Tesi di Laurea UniversitĂ Iuav di Venezia FacoltĂ di Design e Arti Corso di laurea specialistica in Comunicazioni Visive e Multimediali
Sessione di Laurea 06 aprile 2011 Relatori Philip Tabor e Gillian Crampton Smith
Tesi di laurea Corso di laurea specialistica o magistrale in
Titolo tesi di laurea
I Mirabilia, tre pupazzi interattivi per l'emotivitĂ dei bambini degenti
Cognome e nome
Erika Rossi
Matricola n.
267222
Anno accademico
2009/2010
Relatore
Philip Tabor
Firma
Correlatore
Gillian Crampton Smith
Firma
Sessione di laurea
06 aprile 2011
/ ABSTRACT
I Mirabilia sono una famiglia costituita da tre pupazzi interattivi per bambini degenti che mirano, attraverso comportamenti ed interazioni particolari, ad agevolare e a migliorare le relazioni interne all’ospedale che i piccoli pazienti intrattengono con il personale ospedaliero e gli altri coetanei. I vari progetti esistenti in tal senso, sono per lo più volti a solidificare i rapporti che il bambino degente instaura con la famiglia, i compagni di scuola e gli insegnanti, non considerando le relazioni interne all’ospedale e gli stati emotivi con cui il bambino si interfaccia ogni giorno. Nasce così l’idea di un set di pupazzi, più concreti e diretti di un’applicazione a schermo, ognuno dei quali è ideato per sopperire ad una necessità psico-emotiva che spesso i bambini aventi patologie terminali o croniche manifestano in maniera più o meno inconscia. Odo è un custode di segreti che aiuta il bambino, in particolar modo quello appena ricoverato, a superare il senso di colpevolezza, le angosce e le paure tipiche della situazione di degenza infantile. La difficoltà nell’esprimere questi stati psicologici negativi ad estranei, quali medici ed infermieri, viene risolta da Odo, il quale diventa un prezioso intermediario tra l’incoscio del bambino e i
terapisti addetti alla cura del suo stato psicologico. Lucio è un amico quieto e silenzioso che durante la notte, nei momenti di sconforto e solitudine, mette in contatto due bambini affettivamente uniti. Tramite un tenue gioco di luci e lievi vibrazioni, Lucio instaura tra i due bambini quello spontaneo mutuo soccorso e comprensione reciproca che caratterizzano le profonde amicizie nate all’interno dell’ospedale. Tello è un divertente cantastorie che agevola la socializzazione all’interno di contesti di attesa. Aspettando il loro ciclo di terapia giornaliera, i bambini, anche i più timidi ed introversi, possono servirsi di Tello per creare una storia collaborativa attraverso l’uso combinato di suoni e storytelling. I Mirabilia sono caratterizzati da un aspetto buffo e stravagante ed intercettano l’ampio range d’età 6–12 anni, poichè si adattano a differenti momenti dell’infanzia e dell’ospedalizzazione. La tesi esplora le vie progettuali intraprese in passato in tale ambito, l’ideazione del progetto e il suo articolarsi su tre livelli relazionali attraverso disegni e prototipi, la definizione delle interazioni e i risultati delle interviste svolte all'Ospedale Pediatrico Meyer di Firenze.
I Mirabilia are a family of three interactive dolls for hospitalized children. These dolls, through different interactions and behaviours, would allow children to improve their relationships inside the hospital with other people, like doctors, psychologists and other hospitalized children. The main aim of existing projects is basically to improve the relationships between the child and external stakeholders like family, classmates and teachers, without considering the relationships and emotional states of children in their everyday life. The idea is based on a set of dolls, more physical and direct than screen applications, each providing for different emotional needs which children with terminal or chronic illnesses often have but don’t easily show. Odo is a secret keeper who helps the child, in particular one just hospitalized, in fighting the guilt, anguish and fears typical of a child in hospital. Difficulty in expressing these negative psychological states to unfamiliar people like doctors and nurses is solved by Odo, who becomes a unique intermediary between the child’s unconscious and the psychologist. Lucio is a quiet and silent friend who, during a night of discouragement and solitude, creates a
contact between two friends. Through a soft exchange of lights and vibrations, Lucio establishes between the two children a mutual aid and comprehension typical of the deep friendships started in a hospital. Tello is a fun storyteller who makes socializing easier in waiting rooms. Waiting for their daily visits, shy children can use Tello to create a cooperative tale using sounds and storytelling and thus make new friends. I Mirabilia have a funny and weird aspect and are for the wide range of age 6–12, because they are suitable for different periods of childhood and hospitalization. Using non-invasive interactions and intimate contexts of use, I Mirabilia offer a playful emotional support for hospitalized children, making easier the work of doctors, psychologists, nurses and all those who take care of the psychological side of the children. The thesis explores the existing projects based on this topic, recounts the creation of the idea and its development on three relational levels through designs and prototypes and describes the interactions and the results obtained from interviews at a hospital.
/ INDICE / ABSTRACT / INTRODUZIONE
1
1 / PATCHWORK CONCETTUALE 1.1 / C’ERA UNA VOLTA...
6
1.2 / GLI OBIETTIVI MEDICALI
7
1.3 / STORYTELLING COME TERAPIA?
32
1.4 / ABRACADABRA
38
2 / IMBASTENDO IDEE... 2.1 / IL FATTORE PSICOLOGICO
50
2.2 / I TRE LIVELLI RELAZIONALI
52
2.3 / PUPAZZI TUTTOFARE
55
2.3.1 / Autismo: l’abc del linguaggio 2.3.2 / Diabete: autonomia prima di tutto 2.3.3 / Ipovedenza: un archivio di sensazioni 2.3.4 / Malattia terminale: un supporto emotivo 2.4 / LA SCELTA: LA DEGENZA
65
2.5 / QUALE FASCIA D’ETÁ?
70
2.6 / L’OSPEDALE MEYER DI FIRENZE
72
2.7 / IL NOSTRO NOME É...
73
2.8 / I PRIMI MODELLI
77
2.8.1 / Odo 2.8.2 / Lucio 2.8.3 / Tello 2.9 / VERSO LA DEFINIZIONE DELL’IDEA
81
3 / I MIRABILIA, STOFFA DA VENDERE! 3.1 / IL PROGETTO FINALE
84
3.2 / ODO, UN CUSTODE DI SEGRETI: INTERAZIONI E SCENARI
87
3.3 / LUCIO, UN AMICO NELL’OSCURITÀ: INTERAZIONI E SCENARI
91
3.4 / TELLO, IL NARRATORE DI SUONI: INTERAZIONI E SCENARI
98
3.5 / I PROTOTIPI FINALI
105
3.5.1 / Odo: componenti e struttura 3.5.2 / Lucio: componenti e struttura 3.5.3 / Tello: componenti e struttura 3.6 / COSTI DI REALIZZAZIONE
/ CONCLUSIONI
118 121
/ APPENDICI A / INTERVISTA 01: ELIANA RUMORI
124
B / INTERVISTA 02: NICOLÒ MUCIACCIA
128
C / CIRCUITI E FLOWCHART
130
/ RINGRAZIAMENTI
136
/ FONTI / LIBRI E RIVISTE
138
/ PAPERS ONLINE E WEB
139
/ IMMAGINI
140
/ INTRODUZIONE
I Mirabilia sono il frutto di una lunga ricerca che affonda le proprie radici direttamente nel mio vissuto personale. Le caratteristiche principali su cui si fonda questa tesi, provengono dalle passioni che fanno da sfondo alla mia quotidianità, prima tra tutte quella per l’illustrazione. Illustrazione ed interazione sono, infatti, le due parole chiave che fin dall’inizio ho tentato di convogliare in un’unica idea di progetto convincente ed innovativa. Forte di questa volontà, la creazione di un pupazzo è stata la conseguenza logica: desideravo realizzare una sorta di illustrazione tridimensionale la quale, avvalendosi di nuovi canali comunicativi che coinvolgessero l’interazione tra bambini, mirasse a soddisfare determinate necessità. Non mi interessava, però, progettare un nuovo giocattolo che assolvesse soltanto a scopi ludici e didattici e ho, quindi, iniziato ad indagare le opportunità sottese all’ambito medicale. Esaminando cause e, soprattutto, conseguenze delle principali patologie infantili, ho iniziato a vagliare le possibilità che ognuna di esse offriva, trovando il terreno più fertile nelle malattie terminali o croniche che interessavano la degenza dei bambini. Il passo successivo è stato l’analisi dei lavori esistenti inerenti all’argomento
che avevo deciso di affrontare e, considerati pro e contro di ciascuno di essi, ho formulato gradualmente la mia idea. Tutti i progetti di interaction design che ho esaminato, si rivolgono a bambini degenti coinvolgendoli essenzialmente attraverso l’uso di software a schermo; i pochi pupazzi e oggetti fisici trovati, invece, rispondono a criteri prettamente ludici, fruibili quindi anche da soggetti sani, oppure si occupano esclusivamente del rapporto che gli utenti mantengono con i soggetti esterni all’ospedale, come compagni di scuola, famiglia, insegnanti ecc.. Quest’ultima analisi, mi ha condotto a compiere il ragionamento su cui ruota l’intera idea della tesi: i progetti analizzati prendono già ampiamente in considerazione le relazioni che i bambini ospedalizzati stabiliscono con l’esterno, ma cosa succede tra essi e gli altri utenti interni all’ospedale (medici, psicologi, infermieri, ecc.)? Nascono così Odo, Lucio e Tello, strambe creature dall’aspetto animale che tentano di fornire, secondo modalità differenti, un aiuto tangibile rispetto ai difficili stati psicologici che i bambini ospedalizzati sono costretti ad affrontare. I tre pupazzi interattivi sono volti a favorire le relazioni interne all’ospedale che i bambini degenti instaurano con i coetanei e il personale
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ospedaliero secondo interazioni, contesti e stati emotivi differenti. Colpevolezza, solitudine e timidezza, sono gli atteggiamenti emotivi da cui ho ricavato maggiori spunti di riflessione e che ho deciso di approfondire, essendo le cause più diffuse che costituiscono il malessere psicofisico dei bambini ospedalizzati. Così, Odo diventa un custode di ansie e pensieri che aiuta i bambini ad esternare le proprie frustrazioni; Lucio si fa portavoce dell’aiuto reciproco e della profonda comprensione che intercorre tra due bambini nelle stesse condizioni di degenza; infine Tello, allieta le estenuanti attese per le terapie giornaliere consentendo ai bambini di cooperare al fine di inventare una storia generata da suoni e necessità inespresse. Le interazioni generate dai pupazzi sono di tipo non verbale ed anticonvenzionale al fine di ricreare atmosfere intime e contesti di utilizzo avvolgenti e particolari. Questa condizione, non ha però compromesso l’immediatezza e la spontaneità con cui i bambini vengono inconsapevolmente indirizzati verso il corretto approccio ai pupazzi. Infatti, l’utilizzo di stoffe colorate e vivaci e il cambio di trama in concomitanza delle aree interattive sono i fattori dominanti che rendono I Mirabilia
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accattivanti dal punto di vista visivo ma, al contempo, diretti e semplici da utilizzare. Le sfide più insidiose che si sono presentate durante la fase di ideazione del progetto, sono state quelle riguardanti la scelta dei contesti d’uso, il range d’età a cui intendevo rivolgermi e i derivanti comportamenti: quali bambini potevano possedere i requisiti necessari per fruire al meglio i miei pupazzi? Un bambino di 6 anni era in grado di comprendere a fondo il meccanismo di interazione sotteso ad Odo? Un ragazzino di 12 anni poteva trarre beneficio dal raccontare una storia assieme ad altri coetanei? Tali quesiti mi hanno aiutato a plasmare in maniera progressiva il progetto, portandomi a rivedere di volta in volta ogni aspetto preso in considerazione. Lo studio delle fasce d’età svolto da Jean Piaget, per esempio, mi ha fornito le risposte necessarie alla definizione del target, mentre la visita presso l’Ospedale Pediatrico Meyer di Firenze mi ha offerto informazioni preziose riguardo la routine quotidiana dei bambini e delle loro famiglie, facendomi entrare in contatto diretto con la realtà che avevo deciso di indagare. L’obiettivo principale che ho tentato di mantenere costante attraverso le varie fasi di ricerca è stato quello di
/ Introduzione
realizzare un pupazzo che non fosse un semplice giocattolo alla portata di tutti, ma uno strumento che, attraverso modalità ludiche, trovasse piena realizzazione soltanto nel contesto preso in considerazione. I Mirabilia nascevano dall’analisi delle caratteristiche peculiari costituenti la vita dei bambini affetti da patologie terminali e per questo motivo dovevano essere studiati in modo tale da assolvere alle loro funzioni soltanto se inseriti in quella specifica quotidianità. Oggi, le incredibili tecnologie di cui disponiamo e i continui progressi fatti dalla scienza in ambito medicale, garantiscono a sempre più bambini ospedalizzati un futuro su cui contare. I molteplici progetti realizzati finora in tale ambito presentano caratteristiche di innovazione e utilizzano sofisticate tecnologie all’avanguardia per ridurre ai minimi termini il senso di disagio ed estraniamento di cui i bambini sottoposti a lunghi ricoveri spesso soffrono. Era importante affinchè il progetto andasse a buon fine, offrire ai soggetti utenti uno strumento che colmasse necessità ancora non considerate a sufficienza, garantendo loro una soluzione tangibile ed efficace. La tesi che vado qui ad esporre propone un primo capitolo su cui verte la fase iniziale di ricerca, i progetti
di riferimento presi in esame e la metodologia seguita nell’affrontare l’assemblaggio progressivo di idee e concetti. Il secondo capitolo descrive il fulcro del progetto, l’iter realizzativo che dalla prima sessione di brainstorming alla cucitura dei modelli preliminari ha condotto alla concretizzazione del progetto finale. Il terzo capitolo esplora nel dettaglio le peculiarità di ogni pupazzo, esaminando approfonditamente interazioni, contesti di utilizzo, fascia d’età di destinazione, prototipazione e costi di realizzazione affrontati al fine di fornire una panoramica completa e convincente. Le conclusioni presentano le mie personali riflessioni sulle conoscenze apprese, su ciò che è stato finalizzato nel modo opportuno e ciò che, invece, non è andato a buon fine ed è indubbiamente migliorabile.Tali ragionamenti hanno contribuito alla formulazione delle ipotesi riguardanti i futuri sviluppi del progetto e la sue effettive potenzialità. Infine, in appendice sono riproposte le interviste rivolte al personale ospedaliero del Meyer di Firenze1, lo schema dei circuiti realizzati interni ai pupazzi e i flowchart delle interazioni 2 . .
(1) Appendice A e B (2) Appendice C
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/ PATCHWORK CONCETTUALE
1.1 / C’ERA UNA VOLTA... 1.2 / GLI OBIETTIVI MEDICALI 1.3 / STORYTELLING COME TERAPIA? 1.4 / ABRACADABRA
1 / PATCHWORK CONCETTUALE
1.1 / C’ERA UNA VOLTA... I Mirabilia sono una famiglia costituita da tre pupazzi interattivi volti a fornire, attraverso comportamenti e modalità particolari differenti tra loro, un aiuto tangibile a bambini degenti aventi diversi tipi di difficoltà. Quest’idea di progetto nasce dalla mia passione per l’illustrazione e per quelle immagini che attraverso un uso intelligente ed appropriato di forme, colori e riferimenti semantici aiutano i bambini ad apprendere divertendosi sin dalle prime fasi della crescita. Ciò che mi è sempre interessato, è il modo con cui la mente dei bambini, se opportunamente stimolata, è in grado di produrre scenari e fantasie dalla straordinaria assurdità e, spesso, inaccessibili al mondo degli adulti. Avendo già questo primo brief ben nitido nella mia mente, ho tentato successivamente di capire come le mie illustrazioni potessero integrarsi al mondo del physical computing1 per generare un progetto divertente e accattivante ma, al contempo, socialmente utile ed efficace. Come potevo dar forma a un’illustrazione che avrebbe dovuto in qualche modo essere di aiuto ai bambini? Innanzitutto, ho cercato di individuare che tipo
(1) Si definisce physical computing, la realizzazione di sistemi fisici interattivi mediante l’uso di software e hardware che possono rivelare e rispondere al mondo analogico. en.wikipedia.org/wiki/Physical_computing (2) Con il termine haptics, si indica il processo di riconoscimento di un oggetto
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di sostegno intendevo offrire con il mio progetto. L’aspetto ludico-educativo non era sufficiente vista la miriade di giocattoli più o meno interattivi che già esistono in tal senso; quindi ho cambiato punto di vista scandagliando le varie possibilità non partendo dal come ma dal chi. Chi erano i bambini che avrebbero potuto trarre beneficio dal mio progetto? Sicuramente la risposta potevo trovarla nel settore medicale, al quale negli ultimi anni sono stati dedicati progetti di interaction design di indubbio valore che citerò nel corso di questo capitolo. Ecco che I Mirabilia iniziano ad acquisire un aspetto più concreto. Le parole chiave che sin dalle prime fasi di ricerca sapevo avrebbero caratterizzato il mio lavoro erano: insegnamento, disabilità, haptics2 , divertimento e comunicazione non verbale. Avendo ben presente questi concetti ho potuto focalizzare in brevissimo tempo la mia attenzione sui punti precisi che avevo scelto di approfondire, analizzando e traendo spunti dai vari progetti già esistenti che corrispondevano al mio ambito di ricerca. Essi mi hanno aiutato a definire ulteriormente i confini della mia idea consentendomi di non divagare e di orientarmi nella giusta direzione sin dal principio.
attraverso il senso del tatto. en.wikipedia.org/wiki/Haptic_perception
1 / Patchwork concettuale
a sinistra / SNIFF, composizione di una melodia attraverso gli RFID
“Interaction design for children is a discipline that also has to take account of the specific needs of children across different ages and in varying contexts.” Read J.C., A Manifesto for Interaction Design and Children
Da un buffo elefante che misura la temperatura corporea 3 ad un cane dall’enorme naso che fiuta le emozioni4, il range delle proposte di interaction design che ho trovato aventi come obiettivo quello di fornire in ambito medicale un giocattolo divertente e d’aiuto era maggiore di quanto mi aspettassi. Di seguito gli esempi più significativi e stimolanti dai quali ho tratto ispirazioni e concetti utili. 1.2 / GLI OBIETTIVI MEDICALI La prima fase di ricerca è stata effettuata al fine di individuare il range dei possibili ambiti psicologicomedicali più interessanti in cui era coinvolto il target di riferimento che intendevo esplorare, ovvero bambini in un’età compresa tra i 6 e i 12 anni. Non avendo però ancora le idee perfettamente chiare riguardo al tipo di disagio che avrei voluto trattare, mi sono lasciata liberamente ispirare da ciò che l’etere del web aveva da offrirmi. All’inizio, non mi sono imposta rigidi limiti di ricerca poichè mi interessava capire in generale come l’interaction design si fosse orientato negli ultimi anni per rispondere alle esigenze dei più piccoli.
(3) Goldberg I., Momi, 2009. iragoldberg.com/iragoldberg/toys2.html (4) Johansson S., Sniff, 2009. www.nearfield.org/sniff (5) IDC Interaction Design and Children, è una serie di conferenze internazionali in cui, ogni anno, vengono trattati temi inerenti ai recenti sviluppi dell’interaction
La prima tappa fondamentale che ha stimolato la mia curiosità e mi ha aiutato a definire maggiormente il mio campo di ricerca è stata la scoperta di una serie di conferenze annuali intitolate Interaction Design and Children5. Ogni anno (per il 2010 la sede prescelta è stata Barcellona e il tema principale Full-body Interaction for Children. To enhance the physical, mental and social wellbeing of children) designers, sviluppatori, psicologi e tutti quegli enti che operano a stretto contatto con i bambini si ritrovano per discutere le potenzialità e gli sviluppi offerti dall’interaction design nell’ambito di servizi e dispositivi progettati appositamente per l’infanzia. Lo scopo di tali conferenze però, non è quello di proporre semplici giocattoli e sistemi interattivi ma di rivolgere questi ultimi a bambini con particolari disagi fisici o sociali al fine di fornire loro un supporto concreto. Ho potuto constatare come alcuni progetti recenti si interessino a problematiche quali l’autismo, la disabilità motoria e l’integrazione sociale proponendo soluzioni o, per lo meno, miglioramenti per la vita quotidiana dei soggetti coinvolti. In particolare, molte delle proposte analizzate si rivolgono a quei bambini che, a causa del loro disturbo o
design nell’ambito di patologie e disturbi infantili . iua.upf.edu/idc2010/
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a destra / SINDROME DELL’X FRAGILE è una delle principali cause di ritardo mentale e autismo, ed è causata dalla mutazione del gene FMR1 sul cromosoma X nella pagina a fianco / ROLLING PINS, fasi della terapia tra paziente e tutore
per effetti collaterali dello stesso, tendono ad isolarsi dal proprio contesto sociale faticando a relazionarsi con i coetanei o, come nel caso dell’autismo, con qualsiasi altra persona. Proprio la ricerca mirata ai soggetti autistici è stato il punto di partenza determinante per lo sviluppo concettuale e formale del mio lavoro di tesi. Il primo progetto che ha catturato la mia attenzione spronandomi ad approfondire questo tema è stato Rolling Pins in autism6, ad opera del Dipartimento delle Scienze della Comunicazione dell’Università di Siena. Esso sfrutta la tecnologia dei rolling pin, ovvero tubi di plastica semitrasparenti in grado di comunicare reciprocamente attraverso la misurazione della loro velocità di movimento ed orientazione nello spazio, per il miglioramento delle capacità relazionali dei bambini autistici. Una volta captati questi dati, essi vengono tradotti dai rolling pin in feedback7 di vario tipo: visivo (codice colore), tattile (vibrazione) ed uditivo (suono). Questa tecnologia si rivela molto utile in fase terapeutica fungendo da canale comunicativo tra il paziente e il medico ed agevolando entrambi nell’instaurazione di un rapporto di fiducia attraverso la mutua cooperazione. L’interazione con l’oggetto è spontanea ed immediata poichè è sufficiente manipolare
il proprio rolling pin per scatenare una reazione istantanea nel corrispettivo dispositivo associato. Solo giocando insieme ed interagendo con il proprio rolling pin, i due soggetti coinvolti hanno l’opportunità di esplorare i diversi feedback offerti dal dispositivo; il bambino viene opportunamente stimolato e può apprendere le fondamentali interazioni sociali, mentre il terapeuta è in grado di analizzare il proprio paziente da un punto di vista più ravvicinato e consapevole. Ora, ciò che gli autori del progetto assieme ai diversi collaboratori esterni auspicano, è la possibilità di relazionare diversi rolling pin tra loro in modo tale da offrire un più vasto range di interazioni ad un maggior numero di utenti contemporaneamente. Credo che questo progetto sia un’ottima dimostrazione di come l’interaction design possa essere impiegato per la risoluzione o, se non altro, l’agevolazione di gravi disturbi attraverso l’utilizzo di strumenti mirati ed interazioni pensate. Effettuando una ricerca più approfondita sull’autismo, mi sono resa conto che ancora oggi esso non trova pareri univoci su cause ed effetti che lo contraddistinguono. Esiste, infatti, una quantità smisurata di varianti di sintomi che rende quasi impossibile la prescrizione di una terapia
(6) Marti P., Giusti L., Pollini A., Rolling Pins in autism, 2007. www.discom. unisi.it/ida/projects/ongoing/rolling-pins-autism (7) Dicesi feedback l’associazione che si crea tra un soggetto A che emette uno stimolo verso un soggetto B, il quale a sua volta risponderà a questo stimolo verso
A. en.wikipedia.org/wiki/Feedback#In_social_sciences
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1 / Patchwork concettuale
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in alto a sinistra / CALEN3DAR, aspetto finale del progetto al centro / CALEN3DAR, panoramica della struttura in basso a sinistra / KEEPON, international Robot Exhibition di Tokyo, 2010
universale che possa essere applicata a tutti pazienti. Le sfaccettature riguardanti la gravità del disturbo sono pressochè infinite e diversificate, tuttavia è stato possibile catalogare una serie di fattori comportamentali e medici comuni alla maggioranza dei soggetti coinvolti. Innanzitutto, l’incidenza8 dell’autismo è circa di 10 individui su 10000, di cui il 70% di sesso maschile; la possibilità di esserne affetti è di 50–100 volte superiore per quelle persone con fratelli o sorelle autistici, o comunque aventi disturbi cognitivo-linguistici. L’autismo si manifesta in modo esplicito a partire dai due anni ed assume un diverso grado evolutivo a seconda del soggetto, il quale, pur potendo sviluppare attitudini più o meno spiccate non potrà mai essere completamente autonomo. I tre ambiti principali che vengono intaccati irrimediabilmente da questo disturbo e sulla cui classificazione si basano le diverse tipologie di autismo sono: la relazione sociale con le altre persone, la quale vede una compromissione del coinvolgimento sociale ed emotivo e l’assenza quasi totale di rapporti con i coetanei; la comunicazione, che non consente l’articolazione di conversazioni a causa di un ritardo abbastanza evidente nell’uso del linguaggio parlato e prevede la ripetitività di gesti ed espressioni verbali; infine, il comportamento, caratterizzato dalla dedizione assoluta per poche e semplici attività, dall’interesse eccessivo per oggetti o parti di essi e dalla sottomissione ad azione di routine che il soggetto sente la necessità di svolgere quotidianianamente con un certo rigore. Inerente a quest’ultimo aspetto, è il progetto realizzato da un gruppo di studenti del Copenhagen Institute of Interaction Design, intitolato Calen3dar 9. Esso consiste in una serie di cubi modulari personalizzabili pensati per agevolare le attività quotidiane del soggetto autistico. Il genitore, infatti, può aiutare il proprio bambino nella sua routine giornaliera suddividendola attraverso tali cubi e contrassegnando ognuno di essi con disegni, registrazioni audio, appunti, immagini e suoni sempre diversi che scandiscano i tempi e le azioni da eseguire.
(8) Dati medici sull’autismo raccolti da www.nonsolofitness.it/psicologia/ autismo/autismo.html (9) Kjærgård S., Nygaard Christoffersen N., Son H., Calen3dar, 2009. dkds.ciid.dk/py/tangible-user-interface/projects/calen3dar/
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(10) Studio Beatbots, Keepon, 2007. www.designboom.com/weblog/cat/20/ view/8308/keepon.html (11) Il termine affordance è quell’insieme di azioni che un oggetto invita a compiere su di esso. it.wikipedia.org/wiki/Affordance
1 / Patchwork concettuale
in basso / KEEPON, international Robot Exhibition di Tokyo, 2010
Questo processo rende il bambino tranquillo e gli offre una certa stabilità consentendogli al tempo stesso di apprendere e sviluppare alcune basilari interazioni sociali. La ripetizione delle attività attraverso un lavoro educativo costante diventa un nuovo mezzo a disposizione dei genitori per monitorare i progressi dei figli e consentir loro di migliorare le proprie attitudini. In tal senso, penso che questo progetto si riveli uno strumento utile e stimolante nell’acquisizione di quel livello di autosufficienza minimo che i soggetti autistici necessitano per relazionarsi agli altri all’interno della società. Sono convinta che Calen3dar affronti il problema comportamentale di questo disturbo in maniera molto efficiente e pratica, non solo rispondendo ai bisogni dei bambini autistici che fruiscono del beneficio finale ma anche, e soprattutto, facilitando i genitori e gli altri individui strettamente coinvolti nella realizzazione del processo che porta a tale risultato. La caratteristica che trovo meno interessante di questo progetto risiede nell’aspetto ludico e formale. Probabilmente l’utilizzo di moduli caratterizzati da colori diversi corrispondenti ad un determinato giorno permetterebbe al bambino di identificare in modo immediato le attività di quella data;
oppure l’impiego di materiali soffici come, stoffe o gomme permetterebbe di far giocare il soggetto in modo sicuro e di fargli esplorare autonomamente, secondo i propri ritmi e criteri, le attività prestabilite dal genitore. Penso che se il valore prettamente funzionale che contraddistingue Calen3dar fosse stato integrato ad un oggetto o ad uno strumento che ne accentuasse maggiormente le qualità, forse l’utilizzo e lo scopo finale del progetto sarebbero risultati più stimolanti e coinvolgenti e l’efficacia derivante sarebbe stata amplificata. Un altro progetto che si rivolge alla sfera dell’autismo è Keepon10, un pupazzo robot progettato dallo studio americano Beatbots, che si prefigge di insegnare ed agevolare le interazioni sociali dei bambini colpiti da autismo. Keepon è un robot di piccole dimensioni, soffice al tatto e con una buffa espressione, dotato di due telecamere in corrispondenza degli occhi e di un microfono nel naso. Il suo scopo è quello di registrare, tramite audio e video, gli approcci e i diversi modi con cui i soggetti autistici interagiscono con lui in modo da fornire uno strumento di studio ed analisi per genitori, terapisti e pediatri. Indubbiamente l’affordance11 di questo robot ne incoraggia l’utilizzo, visto il suo aspetto divertente, e lo rende un
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mezzo poco invasivo nell’osservazione dei comportamenti del bambino permettendo agli altri utenti coinvolti di monitorarne i progressi da un punto di vista meno opprimente. La ricerca che avevo svolto fino a quel punto mi ha consentito di riflettere su quale tipologia di disturbi intendevo indagare e sul come procedere nell’analisi delle interazioni che avrei utilizzato. Tutti i progetti riguardanti l’autismo che avevo reperito fino a quel momento e che ho presentato finora, pur rispondendo al medesimo tipo di utenti, rivelavano differenze sostanziali e per certi aspetti si contraddicevano vicendevolmente. Infatti, se è vero che i soggetti autistici tendono ad assumere comportamenti totalmente diversi gli uni dagli altri, come è possibile prevedere se interagiranno nel modo in cui il designer vorrebbe? Come può Keepon prefiggersi di funzionare nella maniera prestabilita se il bambino non interagirà con esso? Come verranno attivati i moduli di Calen3dar da un bambino autistico che non si relazionerà nel modo corretto con le immagini che essi contengono? Tutti quesi interrogativi, una volta analizzata la parte prettamente medico-psicologica dell’autismo, mi hanno fatto capire che sarebbe risultato alquanto difficile
realizzare un singolo pupazzo che rispondesse alle caratteristiche che intendevo attribuirgli e che, allo stesso tempo, tenesse in considerazione tutte le possibili varianti del disturbo. Tratte queste conclusioni, ho spostato momentaneamente la mia attenzione su quei progetti che, pur rientrando nell’ambito medico-sanitario, presentavano le stesse caratteristiche che avrei voluto conferire al mio lavoro ed erano, al contempo, in grado soddisfare a pieno le necessità dell’utenza a cui si riferivano. Uno dei primi progetti in cui sono incappata in rete che rispondeva a questi requisiti è stato Sniff 12 , realizzato da Sara Johansson. Sniff è un cane peluche dotato di un lettore di RFID13 posto nel naso che gli permette di decodificare diversi segnali contenuti all’interno di una serie di oggetti esterni che lo accompagnano. Il pupazzo si basa sul concetto di haptics, ovvero una serie di feedback non verbali progettati in particolar modo per bambini con difficoltà all’apparato visivo, ma comunque utilizzabile come semplice giocattolo da chiunque. Ogni serie di dispositivi esterni risponde con uno specifico output per comunicare stati d’animo e sensazioni differenti: le pietre colorate corrispondono a suoni diversi e, opportunamente rimescolate dal bambino, possono dar vita a melodie
(12) Johansson S., Sniff, 2009. www.nearfield.org/sniff (13) RFID (Radio Frequency IDentification) è una tecnologia per la identificazione automatica di oggetti, animali o persone basata sulla capacità di memorizzare ed accedere a distanza a tali dati usando dispositivi elettronici
(chiamati tag o transponder) che sono in grado di rispondere comunicando le informazioni in essi contenute quando “interrogati”. it.wikipedia.org/wiki/ Radio_Frequency_IDentification
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1 / Patchwork concettuale
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1 / Patchwork concettuale
nelle pagine precedenti / SNIFF, oggetti RFID esterni ed aspetto del pupazzo a sinistra / SNIFF, l’interazione
“The importance of the visual dimension in play often limits the possibilities that visually impaired children have to participate in interactions together with seeing children.” Johansson S., Sniff, 2009
sempre nuove; le etichette rispecchiano vari stati d’animo differenti e una volta fiutate da Sniff gli trasferiranno l’emozione corrispondente. Quindi se l’etichetta riporta la parola “triste” Sniff inizierà a piagnucolare per poi abbaiare allegramente se annuserà l’etichetta “felice”. Infine i badge comportamentali consentono a Sniff di assumere un determinato atteggiamento. Il corredo di oggetti stimola il bambino a giocare con il proprio pupazzo esplorando tutte le sue capacità ma gli consente anche di relazionare il pupazzo e lui stesso ad altri utenti, come familiari e coetanei. In questo modo Sniff permette al bambino di interagire ed apprendere autonomamente o con la collaborazione di altri individui, consentendogli di sviluppare attitudini relazionali e consapevolezza dell’ambiente sociale circostante. Ho trovato questo progetto estremamente intelligente, poichè tende ad integrare in un unico giocattolo una serie di attività educative e divertenti che aiutano il bambino ad acquisire consapevolezza di determinati comportamenti codificati dalla società, i quali lo agevolano nell’interazione con la famiglia e con i coetanei. In questo senso, il peluche diventa una sorta di tramite attraverso cui esplorare il mondo e il contatto con le altre persone. D’altro canto,
ciò che che mi è parso meno interessante è il fatto che il pupazzo fosse egualmente fruibile da bambini con disabilità o meno. Credo che tale caratteristica possa essere giudicata in modo favorevole e sfavorevole allo stesso tempo poichè, se da un lato raggiunge un maggior numero di utenti e permette di imparare divertendosi, dall’altro potrebbe risultare carente dal punto di vista esperienziale sia per i bambini diversamente abili sia per quelli normodotati. Questo perchè i bambini ipovedenti o con altri tipi di disagi visivi potrebbero non essere stimolati a sufficienza, per esempio nel caso degli sticker emozionali, i quali non presentano sensazioni tattili particolari, mentre i bambini privi di disturbi visivi potrebbero necessitare di attività più complesse e ricche dal punto di vista relazionale. Volevo che il mio progetto fornisse un’esperienza di gioco e di apprendimento stimolante ma mirata soltanto ad un circoscritto target e al suo corrispettivo problema. Il mio progetto di tesi non doveva essere un giocattolo per tutti ma avere determinate e ricercate caratteristiche che lo rendessero il più possibile univoco ed adatto a soddisfare le necessità soltanto di un certo tipo di utenza. Giunta a queste considerazioni ho proseguito la
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sotto, a partire dall’alto / SMOKE, HEART, TALK, contesti di utilizzo a destra / SMOKE, HEART, TALK, prototipo finale
mia ricerca orientandomi su quei progetti che tentavano esclusivamente di migliorare le condizioni della vita quotidiana dei bambini, qualsiasi fosse il loro disturbo e a qualsiasi livello di gravità esso si presentasse, scegliendo unicamente questi ultimi come utenti finali. Esplorando la galleria web delle esposizioni annuali del Royal College of Art di Londra, ho avuto riscontri più che positivi e incoraggianti su quanto andavo cercando. Il primo progetto che ho trovato particolarmente affine al mio argomento d’indagine si intitola Smoke, Heart and Talk14. Si tratta di una serie di tre bambole, proprio come risulta dal mio progetto finale, ognuna delle quali affronta con occhio critico ma in maniera molto significativa ed efficace alcune delle principali problematiche che coinvolgono l’infanzia all’interno del mondo adulto. La prima bambola infatti, già dal nome Smoke, preannuncia ciò su cui vuole far leva, ovvero l’incidenza che il fumo passivo dei genitori ha sui bambini all’interno del contesto familiare. Smoke è una bambola dall’aspetto abbastanza sinistro, il cui ritmo respiratorio dipende direttamente dalla quantità di fumo passivo a cui è esposta all’interno dell’ambito domestico. Se eccessivamente soggetta all’inalazione di fumo passivo, il respiro di Smoke inizierà a destabilizzarsi in modo esponenziale fino a cessare definitivamente ed in concomitanza alla comparsa di reali macchie di nicotina. I sintomi della bambola potranno essere curati, ma soltanto dall’ossigeno proveniente da un non fumatore e non dai genitori che ne hanno causato il degrado. Il comportamento estremamente scioccante e realistico di questa bambola, sensibilizza e rende consapevoli i genitori sugli effetti negativi che il fumo delle loro sigarette ha sulla salute dei figli, incitandoli a prendere provvedimenti sui loro comportamenti. Smoke esplicita e dà visibilità ad un grave problema che ogni giorno si consuma per molti bambini senza che i genitori ne siano pienamente al corrente e con un gesto accusatorio incisivo consente una presa di coscienza da
(14) Goddemeyer D., Smoke, Heart and Talk, 2006. www.pixelsumo.com/ post/smoke-heart-talk
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1 / Patchwork concettuale
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“I think originally, the interesting thing about interaction design was the emphasis on designing interactions rather than things.” Dunne A., intervista su We Make Money not Art, Marzo 2007
parte di adulti e bambini, di ciò che comporta il fumo passivo. Credo che questo progetto bilanci prefettamente il problema etico-sociale e l’interazione attraverso cui il dispositivo si fa portavoce di esso. Non credo che questa bambola possa rientrare nella definizione di “giocattolo”, ma ne assume comunque la forma per comunicare un messaggio serio agli adulti come ai più piccoli. Smoke racchiude in sè una valenza prettamente morale e credo faccia parte di quella serie di progetti di critical design15 che, allo stesso modo, suggeriscono con ironia e senza mezzi termini un messaggio diretto che è quotidianamente sotto i nostri occhi ma che, talvolta, tendiamo ad ignorare. Ciò che mi ha colpito di questo progetto è proprio il fare tagliente e sottile con cui un giocattolo, considerato solitamente innocente, diventa l’involucro formale di un’accusa alla società. La seconda bambola che vado qui a descrivere si chiama Heart. Essa viene utilizzata per registrare un battito cardiaco con cui poi si relaziona sincronizzando il proprio; quest’azione funge da diario, in cui ad ogni battito cardiaco può venire associato una nota scritta, così come disegni e foto. In questo modo, è possibile tenere traccia di emozioni particolarmente incisive che ci sono rimaste
impresse, come, ad esempio, la visita di una persona cara che generalmente provoca in noi una più o meno lieve accelerazione del battito rispetto alla norma. Heart consente, quindi, di catalogare avvenimenti e sensazioni attraverso la modulazione del battito cardiaco che esse scatenano. Cosa si noterà se verranno comparati più battiti cardiaci differenti? Come può un battico cardiaco dare forma ad un’entità così astratta come i ricordi? Penso che il risultato finale che questo progetto si prefigge di raggiungere sia una sorta di sinestesia formale in cui un qualcosa che generalmente non riusciamo a definire, come i ricordi e le emozioni, viene tradotto nell’entità concreta e tangibile di un battito cardiaco. Ciò che mi affascina di questa bambola è l’aspetto emozionale e poetico che la contraddistingue e che consente a chi la utilizza di ripensare al concetto di “emozione” da un nuovo punto di vista. Come in una ricetta di cucina, vorrei che un pizzico di questo ingrediente, che è la magia della semplicità, caratterizzasse anche il mio progetto, permettendo di generare in chi ne fruirà nuove interpretazioni e stimoli. L’ ultima di questa serie di bambole è Talk. Questa, è quella che sento maggiormente vicina al mio progetto
(15) Si definisce critical design, quel frangente del design che si propone di comunicare criticamente un’idea. Reso popolare da Anthony Dunne e Fiona Raby, il critical design utilizza gli artefatti incorporandovi un messaggio critico sull’attuale società dei consumi. en.wikipedia.org/wiki/Critical_design
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1 / Patchwork concettuale
in alto a destra e al centro / TECHNOLOGICAL DREAMS SERIES: no 1, Robots di Anthony Dunne e Fiona Raby. Il progetto guarda ai robot non come macchine ma come soggetti viventi in basso a destra/ EVIDENCE DOLLS, di Anthony Dunne e Fiona Raby. Un progetto che vuol far discutere le giovani donne sull’impatto che ha sulla loro vita la tecnologia genetica
proprio perché prende come riferimento, anche se con diverse sfumature, bambini in condizioni psico-emotive delicate. Talk, infatti, è una bambola che monitora il processo di comunicazione tra genitori e figli all’interno del contesto domestico e ne fornisce i risultati attraverso il cambio della sua statura. Il funzionamento è molto semplice: ogni volta che le orecchie della bambola vengono solleticate, il collo di essa si allunga facendo emergere la testa ed offrendo la possibilità al bambino di registrare qualcosa al suo interno. Per riascoltare l’ultima registrazione non si deve fare altro che toccare la testa di Talk, mentre per quanto riguarda tutte le altre tracce audio contenute nella bambola, è possibile riascoltarle in maniera casuale agitandola. Nel caso in cui Talk noti un’interruzione nella comunicazione tra genitori e figli data dalla prolungata mancanza di nuove registrazioni audio, la testa della bambola emergerà sempre meno e la sua voce calerà progressivamente di tono fino a zittirsi completamente. Secondo il mio parere, la forza di questo progetto risiede proprio nel fatto che l’aspetto critico prende la forma di un giocattolo apparentemente comune il quale, però, mette in gioco situazioni difficili e spiacevoli che caratterizzano
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1 / Patchwork concettuale
in alto a sinistra / POX TEDDY, l’interazione in basso a sinistra / POX TEDDY, stampo del prototipo
“Perché questo processo [la vaccinazione] non è mai stato migliorato, dal momento che può essere fonte di tensione e frustrazione per molti bambini?” Metthey M., intervista a cura di Henriette Vittadini, Digimag 55, Giugno 2010
molte famiglie. Credo che l’obiettivo di questo set di bambole sia proprio quello di stimolare un atteggiamento più consapevole ed impegnato negli adulti riguardo ad alcune problematiche familiari che, nella maggior parte dei casi, vedono la negatività che le caratterizza riversarsi sui più piccoli. Partendo quindi da concetti seri e sgradevoli, Smoke, Heart and Talk, penso possano essere definite ottimi esempi di interaction/critical design che utilizzano il mondo dell’infanzia come espediente per stimolare un ragionamento in persone un pò più cresciute, che dei bambini dovrebbero prendersi cura. Proseguendo nell’analisi dei progetti del Royal College of Art di Londra, ho trovato molto interessante il lavoro dello studente Mikael Metthey intitolato Pox Teddy16. Questo progetto vuole indagare l’ambigua relazione di distruzione e protezione che i virus instaurano con il corpo umano e il come i genitori provvedano per far sì che i propri figli vengano resi immuni a tali virus. Prendendo come riferimento i varicella party che alcuni genitori organizzano, ovvero feste in cui vengono messi in contatto bambini affetti da varicella con bambini sani per fare in modo che si contamino ed immunizzino a vicenda, Pox
Teddy tenta di sintetizzare in un unico prodotto i concetti di “salute” ed “intrattenimento”. Il progetto, infatti, consiste in un orsacchiotto dotato di una capsula che inocula al bambino il virus della varicella nel momento del gioco, in modo tale da immunizzarlo in maniera inconsapevole e divertente ed evitare lo shock della vaccinazione al tempo stesso. Ciò che penso renda questo lavoro estremamente intelligente è il come un comune teddy bear riesca a coniugare gli aspetti medico e ludico per garantire la salute del bambino senza che ciò comporti necessariamente un trauma psicologico. Partendo dal proprio vissuto, il designer è riuscito a ripensare e a riprogettare il metodo antiquato dell’iniezione del vaccino, trasformandolo in un momento di divertimento in cui il bambino viene distratto dal giocattolo. Mikael Metthey segue lo stesso modus operandi anche per la realizzazione del progetto Vaccination Playground17. L’idea, infatti, nasce dalla sua esperienza personale, ovvero il momento della vaccinazione dalla varicella che avveniva alle scuole elementari, la quale gli consente di elaborare un metodo alternativo ed ancor più provocatorio rispetto a quello che caratterizza il progetto precedentemente descritto. In Vaccination Playground, la vaccinazione non
(16) Metthey M., Pox Teddy, 2007. www.mikaelmetthey.net (17) Metthey M., Vaccination Playground, 2007. www.mikaelmetthey.net
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avviene più in modo univoco tra bambino e strumento, ma diventa un momento di svago collettivo che prevede l’interazione tra più bambini all’interno di un’area di gioco comune. Il progetto infatti vede l’agglomerazione di molteplici dispositivi ludici dotati di microaghi alle estremità, appositamente pensati per la trasmissione ipodermica dei vaccini, i quali danno vita ad una sorta di parco divertimenti in cui i bambini giocando assieme vengono vaccinati in modo inconscio attraverso le micropunture prodotte dai giocattoli. Ritengo che entrambi i progetti sopracitati riescano a soddisfare al meglio le esigenze imposte dal sistema sanitario senza, però, tralasciare il punto di vista degli utenti a cui esse sono dirette, ovvero i bambini. Attraverso accorgimenti semplici e minimi, questi due lavori sono in grado di fornire un prodotto divertente ed efficace al tempo stesso. Credo che una delle caratteristica imprescindibili che ogni progetto medicale rivolto ai bambini dovrebbe sempre tenere in considerazione, sia proprio l’attenzione a come essi interagiscono con ciò che gli viene sottoposto. Osservando e carpendo i meccanismi psicologici che stanno alla base di tale interazione, è possibile creare prodotti che integrino perfettamente l’efficacia della terapia all’aspetto ludico, come nei due casi appena descritti. Vista la cospicua quantità di materiale reperito all’interno del sito del Royal College of Art, la mia ricerca è proseguita analizzando i vari progetti interni ai corsi di interaction design delle varie università europee e non. Nella web gallery di una di esse, la Parsons The New School of Design di New York18, ho trovato diversi progetti della studentessa Ira Goldberg che presentavano particolari affinità con il mio argomento di tesi. Il primo di essi che vado a descrivere è Cube Buddy19, un giocattolo interattivo pensato per i bambini degenti in ospedale per lunghi periodi. Cube Buddy consiste in un soffice cubo realizzato in tyvek, materiale lavabile e
(18) www.newschool.edu/parsons (19) Goldberg I., Cube Buddy, 2010. www.cubebuddy.org
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1 / Patchwork concettuale
in alto a sinistra / CUBE BUDDY, output luminoso al centro / SHADOW BUDDIES, alcuni esemplari in basso a sinistra / PARO, fasi della terapia
sterilizzabile, e dotato di caratteristiche antropomorfe, il quale permette la comunicazione e il gioco cooperativo tra più pazienti. Infatti, ciò di cui i bambini che risiedono stabilmente in ospedale risentono maggiormente è l’isolamento e la solitudine che il più delle volte la loro malattia li costringe ad affrontare. Cube Buddy tenta di sopperire alla mancanza di contatto fisico e visivo che questi bambini si trovano a sopportare ogni giorno, offrendo una piattaforma di gioco che, attraverso LED colorati e output sonori, connette due giocatori residenti in luoghi separati all’interno della stessa struttura. Il giocattolo può essere impostato secondo modalità differenti al fine di consentire più possibilità di interazione, dallo scambio di feedback tra due bambini all’intrattenimento individuale. In questo modo vengono a crearsi momenti di gioco collettivo che distraggono i pazienti e creano reti di connessioni sociali e solidali che facilitano la permanenza all’interno dell’ospedale rendendola meno frustrante. Per la realizzazione di questo lavoro, Goldberg ha fatto riferimento ad altri progetti interessanti rientranti nell’ambito medico-sanitario, i quali vengono
comunemente impiegati da dottori e pediatri nelle diverse fasi di terapia. Tra questi, mi preme citare Teddy Bear, un comune orsetto impiegato nella clinica pediatrica di Montefiore a New York 20, di cui il bambino può monitorare i sintomi guardando alla propria malattia dal punto di vista inverso al suo, ovvero quello del medico. Altro lavoro interessante è Shadow Buddy21, una bambola che presenta le stesse caratteristiche mediche del paziente, la quale attraverso circuiti interni differenti più o meno complicati può essere personalizzata a piacimento in modo tale da rendere il bambino più consapevole del proprio stato. Egli può praticare sulla bambola le stesse procedure mediche a cui è stato soggetto al fine di capire meglio come gestire le proprie reazioni ed adottare, di conseguenza, il comportamento più adeguato con il quale rapportarsi alla malattia e agli altri. Questo progetto è un ottimo esempio di come il paziente possa riversare i propri disagi sul giocattolo scaricando lo stress accumulato causato dalle cure e sfruttandone i benefici derivanti. Il successivo progetto che vado a descrivere è Momi 22 . Momi è un peluche che interagisce con il bambino nel momento della misurazione della febbre; è realizzato dalla
“I used to cry all the time. Now, when I get an IV, I don’t cry.” Ruis M., 20 anni, user tester per Teddy Bear
(20) Clinica pediatrica di Montefiore, Teddy Bear, New York 2009. www.montekids.org (21) The Shadow Buddies Foundation, Shadow Buddy, 2008. www.shadowbuddies.org
(22) Goldberg I., Momi, 2009. iragoldberg.com/iragoldberg/toys2.html
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a destra / CUBE BUDDY, prototipo
stessa Goldberg, alla quale penso che questo progetto sia stato indubbiamente utile per affinare i ragionamenti che l’hanno portata a ideare Cube Buddy. Infatti, Momi consiste in un pupazzo con braccia mobili che, una volta collegato al termometro, riproduce simultaneamente al bambino l’azione del portarsi il termometro alla bocca e attraverso una luce più o meno rossa, manifesta lo stato febbrile del bambino aiutandolo a comprendere il proprio malessere in modo divertente. Ultimo progetto interessante per capire ciò che si cela dietro la ricerca di Goldberg è Paro23, un cucciolo di foca robot dotato di sofisticati sensori che permettono il riconoscimento di una serie di parametri del paziente come, la direzione della voce, il tatto e i suoni, i quali gli consentono di interagire con esso. Paro, è in grado di adottare comportamenti realistici e reazioni spontanee, per esempio può tenere traccia delle ultime azioni svolte dal bambino e ripeterle, diventando per il degente una sorta di amico con cui relazionarsi stimolandone i progressi giornalieri e compensandone la carenza di compagnia. L’idea che mi sembra interessante in questo progetto è il come, attraverso le semplici azioni di un pupazzo, il paziente vi riconosca una sorta di amico e si
senta immediatamente sollevato, dimenticandosi anche solo per un attimo della propria situazione. Tutti i progetti appena descritti presentano caratteristiche e comportamenti molto diversi tra loro ma condividono l’obiettivo comune di offrire un supporto sociale e mentale ai piccoli pazienti ricoverati in ospedale ed investigano sulle possibili interazioni atte a migliorarne le condizioni. Sono convinta che Cube Buddy si riveli un ottimo esempio di come l’interaction design sia in grado di raccogliere le difficili sfide che il vivere quotidiano ci presenta, come quelle dei ricoveri terminali appunto, proponendo prodotti dal concept innovativo e semplice allo stesso tempo. Questo progetto ha saputo cogliere l’essenza del malessere che si cela dietro ad una determinata tipologia di pazienti, trasformandola in un’opportunità da esplorare. L’unica critica che tenderei a muovere verso Cube Buddy, riguarda principalmente l’output visivo, ovvero il gioco di luci che tenta di mettere in comunicazione due persone. Dal momento in cui il progetto si dichiara “giocattolo”, penso innanzitutto che debba essere un dispositivo che intrattiene, diverte e stimola, al punto tale da indurre il bambino ad utilizzarlo e ad interagire con esso. Quindi, probabilmente, la scelta di una comunicazione
(23) AIST, Paro, 2010. www.parorobots.com
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1 / Patchwork concettuale
nella pagina seguente / SLEEP BUDDY, output visivo, interazione e aspetto del pupazzo
che si limita ad offrire come feedback visivo un range di luci colorate, benchè ognuna con il proprio significato, potrebbe non essere sufficientemente coinvolgente per attivare quel livello di connessione remota che Cube Buddy vuole instaurare tra i due pazienti. Forse, una maggiore caratterizzazione del pupazzo, dal punto di vista della riconoscibilità, avrebbe reso l’aspetto formale più accattivante conpensando il fattore output. Oppure, l’utilizzo di un’interazione più diretta ed intuitiva strettamente legata alla morfolgia del pupazzo, come una carezza sul viso o una stretta di mano, avrebbe apportato più calore ed incisività al legame tra i due utenti coinvolti, riproducendo comportamenti codificati a livello umano attraverso il pupazzo. Ad ogni modo, ciò che i vari progetti che avevo analizzato fino ad allora mi consentivano di affermare, era che l’aspetto fondamentale ed imprescindibile nel trattare con i bambini all’interno di contesti infelici come l’ospedale, i maltrattamenti casalinghi, gli abusi e i disturbi fisico-mentali, risiedeva nella capacità di offrire loro uno strumento di evasione da queste terribili situazioni, attraverso cui relazionarsi con sé stessi e con il mondo. Progetti come Shadow Buddy e Keepon permettono
di capire come il bambino possa avere la necessità di apprendere ciò che lo riguarda in modo indipendente, da un punto di vista privato ed introspettivo; mentre Talk e Sniff, per esempio, mostrano come sia altrettanto utile che il bambino esplori e si rapporti al contesto che lo circonda attraverso l’interazione sociale con la famiglia e con i coetanei e la comparazione delle proprie attitudini con quelle degli altri. Per comprendere in maniera più chiara la distinzione tra queste due tipologie di approccio al gioco, descriverò ora due progetti esemplificativi di questa mia riflessione che ho reperito nel web, ovvero Sleep Buddy24 ed Interactive Dolls25. Sleep Buddy è un pupazzo-sveglia che permette ai bambini con disfunzioni uditive di incrementare la propria sensazione di indipendenza svegliandosi da soli al mattino, senza l’ausilio dei genitori. Questo avviene grazie ad un sistema di circuiti realizzati con l’Arduino board 26, i quali consentono al pupazzo cane di emettere una vibrazione all’ora desiderata. Il bambino non dovrà far altro che impostare l’ora di allarme attraverso i comandi posti sotto l’orecchio di Sleep Buddy e addormentarsi tranquillamente. Nel momento in cui la vibrazione viene attuata, il bambino potrà facilmente disattivarla stringendo
(24) Ross I., Sleep Buddy, 2010. www.izacross.com (25) Okada N., Park S., Interactive Dolls, 2010. okada.imrf.or.jp/InteractiveDoll (26) Arduino è una piattaforma hardware per il physical computing sviluppata all’Interaction Design Institute Ivrea, un istituto fondato dalla Olivetti e da
Telecom Italia. Arduino è basata su una semplicissima scheda di I/O e su un ambiente di sviluppo che usa una libreria Wiring per semplificare la scrittura di programmi in C e C++ da far girare sulla scheda. it.wikipedia.org/wiki/Arduino_ (hardware)
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nella pagina a fianco / INTERACTIVE DOLLS, schema di funzionamento
il pupazzo in un abbraccio, azione che consentirà all’allarme di essere ritardato di qualche minuto per una soglia massima di quattro volte. Terminato questo tempo Sleep Buddy cesserà di vibrare ed una volta svegliato, il bambino potrà disattivare manualmente l’allarme. Attraverso questa semplice attività quotidiana, il progetto in questione permette ai bambini di acquisire maggiore consapevolezza dei propri ritmi giornalieri ed assumere gradualmente quel livello di indipendenza necessario a farli sentire sicuri di sé stessi. Sleep Buddy rappresenta in parte quella volontà manifestata dai bambini di apprendere autonomamente determinati comportamenti sociali tramite l’autoanalisi inconscia dei propri, come esposto nella riflessione precedente. Personalmente ritengo che questo progetto, attraverso l’innesco di una semplice ed intuitiva presa di coscienza, contribuisca allo sviluppo delle basilari routine che consentono al bambino disabile di rafforzare la propria autostima e di sentirsi meno dipendente dai propri cari. Infatti, benchè i genitori giochino un ruolo fondamentale nell’acquisizione dell’indipendenza dei propri figli, sono convinta che questo tipo di progetti possa incentivare ed accelerare il processo e la comprensione di questo fatto non solo nei bambini ma nei genitori stessi. Il secondo lavoro che vado qui ad esporre, Interactive Dolls, si prefigge l’obiettivo opposto a quello appena descritto, ovvero quello di fornire gli strumenti necessari ai bambini per interagire tra di loro al fine di apprendere i principali comportamenti sociali ed incrementare le proprie abilità linguistiche attraverso la condivisione dell’esperienza di gioco. Interactive Dolls consiste in una coppia di bambole, distinte nel genere maschile e femminile, in grado di interagire tra di loro tramite il modo in cui i bambini le manipolano. Queste bambole possono svolgere reciprocamente una serie di azioni molto intuitive poiché basate sui reali comportamenti umani, tra le quali stringersi la mano, ridere, farsi il solletico, accarezzarsi, ecc.. Essendo tali
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1 / Patchwork concettuale
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a destra / INTERACTIVE DOLLS, aspetto delle due bambole nella pagina a fianco / INTERACTIVE DOLLS, frame del video scenario che presenta le interazioni possibili
gesti codificati dalle relazioni sociali che intratteniamo quotidianamente con il prossimo, le bambole non necessitano nessun libretto di istruzioni: i bambini che le utilizzano possono divertirsi istantaneamente e vagliare il range completo dei comportamenti che le bambole sono in grado di adottare, semplicemente giocando e divertendosi con loro. Il carattere e l’umore dei due giocattoli, inoltre, non solo cambia a seconda del genere (il pupazzo maschio e quello femmina sono programmati per interpretare le stesse reazioni ma in maniera sostanzialmente diversa a seconda del genere che li caratterizza) ma varia al variare delle azioni che i bambini gli fanno svolgere, riflettendo in maniera diretta i comuni comportamenti antropomorfi e consolidando, quindi, tali gesti sociali nella mente del bambino. Per esempio, se il bambino colpirà il pupazzo sulla testa, quest’ultimo emetterà un suono che lo farà apparire triste e dolorante; viceversa, se i due pupazzi si coccolano a vicenda, l’umore di entrambi apparirà decisamente sereno e gioioso. Per rafforzare ancor di più il significato corrispondente alle reazioni che le bambole assumono, una serie di parole onomatopeiche cinetiche, direttamente correlate al valore
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di tali reazioni, compare su uno schermo simultaneamente all’interazione dei due giocattoli. Quest’ultimo ausilio visivo, in particolare, può rivelarsi utile anche nel caso di bambini con disabilità uditive, i quali potranno comunque interagire fisicamente con le bambole senza necessariamente perdere l’aspetto educativo del gioco. L’insieme di tutti questi fattori consente ai bambini di migliorare e comprendere le differenti interazioni sociali che caratterizzano la nostra vita quotidiana, acquisirle ed analizzarle divertendosi; ma ciò che più rende questo progetto interessante, a mio avviso, è il valore fisico che tali bambole trasmettono: in una società come quella attuale, in cui i bambini sono ormai abituati a vivere ogni esperienza di gioco attraverso monitor, consolle e piattaforme videogame, l’importanza del contatto fisico che si instaura tra due bambini che giocano con queste bambole è da considerarsi più unica che rara. Secondo il mio parere, la forza di Interactive Dolls risiede proprio nella possibilità che offrono ai bambini di rapportarsi direttamente, faccia a faccia, imparando dalle loro stesse azioni e da quelle dei compagni. I feedback che le bambole comunicano, sono immediati ed avvengono
1 / Patchwork concettuale
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sotto / PLAYPALS, il gioco a distanza e l’aspetto delle bambole
istantaneamente come reazione al gesto subìto. Esiste un modo migliore di imparare se non quello di vedere in tempo reale il risultato delle proprie azioni? Credo proprio che la risposta a questa domanda riassuma in modo esplicito ciò che caratterizza e rende questo progetto efficace. D’altro canto, l’aspetto meno interessante che si cela dietro le Interactive Dolls, credo che sia la possibilità di utilizzarle individualmente. Penso che la ricchezza intrinseca che comporta lo scambio fisico e mentale che avviene tra i due soggetti mentre utilizzano le bambole in coppia, sia inversamente proporzionale all’apprendimento limitato che offre un’interazione individuale. Questo perché, nel momento in cui si scindono i due giocattoli l’efficacia comunicativa propria dell’utilizzo congiunto perde quella freschezza e quell’immediatezza che permette ai bambini di imparare interagendo. Pur non assolvendo nessuna funzione prettamente medica, questo progetto mi sembrava particolarmente interessante riguardo alle interazioni che permette di generare dal punto di vista fisico, e non virtuale, tra due o più bambini. Un progetto analogo in questo senso che, al contario però, enfatizza anche l’aspetto virtuale dell’interazione
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è PlayPals27, ideato da quattro studenti del MIT di Cambridge28 nel 2005. PlayPals consiste in una serie di bambole interattive dotate di componenti elettroniche che consentono a due o più bambini situati in luoghi differenti di divertirsi e stabilire una comunicazione remota. Le bambole permettono ai bambini che le utilizzano (idealmente di un’età compresa tra i 5 e gli 8 anni) di condividere un’esperienza ludica e stimolante basata sulla co-presenza virtuale. Il ragionamento su cui si sviluppa questo lavoro, è la ricerca di una nuova interfaccia fisica appositamente progettata per incentivare la comunicazione tra i bambini, piuttosto che un riadattamento dei dispositivi elettronici già esistenti ma pensati per un pubblico adulto. La varietà di prodotti per la comunicazione presenti sul mercato, dai computer ai blog del web, sono studiati per essere utilizzati dagli adulti, quindi i bambini per accedervi sono generalmente costretti a piegarsi alle regole sottese alla mente adulta e riadattare questi strumenti alle loro esigenze. Ciò che si era fatto in ambito di design fino a PlayPals infatti, era stato apportare modifiche a quei dispositivi già esistenti per estenderne l’utilizzo anche ai più piccoli: telefoni cellulari più intuitivi e con
1 / Patchwork concettuale
funzionalità ridotte, interfacce semplici e colorate e via dicendo. Era necessario provvedere alle necessità dei bambini in maniera più specifica, creando uno strumento mirato esclusivamente al loro target. L’approccio totalmente differente che i designers del MIT hanno adottato per ideare PlayPals, è stato quello di incrementare un oggetto già familiare e noto ad ogni bambino, la bambola, con le potenzialità comunicative dei dispositivi per adulti, come la videochat e la chiamata. Ciò che ne è risultato è un giocattolo interattivo che permette a due bambini di cooperare e giocare a distanza, creando una sorta di alterego fisico che consente di mantenere un reciproco contatto caratterizzato dall’ambivalenza virtuale-reale: se l’utente A muove il braccio della sua bambola, il braccio corrispondente nella bambola dell’utente B ripeterà gli stessi movimenti in maniera sincronizzata. I principi fondamentali su cui si basa PlayPals sono, quindi: un’interfaccia specifica e unica piuttosto che multifunzionale; una metafora familiare e quindi più intuitiva e semplice da capire ed utilizzare; infine, un’interazione a due mani. Associati al set di bambole, sono stati inclusi anche alcuni accessori esterni che ne
incrementano le funzionalità, ad esempio il walkie-talkie. Posto nella mano della bambola, il walkie-talkie permette la trasmissione vocale sincrona attraverso due o più giocattoli, aggiungendo un ulteriore valore comunicativo alla cooperazione ludica in atto. Anche questo progetto, benchè non presenti nessuna valenza medicale, tratta in modo originale ed interessante la relazione che viene a crearsi tra due o più bambini attraverso un pupazzo con cui interagire in maniera non verbale o verbale. Penso che, in questo caso specifico, sia importante sottolineare l’estrema attenzione che viene riposta nella qualità del rapporto socio-emotivo che si crea tra i diversi utenti coinvolti. Qui le potenzialità della tecnologia vengono sfruttate non per realizzare un semplice giocattolo, ma una sorta di amico che riproduce parte delle qualità del compagno reale, colmando, fin dove è possibile, la distanza che separa i due bambini. Personalmente, credo che PlayPals presenti in maniera implicita quella genuinità che caratterizza i rapporti che i bambini intrattengono con i coetanei e aiuti a comprendere meglio il valore del legame che li unisce. L’aspetto che più mi ha colpita di questo progetto e che ho ricavato dall’analisi delle interviste svolte dai designers durante gli
“I would like my doll to let my friend’s doll know when my brother is making me angry.” User tester per PalyPals, 2005
(27) Bonanni L., Lieberman J., Vaucelle C., Zuckerman O., PlayPals, Boston 2005. tangible.media.mit.edu/project.php?recid=127 (28) MIT, Massachusetts Institute of Technology, Cambridge. web.mit.edu
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nella pagina a fianco / THE BOYHOOD OF RALEIGH (particolare), John Everett Millais (1871)
usability test29, è come i bambini che utilizzano PlayPals tendano a proiettare su di esse le loro confidenze proprio come accade tra due veri amici, con la consapevolezza che la bambola non rimarrà impassibile a ciò che le dicono, ma risponderà esattamente secondo il volere dell’amico che si trova all’altro capo della connessione. Quello che ho tentato di fare nell’elaborazione del mio progetto di tesi, è stato proprio coniugare quella sensazione quasi magica che il bambino tende a percepire nel trovarsi di fronte ad un pupazzo “vivo” e il valore curativo che deriva di riflesso dall’interazione tra il pupazzo e il suo proprietario. 1.3 / STORYTELLING COME TERAPIA? Parallelamente a questa metodologia di ricerca, che mirava ad individuare i progetti esistenti simili in termini di argomento trattato, ho iniziato ad analizzare quei lavori del tutto estranei alla sfera medicale ma che, per un motivo o per un altro, presentavano interazioni, forme, mood30 o altri aspetti che potevano interessare il mio progetto di tesi. Qui, mi si è presentata innanzi una miriade di progetti diversissimi tra loro in termini di forma, interazione
(29) La pratica dello usability testing, è una tecnica atta a valutare l’efficacia di un prodotto testandolo sugli utenti finali. en.wikipedia.org/wiki/Usability_testing (30) Si definisce mood uno stato emotivo relativamente prolungato. Il mood differisce dalle semplici emozioni poichè è meno specifico, meno intenso e meno
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ed obiettivi ma con un curiosa caratteristica comune che ha stimolato la mia curiosità, portandomi in una direzione completamente nuova: lo storytelling. Per poter comprendere al meglio i prossimi progetti che andrò ad illustrare in questo capitolo, tenterò di formulare una definizione il più fedele possibile di questo termine. Lo storytelling è una disciplina che si basa sulla retorica e sulla narratologia per raccontare, intrattenere ed educare il pubblico attraverso suoni, immagini e parole. Le prime forme di storytelling si ritrovano nelle più remote culture, da quelle europee a quelle aborigene, che utilizzavano questo mezzo sottoforma di incisioni rupestri per documentare le proprie attività quotidiane e lasciare un segno del loro passaggio ai posteri. Altre forme di storytelling sono quelle usate dai cantastorie in maniera orale attraverso canzoni e gestualità espressive per tramandare leggende, eventi e personaggi le cui gesta contenevano una determinata morale, tale da non poter essere dimenticata. Con l’avvento della scrittura questa pratica non viene abbandonata ma arricchita di nuove forme visive quali, le illustrazioni stampate, i caratteri tipografici e le particolari tecniche di incisione che conferiscono allo storytelling diverse sfumature di significati e permettono
soggetto all’influenza di un particolare stimolo o evento. en.wikipedia.org/wiki/ Mood_(psychology)
1 / Patchwork concettuale
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il tramandarsi del racconto di generazione in generazione in modo più sicuro ed attinente alle versioni precedenti. Oggi questa modalità di narrazione trova spazio in ambiti sostanzialmente differenti, dalla didattica per l’infanzia alla formazione aziendale, dalla psicologia al marketing d’impresa, per rendere l’apprendimento di qualcosa più semplice ed immediato. Infine, l’arrivo dell’era digitale, ha comportato un consolidamento ed un’integrazione di questa disciplina con il mondo del web e di tutti quei mezzi di comunicazione che utilizzano l’etere come canale di trasmissione. Anche l’interaction design, e molte altre forme di design più in generale, si affida allo storytelling per la realizzazione di diverse fasi progettuali come la creazione del concept a partire dal brainstorming31, l’illustrazione degli scenari utili ad analizzare i principali comportamenti degli utenti a cui il progetto sarà destinato e la traduzione di complesse interazioni sociali in disegni e frasi che ne facilitino la comprensione. È proprio in quest’ultimo frangente che la mia ricerca ha avuto modo di focalizzarsi su progetti di interaction design per bambini caratterizzati dall’uso dello storytelling per l’insegnamento di pratiche sociali e linguistiche.
Il primo esempio che vado a descrivere è un lavoro che Astrid Sliwka e Stina Wessman, due studentesse della Oslo School of Architecture and Design (AHO)32 , hanno realizzato durante il corso di Tangible Interaction. Il progetto intitolato Monkey Business33, consiste in un gioco interattivo volto ad insegnare ai bambini i principi del linguaggio attraverso lo storytelling. I due principali elementi interagenti attraverso cui il bambino ha la possibilità di esplorare il gioco sono una parete ricca di elementi visivi riconoscibili dotati di RFID e un pupazzo scimmia che funge da lettore RFID. Trascinando il pupazzo lungo le diverse zone della parete, il bambino avrà la possibilità di ascoltare suoni, parole e storie relazionate alle varie figure (casa, albero, sole, ecc.), le quali lo aiuteranno nello sviluppo delle proprie cognizioni linguistiche e sociali. Una funzionalità addizionale con cui il bambino può cimentarsi, è quella della registrazione vocale di un proprio racconto personale da associare ad una determinata figura, in modo tale da arricchirla di significati e confrontarla man mano che compie progressi. Visionando il video dimostrativo di questo progetto, ho avuto modo di notare come il bambino impiegato per lo user test fosse divertito
(31) Il brainstorming (letteralmente: tempesta cerebrale) è una tecnica di creatività di gruppo per far emergere idee volte alla risoluzione di un problema. it.wikipedia.org/wiki/Brainstorming (32) Oslo School of Architecture and Design (AHO). www.aho.no
(33) Sliwka A., Wessman S., Monkey Business , 2009. vimeo.com/5099019
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1 / Patchwork concettuale
a sinistra / MONKEY BUSINESS, interazione user-pupazzo-parete
“Il raccontare, o meglio l’ascoltare, delle storie rientra in una dimensione naturale del bambino, che è quella dell’ascolto di una narrazione e dell’elaborazione fantastica.” Rota G., www.webalice.it/jack.rota/storytelling.htm
e totalmente coinvolto nella fase di gioco e scoperta dei nuovi termini che andava ad esplorare. Lo storytelling, infatti, gli permetteva di essere costantemente concentrato ed incuriosito e lo spingeva a continuare al fine di conoscere la parte successiva della storia. Penso che quest’ultimo aspetto, sia una delle caratteristica che fanno dello storytelling un prezioso strumento d’indagine per l’approfondimento dei meccanismi di concentrazione e apprendimento che si innescano nella mente dei bambini. Secondo quali criteri un racconto si imprime nella memoria di un bambino? Quali sono gli elementi a cui è indispensabile dare risalto? In che modo lo storytelling incentiva l’apprendimento ed aiuta le interazioni sociali? Queste considerazioni mi hanno portato a sviluppare un altro stadio del mio progetto, ovvero la tentata integrazione, in uno dei miei pupazzi, tra la metodologia dello storytelling e lo scopo terapeutico nella cura di qualche disfunzione psico-fisica. In riferimento a questa prima idea, ho impostato determinati filtri di ricerca che mi aiutassero ad individuare i progetti con le precise caratteristiche che intendevo indagare. Sono emersi, quindi, lavori estremamente interessanti e significativi che si prefiggevano proprio
l’obiettivo di offrire al bambino un’esperienza di gioco ed educativa allo stesso tempo, tramite l’utilizzo dello storytelling come canale basilare di interazione. Il primo progetto di questa serie che vado qui a proporre è Story Tail34, un dispositivo interattivo formato da diversi elementi di peluche, che consente a genitori e figli di cooperare all’interno dell’intimo ambito familiare, al fine di creare assieme un racconto. Partendo dalla scelta di quelli che vengono chiamati gli “ingredienti” della storia, il bambino e il genitore definiscono un contesto in cui ambientare la scena (supermercato, mare o Polo Nord), un personaggio principale (ape o koala) e una linea temporale attraverso cui si svilupperà l’intera vicenda. Già questo primo momento decisionale mette in campo una forte relazione tra i due soggetti coinvolti, portandoli a cocreare il momento precedente al gioco vero e proprio. Una volta chiariti gli elementi che si andranno ad utilizzare, la storia prende forma in tempo reale, man mano che genitore e figlio giocano ed interagiscono con il dispositivo: infatti, spostando il personaggio principale sui vari spot del contesto scelto, questo emetterà dei suoni e delle onomatopee utili ad arricchire il racconto di nuove sfumature e scenari.
(34) Kersteman W., Knoester J., Kooijman L., Magielse R., Mattheijssen F., Story Tail, 2010. vimeo.com/10372325
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a sinistra / MONKEY BUSINESS, particolare dell’interazione al centro / JABBER STAMP, l’apparecchio di registrazione in basso / PLING PLONG, il cuscino
Secondo il mio parere, questo progetto enfatizza ed esplicita l’intimità naturale esistente tra il genitore e il proprio figlio e contribuisce a consolidare questo legame attraverso la condivisione di un’esperienza ludica. L’aspetto educativo e divertente è reso possibile grazie all’uso dello storytelling come mezzo attraverso cui la storia e la cooperazione si snodano, consentendo al genitore di guidare il bambino nell’apprendimento di nuove informazioni. La caratteristica che più mi ha colpito di Story Tail, e che fino ad allora non avevo trovato in maniera così convincente negli altri progetti presi in esame, è il modo con cui una semplice attività di intrattenimento può rafforzare, se organizzata opportunamente, l’interazione tra i due utenti coinvolti e contribuire in maniera sostanziale al benessere di entrambi. Dal punto di vista progettuale, penso che se gli elementi con cui il pupazzo ha la possibilità di interagire fossero stati anch’essi tridimensionali anziché bidimensionali, forse il coinvolgimento che ne sarebbe derivato avrebbe portato a risultati più interessanti. Ritengo che l’obiettivo principale che questo progetto ha cercato di soddisfare, sia l’instaurazione di un rapporto intimo e fisico tra genitori e figli tramite l’uso dello storytelling, in cui il ruolo del dispositivo interattivo assume un valore determinante soltanto nel momento in cui riesce a collocare questi due soggetti all’interno di un’esperienza comune. Proseguendo nell’analisi dei progetti legati al tema dello storytelling, ho reincontrato una designer di cui avevo già sentito il nome, Cati Vaucelle, una delle quattro menti che avevano dato vita a PlayPals. Questa volta, il progetto che mi interessava analizzare era Jabber Stamp35, uno strumento interattivo che permette ai bambini di arricchire i propri disegni con registrazioni di voci, suoni e musiche. Premendo con una penna speciale sul supporto in corrispondenza del disegno desiderato e registrando il suono che preferisce, il bambino è in grado di aggiungere un ulteriore valore significativo alla storia che ha illustrato
(35) Raffle H., Vaucelle C., Wang R., Jabber Stamp, 2007. www.rafelandia. com/jabberstamp/index.html (36) Softing S., Pling Plong, 2008. www.nearfield.org/2009/03/pling-plong
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(37) Con il termine mediaplayer si intende un software per l'esecuzione di file multimediali. La maggior parte dei media player supporta diversi formati, includendo sia file audio e file video. it.wikipedia.org/wiki/Media_player
1 / Patchwork concettuale
sotto/ PLING PLONG, l’interazione
in precedenza. Una volta associato l’audio al disegno, sempre attraverso la stessa penna è possibile riascoltare la traccia e seguire la storia che si ha inventato. Questo progetto si rivela molto stimolante per i bambini, poiché consente loro di stabilire i nomi e le battute dei propri personaggi, creare effetti sonori sempre diversi ed incrementare così il flusso narrativo del loro racconto. L’immissione delle varie tracce sonore permette ai bambini di comunicare e condividere al meglio intenzioni ed idee con adulti e coetanei e rende l’esperienza ludica più coinvolgente ed affascinante. Anche qui, si può notare come lo storytelling giochi un ruolo fondamentale nell’apprendimento e nella trasmissione di nuovi stimoli che portano i bambini ad interagire tra loro. Jabber Stamp racchiude in sé l’aspetto sociale e la divisione dei ruoli che si manifesta durante il momento del gioco di gruppo, ma allo stesso tempo può essere utilizzato individualmenteper la realizzazione di storie e scenari del tutto personali. Un ultimo lavoro caratterizzato dall’uso dello storytelling come metodo di insegnamento ed intrattenimento che trovo particolarmente interessante è Pling Plong36. Pling Plong è un buffo cuscino, all’apparenza non tecnologicamente avanzato dietro cui si cela, proprio per
questo motivo, quell’essenza quasi magica che più volte ho citato nel corso di questo capitolo. Il cuscino, infatti, è un media player37 che narra racconti e riproduce melodie, proprio come i cantastorie del passato. Da utilizzare all’interno dell’intimo ambiente domestico durante il momento del riposo pomeridiano o serale, Pling Plong tenta di trasmettere ai bambini l’interesse per i libri, stimolandone la fantasia e l’immaginazione. A mio avviso, l’aspetto che rende “incantato” questo cuscino è il potervici appoggiare la testa lasciandosi cullare dalle parole della storia che esso racconta, in tutta tranquillità, giocando da soli e rilassandosi. Lo scopo di Pling Plong, infatti, non è certo quello di generare esperienze cooperative tra i bambini, ma piuttosto vuole ricreare un ambiente calmo e sereno in cui il bambino possa ascoltare ed esplorare, secondo i propri ritmi, l’evolversi del racconto del libro. Ciò che mi ha affascinato di questo progetto è il genere di contesto che necessita per essere fruito al meglio e credo che la sua forza risieda nel valore educativo che tenta di trasmettere, stimolando il bambino alla lettura. In questo caso lo storytelling si presenta sotto una forma totalmente nuova e diversa rispetto a quelle affrontate fino
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a destra / KNURR, il bambino appoggia la mano sull’occhio del pupazzo nella pagina a fianco / KNURR, apertura della bocca segreta e aspetto del pupazzo
a questo momento: il bambino ha la possibilità di entrare in contatto con il pupazzo in un modo completamente intimo e privato, imparando ed interagendovi secondo i propri criteri e modalità. 1.4 / ABRACADABRA L’excursus effettuato sui progetti presentati finora dimostra come il tema dell’interaction design per bambini, nello specifico ambito medicale, possa assumere varianti ed obiettivi completamente differenti tra loro ma sempre con una valenza significativa. Dallo scopo prettamente terapeutico a quello esclusivamente ludico fino al critical design, i progetti elencati si fanno portavoce delle necessità dei più piccoli e le traducono in giocattoli stimolanti, divertenti e il più delle volte educativi. Nel tentativo di individuare nella maniera più dettagliata possibile ciò che avrei voluto trasmettere con il mio progetto, ho proseguito l’analisi degli esempi esistenti alla ricerca di interazioni inusuali e stravaganti a cui ispirarmi, non necessariamente legate all’argomento che intendevo trattare. In questo modo avrei potuto effettuare una sorta di patchwork concettuale38 tra un aspetto
(38) Per patchwork concettuale, in cui il termine patchwork indica un manufatto che consiste nell’unione, tramite cucitura, di diversi tipi di tessuto al fine di ottenere un oggetto con motivi geometrici o meno, intendo definire come il risultato finale del mio progetto di tesi, si sia ispirato inizialmente all’accostamento, filtraggio e
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formale accattivante, un valore terapeutico-educativo ed un’interazione coinvolgente, elementi che il mio lavoro richiedeva per concretizzarsi nell’idea che avevo da sempre desiderato realizzare. L’ultima parte di questo capitolo servirà, quindi, ad elencare una serie di progetti caratterizzati da interazioni interessanti, alle quali mi sono liberamente ispirata per affinare il mio lavoro di tesi. Il primo di questi è Knurr39, un pupazzo polipo dall’espressione estremamente tenera e divertente che permette al bambino di mantenere al sicuro i propri segreti. Chi da piccolo non ha mai avuto un luogo segreto, un posto sicuro in cui si era certi che le proprie cianfrusaglie sarebbero state custodite per sempre? Io ce l’avevo…e tuttora non lo rivelo a nessuno! Esperienze personali a parte, Knurr diventa esattamente quel luogo, un amico custode di cui fidarsi e con cui interagire. Il bambino non fa altro che riporre nella bocca del polipo gli oggetti a cui tiene e a cui non vuole che nessun estraneo abbia accesso. Nel momento in cui desidererà recuperarli, non dovrà far altro che attivare il codice segreto, ovvero mettere la mano sull’occhio sinistro di Knurr, in modo tale che quest’ultimo emetta un suono amichevole e dia libero accesso alla sua stanza dei
“cucitura” dei concetti che mi parevano maggiormente interessanti (39) Grøvik T., Tobiassen K., Knurr, 2010. vimeo.com/12455214
1 / Patchwork concettuale
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tesori. Se un estraneo tenterà di forzare la bocca di Knurr senza essere a conoscenza del gesto segreto da compiere, il polipo gli farà capire di non essere il benvenuto emettendo un evidente brontolio. Come si può evincere dalla descrizione, il progetto è estremamente semplice ma non per questo banale. L’intima relazione che si viene a creare tra il pupazzo e il bambino è sancita da un non detto patto di fiducia reciproco che consiste nella condivisione di un segreto, nel preservare qualcosa di prezioso, lontano da occhi indiscreti. L’interazione è basilare ma efficace e, per chi ha avuto il piacere di vivere quella fase dell’infanzia in cui i propri tesori costituiscono il centro dell’universo, si intuisce facilmente perchè un bambino possa esserne attratto. Il secondo progetto di questa serie si chiama WhisperJars40, il classico barattolo della marmellata che, però, qui diventa un contenitore di segreti. Questo lavoro non ha alcuna attinenza con il tipo di argomenti che ho trattato finora poiché è rivolto ad un pubblico diverso e non si presenta sottoforma di giocattolo, ma ci tengo comunque a riportarlo poiché mi ha affascinato la modalità di interazione tra l’utente e l’oggetto. All’interno di Whisper Jars, infatti, è possibile sussurrare un proprio pensiero, un segreto che verrà riprodotto nel momento in cui qualcun altro aprirà il barattolo e vi accosterà l’orecchio. A sua volta quest’ultimo potrà lasciare il proprio messaggio e così via. Una fonte luminosa segnala la presenza di un nuovo segreto all’interno del barattolo lampeggiando molto delicatamente. Questo progetto mi ha colpita per la semplicità dei comportamenti che induce a compiere e per l’originalità che cela dietro al nuovo modo di concepire la comunicazione, una poetica convivenza tra verbale e non verbale in un unico strumento. Altro progetto molto interessante e maggiormente legato al mio in termini di aspetto formale è MeMe 41, un pupazzo in policarbonato ad alto contenuto tecnologico. MeMe, vuole indagare l’impossibilità della comunicazione
(40) Kinzer K., Rosenthal M., Whisper Jars, 2009. www.kaciekinzer.com/ portfolio/whisperJars/index.html (41) Crozier S., MeMe, 2009. zierlabs.com
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nella pagina precedente a sinistra / WHISPERJARS, output luminoso ed interazione nella pagina precedente in basso e a destra / MEME, vista globale del pupazzo e possibile personalizzazione
visiva facciale che le persone connesse emotivamente ma fisicamente lontane incontrano ogni giorno. Si sa che il 90% della comunicazione emozionale tra due persone avviene in maniera visuale, attraverso la mimica facciale ed è quindi possibile che essa decresca in modo proporzionale alla distanza che separa i due soggetti coinvolti. MeMe tenta di alleviare il disagio di questa situazione tramite la traduzione delle principali codifiche facciali umane in espressioni semplificate da inviare attraverso SMS o via internet. Innanzitutto, occorre scegliere se configurare il pupazzo con il proprio computer o con il telefono cellulare, a seconda del mezzo che si usa più frequentemente; successivamente, l’utente può personalizzare MeMe con un pennarello attribuendogli i propri tratti somatici e regalare il pupazzo alla persona con cui vuole mantenere questa relazione visivo-emotiva. Una volta compiuti questi passaggi, basterà inviare un SMS o una email con la propria “emozione”, utilizzando il linguaggio degli emoticon 42, al sistema a cui è connesso MeMe, il quale decodificherà l’emoticon ed assumerà l’espressione corrispondente. La persona desiderata, quindi, riceverà lo stato d’animo dell’utente e i due si connetteranno
idealmente attraverso il pupazzo. L’espressione scelta, tra le 15 possibili, viene mostrata dal pupazzo in tempo reale per due minuti, in modo tale da garantire alla persona di vedere l’emozione che le è stata inviata. Credo che questo progetto dimostri come sia possibile realizzare uno strumento complesso, che aiuta due persone a mantenersi in contatto a partire da un linguaggio semplice e che quotidianamente utilizziamo, ovvero quello degli emoticon. Probabilmente, questo lavoro avrebbe potuto essere incrementato con output di vario tipo come audio, immagini e video, ma penso che la scelta di un range di espressioni schematiche e familiari ad ognuno di noi, renda MeMe essenziale ed estremamente efficace anche per quegli utenti che non hanno dimestichezza con la tecnologia. Questo progetto, infatti, non fa discriminazioni tra persone tecnologicamente esperte o meno, chiunque può fruire della connessione sentimentale che MeMe è in grado di stabilire. In questo caso, ciò che forse si è perso è la reale interazione fisica tra utente e oggetto, poiché quest’ultimo diventa semplicemente il tramite attraverso cui mostrare qualcosa. Probabilmente, se le due persone connesse
(42) Le emoticon sono riproduzioni stilizzate delle principali espressioni facciali umane che si manifestano in presenza di un’emozione. Vengono utilizzate sul web all’interno delle chat e negli SMS per sopperire alla mancanza del linguaggio non verbale nella comunicazione scritta Il nome nasce dall’unione delle parole
“emotional” e “icon” ed indica un’ icona che esprime emozioni. it.wikipedia.org/wiki/Emoticon
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1 / Patchwork concettuale
in alto a destra / MEME, i 15 emoticon realizzabili al centro ed in basso / SNOOZY THE SLOTH, emissione dell’aria ed alcune componenti del circuito interno
avessero avuto la possibilità di comunicare ciascuna attraverso una particolare interazione fisica con il proprio pupazzo, anziché utilizzare il linguaggio degli emoticon, la percezione dell’emozione risultante sarebbe stata caratterizzata da un maggiore calore umano. Proseguendo nella panoramica generale riguardante i progetti con un’interazione particolarmente interessante, mi sembra doveroso citare Snoozy the Sloth43. Questo bradipo peluche, possiede un funzionante sistema respiratorio al suo interno che gli consente di respirare come una persona reale. Accarezzandolo e coccolandolo, il bambino può vedere la pancia di Snoozy contrarsi ed espandersi e sentire l’aria fuoriuscire dalla bocca. L’obiettivo principale che sta alla base di questo progetto è quello di creare un’interazione dal carattere intimo e passivo che rilassi e metta a proprio agio il bambino durante l’ora del sonnellino, attraverso il contatto fisico con il pupazzo. Dal punto di vista tecnico, la respirazione è garantita da un sistema di pompe collocate nelle gambe del pupazzo che spingono l’aria verso i suoi “polmoni”, costituiti da un paio di guanti in lattice, attraverso i comandi impostati dall’Arduino board. Il video dimostrativo di questo progetto presenta
(43) Blinder J., Snoozy the Sloth, 2009. blog.justinblinder.com/2009/05/snoozythe-sloth/
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a destra / ECHO, particolare della tasca nella pagina a fianco / ECHO, visione d’insieme del pupazzo e fase dell’interazione
le varie componenti di cui è costituito Snoozy ed il relativo funzionamento e, se non si notasse che ciò che sta respirando è un pupazzo, si potrebbe tranquillamente credere di vedere un animale vivo, in carne ed ossa. Di questo progetto, ho apprezzato la sottile e non invasiva interazione che il bambino può instaurare con il proprio giocattolo, seguendone il ritmo del respiro semplicemente per addormentarsi in modo tranquillo. Lo stesso genere di relazione poteva essere interessante ed utile per il mood con cui avrei voluto caratterizzare i miei pupazzi. In dirittura d’arrivo per quanto riguarda questa sessione di ricerca, non potevo omettere il progetto che più si avvicina alla mia idea di tesi per quanto concerne l’estetica e l’intima relazione che tale progetto va ad innescare con l’utente: Echo44. Echo, è un simpatico ed astratto peluche, le cui sembianze ricordano un coniglio, nato per custodire i segreti dei bambini. Dotato di una sorta di cornetta di un vecchio telefono realizzata in legno che collega l’orecchio e la pancia, il pupazzo si prefigge l’obiettivo di accogliere i segreti e le frustrazioni sussurrate al suo orecchio da parte dei bambini in difficoltà. Una volta immagazzinati, questi segreti vengono riprodotti da una voce sintetizzata nel momento in cui il bambino desidererà riascoltarli.
Nella schiena del pupazzo, è anche presente una piccola tasca atta a contenere vari oggetti, fotografie, ricordi o messaggi segreti che i bambini intendono nascondere dagli occhi indiscreti degli estranei. In questo modo, i bambini affidano parte delle proprie cose non dette ad un pupazzo che è visto come amico e confidente attraverso i loro occhi. Il buffo e poco connotato aspetto di Echo, consente al bambino di personalizzarlo come meglio preferisce grazie alla propria fantasia, rendendolo il compagno di giochi ideale. Nel momento in cui l’interazione ha luogo, questo progetto ricrea la stessa atmosfera intima e sofisticata che ho tentato di attribuire ai miei pupazzi. L’unica critica che mi sento di muovere nei confronti di Echo, è la sensazione poco naturale che una voce robotica è costretta a riprodurre. Forse l’utilizzo di una registrazione in tempo reale della voce stessa del bambino avrebbe consentito al pupazzo di ritrasmettere il calore umano e le sfumature vocali che soltanto una voce reale è in grado di produrre. Giunta alla fase finale di questa parte di ricerca che consisteva nell’analizzare progetti simili al mio, giudicandone aspetti positivi e negativi in rapporto alla mia idea, concludo questo capitolo descrivendo un ultimo progetto caratterizzato da una forte interrelazione
(44) Schenkelbach E., Echo, 2010. www.yankodesign.com/2010/08/02/cometell-me-your-fears
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1 / Patchwork concettuale
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1 / Patchwork concettuale
a sinistra / SKÅL, visione d’insieme ed interazione con gli oggetti RFID a destra / SKÅL, particolare di un oggetto RFID nel corpo principale
tra media differenti. Il lavoro in questione si intitola Skål45, un player dall’aspetto accattivante e coloratissimo progettato per la casa, che permette di interagire con i media digitali attraverso la manipolazione fisica di oggetti. Collegando il player alla TV e posizionando determinati oggetti nell’apposita piattaforma, il bambino potrà vedere il relativo contenuto all’interno dello schermo: da foto di Flickr46, a video di YouTube47, da tracce audio a film in streaming48 le possibilità saranno davvero illimitate. Gli oggetti scelti, vengono riconosciuti attraverso un sensore wireless che sfrutta la tecnologia RFID e decodifica e riproduce sullo schermo i contenuti associati. È necessario soltanto etichettare ogni singola forma che si intende utilizzare, per trasformare quest’ultima in una sorta di controller attraverso cui visionare foto, video ed audio. Per il bambino, Skål rappresenta la possibilità di esplorare il mondo digitale attraverso i suoi giocattoli preferiti, intercambiando a suo piacimento le etichette e giocando con i diversi media a disposizione. Personalmente credo che la forza di questo progetto risieda nel valore quasi magico che il bambino attribuirà al proprio giocattolo fisico nel momento dello scambio dei contenuti che avverrà tra esso e lo schermo.
Sono convinta che la relazione esistente tra mondo reale e mondo virtuale che Skål promuove, sia un ottimo modo per rendere il bambino attivo e partecipe nella fase di gioco poiché egli dovrà mettere in campo una serie di decisioni per raggiungere l’obiettivo finale, ovvero vedere o meno un preciso contenuto. In questo progetto vedo la potenziale svolta al problema della passività e della sedentarietà che la TV ha portato nel mondo infantile. Penso che Skål possa essere soggetto a possibili sviluppi in previsione di scenari futuri in cui i bambini potranno interagire tra di loro attraverso i loro giocattoli, apprendendo determinate norme sociale che una certa interazione permetterà loro di visionare sullo schermo. Questa idea mi ha suscitato una serie di quesiti: cosa succederebbe se ad una precisa interazione corrispondesse, anziché una semplice reazione sonora, un contenuto multimediale da cui i bambini avrebbero la possibilità di imparare giocando insieme? E se gli RFID fossero utilizzati per udire un contenuto? Questa tecnologia, potrebbe fornire un aiuto tangibile ai bambini con difficoltà all’apparato visivo? Tali riflessioni sarebbero state fondamentali per i successivi sviluppi che illustrerò nei capitoli seguenti.
(45) Knutsen J., Martinussen E.S., Arnall T., Skål, 2009. www.skaal.no (46) Flickr è un sito web che permette di condividere fotografie personali via Internet, in un ambiente web 2.0. it.wikipedia.org/wiki/Flickr (47) YouTube è un sito web in cui gli utenti possono caricare, condividere e vedere
video. en.wikipedia.org/wiki/YouTube (48) Il termine streaming indica un flusso di dati audio/video trasmessi da una sorgente a una o più destinazioni tramite rete telematica. it.wikipedia.org/wiki/ Streaming
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/ IMBASTENDO IDEE...
2.1 / IL FATTORE PSICOLOGICO 2.2 / I TRE LIVELLI RELAZIONALI 2.3 / PUPAZZI TUTTOFARE 2.3.1 / Autismo: l’abc del linguaggio 2.3.2 / Diabete: autonomia prima di tutto 2.3.3 / Ipovedenza: un archivio di sensazioni 2.3.4 / Malattia terminale: un supporto emotivo 2.4 / LA SCELTA: LA DEGENZA 2.5 / QUALE FASCIA D’ETÁ? 2.6 / L’OSPEDALE MEYER DI FIRENZE 2.7 / IL NOSTRO NOME É... 2.8 / I PRIMI MODELLI 2.8.1 / Odo 2.8.2 / Lucio 2.8.3 / Tello 2.9 / VERSO LA DEFINIZIONE DELL’IDEA
2 / IMBASTENDO IDEE
Man mano che la fase di ricerca procedeva attraverso l’analisi dei progetti fin qui descritti, la mia idea si plasmava e si ridefiniva sempre più accuratamente. Una volta districata la matassa infinita di pensieri, riferimenti ed intuizioni scovati nel web, nei libri e nella mia testa, ho iniziato a dare forma a ciò che avevo ricavato attraverso un brainstorming senza freni. Ogni parola chiave o concetto che affiorava alla mia mente veniva registrato su post-it colorati che andavano gradualmente ad affollare la parete. Decriptando le informazioni più strampalate che i miei inconsci ragionamenti avevano prodotto, si è andato a delineare un percorso ben preciso dal quale sono partita per incanalare la mia idea nella giusta direzione e darle vita. 2.1 / IL FATTORE PSICOLOGICO Inizialmente, mi sono arrovellata nel tentativo di identificare e selezionare i disagi fisici e psichici che avrebbero potuto offrirmi interessanti spunti di approfondimento e così, facendo una cernita tra le molteplici possibilità fino ad allora prese in considerazione, ho stilato un elenco ordinato secondo il potenziale che, a mio parere, ogni condizione riservava. Ho quindi deciso di
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focalizzare l’attenzione sulle seguenti patologie: l’autismo, il diabete, i disturbi derivanti dalla cecità totale o parziale e le malattie terminali. Quello che credevo dovesse prevalere al fine di originare un progetto strutturato e corposo era il diverso punto di vista con cui volevo che i bambini affrontassero il loro disagio. Non volevo offrir loro un giocattolo con cui relazionarsi passivamente, bensì una sorta di amico che entrasse attivamente nella loro routine quotidiana. La mia intenzione era quella di generare nell’utente un approccio totalmente nuovo alla malattia, un’interazione mirata con l’oggetto che apportasse in modo indiretto un beneficio tangibile e godibile. Il passo successivo fu quello di effettuare un’analisi a 360 gradi per ognuna delle quattro patologie elencate individuando successivamente le caratteristiche principali che le costituivano e che suscitavano in me maggiore interesse. Tra queste comparivano non solo concetti strettamente legati all’ambito medicale della patologia stessa ma anche, e soprattutto, le reazioni dei pazienti alla malattia, le cure e le terapie sperimentali attuate dagli enti sanitari, gli ultimi risultati della ricerca e il modo in cui tutti questi fattori si riflettono sulle famiglie dei diretti
2 / Imbastendo idee...
a sinistra / UNA FASE DI BRAINSTORMING
“L’impossibilità di relazionarsi con il mondo esterno diventa il motivo del mancato sviluppo della motricità, delle capacità relazionali, del linguaggio [...]” Lucioni R., www.oocities.org/~lerre/network.html
interessati. Riscontrai poco dopo che i dettagli su cui stavo concentrando le mie attenzioni, presentavano un elemento costante che li accomunava e conferiva loro una valenza specifica: tutti coinvolgevano in modi differenti la sfera psicologica del paziente e di chi gli sta accanto. Ogni particolare a cui facevo riferimento presentava dei risvolti psicologici inattesi che caratterizzavano il periodo di malattia degli utenti coinvolti con varie sfaccettature. Per esempio, per i soggetti affetti da autismo il fattore psichico assume un’importanza fondamentale poiché è proprio su di esso che si imperniano quasi tutte le caratteristiche derivanti. In questo contesto vengono continuamente sperimentate nuove terapie ed approcci volti a sviluppare la coscienza del paziente su ciò che lo circonda e a migliorare le relazione sociali che esso normalmente non riesce ad intrattenere nè con sè stesso nè con il mondo esterno. Tra i vari metodi utilizzati quelli in cui si riscontra un particolare successo sono: la Pet therapy1, la quale prevede il diretto coinvolgimento di animali, generalmente cani, attraverso un intenso contatto emotivo con il bambino volto ad ottimizzare la sfera affettivo-relazionale, ludica e psicomotoria; il metodo Portage2 , che si prefigge di fornire alla famiglia gli strumenti necessari alla creazione della
routine giornaliera del bambino; il metodo TEACCH3, mirato al miglioramento dei canali comunicativi dei pazienti attraverso una serie di attività programmate; e il metodo PECS (Picture Exchange Communication System)4, il quale prevede l’utilizzo ricorrente di carte illustrate per insegnare al bambino le basilari norme che regolano il linguaggio. Per quanto riguarda i soggetti diabetici5 si nota frequentemente la totale dipendenza dai genitori in fatto di scelta dei cibi per la dieta e rispetto della cadenza delle iniezioni di insulina che portano il bambino al mancato raggiungimento di autonomia personale con conseguenti problemi relazionali. Nel caso di bambini ipovedenti6 o aventi altro genere di handicap visivi, i principali sintomi psicologici si presentano sottoforma di insicurezza, rabbia e difficile inserimento nel contesto sociale quotidiano. Infine, i bambini soggetti ad ospedalizzazione soffrono di una sintomatologia psicologica piuttosto vasta e frequente in ognuno dei pazienti, come il senso di colpevolezza, la regressione ad uno stato ancor più infantile, l’inappetenza, l’aggressività e la noia cronica. La presenza di questi sintomi comporta una costante
(1) www.specialeautismo.it/servizi/menu/dinamica.aspx?idArea=17006&idCa t=17013&ID=17026&TipoElemento=Categoria (2) www.ilprisma.org/articolo75.htm (3) www.trasversalia.org/?q=node/45
(4) www.specialeautismo.it/servizi/menu/dinamica.aspx?idArea=17006&idCa t=17013&ID=17609 (5) www.ndep.nih.gov/teens/index.aspx (6) kidshealth.org/kid/health_problems/sight/visual_impaired.html
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a destra / LIAISON, casetta di ceramica
trasformazione caratteriale ed un continuo adattamento dello stato psicologico7 del bambino alla condizione in cui si trova con la possibile comparsa di effetti negativi anche a livello fisico. Ciò che si viene a creare è quindi una sorta di circolo vizioso che investe la psiche e di riflesso il corpo del bambino e viceversa. 2.2 / I TRE LIVELLI RELAZIONALI Terminato l’excursus inerente agli aspetti sopraelencati, non mi è stato difficile identificare un ulteriore elemento ricorrente che mi avrebbe fornito nuovi spunti di ragionamento, ovvero i diversi modelli relazionali su cui si articolano i comportamenti sociali dei soggetti presi in esame. Tali modelli rivelavano una straordinaria somiglianza rispetto alla categorizzazione dei tre livelli di intelligenza analizzati dalla psicologia cognitiva8: il livello 0, ovvero la capacità di costruire dei modelli semplificati del mondo, realizzare un programma per agire nel mondo ed eseguirlo; il livello 1, ovvero l’autoriflessione, la quale consiste nella capacità dell’uomo di decidere come muoversi nel mondo esaminando i contenuti della sua mente; infine il livello 2, denominato intelligenza
sociale, il quale prevede il confronto tra più punti di vista, di cruciale importanza per sapersi muovere negli ambienti sociali. Basandomi su questo assunto, ho quindi delineato le tre tipologie di relazione sulle quali intendevo articolare il mio progetto al fine di agevolare i bambini interessati a rapportarsi con gli altri. La mia tesi doveva consentire agli utenti che avevo deciso di indagare di approfondire la relazione che essi instaurano con sé stessi, di tipo quindi introspettivo, con l’altro utente in un rapporto uno ad uno ed infine, con il gruppo sociale che li circonda. Non riuscivo, però, a figurarmi un unico pupazzo multifunzionale che fosse in grado di soddisfare il bambino in egual misura in ognuna di queste relazioni. Le interazioni e l’aspetto definitivo sarebbero risultati assai complessi, non intuitivi e avrebbero probabilmente generato confusione nell’utente, il quale avrebbe dovuto giostrarsi tra un fitto groviglio di input ed output. Questa riflessione mi ha condotto quindi a tentare di ipotizzare non uno, bensì tre pupazzi corrispondenti ad altrettante precise patologie. Tale soluzione semplificava in maniera radicale il numero di interazioni, ogni pupazzo poteva dedicarsi ad un sintomo preciso e l’approccio al giocattolo sarebbe risultato intuitivo ed immediato.
(7) AAVV, L’ assistenza ai bambini malati di tumore, Raffaello Cortina, Milano 2010 (8) Legrenzi P., La mente, il Mulino, Bologna 2002
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2 / Imbastendo idee...
a destra / I TRE LIVELLI RELAZIONALI: introspettivo, uno ad uno, gruppo
Tutto andava intersecandosi in modo autonomo e al termine di una serie di riflessioni ciò che mi si presentava innanzi era un progetto caratterizzato dal numero tre: tre tipi di relazione sociale, tre pupazzi, tre patologie. Dopo un breve ragionamento, però, mi sono resa conto che ciò avrebbe comportato la realizzazione di tre progetti distinti con utenti e obiettivi evidentemente diversificati, mentre quello che intendevo produrre era un lavoro unitario caratterizzato da tre pupazzi che condividessero una stessa finalità. Così, memore di un precedente progetto, Liaison9, mi sono posta l’ulteriore vincolo di ideare sì un set di pupazzi, ma tutti rispondenti ad un denominatore comune: essi dovevano essere destinati a bambini affetti dalla medesima patologia. Questo risvolto ha concretizzato l’obiettivo e mi ha incitato a proseguire. Una volta stabilita questa serie di vincoli e continuando a filtrare le informazioni acquisite in precedenza, ho deciso di procedere in modo metodico, forzandomi a generare almeno un’idea per ogni patologia che rispettasse determinati criteri: l’aspetto formale di pupazzo che avevo deciso di utilizzare sin dagli inizi, la risoluzione di un disagio psicologico e l’utilizzo di una comunicazione non verbale attraverso un’interazione semplice ed efficace.
(9) Rossi E., Toncich M.C., Wang K., Liaison, 2010. Progetto realizzato durante il laboratorio di prototipazione di artefatti interattivi diretto da Philip Tabor con Gillian Crampton Smith in cui tre casette interattive instaurano un legame tra due utenti distanti. www.erikarossi.com/index.php?/interaction/liaison
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2 / Imbastendo idee...
a sinistra / IDEA 01, alcuni sketch dell’idea preliminare per un pupazzo in grado di agevolare i bambini autistici nell’apprendimento del linguaggio
2.3 / PUPAZZI TUTTOFARE 2.3.1 / Autismo: l’abc del linguaggio La generazione delle prime idee è partita dall’analisi delle ripercussioni psichiche dei soggetti autistici e ho deciso così di concentrare la mia attenzione sulla terapia curativa, tra quelle elencate in precedenza, che mi pareva offrisse maggiori spunti di riflessione: il metodo PECS. Durante una sessione di PECS, il bambino si trova con il terapista in una stanza accogliente piena di giochi e stimoli visivi che possano metterlo a proprio agio. Il terapista inizia quindi a mostrare al soggetto una serie di carte su cui compare un disegno o una foto e il nome corrispondente associato, al fine di trasmettere al bambino le principali norme linguistiche, stimolare in lui un commento o un osservazione. La terapia si svolge ciclicamente con una frequenza abbastanza elevata e con la ripetizione ordinata di tutte le fasi che la costituiscono, consentono al bambino autistico di apprendere, seppur lentamente, alcuni vocaboli (mamma, papà, albero, cane, ecc.), concetti basilari (non si parla a bocca piena, rispondere al saluto, chiudere a chiave la porta, ecc.) e la relativa raffigurazione che gli serviranno a relazionarsi con il mondo e con gli altri. La critica
maggiore che viene rivolta a questo metodo è l’incapacità che conferisce al bambino di apprendere un linguaggio proprio. Una volta memorizzate le parole stabilite, nella tonalità stabilita, il bambino non riuscirà più, o comunque troverà molte difficoltà, ad imparare vocaboli differenti con una conseguente limitazione in termini di espressione verbale. L’analisi di questo metodo mi ha consentito di focalizzarmi su una lacuna comportamentale specifica espressa dai soggetti affetti da autismo, ossia quella linguistica. Ho così mantenuto i principi sui quali si fonda il metodo PECS tentando però di esplorare il mondo delle immagini e del linguaggio senza perdere di vista il concreto ed autonomo apprendimento che dovevo offrire ai bambini affetti da questo grave disturbo. Ciò che volevo ideare doveva fornire uno strumento attraverso il quale i bambini apprendessero i primi concetti linguistici ma fossero poi in grado di elaborare autonomamente le fasi successive. L’idea nata è quindi stata quella di un pupazzo in grado di leggere i nomi corrispondenti presenti su un lato della carta; sull’altro lato della carta il bambino può registrare la propria voce che ripete il vocabolo appena sentito e ha la possibilità di disegnare il soggetto della carta come
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meglio crede. In questo modo, le registrazioni consentono ai genitori e al terapista di tenere traccia dei progressi linguistici del bambino e permettono a quest’ultimo di migliorarsi costantemente abituandosi ad ascoltare il suono della propria voce. Ho pensato a questo escamotage per ovviare alla critica sopra riportata e per garantire al paziente dei margini di miglioramento nell’apprendimento e nell’espressione che lui stesso si costruirà con l’avanzare della terapia. 2.3.2 / Diabete: autonomia prima di tutto Il successivo caso preso in esame è stato quello dei bambini diabetici. Il diabete è una malattia pericolosa ma controllabile che, se monitorata adeguatamente, può consentire al paziente di conviverci in modo relativamente pacifico. La ciclica necessità di insulina unita ad una dieta bilanciata fanno sì che la quantità di glucosio nel sangue del paziente si mantenga ad un livello sicuro; questo però, nel caso specifico dei bambini, comporta un’assistenza continua da parte dei genitori che provvedono affinchè il bambino non dimentichi le iniezioni giornaliere ed eviti di mangiare cibi contententi sostanze dannose per il suo organismo. In tali circostanze, il bambino viene non solo abituato alla costante presenza dei genitori ma anche al fatto che siano essi ad occuparsi della sua condizione senza che lui debba premurarsi di farlo. Con il passare del tempo il bambino perde quindi gradualmente il bisogno di rendersi autonomo e questo può provocare irreparabili disagi nella vita adulta. Da questi presupposti è scaturita la volontà di creare un pupazzo che conferisse al bambino diabetico maggiore indipendenza di organizzazione della sua routine quotidiana, senza necessariamente sottostare alla supervisione continua dei genitori, ma rassicurandoli al tempo stesso. Le nuove tecnologie hanno reso, inoltre, meno invasiva la pratica di rilevazione del livello di glucosio con l’introduzione di dispositivi, quali braccialetti e orologi10,
(10) Johnson & Johnson Company, Glucowatch, 2002. Si tratta di un orologio per la misurazione non invasivi della glicemia nel caso di soggetti diabetici. www.mendosa.com/glucowatch.htm (11) A AV V, Hello Haptic, 2009. Il progetto prevede da parte di bambini
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ipovedenti l’utilizzo di carte materiche per apprendere nuovi materiali. rheajeong.com/index.php?/2009/hello-haptic/
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a sinistra / IDEA 02, il pupazzo consentirebbe ai bambini diabetici di acquisire maggiore autonomia sotto / IDEA 03, lo schizzo mostra parte del funzionamento ipotizzato
che estraggono il dato ematico dal semplice contatto con l’epidermide. Quest’ultima informazione mi ha suggerito il tipo di interazione da adottare: infatti, stringendo la mano del pupazzo, questo estrae il dato esplicitandolo sia vocalmente che visivamente grazie all’emissione di una luce in corrispondenza della pancia che risulterà verde nel caso in cui il tasso di glucosio sia nella norma, oppure rossa se la percentuale di glucosio nel sangue supera i valori normali. In questo modo, non è necessario che il bambino conosca a memoria numeri e misure complicate poiché il codice colore rende l’informazione chiara. Una volta appresa la situazione, se la luce è rossa, il bambino avrà a disposizione un set di oggetti colorati e familiari rappresentanti le principali categorie alimentari (carboidrati, zuccheri, grassi, ecc.) che, avvicinati alla bocca del pupazzo, riporteranno la luce ad uno stato positivo (verde) o ad uno ancora più grave (lampeggiante) a seconda che siano più o meno corretti da consumare in quel momento. L’obiettivo del progetto sarebbe quello di utilizzare la comunicazione non verbale al fine di far imparare al bambino in modo divertente ed autonomo la dieta più adatta a lui.
2.3.3 Ipovedenza: un archivio di sensazioni Ciò che mi sembrava fondamentale offrire ai soggetti ipovedenti era un nuovo modo di relazionarsi agli ambienti che li circondano. I progetti per bambini finora realizzati nell’ambito della cecità parziale o totale11, pone il tatto e le haptics come elementi cruciali nell’apprendimento dei materiali e delle superfici. Non ero però interessata a creare un’altra serie di oggetti di forma astratta i cui unici stimoli fossero le varie tipologie di superficie. Ho tentato quindi di capire se esistesse la possibilità di catalogare i materiali in loco, ovvero di generare informazioni in tempo reale sugli oggetti che i bambini andavano via via toccando nei loro ambienti quotidiani. Il tipo di informazioni che volevo esplorare non erano però quelle provenienti dal materiale, bensì mi interessava compiere il processo opposto: di che colore il bambino percepisce questo oggetto? Cosa prova toccandolo? L’ha già toccato in passato? Ho perciò maturato l’idea di generare una sorta di database di materiali decentralizzato attraverso l’uso di un pupazzo. Nel momento in cui un bambino percepisce un materiale nuovo o che è interessato a conoscere, può apporvi un tag in cui registrare impressioni, stimoli e
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pensieri relativi ad esso. Nel caso in cui il bambino dovesse toccarlo nuovamente, avrà la possibilità di far leggere al proprio pupazzo la sensazione precedentemente registrata ed associata a quel preciso materiale e potrà modificarla, eliminarla o sostituirla con una nuova registrazione. Il bambino crea il suo ambiente ideale così come egli lo percepisce e lo vive, interagendo in modo alternativo con il mondo circostante. 2.3.4 / Malattia terminale: un supporto emotivo Le idee finora elencate non mi convincevano appieno, poiché, nonostante mi sembrassero alquanto strutturate, non intravedevo in loro quel margine di miglioramento che mi avrebbe dovuto spronare ad approfondirle. Ritenevo interessante e valido ogni spunto di progetto ma nessuno di essi racchiudeva quelle valenze concettuali e formali che avrei voluto conferire alla mia tesi. Ho quindi proseguito nell’esplorazione delle risorse a mia disposizione ed in ultima analisi, ho deciso di indagare la situazione di degenza dei bambini malati terminali o comunque aventi patologie croniche. Tale
ambito si sarebbe inaspettatamente rivelato il terreno più fertile per la generazione di nuovi concept, riservando potenzialità che fino ad allora non avevo preso seriamente in considerazione. Ho subito notato, infatti, che i bambini degenti non erano affetti da turbe psichiche paragonabili a quelle dei soggetti autistici, di conseguenza le interazioni potevano essere meno letterali. Al tempo stesso, però, essi vivevano una condizione psicologica molto difficile, quindi si prestavano comunque ad essere il target più adatto rispetto all’idea che avevo formulato fino ad allora. Tra i molteplici sintomi psicologici causati da questa condizione12 , ho pensato di ragionare sulle sensazioni di colpevolezza che si manifestano nei bambini nel momento in cui vengono ricoverati, la solitudine che li accompagna soprattutto nei primi mesi di ospedalizzazione e l’inconsapevolezza degli aspetti chiave su cui verte la loro malattia con la conseguente mancanza di reazioni emotive appropriate per contrastarla. Inerente al primo aspetto, la colpevolezza, ho potuto apprendere come i bambini interiorizzino questo sentimento fino a convincersi di essere realmente colpevoli di qualcosa che non sanno definire ma che ha portato i loro genitori a punirli facendoli ricoverare. Se ignorato a lungo, il senso di colpa
(12) AAVV, L’ assistenza ai bambini malati di tumore, Raffaello Cortina, Milano 2010
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nelle pagine precedenti / IDEA 04, scenario ed interazioni iniziali. L’idea verte sul ruolo di confidente che il pupazzo si prefigge di assolvere sotto / IDEA 04, interazioni conclusive dell’iter relazionale
che i soggetti sviluppano si radica nei meccanismi della mente e può essere causa di atteggiamenti irrazionali e spropositati che danno adito a disturbi psichici ben più gravi e prolungati nel tempo. Ecco perché, una delle prime idee che ho sviluppato, è stata proprio un pupazzo in grado, se non di risolvere, di alleggerire questo problema, offrendo al bambino una sorta di amico immaginario a cui confidare le proprie angosce. Sussurrando all’orecchio del pupazzo il proprio turbamento, il bambino ha la possibilità di sfogarsi con un confidente, senza che questo sia necessariamente un adulto sconosciuto che risponde alla figura del medico o dello psicologo. Una volta registrato il segreto, il pupazzo lo immagazzina e lo mostra sottoforma di rossore nella pancia, il quale col passare dei giorni, si aggrava. Secondo la mia idea, tale comportamento presentato dal pupazzo dovrebbe spronare il bambino ad agire in qualche modo al fine di alleviare le sofferenze del suo amico. L’antidoto al disagio del pupazzo è quello di permettergli di rivelare il segreto, quindi di riprodurre ciò che il bambino ha registrato in precedenza toccando la zona della bocca, volutamente assente poiché rappresentante di un’iconografia troppo esplicita che preferivo rimanesse celata. Il bambino può
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riascoltare la sua voce, interiorizzando e comprendendo meglio ciò che lo rende ansioso oppure può decidere di compiere tale operazione in presenza di un medico, il quale potrà aiutare il paziente in modo efficace e diretto. Ovviamente, nel formulare questa idea ho tenuto in considerazione il fatto che nessuna reazione è scontata e l’interazione non è mai completamente prevedibile ma, se opportunamente indirizzato, l’utente risponde esattamente nel modo in cui si è immaginato o, addirittura, creando vie di interazione e comunicazione nuove ed inattese che reinventano completamente l’oggetto migliorandone l’utilizzo (o peggiorandolo nell’ipotesi più negativa!). Secondo la mia personale esperienza e dall’osservazione di altri progetti e giocattoli che prevedono questo tipo di approccio, credo che sia plausibile pensare che il bambino avrà a cuore la salute del suo piccolo amico e nel tentativo di provvedere a lui, otterrà di riflesso un riscontro positivo anche sulla sua condizione. Il continuo interscambio di ruoli non solo si prefigge l’obiettivo di agevolare l’utente nelle interazioni sociali attraverso uno strumento ludico ma gli permette anche di confrontarsi in modo introspettivo ed indiretto con la
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reale causa del suo disagio. Questa idea rivela una sorta di immedesimazione del bambino con il pupazzo: le angosce del paziente vengono riversate su un pupazzo che le assimila e ne diventa contemporaneamente sia custode che simbolo. Questo approccio è ben illustrato nella sconfinata opera di Jean Piaget (1896-1980), psicologo svizzero anticipatore del cognitivismo, il quale dopo aver identificato i vari stadi dell’infanzia delineandone fasce d’età e corrispondenti sviluppi, si concentra sugli schemi simbolici che compaiono in età prescolare (dai 2 ai 4 anni). Tali schemi si sviluppano in concomitanza alla comparsa della capacità di finzione, la quale si manifesta quando il bambino “si serve di un’azione per rappresentarne un’altra pur essendo le due azioni ancora distinte”13. La finzione è una delle caratteristiche basilari su cui si fonda il gioco, il quale, secondo Piaget, è prima di tutto divertimento. Ciò che rende il gioco tale, è la sua appartenenza ai processi di assimilazione, ovvero quei processi che non richiedono l’adattamento alle esigenze della realtà. In opposizione all’assimilazione, Piaget identifica poi l’accomodamento, quell’insieme di mutamenti effettuati dall’organismo per adattarsi alla realtà, e associa a questo il meccanismo
di imitazione messo in atto dai bambini. Ora, benchè il gioco sia assimilazione e l’imitazione sia accomodamento, il bambino è comunque in grado di far interagire i due elementi, originando giochi complessi caratterizzati dall’imitazione di ruoli o persone. Proprio nell’imitazione, Piaget riscontra le prime manifestazioni di schemi simbolici, ovvero schemi costituiti da comportamenti simbolici. È in questa definizione che si riassume il susseguirsi di scambio di ruoli che intercorre nell’utilizzo del pupazzo appena descritto. Esistevano molte lacune che non ero ancora in grado di colmare, per esempio come si sarebbe comportato il pupazzo nelle normali situazioni di gioco, cosa sarebbe successo se il bambino avesse voluto ascoltare la propria registrazione più volte, cosa sarebbe accaduto se la bocca fosse stata sfiorata accidentalmente, ecc. Ad ogni modo ero convinta che ognuno di questi problemi avrebbe trovato soluzione da sé nel corso della definizione del progetto. In secondo luogo, ho esaminato lo stato di solitudine, altro disagio che interviene nella psiche del paziente ospedalizzato specialmente nel primo periodo, quando tutti i punti di riferimento su cui si è costruita l’identità del bambino vengono stravolti da un radicale cambio
“Il comportamento è simbolico ogni volta che qualcosa in esso è utilizzato per rappresentare qualcos’altro.” Piaget J. in Baldwin L.A., Teorie dello sviluppo infantile, Franco Angelo Libri, Milano 1987
(13) Piaget J. in Baldwin L.A., Teorie dello sviluppo infantile, Franco Angelo Libri, Milano 1987, pp. 249–51
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a destra / IDEA 04, schizzo del contesto approssimativo relativo al terzo pupazzo
“L’inclinazione alla collaborazione e al soccorso reciproco [è] innata come molte delle modalità comportamentali concrete del contatto amichevole.” Eibl-Eibesfeldt I., Amore e odio. Per una storia naturale dei comportamenti elementari, Adelphi Edizioni, Milano 1970
di quotidianità. Ogni abitudine viene cancellata e, ad esclusione dei genitori e della famiglia, tutte le altre figure stabili che popolavano l’ambiente del bambino (i maestri, i compagni di scuola, i vicini di casa, ecc.) si dissolvono e vengono progressivamente sostituite da nuovi e sconosciuti personaggi (medici, infermiere, psicologi, ecc.) con cui i bambini dovranno rapportarsi per molto tempo. Questo improvviso shock è immediatamente accompagnato da una sensazione di smarrimento ed estraniamento a cui i bambini pongono rimedio instaurando amicizie e relazioni profonde interne all’ospedale. Non tutti però reagiscono allo stesso modo e succede, purtroppo, che alcuni bambini fatichino a ristabilire la dimensione naturale delle cose e vengano di conseguenza gradualmente esclusi. È in questo preciso contesto che ho formulato l’idea di un altro pupazzo, il quale si prefigge di agevolare l’instaurarsi di amicizie tra quei bambini con maggiori difficoltà di socializzazione. Inizialmente, l’interazione è stata pensata tra due bambini, andando quindi ad intercettare il secondo livello relazionale che mi ero imposta di esplorare, ma successivamente mi sono resa conto che, nonostante il
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progetto si realizzasse perfettamente anche tra due soli bambini, poteva essere esteso a più utenti. Come scenario ho pensato a quello delle stanze dei piccoli pazienti, dove probabilmente durante la sera è più facile che il malessere della solitudine si manifesti: ecco che, poco prima di dormire, i bambini, anche quelli meno estroversi, possono comunicare attraverso il loro pupazzo raccontandosi storie. Infatti, ogni bambino dispone di un pupazzo e di un set di oggetti rappresentanti i principali elementi di una fiaba (personaggi, oggetti magici, luoghi, tempi e azioni) sincronizzati tra loro; avvicinando uno tra questi oggetti al naso del pupazzo, esso inizierà a raccontare la parte di storia relativa all’oggetto stesso e il pupazzo del bambino che si trova in un’altra stanza riprodurrà la stessa parte di storia. Successivamente, questo secondo bambino avvicinerà un altro oggetto al naso del suo pupazzo, il quale racconterà la parte di storia corrispondente al bambino lì presente e al bambino nell’altra stanza nello stesso momento. Operando in questo modo, tutti i bambini coinvolti avranno modo di creare una storia in maniera collaborativa, concatenandola di volta in volta alla frase precedente. La cooperazione e l’aiuto reciproco si concretizzano in una fiaba tramite
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l’utilizzo dello storytelling, una terapia ludica praticata in molti centri ospedalieri che consente al bambino di proiettare inconsciamente in un racconto di fantasia i suoi reali disagi. Attraverso questo pupazzo il bambino è in grado di recepire alcuni aspetti relazionali fondamentali come la socializzazione, la cooperazione e il mutuo soccorso e al contempo li utilizza in maniera divertente a proprio vantaggio per contrastare la timidezza e la solitudine che possono facilmente presentarsi in contesti di degenza. Nonostante gli aspetti positivi che riscontravo in quest’idea, mi sono resa conto che essa presentava anche varie debolezze. Prima tra tutte, la poca flessibilità e variabilità che il racconto poteva assumere: essendoci un numero limitato di oggetti per ragioni pratiche, non era possibile creare molte combinazioni logiche, inoltre quelle che venivano a crearsi potevano essere ritenute interessanti solo la prima volta ma se riprodotte di nuovo sarebbero risultate noiose. Ogni oggetto, poi, rappresentava una sola fase della storia quindi, una volta appresi i meccanismi del gioco, esso si sarebbe rivelato ripetitivo già la volta successiva. Non ho però rinunciato a questa idea, ma l’ho sviluppata e ripensata in modo differente fino a farle
assumere l’aspetto più convincente che andrò ad illustrare nei paragrafi successivi. Sempre per i bambini degenti, poi, mi affascinava il contesto delle terapie di gruppo o comunque le attività collettive svolte dai bambini all’interno dell’ospedale. Non avendo però un’idea ben precisa, ho formulato una bozza che presentava soltanto le componenti che mi interessava indagare: il pupazzo doveva collocarsi in una fase della giornata che coinvolgesse più bambini presenti in una stessa stanza e come obiettivo doveva avere quello di fornir loro informazioni sulle malattie in modo didattico e coinvolgente. Questo avrebbe reso i bambini più consapevoli sulle caratteristiche e i sintomi delle loro patologie e li avrebbe aiutati ad affrontare i successivi avvenimenti con il giusto spirito e le opportune reazioni. Ciò che mi ostacolava nel caso di questo pupazzo, era l’aspetto didattico: non avevo intenzione di creare un monotono giocattolo che insegnasse qualcosa ma volevo che i bambini apprendessero interagendo tra loro attraverso i pupazzi. Nonostante tentassi di coniugare tutti questi elementi, almeno uno di essi alla fine di ogni ragionamento appariva sconclusionato. Così ho mantenuto soltanto l’aspetto che mi interessava
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2 / Imbastendo idee...
a sinistra / PUPAZZO STORYTELLING, schizzi preliminari relativi all’interazione del pupazzo a destra / PUPAZZO STORYTELLING, sviluppo dell’idea
maggiormente, ovvero l’interazione di gruppo. Questo ulteriore filtro mi ha consentito di ripartire da zero e di pensare a concetti totalmente differenti che fino ad allora non avevo approfondito nella maniera adeguata. 2.4 / LA SCELTA: LA DEGENZA Alla fine di questo primo ciclo di brainstorming avevo ottenuto una serie di idee che ritenevo abbastanza consistenti. Non potevo ovviamente approfondirle tutte e dovevo decidere quale campo patologico sarebbe stato in grado di offrirmi un margine di miglioramento, sviluppo e future implementazioni più elevato. La mia scelta ricadde su quello che era risultato più fruttuoso, per cui ero riuscita a produrre idee stimolanti, non scontate e in maggior numero, ovvero la condizione di malattia terminale dei bambini degenti in ospedale. Le tre idee che avevo maturato in questo ambito di ricerca potevano essere modificate e rifinite e tutte miravano a soddisfare, o se non altro ad alleviare, un determinato sintomo psicologico. Così ho iniziato a ragionare in maniera più approfondita su di esse, tentando di definirne ogni dettaglio.
Il primo pupazzo, il quale prevede una relazione di tipo introspettivo con il bambino, era quello che mi convinceva maggiormente, le interazioni che avevo pensato erano inusuali e al contempo intuitive, dovevo ancora risolvere alcune incongruenze ma nel complesso l’idea mi sembrava attuabile. Alla base del secondo pupazzo vi era lo storytelling che si realizza tra due soggetti. Come ho spiegato nel relativo paragrafo, l’idea riportava diverse contraddizioni che non riuscivo a risolvere, così ho fatto un passo indietro provando a ragionare su nuovi aspetti. Innanzitutto, ho tentato di pensare a modi alternativi attraverso cui una fiaba può essere raccontata e tra questi mi è parso interessante il punto di vista sonoro piuttosto che verbale. Come potevo narrare una storia soltanto tramite i suoni ed i rumori che la compongono? Una caratteristica che favorisce il suono rispetto alla parola è la possibilità di essere modificato e ripetuto in successioni differenti senza per questo risultare noioso. In secondo luogo, consente comunque di identificare un oggetto o un entità ben precisa come un animale, per esempio o un luogo. Infine, il suono stimola attivamente l’immaginazione del bambino permettendogli di inventarsi situazioni narrative sempre
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a sinistra e nella pagina a fianco/ PUPAZZO STORYTELLING, schizzi relativi ai cambiamenti apportati alla prima idea
nuove senza troppi vincoli. Quest’ultimo aspetto, può far sì che il bambino proietti inconsapevolmente sulla storia che racconta bisogni reconditi o stati d’animo di disagio, il chè è l’esatto motivo per cui lo storytelling viene impiegato come terapia in questi casi. Con la soluzione pensata, il progetto assumeva una valenza più interessante e conferiva agli utenti un grado di libertà d’espressione maggiore. Un elemento che non sfruttava ancora a pieno il proprio potenziale era la metafora: perché ad un oggetto che veniva “annusato” idealmente dal pupazzo, doveva corrispondere un suono emesso dalla bocca dello stesso? Volevo rendere la metafora più logica ed inattaccabile, così, cambiai l’input: per fare in modo che il suono venisse riprodotto, l’oggetto doveva essere “mangiato” dal pupazzo. Così facendo, l’intero meccanismo di azione/ reazione sarebbe ruotato intorno alla bocca del giocattolo, e il bambino avrebbe operato in modo più intuitivo. Per rafforzare ancor più questa soluzione, la bocca del pupazzo divenne una tasca in cui infilare le carta e ad ognuna di esse avrei successivamente attribuito un suono specifico. Al fine di mantenere la parte dominante dell’idea iniziale, ovvero la creazione collaborativa di una storia, ho poi deciso di stabilire le categorie che avrebbero strutturato il racconto: tempo meteorologico, luogo, animali, azioni. Ho volutamente omesso i personaggi principali per non ostacolare la fantasia dei bambini ed incentivarli a sviluppare scenari propri. Ogni categoria, a cui appartenevano circa cinque carte, avrebbe avuto un colore differente per individuarle in modo più rapido. Successivamente a questi dettagli ho tentato di ragionare nuovamente sul contesto di utilizzo. Ormai, non aveva più senso limitare l’utilizzo a due soli utenti poiché l’intimità che avevo inizialmente tentato di imprimere a questa idea si era via via dissolta, lasciando posto ad un carattere più dinamico e coinvolgente che avrebbe trovato la sua vera realizzazione nell’utilizzo da parte di un gruppo numeroso di soggetti.
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2 / Imbastendo idee...
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Ho quindi investigato più approfonditamente le situazioni quotidiane interne all’ospedale in cui i bambini si ritrovano in gruppi: momenti di gioco in ludoteca, terapie di gruppo e attese al day hospital sono state quelle che hanno catturato il mio interesse. In particolare, vedevo un tangibile sviluppo rispetto alla condizione di attesa del proprio turno per le terapie cicliche al day hospital: qui si ritrovano bambini che non necessariamente si conoscono, rimangono in sala d’attesa per un tempo relativamente limitato (al massimo mezza giornata) e generalmente hanno sesso, età e patologie differenti. Un gruppo così eterogeneo avrebbe potuto sfruttare facilmente quello che il mio pupazzo aveva da offrire, infatti esso poteva servire a contrastare la timidezza dei bambini più introversi ed aiutarli a socializzare giocando; oppure poteva essere utile per intrattenere bambini che già si conoscono e desiderano ingannare l’attesa con un gioco collettivo. Mi è sembrato che la situazione delle sale di attesa rispondesse esattamente alle mie esigenze, così ho momentaneamente accantonato il livello di rapporto uno ad uno, nella speranza che il pupazzo mancante mi offrisse la soluzione che cercavo. Cominciai, così a ripensare al terzo pupazzo. Inizialmente, doveva essere uno strumento didattico,
utilizzato in un contesto di gruppo per consentire ai bambini di apprendere nozioni sulla loro malattia. Con il cambiamento apportato al contesto d’uso del secondo pupazzo, dovevo fare in modo che fosse il terzo a stabilire una relazione più intima tra due soli utenti, ma di conseguenza il gruppo a cui doveva essere trasmesso il valore didattico si riduceva a due sole persone perdendo di efficacia. Così, iniziai a pensare quale altro stato psicologico poteva richiedere l’intervento di un pupazzo tra due utenti e cercai tra la bibliografia che mi ero procurata spunti utili a questo scopo. Fu proprio in uno dei testi analizzati che lessi il concetto chiave che avrebbe dato una svolta definitiva al terzo pupazzo: mutuo soccorso14. I bambini che condividono lo stato di malato terminale sono portati a sviluppare amicizie particolari, più profonde e durature, che si distinguono nettamente dalle amicizie maturate “prima della malattia”15. Quando due bambini ospedalizzati si avvicinano, inizia tra loro un tacito scambio di comprensione ed affetto intrinseco derivato dalla piena coscienza delle sensazioni reciproche, le quali difficilmente potrebbero essere comprese a pieno da bambini esterni. Nasce così una sorta
(14) AAVV, Il bianco il nero e l’azzurro, AGEOP Ricerca, Bologna 2009, pp. 15–18 (15) Ibid.
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2 / Imbastendo idee...
nella pagina a fianco e a destra / PUPAZZO LUCE, disegni dell’idea così come si presentava alla fine della fase di generazione dei concetti
di mutuo soccorso che interviene nei momenti più duri della degenza e che unisce i due bambini in un rapporto intimo e indissolubile. Questo tipo di legame poteva essere esplorato ed agevolato da uno dei miei pupazzi? Rispettando il binomio relazionale che mi ero imposta di utilizzare, avevo trovato in questa tipologia di affinità il campo ideale nel quale sviluppare i risultati delle mie riflessioni. Avevo un aspetto psicologico a cui riferirmi, avevo due soli utenti relazionati, l’unica cosa che mi restava da identificare era il contesto di utilizzo. Mi venne in mente che potevo attingere ad idee emerse in precedenza e fu così che provai ad immaginare diversi scenari tra cui quello che avevo analizzato per il secondo pupazzo: le stanze dei pazienti. All’imbrunire, nel momento in cui la frenesia del giorno si dipana e i bambini si accingono a dormire, esiste, soprattutto tra i più piccoli, un timore inspiegabile che in diversi modi ha fatto parte dell’infanzia di ognuno di noi, ovvero la paura del buio. Se si unisce tale paura alla già precaria condizione che affligge i bambini degenti, ciò che ne risulta è una situazione di amplificato disagio che il bambino è costretto ad affrontare da solo o, al più, con
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2.6 L’OSPEDALE MEYER DI FIRENZE
i genitori che gli stanno accanto (come previsto in alcune strutture ospedaliere). È in questo contesto che un pupazzo amico, qui come nella vita di un bambino sano, può trovare un riscontro positivo. Ho quindi pensato ad un pupazzo che si attivi come per incanto soltanto durante la notte, dall’ora in cui i bambini ricoverati vengono normalmente messi a dormire, aiutando due bambini che si trovano in stanze separate a comunicare attraverso un semplice e suggestivo gioco di luci e vibrazioni. Mi sembrava di avere raggiunto tre idee di progetto ben strutturate e con possibilità di implementazioni piuttosto numerose. Potevo esplorare varie direzioni in cui muovermi per ottenere ciò che mi ero prefigurata e iniziai, quindi, ad imbastire i vari lembi di idee l’uno con l’altro. 2.5 / QUALE FASCIA D’ETÀ? Una volta giunta a questi risultati, ho perciò cominciato a considerare parallelamente altri fattori indispensabili alla buona riuscita del progetto, tra cui il target di riferimento e un nome rappresentativo e ricco di significato. Imbastiti i meccanismi sottesi ad ogni pupazzo, potevo iniziare
ad approfondire i comportamenti, le interazioni e il funzionamento delle componenti tecnologiche specifiche. Prima di far ciò, però, dovevo definire il target adatto a cui rivolgere il progetto, un altro aspetto saliente che dovevo sviluppare in modo parallelo al resto della ricerca. Ognuno dei pupazzi richiedeva un livello di comprensione ed un interazione differenti per realizzarsi così come lo avevo pensato, quindi non ero in grado di stabilire una fascia di età unitaria. Un bambino di 6 anni poteva capire agevolmente il meccanismo di gioco con il quale operava il terzo pupazzo ma poteva trovare difficoltà nel comprendere il reale scopo del primo pupazzo. Viceversa, un bambino di 12 anni poteva trovare un concreto beneficio derivato dall’uso del primo pupazzo ma annoiarsi nel giocare con il terzo pupazzo. Da questi ragionamenti emerse quindi la necessità di frazionare l’ampio range d’età 6–12 in sezioni specifiche a cui destinare ogni pupazzo. La lettura dei testi relativi ai comportamenti infantili nell’ambito del gioco16 e la sua suddivisione in stadi dell’età evolutiva infantile di Piaget17, mi ha aiutato in modo consistente ad identificare per ogni età gli esatti bisogni ed atteggiamenti conseguenti. Il secondo stadio dell’infanzia
(16) Bruner S.J., Jolly A., Sylva K., Il gioco, vol. I–IV, Armando Armando, Roma 1981 (17) Baldwin L.A., Teorie dello sviluppo infantile, Franco Angelo Libri, Milano 1987, pp. 207–09
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2 / Imbastendo idee...
a sinistra / PERSONAS, Carolina, 8 anni, una delle illustrazione eseguite per identificare le personas che meglio si prestavano all’analisi del servizio
“[...] fa finta di telefonare poi fa telefonare alla sua bambola. Nei giorni seguenti, telefona con degli oggetti qualsiasi.” Piaget J. in Baldwin L.A., Teorie dello sviluppo infantile, Franco Angelo Libri, Milano 1987, p. 252
viene definito da Piaget come pre-operatorio e va dai 2 ai 7 anni: è il periodo di transizione tra il periodo senso-motorio che va dalla nascita ai 2 anni e il periodo delle operazioni concrete, in cui il bambino acquisisce piena coscienza di sé. Il periodo pre-operatorio è quindi caratterizzato da comportamenti sconcertanti e contraddittori poiché, se da un lato il bambino non è ancora in grado di risolvere semplici problemi logici (“tutto ciò che è A è B”), dall’altro dimostra comportamenti sensati e coerenti in situazioni di gioco libero. Non potevo quindi pretendere che bambini rientranti in questa fascia di età, comprendessero a pieno il funzionamento del primo e del secondo pupazzo. Al contempo, però, gli stessi bambini non avrebbero trovato difficoltà a capire la logica messa in atto dal terzo pupazzo. Il terzo stadio analizzato da Piaget viene denominato stadio delle operazioni concrete. In questa fase, che va dai 7 agli 11 anni, il bambino “ha acquisito una concezione rudimentale del tempo, dello spazio, dei numeri, della logica, quelle concezioni fondamentali che sono alla base della nostra comprensione degli eventi e delle cose”. Nonostante ciò, il bambino ha comunque difficoltà ad addentrarsi in concetti più complessi, come volume
e densità, e non è in grado di relazionare gli elementi appresi. Ho quindi ipotizzato che i bambini nel range di età appena descritto, potessero approcciarsi nel modo che avevo previsto al secondo e al terzo pupazzo, mentre probabilmente avrebbero interagito in maniera scorretta con il primo pupazzo. Lo stadio delle operazioni formali è il quarto in successione e vi rientrano i bambini dagli 11 anni in poi. L’acquisizione fondamentale che avviene in questo periodo, è la capacità di comprendere il pensiero causale e la sperimentazioni scientifiche, il bambino sa eseguire esperimenti semplici e trarne le giuste conclusioni comprendendo i meccanismi alla base del pensiero logico. Grazie a questo ulteriore sviluppo, ho dedotto che gli adolescenti in questa fascia d’età avrebbero compreso senza indugi il tipo di interazione prevista da tutti e tre i pupazzi, traendo probabilmente maggior beneficio dalle conseguenze scaturite dal primo e dal secondo, senza però escludere la possibilità di divertirsi anche con il terzo. In conclusione, le età dell’utenza a cui avevo stabilito di rivolgere il mio progetto si differenziavano in maniera sostanziale a seconda del pupazzo preso in esame e partendo da circa i 6 anni si estendevano alla prima adolescenza (circa 12-13 anni).
(18) www.meyer.it
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2.6 / L’OSPEDALE MEYER DI FIRENZE Il passo decisivo che mi è servito per comprendere se stavo operando effettivamente nella giusta direzione, è stato un confronto sul campo con i diretti interessati. Ho tentato, quindi, di contattare diversi enti ospedalieri dotati di un reparto di oncologia pediatrica al fine di ottenere interviste e pareri attendibili e tra le tante risposte negative ricevetti un feedback favorevole dall’Ospedale Pediatrico Meyer di Firenze18. Mi sono recata presso tale struttura sottoponendo il personale ad una serie di domande mirate a fornirmi delucidazioni in merito al progetto. Le interviste rivolte a medici ed infermieri hanno confermato molti dei punti salienti che costituivano la mia tesi, consentendomi di procedere in modo più sicuro e consapevole attraverso la mia ricerca. In particolare, ho appurato come sentimenti relativi allo stato psicologico dei soggetti, quali il rancore verso i genitori, la sensazione di smarrimento, la colpevolezza, la timidezza, la solitudine e la paura siano all’ordine del giorno in queste realtà e sottopongano i bambini e le loro famiglie ad un costante stress fisico ed emotivo. La dottoressa Angela Savelli, responsabile del Rischio Clinico, si è incaricata di guidarmi attraverso i reparti illustrandomi l’organizzazione dei vari spazi dell’ospedale, i tipi di patologie trattate, l’approccio del personale medico ai bambini e il come viene affrontata la degenza dai piccoli pazienti e dalle loro famiglie. Ho potuto constatare come l’intero ospedale fosse realizzato a misura di bambino in ogni dettaglio: sedie e tavolini colorati, disegni alle pareti, giocattoli e il sorriso costante del personale e dei membri delle associazioni di volontariato, quali i Clown in Corsia19, apportano un tangibile sostegno alla quotidianità dei bambini permettendo loro di svagarsi e dimenticare, anche solo per un attimo, la terribile condizione che li affligge. Sono stata, poi, accompagnata nella ludoteca del centro, un’area dedicata esclusivamente alla didattica e
(19) L’associazione dei Clown in Corsia prevede la preparazione di persone volontarie le quali, attraverso la clown terapia, andranno negli ospedali a diveritre ed a portare un sorriso ai pazienti. www.clownterapia.it
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2 / Imbastendo idee...
a sinistra e sotto / LA STRUTTURA, vedute interne dell’ospedale Meyer di Firenze e clown all’opera nel reparto di oncologia pediatrica
al divertimento che rende i bambini protagonisti attivi di un angolo coloratissimo e ricco di stimoli. Questo spazio, presente in non molte strutture ospedaliere, viene gestito da una serie di insegnanti ed educatori altamente qualificati che provvedono giornalmente all’organizzazione di attività educative ed interessanti che coinvolgono in prima persona bambini e genitori. La giornata trascorsa all’ospedale Meyer mi ha suggerito spunti di riflessione che non avevo ancora considerato e mi ha fornito una panoramica più dettagliata e realistica in merito alla situazione vissuta ogni giorno da centinaia di bambini. 2.7 / IL NOSTRO NOME É... Data la difficoltà e la stremante ricerca dovute alla scelta di un titolo di progetto appropriato, mi sento in dovere di dedicare a tale processo un breve paragrafo. Fin dalle prime fasi, ho deciso di effettuare un rapido brainstorming relativo a tutti i concetti principali che ruotavano attorno al progetto, al fine di identificare categorie ed aree semantiche che avrebbero dovuto direzionarmi verso la scelta più attinente a ciò che volevo
comunicare. In previsione di una futura divulgazione del progetto in rete, desideravo che il titolo esprimesse l’origine del progetto, qualcosa di affine alla mia persona, quindi optai quasi immediatamente per un titolo in lingua italiana. Quest’ottica non trovò subito riscontri positivi, al punto tale che approdai alla traduzione di concetti italiani in diverse lingue che risultassero foneticamente piacevoli: Nukkèni, ovvero “Le mie bambole” in svedese, fu quindi la prima soluzione. Nonostante il suono fosse gradevole e orecchiabile, non era mia intenzione affibiare ai tre pupazzi un nome semplicemente “carino”. Volevo che attraverso di esso, le mie tre creature suggerissero indirettamente all’utente il loro significato e svelassero parte del loro utilizzo. Un altro filtro che dovevo necessariamente tenere in considerazione era il genere maschile o femminile del nome che avrei scelto. I pupazzi dovevano presentarsi in modo tale da rendersi appetibili sia ai maschi che alle femmine, quindi la scelta di un nome abbastanza neutrale o più tendente al maschile era obbligata: era ragionevole, infatti, pensare che una bambina potesse giocare con un pupazzo dal nome e dalle sembianze maschili tendenti
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a destra / LETTERING, prime prove dell’ipotetico logo e sketch dei nomi definitivi
all’astratto, ma non che un bambino confidasse i propri segreti ad un pupazzo dalle caratteristiche prettamente femminili. Avevo un’idea preliminare dalla quale partire e iniziai a listare per ogni pupazzo i termini che ne caratterizzavano l’aspetto formale e l’utilizzo. Il primo pupazzo aveva il preciso obiettivo di custodire le ansie recondite dei bambini quindi concetti come confidare, preservare, sussurrare, bisbigliare, rivelare, sfogarsi, silenzio, angoscia, segreto, ansia, custode, guardiano, difensore, confidente ed amico potevano ritenersi adatti. Per il secondo pupazzo i termini appropriati potevano essere timidezza, solitudine, amicizia, contatto, soccorso, aiuto, sostegno reciproco, calore, presenza, luce e conforto. Infine, per il terzo individuai collettività, collaborazione, cooperazione, storia, narrazione, racconto, fiaba, favola, menestrello, cantastorie, socializzazione ed intrattenimento. Successivamente, ricercai nomi propri la cui etimologia o significato corrispondesse alle aree identificate e dopo aver scandagliato decine e decine di nomi ottenni per ogni pupazzo un nome che mi soddisfava: Odo, Lucio e Tello. Odo, riprendeva in un certo senso il prefisso del verbo udire e si addiceva quindi al primo pupazzo; Lucio,
richiamava il concetto di luce, elemento dominante del secondo pupazzo; Tello, infine, portava alla mente il verbo inglese to tell, raccontare, che italianizzato mi sembrava assumesse proprio il sapore nostrano che ricercavo. Per il nome familiare, l’impresa fu più ardua. Passai in rassegna il vocabolario della lingua italiana 20 e feci una cernita fino ad arrivare alla seguente lista: Factotum, Alter Ego, Mimmi, Pupi e Mirabilia. Factotum, di chiara derivazione latina, significa tuttofare e poteva essere associato alle molteplici e diversificate azioni compiute dai pupazzi; il suono, però, risultava duro e spigoloso e quindi inadatto a tre giocattoli soffici e dall’aspetto arrotondato. Alter Ego, si presentava come il migliore in termini di significato poiché suggeriva l’alternanza di ruoli tra bambino e pupazzi propria del progetto; per gli stessi motivi del precedente però, questo nome non poteva essere utilizzato. Mimmi e Pupi sono declinazioni dialettali della parola “bambino”, foneticamente piacevoli ma di poco spessore concettuale. Fu su Mirabilia che ricadde la mia scelta finale, poiché il termine coniugava l’aspetto di sorpresa celato dietro ai comportamenti dei pupazzi e un suono proprio della sfera infantile, quasi paragonabile ad un tintinnio.
“Mirabilia (voce lat.; pr. mirabìlia) n. pl. – Cose meravigliose. È comune soprattutto nelle espressioni dire, raccontare mirabilia di qualcuno o di qualcosa, dirne molto bene, farne grandi lodi […]” De Felice E., Duro A., Vocabolario italiano, G.B. Palumbo Editore, Torino 1994
(20) De Felice E., Duro A., Vocabolario italiano, G.B. Palumbo, Torino 1994
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2 / Imbastendo idee...
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2 / Imbastendo idee...
a sinistra / LA MIMICA, primi studi riguardanti l’aspetto formale dei tre pupazzi sotto / I MIRABILIA, modelli preliminari
Il progetto risultava abbozzato più o meno in ogni sua parte. Un aspetto fondamentale che dovevo ancora prendere in considerazione era il punto di vista formale ed estetico, il quale avrebbe giocato un ruolo decisivo nell’ottenimento dei risultati sperati. A partire da queste riflessioni, nel capitolo seguente approfondirò l’iter progettuale che mi ha condotto alla definizione di forme, colori, interazioni e contesti d’uso. 2.8 / I PRIMI MODELLI 2.8.1 / Odo Dopo gli schizzi preliminari che mi occorrevano per capire proporzioni e misure, mi sono approcciata per la prima volta alla macchina da cucire. L’incontro non è stato dei più proficui inizialmente, ma una volta imparati alcuni fondamenti essenziali e domati chilometri di fili e stoffe, sono riuscita nel mio intento. L’aspetto prevalentemente canino che caratterizza Odo, mi ha condotto a scegliere delle stoffe dai colori caldi ed avvolgenti come i gialli, gli ocra e i rossi. Ovviamente, il contesto ospedaliero è stato vincolante per la scelta del materiale in quanto, per ovvie ragioni igieniche, ho preferito optare per un
tessuto di cotone piuttosto che per una lana o un peluche. Ho mantenuto la stessa linea di pensiero per tutti e tre i pupazzi, i quali sono stati quindi realizzati interamente in cotone, facilmente lavabile. Dovendo, poi, decidere come far risaltare le aree destinate all’interazione, ovvero le mani, le orecchie e le guance, ho accostato i tessuti che avevo selezionato e la trama rossa a pois bianchi mi è parsa la più indicata per adempiere a questo dovere. Ho tracciato i profili delle varie parti del corpo che sarei successivamente andata ad unire e ho iniziato a tagliare ed assemblare i lembi di tessuto l’uno con l’altro. La realizzazione delle mani è stata la più complessa, poiché dovevo cucire assieme due stoffe che non condividevano gli stessi punti di cucitura e presentavano consistenze nettamente diverse. Il risultato, infatti, non è stato impeccabile ma per il momento mi interessava principalmente capire quali dimensioni e quale aspetto complessivo avrei ottenuto. Una volta terminate le rifiniture del volto e dell’espressione, ho imbottito il tutto con ovatta sintetica, la quale ha conferito ad Odo la sofficità propria di un vero peluche. Le misure finali erano di circa 30 cm di altezza per 20 di larghezza. Il primo modello mi soddisfava abbastanza e mi dava l’opportunità
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a sinistra / ODO, imbottitura e dettagli nella pagina a fianco/ LUCIO, fasi di cucitura e pupazzo finale
di trovarmi per la prima volta faccia a faccia con la mia idea. L’imbottitura interna e la cucitura di chiusura del pupazzo sono poi state riviste nella fase di prototipazione finale, nella quale ho dovuto tenere in considerazione l’ingombro delle componenti elettroniche atte a renderlo funzionante. Questa riflessione è avvenuta per tutti e tre i modelli dei pupazzi ed è una tematica che verrà affrontata in maniera più approfondita nel paragrafo relativo al prototipo finale. 2.8.2 / Lucio Memore dell’esperienza di cucito affrontata con Odo, Lucio si è rivelato più veloce da eseguire. La scelta delle stoffe è stata la conseguenza naturale dell’ambito nel quale avevo deciso di inserire il pupazzo. Pensando ad un contesto notturno, infatti, ho optato per colori pastello appartenenti alla palette dei blu che oltre a ricordare proprio il cielo della notte, potevano essere attribuiti ai tradizionali pigiama da bambino. Nonostante l’azzurro possa ricordare un mondo prettamente maschile, la tonalità tenue scelta e i lineamenti dolci di Lucio, lo rendono appetibile anche per la categoria femminile. La trama a pois che contraddistingue le zone interattive è tono su tono con l’azzurro dominante di cui è costituita gran parte del corpo, mentre il viso è incorniciato in una materica tela grezza color naturale. Gli occhi chiusi di questo strano essere, che ricorda nelle orecchie un gatto, gli conferiscono un’espressione beata, proprio come se stesse riposando accanto al suo bambino. Ho personalmente cucito l’intera struttura, dalla mimica facciale alle giunture del corpo, prestando particolare attenzione agli inserti delle altre stoffe per rendere il tutto omogeneo e bilanciato cromaticamente. Lucio misura circa 30 cm di altezza per 20 cm di larghezza ed è imbottito con ovatta naturale, che lo rende soffice al tatto ma compatto. Questo primo modello mi è servito per comprendere al meglio le dimensioni in rapporto alla persona, la consistenza e l’effetto complessivo che su carta era impossibile da riprodurre.
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2 / Imbastendo idee...
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2.8.3 / Tello Durante la fase di realizzazione del primo modello di Tello, non mi erano ancora ben chiari gli elementi che sarebbero andati a comporlo. Infatti, avendo inizialmente previsto l’uso di carte, l’imbastitura preliminare del pupazzo prevedeva una bocca/tasca, la quale avrebbe ospitato agevolmente le carte che vi sarebbero state infilate. Ho, quindi, cominciato a cucire le varie componenti partendo dal corpo e risalendo verso il muso; una volta giunta alla cucitura della mimica facciale, però, la situazione si è complicata, poiché fare in modo che la suddetta zona soddisfacesse al contempo le caratteristiche di tasca e le sembianze di bocca risultava alquanto difficile. Così, ho assemblato differenti modelli di bocca da accostare successivamente al pupazzo ma nessuno di essi mi sembrò particolarmente adatto e optai, quindi, per quello più vicino ai canoni che mi ero prefissata. L’utilizzo della bocca come riproduttore di suoni è abbastanza basilare ed intuitivo, per cui mi incuriosiva trovare un modo per rafforzare la sua immagine con un elemento aggiuntivo. Attraverso cosa la bocca poteva generare un suono? Usare un alimento per assolvere a
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questo compito fu una conseguenza logica. La scelta ricadde sul leccalecca il quale, oltre a prestarsi in maniera ottimale ad essere adottato come mezzo poiché è un dolce tipico del periodo infantile, nasce per essere soltanto leccato anziché masticato ed ingoiato, il chè mi agevolava ulteriormente nella rifinitura dell’interazione: dato che ad ogni turno il leccalecca corrispondente ad un determinato suono cambia, non occorre che esso sia inserito e mantenuto all’interno della bocca ma è sufficiente che venga avvicinato alla lingua per il tempo necessario a riprodurre il suono associato e successivamente posato di nuovo a terra. Il rischio che si correva con le carte era quello di far dimenticare al bambino la carta all’interno della bocca, ostacolando l’inserimento della carta successiva. Il cambiamento del mezzo di comunicazione, da carta a leccalecca, ha facilitato la creazione del volto, poiché non necessitavo più di una cavità in cui inserire qualcosa ma era sufficiente una superficie piana che ricordasse una lingua a cui avvicinare il leccalecca. Con le modifiche apportate, il progetto assumeva un carattere più consistente e coerente e mi consentiva anche di rendere la fisionomia del modello più comprensibile ed immediata. Il colore dominante che ho scelto di utilizzare
2 / Imbastendo idee...
a sinistra / TELLO, modello preliminare con la bocca/tasca a destra / TELLO, bocche ed espressioni a confronto
per realizzare Tello è il rosso, vista la vivacità e l’allegria che si propone di generare. Per le orecchie ho adottato una stoffa a quadretti tono su tono al fine di rendere i volto più movimentato mentre l’unica zona propriamente interattiva è la bocca, che ho deciso di caratterizzare con stoffe di altri toni che risaltano sul rosso. Tello, come gli altri, misura circa 30 cm di altezza per 20 cm di larghezza ed ha un’espressione buffa e divertita. 2.9 / VERSO LA DEFINIZIONE DELL’IDEA Arrivata a questo punto, possedevo tutti gli elementi necessari che mi occorrevano per realizzare la versione definitiva del progetto. I passi successivi che affrontai furono: la definizione finale delle interazioni, ponendo particolare attenzione nella cura dei dettagli riguardanti input ed output, l’allestimento di scenari convincenti e ben strutturati che fornissero la chiave di lettura corretta del progetto e la realizzazione pratica dei circuiti interni atti a consentire il funzionamento dei comportamenti previsti fino ad allora per i pupazzi. La strada era ancora lunga e dovevo tentare di sviluppare in parallelo una miriade di fattori al fine di non lasciare nulla al caso.
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/ I MIRABILIA, STOFFA DA VENDERE!
3.1 / IL PROGETTO FINALE 3.2 / ODO, UN CUSTODE DI SEGRETI: INTERAZIONI E SCENARI 3.3 / LUCIO, UN AMICO NELL’OSCURITÀ: INTERAZIONI E SCENARI 3.4 / TELLO, IL NARRATORE DI SUONI: INTERAZIONI E SCENARI 3.5 / I PROTOTIPI FINALI 3.5.1 / Odo: componenti e struttura 3.5.2 / Lucio: componenti e struttura 3.5.3 / Tello: componenti e struttura 3.6 / COSTI DI REALIZZAZIONE
3 / I MIRABILIA, STOFFA DA VENDERE!
3.1 / IL PROGETTO FINALE L’intero iter progettuale descritto nei paragrafi precedenti, giunge qui alla sua logica conclusione con la descrizione che affronta nel dettaglio le fasi finali che conducono alla concretizzazione della mia tesi. I Mirabilia sono una famiglia costituita da tre pupazzi interattivi per bambini degenti, volti a migliorare le relazioni interne all’ospedale che vengono ad instaurarsi tra essi e gli altri soggetti coinvolti (medici, psicologi, infermieri, altri bambini, ecc.). Tali pupazzi, attraverso differenti modalità di interazione e livelli relazionali, prendono in considerazione l’atteggiamento prettamente psicologico dei piccoli pazienti e tentano di assolvere ai complessi stati emotivi che, a causa della loro condizione di ospedalizzazione, essi sono spesso costretti ad affrontare e a condividere. I pupazzi sono caratterizzati da un aspetto buffo e stravagante che richiama il mondo animale e li rende accattivanti dal punto di vista formale. Dato il complicato contesto di utilizzo in cui il progetto si andava a collocare e la particolarità delle interazioni, mi è parso opportuno evitare di sovraccaricare la mimica facciale e la
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caratterizzazione corporea dei pupazzi, al fine di conferir loro l’aspetto più semplice ed intuitivo possibile. Non potendo quindi contare sull’utilizzo di elementi aggiuntivi che avrebbero reso i pupazzi fuorvianti nel momento dell’interazione, ho tentato di amplificare il loro appeal tramite l’uso di stoffe materiche dai colori accesi le quali, a seconda delle zone che coinvolgono le interazioni, cambiano consistenza e texture. In questo modo, nonostante la caratterizzazione formale sia ridotta ai minimi termini, I Mirabilia sono in grado di attrarre l’utente conducendolo in modo indiretto ma immediato alla corretta modalità di fruizione. È altresì vero che risulta impossibile prevedere con precisione se i bambini reagiranno nella maniera ipotizzata ai tre pupazzi, rispondendo agli stimoli secondo le interazioni programmate. Ecco perché, ragionando sulle modalità di cosegna con cui I Mirabilia dovrebbero giungere alla portata degli utenti, ho previsto il diretto coinvolgimento del personale ospedaliero che segue in modo continuo la degenza dei bambini. A seconda delle necessità e attraverso canali differenti, saranno i medici, gli psicologi e gli altri addetti alla cura dei piccoli pazienti a provvedere alla consegna e alla
3 / I Mirabilia, stoffa da vendere!
a sinistra / I MIRABILIA, foto d’insieme a destra / I MIRABILIA, dettagli delle cuciture dei tre pupazzi
spiegazione dell’utilizzo dei tre pupazzi nei momenti che essi riterranno più opportuni. Una volta individuati i diversi stadi psicologici in accordo con le fasce di età in cui i bambini si trovano, il personale ospedaliero avrà la possibilità di offrir loro uno strumento alternativo dal qual trarre benefici a livello emotivo. Questo comporta inevitebilmente che Odo, Lucio e Tello siano prodotti e successivamente distribuiti alle strutture ospedaliere anziché ai comuni negozi di giocattoli, poiché nonostante la loro parvenza di giocattoli, essi mirano a soddisfare obiettivi e bisogni ben diversi dal semplice atto ludico. Non ho, perciò, potuto immaginare di allargare la fruizione ad un pubblico più vasto immettendo il prodotto direttamente sul mercato, poiché il target a cui intendevo rivolgere il mio progetto possedeva caratteristiche precise ed appartenti ad uno specifico settore di utenza. Andrò ora a descrivere approfonditamente per ogni pupazzo le varie caratteristiche che lo contraddistinguono, analizzando le interazioni con l’utente, gli scenari in cui ogni pupazzo interviene, gli ipotetici benefici derivanti dall’utilizzo e le fasi di realizzazione dei prototipi, con particolare attenzione alla descrizione delle componenti elettroniche che li costituiscono e li rendono funzionanti.
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3 / I Mirabilia, stoffa da vendere!
a sinistra / ODO, le fasi dell’interazione a destra / ODO, dettaglio dell'interazione
3.2 / ODO, UN CUSTODE DI SEGRETI: INTERAZIONI E SCENARI Odo è un buffo pupazzo dall’aria pensierosa che ricorda un cane. La sua peculiarità è quella di ascoltare e custodire angosce e paure del bambino che lo possiede, rivelandole al medico, allo psicologo o al bambino stesso, solamente nel momento in cui il bambino si sentirà pronto a farlo. È frequente che i bambini degenti in ospedale, soprattutto nel momento del ricovero, provino un senso di straniamento e colpevolezza che non sono in grado di riferire in maniera esplicita agli adulti che li circondano (medici, infermieri, psicologi, genitori, ecc.). La loro realtà viene stravolta e sono improvvisamente catapultati in una quotidianità che non gli appartiene. Questo sentimento li accompagna, soprattutto per il primo periodo di degenza, e se non ha la possibilità di essere esternato può dare adito a stati emotivi estremamente fragili e delicati con risvolti, in alcuni casi, più gravi e prolungati. Odo va ad inserirsi esattamente all’interno di questo contesto, permettendo al bambino introverso, che si trova idealmente solo nella sua stanza, di avere una sorta di amico immaginario su cui contare e con cui instaurare
un rapporto intimo ed introspettivo. Se si trova in uno stato di angoscia o di smarrimento, se prova la necessità di esternare le proprie paure o se semplicemente sente il bisogno di sfogarsi, il bambino può afferrare Odo, che prima di allora risultava spento, e attuare il gesto combinato1 che gli permette di attivarsi (fig. 1). Tale gesto consiste nell’afferrare la mano del pupazzo, indifferentemente destra o sinistra, e sollevare contemporaneamente l’orecchio opposto (entrambi caratterizzati da una stoffa di colore differente), mettendo così in moto il flusso di interazione e consentendo ad Odo di iniziare a registrare il segreto che il bambino sta per confidargli (fig. 2). Una volta finito di bisbigliare il segreto, il bambino rilascerà mano e orecchio del pupazzo consentendo a quest’ultimo di terminare la registrazione e riproporla sottoforma di rossore delle guance (fig. 3). Questo output è un diretto riferimento al comportamento antropomorfo poiché, l’arrossamento delle guance da parte dell’uomo, è una chiara manifestazione del corpo per indicare vergogna o timidezza. In tal modo avviene una sorta di passaggio di identità tra il bambino e il pupazzo, poiché simbolicamente, una volta venuto a conoscenza di una rivelazione importante, Odo si incarica di preservare
(1) La necessità di introdurre un movimento combinato, nasce dal volontà di evitare che il bambino, durante un momento spontaneo di gioco con il proprio pupazzo, inneschi accidentalmente il meccanismo di registrazione.
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a destra / ODO, illustrazione dello scenario sviluppato
tale segreto diventando così complice e portatore del medesimo sentimento negativo. Le guance iniziano a lampeggiare lievemente, in maniera lenta e cadenzata e con una scarsa intensità luminosa. Nonostante la presenza del rossore, il bambino potrà comunque continuare a giocare con il suo pupazzo poiché, grazie all’introduzione del gesto combinatorio necessario ad attivare la registrazione, è possibile presupporre che il bambino non inneschi accidentalmente il meccanismo di registrazione. Parallelamente al trascorrere di un tempo che può andare da uno a sette giorni 2 lo stato di vergogna in cui si trova Odo si “aggrava” progressivamente manifestandosi attraverso una costante accelerazione delle pulsazioni del rossore delle guance e con un evidente incremento di intensità luminosa (fig. 4, p. 86). Rendendosi conto di questa situazione, il bambino sarà portato, in via ipotetica, a sottoporre Odo alle cure di un medico per alleviare allo stato di inquietudine in cui esso risiede. Ciò gli consentirà, quindi, di liberare il pupazzo dal peso del segreto che custodisce e la modalità in cui questo avverrà sarà il battito delicato di tre colpi sulla schiena di Odo (fig. 5, p. 86). Anche in questo caso, la scelta dell’interazione riporta ad un’espressione metaforica utilizzata dall’essere umano
in condizioni analoghe ovvero, “sputare il rospo” e prevede un gesto particolare per evitare che, giocando con il proprio pupazzo, il bambino attivi inavvertitamente la riproduzione della registrazione del segreto. Battere questi tre colpi sulla schiena di Odo, rappresenta la volontà del bambino di alleggerire la coscienza sua e del suo pupazzo facendogli “sputare” ciò che affligge entrambi. La situazione ottimale che recherebbe al bambino il giovamento maggiore sarebbe quella in cui Odo, una volta ricevuti i tre colpetti, riproduce la registrazione effettuata in precedenza (fig. 6, p. 86) in presenza di un medico o di uno psicologo, il quale, appreso il malessere interiore del bambino per bocca del pupazzo, potrà così provvedere in modo tangibile a curare lo stato psicologico del bambino in questione. Un altro meccanismo ugualmente ipotizzabile è altresì che il bambino preferisca prendere consapevolezza delle proprie debolezze riascoltando lui stesso ciò che ha confidato al pupazzo, in modo tale da interiorizzare ed assimilare l’angoscia che lo accompagna secondo modalità differenti. Oppure può succedere che il segreto non venga affatto riprodotto una volta trascorsi i sette giorni previsti, nel qual caso nulla accadrebbe se non lo spegnimento graduale delle guance.
“Sputare il rospo - Decidersi a parlare di qualcosa che non si intendeva dire per timore, per scrupolo, per pudore e così via, e che in ogni caso costituisce motivo di malumore, preoccupazione, sofferenza [...].” dizionari.corriere.it/dizionario-modi-di-dire/R/rospo.shtml
(2) In questo arco temporale, la luce corrispondente al rossore delle guance permane soltanto quando il pupazzo viene utilizzato. Nel caso in cui il bambino non giochi con Odo, la luce rimarrà spenta per ovvie ragioni di consumo energetico.
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3 / I Mirabilia, stoffa da vendere!
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3 / I Mirabilia, stoffa da vendere!
nella pagina fianco / ODO, scenario di utilizzo a destra / ODO, modalità di consegna
Prendendo in considerazione i primi due casi però, una volta terminato il flusso di interazione, il segreto appena rivelato non sarà più riproducibile poiché è possibile riascoltare la stessa registrazione una ed una sola volta. Tale rigidità in un certo senso, dovrebbe stimolare i bambini ad affrontare seriamente le possibilità offerte da Odo, evitando di usare il pupazzo come un semplice riproduttore di voci e suoni. Ovviamente, non è possibile prevedere con sicurezza come i bambini si approcceranno al pupazzo ma per guidarli nella giusta direzione occorrerebbe, innanzitutto, un’introduzione preliminare alla corretta fruizione di Odo. Ho previsto che questo compito, assieme alla vera e propria consegna del pupazzo, venga assolto dai medici e dagli psicologi che si presentano per la prima volta al bambino nel momento in cui esso inizia il periodo di ricovero, in modo tale da essere agevolati nel trattamento della condizione psico-emotiva del bambino e da guadagnare immediatamente la sua fiducia proponendogli un giocattolo utile ed interessato alle sue necessità.
3.3 / LUCIO, UN AMICO NELL’OSCURITÀ: INTERAZIONI E SCENARI Lucio è un pupazzo dall’aspetto strambo, nato per essere utilizzato in coppia con un suo simile al fine di generare una comunicazione basata sul rapporto di mutuo soccorso esistente tra due bambini affettivamente uniti. All’imbrunire, nel momento in cui i bambini si accingono a dormire può accadere che essi affrontino un momento di sconforto dovuto alla loro condizione, non riescano ad addormentarsi, abbiano paura del buio o desiderino semplicemente sentire accanto a loro una presenza amica. È in questo determinato frangente che Lucio può intervenire apportando il suo aiuto e contribuendo a superare positivamente questa delicata situazione. Il bambino, infatti, può decidere di abbracciare il suo pupazzo, premendogli la parte del corpo contraddistinta dai pois, ossia il ventre (fig. 1a, p. 103); tale gesto verrà comunicato esclusivamente al pupazzo associato in possesso del migliore amico del bambino (o di chiunque altro si voglia coinvolgere), il quale visualizzerà questa sorta di richiesta d’aiuto attraverso una luce rossa intermittente presente
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a destra / LUCIO, dettaglio del pupazzo nella pagina seguente / LUCIO, fasi consecutive del flusso di interazione
nella mano del suo pupazzo, corrispondente all’altra zona caratterizzata dalla stoffa a pois (fig. 1b, p. 103). L’amico potrà quindi trasmettere il proprio supporto emotivo stringendo e mantenendo premuta la suddetta mano del pupazzo (fig. 2b), comunicando immediatamente questa risposta all’amico bisognoso, la quale si manifesterà attraverso il lieve lampeggiare di una luce blu e di una quasi impercettibile vibrazione presente nel ventre del primo pupazzo (fig. 2a). Questi stimoli persisteranno fin tanto che l’amico del bambino terrà stretta la mano del suo pupazzo; infatti, nel momento in cui la mano di Lucio verrà rilasciata (fig. 3b), la vibrazione ed entrambe le luci, sia quella rossa nella mano del secondo pupazzo sia quella blu nel ventre del primo, si spegneranno gradualmente (fig. 3a). Nel caso in cui l’amico stia dormendo o non stringa la mano del pupazzo per altre ragioni, il pupazzo del bambino richiedente rimarrà semplicemente spento. L’ipotetica atmosfera che verrà a crearsi risulterà rilassante e confortante per il bambino da cui è partito il primo feedback, il quale potrà percepire concretamente, attraverso molteplici haptics, il contatto amichevole offertogli dalla persona a cui il suo pupazzo è associato. Il vicendevole soccorso sotteso a questo meccanismo si
rivela e si realizza soltanto tramite un intimo gioco di luci e vibrazioni che, grazie al contesto della penombra della stanza, riproduce un effetto piacevole e rassicurante. Tale situazione è garantita dalla forzata attivazione del pupazzo soltanto nella fascia oraria 20.00–07.00, range temporale nel quale i bambini generalmente dormono nelle loro stanze trovandosi, quindi, in una condizione di semi-oscurità. La scelta del colore blu per la luce di risposta, infatti, non è casuale poiché proprio questo colore risulta poco invasivo ma ben visibile nell’oscurità e viene già utilizzato in casi analoghi per illuminare percorsi all’interno della casa senza, però, infastidire. Per incrementare, poi, la sensazione di una presenza tangibile, ho scelto di non utilizzare una luce statica bensì lampeggiante e di intensità graduale (fade-in e fade-out3), volta a richiamare quasi il ritmo di un respiro. Inizialmente, la luce del ventre ipotizzata era gialla, ma ciò comportava una luminosità troppo elevata e non in linea con la gamma cromatica di Lucio, basata sui toni dell’azzurro. In concomitanza a questa spia luminosa, l’attivazione di una lieve vibrazione renderà il feedback di risposta ancor più credibile, riproducendo un delicato e ritmato
(3) La traduzione del termine fading indica dissolvenza. Quindi, le espressioni fadein e fade-out significano rispettivamente dissolvenza in apertura e dissolvenza in chiusura. dizionari.corriere.it/dizionario_inglese/Inglese/F/fade-in.shtml
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3 / I Mirabilia, stoffa da vendere!
a sinistra / LUCIO, illustrazione rappresentante le modalità di consegna
“[...] l'interazione con gli amici consente di riconoscere le proprie esperienze emotive e le probabili reazioni degli altri.” Scarponi D., Il bianco il nero e l'azzurro, AGEOP, p. 13
movimento che rimanda volutamente al rumore delle fusa di un gatto. Questa scelta coincide perfettamente con l’aspetto prettamento felino di Lucio, generando una figura caratterizzata da stimoli coerenti con essa. Il colore rosso, invece, caratteristico della luce intermittente che compare nella mano del pupazzo chiamato in aiuto, è stato scelto esplicitamente per richiamare all’immaginario un segnale di pericolo e di urgenza, generalmente rappresentato proprio da questo colore, per attirare tempestivamente l’attenzione del secondo bambino. L’interazione appena descritta è reciproca, ovvero non avviene a senso unico ma può essere riprodotta in egual modo da entrambi i soggetti coinvolti. Come risulta ovvio dall’analisi delle interazioni e dei comportamenti che ne derivano, le modalità di utilizzo e la piena comprensione del funzionamento del pupazzo non possono essere appresi dagli utenti senza una spiegazione preliminare, nonostante la successiva immediatezza conseguente al primo utilizzo. Per questo motivo ho ipotizzato che Lucio venga consegnato ai bambini presi in cura dall’ospedale nel momento in cui si ritenga necessario per loro un periodo di degenza. Tale situazione getterà i presupposti per l’utilizzo
del pupazzo poiché, in un periodo di ricovero prolungato, è plausibile prevedere che i bambini stringeranno amicizie con altri coetanei ed alloggeranno nelle stanze offerte dalla struttura ospedaliera. Il personale incaricato di gestire la terapia dei soggetti, ovvero infermieri, psicologi e medici, può ritenersi in possesso dei requisiti necessari per affidare il pupazzo ai bambini in cura e spiegar loro il corretto utilizzo dello stesso nella maniera più opportuna. In questo modo, i bambini potranno prendere coscienza dei mezzi a loro disposizione, decidendo poi se usufruirne o meno. Nessuna reazione, però, è completamente prevedibile, quindi ciò che descrivo qui rappresenta la condizione ottimale affinchè gli utenti traggano i reali benefici che il pupazzo sarebbe in grado di offrir loro. Lo scenario che vado a proporre nelle pagine seguenti servirà a rendere più chiaro il contesto di utilizzo e lo svolgersi dei processi sopracitati.
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a destra / TELLO, particolare della lingua nella pagina a fianco / TELLO, la suddivisione in colori dei leccalecca e le prime fasi dell’interazione
3.4 / TELLO, IL NARRATORE DI SUONI: INTERAZIONI E SCENARI Il terzo ed ultimo pupazzo che vado qui ad esaminare si chiama Tello, un pupazzo assimilabile ad uno strano coniglietto il cui scopo è quello di far vincere ai bambini ospedalizzati la timidezza attraverso un gioco di storytelling collettivo. Tramite questo pupazzo, i bambini appena introdotti alle terapie come i neodegenti, quelli in attesa per le visite del day hospital o quelli che si recano ciclicamente in ospedale per i controlli di routine, avranno la possibilità di interagire tra di loro e conoscersi in modo divertente. La caratteristica psico-emotiva principale che accomuna tutti i soggetti sopracitati, è l’estraneità verso gli altri pazienti e l’ambiente ospedaliero: infatti, è presumibile che i bambini appena ricoverati o quelli che effettuano terapie cicliche, non abbiano familiarità con il contesto in cui vengono immersi poiché, i primi non l’hanno mai incontrato prima di allora e gli altri non lo frequentano con una regolarità tale da poter stringere relazioni profonde. Nell’esaminare queste condizioni di transito è facile imbattersi in bambini che rimangono in disparte con i
genitori, annoiandosi ed innervosendosi durante l’attesa e di conseguenza diventando insofferenti. La timidezza nell’approcciarsi all’altro tipica di molti bambini, è presente in maniera evidente nei soggetti inseriti in queste particolari tipologie di contesto. Da tali riflessioni è nato Tello e il gioco annesso: ogni bambino che si trova nella sala d’attesa e desidera giocare, entra in possesso di un pupazzo, munito di connessione wireless Bluetooth4 o ZigBee5, grazie alla quale si sincronizza in tempo reale con gli altri pupazzi presenti nel medesimo ambiente emettendo un suono, e di un set comune di sedici leccalecca, quattro per quattro colori differenti, corrispondenti a determinate parti di una storia (blu = tempo meteorologico = pioggia, vento, temporale e sole; verde = luoghi = castello, città, mare e bosco; giallo = oggetti = vetro rotto, sparo di fucile, schiocco di bacio e melodia di flauto; infine, rosso = animali = uccelli, cavallo, lupo e mostro). Il gioco inizia con l’accensione di una luce colorata in corrispondenza della lingua di uno dei pupazzi, scelto a caso tra quelli presenti (fig. 1); il bambino associato al pupazzo in questione può, così, accostare alla lingua del suo pupazzo uno dei quattro leccalecca del colore
(4) Bluetooth è una specifica industriale per reti personali senza fili (WPAN: Wireless Personal Area Network). Fornisce un metodo standard, economico e sicuro per scambiare informazioni tra dispositivi diversi attraverso una frequenza radio sicura a corto raggio. it.wikipedia.org/wiki/Bluetooth
(5) ZigBee è il nome di una specifica per un insieme di protocolli di comunicazione ad alto livello che utilizzano piccole antenne digitali a bassa potenza. Questa tecnologia ha lo scopo di essere più semplice e più economica di altre WPAN come, ad esempio, Bluetooth. it.wikipedia.org/wiki/Zigbee
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BLU / TEMPO
VERDE / LUOGHI
GIALLO / OGGETTI
ROSSO / ANIMALI
/ pioggia
/ castello
/ vetro rotto
/ uccelli
/ vento
/ cittĂ
/ sparo di fucile
/ cavallo
/ temporale
/ mare
/ schiocco di bacio
/ lupo
/ sole
/ bosco
/ melodia di flauto
/ mostro
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storia concatenata 5
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scuoto 7
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nella pagina a fianco / TELLO, le interazioni passo dopo passo
“I bambini che giocano in gruppo imparano a reagire alle frustrazioni, a difendersi dalle aggressioni, a stabilire alleanze.” Scarponi D., Il bianco il nero e l'azzurro, AGEOP, p. 18
corrispondente alla luce che si è accesa (fig. 2). A questo punto, Tello emetterà il suono relativo al leccalecca selezionato (ad esempio, se il bambino accosta alla luce blu il leccalecca corrispondente al “temporale”, ecco che Tello riprodurrà il suono di un forte sroscio di pioggia, fulmini e saette) e il bambino dovrà inventarsi, in un breve lasso di tempo di circa 10–15 secondi, una parte di racconto inerente al suono che ha appena udito (fig. 3). Quest’azione può essere eseguita dal bambino individualmente o con l’aiuto dei genitori o di altri adulti presenti al gioco. Negli ultimi secondi a sua disposizione, la luce comincerà a lampeggiare freneticamente avvisando il bambino che il suo turno sta per scadere; lo stesso procedimento avverrà per il secondo pupazzo, scelto casualmente dal sistema, e il bambino associato ad esso dovrà quindi proseguire la storia narrata dal partecipante precedente basandosi, però, sul suono che il suo pupazzo avrà emesso e così via (fig. 4-5-6). Se un bambino avvicina alla luce della lingua di un determinato colore un leccalecca di un colore differente, Tello emetterà un effetto sonoro di errore e il bambino perderà il proprio turno. Il susseguirsi casuale dei turni messo in atto dal sistema nasce dalla volontà di rendere
tutti i bambini partecipi in egual misura, evitando che chi già si conosce intraprenda il gioco isolando gli altri bambini. Oltre a questo meccanismo, il gioco è reso maggiormente controllabile anche dalla gestione della successione dei colori che conferiscono il significato alla storia, poiché il concatenarsi di colori prestabiliti eviterà che i bambini scelgano, ad esempio, per tre volte consecutive uno stesso colore (la qual cosa non permetterebbe alla storia di avere un senso logico). Queste limitazioni però, non influiscono in modo restrittivo sul comportamento dei bambini ma servono semplicemente ad agevolarli e a gestirli in maniera più semplice e diretta. Infatti, il gioco lascia loro la scelta più incisiva e fantasiosa, ovvero quella dell’elemento da attivare e la conseguente parte di storia da narrare. I bambini possono abbandonare il gioco in qualsiasi momento e ho ipotizzato che, essendo le terapie collocate in orari differenti per ogni soggetto, sarà frequente che i partecipanti diminuiscano gradualmente nel corso del gioco. Per far ciò, il bambino interessato non dovrà fare altro che scuotere il suo pupazzo (fig. 7), il quale rileverà questa azione ed emetterà un suono distintivo spegnendosi (fig. 8), permettendo comunque agli altri rimasti attivi di
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nelle pagine precedenti / TELLO, lo scenario nella pagina a fianco / TELLO, le modalità di consegna
proseguire nel gioco. Tale procedimento sarà possibile fino al raggiungimento di due bambini restanti, numero minimo affinchè il gioco si realizzi. Lo storytelling, così come altri metodi di terapia alternativi6, è un ottimo strumento per medici e psicologici attraverso cui comprendere meglio le necessità dei bambini ospedalizzati, i quali lo utilizzano proiettando inconsciamente all’interno di storie inventate il proprio vissuto e le proprie frustrazioni. Il personale ospedaliero ha un mezzo ulteriore con cui accostarsi ai piccoli pazienti in modo indiretto e meno invasivo rispetto ad altri approcci più tradizionali come la psicoterapia. Tello permetterà ai piccoli pazienti di instaurare relazioni di amicizia e gioco all’interno di una situazione divertente, ludica e coinvolgente. Il meccanismo di gioco che questo pupazzo mette in pratica è alquanto complesso e necessita obbligatoriamente di una spiegazione preliminare. Ecco perché ho pensato che siano gli infermieri, i volontari e gli addetti a monitorare la sicurezza delle sale d’attesa a consegnare i pupazzi ai bambini richiedenti, spiegando le corrette modalità di utilizzo. In tal modo, i bambini vengono seguiti ed assistiti nelle prime fasi per poi acquisire sempre più indipendenza nella gestione del
gioco. Una volta finita la sessione di gioco, ogni pupazzo viene riconsegnato al personale sopraindicato per poter essere distribuito ad altri bambini in caso di necessità. In questo modo, i bambini che si recheranno successivamente alla visita di controllo avranno la possibilità di giocare nuovamente con Tello e di approfondire così il legame con gli altri bambini, sentendosi meno introversi ed isolati. 3.5 / I PROTOTIPI FINALI Concludo questo capitolo esaminando la parte prettamente tecnica riguardante la prototipazione del progetto. Una volta delineati con precisione i parametri relativi alle interazioni, agli scenari e ai modelli, non mi restava altro che affrontare il lato puramente tecnico, ovvero la programmazione del codice e dei circuiti che avrebbero simulato il reale funzionamento dei miei pupazzi. Dall’analisi delle interazioni effettuata per ogni pupazzo, ho inizialmente tentato di stabilire le componenti necessarie alla sua realizzazione per poi approdare al passo successivo della generazione del codice. I prototipi finali realizzati, hanno lo scopo di simulare l’ipotetico funzionamento dei pupazzi ma si discostano, per ovvie
“La narrazione libera il bambino dei ‘vissuti’ psicologici negativi, modifica la situazione di disagio, a vantaggio del recupero di atteggiamenti attivi e responsabili.” Scarponi D., Il gioco e la cura, AGEOP, Bologna 2007
(6) Scarponi D., Il gioco e la cura, AGEOP, Bologna 2007
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a destra / VOICE SHIELD, la scheda audio utilizzata per registrare e riprodurre la voce del bambino (n°8 in figura nella pagina a fianco) nella pagina a fianco / ODO, la figura esplosa mostra nel dettaglio quali componenti sono state utilizzate e dove esse risiedono all’interno del modello nelle pagine seguenti / ODO, foto significative del modello finale
ragioni, dai prototipi che dovrebbero essere realmente realizzati se il progetto venisse prodotto. Vado ora ad illustrare le varie componenti che strutturano ogni prototipo de I Mirabilia, prestando attenzione a sottolineare le differenze che intercorrono rispetto alla reale ed ipotetica produzione.
Per mettere in pratica il comportamento ottimale previsto per Odo occorrono, innanzitutto, diversi microswitch a levetta7 per rilevare la pressione esercitata dal bambino nel momento del gesto combinatorio atto ad innescare il flusso di interazione; quindi, ogni mano ed ogni orecchio contengono un microswitch a levetta predisposto alla rilevazione di questa azione. Nel momento in cui questi switch vengono premuti, viene azionata una scheda audio8, gestita da Arduino Duemilanove, in grado di registrare tracce audio in tempo reale e riprodurle successivamente, la quale provvede a registrare ciò che il bambino sussurrerà al microfono posto dietro l’orecchio di Odo. Una volta rilasciati mano e orecchio del pupazzo, la scheda audio interrompe la
registrazione ed in concomitanza si accendono i LED rossi situati dietro le guance. A livello di simulazione, non ho impostato una reale accelerazione delle pulsazioni e dell’intensità luminosa in accordo con il passare del tempo come previsto dal progetto su carta, quindi il lampeggiare dei LED e la loro intensità rimane invariata soltanto a fini dimostrativi. Dopodichè, un capacitive touch sensor9 posizionato all’altezza della schiena di Odo, è programmato in modo tale da rilevare solo ed esclusivamente i tre battiti consecutivi volti ad ottenere la riproduzione della registrazione; infatti, una volta azionato il capacitive touch sensor, la scheda audio riprodurrà la traccia registrata in precedenza e contemporaneamente a questa azione, i LED delle guance si spegneranno gradualmente e l’intero sistema verrà resettato. Al fine di rendere più chiaro e dettagliato il processo appena descritto, di seguito viene proposta l’immagine dell’esploso del pupazzo e le componenti del relativo circuito. Le componenti sono inserite all’interno del pupazzo in corrispondenza delle zone utili e grazie alla presenza dell’imbottitura non sono in grado di spostarsi. È altrettanto vero che questa soluzione non riflette la reale
(7) Il microswitch a levetta è un sensore di contatto dotato di una robusta levetta in metallo. I terminali sono a saldare. Si puo’ fissare con viti o collante. www.robotitaly.com/product_info.php?products_id=249 (8) Voice Shield è una scheda audio analogica per Arduino per riprodurre suoni.
www.spikenzielabs.com/SpikenzieLabs/VoiceShield.html (9) Il capacitive touch sensor e’ un sensore capacitivo che riesce a percepire la presenza del tocco di un dito anche attraverso plastica, vetro e carta. www.robotitaly.com/product_info.php?cPath=15_50&products_id=984
3.5.1 / Odo: componenti e struttura
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ELENCO DELLE COMPONENTI 1 / microswitch a levetta 2 / microswitch a levetta 3 / LED rosso dietro la guancia 4 / LED rosso dietro la guancia 5 / capacitive touch sensor 6 / microswitch a levetta 7 / microswitch a levetta 8 / voice shield 9 / arduino duemilanove 10 / breadboard
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ELENCO DELLE COMPONENTI 1 / microswitch a levetta 2 / LED rosso inserito nella mano 3 / microswitch a levetta 4 / microswitch a levetta 5 / LED blu inserito nel ventre 6 / motore vibrante 7 / arduino duemilanove 8 / breadboard
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struttura interna dell’ipotetico pupazzo che andrebbe in produzione poiché, in quel caso, bisognerebbe provvedere ad una preliminare struttura semirigida in cui inserire il circuito fissandolo in maniera opportuna, in modo tale da evitare spostamenti compromettenti delle componenti. Il tutto sarebbe, idealmente, alimentato a batteria, la quale alloggerebbe in una zona protetta ed estraibile del pupazzo mentre, per quanto riguarda il prototipo provvisorio, l’alimentazione è fornita da un cavo USB che esce dal retro del pupazzo e collega il circuito direttamente al computer. La struttura interna in cui risiederebbe l’intero meccanismo permetterebbe, inoltre, di rendere l’involucro in tessuto di cotone sfoderabile e lavabile, risolvendo così il problema dell’igiene, aspetto fondamentale all’interno di un contesto ospedaliero che ho tenuto sempre ben presente nel corso della progettazione. 3.5.2 / Lucio: componenti e struttura Per quanto riguarda il circuito di Lucio, le interazioni pensate prevedono l’utilizzo di un ridotto numero di componenti rispetto a quelle impiegate per Odo. Infatti, il circuito di Lucio è costituito da: due microswitch a
levetta posizionati ai lati del ventre, i quali rilevano il primo feedback, ossia se il pupazzo viene stretto o meno. In caso affermativo, tale gesto farà accendere il LED rosso lampeggiante di cui è provvista la mano sinistra dell’altro pupazzo. Fatto ciò, se il bambino stringe la mano sopraindicata, un altro microswitch posizionato dentro ad essa si incarica di attivare il feedback di risposta, ovvero consentirà al LED blu presente nel ventre del primo pupazzo di accendersi e al motore vibrante10 di mettersi in funzione. Una volta interrotto il flusso di corrente garantito dalla riapertura dello switch, quindi nel momento in cui il bambino rilascia la mano del pupazzo, il circuito capta questo segnale e spegne gradualmente entrambi i LED, rosso e blu, e la vibrazione del motore, terminando il flusso di interazione. Il codice di programmazione gestisce la comunicazione tra tutti questi segnali e permette di impostare la fascia oraria 20.00–07.00 in cui è prevista l’attivazione di Lucio. Per una semplice simulazione, non mi è stato necessario costruire l’intero circuito in entrambi i pupazzi ma è stato sufficiente immettere nei rispettivi pupazzi gli input ed output che mi occorrevano e collegare l'Arduino board al mio computer personale attaverso un cavo USB.
(10) Questo piccolo motore vibrante è particolarmente indicato per la creazione di dispositivi che necessitano una vibrazione lieve e non udibile. www.sparkfun. com/products/8449
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ELENCO DELLE COMPONENTI 1 / LED RGB 2 / lettore RFID 3 / voice shield 4 / arduino duemilanove 5 / breadboard 6 / tilt sensor 7 / RFID tags (x16) 8 / leccalecca in cui inserire i tag (x16)
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nelle pagine precedenti / LUCIO, esploso del pupazzo, circuito e modello finale nella pagina a fianco / TELLO, esploso del modello a destra / RFID, lettore e tag ipotizzati
Detto ciò, il reale prototipo avrebbe, invece, esattamente lo stesso circuito in ogni pupazzo, poiché l’interazione prevista può avvenire reciprocamente tra due pupazzi collegati. In riferimento alla questione della connessione, lo scambio di feedback tra i due Lucio associati, sarebbe garantita da una connessione wireless ZigBee, la quale non comporta la creazione di campi magnetici significativamente nocivi e prevede bassissimi consumi energetici. Nel caso di Lucio, la connessione è la differenza sostanziale che intercorre tra il modello simulativo e il prototipo reale. Un’ulteriore caratteristica che distingue i due esemplari è la struttura interna nella quale alloggia l’intera elettronica, infatti, come nel caso precedente di Odo, il modello presenta i circuiti semplicemente inseriti e fermati dall’ovatta stessa che imbottisce il pupazzo mentre nel vero prototipo, questi meccanismi risiederebbero in un’apposita struttura stabile e sfoderabile alimentata a batteria. L’illustrazione esplosa del modello (p. 110), fornisce delucidazioni in merito alle componenti utilizzate e alle aree del pupazzo in cui esse si collocano.
3.5.3 / Tello: componenti e struttura Le componenti elettroniche che strutturano Tello sono abbastanza numerose e prevedono un comportamento leggermente più complesso rispetto agli altri due pupazzi. Innanzitutto sono coinvolti sedici RFID tags, tanti quanti sono i leccalecca, in cui è precaricato un suono relativo al colore di ogni leccalecca. Nel momento di inizio del gioco, un LED RGB11 situato in corrispondenza della lingua di ogni pupazzo, si accende di un colore scelto indiscriminatamente tra blu, rosso, verde e giallo; avvicinando un leccalecca del colore corrispondente, il tag relativo inserito all’interno del leccalecca viene rilevato da un lettore RFID sempre posizionato all’altezza della lingua del pupazzo, il quale traduce il segnale nel corrispettivo suono. Tale suono è generato da una scheda audio. Infine, un tilt sensor12 in grado di recepire il movimento di scossa dato al pupazzo dal bambino, fa sì che il pupazzo si spenga resettandosi e permette al bambino di abbandonare il gioco in qualsiasi momento. I leccalecca sono stati realizzati in Fimo, una pasta modellabile colorata termoindurente che si prestava in maniera ottimale alla realizzazione del prototipo;
(11) www.sparkfun.com/products/8579 (12) Il tilt sensor, è un sensore che, opportunamente impostato, è in grado di rilevale l’orientamento dell’oggetto in cui si trova. www.sparkfun.com/ products/10289
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nella pagina a fianco / GAMMA CROMATICA, alcune delle stoffe utilizzate nelle pagine precedenti / TELLO, foto rappresentative del modello definitivo
nella realtà il materiale utilizzato sarebbe un’ecoresina ininfiammabile e atossica13, adatta alla produzione di giocattoli per l’infanzia. Ogni elemento sopracitato è idealmente presente in ognuno dei pupazzi e denota le stesse caratteristiche. Anche in questo caso, i prototipi reali conterrebbero l’elettronica in una sottostruttura sfoderabile per consentire al pupazzo di essere lavato e sterilizzato senza subire danneggiamenti ai circuiti interni. La rilevazione reciproca per il calcolo del numero di giocatori avverrebbe tramite l’utilizzo di una rete wireless ZigBee come nelle due situazioni precedenti. 3.6 / COSTI DI REALIZZAZIONE L’ultima riflessione che presenterò in questo capitolo riguarda il calcolo dei costi di produzione affrontati per la realizzazione de I Mirabilia. Al fine di rendere l’intero progetto il più possibile strutturato e credibile, mi è parso doveroso dedicare parte della ricerca finale all’analisi del ciclo produttivo, in modo tale da consapevolizzare un possibile acquirente e gettare le basi concrete per uno sviluppo futuro.
Ragionando sulla base dei costi al dettaglio che ho affrontato personalmente per la realizzazione del prototipo, spese quindi non attendibili e decisamente superiori rispetto ad un’ipotetica produzione seriale, ho analizzato l’area da cui deriva l’uscita economica principale ovvero, le materie prime, facendo un calcolo sommario relativo alla quantità di prodotti realizzati. Ovviamente, nel caso di una produzione industriale, andrebbero esaminati i prezzi all’ingrosso e gli ammortizzamenti conseguenti, oltre alle spese di manodopera e di distribuzione che in questa sede non sono stata in grado di tenere in considerazione per via della loro variabilità direttamente relazionata ai volumi di produzione. Sulla base, quindi, del prezzo delle sole materie prime, ho preferito effettuare un calcolo per eccesso, al fine di ottenere un costo approssimativo e sicuramente superiore rispetto al reale. I tessuti utilizzati hanno un valore al metro (1 m X 2,5 m) di circa 10 euro ciascuno: i tessuti che caratterizzano ogni pupazzo sono di due tipologie, una dominante a tinta unita per il corpo e una con una trama particolare per le aree interattive. Il prezzo di quest’ultima è sempre di 10 euro al metro, ma essendone utilizzata una quantità irrisoria, la spesa si disperderebbe con la produzione di
(13) Ecoresin, per esempio, è una resina acrilica utilizzata in colata, la quale presenta atossicità ed ininfiammabilità che la rendono adatta alla produzione di giocattoli. Non arreca danni nemmeno se ingerita. www.poolkemie.it/ra_ colata+B6Jkw9Mg__.0.html
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grandi numeri. Con ogni metro di tessuto a tinta unita (ocra per Odo, azzurro per Lucio e terra bruciata per Tello) è possibile ottenere tre pupazzi quindi, per la realizzazione del singolo prototipo, la spesa ammonta a circa 3,30 euro. Fatto ciò, sono passata ad analizzare l’elettronica interna ad ogni pupazzo, costituita da componenti e strutture diversificate: per Odo, il costo approssimativo comprensivo di Arduino, breadboard, microswitch, LED, scheda audio, capacitive touch sensor e cavi di vario genere è di circa 70 euro. Tale cifra è da ritenersi assolutamente indicativa nel caso di una produzione seriale, poichè le case produttrici di pupazzi interattivi generalmente utilizzano circuiti di altro tipo i quali, con la produzione di grandi numeri, risultano avere un prezzo decisamente inferiore. Lucio, invece, contiene una componentistica più economica ovvero, Arduino, breadboard, microswitch, LED e motore vibrante, per un costo complessivo di 40 euro circa. Infine, Tello prevede un costo, in termini di elettronica, di 60 euro circa, ai quali va aggiunto il costo dei materiali dei leccalecca che ammonta a circa 1 euro ciascuno (nella realtà la produzione dei leccalecca avverrebbe per colaggio e stampaggio con resina atossica).
Arrotondando il totale ottenuto per eccesso, si otterrebbe una spesa di circa 200 euro per l’elettronica la quale, sommata ai costi del tessuto precedentemente analizzati, arriverebbe a raggiungere i 210 euro. Giunta a questo punto, non sono stata in grado di completare il calcolo con l’aggiunta dei costi relativi alla manodopera e alla distribuzione, poichè entrambi variano in maniera direttamente proporzionale ai volumi che si intenderebbero produrre, ai macchinari specifici utilizzati e al tipo di manodopera che si vorrebbe impiegare. Dalle considerazioni qui proposte, risulta comunque chiaro come I Mirabilia, nonostante la tecnologia che si propongono di utilizzare e di introdurre nell’ambiente ospedaliero, non comportino costi di produzione eccessivi ma affrontabili dai budget messi a disposizione per la ricerca da qualsiasi struttura ospedaliera. I calcoli sopra descritti, hanno, quindi, l’unico scopo di fornire un’idea approssimativa delle spese affrontate per questo progetto e non mirano a descrivere i costi effettivi che la produzione seriale dei pupazzi comporterebbe.
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/ CONCLUSIONI
I Mirabilia sono una famiglia di tre pupazzi interattivi che, attraverso comportamenti ed interazioni differenti, si occupano delle reazioni emotive di bambini ospedalizzati, agevolando le relazioni interne all’ospedale che essi intrattengono con il personale ospedaliero e gli altri coetanei. La realizzazione di questo progetto ha comportato l’analisi di ambiti che avevo avuto occasione di esplorare soltanto in maniera marginale, come il design medicale e il physical computing. Inizialmente, ho riscontrato molte difficoltà nella ricerca e nella piena comprensione di quei dettagli che determinate patologie implicano, sia a livello medico sia emotivo, e non sempre l’iter progettuale è stato scorrevole e privo di ostacoli. Nelle fasi iniziali del progetto, soprattutto, le indecisioni più consistenti si sono manifestate nel momento della scelta delle patologie e nella conseguente definizione delle interazioni. Avevo deciso di dedicarmi ad un argomento particolarmente delicato e di difficile gestione e dovevo prestare molta attenzione al taglio che intendevo dare all’intero progetto. Ho formulato e scartato idee molto diverse tra loro, riprendendone alcune e modificandone
altre a seconda delle fasi che andavo incontrando. Diversi aspetti caratterizzanti il progetto potevano essere confrontati ed esaminati più accuratamente, primo fra tutti il range delle sintomatologie che costituiscono le malattie terminali e le implicazioni conseguenti in termini fisici e mentali, le quali non sono state soggette agli approfondimenti dovuti a causa dei tempi limitati che la ricerca richiedeva e delle mie lacune conoscitive in ambito medico. Con un background di studi medicali più sostanzioso alle spalle, sarebbero potute emergere interazioni differenti, le quali avrebbero potuto ampliare la famiglia di pupazzi e i derivanti benefici per il target preso in considerazione. Una conoscenza di base più solida in campo sartoriale, poteva comportare una cura maggiore relativamente all’aspetto pratico della cucitura dei pupazzi, con uno studio più attento di tagli, giunture e rifiniture, al fine di ottenere un prodotto pressochè impeccabile dal punto di vista del modello. Nonostante tutti questi fattori più o meno negativi e migliorabili, posso dire onestamente di essere soddisfatta dei risultati emersi e delle aggiuntive conoscenze apprese ad ogni livello, culturale, pratico e tecnico.
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Infatti, questo progetto mi ha permesso di confrontarmi con realtà interessanti e stimolanti che hanno arricchito il mio vissuto dandomi la possibilità di mettere in campo passioni personali, attitudini e capacità che, finora, avevo espresso soltanto occasionalmente. Sono entrata anche in contatto con ambiti che durante la mia carriera universitaria non ho avuto modo di affrontare quanto avrei desiderato tra cui, la programmazione del codice e la strutturazione dei circuiti, che per varie ragioni durante i progetti scolastici ho sempre delegato ad altri colleghi; ho espresso in maniera diretta la mia passione per l’illustrazione, creando gli scenari e i personaggi in cui la realtà de I Mirabilia si struttura; mi sono cimentata nel cucito e nel design medicale, due settori che avrei sempre voluto investigare in modo più dettagliato e che mai avevo avuto l’opportunità di affrontare; ho avuto modo di caratterizzare graficamente l’intero progetto, conferendogli il mood e lo stampo personale che fin dall’inizio desideravo; ed infine, ho saputo gestire autonomamente le varie fasi lavorative in maniera produttiva ed autocritica, confrontandomi direttamente con le mie capacità organizzative e cogliendo suggerimenti importanti dalle persone che mi circondavano ogni giorno.
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Esaminando il progetto attraverso uno sguardo il più possibile distaccato ed imparziale, penso di essere riuscita a realizzare I Mirabilia nella maniera prefissata, costruendo, passo dopo passo, un’identità completa e riconoscibile che rende i pupazzi accattivanti dal punto di vista estetico ed interattivo; degli scenari e contesti di utilizzo strutturati e coerenti, che generano le condizioni ottimali per la fruizione dei tre pupazzi; ed infine, interazioni convincenti, poco invasive e non verbali, mirate a soddisfare in modo tangibile ma discreto le necessità della fascia di utenza che intendevo intercettare. Ciò che ha reso possibile tutto questo, è stato il continuo impegno che ho dedicato in questi ultimi due anni nel coltivare il mio interesse per l’interaction design, una disciplina sempre più riconosciuta ed in espansione, la quale, ponendo le persone come perno di studio attorno a cui ruotano idee e progetti, mi ha permesso di affrontare la tesi attraverso una chiave di lettura sperimentale ed in costante evoluzione. Il confronto, poi, con i miei compagni di tesi, professori e persone esterne capaci, mi ha consentito di convogliare nei pupazzi concetti, suggerimenti e sfaccettature interessanti, frutto di esperienze personali differenti e, a volte, lontane dal mio modo di ragionare.
/ Conclusioni
Proprio il fatto di considerare le persone e le individualità più diverse, dai bambini per cui il progetto è pensato alle persone che lo hanno reso possibile, come aspetto fondamentale ed imprescindibile, credo renda I Mirabilia attuali e soggetti a continui e possibili mutamenti. I Mirabilia sono senza dubbio migliorabili e le considerazioni sopra presentate sono soltanto il frutto di una personalissima opinione in merito all’excursus progettuale che ho affrontato in prima persona durante gli ultimi mesi. Sarebbe auspicabile in futuro rivedere assieme a medici e terapisti esperti, i vari stati psicologici caratterizzanti la quotidianità dei bambini degenti ed implementare ogni pupazzo nel modo più opportuno ascoltando bisogni e desideri espressi direttamente dagli utenti stessi. Dal punto di vista tecnologico, la ristrettezza dei tempi non ha permesso la realizzazione di un prototipo ottimale e questo aspetto potrebbe essere facilmente risolto in un prossimo futuro al fine di essere testato sul campo nella maniera il più possibile attinente all’idea ipotizzata. Per quanto riguarda l’aspetto estetico, mi ritengo soddisfatta della caratterizzazione illustrata della mimica facciale dei pupazzi e della loro apparenza inusuale e
stravagante e con diversi accorgimenti pratici sarebbe possibile migliorarla e proporre nuove soluzioni anche in merito a stoffe e trame utilizzate. Essendo, comunque, un progetto che distribuisce le varie interazioni su tre pupazzi distinti, non sarebbe errato pensare di ampliare questa famiglia a più membri, coinvolgendo stati emotivi nuovi destinati, magari, ad altre fasce d’età e a differenti disagi (per esempio, Odo era stato inizialmente ideato per bambini vittime di abusi). I possibili sviluppi sono innumerevoli e si ramificano in direzioni molteplici che potrebbero generare risvolti progettuali inattesi ed innovativi. Concludo questa mia tesi di laurea specialistica esprimendo una forte convinzione per il significato che essa rappresenta e sperando di aver apportato un minimo contributo alla ricerca e al campo dell’interaction design pensato per l’infanzia di quei bambini che, a causa di disagi particolari, sono costretti a maturare più in fretta del dovuto. Spero vivamente che un giorno I Mirabilia possano diventare una realtà per tutti quei bambini che vivono in condizioni di degenza, offrendo loro un supporto ludico ed emotivo più vicino al loro meraviglioso mondo.
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/ APPENDICI
A / INTERVISTA 01: ELIANA RUMORI Infermiera dell'Ospedale Pediatrico Meyer di Firenze 10 novembre, 2010 Quali tipi di patologie avete in cura presso la vostra struttura? Prevalentemente tumori solidi, tumori del sistema nervoso centrale, leucemie, linfomi, istiocitosi e tutte le patologie relative al flusso sanguigno e al sistema nervoso centrale. Mentre al day hospital, quali patologie vengono seguite? Principalmente neutropenie ed anemie. Il nostro day hospital è un centro regionale, anche se frammentato in altre sedi, per la cura di malattie come la talassemia. Seguiamo sia adulti che bambini. Esistono punti in comune, a livello di reazioni, tra le varie sintomatologie? Nelle leucemie la prima fase è caratterizzata da un forte dolore fisico mentre, durante la chemio ed in particolare per i nuovi pazienti, la sofferenza si presenta a livello psicologico per via dello shock procurato dalla perdita di capelli.
applichiamo: la leucemia prevede i primi 8 giorni fissi in degenza e dal 78esimo giorno dall’inizio della terapia, la cura avviene interamente all’interno del day hospital. Mentre i tumori solidi prevedono una prima fase e tutti i cicli di terapia in degenza. Ora però, si tende a tenere i pazienti in degenza soltanto per il tempo strettamente necessario. Durante la chemioterapia, per esempio, si presentano di frequente episodi di febbre ed indebolimento quindi è consigliabile la degenza ma, in ogni caso, si tenta di limitare tale periodo dai 4 ai 6 giorni. I genitori sono presenti nella fasi di degenza dei figli? Sì, almeno un genitore è sempre presente. Per questo motivo disponiamo di un divano letto apposito all’interno di ogni stanza. Quanti bambini mediamente sono ricoverati in degenza? In degenza ci sono 12 posti letto e tendenzialmente sono sempre quasi tutti occupati, avviene un ricambio continuo.
Le leucemie sono le patologie presenti in più alta percentuale? In questo momento sono presenti in numero maggiore pazienti affetti da tumori solidi e del sistema nervoso centrale.
E in day hospital? Escludendo il sabato in cui abbiamo un pò meno pazienti, in media ne accogliamo 25–30 al giorno, anche di più molto spesso. Questo perchè le tipologie di cure prestate variano molto nei criteri, dai cicli di chemioterapia ai controlli post-terapia.
Quali sono i tempi di degenza per queste patologie? Il periodo di degenza varia a seconda dei protocolli che
Quanto dura la terapia per i pazienti del day hospital? Tutta la giornata, dalle 7.30 della mattina alle 19.
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/ Appendici
Con quale frequenza si effettuano le terapie al day hospital? La cadenza varia molto da patologia a patologia. I talassemici, ad esempio, sono i pazienti soggetti ai cicli più frequenti, una sessione di terapia ogni 15 giorni. In generale, la maggior parte delle patologie, invece, prevede il controllo terapeutico ogni 21 giorni. I pazienti affetti da istiocitosi, infine, vengono una volta a settimana per 12 settimane. I bambini condividono le stanze a seconda di determinati criteri o indistintamente? Nel reparto di degenza siamo attenti, laddove la disponibilità di posti lo consente, a sesso ed età: non mettiamo l’adolescente in stanza con il bambino di 3 anni. Vi è una prevalenza maschile o femminile? No, entrambi i sessi in egual misura. Che età hanno i pazienti? Anche qui le età sono ben distribuite nella fascia infantile. Alcuni tumori solidi, come gli osteosarcomi e sarcoma di Ewing però, benchè pediatrici colpiscono anche ragazzi sui 19–20 anni. In media? Dalla nascita ai 19 anni nella stessa percentuale. Avete in cura sia bambini italiani e stranieri in egual misura? Sì, forse una lieve maggioranza di stranieri dovuta alla fama internazionale dell’oncologo ortopedico presente nel nostro ospedale.
Ora abbiamo, per esempio, un ragazzino peruviano e una bambina dal Kenya, che dopo i trattamenti terapeutici ricevuti nel suo paese, ha avuto una recidiva ed è venuta qui per sottoporsi alla terapia pre-trapianto di routine. A che stadio i pazienti entrano nella vostra struttura? Alcuni bambini ricevono la prima diagnosi direttamente presso il nostro ospedale. Altri invece si recano in altre strutture per la diagnosi e arrivano solo successivamente qui per iniziare la terapia vera e propria. Quanto può durare la terapia? Varia molto da malattia a malattia. Per esempio l’osteosarcoma prevede un ciclo di terapia della durata di un anno circa. Avete un reparto destinato alle cure palliative? Sta aprendo in questo periodo una area all’interno del week hospital fornita di un paio di posti letto dedicati alla cura degli stadi terminali. Però il reparto non lavora ancora a pieno regime. Sono previste anche sedute psicologiche? Sì, all’inizio principalmente per i genitori. Inizialmente, nel momento di ingresso del bambino in ospedale, le psicologhe interne si fanno carico dello stato dei genitori. Poi, a seconda della necessità, si organizzano incontri; solitamente sono i bambini di età preadolescenziale e gli adolescenti che manifestano in modo esplicito il bisogno di sedute psicologiche.
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I bambini affrontano terapie alternative e di gruppo? Sì, di questi tipi di attività si occupa la ludoteca. Una volta alla settimana, due ragazzi con cani al seguito responsabili della pet therapy visitano sia il reparto di degenza che le sale d’attesa del day hospital. Poi la presenza di clown e musicisti è distribuita nei vari reparti in tutte le fasce orarie, al fine di creare un ambiente divertente e rilassato. Le terapie e le conseguenze della malattia comportano per i bambini limitazioni fisiche? Per gli ortopedici sì. Prima dell’intervento, infatti, non possono muoversi molto poichè rischiano una frattura patologica e successivamente all’intervento praticano la riabilitazione per un lungo periodo con i fisioterapisti interni all’ospedale. Per i pazienti leucemici invece, il dolore e la fatica nella deambulazione si ha nella prima fase, con la somministrazione del cortisone. Ci sono condizioni paricolari della malattia che costringono i bambini all'isolamento? Sì, la neutropenia comporta una diminuzione dei valori dei globuli bianchi, con conseguente affaticamento a livello fisico. Consigliamo ai soggetti coinvolti il riposo assoluto e diamo istruzioni anche per la degenza a casa. Durante la chemioterapia, generalmente evitiamo che i bambini girino per il corridoio perchè c’è il rischio che cadano a seguito dell’indebolimento subito. I bambini dimostrano preferenze per determinati giocattoli? Abbiamo un computer, che fa parte di un progetto più ampio, con cui giocano molto. Ma qui in terapia e degenza
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evitiamo di distribuire giocattoli poichè passano di mano in mano, con evidenti problemi di igiene. Di solito il bambino si porta il suo giocattolo personale. Quando è possibile, nell’attesa degli esami, li mandiamo in ludoteca, mentre ai bambini ricoverati è proibito l’accesso alla ludoteca a cause della precarietà delle loro condizioni. Come ci si approccia all'ingresso di nuovi bambini? Ci presentiamo tutti uno ad uno cercando di metterli a loro agio. Ci facciamo chiamare tutti per nome cercando di instaurare un clima amichevole. Chi può venire dall'esterno a fare visita ai bambini ricoverati? In teoria solo i genitori. I familiari vengono in ogni caso anche se la procedura glielo vieterebbe [il tono di Rumori è lievemente polemico!]. Tendenzialmente preferiamo che presenzino sono i genitori. Le visite dei genitori sono regolate da norme precise? Attualmente no, ma stiamo tentando di regolamentare le visite per evitare un continuo via vai che non è salutare per la tranquillità dei bambini. Quanto tempo durano tali visite? Non abbiamo ancora restrizioni in questo senso, quindi sono i genitori che decidono. Possono stare qualche ora o tutta la giornata. In ogni caso cerchiamo di fare in modo che non ci sia un ricambio continuo ogni mezzora. I genitori partecipano assieme ai bambini ad attività particolari? Sì, le attività sono generalmente organizzate dalla
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ludoteca. Essendo ai bambini ricoverati proibito l’accesso, di solito sono i responsabili della ludoteca che fanno visita al reparto oppure i genitori si procurano in ludoteca i giocattoli. Solo i bambini del day hospital si recano in ludoteca, sempre con i genitori. I bambini instaurano facilmente amicizia? Sì, condividendo la stanza è facile che i bambini stringano amicizia. Anche al day hospital alcune volte succede, ma visto l’afflusso continuo di pazienti tentiamo di contenere il numero di bambini all’interno di una stessa sala per non generare troppa confusione. I bambini hanno reazioni particolari nel momento del distacco dalla loro quotidianità? Inizialmente sono disorientati e spaventati, specialmente gli adolescenti. Il pensiero più angosciante è quello della malattia in sè e fanno molta fatica a riacquistare la realtà di tutti i giorni. Poi, piano piano, noi infermieri e medici, cerchiamo di riportarli ad una dimensione di normalità agevolandoli con la frequentazione della scuola, elementare, media e superiore, interna all’ospedale, la quale si attiva immediatamente non appena il bambino entra nella struttura. Una volta guariti, i bambini vengono seguiti nel reinserimento nella vita quotidiana? Sì, li seguiamo per i primi 2 anni dal punto di vista ambulatoriale.
Nel momento in cui i bambini entrano in ospedale, sono consapevoli del perchè si trovino lì? Dipende. Solitamente il medico assieme ai genitori tenta di spiegare, nel modo più delicato possibile, le varie motivazioni. Il percorso si fa unitamente, con modalità diverse a seconda delle dinamiche familiari. Con gli adolescenti è più difficile perchè molto spesso gli stessi genitori preferiscono non parlare troppo della situazione e proibiscono anche a noi di di affrontare l’argomento con il ragazzo in maniera chiara ed esplicita. Allora usiamo sigle e termini ambigui: non si parla di tumore ma di malattia, si omette la parola chemioterapia a favore del termine cura e così via. Alcuni bambini, però, capiscono tutto da sè e sono loro stessi che pongono domande a noi. Ovviamente, ai bambini più piccoli tentiamo di rivolgerci con un gergo a loro comprensibile (es.: le celluline ammalate). Tutti maturano molto più in fretta del dovuto. Quali sono le reazioni emotive che li colpiscono più frequentemente? In genere, colpevolizzano molto i genitori o noi infermieri. Tentano di traferire a noi il loro dolore. Ieri una bambina di 13 anni urlava contro la mamma, non voleva vederla. I bambini più piccoli tendono ad addossare la colpa ad un genitore, mentre gli adolescenti si sentono loro stessi i colpevoli della condizione in cui si trovano. Si vergognano, non riescono subito ad avere confidenza dell’ambiente e quindi a casa scatenano le proprie frustrazioni. Quali sono le paure e le angosce principali che manifestano? La perdita dei capelli, il dolore, i prelievi, venire
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ciclicamente qui, non poter andare dove vogliono e morire. Se il concetto di morte non gli viene spiegato correttamente o viene addirittura omesso, il rischio che si corre è che il bambino lo capisca da solo. E in questo caso la reazione è peggiore. Noi tentiamo di introdurre e spiegare il concetto di morte soltanto nei casi in cui questa possibilità si fa concreta, mentre se la diagnosi non è ancora chiara, preferiamo evitare l’argomento. Instaurate rapporti di confidenza con i pazienti? Il rapporto più intimo si crea tra noi e le mamme principalmente. Ma anche con i bambini accade che si instaurino legami particolari per cui il bambino preferisce essere accudito da un’infermiera piuttosto che da un’altra. Noi, se possibile, cerchiamo di accontentarli, in modo che i bambini vengano qui più “volentieri”. I bambini di 2 o 3 anni invece, sono quasi sempre impauriti da noi e da quello che rappresentiamo e quindi piangono e urlano a più non posso appena ci vedono. Gli adolescenti è raro che si confidino; dobbiamo essere noi ad entrare più in profondità per capire cosa li angoscia. B / INTERVISTA O2: NICOLÒ MUCIACCIA Responsabile della ludoteca dell'Ospedale Pediatrico Meyer di Firenze 10 novembre, 2010 Con il pedagogista e coordinatore della ludoteca Nicolò Muciaccia, non ho condotto una vera e propria intervista ma, piuttosto, una conversazione aperta attraverso la
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quale gli ho esposto le mie idee ricavandone preziosi suggerimenti: ragionare sulle fasce d’età e sulle modalità di consegna dei pupazzi, acquisire consapevolezza sul fatto che i bambini trasformano il giocattolo in ciò che vogliono e capire come i bambini si rapportano ad interazioni guidate sono riflessioni che mi hanno aiutato a definire e a caratterizzare il progetto finale. Ci sono giocattoli che i bambini prediligono? La straordinarietà dei bambini è proprio quella di essere aperti a tutto. Noi tentiamo di promuovere quei giochi che racchiudono una particolare valenza comunicativa: il gioco simbolico, il laboratorio, l’attività spontanea come la pittura, ecc.. Sicuramente ci sono giochi che hanno una capacità espressiva più diretta, maggiore, varia e anche più decodificabile dall’adulto. Nel gioco gestito da regole, come i giochi da tavolo, ciò che si attiva è un processo di socializzazione: il bambino è parte integrante di un gruppo governato da regole e proprio queste regole costituiscono il gioco. Se la fase attraversata dal bambino, sia in termini di età che di malattia, è tranquilla, allora il gioco procederà in maniera regolare; mentre, se questa fase presenta determinate problematiche, allora il gioco subirà le influenze negative proprie di questa fase. Durante questi tipi di giochi, la nostra osservazione di tali meccanismi è però limitata, non emergono spesso considerazioni del genere. Invece, in attività maggiormente espressive come il gioco simbolico, la pittura e la costruzione dei burattini, è più facile per noi entrare in contatto con contenuti comunicativi profondi che il bambino, non volentieri,
/ Appendici
direttamente trasmette. Il fatto di non comunicarli volentieri avviene perchè il bambino è preoccupato di ciò che può emergere. Questi sentimenti fuorisescono senza che il bambino se ne accorga. Il gioco trasforma un’emozione in un’altra emozione. Il bambino attraverso il gioco riesce a trasformare un’emozione negativa in qualcosa di costruttivo, ma ciò accade soltanto se la relazione che si ha con l’adulto o con l’ambiente circostante è sufficientemente stabile e rilassata. La vera magia del gioco non risiede nella funzione distrattiva ma nella messa in campo spontanea di contenuti profondi e nella loro conseguente trasformazione. Nel caso, invece, di giochi ripetitivi come videogiochi elettronici, la componente distrattiva è forte e generalmente produce una certa passività poichè il loro meccanismo principale si basa sulla soddisfazione di una semplice pulsione e sulla successiva ripetizione di questa all’infinito. Il bambino entra in un circuito chiuso se non condivide l’esperienza con qualcuno. Egli potrà acquisire qualche abilità e schema mentale aggiuntivo, ma dal punto di vista della comunicazione questi giochi hanno una valenza molto limitata e non portano i bambini ad esternare le loro necessità.
sono tutte attività che i bambini adorano. Anche la lettura e l’entrare in contatto con narrazioni sempre diverse li incanta. Con quali criteri i bambini accedono alla ludoteca? Tutti i bambini possono entrare quando lo desiderano. Ci sono bambini che passano moltissimo tempo in ospedale e che, quindi, diventando frequentatori abituali della ludoteca si trasformano in coagulatori di gruppi di bambini. Le attività proposte dalla ludoteca vengono gestite diversamente a seconda delle età dei bambini? La ludoteca è organizzata attraverso una suddivisione dello spazio in fasce d’età per evitare che i bambini più grandi o più forti si impadroniscano di tutto l’ambiente a disposizione (come avviene di solito negli ambienti più piccoli). Se non ci fosse lo spazio dell’angolo morbido (zona destinata ai bambini più piccoli) i bambini piccoli non verrebbero mai, in quanto i più forti “conquisterebbero” tutto. Accade poi che alcuni bambini liberamente invadano spazi di altre fasce d’età ma questo non avviene quasi mai e se succede il gesto è finalizzato a bisogni particolari.
Ci sono attività ludiche che i bambini affrontano con maggiore interesse rispetto ad altre? Ai bambini piace tantissimo costruire, disegnare, dipingere e creare qualcosa con le proprie mani. Il poter dire “Questo l’ho fatto io!” è per loro una gratificazione incredibile. Quindi noi tentiamo spesso di coinvolgerli nella pittura e nella costruzione di oggetti. Creta, cartapesta, pittura, collage, narrazione e invenzione
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C / CIRCUITI E FLOWCHART Odo: schema del circuito e flowchart I dettagli del progetto e il codice di Arduino e Processing sono reperibili all’indirizzo: www.erikarossi.com/index.php?/interaction/i-mirabilia/
Disegno del circuito ottenuto con il programma Fritzing fritzing.org 130
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Lucio: schema del circuito e flowchart I dettagli del progetto e il codice di Arduino e Processing sono reperibili all’indirizzo:
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USB ICSP
www.arduino.cc
POWER 5V Gnd 9V
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Arduino
RESET 3V3
PWR SEL
TX RX
PWM
L
PWM PWM
3 2 1 0 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0 1 1 1 1 DIGITAL PWM PWM PWM
AREF GND
www.erikarossi.com/index.php?/interaction/i-mirabilia/
ANALOG IN 0 1 2 3 4 5
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Tello: schema del circuito (simulazione) e flowchart I dettagli del progetto e il codice di Arduino e Processing sono reperibili all’indirizzo: www.erikarossi.com/index.php?/interaction/i-mirabilia/
Disegno del circuito ottenuto con il programma Fritzing fritzing.org 134
/ Appendici
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/ RINGRAZIAMENTI
Giunta alla fine di questo lungo e faticoso percorso non mi resta che citare e ringraziare di cuore quelle persone che, in un modo o nell’altro, ne hanno fatto parte contribuendo in maniera incisiva alla buona riuscita di questo progetto e lasciando un’impronta indelebile in questo duro ma soddisfacente cammino. Ringrazio in primis i miei genitori Silvia e Fiorenzo, senza il cui costante ed incondizionato supporto non sarei stata in grado di portare a termine questo lavoro. Ringrazio poi tutta la mia famiglia per la cieca fiducia riposta nella mia idea, nelle mie capacità e per l’aiuto morale offertomi. Marco Paccagnella, per la costante pazienza e l’instancabile volontà di aiutarmi durante questo lungo percorso e per avermi sempre rincuorato con il suo affetto ineguagliabile, trovando in ogni momento difficile il lato positivo con cui restituirmi il sorriso e la fiducia in me stessa. Eleonora Rossi, per essersi prestata come perfetta modella di alcune delle fotografie interne a questo scritto. I miei amici e compagni di corso e il gruppo di tesisti, in particolare Maria Gabriella Astolfo, Alberto Moro e
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Marco Righetto, con cui in questi mesi ho condiviso ansie, paure, idee e sogni e senza i quali molti degli aspetti che la mia tesi presenta non sarebbero mai emersi. Un ringraziamento particolare e davvero sentito va ai miei relatori Philip Tabor e Gillian Crampton Smith, i quali mi hanno costantemente offerto il loro appoggio disinteressato e i preziosi ed utilissimi suggerimenti che hanno reso possibile questo progetto, supportandomi in modo costruttivo in ogni fase del lavoro e dando una svolta decisiva e fondamentale a questi ultimi tre anni della mia carriera universitaria e al mio futuro come interaction designer. Un grazie sentito al professore Davide Rocchesso e al mio compagno di corso Daniele Muscella per l’ingente aiuto datomi nella programmazione del codice di Arduino e Processing e nella realizzazione dei circuiti interni ai pupazzi, senza i quali I Mirabilia sarebbero rimasti inanimati pupazzi di stoffa. Un ringraziamento speciale a tutto il personale dell’Ospedale Pediatrico Meyer di Firenze, in particolare alla dottoressa direttrice del Rischio Clinico Angela Savelli, Franca Dattoli, all’infermiera Eliana Rumori, alla direttrice dell'Ufficio Stampa Roberta Rezoalli e
/ Ringraziamenti
al coordinatore della ludoteca Nicolò Muciaccia per le fondamentali informazioni e delucidazioni riguardanti le malattie terminali e croniche, i piccoli pazienti degenti e le loro famiglie. Un grazie sincero a tutti i colleghi di Fjord Madrid e alle persone conosciute nella capitale spagnola con le quali avrò modo di condividere molte altre esperienze nei prossimi tempi. Infine, ci tengo a ringraziare tutte le persone di cui non conosco il nome ma che hanno trasversalmente contribuito a questo lavoro e a quelle che hanno trovato il tempo di leggere questa tesi e di assistere alla presentazione, nella speranza che questo mio lavoro possa suscitare interesse e trovare davvero uno sbocco concreto nel mondo reale.
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/ FONTI
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UNIVERSITÀ IUAV DI VENEZIA FACOLTA’ DI DESIGN E ARTI
DICHIARAZIONE DI CONSULTABILITA’ O NON CONSULTABILITA’ DELLA TESI DI LAUREA (da inserire come ultima pagina della tesi di laurea) Erika Rossi 267222 Il/La sottoscritto/a ………………………………………….matr. n. ...……………. Comunicazioni Visive e Multimediali laureando/a in ………………………………………………... 06 aprile 2011 2009/2010 sessione ………………………… dell’a.a. …………….…………. DICHIARA
che la tesi di laurea dal titolo: …………………………………………………………………………………………. I Mirabilia, tre pupazzi interattivi per l'emotività dei bambini degenti …………………………………………………………………………………………. (In forma sia cartacea che online al link
è consultabile da subito www.erikarossi.com/index.php?/interaction/i-mirabilia/) potrà essere consultata a partire dal giorno ………………….. non è consultabile (barrare la casella della opzione prescelta)
18 marzo 2011 data …………………..
firma ………………………