccello potrebbe assomigliare a goffe risate, ma in ogni caso non dobbiamo farci trarre in inganno, bensì pensare, come prima cosa, che si tratti di un segnale ritualizzato che convoglia informazioni fondamentali nell’ambito della socialità di quella data specie, ma che col nostro riso nulla ha a che vedere.» Paola Torelli

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Una risata vi seppellirá! Satira e commedia, ironia e comicità, dagli eccessi degli archetipi all’omologazione attuale s’è persa una grande occasione linguistica: ridere di tutto, risate comprese.

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ncora etimologie. Per vedere se esiste una linguistica della risata, tra i tanti approcci possibili tentiamo quello etimologico, rinfrescando la memoria per coloro che non hanno letto le pagine precedenti . Ironia – dal greco eirôneia - che tiene a eiro, esprimo il contrario di quello che penso o che le parole significano, onde eiron, che parla con dissimulazione, eironeiô, ovvero io uso dissimulazione nel discorrere. È questa la figura retorica per la quale le parole hanno un senso contrario e molto diverso di quello che in apparenza esprimono, ovvero si attribuiscono a persone e cose qualità pregevoli che in verità esse non hanno. Sàtira - dal latino sàtura, saturo o ripieno - in origine si riferiva a una specie di dramma in cui si mescolavano musica, parole e danze, più tardi riguardò le poesie motteggianti, nelle quali al tempo dei Romani i mimi rappresentavano con arguzia e con amarezza passionali le stoltezze e i vizi degli uomini, ponendoli in ridicolo. Chi opta per la derivazione

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dal greco sàtyros, intende invece riferirsi a quei personaggi avvinazzati e petulanti che tendevano allo scherno pungente e sguaiato. Comunque: satira significa in ultima istanza componimento diretto a frustare e deridere i difetti degli uomini, insomma, una forma di censura beffarda. Per non farci mancare niente diamo anche una rapida occhiata al significato di comico – dal latino còmicus, dal greco komikòs, che vale per commedia: usato come aggettivo vuol dire che appartiene alla commedia, usato come sostantivo significa attore di commedia, ma anche quegli che scrive o compone favole comiche o commedie. Infine, commedia, nel senso corrente: gozzoviglia, brigata di giovani avvinazzati e anche processione bacchica, che si ritiene sia nata dalle canzoni improvvisate che si cantavano in tali processioni, piene di frizzi e motteggi contro i passanti, derisori e beffardi. Con una specifica: chi la fa derivare da kòme, villaggio, e ôdè, canto, ovvero canto del villaggio, intende

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riferirsi a quei canti licenziosi e burleschi che i villani innalzavano durante la vendemmia, insomma si festeggiava col volgare e col ridicolo. Non ci sono più gli ubriachi di una volta. Certo, da Aristofane e dalle sue commedie antiche, di acqua ne è passata sotto i ponti, lungo la sua corsa fino ai giorni nostri qualcosa si è perso, si è annacquato appunto, così i lemmi di cui sopra hanno assunto connotati più sfumati e in larga parte sono stati ammorbiditi dall’uso comune, ovvero televisivo. Il linguaggio, si sa, è come un fluido che prende la forma del solido in cui è inserito, e per solido deve intendersi la realtà contingente nel suo divenire; così, anche se l’antica sostanza etimologica permane nella comunicazione odierna, i nuovi strumenti tecnologici – che suggeriscono collegamenti veloci e informazioni essenziali, tanto da diventare quasi dei codici linguistici – hanno finito per ridurre la sua portata semantica, ne hanno smussato le punte più acute, gli eccessi debordanti del significante, quelle eventuali asperità (morali) che l’attuale ipocrisia culturale ci sollecita fortemente a respingere. Così la commedia ha dimenticato le urla e gli sghignazzi degli ubriachi, ha seppellito i suoi scherni feroci e volgari sotto paludamenti d’ostentata gradevolezza, e il comico odierno che la interpreta non è più né ubriaco né fuori controllo, anzi,

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tutto ciò che dice o urla è ben soppesato e calibrato, come di chi conosce i limiti e vi si attiene. Forse solo l’ironia, la dissimulazione del discorrere, è rimasta identica, perché mentre la satira è nata sull’onda di una degenerazione lessicale scaturita da menti gioiose e confuse dall’alcool, l’ironia già dal suo nascere trova la sua miglior virtù nella capacità di rovesciare l’intenzione apparente, spesso con una metafora, ma sempre con arguzia, lucidità e razionalità, in una parola, intelligenza, risorsa quest’ultima che per fortuna né il tempo né i costumi hanno potuto mai soggiogare alle logiche epocali. Tuttavia la bestemmia è diventata imprecazione, il gestaccio una smorfia, la volgarità un’allusione pruriginosa, e lungo questa via di ammorbidimenti e smussature il comune senso del pudore, o della ristretta misura, ha tagliato le unghie alle grinfie della risata. Dal punto di vista linguistico l’usura è normale, il significante evolve, talvolta dissolve, in ogni cultura il linguaggio viene rimescolato da nuovi ingressi e repentine uscite di scena, è fisiologico che il corpo della parola subisca mutazioni; tuttavia, in quest’opera di continue erosioni e sedimentazioni, si è dimenticato lo spirito originario dal quale era scaturito il lemma, anzi, gran parte del suo universo semantico è sconosciuto ai più, e così pure il contesto epocale nel quale s’era forgiato. Settembre 2011


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La necessità di fare tante precisazioni sui moti dello spirito che inducono alla divertita polemica, e sul linguaggio col quale vengono espressi, scaturisce dalla cronaca italiana più recente che come ben sappiamo ha visto chiudere trasmissioni televisive, diffidare o ostracizzare giornalisti, censurare iniziative di pubblica protesta, e ha indotto molti cattolici benpensanti a gridare allo scandalo ogni qual volta la satira ha sbugiardato la chiesa e i suoi rappresentanti. Censura e attualità. Stiamo parlando di chi censura e vuol mettere un bavaglio alla risata (memore del vecchio slogan che risuona nel titolo), o invece cerchiamo attraverso il linguaggio di risalire la trafila culturale che ne ha appannato l’incisività? La questione non è di poco conto: se io dico che faccio un programma di satira, sto dicendo che nella trasmissione ci saranno momenti ridanciani, con personaggi petulanti, volgari, e urla sguaiate, sberleffi, motteggi, indirizzati ai governanti e agli altri potenti, oppure intendo un salotto serale di generica allegria e buonumore, in cui grazia e bonomia faranno appena sorridere anziane casalinghe? Naturalmente la risposta è pleonastica, noi sappiamo bene che si tratta del secondo caso, perché se accade che si scivoli nel primo, dal palazzo si leva un preoccupato bla bla censorio e si vedono i suoi proconsoli correre nelSettembre 2011

la pubblica piazza a stracciarsi le vesti. Tradotto nel linguaggio della ghigliottina televisiva: Bisio va bene, Grillo no, Benigni va bene, Luttazzi no, la Dandini va bene la Guzzanti no, Fo dipende, se è in versione spregiudicata e cattiva può infastidire, se invece sproloquia nel suo gramelot incomprensibile allora può andare (in realtà il suo modo guittesco e le sue trasposizioni epocali l’hanno quasi sempre salvato dagli strali della censura). Ma se teniamo presente il ruolo storico del comico, quello che in origine aveva essenzialmente una funzione dissacratoria e polemica, che saliva dagli strati bassi o devianti della popolazione per scioccare e irritare, spesso con l’aggressività più schietta e col linguaggio più volgare, come possiamo immaginarne una versione edulcorata e benevola, educata e rispettosa? La risata doveva “seppellire” – ai tempi in cui si gridava “il re è nudo!” - ma è stata invece seppellita, la voce popolare e spregiudicata del dissenso che poteva trovare spazio tanto nella pubblica piazza quanto nei teatri, oggi si trova zittita in nome di un comune senso del pudore, normalizzato e omologato, che relega lo sberleffo nei canali sotterranei alternativi a quelli istituzionali: nella rete informatica non ancora imbrigliata da norme censorie, nei libri dei piccoli editori indipendenti, nei libelli universitari, nelle radio private, nelle canzoni dei cantautori, nei circoli giovanili, nei

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salotti culturali e artistici, e nelle (poche) riviste satiriche. Perché la derisione, proprio come il riso, è irriducibile a logiche di opportunità morale o politica, e tenta ancora di parlare - come l’ubriaco petulante di un tempo - fuori dagli stilemi della società aristocratica e borghese, clericale e intellettuale, la cosiddetta gente perbene. Uno slittamento linguistico è stato però inevitabile, a cominciare dalle immagini, che hanno ampiamente sostituito i commenti scritti e parlati con foto, video e vignette, per finire con la scelta lessicale, sempre più improntata ad un linguaggio allusivo piuttosto che a quello diretto e volgare degli archetipi; e il linguaggio del corpo è quasi sfumato, sono spariti il ghigno e la mascherata del giullare, i gesti e gli ammiccamenti sessuali dell’ubriaco, oggi il comico si presenta sbarbato e vestito alla bisogna. Dove ci portano questi ragionamenti? Di certo solo pochi di noi accetterebbero di buon grado la sguaiata esibizione di un buffone, se interpellato Umberto Eco si affretterebbe a ricordarci che anche il modo di ridere o, se preferite, di esprimere il divertimento, è cambiato proprio come il linguaggio, e noi stessi ci rendiamo conto che la differenza di classe da cui è scaturito oggi è meno sentita di un tempo. Eppure ci rendiamo altrettanto conto che ciò che sta avvenendo nel nostro Paese pone in

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seria rilevanza non tanto la questione del “diritto di satira”, che molti ritengono minacciato, bensì la natura stessa della satira: il sistema - perdonate l’arcaismo - sembra invocare il buffone di corte, un simpatico nanetto cui è permesso di sfottere il re finché questi non lo caccia a pedate, un dipendente pagato per far sorridere e rilassare, non certo per irritare il sovrano che lo tiene a libro paga. E oggi il sovrano dice: ti lascio scherzare, ma non esagerare. Perciò non suoni ovvio il ribadire che invece la satira è riso e graffio, è un ghigno urlato in faccia al mondo, e non sta in equilibrio fra un potente e l’altro cercando di colpirli con ugual forza, ma prende una posizione netta, intransigente, irremovibile, addirittura ostile, perché chi l’ha praticata in origine non aveva nulla da perdere, se non la gioia liberatoria di gridare le parole del proprio dissenso. La censura è anzitutto linguistica, al punto che una parola “sfuggita” al comico di turno innesta un dibattito politico sull’opportunità morale dell’intera esibizione: si sbandierano le armi dell’onore tradito, del rispetto del ruolo istituzionale, della dovuta discrezione sulla vita privata altrui, del pericolo culturale che corrono i più giovani, della scarsa capacità critica del pubblico che potrebbe non capire o confondersi, e alla fine del dibattito si scarica tutto su un capro espiatorio qualsiasi, non neSettembre 2011


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cessariamente il comico responsabile del “grave” turpiloquio. Ma, prendendo ad esempio il comico più scomodo e irritante della nazione, Daniele Luttazzi, se piace e il suo pubblico ride di gusto, il contenuto di ciò che dice si svuoterà della sua portata distruttiva e verrà presto dimenticato o citato con distratta allegria, se invece accade il contrario semplicemente egli non avrà più un pubblico, e dunque non saranno più di alcun disturbo i suoi vaniloqui. A che scopo diventare illiberali ed esiliarlo? Secondo me il Luttazzi televisivo a volte esagera inutilmente, quando accade mi infastidisce, mi irrita, e arrivo addirittura a trovare la sua figura antipatica, la sua esibizione inutile e sgradevole; allora, semplicemente, cambio canale, sperando che la prossima volta si ammorbidisca un po’ e mi diverta con la gradevolezza che a tratti gli riconosco. Insomma, a volte mi pare che faccia di tutto per venire rifiutato. Bene: ma visto il nostro iniziale excursus etimologico, gli eccessi di questo comico non corrispondono esattamente ai fattori che ne determinano il ruolo, non fanno parte integrante della sua vis polemica, non sono essi stessi il fondamento della sua presenza nella società? In conclusione: oggi non c’è più satira né commedia, solo allegro intrattenimento, ben calibrato e politicamente corretto. L’unico modo per sopravvivere a tale Settembre 2011

sofferenza culturale è guardare ad essa con un pizzico di ironia, attribuendole quelle qualità che in realtà non ha, perché ciò che non si può avere in carne ed ossa può sempre essere sublimato in una figura retorica. Adriano Amati

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Il divertimento e la forza dell’assurdo Vi proponiamo un’apologia della risata e della satira, e del loro utilizzo come strumenti di critica socio-letteraria, nonché di trasmissione della saggezza e del buon senso popolare. .

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rigini e attualità della satira. Come forse tutti sanno, o forse no, ma in tal caso vi illuminiamo subito, la satira (politica, sociale, etc.) non è un’invenzione dei tempi recenti. Basti guardare alle origini della parola: “Satura tota nostra est”, affermava Quintiliano, rivendicando le origini romane di un genere che evidentemente era conteso tra più culture, quella greca in primis. In realtà, pare che il termine derivi da satura lanx, il “piatto misto” di primizie che gli Etruschi offrivano alle divinità; allo stesso modo, la satira letteraria era composta da una pluralità di argomenti e registri linguistici. Nell’antica Roma vi si dedicarono soprattutto Persio e Giovenale, che la utilizzarono per condannare i costumi del proprio tempo, ridicolizzandoli. E celebre è il Satyricon di Petronio, giuntoci purtroppo incompleto (e da cui nel 1969 Federico Fellini trasse l’omonimo film, a dire il vero dal sapore molto più decadente che ironico). Non è nostra intenzione, tuttavia, intra-

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prendere una rassegna letteraria di questo genere che vada dall’antichità sino ai giorni nostri; ciò che ci interessa è invece provare a dimostrare come il genere burlesco (in letteratura, ma anche in teatro, e in tante altre modalità espressive e artistiche) sia da lungo tempo utilizzato per criticare uno stato di cose, trasmettere messaggi o modelli etici, esprimere l’aspirazione ad un cambiamento più o meno radicale. Genere comico e suo statuto. La letteratura cosiddetta comica è da sempre collocata su uno scalino piuttosto basso dei generi letterari; ciò di cui si ride viene tendenzialmente valutato come qualcosa di non sostanziale, di non fondamentale per l’esistenza. Si ride dei vizi e delle virtù, dei difetti fisici e dei comportamenti inusuali, ma non della nascita o della morte, della fame o della sete, di re o personaggi religiosi … Vero? No, falso! Come vi mostreremo in seguito, si può ricorrere anche a queste tematiche per suscitare ilarità, come Settembre 2011


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innumerevoli opere testimoniano. Ma allora perché relegare il genere farsesco in coda al pantheon letterario? Perché negare ad esso il privilegio e gli onori che vengono invece concessi alla poesia epica e lirica, alla narrativa e al teatro? A nostro parere, si possono dare diverse risposte a questo interrogativo. In primo luogo, la satira viene valutata sconveniente a causa della sua irriverenza, della sua noncuranza nei confronti della tradizione e delle regole; inoltre, la risata è da sempre considerata un atteggiamento scomposto e magari sguaiato, sicuramente meno decoroso, e quindi meno nobile e meno degno di attenzioni, di una pacata sobrietà. Ma non è solo questo. Il linguaggio utilizzato dalla satira è ben lungi da quello aulico o comunque decoroso della letteratura “seria”; al contrario, è quello della piazza e della campagna, fitto di bestemmie e oscenità nel peggiore dei casi, e nel migliore di proverbi e imprecazioni. È la lingua che si può sentire tutti i giorni camminando per strada, magari arricchita di giochi verbali e metaforici, ma pur sempre in un registro linguistico troppo basso per poter essere presa in seria considerazione. Infine, di sicuro a nessuno è mai sfuggita la pericolosa sovversività insita in questo tipo di composizioni, né le aspirazioni utopistiche e rivoluzionarie che talvolta si celano dietro una grassa risata. E per questo, forse, si è convenuto, Settembre 2011

padroni e servi insieme (i secondi meno consapevolmente dei primi, probabilmente), che lo sghignazzo rimanesse tale, senza ambire ad un rango maggiore, anche se solo dal punto di vista della dignità letteraria. Lo studio di Bachtin sul carnevalesco. Un’analisi interessante del genere satirico, detto anche carnevalesco, è quella svolta da Michail Bachtin , nel suo L’opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella tradizione medioevale e rinascimentale. Bachtin fa riferimento alla cultura comica popolare, che nel Medioevo trovava espressione in spettacoli e riti concentrati principalmente nel periodo carnevalesco e in occasione della cosiddetta Festa dei folli (conosciuta anche come festum fatuorum, festum stultorum, festum hypodiaconorum, oppure fête des fous). Durante questi più o meno brevi periodi concessi dalle autorità, avveniva un vero e proprio ribaltamento della realtà sociale: veniva eletto un re degli stolti, che deteneva simbolicamente il potere, inoltre i servi comandavano i padroni e le donne gli uomini. Il mondo veniva messo sottosopra, letteralmente capovolto; tutte le regole e le leggi erano temporaneamente sospese, perfino le chiese venivano profanate, in un’anarchia totale che sarebbe inimmaginabile ai giorni nostri, e che veniva tollerata proprio perché istituzionalizzata. Al

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termine del periodo di festeggiamenti, tutto ritornava alla norma. Lo scopo voluto era stato raggiunto. Il popolino aveva assaporato un sottile spicchio di libertà, il tempo necessario per sfogare le proprie pulsioni e incanalare tutte le rivendicazioni sociali e di genere in un sovvertimento solo apparente. Il successivo passaggio alla letteratura di questo mondo alla rovescia, la sua trasmissione nel cosiddetto genere carnevalesco o, come lo chiama Bachtin, nel “realismo grottesco”, avrebbe determinato un graduale abbandono delle critiche allo stato sociale, di ogni pur lieve ambizione di rivolta, per allinearsi su atteggiamenti solo apparentemente provocatori ma, dietro la facciata di un umorismo in un certo senso codificato, sostanzialmente conservatori. Questo senza niente togliere alla felicità creativa di una comicità popolare, che pur poteva vantare invenzioni ingegnose sotto il profilo del linguaggio o della trama. Caratteristiche costanti: una concezione grottesca, in un certo senso animalesca, del corpo, la preminenza data ai bisogni materiali e corporei (specialmente cibo e sessualità), ed infine un uso disinvolto del linguaggio popolare, il tutto con scopi burleschi. Nonostante questa sostanziale leggerezza della lettura, le opere appartenenti a tale genere contribuivano a dare un’interpretazione della realtà tutt’altro che banale, tendente sì alla caricatura e all’ironia, ma nello stes-

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so tempo consapevole e disincantata, “espressione di una nuova coscienza storica, libera e critica”. Bachtin applica poi la sua lucida analisi a quello che è forse più noto esempio a livello europeo di realismo grottesco, il corposo poema secentesco Gargantua e Pantagruele, di François Rabelais. Non seguiremo lo studioso russo in questo suo percorso, per il quale rimandiamo al felice saggio citato sopra, ma cercheremo di addentrarci in maniera più puntuale nella produzione letteraria “italiana” (mi si permetta l’uso anacronistico di questo aggettivo) di epoca moderna, diciamo tra sedicesimo e diciassettesimo secolo, la quale risulta particolarmente prolifica sotto questo profilo. Il savio villano. La prima figura che abbiamo scelto di mettere a fuoco è quella di Bertoldo, tuttora evocato in alcuni detti e proverbi delle campagne del nord Italia, ma di cui si sarebbe forse persa la memoria, se non fosse per la trasposizione cinematografica fattane da Mario Monicelli nel 1984 (Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno, interpretato magistralmente da Ugo Tognazzi, Lello Arena e Alberto Sordi). In realtà il vero creatore di questo personaggio è Giulio Cesare Croce, uno scrittore e cantastorie bolognese (nato nel 1550 e morto nel 1609), nonché commediografo di grande successo, a suo tempo. Nelle prime righe delle Astuzie di BerSettembre 2011


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toldo ci viene subito descritto “un villano brutto e mostruoso sì, ma accorto e astuto, e di sottilissimo ingegno”; e ancora, un “uomo difforme e di bruttissimo aspetto; ma dove mancava la formosità della persona, suppliva la vivacità dell’ingegno”. Oltre che dall’aspetto deforme, il nostro anti-eroe è caratterizzato anche da un linguaggio grezzo e scurrile, ma nello stesso tempo ricco di arguzie, giochi di parole e proverbi. L’effetto umoristico è in primo luogo generato dalla difformità fisica (a cui si aggiunge quella della moglie, Marcolfa), che è la stessa delle maschere di Carnevale, o dei travestimenti dei moderni comici teatrali e televisivi. Ciò che è particolarmente brutto, che sembra quasi uno scherzo di natura, genera infatti immediata ilarità; a maggior ragione questo accade quando vi si aggiungano un linguaggio volgare e azioni bestiali, come l’espletamento delle funzioni corporali più basse, a maggior ragione se questo avviene al cospetto di un potente (Bertoldo lo farà proprio di fronte alla regina!). Secondariamente, la comicità scaturisce dal ripetuto alterco con il sovrano (anche questo rituale, e non caratteristico di questa unica opera), Alboino. L’incontro-scontro di queste due realtà sociali opposte risulta particolarmente spassoso dal momento che il re, affascinato dalle battute sentenziose e dalle trovate argute del villano, non si accorge nemmeno di essere ripetutaSettembre 2011

mente preso “per i fondelli”. Bertoldo non solo riesce agevolmente a scampare alla pena capitale grazie alla sua furbizia, ma finirà per essere nominato barone e consigliere, con l’obbligo di risiedere a corte. Ma prima di questo, possiamo già dire che ricoprisse il ruolo di buffone di corte, suggeritore di consigli tanto bislacchi e inconsueti, quanto efficaci e geniali. E, va da sé, esilaranti. Due esempi fra i tanti: alla richiesta di maggiore libertà da parte delle donne di corte, suggerisce ad Alboino di concedere loro quello che chiedono, a patto che non aprano una cassetta che viene loro consegnata, la quale dovrà essere custodita per tutta la notte e riconsegnata il giorno successivo. Come previsto dal furbo contadino, le illustri dame non sanno resistere alla curiosità tipica del gentil sesso (ed ecco sbucare la misoginia, che ci permette di individuare un aspetto conservatore nel racconto), aprono la cassa e … l’uccellino che essa conteneva vola via ed esce dalla finestra, smascherando la loro debolezza ed impedendo così un’ascesa sociale. Un altro episodio particolarmente divertente è il metodo che Bertoldo propone alla figlia del re per evitare il matrimonio combinato con il deforme tetrarca bizantino (dalla doppia gobba): e così la fanciulla si fa ritrarre mascherata, in modo da apparire ancor più mostruosa del promesso sposo ed essere così rifiutata. Non occorre aggiungere

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che lo stratagemma avrà successo. Nel momento in cui il villano cessa di essere considerato dal re un giullare, e passa di grado divenendo nobile, ecco che viene a cessare la sua libertà. Sono solo i pazzi e gli scemi, infatti, che si possono permettere tutto, per il fatto che il loro ruolo è stato in un certo senso istituzionalizzato. È l’anomalia riconosciuta, infatti, questa iperbolica esagerazione dei vizi comuni e della presunzione più sfacciata, ciò che preserva dalle condanne che normalmente seguirebbero ad un comportamento altrimenti ingiustificabile. Per questo motivo, nel momento immediatamente successivo alla nomina, il povero Bertoldo si sente subito stretto nel suo nuovo ruolo: “chi di libertà è privo, ha in odio d’esser vivo”, dichiara. E la punizione di questa alterazione dell’ordine costituito sarà quasi immediata: la malattia (dovuta presumibilmente al cambio della dieta: non più fagioli e rape, ma ravioli e pernici), che condurrà immancabilmente alla morte. Gli episodi narrati nella saga di Bertoldo, ai quali vanno aggiunti quelli che coinvolgono il figlio Bertoldino (ancora più comico poiché veramente tardo di intelletto, stolto per eccellenza e ingenuo), non costituiscono un caso isolato. L’umorismo associato al nonsense da vita a innumerevoli componimenti, per lo più sconosciuti ad un pubblico di

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non specialisti, ed in gran parte inediti. Qui proponiamo solo un paio di titoli, piuttosto significativi, tutti facenti parte del medesimo contesto bolognese cui apparteneva anche il Croce: il Contrasto del pane di formento e quello di fava per la precedenza (Bologna, Bartolomeo Cochi, 1617), e la Tragedia in comedia fra i bocconi da grasso e quei da magro la sera di Carnevale. Con il lamento del Carnevale, dolendosi della Quaresima, che li sia sopragiunta così presto. Et la risposta di lei contro il Carnevale. Capriccio galante (Bologna, Eredi del Cochi, s.a.). Il poema eroicomico. Quasi tutti i generi, nel periodo di tempo che va dalla metà del Cinquecento alla metà del Seicento, vengono rivisitati in chiave comica e satirica, in una moltitudine di sperimentazioni che non lascia scampo nemmeno ai poemi epici antichi e moderni. Prende vita così il poema eroicomico, nato dall’insofferenza per i componimenti eroici sul modello della Gerusalemme liberata di Torquato Tasso; di questi mantiene la struttura metrica in ottave e l’intreccio avventuroso, ma ridicoleggiandone i contenuti. Gli intrecci appaiono assurdi e ripetitivi, i toni magniloquentemente beffardi. Capostipite del genere è comunemente considerata la Secchia rapita di Alessandro Tassoni (pubblicata per la prima volta a Parigi nel 1622, ma già da alcuni anni Settembre 2011


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circolante in versione manoscritta), che parodizza il modello sublime per eccellenza, l’Eneide; a scatenare la guerra non è una procace fanciulla dalle lunghe chiome, ma una comune e insignificante secchia. Il primato temporale della Secchia rapita è conteso da Francesco Bracciolini che, ne Lo scherno degli dei, rappresentava in modo scherzoso e irriverente la vita degli Dei dell’Olimpo. Ciò che suscita il riso in questi poemi, tuttavia, non consiste soltanto nel contenuto; l’alternanza del linguaggio alto e sublime a quello basso e triviale, che si scambiano nei momenti meno opportuni e più inattesi, ha esiti comici. In particolare, suscita ilarità l’inadeguatezza tra registro e contenuto, per cui un fatto insignificante viene generalmente esposto con uno stile forbito, e viceversa un episodio importante è riferito con tono scherzoso. Per concludere, i personaggi di cui si descrivono le gesta non sono più cavalieri ed eroi impeccabili, bensì personaggi quotidiani ed insignificanti, meschini e mentecatti, o magari nobili, sì, ma impegnati in imprese ben misere, come nel caso della guerra mossa da un grande imperatore contro le mosche, nella Moscheide di Teofilo Folengo (autore cui è dedicato un box di approfondimento). Un eroe tragicomico: Don Chisciotte de la Mancha. Chiudiamo questa sfilaSettembre 2011

ta di esempi dalla letteratura umoristica rinascimentale con un’opera non meno comica, ma contenente nello stesso tempo i germi di una nuova consapevolezza tragica, Le avventure di Don Chisciotte della Mancia dello spagnolo Miguel de Cervantes. In questo voluminoso romanzo e nel suo altrettanto corposo seguito, si raccontano le vicissitudini di un aspirante cavaliere non più giovane, che, ubriaco di letteratura epica e cavalleresca, decide di partire all’avventura insieme al suo fedele scudiero Sancho Panza (alter ego di Bertoldo per aspetto fisico e pragmatismo, ma non per intelletto). I due protagonisti suscitano non solo risate, per le improbabili e picaresche peripezie che attraversano e a volte si creano da soli (in memorabili equivoci come lo scambiare dei mulini per dei giganti) ma anche spunti di riflessione sulla condizione umana. Per questo possiamo dire che il Don Chisciotte è contemporaneamente l’epigono di un genere, quello eroicomico, e l’iniziatore di uno nuovo, quello tragicomico. Elena Bonesi Qualche nota di approfondimento. Il genere maccaronico e il Baldus di Folengo. Un posto tutto particolare occupa nella storia delle letteratura italiana il genere maccaronico o maccheronico, che di fatto consiste in una

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contaminazione linguistica tra latino e italiano, o meglio, tra il latino e i vari dialetti italiani. Maccaronee potrebbe sembrare il nome di un nuovo prodotto gastronomico, ed invece era il nome che veniva dato nel sedicesimo secolo a dei componimenti che, proprio come la quasi omonima pietanza rozza fatta con un miscuglio di farina, formaggio e burro (oggi i maccheroni sono invece un formato di pasta, da tutti noi ben conosciuto), mischiavano lessico e strutture grammaticali di diverse lingue. L’effetto risultante era un latino storpiato e buffo, che derideva la goffaggine di chi si avventurava a esprimersi in latino non avendone più la competenza necessaria. Primo posto in questa produzione occupa il Baldus di Teofilo Folengo (14911544), monaco benedettino mantovano dedito alla letteratura, umoristica ma non solo. Oltre al Baldus, pubblicò infatti la già citata Moscheide, i poemetti Janus e Orlandino,alcuni poemi religiosi, una raccolta di vite di martiri (Hagiomachia, anch’essa composta in stile maccheronico) e altre poesie ed epigrammi in perfetto latino. Nei 25 canti (o maccheronee) del Baldus, narra le avventure di Baldus, discendente di Rinaldo (famoso personaggio dell’Orlando Furioso), che viene allevato a Cipada, presso Mantova; per mezzo del suo linguaggio arguto e delle vicende incredibili del protagonista e

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dei mostruosi compagni, l’autore (che si presenta con lo pseudonimo di Merlin Cocai) si prende gioco sia degli stereotipi cavallereschi (in particolare Ariosto e Pulci), sia del mondo contadino della sua terra. Descrive infatti le maniere rozze e bestiali, la sporcizia e la violenza, la corruzione e l’ingordigia dei religiosi, in pratica le realtà che poteva osservare quotidianamente in prima persona. Perfino la conclusione è al di fuori di ogni norma e aspettativa, priva di un epilogo sensato: i personaggi si ritrovano infatti nel ventre di una zucca, dove incontrano una schiera di letterati e filosofi impazziti (rievocazione del cammino infernale dantesco?), tra i quali lo stesso autore, Merlino. Alla ricerca dell’eroe perduto: Brancaleone. Se volessimo cercare un corrispondente cinematografico dell’eroicomico letterario, potremmo facilmente trovarlo nella figura cavalleresca dipintaci da Mario Monicelli ne L’armata Brancaleone, e riproposta una seconda volta in Brancaleone alle crociate. In questi lungometraggi, gli ingredienti della comicità sono sempre gli stessi di cinque secoli fa, ma non per questo risultano meno efficaci: il protagonista, Brancaleone appunto, è un eroe coraggioso che intraprende un viaggio picaresco insieme ad un cavallo fifone, Aquilante, e a dei compagni improbabili. L’ambientaSettembre 2011


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zione è medievale (l’Impero Bizantino è ancora in vita e Costantinopoli in mano agli Infedeli), ed ogni personaggio rappresenta una caricatura ben riuscita, basata per lo più su luoghi comuni, come il vecchio ebreo Abacucco innamorato del denaro, o la bella e casta (ma sarà poi casta veramente?) Matelda che deve giungere immacolata al matrimonio, scortata dal nostro paladino. Ciascuno parla il proprio linguaggio, altisonante o rustico, e come nel modello letterario gli accostamenti inattesi tra l’uno e l’altro non mancano, e nemmeno le massime proverbiali, spesso in rima (“Sai tu qual sia in questa mera valle la risultanza e il premio di ogni sacrifizio umano? Calci

nel deretano”, asserisce uno sconsolato Brancaleone; e ancora, “Facemo mille petecchioni, e contenti li sapienti e li minchioni”, propone Abacucco in una delle sue contrattazioni). Morale della favola? Nonostante ci crediamo tanto diversi dai nostri predecessori, e nonostante in un certo senso lo siamo davvero, almeno da un punto di vista tecnico, ridiamo ancora per le stesse battute e veniamo ancora intrattenuti dagli stessi intrighi e stratagemmi letterari, che si estendono anche ai nuovi mezzi di espressione artistica.

Bibliografia essenziale Giulio Cesare Croce, Le astuzie di Bertoldo e le semplicità di Bertoldino, a cura di Pietro Camporesi, Milano, Garzanti, 1993. Michail Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale, Torino, Einaudi, 1979. (edizione originale 1965). Piero Camporesi, La maschera di Bertoldo. Giulio Cesare Croce e la letteratura carnevalesca, Torino, Einaudi, 1976. Filmografia L’armata Brancaleone, di Mario Monicelli, Italia, 1966. Brancaleone alle Crociate, di Mario Monicelli, Italia, 1970. Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno, di Mario Monicelli, Italia, 1984.

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142 Profilo degli autori Adriano Amati Giornalista e scrittore, ha pubblicato libri di turismo e d’arte, ha diretto cinque testate mantovane, ha scritto articoli e saggi collaborando con testate locali e nazionali. Per Paolini Editore di Mantova ha pubblicato Turista a Tebaide (1991) e Bertrand il matematico (1994), per la Severgnini di Milano Dialoghi del namoro (1997), inoltre Domicilio Mantova (Editoriale La Cronaca di Mantova, 2003), Detto tra noi (Prospecta Edizioni Mantova, 2005), I miei (Il Cartiglio Mantovano Mantova, 2006), per la casa editrice E.LUI di Reggiolo la raccolta di poesie Una voglia di Sur (2008) e il romanzo L’iride azzurra (.2010). Elena Bonesi Originaria di Suzzara, paese a cavallo del Po tra il basso mantovano e reggiano, è laureata in Lettere e Storia dell’Arte presso l’Università di Bologna, e sta attualmente svolgendo il dottorato in Storia delle Idee nella stessa Università, in collaborazione con l’Istituto di Scienze Umane di Firenze. Le sue ricerche sono rivolte prevalentemente alla costruzione di un’iconografia del dolore nell’Italia moderna e barocca, utilizzando una prospettiva multidisciplinare. Appassionata di libri, ha partecipato per anni ad un gruppo di scrittura creativa (Coulipo), ha narrato nelle “Cronache dalla scuola degli scoiattoli” la sua attività di assistente di lingua italiana a Londra e dal gennaio 2010 collabora con «L’Eretico» scrivendo articoli riguardanti arte, letteratura, e cultura in generale.” Davide Donadio (1977) ha studiato Storia e Filosofia all’Università di Bologna. Nel caos eclettico dei suoi interessi, gli è capitato di ritrovarsi editore (si occupa di stampa periodica locale e di divulgazione scientifica e filosofica). Tra i suoi interessi filosofici e letterari è solito citare, per darsi una certa importanza, autori quali Schopenhauer, Leopardi, Davidson, Dennett, i sofisti greci ecc. Vecchio precoce, negli ultimi anni ha perso ogni speranza e credenza e per questo si atteggia con amici e conoscenti a pessimista e post-esistenzialista (nonchè “riduzionista”). Attualmente si interessa di filosofia della scienza/epistemologia e di filosofia della mente/neuroscienze/biologia accanto a interessi letterari. In realtà, fuori dal ruolo che recita, la vita lo diverte, soprattutto quella vita che si manifesta nel godimento dell’arte, nella curiosità intellettuale e nell’espletamento delle funzioni sociobiologiche in compagnia: discutere e questionare, banchettare con gli amici, bere buon vino, osservare e ascoltare le persone che parlano, ecc. Con la stessa ispirazione scrive brevii acconti letterari. Tra le sue pubblicazioni si ricorda Strutture di Sabbia (Reggiolo 2007), Il Gatto di Aristotele (Reggiolo 2011). Raffaele Giglietti Ha trascorso la sua vita lavorativa occupandosi, per diverse multinazionali, di molti settori aziendali. Da quattro anni collabora con «L’Eretico» dapprima curando la rubrica “L’uomo e l’Impresa” (processi industriali e fenomeni macroeconomici) poi, da circa tre anni, con scritti di attualità e opinione. Assieme a Maddalena Letari, ha pubblicato un’antologia, dei propri articoli apparsi su «L’Eretico», dal titolo Pagine Dispari ed. La Clessidra.

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143 Gabriele Maestri (1983) è dottorando in Teoria dello Stato presso l’università di Roma «La Sapienza», si occupa di laicità, comunicazione, diritto elettorale e dei partiti politici; laureato in giurisprudenza, per un periodo ha insegnato alle scuole secondarie di primo grado. Giornalista pubblicista, ha scritto per 8 anni sulla «Gazzetta di Reggio», mentre oggi collabora con «il Giornale di Reggio», «Reporter Mantova», «DarVoceInforma» e i periodici musicali «Raro!» e «Wonderous stories»; dirige il periodico «L’Argine maestro». Ha realizzato servizi per «L’Eretico» a partire da aprile 2009, esplorando mondi a lui del tutto sconosciuti in precedenza: anche per questo, quella testata gli manca. Giulia Mingucci (1982-) è dottoranda in Storia delle Idee presso l’Istituto Italiano di Scienze Umane e visiting member presso Corpus Christi College Centre for the Study of Greek and Roman Antiquity a Oxford; collabora in qualità di cultrice della materia con l’Università degli Studi di Bologna. Dopo avere ottenuto, nel 2004, la laurea triennale con una tesi sull’intelligenza artificiale (Può il computer emozionarsi? Macchine ed intelligenza emotiva), ha conseguito la laurea specialistica nel 2008 con una dissertazione sull’antropologia aristotelica (L’uomo di Aristotele tra biologia e politica), stimolo per la sua attuale ricerca sulla prospettiva ilomorfista sui rapporti mente-corpo. Si interessa principalmente di filosofia della mente e di filosofia della biologia; tra le sue pubblicazioni, si ricorda in particolare La mente e il corpo (2011), in L’Antichità, a cura di Umberto Eco, Milano: Encyclomedia Publishers. Maddalena Letari (Gonzaga MN, 1960) Ha studiato lingue e letterature straniere moderne all’Università “Carlo Bo” di Urbino; è insegnante di lingua inglese al Polo Professionale di Guastalla (RE), si occupa a vari livelli all’interno delle istituzioni scolastiche di formazione e didattica.. Tra i primi collaboratori de «L’Eretico», in cui ha curato una rubrica di attualità e riflessioni (Altrimondi – attualità e altro), ha pubblicato una raccolta di racconti, Trascurabili Dettagli per le Edizioni La Clessidra e, sempre per la stessa casa editrice, assieme a Raffaele Giglietti, ha pubblicato un’antologia dei propri articoli apparsi su «L’Eretico»: Pagine Dispari Paola Torelli (Correggio - RE, 1982). Laureata presso l’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia in “Scienze della Comunicazione” e nel corso di laurea specialistico in “Nuovi Media e Comunicazione Multimediale”. Collabora da alcuni anni con riviste di attualità e cultura diffuse sul territorio emiliano e lombardo. Tra i suoi interessi principali: cinema, musica, arte e viaggi.

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144 Profilo degli intervistati Daniele Moretto, sacerdote della diocesi di Reggio Emilia – Guastalla, docente di teologia sistematica presso lo Studio Teologico Interdiocesano di Reggio (dopo aver conseguito il dottorato in teologia alla Pontificia Università Gregoriana di Roma nel 1999). Carlo Prandi insegna Storia delle religioni e Sociologia della religione presso il Corso superiore di Scienze religiose dell’Istituto trentino di cultura (Tn). È socio della Society for the Scientific Study of Religion (USA) e del Sociological Religion Study Group (UK). Ha pubblicato, tra l’altro, La religione popolare fra potere e tradizione, Milano 1983; I dinamismi del sacro fra storia e sociologia, Brescia 1989; Le scienze delle religioni (in collaborazione con G. Filoramo), Brescia 19973; La tradizione religiosa. Saggio storico-sociologico, Roma 2000. Emilio Pasquini insegna Letteratura italiana all’Università di Bologna. Fra i maggiori studiosi di Dante, della cui Commedia ha curato insieme ad A.E. Quaglio un notissimo commento, si è occupato di aspetti rilevanti della cultura trequattrocentesca, fornendo importanti contributi filologici, tra cui l’edizione delle Rime del Saviozzo (Commissione per i testi di lingua, Bologna 1965) e Le botteghe della poesia (il Mulino, Bologna 1991). Altri studi sono dedicati a Guicciardini, Leopardi, Foscolo, Carducci, Pascoli e Montale, alcuni dei quali ora raccolti nel volume Ottocento letterario. Dalla periferia al centro (Carocci, Roma 2001). Per la Bruno Mondadori ha curato il Breviario dei classici italiani (con G.M. Anselmi e A. Cottignoli, Milano 1996) ed è autore di Dante e le figure del vero (Milano 2001) e ha contribuito alla pubblicazione di Seneca nella coscienza dell’Europa (Milano 1999), Mappe della letteratura europea e mediterranea I (Milano 2000), Luoghi della letteratura italiana (Milano 2003) e Teoria e storia dell’aforisma (Milano 2004).

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Aldino Monti docente di Storia moderna alla Facoltà di Lingue e Letterature straniere dell’Università di Bologna. Già docente di Storia economica presso l’Università di Pisa e di Storia dell’agricoltura e di Storia moderna sempre all’Università di Bologna, il Prof. Monti è un esperto del settore. I suoi ambiti di ricerca hanno avuto per oggetto la storia delle campagne italiane dal Settecento fino all’età contemporanea, con un particolare riferimento a due problemi legati alla questione agraria e contadina in Italia: il massimalismo bracciantile e il capitalismo della bonifica. Elvira Stefania Tiberini è Professore Associato presso la Facoltà di Lettere dell'Università la Sapienza di Roma. Membro dell’ANUAC (Associazione Nazionale Universitaria Antropologi Culturali) del NMAI (National Museum of the American Indian) e della Società Italiana di Studi Canadesi, dirige con Luisa Faldini la collana Ethnographie americane edita dal CISU (Roma). I suoi ambiti d’interesse sono l’Antropologia dell’Arte, l’Etnologia del Nord America e i Black Cultural Studies con particolare riferimento alle espressioni della cultura nera americana e alla diaspora nera. Alcune delle sue opere: Senza Riserve. Etnologia del Nord America, 1999, Black Inc. – Africanismi in America, 2007 e Treat or trick? San Nicola Santa Claus Halloween, 2008. Gino Ruozzi (1958) insegna Letteratura italiana all´Università di Bologna. Il suo interesse principale è rivolto allo studio delle forme brevi e morali della letteratura italiana: aforismi, epigrammi, favole. Tra i volumi pubblicati ricordiamo Scrittori italiani di aforismi («I Meridiani» Mondadori, 1994-1996); Epigrammi italiani (Einaudi, 2001); Luoghi della letteratura italiana (Bruno Mondadori, 2003); Teoria e storia dell´aforisma (Milano, Bruno Mondadori, 2004); Favole, apologhi e bestiari (Bur, 2007).

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Ruggero Campagnoli è nato a Bologna nel 1941. È professore ordinario di Letteratura Francese presso l’Università di Bologna. Nel 1998 è stato insignito del titolo di Chevalier dans l’Ordre des Arts et des Lettres, e nel 2005 è stato nominato Dottore Honoris Causa presso l’Université de Haute Alsace. Curatore, insieme a Yves Hersant, della traduzione ed edizione italiana di Oulipo. La littérature potentielle (edita in Francia nel 1973), è stato cofondatore e presidente dell’OPLEPO (Opificio di letteratura potenziale), dal 1990 al 1998, e poi cofondatore e membro del direttorio di OPELPO (Opificio di Elaborazione Potenziale, la cui attività può essere seguita sul sito http://www.opelpo.org). Giorgio Celli (1935 –2011) è stato un personaggio poliedrico; l’elenco delle attività da lui svolte è da capogiro: etologo, entomologo, ecologo, conduttore televisivo, scrittore di romanzi e poesie, autore teatrale, professore universitario. Noto ai più per la sua passione per i gatti, di cui si è dichiarato “ammiratore e complice”, docente presso l’Istituto di Entomologia “Guido Grandi” dell’Università di Bologna, ha coordinato un gruppo di ricerca sulle alternative ai pesticidi in agricoltura, sull’ape come organismo indicatore dell’inquinamento ambientale. È stato conduttore del programma televisivo di Rai 3 “Nel regno degli animali”. Impegnato in politica tra le file dei Verdi li ha rappresentati nel Parlamento europeo tra il 1999 e il 2004). Tra le sue opere, Ecologi e scimmie di Dio, Ottobre 2011 Feltrinelli, 1995; Bestiario postmoderno, Editori riuniti, 1990; Il gatto di casa: etologia di un’amicizia, Muzzio, 1997; La mente dell’ape: considerazioni tra etologia e filosofia, Compositori, 2008.

Ha poi collaborato come assistente alla cattedra di Filosofia morale con Felice Battaglia e Nicola Matteucci. Ha quindi insegnato, sempre a Bologna, Storia della filosofia contemporanea come professore associato e in seguito, come professore straordinario, dal 1987 al 1993, Filosofia della storia nella Facoltà di Magistero dell’Università di Messina. Attualmente è professore ordinario di Filosofia morale nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bologna. Ha frequentato per vari periodi prima lo Hegel-Archiv di Bochum e successivamente lo Schopenhauer-Archiv di Francoforte. Da anni è membro della Schopenhauer Gesellschaft. I suoi studi sono principalmente incentrati sulla tematica dell’alienazione nei suoi aspetti sociali ed esistenziali e sulla condizione umana in genere, che viene indagata attraverso l’interpretazione di filosofi accomunati da una prospettiva di pensiero non dogmatico e libero. Stefano Malavasi (Modena 29-3-71) è ricercatore confermato presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia dopo la Laurea in Scienze Biologiche conseguita nel Marzo del 1996 a Parma e il tirocinio presso l’Università Veneziana. Ha svolto attività di ricerca presso il Dipartimento di Ecologia e Sistematica dell’Università di Helsinki, Finlandia. I suoi interessi sono nell’ambito dell’Ecologia, Etologia ed Evoluzione, con particolare riferimento all’evoluzione della comunicazione acustica. Svolge attività di referee per le seguenti rivisteinternazionali: «Canadian Journal of Zoology», «Environmental Biology of Fishes», «Journal of Applied Ichthyology», «Behavioural Ecology & Sociobiology», «Annales de Biologia».

Paolo Vincieri (1944) si è laureato in Filosofia morale con Felice Battaglia nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bologna.

Ottobre 2011

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