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a cura di Angela Memola Pascual Jordan

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ESPOARTE DIGITAL #91 ½ Espoarte Digital è un progetto editoriale di Espoarte in edizione esclusivamente digitale, tutto da sfogliare e da leggere, con i migliori contenuti pubblicati sul sito www.espoarte.net e molti altri realizzati ad hoc.

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Cover AQUA AURA, THE NET n° 1, 2015, stampa ai pigmenti di carbone su carta cotone, cm 90x120x10 (3 ed.) - cm 60x81x8 (3 ed.)

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INDICE / SU QUESTO NUMERO SI PARLA DI...

ESPOARTE Registrazione del Tribunale di Savona n. 517 del 15 febbraio 2001 Espoarte è un periodico di arte e cultura contemporanea edito dall’Associazione Culturale Arteam. © Proprietà letteraria riservata. È vietata la riproduzione, anche parziale, di testi pubblicati senza l’autorizzazione scritta della Direzione e dell’Editore. Corrispondenza, comunicati, cartelle stampa, cataloghi e quanto utile alla redazione per la pubblicazione di articoli vanno inviati all’indirizzo di redazione. Le opinioni degli autori impegnano soltanto la loro responsabilità e non rispecchiano necessariamente quelle della direzione della rivista. Tutti i materiali inviati, compresi manoscritti e fotografie, anche se non pubblicati, non verranno restituiti.

Editore Ass. Cult. Arteam Direttore Editoriale Livia Savorelli Publisher Diego Santamaria Direttore Web Matteo Galbiati Segreteria di Redazione Francesca Di Giorgio Direttore Responsabile Silvia Campese Redazione via Traversa dei Ceramisti 8/b 17012 Albissola Marina (SV) Tel. +39 019 4004123 redazione@espoarte.net Art Director Elena Borneto Redazione grafica – Traffico pubblicità villaggiodellacomunicazione® traffico@villcom.net Pubblicità Direttore Commerciale Diego Santamaria Tel. 019 4500659 iphone 347 7782782 diego.santamaria@espoarte.net Ufficio Abbonamenti abbonamenti@espoarte.net Hanno collaborato a questo numero: Giuseppe Alletto Milena Becci Stefano Bianchi Antonio D’Amico Francesca Di Giorgio Tommaso Evangelista Matteo Galbiati Kevin McManus Ilenia Moschini Carlotta Petracci Simone Rebora Elena Sabattini Livia Savorelli Chiara Serri

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AQUA AURA. L’ESTASI DELL’ALTROVE Intervista ad AQUA AURA di Chiara Serri

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SPECIALE STARTUP ITERARS: IL PORTALE CHE TI GUIDA NEGLI STUDI D’ARTISTA Intervista a Ronald L. Facchinetti (co-founder di Iterars) di Livia Savorelli ARTUNER. LA STARTUP CHE DA LONDRA PARLA ITALIANO Intervista a Eugenio Re Rebaudengo (founder di Artuner) di Francesca Di Giorgio BEPART: LA GEOGRAFIA DELL’OLTRE E DELL’ARTE Intervista a BePart di Carlotta Petracci DEBOU.IT DESIGN, ARTE E MODA FANNO NETWORK Intervista a Caroline Stante (founder di Debou) di Francesca Di Giorgio CROWDARTS: UNA PIATTAFORMA DEDICATA ALLE ARTI PERFORMATIVE Intervista a Serena Telesca (founder di Crowdarts) di Livia Savorelli

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IL LINGUAGGIO STRANIANTE DI MAURIZIO MOCHETTI di Kevin McManus THOMAS SCALCO: IL PROFUMO DELLA QUIETE TRA GLI OSSIMORI DELLA VITA Intervista a THOMAS SCALCO di Antonio D’Amico SCANDAGLIARE E FENDERE LO SPAZIO: IL SUONO PER ALBERTO TADIELLO Intervista ad ALBERTO TADIELLO di Ilenia Moschini OCCHIOMAGICO: QUARANT’ANNI DI “VISIONI” FOTOGRAFICHE di Matteo Galbiati UN NUOVO SPAZIO PER P420. L’INTERVISTA AI DIRETTORI Intervista ad ALESSANDRO PASOTTI e FABRIZIO PADOVANI direttori di P420 di Milena Becci CULTURA: LA GRANDE RISORSA PER IL MEZZOGIORNO Intervista a GIUSEPPE DE MITA di Matteo Galbiati L’ANTICO CHE SEDUCE… AL MAR DI RAVENNA di Elena Sabattini GÈRARD FROMANGER. DALLA FIGURATION NARRATIVE AL POSTMODERNO di Stefano Bianchi NUOVE DINAMICHE DEL TERMOLI TRA COSTRUZIONE, RICERCA E MEMORIA di Tommaso Evangelista SETA E MACCHINE, QUESTO È JAKOB TUGGENER AL MAST di Ilenia Moschini UNA MICROSTORIA DELLA POSTWAR ERA. CON QUALCHE MA… di Simone Rebora IL PARADISO PERDUTO DI RYAN MCGINLEY di Carlotta Petracci AGOSTINO ARRIVABENE, L’OLTRE-MODERNO PER LA PRIMA VOLTA A NEW YORK di Giuseppe Alletto

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ARTE

AQUA AURA L’ESTASI DELL’ALTROVE Intervista ad AQUA AURA di Chiara Serri

Qual è la natura della nostra percezione? Questa la domanda che anima la ricerca di Aqua Aura, artista milanese le cui opere nascono da approfonditi studi di fisica, biogenetica, filosofia e psicologia della percezione. Dai lavori della serie Scintillation, che catturano l’impressione di entità altrimenti impercettibili, agli innesti di The Graft, che ambiscono a costruire una nuova biologia del visibile, sino alle incursioni in nuovi ambiti linguistici – scultura e video – e alla programmazione di lunghi viaggi, per raggiungere l’estasi dell’altrove...

Come sei arrivato alla definizione del titolo della mostra allestita da Riccardo Costantini a Torino (fino al 19 marzo, ndr)? Quali i significati sottesi? Scintillation è un termine prevalentemente scientifico il cui significato, e in qualche modo la cui traduzione, vanno cercati in diversi campi della ricerca scientifica. Lo si può trovare in uso in astronomia e nell’ambito della fisica delle particelle, nella rilevazione radar così come in medicina, fino a studi nell’ambito della psicologia della percezione. Scintillazione si riferisce, in larga misura, alle dinamiche dello sguardo e ai

fenomeni distorti della percezione di entità labili o inconsistenti. È il confine instabile tra realtà e illusione. Rispetto alle opere della precedente produzione, nella mostra allestita da Riccardo Costantini la sublime grandezza della natura sembra lasciare campo ad un’atmosfera magica, a paesaggi maggiormente onirici, dove la visione diventa stupore… Questo nuovo ciclo di lavori parte da un assunto magrittiano, ovvero che la profonda natura dell’arte sia quella di incarnare un enigma che lo spettatore è chiamato a risolvere. Le domande che orientano la mia ricerca sono sempre: quello che sto osservando cos’è? Quale il soggetto profondo che traspare dalla superficie dell’immagine? Rispetto alla precedente produzione, le nuove immagini mi sembrano caleidoscopiche “macchine della visione”. Continua invece la riflessione sull’opera come “assoluto altrove”, un meta-luogo tanto veridico e convincente quanto parossistico e paradossale. Usi i termini “stupore” e “onirico” per definire i lavori. L’opera rimane per me il luogo dell’estrema meraviglia, così come in epoca barocca veniva concepita quale “macchina delle meraviglie”. Per quanto riguarda il termine onirico… non so. Penso più vicino alla mia visione l’idea di “ipnotico”. Il progredire del lavoro ha comportato anche una rimodulazione degli aspetti tecnici? Alla composizione di frammenti fotografici autografi si aggiunge ora anche la computer grafica 3D? Il procedimento è rimasto sostanzialmente inalterato. Scelta delle immagini da scatti di base, progettazione e costruzione dell’immagine seguono le stesse dinamiche dei precedenti lavori, anche se i tempi di costruzione digitale sono quasi raddoppiati. Il contesto e, in qualche modo, il clima delle immagini hanno invece subito un’evoluzione, nei termini di una maggiore sospensione dell’atmosfera, di una riduzione delle componenti “drammatiche” e di una maggiore lucidità del dettaglio allo scopo di ottenere un iper-realismo che volevo straniante. Una

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Aqua Aura, MONEMA n째 2, 2015, stampa ai pigmenti di carbone su carta cotone, cm 100x150x10 (3 ed.) - cm 70x101x8 (3 ed.)

Aqua Aura, MONEMA n째 3, 2015, stampa ai pigmenti di carbone su carta cotone, cm 105x178x10 (3 ed.) - cm 70x119x8 (3 ed.) Nella pagina a fianco: Aqua Aura, LIQUID STILL LIFE #2, 2015, stampa digitale su carta cotone Hahnemuehle, montata su alluminio, cornice floccata, cm 150x130x8

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cura speciale, inoltre, è stata dedicata alla scelta delle carte e degli inchiostri di stampa. La modellazione 3D è effettivamente una novità per quel che mi riguarda. La trasformazione di immagini bidimensionali in paesaggi a tre dimensioni, come ad esempio le gocce vetrificate, sta portando risultati interessanti. Nelle opere della serie The Graft, che hai presentato ad Arte Fiera e porterai al MIA, troviamo, invece, una maggiore estensione cromatica… Come nasce il progetto? È un lavoro sui confini della fotografia, nei territori oltre la documentazione del reale o del “vissuto”, verso quel processo di evoluzione dell’immagine che Fred Ritchin chiama After Photography, ovvero PostFotografia. Tutte le serie recenti, ed in particolare The Graft, ambiscono a dare una forma all’enigma della nostra percezione. Oggi viviamo nell’“invisibile” di epoche passate, attraverso sofisticate “macchine della documentazione”, quali possono essere i microscopi elettronici e i telescopi spaziali. Attraverso queste estensioni dell’occhio, vediamo il regno dell’infinitamente piccolo

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e dell’infinitamente distante, spesso lontano anche nel tempo. The Graft fa uso della fotografia digitale con un taglio “tradizionale” – scatti di fiori o piante – così come di immagini ottenute al microscopio elettronico: cellule umane, virus, microorganismi. Da questi “corpi” separati ed autonomi lo sforzo è quello di ottenere un unicum, una sintesi nell’opera, fino ad arrivare ad un meta-mondo che sappia fondere realtà biologiche di diversa natura, così come realtà dimensionali di scala differente, in una danza che oscilla tra l’esperienza della retina umana e i Byte o i Pixel della “macchina che guarda”. Il risultato credo sia una “Biologia” del visibile e delle sue estensioni, traslata in un’opera-corpo di memoria barocca, ma anche un’opera ad inganno, che sfrutta la seduzione impudica della sua superficie e del suo cromatismo per introdurci ad una realtà silenziosa di micro-organismi, la cui natura è a volte inquietante, altre volte apertamente minacciosa. Per estensione, la gamma cromatica satura e continuamente sollecitata deriva dalla “verità” stessa delle immagini di origine. L’universo floreale ha come caratteristica fondamentale, oltre al profumo,

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Aqua Aura, THE NET n° 2, 2015, stampa ai pigmenti di carbone su carta cotone, cm 90x120x10 (3 ed.) - cm 60x81x8 (3 ed.)


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il colore. Il perpetuarsi delle sue famiglie, le chance di sopravvivere in quanto specie, sono affidate quasi per intero alla seduzione dei loro colori. Il microcosmo molecolare letto attraverso il microscopio elettronico, invece, è filtrato dal cervello sintetico del computer che assegna ad ogni particolare un determinato codice colore conservato nel suo archivio. Esaltando le caratteristiche di ogni segmento fino a renderlo “irreale” non faccio altro che assecondare caratteristiche già presenti negli universi ai quali mi rivolgo… Progetti in cantiere? Progetti in cantiere ce ne sono molti. La riflessione sul lavoro non si ferma mai, come un flusso continuo di pensieri che a tratti si concentra su particolari aree del magma creativo. Nuovi lavori generano in continuazione nuove domande. In questo periodo, dopo un lungo corteggiamento, sono molto attratto dal desiderio di misurarmi con la scultura. Anche l’uso del video sta prenden-

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do piede nel mio immaginario, in questo caso si tratta però di un vecchio amore. Per quanto riguarda il capitolo mostre, si profila un aprile intenso: a Reggio Emilia per Fotografia Europea, con una personale incentrata sul percorso che si snoda da Frozen Frames a Scintillation, ed in Liguria, in uno spazio istituzionale, con i lavori di The Graft. Sarò a Bruxelles con Riccardo Costantini in occasione della fiera, nella sezione Off Course, poi a Milano per il MIA con due gallerie. In autunno, invece, inaugurerà la mostra da L’Ariete Arte Contemporanea di Bologna, concretizzazione del premio speciale vinto durante l’Arteam Cup 2015 a Venezia. E per il 2017 ci sono già alcuni progetti… Tra un appuntamento e l’altro, però, spero di potermi ritagliare tempo e denaro per qualche lungo viaggio. Comincia a mancarmi pesantemente l’estasi dell’altrove. Aqua Aura vive e lavora tra Milano ed Akureyri (Islanda). www.aquaaura.it

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Gallerie di riferimento: VV8 artecontemporanea, Reggio Emilia Costantini Art Gallery, Milano Riccardo Costantini Contemporary, Torino Galleria Kajaste, Helsinki – Oulu, Finlandia

Aqua Aura, WARPED PASSAGE, 2015, stampa digitale su carta cotone Hahnemuehle, montata su alluminio, cornice floccata, cm 100x123x8


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AnnA ConwAy Purpose 6 marzo – 31 luglio 2016

giovedì – domenica Via Fratelli Cervi 66 – Reggio Emilia tel. +39 0522 382484 info@collezionemaramotti.org www.collezionemaramotti.org

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ITERARS ARTUNER BEPART DEBOU CROWDARTS

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SPECIALE STARTUP

ITERARS: IL PORTALE CHE TI GUIDA NEGLI STUDI D’ARTISTA Intervista a RONALD L. FACCHINETTI (co-founder di Iterars) di Livia Savorelli

La mostra? È in studio, nello spazio della creazione dell’opera. Il tour? È curato, immaginato come una mostra dislocata sul territorio, che si articola da uno studio all’altro alla scoperta di tendenze e talenti. L’happening, la cena, il ritratto: tutto si compie nell’atelier. Ogni giorno, su appuntamento. È questo iterars.com, un portale che fa propria la logica curatoriale lavorando con ogni artista a un’esperienza diversa in studio. Ne abbiamo parlato con uno dei fondatori, Ronald Facchinetti – curatore dell’evento di arte pubblica itinerante ContainerArt e di Art Pod – da sempre interessato a sviluppare nuovi modelli di museologia a network. Cosa accade sul portale iterArs? Si possono prenotare visite a mostre in studio. Partecipare a tour curati, pensati come

mostre che si sviluppano da un atelier all’altro, o a eventi, happening o cene. Passare un pomeriggio con un Art Advisor. Incontrare un artista per uno Studio Portrait. Turisti, appassionati, collezionisti: a chi vi rivolgete? Stiamo cominciando un Beta Test su Milano e i nostri primi clienti sono turisti o businessmen esteri, oltre a collezionisti nel nostro database. Ad aprile attiviamo le nostre alleanze nel settore del turismo di lusso e partnership con portali di collezionismo. Quali sono le mostre in corso? Variano ogni mese. A Milano, nello studio di Giovanni Manzoni c’è una mostra sul viaggio. L’atelier è aperto per le visite alla mostra e per il tour “Roots”, di Michela Ongaretti, in-

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Lo studio di Fabio Giampietro


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sieme allo spazio Nour. In zona Maggiolina, le città di Fabio Giampietro incontrano i ritratti di Alan Maglio. Ci sono Daniela e Patrizia Novello con due mostre nel loro grande atelier in Bovisa. E ancora, lo straordinario AtelierFORTE, le opere di Giacomo Spazio nel suo nuovo studio. Queste mostre inaugurano venerdì 18 marzo con l’Art Night Out di AAF e proseguono ad aprile. Altre sono già in corso o inizieranno presto. Dopo Milano? Abbiamo deciso di crescere lentamente per instaurare un rapporto di fiducia con artisti e curatori in ogni città. Creiamo alleanze con gallerie e Art Advisor per garantire trasparenza e un livello qualitativo di eccellenza. Stiamo facendo Studio Visit a Varese, Como, Torino, Bologna e Genova, che sarà la prossima città con tour curati. Ritratto di Ronal L. Facchinetti

Come si accede al circuito? Le informazioni su potenziali studi ci arrivano da curatori o artisti di fiducia; occasionalmente dal form sul sito. Non abbiamo preconcetti sull’età o il punto di carriera, ma siamo molto attenti alla professionalità. Dedichiamo molte energie per presentare visite qualificate in studio e molte altre per garantire una buona esperienza estetica ai

AtelierFORTE

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visitatori. Come nasce il progetto? Nel 2014 insieme a Luisa Castellini e Duilio Forte come mappa degli studi d’artista a Milano in vista dell’Expo. Da allora il progetto è molto evoluto. Abbiamo capito che applicare modelli di sharing economy senza forti filtri curatoriali sarebbe stato un errore. Non è possibile fare un Airb&b degli studi senza far scadere la qualità. Abbiamo scelto di crescere lentamente ma in modo curato, e di focalizzarci sulle esperienze che da sempre avvengono nello studio d’artista, come i ritratti. Le visite e i servizi sono tutti a pagamento? Preferiamo adottare onesti modelli di business piuttosto di fumosi crowdfunding per dare continuità a iterArs. Appoggiamo anche gli Open Studio: alcuni atelier del circuito partecipano alla “notte bianca” di Affordable. Una bella iniziativa, che a differenza di altre stimola l’acquisto di opere in studio con attenzione al nuovo collezionismo. Non dimentichiamo che l’arte contemporanea per crescere ha bisogno anche di essere acquistata. www.iterars.com


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SPECIALE STARTUP

ARTUNER. LA STARTUP CHE DA LONDRA PARLA ITALIANO Intervista a EUGENIO RE REBAUDENGO (founder di Artuner) di Francesca Di Giorgio

Anche la vendita d’opere d’arte online inizia ad avere una sua storia le cui regole sono sempre più disposte ad essere riscritte e reinterpretate. La scommessa di Eugenio Re Rebaudengo con Artuner – galleria online “collectors and curators oriented” – è quella di sintonizzare su un unico canale figure diverse e complementari del mondo dell’arte creando un network che sia in grado di mettere a disposizione strumenti. Contenuti quindi al di là dell’aspetto commerciale che resta il fine ma non il mezzo. Cosa di cui da tempo si sono accorte anche le maggiori fiere internazionali che richiedono alle gallerie di portare progetti coerenti e coraggiosi anche in momenti critici. In questa direzione l’apparato di approfondimento che supporta gli artisti, internazionali ed ipercontemporanei, su cui punta Artuner, a tre anni dal lancio del progetto a Londra, dal 25 febbraio scorso si può leggere anche in italiano. D’altronde lo sguardo “in between” Italia/estero è una prerogativa della famiglia Re Rebaudengo… Con un cognome così conosciuto e importante per l’arte italiana e internazionale… Non diamo nulla per scontato: qual è stata

la tua “formazione” e cos’hai fatto prima di aprire Artuner? Per quel che concerne la mia formazione accademica, mi sono laureato in Economia a Torino e successivamente, trasferito a Londra per frequentare un master in Management alla London School of Economics and Political Science. Qui, durante l’ultimo anno ho sviluppato quello che, inizialmente, era un progetto di start-up e che poi è diventato Artuner. Personalmente, ho avuto il privilegio di avvicinarmi molto presto al piacere dell’ arte contemporanea, avendo potuto seguire da vicino mia madre (Patrizia Re Rebaudengo, ndr) che ha cominciato a collezionare all’inizio degli Anni Novanta e poi via via in maniera sempre più appassionata. Questo mi ha permesso di vivere e crescere a contatto con molti artisti e di rapportarmi presto con curatori, galleristi, direttori di musei e collezionisti di tutto il mondo. Per questa ragione, è stato abbastanza naturale pensare di poter dar vita a un progetto di start-up che permettesse una duplice possibilità d’attenzione: una rivolta all’arte contemporanea e l’altra all’aspetto economico, imprenditoriale.

Stephen Felton, Mythos, veduta dell’installazione, Sifnos (Grecia), 2015. Courtesy dell’artista e di Artuner

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Un ritratto di Eugenio Re Rebaudengo. Courtesy: Alessandro Vasapolli e Artuner

Scegliere Londra come base di lancio del progetto quindi fa parte del tuo percorso… Londra credo rappresenti ancora la capitale europea dell’arte contemporanea e con New York è una fra le più dinamiche e interessanti città del mondo per l’arte. Presenta una scena particolarmente vivace, con un’estrema varietà di musei, gallerie e spazi, oltre che le realtà Istituzionali più note come la Tate, la Serpentine Gallery, la Whitechapel Gallery e più piccole ma altrettanto importanti come Chisenhale e South London Gallery. Molte sono poi le gallerie, le case d’asta e i collezionisti. Senza dubbio, l’offerta culturale mi ha spinto a rimanere a Londra dopo il master alla LSE e a fondare qui Artuner. Ad ogni modo l’Italia e Torino in particolare rappresentano le mie radici, la mia casa dove torno regolarmente. Artuner ha lanciato una versione italiana della piattaforma, anche con l’auspicio di affermare la propria presenza sul tessuto italiano e sviluppare progetti e collaborazioni. Commerciale e culturale spesso in Italia non vanno a braccetto. Artuner mette in dialogo questi due aspetti…


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Ogni attività deve ovviamente trovare dei modi in cui finanziarsi e sviluppare i propri progetti. Artuner nasce da una grande passione per l’arte contemporanea e dal desiderio di presentare e promuovere gli artisti più interessanti. Nel momento della creazione del business model ho pensato che fosse importante anche essere coinvolto nella parte commerciale, in modo da avere del cash flow per sostenere i progetti, ma anche per aiutare gli artisti ad entrare in collezioni internazionali, siano esse molto importanti o di nuovi appassionati. Per tradizione familiare conosci da vicino il mondo del collezionismo ma i collezionisti non sono gli unici interlocutori di Artuner… Giusto? Certamente artisti e curatori sono interlocutori per noi altrettanto importanti come gli artisti. Inoltre, Artuner, non si rivolge solo a collezionisti esperti, ma a chiunque voglia avvicinarsi e approfondire contenuti d’arte contemporanea. Sulla piattaforma è presente una sezione Magazine o di Approfondimenti, in cui abbiamo il piacere di inserire informazioni relative artisti e ai loro lavori, ma anche a specifiche tematiche concernenti l’arte contemporanea in senso lato. Mi pare sia un modo opportuno per avvicinare le persone al collezionismo. Sono convinto che ciò che si conosce diventa più desiderabile e l’arte è una passione contagiosa che una volta entrata nel sangue non ti lascia più. Cosi s’impara a conoscere e valutare sia il valore economico di un’opera ma anche una serie di fattori molto personali e meno tangibili.

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gli artisti italiani? Oggi è probabilmente un momento non tra i più facili per le nuove generazioni di artisti italiani. C’è una grande attenzione internazionale per l’Arte Povera e altri movimenti storici, ma per un giovane italiano adesso certamente non è facilissimo emergere. Pur volendo mantenere un programma spiccatamente internazionale mi fa molto piacere quando riesco a presentare un artista del nostro Paese offrendo una vetrina internazionale. Questa scelta è però sempre il risultato dell’effettivo talento dell’artista e non della nazionalità di provenienza.

dium d’elezione e l’oggetto, umile e banale, è il principale referente della sua indagine artistica e personale. La mostra sarà ospitata nelle sale dell’ICI sino al 12 maggio. È un’occasione, questa, anche per ribadire l’attenzione di Artuner al contesto italiano e l’impegno nella divulgazione e promozione di quello che riteniamo abbia particolare valore estetico, artistico e culturale, più genericamente. Spero possiate tutti venire a vedere i suoi lavori!

Artuner costruisce anche mostre “fisiche” che chiami pop up. La prossima sarà di un artista italiano… Dal 2014 Artuner collabora con l’Istituto Italiano di Cultura a Londra nell’organizzazione di mostre ed eventi. Nasce proprio nel contesto di questo sodalizio, e grazie al sostegno del nuovo Direttore dell’Istituto Marco Delogu, l’idea di presentare alcune fra le più significative ricerche artistiche del panorama italiano. Il prossimo 30 marzo avremo il piacere di inaugurare Proprioception, la prima personale in Regno Unito, di Manuele Cerutti. Manuele è un artista torinese, che ha già un curriculum abbastanza denso di esperienze e collaborazioni, anche in contesti internazionali. La pittura è il suo me-

Info: +44 (0)747029812 info@artuner.com www.artuner.com

ARTUNER 36 Alie Street, E1 8DA, Londra (UK)

In programma: Manuele Cerutti. Proprioception a cura di Eugenio Re Rebaudengo Istituto Italiano di Cultura – Londra 31 marzo – 12 maggio 2016 Inaugurazione 30 marzo ore 18.00 – 21.00 panel di discussione, intervengono: Gregor Muir, Executive Director dell’ICA – Institute of Contemporary Arts di Londra, Eugenio Re Rebaudengo, fondatore di ARTUNER e l’artista Manuele Cerutti.

Al di là della sensibilità personale ci sono dei parametri più o meno oggettivi che guidano la scelta degli artisti e dei curatori da coinvolgere in Artuner? Dando uno sguardo al sito si percepisce subito un certa selettività… I criteri nella scelta delle opere e degli artisti dipendono da una concomitanza di fattori. Ho evidentemente un interesse appassionato per gli artisti e per le opere che presentiamo con Artuner. La scelta però non coinvolge solo il mio personale gusto estetico. Gli artisti e le opere sono l’esito di approfonditi confronti e lavoro di ricerca dei curatori con cui collaboriamo e con il mio team. Cerchiamo d’individuare gli artisti più promettenti, supportando spesso la pratica di talenti internazionali emergenti quando ne hanno più bisogno. Dopo tutti gli anni passati a Londra e i viaggi che ti hanno portato all’estero che idea ti sei fatto su come vengano recepiti

Manuele Cerutti, Esercizio, 2013, oil on linen, cm 50x55. Private collection, Vicenza. Foto: Cristina Leoncini

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BEPART: LA GEOGRAFIA DELL’OLTRE E DELL’ARTE Intervista a BePart di Carlotta Petracci

Bepart - (da sx) Giovanni Franchina, Lilia Haralampieva, Joris Jaccarino

Parafrasando e attualizzando l’affermazione di Ludwig Wittgenstein, secondo cui i limiti del nostro linguaggio sarebbero i limiti del nostro mondo, ci domandiamo: che cosa succederebbe se potessimo installare nel cielo di una zona rossa della Siria una colomba bianca? Ci piace partire da qui per raccontare la storia di BePart, una piccola start app milanese che ha creato una app che ripensa completamente il concetto di spazio espositivo e di arte pubblica. Grazie alla realtà aumentata non ci troviamo più di fronte alla contrapposizione tra spazio fisico e immateriale, bensì in un terzo spazio potenzialmente infinito che nasce dalla loro integrazione e che fa cadere completamente il concetto di confine geografico, linguistico e mentale, in nome dell’arte. O meglio, del-

la possibilità di disseminare simboli, suoni e opere in ogni luogo della città e del pianeta, creando un gigantesco museo in fieri, che le persone possono esplorare semplicemente attraverso uno smart phone. Realtà virtuale e realtà aumentata. Se diversi anni fa, con l’esplosione di Second Life la riflessione sugli spazi di fruizione dell’arte andava nella direzione dell’esplorazione della rete, intesa come luogo completamente altro dove nuove politiche, dinamiche e sperimentazioni potevano esprimersi. Ora, grazie agli smart devices, si sta verificando un importante ritorno alla realtà. Questo clima tecnologico ha influenzato in qualche modo la nascita di BePart?

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BePart nasce come un progetto visionario orientato alla partecipazione della cittadinanza all’interno dello spazio urbano. Il punto di partenza non è stato: la realtà aumentata o quella virtuale, che rappresentano dei mezzi o dei linguaggi molto funzionali. La nostra idea era quella di creare un gigantesco database di contenuti che trovasse nella città, tanto quanto nel mondo, uno spazio espositivo potenzialmente infinito. Lo sviluppo in una direzione tecnologica è arrivato dopo. Viviamo in un momento storico in cui c’è un’evidente saturazione di hardware e di contenuti, che corrisponde anche a un loro utilizzo e fruizione piuttosto superficiali. Per cui affermare che le città sono delle opere d’arte in continua evoluzione e cercare di tradurre questa visione in qualcosa


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di concreto, attraverso la partecipazione collettiva e l’accessibilità, ci ha portato a sviluppare una app e una piattaforma che permettessero alle persone di riappropriarsi dello spazio urbano: da un lato, producendo opere d’arte che si integrassero nel suo paesaggio, dall’altro incontrando l’arte in maniera molto più immediata e interattiva. Si tratta di una evoluzione dell’idea di arte pubblica. Giusto? Assolutamente sì. È una sorta di Keith Haring contemporaneo: un progetto che nasce dal basso e che prevede la disseminazione dell’arte nelle strade attraverso la tecnologia, creando una terza città che nasce dal dialogo tra la città fisica e quella digitale. Praticamente il concetto di smart city applicato a cultura e creatività. Come dire: non guardiamo più semplicemente il mondo online ma arricchiamo, letteralmente, aumentiamo la realtà con contenuti site specific suggerendo un viaggio. Siete partiti con opere d’arte visiva e video ma come può evolvere il progetto? Se per evoluzione intendi, maggiore interazione, va detto che la prototipazione delle idee quando c’è di mezzo la tecnologia richiede tempi molto lunghi, perché bisogna far sì che quello che pensi possa essere diffuso e supportato dai cellulari di tutti. Se invece parli di altre forme d’arte, stiamo già ampliando i confini della sperimentazione. Uno degli ultimi progetti che stiamo portando avanti coinvolge un producer musicale, che sta creando un sistema di pattern sonori, assimilabili a dei veri e propri quadri emozionali, che cambiano a seconda dello spostamento all’interno della città. Abbiamo inoltre recentemente realizzato una app custom per il carnevale di Venezia cercando, attraverso la realtà aumentata, di far incontrare tradizione e innovazione in una digital masquerade animata. E potremmo continuare oltre, perché le potenzialità sono infinite nel momento in cui a contare è l’immaginazione.

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BePart come linguaggio artistico prima che come applicazione digitale. È il concetto di ponte che fa esplodere le opportunità dell’immaginazione condivisa. Non solo perché vengono realizzate delle installazioni in diverse città che, grazie ai contenuti digitali, vengono messe in rete formando un gigantesco museo in fieri ma anche perché diversi artisti stanno manifestando l’esigenza di pensare le loro opere d’arte a partire dalla realtà aumentata. Sono quindi i confini dell’immaginazione e dello spazio espositivo che si ampliano e che viaggiano su altri canali, che non sono esclusivamente la città fisica. Facciamo un esempio concreto: pensiamo di installare una colomba bianca nel cielo di una zona rossa della Siria, a cui nessuno ha accesso tranne i soldati e la popolazione che la abita. Lo possiamo fare grazie al Gps integrato nella app. In questo modo noi consentiamo all’arte di scavalcare qualsiasi tipo di barriera: fisica, concettuale, geografica, sociale, attraverso un semplice smart phone, che, puntato verso il cielo, ci consente di vedere quell’opera. Proba-

È questo il senso che attribuite allo statement “The Public Imagination Movement”? Come dicevamo prima, BePart è un progetto scalabile, che parte dalla città come unità minima ma che può diventare globale, proprio attraverso l’immaginazione. Oggi non siamo ancora nella direzione del movimento, ma sicuramente è una tensione che ci accomuna. Stenderemo a breve un manifesto, ma questo movimento nasce dalla condivisione di una interpretazione di

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bilmente è questo l’aspetto più innovativo di BePart, l’idea di trasformare la realtà in un’opera d’arte vivente eliminando completamente il concetto di confine. Info: https://bepart.net


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SPECIALE STARTUP

DEBOU.IT DESIGN, ARTE E MODA FANNO NETWORK Intervista a CAROLINE STANTE (founder di Debou) di Francesca Di Giorgio

Debou: da e-commerce esclusivo di designers (“De” di design e “Bou” di boutique) a luogo di scambio e sperimentazione di artisti contemporanei, torna ad Affordable Art Fair Milano. È qui, durante la fiera che vuole rendere accessibile l’arte ad un pubblico vasto (valore massimo delle opere 6.000 euro) che il progetto, fondato da Caroline Stante, ha lanciato un anno fa la sezione arte e continua il suo percorso sulle tracce del “saper fare”… Dal marketing in Barilla alla comunicazione in Mondadori… Fino a lanciare un progetto molto personale. Ci racconti cosa ha significato per te il lancio di Debou? Debou rappresenta un sogno, un desiderio, forse un ideale che per anni ho coltivato collezionando riviste editoriali da tutti i paesi che toccavo con i miei viaggi, spinta semplicemente dalla passione per quel bello al confine tra creatività, arte e design di eccellenza. Strappavo pagine di giornale, prendevo ap-

punti, e osservavo gli stili dei diversi luoghi, immaginando che un giorno tutto questo sarebbe servito a dare forma ad un qualcosa di personale. Ma solo dopo lunghi ed importanti anni di esperienza lavorativa in grandi realtà aziendali, ha preso forma il desiderio di reinventarsi e rischiare. Così è nato Debou. Non è stata una scelta semplice, e non lo è tutt’ora. Le sfide sono quotidiane, l’impegno è assoluto, l’incognita dei risultati regna sovrana, ma è il percorso più avvincente che abbia mai intrapreso. Chi lavora in Debou? Com’è composto il vostro staff? Il mio team è molto snello e fluido. Mi affiancano un architetto-exhibition designer, co-founder del progetto, e una graphic designer. L’agenzia web ci supporta invece nella comunicazione online, dalle strategie di indicizzazione alla gestione dei social. All’incrocio tra moda arte e design cosa

gumdesign, Souvenir, sculture in metallo e campana in vetro

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si trova? Come scegliete un artista, designer, maker con cui collaborare? Una perfetta armonia di linguaggi ed espressioni. Sono tre mondi che hanno in comune la creatività e la sapienza artigiana. Insieme, si completano. Noi inseguiamo i talenti, che siano artisti, designer, makers, o semplicemente creativi, li selezioniamo per il saper fare, la cura progettuale e l’attenzione ai dettagli. Ci piace esplorare botteghe, laboratori e atelier diffusi sul territorio, i luoghi dove nascono le idee e i progetti, dove si sperimenta, si autoproduce, si crea. Dopo il lancio della sezione arte, lo scorso anno, tornate ad Affordable Art Fair Milano. Com’è cresciuto e cambiato il progetto dai suoi inizi? Il lancio della sezione arte in occasione di Affordable Art Fair ci ha aperto nuove prospettive: da network esclusivo di designers a luogo di scambio e sperimentazione anche di artisti contemporanei. Un incontro tra


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discipline che ha creato sinergie inedite e ci ha spinto a partecipare, per il secondo anno, ad Affordable Art Fair. Con una selezione di opere tra pittura, scultura, tecnica mista, e fotografia che testimoniano il dialogo tra questi due mondi. L’Italia al momento non sembra essere un vero modello di innovazione. Cosa raccontano le storie dei makers con cui Debou viene a contatto? Le storie dei makers che presentiamo su Debou sono l’espressione più autentica del loro saper fare. E rappresentano per noi la parte più bella ed emozionale di questo lavoro. Siamo incantati dal racconto dei loro progetti, dai dettagli sulle tecniche e le sperimentazioni che inseguono alla ricerca dell’unicità. A volte penso “se fossi un cliente, mi basterebbe leggere queste interviste, per innamorarmi dei loro prodotti, senza il bisogno di vederli”. Perché come i prodotti, le loro storie sono “intime, silenziose, potenti”, “sono le esperienze del fare e delle mani che permettono ai nostri pensieri solidificati di diventare concreti, pesanti o leggeri, utili o inutili funzionalmente ma sempre presenti con una loro forza emozionale” per citare le espressioni dei nostri stessi artisti e designer. Non c’è una sola storia degna di nota, ma tutte, a loro modo, si distinguono per quel pizzico di follia e genialità. Dall’importante manager aziendale che ha abbandonato una carriera ormai avviata per reinventarsi designer con grandi riscontri, al fotografo di noto talento che porta avanti il suo concetto di fotografia sostenibile, rifiutando tutte le sovrastrutture economiche e culturali dettate dal mercato, dalle mode e dalle correnti di vendita ufficiale della fotografia d’autore.

re di moda, per valorizzare la sinergia tra i diversi mondi e stimolare nuovi interessi. Progetti dopo Affordable Art Fair? Proseguire in questo percorso di contaminazione tra arte e design, potenziando le attività territoriali, tra eventi e fiere di settore, e ampliare i confini. Un’edizione Affordable Art Fair internazionale? È tra le nostre ambizioni più segrete.

Quali sono i passi per ritagliarsi un proprio spazio nel mare magnum di e-commerce in Italia? Su cosa ha puntato Debou? Siamo una realtà ancora piccola, e sperare di bucare il muro del rumore tra i grandi del settore, sarebbe un’illusione. Non puntiamo sui volumi, ma sul valore, non seguiamo l’onda degli incentivi promozionali, ma cerchiamo di costruire un’identità precisa, di diffondere la cultura dell’alta manifattura, e creare un nuovo modello di lifestyle, fatto di qualità, ricerca, innovazione. È un percorso lento e prudente, con un approccio “laterale”: siamo partiti dall’online ma ci stiamo sviluppando anche sul territorio, in forme e modalità sempre nuove. Dalle fiere d’arte e di design alle collaborazioni con realtà territoriali. Abbiamo da poco inaugurato il nostro primo temporary corner di arte&design all’interno di un concept sto-

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debou Via Galeazzo Alessi 2, Milano Info: +39 335 6225610 info@debou.it www.debou.it

Dall’alto: Ritratto di Caroline Stante Vittorio Asteriti, Paesaggio, d-n3, tecnica mista su tela, cm 30×30


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SPECIALE STARTUP

CROWDARTS: UNA PIATTAFORMA DEDICATA ALLE ARTI PERFORMATIVE Intervista a SERENA TELESCA (founder di Crowdarts) di Livia Savorelli

Tra gli obiettivi primari di Crowdarts c’è la volontà di “costruire un network solido di luoghi, persone e progetti, che abbiano voglia di scommettere su nuovi linguaggi performativi d’eccellenza e nuove modalità di finanziamento”. Attraverso il racconto di una delle fondatrici, Serena Telesca, conosciamo meglio il funzionamento di questa nuova startup che si muove nel mondo delle arti performative… La piattaforma a cui lei ha dato vita, insieme a Luigi Telesca, ha come centro di interesse le arti performative e si basa sul finanziamento partecipativo. Cos’è esat-

tamente Crowdarts, come nasce e quali obiettivi si pone? Crowdarts è la prima piattaforma di finanziamento partecipativo dedicato ai creativi e ai professionisti che lavorano all’interno dell’ampio panorama delle arti performative. Crowdarts permette di raccogliere fondi e finanziare non solo progetti ancora “in cantiere” ma anche progetti già realizzati (spettacoli, formati editoriali, progetti educativi, film, video, festival, web e supporti tecnologici) con lo scopo di reinventare i codici tradizionali di finanziamento e sviluppare così nuovi spazi di sostenibilità artistica e di divulgazione della cultura.

Cartolina manifesto Crowdarts 18

Crowdarts vuole costruire un network solido di luoghi, persone e progetti, che abbiano voglia di scommettere su nuovi linguaggi performativi d’eccellenza e nuove modalità di finanziamento. Vi trovate nella fase di start-up del progetto, ci può spiegare in pratica come la piattaforma opererà? Oltre alla possibilità di facilitare la ricerca di fondi per finanziare i propri progetti artistici attraverso una Campagna di Produzione, Crowdarts ospita altre due sezioni dedicate al Crowdshow e al Marketplace. Il “Crowdshow” è la sezione dove un artista


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o uno spazio potranno attivare la comunità per ospitare un evento, finanziandone la programmazione. Il pubblico e i sostenitori, con il loro supporto, renderanno possibile la pianificazione dell’evento, facendo una donazione e prenotando così il proprio biglietto. Gli aspetti positivi che ne conseguono sono il supporto al proprio progetto, il test anticipato sull’interesse del pubblico e la promozione dell’evento stesso. Il Marketplace invece è un’agorà virtuale dove artisti, spazi, festivals, possono entrare in contatto per sviluppare partnership e cercare sia nuove opportunità di distribuzione sia fare scouting di nuove produzioni da programmare. Parliamo di obiettivi a breve e lungo termine… Sicuramente l’obiettivo a breve termine è di proporre sulla nostra piattaforma campagne e progetti di qualità per permettere la creazione di una community di appassionati che comincino o continuino a seguire questo settore, sostenendone l’evoluzione. Fra gli obiettivi di lungo termine c’è la volontà di creare un algoritmo di qualità che attraverso il crowdfunding, sia capace di ristabilire un dialogo fra “domanda” e “offerta” nel settore delle Arti performative e

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facilitarne la collaborazione in maniera più orizzontale e trasparente, anche grazie al coinvolgimento degli “art lovers” e della comunità. Sabato 19 marzo Crowdarts sarà ufficialmente inaugurata e verrà presentata al pubblico a Firenze, nello spazio di coworking Impact Hub la piattaforma, che già ospita alcune campagne pronte ad essere finanziate…. Può anticiparci qualcosa? Il 19 marzo sarà il momento in cui Crowdarts si presenterà al pubblico durante tutto un pomeriggio. Un programma ricco di stimoli, progetti e sfide interessanti per il settore delle Performing Arts. A partire dalle ore 16 fino alle ore 22, Crowdarts ospiterà un “laboratorio di esperienze” grazie anche all’intervento di operatori ed artisti di eccellenza che supportano la nostra piattaforma. Alle 18.30 infatti è previsto un incontro che avrà come tematica “Nuovi modelli e processi sostenibili per le Imprese dello Spettacolo dal Vivo” a cui interverranno: Serena Telesca, fondatrice e project manager di Crowdarts, Alessandro Cacciato di Farm Cultural Park Favara, Giulio Stumpo di Smart It, Lorenza Soldani di Sociolab, Rodolfo Sacchettini dell’Associazione Teatrale Pistoiese, Fernando Fanutti di Cultura e Impresa, Gior-

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gia Turchetto – Fundraiser della Fondazione Torino Musei, Marco Cavolcoli di E-production e . A moderare Massimo Bressan – presidente del Teatro Metastasio. A concludere, ore 20.30, un estratto dello spettacolo Friendly Feuer (una polifonia europea) del collettivo Isola Teatro, aperitivo e Dj-set fino alle 22. Vi aspettiamo! Presentazione ufficiale: sabato 19 marzo 2016, a partire dalle ore 16,00 Impact Hub via Panciatichi 14, Edificio F, Firenze Info: www.crowdarts.eu info@crowdarts.eu

Spettacolo “Tu me fais tourner la tête” di Mattatoio Sospeso. Foto: Andrea Macchia


Gl a ssWal l , d i Fra ncesca Pa squa li, in a llestimento

FLUX-US UN PERCORSO ARTISTICO SPERIMENTALE E INTERATTIVO S P A Z I O

A R T E

C U B O

27.01.2016 | 16.04.2016 B O LO G N A - P I A Z Z A V I E I R A D E M E L LO , 3

w w w. c u b o u n i p o l . i t | a r t e @ c u b o u n i p o l . i t Seguici su

D I M A RY B AU E R M E I ST E R F R A N C E S C A PA S Q U A L I FUSE* a cura di Angela Memola Pascual Jordan


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ARTE

IL LINGUAGGIO STRANIANTE DI MAURIZIO MOCHETTI MILANO | GALLERIA GIOVANNI BONELLI | 25 FEBBRAIO – 2 APRILE 2016 di KEVIN McMANUS

Maurizio Mochetti ha attraversato nella sua totalità una delle epoche più problematiche e intense dell’arte italiana. Non è solo una questione anagrafica (per fortuna sono vivi e attivi artisti ben più anziani di lui), ma di tempismo: tra il suo debutto e la mostra qui recensita, l’arte ha cambiato pelle più volte, e lo ha fatto in un contesto complicato come quello della nostra epoca, in cui nulla è stabile – questo almeno sembra il messaggio ricorrente – ma allo stesso tempo nulla cambia fino in fondo. La nostra è una temporalità liquida, o addirittura nebulosa, in cui le particelle del passato si vedono a occhio nudo: le pratiche artistiche di cinquant’anni fa rimangono a loro modo attuali come possibili ambiti di ricerca, e al contempo ci sono stili, atteggiamenti, trovate che tornano a più riprese di moda, quasi che la storia recente sia una sorta di loop senza scampo. Mi sembra che l’impatto della mostra di Mochetti alla Galleria Giovanni Bonelli (realizzata in collaborazione con Nicola Furini), dislocata in modo articolato, ma al tempo stesso, almeno in parte, afferrabile con un solo sguardo, agisca proprio su questa percezione del tempo storico recente. C’è una coerenza di fondo che ci fa credere di trovarci in mezzo a un gruppo di opere più o meno coeve; al tempo stesso questa coerenza non funziona del tutto, ci porta a cogliere una vicenda artistica senza raccontarcela esplicitamente. Il Cono del 1967, in questo senso, racchiude emblematicamente il senso dell’intera mostra; il funzionamento è noto e tutto sommato semplice, con il piccolo cono collegato da un filo di piombo al centro di un cerchio sulla parete, e il nostro cervello che, percependo questo insieme destrutturato da un particolare punto di vista, lo struttura ricostruendo la prosecuzione immaginaria delle pareti del cono. Se la Gestalt ci consente di spiegare il “gioco”, il lavoro non si limita però ad esso, e questo effetto percettivo ci arriva come un pugno in faccia, con un senso della forma

Maurizio Mochetti, Perni con laser, 1988, 400 perni di diametro 2 cm e altezza 5 cm, bianchi in metallo

scultorea e della presenza fisica che apre il discorso su questioni ben più ampie e profonde. Da qui in poi, non riusciamo più a “fidarci” dello spazio di Mochetti, e nemmeno degli altri elementi con i quali costruisce le sue forme. Le riflessioni sull’oggetto-aeroplano, come Aereo-razzo Bachem Natter BA 349 B-1944, o Camouflage Pinguini (1987), ad esempio, ci attirano nella loro autoevidenza apparente, per ingannarci con le loro soluzioni installative, lo specchio in un caso, che ci rende vouyeur scornati e ironici obiettivi bellici, la disposizione seriale nell’altro, che quasi si prende gioco dei ritorni al colore semioticamente saturo degli anni ottanta, ridendo al tempo stesso, forse con affetto, della rigidità degli schemi minimalisti di due decenni prima. Anche la luce oscilla tra la funzione di segno/segnale (la scelta del rosso è adeguata, in questo senso) e quella di simbolo spirituale, senza prendere estremamente sul serio nessuna delle due. È così nell’e-

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nigmatico Elica infinita del 1991, ma soprattutto nella suggestiva Perni con laser, installazione a terra con proiezione di luce laser mobile e 400 perni verticali: cimitero, città, prato high-tech, o forse solo la proiezione sul pavimento del senso attuale – distaccato ma al contempo desideroso di immersione – del termine “sublime”. Maurizio Mochetti progetto di Giovanni Bonelli e Nicola Furini 25 febbraio – 2 aprile 2016 Galleria Giovanni Bonelli via Luigi Porro Lambertenghi 6, Milano Orari: da martedì a sabato 11.00-19.00 Ingresso libero Info: +39 0287246945 info@galleriagiovannibonelli.it www.galleriagiovannibonelli.it


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ARTE

THOMAS SCALCO: IL PROFUMO DELLA QUIETE TRA GLI OSSIMORI DELLA VITA MILANO | BANCA SISTEMA | 24 FEBBRAIO – 27 MAGGIO 2016 Intervista a THOMAS SCALCO di Antonio D’Amico

«Nella pittura di Thomas Scalco si legge un peculiare equilibrio tra i due poli di questo linguaggio: un’astrazione logico geometrica, e uno spunto di figurazione latente. L’esito di questo legame porta ad acquisire immaginari onirici e ambientazioni metafisiche in cui l’osservazione affina il grado più forte della sua percezione sensibile. I punti di contatto tra le due sospese tendenze riportano attenzione sul lato più inconscio e sepolto dell’essenza della personalità e dell’anima di cui l’artista diventa il primo interprete ad esporsi in quest’analisi immaginifica». Con questa motivazione, la giuria del premio Arteam Cup 2015 ha decretato Thomas

Scalco vincitore della categoria Under 30, aggiudicandosi la mostra personale allestita presso la sede di Banca Sistema a Milano. La mostra è un crescendo di fascino e misteri che si svelano in un silenzio assordante, consentendo al visitatore di entrare in sintonia con la propria interiorità e di riscoprire la chiave degli ossimori, racchiusi dietro le immagini che Thomas esterna sulla tela. Il percorso prende l’avvio da un segno lineare e rigido, disegnato su pane azimo, per arrivare successivamente a scenari surreali entro i quali sono sospese forme e strutture che assomigliano a pensieri della mente in costante evoluzione. In occasione della pubblicazione del cata-

logo del premio, avevo incontrato Thomas – in qualità di giurato – per rivolgergli qualche domanda sulla sua pittura e conoscere meglio il suo mondo, costellato da ossimori, specchio della sua personalità, in costante mutamento e sempre alla ricerca di sé stesso. Le tue opere sembrano orientate verso una poetica surrealista, in cui vige la sospensione di forme geometriche entro spazi a metà tra il reale e l’onirico. Si tratta di opere la cui consistenza è affidata ad una visionarietà latente. Che significato ha per te collegare e trovare equilibrio fra elementi con consistenze opposte?

Thomas Scalco, Monochrono, 2015, tecnica mista su tela, cm 70x70. Opera vincitrice Arteam Cup 2015 nella categoria Under 30 22


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Da sempre mi interessa un certo eclettismo unito all’interesse per le contrapposizioni e i rapporti tra gli opposti. Ho approfondito questa oscillazione grazie alla lettura dei saggi di Florenskij, specialmente Le porte regali, in cui, analizzando l’arte ortodossa, il filosofo affronta il limite tra veglia e sogno, descrivendone tutta la complessità. Florenskij parla di due tipologie di immagini che si generano quando l’anima è al confine tra i due stati. Le prime, in salita, sono legate alla quotidianità e ai sensi, le seconde, in discesa, sono ancorate all’onirico ed evocative di realtà superiori. Rapportate all’arte, richiamano la distinzione tra figurazione e astrazione. Il mio lavoro si situa a metà e avvicinandomi a questo limes, le differenze tra i due poli diminuiscono e si generano numerosi punti di contatto. La mia speranza è che questa contaminazione venga vissuta come un invito a pensare in modo diverso la realtà frammentata che percepiamo coi nostri sensi, in modo da evidenziarne le infinite connessioni. Hai dichiarato che nella tua formazione ti sei dedicato ad esprimere l’ambito pubblico, inteso come “intimità esposta, in relazione al lato comunicativo” dell’opera d’arte. Nel tuo lavoro possiamo quindi tro-

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vare il tuo io? È proprio così. La mia personalità e il mio io influenzano notevolmente il mio lavoro, sia nell’esecuzione sia nel contenuto. In ogni opera si possono ritrovare i miei dubbi, le mie certezze, il mio carattere e miei interessi. Le conclusioni a cui approdo nel mio lavoro mi spronano verso nuove riflessioni sul chi sono io e sulla realtà che mi circonda. La mia arte nutre la mia crescita personale e mi consente di mettermi a nudo. Guardando il tuo lavoro, si ha l’impressione che tu viva su un filo di sospensione tra la figurazione e l’astrazione. Da quale dei due linguaggi ti senti più attratto? Li considero entrambi linguaggi intriganti. In realtà, sono fortemente attratto dal confine che li divide e dal sottile cortocircuito che si genera dalla loro interazione. Evitando una superficiale catalogazione, mi auguro di suscitare una riflessione nell’osservatore. Nelle tue opere le forme geometriche costruiscono architetture in divenire, invece in quella presentata al concorso c’è quasi il desiderio di mostrare un gioco magico e ritmico. Come nasce quest’opera? Appartiene all’ultimo ciclo di lavori, in cui la forma architettonica scompare, lascian-

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do spazio a moduli semplici. Ero alla ricerca di qualcosa di più puro rispetto ai solidi geometrici e alle architetture, per eliminare possibili fraintendimenti, così ho ridotto la forma al minimo per renderla più efficace ed evocativa. Spostando l’attenzione su una dimensione più liminale, lo spazio tende a disfarsi in favore di un’atmosfera più avvolgente, onirica e meno terrena. In questa direzione, c’è anche un richiamo alla Genesi, dove vengono descritte le prime drastiche separazioni, la contrapposizione tra luce e buio e tra cielo e terra, in una visione ritmica. Thomas Scalco. Ossimori a cura di Antonio D’Amico 24 febbraio – 27 maggio 2016 Banca Sistema Corso Monforte 20, Milano Info: www.bancasistema.it

Veduta dell’allestimento presso Banca Sistema, Sala Cerere


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ARTE

SCANDAGLIARE E FENDERE LO SPAZIO: IL SUONO PER ALBERTO TADIELLO BOLOGNA | MUSEO INTERNAZIONALE E BIBLIOTECA DELLA MUSICA | 27 GENNAIO – 10 APRILE 2016 Intervista ad ALBERTO TADIELLO di Ilenia Moschini

La particolare vocazione del suono all’impalpabilità, all’inappropriabilità e all’invisibilità ma anche, nello stesso tempo, la sua capacità di scandagliare e fendere lo spazio e penetrare il corpo del fruitore. Così Alberto Tadiello (Montecchio Maggiore, Vicenza, 1983) definisce il suono, elemento cardine della sua ricerca poetica. Abbiamo incontrato l’artista in occasione del suo intervento all’interno degli spazi del Museo internazionale e biblioteca della musica di Bologna dove, invitato dall’Istituzione Bologna Musei in occasione di Art City Bologna 2016, ha presentato il progetto Nenia, un’installazione audio composta da un megafono e da una sfera a led stroboscopica i quali diffondono contemporaneamente la stessa traccia sonora, accompagnata dalla fanzine omonima… Nenia è un’installazione incentrata sul rapporto tra suono e visione. Da quali ele-

menti è composto questo lavoro? Che tipo di alterazioni hai voluto generare nella percezione e nell’esperienza dello spazio? Nenia è un file audio, creato attraverso la rielaborazione digitale di una campionatura e diffuso contemporaneamente da un megafono rovesciato verso terra e da una sfera a led stroboscopica fissata al suo fianco. È un cigolio soffocato, uno stridio sgozzato, una nenia. Si mostra come una scatola nera con un ventaglio di bolli colorati, sviliti, acquerellati che si muovono roteando in loop tra ritratti e smorfie. Libretto d’opera è la fanzine Nenia, che apre con un testo di Daniela Zangrando – curatrice della mostra – e si cadenza in una successione di volti accesi ed eccesivi, “personaggi succulenti” esposti al “vizio del suono”, che fanno il verso ai dipinti e agli sguardi che spuntano alle pareti. È un doveroso pensiero sonoro e un “sortilegio” per additare e animare i contenuti già

presenti nel museo. Come ti sei posto nei confronti di un luogo così fortemente connotato e saturo di immagini, colori e oggetti come il Museo della musica di Bologna? In generale, quanto è importante per te e per la riuscita delle tue opere lo spazio dove installi i lavori e il momento dell’allestimento? Il Museo della musica di Bologna è uno spazio difficile, carico di un pesante impianto allestitivo e illuminotecnico. La relazione che un lavoro instaura con lo spazio è sempre molto importante. Simbiotica, reversibile, generativa. Il momento dell’allestimento è un tempo impreciso e solitario, di assoluta severità. La sonorità è l’elemento cardine sul quale si sviluppa la tua ricerca. Spesso hai utilizzato il suono per rivelare gli aspetti della natura e della realtà celati alla vista come la frequenza della marea a Venezia (RMN, 2005), la tensione di un impianto elettrico (SHIFT, 2008), il trascorrere del tempo e quindi il decadimento che porta alla degenerazione di un sistema (EPROM, 2008), oppure il calore che si irradia (Taraxacum, 2012). Puoi spiegarci la scelta di questo linguaggio? Il suono ha una particolare vocazione all’impalpabilità, all’inappropriabilità, all’invisibilità. Nel caso di particolari frequenze può fisicamente scolpire lo spazio e il corpo del fruitore. È capace di una presenza esponenziale. Può trasfigurare, rivelare, tradurre. È possibilità in potenza. L’aspetto visivo delle tue opere è sempre pulito e lineare, composto da forme essenziali e sobrie. I materiali invece sono oggetti come casse acustiche, motorini elettrici, trasformatori, cavi e scarti di metallo. Da dove deriva questa scelta stilistica? Qual è il processo di ideazione e realizzazione dell’opera?

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Casse acustiche, motorini elettrici, trasformatori, cavi e scarti di metallo… sono materiali che hanno abbracciato un’estetica e un filone di ricerca parabolico, non esaurito né decaduto, ma spinto verso nuovi interessi. Gli ultimi lavori sono portatori di una distanza e di un’evoluzione rispetto a quel linguaggio. Di volta in volta la progettualità urge di piena libertà e disponibilità al futuro. L’altra parte fondamentale della tua ricerca è il disegno… Il disegno è un linguaggio basico, primitivo, universale. Entra nella lista della spesa, tanto quanto negli appunti e negli studi sui quaderni. Mi interessa come grafismo, come registrazione, come funzione. È sempre asciutto, essenziale. Estremamente versatile. Chi, o che cosa, ha influito maggiormente sul tuo percorso artistico o continua a farlo? Sono ossessionato dalla Natura. Progetti in cantiere?

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Da quasi un anno ho preso uno spazio come studio, un ex panificio ai piedi delle Dolomiti. E questo è propriamente un cantiere, in continuo divenire ed assestamento. Ora sto lavorando ad un progetto per l’Università di Fisica di Trento, per la realizzazione di un’opera che verrà installata nell’area esterna. Si tratta di una rielaborazione di un vecchio acceleratore di particelle atomiche. Un intervento muscolare a livello scultoreo e altrettanto complesso a livello logistico. In autunno avrò una personale a Roma al Palazzo delle Esposizioni, dove probabilmente presenterò un nuovo ciclo di lavori. Su altri fronti sto lavorando al mio sito web, che raccoglierà la ricerca svolta in questi anni,… un lavoro ciclopico di riorganizzazione e di archivio. Poi ci sono nuovi progetti, libri, idee, concorsi, viaggi… Non ultimo punto in programma – e in sogno – la salita della via Soldà sulla parete nord del Sassolungo. Alberto Tadiello. Nenia a cura di Daniela Zangrando promosso da Istituzione Bologna Musei

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nell’ambito di Art City Bologna 2016 27 gennaio – 10 aprile 2016 Museo internazionale e biblioteca della musica Strada Maggiore 34, Bologna Orari: da martedì a venerdì h 09.30 – 16.00 sabato, domenica e festivi h 10.00 – 18.30 Info: www.bolognagendacultura.it www.comune.bologna.it/cultura/ www.museibologna.it/musica

In queste pagine: Vedute dell’installazione Nenia di Andrea Tadiello al Museo Internazionale della Musica. Courtesy: l’artista


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FOTOGRAFIA

OCCHIOMAGICO: QUARANT’ANNI DI “VISIONI” FOTOGRAFICHE MILANO | SABRINA RAFFAGHELLO ARTE CONTEMPORANEA | 18 FEBBRAIO – 31 MARZO 2016 di MATTEO GALBIATI

Ci sono mostre che, nella scelta antologica della proposta, si perdono nelle variegate sfumature e nelle numerose derivazioni che la ricerca di un artista, nel tempo sa toccare o conquistare, perdendo spesso di vista la coerenza evolutiva della storia artistica di cui vuole raccontare la testimonianza. Avviene, quindi, che le stesse opere scelte si disperdano in una narrazione confusa, rapida o lenta, senza dare merito dei contenuti specifici che le caratterizzano come linguaggio, come eventi, come poetiche. La mostra di Occhiomagico, pseudonimo dietro al quale, dal 1971 si firma Giancarlo Maiocchi (1949), in corso nelle sale di Sabrina Raffaghello Arte Contemporanea, centra proprio, invece, l’obiettivo che una personale antologica dovrebbe avere: lo sguardo raccoglie in modo esaustivo la testimonianza della sperimentazione fotografica che l’artista va conducendo da oltre quarant’anni, rendendone efficacemente gli spunti, le idee e i contenuti. Col Fiato Sospeso – titolo particolarmente significativo rispetto alla vertigine visiva che

genera l’insieme delle opere – riassume l’essenza dello spirito che pervade l’espressione e l’esperienza visiva di Occhiomagico che, proprio dagli anni Settanta, introduce il suo singolare metodo espressivo: ogni intervento, ogni opera, nella coerente risoluzione della sua epoca, ci descrive un animo vivace e frizzante, attento a cogliere aspetti e sentori che dalla realtà sconfinano nella dimensione onirica quasi a voler ricercare la concretezza stessa dell’intuizione che genera un’elaborata istantanea, spontanea quanto precisamente controllata e definita, di quello che la mente sviluppa e “vede” nel territorio vasto del pensiero e dell’immaginazione. L’artista ci ha accompagnati nella lettura di queste opere che, passo dopo passo, segnano i decenni, descrivendone e indicandone il gusto, il clima culturale, i sentori, le mode, le frenesie e le manie. Gli anni Settanta, gli Ottanta, i Novanta, i Duemila… come in un album si inseguono alle pareti della galleria; gli ambienti si riempiono di lavori che, sfogliandosi quasi come le pagine

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di un volume illustrato, rendono conto dello spirito di epoche diverse senza perdere il filo rosso della maestria poetica del loro esecutore. Lui resta davvero il coerente interprete dei diversi periodi e delle diverse serie di lavori che parlano di una vicenda unica. Occhiomagico diventa un menestrello lirico dell’immagine, un narratore addentro al suo tempo e per questo frizzante aruspice capace di vedere ben oltre le contingenze, anticipando lo sguardo, prevedendo i tempi. Come un rabdomante guida le sue immagini sentendo qualcosa, cogliendo un’idea che ci resta sconosciuta e, inseguendo l’estro del suo genio, la restituisce nella freschezza della sua fotografia, capace di cogliere l’invisibile delle emozioni. Il percorso della mostra si fa davvero emotivo, ci proietta nell’espressione eterogenea e poliglotta di Occhiomagico che, sognatore, spezza la veridicità della fotografia e, prima ancora di photoshop, sulla scorta degli esempi di alcuni grandi maestri del Novecento, che lui ben ha presenti, scardina il


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codice precostituito di questo linguaggio. Fotografo? Forse non del tutto, o non completamente, dal momento che la tecnica fotografia (conosciuta in modo alchemico, quasi da antica bottega) in lui cede alla pittura, al disegno, alla scultura, all’installazione. Diventa ciascuna di queste cose contemporaneamente. La fotografia apre ad una lettura meta-linguistica la cui complessa verità sa trovare in questi lavori il vertice di una massima espressività. Unendo simbolismo, surrealismo, metafisica, pop e molto altro, Occhiomagico acquisisce lo strumento vero di quel suo linguaggio “multimediale” che definisce come “Nuova Fotografia”. Il metodo compositivo, stratificante e contaminante, della sua fotografia, colma di rimandi e allusioni, che non chiudono mai una storia esaurendola in modo definitivo,

Occhiomagico, Bagnante, 1982, Domus Cover, stampa Cibacrome ed.5+1 pda vintage, copia unica. Courtesy: Sabrina Raffaghello Arte Contemporanea Nella pagina a fianco: Occhiomagico, Un pò di silenzio per piacere, 2006, light box led, cm 120x60x4, ed.3. Courtesy: Sabrina Raffaghello Arte Contemporanea

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spalanca all’orizzonte della visione nuove rotte e nuovi altri racconti che, nel percorso antologico qui raccolto, lo sguardo riesce a cogliere in modo circolare: laddove si incontra una fine si ha già il passo per un nuovo inizio. Occhiomagico. Col Fiato Sospeso 18 febbraio – 31 marzo 2016 Sabrina Raffaghello Arte Contemporanea via Gorani 7, Milano Orari: tutti i giorni 11.00-19.00, il sabato su appuntamento Info: +39 02 39831137 info@sabrinaraffaghello.com www.sabrinaraffaghello.com


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SPAZI

UN NUOVO SPAZIO PER P420. L’INTERVISTA AI DIRETTORI BOLOGNA | GALLERIA P420 | NUOVA SEDE Intervista ad ALESSANDRO PASOTTI e FABRIZIO PADOVANI direttori di P420 di Milena Becci

Il 30 gennaio scorso, durante le giornate dell’arte bolognesi, ha aperto le porte la nuova sede della galleria P420, fondata nel 2010 da Alessandro Pasotti e Fabrizio Padovani. Il nuovo spazio, in via Azzo Gardino 9, è stato condiviso da due mostre, curate da Cecilia Canziani e Davide Ferri, con un solo titolo, Teoria Ingenua degli Insiemi: un progetto espositivo di Paolo Icaro che avvia un dialogo con le opere di Bettina Buck, Marie Lund e David Shutter. I direttori ci hanno raccontato qualcosa di più, partendo dalla genesi per arrivare al domani…

degli anni ’60 e ’70 a fondare una galleria d’arte? Quali erano le aspettative e quali sono state soddisfatte o deluse? Tutto è iniziato con quella serietà tipica del gioco, come potrebbe dire il nostro amato Paolo Icaro: due ragazzi che dai mercatini dei libri rari si avvicinano all’arte contemporanea con passione e curiosità, potendo basarsi solo sull’esperienza fatta sulla propria pelle. È stata un’avventura che è diventata, giorno dopo giorno, una scelta di vita di cui siamo orgogliosi nonostante i rischi che comporta un’attività di questo tipo.

Vorrei iniziare dalle origini. Come è nata la P420? Cosa ha spinto due ingegneri appassionati delle avanguardie artistiche

Tornando al presente, dopo sei anni di attività, lo spostamento di sede rappresenta di sicuro un accadimento importante nel-

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Alessandro Pasotti e Fabrizio Padovani


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la vita di una galleria. Cosa vi ha spinto a farlo? Quali sono state le motivazioni che vi hanno portato a scegliere questo luogo e quanto è importante per voi il rapporto spazio/opera d’arte? Dopo sei anni abbiamo sentito che era arrivato il momento di ingrandirci e di avere uno spazio espositivo che potesse diventare un elemento di dialogo all’interno della mostra. Nelle stanze, quasi da boutique, della galleria al primo piano di Piazza dei Martiri, abbiamo mosso i primi passi mostrando i lavori, senza però poter giocare con installazioni o sculture di grandi dimensioni. Oggi questo spostamento rappresenta un regalo che abbiamo fatto a noi stessi e ai nostri artisti che potranno relazionarsi con questa nuova sede immaginando progetti e opere prima “proibite”.

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mo e abbiamo sempre creduto. Termino rivolgendomi al futuro. Cosa pensa manchi ancora nel vostro percorso e verso cosa vi state proiettando? La nuova sfida, appena cominciata con l’apertura del nuovo spazio ovviamente, ci stimola molto e speriamo di fare bene per la scena artistica bolognese e non solo. L’impegno che dedichiamo alle fiere testimonia la volontà di creare sempre più contatti supportando l’arte italiana all’estero. Teoria Ingenua degli Insiemi un progetto espositivo di Paolo Icaro in dialogo con le opere di Bettina Buck, Marie Lund, David Schutter a cura di Cecilia Canziani e Davide Ferri 30 gennaio – 26 marzo 2016

La sede in via Azzo Gardino è stata inaugurata presentando al pubblico due mostre che vivono una accanto all’altra, dialogano. C’è un legame tra questo tipo di scelta curatoriale e l’apertura del nuovo spazio? Assolutamente sì. Lo spirito curatoriale riflette totalmente la nostra volontà di instaurare nuove collaborazioni con giovani artisti internazionali, non tradendo il nostro interesse, sempre vivo, per la ricerca degli anni ’60 e ‘70 e per gli artisti italiani a cui credia-

P420 Via Azzo Gardino, 9, angolo Largo Caduti del lavoro, Bologna Orari: da martedì a sabato 10.30-13.30 e 15-19.30 Altri giorni solo su appuntamento Info: +39 051 4847957 info@p420.it | www.p420.it

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Teoria ingenua degli insiemi, installation view. Courtesy: P420, Bologna. Foto: Michele Sereni


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ARTE

CULTURA: LA GRANDE RISORSA PER IL MEZZOGIORNO LUOGHI VARI | GENNAIO – MAGGIO 2016 Intervista a GIUSEPPE DE MITA di Matteo Galbiati

Dopo i primi due appuntamenti ad Ercolano e Benevento, proseguirà a Sorrento (in aprile) e a Napoli (in maggio) il ciclo di incontri Il capitale culturale: sfida per un nuovo Mezzogiorno che vuole promuovere un intenso e fitto dibattito tra le voci diverse di chi, nel Sud, è attivamente impegnato nel settore culturale, svolgendo un’importante azione di promozione e rilancio di risorse inesauribili come quelle legate alla cultura e al turismo. Un capitale spesso inespresso, mal gestito, oppure sfruttato senza le opportuni reti che ne aumenterebbero la valorizzazione, questi appuntamenti voglio creare un movimento di idee e persone che diventi propositivo proprio nel generare un coordinamento capace di rendere funzionale e produttivo l’ingente patrimonio di cultura che caratterizza il nostro Mezzogiorno. In tempi di crisi, di difficoltà, di generale sfiducia rispetto le occupazioni tradizionali, partire di nuovo dal territorio per il territorio esaltandone i patrimoni presenti potrebbe essere un’intuizione vincente. La cultura potrebbe diventare, quindi, un

potente motore propulsivo di risveglio non solo culturale, ma anche economico, sociale e istituzionale che rivitalizzerebbe intere collettività. Ideatore e promotore di questa serie di iniziative è l’onorevole Giuseppe De Mita che abbiamo intervistato per avere un report sui primi incontri e sui contenuti di questa iniziativa:

strutture, la nostra cassetta degli attrezzi culturali sia esigua e sia fatta soprattutto di strumenti per rompere e di pochissimi utili per costruire. Quest’idea di dare vita ad appuntamenti di discussione nasce, perciò, dalla considerazione che c’è la necessità di elaborare, sulla scorta dei grandi filoni culturali del nostro Paese, un’attrezzatura culturale adeguata ai problemi del presente.

Come è nata l’idea di questo ciclo di appuntamenti e di discussioni? L’idea di questo ciclo di incontri è nata da una considerazione che non so quanto sia scontata o elementare: sulla crisi o sulle fratture, che stiamo vivendo dal punto di vista sociale, economico, istituzionale e politico, sta emergendo un’opinione che inizia ad essere diffusa, e cioè che siamo di fronte ad una modifica strutturale dell’architettura delle nostre comunità, una modifica che implica, come premessa, una risposta ed una riflessione di tipo culturale. È curioso, e per certi versi esplicativo della difficoltà a venir fuori da una condizione immobile, verificare come, essendo crollate le vecchie infra-

Mezzogiorno e cultura un binomio davvero possibile – aldilà delle ricchissime risorse culturali che innegabilmente contraddistinguono le regioni del Sud – è concretamente realizzabile per il rilancio di queste aree? Facendo conto con scarsi investimenti, problematicità croniche, tagli, spending review… Per intenderci: i termini del rapporto non dovrebbero essere Mezzogiorno e cultura. La questione non è il rapporto tra la cultura ed un luogo, quanto il rapporto tra la cultura e l’agire, laddove la riflessione culturale sia il retroterra in termini di motivazione di un’azione. La questione centrale è questa: recuperare la cultura come retroterra dell’agire. Se è questo il rapporto, allora può avere una sua rappresentazione anche in un luogo ed in un luogo come il Mezzogiorno. Perché si potrebbe dire che, in un ribaltamento totale degli schemi abituali, il ragionamento non dovrebbe essere più basato sulla logica del divario, ma sulla logica delle opportunità. Se il ribaltamento è così radicale, allora non ci sarà una questione di tagli o di spending review, perché avremo un ragionamento che si colloca tutto dentro una prospettiva totalmente nuova. Avete già proposto due incontri a Ercolano e a Benevento, quali sono i primi risultati e le prime idee concrete emerse? Siamo partiti da Ercolano un po’ simbolicamente. Quando si è svolta la nostra iniziativa, eravamo a pochi giorni dalla designazione della Città Capitale Italiana della Cultura per il 2017 e c’era la candidatura di

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Ercolano che ha fatto seguito a quella di qualche mese prima a Capitale Europea. Ci siamo posti la domanda se questo insistere sulla candidatura di Ercolano fosse dentro uno scherma che vedesse la cultura come un bene di consumo o se questa operazione non potesse essere declinata in termini eversivi: vivere la cultura non come qualcosa da utilizzare, ma come qualcosa della quale noi potessimo diventare strumento. Poi c’è stato il confronto di Benevento come il passante di una cucitura che legasse aree geografiche diverse dentro uno stesso ragionamento per dare respiro ed omogeneità a questo percorso che in questa fase è soprattutto di discussione. Il primo risultato è stato quello di aver avviato la discussione ed aver raccolto una serie di disponibilità a ribaltare uno schema. È prematuro parlare di idee già definite: c’è una gestazione in corso e che è evidente che debba maturare. Chi partecipa agli incontri, quali esperti si confrontano e a che pubblico si rivolgono? Non partecipano esperti, partecipano persone che si mettono in discussione, che mettono in discussione la propria esperienza e che sono animate da questa voglia di essere eversivi, dove l’eversione non è sul crinale della rottura intesa nei termini noti, quelli della rottamazione per intenderci, ma è sul piano del recupero della prospettiva storica e della costruzione di una sfida verso il futuro che sappia recuperare la memoria. Su che tipo di risorse culturali puntate? Quali progetti pensate e auspicate? Non immagino una risorsa culturale in termini materiali ma una risorsa culturale in termini politici come attenzione alla comunità, alla città in senso etimologico. I progetti ed il percorso, che ha certo necessità di una sua dimensione concreta, possono essere solo la naturale conseguenza di come questa gestazione vada a compimento. Dobbiamo avere la pazienza di lasciare che le cose maturino in maniera naturale. Oggi c’è un’esigenza che ha la necessità di tradursi in un pensiero condiviso sulle sue ragioni e sulle prospettive. Solo allora potrà diventare progetto e quindi fatto. È chiaro come non sarebbe più un progetto così come l’abbiamo conosciuto finora, ma rappresenterebbe più che altro una prospettiva. Quali sono, invece, le criticità? Quali sono gli ostacoli e le difficoltà da superare e vincere? Le criticità sono rappresentate da noi, dalla rigidità involontaria a cambiare le nostre abitudini. E la difficoltà più grande è coltivare la memoria, non come ricordo nostalgico,

ma come radicamento storico del futuro. La difficoltà vera non sta nelle cose, ma abita dentro di noi. Come sta reagendo il territorio alle vostre sollecitazioni? C’è curiosità e c’è diffidenza. Perché dobbiamo essere tutti consapevoli del fatto che un percorso come questo non è di certo agevole. Non ha una soluzione immediata, non è un modello di gestione di un museo, ma è il recupero della centralità della questione antropologica. Abbiamo, però, questa ambizione: vogliamo parlare al mondo dell’arte o ci proviamo come l’interlocuzione con un mondo che è fatto di possibili avanguardie, di un mondo a cui si vorrebbe dare uno spazio di libertà di espressione perché la libera manifestazione di queste avanguardie possa profeticamente aiutarci ad individuare una via d’uscita.

culturale che, ad oggi, resta inespresso, sommerso o “maltrattato”? Più che un sogno, il mio è un desiderio e cioè che questo tentativo diventi un fatto politico nell’accezione più ampia del termine, diventi un motore di cambiamento. Possa, cioè, innescare una competizione o anche conflitti tra punti di vista diversi, tra diversi modi di interpretare questa questione affinché il fisiologico attrito generi una novità. Mi augurerei che il patrimonio culturale inteso come pensiero possa generare un fatto politico di rilievo. Il capitale culturale: sfida per un nuovo Mezzogiorno ciclo di incontri da un’idea di Giuseppe De Mita gennaio – maggio 2016 Info: www.giuseppedemita.it

Vi state muovendo pensando alla regione del Sannio, ma pensate si possa estendere il vostro progetto anche ad altre realtà regionali? Non pensa sia importante creare una rete virtuosa? In questa fase è come se volessimo accendere dei fuochi per illuminare la notte. Non c’è, perciò, un punto specifico del territorio da cui partire. Quali sono i prossimi appuntamenti? Stiamo pensando ai prossimi appuntamenti. Immagino un prossimo incontro in Penisola Sorrentina e immagino ovviamente a Napoli così come penso ad un confronto in Irpinia. Credo che ci muoveremo dove ci sono le condizioni per farlo.

Il capitale culturale: sfida per un nuovo Mezzogiorno, intervento di Pierpaolo Forte presidente della Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee, Museo del Sannio, Benevento

Il suo grande sogno rispetto al patrimonio

Nella pagina a fianco: Giuseppe De Mita

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L’ANTICO CHE SEDUCE… AL MAR DI RAVENNA RAVENNA | MUSEO D’ARTE DELLA CITTÀ DI RAVENNA | 21 FEBBRAIO – 26 GIUGNO 2016 di ELENA SABATTINI

Iniziamo dalla fine. Al termine della mostra, sullo scalone che riporta ai piani inferiori, ci si ferma qualche secondo a riflettere sull’antico e sul contemporaneo, su cosa sia debitore dell’altro e se possa essere considerato debitore. Forse è una lotta in cui non ci sono vincitori o vinti. Forse non si può decretare uno sconfitto tra la Nascita di Venere di Botticelli di Andy Warhol e l’opera originale, se ancora così abbiamo intenzione di chiamarla. Al Museo d’Arte di Ravenna le oltre 120 opere esposte per la nuova mostra La seduzione dell’Antico attraversano tutta la grande pittura del Novecento con il richiamo all’Antico come filo conduttore e con la descrizione di anni intensi che vanno dal 1919 al 1930, fino tutta la seconda metà del Novecento, dalle neoavanguardie alla stagione del “postmoderno”. La mostra, a cura di Claudio Spadoni, sarà visitabile fino al 26 giugno 2016. Gli insegnamenti dei maestri del passato e la loro rielaborazione sono resi ancora più espliciti da un aiuto visivo complice durante l’esposizione. Così a lato delle opere

moderne vengono esposte piccole riproduzioni dell’“originale”. Un aiuto doveroso e da non sottovalutare se si considera Emilio Vedova e la sua Natività che vuole fare i conti con L’Adorazione dei pastori di Jacopo Tintoretto. Passano gli anni ma un nudo di donna, e in particolare una Venere, ha ancora molto da raccontare. Ecco allora che le Veneri non risorgono più dalle acque ma lottano con gli stracci e danno le spalle al pubblico come la famosa Venere degli stracci di Pistoletto o sono aggrovigliate da corde come la Venus restaurée di Man Ray o diventano blu per Yves Klein. Figure mitizzate del passato, icone contemporanee, operazioni ironiche o addirittura dissacratorie di un racconto che fa parte del nostro modello visivo ma che attraverso questo gioco rinascono con più forza. Questa in fondo è la storia che vuole esserci narrata attraverso le sette sezioni tematiche della mostra ravennate. Ma è nelle ultime sale che questo gioco viene svelato ed è alle volte iconico come la Venere con i baffi di Duchamp, altre volte riflessivo come

Mimesi di Paolini e i suoi due figuri di gesso che si osservano interrogativi, e infine rilevatore come nella video installazione Il quintetto del ricordo di Bill Viola che seduce nella sua lentezza e nella sua profonda analisi dell’umano. Il ricordo e la memoria diventano il racconto negli occhi dei protagonisti del video. Così l’antico ci rapisce e mai parola come seduzione è stata più adatta per descrivere una esposizione in cui siamo tutti schiavi della memoria, sedotti dal già visto. La seduzione dell’antico. Da Picasso a Duchamp, da De Chirico a Pistoletto a cura di Claudio Spadoni Organizzazione: Comune di Ravenna – Assessorato alla Cultura, MAR , Ravenna 21 febbraio – 26 giugno 2016 Mar – Museo d’Arte della città di Ravenna via di Roma 13, Ravenna Orari: fino al 31 marzo martedì – venerdì 9.00 – 18.00 sabato e domenica 9.00 – 19.00 dal 1° aprile: martedì – giovedì 9-18 venerdì 9-21 sabato e domenica 9-19 aperture festive 9-19 Pasqua, Lunedì dell’Angelo, 25 aprile, 1° maggio, 2 giugno Giorni di Chiusura: Lunedì Info: + 39 0544 482477/482356 info@museocitta.ra.it www.mar.ra.it

Giulio Paolini, Mimesi, 1975, calchi in gesso, cm 48×23.5×25.5 (calchi), cm 120×35×35 (basi), Torino, Fondazione Giulio e Anna Paolini

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GÈRARD FROMANGER. DALLA FIGURATION NARRATIVE AL POSTMODERNO PARIGI | CENTRE POMPIDOU | 17 FEBBRAIO – 16 MAGGIO 2016 di STEFANO BIANCHI

Nel 1964, a Parigi, viene tracciato il senso di una “nuova figurazione” liberamente ispirata a fumetti, cinema, fotografia, pubblicità. Il critico d’arte Gérald Gassiot-Talabot e i pittori Hervé Télémaque e Bernard Rancillac mettono in scena al Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris con altri 32 artisti (fra cui i nostri Gianni Bertini, Leonardo Cremonini, Antonio Recalcati e Michelangelo Pistoletto) la collettiva Mythologies Quotidiennes. A imporsi è la Figuration Narrative, che mette a nudo le contraddizioni della società contemporanea opponendosi all’egemonica Pop Art americana, indifferente alle problematiche politiche e tutt’altro che critica verso il consumismo. A questa Pop Art d’Europa da contrapporre al Nouveau Réalisme, si aggiungono pittori dal graffio sovversivo quali l’antifranchista Eduardo Arroyo, l’islandese Erró e in particolare il transalpino Gérard Fromanger, classe 1939, quadri giovanili ispirati ad Alberto Giacometti, studi all’École Nationale Supérieure des Beaux-Arts parigina, protagonista di un dipingere inteso come testimonianza del “qui e ora” più bruciante – sulle orme della Nouvelle Vague cinematografica di Jean-Luc Godard e del pensiero filosofico di Gilles Deleuze e Michel Foucault – e di un’attitudine talentuosa nel registrare ogni profonda mutazione sociale. Una cinquantina di opere eseguite dal 1957 al 2015, perlopiù donate al Centre Pompidou, raccontano il rosso come colore chiave dell’arte di Fromanger: non solo monocromo che riempie le “silhouettes” di uomini e donne impegnati a passeggiare lungo il Boulevard des Italiens sotto il manifesto del film Le cercle rouge e davanti alle vetrine dei negozi che espongono abiti in saldo, ma simbolo indiscusso della contestazione studentesca del Maggio ’68. Tant’è che ad aprire e a chiudere la retrospettiva ci sono due fra le tante Souffles – semisfere di plastica, trasparenti, su piedistalli metallici, all’epoca in gran parte distrutte dalla polizia – che l’artista posiziona nell’autunno sessantottino in varie zone di Parigi come estemporanee

Hommage à Topino-Lebrun, 1975-1977, Centre Pompidou, Paris, © Gérard Fromanger 2016, © Collection Centre Pompidou/Dist. RMN-GP. Foto: Philippe Migeat

visioni rosse, rivoluzionarie di quel mondo che pochi mesi prima aveva imprigionato dentro Le Rouge facendo sgocciolare il colore, come fosse sangue, su 10 bandiere. Nella serie Annoncez la couleur (1973-‘74) è invece la Pop Art a soggiogarlo: sottoforma di colori codificati che delineano volti e corpi di un’umanità in perpetuo movimento che divora la strada (e la vita) fra cartelloni pubblicitari e automobili in sosta, fino a stopparsi all’improvviso davanti a un’edicola per metabolizzare la politica sulle prime pagine di Libération e di France-Soir. È su questi oli su tela che l’arte di Gérard Fromanger si tramuta in cronaca. E il pittore, diventato fotorealista, nella serie Questions (1976-77) dialoga paradossalmente coi massmedia ritraendo cameramen e reporter armati di macchine fotografiche e microfoni mentre filmano e intervistano forme astratte contrarie alla logica dei mezzi d’informazione. E infine, utilizzando ogni cromatismo possibile, nel 1991 e ‘92 Fromanger dà vita a De toutes les couleurs, peinture d’Histoire, monumentale capolavoro in esposizione che

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visualizza aerei da guerra, missili, carrarmati, piramidi egiziane, donne tribali, creature animali… A trent’anni dalla Figuration Narrative e a venti da quei passanti dei grands boulevards che sfioravano le vetrine, c’è la società postmoderna in questi schizzi di colore che invadono i circuiti elettronici. Gérard Fromanger a cura di Michel Gauthier catalogo Éditions du Centre Pompidou con testi di Michel Gauthier e Olivier Zahm 17 febbraio – 16 maggio 2016 Centre Pompidou, Galerie du Musée, Niveau 4 Place Georges Pompidou, Parigi Orari: tutti i giorni tranne il martedì, 11.0021.00, la biglietteria chiude alle 20.00 ingresso intero € 14, ridotto € 11 Info: 0033 1 44781233 www.centrepompidou.fr


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PREMI

NUOVE DINAMICHE DEL TERMOLI TRA COSTRUZIONE, RICERCA E MEMORIA TERMOLI (CB) | MACTE MUSEO D’ARTE CONTEMPORANEA TERMOLI | 21 FEBBRAIO – 30 APRILE 2016 di TOMMASO EVANGELISTA

Lo scorso 20 febbraio si è inaugurata presso il MACTE (Museo d’Arte Contemporanea Termoli) la sessantesima edizione del Premio Termoli a cura di Anna Daneri. La giuria composta dall’artista Stefano Arienti, dal critico Lorenzo Canova e dal curatore Simone Menegoi ha selezionato l’opera di Riccardo Baruzzi, Porta pittura dei riccioli (2015), quale vincitrice della rassegna e nuovo tassello della collezione storica la quale da questa edizione, con l’istituzione della sede museale, avrà una collocazione permanente e permetterà uno sguardo sulle dinamiche dell’arte italiana del secondo dopoguerra.

Il Termoli nasce, infatti, dalla volontà e ricerca dell’artista molisano Achille Pace, attualmente soprintendente del Premio, il quale nel corso degli anni, grazie all’ausilio di storici e critici d’arte di spessore (nelle prime edizioni ricordiamo Argan, Bucarelli, Calvesi, Ponente), ha dato vita ad uno degli eventi artistici più significativi del meridione e di certo oggi tra i più longevi del panorama nazionale. Proprio a Termoli, durante i periodi del Premio, Pace aveva fatto nascere tra l’altro il celebre Gruppo Uno coinvolgendo prima Frascà e Santoro e in seguito, a Roma, Biggi, Carrino e Uncini. Quella spinta analiti-

Riccardo Baruzzi, Porta pittura dei riccioli, 2015. Opera vincitrice del 60. Premio Termoli 34

ca e di ricerca, e il tentativo di superamento dell’informale per rifondare il linguaggio visivo in termini sia razionali che lirici, fattori che avevano caratterizzato i primi decenni del premio e che si erano andati affievolendo dagli anni Novanta, ritrovano con questa edizione nuova linfa e fanno ben sperare per gli svolgimenti futuri. IN CANTIERE, il titolo della rassegna, presenta i lavori di Riccardo Baruzzi, Gabriella Ciancimino (menzione speciale della giuria e ideatrice di un workshop in città), Sara Enrico, Tony Fiorentino, Elena Mazzi, Santo Tolone, e lo fa attraverso un dialogo coerente e di grande


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compostezza formale. La curatrice, focalizzandosi sull’idea di “cantiere”, ha creato una struttura espositiva compatta e dinamica allo stesso tempo, nella quale si percepisce il senso di un luogo “in costruzione” e l’idea di un’arte che si evolve in continua osmosi tra linguaggi dissimili. L’idea, come chiarisce Daneri, è stata quella di «ripensare il Premio e collegare l’idea del cantiere alla costruzione del museo permanente, ovvero unire il museo a un’idea di mostra che esemplifichi una buona pratica curatoriale nei limiti di tempo, dato che era mancata ricerca negli ultimi anni». La visione di una pratica della pittura “espansa”, che si evolve attraverso soluzioni di carattere sia formale sia “temporale”, e che indaga le stesse modalità della rappresentazione, è il concetto di fondo della rassegna: «ho preso come punto di partenza il dialogo tra pittura e scultura, proprio di molte ricerche odierne, riqualificando lo spazio con un’idea di costruzione». Si percepisce la solidità e validità della proposta espositiva capace di reggersi su sole sei opere ma estremamente stratificate e di complessa lettura, tanto da essere capaci di dialogare e narrare anche il territorio, dal merletto ricco di contaminazioni lin-

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guistiche e segniche di Ciancimino, pratica artigianale comune in Molise, alla pietra di Apricena usata da Fiorentino, tipica della cattedrale di Termoli, evocativa di “zone d’ombra”, all’idea stessa di cantiere di Mazzi, capace di poetizzare il senso della fabbricazione. Sul confine tra analogico e digitale corre l’opera di Enrico basata su una superfice cromatica scannerizzata mentre Tolone evoca con rigore formale e spirito minimale gli elementi architettonici dismessi di un arredo, per riflettere sulle forme. Baruzzi, infine, con l’opera vincitrice, richiamandosi alle ricerche informali degli anni Sessanta, lavora con un segno libero, quasi gestuale, e dinamico che serializza e mette in tensione attraverso un dispositivo di rappresentazione e narrazione. La coerenza dell’evento, la riuscita formula curatoriale e la complessità percettiva delle opere presentate fanno pertanto ben sperare per una rinascita del Premio, che non deve comunque dimenticare la figura e la ricerca del maestro Pace, ancor oggi oltremodo da riscoprire. 60. Premio Termoli. In Cantiere a cura di: Anna Daneri, co-fondatrice e curatrice di Peep-Hole, centro d’arte indipendente a Milano

I premiati con la curatrice Daneri e il presidente di giuria Arienti 35

artisti: Riccardo Baruzzi, Gabriella Ciancimino, Sara Enrico, Antonio Fiorentino, Elena Mazzi, Santo Tolone 21 febbraio – 30 aprile 2016 MACTE Museo d’Arte Contemporanea Termoli Via Giappone, Termoli (CB) Orari: da lunedì a domenica: 10.00 – 12.30 martedì e giovedì: anche il pomeriggio dalle 16.00 alle 18.00. Ingresso libero Info: www.premiotermoli.it


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FOTOGRAFIA

SETA E MACCHINE, QUESTO È JAKOB TUGGENER AL MAST BOLOGNA | FONDAZIONE MAST | 27 GENNAIO – 17 APRILE 2016 di ILENIA MOSCHINI

Jakob Tuggener, Senza titolo, Geigy, Basilea, 1953. Courtesy Jakob Tuggener Foundation, Uster

La Fondazione MAST presenta, per la prima volta in Italia, una mostra antologica dedicata al fotografo svizzero Jakob Tuggener (1904 – 1988). Il progetto espositivo, promosso dalla Fondazione bolognese in collaborazione con la Fondazione Jakob Tuggener di Uster e la Fondazione Svizzera per la fotografia di Winterthur, con la curatela di Urs Stahel (direttore della PhotoGallery del MAST) e di Martin Gasser, si compone di due mostre che illustrano le tematiche principali con le quali Tuggener si è confrontato; il lavoro in fabbrica e le notti di festa dell’alta società. “Seta e macchine, questo è Tuggener”, così il fotografo definiva il suo lavoro collocandosi tra i due estremi; egli amava intensamente questi due mondi opposti e li considerava degni dello stesso valore artistico. Grazie al suo sguardo acuto e attento anche ai dettagli che solitamente passano inosservati, Jakob Tuggener ha dato nuova espressività a entrambe queste realtà, in immagini dinamiche e che risaltano con grande forza sullo sfondo nero-argento della pellicola fotografica.

Il primo nucleo dell’esposizione, Fabrik 1933-1953, presenta le stampe originali dell’autore svizzero tratte dal suo libro FABRIK, un’opera unica nel genere dell’editoria fotografica che documenta con approccio critico e umano le implicazioni dell’industrializzazione e del progresso tecnico. La sequenza delle immagini del libro è ricostruita lungo le pareti del percorso espositivo, dando vita a una narrazione di grande impatto visivo che ritrae paesaggi industriali, gli sguardi dei lavoratori e i segni della loro fatica, i fumi e i vapori di un ambiente logorante come la fabbrica, gli armamenti destinati alla Seconda guerra mondiale, ma anche i particolari più nascosti, evocativi e poetici di una giornata lavorativa o di un momento di pausa, che emergono grazie al sapiente uso del gioco di luci e di ombre che caratterizza l’opera del fotoartista svizzero. Al piano terra del MAST invece, le proiezioni Nuits de bal 1934-1950 mostrano le fotografie scattate da Tuggener durante gli eventi mondani del jet-set elvetico. Affascinato dall’atmosfera festosa e sensuale delle

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serate di gala, Tuggener ha saputo cogliere con il suo obiettivo le sfumature cangianti degli abiti da sera, i volti, i gesti e gli atteggiamenti seducenti degli uomini e delle donne, ma anche le movenze dei camerieri, dei baristi e dei musicisti durante il loro lavoro al servizio degli ospiti. Infine, a testimoniare l’eclettismo e la versatilità di Jakob Tuggener, la rassegna è arricchita da una raccolta di menabò di libri fotografici impaginati e rilegati dallo stesso autore e da quattro brevi filmati muti girati da Tuggener con il regista Max Wydler. Jakob Tuggener a cura di Martin Gasser e Urs Stahel MAST Via Speranza 40 – 42, Bologna 27 gennaio – 17 aprile 2016 Orari: dal martedì alla domenica dalle 10.00 alle 19.00 Info: www.mast.org


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ARTE

UNA MICROSTORIA DELLA POSTWAR ERA. CON QUALCHE MA… VENEZIA | COLLEZIONE PEGGY GUGGENHEIM | 23 GENNAIO – 4 APRILE 2016 di SIMONE REBORA

Il progetto curato da Luca Massimo Barbero mette in luce le potenzialità pressoché inesauribili della collezione veneziana, offrendo ai visitatori una “microstoria” della Postwar Era. Novanta opere diffuse lungo undici sale espositive, artisti celebri e nomi meno noti in un ritaglio d’anni che va dal secondo dopoguerra fino al 1979, con due “omaggi” a Jack Tworkov e Claire Falkenstein. L’operazione riesce a convincere proprio per la scelta di percorrere sentieri secondari, che confermano infine quelle dinamiche svoltesi sulla grande scena dell’arte contemporanea, ma, allo stesso tempo, lascia alquanto insoddisfatti di fronte ad apparenti trascuratezze e disomogeneità. Le si potrebbe giustificare con l’intenzione di lasciare un ampio margine di libertà al visitatore, che può percorrere ad estro le già allentate maglie della cronologia, ma il risultato finale è quanto mai altalenante. Si parte in grande stile dal secondo dopoguerra americano, e agli immancabili grandi nomi (Willem de Kooning, William Baziotes, Robert Motherwell e Richard Pousette-Dart) si affianca un approfondimento che non è solo su un autore meno noto (Jack Tworkov), ma su una specifica, brevissima fase della sua produzione, entro la quale si può cogliere in tutta la sua rilevanza il graduale passaggio da un figurativo di matrice cubo-espressionista ai primi margini dell’astrazione. Nelle sale successive, si possono rilevare le tracce dell’influsso di queste opere in Europa, e soprattutto in Italia e in Inghilterra. Di particolare interesse è l’approfondimento dedicato a Carlo Ciussi, che ancora una volta seleziona una ristretta fase creativa (le variazioni geometrico-emotive datate 1965), dando intensità e coerenza estetica alla sala. Ma la sezione più felice è senza dubbio l’ultima, dove le espansioni reticolari, le fluttuazioni cosmiche e, inevitabilmente, i cancelli veneziani di Claire Falkenstein si offrono tanto all’indagine quanto alla contemplazione.

Questa doppia anima della mostra ne rivela però anche i difetti più sostanziali. Pare soprattutto che il progetto sia stato sviluppato in maniera quasi frettolosa, celando dietro l’innegabile buon gusto delle scelte allestitive una certa carenza d’impegno scientifico. Alle scarse didascalie generali, si accompagnano rapsodicamente quelle accostate alle singole opere, che però paiono piuttosto un riciclo di materiali già in archivio (senza alcun riferimento al discorso d’insieme, e con i costanti richiami ai rapporti degli artisti con Peggy Guggenheim). Lo stesso alternarsi delle sale monografiche (che pure risulta la parte più riuscita della mostra) pare piuttosto guidato da motivi “d’occasione”, e non sempre riesce a giustificarsi nell’ambito del percorso. Tantomeno quando (come nel caso di Mirko Basaldella) l’approccio monografico non è neppure dichiarato. Considerate insomma le ambizioni storiografiche del progetto, la peculiare impostazione scelta da Luca Massimo Barbero (che non avrebbe affatto guastato in un percorso di natura più concettuale) resta quantomeno discutibile.

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Postwar Era. Una storia recente. Omaggi a Jack Tworkov e Claire Falkenstein a cura di Luca Massimo Barbero Collezione Peggy Guggenheim Dorsoduro 701, Venezia 23 gennaio – 4 aprile 2016 Orari: 10.00 – 18.00 chiuso il martedì Info: +39 041 2405440/419 info@guggenheim-venice.it www.guggenheim-venice.it

Veduta della mostra Postwar Era: una storia recente. Omaggi a Jack Tworkov e Claire Falkenstein, 23.01 – 04.04. 2016 Peggy Guggenheim Collection, a cura di Luca Massimo Barbero. Foto: Matteo De Fina


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FOTOGRAFIA

IL PARADISO PERDUTO DI RYAN MCGINLEY BERGAMO | GAMEC | 18 FEBBRAIO – 15 MAGGIO 2016 di CARLOTTA PETRACCI

Iconizzato come il fotografo dell’adolescenza è uno dei protagonisti indiscussi della nuova fotografia americana. A venticinque anni il Whitney Museum gli dedica una mostra assolutamente fuori dal comune. Occhi neri, nasi sanguinanti, ragazzi tatuati, corpi nudi, capelli bagnati. È questo l’immaginario di un ragazzo nato e cresciuto nel New Jersey alla scoperta di New York, tra la fine degli anni Novanta e i primi Duemila. Un curioso errare nel downtown tra utopia e giovinezza e una registrazione appassionata di una generazione edonista e spensierata. Pochi anni più tardi questo intenso desiderio di raccontare il proprio mondo si traduce nell’incontenibile bisogno di esplorare l’America e il suo paesaggio. Cominciano così innumerevoli viaggi, attraverso i confini e le stagioni, alla scoperta del naturale perduto e di uno sguardo squisitamente romantico. È questo il percorso che propone The Four Seasons, la prima personale italiana di Ryan McGinley, alla GAMeC di Bergamo. Una lettura che segue, come in un componimento melodico, il fluire del tempo attraversando in cinque sale l’emozione di una fotografia che da antropologica diventa sempre più pittorica. “Sono cresciuto con Easy Rider, American

Pictures e Terrence Malick” e “ho sempre amato i pittori romantici come Caspar David Friedrich”. Bastano poche battute per inquadrare il percorso che Ryan McGinley ha intrapreso alla ricerca del suo paradiso perduto, attraverso i paesaggi e l’immaginario americano e una sensibilità dichiaratamente europea. Da un lato riecheggia lo spirito della Beat Generation, dall’altro ci troviamo di fronte a delle fotografie che parlano un linguaggio fatto di palette, composizione e Natura. Sottotraccia è sempre l’innocenza a guidarci, quella che in un primo McGinley coglievamo negli eccessi della gioventù e che ora diventa più spirituale. Da Russeau a Thoureau fino a Vivaldi, in The Four Seasons, il “mito del buon selvaggio” rinasce nella musicalità visiva di un racconto, in cui si alternano cave glaciali, fuochi d’artificio nella notte, primavere in fiore e tinte giallo-rosse. Stiamo parlando di dieci anni di viaggi in camper in compagnia di modelli, coreografi e assistenti alla ricerca della wilderness e del silenzio: di quella traccia primordiale disseminata nella neve come un corpo nudo. “Ricorda, è romantico come l’inferno, ciò che facciamo”. La storia della New Photography è disseminata di bella fotografia e di

paesaggi estivi dalla forte intensità emotiva. Un’estetica molto presente in McGinley, alla quale però lui alterna un’energia, una volumetria e una sensibilità nel cogliere il momento decisivo di una schiena insanguinata, che lo allontanano da questa visione confortevole della fotografia e della Natura. Lo stesso si può dire per il colore, saturo e compatto, e per il dinamismo che percorre le sue opere, che suggerisce sempre un percorso di liberazione. “Unisciti al circo e scappa lontano da casa”. Una fuga, che si rivela attraverso quarantuno fotografie di medio e grande formato, disposte in una progressione che va dalla monumentalità delle stalattiti invernali, alla delicatezza dei toni primaverili, all’esplosione violenta del gioco e dei colori estivi fino alla nostalgia e alla pace dell’autunno, che trae ispirazione dal lavoro di Frederic Edwin Church e del gruppo della Hudson River School. Tra mimetismo e scontro dialettico tra Uomo e Natura ad emergere è un bisogno di riappropriazione del mito dell’Eden e una sorta di viaggio fantastico e avventuroso che si sovrappone all’esperienza reale: tumultuosa come un salto nel vuoto, lieve come un ballo in un bosco. Ryan McGinley, The Four Seasons a cura di Stefano Raimondi 18 febbraio – 15 maggio 2016 GAMeC, Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo Via San Tomaso 53, Bergamo Info: www.gamec.it

Ryan McGinley, Crimson & Clover, 2015. Courtesy: GAMeC, Bergamo

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ARTE

AGOSTINO ARRIVABENE, L’OLTRE-MODERNO PER LA PRIMA VOLTA A NEW YORK NEW YORK | CARA GALLERY | 2 MARZO – 16 APRILE 2016 di GIUSEPPE ALLETTO

Agostino Arrivabene porta per la prima volta negli Stati Uniti la sua alta riflessione su temi quali morte, rinascita e metamorfosi. La sua arte, in mostra alla Cara Gallery di New York, affronta quel nodo fondamentale che appartiene tanto alla filosofia quanto alla religione, così come all’alchimia e alla pratica pittorica stessa. Il suo corpus di opere costituisce una sorta di wunderkammer colma di oggetti dalla preziosità estenuata e costellata da finestre magiche che ci permettono di spiare eventi miracolosi fuori da ogni tempo, oltre il Tempo. Ierogamia come unione degli opposti, come sintesi totalizzante di vita e morte, di luce e tenebra, di maschile e femminile. Arrivabene supera il rovello dell’arte contemporanea, che è l’indagine sul Concetto, per giungere direttamente all’Archetipo. L’archetipo come modello di comprensione di atavismi altrimenti indecifrabili e come chiave di volta per svelare il senso delle nostre pulsioni più oscure e indicibili. In questo Arrivabene non è “antimoderno” ma piuttosto Oltre-moderno. L’incontro erotico letto come sintesi sublime di opposti diventa nella tela Sacrum Facere il punto di arrivo di un percorso, quello dell’artista italiano, votato da sempre a sondare i misteri del nascere e del disfarsi di ogni cosa. All’acme di questa tensione conoscitiva non può che seguire una tregua che opera nello spazio archetipico del mito e che viene trasfigurata nel simbolo dell’ermafrodito. A differenza di quanto è stato scritto con insistenza in diversi magazines l’arte di Arrivabene, più che raccogliere suggestioni della pittura americana dell’800, si presenta come profondamente italiana. Non tanto per l’intervento dell’artista sulle iconografie della tradizione o per il complesso trattamento a cui sottopone la materia pittorica quanto per il fatto che, come nella grande pittura antica del nostro Paese, l’oggetto della ricerca dell’artista nativo di Rivolta d’Adda è la dimensione spazio-temporale. In lui la ricerca sullo Spazio diventa ricerca “nello” spazio, funzionale alla creazione un cronotipo idillico alla Bachtin che, in senso pittorico, aspira a distruggere

ogni legame consueto, sia visivo che poetico, creando metafore inattese tali da dissolvere i confini del tempo. Lo spazio, più che essere rappresentato, viene evocato sulla tela che diventa così una “tabula rasa” dove a fondersi sono culla e tomba, infanzia e vecchiaia, eternità e futuro. La ricerca nello spazio, condotta dall’artista, può essere letta come indagine sul Tempo, nel tentativo di trascrivere in forma simbolica l’indagine sulla Storia, tanto quella psicoanalitica del singolo quanto quella antropologica del gruppo. In Arrivabene l’itinerario dello sguardo diventa itinerario della storia e si può ben dire che, a una “spazializzazione dell’immagine”, si aggiunge una “temporalizzazione” della stessa. Dalla Nigredo, che è confronto con l’Ombra junghiana, all’Albedo, che è raggiungimento della luce dopo il percorso attraverso l’oscurita del “ventre del drago”, il percorso espositivo/iniziatico proposto dall’artista si gioca tra i due poli estremi segnati da opere quali EAExit e Cauda Pavonis. L’oscurità di cui si veste la dea greca protagonista del primo dipinto viene superata da un apparizione multicolore che anticipa benigne teofanìe. In Sacrum Facere è lo slancio verso il principio

ordinatore della luce a fare la sua comparsa e a essere sintetizzato nell’amplesso mistico tra maschile e femminile, tra bianco e nero, tra unità e dispersione. L’opera chiude una fase di contemplazione da parte di Arrivabene del mistero della resurrezione pagana configurandosi essa stessa, nel suo farsi, come riduzione microcosmica del ciclo vita-morte-rinascita: l’artista infatti, non contento in un primo momento del risultato raggiunto, ha gettato nel fuoco la tela, per poi trovare, improvvisa, l’ispirazione nel ribollire della pellicola pittorica devastata dalle fiamme. Arrivabene ha così ripreso in mano il supporto e, l’opera, come una fenice, è stata pronta a risorgere e ad accogliere la rivelazione dello ερὸςἱ μ γά ,ος il “matrimonio sacro” tra “sponsa” e “sponsus” alchemici, pronti a presenziare alla genesi ierogamica. Agostino Arrivabene. Hierogamy 2 marzo – 16 aprile 2016 Cara Gallery (508 W 24th Street – New York, NY 10011) Orari: lunedì – venerdì dalle 10.00 alle 18.00 Info: +1 (212) 242-0444 info@caragallery-llc.com press@caragallery-llc.com caragallery-llc.com

Agostino Arrivabene, Hierogamy, veduta dell’allestimento alla Cara Gallery di New York

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