digital Cover Artist Fausta Squatriti
Interviste
GERMANO CELANT, PAOLO IACCHETTI, PATRIZIA NOVELLO, MANUEL FELISI
Nuovi SPazi
GILDA CONTEMPORARY ART
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KRIŠTOF KINTE R A
P O S T N AT U R A L I A 19 MARZO – 30 LUGLIO 2017
collezione permanente arte internazionale 1950-oggi giovedì-domenica prenotazioni tel: +39 0522 382484 info@collezionemaramotti.org www.collezionemaramotti.org via fratelli cervi 66 – reggio emilia
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ESPOARTE DIGITAL #95 ½ Espoarte Digital è un progetto editoriale di Espoarte in edizione esclusivamente digitale, tutto da sfogliare e da leggere, con i migliori contenuti pubblicati sul sito www.espoarte.net e molti altri realizzati ad hoc.
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Cover
FAUSTA SQUATRITI, Beata solitudo sola beatitudo: solitudine di Giacomo Casanova, 2015 fotografia, pigmenti, pastelli, legno, gesso, materiale organico, piume, cm 142x127x19. Foto: © Bruno Bani
indice
SU QUESTO NUMERO SI PARLA DI...
ESPOARTE Registrazione del Tribunale di Savona n. 517 del 15 febbraio 2001 Espoarte è un periodico di arte e cultura contemporanea edito dall’Associazione Culturale Arteam. © Proprietà letteraria riservata. È vietata la riproduzione, anche parziale, di testi pubblicati senza l’autorizzazione scritta della Direzione e dell’Editore. Corrispondenza, comunicati, cartelle stampa, cataloghi e quanto utile alla redazione per la pubblicazione di articoli vanno inviati all’indirizzo di redazione. Le opinioni degli autori impegnano soltanto la loro responsabilità e non rispecchiano necessariamente quelle della direzione della rivista. Tutti i materiali inviati, compresi manoscritti e fotografie, anche se non pubblicati, non verranno restituiti.
Editore Ass. Cult. Arteam Direttore Editoriale Livia Savorelli Publisher Diego Santamaria Direttore Web Matteo Galbiati Segreteria di Redazione Francesca Di Giorgio Direttore Responsabile Silvia Campese Redazione via Traversa dei Ceramisti 8/b 17012 Albissola Marina (SV) Tel. +39 019 2071005 redazione@espoarte.net Art Director Elena Borneto Redazione grafica – Traffico pubblicità villaggiodellacomunicazione® traffico@villcom.net Pubblicità Direttore Commerciale Diego Santamaria Tel. +39 019 2071005 iphone 347 7782782 diego.santamaria@espoarte.net Ufficio Abbonamenti abbonamenti@espoarte.net Hanno collaborato a questo numero: Michele Bramante Cristina Casero Francesca Caputo Luisa Castellini Francesca Di Giorgio Matteo Galbiati Lucia Longhi Gabriele Salvaterra Livia Savorelli
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FAUSTA SQUATRITI: TRE MOSTRE, UN RACCONTO Intervista a FAUSTA SQUATRITI di Cristina Casero
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GILDA CONTEMPORARY ART: ARTE E STILE PER LA NUOVA GALLERIA MILANESE Intervista a CRISTINA GILDA ARTESE di Matteo Galbiati
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MICHELA PICCHI: NEL SEGNO DELLA TIGRE Intervista a MICHELA PICCHI di Francesca Di Giorgio
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IL “TEMPO IMMOBILE” DI MANUEL FELISI Intervista a MANUEL FELISI di Luisa Castellini
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TU CHIAMALA SE VUOI… “AFRICA” Intervista a SILVIA CIRELLI di Francesca Di Giorgio
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IN TRENTINO C’È VITA Interviste a PAOLO MARIA DEANESI, GIORGIA LUCCHI, DAVIDE RAFFAELLI, CAMILLA NACCI e FEDERICO MAZZONELLI di Gabriele Salvaterra
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CREARE ARTE PER TUTTI: KEITH HARING A MILANO di FRANCESCA CAPUTO
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PATRIZIA NOVELLO… UNA NATURA ASTRATTA Intervista a PATRIZIA NOVELLO di Matteo Galbiati
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PAOLO IACCHETTI: ESSENZA CONCRETA E INTELLETTUALE DEL COLORE Intervista a PAOLO IACCHETTI di Matteo Galbiati
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ECCENTRIC SPACES. L’EPOS DELLE MUTAZIONI SPAZIALI di MICHELE BRAMANTE
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IL LAVORO “IN VIDEO”: 14 ARTISTI INTERPRETANO IL MONDO PRODUTTIVO di MATTEO GALBIATI
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TALES. ROBERT WILSON PER VILLA PANZA: AFFINITÀ ELETTIVE di FRANCESCA CAPUTO
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L’“ESSENZA VENEZIANA” DELL’ULTIMO SANTOMASO di MATTEO GALBIATI
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“GARE DE L’EST”. UN INVITO A VIVISEZIONARE LA MATERIA di LUCIA LONGHI
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GIUSEPPE IANNACCONE: L’AMORE PER L’ARTE E LA PASSIONE IN UNA COLLEZIONE di MATTEO GALBIATI
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LA FRAGILITÀ DELLA NATURA SECONDO CLAUDIA LOSI di CRISTINA CASERO
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LA BIOGRAFIA DI BASQUIAT: LA REGALITÀ, L’EROISMO E LA STRADA di FRANCESCA CAPUTO
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LEONCILLO E ALBISSOLA: UNA SCULTURA PUBBLICA ANTIRETORICA E ANTIMONUMENTALE Intervista a LUCA BOCHICCHIO di Livia Savorelli
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ROTELLA: PUBBLICATO IL PRIMO TOMO DEL CATALOGO RAGIONATO Intervista a GERMANO CELANT e ANTONELLA SOLDAINI di Matteo Galbiati
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courtesy galleria Spazio Testoni, Bologna
10 APRILE - 27 MAGGIO 2017
L’orMa
Ingresso libero Info arte@cubounipol.it
MOSTRA PERSONALE DEL VINCITORE ASSOLUTO DEL PREMIO ARTEAM CUP 2016, LORENZO MARIANI, L’orMa
A cura di Matteo Galbiati INAUGURAZIONE ALLA PRESENZA DELL’ARTISTA MARTEDI’ 11 APRILE ORE 18:00 SPAZIO ARTE Piazza Vieira de Mello, 3 - Bologna
In collaborazione con
CUBO Centro Unipol BOlogna Piazza Vieira de Mello, 3 e 5 (BO) - Tel 051.507.6060 - www.cubounipol.it
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FAUSTA SQUATRITI: TRE MOSTRE, UN RACCONTO MILANO | TRIENNALE DI MILANO, GALLERIE D’ITALIA E NUOVA GALLERIA MORONE | 10 FEBBRAIO – 2 APRILE 2017 Intervista a FAUSTA SQUATRITI di Cristina Casero
A Milano si possono ammirare tre capitoli, in altrettante sedi, di un racconto inerente una ricerca estetica e artistica lunga sessant’anni e che vede per protagonista Fausta Squatriti. In occasione di questa importante lettura antologica di una delle protagoniste dell’arte contemporanea italiana, abbiamo incontrato l’artista e raccolta questa sua breve e preziosa testimonianza di chi a segnato la storia della cultura visiva, e non solo, del nostro presente:
pre diverso. Si è fino ad ora reso necessario, per me, stare all’erta, trovando, dal passato verso il presente, nuove ragioni espressive, e di conseguenza, nuovo stile per fare vivere nell’opera quel vecchio ‘messaggio’ nel quale continuo a credere come ragione prima del fare creativo. In accordo con la curatrice generale Elisabetta Longari, e con quelli delle singole sezioni, Francesco Tedeschi, Susanne Capolongo con il gallerista Diego Viapiana, abbiamo messo in luce opere giovanili
La mostra Se il mondo fosse quadro, saprei dove andare… in corso a Milano, sviluppata su tre sedi, è certamente una rassegna di ampio respiro. In che misura e in quali termini corrisponde alla tua lunga e articolata ricerca? Le tre mostre sono autonome l’una dall’altra, ma collegate dal punto di vista concettuale. Abbiamo inteso sviluppare una narrazione, mettendo in evidenza il filo conduttore necessario per rappresentare sessant’anni di lavoro, che ha conosciuto non pochi cambiamenti. La coerenza che a posteriori si evidenzia nel mio lavoro, che non è rimasto sempre uguale a se stesso, si legge, dedicandovi un po’ di attenzione, nell’allestimento della Triennale. Punte minacciose, colori molto accesi, mancanza di ombre, pulizia delle superfici che si stagliano su fondi bianchi, disequilibri, contrapposizioni tra immagini dal valore semantico diverso, quando non opposto. In tutta la mia vita di lavoro, sono stata, anche inconsapevolmente, partecipe dei cambiamenti occorsi nel pensiero visivo della mia epoca, nella sua vita sociale e politica, non solo testimone. Per chi è abituato a una costante e univoca espressione, o stile, facili da riconoscere come marchio di fabbrica dell’artista, i miei cambi di registro risultano difficili da apprezzare. Di volta in volta ho trovato una strada, l’unica possibile in quel momento, dando conto del mio punto di vista sul mondo, che è sem-
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Fausta Squatriti, La passeggiata di Buster Keaton, 1965, caolino e pigmenti su tela, cm 280x260. Foto: © Zerli
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neglette, negli anni spostate da uno studio all’altro, in gran parte distrutte con quella furia iconoclasta inevitabile verso il doloroso periodo di formazione, che fa spostare la meta in una corsa che per me continua anche adesso. In Triennale la narrazione parte da due disegni di grandi dimensioni che ho fatto a 16 anni, nel 1957, paesaggi dell’anima – vista la giovane età non posso dire della memoria – in cui le linee sono tracciate con parole che creano un testo poetico coerente. Non ricordo se avessi già visto le poesie visive di Apollinaire, certo è che ero impegnata, in quegli anni, a scrivere e disegnare, in modo totalizzante, escludendo da me quasi tutti gli interessi tipici dell’adolescenza. A soffitto, e fa da perno centrale di tutta la mostra, La Passeggiata di Buster Kreaton del ’66, pittura dalle campiture piatte con la quale rivisito la visionarietà di Giovanbattista Tiepolo, infrangendone la narrazione mitologica, contaminata dal mondo dell’ironia dei cartoon, e della pop. Cielo lontano, ironico, sotto al quale sta, nelle opere degli anni successivi, la terra del dolore, della frattura, del tragico, ma anche della bellez-
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za, alla quale non so rinunciare; mi serve da viatico per il vero messaggio, la denuncia della condizione umana, derelitta, deleteria, ma anche sublime. E questo a partire dagli anni ’90, fino al Polittico dell’eclissi di grandi dimensioni, pensato nel 2015 per la sala dell’Impluvium. Quanto unisce questi lavori non è lo stile, che ho ricreato spesso, ma i temi astratti, teorici, etici che, dentro alla mente umana, creano, ricreano, comprendono, il mistero dell’esistente, conflitto violento, ma anche complicatissima, irragionevole malinconia. Alle Gallerie d’Italia abbiamo allestito le opere della ricerca astratta-geometrica della fine degli anni ’70. Erano gli anni di piombo, indispensabile è stata, inconscia e precisa, la decisione di dedicarmi a sculture più sobrie, nere, ferro e acciaio, disequilibri e convivenze tra pieno e vuoto, nella loro ambiguità. Negli anni ’80 ho voluto riprendere nelle mie mani la manualità, dopo anni in cui la fabbricazione del mio lavoro era in massima parte affidata a lattonieri, modellisti, laccatori, e sono così nate le opere denominate Fisiologia del quadrato, opere bidimensionali con una loro logica dell’as-
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Fausta Squatriti, De rerum natura: dispersione, 2016, matita, pastelli su carta, legno, cm 79,5x102x10. Foto: © Bruno Bani Nella pagina a fianco: Fausta Squatriti, Polittico dell’eclissi, 2015, fotografie, pigmenti, pastello, legno, resina, acciaio e cristalli, cm 300x240x45. Foto: © Zerli
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surdo, esemplificata sotto forma di rebus. Il colore l’ho dipinto all’acquarello, con moltissime mani sovrapposte, fino al massimo di intensità cromatica, perfino del nero. Un omaggio al mestiere del dipingere, esaltato, secondo me, dalla sua segreta perfezione. Ho dato corpo geometrico, decorativo, elegante quanto algido, a un contenuto metafisico inquietante, che prende corpo nella
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forma ingannevole di un rebus matematico, il cui esito è filosofico e non soltanto denotativo. Andando a ritroso, alla Nuova Galleria Morone sono esposte le sculture colorate degli anni ’60, gioiose e a loro modo crudeli. Dorfles le aveva, nel ’69, definite come “Oggetti inquietanti” provenienti da un’altra galassia. Forme primarie in acciaio, ‘corrotte’ da for-
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me a loro aggregate e contradditorie, parassitarie, danno luogo alla frattura di ogni certezza. Queste sculture, presentate con successo a Stoccolma, Tel Aviv, Caracas, New York, sono quasi inedite in Italia, ad esclusione di una mostra nello spazio milanese di Assab one nel 2011, dove si integravano con i resti di una industria tipografica dominati da una grande macchina, evoca-
PAOLO GHILARDI a cura di Alberto Mattia Martini
SPAZIO TESTONI Bologna www.spaziotestoni.it
marzo – giugno 2017
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trice di un essere pulsante, utile, abbandonato alla sua lenta morte. In molti dei tuoi lavori la spinta sottesa è una riflessione sulla condizione umana. Come ti poni, in quanto artista, di fronte a una questione tanto importante? L’interesse per la condizione umana è andato crescendo negli anni, anche se mi sono sempre sentita coinvolta dal valore dell’esistente, tutto quel brulicante insieme che individuiamo come vita. Da giovane, per sfida, ho preferito non scialare quello che sapevo fare facilmente, ho compiuto scelte espressive legate all’amatissimo astrattismo geometrico, allo spirituale suprematismo, mi sono “castigata”, andandomi a cercare delle difficoltà, dentro alle quali ricondurre i temi del perenne conflitto. Ricerca malintesa, troppo poetica per i cultori della geometria, troppo rigorosa per i cultori dell’irrazionale. Ho trovato in una frase di Borges, la spiegazione della mia procedura: con gli anni, se le stelle sono favorevoli, si può accedere, non alla semplicità, che non è niente, ma alla
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modesta e segreta complessità. A questo proposito, come hai sviluppato la riflessione sulla forma attraverso i tuoi lavori, che spesso hanno esiti linguisticamente eterogenei? Non si decide a tavolino, quello che si farà; succede, solo dopo se ne capisce il perché. Non sono capace di ripetermi, solo per routine. Quando mi riesce troppo facile portare a termine un lavoro, so che prima o poi ci sarà una svolta, e mi toccherà ricominciare a soffrire. Ho percepito nell’esperienza, non solo personale ma culturale, dentro e fuori dal mio osservatorio privilegiato, l’interiorità che si squaderna nella creazione dell’opera che una volta terminata, ha vita propria, dice quello che sa, ma anche chi la guarda, vi mette il proprio patrimonio personale, per poterne partecipare. Quando un nuovo argomento mi appassiona, e lo fa perché ne ho la visione, io divento sua, mi faccio possedere da una passione totalizzante, faccio di tutto per metterla al mondo, per omaggiarla, per darle concretezza. Trovo nuovi
materiali, nuove forme, nuove ragioni. Non vado in studio ogni giorno, come se andassi in ufficio. Lavoro anche con grandi intervalli durante i quali faccio dell’altro, scrivo romanzi, poesie, scrivo dell’arte che amo e conosco, in passato, realizzavo edizioni numerate, progettavo libri, cataloghi, manifesti. Ascolto calare dentro di me sia lo sconforto che l’inevitabile speranza. So che poi, me ne servirò. Tanto tempo l’ho dedicato ai rapporti umani, all’amore, alla voglia di stare dentro un gruppo di persone a me simili. Non ci sono sempre riuscita, ho avuto lutti tremendi, delusioni, che mi hanno fatto dire, come battuta, che sperare è maleducato. Ma è solo una battuta! Il mio messaggio si è dispiegato, arricciato, è diventato introflesso, complesso (come auspicava Borges). Ho finito per fare opere formalmente impensabili, per me, fino al momento in cui non ho potuto fare a meno di farle. Mi annoierei a morte se dovessi rimanere fedele ad uno stile e siccome non ho mai dovuto farlo, magari per ragioni di mercato, ecco che a 75 anni posso ragionevolmente pensare di avere di fronte a me ancora qualche mutazione cui dare luce. Recentemente ho disegnato dei fiori, ho cercato la bellezza struggente della putrefazione, della disidratazione, li ho composti in un ammasso di bellezza che fluttua nello spazio, dove l’anatomia del fiore, e del suo scheletro, parla di bellezza. Non sapevo di potere disegnare così, non lo avevo mai fatto. L’esperienza tra vita e arte, allena perfino la mano, sta di scorta in qualche ripiano del nostro sapere, in periodo di carestia, lo si usa, per essere ancora vivi. Mi puoi raccontare del rapporto – fondamentale – tra opera letteraria e opera visiva nel tuo lavoro? Sono due linguaggi che nulla hanno a che vedere l’uno con l’altro, mi appassionano entrambi. Ma sono pur sempre io, ad usarli, così accade che, nei romanzi, le descrizioni maniacali di spazi aperti o chiusi, di oggetti, ma anche di modi di pensare, attengono alla mia cultura visiva che mi fa dare importanza ai minimi dettagli. Va però osservato
Fausta Squatriti, In segno di natura: Islam verde, 1988, serigrafia su grafite, acquarello, pastelli a cera su cartone Parol, marmo patinato, cm 200x200 + volume, collezione Banca Intesasanpaolo. Foto: © Bruno Bani
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che l’arte della visione procede per sintesi: basta un segno, una sfumatura di colore, un piano inclinato, per dare conto di un universo di pensiero, o di pura percezione. Anche in poesia si può ottenere tanto, con la scelta di poche parole, lasciando il non detto tra una frase e l’altra. Più togli e più metti in evidenza quel poco che rimane, un universo, anche quando è solo un puntino, un frammento. Nel romanzo, anche il più scabro, occorrono migliaia di parole, occorre creare i personaggi, la trama, il linguaggio, che è quanto più mi piace creare. Nell’ultimo romanzo, La Cana, narro di un personaggio nevrotico, dunque il linguaggio segue il flusso di pensieri nevrotici, af-
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fannati, sovrapposti. Come potrei far vivere un alienato, con frasi di poche parole, limpide? Potrei farlo solo se l’io narrante fosse uno psichiatra intento a redigere un referto. Se dovessi trasmettere sul foglio, in pittura, peggio ancora in scultura, l’indagine analitica impiegata nel romanzo, dovrei fare un lavoro impossibile, affastellare segni, creare immagini che diano conto del disagio, del tormento del mio anti eroe, inserirlo, forse, in una stanza, una grotta, ma poi, il risultato, sarebbe ancora inadeguato, o ridondante. Mi sento di dire che non esiste una vera relazione tra i due linguaggi: io ho la capacità di usarli entrambi, e lo faccio. Si soffre in entrambi i linguaggi, per usarli, e ogni volta
che comincio a lavorare, in studio, o al computer, so che sto cercando guai! Guai grossi! Fausta Squatriti. Se il mondo fosse quadro, saprei dove andare… a cura di Elisabetta Longari Impluvium Triennale di Milano viale Alemagna 6, Milano a cura di Elisabetta Longari 10 febbraio – 5 marzo 2017 Orari: da martedì a domenica 10.30-20.30; lunedì chiuso; la biglietteria chiude alle ore 19.30 Ingresso gratuito Gallerie d’Italia Polo Museale e culturale di Intesa Sanpaolo piazza della Scala 6, Milano a cura di Elisabetta Longari e Francesco Tedeschi 10 febbraio – 2 aprile 2017 Orari: da martedì a domenica 9.30-19.30; giovedì 9.30-22.30; ultimo ingresso ore 21.30; lunedì chiuso; la biglietteria chiude alle ore 18.30 Ingresso fino al 5 marzo intero €10.00 include la visita alla mostra Bellotto e Canaletto. Lo stupore e la luce; dal 6 marzo intero €5.00 Nuova Galleria Morone a cura di Elisabetta Longari e Susanne Capolongo via Nerino 3, Milano 10 febbraio – 2 aprile 2017 Orari: da martedì a sabato 11.00-19.00 Ingresso libero Catalogo bilingue, in italiano e inglese, Edizioni Mandragora con testi di Elisabetta Longari, Jacqueline Ceresoli, Claudio Cerritelli, Martina Corgnati, Michel Gauthier e Francesco Tedeschi; con una conversazione di Susanne Capolongo con l’artista; con una biografia ragionata a cura di Ornella Mignone Info: www.triennale.org www.gallerieditalia.com www.nuovagalleriamorone.com
Fausta Squatriti, Alla gogna, 1972, ferro ossidato, ferro laccato, cm 115x51x51. Foto: © Bruno Bani
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GILDA CONTEMPORARY ART: ARTE E STILE PER LA NUOVA GALLERIA MILANESE MILANO | GILDA CONTEMPORARY ART | DAL 16 MARZO 2017 Intervista a CRISTINA GILDA ARTESE di Matteo Galbiati
Forza, coraggio, determinazione e una grande cultura unita a conoscenza e preparazione connotano il carattere di Cristina Gilda Artese che, tra poche settimane si appresta ad inaugurare la mostra Elena Monzo. Moon Zoo con cui non apre solo la personale dedicata alla giovane artista ma anche apre le porte della sua nuova galleria, la Gilda Contemporary Art, nel cuore del centro storico di Milano. In occasione di questo “battesimo”, abbiamo intervistato la gallerista nel pieno degli ultimi lavori prima dell’attesa apertura: Per quanto tempo hai cullato il sogno dell’apertura della tua nuova galleria? Da un paio di anni stavo riflettendo sulla necessità di aprire uno spazio dove sviluppare con maggiore tecnicismo l’attività commerciale che solo occasionalmente veniva gestita da arsprima, l’associazione culturale da me fondata nel 2007. Con il tempo ed analizzando cosa effettivamente desideravo fare, mi sono resa conto che volevo implementare un vero e proprio modello imprenditoriale e che quindi non si trattava di dare uno spazio all’associazione, che di fatto ha altri obiettivi e finalità, ma sviluppare una nuova realtà. Da lì ho iniziato a coltivare il progetto culturale-imprenditoriale di Gilda. Cosa deve offrire oggi una galleria? Quali sono le tue prospettive? Ovviamente non intendendo solamente l’aspetto mercantile… Sono dell’idea che una galleria debba fare una proposta culturale ma anche di stile. Debba avere una propria identità ed in questo rimane legata in maniera sinallagmatica con l’anima di chi la dirige, in questo caso Cristina Gilda Artese. Diciamo che io ci metto la mia faccia, il mio cuore, la mia anima appunto. Creo per il pubblico delle suggestioni e apro loro una porta verso la scoperta del contemporaneo, una porzione di contemporaneo. Un’iniziazione. Il resto è nelle mani di chi mi
seguirà e che, a sua volta, mi darà degli elementi dai quali proseguire la mia indagine. Vorrei un pubblico interattivo. Quali orientamenti e indirizzi hai dato al tuo spazio? Che idea suggerisce dell’arte all’interno del panorama contemporaneo? Ho voluto privilegiare l’arte contemporanea italiana, anche se prevedo delle collaborazioni one shot con artisti stranieri e per progetti dedicati e specifici. È una galleria che mi piace definire “molto milanese”, perché vuole essere anche rappresentativa dello stile di questa città; Milano è una città dal fascino un po’ nascosto e sottile. Una città di cortili e giardini interni, di palazzi esternamente discreti ma internamente sontuosi. Così è la matrice e la natura dell’arte contemporanea che propongo. Non credo nelle provocazioni e nelle spaccature a sproposito. Credo nella continuità delle ricerche anche se non significa che io sia a favore di un conservatorismo miope. In cosa sarà contemporanea la tua galleria? Soprattutto per le tematiche trattate, che peraltro sono da tempo la mia passione e alle quali si dedicano la maggior parte degli artisti che propongo: la relazione tra uomo e ambiente, l’antispecismo, la diversità e l’integrazione, la ricerca della propria identità storica e in senso antropologico, la riscoperta di una ritrovata dimensione spirituale nel quotidiano. Quali sono gli artisti che hai intenzione di promuovere e sostenere e perché? Ho scelto artisti non giovanissimi e non iper noti. Hanno tutti un buon curriculum, ma credo debbano ancora lavorare sodo per farsi ricordare. Mi piace perché in questa maniera posso proseguire l’attività che sto facendo da anni con arsprima. Si tratta di un second step. Anche se degli artisti di Gilda, non tutti hanno avuto a che fare con arsprima.
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Cristina Gilda Artese. Foto: Alessandro Brasile
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Ci sveli qualcosa della mostra di apertura? Perché hai scelto di iniziare proprio con Elena Monzo? Elena sintetizza molto di quello che è avvenuto negli ultimi anni tra gli artisti italiani: il ritorno alla figurazione, le contaminazioni pop oltre oceaniche, il ritorno al disegno ed alla carta, un’estetica piena e barocca, il superamento di tutto questo per tornare ad una nuova ritrovata pulizia. Durante uno studio visit mi sono imbattuta nei ritratti delle sue sciamane ed ho ritrovato una parte di alcune mie ricerche e ventennali passioni: non ho saputo resistere alla tentazione di aprire Gilda con lei! Sempre durante un altro studio visit, ho scoperto le ricerche in tema di metamorfosi che sta svolgendo Annalù Boeretto e così ho invitato Annalù a presentare alcune sue opere, che rappresentano delle novità assolute nella sua produzione artistica, in dialogo con le opere di Moon Zoo di Elena Monzo. Ma questa è una sorpresa e non voglio rovinarvela..
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corso di progettazione dei laboratori molto speciali.. Come hai scelto lo spazio? Quali sono le sue caratteristiche? Cercavo uno spazio con una storia. Vivo da anni nel quartiere delle cinque vie e sempre in centro storico ho il mio studio professionale. Lo ammetto, non amo le gallerie white cube, le trovo raggelanti in quanto troppo simili ad una sala chirurgica. Credo che l’arte contemporanea debba poter dialogare a testa alta anche con edifici con un forte carattere, così come credo sia quello in cui è collocato lo spazio di Gilda. Credo in un contemporaneo che si distingua senza esi-
Che programmazione hai poi stabilito, quali sono le mostre già in programma? La programmazione del 2017 prevede 4 mostre personali dedicate nell’ordine a Elena Monzo a marzo, Luca Coser a maggio, Francesca Romana Pinzari a settembre e Florencia Martinez a novembre. Abbiamo poi in programma alcuni eventi dedicati a performance e video arte, nonché la presentazione del numero 13 della rivista monografica Or not dedicato a Silvio Giordano di arsprima edizioni. Un evento importante è poi quello collegato con la patnership con Phoresta Onlus e che avrà luogo nella seconda metà di ottobre. Gilda è un progetto green poiché compensa le proprie immissioni di monossido di carbonio e lo fa aderendo ad un progetto di rimboschimento di Phoresta Onlus. Ogni anno dedicheremo un evento a Phoresta presentando artisti che concentrano la propria ricerca sulla tematica della natura e le problematiche ambientali. Pensi che la tua attività si concentri solo su mostre o intendi aprirti ad altro? Penso a workshop, incontri, conferenze, tavole rotonde… Gilda nasce come uno spazio, un luogo di incontro che vuole stimolare il pubblico ad un confronto sull’arte contemporanea. Da qui la collaborazione sinergica con arsprima, ma non solo, sarà funzionale a presentare in galleria altri tipi di interventi oltre alle più consuete mostre espositive. Mi riferisco a presentazioni di libri e riviste, conferenze e rassegne di video arte. Abbiamo anche in
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Elena Monzo, FullMoon, 2016, tecnica mista su tela, cm 150x100
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tare e si integri in qualche modo diventando parte di ciò che già esiste. Gilda ha un suo temperamento, la sfida per gli artisti è non lasciarsi fagocitare ma creare una complicità tra le loro opere e lo spazio. Pensi di avviare collaborazioni con altre gallerie milanesi per una condivisione allargata della tua visione? Assolutamente sì. Sono a favore delle collaborazioni da sempre e sono anche abituata già a farlo nel mio primo mestiere di commercialista. Per me è normale lavorare in team e su progetti condivisi. Perché non farlo anche con Gilda qualora ci sia una linea comune e degli obiettivi comuni e diciamolo, del feeling? Sogni da realizzare in questo luogo? Cosa desideri fortemente per questa nuova realtà culturale a Milano? Voglio lasciare un segno. Voglio che il mio pubblico si innamori dei miei artisti e che sostenendo loro sostenga la ricerca, che sempre deve proseguire, così come in campo scientifico anche nell’arte. Dopo di che, uno su mille ce la fa: Gilda è quell’uno. Elena Monzo. Moon Zoo a cura di Cristina Gilda Artese catalogo con testi di Erik Lucini e Cristina
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Gilda Artese 17 marzo – 15 aprile 2017 Gilda Contemporary Art Via San Maurilio 14, Milano Orario: da martedì a venerdì 10.00-19.00; sabato 10.00-13.00; il pomeriggio su appuntamento Info: +39 339 4760708 info@gilda.gallery www.gilda.gallery Cristina Gilda Artese (1970) si è laureata all’Università Luigi Bocconi di Milano in strategia di impresa e con un Master in internazionalizzazione di impresa conseguito presso Esade di Barcellona, è dottore commercialista iscritta presso l’Ordine professionale di Milano. Collezionista di seconda generazione, da sempre appassionata di arte, è dal 2004 attiva mecenate in campo artistico ed ha fondato nel 2007 l’associazione arsprima per la promozione dell’arte contemporanea. Cristina Gilda Artese è anche ideatrice della collana monografica OR NOT rivista di anomalie contemporanee dedicata a giovani artisti contemporanei italiani, arrivata alla sua tredicesima uscita.
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Gilda Contemporary Art, cortile interno di via San Maurilio 14, Milano
ETERNE STAGIONI 円環する季節
Corrispondenze poetiche tra antichi byobu giapponesi e artisti contemporanei Evento inserito nelle celebrazioni ufficiali del 150° Anniversario delle relazioni tra Giappone e Italia
Con il patrocinio di
Antichi paraventi giapponesi dal periodo Edo agli Anni Venti del XX secolo della collezione della galleria Paraventi Giapponesi - Galleria Nobili. Opere di: Francesco Arecco, Rodolfo Aricò, Matteo Aroldi, Kengiro Azuma, Manuela Bedeschi, Sonia Costantini, Domenico D’Oora, Dana De Luca, Paola Fonticoli, Ettore Frani, Cesare Galluzzo, Michael Gambino, Federico Guerri, Asako Hishiki, Paolo Iacchetti, Ugo La Pietra, L’OrMa, Mirco Marchelli, Vincenzo Marsiglia, Kaori Miyayama, Elena Modorati, Albano Morandi, Gianni Moretti, Hiroyuki Nakajima, Ayako Nakamiya, Patrizia Novello, Shoko Okumura, Claudio Olivieri, Simone Pellegrini, Mara Pepe, Luca Piovaccari, Gianluca Quaglia, Mario Raciti, Alfredo Rapetti Mogol, Tetsuro Shimizu, Diego Soldà, Valdi Spagnulo, Giorgio Tentolini, Valentino Vago, Arturo Vermi
25 febbraio - 9 aprile 2017 Inaugurazione sabato 25 febbraio ore 17.00 a cura di Matteo Galbiati | idea e progetto di Matteo Galbiati e Raffaella Nobili organizzazione Associazione Libera Mente Laboratorio di Idee, Alessandria con Paraventi Giapponesi - Galleria Nobili, Milano
In collaborazione con
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Font: Candara bold Colore: PANTONE 286 U
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Palazzo Monferrato via S. Lorenzo 21, Alessandria
+39 0131 313400 info@palazzomonferrato.it | www.palazzomonferrato.it
Orari: da martedì a venerdì ore 16.00-19.00 sabato e domenica ore 10.00-13.00 e 16.00-19.00 chiuso il lunedì - Ingresso libero
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ARTE
MICHELA PICCHI: NEL SEGNO DELLA TIGRE MILANO | BANCA SISTEMA | 9 FEBBRAIO – MAGGIO 2017 Intervista a MICHELA PICCHI di Francesca Di Giorgio
«Che sia un muro, una collezione per un brand, o uno show in galleria» il mondo di Michela Picchi è la traduzione di idee, sogni e tanta musica. Un universo molto colorato di matrice pop: soggetti “semplici”, pochi particolari, una palette di colori accesa che costruisce letteralmente l’immagine e definisce la sua cifra stilistica. Stars, la mostra a cura di Rossella Farinotti, che apre questa sera da Banca Sistema a Milano, è frutto dell’ultimo anno di lavoro tra Berlino (dove l’artista, classe 1987, di origine romana, vive e lavora), Cleveland e Milano. Un ritorno in Italia, quindi, che porta con sé, per la prima volta, un corpus di lavori sempre più svincolati dai collage e dalle illustrazioni vettoriali degli esordi e sempre più vicini nel toccare i confini tra illustrazione, grafica e art direction…
Iniziamo da quella tigre, alle tue spalle, nel ritratto… Quello ritratto parzialmente nella foto è il wall di quasi 50 metri che ho disegnato a Cleveland, progetto parte della Creative Fusion Residency sponsorizzato dalla Cleveland Foundation. Sono state un totale di 70 ore di lavoro e 10 giorni molto intensi, è stato un bellissimo primo progetto di residenza. Come sei arrivata alla Cleveland Foundation? A dire il vero è la Cleveland Foundation che è arrivata a me, dopo aver visto il mio TedxTalk del 2015 a Taipei. È una residenza strettamente ad invito, quindi non ci sono application online da poter fare per accedervi. Mi sento molto onorata per essere
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Michela Picchi, We Are All Made of Stars, 2016, murale, 50×5 m., Cleveland. Progetto realizzato per la Creative Fusion Art Residency, Cleveland Foundation. Foto: Andrea Sartori. Courtesy: Banca Sistema
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stata “trovata” ed invitata, per me ha significato moltissimo essere lì e sviluppare per 3 liberamente tutti i progetti che ho portato avanti, dal muro alle tele, ai tappeti che ho prodotto proprio in America. Quanta componente “street” c’è nei tuoi disegni… Non sono una street artist, anche se ho avuto occasione di dipingere muri privati e pubblici. La strada entra nel mio lavoro più come supporto su cui poter sviluppare i miei temi in grande, per il pubblico. Ciò che mi interessa è mettere al centro la mia comunicazione e la mia produzione, seguendo gli iter che di volta in volta mi si presentano. Ogni progetto è bello perché diverso ed è una sfida a sé stante: che sia un muro, una collezione per un brand, fino uno show in galleria. L’importante per me è cercare di non scendere a compromessi potendo esprimermi e sperimentare liberamente. Quando ho visto la tua tigre in realtà ho pensato subito al mondo del circo… Esiste un legame? Per fortuna no: le mie tigri godono della libertà.
Veduta della mostra Michela Picchi “Stars”, Banca Sistema, Milano. Foto: Andrea Sartori. Courtesy: Banca Sistema
Ci parli del tuo studio a Berlino? Sono in un momento di transizione, sto cercando un nuovo studio e più grande del precedente. Vorrei avere più spazio per lavorare contemporaneamente su più tele;
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una luce migliore con cui dipingere e diversi spazi dove creare cose differenti: dalle tele alla ceramica, a qualsiasi altro mi venga in mente di produrre. I colori e i soggetti hanno lo stesso peso per te? È l’interazione tra i due che funziona ai miei occhi. I colori sono parte integrante dei soggetti, e viceversa: permettono alla composizione di bilanciarsi sia dal punto di vista cromatico, che di forme. Non ho mai pensato ai colori ed ai soggetti con una vita separata, ma sempre come un unico nucleo. Come hai iniziato a collaborare con i brand Fendi, Nike, Pull & Bear, Converse, Vice, BG Berlin, Bosco Berlin, American Express, Girl Effect e Avaaz. Ci puoi raccontare qualche particolare in più su queste collaborazioni e come hanno contribuito a far crescere la tua ricerca artistica? Queste collaborazioni fanno parte di un ciclo di collaborazioni artistiche rivolte al commerciale. Oggi giorno sempre di più Art Directors e Creative Director, ad esempio, fanno ricerca nel web ed accadono sempre di più queste collaborazioni tra brand ed artisti multidisciplinari che posso essere declinati nella vita di un brand. Dal 2016 ho iniziato a selezionare accuratamente con il mio managment a Londra (Pocko London), le collaborazioni commerciali che mi vengono sottoposte perché vorrei fare solo
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progetti dove ho veramente la possibilità di esprimermi artisticamente come Michela Picchi. Il resto non mi interessa. Direi dunque che è la ricerca che un artista sviluppa che influenza il commerciale molto spesso. A brevissimo, ad esempio, uscirà una mia collaborazione worldwide “Michela Picchi x Adidas Spring – Summer” con una maglietta speciale per Berlino, la città dove vivo. È stato uno di quei progetti molto belli perché il team mi ha dato completa liberà espressiva a 360°. Come entrano nel tuo lavoro, invece, il mondo della musica e del cinema? Sicuramente la musica è una presenza costante del mio processo di creazione, ed ogni quadro è accompagnato dalla stessa canzone/canzoni quasi in loop fino alla fine. Mi piace creare anche un’identità musicale delle opere che faccio. Il cinema lo è non a livello d’ispirazione, ma più per compagnia quando non ascolto musica mentre dipingo. Per tutte le ore che passo in studio, penso di essermi divorata ad oggi tutte le serie possibili da guardare, e veramente tantissimi, tantissimi film. La mostra da Banca Sistema rappresenta il tuo ritorno in Italia e l’occasione per esporre in anteprima i tuoi lavori pittorici su tela… Perché Stars? Un titolo molto
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pop… STARS, curata da Rossella Farinotti per Banca Sistema, è il risultato di anno di produzione, crescita, ricerca ed evoluzione come artista. È una mostra molto carica emotivamente per me ed è come se fosse il riflesso della mia natura come artista, poliedrica e multidisciplinare. Ho voluto esporre delle cose molto diverse tra loro, partendo dagli sketch originali delle varie opere presenti in mostra e non, alle tele realizzate nel periodo americano, ai tappeti, anche quelli prodotti in America, dalle stampe (periodo 2013/2015), fino ad arrivare ad una serigrafia edizione limitata di 23. Un totale di 54 opere distribuite in un percorso suddiviso tra i due piani della Banca. Le stelle sono parte di una bellissima visione che ho avuto prima di partire per l’America, oltre che identificarsi con uno dei simboli del pop americano. Michela Picchi. Stars a cura di Rossella Farinotti catalogo Vanillaedizioni 9 febbraio – maggio 2017 Banca SISTEMA Corso Monforte 20, Milano Info: +39 02 802801 www.bancasistema.it
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Michela Picchi, As above so below, 2016, acrilico su tela, cm 170×170. Collezione privata Banca Sistema
Quayola, “Pleasant Places”, installation view at GLOW festival 2015, credits Studio Quayola
25 GENNAIO - 01 APRILE 2017 Info arte@cubounipol.it
PLEASANT PLACES di QUAYOLA IL SUBLIME TECNOLOGICO E IL RAPPORTO FRA ARTE, NATURA E TECNOLOGIA
A cura di Federica Patti
INAUGURAZIONE 25 GENNAIO ORE 18:00 Ingresso libero SPAZIO ARTE
CUBO Centro Unipol BOlogna Piazza Vieira de Mello, 3 e 5 (BO) - Tel 051.507.6060 - www.cubounipol.it
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IL “TEMPO IMMOBILE” DI MANUEL FELISI MILANO | FABBRICA EOS | FINO AL 25 MARZO 2017 Intervista a MANUEL FELISI di Luisa Castellini
Che sia elemento naturale, oggetto o tecnica, la ricerca di Manuel Felisi è una danza sul tempo. Un movimento asincrono, che non ne asseconda il farsi ma neppure vi si oppone. Un tentativo di scriverne un altro per giocarci a piacimento – gioco possibile, infatti, solo poeticamente – e quindi invitare l’altro da sé, il fruitore, a fare altrettanto, soprattutto nella sua ultima mostra da Fabbrica Eos. In questa mostra hai portato alle più alte conseguenze il desiderio di coinvolgere il fruitore, di condurlo a fare esperienza di una temporalità altra, in che modo? La mostra è stata concepita con l’idea di costruire l’opera insieme al fruitore, con la sua
esperienza e le sue sensazioni. È un insieme di suggestioni che si articolano attraverso quattro installazioni, che vogliono essere un viatico per accedere alla propria memoria o a luoghi emozionali che abbiamo dimenticato. È il fruitore a costruire la mostra. Perché l’acqua, un elemento che spesso è stato protagonista delle tue installazioni, torna in questa mostra in due stati differenti ma sempre connessi alla memoria? Ad accogliere il visitatore in galleria è Una sola. Una goccia che dal soffitto cade sul pavimento incessantemente. Il suono di questa caduta è amplificato diventando parte stessa del processo e restando aperto a qualsiasi accoglimento e interpretazio-
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ne. Lacrima, catarsi, rigenerazione, forza: la goccia cade in un buco, o lo ha creato? E invade ora dopo ora il pavimento della galleria. Mi affascina l’idea che l’acqua abbia una memoria. Che le gocce cadute rechino il ricordo di questa mostra, delle persone che le hanno respirate. E ancora, che quelle microscopiche sui miei abiti congelati nell’installazione Tempo immobile, una volta tornate allo stato liquido, possano essere una mia traccia. Tre anni fa alla Gam di Genova Nervi (Menoventi, 2013) hai congelato alcune opere del museo. A Torino, (Tempio, 2015) alcuni testi sacri. Oggi, in mostra, alcuni tuoi abiti e oggetti. Quale rituale si sta consuman-
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do? Attraverso il processo di raffreddamento si può garantire la fruizione ai posteri. Il dazio da pagare è la perdita di questi beni, che per giungere intatti nel futuro devono essere strappati a un presente, che magari non li può o non li vuole comprendere, apprezzare o, al contrario, li fraintende o ne abusa. Così per l’arte e la religione. Ho portato il processo alle sue conseguenze, sottraendo me stesso, attraverso una serie di oggetti significanti, al tempo, costruendo una memoria, un memento mori. È stata una sorta di catarsi la selezione degli oggetti di Tempo immobile? Ognuno ha una storia, racchiude una memoria, come tutti gli oggetti con cui costruisco le mie opere del resto. Così c’è il mio primo completo grigio “serio” indossato al matrimonio di un amico. Un maglione amatissimo. L’eskimo del liceo. Un montone comprato a Istanbul durante una bella mostra con Fabio Giampietro. Oggetti, tutti, dai quali è stato difficile separarmi. In Tana, sorprendi il fruitore con un’installazione ambientale. Cosa ci attende al di là dello specchio? Attraversando le ante di un vecchio armadio con le porte a vetri, ci si trova in un ambien-
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te buio. L’illuminazione proviene dal basso evocando le torce alle quali tutti, bambini, ci siamo affidati almeno una volta per farci luce in un nascondiglio improvvisato, magari proprio in un vecchio armadio. E infatti è qui che siamo catapultati: la testa viene sfiorata da abiti appesi in alto e d’improvviso ci troviamo in una dimensione che avevamo scordato: quella dell’infanzia.
tessuti, i rulli da tappezziere, quelle texture e quei pattern, portatori di una storia, con i quali da sempre lavoro incontrano sulla parete la mia pittura. L’immagine fotografica torna a sua volta alla sua essenza facendosi ombra. Di fronte alla parete, grandi rami dipinti di bianco proiettano la propria ombra sulla mia pittura, ricordando, ancora una volta, il senso del tempo e dell’effimero.
Perché hai scelto per questa installazione abiti senza passato, ma con la memoria della prossima stagione, quella di Etro? Se avessi appeso i miei abiti, quelli di alcuni membri della mia famiglia o recuperati in qualche mercatino, avrebbero portato i propri odori, colori, il ricordo di una moda, di chi li ha abitati. Volevo invece che il fruitore potesse vestire questi abiti con la propria memoria, speranze e aspettative comprese. Solo così, in una sorta di campo neutro, è possibile rivivere o ritrovare quello che andiamo cercando avventurandoci nel nostro buio.
Manuel Felisi. Tempo Immobile a cura di Alberto Mattia Martini
Nord 45 Est 9 sono le coordinate della grande parete sulla quale la memoria ritrova la forma dell’immagine tornando alle sue parti costitutive, cosa è accaduto? È come se avessi scomposto il processo che conduce alle mie immagini. Le garze, i
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17 febbraio – 25 marzo 2017 Fabbrica Eos p.le Baiamonti 2, Milano Orari: martedì – venerdì 10.30-13.00 / 15.30 – 18.30 sabato su appuntamento Info: www.fabbricaeos.it www.manuelfelisi.it
In queste pagine: Manuel Felisi, Tempo immobile, 2017, Fabbrica Eos, Milano. Foto: Viola Tofani
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TU CHIAMALA SE VUOI… “AFRICA” MILANO | OFFICINE DELL’IMMAGINE | 9 FEBBRAIO – 2 APRILE 2017 Intervista a SILVIA CIRELLI di Francesca Di Giorgio
We call it “Africa”. Artisti dall’Africa Sub-Sahariana è la mostra che ha aperto il 2017 in galleria Officine dell’Immagine e prosegue una precisa linea curatoriale, una vera e propria ricognizione portata avanti da tempo come un focus sulle ricerche artistiche di aree geografiche ancora poco conosciute in Italia, o almeno, fino ad oggi presentate attraverso un filtro. «Sono quasi tre anni che con Officine dell’Immagine ci dedichiamo all’esplorazione e alla sperimentazione. Abbiamo iniziato con una particolare attenzione verso il panorama emergente mediorientale,
concentrandosi ad esempio sulla versatilità della scena artistica iraniana (Gohar Dashti, Shadi Ghadirian e Jalal Sepher sono alcuni degli artisti che collaborano con noi) e quella turca (con l’eclettico Servet Kocyigit)» racconta Silvia Cirelli, che firma per la galleria i progetti curatoriali dalla sua “base” a Bucarest in Romania, dove vive da due anni, dopo gli otto passati a Pechino. «Pur nella loro diversità Pechino e Bucarest sono città dove si percepisce il cambiamento, il movimento, la sperimentazione. Bucarest è ancora “giovane” rispetto alla capitale cinese,
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ma è già molto attiva, ci sono ad esempio diverse gallerie private di buon livello (Anca Poterasu Gallery partecipa ormai da qualche anno ad Artissima), un Museo di Arte Contemporanea, e anche una Biennale, alla sua ottava edizione nel 2018. Il fermento è tangibile e travolgente, ed è questo che più interessa quando faccio esperienza di realtà a me nuove e sconosciute». In questo momento, la galleria sta lavorando sempre più intensamente con la giovane e talentuosa fotografa franco-algerina Halida Boughriet, che vedremo alla prossima
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edizione di MIA PHOTO FAIR, in corso dal 10 al 13 marzo, a Milano. Fino al 2 aprile in galleria troviamo, invece, i lavori di quattro artisti: Dimitri Fagbohoun (Benin, 1972), Bronwyn Katz (Kimberly, SudAfrica, 1993), Marcia Kure (Kano, Nigeria, 1970) e Maurice Mbikayi (Kinshasa, Repubblica Democratica del Congo, 1974) un altro “passo” verso la comprensione di quella che chiamiamo “Africa” e che arriva dopo, in ordine di tempo, a Carte Blanche la collettiva di giovani artisti dell’Africa Settentrionale ospitata l’anno scorso da Officine dell’Immagine. «In quell’occasione, la marocchina Safaa Erruas, la tunisina Farah Khalil e l’algerino Massinissa Selmani, ci hanno accompagnato in uno scenario ricco di contraddizioni sociali e culturali». Per comprendere a fondo la poetica degli artisti coinvolti in We call it “Africa” è importante considerarne il loro percorso a partire dal contesto di appartenenza senza che questo diventi un’arma a doppio taglio, prendendo le distanze da stereotipi cultu-
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rali ed estetici che tentano di definire certe specificità generazionali o geografiche: «È un grave errore quello di voler circoscrivere la dimensione estetica dell’arte di una determinata area. Questa sarebbe sicuramente la strada più “facile”, ma allo stesso tempo è anche la più inopportuna. Per questo nei miei progetti il contesto di appartenenza è sempre un punto di partenza ma mai di arrivo. La cosiddetta “identità africana”, anche se questa stessa definizione è a mio avviso ormai anacronistica, è leggibile nei percorsi degli artisti selezionati, ma ciò che mi interessa maggiormente è proprio esaltarne le letture personali e individuali. Con questa mostra sono le tante “Afriche” che vogliamo raccontare, gli universi poliedrici e multiformi». Un “affresco” ben visibile a partire dall’approccio artistico di Dimitri Fagbohoun, originario del Benin ma che vive da ormai vent’anni a Parigi. Fagbohoun ricostruisce un’identità transculturale attorno alla simbologia di oggetti popolari come gli djembé (tamburi a mano di legno) in cui sono
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In queste pagine: We call it “Africa”, vedute della mostra, Officine dell’Immagine, Milano
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tatuati i volti di alcuni presidenti africani, o la bandiera 3D AEF (African European Flag) le cui strisce possono essere separate o unite tramite cerniere, sino ad arrivare a Carmbars dove l’idea di sincretismo culturale si fa sempre più forte: dentro un contenitore di vetro sono raccolte decine di caramelle rifasciate da carte che riportano alcuni versi tratti dalla Bibbia, dal Corano e dalla Torah. Bronwyn Katz giovanissima artista sudfricana, classe 1993, esplora, attraverso la dimensione installativa e video, la memoria del proprio Paese fondendo “repertorio emozionale” e “repertorio storico” tra presente e passato, costruzione e distruzione, memoria e oblio. A rafforzare la condizione di appartenenza nel video Grand Herinnering (“memoria della terra”) è l’artista stessa, performer intenta in azioni che riconducono alla memoria personale e alle sue origini. Una componente autobiografica che sebbene presente in tutti gli artisti coinvolti, con sfumature più o meno marcate, trova il suo culmine nelle riflessioni di Marcia Kure trasferita negli Stati Uniti dalla Nigeria. Una
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tecnica “tradizionale” come il collage nelle sue mani raggiunge una sintesi estetica e formale raffinatissima partendo da ritagli di disegni, dipinti, fotografie, i piani dell’immagine si accostano e sovrappongono ricostituendo bellissimi equilibri.
Officine dell’Immagine via Atto Vannucci 13, Milano
Il congolese Maurice Mbikayi parte, invece, dai codici estetici del suo popolo per “vestirli” letteralmente di significati sociali a partire da “scarti tecnologici” come le tastiere dei Pc che diventano eccentrici abiti da uomo indossati dall’artista stesso ritratto in scatti che potrebbero benissimo stare su riviste di moda patinate ma che con quel mondo non condividono certo la ricerca ostentata del glamour. Rispecchiano una reazione ad una contemporaneità in cui non ci si identifica.
Info: +39 02 91638758 info@officinedellimmagine.it www.officinedellimmagine.it
WE CALL IT “AFRICA”. Artisti dall’Africa Subsahariana a cura di Silvia Cirelli 9 febbraio – 2 aprile 2017
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Ingresso libero Orari: martedì – sabato: 11 – 19; lunedì e giorni festivi su appuntamento
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il Percorso continua Accademia delle Arti del Disegno, Accademia d’Arte, V. Arciconfraternita della Misericordia, Catena Concerto Hotel, Loggia del Bigallo, Fani Gioielli, Penko Bottega Orafa, Istituto Prosperius, Archivio Luciano Caruso, Officina Profumo Farmaceutica, Consolato di Francia, Farmacia San Giorgio, Rondò di Bacco
ARTOUR-O, insieme a tutti gli amanti del mondo dell’arte, intende raccogliere il messaggio della grande ed illuminata Committenza del passato che ha reso uniche le nostre Città d’Arte
Ellequadro Documenti A.C. Archivio Internazionale Arte Contemporanea|Palazzo Ducale|Piazza Matteotti, 6|Loggiato Primo Piano|16123 Genova|t.+390105536953|f.+390105302922|team@ellequadro.com|press@ellequadro.com|ellequadro@me.com|www.ellequadro.com Follow us on: ArtouroMUseoTemporaneo @Ellequadro_info 1pag 195x265 espoarte.indd 1
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REPORT
IN TRENTINO C’È VITA TRENTO | PAOLO MARIA DEANESI GALLERY E GALLERIA D’ARTE BOCCANERA / CELLAR CONTEMPORARY E SPAZIO KN Interviste a PAOLO MARIA DEANESI, GIORGIA LUCCHI, DAVIDE RAFFAELLI, CAMILLA NACCI E FEDERICO MAZZONELLI di Gabriele Salvaterra
Per Trento e il trentino gli ultimi mesi del 2016 hanno rappresentato un periodo molto dinamico che ha visto l’inaugurazione, la rinascita, lo sviluppo o l’adattamento di spazi espositivi di ricerca sul contemporaneo vecchi e nuovi. Per chi pensa quindi che il capoluogo trentino, per quanto riguarda la cultura e l’arte contemporanea, si trascini sonnolento all’ombra delle grandi istituzioni di iniziativa pubblica o, peggio, sia soltanto buono per le vacanze invernali, l’attività di alcuni operatori privati e indipendenti ha smentito questo pregiudizio. Per una fortunata coincidenza temporale, forse segno di un’esigenza diffusa di “riempire” e dare forma alternativa a quello spazio culturale che si crea tra i musei e il pubblico, i quattro mesi conclusivi del 2016 hanno salutato la nascita di due nuove iniziative progettuali indipendenti e lo sviluppo di due realtà galleristiche che hanno inaugurato nuove sedi espositive. Una spinta “dal basso”, questa, che fa ben sperare per la varietà e la ricchezza della scena culturale non solo trentina ma anche dell’asse Verona-Innsbruch.
In questo primo affondo hanno risposto alle nostre domande Paolo Maria Deanesi per l’omonima galleria e Giorgia Lucchi per Boccanera Gallery: due realtà consolidate (la prima nasce nel 2005, la seconda nel 2007) impegnate nella promozione di giovani artisti italiani e internazionali che hanno dato nuovo impulso alla loro già importante storia.
PAOLO MARIA DEANESI GALLERY Un’avventura più che decennale, l’inizio a Rovereto, il trasferimento a Trento nel 2014 e ora un nuovo spazio rinnovato e più ampio sempre nel cuore del capoluogo trentino. Sotto quali auspici comincia questa nuova parte della storia e cosa si innoverà rispetto a prima? Paolo Maria Deanesi: Ogni rinnovamento si fonda su favorevoli auspici ma se mi soffermassi ad analizzare puntigliosamente solo il territorio in cui risiedo ci sarebbe forse
da rivedere il presagio. Insistendo, come ho sempre fatto, rimango però ottimista riguardo alla possibilità di riuscire, prima o poi, a sviluppare adeguatamente l’interesse nell’arte contemporanea anche qui a Trento “in mezzo alle montagne” anche se per fortuna il bacino di utenza della galleria va ben oltre. Più che di innovazioni, le intenzioni sono quelle di voler incrementare la frequenza dei momenti espositivi durante l’anno e di inserire il più possibile artisti italiani nella programmazione. Sono una galleria italiana ed è giusto sostenere e sviluppare la giovane arte contemporanea del nostro paese. La prima collettiva, Ho(M)me, riunisce diversi artisti già rappresentati dalla galleria in una riflessione sul tema delle radici e dell’appartenenza. Come si svilupperanno i prossimi progetti e su quali temi si incentrerà l’attività della galleria? Per la prima metà dell’anno in corso sono in programma le mostre di Michele Parisi e Dacia Manto. Per la seconda parte dell’anno sto invece rivedendo i miei progetti a seguito della conferma di importati impegni museali di Jacopo Mazzonelli che sarà alla Galleria Civica di Trento in ottobre e di Robert Gschwantner impegnato al Kunstverein Kunsthaus di Potsdam, per cui dovrò posticipare le loro mostre in galleria. Per quanto riguarda i nuovi temi non sono in grado di risponderti per ora; in realtà, più che alle tematiche, sono in questo momento interessato ai linguaggi degli artisti (anche nuovi) che sto selezionando per le future mostre. Parlaci dello spazio, situato in una zona affascinante anche se non sempre riconosciuta tra l’antico corso del fiume Adige e il vecchio ghetto ebraico chiuso dopo la vicenda del Simonino nel 1475: in che modo variano le pratiche espositive e di programmazione della galleria? Nella tua domanda ci sono già tutte le in-
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Dall’alto: Antonio De Pascale, Arnold Mario Dall’O, Gioacchino Pontrelli, James Brooks, Zlatan Vehabovic. Paolo Maria Deanesi Gallery, Trento Un ritratto di Giorgia Lucchi accanto ad un’opera di Andrei Ciurdarescu, Boccanera project room 2016
dicazioni “topogafiche” riguardo all’ubicazione del nuovo spazio espositivo. Facilmente raggiungibile anche da chi volesse venire da fuori città, in macchina o in treno, è collocato sul limitare del centro storico di Trento in un vicolo di accesso pedonale alla centro cittadino. Era un vecchio negozio che ho potuto ristrutturare secondo le mie esigenze, dotandolo anche di apposito spazio trasformabile in saletta video all’occorrenza. Le ampie vetrine sul fronte strada la rendono quasi totalmente visibile ai passanti e questa cosa, un po’ atipica, consente in un certo qual modo a chiunque di entrare in galleria, senza varcarne la porta. Mi sono messo in vetrina per render l’arte il più fruibile possibile. Per quanto riguarda la programmazione, ho iniziato a dialogare con curatori nazionali e stranieri per selezionare con loro nuovi progetti mantenendo ferma la vocazione della galleria, da sempre votata a scoprire e promuovere nuovi giovani talenti.
Giorgia Lucchi: Un anno di riflessione. Mi sono spostata per diversi motivi. Innanzitutto lo spazio è quattro volte più grande del precedente: ora posso portare avanti due programmi espositivi, quello di Boccanera Gallery – nello spazio più grande – con gli artisti rappresentati da sempre dalla galleria e quello di Boccanera Project Room dedicato alla sperimentazione, attivando collaborazioni eccezionali e progetti audaci. Sono a pochi minuti dal casello autostradale dell’A22 sulla direttrice Nord verso il Museion di Bolzano e sulla direttrice Sud in quella del Mart di Rovereto. Questa posizione “ai confini” mi permette di avere una visione autentica dell’insieme. Ho acquisito una libertà negli orari di apertura e, di conseguenza, di movimento. E – last but not least – questa scelta è stata anche dovuta a una questione di costi visto che ho deciso
Il nuovo corso in una parola… Speriamo che sia femmina… Paolo Maria Deanesi Gallery Vicolo dell’Adige 17-19, Trento +39 348 233 0764 gallery@paolomariadeanesi.it www.paolomariadeanesi.it
GALLERIA D’ARTE BOCCANERA Una scelta coraggiosa: abbandonare il centro città per uno spazio industriale nella zona Nord di Trento. Come è maturata questa decisione?
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Nella pagina a fianco, dall’alto: Nebojsa Despotovic, Installation view, Boccanera T gallery, via Ventura 6, Milano Dearraindrop Clothes, Cellar Contemporary
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per il contemporaneo nel capoluogo trentino che ci auguriamo sarà fruttuoso per il futuro.
CELLAR CONTEMPORARY Come nasce l’idea di Cellar e quali sentieri avete in programma di percorrere? Davide Raffaelli e Camilla Nacci: Cellar Contemporary è un progetto nato dalla volontà di esplorare nuove modalità di fruizione della galleria d’arte: allo spazio fisico tradizionale affiancheremo una piattaforma virtuale; proporremo agli artisti – oltre al momento espositivo – una serie di collaborazioni per realizzare oggetti in edizione limitata. Tutto questo guardando al panorama under 40 nazionale e internazionale.
di investire di più nella partecipazione alle fiere internazionali anche estere. I progetti del 2016 testimoniano, accanto all’apertura del nuovo spazio, un’attitudine nomade, esplosa, nell’utilizzare diversi spazi sotto il marchio della galleria, con un interesse particolare anche all’asse milanese. Lo spazio con un’identità caratterizzata è forse superfluo nel flusso contemporaneo? Diciamo che la decisione di trasferirmi nella zona Nord di Trento è coincisa con un allargarsi dell’attività aprendo così a Milano, in via Ventura 6, Boccanera T (Temporanea), seguendo così un ideale percorso di raccordo tra centro e periferia.
Dopo avere raccontato del rinnovamento della Paolo Maria Deanesi Gallery e di Boccanera Gallery, continua la nostra breve indagine sulle new entry della scena culturale ed espositiva trentina con il focus su altri due spazi recentemente inaugurati ma caratterizzati da una propensione progettuale, indipendente e alternativa. Si tratta di Cellar Contemporary, nuova galleria dal taglio dinamico e fresco, nata su iniziativa di due giovani operatori come Davide Raffaelli e Camilla Nacci, e di Spazio Kn, una realtà maggiormente sperimentale che ha alla sua base l’esperienza curatoriale e organizzativa di Federico Mazzonelli. Due iniziative più mobili e meno formalizzate che vanno a completare il quadro di un nuovo impulso
Su che direttrici imposterai i programmi futuri nell’attività della galleria e nella valorizzazione degli artisti? Intrecciando collaborazioni e sinergie con le gallerie estere, condividendo le rispettive competenze professionali, la coerenza e l’intraprendenza. Ti senti più local o global? Mi sento local con un approccio e una visione global. Boccanera Gallery + Boccanera Project Room via Alto Adige 176, Trento Boccanera T Gallery via Ventura 6, Milano +39 0461 984206 +39 340 5747013 info@arteboccanera.com www.arteboccanera.com
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Nel vostro primo progetto avete presentato l’arte lisergica e visionaria di Joe Grillo. L’inaugurazione, in concomitanza con la personale su Ray Smith da Arte Raffaelli, dichiara una comunità d’intenti o comunque un gravitare su tematiche simili: in fondo le due personali pur nella loro autonomia si armonizzavano bene. Pensate a uno sviluppo parallelo rispetto ad Arte Raffaelli o a un’attività più marcatamente caratterizzata? Cellar Contemporary deve molto allo Studio d’Arte Raffaelli, a cui siamo entrambi legati e di cui vogliamo portare avanti alcuni percorsi dedicandoci alle nuove generazioni. Joe Grillo, per esempio, ha molti punti di contatto con la visione dello Studio d’Arte Raffaelli e, come altri giovani americani che seguiamo e proporremo, è un frequentatore dello studio di Donald Baechler, artista di punta di Raffaelli. Al contempo abbiamo
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in programma collaborazioni con artisti che daranno voce ad altri linguaggi; un’idea per il futuro è volgere lo sguardo a oriente… In progress ci sarà anche un lancio come galleria virtuale, in quale maniera pensate di coordinare aspetto fisico e immateriale nella vostra attività? Il primo step sarà quello di “digitalizzare” l’esperienza della galleria d’arte attraverso una concomitanza di contenuti fisici e virtuali. Una volta raggiunto questo obiettivo, puntiamo a sviluppare nuovi progetti e contenuti site-specific per il web. Vi sentite più indie o institutional? Rock’n’Roll! Cellar Contemporary via San Martino 52, Trento info@cellarcontemporary.com www.cellarcontemporary.com
SPAZIO KN Kn parte da illustri natali: il titolo del fondamentale saggio del 1935 di Carlo Belli sull’astrazione in uno spazio che ospita per la sua apertura un progetto stratificato, relazionale e performativo a cura del collettivo Mali Weil, più incontri, seminari e open studio. Dove si trova la sintesi tra questi due estremi? Federico Mazzonelli: La sigla Kn ci sembrava potesse racchiudere una serie di possibilità interessanti; è diretta e impersonale, facile da ricordare, al tempo stesso richiama un testo affascinante che appartiene alla storia del Novecento, può inoltre rimandare, in forma abbreviata, al verbo inglese to know, che in termini generici significa conoscere, apprendere, imparare. Il testo di Belli, nello specifico, è sempre stato letto in una chiave storico-critica che l’ha confinato alla discussione legata all’astrattismo; personalmente sono sempre stato colpito, più che dai suoi esiti formali, dall’atteggiamento eclettico, a tratti sperimentale, sicuramente anticonformista, attraverso il quale Belli si è relazionato con quella materia instabile, quell’orizzonte vasto e difficilmente riassumibile che è l’arte. Sulle pareti sono esposte fotografie che si relazionano o interferiscono con l’attuale attività core dello spazio. Si tratta forse di un suggerimento sulla possibilità di un’attività espositiva più tradizionale e galleristica? Il progetto inaugurale prevedeva la divisione dello spazio in due entità formali distinte
e al tempo stesso lo sconfinamento reciproco di queste due polarità, l’una nell’altra, l’una verso l’altra. Da un lato quella che definiamo di fatto una mostra, con una serie di opere fotografiche degli autori più diversi, da Zanele Muholi a Tobias Zielony, da Emmett Williams a Malerie Marder, il cui denominatore comune era semplicemente la presenza di uno o più corpi all’interno dello scatto presentato; dall’altro il collettivo Mali Weil con un progetto dedicato invece al corpo politico dell’individuo, un percorso fatto di oggetti, letture, incontri e situazioni che si sono andate sviluppando nelle settimane successive all’apertura e che hanno coinvolto il pubblico durante tutto il mese di apertura della mostra. A che pubblico si rivolge Kn? E che dinamiche mira a riattivare nel contesto locale? La volontà di Spazio Kn è quella di sviluppare progetti dedicati alla ricerca contemporanea; il nostro è un dialogo aperto con gli artisti, le gallerie, le associazioni e chiunque abbia un valore, in termini di qualità, di proposta culturale e conoscitiva, da offrire e condividere con noi e con il pubblico. Il percorso sarà scandito dalla presentazione di progetti specifici sviluppati da artisti o curatori. A marzo presenteremo la mostra dell’artista cinese Wang Zhongjie curata da Monica Demattè, direttrice di Mo Art Space di Zhengzhou. Tuttavia l’aspetto che più ci interessa è che queste esperienze siano sempre accompagnate da una serie di attività da offrire al pubblico; si tratta dell’opportunità, a nostro modo di vedere, di aprirsi alla collettività e contribuire, anche attraverso l’arte contemporanea, alla vita di
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un territorio come il nostro che negli ultimi due decenni sta diventando molto ricettivo e vivace sul piano sociale e culturale, grazie ad un investimento pubblico importante, incentrato sulla ricerca, l’università e i musei. Spazio Kn in una parola… Utopia. Spazio KN vicolo dei Dall’Armi 15, Trento spaziokn@gmail.com www.facebook.com/spazioKn
Spazio Kn, Trento
MOON ZOO di E L E N A M O N Z O
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CREARE ARTE PER TUTTI: KEITH HARING A MILANO MILANO | PALAZZO REALE | 21 FEBBRAIO – 18 GIUGNO 2017 di FRANCESCA CAPUTO
Ci sono molti motivi per non perdere la grande mostra, Keith Haring. About Art, a cura di Gianni Mercurio, aperta fino al 18 giugno 2017, a Palazzo Reale di Milano. A cominciare dalla quantità di opere selezionate, centodieci, con una varietà di materiali e supporti, che evidenziano la capacità dell’artista di fondere modalità diverse; per l’allestimento convincente, in cui i lavori, immersi nel buio, sembrano prendere vita, esaltandone esuberanza visiva, ritmo e movimento; perché sono passati dodici anni dalla rassegna The Keith Haring Show in Triennale. E, non ultimo, per la scrittura espositiva che consente di approfondire la poetica di Haring alla luce delle infinite e poliedriche correlazioni con i suoi riferimenti artistici, culturali, letterari, musicali. Un ritratto che restituisce il senso e la complessità della sua pratica artistica, la profonda consapevolezza della storia dell’arte, da cui attinse matrici iconografiche per approdare ad un linguaggio personalissimo, fatto di segni sintetici e simboli archetipici. Un repertorio formale volutamente semplice e riconoscibile, che aveva radici storiche profonde.
Percorrendo la mostra si comprende come ogni singola opera contenga una quantità impressionante di informazioni che compongono un enorme affresco sull’esistenza, con le sue gioie e crudezze. Un inno alla vita in tutte le sue sfumature, dall’infantile al drammatico, con un irresistibile mix di leggerezza e impegno.
Il percorso si snoda in cinque sezioni che procedono per tematiche e affinità. Le opere sono messe a confronto con le fonti che lo hanno ispirato: vasi antichi, maschere africane, copie della Lupa Capitolina e della Centauromachia di Michelangelo, un modello in scala della Colonna Traiana, le tavole del Rinascimento italiano, i dipinti del primo Jackson Pollock, di Dubuffet, Picasso, Klee, Chagall, Jasper Johns, Pierre Alechinsky, le foto di Carl Fischer. Fino alle icone popolari del suo tempo: da Mickey Mouse e i comics, alla condivisione dello spirito controculturale della Beat Generation e della psichedelia – i cui esiti erano ancora evidenti nell’America di fine anni ’70 e ’80 – al milieu culturale newyorkese, con la nascente scena writer, hip hop, rap, dance e punk.
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Keith Haring in un ritratto di Timothy Greenfield Sanders 1986, stampa a contatto cm 28x36 Nella pagina a fianco, in alto: Keith Haring, Untitled, settembre 1984, acrilico su tela, cm 152,4x304,5, Collection of Nick Rhodes © Keith Haring Foundation
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La linea nera traccia senza soluzione di continuità sagome che saturano gli spazi. Le superfici coloratissime traboccano dei suoi Radiant Child, di cuori pulsanti, bimbi a gattoni, omini stilizzati e figure zoomorfe che danzano a passo di break dance, ma anche di immagini intense e potenti, di peccati e peccatori, crocifissioni e visioni apocalittiche alla Bosch, di uomini schiacciati da robot, funghi atomici, spermatozoi come serpenti, banconote e televisori come fonti di tentazione. Con una sintesi di forme e concetti agli elementi primari del segno, Haring si espresse senza compromessi in difesa dei diritti, della libertà individuale, della giustizia sociale; contro la diffusione dell’Aids e del crack, la discriminazione, il pericolo del nucleare, del capitalismo, consumismo e massificazione. Interessante l’ultima sala, interamente dedicata agli ormai celebri subway drawing, migliaia di disegni tracciati nella metropolitana newyorkese, durante i primi anni ’80, con gesso su carta nera che ricopriva i poster pubblicitari dalla licenza scaduta. Oltre agli esemplari superstiti, alcuni filmati documentano le sue incursioni suburbane, realizzate in pochi minuti, senza concedersi la possibilità di correggere eventuali errori, proprio come una performance. Felice esempio, sin dagli esordi, della necessità di creare arte per tutti, della capacità di comunicare con immediatezza, oltrepassando confini culturali, generazionali, temporali. Un’affermazione di poetica che non ha mai smesso di perseguire nell’arco della sua breve vita.
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Keith Haring. About Art a cura di Gianni Mercurio
Info: +39 02 54915 www.mostraharing.it www.palazzorealemilano.it
21 febbraio – 18 giugno 2017 Palazzo Reale Piazza del Duomo 12, Milano
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In basso: Keith Haring, Tree of Life, 1985, acrilico su tela, cm 152,5x152,5, collezione privata © Keith Haring Foundation
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PATRIZIA NOVELLO… UNA NATURA ASTRATTA MILANO | NUOVA GALLERIA MORONE | 9 FEBBRAIO – 1 APRILE 2017 Intervista a PATRIZIA NOVELLO di Matteo Galbiati
Colore, paesaggio, astrazione. Sono gli “ingredienti” con cui Patrizia Novello (1978) ci suggerisce, in questa circostanza, la sua nuova visione – o una sua peculiare nuova modalità per intenderla – dell’ambiente reale: con la mostra, nella Project Room della Nuova Galleria Morone, arriva, infatti, a compimento con un progetto espositivo Geografia, serie completamente inedita, che, dopo alcuni anni di attesa, trova adesso un felice momento per essere ammirata dal pubblico. In concomitanza con la grande personale di Fausta Squatriti che la galleria milanese condivide con la Triennale di Milano e Gallerie d’Italia, la presenza di questo affascinante progetto ci permette l’occasione di questa intervista con cui raccogliere la testimonianza e comporre una breve ricognizione sul raffinato pensiero concettuale della giovane artista: Nella Project Room della Nuova Galleria Morone vediamo un’inedita (le opere risalgono al 2015 n.d.r.) serie di tuoi lavori, quale genesi hanno avuto? Geografia nasce da una serie di 21 cartoline realmente esistenti che ritraggono 21 “punti” di uno stesso luogo, un paese del quale non viene mai svelata l’identità. Le cartoline originali riproducono diversi scorci dislocati all’interno dell’area dello stesso comune. Dall’osservazione delle immagini riprodotte è
nato Geografia #1, una serie di 21 carte millimetrate nelle quali ho trasformato il soggetto reale raffigurato in foto in una sintesi cromatica formalmente astratta. Ho preso in analisi i colori impressi sui rispettivi margini, destro e sinistro, di ogni singola cartolina e ho attribuito ad ognuno di essi un tono di pastello che tanto più si avvicinasse all’originale stampato. I colori danno vita a campiture orizzontali che si alternano e sovrappongono in una sequenza dettata dalla fonte originaria. L’ingombro della parte “dipinta” corrisponde alle esatte dimensioni delle cartoline, ma l’immagine al suo interno è virtualmente divisa a metà; si crea un doppio punto di vista dello stesso soggetto, messo a fuoco da un’angolazione leggermente diversa. Sul retro di ogni cartolina vi è stampata la didascalia esplicativa dello scorcio riprodotto nelle tre lingue francese, italiano ed inglese. La sequenza dei 21 luoghi dà origine a Geografia #2, opera su carta nella quale ho dattiloscritto (con la vecchia Olivetti Lettera 22) l’elenco nelle tre lingue sopra citate. La sovrapposizione delle parole rende quasi del tutto illeggibile il messaggio. Il mio intento era di creare un corto circuito tra l’esplicita dichiarazione dei luoghi – battendo a macchina l’elenco – e la sua negazione, impedendo la leggibilità attraverso l’operazione di stratificazione delle parole. Le stesse parole in Geografia #4 vengono riportate in una scala
di 10:1 sulla tela dipinta ad olio. La dislocazione dei nomi nello spazio della tela è in rapporto alla reale posizione geografica dell’area presa in esame. Quali chiavi di accesso ha lo sguardo di uno spettatore per dedurre l’origine dell’immagine paesaggistica e il senso di trasformazione che porta ad altro? Quale strumenti fornisci? Immaginando che lo spettatore non sappia niente della genesi del lavoro, la chiave di lettura dell’intero progetto risiede nel titolo Geografia. Per mia volontà non svelo il paese al quale fanno riferimento le cartoline. Abbiamo qualche indizio nelle didascalie, ma tutto rimane in fondo non dichiarato esplicitamente. Le 21 opere su carta millimetrata richiamano visivamente l’idea del paesaggio in quanto i colori presenti sono quelli della natura: gli azzurri dei cieli, i verdi della vegetazione, gli ocra e i bruni della terra, i grigi della pietra e il nero delle ombre o della notte. In questo lavoro troviamo tre coordinate principali della tua opera: la figurazione (sono paesaggi), l’essenza minima della visione (riduci tutto all’estremo), il colore (protagonista vibrante dell’opera) che si fa forma-materia. Come s’inseriscono questi lavori così apparentemente logici nel com-
Patrizia Novello, Geografia #1, 2015, pastello su carta, installazione composta da 21 carte. Courtesy: Nuova Galleria Morone, Milano 34
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plesso della tua riflessione artistica? Come sempre nel mio modus operandi prima nasce l’idea del progetto e successivamente cerco la tecnica espressiva che meglio si adatta a dare un corpo a tutto. Utilizzo diverse tecniche e materiali, mi piace sperimentare e indagare la pittura nelle sue infinite potenzialità. Nelle 21 carte, ad esempio, mi sono servita dei pastelli colorati cercando di ottenere un effetto cromatico il più compatto ed omogeneo possibile. Sono dei piccoli “concentrati” di colore, se paragonati a tanta della mia produzione recente! In questa mostra si è anche aggiunto un linguaggio del tutto nuovo per me: l’installazione. In Geografia #3 un tubo di luce al neon è posto al di sopra di tre carte dattiloscritte senza inchiostro. La luce radente è il mezzo immateriale grazie al quale riusciamo a decifrare le tre carte dattiloscritte che ad una prima visione ci appaiono bianche, spoglie, prive di contenuto. L’impressione meccanica della macchina per scrivere sulla carta la marchia in modo indelebile, ma nel paradosso di essere invisibile in quanto senza inchiostro. Come dialogano queste opere con l’altra in cui ritorna l’intelligibilità della parola scritta? Geografia è un progetto che si articola in quattro momenti: la serie di 21 carte millimetrate, una carta dattiloscritta, l’installazione con tre carte e luce al neon ed infine una tela. Tutto nasce da 21 cartoline. La mia intenzione è di creare un progetto “circolare”, nel quale ogni opera sia legata alla precedente e anche a quella successiva. L’idea è che tutto parli della stessa cosa, ma attraverso mezzi espressivi diversi. La parola dunque per me, in questo caso, equivale al colore, sono due modi diversi di descrivere il medesimo soggetto.
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aspettare un po’ ma presentare il mio lavoro in contemporanea con la grande mostra di Fausta Squatriti. Sono felice di questa occasione e lusingata nel poter esporre le mie opere durante lo stesso arco di tempo. È sempre interessante e stimolante mettersi a confronto con artisti affermati. Penso che ciò che più della mia ricerca si avvicina alla sua produzione sia la logica progettuale del lavoro ed il rigore formale strettamente legato alla severità delle forme geometriche. Patrizia Novello. Geografia a cura di Chiara Gatti 9 febbraio – 1 aprile 2017
Quali sviluppi ed evoluzioni potrebbero nascere – o sono nati – da queste opere? Quale orientamento “nuovo” ti suggeriscono? Quali altre vie potresti esplorare? Geografia è un progetto che ho realizzato nell’arco di alcuni mesi e che avevo concepito in queste sue quattro “tappe”. A distanza di tempo mi piacerebbe lavorare ad un libro d’artista legato a questo lavoro. La tua mostra è presentata in contemporanea con la grande personale di Fausta Squatriti è stata una scelta voluta? Quali spunti condividi della sua poetica? In cosa ti senti vicina al suo lavoro? Dal momento in cui ho presentato Geografia a Diego Viapiana, sono poi trascorsi dei mesi prima che ci fosse una data certa da appuntare in calendario per questa mostra. La scelta chiaramente è stata del gallerista, ha preferito
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Project Room Nuova Galleria Morone via Nerino 3, Milano Orari: da lunedì a venerdì ore 11.00-19.00; sabato ore 15.00-19.00 Info: +39 02 72001994 info@nuovagalleriamorone.com www.nuovagalleriamorone.com
Dall’alto: Patrizia Novello. Geografia, veduta della mostra, Project Room, Nuova Galleria Morone, Milano Patrizia Novello, Geografia #4, 2015, olio su tela, cm 150x200. Courtesy: Nuova Galleria Morone, Milano
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PAOLO IACCHETTI: ESSENZA CONCRETA E INTELLETTUALE DEL COLORE MILANO | GALLERIA MONOPOLI | FINO ALL’11 MARZO 2017 Intervista a PAOLO IACCHETTI di Matteo Galbiati
In occasione del suo ritorno sulla scena milanese con una mostra personale, abbiamo intervistato Paolo Iacchetti, maestro la cui coerente e attenta riflessione sul colore l’ha reso un vero e proprio intellettuale della poetica cromatica. Nella mostra Red Yellow and Blue presso la Galleria Monopoli, Iacchetti si presenta con un nucleo di opere inedite e appartenenti alle ultime fasi della sua ricerca: tra pulsioni vibranti e stratificazioni fisiche il colore qui assume anche l’identità di un’entità fisica, tangibile che, superando la dimensione pit-
torica, osa a spingersi nell’esplorazione di un di-segno plastico-scultoreo. La sostanza del dipingere si fa esperienza potente e concreta, tangibile e ancor più verificabile e sollecita della realtà profonda e intellettuale che vuole sondare: l’esperienza dello sguardo si potenzia e rafforza nell’incontro del suo colore portando oltre la ragione della sua stessa visione. Ecco il nostro breve dialogo con l’artista: Quali sono le opere che compongono questa mostra?
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Le opere sono quadri dell’ultimo periodo ed una scultura. Sono lavori recenti e certa maturazione di una ricerca sulla linea che è iniziata sette anni fa. Il titolo dice Red Yellow and Blue – giallo, rosso e blu – i tre colori primari: una dichiarazione di intenti? Il colore primario non è un mio fine o un pensiero fisso. Va da sé che arrivare ai colori fondanti la nostra cultura più che la nostra percezione è una sfida. Perché nominalmente i colori sono sempre gli stessi: di fat-
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to ogni uno è un mondo. Oppure vorrei fosse un mondo quel mondo di quel colore di quel pezzo di pittura che è un dato quadro. Come artista ti sei sempre impegnato a ricercare l’essenza visiva e intellettuale del colore, come si sono pronunciate nel tempo le tue opere? Come è mutato il segno del tuo cromatismo? Credo che colore e senso della nostra vita – complessivo ed anche assoluto – siano stati i due termini di riferimento dall’inizio. Termini, uno concreto l’altro aspirazionale: non ideale. Ho iniziato muovendo il colore sulla tela fino a trovare delle immagini: questo è stato il mio inizio. Poi ho trovato e ritrovato gli elementi fondanti qualsiasi espressione. Linea e colore sono questi elementi e su questo ho realizzato immagini a partire da quegli elementi. Infine ho seguito le possibilità che solamente un lavoro continuativo consentono nella relazione di questi due elementi. Astrazione dunque come dato linguistico, invenzione di un oggetto nel mondo che apre sensazioni nuove sul mondo, un senso della bellezza inedito. Ultimamente hai portato il colore a diventare segno netto sulla tela – con “collage” peculiari che sembrano fitte tramature e intrecci – e poi lo hai reso concreto e plastico nello spazio, una vera e propria scultura cromatica. Cosa ci dici di questa parte della tua ricerca? Uno degli sforzi principali è stato quello di non cadere in luoghi già visti. Quindi ho dovuto smontare i luoghi comuni: nello specifico, per quanto riguarda il colore una facile empatia ed atmosfericità, e per quanto riguarda la linea il suo essere già di fatto progetto. Per quanto riguarda la linea, il passaggio al ritaglio della carta mi ha consentito, su suggerimento di Matisse, di ritrovare possibilità non scontate alla nostra mente. Sono convinto che la nostra mente proceda per schemi di visione complessi, plastici, difficilmente sondabili, incomprimibili. La forma, il colore ma, direi la pittura è fermare una intuizione che va oltre: e questo lo avvertiamo, perché l’osservazione del quadro o dell’oggetto tende a non esaurirsi, tende a sollecitare la nostra percezione rinnovandola. A quali orizzonti stai indirizzando il tuo lavoro e la riflessione connessa alla tua poetica? Credo continuerò su questa strada che è stata prolifica: all’inizio non immaginavo gli esiti. Sono sempre stato felice di vedere che la strada intrapresa mi consentisse nuovi progetti ed approfondimenti. Da questo
punto di vista la scultura è stata una sorpresa emersa solo ed esclusivamente dalla pratica del lavoro. Come vivi tu, da uomo e da artista, i cambiamenti di tali tensioni evolutive, spinte e mosse dal rapporto stretto con la fisicità e la spiritualità del colore? Personalmente credo che alcuni risultati possano essere solamente individualizzati. Mi spiego, ognuno di noi è un individuo singolo e solamente attraverso la propria specificità ed individualità può raggiungere elementi estetici originali. Naturalmente questo è un rischio per il semplice fatto che l’originalità non è garantita. In ogni caso questa è la possibilità, dato che la spiritualità dell’uomo è sempre la stessa mentre i tempi continuamente cambiano, quindi forme nuove devono adeguarsi al senso profondo della vita.
progetto nuovo ma anche questo nasce in modo naturale dalla mia ricerca pittorica. Direi che, come la scultura, anche questo è qualcosa che ho trovato all’interno del lavoro. Paolo Iacchetti. Red Yellow and Blue a cura di Flaminio Gualdoni 19 gennaio – 11 marzo 2017 Galleria Monopoli via Giovanni Ventura 6, Milano Orari: da martedì a sabato 14.00-19.00 Info: +39 02 3659364; +39 333 5946896 info@galleriamonopoli.com www.galleriamonopoli.com
Quale senso profondo ricerchi e pensi di rendere deducibile nell’esperienza dell’altro, di chi guarda? Vorrei stimolare curiosità e quindi meraviglia in quello che realizzo in modo tale che sorga la domanda perché è stato fatto questo? Che cosa sto guardando? Perché è quello che sto guardando non è stabile? Che ordine di relazione sto intrattenendo con ciò che guardo? Quali progetti vuoi realizzare? A cosa stai lavorando? Ho quasi portato a termine una installazione che inaugurerò il 25 febbraio al Museo di Lissone. È basata principalmente sulla linea e si dispone come decorazione. È un
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In queste pagine: Paolo Iacchetti. Red Yellow and Blue, veduta della mostra, Galleria Monopoli, Milano. Foto: Paolo Vandrasch
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ECCENTRIC SPACES. L’EPOS DELLE MUTAZIONI SPAZIALI TORINO | RICCARDO COSTANTINI CONTEMPORARY | 17 FEBBRAIO – 1 APRILE 2017 di MICHELE BRAMANTE
Da Riccardo Costantini Contemporary ha inaugurato una mostra di cinque artiste, a cura di Elena Inchingolo e Paola Stroppiana, ispirata al saggio La prospettiva come forma simbolica di Erwin Panofsky, dove la costruzione dello spazio è subordinata alle forme percettive relative alle epoche storiche e antropologiche. Al contrario di quanto definito nella persuasione sensoriale ordinaria, che attua un rapporto di sintesi tra coscienza e mondo apparentemente stabile, lo spazio è una materia duttile, dipendente da fattori discontinui legati a condizioni fisiche, neuropsichiche e culturali. La scienza lo ha piegato
con formule relativistiche, dopo che le sfere celesti hanno mantenuto la Terra come centro fino all’età moderna, e dopo che lo spazio assoluto newtoniano ha subito un temporaneo trasferimento all’interno delle strutture pure del pensiero con la critica della ragione di Kant. Comprese le inconsapevoli trasformazioni cui lo spazio può essere suscettibile, le cinque artiste vi applicano una volontà formatrice manipolandolo attraverso le sue forme, le relazioni di distanza tra i soggetti, la tensione inclusiva tra decorazione astratta e figurazione e le proiezioni inquiete di una psiche incerta.
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Caroline Corbasson è intervenuta su una serie di mappe astronomiche le cui costellazioni si distribuiscono in superficie per ritmarla con un motivo puntiforme. Le fotografie stellari registrano una strana anomalia che pulsa dislocandosi tra i radianti fin quasi a far insorgere l’ipotesi di un misterioso codice di comunicazione. Si tratta, in realtà, di un’area a gravità infinita che non lascia irradiare la luce: un buco nero, un’aberrazione cosmica divoratrice di spazio. Dana Levy trasferisce la stessa inquietudine spaziale all’interno di ambienti domestici. Vecchie fotografie di appartamenti arredati in stile Decò, rassicuranti per il quieto
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comfort borghese, si animano di presagi che ne incrinano l’immobile silenzio. Pioggia e vento trovano il varco per instillare l’arbitrio e la caoticità della natura entro le difese della vita quotidiana, esponendo alla precarietà anche le utopie rappresentate dal modernismo degli interni. Le opere di Debbie Lawson, pur ricorrendo a media non tradizionali, attivano tensioni tipiche della storia dell’arte recente. Il tappeto è un readymade che sovverte la funzione in rappresentazione attraverso un rovesciamento semiotico, in parallelo ad altre contraddizioni irrisolte tra astrazione e figurazione, bidimensionalità e volume, figura e sfondo. Osservando l’opera, la natura in
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aggetto confonde le sue forme nella trama ornamentale del tappeto, e richiama l’osservatore ad uno spostamento laterale per il riconoscimento dei profili. Anche nelle opere di Dawson la natura deforma il prodotto destinato all’interno domestico, chiudendo in un rebus senza soluzione le differenti serie di opposizioni dialettiche. Noa Pane modella plasticamente un materiale amorfo come l’aria mettendo in risalto l’accidentalità della forma nella casualità dell’informe. Ogni tipo di materiale è disponibile nelle sue sculture per incarnare una resistenza che imbriglia lo sviluppo dei volumi flessibili, contiene le forze centrifughe di espansione formale in una stasi con-
trastata, dando luogo a composizioni che rendono oggetto lo spazio incorporandolo mentre lo occupano. Le alterazioni più significative avvengono quando lo spazio è inteso come relazione, come proiezione psichica di vicinanza e lontananza con l’altro. Le maschere di Anila Rubiku evocano la finzione sociale cui ci sottoponiamo per regolare i rapporti umani, mentre alludono, altresì, al loro potere ancestrale di scongiurare il male. Anche le relazioni sono, dunque, un gioco di rappresentazioni inautentiche, apparenza e difesa si sovrappongono contro il pericolo incarnato nei soggetti esterni. D’altra parte, le catene materializzano il simbolo di una unione che scavalca i primitivi conflitti per saldare tra gli esseri l’essenza comune. Lo spazio cartesiano riconosciuto dal senso comune si rivela, in questa mostra, come un episodio entro un mito delle variazioni spaziali che le opere di Eccentric Spaces traducono in esperienza variabile per l’osservatore, situato – parafrasando il teologo Alano di Lilla – in una sfera infinita il cui centro è ovunque e la circonferenza in nessun luogo. “Eccentric Spaces”. Caroline Corbasson, Debbie Lawson, Dana Levy, Noa Pane, Anila Rubiku a cura di Elena Inchingolo e Paola Stroppiana 17 febbraio – 1 aprile 2017 Riccardo Costantini Contemporary Via Giolitti 51, Torino Info: +39 0118141099 info@rccontemporary.com
Noa Pane, Compression 3, 2016. “Eccentric Spaces”, veduta della mostra, Riccardo Costantini Contemporary, Torino Nella pagina a fianco: Anila Rubiku, This is the end my friend, 2016
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IL LAVORO “IN VIDEO”: 14 ARTISTI INTERPRETANO IL MONDO PRODUTTIVO BOLOGNA | MAST GALLERY | 25 GENNAIO – 17 APRILE 2017 di MATTEO GALBIATI
Senza tradire il proprio orientamento e il percorso fino ad oggi costruito con le sue proposte, la Mast Gallery di Bologna ha attualmente in corso una mostra che, proprio nel quadro delle sue scelte, con coerenza mantiene vivo il desiderio, attraverso l’arte, di narrare il mondo del lavoro, dell’industria e delle attività produttive, ma, in questa occasione, lo fa con una novità sostanziale che rende ancor più emozionante e intrigante la partecipazione e la visita a quest’ultima sua esposizione. Se, infatti, fino ad ora la fotografia era stata l’indiscussa protagonista delle mostre promosse dalla Fondazione bolognese, gli scatti di importanti maestri internazionali avevano abituato il pubblico ad un codice preciso e, in fondo, atteso, ora ci si imbatte in qualcosa di profondamente differente: per la prima volta l’intera mostra non si costruisce attraverso opere fotografiche ma, sempre con scelte articolate, varie e differenti, raccoglie l’espressione di alcuni artisti che si sono cimentati – o si cimentano – con la narrazione video. È quindi il linguaggio della videoarte a generare un flusso vivo, attivo, dinamico di immagini che investono lo spettatore, trascinandolo in un vortice di sensazioni e letture variegate e intriganti, utili a vivificare quell’attenzione su temi
complessi e articolati la cui attualità scorre accanto alle vite di ciascuno di noi, condizionandoci, coinvolgendoci, e che riguardano non solo un altro possibile individuo lontano ed ipotetico, ma sono assolutamente pertinenti la nostra stessa esperienza di vita. Se da una parte non si prescinde mai dal valore e dall’importanza estetico-artistica dei codici linguistici dell’arte del presente, dall’altra la Mast Gallery sembra voler accentuare ora l’impressione suscitata nel visitatore su temi di più immediata, chiara e codificabile, attualità: l’azione simultanea, la stimolazione audio, la sollecitazione continua indotta dallo scorrere delle immagini, catalizzano lo sguardo e lo introducono alle diverse rappresentazioni e ai diversi contesti lavorativi letti e riproposti da tutti questi video. Le realtà raccolte o intuite, comprese o scoperte, trovate o ritrovate, sono percepite in un susseguirsi di piani semantici che, sotto l’abile regia del curatore Urs Stahel, sanno colpire e destare l’attenzione; sanno, nella singolarità, assecondare una collegialità di senso che matura sala dopo sala. I piani simbolici, la cronaca sociale, l’interpellanza di comportamenti e reazioni, i contrasti tra personaggi e scenari, vicini e lontani, favo-
riscono quindi, con logica immediatezza, una partecipazione di chi li ammira. Partecipazione che si attiva proprio dalla dissonante-consonante armonia delle interrogazione e delle riflessioni che, parallelamente allo scorrere delle immagini e del ritmo imposto loro dai rispettivi autori, sa sensibilizzare la coscienza e la conoscenza di quanto, spesso, ci dimentichiamo di vedere e che questi video, con sobria poesia, sanno ricordarci e infonderci. Il lavoro è azione – come annota lo stesso curatore della mostra – e ciascun video ne recepisce l’intrinseca espressione che, rielaborata e metabolizzata, si restituisce nella sua metamorfica mutabilità che, attraverso il mondo, definisce singolarmente le infinite identità umane. Lavoro in movimento. Lo sguardo della videocamera sul comportamento sociale ed economico a cura di Urs Stahel promossa da Fondazione MAST Artisti: Yuri Ancarani, Gaëlle Boucand, Chen Chieh-jen, Willie Doherty, Harun Farocki – Antje Ehmann, Pieter Hugo, Ali Kazma, Eva Leitolf, Armin Linke (in collaborazione con Irene Giardina, Herwig Hoffmann, Renato Rinaldi e Giuseppe Ielasi, Ulrike Barwanietz, Mark Teuscher, Masa Busic, Johanna Hoth, Samuel Korn), Gabriela Löffel, Ad Nuis, Julika Rudelius e Thomas Vroege 25 gennaio – 17 aprile 2017 Mast Gallery via Speranza 42, Bologna Orario: da martedì a domenica 10.00-19.00 Ingresso gratuito Info: +39 051 647 4345 staff@fondazionemast.org www.mast.org Lavoro in movimento. Lo sguardo della videocamera sul comportamento sociale ed economico, veduta della mostra (Rudelius), Mast Gallery, Bologna
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10.03. — 29.04.2017
Alessandro Casciaro Art Gallery
Via Cappuccini 26/a 39100 Bolzano. Italy
alessandrocasciaro.com
T/F +39 0471 975461
typeklang.com
Sissa Micheli On the Process of Shaping an Idea into Form through Mental Modelling
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TALES. ROBERT WILSON PER VILLA PANZA: AFFINITÀ ELETTIVE VARESE | VILLA E COLLEZIONE PANZA | 4 NOVEMBRE 2016 – 15 OTTOBRE 2017 di FRANCESCA CAPUTO
Una delle figure più rilevanti ed eclettiche del panorama artistico contemporaneo è di scena a Varese con Robert Wilson for Villa Panza. Tales, ampia personale presentata dal FAI – Fondo Ambiente Italiano, a cura di Noah Khoshbin e Anna Bernardini, fino al 15 ottobre 2017. Il percorso procede per silenzi, lentezza, empatia emozionale, attraversando come un filo rosso la Villa e la Collezione Panza: il parco con un lavoro inedito, e piano terra, scalone, primo piano con una galleria corposa di Video Portraits. In una sorta di scatola magica che crea e amplifica rispondenze e affinità – concettuali, poetiche, tematiche, estetiche – con il luogo, i suoi ambienti, gli arredamenti, le opere d’arte antica. E sopratutto in sintonia, sottile e profonda, con la collezione d’arte contemporanea, a cominciare dalla sensibilità per luce, spazio, colore, sino al discorso legato al tempo, al rapporto tra storia e contemporaneità, passato e presente, visibile e invisibile, minimalismo e visionarietà. Altre volte invece inducendo una sorta di cortocircuito che procede per eccessi, paradossi, opposizioni, provocazioni, nel rileggere l’humus della collezione Panza. Nell’intreccio di linguaggi, forme espressive, riferimenti iconografici, Wilson narra il suo concetto di ritratto, introducendo la dimensione temporale e una rappresentazione dilatata, attraverso lievi interferenze, ripetizione del gesto, minimi movimenti, un uso calibrato di luce e colore, composizione formale impeccabile. Le azioni rallentate tanto da sembrare fisse, immobili, non hanno né inizio né fine, sono ripetute in loop. La polisensorialità si riverbera dalla sovrastimolazione ottica a quella sonora, nel sottofondo musicale (coinvolgendo artisti del calibro di Lou Reed) e recitato con testi letterari. Nei video-ritratti prendono vita specie rare di animali in via d’estinzione, come la famiglia di gufi delle nevi, Kool, su uno sfondo a pois, o l’elegante pantera nera Ivory, dallo sguardo magnetico. Oltre ad attori e artisti
di fama internazionale. Sono immagini significanti che in un gioco continuo di ambivalenze, ambiguità – ironiche e malinconiche, a tratti bizzarre e disturbanti – sottraggono il soggetto ritratto all’ovvietà del suo status di icona dello star system, spostando il baricentro dall’interiorità all’esteriorità. Isabella Rossellini è trasfigurata in un’irriverente manga giapponese, coloratissimo e pop. Brad Pitt, avvolto in un’atmosfera che ricorda Fight Club, in boxer e calzini bianchi, si lascia bagnare della pioggia mentre si prepara a sparare verso l’osservatore con una pistola ad acqua. La bellezza diafana
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Robert Wilson, Brad Pitt, Attore, 2004, Colonna sonora / Michael Galasso, Voce e testo / Christopher Knowles, ©RW Work
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della cantante lirica Renee Fleming si anima lentamente e quasi si dissolve nell’evanescenza del bianco assoluto, mentre la grazia statuaria del corpo di Roberto Bolle sembra tratteggiato a china. L’artista Zhang Huan è in un ambiente paradisiaco, circondato da surreali farfalle svolazzanti, in contrapposizione alle sue prime azioni performative di denuncia sociale, quando sedeva nudo e coperto di mosche in una latrina pubblica. Il volto intenso dello scrittore dissidente Gao Xingjian, è mosso solo dal battito delle palpebre e dalla scritta a lapis: “La solitudine è la condizione necessaria della libertà”. Colpisce, vedere Robert Downey Jr. inerme, aprire gli occhi e respirare mentre una mano sconosciuta gli seziona il braccio sinistro, in omaggio a Lezione di anatomia del dottor Tulp, capolavoro di Rembrandt. Fino al nucleo dei Lady Gaga Portraits, già esposto al Louvre nel 2013 ed ora al suo debutto italiano, in cui la pop star reinterpreta grandi dipinti connessi al tema della morte: la Mademoiselle Caroline Riviér di Ingres (1806), La morte di Marat di David (1793), e diverse varianti della decollazione della Testa di San Giovanni Battista del Solario (1507). Se il confronto con i capolavori del Louvre appare troppo contaminato dai toni del mainstream e del remake, più convincente è il video Flying, dove è ritratta come
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una scultura dinamica vivente, durante lo shibari, antica pratica bondage di tradizione giapponese. Poetica e suggestiva, infine, è l’installazione permanente, A House for Giuseppe Panza, concepita come omaggio all’avventura intellettuale di Giuseppe Panza che cercò la dimensione dell’infinito attraverso l’arte. L’accesso alla piccola casa nel parco è impossibile. Dalle finestre si intravede un tableau vivant: una mano sembra fermare le pagine di un libro aperto sul tavolo mentre la voce di Wilson recita brani da Lettere a un giovane poeta di Rainer Maria Rilke, molto cari a Panza. In un’atmosfera di sospensione spaziotemporale tra inquietudine e atemporalità, Wilson celebra la comune sensibilità per l’introspezione, la contemplazione, la ricerca del silenzio e della solitudine interiore, l’amore per lo studio. Robert Wilson for Villa Panza. Tales a cura di Noah Khoshbin e Anna Bernardini 4 novembre 2016 – 15 ottobre 2017 Villa e Collezione Panza, Piazza Litta 1, Varese Info: www.villapanza.it
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Robert Wilson, Lady Gaga: The death of Marat, Cantautrice, 2013, Colonna sonora / Michael Galasso, Voce / Lady Gaga, ©RW Work
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L’“ESSENZA VENEZIANA” DELL’ULTIMO SANTOMASO MILANO | POLIART CONTEMPORARY | FINO AL 25 MARZO 2017 di MATTEO GALBIATI
La mostra, che la galleria PoliArt Contemporary presenta nella sua sede di Milano, offre, a quei visitatori che sanno cogliere l’eccezionalità di questa occasione, la possibilità di ammirare l’incanto poetico dell’arte di uno dei grandi maestri italiani del XX secolo – anche se ancora poco noto al grande pubblico – come Giuseppe Santomaso (1907-1990). Il nucleo di lavori, raccolti con passione e sapienza da Leonardo Conti per questo progetto espositivo, si concentra sull’ultimo, intenso e suggestivo, decennio dell’ampia e lunga attività di ricerca e sperimentazione dell’artista veneziano: la dedizione e la vocazione astratta, da lui percorse nell’arco dell’intera sua vita, qui trovano un’ulteriore forza espressiva che si alimenta della vivissima soluzione compositiva, della strabiliante inventiva cromatica e dell’unicità materica delle superfici, di cui i venti capolavori esposti attestano la qualità di una sensibilità immaginifica unica. Santomaso nelle 240 opere, che dipinge tra il 1980 e il 1990, accede ad una vigorosa e delicata dimensione lirica che tocca i vertici del proprio immaginario, diventando un sincero monumento alla sua infaticabile riflessione: nella sua opera ha voluto sempre guardare al dovere etico dell’arte cui assegna il compito di superare ideologie e conformismi per donare all’uomo la libertà, unica ed universale, dell’emozione. Questo gradiente d’impegno sociale per Santomaso si fa pratica agita, fondamentale e imprescindibile, nel dovere dell’artista; in lui l’impegno etico si amalgama e miscela alla struttura delle opere come unico status che unisce il valore artistico alla dimensione umana. L’estetica non si svincola o slega completamente dall’esperienza di vita e, acquisendo le tensioni della memoria, attualizza nell’istante della visione la folgorazione dell’apparire di una soglia il cui orizzonte diventa ampio, e dal particolare si fa capace di accogliere l’universale. Le suggestioni dei colori, delle luci, delle
forme, dei ricordi di Santomaso sanno riscriversi nell’opera in una debordante pulsazione vitale che sprigiona agli occhi la bellezza di qualcosa ancora in divenire, mai integralmente compiuto e definitivo. Siamo noi a completarne il percorso, noi siamo i referenti della sua poetica. Noi cogliamo lo spunto, la spinta a varcare le soglie di dimensioni ulteriori, sconosciute o mai del
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tutto esplorate: queste sue opere ci instillano modelli di esistenze che negano ogni riferimento personale. Le sue opere frantumano e smaterializzano l’immagine del reale con quella dell’astrazione; le forme s’incrociano a contaminarsi con le sensazioni dell’animo. In questa miscela che accoppia muri veneziani, paesaggi lagunari, culture che si parlano, si desta
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ed eleva a potenza dello spirito il lirismo cromatico e materico di Santomaso, le cui evidenze visibili sanno incontrare e sposarsi con spiriti archetipali che, dal ricordo del passato all’istante presente, si vivificano reciprocamente. La grazia delle opere che la galleria milanese ci presenta fa sentire forte l’intonazione di una magica alchimia che attraversa atmosfere, paesaggi, composizioni che, oltrepassando i confini in tensione tra figurazione e astrazione, si arricchisce della musica piena dell’esistenza. L’arte qui pulsa e freme, al contempo, di vita vera e di immaginazione fantastica e, grazie alle partiture di Santomaso, si concede nell’incanto di tutti i suoi segreti.
Giuseppe Santomaso. L’astrazione emozionante. L’ultimo grande periodo 1980-1990, vedute della mostra, PoliArt Contemporary, Milano Nella pagina a fianco: Giuseppe Santomaso, Spazio e colore del pensiero, 1987, cm 100×81
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Giuseppe Santomaso. L’astrazione emozionante. L’ultimo grande periodo 1980-1990 a cura di Leonardo Conti catalogo Edizioni PoliArt Contemporary a cura di Leonardo Conti (presentazione al finissage del 25 marzo 2017) 14 gennaio – 25 marzo 2017 PoliArt Contemporary Viale Gran Sasso 35, Milano Info: +39 02 70636109; +39 388 6016501 info@galleriapoliart.com www.galleriapoliart.com
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“GARE DE L’EST”. UN INVITO A VIVISEZIONARE LA MATERIA PADOVA | PALAZZO DEL BO | 13 DICEMBRE 2016 – 15 MARZO 2017 di LUCIA LONGHI
Chissà cosa avrebbero pensato gli anatomisti del Cinquecento nel vedere una scultura sul tavolo di dissezione dell’aula di anatomia dell’Università di Padova. Avrebbero colto la sfida a cercare le correlazioni tra l’analisi di un corpo e l’analisi della materia? Questo è quello che propone la mostra Gare de l’Est: un invito a vivisezionare la materia, sia essa marmo, pigmento o organo umano, e trovare le affinità tra diverse strutture, quelle di un organo vivente e quelle create dall’uomo. La mostra, allestita nel Teatro Anatomico dell’Università di Padova, con opere di Alberto Burri, Nicola Samorì e Gustave Joseph
Witkowski, propone un percorso di accostamenti che esaltano le particolarità e la storia del luogo. Infatti, che si voglia ispezionare un materiale, come il marmo, o un tessuto, come la pelle, ciò che serve è un sistema che aiuti il senso primario per questo tipo di indagine: la vista. A forma di cono rovesciato, il teatro anatomico è un luogo straordinario poiché in esso la prospettiva viene usata per aiutare l’occhio a vedere i dettagli, e dunque proprio dell’occhio ne imita la struttura il funzionamento. A donare l’ispirazione per questa mostra è stato il De visione del medico Girolamo Fabrici d’Acquapendente (1600, forse l’ideatore del progetto)
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dove compaiono immagini dell’occhio che ricordano la struttura del teatro. Articolato in sei ordini di piani ogivali concentrici, che si restringono fino ad arrivare al focus, permetteva ad osservatori distanti di assistere alla dissezione del corpo umano da vicino. L’esperimento che oggi invece viene mostrato è la dissezione della materia artistica, sventrata e offerta al pubblico in ogni sua possibile forma. La materia trattata come tessuto vivo è il marmo, nel caso di Nicola Samorì, noto per la sapiente rappresentazione del corpo umano, da un lato, e dall’altro dello stravolgimento della sua conformazione, che egli
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opera sia in pittura che in scultura. Nell’opera Lucy (2016) una forma che ricorda una testa esplode in una sfaccettatura di guizzi che ricorda la fioritura di un ramo o un’eruzione solare. Ci viene offerto l’interno del corpo, come in una dissezione anatomica. Per questa scultura infatti il modello è stato la parte interna disseccata di un broccolo romano, che ha una struttura frattale straordinaria e le sue ramificazioni, anche quando recise, mantengono la proiezione verso l’alto, con la direzione di un cono rovesciato (ossia la struttura del teatro ribaltata). La superficie della testa, segnata da solchi e bolle, ricorda quella della luna, che è anche fisicamente presente nel marmo sotto for-
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ma di frammento incastonato. Quella di Samorì è una danza di rimandi tra diversi elementi naturali, che prosegue nell’opera a muro nella sala attigua: Primo bianco (2016) è una superficie marmorea che si comporta come elemento organico e malleabile, colando dal centro del riquadro e invadendo la cornice, anch’essa in marmo. Il Cretto di Burri (1974) è un ragionamento sul comportamento di diversi materiali, naturali e non, mescolati e fatti essiccare. L’impasto, lasciato vivere e reagire, regala crepe che rievocano una terra argillosa seccata dal sole o una pelle umana screpolata dal tempo. Infine è esposta una tavola anatomica a fogli sovrapposti di Gustave J. A. Witkowski (1878,
un oggetto a metà tra il libro didattico e l’oggetto artistico) la cui presenza sancisce il legame tra la struttura dell’organo della vista dell’uomo, e la struttura per la vista che l’uomo ha creato, il teatro. Gare de l’Est è il terzo appuntamento del progetto di Chiara Ianeselli Les Gares (Il primo appuntamento, Gare du Nord, si è tenuto nel 2015 presso l’Anatomical Theater de Waag di Amsterdam, dove Rembrandt ha dipinto la famosa Anatomy Lesson of Doctor Tulp. Il secondo, Gare du Sud, è stato al Teatro Anatomico dell’Archiginnasio di Bologna), in cui gli artisti sono invitati a indagare le strutture del corpo umano, degli organismi della natura e dei teatri anatomici d’Europa, che così riprendono vita, invitandoci a osservare le infinite connessioni tra le discipline di studio nella storia. Gare de l’Est. Alberto Burri, Nicola Samorì e Gustave Joseph Witkowski a cura di Chiara Ianeselli Con la collaborazione di Giovanna Valenzano e Maurizio Rippa Bonati e il patrocinio dell’Università degli Studi di Padova Archivio Antico 13 dicembre 2016 – 15 marzo 2017 Palazzo del Bo – Teatro Anatomico dell’Università di Padova via VIII Febbraio 2, Padova Info: +39 049 8273047 lapostadelbo@unipd.it http://unipd.it
Nicola Samorì, Lucy, 2016, marmo bianco puro di Carrara, frammento lunare, cm 90x35x30. Veduta dell’installazione a Palazzo Bo, Padova. Foto: Rolando Paolo Guerzoni Nella pagina a fianco: Gare de l’Est, Teatro Anatomico Palazzo Del Bò Padova 2016. Foto: Rolando Paolo Guerzoni
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GIUSEPPE IANNACCONE: L’AMORE PER L’ARTE E LA PASSIONE IN UNA COLLEZIONE MILANO | LA TRIENNALE DI MILANO | FINO AL 19 MARZO 2017 di MATTEO GALBIATI
Solo lo scorso anno avevamo incontrato l’avvocato Giuseppe Iannaccone nel suo studio milanese quando, in occasione di MiArt, lo avevamo intervistato per conoscere, da collezionista-mecenate, la sua visione sull’arte contemporanea. La vera passione, però, per l’arte, come lui stesso ci aveva dichiarato, nasce da un’ammirazione, un vero e proprio amore, per gli artisti italiani che hanno lavorato tra le due Guerre Mondiali, in una stagione che, per l’Italia, ha rappresentato un indiscutibile momento di nuovo fermento e di grande sperimentazione linguistica e che per lui ha costituito la chiave di accesso alla passione per la cultura artistica e a un grande ed impegnato collezionismo. Allora l’avvocato Iannaccone ci aveva confidato che, uno dei suoi grandi sogni, sarebbe stato quello di vedere affermata la sua collezione con una grande mostra pubblica in cui questa non solo fosse riconosciuta e ammirata dal pubblico per l’impegno culturale, la testimonianza storico-artistica che le sue opere attestano, ma anche po-
tesse aprirsi al coinvolgimento diretto dello sguardo della gente e diventare un condiviso momento di conoscenza. Con l’apertura della mostra Collezione Giuseppe Iannaccone. Italia 1920-1945. Una nuova figurazione e il racconto del sé lo scorso 1 febbraio presso La Triennale di Milano, quell’agognato sogno si è avverato. Abbiamo visitato la mostra che, attraverso una selezione di 96 opere per la prima volta disponibili alla visione del pubblico, ci dimostra quanto non solo l’amore di un collezionista sia riuscito a riunire in pochi anni un corpus davvero significativo di opere – va riconosciuta la loro qualità che senza dubbiose esitazioni né enfasi celebrative definiamo di buon grado museale – ma anche il suo pregevole impegno nell’approfondimento di una stagione artistica al cui studio ancora devono attribuirsi nuovi ed importanti capitoli. Le opere escono dal privato dell’avvocato: arrivano, infatti, tutte dalla sua casa, dove vivono la dimensione domestica di una visione quotidiana che permette al collezionista
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di apprezzarle ogni giorno, di viverle e scoprirle continuamente ed ora, nel sobrio ed efficace allestimento alla Triennale, riportano quasi, in un’ipotetica altra designazione (la dimensione da “salotto” viene mantenuta, agevolata e favorita da sedute in cui il visitatore, davanti ai capolavori, esposti può approfondire le tematiche dettate dalle opere soffermandosi nella lettura di una serie di volumi – anche d’epoca – lasciati a disposizione), la stessa suggestione. L’allestimento sembra poi sospendere i lavori in una concentrata leggerezza e in un nitore meditativo che fa risaltare l’immagine dipinta, concentrando lo sguardo dell’osservatore sulle specifiche coordinate linguistiche e poetiche di ciascun artista. La qualità altissima di queste pregevoli opere non si nasconde e non si disperde, anzi rende evidente il processo di “istruzione”, di studio che, raffinandosi anche con la complicità di studiosi come Claudia Gian Ferrari o la stessa Elena Pontiggia, curatrice della mostra, hanno spinto l’emozione di Iannaccone a consolidarsi nella sua sapienza e consapevolezza, nella sua autonoma definizione, agenti che ne hanno fatto un autorevole protagonista nel processo di ricognizione scientifica di quegli anni attraverso le tele da lui raccolte e riunite. Senza essere schiavo del mercato, senza limitarsi nelle convenienze o relegarsi negli sconvenienti confini delle mode, oggi ci regala emozioni senza tempo capaci di parlare della nostra storia e delle nostre radici. Da Birolli a Pirandello, da Mafai a Guttuso, da Scipione a Vedova – solo per citare alcuni nomi – il percorso che questa mostra offre diventa indicativo anche di quello compiuto dal loro mecenate: si percepisce come il suo sguardo e il suo gusto si siano accompagnati a queste opere nella decifrazione profonda del loro senso e della stagione storica che rappresentano. La traccia nascosta che emerge è quel filo rosso che guida tutte le scelte di Iannaccone, cosa che accomuna tanto il lavoro con i
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maestri storici, quanto l’interesse per gli artisti del presente: cercare di cogliere nell’arte la profondità dell’animo umano. Le voci dipinte che qui si “sentono” sono, infatti, quelle di un’arte che ancora – oltre ogni tempo – sa raccontare le infinite sfaccettature dell’uomo con tutti i suoi valori, le sue contraddizioni, le sue tensioni e le sue aspirazioni. Questo anelito all’umano, taciuto e fortemente radicato nelle sue posizioni, in Giuseppe Iannaccone, ricercatore dell’esclusività di ogni opera, sa rendere speciale e unico il suo mecenatismo illuminato e socialmente impegnato. Ci congratuliamo, allora, con l’avvocato per le emozioni che, grazie alla sua generosa disponibilità di concederle al pubblico, viviamo in questi capolavori, capaci, ancor oggi, di restituirci con grande forza. Con la presentazione del catalogo-libro della collezione avvenuta martedì 14 febbraio si è avviato anche il calendario di conferenze di approfondimento, curato da Elena Pontiggia, e intitolato Arte in Italia negli anni Trenta, i cui temi vertono sull’arte e la stagione artistica rappresentata dalle opere della Collezione Iannaccone.
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Collezione Giuseppe Iannaccone. Italia 1920-1945. Una nuova figurazione e il racconto del sé a cura di Alberto Salvadori e Rischa Paterlini promossa da Fondazione Triennale di Milano e Giuseppe Iannaccone direzione Artistica Settore Arti Visive Triennale Edoardo Bonaspetti 1 febbraio – 19 marzo 2017
La Triennale di Milano viale Alemagna 6, Milano Orari: da martedì a domenica 10.30-20.30; lunedì chiuso; la biglietteria chiude alle ore 19.30 Ingresso libero Info: www.triennale.org www.collezionegiuseppeiannaccone.it
Ciclo di incontri Arte in Italia negli anni Trenta a cura di Elena Pontiggia in concomitanza con la mostra della collezione Giuseppe Iannaccone martedì 7 marzo 2017 ore 18.30 Flavio Fergonzi Dodici temi critici per l’arte italiana tra le due guerre martedì 14 marzo 2017 ore 18.30 Carlo Sisi L’universo in una foglia. Vicende di Rosai e di De Pisis
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In queste pagine: Collezione Giuseppe Iannaccone. Italia 1920-1945. Una nuova figurazione e il racconto del sé, veduta della mostra, La Triennale di Milano, Milano. Foto: Dario Lasagni
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LA FRAGILITÀ DELLA NATURA SECONDO CLAUDIA LOSI MILANO | GALLERIA MONICA DE CARDENAS | FINO AL 18 MARZO 2017 di CRISTINA CASERO
The fated human desire for sense making. Questa scritta campeggia sui due manifesti che vediamo appena entriamo negli spazi della Galleria De Cardenas, dove è allestita, con grande cura, una mostra personale di Claudia Losi che si intitola Asking Shelter, dal nome del progetto che costituisce il cuore di tutta l’esposizione: una serie di leggere sculture che, realizzate assemblando rami spinosi realizzati in bronzo, rappresentano delle insidiose capanne, metafora di come sia ambivalente e pericoloso il luogo del riparo, della chiusura. La frase che ci accoglie costituisce indubbiamente un’efficace suggestione, uno spunto di riflessione profonda ma, immediatamente, si traduce anche in una sorta di guida, una possibile chiave di lettura utile non soltanto a capire meglio i lavori in mostra, ma soprattutto per comprendere appieno tutta l’articolata e composita ricerca dell’artista. Losi, infatti, si muove da tempo su di un registro di marca concettuale in cui, però, il pensiero dell’artista si incarna sempre in una prassi complessa, in un fare concreto che le consente di materializzare
in opere di differente natura linguistica – la sua coerenza non va certo cercata in una linea stilistica né merceologica – un pensiero forte, che trova la sua ragion d’essere proprio in una continua ricerca di senso, incentrata intorno ai temi che interessano l’autrice e praticata nell’esercizio artistico, in una dimensione concreta che tiene Losi sempre lontana da atteggiamenti intellettualistici o autoreferenziali. Nell’eseguire con perizia e pazienza i suoi lavori, in un atteggiamento che esso stesso si fa metafora dei tempi lenti della natura, Losi ama spesso agire in una dimensione corale, collaborando con altre persone alla realizzazione delle opere: in questo caso con Silvia Cascione, che ha creato i piccoli animali in argento che si nascondono tra rami spinosi, e Marco Fantuzzi, per le tinture delle preziose stoffe con cui l’artista dà vita ad una coinvolgente foresta di simboli. Questa esposizione presenta opere recenti che, pur nella diversità, si offrono come ben organizzate in un percorso; questo accade certamente grazie alla successione che ne ha concepito l’artista, che sembra aver pen-
sato alla mostra nei termini di una unica e complessa installazione, ma pure in virtù del fatto che i singoli lavori, differenti, per temi e modalità di realizzazione, in qualche misura si chiamano l’uno con l’altro, dandosi come elementi utili a restituire il quadro di insieme, quasi fossero i vari pensieri che vanno a dar vita ad un ragionamento, le singole tappe di un unico cammino. Visitando questa mostra siamo accompagnati in un viaggio che sarebbe semplicistico definire nella natura, tout court; Losi, infatti, ci obbliga a fermarci a riflettere sulle fragilità della vita naturale, evidenziando da un lato la delicatezza dei processi che la governano, dall’altro ricordandoci quanto sia ambiguo, mutevole e stratificato nel tempo il nostro rapportarci ad essa. Claudia Losi. Asking Shelter 18 gennaio – 18 marzo 2017 Galleria Monica De Cardenas via Francesco Viganò 4, Milano Orari: da martedì a sabato ore 15.00-19.00 Info: +39 02 29010068 info@monicadecardenas.com www.monicadecardenas.com
Claudia Losi. Asking Shelter, veduta della mostra, Galleria Monica De Cardenas, Milano 50
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LA BIOGRAFIA DI BASQUIAT: LA REGALITÀ, L’EROISMO E LA STRADA JOHAN & LEVI EDITORE, 2016 di FRANCESCA CAPUTO
Non è semplice tracciare la biografia di Jean-Michel Basquiat, artista icona degli anni Ottanta, che ha fatto della sua vita un lavoro, riuscendo a imporsi come una star del sistema dell’arte, sempre in bilico tra underground e glam, poesia e trionfi commerciali, fama, dissoluzione, fragilità. Difficile evitare il cliché dell’artista maledetto – morto per overdose a 27 anni – e l’etichetta di primo artista di colore riconosciuto a livello internazionale. Una lama a doppio taglio. Ci riesce, con grande garbo, il critico d’arte Michel Nuridsany, nel volume Basquiat. La regalità, l’eroismo e la strada, edito in Italia da Johan & Levi, raccontando vicende artistiche e umane attraverso un’indagine lucida, un meticoloso lavoro d’archivio e sul campo, interviste a familiari, amici, amanti, galleristi, collezionisti, direttori di musei. Una pluralità di punti di vista, informazioni, su cui l’autore effettua confronti incrociati per ritrovare la realtà, scindendola dalla leggenda, dalle faziosità, dalla pretesa di ciascuno di possedere memorie esclusive. Anche quando si tratta della testimonianza diretta dell’artista che, nelle sue numerose interviste, ha costantemente reinventato la sua storia al confine con il mito, con una tenacia forse ancora maggiore di Warhol. Talvolta, nell’impossibilità di stabilire la veridicità dei fatti narrati, Nuridsany riporta più versioni differenti. Nella convinzione che sia il lavoro a svelare l’essenza di Basquiat, il lato radioso, geniale, quello infantile, inquieto e straziato, l’immensa e trasversale cultura così come l’identità disgregata, approfondisce il percorso professionale, analizzando opere, temi portanti, esposizioni. Ricostruisce il contesto in cui si formò, le sue frequentazioni, offrendo uno spaccato della comunità artistica newyorkese degli anni Ottanta, il fermento anche musicale della downtown e il ruolo centrale che l’artista giocò nella scena nascente, i cambiamenti in atto, dalla nascita della Street Art ad un mercato sempre più vorace che fagocita artisti e
idee. Sullo sfondo, emerge il clima politicosociale dell’America tra gli anni ‘60 e ‘80, dai problemi razziali all’edonismo, fino al degrado urbano, alla speculazione edilizia di quella metropoli ancora “dirty, dangerous and destitute” per quanto dinamica e ricca di energia. Un viaggio dettagliato in quattordici capitoli, con un apparato bibliografico e cronologico, che scandaglia le origini della sua famiglia,
Cover del volume Basquiat. La regalità, l’eroismo e la strada, di Michel Nuridsany, Johan & Levi editore, 2016
i rapporti tormentati con i genitori, la genesi della passione per il jazz, del suo gusto sull’arte, la scelta di appartenenza alla cultura black. L’immagine di artista povero, dei bassifondi, che si era cucito addosso, esce minata da una situazione più complessa e sfaccettata. La strada, cui tornerà anche all’apice del successo, è comunque un nodo cruciale: dalle prime opere su supporti di recupero, agli aforismi firmati SAMO, con Al Diaz. È
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ovunque tra Soho e l’East Village, dove ci sono quelli che contano, una concentrazione di musicisti, performer, artisti, gallerie, studi, club. Su tutti il Mudd Club, di cui è il cuore pulsante. Poi i primi passi nel mondo dell’arte, definiti da due collettive organizzate dall’amico Diego Cortez, determinante per l’inizio della sua carriera: Times Square Show (1980), che rivela una nuova generazione di artisti e New York/New Wave (1981) insieme a Haring, Mapplethorpe, Warhol e tanti altri. Da qui, il passo per diventare una stella è breve: entra nella scuderia di Annina Nosei, prima a lanciarlo a New York, espone da Larry Gagosian, partecipa a dOCUMENTA 7 di Kassel, alla Biennale del Whitney Museum. Bischofberger diventa il suo gallerista principale e, grazie a lui, approfondisce i rapporti con Warhol e Clemente, sfociati nei celebri dipinti creati in collaborazione. È all’apice del successo. Interessante il capitolo che mette in luce un aspetto poco conosciuto, il viaggio di Basquiat in Costa d’Avorio, dove esplora l’arte e l’anima africana. L’autore rievoca le esposizioni francesi e il suo viaggio a Parigi, prima dell’epilogo che vede l’artista sempre più paranoico, consumato dalle droghe, convinto di “essersi ridotto a una macchina da soldi”. Da vivo è quotato più di tutti i suoi contemporanei. Il dopo Basquiat è un susseguirsi infinito di aberrazioni, sciacallaggi, cause legali e tentativi di tutela. Nuridsany non è esente al fascino carismatico di Basquiat ma riesce a illuminare, senza enfasi, quel “mix di spontaneità e calcolo”, di ego sovradimensionato e cinismo, smentendo i luoghi comuni e contribuendo a precisare le sue radici, la filosofia della poetica, la visione del mondo, al di là dello scintillio della vita pubblica, della sua voracità in fatto di sesso, droga, soldi e notorietà. Michel Nuridsany Basquiat. La regalità, l’eroismo e la strada. Johan & Levi editore, 2016 www.johanandlevi.com
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LEONCILLO E ALBISSOLA: UNA SCULTURA PUBBLICA ANTIRETORICA E ANTIMONUMENTALE SCULTURA E MEMORIA. LEONCILLO, I CADUTI E I SOPRAVVISSUTI | MIMESIS EDIZIONI Intervista a LUCA BOCHICCHIO di Livia Savorelli
Un saggio dedicato ad un “pezzo” della storia di Albissola, mio paese adottivo, non poteva che destare in me grande attenzione ed entusiasmo, un po’ per l’immediata familiarità di un monumento che rifugge dalla consueta austerità e un po’ per l’eccezionale sintesi plastica di un grande scultore quale è stato Leoncillo. Entriamo, quindi, con l’autore Luca Bochicchio nella «fenomenologia di questa innovativa scultura pubblica, antiretorica e antimonumentale, traslata su un piano di stringente attualità: il ciclo di morte e rinascita ingenerato dalle guerre passate e presenti, la memoria privata e collettiva, i problemi di conservazione delle opere d’arte all’aperto»… Come nasce il tuo interesse da studioso nei confronti della figura e dell’opera di Leoncillo e l’idea di dedicare un saggio
Cover volume Scultura e memoria. Leoncillo, i Caduti e i Sopravvissuti di Luca Bochicchio. Mimesis Edizioni, 2016
al Monumento ai Caduti di tutte le guerre, sito sul lungomare di Albissola Marina (SV), indubbiamente un importantissimo esempio di opera pubblica nell’Italia del secondo dopoguerra? Bisogna tornare al 2011, quando ho iniziato a occuparmi del progetto Museo Diffuso Albisola. Ad ogni tappa di sviluppo è stato studiato in modo più approfondito un particolare aspetto dell’incredibile patrimonio artistico di Albissola Marina, a cominciare dal Lungomare degli Artisti e proseguendo con Casa Jorn, fino ad arrivare al Monumento ai Caduti. Non si tratta soltanto dell’unica opera pubblica di Leoncillo ancora conservata ma anche del segno tangibile che testimonia il momento di passaggio dell’artista al linguaggio informale. Le inedite valenze ambientali, oltre che plastiche, ne fanno un’opera di fondamentale importanza per lo sviluppo dell’arte pubblica. Inoltre, nel contesto di rivalutazione critica che la ceramica sta ottenendo in questi anni in Italia, la figura di Leoncillo assume nuovo rilievo per gli artisti e per gli storici dell’arte. Per comprendere la novità del linguaggio di Leoncillo, occorre contestualizzare – anche in materia di scultura monumentale – quelli che erano gli stili della statuaria in essere nel secondo dopoguerra. Ricordiamo che già nel 1943, il grande Arturo Martini metteva mano allo scritto La scultura lingua morta (pubblicato nel ’45), inneggiando alla necessità di un profondo rinnovamento… Come Leoncillo approda alla ceramica e come concepisce il rapporto con questo medium? Leoncillo è tra i pochi scultori consacrati alla storia dell’arte che hanno utilizzato la ceramica in modo esclusivo. Se pensiamo o parliamo di monumentalità non ci viene di certo in mente la ceramica, quanto il bronzo e il marmo. Anche per questo il suo approccio al monumento pubblico è stato innovativo: si pensi al Monumento alla Partigiana Veneta per i Giardini di Venezia (1957,
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Lucio Fontana e Leoncillo (Biblioteca comunale Carducci di Spoleto – Fondo Leoncillo)
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distrutto da un attentato neofascista nel 1961) e allo stesso Monumento ai Caduti di Albissola (dello stesso anno). Leoncillo ha sempre ragionato e modellato in termini di colore, luce e spazio. Aveva ben presente la lezione di Arturo Martini ma anche gli interventi di Mirko nel Monumento alle vittime delle Fosse Ardeatine di Roma (1947), così come l’esempio di Lucio Fontana, al fianco del quale si ritrova alla Biennale di Venezia del 1954 con una sala personale. Fino al 1956 Leoncillo era riuscito, a volte con fatica, a condurre con la ceramica un lavoro di analisi e costruzione della figura: prima per masse e tensioni, poi per piani e per volumi, ma sempre sperimentando il rapporto tra colore, forma e spazio. Con il monumento di Albissola, ed è egli stesso a scriverlo nel suo diario, cambia il rapporto tra scultore e medium: sulla terra Leoncillo trasferisce ormai sofferenze e passioni sue, interiori. Nasce così la sua scultura informale, dove la ceramica effettivamente afferma il suo massimo valore plastico, poetico, espressivo. Mi ha molto colpito, nella tua introduzione, il parallelismo – nelle varie tappe della stesura del libro – con i drammatici attentati che si sono succeduti dal novembre 2015. Questi moderni “caduti” di una
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guerra invisibile, così come gli stessi sopravvissuti, appaiono così vicini ai Caduti e Superstiti di Leoncillo… Da qui la prima domanda: quanto è ancora attuale la visione di Leoncillo e del suo Monumento ai Caduti di tutte le guerre? Tendiamo a dimenticare facilmente e a non considerare la storia, soprattutto quella recente, in termini di continuità col presente. Mentre scrivevo l’introduzione accadde la tragedia del camion sulla Promenade des Anglais a Nizza. Il monumento di Leoncillo, che ricorda appunto i caduti e i sopravvissuti di tutte le guerre, sta sullo stesso arco di costa che ha visto morire tante persone a Nizza la scorsa estate. Un artista come Leoncillo non realizza un’opera pubblica di questo genere pensando solo al passato; naturalmente è orientato al presente e al futuro, come visione, come sensazione, come illuminazione. Ricordo che quando ho iniziato a scrivere questo libro avevo sotto gli occhi le immagini della strage del Bataclan a Parigi, pochi mesi dopo è arrivata quella di Bruxelles. Naturalmente (e stupidamente forse) questi attentati mi colpiscono più di altri perché avvengono in città che tutti noi visitiamo abitualmente; ma ammetto che quando, da ligure adottato, mi avvicino alla riva del Mediterraneo non posso non
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Leoncillo, Monumento ai Caduti di tutte le guerre, 1957. Lungomare di Albissola Marina (SV). Foto: Gianluca Anselmo, Albisola
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pensare che su altre sponde dello stesso mare le stragi di civili sono quotidiane. Così la riflessione sui caduti e i superstiti del monumento si è fusa a quella sugli attuali sopravvissuti delle stragi in Europa e Medio Oriente, sulle vittime di questa guerra diffusa e imprevedibile. Non so se dopo le stragi naziste di Roma Leoncillo pensasse le stesse cose che oggi proviamo noi quando avvertiamo la guerra così vicina, di certo il mio pensiero sul suo lavoro è cambiato a causa di ciò che viviamo oggi: così l’opera d’arte è profondamente contemporanea.
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particolari tipi di terre. Insomma oggi, rispetto agli anni ‘50, questi accorgimenti vengono presi più facilmente. All’epoca, invece, Leoncillo sceglieva ed utilizzava tecniche che egli sperimentava per il nobile scopo della sua ricerca e che non necessariamente rispondevano alle esigenze di conservazione: per quanto fosse un maestro nell’uso della terra era un artista, uno scultore, non un artigiano che anteponeva il risultato tecnico a quello espressivo. Tuttavia va detto che dai documenti inediti che ho studiato e pubblicato in questo libro si capisce come
Quanto è stato innovativo il modo di Leoncillo di concepire questa scultura commemorativa? Invece che una struttura retorica, magari verticale e in bronzo, Leoncillo ha pensato una composizione allineata al flusso pedonale del lungomare di Albissola, priva di barriere tra spettatore e scultura, perfettamente aderente al paesaggio circostante, caratterizzato dall’orizzonte marino da un lato e dal profilo basso del paese dall’altro. Ha poi realizzato due opere in ceramica ancorandole a un semplice (e per questo purissimo e durissimo in termini simbolici e visivi) blocco di cemento scalpellato. Così affermata, la ceramica esprime in maniera totalizzante la sua organicità, il suo essere medium caldo e tattile: interagisce con la luce e con lo spazio, vibra e restituisce sensazioni ed emozioni allo sguardo. Il fregio orizzontale (cupo, violento e opaco) dei Caduti sconfina oltre il limite del basamento e ci porta a girare intorno, fino a scoprire il gruppo dei Superstiti (luminoso, aperto, dinamico, ma non privo di ombre) rivolto verso il mare. Nella sua stupenda recensione del 1958, Argan coglie pienamente il valore di questa inedita struttura commemorativa: nella continuità tra la vita e la morte, nell’inesorabile trasformazione della natura, nel nostro volgerci spontaneamente al futuro sta la vera alternanza del ricordo, il valore della memoria di chi non c’è più. Come per ogni monumento, uno degli aspetti più importanti è la sua conservazione e la sua tutela. Quali sono le effettive problematiche riscontrate e come è possibile intervenire? La conoscenza e quindi lo studio sono il primo passo per la tutela: soltanto rendendosi conto del significato e del valore (storico e presente) di un bene si può agire correttamente per conservarlo. La ceramica all’aperto si conserva in buono stato e anche a lungo nel tempo quando è greificata, che significa avere cotto ad altissime temperature
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egli si ponesse anche il problema della conservazione a lungo termine della ceramica esposta all’aperto, per di più nel clima “nordico”, come diceva lui che lavorava a Roma. Quindi i due fattori principali che da sempre hanno afflitto lo stato di salute di questo monumento sono la sua conformazione materiale originaria e il luogo di esposizione: in riva al mare e con la trafficata via Aurelia a pochi passi. Dopo un eccellente e lungo restauro condotto a Umbertide nel 2001, le sculture ceramiche sono state riposizionate nello stesso luogo senza però attuare i
minimi accorgimenti per una buona conservazione a lungo termine: la manutenzione (interventi cadenzati di pulizia e consolidamento), un adattamento dell’ambiente circostante (penso alla palma che cresce a ridosso del monumento) e lo studio di strutture anche minime, di basso impatto visivo, a protezione soprattutto dalla pioggia e dal guano. Oggi intervenire è senz’altro più complicato e costoso proprio a causa dell’assenza di una strategia di manutenzione, lacuna che purtroppo affligge buona parte del patrimonio artistico italiano all’aperto per ragioni contingenti ma anche di cultura amministrativa e gestionale. Titolo: Scultura e Memoria. Leoncillo, i Caduti e i Sopravvissuti Autore: Luca Bochicchio Prefazione di: Stefania Petrillo Editore: Mimesis Collana: Archeologia, Arte e Società Anno: 2016 Pagine: 190 Prezzo: Euro 18,00 Info: www.mimesisedizioni.it
Leoncillo, Monumento ai caduti di tutte le guerre (part. Caduti), 1957. Lungomare di Albissola Marina Nella pagina a fianco: Leoncillo, Monumento ai caduti di tutte le guerre (part. Superstiti), 1957. Lungomare di Albissola Marina
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EDITORIA
ROTELLA: PUBBLICATO IL PRIMO TOMO DEL CATALOGO RAGIONATO MIMMO ROTELLA. CATALOGO RAGIONATO. VOLUME PRIMO 1944-1961 | SKIRA EDITORE Intervista a GERMANO CELANT e ANTONELLA SOLDAINI di Matteo Galbiati
In occasione della pubblicazione del primo tomo del Catalogo Ragionato, che, in questa prima fase raccoglie le opere di Mimmo Rotella (1918-2006) comprese nell’arco temporale che va dal 1944 al 1961, abbiamo intervistato Germano Celant e Antonella Soldaini, i quali, dopo un lavoro di ricerca e studio scientifici e la redazione finale durato complessivamente quattro anni, ci consegnano oggi questo importantissimo volume. Questa la testimonianza che ci hanno dato sul primo capitolo di un ampio, scrupoloso e completo lavoro di catalogazione dell’opera del maestro del Nouveau Réalisme che, nei prossimi anni, si completerà con la pubblicazione di altri tre tomi, in cui si raccogliere tutta la produzione rotelliana: Questa importante pubblicazione esce a dieci anni da una precedente monografia su Rotella sempre curata da lei. Cosa cambia dal precedente? Germano Celant e Antonella Soldaini: Il libro del 2007 era una monografia dedicata all’artista e prendeva in considerazione la sua produzione con una selezione di opere ritenute significative. L’intento era quello di presentare il percorso artistico di Rotella inserendolo nel suo contesto culturale e storico. Il criterio su cui si basa il Catalogo Ragionato è diverso: ogni opera viene analizzata al fine di stabilirne una corretta schedatura che ne precisi i dati salienti come titolo, datazione, tecnica e storia dell’opera. L’intenzione è quindi quella di rendere sistematica e scientifica la catalogazione totale delle opere del maestro? Esatto. Tenendo presente che il concetto di Catalogo Ragionato – a differenza del Catalogo Generale – è quello di una pubblicazione che comprenda tutte le opere di un artista che il curatore, a suo giudizio, basandosi su un’analisi scientifica e su dati ritenuti obiettivi, reputa appropriate e idonee per illustrare l’attività dell’artista medesimo.
Come si procede all’organizzazione di una mole tale di lavoro e di opere? Di quali aiuti vi avvalete? Per la realizzazione di un Catalogo Ragionato si procede partendo da una prima fase di ricerca in cui si acquisisce e si raccoglie tutta la documentazione che consiste in materiale d’archivio, informazioni fornite da familiari, assistenti, amici, collezionisti e galleristi, nonché da istituzioni pubbliche e private, musei, biblioteche, fondazioni, studi fotografici e archivi iconografici. Si passa poi
tamento dell’autografia di firme, di date, di iscrizioni e di titoli al recto e al verso dell’opera, e/o presenti sui certificati di autentica rilasciati dall’artista. Quali difficoltà avete incontrato e quali “scoperte” avete avuto? È stato impegnato molto tempo a sistematizzare e schedare in maniera scientifica tutto il materiale d’archivio che è stato digitalizzato creando un database specifico per la realizzazione del Catalogo Ragionato. È stata poi fatta una ricerca a tappeto per il recupero di informazioni e documenti relativi all’artista. In questo ambito sono emerse alcune scoperte interessanti che hanno portato a rintracciare delle opere di cui si era persa memoria. Quanto tempo è durata la fase di lavoro prima della chiusura di questo primo volume? Circa tre anni per la ricerca e la schedatura e un anno per la redazione del Catalogo.
Mimmo Rotella. Catalogo Ragionato. Volume primo 1944-1961, cover del cofanetto, Skira Editore
alla formulazione dei criteri di ordinamento che si decide di adottare e infine alla schedatura delle opere. Essendo i décollages e i retro d’affiches caratterizzati dall’uso del manifesto lacerato come “materia prima”, dati cruciali sono emersi proprio dallo studio iconografico, storico e tecnico relativo alla produzione dei manifesti. Ad esempio, su questo punto, ci siamo avvalsi della consulenza di periti cartari che hanno analizzato i materiali che costituiscono le opere di Rotella. Di concerto, abbiamo consultato grafologi per l’accer-
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Che ruolo hanno la Fondazione Mimmo Rotella e il Mimmo Rotella Institute? Di cosa si occupano e come si suddividono l’impegno nella valorizzazione della figura del maestro e della gestione delle sue opere? Il Mimmo Rotella Institute (MRI) è un’istituzione nata nel 2012 per volontà di Inna e Agnessa Rotella, le eredi dell’artista. Ha lo scopo di promuovere a livello nazionale e internazionale la conoscenza e la tutela della figura e dell’arte di Rotella. Parallelamente al lavoro di studio e di ricerca effettuato per la compilazione del catalogo ragionato, il MRI si occupa della strategia espositiva, nonché dell’impostazione culturale di mostre monografiche e di eventi attinenti all’opera di Rotella. La Fondazione Mimmo Rotella è nata nel 2000 per volontà dell’artista. Ha seguito Rotella negli ultimi cinque anni della sua vita affiancandolo nelle varie attività e aiutan-
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dolo a organizzare mostre e a pubblicare monografie. Questo primo volume tocca un arco temporale che va dal 1944 al 1961. Su quali ambiti si svolge la vostra ricerca? Quali temi e generi attraversa? Come si sviluppa il linguaggio di Rotella? All’inizio degli anni Quaranta Rotella si dedica alla pittura tradizionale, per poi volgere verso una di matrice astratto-geometrica che si sviluppa parallelamente alla produzione fonetica dei poemi epistaltici, un insieme quasi casuale di parole e suoni onomatopeici che l’artista inizia a declamare in pubblico nel 1949. La svolta linguistica avviene nel 1953 quando, affascinato dai manifesti che si trovano sui muri di Roma, decide di appropriarsene inventando la tecnica del décollage. Il manifesto, usato al recto nei décollages, è utilizzato al verso nei retro d’affiches in composizioni che subito vengono associate dalla critica alle più avanzate ricerche informali di quegli anni. Rotella, attraverso queste due tecniche, riprendendo alcuni aspetti delle avanguardie storiche, è tra i primi a utilizzare nelle sue opere elementi prelevati dalla realtà quotidiana che apparentemente non avevano nessun valore. Questo fa sì che il suo linguaggio passi da uno più informale, dove non si riconoscono i dettagli dei manifesti, a uno man mano più vicino alla Pop Art. Quali sono le serie rappresentative del suo lavoro in questo periodo? Sono soprattutto i décollages e i retro d’affiches. Come si compone il Catalogo? Oltre alla pubblicazione delle opere di quali altri contributi vi siete avvalsi? Come si distribuiscono nei due tomi del primo volume? Il Catalogo si compone di due tomi: nel primo è presente il saggio introduttivo – una riedizione ampliata, aggiornata e revisionata del testo già pubblicato nella monografia del 2007 – che analizza l’intera produzione di Rotella, seguito dagli apparati (esposizioni e bibliografia) dagli anni Quaranta fino al 2016. Il secondo tomo consta di una cronologia dal 1918 al 1961 dove i fatti relativi alla vita e all’attività di Rotella sono affrontati insieme a quelli di carattere storico-artistico e sociale che hanno caratterizzato il periodo analizzato. Prevedete – o sono in programma – grandi mostre monografiche a seguito della pubblicazione? Dal 2012 ad oggi sono state realizzate mo-
stre sull’artista in musei e istituzioni di prestigio come il Palazzo Reale a Milano e Casa Rusca a Locarno. Diverse iniziative sono state prese per il decennale della scomparsa dell’artista che è ricorso nel 2016. Si tratta di eventi che si inseriscono in una strategia culturale il cui fine è ampliare la conoscenza e la diffusione del lavoro di Rotella a livello soprattutto internazionale ed arrivare ad una corretta quotazione del valore delle sue opere. Come si suddivideranno i prossimi volumi? Che tempistiche e scadenze vi siete dati? Il secondo volume del Catalogo Ragionato, che è in corso di preparazione, analizzerà il periodo dal 1962 al 1973. Seguiranno il terzo sugli anni 1974-1994 e il quarto che arriverà fino all’anno 2005. Titolo: Mimmo Rotella. Catalogo Ragionato. Volume primo 1944-1961 A cura di: Germano Celant Testi di: Germano Celant, Antonella Soldaini e Veronica Locatelli Collana: Arte Contemporanea. Archivi dell’Arte Anno: 2016 Pagine: 756 in due tomi Edizione: bilingue (italiano-inglese) Immagini: 1513 a colori e b/n Prezzo: Euro 280.00 Editore: Skira Editore Info: www.mimmorotellainstitute.it www.fondazionemimmorotella.net www.skira.net
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Mimmo Rotella, Grande comp, 1961
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