Espoarte #97 | Speciale Biennale

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SPECIALE BIENNALE 97

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INAUGURAZIONE martedì 6 giugno ore 18:00

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/ EDITORIALE / #97 di Livia Savorelli

Sicuramente la 57. Biennale Arte 2017 non passerà alla storia come un'edizione dominata da pathos e da esperienze sensoriali-emotive indimenticabili sia nella mostra della curatrice, la francese Christine Macel, sia nelle proposte di gran parte dei Padiglioni Nazionali. Ma due meriti bisogna riconoscerle: non ha disatteso le aspettative rispetto agli intenti iniziali, con una curatrice che, nel tentativo di “mettere al centro la voce degli artisti”, ha volutamente ridimensionato il suo ruolo e ha messo in piedi una mostra godibile – con pochi scivoloni, a parte uno scialbo Padiglione dei Colori – che ricerca il dialogo costante con il pubblico (non solo quello degli addetti ai lavori dei tre giorni di preview stampa ma soprattutto il popolo di appassionati, e anche neofiti, che approderà a Venezia fino al prossimo novembre). Al di là di tutte le sterili polemiche del post opening (tanto lo sappiamo è un giro di ruota e difficimente i detrattori non approfittano dell'occasione per gettare benzina sul fuoco), io mi domando, vi domando... Ma davvero – nell'apocalittico scenario mondiale delineato negli ultimi due anni, se vogliamo considerare il periodo intercorso tra un'edizione e l'altra della Biennale Arte, dominato da migrazioni epocali, isolazionismo politico, innalzamenti di muri e populismo, guerre senza fine, terrosimo

globale – ci sarebbe stata una linea curatoriale, un concept, che sarebbe stato considerato vincente e che non sarebbe stato oggetto di critiche? Siamo sinceri... Nel banale quanto sincero slogan Viva Arte Viva c'è un tentativo, solo apparentemente facile, di riportare il ruolo e il pensiero dell'artista al centro della scena, di riassegnargli una funzione sociale, quasi fosse uno sciamano, un mentore che attraverso la propria opera comunica e apre orizzonti di senso per una collettività, sempre più dominata da individualismo e indifferenza. E qui le parole – dialogo e conciliazione – tanto lette nei giorni scorsi, e “cavalcate” anche da grandi dame del patinato mondo dell'arte contemporanea, acquistano nuovo peso e valore. Il messaggio, comunente condiviso, è che l'arte non è speculazione e che bisogna riavvicinare l'arte alla gente. Interessanti proclami, tenuto conto che per anni ci si è mossi nella direzione esattamente opposta e forse, solo ora che la “bolla” accenna a scoppiare si guarda al salvataggio. Gli intenti, comunque, non hanno smentito la pratica, la logica del dialogo con il pubblico è ben evidente in ogni aspetto della macchina organizzativa. Ricordiamo le efficaci parole del Presidente della Biennale di Venezia Paolo Baratta. «Il mondo dell'arte è un mondo di coraggio,

di capacità di resistere, capacità di non cedere alle banalità o ai vizi della nostra vita quotidiana. È un grande aiuto per la nostra autoconsapevolezza dell'incredibile complessità degli esseri umani e della condizione umana». Diventa così chiara la scelta curatoriale di abbattere le barriere e di far dialogare coralmente artisti emergenti, artisti trendy e i cosiddetti “dimenticati”, in un approccio democratico e non verticale. Una menzione speciale va assegnata a tre Padiglioni. Il Padiglione Germania – meritatamente Leone d'Oro per la miglior Partecipazione Nazionale – è un teatro di giovani performer, le cui azioni sono attivate dalla “regia” di Anne Imhof. In un'attenta disamina dei meccanismi distorti del nostro tempo, di personalità sempre più fluttuanti tra mondo reale e il suo antagonista virtuale, le sculture viventi che animano il Padiglione da ogni prospettiva rappresentano con nitida lucidità l'effetto straniante sull'individuo dei meccanismi di potere e sottomissione – una sorta di capitalizzazione dei corpi – che si riflettono in movimenti brutali e concitati quanto in azioni delicate e meditate, che aprono spiragli in termini di possibilità di risveglio e di rivalsa dell'uomo contemporaneo. Innesta interessanti riflessioni sui concetti di “Stato Nazionale” e cittadinanza il Padiglione Finlandia: una collaborazione transnazionale tra il finlandese Erkka Nissinen e l'inglese Nathaniel Mellors volta a riflettere su come, mentre la rete sia ancorata ai concetti di universalità e accessibilità, quello che avviene nella pratica è un'incessante ritirata entro i propri confini nazionali con conseguente conservatorismo culturale, xenofobia. Con Aalto Natives, gli artisti indagano criticamente quale possa essere il contributo dell'arte in un tale contesto.

Roberto Cuoghi, Imitazione di Cristo, 2017, veduta dell'installazione al Padiglione Italia, work in progress. 57. Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia. Foto: Roberto Marossi 12 | ESPOARTE 97 | SPECIALE BIENNALE


Giorgio Andreotta Calò, Senza titolo (La fine del mondo), 2017, veduta dell'installazione al Padiglione Italia. 57. Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia. Foto: Roberto Marossi

Vince, almeno nei nostri cuori, l'Italia con un Padiglione Italia, capitanato da Cecilia Alemani, finalmente all'altezza delle aspettative, con una triade d'eccellenza: la suggestiva officina creativa di Roberto Cuoghi, intenta alla sperimentazione di nuovi modi di rappresentare Cristo (Imitazione di Cristo, 2017); il video The Reading (2017) di Adelita Husni-Bey, in cui attraverso una lettura collettiva dei tarocchi, creati dall'artista stessa, un gruppo di dieci ragazzi si pongono domande sul destino del mondo, sui disastri ambientali, fino a chiedersi – in una interessante disamina del sempre più complesso rapporto realtà e fiction virtuale – “attraverso la realtà virtuale ognuno di noi può vedere ciò che vuole e ignorare quello che accade davvero?”; fino all'ultima finale folgorazione,

donata da Giorgio Andreotta Calò, nel senso di straniamento e precarietà che ci pervadono nel percorso verso Senza Titolo (La fine del mondo), sin dal primo gradino della scalinata-ponteggio che ci conduce in alto, verso il soffitto del suggestivo spazio delle Tese delle Vergini all'Arsenale. E raggiunti al culmine, l'estasi dell'inganno visivo – indotto dalla efficace saturazione dello spazio architettonico – ci induce a «riprendere possesso delle nostre percezioni». E allora le senzazioni si succedono: pericolo, vertigine, il sentirsi risucchiati in un abisso. Una scossa che l'artista ha voluto dare al pubblico veneziano invitandolo a lottare contro quell'appiattimento sensoriale, immediata conseguenza dell'assuefazione tra reale e virtuale. Indubbiamente Il Mondo Magico che

muove il Padiglione Italia – che prende a prestito il nome da un libro dell'antropologo napoletano Ernesto de Martino, scritto negli anni della Seconda Guerra Mondiale e pubblicato nel 1948 – sviscera a fondo concetti cari a de Martino, come la crisi della presenza dell'individuo e della collettività e, soprattutto, dei mezzi razionali non più sufficienti ad esorcizzare il dramma; quella che l'antropologo chiama la “perdita dell'esser-ci”, ovvero «l'incapacità di comprendere e dare forma al mondo». La magia – declinata quindi come strumento per ridefinire la posizione dell'uomo nel mondo, un modo per combattere l'apocalisse culturale che stiamo vivendo – che come svela Andreotta Calò (in un'intervista sul Manifesto del 12 maggio) trova, nella sua opera, ispirazione negli interminabili ponteggi di L'Aquila e in Venezia, idealmente rappresentata nel soffitto specchiato dall'acqua. L'Italia, Paese dalle mille contraddizioni, viene svelata, senza l'utilizzo di una falsa retorica, senza bisogno di parole, solo con la forza di un'emozione, di un sussulto che innesta una domanda, un ragionamento. In questa edizione l'Italia s'è desta, compiendo un eroico atto di resistenza.

Adelita Husni-Bey, The Reading / La Seduta, 2017, veduta dell'installazione al Padiglione Italia. 57. Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia. Foto: Roberto Marossi ESPOARTE 97 | SPECIALE BIENNALE | 13


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/ INDICE / #97 16 VIVA ARTE VIVA | Artisti come un libro aperto | Intervista a Christine Macel di Francesca Di Giorgio 20 I NUMERI DELLA BIENNALE GLI ITALIANI DI VIVA ARTE VIVA 22 SALVATORE ARANCIO | L’arte alchemica: tra natura e scienza | Intervista di Irene Biolchini 25 MICHELE CIACCIOFERA | Arte, Memoria e Storia: fili di continuità tra passato e presente | Intervista di Irene Biolchini 28 IRMA BLANK | Il pensiero e l'azione di un cammino autentico | Intervista di Alessandro Trabucco 31 RICCARDO GUARNERI | Sulla poesia raffinata del colore | Intervista di Matteo Galbiati 34 GIORGIO GRIFFA | Codice colore | Intervista di Matteo Galbiati 36 PADIGLIONE FRANCIA | XAVIER VEILHAN | Studio Venezia | Intervista di Lucia Longhi 40 PADIGLIONE AUSTRIA | BRIGITTE KOWANZ | Relazioni tra luce, lingua e riflessione | Intervista di Lucia Longhi 43 LA PAROLA AI PADIGLIONI... | GERMANIA | a cura di Elena Borneto 44 PADIGLIONE AUSTRALIA | TRACEY MOFFATT | Le nuove convenzioni della fotografia | Intervista di Matteo Galbiati

ESPOARTE #97 | Anno XVIII | Numero speciale | giugno 2017

Registrazione del Tribunale di Savona n. 517 del 15 febbraio 2001

Espoarte è un periodico di arte e cultura contemporanea edito dall’Associazione Culturale Arteam. © Proprietà letteraria riservata. È vietata la riproduzione, anche parziale, di testi pubblicati senza l’autorizzazione scritta della Direzione e dell’Editore. Le opinioni degli autori impegnano soltanto la loro responsabilità e non rispecchiano necessariamente quelle della direzione della rivista. Corrispondenza, comunicati, cartelle stampa, cataloghi e quanto utile alla redazione per la pubblicazione di articoli vanno inviati all’indirizzo di redazione. Tutti i materiali inviati, compresi manoscritti e fotografie, anche se non pubblicati, non verranno restituiti.

Editore Ass. Cult. Arteam Redazione via Traversa dei Ceramisti 8/b 17012 Albissola Marina (SV) Tel. +39 019 4500744 redazione@espoarte.net www.espoarte.net Redazione grafica – Traffico pubblicità villaggiodellacomunicazione® traffico@villcom.net

espoarte #97 46 LA PAROLA AI PADIGLIONI... | DANIMARCA, BELGIO, GRAN BRETAGNA, ISLANDA | a cura di Elena Borneto 48 PADIGLIONE FINLANDIA | THE AALTO NATIVES | Parola al curatore Xander Karskens | Intervista di Luca Bochicchio 51 LA PAROLA AI PADIGLIONI... | TUNISIA, IRAQ | a cura di Elena Borneto 52 PADIGLIONE GUATEMALA | DANIELE BONGIOVANNI | Natura che emerge dalla pittura | Intervista di Chiara Serri 54 LA PAROLA AI PADIGLIONI... | KOSOVO, NUOVA ZELANDA, SINGAPORE | a cura di Elena Borneto 56 VISTO A VENEZIA | GLI EVENTI DA NON PERDERE | a cura di Francesca Di Giorgio: Jan Fabre. Glass And Bone Sculptures 1977-2017, Pierre Huyghe, Philip Guston and The Poets, Shirin Neshat. The Home of My Eyes, Michelangelo Pistoletto. One and One makes Three, Damien Hirst. Treasures from the Wreck of Unbelievable [di Francesca Caputo], The End of Utopia [di Igor Zanti], Intuition [di Matteo Galbiati], Glasstress 2017, Giovanni Anselmo, Elisabetta Di Maggio, Alighiero Boetti: Minimum/Maximum, David LaChapelle. Lost+Found, Vik Muniz. Afterglow: Pictures of Ruins 66 NEW OPENING | ALBERTA PANE | Ritorno a Venezia | Intervista ad Alberta Pane di Direttore editoriale Livia Savorelli Publisher Diego Santamaria Segreteria di redazione Francesca Di Giorgio Direttore web Matteo Galbiati Direttore responsabile Silvia Campese Art Director Elena Borneto Coordinamento editoriale e grafica Elena Borneto Hanno collaborato a questo numero Irene Biolchini, Luca Bochicchio, Francesca Caputo, Francesca Di Giorgio, Matteo Galbiati, Lucia Longhi, Chiara Serri, Alessandro Trabucco, Igor Zanti

Eliza Douglas in Anne Imhof, Faust, 2017, Padiglione Germania, 57. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia. Foto: © Nadine Fraczkowski. Courtesy: Padiglione Germania 2017, l'artista

Francesca Di Giorgio 68 LA PAROLA AI PADIGLIONI... | POLONIA, BOSNIA ED ERZEGOVINA, LIBANO | a cura di Elena Borneto 70 PADIGLIONE MALTA | Homo Melitensis: An Incomplete Inventory in 19 Chapters | Dialogo con i curatori Raphael Vella e Bettina Hutschek | di Irene Biolchini 72 LA PAROLA AI PADIGLIONI... | KIRIBATI, RUSSIA | a cura di Elena Borneto 74 PADIGLIONE URUGUAY | MARIO SAGRADINI | La legge dell’imbuto | Intervista di Irene Biolchini 76 LA PAROLA AI PADIGLIONI... | GRENADA, TURCHIA, UCRAINA, THAILANDIA | a cura di Elena Borneto Stampato in Italia da Bandecchi & Vivaldi s.r.l. Via Papa Giovanni XXIII 54, 56025 Pontedera (PI) Distribuzione edicole MEPE Distribuzione Editoriale Via Ettore Bugatti 15, 20142 Milano (MI) Pubblicità - Direttore Commerciale Diego Santamaria Tel. 019 4500659 / Mob. 347 7782782 diego.santamaria@espoarte.net Abbonamenti Italia Annuale (4 numeri): 20 € Biennale (8 numeri): 36 € Triennale (12 numeri): 48 € Numeri arretrati: euro 10 a copia (spedizione in piego libri inclusa). Bonifico bancario anticipato. Oppure shop online su www.espoarte.net/shop c/c bancario Bonifico intestato a: Ass. Cult. Arteam IBAN: IT83V0569610600000010041X60 Banca Popolare di Sondrio - Agenzia di Savona Ufficio Abbonamenti abbonamenti@espoarte.net ESPOARTE 97 | SPECIALE BIENNALE | 15


VIVA ARTE VIVA ARTISTI COME UN LIBRO APERTO

Intervista a CHRISTINE MACEL di Francesca Di Giorgio

Ha iniziato a curare mostre circa ventidue anni fa, fino ad arrivare al Centre Pompidou di Parigi. Esperienze fondamentali quanto i buoni maestri incontrati sulla sua strada, primo fra tutti Jean Clair dal quale sembra aver ereditato la propensione a pensare agli artisti senza alcuna categorizzazione, soprattutto in riferimento ad una platea internazionale come la Biennale di Venezia: «Per Viva Arte Viva ho scelto gli artisti per le loro opere, le differenze tra giovani, storicizzati, artistar o artisti fuori dai canonici circuiti di mercato sono più circostanziali che profonde». Ci tiene 16 | ESPOARTE 97 | SPECIALE BIENNALE

a mettere in chiaro Christine Macel raggiunta poco prima dell'opening della 57. Biennale d'Arte di Venezia, quando non eravamo ancora stati introdotti nel “mantra” Viva Arte Viva che, per quanto non particolarmente esaltante sulla carta, non ha poi disatteso del tutto, nella pratica, le nostre aspettative a partire dal tanto discusso ruolo del curatore... L'impronta narrativa che ha voluto dare al suo progetto curatoriale per la Biennale di Venezia sembra fare un passo indietro rispetto alla

presenza, a volte ingombrante e quasi totalizzante, del curatore. Penso che il curatore debba stare tra gli artisti e non davanti a loro. C'è stata, negli ultimi vent'anni, una concentrazione mediatica eccessiva intorno a questa figura. Da parte mia mi auguro che gli artisti siano il punto nodale dell'Esposizione, per questo non ho volutamente scelto un tema che li prevaricasse e ponesse il discorso curatoriale davanti alle loro opere. Mi auguro, al contrario, di approfondire le loro pratiche nella mostra stessa, come accade nel padiglione dedicato, il Padiglione degli


Artisti e dei Libri, così come nei progetti paralleli, nel catalogo che vede raddoppiate le pagine dedicate a ciascun artista, nel progetto Pratiche d'Artista con tutti i brevi filmati online sul sito della Biennale, in Tavola Aperta (due pranzi a settimana per incontrare in maniera informale gli artisti intorno alle loro pratiche) e, infine, ne La Mia Biblioteca che permette, attraverso una lista di libri scelti dagli artisti, di immergersi nelle lori fonti e connivenze. In una recente intervista ha dichiarato: «Bisogna raccontare meglio le pratiche dell'arte contemporanea ai visitatori»... Considero l'artista tanto importante quanto il visitatore e quando visito una mostra preferisco ricevere qualche chiave di lettura,

anche se la pedagogia può avere i suoi limiti e alterare in senso negativo la percezione delle opere. È una questione sottile. Spesso si dice che «Ciò che trasmette l'opera basta a se stessa». Questo funziona soprattutto per chi si è già approcciato all'arte contemporanea. La Biennale non ha soltanto 25.000 visitatori professionisti nella prima settimana ma, soprattutto, i successivi 500.000 tra amatori o studenti. Io mi voglio indirizzare, allo stesso modo, anche a loro. Ad esempio Tavola aperta consiste in pranzi ai quali ci si può iscrivere con un biglietto, con un limite di posti disponibili. Sono visibili sia in diretta streaming sia successivamente online. È un momento di incontro informale e di relax con un artista che spiega la sua ricerca e risponde a delle domande, che

Dall'alto: Christine Macel. Foto: Jacopo Salvi. Courtesy: La Biennale di Venezia Tavola Aperta con l'artista Kiki Smith, Padiglione Centrale, Portico, Giardini, 10 maggio 2017. 57. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, Viva Arte Viva. Foto: Jacopo Salvi. Courtesy: La Biennale di Venezia Nella pagina a fianco: Hao Liang, opere varie, 1982-2016, tecnica mista. 57. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, Viva Arte Viva. Foto: Italo Rondinella. Courtesy: La Biennale di Venezia ESPOARTE 97 | SPECIALE BIENNALE | 17


contribuiranno a formare un archivio. Il progetto delle Pratiche d'Artista, che ho chiesto a ciascun artista di realizzare, è molto seguito sul sito della Biennale. Mentre a Kassel, in occasione di domenta14, si ricostruisce l’opera The Parthenon of Books dell’artista argentina Marta Minujín, dal significato fortemente simbolico, ci racconta, invece, quale sarà il destino dei libri che ha chiesto di scegliere agli artisti invitati? Nel Padiglione degli Artisti e dei Libri, molti artisti fanno sfoggio del loro rapporto con i libri, da John Latham a Liu Ye, da Ciprian Muresan a Nuñez & Rodriguez. Inoltre nel Padiglione Stirling, ho riunito tutti i libri scelti dagli artisti per realizzare una sala di lettura, che permetta di vagabondare in una sorta di biblioteca sia nel caso di interesse per un determinato artista sia solo per scoprire libri dei quali non si era mai sentito parlare. Per esempio Senga Nengudi ha scelto un libro sul poeta persiano Rumi, dal titolo “The Essential Rumi”, che svela il legame tra la sua arte e l'elemento spirituale, non percepibile a prima vista. O ancora Hao Liang che cita molte opere della tradizione pittorica del paesaggio in Cina, di cui non ero a conoscenza. Di fronte ad un grande progetto che coinvolge tanti artisti anagraficamente distanti e dalle differenti ricerche, altrettanti sono gli aspetti da tenere presenti. Ci sono state delle linee guida che l'hanno portata alla scelta delle sezioni tematiche con cui ha strutturato il suo progetto e le singole opere degli artisti invitati ad esporre? Ho lavorato fin da subito pensando contemporaneamente agli artisti e ai capitoli della mostra, una sorta di tessitura culminata in un percorso in nove capitoli o universi. Ci sono in effetti meno categorie che gruppi, famiglie nelle quali si potranno trovare echi o risonanze. Ho voluto creare una narrazione, evidentemente elastica e piena di deviazioni, non lineare e rigida, al fine di offrire ad ogni artista il migliore contesto e al visitatore la possibilità di vivere non soltanto l'esperienza di una successione di sale e artisti ma l'esperienza di intraprendere una sorta di viaggio, di riflessione o trasformazione. In effetti la linea 18 | ESPOARTE 97 | SPECIALE BIENNALE

narrativa parte dal soggetto, l'artista stesso, e disegna un movimento di apertura dal soggetto verso l'esterno, verso l'altro da sé. Dopo il secondo capitolo dedicato al campo dell'affettività, il Padiglione delle Gioie e delle Paure, ci si incammina


nell'Arsenale attraverso differenti universi, dal Padiglione dello Spazio Comune che interroga il significato di “collettivo”, al Padiglione del Tempo e dell'Infinito, che ci conduce più lontano dal soggetto verso la materia spazio-tempo o speculazioni più metafisiche. In Viva Arte Viva sono presenti molti artisti appartenenti alle generazioni passate. Da tempo anche le gallerie seguono questa linea, ad esempio con intere sezioni dedicate nelle fiere di settore. Cosa rispecchia per lei questa “riscoperta del passato”? Una tendenza, aspetti

commerciali, culturali o altro? Credo che non ci siano generazioni passate salvo quando si è perduto il rapporto con la contemporaneità. Ci sono degli artisti nati nel 1930 che sono a volte più contemporanei di quelli più giovani. Nel 2000 ho curato la retrospettiva di Raymond Hains al Centre Pompidou, il suo è un esempio di un artista di più di settant'anni così creativo da non aver nulla da invidiare agli artisti più giovani. Sono una storica dell'arte per cui questo approccio mi sembra del tutto naturale. In Biennale, in effetti, ci sono artisti di tutte le generazioni (dai 25 ai 97 anni), questo perché non ho pensato alla loro età ma solo alle loro opere.

Christine Macel è nata a Parigi nel 1969. Dopo gli studi in storia dell’arte, è stata conservatrice del patrimonio e ispettore della creazione artistica per la “Délégation aux Arts Plastiques” del Ministero della Cultura francese (dal 1995). Dal 2000 ricopre l’incarico di Curatore capo del Musée national d’art moderne – Centre Pompidou di Parigi, dove è responsabile del Dipartimento della “Création contemporaine et prospective” che ha fondato e sviluppato. È stata curatrice del Padiglione Francese alla Biennale Arte 2013 (Anri Sala) e del Padiglione Belga alla Biennale Arte 2007 (Eric Duyckaerts). 57. Esposizione Internazionale d’Arte La Biennale di Venezia. Viva Arte Viva Curatore: Christine Macel Padiglione Centrale ai Giardini, Arsenale, Giardino delle Vergini, Venezia 13 maggio - 26 novembre 2017 www.labiennale.org

John Latham, opere varie, 1959-1992, tecnica mista. 57. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, Viva Arte Viva. Foto: Francesco Galli. Courtesy: La Biennale di Venezia Nella pagina a fianco, dall'alto: Senga Nengudi, A.C.Q., 2016/2017, installazione con sculture, dimensioni variabili. 57. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, Viva Arte Viva. Foto: Francesco Galli. Courtesy: La Biennale di Venezia Katherine Nuñez & Issay Rodriguez, In Between the Lines 2.0, 2015-2017, uncinetto, ricamo e cucito. 57. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, Viva Arte Viva. Foto: Francesco Galli. Courtesy: La Biennale di Venezia ESPOARTE 97 | SPECIALE BIENNALE | 19


/ I NUMERI DELLA BIENNALE / VIVA ARTE VIVA - MOSTRA INTERNAZIONALE 9 capitoli o famiglie di artisti (2 primi universi nel Padiglione Centrale ai Giardini) - (7 altri universi dall'Arsenale fino al Giardino delle Vergini) 120 artisti partecipanti da 51 Paesi 103 artisti presenti per la prima volta nella Mostra Internazionale del curatore Christine Macel 6 artisti italiani di Viva Arte Viva: Salvatore Arancio (1974), Irma Blank (1934), Michele Ciacciofera (1969), Giorgio Griffa (1936), Riccardo Guarneri (1933), Maria Lai (1919-2013) 57. ESPOSIZIONE INTERNAZIONALE D’ARTE - LA BIENNALE DI VENEZIA 86 Partecipazioni Nazionali (Padiglioni ai Giardini, Arsenale e centro storico di Venezia) 3 Paesi presenti per la prima volta: Antigua e Barbuda, Kiribati, Nigeria 23 Eventi Collaterali PREMI DELLA 57. ESPOSIZIONE INTERNAZIONALE D’ARTE Giuria internazionale: Manuel J. Borja-Villel (Presidente di Giuria, Spagna), Francesca Alfano Miglietti (Italia), Amy Cheng (Taiwan), Ntone Edjabe (Camerun), Mark Godfrey (Gran Bretagna). / Leone d’Oro alla Carriera: Carolee Schneemann (nata a Fox Chase in Pennsylvania nel 1939, vive e lavora nella Hudson Valley, New York). La decisione è stata presa dal Cda della Biennale presieduto da Paolo Baratta, su proposta della curatrice della 57. Esposizione Internazionale d’Arte, Christine Macel. / Leone d’oro per la miglior Partecipazione Nazionale: GERMANIA. Anne Imhof Commissario: ifa (Institut für Auslandsbeziehungen) on behalf of the Federal Foreign Office. Curatore: Susanne Pfeffer. Artista: Anne Imhof. Sede: Giardini. / Menzione speciale: BRASILE. Cinthia Marcelle Commissario: Fundação Bienal de São Paulo. President João Carlos de Figueiredo Ferraz. Curatore: Jochen Volz. Artista: Cinthia Marcelle. Sede: Giardini. / Leone d’oro per il migliore artista della mostra Viva Arte Viva: Franz Erhard Walther (Nato nel 1939 in Germania, vive e lavora a Fulda) Sede: Arsenale – Corderie. / Leone d’argento come giovane artista promettente: Hassan Khan (Nato nel 1975 nel Regno Unito, vive e lavora a Il Cairo) Sede: Giardino delle Vergini. / Due menzioni speciali: Charles Atlas (Nato nel 1949 negli Stati Uniti, vive e lavora a New York) Sede: Arsenale - Corderie. Petrit Halilaj (Nato nel 1986 in Kosovo, vive e lavora tra Bozzolo, Berlino e Pristina) Sede: Arsenale - Corderie/Sale d’Armi G - Giardini/Padiglione Centrale. Dall'alto: Carolee Shneemann. Foto: Andy Archer Franz Erhard Walther, opere varie, 1975-1986, tecnica mista. 57. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, Viva Arte Viva. Foto: Andrea Avezzù. Courtesy: La Biennale di Venezia Padiglione Brasile, Chão de caça. 57. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, Viva Arte Viva. Foto: Francesco Galli. Courtesy: La Biennale di Venezia Charles Atlas, The Tyranny of Consciousness, 2017, five-channel video installation, color, audio: helm and Lady Bunny, 23’44’’. 57. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, Viva Arte Viva. Foto: Andrea Avezzù. Courtesy: La Biennale di Venezia Hassan Khan, Composition for a Public Park, 2013/2017, music composed and recorded by the artist, text written and recorded in various voices by the artist, computer and multi-track software, audio interface, multichannel sound system, public park. 57. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, Viva Arte Viva. Foto: Italo Rondinella. Courtesy: La Biennale di Venezia

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GLI ITALIANI DI VIVA ARTE VIVA

Salvatore Arancio L’ARTE ALCHEMICA: TRA NATURA E SCIENZA Intervista di Irene Biolchini

Salvatore Arancio lavora da anni sulle intersezioni tra natura e scienza creando strani ed inquietanti paesaggi. Guardando le pagine del suo Wonders of the Volcano (NERO, 2011) potremmo davvero credere che la natura apocalittica delle immagini da lui create sia la reale illustrazione di un testo scientifico vittoriano. Nella sua più recente produzione l’artista gioca con il paradosso, rielabora immagini trovate online in video ipnotici che svelano la visionarietà dell’insieme: denuncia attraverso la multidisciplinarietà i diversi livelli di lettura dell’opera. La fotografia, studiata al Royal College of London, è la base tecnica su cui ha innestato una crescente passione per il fare manuale,

lavorando con l’incisione e la ceramica. Alla Biennale di Venezia, invitato nella main section, Salvatore Arancio presenta un lavoro dalle dimensioni totemiche in cui scienza, ipnosi e forme organiche coesistono nel creare un ambiente visionario. La tua formazione londinese è avvenuta all’interno del corso di fotografia analogica. Che ruolo ha avuto la dimensione alchemica dello sviluppo fotografico nella tua fascinazione verso il mondo scientifico? Il mio riconoscere questo aspetto alchemico della fotografia forse è nato solo con il tempo, paragonando la ceramica e la fo-

tografia, capendo come questi due mondi così distinti avessero per molti aspetti tanti punti in comune. Mentre, invece, la mia fascinazione verso il mondo scientifico nasce quasi per gioco e da assoluto outsider. L’aspetto che più mi interessa è la continua evoluzione delle nozioni scientifiche: in particolare mi affascina come la metodologia scientifica si costruisca sul continuo collasso di esse e su come le nozioni diventino obsolete nel tempo di una notte. Tutto ciò dal mio punto di vista contribuisce ad un certo senso di incertezza e ci riporta agli albori della ricerca scientifica dove la mancanza di consapevolezza si mischiava continuamente con la mitologia popolare. È

Salvatore Arancio, It Was Only a Matter of Time Before We Found the Pyramid and Forced It Open, 2017, glazed and unglazed ceramic, epoxy resin ca., 57. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, Viva Arte Viva. Foto: Italo Rondinella. Courtesy: La Biennale di Venezia 22 | ESPOARTE 97 | SPECIALE BIENNALE


proprio questa ambiguità tra il fictional e la realtà quello che più mi interessa e che si riflette maggiormente nel mio lavoro in cui l’aspetto reale diventa fantastico.

Wonders of the Volcano si basava sulla rielaborazione della scienza vittoriana, tramutando le illustrazioni scientifiche in mondi immaginari dai tratti inquietanti. La scienza si apre al magico, come se gli anni della formazione siciliana si mescidassero agli anni londinesi. L’unione di questi due mondi sembra rimanere una costante anche nella tua produzione successiva: in che misura questa operazione è avvenuta consapevolmente? C’è da dire che i miei paesaggi non hanno mai una connessione con dei luoghi precisi o se l'hanno in partenza riescono attraverso la mia manipolazione a perdere le loro origini, divenendo difficili da localizzare pur mantenendo un certo senso di familiarità. È comunque vero che si possono intravedere delle tracce di paesaggi che certamente hanno a che fare con il mio passato e presente, ma questo è successo in maniera in-

consapevole, quasi inconscia. Il tuo interesse per l’incisione è nato parallelamente alla pratica fotografica? Quali sono le tecniche che prediligi? Sono stato sempre affascinato dall’incisione perché possedeva un’aura che riportava a qualcosa di antico, a qualcosa di valore. Io arrivavo dalla fotografia che è molto immediata e mi sono ritrovato in una situazione che sembrava riportarmi indietro nel tempo. In generale direi che il mio rapporto con la tecnica è sempre dettato dal contenuto. Più che dire che prediligo la tecnica ceramica, direi che sento la mancanza del rapporto con la materia, dopo un po’ devo tornarci. Nel 2012 hai preso parte al progetto di residenza del Museo Carlo Zauli dove hai lavorato la ceramica per la prima volta. Quale è stato il primo impatto che la materia ha avuto sulla tua ricerca? E quale è il tuo legame con la città di Faenza? Faenza è stata il primo luogo in cui ho conosciuto la ceramica, ma è anche quello a

cui sono tornato per realizzare l’imponente lavoro che ho portato in Biennale: per diversi mesi ho lavorato, infatti, alla Bottega Ceramica Gatti in Faenza dove ho trovato il clima ideale per poter produrre un lavoro tanto complesso. Tornando al 2012, invece, la residenza è arrivata in un momento in cui avevo l’urgenza di utilizzare le mani. Quella residenza mi ha aperto diverse possibilità. Se la fotografia era un mezzo per registrare la realtà, lavorare con la ceramica mi ha permesso di immobilizzare – e su materia – un regno di memorie, fantasie. Il primo approccio è stato in qualche modo liberatorio, è a quel punto che ho capito come volevo usare la ceramica andando contro la “restrizione” tecnica super-precisa della fotografia. La ceramica mi ha liberato dalle privazioni, dalle restrizioni, dalle regole. E questo è stato possibile anche per via del materiale stesso, che rimanda alle feci, a qualcosa di sporco: il manipolarlo ti riporta a superare il tabù. Si prova un piacere fisico nella manipolazione, che probabilmente è legato alla rottura di tutte le restrizioni. In qualche modo la ceramica sem-

Salvatore Arancio, MIND AND BODY BODYAND MIND, 2015, HD video, color, sound, 16’37’’, 57. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, Viva Arte Viva. Foto: Italo Rondinella. Courtesy: La Biennale di Venezia ESPOARTE 97 | SPECIALE BIENNALE | 23


bra essere un ritorno all’alchimia, specie se pensi alle ricette per gli smalti, che ogni ceramista custodisce gelosamente… In che misura questo dato magico-alchemico ha un impatto sulla tua ricerca? Credi che i tuoi esordi fotografici siano legati a questa idea alchemica, alla trasformazione della materia? Beh, ci sono numerose vicinanze tra la fotografia e la ceramica: le prove di esposizione della stampa fotografica sono simili alle lastre di ceramica quando testano gli smalti; l’idea alchemica dell’apertura del forno che mostra il risultato solo all’ultimo è simile allo sviluppo della pellicola tradizionale. Tutti e due i media hanno a che fare con il tempo: la fotografia congela il tempo, mentre la ceramica conserva anche l’immobilità tattile. In ceramica fermi il gesto, quel preciso momento. E nonostante le vicinanze, la ceramica per me è libertà. Il mio è un approccio primitivo: per me la ceramica è primitiva come tecnica, ma anche ritorno ad un’era che precedeva il tabù. Più che trasformare la materia, con le mie ceramiche tento di creare un circolo continuo: il materiale naturale torna ad essere natura. Il tuo intervento alla Biennale di Venezia si mantiene in aperto dialogo con i temi della natura, della magia e della scienza? Questo lavoro nasce inizialmente come una performance, realizzata per la Whitechapel Gallery di Londra più di un anno fa. Ho trovato una seduta di ipnoterapia che avrebbe aiutato chi partecipava a diventare un ar-

tista migliore. Il progetto è nato come un lavoro sottilmente ironico perché la seduta elencava tutti gli stereotipi del lavoro dell’artista (oltre ad essere tutte cose che all’università ti insegnano a non fare). Ho deciso di estrapolare lo script e di creare un video con found images, associate a dei flash di luce (con la stessa frequenza di quelle della dream machine che Brion Gysin e Ian Sommerville crearono nel 1959). Le sculture che fanno parte dell'installazione sono pensate come un prodotto diretto del mondo psichedelico e colorato del video e create sotto l’influenza della seduta d’ipnoterapia. Il giardino di sculture vuole giocare, ironicamente, sul fatto che attraversandolo uno possa assorbire questa energia diventando un artista migliore. Come i monoliti nel film di Stanley Kubrick, 2001: A Space Odyssey, questi invece approdano all’Arsenale. Ovviamente la loro forma e colori contribuiscono a creare il disorientamen-

to: volevo giocare con una feticizzazione dell’elemento naturale come qualcosa che noi iniziamo a venerare. La forma totemica mi permetteva di accrescere l’aspetto di sospensione, di meditazione che al tempo stesso richiama a forme di un’altra galassia. Questa perdita di orientamento è quello che cerco di provocare nello spettatore: volevo che ci fosse il contrasto con un paesaggio allo stesso tempo primordiale ma altrettanto alieno. Le sculture potrebbero essere anche stalattiti di un altro pianeta, possono essere una sospensione di tempo. Una natura che è, al tempo stesso, fantastica e grottesca: essa è il risultato del mio spingere il materiale oltre ai suoi limiti, agli estremi delle sue potenzialità. Lavoro in maniera alchemica, in questo senso davvero come Athanasius Kircher, ad una proscienza. Ovviamente senza abbandonare mai la componente ironica della costruzione complessiva.

Salvatore Arancio è nato nel 1974 a Catania. Vive e lavora a Londra. www.salvatorearancio.com Galleria di riferimento: Federica Schiavo Gallery, Milano/Roma www.federicaschiavo.com

Dall'alto: Salvatore Arancio, MIND AND BODY BODYAND MIND, 2015, still video, looped video with sound, 16 min 37 sec Courtesy: the artist and Federica Schiavo Gallery Salvatore Arancio, Wonders of the Volcano, 2011, book, photo-etching on paper, wooden box, cm 16,7x11 (book), cm 32,2x27,5 (photo-etching), cm 36,6x32,2x6 (box). Courtesy: the artist and Federica Schiavo Gallery 24 | ESPOARTE 97 | SPECIALE BIENNALE


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Michele Ciacciofera ARTE, MEMORIA E STORIA: FILI DI CONTINUITÀ TRA PASSATO E PRESENTE Intervista di Irene Biolchini All’interno di Viva Arte Viva, Michele Ciacciofera presenta un lavoro che si ricollega alle sue origini. Nato in Sardegna, cresciuto in Sicilia – e da anni residente a Parigi – Ciacciofera ibrida nella sua pratica tecniche, materie e linguaggi al fine ultimo di restituirci opere che si ispirino alle leggende, al verso poetico ancora prima che alla narrazione. Gli studi umanistici riemergono nella metodologia dando vita a ricerche ultradecennali che alimentano la scrittura e la creazione artistica, come nel caso di Odio gli indifferenti, una mostra ispirata all’idea gramsciana di storia e presentata ad Edimburgo.

La tua pratica è segnata da una produzione su doppio binario: da un lato tecniche antichissime come la pittura e il disegno, dall’altro installazioni sonore. Come convivono questi due mondi? Non ho mai pensato che tecniche diverse costituiscano pratiche separate. Disegno, pittura, scultura, installazione, spazi sonori, video, tappeti etc... tecniche diverse tra loro, ma a mio avviso dettagli di un processo circolare, come credo sia il mio. Per la pittura e il disegno devo dire che sono stati un po’ gli amici di tutta la vita, nel senso che sin dall’infanzia hanno costituito il vero

mezzo espressivo di base a fianco della parola. Il resto ha iniziato a trovare la sua collocazione negli anni successivi ma sempre in modo molto naturale. La tecnica, e questo credo sia un principio generale che non riguarda solo l’arte, è un mezzo che l’uomo sfrutta per il proprio fine, che nel mio caso è l’arte. Uno dei miei principali interessi è quello del rapporto tra la memoria e la vita attuale. Così penso che tecniche antiche quanto l’uomo possano convivere con altre derivabili dalle tecnologie più attuali; quello che conta per me è unicamente il contenuto: trovare dei fili di continuità tra il presente e il

Michele Ciacciofera, Janas Code, mixed media installation including several elements, 57. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, Viva Arte Viva. Foto: Italo Rondinella. Courtesy: La Biennale di Venezia ESPOARTE 97 | SPECIALE BIENNALE | 25


passato, allo scopo di mettere in evidenza quella mutabilità, ma anche quella forza misteriosa e inalterabile, che da sempre hanno spinto l’uomo e l’artista a creare immagini e forme. La ceramica viene considerata un materiale antichissimo: in che misura i tuoi studi sulla ceramica e sui fossili incontrano la tua pratica? La ceramica è il frutto perfetto dei quattro elementi fondamentali già citati dai greci. Essa trae origine dalla terra ma ha bisogno dell’acqua, del fuoco e dell’aria. Innanzitutto le forme espressive più ancestrali hanno trovato nella ceramica quel mezzo di trasmissione che arriva fino a noi. Ho vissuto tanti anni in Sicilia, che è un luogo dove la ceramica è tutt’uno con la sua storia, ed

essa è tutt’oggi presente senza interruzione di continuità. Terminato il liceo e in coincidenza con l’inizio degli studi universitari, l’attrazione verso la ceramica è diventata anche motivo di ricerca e studio. Le ceramiche si aggiungevano a un altro interesse che era quello verso i fossili, alcuni tipi in particolare: trilobiti e ammoniti. Quello che per me lega la ceramica e i fossili è, appunto, il rapporto con la terra, la loro stratificazione temporale e il modo in cui sono giunti a noi. In un secondo momento ho deciso di rimodellare il mio rapporto con gli oggetti che collezionavo integrandoli nella mia pratica artistica. Così facendo ho inteso ridargli una funzione che non fosse solo di estetica o di ricerca. Avendo idealizzato la forma dei fossili attraverso una pseudo-visualizzazione

della loro essenza organica originaria, ho anche utilizzato la ceramica per creare sculture che potessero riprodurre i loro movimenti in una sorta di nuova vita, una proiezione attraverso l’arte. Hai fatto riferimento alla Sicilia: quanto contano le tue origini nel tuo sentire artistico? Come si legano all’installazione che presenti a Venezia? L’ispirazione biografica o alla Sicilia, o anche alla Sardegna (dove sono nato), è insita in molti miei lavori, costituendone una premessa che si collega in modo naturale ad altre tematiche facenti parte della mia ricerca. A Venezia presento un’installazione tesa a creare una dimensione al contempo archeologica e fantastica, che nasce da uno studio, che dura da oltre un decennio, sulle Domus de Janas (letteralmente case delle fate). Queste strutture sepolcrali neolitiche presenti in Sardegna sono, nella leggenda popolare e letteraria, legate a figure fantastiche come le fate, nate dalla trasformazione fortuita delle api per mano di un dio. È un lavoro che collega più universi: l’arcaico ed il presente, il gioco e l’arte nella loro dimensione psicologica, il dominio della vita terrena e ultraterrena, il rapporto tra arte, letteratura e antropologia attraverso appunto il racconto orale di tradizione popolare. Le mie ricerche giovanili tornano in questa installazione, unendosi agli studi antropologici e sociologici. Ho scelto così dei tavoli antichi per presentare le ceramiche e questo perché essi conservano ogni traccia della vita quotidiana di altre persone, riconfigurandosi nella mia azione come vere e proprie creazioni, tutt’uno con gli oggetti che supportano. Quindi non semplici basi ma parti integranti dell’opera, contenitori di memoria, in un’atmosfera corale. Hai fatto riferimento al legame tra i lunghi anni di studio e la creazione dei tuoi cicli. In questo senso ti

Michele Ciacciofera, Janas Code, mixed media installation including several elements, 57. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, Viva Arte Viva. Foto: Italo Rondinella. Courtesy: La Biennale di Venezia 26 | ESPOARTE 97 | SPECIALE BIENNALE


chiederei come è nato lo studio per Atlantropa e la grande mostra al RISO di Palermo. Alcuni anni fa, riflettendo sul Mediterraneo come uno dei baricentri della storia dell’uomo, dell’attualità e senz’altro del futuro, scrissi un progetto per una grande mostra d’arte contemporanea che potesse convogliare parte delle ricerche artistiche più interessanti intorno alle tematiche tipiche del Mare di Mezzo. Nacque così la mostra Nel Mezzo del Mezzo che affidai a tre curatori eccezionali, da sempre attenti alle dinamiche artistiche del bacino. Il luogo prescelto, Palermo, aveva un senso per la sua storia, la sua cultura e vocazione. Così in cinque magnifici edifici storici, le opere di oltre ottanta artisti hanno dato vita a un dialogo senza confini, un dibattito estetico che mi premeva donare alla città in cui sono cresciuto e che amo pur vivendo altrove.

In questa mostra ho partecipato da artista (spossessandomi idealmente del progetto come faccio con gli oggetti raccolti e collezionati) con una grande installazione dal titolo Atlantropa, dal nome di una utopia oggi dimenticata, che poneva il Mediterraneo al centro di un progetto pacifista volto ad abbattere i confini tra Europa e Africa per la costituzione di un solo continente, attraverso l’eliminazione dei principali ostacoli della convivenza tra popoli. Subito dopo la pubblicazione degli artisti selezionati per la Biennale di Venezia, in Italia è nata una polemica sulla tua partecipazione alla luce del legame che ti unisce alla curatrice della Biennale, Christine Macel. Cosa ne pensi? Ho sempre avuto l’opportunità di lavorare con tanti curatori, di recente ad esempio

con Bonaventure Ndikung per il progetto Radio Documenta nell’ambito di Documenta 14 a Kassel, in cui presenterò uno spazio sonoro dal titolo The density of the transparent wind, un lavoro sugli attraversamenti nel Mediterraneo a partire dall’utopia a cui accennavo prima, completamente obliterata dalla storia del XX secolo nonostante la sua grandezza. Recentemente ho lavorato con Hans Ulrich Obrist a delle interviste che hanno accompagnato le mie mostre di Milano (Palazzo Chiesa) e al CAFA Museum di Pechino, quest’ultima curata da Wang Chunchen. Attualmente lavoro con Lorenzo Giusti per la mia prossima mostra personale che si terrà al MAN di Nuoro nell’inverno. Con Christine Macel ho un dialogo artistico e intellettuale iniziato parecchi anni fa; come accennavo prima, l’ho invitata come curatrice insieme a Bartomeu Mari e Marco Bazzini per la mostra Nel Mezzo del Mezzo, tenutasi a Palermo, di cui sono stato l’ideatore, in virtù della profonda conoscenza della scena artistica mediorientale nei suoi legami con quella europea. Abbiamo lavorato insieme alla mia mostra I hate the indifferent, tenutasi alcuni anni fa al Summerhall di Edimburgo e così lei mi ha anche invitato a partecipare a varie mostre come ad esempio What we call love svoltasi al Museo IMMA di Dublino. L’invito a partecipare al suo progetto per la Biennale di Venezia è la logica continuazione di questa collaborazione. La vita artistica è fatta anche di queste relazioni forti, di grandi amicizie e scambi intellettuali, che ispirano reciprocamente tanto gli artisti quanto i curatori.

Michele Ciacciofera è nato nel 1969 a Nuoro. Vive e lavora a Parigi. www.micheleciacciofera.com Galleria di Riferimento: Vitamin Creative Space, Heng Yi Jie, Chi Gang Xi Lu Guangzhou, Cina www.vitamincreativespace.com

Michele Ciacciofera, Atlantropa, 2014, dettaglio installazione juta, ceramica al terzo fuoco, legno. Foto: Marc Domage ESPOARTE 97 | SPECIALE BIENNALE | 27


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Irma Blank IL PENSIERO E L'AZIONE DI UN CAMMINO AUTENTICO Intervista di Alessandro Trabucco

Sei, su centoventi invitati dalla curatrice Christine Macel, gli artisti italiani presenti alla 57. Biennale Arte di Venezia, dal titolo Viva Arte Viva. Tra questi Irma Blank, artista tedesca di nascita ma ormai da moltissimi anni residente in Italia. Meritato riconoscimento ad una ricerca artistica che ha attraversato gli ultimi cinquant'anni mantenendo un proprio personale e silenzioso percorso autonomo, lontano dalle correnti più o meno codificate e temporalmente inserite nei vari decenni, a partire dagli anni '60 sino ai giorni nostri. Se da una parte il costante riferimento alla scrittura, al segno e al linguaggio, possono

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far pensare ad un'appartenenza a certe esperienze concettuali, dall'altra, i risultati ottenuti dall'artista riconducono la sua opera ad una più concreta manualità pittorica e grafica, con la realizzazione di quadri al limite dell'astrazione analitica e meditativa, allo stesso tempo gestuale e minimale. Il segno, il testo, il linguaggio, sono le basi del suo lavoro. Lei parla di "purificazione della scrittura, come segno primordiale, prelinguistico", cioè di una grafia realizzata prima di una sua codificazione grammaticale, quindi estensione di un gesto che nella ripetizione trova il proprio

percorso silenzioso verso l'infinito. In che modo è giunta a definire questo suo personale pensiero artistico in un'epoca, tra l'altro, nella quale la bidimensionalià del quadro sembrava ormai superata? Fondamentale nella mia ricerca artistica è stato il costante confronto tra il pensare e il fare, l'identità tra pensiero e azione ha determinato il mio lavoro. Lo sviluppo della mia indagine non ha seguito un programma preordinato ma è nato da un'intima esigenza. Che differenze sostanziali vi sono tra le sue primissime realizzazioni


sul segno e sulla scrittura (Eigenschriften e Trascrizioni) e le precedenti esperienze del lettrismo e quelle coeve della poesia visiva? Ho guardato ad un cammino autentico “mio”, non ho mai tenuto in considerazione le attribuzioni a qualsiasi tendenza, mi proibivo di guardare ad altro fuori dal mio sentire e sono arrivata alla determinazione di trattare sempre lo stesso argomento, ho ripetuto e ripeto sempre lo stesso concetto, naturalmente con aspetti differenti. Ho sofferto il venir meno della forza espressiva del verbo, della parola, ho svuotato la parola dal suo significato, dando al corpo della scrittura il potere dell’essere. Nei suoi lavori è riscontrabile una pratica metodologica accurata, evidenziata da un ritmo di esecuzione simile al respiro della meditazione zen. I risultati sono dei quadri che potremmo definire "astratti" (penso soprattutto alle vibrazioni luminose

dei dipinti di Mark Rothko) anche se lei li descrive riferendosi, come nel caso dei Radical Writings, all'immagine del libro aperto, dove dal centro più scuro si diffonde luce verso i lati esterni. Com'è riuscita a conciliare queste due visioni apparentemente opposte? Rigore e disciplina, nella concezione come nella esecuzione, hanno accompagnato tutto il mio cammino. La mia ricerca abbraccia tutti i fenomeni percettivi e va oltre. Ci sono fattori che si rivelano quando si è strettamente ancorati ad un argomento, è come se si osservassero i problemi con altri occhi. Si intravedono e si creano nuove relazioni e nuovi rapporti, si riscoprono nuovi valori, nuove coincidenze e nuovi legami, si scopre qualcosa che prima non c’era. Un nuovo punto di vista. Come vede l'evoluzione e la comprensione della sua opera oggi e nel futuro, in un tempo segnato dalla

Irma Blank, Trascrizioni, Abhandlung I e II, 1975, china su carta pergamenata indian ink on parchment like paper, 338 pagine cm.18x11,2 cad. Courtesy: l'artista e P420, Bologna. Foto: Dario Lasagni. Nella pagina a fianco: Irma Blank, 57. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, Viva Arte Viva. Foto: Francesco Galli. Courtesy: La Biennale di Venezia ESPOARTE 97 | SPECIALE BIENNALE | 29


disintegrazione della parola scritta a favore di una scrittura sempre più impersonale e immateriale, mediata cioè dai nuovi mezzi digitali? Il mio lavoro ha anticipato, già dalla fine degli anni ’60, quello che oggi sta accadendo al linguaggio. Ho lavorato pensando a me e per me, facendo ciò che mi premeva fare. Le domande erano molte e le risposte si sono affacciate man mano. In tutto il mio pensiero è l’uomo che conta, l’unicità del suo essere e di conseguenza di ciò che è e di ciò che fa. Il domani non lo conosciamo. Nel 1977 dOCUMENTA 6 e nel 1978 la

Biennale di Venezia, che significato assume oggi, nel suo percorso artistico, questo invito da parte di Christine Macel? Per me, a 82 anni, è un grande onore partecipare alla Biennale di Venezia e ringrazio Christine Macel di avermi invitata, ringrazio anche i miei giovani galleristi Fabrizio e Alessandro della P420 per il grande supporto che mi stanno dando. Nata in Germania ma residente ormai da decenni in Italia. Quale motivo l'ha spinta a scegliere il nostro Paese come sua seconda patria? Questa è una lunga storia…

Irma Blank è nata nel 1934 a Celle (Germania). Vive e lavora a Milano. Gallerie di riferimento: P420, Bologna www.p420.it Galerie Gregor Podnar, Berlino http://gregorpodnar.com Alison Jacques Gallery, Londra www.alisonjacquesgallery.com

Dall'alto: Irma Blank davanti alla serie Radical Writings, veduta della mostra Breath Paintings, Mostyn Museum, Wales, UK, 2014. Courtesy: P420, Bologna Irma Blank, Eigenschriften, 1969, pastello su carta, cm 50x70. Courtesy: l'artista e P420, Bologna. Foto: C. Favero 30 | ESPOARTE 97 | SPECIALE BIENNALE


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Riccardo Guarneri SULLA POESIA RAFFINATA DEL COLORE Intervista di Matteo Galbiati

Abbiamo avuto un’intensa conversazione con Riccardo Guarneri (1933) che, nonostante l’impegno in vista della partecipazione alla 57. Biennale di Venezia, ci ha riservato con entusiasmo il tempo per questa intervista. Con l’artista fiorentino tracciamo, quindi, un breve itinerario sulla storia della sua ricerca, sulla poesia raffinata del suo colore che, nelle velate trasparenze cromatiche, rinnova sempre il senso di una riflessione impegnata e sapiente. Presente in laguna con opere recenti di grandi dimensioni, la sua pittura conserva il valore di un’attualità che trae la propria energia iconica dalle radici della

tradizione e conferma lo spirito di un artista dall’attitudine “rinascimentale”, ma la cui essenza ha ancora un senso vivo nel pieno della modernità del XXI secolo. Quest’anno la sua storia artistica trova un’importante celebrazione con la partecipazione alla Biennale di Venezia. Cosa rappresenta per lei questo prestigioso traguardo e riconoscimento? Per me questo invito rappresenta perfettamente la chiusura di un cerchio. Tutto era cominciato con la partecipazione alla Biennale del 1966 e oggi, a distanza di

Riccardo Guarneri, Various works, 2016, tecnica mista su tela, 57. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, Viva Arte Viva. Foto: Italo Rondinella. Courtesy: La Biennale di Venezia

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Riccardo Guarneri, Various works, 2016, tecnica mista su tela, 57. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, Viva Arte Viva. Foto: Italo Rondinella. Courtesy: La Biennale di Venezia In basso: Riccardo Guarneri nello studio di via Campo d'Arrigo, Firenze, 2016

cinquant’anni, ritorno con l’ultima mia produzione. Credo che ormai, a 83 anni, per me sarà anche l’ultima! Sono ovviamente felice e soprattutto sorpreso di questa chiamata in una manifestazione che ha lo scopo di mostrare la novità e le ricerche dei più giovani. Alla luce di questo, cosa significa partecipare alla Biennale di Venezia per un artista con la sua storia? Ribadisco il senso di sorpresa per essere invitato con i giovani e di questo ringrazio la curatrice Christine Macel per la sua attenzione e sensibilità rivolta anche agli aspetti e ai valori di una pittura di tradizione. Ho fiducia nelle sue scelte che non si configurano nel senso di quella spettacolarità

e teatralità che hanno segnato molte edizioni della Biennale veneziana. Dalle sue dichiarazioni leggo l’intenzione di ripensare in termini di un neo-umanesimo che si anima di valori di cui non sentivo da moltissimo tempo parlare da parte di critici e curatori. In questo caso lei guarda ad una visione filosofica dell’arte, alla sua profonda poesia. Credo che pochi critici italiani avrebbero avuto il coraggio di porre attenzione su questi aspetti. A fronte del dilagare dei nuovi media, sono contento che qualcuno si accorga ancora dell’esistenza del “quadro”. Con quali opere si offre al pubblico internazionale? Sono tutti lavori inediti e recenti, opere di

grande formato che ho realizzato per l’occasione e che si inseriscono in un filone tipologico che porto avanti dal 2010. Sono pensate per la Biennale, vogliono dare un impatto forte ed espressivo, fondato sul valore percettivo. Da oltre cinquant’anni i gradienti tipici della sua ricerca sono stati il colore e la sua “geometrizzazione”, letti quasi al limite della percezione. Come si alimenta la sua visione? Come è evoluta e come continua ad evolvere nel tempo? Il mio lavoro si fonda sul metodo, si basa sulla continua variazione di una partenza, poi gli atti che mi muovono sono un continuo aggiornamento di togliere e mettere quelle “novità” – che sono sempre dei ritorni e riscoperte – che mi vengono dal Tempo. Il tempo fa variare la metodologia d’intervento sulla superficie, gli elementi, le mie sensazioni, le mie intuizioni, muta le contingenze, i sentimenti. Come artista sento la necessità, con la mia opera, di filtrare quanto accade attorno a me sempre attraverso la definizione coerente del mio metodo. Abbiamo un altro elemento fondante: la luce… Certo, deriva dal mio periodo iniziale legato all’Informale, tolta, poco a poco la materia, ho lasciato emergere la luce del bianco. Ho voluto che diventasse tutto leggerissimo, trasparente, poco decifrabile. Affascinato dalle chine dei maestri Zen, ho lavorato sui quadri bianchi e, con matite o

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l’acquarello, che trasfiguravano nella leggerezza e nella sfumatura il loro stesso colore, ho conferito la luminosità che volevo, divenuta poi caratteristica delle mie opere. La luce viene dalle trasparenze, da dentro al quadro, e si proietta nell’esteriorità. La straordinaria attitudine delle sue opere è, quindi, quella di vivere nel chiarore quasi abbagliante che costringe ad uno sforzo percettivo. La luminescente trasparenza, effimera e delicatissima, diventa elemento fondante, eppure tutto è iniziato dalle cupe tele di Rembrandt… Lo vidi negli anni ’50 quando suonavo in un’orchestra a L’Aia. Di Rembrandt mi aveva rapito la bellezza misteriosa dei suoi autoritratti, delle sue opere fatte di impasti materici densi e compatti che lasciano trasmigrare una luce intensa; sono stati un punto di riferimento per il mio lavoro. Nel tempo quell’intuizione, seguita, mi ha permesso di ripulire. Si è scritto dei “diversi metodi” che si applicano alla sua pittura fatta di linee nette e campiture

ampie, di colori soffusi ed altri intensi, quali modalità regolano le sue composizioni? L’opera si fonda su un’idea di base, su un’impostazione data: sulle grandi campiture bianche lascio che si definiscano – utilizzando tecniche diverse – forme e colori che strutturo con contorni definiti e staccati, poi lascio sempre spazio libero al pensiero. Non tutti sanno poi della sua passione per la musica: come ha influenzato il suo linguaggio pittorico? È importantissima: da liceale, tra i 15 e i 18 anni, mi ero appassionato a tal punto da rendere la musica la mia vera istruttrice, mettendo in secondo piano anche gli studi, diciamo che non ero uno studente modello! Pensavo sempre alla musica… Del resto in lei c’è tutto, c’è la mutazione continua del fare che rinnova sempre ogni cosa. C’è una mutazione con metodo, concetto che ha permeato il mio lavoro.

– italiana degli anni Sessanta e Settanta? Credo che il gusto si sia stancato del selvaggismo e dell’espressionismo pop dai colori forti. Si è spento quel collezionismo approssimativo legato a quelle piccole gallerie che muovevano opere di sola presa commerciale. Penso che ci sia la necessità di dar valore non alla ridondanza e alla spettacolarità, alla superficiale sciocchezza, ma a quello che ha un valore profondo, sensibile, che tocca l’interiorità. Per questo si ritrova la fiducia in una pittura intelligente e colta, coerente e profonda. Il tempo e la storia ha dato – e sta dando – ragione a questa nobile arte. Cosa insegna la sua pittura? Quali valori ci trasmette? Vorrei poter dire che trasmette tutti i valori… Per chi li sa leggere! L’opera d’arte deve impegnarsi a comunicare ogni valore possibile, come la letteratura, la musica.

Come valuta il crescente interesse per la pittura “analitica” – ma più in generale della pittura aniconica

Riccardo Guarneri è nato nel 1933 a Firenze, dove vive e lavora. Gallerie di riferimento: Galleria Michela Rizzo, Venezia www.galleriamichelarizzo.net Progettoarte Elm, Milano www.progettoarte-elm.com

Riccardo Guarneri, Molto ritmato, forse troppo, 2016, cm 65x65 ESPOARTE 97 | SPECIALE BIENNALE | 33


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Giorgio Griffa CODICE COLORE Intervista di Matteo Galbiati

Impegnato in numerosi appuntamenti internazionali che lo vedono protagonista, anche Giorgio Griffa (1936) sta vivendo un felice momento di attenzione critica verso la sua ricerca che, dagli anni Settanta, si fa portatrice di una sua particolare e personale interpretazione dei valori fondanti della pittura. Nelle sue opere-sindoni, dove il telaio si sottrae per portare la dimensione nuova del “quadro” ad un momento-istanza che dispone e proietta la tela direttamente nello spazio, il cromatismo si condensa in segni e tratti, a volte anche con lettere e numeri, che segnano, nel loro fluire libero e “liquido”, l’intelligenza di una sostanza capace, con il suo specifico codice, di rinnovare sempre il binomio tela-colore.

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Abbiamo intervistato il maestro torinese in occasione della sua importante partecipazione alla 57. Biennale di Venezia, ulteriore omaggio al suo impegno artistico e intellettuale:

portano le sue opere? La sfida è di considerare la pittura come strumento del nostro tempo anziché di nostalgia o parodia del passato.

A Venezia la sua storia artistica trova celebrazione e riconoscimento internazionali con la partecipazione alla Biennale, cosa significa per lei questa ambita partecipazione? Significa che la pittura non è morta.

Su cosa si concentra la sua presenza a Venezia? Quali lavori ha voluto che la rappresentassero? Sono due lavori del ciclo sul Canone Aureo, uno appartiene anche al ciclo Alter Ego in quanto contiene un aforisma di Agnes Martin.

Cosa può rappresentare, in seno alle estetiche attuali, la sua rigorosa dedizione al linguaggio pittorico? Quale testimonianza e valori

Lei ha dissolto il corpo del quadro privandolo di telaio e di cornici e la tela diventa non solo supporto, ma anche elemento fondante l’o-


pera. Attraverso quali processi ha contemplato l’importanza della tela – lasciata in gran parte grezza – nella definizione dell’immagine complessiva dell’opera stessa? La tela è uno dei protagonisti dell'opera, non soltanto supporto. Non c'è gerarchia fra i vari strumenti compresa la mia mano. La sua pittura poi ha stabilito un codice espressivo fondato su segni minimi e iconici. Cosa rappresentano e come si regolano nel “senso” totale del dipinto? Rappresentano l'ingresso nell'ignoto. Lei ha sempre messo al centro della sua poetica l’“intelligenza della pittura”, cosa intende con questo concetto? Oggi sappiamo che non esiste più la materia bruta, tutta la materia è intelligente. La pittura ha una doppia intelligenza, quella dei suoi materiali e quella dell'umanità che l'ha inventata e la percorre ormai da più di 30mila anni. Ogni suo lavoro sembra aprire una dimensione infinitiva e mai deline-

ata e definita alla pittura: i segni non colmano le superfici, ma con ritmo e garbo sembrano disporsi ad un ordine diveniente. Cosa cerca questa attitudine del suo fare? La perenne mutazione del divenire. Ha spesso fatto riferimento alla “concentrazione passiva”, a cosa allude? Cosa implica? Concentrazione passiva significa che la mia mano è al servizio della pittura, la mia attenzione concentrata su quanto essa mi chiede anziché essere essa al mio servizio. Formulo anche a lei una domanda che ho spesso fatto ad altri artisti della sua generazione impegnati dagli anni Sessanta e Settanta nel sostenere il valore della Pittura: perché oggi è sempre più crescente l’interesse – di critica, mercato e pubblico – per le ricerche, definiamole per convenzione in questo modo, “analitiche”? Aspetti analitici appartengono alla pittura ed a tutti i mestieri. Non condivido la definizione di pittura analitica pur riconoscendone la utilità strumentale.

La sua pittura cosa consegna allo sguardo? Quali sono i suoi valori più urgenti? La pittura, non solo la mia, consegna alla sguardo se stessa.

Giorgio Griffa è nato a Torino, dove vive e lavora, nel 1936. Gallerie di riferimento: Casey Kaplan, New York www.caseykaplangallery.com Galleria Lorcan O'Neill, Roma www.lorcanoneill.com

Giorgio Griffa, Canone aureo 958 (Agnes Martin), 2016, acrylic on canvas, cm 280x660. 57. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, Viva Arte Viva. Foto: Italo Rondinella. Courtesy: La Biennale di Venezia Nella pagina a fianco: Giorgio Griffa, Canone aureo 720, 2016, acrylic on canvas, cm 151x270. 57. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, Viva Arte Viva. Foto: Italo Rondinella. Courtesy: La Biennale di Venezia

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PADIGLIONI NAZIONALI

/ PADIGLIONE FRANCIA /

Xavier Veilhan STUDIO VENEZIA Intervista di Lucia Longhi

Seguendo la linea tracciata da Christine Macel, prevale in tutta la Biennale un forte carattere eclettico e partecipativo, che permette al pubblico di avvicinarsi in modo inedito agli artisti. Anche il Padiglione Francia sposa questo approccio, offrendo al pubblico la possibilità di entrare nel vivo della creazione artistica. Xavier Veilhan trasforma il Padiglione in un atelier aperto: Studio Venezia. Un'installazione immersiva, simile a uno studio di registrazione e ispirata dall'opera di Kurt Schwitters, il Merzbau, che fu un ambiente visionario volto a superare i limiti tra discipline artistiche, in cui gli artisti si incontravano e lasciavano tracce delle loro creazioni. Studio Venezia è, infatti, uno spazio comune: accoglie musicisti provenienti da tutto il mondo che si alternano durante il periodo della Mostra, invitati a comporre musiche e “attivare questa scultura-studio di registrazione”... A un primo approccio il progetto 36 | ESPOARTE 97 | SPECIALE BIENNALE

Studio Venezia sembra andare in un’altra direzione rispetto all’invito di Christine Macel di puntare l'attenzione sulla figura dell’artista. L’artista sei tu, ma lasci il padiglione in mano a centinaia di altri musicisti e professionisti della musica... È come se io avessi una grande casa e invitassi le persone a passare del tempo insieme in questo luogo. Il mio ruolo è principalmente quello di ospitare i musicisti, guidarli nello studio, proporgli degli strumenti, delle cose da suonare… Non so esattamente io cosa farò, e questo è parte del progetto, è molto importante infatti lasciarlo aperto. Vorrei mettere gli invitati in una situazione diversa rispetto a quelle usuali di “contratto”, in cui un musicista è obbligato a suonare una determinata musica, in un determinato tempo, in un determinato luogo. Quindi vuoi sottolineare l’aspetto della spontaneità del processo creativo, della creazione musicale.

Sarà un momento spontaneo e libero... Si, certo. Una caratteristica comune tra i musicisti invitati è di essere molto aperti artisticamente. Non abbiamo cercato musicisti per forza famosi, bensì artisti che hanno un approccio curioso alla musica. Tutti fanno musiche diverse, eppure hanno un background, un’idea in comune, ossia che il suono è per loro una materia prima, materia base che si può usare e trasformare in diversi modi. La mia intenzione, inoltre, è di dare spazio alla musica suonata dal vivo, la musica acustica, senza amplificazione. Stiamo andando sempre più verso il digitale, la digitalizzazione dei suoni, l’amplificazione creata con l’elettricità… Io voglio andare indietro alle origini del suono, cioè agli strumenti acustici o suonati acusticamente. Chi suona lascerà spazio agli errori, all’improvvisazione, ai tentativi, ai moti emozionali. Voglio andare oltre la visione della produzione della musica di oggi, in cui si vuole creare qualcosa di


perfetto, raggiungere una perfezione e duplicarla, riprodurla. Il tuo percorso si è snodato tra lavori, come ad esempio quelli presenti nella mostra Music alla Galerie Perrotin del 2015, in cui sembra esserci un’intenzione di mappare la musica di oggi. In quel caso si trattava di ritratti in 3D di musicisti, oggi questo progetto, similmente a un’altra grande opera che tu stesso hai citato, il film Station to Station di Doug Aitken (2014), tenta di creare una sorta di ritratto collettivo delle espressioni artistiche contemporanee, con un focus sulla musica. Cosa ti aspetti dall’evoluzione di questo progetto?

Potrebbe essere un’istantanea della scena musicale del mondo, ma lo scopriremo più avanti, e ad ogni modo non è esattamente questo il mio scopo. La mia ambizione è creare una situazione, una piattaforma in evoluzione, qualcosa di cui io in realtà non sono totalmente consapevole. Potrà avere un valore molto simbolico in futuro, ma non lo posso ancora sapere. Quello che mi interessa è creare una situazione che duri nel tempo, che non si esaurisca al momento del vernissage. A volte capita di vedere, alla Biennale, dei padiglioni che trasmettono una sorta di malinconia, perché restano sono solo le tracce di una performance che è avvenuta durante le prime settimane di apertura. Io voglio dar vita ad un progetto in cui essere sempre presente e per tutta la durata della Biennale. Il

Qui e nella pagina a fianco: Xavier Veilhan, Studio Venezia (2017), installation view, French Pavilion, Biennale di Venezia. Foto: © Giacomo Cosua. © Veilhan / ADAGP, Paris, 2017 In alto: Xavier Veilhan. Foto: © Giacomo Cosua ESPOARTE 97 | SPECIALE BIENNALE | 37


TEMPO è la parola chiave di questo Padiglione, forse ancora più che MUSICA. Quindi il tuo Padiglione sarà attivo fino all’ultimo giorno di Biennale? Certo. Nell’ultima settimana ci saranno musicisti importanti come Sébastien Tellier. Sarà forse il momento più “alto” del Padiglione. Il padiglione è ispirato al Merzbau di Kurt Schwitters. Un luogo architettonicamente e socialmente unico: era composto da resti di architetture giustapposte apparentemente a caso, in realtà ognuna di esse aveva un’origine e un senso, come ad esempio le “grotte”, create per accogliere amici e artisti, invitati a lasciare in esse tracce di sé. Come pensi che oggi un artista possa lasciare, con successo e con coscienza, traccia di sé? Cos'è importante davvero lasciare alla Storia come artista? Questa è una grande domanda! Il mio obiettivo non è creare cultura, ma creare arte. L’arte oggi a volte sembra quasi uno 38 | ESPOARTE 97 | SPECIALE BIENNALE

statement politico. Ma in realtà è possibile fare qualcosa, una creazione che sia “a volume basso”, in sordina, che ha un impatto istantaneo piccolo, ma che poi cresce nella Storia. Ogni tanto alle mostre vedi un’opera, ci passi affianco, e solo dopo qualche tempo ti rendi conto che quel pezzo ha una grande importanza. Ecco, per esempio il Merzbau di Kurt Schwitters è una creazione che pochissime persone videro, la sua importanza e il suo impatto sono cresciuti nel tempo. La mia idea è di creare una situazione aperta, un momento in cui le persone hanno delle possibilità, svincolate da contratti. Come in una passeggiata, in cui non c’è un programma, sai che vedrai e sentirai degli eventi, dei suoni… Ma non sai esattamente cosa succederà. Sono interessato a creare una situazione dove l’elaborazione della musica rende la situazione fragile e incerta... Ma quando è incerta è ancora più bella. Il Padiglione è stato curato da Christian Marclay, non estraneo alla contaminazione tra suono, video e arti visive. In cosa consiste il suo contributo per questo Padiglione e

in che modo si è realizzato il vostro rapporto di collaborazione? Si può affermare che la sua impronta risieda nel carattere di “collage” di questo padiglione? Vale a dire, il mettere insieme tante voci, tanti pezzi appartenenti ad un mondo simile, quello della musica, come nei suoi video Telephones (1995) o The Clock (2010). La sua presenza è molto importante. Mi ricordo quanto gli ho chiesto se volesse far parte di questo progetto e ha detto di sì: è stato un momento chiave. Ha due ruoli differenti, entrambi fondamentali. Uno è di essere come un “padrino”, una guida, perché come hai detto tu, ha esplorato alcuni degli aspetti della musica e dell’arte visuale in modo grandioso. Hai presente quando si vuole realizzare un progetto di qualità e c’è bisogno di una persona esperta e specializzata? Lui è questo. Il secondo ruolo è di programmare, fare la line up degli inviti. Abbiamo lavorato insieme scegliendo diversi tipi di musica, perché non volevo essere il solo a scegliere, realizzando un ritratto dei miei gusti musicali. Christian ed io abbiamo una cultura musicale


Xavier Veilhan, The Producers, 2015 (detail of The Producer’s Cabinet), ebony, boxwood. From left to right : Chad Hugo (The Neptunes), Thomas Bangalter, Guy Manuel de Homem-Christo, Nigel Godrich, Quincy Jones, Pharrell Williams (The Neptunes), Philippe Zdar. Courtesy: Galerie Perrotin. Foto: © Claire Dorn. © Veilhan / ADAGP, Paris, 2017 Nella pagina a fianco: Xavier Veilhan, Studio Venezia (2017), installation view, French Pavilion, Biennale di Venezia. Foto: © Giacomo Cosua. © Veilhan / ADAGP, Paris, 2017

abbastanza diversa, abbiamo combinato i nostri gusti, abbiamo discusso molto sulle scelte musicali, sulla struttura del Padiglione. Teneva molto al fatto che i musicisti fossero ospitati nel modo giusto. Ha insistito, inoltre, sulla qualità acustica dello studio. Una cosa molto importante da notare è che abbiamo avuto anche il supporto di Nigel Godrich (il produttore dei Radiohead): ci ha fornito tutto l’equipaggiamento, il migliore equipaggiamento che si potesse immaginare, è stato un grande contributo. Rappresenti un modo di fare arte che integra scultura, architettura, musica, luce e interazione tra pubblico e location. Il Padiglione Francia di due anni fa accoglieva un altro

grande progetto, come questo ambizioso, e come questo focalizzato sul suono: gli alberi mobili (Rêvolutions) di Céleste Boursier Mougenot. Credi che ci sia un terreno artistico e sociale particolarmente consapevole, attento e aperto nei confronti delle sperimentazioni con il suono e la musica? C’è spazio nel sistema dell’arte contemporanea per una vera compenetrazione tra le discipline artistiche? L’idea dell’artista isolato è un’idea romantica, lontana. Se guardi alla storia dell’arte c’è sempre stata una commistione tra le arti: combinare musica, poesia e arti visive ad esempio. Già nel Rinascimento c’era l’ideale della perfetta combinazione di tutte le arti… In questo senso, dunque,

io rientro in una tradizione che è sempre esistita. Faccio riferimento a molte discipline o altri artisti, come ad esempio il progetto Station to Station di Doug Aitken. Seguo il mio percorso personale attingendo da diversi campi. Anche nel Padiglione Francia di due edizioni fa era inclusa la musica, nel progetto di Anri Sala Ravel-Unravel, ma era più una sorta di “epifania”. Con questo progetto in fondo propongo di esplorare com’era il mondo della musica prima del recording. Quindi la commistione di diverse arti non è lo scopo, bensì una conseguenza della situazione artistica in cui siamo oggi.

Padiglione Francia Xavier Veilhan: Studio Venezia Sede: Giardini Commissario: Institut français in collaborazione con Ministère de la Culture et de la Communication Curatori: Lionel Bovier e Christian Marclay Info: www.institutfrancais.com

Xavier Veilhan, SYSTEMA OCCAM, Florence Gould Hall Theater, FI:AF, New York, August 2013. Performance by Xavier Veilhan for OCCAM I, a musical piece by Eliane Radigue. Foto: © Sasha Arutyunora. © Veilhan /ADAGP, Paris, 2017 ESPOARTE 97 | SPECIALE BIENNALE | 39


PADIGLIONI NAZIONALI

/ PADIGLIONE AUSTRIA /

Brigitte Kowanz RELAZIONI TRA LUCE, LINGUA E RIFLESSIONE Intervista di Lucia Longhi

Con un Padiglione che ospita le sculture di Brigitte Kowanz ed Erwin Wurm, l’Austria sceglie di rappresentarsi alla Biennale attraverso due artisti il cui lavoro ridisegna e stravolge lo spazio e le architetture. La Kowanz con le sue note installazioni fatte di neon e specchi che ingannano la percezione dello spazio, Wurm con le tipiche sculture che deformano nella struttura e nella dimensione oggetti, case e suppellettili. Un Padiglione che lancia una sfida allo spazio, alla percezione di esso, tramite il lavoro di due dei suoi più grandi artisti, entrambi premiati con il Premio Grand Austrian State Prize. Noi abbiamo intervistato Brigitte Kowanz, autrice delle note caleidoscopiche installazioni fatte di luci e specchi... I suoi lavori distorcono la realtà servendosi di neon, luci e parole. Le strutture, i segni e i testi costruiti sono spesso in stretta relazione con lo spazio architettonico che le ospita, che viene restituito alterato, sviscerato, amplificato. Le luci 40 | ESPOARTE 97 | SPECIALE BIENNALE

al neon, e i segni da esse disegnati, definiscono le nuove proporzioni dello spazio che ospitano le installazioni. Come viene modificato, in questo caso, lo spazio del Padiglione Austria? Per la mia installazione al Padiglione Austria ho progettato un ampliamento dello

Dall'alto: Brigitte Kowanz, Infinity and Beyond, veduta del Padiglione Austria. Da sinistra: 1. Google 15.09.1997, 2017, neon, specchio, cm 80x190x19; 2. Wikipedia 15.01.2001, 2017, neon, specchio, cm 80x190x19; 3. iPhone 09.01.2007, 2017, neon, specchio, cm 80x190x19; 4. www 12.03.1989 06.08.1991, 2017, neon, specchio, acciaio, cm 450x895x35. Foto: Tobias Pilz. © Bildrecht, Vienna 2017 Erwin Wurm, Stand quiet and look out over the Mediterranean Sea, 2016 - 2017, Performative One Minute Sculpture, veduta del Padiglione Austria, camion, tecnica mista, cm 874x240x274. Foto: Studio Erwin Wurm. © Bildrecht, Vienna 2017


Brigitte Kowanz, Infinity and Beyond, veduta del Padiglione Austria. www 12.03.1989 06.08.1991, 2017, neon, specchio, acciaio, cm 450x895x35. Foto: Tobias Pilz. © Bildrecht, Vienna 2017

storico Hoffmann-Pavilion, che ho chiamato "Light Space". Ovviamente questo è un riferimento al “brutale” e “pesante” Padiglione Hoffmann. Allo stesso tempo la mia installazione, che tra l'altro è una delle opere più grandi che io abbia mai concepito, lavora con la luce e riempie lo spazio con essa. Il risultato è uno spazio tranquillo e molto meditativo. Un perfetto cubo bianco di 110 metri quadrati, interamente in legno. Infinity and Beyond non solo reagisce allo spazio architettonico, ma allo spazio in cui oggi si svolge la maggior parte delle nostre vite: lo spazio virtuale e digitale. Affronto l'attuale fusione di spazi reali e virtuali. L’aspetto analitico, concettuale e socio-politico che si cela in queste sculture, capaci di trasformare lo spazio in un ambiente immersivo, è sempre sottile e delicato. Spesso le parole sono brevi, chiuse in cubi di vetro o piccoli spazi, ma moltiplicate poi con armonia e, al contempo, grande forza propulsiva verso uno spazio infinito. C’è un messaggio preciso che i suoi lavori,

in questa Biennale, calata in un periodo storico particolarmente carico di paure, paranoie e reali minacce, trasmettono? Questa è un'ottima domanda. Oggi siamo costantemente esposti a cattive notizie, minacce e incertezze. Il mio lavoro non è una reazione alla politica quotidiana, alla cosiddetta crisi dei profughi o agli attacchi terroristici. L'argomento che affronto con la mia installazione è un'invenzione che ha radicalmente cambiato drasticamente tutte le nostre vite, un'invenzione che ci ha fatto sperimentare e percepire il mondo in un modo diverso. Questa invenzione ci ha fatto comunicare in modo diverso, ha cambiato il nostro modo di lavorare, il modo in cui viviamo e il modo in cui siamo in generale. Fondamentalmente Infinity and Beyond (Infinito e Oltre) è dedicata e si occupa della digitalizzazione. Nel mio ultimo lavoro, chiamato Cables (Cavi), mi concentro su date, trasformazione delle informazioni e globalizzazione. È molto importante per me che le questioni filosofiche e socio-politiche che affronto non vengano comunicate in modo evidente. Piuttosto, in maniera codificata. Così, per tutta

la mia carriera, ho focalizzato il mio lavoro sulla codifica e sui sistemi codificati. Un sistema di codifica basato sul Codice Morse su cui ho lavorato per quasi venticinque anni. Il Codice Morse è il primo codice binario e quindi la base dell'Età Digitale. Quando gli spettatori entrano nell'Infinito e Oltre, non è immediatamente evidente che cosa comunichi la mostra. In primo luogo, possono goderne semplicemente dal punto di vista estetico. Questo è molto importante per me. Le opere devono fare il loro lavoro senza alcun background teorico. Quindi, per comprendere il vero argomento delle mie installazioni, il pubblico deve impegnarsi ad affrontare un secondo e terzo livello del messaggio che sto trasmettendo. La sua ricerca è sempre stata incentrata sullo studio della percezione e le sue possibilità. Riflessi, simmetrie, inversioni, moltiplicazioni, amplificazione dello spazio. Le sue installazioni trascinano in una realtà inesistente, o viceversa permettono di conoscere la vera realtà, osservandola contemporaneamente da ESPOARTE 97 | SPECIALE BIENNALE | 41


molte prospettive diverse? Oltre alla luce e al Codice Morse, anche gli specchi hanno un ruolo molto importante nel mio lavoro. Combinando la luce e gli specchi, creo spazi virtuali inesistenti e infiniti e, come ho già detto, li riempio di messaggi codificati. Così, non appena gli spettatori entrano in quegli spazi virtuali, si confrontano con il messaggio ma, allo stesso tempo, vedono sempre la propria immagine riflessa allo specchio. Pertanto, gli specchi funzionano letteralmente come mezzo di riflessione. “La luce rende tutto visibile, ma rimane invisibile”. Viceversa, la parola rende tutto comprensibile, ma può anche essere ingombrante mezzo di incomprensione. Qual è la parola chiave del suo intervento in questa Biennale? Spesso confondiamo le sorgenti luminose con la luce in generale. Nella mia opera cerco di rendere visibile la luce. Allo stesso tempo, la luce può essere uno strumento di conoscenza. Come ho già detto, l'installazione a Venezia non è costituita dalla mia calligrafia trasposta in neon come in altre opere precedenti, ma da forme astratte realizzate con cavi luminosi che riproducono messaggi tramite Codice Morse. Il lavoro principale www 12.03.1989 06.08.1991, un pezzo di 40 metri quadrati, trasmette attraverso il Codice Morse sia la data di quando internet è stato presentato al Cern sia quella in cui è stato reso pubblico. Altre

opere più piccole, ad esempio, rivelano le date di quando Google e Wikipedia sono andate online. Il corpo del lavoro presentato a Venezia si chiama, appunto, Cavi. Insegna da molti anni alla prestigiosa Universität für angewandte Kunst di Vienna. Per questa installazione ha voluto coinvolgere in qualche modo i suoi studenti? Il titolo scelto dalla Macel per questa Biennale è Viva Arte Viva, un inno alla figura dell’artista. In che modo l’Austria è un Paese che sostiene i giovani artisti? Sì, ho insegnato per vent'anni. Per me, è

sempre stato importante sostenere le generazioni più giovani. Il modo migliore per sostenerli è quello di dare loro molta libertà. Ovviamente la mia nomination per la Biennale è stata molto emozionante per loro e mi hanno sostenuta molto durante l'intero anno dei preparativi. Ovviamente ho invitato tutti all'apertura del Padiglione. In Austria, c'è un gran numero di sovvenzioni e borse di studio che consente a molti giovani artisti di realizzare i loro lavori nei primi anni dopo la laurea. Ma, ovviamente, è importante per loro trovare persone che sostengano ed espongano le opere dei giovani artisti all'inizio della loro carriera. Le borse di studio non sono sufficienti.

Padiglione Austria Commissario/Curatore: Christa Steinle Sede: Giardini Artisti: Brigitte Kowanz e Erwin Wurm Info: www.labiennale2017.at

Dall'alto: Brigitte Kowanz, Infinity and Beyond, veduta del Padiglione Austria. iPhone 09.01.2007, dettaglio, 2017, neon, specchio, cm 80x190x19. Foto: Tobias Pilz. © Bildrecht, Vienna 2017 Brigitte Kowanz, Lateral Thinking, 2010, neon, specchio, cm 120x160x80. Veduta della mostra Now I See, 2010, mumok museum moderner kunst stiftung ludwig wien, Vienna. Foto: Ulrich Ghezzi. © Bildrecht, Vienna 2017 42 | ESPOARTE 97 | SPECIALE BIENNALE


/ LA PAROLA AI PADIGLIONI... a cura di Elena Borneto

/ PADIGLIONE GERMANIA / Leone d’oro per la miglior Partecipazione Nazionale "Ci troviamo di fronte agli effetti di vasta portata del cambiamento tecnologico. È un nuovo soggetto che è ottimizzato oralmente ed estremamente connesso attraverso i media. La nostra percezione e i nostri movimenti si svolgono sempre più nello spazio virtuale. I reali meccanismi di potere e controllo sono iscritti nel corpo. Trovo che la misura in cui cediamo alla capitalizzazione dei nostri corpi, mentre allo stesso tempo ne siamo imbrigliati, sia notevole. Questa è una trasformazione fondamentale che richiede reazioni e risposte. Di conseguenza, mi sembrava doveroso trovare una posizione artistica che portasse queste questioni nel linguaggio contemporaneo. Anne Imhof affronta la brutalità del nostro tempo con un duro realismo. Indaga la connettività e la capacità di resistenza del corpo. Nelle opere di Anne Imhof, i soggetti sembrano sfidare definitivamente la propria oggettivazione. Così facendo essi agiscono sia come gruppo sia come individui. C'è una certa brutalità nel modo in cui si muovono i corpi e, allo stesso tempo, ci sono momenti finemente delicati e precisi. Il modo in cui la Imhof accosta i due poli è incredibilmente affascinante: la società con le sue strutture di potere e codici, da un lato, la rivolta in grandi e piccoli gesti, dall'altro. L'artista rivela lo spazio tra corpo e realtà, lo spazio in cui si crea la personalità. Il corpo biopolitico contemporaneo non è più una superficie unidimensionale, contrassegnata dal potere, dalla legge e dalla punizione, ma un interno denso, un luogo per la vita e il controllo politico esercitato attraverso meccanismi di scambio e comunicazione". _Susanne Pfeffer, curatore Anne Imhof Sede: Giardini Commissario: ifa (Institut für Auslandsbeziehungen) on behalf of the Federal Foreign Office Curatore: Susanne Pfeffer Info: www.deutscher-pavillon.org

Anne Imhof, Faust, 2017, Padiglione Germania, 57. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia. Foto: © Nadine Fraczkowski. Courtesy: Padiglione Germania 2017, l'artista Dall'alto: Eliza Douglas e Franziska Aigner | Eliza Douglas | Franziska Aigner e Emma Daniel ESPOARTE 97 | SPECIALE BIENNALE | 43


PADIGLIONI NAZIONALI

/ PADIGLIONE AUSTRALIA /

Tracey Moffatt LE NUOVE CONVENZIONI DELLA FOTOGRAFIA Intervista di Matteo Galbiati

L’Australia Council for the Arts ha scelto, attraverso un comitato di cinque membri (Naomi Milgrom, commissario australiano per la Biennale di Venezia 2017; Nicholas Baume, direttore e curatore del Public Art Fund di New York; Rebecca Coates, curatore indipendente e regista esecutivo presso Shepparton Art Museum; Lisa Havilah, direttore al Carriageworks; Chris Saines, direttore di QAGoMA), Tracey Moffatt (1960) e la sua ricerca fotografica per rappresentare l’Australia alla 57. Biennale di Venezia. Colto con sorpresa ed entusiasmo l’invito, l’artista ha scelto di lavorare ad un grande progetto espositivo pensato appositamente per il proprio padiglione nazionale. La fotografa si presenta in laguna con le credenziali di un percorso artistico lungo 25 anni che ne ha qualificato la ricerca accreditandola come uno dei talenti più significativi dell’arte australiana contemporanea, la cui fama ha avuto modo di estendersi e affermarsi in ambito internazionale. Prima artista “indigena” a rappresentare la nazione australiana a Venezia, la sua fotografia si indirizza all’esplorazione di emotività ed esperienze umane nella loro ricca variabilità, ponendo spesso l’accento sul concetto di razza, di identità, di appartenenza sociale, senza trascurare neppure gli stereotipi culturali che attraversano il presente. Le sue storie per immagini si raccontano giocando sull’artificio, l’allusione, il mito e smantellano ogni corroborante e canonico schema narrativo convenzionale. Abbiamo posto a Moffatt brevi domande sulla sua partecipazione all’atteso appuntamento veneziano: Le opere esposte al Padiglione Australia sono molto diverse, cosa ci presentano della sua ricerca? Quali pensieri e riflessioni vogliono suscitare? Come si rivolge il suo orizzonte ad un pubblico globale? Il titolo della mia mostra resta molto aperto e può essere interpretato in differenti modi. My Horizon può riguardare i nostri limiti oppure il desiderio stesso di superarli. Può essere inteso come il raggiungimento di un “confine” o costituire la fuga da quel confine verso 44 | ESPOARTE 97 | SPECIALE BIENNALE

Tracey Moffatt. My Horizon, veduta dell'installazione nel Padiglione Australia, 57. Esposizione Internazionale d’Arte La Biennale di Venezia. Foto: John Gollings


il regno della propria immaginazione. Può significare sognare. Pertanto penso che il mio tema possa risuonare attraverso molte e diverse culture e spero che queste possano percepire nella mia visione umore ed emozione.

Tracey Moffat è nata a Brisbane, Australia, nel 1960. Vive e lavora a Sydney.

La sua espressione si avvale di diverse sperimentazioni stilistiche e formali desunte da linguaggi e codici differenti come la fotografia, il cinema, le arti… Che racconto, intenso e forte, se ne ricava? Non riesco a individuare alcun vecchio film o fotografia che mi influenzino particolarmente. Invece provo a inventare il mio linguaggio visivo, mi muovo molto con la macchina fotografica e dirigo i miei modelli come un regista. Ricerco una data atmosfera che poi, nel processo di stampa, rielaboro giocando sulle diverse palette e i differenti colori.

Padiglione AUSTRALIA Tracey Moffatt. My Horizon Sede: Giardini Commissario: Naomi Milgrom Curatore: Natalie King Info: www.australiacouncil.gov.au

Come rappresenta, al contempo, la sua cultura originaria e quella contemporanea del suo Paese? Non faccio riferimento diretto alla tradizione delle culture indigene del mio Paese, perché non la sento mia e anche perché è complessa e sofisticata. Tutto quello che posso dire è che, anche se sono cresciuta in una città, mi sento ancora legata ad una spiritualità incentrata sulla natura e sul mondo soprannaturale. Ho estrema dimestichezza nel riconoscere gli spiriti dei miei antenati e quando sono in mezzo a persone aborigene percepisco un grande senso di profondità. Di sicuro è da qui che proviene la mia forza interiore. Mi sento fortunata.

Dall'alto: Tracey Moffatt. My Horizon, veduta esterna del Padiglione Australia, 57. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia. Foto: John Gollings Tracey Moffatt, Mother & Baby, Passage Series, 2016. © / Courtesy of the artist and Roslyn Oxley9 Gallery, Sydney and Tyler Rollins Fine Art, New York ESPOARTE 97 | SPECIALE BIENNALE | 45


/ LA PAROLA AI PADIGLIONI... / PADIGLIONE BELGIO /

a cura di Elena Borneto

“Ho collaborato con Dirk Braeckman per diversi anni e ci conosciamo dalla fine degli anni '90. Ritengo che Dirk sia uno dei più importanti artisti belgi perché riflette sia sul ruolo dell'arte sia sullo stato delle immagini nel mondo contemporaneo. I suoi lavori si concentrano sulla ricerca e sono radicali e auto-esplorativi”. _Eva Wittocx, curatore

/ PADIGLIONE DANIMARCA / “Il mio progetto riguarda il ritrovare il potenziale dell'oscurità. L'oscurità che la nostra cultura, da migliaia di anni, ci ha insegnato a temere e respingere. Invece, abbiamo celebrato la luce. Noi ci aggrappiamo a questa luce, che naturalmente ci fornisce sostentamento e progresso, ma abbiamo bisogno anche dell'oscurità. Il titolo della mostra, Influenza, è una metafora che fa riferimento ad una condizione, una sorta di debolezza di cui penso che oggi molti di noi soffrano. È un'iper-intenzione il connettersi a tutto ciò che ci circonda, eppure abbiamo difficoltà e spesso non riusciamo a connetterci a noi stessi e alle persone accanto a noi. Non è mia intenzione dare deliberatamente una valenza politica al mio lavoro, mi dedico ad esso come ad un'arte poetica alimentata da ciò che mi circonda. Le letture politiche del mio lavoro sono solo proiezioni ed interpretazioni. Questa è una parte incontrollata del processo ed è proprio così che dovrebbe essere. Va bene così”. _Kirstine Roepstorff, artista Influenza: Theatre of Glowing Darkness Sede: Giardini Commissario: The Danish Arts Foundation, Committee for Visual Arts Project Funding: Gitte Ørskou (Chair), Lilibeth Cuenca Rasmussen, Bodil Nielsen and Jacob Tækker Artista: Kirstine Roepstorff Info: www.danishpavilion.org In alto: Kirstine Roepstorff, Influenza. theatre of glowing darkness. Padiglione Danimarca, La Biennale di Venezia, 2017. Foto: Anders Sune Berg

“Non trovo che rappresentare un territorio geografico sia rilevante per questo progetto. Naturalmente bisogna tener conto del fatto che si stia rappresentando un Paese e che si è parte di qualcosa di più grande, ma questi aspetti non devono influenzare la progettazione e la presentazione della mostra. Nel Padiglione belga ci sono principalmente nuove stampe alla gelatina d'argento su carta baritata a grandezza naturale; stampe uniche che creo nella mia camera oscura, uno spazio che utilizzo come uno studio d'artista. Per più di 30 anni, il mio lavoro è stato una risposta implicita alla moltitudine e alla velocità delle immagini di oggi. Lentezza e resistenza sono fondamentali sia per il processo di creazione sia per le immagini stesse. Mi capita spesso di conservare i miei negativi per anni prima di decidere di rivisitarli e svilupparli. Non si tratta di fotografie che possono essere duplicate o riconosciute a colpo d'occhio. Si tratta di immagini forti che non rivelano tutto e permettono allo spettatore di modellarne il significato. Momenti di quiete miscelati all'azione sotto la superficie incitano lo spettatore a speculare e creare potenziali storie nella sua mente. Conto molto sull'atmosfera e di solito le mie immagini catturano momenti transitori, non-luoghi e contesti banali con forza poetica. Chi incontra le mie immagini è portato a darne una propria interpretazione e forse a riconoscere elementi familiari che possono far riaffiorare le proprie storie personali”. _Dirk Braeckman, artista Dirk Braeckman Sede: Giardini Commissario: Sven Gatz, Flemish Minister for Culture, Media, Youth & Brussels Curatore: Eva Wittocx Info: www.belgianpavilion.be Padiglione Belgio, veduta dell'installazione, 57. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, 2017. © Dirk Braeckman

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/ PADIGLIONE GRAN BRETAGNA / “Le sculture imponenti e le installazioni di Phyllida Barlow hanno affascinato e incuriosito il pubblico di tutto il mondo negli ultimi anni. Il suo lavoro combina l'imponenza fisica e intricati dettagli, con particolare attenzione ai materiali e alla tecnica, lasciando così che produzione e sperimentazione siano al centro del suo lavoro. Barlow trasforma e altera dinamicamente ogni spazio espositivo che incontra ed è riuscita a farlo anche negli spazi neoclassici del Padiglione Gran Bretagna”. _Emma Dexter, commissario e direttore del British Council

Phyllida Barlow, folly, veduta dell'installazione, Padiglione Gran Bretagna, Venezia, 2017. Foto: Ruth Clark

/ PADIGLIONE ISLANDA /

Out of Controll in Venice, veduta dell'installazione, 2017, Padiglione Islanda alla Biennale Arte 2017. © e courtesy: Egill Sæbjörnsson e i8 Gallery, Reykjavik

“Il Padiglione Islanda è stato trasformato nella dimora temporanea di due troll. Da una parte Ūgh e Bõögâr sono due tipici troll islandesi – a cui piace mangiare bambini che si comportano male, ad esempio – ma, dall'altra, sono unici: nel 2008 hanno fatto amicizia con un essere umano, l'artista Egill Sæbjörnsson, e, influenzati da lui, hanno deciso di iniziare anche a fare arte. I tre sono collegati dalla loro storia, da avventure condivise e, infine, lo scorso anno Egill ha deciso di lasciare che i troll svolgessero il lavoro per il Padiglione Islanda alla Biennale di Venezia 2017, al suo posto. Il Padiglione alla Giudecca è solo una parte della loro collaborazione; ci sono anche gli account sui social, il catalogo della mostra e i loro prodotti, le

Phyllida Barlow Commissario: Emma Dexter Curatore: Harriet Cooper, Delphine Allier Sede: Giardini Info: https://venicebiennale.britishcouncil.org osservazioni, i pensieri, i suoni e la loro filosofia artistica sono distribuiti tramite merchandising e su un LP. Tutto questo è Out of Controll in Venice. Il controllo, così come la perdita di esso giocando secondo le regole, le restrizioni e i limiti sono i temi importanti di questo lavoro. Analizziamo come il controllo possa essere trasformato artisticamente in un gioco e il suo potenziale possa essere usato in modo fantastico e giocoso. In breve: Ūgh e Bõögâr, in collaborazione con Egill, hanno creato un'atmosfera sensoriale percepibile, per ammaliare i sensi dei visitatori. Egill Sæbjörnsson non si era mai spinto tanto in là quanto in Out of Controll in Venice, dove consegna il controllo a due creature mitologiche; dando loro la possibilità di interagire con noi, permettendogli di creare un proprio mondo e

prosperare. Questo chiude il divario tra la realtà percepita e la finzione immaginata con i racconti e le avventure di Egill, Ūgh e Bõögâr. Arte e mondo reale diventano indivisibili; i due si appartengono e sono dipendenti l'una dall'altro. I visitatori passano da osservatori passivi a far parte gradualmente dell'opera artistica. Essi consumano e simultaneamente vengono “trangugiati”. Invece che seguire le attività dei troll, sono gli spettatori stessi ad essere seguiti. Invece di cercare l'incontro con questo mondo situato tra immaginazione e realtà, essi ne vengono risucchiati”. _Stefanie Böttcher, curatrice e direttore Kunsthalle Mainz “L'inventiva e l'umorismo del progetto di Egill Sæbjörnsson, così come la sua capacità di mettere insieme mondi divergenti attraverso l'uso di diversi media e piattaforme, per creare un ambiente immersivo in cui il reale e concreto si interseca con l'immaginario e il fantastico, coinvolge il pubblico della Biennale di Venezia 2017 e non solo, con il suo universo sensoriale stratificato e con importanti riflessioni sul mondo contemporaneo”. _Björg Stefánsdóttir, vice commissario e direttore dell'Icelandic Art Center Out of Control in Venice Commissario: Eiríkur Thorláksson Curatore: Stefanie Böttcher Artista: Egill Sæbjörnsson Sede: Spazio Punch, Giudecca 800/o Info: https://icelandicartcenter.is/

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PADIGLIONI NAZIONALI

/ PADIGLIONE FINLANDIA /

THE AALTO NATIVES PAROLA AL CURATORE XANDER KARSKENS Intervista di Luca Bochicchio

Da pochi mesi è il nuovo direttore del Cobra Museum of Modern Art di Amstelveen, un’istituzione culturale olandese che affronta la sfida di valorizzare e attualizzare l’eredità storica, artistica e culturale del movimento europeo d’avanguardia che ha messo in crisi canoni e paradigmi della produzione artistica moderna. In questa edizione della kermesse veneziana, Xander Karskens (Breda, 1973) è il curatore di The Aalto Natives, installazione concepita per il padiglione finlandese (progettato nel 1956 da Alvar Aalto) da Erkka Nissinen (Helsinki, 1975) e Nathaniel Mellors (Doncaster, UK, 1974). Un progetto paradossale non solo nella sua costruzione, ma anche nella sua definizione: si tratta infatti di una collaborazione transnazionale che affronta questioni culturali e politiche critiche, in pericoloso avvitamento, come la costruzione dell’identità nazionale. Come Mellors e Nissinen hanno elaborato queste problematiche, e come Karskens vede le sfide dell’arte nella crisi della globalizzazione, è l’oggetto di questa intervista. Enjoy it! Come descriveresti il progetto del padiglione finlandese, il cosiddetto Aalto Pavilion? The Aalto Natives è un'installazione composta da molti elementi diversi, che offrono al visitatore un’“esperienza immersiva”: ci sono figure animatroniche in movimento che parlano tra loro, ci sono proiezioni video, luci colorate, sculture... Si tratta di una narrazione diacronica enfaticamente teatrale, giocata attraverso tutte queste diverse componenti, che a loro volta vengono attivate in punti specifici della narrazione. In termini di contenuto, il lavoro unisce l’interesse comune degli artisti per l’uso della commedia e della satira nel commentare la cultura contemporanea. Alcune parti hanno una natura scatologica, altre presentano scene violente ispirate all’horror, vi sono poi riferimenti alla cultura popolare ma anche all’archeologia o all’idealismo trascendentale. Il lavoro riflette su soggetti “seri” come l’identità nazionale della Finlandia: un Paese con una 48 | ESPOARTE 97 | SPECIALE BIENNALE

Erkka Nissinen e Nathaniel Mellors nel Padiglione Finlandia con il loro progettoThe Aalto Natives, 2017. Foto: Ugo Carmeni


storia geopolitica complicata, frapposta tra due rivali storici come la Svezia e la Russia; un Paese avanzato e progressista alla periferia d’Europa, che sta affrontando problemi simili a quelli di molte altre nazioni europee, come il populismo e la xenofobia. Nella storia di The Aalto Natives questi fenomeni sociopolitici contemporanei sono affrontati in modo alterato, comico, guardando allo sviluppo culturale di un mondo immaginario che comprende una Finlandia fondata da due figure messianiche: Geb e Atum. Con la velocità delle comunicazioni – che sta cambiando il nostro approccio allo spazio-tempo, all’ambiente e così via – l’idea di “geografia” sembra aver perso peso, quasi si trattasse di un bizzarro personaggio del quale ci accorgiamo con sorpresa soltanto in occasione di eventi naturali o culturali eccezionali. Quale pensi sia oggi il valore della “nativeness”? Credi si tratti di un fattore chiave nelle pratiche artistiche attuali e future? Ci troviamo in un momento geopolitico molto interessante, benché pericoloso e spaventoso, nel quale il neoliberismo ha fallito, l’effetto della globalizzazione sta producendo allarmanti e crescenti diseguaglianze e ci stiamo affannando a formulare fattibili alternative all’idea di stato nazionale. Alla luce della recente legislazione per gli ingressi negli USA o della crisi dell’immigrazione alle porte dell’Europa – solo per fare due esempi – i concetti di “nativeness” e di cittadinanza nazionale dimostrano come nonostante la tecnologia della rete digitale abbia creato un senso di universalità e accessibilità, la realtà politica sia piuttosto il contrario: in tutto il mondo c’è una ritirata regressiva dietro i varchi dei confini nazionali, cresce il conservatorismo culturale, la xenofobia e via dicendo. Alla domanda come ciò stia influenzando l’arte prodotta oggi, risponderei che una delle questioni topiche con cui l’arte deve confrontarsi oggi è: come ci si può impegnare criticamente contro tutto questo? E come può l’arte cambiare tutto questo? Erkka Nissinen e Nathaniel Mellors, The Aalto Natives, 2017, veduta del Padiglione Finlandia. Foto: Ugo Carmeni

Fin dalle prime fasi di questo progetto gli artisti Erkka Nissinen e Nathaniel ESPOARTE 97 | SPECIALE BIENNALE | 49


Dall'alto: Erkka Nissinen e Nathaniel Mellors, The Aalto Natives, 2017, veduta del Padiglione Finlandia. Foto: Ugo Carmeni Erkka Nissinen e Nathaniel Mellors, The Aalto Natives, 2017, immagine di produzione. © Erkka Nissinen e Nathaniel Mellors

Mellors hanno lavorato in modo totalmente collaborativo. Vedi qualche affinità tra un simile approccio (creativo-collaborativo) e i tuoi metodi, il tuo modo di affrontare il compito curatoriale? Ci sono ovviamente molte sfaccettature nella funzione del curatore, e ogni progetto ha le sue esigenze particolari. In questo caso, il lavoro curatoriale non si è focalizzato tanto sulla co-autorialità nel cuore del processo artistico (che si è sempre diviso tra Mellors e Nissinen, i quali per lo più hanno hanno lavorato insieme a Los Angeles, mentre io ero ad Amsterdam), quanto su un ruolo più editoriale e di partner di feedback per aspetti cruciali nella progettazione delle opere e dell’installazione. Vedo il mio ruolo in questi termini: di feedback-partner e consigliere, di vertice dell’organizzazione, supervisore della produzione e fundraiser, piuttosto che quello di partner creativo. Ovviamente ci sono molti altri curatori che affermano una co-autorialità artistica e operano creativamente sullo stesso piano dell’artista. Tale dicotomia artista/curatore si è certamente ridotta sensibilmente nel corso degli ultimi vent’anni, come risultato di differenti processi di riconfigurazione istituzionale nel mondo dell’arte, e in molti casi non è più molto proficuo fare distizioni tra i due. Rispetto ad altri progetti dei quali ti sei occupato, cosa significa per te lavorare per la Biennale di Venezia, tanto più nel contesto di un padiglione nazionale? Ho sempre amato la Biennale di Venezia per tutte le sue contraddizioni intrinseche; si tratta di un mostro arcaico e problematico, tuttavia abbiamo bisogno di promuoverlo perché ci permette di riflettere su quelle stesse questioni al centro della crisi globale contemporanea. Poter utilizzare una simile cornice, e operare a questo livello di alta visibilità e risposta critica, è un’opportunità per ogni curatore. Poter fare tutto questo rappresentando un Paese che non è il proprio, come nel mio caso, in una collaborazione autenticamente internazionale, con un duo artistico dalla Finlandia e dal Regno Unito, un committente finlandese (l’incredibile squadra di Frame [Frame – Contemporary Art Finland https://frame-finland.fi/ n.d.r.]) e il grosso della produzione realizzata a Hong Kong, Los Angeles e Amsterdam, significa che questo progetto rilfette la “condizione globalizzata”, in linea con la ridefinizione della rappresentazione nazionale che è diventata sempre più comune, negli ultimi anni, in una biennale come questa. 50 | ESPOARTE 97 | SPECIALE BIENNALE

Padiglione FINLANDIA (Padiglione Alvar Aalto) The Aalto Natives Sede: Giardini Commissario: Raija Koli, Frame Contemporary Art Finland Curatore: Xander Karskens Artisti: Erkka Nissinen e Nathaniel Mellors Info: http://frame-finland.fi


/ LA PAROLA AI PADIGLIONI... a cura di Elena Borneto

/ PADIGLIONE TUNISIA / “The Absence of Paths è una performance interattiva che ispira ulteriori indagini sui problemi che circondano la migrazione umana. Anche se ne ho concepito il progetto curatoriale, The Absence of Paths non è mai stata destinata ad appartenere ad un curatore o ad un artista: abbiamo deliberatamente creato un'esperienza che è ovunque e in nessun luogo, un progetto privo di arte tradizionale o artisti. Abbiamo scelto, invece, di far diventare il Padiglione una piattaforma inclusiva per chiunque voglia partecipare. Una piattaforma online corrispondente raccoglie testi, audio, video e fotografie da una vasta gamma di pensatori e creatori. In definitiva, The Absence of Paths è un esperimento di pensiero che utilizza la libertà dell'arte di creare una piccola esperienza utopica”. _Lina Lazaar, curatore The Absence of Paths Sede: Arsenale, sedi varie Commissario: The Presidency of the Republic and the Tunisian Ministry of Culture Curatore: Lina Lazaar Info: www.kamellazaarfoundation.org

/ PADIGLIONE IRAQ / “In mostra 40 antichi manufatti iracheni, prestati per la prima volta dall'Iraq Museum di Baghdad. Il processo di selezione dei manufatti è stato molto elaborato ed è durato per mesi. Sono stati scelti sia per ragioni estetiche sia per la loro storia e la loro pertinenza ai sette temi universali che io e il co-curatore Paolo Colombo abbiamo identificato quali precursori di ogni civiltà: acqua, terra, caccia, scrittura, musica, conflitti ed esodi. A ciascuno degli artisti contemporanei selezionati è stato assegnato uno di questi temi. La maggior parte di questi artisti vive e lavora a Baghdad ad eccezione di tre, due dei quali vivono in altre città e un altro, Francis Alÿs, è un artista di fama internazionale. A lui è stata commissionata un'installazione sul tema dell'artista e la guerra, in continuità con il suo interesse verso il ruolo dell'arte nelle zone conflittuali e quello dell'artista in quanto testimone. La Fondazione Ruya ha assegnato ad Alÿs un incarico militare durante la campagna in corso per liberare Mosul che ha costituito la base di questo lavoro. Nell'esplorare il patrimonio artistico dell'Iraq dal Neolitico ad oggi, Archaic indaga anche i diversi modi in cui l'antico passato dell'Iraq ha influenzato il linguaggio visivo moderno e contemporaneo, esaminando le opportunità e le limitazioni presentate alla nazione dalla sua immensa eredità antica, nel contesto della fragile realtà di oggi. Per un Paese come l'Iraq, un padiglione a Venezia rappresenta l'opportunità di presentare una scena artistica che è stata isolata dal panorama culturale internazionale per molti decenni”. _Tamara Chalabi, co-curatore Archaic Commissario: Ruya Foundation Curatore: Tamara Chalabi e Paolo Colombo In mostra: antichità dall'Iraq Museum, Francis Alys, Jewad Selim, Shakir Hassan al-Said, Sadik alFraiji, Sherko Abbas, Sakar Sleiman, Nadine Hattom, Luay Fadhil, Ali Arkady Sede: Palazzo Cavalli Franchetti, 3° piano, San Marco 2847 Info: https://ruyafoundation.org/en/project/venice-biennale-2017/ Dall'alto: Veduta dell'installazione del Padiglione Tunisia, The Absence of Paths, La Biennale di Venezia, 2017. Foto: Luke Walker Padiglione Iraq - Archaic, 57. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, maggio 2017, vedute dell'installazione. © Ruya Foundation ESPOARTE 97 | SPECIALE BIENNALE | 51


PADIGLIONI NAZIONALI

/ PADIGLIONE GUATEMALA /

Daniele Bongiovanni NATURA CHE EMERGE DALLA PITTURA Intervista di Chiara Serri

Paesaggio come eco di una bellezza immutabile. Utilizzo della tecnica classica dell’olio steso per velature successive ed immissione di nuovi pigmenti – fluo ed acrilici – che aprono al contemporaneo. Nelle opere di Daniele Bongiovanni, la natura emerge gradualmente dalla pittura, tra dato reale e slancio onirico. Invitato da Daniele Radini Tedeschi, espone con il gruppo El círculo mágico all’interno del Padiglione del Guatemala alla Biennale di Venezia, nell’ambito di un progetto dedicato alla natura e alla spiritualità. La mostra del Padiglione del Guatemala s’intitola La Marge. Qual è il suo rapporto con il margine? Limite della tavola, confine tra figurazione e astrazione… Sia nell’arte che nel quotidiano, considero i dettagli fondamentali. Pensiamo alle parole, ad uno scritto, all’opera in tutte le sue forme: ciò che rende nuova e interessante la comunicazione – in un momento come questo, dove quasi tutto è già stato detto, scritto e fatto – è il particolare. Esso vive nel margine, e se non monitorato, diventa invisibile quanto insopportabile. Parlando di stile, la mia pittura cerca di essere fedele a se stessa, pur non incasellandosi in una condizione troppo definita: astrazione, figurazione tradizionale, il sociale, 52 | ESPOARTE 97 | SPECIALE BIENNALE

il messaggio necessariamente filosofico... Il mio lavoro abbraccia una condizione eclettica, sia per quanto riguarda la composizione, sia per quanto riguarda il suo stesso significato o significante. Tecnicamente parlando, rispetto regole ben precise, ma cerco di non sottovalutare mai il pensiero laterale, complice volontario del rigore. Da un punto di vista espressivo, mi servo anche di quella che chiamo “intelligenza della mano”.

Dall'alto: Veduta del Padiglione Guatemala. Foto: Diego Santamaria Daniele Bongiovanni, Natura con Deus, 2016, olio e tecniche miste su tavola, cm 15x15 cad., veduta del Padiglione Guatemala


Porta alla Biennale di Venezia la serie Natura con Deus. Trenta tavole di piccole dimensioni in cui i lacerti di un paesaggio – ricordato o forse immaginato – si stemperano in atmosfere oniriche. Natura e pittura? L’importanza dell’esposizione sequenziale? Il bello oggettivo, la bellezza utile e immutabile, quella che non viene filtrata e mai rappresentata da finti canoni e stucchevoli mutazioni, la troviamo solo in natura, nella parte più sofisticata del paesaggio. Da anni ho intrapreso uno studio sull’estetica generale, sul rapporto tra arte e realtà. Ancora oggi sono colpito da questa disciplina. Ovviamente non rimango ancorato solo ad una certa ricerca, aggiungo sempre qualcosa di nuovo, un corpo centrale. È come contestualizzare un elemento dentro un grande spazio. Qui ho immesso il “Deus”, che non ha una valenza teologica, né di fede universale, antiumanistica, ha solo l’obiettivo di parlare, paradossalmente, dell’indicibile, di quel qualcosa che non è stato ancora svelato e trascritto. Se la pittura si fa bella grazie alla consistenza sia materiale sia spirituale della natura, è giusto farne una sorta di trattato visivo. La sequenza, poi, è

come la grammatica, quando hai assorbito bene la regola vai di getto. E qui si viene a creare un certo equilibrio, che cerca di non affaticare mai la percezione. Associa alla tecnica classica dell’olio steso per velature successive una scelta cromatica particolare, che attinge anche all’ambito pop con tinte fluo… Le particolari tinte fluo sono degli eccessi, sono i soggetti estranei, diventano “cose” invadenti, che vengono positivamente occultate dalle varie stesure di colore. È un po’ come omaggiare o incastrare un frammento di modernità in un contesto classicheggiante. Progetti in cantiere? A luglio parteciperò alla fiera Market Art + Design di Hamptons, New York, con Alias Project, una combinazione tra alcuni elementi della serie InEtere, che ho già esposto a Torino, con alcuni elementi della serie Nimble, presentata presso l’Arts & Entertainment District di Miami. Ci sarà quindi una mostra personale, ancora in fase di realizzazione, a cura di Claudio Strinati.

Daniele Bongiovanni è nato a Palermo nel 1986. Vive e opera tra Palermo, Torino e Lugano. www.danielebongiovanni.com Padiglione del Guatemala La Marge Sede: Palazzo Albrizzi Capello, Cannaregio 4118 Commissario: José Luis Chea Urruela, Ministro della Cultura del Guatemala Curatore: Daniele Radini Tedeschi Artisti: Cesar Barrios, Lourdes de la Riva (Maria De Lourdes De La Riva Gutierrez), Arturo Monroy, Andrea Prandi, Erminio Tansini, Elsie Wunderlich, El círculo mágico. Info: www.biennaleguatemala.com Galleria di riferimento: CD ARTS Gallery, Lugano www.cdarts.ch

Daniele Bongiovanni, Natura con Deus, 2016, dettaglio ESPOARTE 97 | SPECIALE BIENNALE | 53


/ LA PAROLA AI PADIGLIONI... a cura di Elena Borneto

/ PADIGLIONE KOSOVO (Repubblica del) / "Lo spettatore percepisce frammenti dislocati della realtà e comincia a porsi delle domande. Semplicemente rimossi dal loro ambiente abituale, questi frammenti emettono codici complessi di nostalgia e di rivolta, instillati con emozione profonda dall'artista che assorbe ciacuno di essi ed ogni fenomeno con un'insolita sensibilità, prima di tradurli in spiccati elementi visivi. Alla fine, il risultato che sta davanti a noi nelle opere di Sislej Xhafa è semplificato in reazioni apparentemente impulsive nei confronti dell'ambiente, che garantiscono chiarezza e sincerità dell'emozione trasmessa. In questo modo viene concesso allo spettatore di percepire e accettare questa sincerità con facilità, decifrando i codici che si nascondono nel contesto". _Arta Agani, curatore e direttore della National Gallery of Kosovo

/ PADIGLIONE NUOVA ZELANDA / "Lisa Reihana, da più di due decenni, ha dato un contributo potente e generoso all'evoluzione dell'arte in Nuova Zelanda. Il suo lavoro è tecnicamente ambizioso e poeticamente sfumato poiché si basa sulla produzione cinematografica indigena, le testimonianze storiche, la narrativa, la mitologia e i legami della parentela per interrompere le ipotesi sulla verità, sul genere e sui modi di rappresentazione. Il suo progetto decennale in Pursuit of Venus [infected] (2015-2017) è un notevole e ampio panorama digitale e video che risponde alle rappresentazioni fittizie dei popoli indigeni del Pacifico nella carta da parati decorativa francese quasi-educativa Les Sauvages de la Mer Pacifique, 1804 -1805. Con in Pursuit of Venus [infected], Reihana volge lo sguardo all'imperialismo in tono speculativo e, assieme alle altre opere di Emissaries, la mostra ripropone e svela gli ideali e la filosofia dell'Illuminismo, l'impulso coloniale e gli impulsi grezzi dell'espansionismo, del potere e del desiderio". _Rhana Devenport, curatrice "Sono un'artista indigena di Aotearoa, quindi la colonizzazione in Nuova Zelanda ha giocato un ruolo importante nella mia storia. Durante gli anni '70 e '80, il governo della Nuova Zelanda ha incorporato politiche bi-culturali nel nostro sistema politico. Non sono un'attivista convinta, ma sono certa di poter vedere le cose da entrambi i punti 54 | ESPOARTE 97 | SPECIALE BIENNALE

LOST AND FOUND Sede: Arsenale Commissario: Valon Ibraj Curatore: Arta Agani Artista: Sislej Xhafa

di vista. Sono di razza mista (con origini britanniche) e mi sono sentita discriminata e bloccata nel mezzo tra l'essere colonizzatore e colonizzato. Nel 2005 mi sono imbattuta in strane rappresentazioni dei Maori e dei popoli del Pacifico in una carta da parati francese del XVIII secolo, Les Sauvages de la Mer Pacifique (1804-1805), alla National Gallery of Australia. Creata due secoli fa, la carta da parati fa riferimento ai viaggi degli esploratori francesi Jean-François de Galaup La Pérouse e Louis Antoine de Bougainville, nonché a tre viaggi nel Pacifico compiuti 250 anni fa dal navigatore britannico James Cook. Questa è stata d'ispirazione per in Pursuit of Venus [infected]

(2015-2017), che comprende narrazioni di questo incontro [tra esploratori e indigeni, ndr] da una prospettiva indigena". _Lisa Reihana, artista Lisa Reihana: Emissaries Sede: Arsenale Commissario: Alastair Carruthers Curatore: Rhana Devenport Artista: Lisa Reihana Info: www.nzatvenice.com Dall'alto: Sislej Xhafa, Lost and found, 2017, wooden pallets, telephone, plastic, exhibition view 57th Venice Biennale, Pavilion of the Republic of Kosovo, Venice, Italy. Foto: Oak Taylor-Smith. Courtesy: Galleria Continua, San Gimignano / Beijing / Les Moulins / Habana Lisa Reihana: Emissaries, in Pursuit of Venus [infected], 2015-17, Biennale Arte 2017. Foto: Michael Hall. Courtesy: New Zealand at Venice


/ PADIGLIONE SINGAPORE / "Con questo lavoro, Dapunta Hyang: Transmission of Knowledge, sono felice di presentare Dapunta Hyang Jayanasa, il primo re malese il cui regno, Srivijaya, si estese tra le odierne Indonesia, Singapore, Malesia, Tailandia, Vietnam e Cambogia. Il potere che esercitò sulla regione è comparabile alle conquiste greche o mongole, ma la storia dell'impero è stata seppellita e dimenticata. Si dice che, nel VII secolo, Dapunta Hyang Sri Jayanasa avesse compiuto nel suo regno un viaggio sacro, chiamato Siddhayatra, con un esercito di 20.000 uomini. Ossessionato dalla diffusione del Buddismo, durante e attraverso queste spedizioni, l'impero divenne potenza egemonica nel commercio marittimo regionale. Gli stupa costruiti in Sumatra (Indonesia), Kedah (Malesia), Chaiya (Thailandia) sono pertanto simili. In questa presentazione della storia di Dapunta Hyang – la mia quinta nave e la più grande fino ad oggi – ho cominciato ad immaginare come le sue navi furono fatte. Quanti alberi sono stati abbattuti e quanti artigiani sono stati impiegati per un viaggio così lungo? Ho immaginato i carichi che portavano; costituiti da libri, in quanto questo viaggio sacro aveva come scopo la "trasmissione della conoscenza". Quali conoscenze sono state portate e condivise? La nave è quindi simbolica di quel vecchio mondo malese che è stato immensamente potente, e che ho scelto quale pezzo centrale della mostra. Lunga 17 metri, la nave è costruita con vecchie tecniche per tenere i pezzi insieme, utilizzando solo rattan, corde e cera d'api. Nonostante la sua incredibile grandezza, questa nave è solo una struttura scheletrica. È il simbolo di come la storia, anche di un grande impero e di

una grande cultura, sia fragile e facilmente cancellabile dalla memoria dei popoli nel tempo. Facendo emergere la nave dai fondali, volevo ispirare le persone a ripensare alle nostre identità riesaminando il nostro passato. Si può dire che il mio progetto per la Biennale di Venezia sia cominciato alla fine degli anni '90, quando cominciai a fare ricerche sulla storia malese e la Orang laut (gente di mare) che popolava un tempo Singapore. Essi vivevano alle foci del fiume sul mare – che costituiscono il paesaggio principale dell'Asia sudorientale – e venivano da un mondo che non era ancora politicamente diviso e che era geograficamente suddiviso da isole e monti. A causa del loro stretto legame con Madre Natura, questa popolazione era animista, a differenza di altre in molti continenti che adottarono le principali religioni. Inoltre, a causa del loro modo di vivere, sono incompatibili con un mondo sempre più organizzato e commercializzato; le Orang laut sono, infatti, paria nella loro terra. La loro condizione mi ha colpito molto in tutti questi decenni. Ritengo che una delle ragioni per cui sono state emarginate è la mancanza di conoscenza. Tendiamo a giudicare facilmente quando non conosciamo abbastanza. Ecco perché ho deciso di "risvegliare" un re del VII secolo per ricordare che ognuno di noi deriva da una lunga e complessa tradizione, che è un confluire di molte tradizioni e credenze diverse. Posso essere malese e musulmano, ma c'è molto di più nella mia identità culturale che non solo quello. Questo è estremamente importante nello stato attuale del mondo, dove le persone trovano ragioni per segregarsi l'un l'altro. A partire da questo, ho deciso di mostrare parallelamente alla nave 31 ritratti di performer Mak yong, accompagnati da una registrazione audio

di un vecchio maestro di Mak yong che parla in un malese antico comprensibile a pochi. Il Mak yong è un'antica forma di danza-opera-teatro malese che era una volta diffusa ma che ora è praticata solo dai pochi maestri rimanenti. Per svariate ragioni è sul punto di essere totalmente dimenticata, proprio come le Orang laut o il Srivijaya. Dal 2004, ho assistito al viaggio di una compagnia sull'isola di Mantang nell'arcipelago di Riau che lotta per sostenere la propria tradizione morente. In qualche occasione, li ho invitati ad esibirsi sulla propria isola in modo che la generazione più giovane potesse conoscere le proprie arti e il proprio patrimonio. Alla vigilia del Capodanno 2017, una giovane generazione di artisti si è finalmente esibita nel loro primo spettacolo. Questo è estremamente incoraggiante da vedere. L'inclusione di questa compagnia è anche un modo per rispettare la loro tenacia per preservare qualcosa di importante ma trascurato. L'installazione per la Biennale ha tutte queste componenti: la grande nave, mappe, registrazioni audio, ritratti di una compagnia Mak yong che vive e lavora sodo per rilanciare l'antica opera malese. Questa è un'opportunità per condividere con il pubblico internazionale un mondo che è stato gettato nell'oscurità da diverse centinaia di anni. Spero che il pubblico non solo apprenda la storia malese, ma sia anche ispirato ad indagare la propria storia, facendone tesoro".

_Zai Kuning, artista Dapunta Hyang: Transmission of Knowledge Sede: Arsenale Commissario: Paul Tan, Covering CEO, National Arts Council Singapore Artista: Zai Kuning

In questa pagina: Padiglione Singapore, Dapunta Hyang: Transmission of Knowledge, 57. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, Viva Arte Viva. Foto: Italo Rondinella. Courtesy: La Biennale di Venezia

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VISTO A VENEZIA / GLI EVENTI DA NON PERDERE / a cura di Francesca Di Giorgio

JAN FABRE. GLASS AND BONE SCULPTURES 1977-2017 Evento collaterale della 57. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia Venezia, Abbazia di San Gregorio (Dorsoduro 172) A cura di Giacinto Di Pietrantonio, Katerina Koskina, Dimitri Ozerkov 13 maggio - 26 novembre 2017 Promotore: GAMeC – Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea, Bergamo www.gamec.it Per la prima volta insieme, oltre 40 opere in vetro e ossa, realizzate dall’artista belga Jan Fabre in un quarantennio di lavoro, tra il 1977 e il 2017, che innescano una riflessione filosofica, spirituale e politica sulla vita e la morte attraverso la centralità della metamorfosi. Un progetto inedito, appositamente studiato per gli spazi dell’Abbazia di San Gregorio, situata tra il ponte dell’Accademia e la Punta della Dogana.

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Jan Fabre, The Catacombs of the Dead Street Dogs, 2009-2017, vetro di Murano, scheletri di cani, acciaio inossidabile, dimensioni variabili. Foto: Pat Verbruggen. Copyright: Angelos bvba


PIERRE HUYGHE Espace Louis Vuitton Venezia, San Marco 1353 (Calle del Ridotto) Evento Collaterale della 57. Esposizione Internazionale d’Arte – La Biennale di Venezia 13 maggio - 26 novembre 2017 Promotore: Fondation Louis Vuitton www.fondationlouisvuitton.fr Tre opere appartenenti alla collezione della Fondation Louis Vuitton in mostra nello spazio veneziano portano il visitatore in un’atmosfera narrativa di illusione e memoria sfuggente: A Journey That Wasn’t (2005), Creature (2005-2011) e Silence Score (1997) L'esposizione si articola intorno a A Journey that wasn’t (2005). Il film è frutto di una spedizione fatta in compagnia di scienziati e artisti in Antartide, a bordo dell’antico veliero Tara dell’esploratore Jean-Louis Etienne, alla ricerca di una nuova isola, creata dallo scioglimento dei ghiacci dove ipoteticamente vive un pinguino albino, vicino a una colonia di suoi simili. La mostra fa parte del programma Beyond the Walls della Fondation Louis Vuitton, che dà vita a mostre inedite esponendo opere della collezione presso gli Espace Culturel Louis Vuitton di Tokyo, Monaco di Baviera, Pechino e Venezia.

PHILIP GUSTON AND THE POETS Evento collaterale della 57. Esposizione Internazionale d’Arte La Biennale di Venezia Gallerie dell’Accademia di Venezia, Dorsoduro 1050 (Campo della Carità) 10 maggio - 3 settembre 2017 Promotore: Museo Nazionale Gallerie dell’Accademia di Venezia www.gallerieaccademia.it

Il lavoro del grande artista americano Philip Guston (1913-1980) in una grande mostra che indaga l’opera attraverso un'interpretazione critico-letteraria. Philip Guston and The Poets propone una riflessione sulle modalità con cui l'artista entrava in relazione con le fonti di ispirazione, prendendo in esame cinque poeti fondamentali del XX secolo, che fecero da catalizzatori per gli enigmatici dipinti e visioni di Guston. Cinquant’anni di carriera artistica vengono ripercorsi esponendo 50 dipinti considerati tra i suoi capolavori e 25 fondamentali disegni che datano dal 1930 fino al 1980, ultimo anno di vita dell’artista.

Philip Guston and the Poets, veduta della mostra, Gallerie dell'Accademia. Foto: © Lorenzo Palmieri In alto: Pierre Huyghe, A Journey that wasn't. © Adagp Paris 2017 ESPOARTE 97 | SPECIALE BIENNALE | 57


SHIRIN NESHAT. THE HOME OF MY EYES Evento collaterale della 57. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia con il supporto di The Written Art Foundation, Frankfurt am Main 13 maggio - 26 novembre 2017 Museo Correr, San Marco 52 www.fmcvenezia.it The Home of My Eyes dell'artista iraniana Shirin Neshat presenta un ciclo di 55 fotografie ideate e realizzate dall’artista dal 2014 al 2015 e ancora mai esposte in Europa; Si tratta di ritratti fotografici di singole persone residenti in varie regioni dell’Azerbaijan – che ha ricordato all’artista il suo paese natale, l’Iran – ognuna con un diverso credo religioso ma tutte, nell’installazione, presentate come facenti parte della stessa comunità: dalla giovane bambina bionda dall’aspetto europeo al quasi ottantenne con sembianze asiatiche. Accanto a queste immagini il video intitolato Roja (2016), il più recente lavoro di Neshat, basato su un sogno personale. Il video si concentra sul sentimento di “spostamento” delle popolazioni, sulla paura dello “straniero” e della “terra straniera”. Come in altri lavori di Shirin Neshat, Roja mostra il desiderio di riunirsi con la propria “casa”, e con la “madrepatria”, che può sembrare in un

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primo momento empatico ma che si rivela nel corso del video e alla fine terrificante e infernale.

MICHELANGELO PISTOLETTO. ONE AND ONE MAKES THREE Evento Collaterale della 57. Esposizione Internazionale d’Arte – La Biennale di Venezia Mostra a cura di Lorenzo Fiaschi promossa da Associazione Arte Continua in collaborazione con Abbazia di San Giorgio Maggiore - Benedicti Claustra Onlus

Shirin Neshat, Roja, 2016, production still. © Shirin Neshat. Courtesy: the artist and Gladstone Gallery, New York and Brussels

realizzata grazie al supporto di GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins / Habana Basilica di San Giorgio, Isola di San Giorgio Maggiore, Venezia 10 maggio - 26 novembre 2017 www.abbaziasangiorgio.it www.galleriacontinua.com www.arteallarte.org Michelangelo Pistoletto ha attraversato l’arte della seconda metà del Novecento, scrivendone una pagina storica e riportando l’Italia creativa al centro della scena. Questa mostra, concepita per la Basilica di San Giorgio Maggiore e per gli spazi adiacenti, la sacrestia, il coro maggiore, la Sala del Capitolo e l’Officina dell’Arte Spirituale, s’impone come riflessione che investe direttamente il destino dell’uomo e l’urgente necessità di un cambiamento sociale. L’esposizione offre una sintesi del percorso artistico del Maestro, dai suoi esordi fino ai giorni nostri. La selezione di opere esposte include tanto i lavori storici più rappresentativi dell’inizio dell’attività artistica di Pistoletto (1960), quanto le opere più recenti (2017). Michelangelo Pistoletto, One and One makes Three, Abbazia di San Giorgio Maggiore, 2017. Suspended Perimeter - Love Difference, 1975-2011, ferro, specchio, Ø 10 m. Courtesy: the artist and GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins / Habana. Foto: Oak Taylor-Smith


DAMIEN HIRST. TREASURES FROM THE WRECK OF UNBELIEVABLE A cura di Elena Geuna Palazzo Grazzi e Punta della Dogana, Venezia 9 aprile - 3 dicembre 2017 Info: www.palazzograssi.it di Francesca Caputo

Sembrava improbabile che Damien Hirst – ex Young British Artist, star negli anni Novanta, genio del business che ha saputo cavalcare e piegare le regole del mercato e del sistema dell’arte – riuscisse a superare gli eccessi spettacolari cui ci aveva abituato, dagli squali in formaldeide ai teschi umani ricoperti di platino e diamanti. Eppure l’ha fatto, concependo un evento colossale, grazie al sostegno di François Pinault, con quasi duecento opere tra Palazzo Grassi e Punta della Dogana a Venezia, per la prima volta affidati ad un unico artista. Un progetto cui ha lavorato per dieci anni, almeno così è stato dichiarato. All’inizio di questa epopea su verità e finzione, c’è una storia immaginata. Il recupero di un tesoro mitico, scoperto nel 2008. Un’immensa collezione di oggetti e opere d’arte – appartenuta al leggendario schiavo liberto Amotan II – naufragata insieme a un relitto misterioso, duemila anni fa nell’Oceano Indiano. La narrazione, così come la seduzione dell’inganno, è parte integrante del progetto. Dal lancio della mostra mediante teaser – brevi video utilizzati nelle campagne pubblicitarie per suscitare la curiosità del pubblico – sino ai lightbox e filmati archeologici che “documentano” il recupero e ai testi in catalogo. Un format inedito in cui ogni elemento riverbera la dialettica delle opere, tra comunicazione, racconto e creazione, illusione e fede, vero e falso, ossessione e virtuosismo, bellezza e kitsch, memoria e follia, collezionismo, potere e mastodontiche proiezioni dell’ego. La statua di Amotan riemersa dagli abissi rivela d’altronde le fattezze di Hirst che tiene per mano Topolino. Ricrea i suoi Tesori dal Relitto dell’Incredibile addizionando stili e linee temporali

in cortocircuito, mescolando materiali antichi e contemporanei, dai led all’acciaio. Ibridando calendari aztechi, divinità egizie, greche, romane, induiste, spesso sature di incrostazioni fittizie, con icone disneyane, citazioni all’arte e alla cultura pop. Creature mitiche con la verosimiglianza di monili, anfore, monete. Un accumulo ipertrofico che oltrepassa il cattivo gusto. Ma qui non è in gioco la categoria del Bello, i cui parametri oltre a non essere mai stati univoci sono oramai saltati da tempo. L’operazione compiuta da Hirst è di rendere, in maniera neanche troppo velata, vero il falso. Tutto è volutamente artefatto, posticcio, simulato, a cominciare dai materiali utilizzati che, a saper osservare, non sembrano poi tutti così preziosi. Tutto è giocato sull’ambiguità. Non dimentichiamo che Hirst ha fondato

la Science Ltd, società con cui sostanzialmente le sue idee sono legittimate come opere d’arte. Perché ha voluto competere con mitologia e antichità? Costruire feticci e idoli come reperti dell’antico e del contemporaneo, a metafora della caducità? Creare fake news, invenzioni archeologiche e storiche, per renderli plausibili? Il decadimento che Hirst asseconda fino all’eccesso e di cui si burla è quello che stiamo vivendo davvero da troppo tempo, l’attitudine di un’epoca fagocitata dalla post-verità. La verità giace da qualche parte tra le bugie e il vero, ci avverte una scritta all’ingresso della mostra. Dipende dalle singole capacità – di analisi e giudizio critico – se vogliamo ancora concedergli un atto di fede.

Damien Hirst. Treasures from the Wreck of Unbelievable, Palazzo Grassi. Damien Hirst, Mickey. Foto: Prudence Cuming Associates. © Damien Hirst and Science Ltd. All rights reserved, DACS 2017 In alto: Damien Hirst. Treasures from the Wreck of Unbelievable, Punta della Dogana. Damien Hirst, (da destra a sinistra) The Diver with Divers, (Photography Christoph Gerigk), Calendar Stone, The Diver. Foto: Prudence Cuming Associates © Damien Hirst and Science Ltd. All rights reserved, DACS 2017 ESPOARTE 97 | SPECIALE BIENNALE | 59


THE END OF UTOPIA a cura di Studio La Città, Verona Jacob Hashimoto Emil Lukas Palazzo Flangini, Cannaregio 252, Venezia 13 maggio - 30 luglio 2017 Info: www.studiolacitta.it di Igor Zanti Tra le molte esposizioni parallele alla 57. Biennale d’Arte di Venezia, sicuramente è degna di nota la bella mostra organizzata da Studio la Città a Palazzo Flangini. Un interessante spunto nasce dal titolo stesso della mostra The end of Utopia, titolo sotto il quale si raggruppano i lavori di due artisti molto noti a livello internazionale, Jacob Hashimoto ed Emil Lukas. Sembra infatti che, tra affondamenti di navi con tesori d’arte, barche che si perdono condotte da marinai poco attenti, sogni magiari degli anni '60 mai realizzati, ci sia una tendenza diffusa a riflettere sulla fine di un’epoca e di una cultura. Se, nel 2007, durante Art Basel, The Art Newspaper titolò la prima pagina con un suggestivo the Age of Skulls, notando come il proliferare di teschi e vanitas presenti in fiera fosse una reazione a For the love of God di Damien Hirst, nel caso di questa Biennale 2017 potremmo non tanto parlare di Viva Arte Viva, quanto del requiem della cultura occidentale. La stessa provenienza dei due artisti in mostra, entrambi statunitensi, fa riflettere sull’idea che la vera utopia morente, non

sia tanto quella immaginata da Tommaso Moro, quanto l’Occidente stesso nella sua totalità, quell’Occidente che in nome di una spinta evolutiva ed iper-tecnologica ha creato un profondo sbilanciamento nel rapporto tra uomo e natura. Tutto questo si evidenzia, in mostra, con due installazioni principali e site specific a cui fanno da contorno diversi lavori di dimensioni minori. Da una parte, Hashimoto presenta al piano terra del palazzo un'imponente e raffinatissima installazione, composta da circa 8500 piccoli aquiloni in carta e bambù, una oscura nuvola fluttuante, un cirrocumulo, dove si percepisce, sulla superficie della carta che ricopre gli aquiloni, una stella che rimanda sia al firmamento e quindi alla natura, sia alle molte stelle presenti nei

vessilli nazionali, prime fra tutte quelle della bandiera degli Stati Uniti. L’effetto, di grande impatto, induce ad una riflessione proprio sul rapporto tradito tra uomo e natura, tra sviluppo tecnologico e sfruttamento nazionale delle risorse naturali. Da contraltare, la cromata luminosità della grande “Lens” formata dall’assemblaggio di tubi d’alluminio di Lukas che rinuncia, per un momento, all’intreccio di fili che gli è convenzionale e utilizza dei solidi tubi d’acciaio per dare vita ad una sorta di lente multi faccia, quasi l’occhio di una mosca, che riflette in maniera caleidoscopica e distorce la realtà, lo stesso reale che l’uomo con la sua azione ha trasformato e distorto. Se le due grandi installazioni, in luoghi paralleli, sembrano dialogare tra di loro anche nell’essenziale ossimoro di assorbimento, per Hashimoto, e di riflessione, per Lukas, della luce stessa, e sembrano essere summa degli altri lavori in mostra, i due percorsi espositivi dedicati agli artisti perdono il parallelismo per divenire tangenti ed intersecarsi in diversi momenti cromatici e poetici riconducendo a quello che, sebbene ci appaia un inizio, sia, in realtà, l’ode finale, il canto del cigno di un mondo morente, di una nave alla deriva verso un certo naufragio.

The end of Utopia, vedute dell'installazione a Palazzo Flangini. In alto: Emil Lukas. A fianco: Jacob Hashimoto. Foto: Michele Alberto Sereni. Courtesy: Studio la Città, Verona 60 | ESPOARTE 97 | SPECIALE BIENNALE


INTUITION a cura di Daniela Ferretti e Axel Vervoordt co-curata da Dario Dalla Lana, Davide Daninos e Anne-Sophie Dusselier in collaborazione con Fondazione Musei Civici di Venezia e Axel & May Vervoordt Foundation Palazzo Fortuny San Marco 3958 13 maggio - 26 novembre 2017 Info: www.intuition.art www.visitmuve.it di Matteo Galbiati Palazzo Fortuny, con la grande mostra Intuition, chiude un lungo ciclo di mostre che, iniziato nel 2007, ha portato nella storica dimora veneziana di Mariano e Henriette Fortuny esposizioni che hanno sempre messo in dialogo le opere di maestri contemporanei (e non solo) con i suggestivi ambienti dello storico palazzo, ma anche con le contaminazioni dettate dal raffronto dell’arte del passato. Chi conosce questo luogo sa bene come gli ambienti del Fortuny rendano al contempo estremamente difficile l’allestimento di una mostra – abituati come siamo al classico white cube asettico – e pure particolarmente stimolante per la dimensione “domestica” di un

luogo a tal punto denso di storie e di oggetti da sembrare ancora abitato da presenze che lo vivono e lo modificano quotidianamente. In questo decennio la collaborazione tra la direttrice dello spazio veneziano Daniela Ferretti e il collezionista ed imprenditore Axel Vervoordt ci ha sempre stupito con progetti di altissimo livello e curatissimi in ogni dettaglio, il cui indirizzo interpretativo e tematico ha, senza dubbi e riserve, colpito per la loro precisione ed efficacia. Anche questo sesto ed ultimo capitolo – dopo Artempo (2007), Infinitum (2009), TRA (2011), Tàpies. Lo sguardo dell’artista (2013) e Proportio (2015) – non delude lo spettatore, anzi lo rigenera stimolandolo in un viaggio illuminante nel mondo dell’“intuizione”, la radice vera di ogni pensiero, artistico e non. Intuition dissemina opere che, dalla preistoria al presente, identificano il senso e l’influenza che l’intuizione ha esercitato sulla “mente artistica” dell’uomo in parti differenti del mondo, testimoniando come l’atto creativo sia un artificio che vive nel profondo dell’animo umano, smuovendo pensieri e idee in ogni latitudine culturale e in ogni coordinata temporale, a dimostrazione di come, il desiderio di “espressione” con il mezzo dell’arte sia un’esigenza in noi quasi innata. I dieci anni si chiudono con una mostra che rinnova e rinsalda il patto con questa location

d’eccezione: le sue affascinanti e conturbanti stanze sono lo scrigno che, per la caratterizzazione forte della personalità e per l’unicità assoluta del suo fascino, ospita una nuova ampia carrellata di nomi che basterebbero a riempire un manuale di storia dell’arte. Le opere selezionate e suddivise con abile regia guidano nell’esplorazione di un “sentimento” – l’intuizione – che muove lo spirito ad agire sempre in modo peculiare. Tecniche, materiali, ricerche, gusti e tendenze si articolano in successioni ed accostamenti che trascinano lo sguardo, il cui desiderio si perde in ogni angolo di questa incantevole dimora. L’ultimo capitolo conclude un ciclo predestinato a segnare la storia espositiva veneziana facendo riflettere – quasi fosse una sorta di lascito per il futuro – proprio sul potere intuitivo della creazione, fattore questo che non ha mai fine nel tempo. Dopo dieci anni, quindi, il Fortuny chiude in bellezza, lasciandoci però in sospeso con l’interrogativo su cosa si potrà ammirare nelle sue sale, data l’incisività di questa ingombrante eredità culturale, in occasione della Biennale targata 2019.

El Anatsui e Masaomi Raku, The Beginning and the End, 2015; Transmigration, 2016. Veduta della mostra Intuition, Palazzo Fortuny. Foto: © Jean-Pierre Gabriel ESPOARTE 97 | SPECIALE BIENNALE | 61


GLASSTRESS 2017 a cura di Dimitri Ozerkov, Herwig Kempinger, Adriano Berengo con la consulenza di Clare Phyllis Davies Sedi: Palazzo Franchetti, San Marco 2847 Berengo Exhibition Space Campiello della Pescheria, Murano: special project The Unplayed Notes Factory di Loris Gréaud, a cura di Nicolas Bourriaud 11 maggio - 26 novembre 2017 Info: www.glasstress.org In concomitanza della Biennale torna il progetto Glasstress che quest'anno coinvolge oltre venticinque importanti artisti della scena contemporanea provenienti da Europa, Stati Uniti, Medio Oriente e Cina, in una delle più ambiziose mostre d'arte contemporanea in vetro mai realizzate. Dalla fine degli anni ‘80, più di 300 noti artisti della scena contemporanea hanno liberato la loro creatività progettando, grazie all’aiuto di rinomati maestri vetrai dello Studio Berengo, opere di grande impatto visivo. Supportato dalla Fondazione Berengo,

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il progetto si sviluppa in due eccezionali location storiche: Palazzo Franchetti a Venezia e una vecchia fornace adibita a spazio espositivo a Murano. Qui, l'artista francese Loris Gréaud, per il suo debutto all'interno del progetto Glasstress, ha realizzato l'installazione The Unplayed Notes Factory, dando nuova vita a un'antica fornace abbandonata.

Dall'alto: Glasstress 2017, Palazzo Franchetti. Foto: Francesco Allegretto Loris Gréaud, The Unplayed Notes Factory, 2017, glass, light bulbs, metal, from 30 to 60 cm diameter each piece / variable dimensions (installation). Foto: Greaudstudio, © Loris Gréaud, Gréaudstudio


GIOVANNI ANSELMO SENZA TITOLO, INVISIBILE, DOVE LE STELLE SI AVVICINANO DI UNA SPANNA IN PIÙ MENTRE OLTREMARE APPARE VERSO SUD-EST, E LA LUCE FOCALIZZA... a cura di Chiara Bertola Fondazione Querini Stampalia | Area Carlo Scarpa in collaborazione con Tucci Russo Studio per l’Arte Contemporanea con il sostegno di Vistamare Benedetta Spalletti, Lia Rumma e Marian Goodman Gallery

ELISABETTA DI MAGGIO NATURA QUASI TRASPARENTE Fondazione Querini Stampalia | Museo Querini Stampalia in collaborazione con T Fondaco dei Tedeschi - DFS e Laura Bulian Gallery progetti promossi da Fondazione Querini Stampalia e Krizia 9 maggio - 24 settembre 2017 Fondazione Querini Stampalia Campo Santa Maria Formosa, Castello 5252 Info: www.querinistampalia.org Le riflessioni di Giovanni Anselmo ed Elisabetta di Maggio, i due artisti invitati alla Querini Stampalia, anche se in modi diversi e quasi opposti nelle materie che utilizzano, si toccano in quel loro soffermarsi

su concetti quali la caducità e il trascorrere del tempo: geologico, lentissimo e costante per Anselmo; ritmato, fluido e trasformativo in Di Maggio. Le loro opere scandiscono una stessa temporalità ma in modo differente, mettono al centro un confronto con il ritmo del tempo, di forza e fragilità, di tensione e sospensione. Anselmo e Di Maggio si confrontano inevitabilmente con la storia, gli spazi e le collezioni che costituiscono il patrimonio della Fondazione e rientrano in “Conservare il futuro”, il programma pluriennale di arte contemporanea della Querini Stampalia che ha l’obiettivo di proporre sempre sguardi inediti capaci di scardinare le consuete categorie di conservazione, esposizione e fruizione museale dell’opera d’arte.

Dall'alto: Giovanni Anselmo, Dove le stelle si avvicinano di una spanna in più, 2001-2016, iscrizioni su granito, cm 25x100x70 cad., opera installata dimensioni variabili. Courtesy: Fondazione Querini Stampalia, Venezia. Foto: Francesco Allegretto Elisabetta Di Maggio, Archivio, 2017, installazione, materiali e tecniche varie. Courtesy: Fondazione Querini Stampalia, Venezia. Foto: Francesco Allegretto ESPOARTE 97 | SPECIALE BIENNALE | 63


ALIGHIERO BOETTI: MINIMUM/MAXIMUM a cura di Luca Massimo Barbero con l’Archivio Alighiero Boetti un progetto speciale di Hans Ulrich Obrist e Agata Boetti sul tema della fotocopia intitolato COLORE = REALTÀ. B+W = ASTRAZIONE (a parte le zebre) Produzione: Fondazione Giorgio Cini onlus e Tornabuoni Art Isola di San Giorgio Maggiore 12 maggio - 12 luglio 2017 Info: www.cini.it www.boetti-venice.com Alighiero Boetti: Minimum/Maximum nasce dall’intento di ripercorrere la carriera artistica di Alighiero Boetti attraverso un’inedita chiave di lettura, che offre al

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visitatore un punto di vista originale e inaspettato: viene proposto, come il titolo dell’esposizione suggerisce, un confronto tra il più piccolo e il più grande formato realizzato dall’artista, selezionato in relazione ai suoi più significativi cicli di opere che interessano un periodo di circa tre decenni. Questo percorso si propone dunque di sintetizzare la poetica di un artista il cui iter creativo viene scandito proprio dalla realizzazione di tematiche, numerose e tra loro differenti, quali: Mimetici, Bollini colorati, Storia naturale della moltiplicazione, Biro, Lavori postali, Ricami monocromi, Alternando da uno a cento e viceversa, Aerei, Mappe, Tutto e Copertine. Il progetto include, inoltre, COLORE = REALTÀ. B+W = ASTRAZIONE (a parte le zebre) a cura di Hans Ulrich Obrist e Agata Boetti. I

lavori esposti appartengono ai due principali periodi di sperimentazione da parte di Boetti con le fotocopie: gli anni 1969-71, dedicati a opere con codici da decifrare, e dopo il 1989, periodo caratterizzato dal desiderio più evidente di profusione, che lo porta a fotocopiare il più possibile del mondo che lo circonda. Progetto nel progetto, al centro della sala dedicata, il pubblico è stato invitato ad utilizzare una vera e propria fotocopiatrice, seguendo le regole del gioco appositamente create dall’artista messicano Mario Garcia Torres, come omaggio ad Alighiero Boetti.

Vedute della mostra Alighiero Boetti: Minimum/Maximum. Foto: Matteo De Fina


DAVID LACHAPELLE. LOST+FOUND a cura di Reiner Opoku e Denis Curti organizzata da Fondazione di Venezia e Civita Tre Venezie Casa dei Tre Oci Fondamenta delle Zitelle, 43 - Isola della Giudecca 12 aprile - 10 settembre 2017 Info: www.treoci.org Oltre 100 immagini per una grande mostra monografica che ripercorre, dagli anni Novanta a oggi, la carriera di David LaChapelle uno dei più importanti e dissacranti fotografi contemporanei: per la prima volta al mondo in mostra la serie New World (realizzata negli ultimi 4 anni): 11 opere che segnano il ritorno alla figura umana e che ruotano attorno a temi come il paradiso e le rappresentazioni della gioia, della natura, dell’anima. «Dalle viscere più profonde del complesso sistema della comunicazione, dell’advertising e dello star system – afferma Denis Curti –, LaChapelle inizia a considerare l’"icona" il seme vero di uno stile che si fa ricerca e contenuto; nella Pop Art, trova l’ispirazione per riflettere sull’infinita riproducibilità dell’immagine; nel fashion e nel merchandising l’eccesso di realismo e mercificazione che, appunto, si converte in sogno».

In alto: Veduta della mostra David LaChapelle. Lost+Found, sezione Jesus in My Homeboy. Foto: Andrea Avezzù

VIK MUNIZ. AFTERGLOW: PICTURES OF RUINS a cura di Luca Massimo Barbero in collaborazione con Ben Brown Fine Arts Palazzo Cini. La Galleria Campo S. Vio, 864 21 aprile - 24 luglio 2017 Info: www.cini.it La casa-museo di Palazzo Cini ospita al secondo piano Afterglow: Pictures of Ruins di Vik Muniz. La mostra vedrà esposte fotografie e una scultura vitrea realizzate dall’artista a seguito di una personale rielaborazione di opere già note all’immaginario collettivo. In particolare, per questo progetto espositivo Vik Muniz ha tratto ispirazione dalla tradizione veneta e lagunare, attraverso una rilettura in chiave contemporanea di opere esposte a Palazzo Cini nel 2016 in occasione della mostra Capolavori ritrovati della collezione di Vittorio Cini, ma anche ai capolavori di arte antica appartenenti alla collezione, creando un legame tra il primo e il secondo piano. Muniz simula le pennellate di questi quadri con ritagli di dipinti riprodotti in volumi di storia dell’arte, attentamente selezionati non solo per i loro valori cromatici ma anche per le immagini che contengono: incollati insieme, essi richiamano una superficie tattile, a impasto. Proseguendo la tradizione degli artisti del XVII e XVIII secolo che l’hanno preceduto, Muniz ricombina questi elementi, attraverso la sua natura inventiva, per ricostruire immagini che penetrano nel subconscio visivo dello spettatore stimolando un’ulteriore ricerca.

Vik Muniz. Afterglow: Pictures of Ruins, veduta della mostra. Foto: Matteo De Fina ESPOARTE 97 | SPECIALE BIENNALE | 65


NEW OPENING

Alberta Pane RITORNO A VENEZIA Intervista ad ALBERTA PANE di Francesca Di Giorgio

Nata e cresciuta a Venezia, Alberta Pane, durante le giornate d’apertura della 57. Biennale d’Arte ha aperto una nuova sede della galleria che porta il suo nome a Parigi. Un ritorno, quindi, più che un debutto, nella sua città natale da cui è partita parecchi anni fa e che del lungo periodo parigino ha saputo far tesoro: la formazione tra stage in musei e gallerie fino al lavoro come direttrice della Guida Mayer (catalogo delle vendite all’asta) e, ovviamente, l’apertura di una sua galleria. Il legame forte con Venezia, quindi, esiste da sempre anche se la città, a parte la grande “macchina” delle Biennali, non è certo votata al contemporaneo. Alberta Pane scommette sul suo

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potenziale e sulle collaborazioni da instaurare con le altre realtà, vecchie e nuove, che propongono arte contemporanea in Laguna. A proposito, infatti, del rapporto tra Venezia e l'arte contemporanea, uscire fuori dai confini di galleria è uno degli obiettivi. “Tra le vocazioni primarie della galleria: l’internazionalità, basti pensare agli artisti che rappresento in galleria. Vorrei anche creare una rete di scambi tra gallerie in modo da aumentare la diffusione e la visibilità del lavoro dei miei artisti. Il lavoro sul territorio e sul tessuto urbano in cui ci si va ad inserire resta importantissimo, ma lo sguardo rivolto all’internazionale rimane imprescindibile…”

Anche la mostra d'apertura Le Désir va in questa direzione... Il pensiero di Gilles Deleuze sul desiderio, definito come un concatenamento da cui scaturisce uno stimolo alla produzione, è l’incipit ed il fil rouge della mostra. L’intento è quello di tessere un insieme di congiunzioni libere tra gli artisti, invitandoli ad esprimersi in relazione allo spazio espositivo, ma soprattutto a focalizzarsi sul loro pensiero e su quelle che sono le loro ricerche attuali. Liberamente. La mostra presenta le opere di sette artisti della galleria realizzate appositamente per il nuovo spazio: Michelangelo Penso ha portato sculture ispirate


Galleria Alberta Pane Calle dei Guardiani, 2403 - Venezia www.galeriealbertapane.com Mostra d'apertura: Le Désir Artisti: Gayle Chong Kwan, Michelangelo Penso, Christian Fogarolli, Ivan Moudov, Marcos Lutyens, Marie Denis, Romina De Novellis 12 maggio - 29 luglio 2017

Ritratto di Alberta Pane Nella pagina a fianco: Veduta della mostra Le Désir, Galleria Alberta Pane, Venezia. Courtesy: Galleria Alberta Pane

alla scienza ed ai microorganismi; Christian Fogarolli presenta due lavori che indagano un possibile rapporto dell'arte con metodi curativi e con teorie medico scientifiche. Aggiungo che le opere di Fogarolli sono state realizzate in seguito a ricerche che l'artista ha condotto in istituzioni mediche e case di cura mentale. Le sculture vegetali di Marie Denis creano sulle pareti dei disegni evocanti delle calligrafie silvestri; Marcos Lutyens, il cui lavoro è visibile anche a Palazzo Fortuny nella mostra Intuition, ha realizzato una performance per l’opening; Romina De Novellis presenta un video realizzato tra i canali di Venezia e Gayle Chong Kwan una riflessione sul lavoro dell’artista e la maternità. Ivan Moudov, invece, un’opera provocatoria e inedita. Tutte opere create per una nuova sede particolare… È un’ex falegnameria che si trova in Calle dei Guardiani tra i Carmini e Piazzale Roma. È uno spazio che ha una storia e che apparteneva a una famiglia straordinaria, la famiglia Pensa. Il luogo ha un fascino particolare, si percepisce che Umberto Pensa, falegname, lavorava con artisti, basti pensare che, svariati anni fa, aveva realizzato il mobilio del padiglione francese della Biennale. Lo spazio è stato completamente restaurato ma abbiamo cercato di preservarne il carattere originale. I volumi sono importanti e lo spazio è ben articolato con soffitti alti, sono certa che sia di ispirazione per gli artisti nel realizzare progetti ambiziosi.

Dobbiamo aspettarci continuità o cambiamento, rispetto alla linea di ricerca che ha seguito fino ad ora nella sede di Parigi? Un cambiamento vero e proprio no, semmai continuità con alcune importanti novità come la nuova collana di pubblicazioni edita dalla galleria e realizzata in collaborazione con Multiplo, studio fondato da Giovanni Morandina. La prima edizione prevede una riflessione su Le Désir, proposta da ciascuno degli artisti della galleria ed esposta come un’opera corale di apertura alla mostra. La pubblicazione, pensata in formula seriale, rafforza la riflessione sul ruolo della galleria come soggetto promotore della ricerca artistica, delle relazioni degli artisti con le istituzioni, i collezionisti e la produzione editoriale. Volumi che diventano nel tempo la testimonianza dell’attività della galleria, ma anche edizioni indipendenti dalle mostre, secondo il ruolo di editore che talune gallerie un tempo avevano, e che oggi è sempre più raro. La forma sarà essenziale, in bilico tra rivista monografica, il pamphlet, libro d’artista, in cui soggetti eterogenei – artisti, ma non solo – sono chiamati di volta in volta a esprimersi su un tema specifico. So che ha le idee abbastanza chiare sulle programmazione di galleria... Sì certo, dopo le due mostre inaugurali quella di maggio e di fine settembre, sto pensando a mostre personali con nuovi artisti. Creare scambi mi interessa molto, vorrei pertanto organizzare negli spazi della galleria colloqui e discussioni sull’arte contemporanea. ESPOARTE 97 | SPECIALE BIENNALE | 67


/ LA PAROLA AI PADIGLIONI... a cura di Elena Borneto

/ PADIGLIONE POLONIA / "Tra le tante caratteristiche che hanno convinto i membri della Giuria a scegliere Little Review di Sharon Lockhart per rappresentare il Padiglione Polonia, un elemento è stato il più attraente e unico. Sharon Lockhart fa riferimento a vita e opere di Janusz Korczak – fisico, insegnante, scrittore, giornalista e attivista sociale – ma non si concentra sugli aspetti drammatici della sua biografia (Korczak è morto nel campo di sterminio di Treblinka assieme a tutti i bambini dell'orfanotrofio che stava gestendo nel ghetto di Varsavia). Lo scopo principale del suo progetto è ricordare la straordinaria qualità dell'approccio pedagogico di Korczak e il suo metodo di insegnamento e presentarli al pubblico mondiale. Janusz Korczak aveva creato un giornale che, per 12 anni, ha dato voce ai bambini ed è stata una piattaforma unica per esprimere i loro pensieri e le proprie emozioni. Sharon Lockhart si riferisce ai metodi di Korczak, ma con l'uso dei propri mezzi di espressione. Tratta i bambini, che sono la principale ispirazione del suo lavoro, con il rispetto che meritano e crea per loro un ambiente in cui la loro espressione di sé può prosperare". _Hanna Wróblewska, commissario e direttore della Zachęta - National Gallery of Art di Varsavia

Little Review Commissario: Hanna Wroblewska Curatore: Barbara Piwowarska Organizzatore: Zachęta - National Gallery of Art, Varsavia Artista: Sharon Lockhart Sede: Giardini Info: http://labiennale.art.pl

/ PADIGLIONE BOSNIA ED ERZEGOVINA / "Fin dalla realizzazione del Padiglione della Bosnia ed Erzegovina a La Biennale Arte 2013, l'obiettivo a lungo termine di questa istituzione è stato quello di impostare nuovi parametri e, grazie a questo progetto internazionale, entrare in contatto con altre istituzioni e artisti per migliorare lo sviluppo della scena artistica contemporanea in Bosnia ed Erzegovina. Come Mladen Miljanović, artista che rappresentò la Bosnia ed Erzegovina alla Biennale del 2013, anche Radenko Milak è un giovane artista che si è diplomato all'Accademia delle Arti di Banjaluka e che appartiene alla nuova generazione che, negli ultimi 10 anni, ha attirato l'attenzione nella

nostra regione. Ha lavorato lungamente per intraprendere una carriera internazionale, arrivando a rappresentare il suo Paese alla Biennale Arte 2017. Il suo progetto University of Disaster, fondamentalmente, è l'idea di base per lo sviluppo di una piattaforma che deve continuare a svilupparsi anche successivamente. Il nostro obiettivo è stabilire una collaborazione con una squadra curatoriale internazionale e sviluppare una rete di artisti internazionali che condividono la stessa idea artistica all'interno di questa piattaforma". _Sarita Vujković, commissario University of Disaster Sede: Palazzo Malipiero, San Marco 3198 Commissario: Sarita Vujković, Museum of Contemporary Art of Republika Srpska. Curatori: Christopher Yggdre, Fredrik Svensk, Sinziana Ravini, Ana van der Vliet in collaborazione con Hans-Ulrich Obrist Espositori: Radenko Milak in collaborazione con Roman Uranjek e ospiti internazionali (Lamin Fofana, Sidsel Meineche-Hansen, Juan-Pedro Fabra Guemberena, Loulou Cherinet, Geraldine Juárez con Joel Danielsson, Nils Bech con Ida Ekblad) Info: www.msurs.net

Dall'alto: University of Disaster, veduta del Padiglione Bosnia ed Erzegovina. In primo piano: Radenko Milak, Water, 2017 Sharon Lockhart, Little Review, 2017, Padiglione Polonia. Courtesy: the artist, Gladstone Gallery, New York and Brussels, neugerriemschneider, Berlin, and Zachęta - National Gallery of Art, Warsaw. © Sharon Lockhart 68 | ESPOARTE 97 | SPECIALE BIENNALE


/ PADIGLIONE LIBANO / "Il Ministero della Cultura del Libano ha scelto Zad Moultaka per rappresentare il Paese perché unisce da solo Oriente e Occidente. Sia artista sia compositore, Moultaka incarna una sorta di genio orientale, che può "cantare il dolore e dipingere una canzone". In un momento di grande pericolo in Medio Oriente, questo moderno Orfeo trova nuovi percorsi per andare dall'inferno alla pace. Pieno di suoni e furia, il suo tempio dorato per il dio babilonese del Sole e della Giustizia, Shamash, è davvero un nuovo canto di innocenza e di esperienza". _Emmanuel Daydé, curatore "Come sappiamo, la Storia comincia in Mesopotamia. Il codice di Hammurabi – che mi ha ispirato a considerare il motore di un aeroplano come una stele eretta ad un nuovo dio – è considerato il primo codice di leggi mai stato fatto. La civiltà occidentale è profondamente radicata nel Medio Oriente. ŠamaŠ ricorda che il concetto di giustizia proviene dall'Oriente. Allo stesso tempo, abbiamo dimenticato la giustizia per adorare solo la luce che brilla, cioè la luce dei bombardamenti. ŠamaŠ era il dio della giustizia adorato dal potente re Hammurabi in Babilonia intorno al 1750 a.C. A quel tempo, nell'antica Mesopotamia (e in particolare a Ur), il dio maggiormente venerato era Sîn, dio della Luna e del Tempo. Volendo essere un re giusto, Hammurabi preferì venerare ŠamaŠ, poiché era sia dio del Sole sia della Giustizia. Con il curatore Emmanuel Daydé, abbiamo deciso di partire dal Lamento per Ur, che risale a 4000 anni fa e che narra, per la prima volta, la distruzione di una città brillante nel Medio Oriente. Il popolo sopravvissuto si riunì per piangere vicino al muro distrutto di Ur – la città che Abramo dovrebbe aver lasciato

quasi nello stesso periodo per andare a Canaan (che corrisponde a Libano, Palestina, Israele e Giordania). Questo Lamento è senza età, potrebbe essere stato cantato a Beirut durante la guerra o più recentemente ad Aleppo. Perché chi è il dio che oggi adoriamo se non i bombardieri aerei provenienti dal cielo? Ho cominciato questo progetto a partire dall'architettura: un tempio moderno per il dio ŠamaŠ. Innanzitutto ho installato il motore di un aereo contro un muro dorato, come un biblico Vitello d'Oro, un nuovo falso idolo, poi mi sono concentrato sul canto da intonare. Ho immaginato un coro composto da 32 voci che cercano di cantare l'Inno a ŠamaŠ con difficoltà, mentre sentono un aereo volare sopra di loro. Fuggendo dal motore stesso, ho registrato la voce pura di tre bambini – come i Tre Ebrei nella fornace della Bibbia – mentre leggono il Lamento per Ur. Per la parete dorata fatta di migliaia di

monete, ho catturato la frequenza delle monete, per creare una parete di suono. Non volevo parlare solo per il Libano, ma per tutti i paesi vicini. La mia opera racconta la guerra senza fine in quella terra a partire dalla distruzione di Ur – la guerra siriana sembra aver preso il posto della guerra civile libanese. Come si può notare, ŠamaŠ è un palindromo, il che significa che l'inizio della parola è uguale alla fine. Guillaume de Machaut, generalmente considerato il primo compositore di musica classica, ha fatto quel tipo di cose nel Medioevo quando scrisse il suo rondeau Ma fin est mon commencement. In questo caso, significa che ŠamaŠ, dio del Sole e della Giustizia, esita tra il bene e il male. Come lo scrittore libanese Amin Maalouf ha dichiarato: «Da lontano il sole illumina il cielo, ma da vicino è il fuoco dell'inferno!». Oggi penso che ci sia bisogno di riportare questo dio della Giustizia sotto il sole della nostra ingiusta terra. _Zad Moultaka, artista ŠamaŠ Sede: Arsenale Nord Commissario: Nouhad Younes Curatore: Emmanuel Daydé Artista: Zad Moultaka Info: www.pavillonlibanvenise2017.com

Dall'alto: Zad Moultaka, ŠamaŠ, Padiglione Libano. © Association Sacrum. Foto: Marzio Emilio Villa Zad Moultaka, ŠamaŠ - Choeur, Padiglione Libano. © Association Sacrum. Foto: lenavilla ESPOARTE 97 | SPECIALE BIENNALE | 69


PADIGLIONI NAZIONALI

/ PADIGLIONE MALTA /

HOMO MELITENSIS: AN INCOMPLETE INVENTORY IN 19 CHAPTERS DIALOGO CON I CURATORI RAPHAEL VELLA E BETTINA HUTSCHEK di Irene Biolchini In occasione del semestre di presidenza europea, l’Arts Council – organo preposto alla gestione culturale della Nazione – ha finanziato il padiglione maltese a Venezia. La selezione dei curatori è avvenuta tramite una open call internazionale: Raphael Vella e Bettina Hutschek, entrambi artisti e curatori, hanno vinto presentando un progetto che discute il difficile tema dell’identità isolana. A Venezia, Malta investe nel processo di internazionalizzazione della propria scena artistica, anticipando di qualche mese il ruolo cruciale di Valletta come Capitale della Cultura Europea per il 2018. Come nascono il titolo e il tema principale della mostra? Il titolo indica il carattere di raccolta della mostra e la sua organizzazione in diciannove parti, che abbiamo voluto chiamare capitoli proprio per restituire la volontà narrativa sottesa all’impianto generale. Ci piacerebbe che lo spettatore camminasse all’interno della mostra costruendo la propria narrazione, la propria idea. In questo modo chiunque è chiamato a costruire la propria visione dell’identità Maltese, un tema che ci ossessiona come nazione e che è così difficile da determinare per via della lunga storia di dominazioni che ci caratterizza. Come si svolgono questi diciannove capitoli? Ogni capitolo contiene al suo interno oggetti molto diversi tra loro: materiali devozionali, manufatti, utensili oltre – ovviamente – alle opere degli artisti selezionati. Gli abbinamenti sono stati costruiti sulla base di similarità di forma e funzione oppure su semplici suggestioni. L’etnografia gioca un ruolo importante in questo approccio. La nostra priorità è sempre stata quella di seguire un approccio concettuale, non volevamo creare una mostra etnografica o storica. La nostra è senza dubbio una mostra d’arte 70 | ESPOARTE 97 | SPECIALE BIENNALE

In queste pagine: Homo Melitensis: An Incomplete Inventory in 19 Chapters, vedute del Padiglione Malta. Foto: Gilbert Calleja


ed è proprio per questo che la finzione gioca un ruolo importante, dopotutto è la stessa finzionalità a reggere e costruire l’idea stessa di identità. È anche per questo che abbiamo deciso di non separare l’estetica dalle riflessioni sociologiche e politiche. A proposito degli artisti: come è avvenuta la scelta della lista definitiva? Abbiamo sia artisti di nazionalità maltese sia artisti nati in altre parti del mondo, ma di origini maltesi. Abbiamo chiamato questo secondo gruppo Maltese diaspora e abbiamo deciso di selezionare gli artisti tramite una open call. All’opposto la selezione degli artisti residenti a Malta è stata fatta su invito. Ma ciò che ci preme sottolineare è che la selezione degli artisti è avvenuta solo in un secondo momento rispetto al concepimento del padiglione. Il progetto che abbiamo presentato all’Arts Council aveva un impianto concettuale. Già in questo primo stadio ciò che ci premeva maggiormente era l’indagine su come si potesse riconoscere l’identità maltese e come essa fosse collegata alla storia dell’isola. Il primo progetto era diviso in diverse parti, che sono poi diventate i diciannove capitoli che popolano il nostro padiglione. Alcune delle prime categorie che avevamo proposto, come la religione per esempio, ritornano in diversi capitoli dell’allestimento definitivo. La fase di ricerca verrà indubbiamente ben documentata nel catalogo della mostra. Direi che il nostro padiglione vive a tre livelli: la mostra fisica, la pubblicazione cartacea e la piattaforma online, che ha lo stesso nome della mostra: homomelitensis.org.

Padiglione Malta Homo Melitensis: An Incomplete Inventory in 19 Chapters Sede: Arsenale Commissario: Arts Council Malta Curatori: Raphael Vella e Bettina Hutschek Artisti: Adrian Abela, John Paul Azzopardi, Aaron Bezzina, Pia Borg, Gilbert Calleja, Austin Camilleri, Roxman Gatt, David Pisani, Karine Rougier, Joe Sacco, Teresa Sciberras, Darren Tanti and Maurice Tanti Burlo’ and artefacts from Heritage Malta’s National collection, Ghaqda talPawlini, private collections and various archives. Info: www.homomelitensis.org

Homo Melitensis: An Incomplete Inventory in 19 Chapters, vedute del Padiglione Malta. Austin Camilleri, Rosary, 2002, particolare dell'opera. Foto: Gilbert Calleja ESPOARTE 97 | SPECIALE BIENNALE | 71


/ LA PAROLA AI PADIGLIONI... a cura di Elena Borneto

/ PADIGLIONE KIRIBATI / "Gli artisti sono stati scelti nel giugno 2016 durante una riunione al Kiribati National Cultural Centre and Museum, su proposta del curatore Pelea Tehumu (Senior Culture Officer, Divisione Cultura e Museo, Ministero degli Affari Interni della Repubblica di Kiribati). Sono stati selezionati due gruppi di artisti, performativi e visivi. I gruppi di performance Kairaken Betio e Ngaon Nareau sono stati scelti per i loro successi in molte competizioni nazionali e la loro partecipazione al Festival of Pacific Arts and Culture di Guam nel 2016. L'artista visiva Daniela Danica Tepes è stata selezionata per la sua Where Do We Go From Here (Next invitation to the COP 2065)? – dedicata al tema del riscaldamento globale –, opera della collezione permanente del Kiribati National Cultural Centre and Museum". _Nina Tepes, co-curatore "Il progetto artistico coinvolge 35 artisti di differenti generazioni e generi artistici. Abbiamo cercato di raggiungere un obiettivo comune per dimostrare la vulnerabilità della cultura e dell'arte della Repubblica di Kiribati, minacciata ogni giorno dai cambiamenti climatici. Noi artisti abbiamo creato insieme un progetto artistico a Red Beach, mentre Betio lo ha sviluppato a Tarawa. Il progetto include filmati, video e animazioni interattivi. Stiamo presentando la cultura unica di Kiribati, conservata attraverso la storia e la natura unica della cultura primaria e della tradizione. L'evento che ci ha incoraggiati a creare questo

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progetto è stato COP21 a Parigi e anche il libro This changes everything di Naomi Klein. Il Padiglione Kiribati nel magnifico Palazzo Mora “gioca” con i visitatori claustrofobici. Il visitatore entra in un video interattivo dell'Oceano Pacifico ed è circondato dai danzatori tradizionali. L'animazione interattiva Kiribati Warriors risponde ad ogni movimento del visitatore. In questo modo i visitatori del Padiglione sono coinvolti nella storia del Kiribati". _Daniela Danica Tepes, artista visiva ARS LONGA, VITA BREVIS! / SINKING ISLANDS, UNSINKABLE ART Sede: Palazzo Mora, Strada Nuova, Cannaregio 3659 Commissario: Ministry of Internal Affairs, Eera Teakai Baraniko Curatori: Pelea Tehumu, Nina Tepes Artisti: Performance Group Kairaken Betio; Teroloang Borouea, Neneia Takoikoi, Tineta Timirau, TeetiAaloa, Kenneth Io-

ane, Kaumai Kaoma, Runita Rabwaa, Obeta Taia, Tiribo Kobaua, Tamuera Tebebe, Rairauea Rue, Teuea Kabunare, Tokintekai Ekentetake, Katanuti Francis, Mikaere Tebwebwe, Terita Itinikarawa Kaeua Kobaua, Raatu Tiuteke, Kaeriti Baanga, Ioanna Francis, Temarewe Banaan Aanamaria Toom, Einako Temewi, Nimei Itinikarawa, Teniteiti Mikaere, Aanibo Bwatanita, Arin Tikiraua. Visual Artist: Daniela Danica Tepes. Performance Group Ngaon Nareau: Teata Tetoki, Raakai Ianibata, Taorobwa Bakatokia, Tekaei Kaairo, Nabiri Kaaraiti, Abetena Itaaka, Bwobwaka Bwebwere Info: www.institute-ergosum.org/onepage/kiribati-pavilion-57th-la-biennale-divenezia/

Dall'alto: Performance Group Kairaken Betio, video still 1, 2016 © Daniela Danica Tepes. Courtesy: the artist Vedute del Padiglione Kiribati. © Daniela Danica Tepes


/ PADIGLIONE RUSSIA / "Ad esser franchi, inizialmente volevamo presentare dei giovani artisti all'interno del padiglione nazionale. Infatti negli anni precedenti avevamo guardato al passato, accogliendo artisti di una generazione specifica con un preciso punto di vista. Sembrava che fosse giunto il momento di sostenere gli artisti di domani. Ho dedicato quindi del tempo alla ricerca di giovani talenti capaci di sorprenderci con la forza e l'originalità intrinseca della loro giovinezza. Tuttavia, un giorno sono stato nello studio di Grisha Bruskin, dove ho visto una vasta e complessa installazione su cui aveva lavorato per più di un anno. Sono rimasto scioccato dalla portata dello sforzo. Un'aquila, sul cui petto sono state montate delle ruote dentate, getta un'ombra grottesca sull'intera parete. Dei droni sovrastavano una folla fatta di gesso costituita da centinaia di manifestanti. Scarni totem erano coronati da teste con grandi padiglioni auricolari. C'era anche una piramide a gradoni e qualcosa di simile alle ampolle utilizzate dagli alchimisti con sopra i nomi di libri filosofici. Quello che ho visto mi ha ricordato una scena della Natività, solo senza lo splendore del Natale. In una successiva sala, abbiamo deciso di creare podi e piedistalli per le sculture e di proiettare sulle pareti un video in bianco e nero con ombre spettrali.

In fondo, nella cripta, ho proposto di mettere le sculture del Recycle Group: i giovani artisti di successo Georgy Kuznetsov e Andrey Blokhin, che conoscevo fin dai tempi in cui vivevano a Krasnodar e che si distinguevano per le loro sane ambizioni e l'ironia sofisticata. Hanno avuto l'idea di prendere come base la Divina Commedia di Dante, un viaggio intorno al nono girone dell'Inferno, dove i criminali peggiori, traditori della patria, dei compatrioti e dei propri parenti, soffrono congelati nel ghiaccio, destinati a trascorrere la dannazione eterna al freddo. Ho invitato artisti di diverse generazioni. Mentre Bruskin è assorbito dalla mitologia sovietica, i due giovani e la ragazza, Sasha Pirogova, hanno creato,

per questa mostra, l'installazione dantesca e un video metaficico sul tema di un giardino magico; sono appassionati di tecnologie e nuovi media visivi". _Semyon Mikhailovsky, commissario e curatore Theatrum Orbis Sede: Giardini Commissario/Curatore: Semyon Mikhailovsky Artisti: Grisha Bruskin, Recycle Group, Sasha Pirogova

In questa pagina: Grisha Bruskin, Scene Change, 2016-17, veduta dell'installazione al Padiglione Russia. Courtesy: l'artista e il Padiglione Russia, Venezia

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PADIGLIONI NAZIONALI

/ PADIGLIONE URUGUAY /

Mario Sagradini LA LEGGE DELL’IMBUTO Intervista di Irene Biolchini

L’opera selezionata da Gabriel Peluffo Linari per il Padiglione dell’Uruguay sfugge qualsiasi sensazionalismo ed apre alla riflessione sui temi del controllo e dell’uguaglianza. La semplice struttura in legno riproduce un recinto per bestiame le cui porte di ingresso e di uscita, dall’inquietante forma a ghigliottina, permettono l’accesso alla parte centrale della struttura. Il titolo dell’opera, La legge dell’imbuto, mette in discussione l’idea di un sistema legale in cui ‘lo stretto’ viene applicato a molti e il ‘largo’ a pochi. Mario Sagradini, artista che ha vissuto in Italia per oltre un decennio, presenta a Venezia un lavoro che, in linea con la sua ricerca da sempre al confine tra arte ed etnografia, unisce alla tradizione popolare le grandi questioni del nostro tempo. Come è nata l’idea dell’opera? Lavoro da molto tempo sul mito popolare e su altre cose che sono generalmente trascurate dalla cultura accademica. La tradizione agricola ed il suo mondo non sono esaminati dagli studi ufficiali ed anche le loro architetture rimangono completamente sconosciute, specie nella loro realizzazione. Lo scorso anno feci una mostra antologica intitolata Vademecum in cui presentai un oggetto come quello esposto qui oggi, anche se in quella occasione decisi di riempire una sala che era il doppio di questa. Quando mi hanno detto che ero stato selezionato, decisi subito di portare questo oggetto per due ragioni: perché conoscevo la struttura del padiglione e mi sembrava che potesse essere perfetta per lo spazio e perché ero profondamente convinto dell’attualità dell’opera. In particolare era importante per me presentare questo lavoro nell’Europa di adesso, oltre che metterlo in relazione alla storia dell’Uruguay.

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Mario Sagradini. Foto: Gianni Franchellucci


In che misura il sapere manuale, opposto a quello ufficiale ed accademico, si riflette nella costruzione dell’opera? La cosa che più mi premeva era creare un oggetto reale, che si avvicinasse all’uso originale: per questo l’opera ha la stessa dimensione del più piccolo modello possibile, quello per singolo animale. Altro elemento fondamentale, poi, era la realizzazione dell’oggetto stesso e che ha coinvolto le esperienze artigiane di diverse zone del mondo. In Uruguay l’opera è stata realizzata da falegnami uruguagi, mentre il lavoro che presento oggi a Venezia è stato realizzato a Meduno. In entrambi i casi il mio lavoro è stato di coordinamento (e apprendimento al tempo stesso): ho realizzato un progetto di costruzione partendo da una foto storica e, in seguito, lavorando con i falegnami, ci siamo resi conto di tanti piccoli dettagli (come ad esempio che la parte su cui si cammina è in salita). Ovviamente il risultato finito è una semplificazione, una riduzione di forme rispetto agli originali, per esporre qui la sostanza, il concetto dietro all’oggetto. In che misura questo concetto può dirsi universale e come si lega alla sottocultura a cui voleva fare riferimento? Questo oggetto viene usato per le vacche, per gli animali, ma da sempre la nostra società crea dispositivi, porte e chiusure per la separazione, la distinzione, per limitare gli accessi. Una volta era la stella di David, ora è il titolo di ‘migrante’. L’oggetto che espongo in Uruguay si chiama imbuto; La legge dell’imbuto altro non è che una teoria antichissima, sviluppata in Grecia, che teorizza il grande per pochi e lo stretto per molti. È una forma di classificazione e di controllo al tempo stesso. In questa epoca in cui le restrizioni di ingresso si accompagnano alle tragedie, ad un macello controllato, mi sembrava l’unica opera possibile.

Padiglione Uruguay La ley del embudo Sede: Giardini Commissario: Alejandro Denes Curatore: Gabriel Peluffo Linari Artista: Mario Sagradini

Mario Sagradini, La ley del embudo, 2017, legno. Foto: Gianni Franchellucci ESPOARTE 97 | SPECIALE BIENNALE | 75


/ LA PAROLA AI PADIGLIONI... a cura di Elena Borneto

/ PADIGLIONE GRENADA / Abbiamo selezionato gli artisti per questo tema, The Bridge, tramite open call. Omar Donia ha revisionato i materiali, i curricula e i lavori e ha scelto gli artisti basandosi sulla sua visione di padiglione che unisse sia artisti di Grenada sia artisti internazionali. In questo senso, “il ponte” è una metafora delle relazioni che si instaurano tra gli artisti anche se sono distanti fisicamente tra loro". _Susan Mains, commissario "In ultima analisi il mio lavoro fa riferimento ad un problema che esiste in tutto il mondo, ma in modo particolare nei Caraibi; le nostre barriere coralline stanno morendo ad una velocità sconcertante. I Caraibi ospitano quasi il 10% delle barriere coralline del mondo, ma alcune stime riportano che l'80% di esse è morto negli ultimi decenni. Questo lavoro riguarda lo stabilire che la nostra relazione con il mare e le barriere coralline è vitale e poi antropomorfizzare la barriera rispondendo alla sua scomparsa. Senza concentrarsi necessariamente sulla causa o sulle soluzioni, Sea Lungs empatizza non solo con la barriera corallina ma anche con la nostra società, riconoscendo questa realtà. Sea Lungs è un'installazione immersiva che consente allo spettatore di camminare dentro e attraverso la barriera antropomorfa e, forse, di costruire un processo di dolore e di immedesimazione dal momento che non siamo separati dal destino delle nostre barriere coralline". _Asher Mains, artista "Ho cercato di affrontare le problematiche sociali e ambientali, cominciando dalle principali questioni relative alla perdita dell'ecosistema marino e alle attuali crisi umanitarie. Contestualizzate nell'epoca antropocenica, le opere sono un tentativo di ricontestualizzare il nostro rapporto con il pianeta con il fine ultimo di cambiare la nostra comprensione del mondo sommerso ed evidenziare la nostra fragilità intrinseca all'interno dei suoi cicli". _Jason de Caires Taylor, artista

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The Bridge Sede: 417 Fondamenta Zattere, Dorsoduro Commissario: Ministry of Culture, Susan Mains Curatore: Omar Donia Artisti: Jason de Caires Taylor, Asher Mains, Milton Williams, Alexandre Murucci, Khaled Hafez, Rashid Al Kahlifa and Mahmoud Obaidi Info: https://grenadavenice.org

Jason de Caires Taylor, veduta del Padiglione Grenada. © Jason de Caires Taylor


/ PADIGLIONE TURCHIA / "La Istanbul Foundation for Culture and Arts (IKSV) è il commissario del Padiglione della Turchia dal 2007. Dopo aver ottenuto una sede permanente nel 2014, la Turchia ha iniziato a partecipare anche alla Biennale di Architettura di Venezia, oltre alla Biennale d'Arte. La procedura di selezione per l'artista della Biennale si compone di due fasi. Come commissario, l'IKSV assembla ogni due anni un Consiglio consultivo composto da 5 persone. Uno dei membri deve essere straniero con connessioni nel mondo dell'arte della Turchia e deve avere familiarità con la scena. I membri del Consiglio variano da artisti a curatori e critici d'arte, da accademici a professionisti dell'arte. Non esiste un metodo rigoroso di selezione che l'IKSV impone a questo Consiglio. Hanno la libertà di poter scegliere un curatore che inviti un artista o un gruppo di artisti; o di scegliere un artista che indicherà un curatore a suo piacimento. I membri possono anche suggerire un metodo diverso, come una open call, ecc. Il Consiglio consultivo per il Padiglione della Turchia 2017 è costituito da Ali Kazma (artista), Başak Doğa Temür (curatore Arter), Özalp Birol (direttore generale della Suna

and İnan Kıraç Foundation Culture and Art Enterprises), Paolo Colombo (curatore e Art Advisor Istanbul Modern Museum) e il Prof. Dr. Zeynep İnankur della Mimar Sinan Fine Arts University (Department of Western and Contemporary Art). Per questa Biennale, i membri del consiglio hanno deciso di invitare Cevdet Erek a rappresentare il Padiglione della Turchia. Erek ha lavorato sulla sua mostra senza un curatore, ma con un gruppo di collaboratori". _Tuna Ortayli Kazici, commissario Istanbul Foundation for Culture and Arts (IKSV)

ÇIN Sede: Arsenale Commissario: Istanbul Foundation for Culture and Arts (IKSV) Artista: Cevdet Erek Info: www.iksv.org/en/biennialofvenice

In questa pagina: Cevdet Erek, ÇIN, vedute del Padiglione Turchia. Courtesy: l'artista e Padiglione Turchia. Foto: RMphotostudio

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/ LA PAROLA AI PADIGLIONI... a cura di Elena Borneto

/ PADIGLIONE UCRAINA / "Ho cercato di esprimere la crisi attraverso la disintegrazione suprematista del figurativo esaminando la trasmissione dei dibattiti parlamentari e l'interazione delle manifestazioni verbali e visive che corrispondono a queste immagini". _Boris Mikhailov, artista "Per oltre trentacinque anni la fotografia di Boris Mikhailov ha influenzato il dialogo sull'arte e sulla cultura nell'Europa orientale. Sarà importante vedere le più recenti opere di Mikhailov al Padiglione ucraino alla Biennale Arte 2017. È un creativo visionario non solo per l'Ucraina e l'Europa, ma per il mondo". _Peter Doroshenko, curatore, Executive Director at Dallas Contemporary

Boris Mikhailov, Parliament Series, veduta dell'installazione al Padiglione Ucraina. Foto: Zac Cobos. Courtesy: Dallas Contemporary

Parliament Commissario: Svitlana Fomenko, First Deputy Minister of Culture Curatori: Peter Doroshenko, Lilia Kudelia Artista: Boris Mikhailov Sede: Studio Cannaregio, Cannaregio 1345/D Info: http://ukrainianpavilion2017.org

/ PADIGLIONE CROAZIA / "La teoria della ricezione di H. R. Jauss dal testo di Branka Benčić mi ha ispirato per completare il lavoro per la Biennale. Solitamente utilizzo, riutilizzo e reinterpreto varie idee e teorie in molte mie opere. Ho scelto di realizzare un progetto che sarà completamente libero all'interpretazione, poiché il lavoro stesso costituisce solo una piattaforma aperta per l'inserimento di esperienze, conoscenze e sentimenti personali". _Marko Tadic, artista Horizon of Expectations Sede: Arsenale Commissario: Ministry of Culture Curatore: Branka Bencic Artisti: Tina Gverovic, Marko Tadic Info: www.croatianpavilion-venicebiennale.hr

Horizon of Expectations, veduta del Padiglione Croazia. Courtesy: gli artisti e Padiglione Croazia 78 | ESPOARTE 97 | SPECIALE BIENNALE


/ PADIGLIONE THAILANDIA / "Il Padiglione Thailandia alla 57. Esposizione Internazionale d'Arte – la Biennale di Venezia presenta il lavoro di Somboon Hormtientong nella mostra Krung Thep Bangkok: un racconto su Bangkok, capitale della Thailandia, attraverso il punto di vista di un artista che è tornato a “rivivere” la propria città dopo più di 30 anni vissuti all'estero. La mia conoscenza del lavoro di Hormtientong è iniziata dai suoi imponenti e dinamici quadri astratti, ma ero già a conoscenza del suo interesse per l'installazione artistica da quando studiava in Germania. Questo suo talento divenne ancora più chiaro con la mostra The Unheard Voice (1995) in Thailandia, dove ogni elemento installativo da lui selezionato era stato disposto sapientemente e con delicatezza, riuscendo a raccontare storie ben al di là della propria forma visiva. Per Krung Thep Bangkok, Somboon Hormtientong ha scelto con attenzione tutti gli oggetti per l'installazione in modo che rispecchino il suo racconto su Bangkok. Ciò che è interessante è come diversi pezzi di informazioni passate circa Bangkok, così come questi oggetti usati di ambigua provenienza, non vengano presentati quali cimeli di storia,

ma piuttosto come un meccanismo di narrazione per suggerire racconti astratti allo spettatore. Un'ordinaria poltrona di legno che viene inserita in una cassa aperta, ad esempio, può ricordare gli anni di scuola in Thailandia, un funzionario pubblico o la stanza di un insegnante. Tale reminiscenza è basata sull'interpretazione dell'esperienza di ogni individuo ed è comune tra coloro che hanno un background simile. Ma una volta che si lascia fuori la propria esperienza, che limita il pensiero, per usare l'immaginazione, invece, si comincia a porsi delle domande: a chi appartiene questa sedia? Chi l'ha usata? Dov'era prima? Dov'è stata spostata? Qual è la sua storia? Le risposte che si trovano con l'immaginazione potrebbero anche sorprendere lo spettatore, perché è come se ci fosse un flusso di storie sulla società, la cultura, lo stile di vita e la politica che fluiscono attraverso questa stessa sedia verso un punto ‘irraggiungibile’. Sono la combinazione tra la nostra memoria e l'identità degli oggetti appositamente scelti da Hormtientong. Questi oggetti non sono diversi dalla nostra città che ha resistito nel tempo ed è stata “vissuta” da società e persone. Come storie che scorrono dentro e fuori di essa, la città le assorbe come propria identità. Questo processo, anche se invisibile, avviene continuamente in ogni secondo. E coloro che hanno il tempo di osservare, cosa stanno vedendo? Questa potrebbe essere una domanda importante a cui Hormtientong cerca di rispondere in Krung Thep Bangkok, risalendo alle radici della società, della cultura, della religione, che hanno cambiato i loro corsi nella storia. Eppure mantengono la natura della ‘Città degli Angeli’ (traduzione di Krung

Thep, ndr). La mostra presso la InParadiso Gallery afferma il significato dello spazio in una mostra d'arte. Tuttavia, ciò che è più ideologicamente significativo per l'artista è la sua determinazione nell'esprimere liberamente la sua poetica e le sue storie senza nascondere nulla e senza le limitazioni di uno spazio ancora da individuare. Hormtientong ha raccolto i suoi tanti pensieri e le sue impressioni durante un lungo periodo di tempo, ma sono sempre rimasti nella sua mente, in attesa del momento giusto e la situazione adatta per condividerli con altri. Questo è ciò che dà al suo lavoro un'identità così chiara di fronte a tutti noi". _Numthong Sae Tang, curatore Krung Thep Bangkok Sede: InParadiso Gallery, Castello 1260 Commissario: Vimolluck Chuchat, Director - General of Office of Contemporary Art and Culture, Ministry of Culture Curatore: Numthong Sae Tang Artista: Somboon Hormtientong Info: www.thaipavilion2017.com

In alto: Somboon Hormtientong, Krung Thep Bangkok, veduta del Padiglione Thailandia. Courtesy: l'artista e Padiglione Thailandia A sinistra dall'alto: Somboon Hormtientong, Krung Thep Bangkok, 2017, mixed Media (wooden trunk, wooden chair), cm 66x97x90. Foto: Panupong Wongsunthon. © Artist, Office of contemporary art and culture Somboon Hormtientong, Krung Thep Bangkok, 2017, mixed media (wooden trunk, wooden chair, zinc plate, rivet, wood carved elephant), cm 60,5x87x101. Foto: Panupong Wongsunthon. © Artist, Office of contemporary art and culture ESPOARTE 97 | SPECIALE BIENNALE | 79


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