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98 ½
Cover Artist Laura Giardino
Interviste
WILLIAM KENTRIDGE MARLENE KUNTZ HÉLÈNE DE FRANCHIS GEMMA DE ANGELIS TESTA
Studio Visit MY CAT IS AN ALIEN
MOSTRA FINALE
BonelliLAB
Canneto sull’Oglio (MN) 28 ottobre 19 novembre 2017 3a edizione
I Finalisti in Mostra UNDER 30 Gianluca Brando Carolina Corno Alessandro Costanzo Ilaria Gasparroni Mattia Peruzzo Luisa Turuani Valeria Vaccaro Giulia Zappa OVER 30 Alessandro Amaducci Daniela Ardiri Alessandra Baldoni Elisa Bertaglia Nicola Bertellotti Gianni Berti Giorgio Bormida Erica Campanella Andrea Cereda Isabel Consigliere Marcello De Angelis Dana de Luca
Diego Dutto Massimo Ferrando Giorgia Fincato Massimiliano Galliani Marcello Gobbi Federica Gonnelli Marco Grimaldi Gabriele Grones Gian Luca Groppi Monika Grycko Asako Hishiki Elisa Leonini Donatella Lombardo L’orMa Nataly Maier Alessandra Maio Eleonora Manca Vincenzo Marsiglia Me Nè – Simone Meneghello Vincenzo Merola Oriella Montin Daniele Nitti Sotres Ayako Nakamiya Silvia Noferi Daniela Novello
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Patrizia Novello Juan Eugenio Ochoa Alice Padovani Alice Paltrinieri Pietro Pasquali Gianluca Patti Mara Pepe Luca Pianella Ettore Pinelli Francesca Romana Pinzari Annalisa Pisoni Cimelli Gianluca Quaglia Nicolò Quirico Stefy Ranghieri Thomas Scalco Lapo Simeoni Anna Skoromnaya Diego Soldà Matteo Suffritti Valdi Spagnulo Paolo Maria Tatavitto Giorgio Tentolini Manuela Toselli Simona Uberto Stefano Zaratin
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ESPOARTE DIGITAL #98 ½ Espoarte Digital è un progetto editoriale di Espoarte in edizione esclusivamente digitale, tutto da sfogliare e da leggere, con i migliori contenuti pubblicati sul sito www.espoarte.net e molti altri realizzati ad hoc.
Cover
LAURA GIARDINO, EST 03, 2017 tecnica mista su tela, cm 100x120 - dettaglio
indice
SU QUESTO NUMERO SI PARLA DI...
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ESPOARTE Registrazione del Tribunale di Savona n. 517 del 15 febbraio 2001
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LAURA GIARDINO. LA SIGNORA È “FUORI CAMPO” Intervista a LAURA GIARDINO di Chiara Serri
Espoarte è un periodico di arte e cultura contemporanea edito dall’Associazione Culturale Arteam. © Proprietà letteraria riservata. È vietata la riproduzione, anche parziale, di testi pubblicati senza l’autorizzazione scritta della Direzione e dell’Editore. Corrispondenza, comunicati, cartelle stampa, cataloghi e quanto utile alla redazione per la pubblicazione di articoli vanno inviati all’indirizzo di redazione. Le opinioni degli autori impegnano soltanto la loro responsabilità e non rispecchiano necessariamente quelle della direzione della rivista. Tutti i materiali inviati, compresi manoscritti e fotografie, anche se non pubblicati, non verranno restituiti.
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BUILDERS OF TOMORROW. IMMAGINARE IL FUTURO TRA DESIGN E ARTE Intervista a MARINELLA PADERNI e GIOVANNA CASSESE di Livia Savorelli
12 MY CAT IS AN ALIEN. STUDIO VISIT CON “RAPIMENTO ALIENO” Intervista a My Cat Is An Alien di Corinna Conci 16 STUDIO LA CITTÀ. DIECI ANNI IN GALTAROSSA Intervista a HÉLÈNE de FRANCHIS di Francesca Di Giorgio 20 TUTTI GLI “ISMI” DI ARMANDO TESTA: UN MONUMENTO ALLA CREATIVITÀ Intervista a GEMMA DE ANGELIS TESTA di Eleonora Roaro
Editore Ass. Cult. Arteam Direttore Editoriale Livia Savorelli Publisher Diego Santamaria Direttore Web Matteo Galbiati Segreteria di Redazione Francesca Di Giorgio Direttore Responsabile Silvia Campese Redazione via Traversa dei Ceramisti 8/b 17012 Albissola Marina (SV) Tel. +39 019 4500744 redazione@espoarte.net Art Director Elena Borneto Redazione grafica – Traffico pubblicità villaggiodellacomunicazione® traffico@villcom.net Pubblicità Direttore Commerciale Diego Santamaria Tel. +39 019 4500744 Mob. +39 347 7782782 diego.santamaria@espoarte.net Ufficio Abbonamenti abbonamenti@espoarte.net Hanno collaborato a questo numero: Luca Bochicchio Corinna Conci Francesca Di Giorgio Matteo Galbiati Elena Inchingolo Matilde Puleo Eleonora Roaro Livia Savorelli Chiara Serri
24 FONDAZIONE DINO ZOLI: COSTRUIRE GLI SPAZI Intervista a NADIA STEFANEL di Chiara Serri 28 WILLIAM KENTRIDGE ALLE OGR DI TORINO: DOVE STORIA, ARTE E CREATIVITÀ SI INCONTRANO Intervista a WILLIAM KENTRIDGE di Elena Inchingolo 32 FOREVER NEVER COMES. COME UNA PROPAGAZIONE DI ONDE NEL TEMPO Intervista a LAPO SIMEONI di Francesca Di Giorgio 38 SKOROMNAYA: ALLA RICERCA DELLO SPIRITO COLLETTIVO DEL MONDO CONTEMPORANEO Intervista ad ANNA SKOROMNAYA di Livia Savorelli 44 REBUILDING SPACES: PER UN’ARTE CHE RIDISEGNA LO SPAZIO FISICO E MENTALE Intervista a NICCOLÒ BONECHI di Matteo Galbiati 46 MARLENE KUNTZ: “L’AVVICINAMENTO A UN’ALTRA PARTE DEL SÉ” Intervista a CRISTIANO GODANO (Marlene Kuntz) di Corinna Conci 48 L’ARTE COME AZIONE EDUCATIVA: MARIA ROSA SOSSAI Intervista a MARIA ROSA SOSSAI di Matilde Puleo 50 LA VITA IN FIGURE DI ARTURO MARTINI di Luca Bochicchio 52 LE DIVERSE SONORITÀ DI MIMMO PALADINO, COMPOSITORE DI FORME di Matteo Galbiati
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ARTE
LAURA GIARDINO. LA SIGNORA È “FUORI CAMPO” NAPOLI | PAN PALAZZO DELLE ARTI DI NAPOLI | 15 OTTOBRE – 7 NOVEMBRE 2017 Intervista a LAURA GIARDINO di Chiara Serri
Nelle nuove opere di Laura Giardino, realizzate appositamente per il PAN di Napoli, la signora scompare. In passato ritratte in pose discinte, successivamente defilate, spinte da prospettive incongrue ai margini della scena, le sue figure abbandonano definitivamente la tela. Escono dal campo visivo, invitando lo spettatore a prendere il loro posto, tenendosi ad un corrimano o spingendo un maniglione
antipanico. Assenti fisicamente, sono presenti negli oggetti comuni, nella banalità – per nulla rassicurante – di luoghi che appartengono al vivere quotidiano. Spazi anonimi, certo, ma ridisegnati dall’uso di colori acidi e luci irreali che gelano la narrazione, creando un senso di generale sospensione in cui è impossibile risolvere l’enigma di fondo e scoprire ciò che è accaduto o ciò che pre-
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sto accadrà. Sensazioni ambivalenti che la curatrice Marina Guida individua come tratto distintivo della ricerca di Laura Giardino, tra atmosfere noir e graffiante ironia. Prima personale istituzionale in Italia e prima collaborazione con la curatrice Marina Guida. Come è nato il progetto Out of Field? Marina Guida ha visto le mie opere nello
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stand della Galleria Area\B ad ArtVerona nel 2017, si è interessata alla mia ricerca ed ha invitato me ed Isabella Tupone ad esporre a Napoli. Ci siamo trovate così in sintonia, anche dal punto di vista umano, che il lavoro è stato fluido: autonomia, massima libertà e punti di vista condivisi. Cosa si intende per Out of Field e cosa intendi tu in particolare? Nei miei quadri c’è molto “fuori campo”. Grandangoli, prospettive che precipitano, che salgono, sovrabbondanza di punti di fuga che portano a deformazioni prospettiche. Credo che la lettura della curatrice sia stata soprattutto questa. Spesso mi hanno fatto notare che anche le opere di piccole e medie dimensioni sul muro sembrano grandi. Hanno bisogno di spazio. Dal mio punto di vista, il “fuori campo” assume anche un valore inclusivo. Mi piace includere chi guarda, “tirare dentro” lo spettatore. Parli di grandangoli… Il costante riferimen-
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to al cinema? Mi nutro di cinema. È una delle forme d’arte che frequento di più, anche quando non è arte (ride, n.d.r.). Si tratta di un tipo di visione che ho maturato negli anni e che gli altri notano sempre. I miei tagli, però, sono estremi, da cinema psichedelico. Confesso di guardare più film che quadri… Nel 2013 ti avevamo incontrata in occasione della personale So Quiet… a Milano. Da allora le novità sono parecchie, soprattutto dal punto di vista cromatico… Da So Quiet… lo stacco è netto, ma se si considerano le mostre in mezzo il passaggio è un po’ più graduale. Ora i colori sono estremi, potenti, saturi e azzardati (con i colori ti prendi un rischio, e anche forte). Avevo bisogno di spingermi oltre, di sperimentare. Non voglio annoiarmi dipingendo. Nelle opere esposte ricorre spesso il rosso magenta, steso per velature, che va ad evidenziare zone topiche, profonde, misterio-
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Laura Giardino, EST 01, 2017, tecnica mista su tela, cm 50x60 Nella pagina a fianco: Laura Giardino, FLOOD 11, 2017, tecnica mista su tela, cm 50x60
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se della scena… Quasi tutte le tele hanno avuto inizio da una base magenta, quindi l’accordo con quel colore è fondamentale. Non so spiegarne il motivo. Forse perché crea una luce tra le più irreali. Il rosso tende all’onirico e al misterioso. Quali sono i luoghi che frequenti abitualmente con la tua pittura? Dipingo luoghi senza una particolare identità o identificabilità, ma possibilmente frequentati. Scelgo spazi che appartengono a tutti, nei quali è facile identificarsi. La figura a poco a poco è sparita e, se ancora c’è, è collocata in posizione defilata. Al suo posto metto una sedia, una macchina, un corrimano, elementi che portano l’osservatore a diventare esso stesso protagonista. Un elemento di novità è costituito dalla presenza ricorrente dell’acqua. Che valore assume per te l’elemento liquido? Mettere l’acqua è un po’ come fare un taglio
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nel quadro. Si crea uno spazio altro, inaccessibile in quanto sommerso e per questo affascinante. L’opera si apre così ad una nuova dimensione… Progetti per il futuro? Diversi, tra i quali la collaborazione con una galleria olandese e un’altra personale in uno spazio pubblico entro la fine del 2018, ma per ora la mostra di Napoli sta assorbendo tutte le mie energie… Laura Giardino nasce nel 1976 a Milano, dove vive e lavora. www.lauragiardino.net Eventi in corso: Laura Giardino. Out of Field a cura di Marina Guida Promossa da Assessorato alla Cultura e al Turismo del Comune di Napoli In collaborazione con Galleria AREA\B, Milano
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Catalogo edito da E20 Progetti, con testo critico di Marina Guida 15 ottobre – 7 novembre 2017 Inaugurazione: sabato 14 ottobre, ore 17.30 PAN Palazzo delle Arti di Napoli Via dei Mille 60, Napoli Orari: da lunedì a domenica ore 9.30-18.30, chiuso il martedì Ingresso libero Info: +39 081 7958651 pan@comune.napoli.it Galleria di riferimento: Galleria AREA\B, Milano www.areab.org
Laura Giardino, FLOOD 08, 2017, tecnica mista su tela, cm 50x60
ADUA MARTIN A ROS A RN O AT T RA Z ION I
28 settembre - 31 dicembre 2017 Milano - C.so Monforte, 20
bancasistemarte.it Sosteniamo la giovane arte italiana.
Adua Martina Rosarno è la vincitrice del premio Arteam Cup 2016, categoria Under 30. www.arteam.eu
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ARTE / DESIGN
BUILDERS OF TOMORROW. IMMAGINARE IL FUTURO TRA DESIGN E ARTE FAENZA | MIC | 28 SETTEMBRE – 25 OTTOBRE 2017 Intervista a MARINELLA PADERNI e GIOVANNA CASSESE di Livia Savorelli
Negli ultimi decenni, si è assistito ad innegabili commistioni e tangenze tra arte e design. I confini sono diventati sempre più labili, i materiali e le tecniche sempre più interscambiabili tra le varie discipline in nome di un credo superiore: la cultura della creatività. Da queste premesse, la mostra che inaugura in terra faentina The Builders of Tomorrow. Immaginare il futuro tra design e arte cerca di andare oltre questo rapporto, tracciando strade che, nell’ambito di un dialogo costruttivo tra cultura del progetto e cultura della creatività, guardano alla definizione di una nuova estetica che, volgendo al futuro, non può prescindere dalla formazione, e quindi dalla didattica, come elemento chiave e fondamentale per lo sviluppo del sistema contemporaneo. Approfondiamo questi aspetti con le curatrici dell’evento, Marinella Paderni e Giovanna Cassese.
getti e servizi per umanizzare di più la tecnologia: la dimensione umanistica e politica dell’arte coinvolge oggi anche la funzionalità e la logica produttiva del design, mentre il design apporta un carattere sempre più progettuale al lavoro artistico che vuole
Già dall’evocativo titolo, vengono ben trasmessi gli intenti dell’evento: superare la diatriba tra arte e design, tracciando una “nuova estetica”. Obiettivo molto ambizioso… Quali premesse avete individuato alla base di questa “rivoluzione” e quali strade avete intrapreso per definire il concept di questo evento, che vuole instaurare «un dialogo costruttivo tra cultura del progetto e cultura della creatività»? Marinella Paderni: Osservando fenologicamente come si sono trasformate le arti in anni recenti e come arte e design si guardano a vicenda, rielaborando spesso le pratiche dell’una o dell’altra a seconda dei progetti, abbiamo pensato alle sorprendenti analogie che si sono ricreate a distanza di quasi un secolo tra le esperienze del Dadaismo, del Bauhaus, del Costruttivismo Russo e la produzione artistica contemporanea, design compreso. Stiamo riscontrando un ritorno alla fisicità del fare e del costruire con le mani, che avvicina gli artisti ai makers, come pure un distanziamento dalle produzioni industriali su grande scala di og-
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avere una funzione nella vita delle persone e dentro la società. Per questo la cultura del progetto e la cultura della creatività si avvicinano molto più oggi di ieri: gli artisti guardano alla progettualità industriale che connota il design e
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Enzo Cucchi, Senza Titolo, 2010, refrattario dipinto a ingobbi, cm 28x22x37. Courtesy: Giustini / Stagetti Galleria O. Roma Nella pagina a fianco: Anna Maria Maiolino, Em Si Mesmo [In Its Self], from Cobrinhas [Little Snakes] series, 2015, raku ceramic pieces, cm 75x120x64 (metal table, raku ceramic pieces with variable dimensions). Courtesy: the artist and Raffaella Cortese Gallery, Milan
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quest’ultimo investe sempre più di artisticità i progetti di design, facendo confluire l’una nell’altra. Un esempio noto a tutti è il bar-opera di Tobias Rehberger realizzato dentro l’ex Padiglione Italia per la Biennale di Venezia. Giovanna Cassese: La mostra nasce come evento collaterale della XII edizione del Premio Nazionale delle Arti che va sotto il naming chiaro di Future is design, il futuro è design è progetto. La mostra nata dal confronto e dal lavoro congiunto delle curatrici, con l’apporto prezioso del comitato scientifico, è nata per immaginare un nuovo e più serrato dialogo tra design e arti in linea con le esigenze del nuovo millennio, sempre più orientato alla produzione di oggetti e sistemi come esperienza estetica ed etica del mondo. I confini tra discipline sono sempre più labili, i designer, gli artisti, gli architetti si guardano tra loro e collaborano di fatto
e metaforicamente. Il design è per natura disciplina trasversale tra saperi umanistici e scientifici ed anche l’arte negli ultimi decenni è sempre più una pratica complessa che include una infinita varietà di materiali, tecniche, conoscenze e competenze. Il vero tema è andare oltre il confine tra arte e design per un dialogo costruttivo tra cultura del progetto e cultura della creatività per una nuova estetica in età post-industriale. E ciò anche per gli indifferibili riflessi sulla didattica del design. In realtà per continuare ad assicurare il ruolo primario dell’Italia nel campo delle arti e del design non si può che partire dalla didattica e viceversa: la formazione è parte integrante ed essenziale del sistema del contemporaneo. Trovare e ritrovare corrispondenze e assonanze che costituiscono il patrimonio identitario dell’Italia nel settore: questo è anche il DNA del “made in Italy”, quello che ci ha distinti nel mondo per la produzione degli ultimi cinquant’anni, per lo meno. Oggi si può ripartire da qui e da un nuovo modo di intendere il design, nei suoi rapporti anche con l’artigianato, l’architettura, la fotografia, l’hand made nell’ottica di un design for all da ogni punto di vista. Chi sono, quindi, i costruttori del mondo di oggi? E quali quelli del domani? M.P.: I costruttori del mondo di oggi sono quegli artisti, designer, inventori, ricercatori e intellettuali che credono nell’unione tra la cultura umanistica e quella tecnologicoscientifica, portandole dentro il loro operato, diffondendole attraverso i loro lavori, recuperando l’identità di tradizioni e sottoculture. Che s’impegnano ogni giorno per accrescere il nostro patrimonio culturale immateriale e materiale nonostante le crisi economiche e politiche, l’impoverimento economico e sociale generale, mostrando come non ci siano scissioni ma intrecci e correlazioni proficue da cui ripartire per progettare il nostro futuro. I costruttori di domani li vediamo già all’azione nelle università tra i giovani, che vedono nella creatività una risorsa per l’avvenire e una modalità di vivere da protagonisti, liberamente, il loro presente. G.C.: Il futuro non esiste, il futuro va creato, ha scritto Zygmut Bauman. Chi ci ha preceduto ha costruito il nostro mondo, ma il presente è dimensione sfuggente, eternamente mutante, soprattutto la nostra “modernità liquida”. Artisti e designer prefigurano sempre il futuro con le loro opere e visioni. Artisti, architetti e designer di un secolo fa nel momento vitale e fecondissimo delle Avanguardie storiche sono alla base del nostro mondo. I costruttori del domani sono proprio i nostri giovani in formazione,
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coloro ai quali con grande responsabilità nell’ambito del nostro lavoro quotidiano dedichiamo tutta la nostra attenzione e cura, a loro è affidato il futuro che non solo è vicenda esistenziale, ma sociale, etica, politica e culturale. A livello espositivo quali sono le figure coinvolte e come avete concepito il dialogo tra loro? G.C.: Abbiamo scelto opere significative di grandi artisti e designer contemporanei e storici, lavori che in qualche modo provocatoriamente superano i limiti di nette definizioni e vanno oltre i rigidi confini tra arte e design, mutuando reciprocamente stili e linguaggi e offrendo agli spettatori inedite interpretazioni e visioni di futuro. I protagonisti che si incontrano metaforicamente al MIC sono di generazioni e stili diversi ma offrono tutti un pensiero seducente sul valore delle “cose”, della vita e dell’arte. Ecco gli autori: Vito Acconci, Andrea Anastasio, Meris Angioletti, Salvatore Arancio, Rosalba Balsamo, Nanni Balestrini, Becky Beasley, Sonia Biacchi, Renata Boero, Gregorio Botta, Andrea Branzi, Chiara Camoni, Marc Camille Chaimwoicz, Stefano Casciani, Tony Cragg,
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Matali Crasset, Enzo Cucchi, Riccardo Dalisi, Nathalie Du Pasquier, Formafantasma, Fratelli Campana, Martino Gamper, Marco Gastini, Jean-Paul Gaultier, Piero Gilardi, Paolo Gonzato, Konstantin Grcic, Sheila Hicks, Christina Holstad, Giulio Iacchetti, Emilio Isgrò, Ugo La Pietra, Claudia Losi, Ugo Marano, Anna Maria Maiolino, Franco Mello, Alessandro Mendini, Mathieu Mercier, Bruno Munari, Luigi Ontani, Giulio Paolini, Mimmo Paladino, Claudio Parmiggiani, Gaetano Pesce, Gianni Piacentino, Michelangelo Pistoletto, Andrea Sala, Denis Santachiara, Francesco Simeti, George Sowden, Sissi, Haim Steinback, Ettore Sottsass, Superstudio, Patricia Urquiola, Marcella Vanzo, Joe Velluto. Il dialogo tra questi protagonisti viene favorito da un allestimento evocativo dove saranno sottolineate assonanze concettuali ed estetiche delle varie opere, in continuo dialogo tra loro, in un gioco di specchi e rimandi. Abbiamo scelto le contaminazioni, i dialoghi e le visioni comuni di questo ultimo periodo per riflettere sulla nostra storia più recente poiché i saperi devono essere tràditi per essere tradìti e non c’è innovazione senza storia e senza conoscenza. Chi crea e chi progetta sono sempre stati uomi-
ni e donne colti, capaci di rielaborare il loro grande museo immaginario e creare nuove forme e nuovi mondi. Partendo dal fondamentale background italiano, da quello che giustamente definite il patrimonio identitario dell’Italia, quali azioni future e quali cambiamenti auspicate si inneschino partendo dagli stimoli e dagli spunti offerti da Builders of Tomorrow? G.C.: Ci auguriamo che la cultura del dialogo si diffonda sempre più, che lo sguardo storiografico si allarghi a nuovi orizzonti e si abbattano steccati per nuove visioni critiche e curatoriali. Troppo spesso gli studi in Italia tra arti e design sono ancora separati, non così in ambito internazionale dove sempre più spesso mostre e saggi critici fanno il punto su di un’epoca a trecentosessanta gradi… Ci auguriamo che il mondo della formazione interagisca davvero con il mondo reale della produzione, che l’università dialoghi con il museo e viceversa; auspichiamo che la questione delle arti e del design sia sempre più al centro dell’agenda politica della nostra nazione, che a livello internazionale è riconosciuta per questo suo DNA; ci aspettiamo che l’Italia punti sempre più sulle industrie culturali e creative. Infine, speriamo che la valorizzazione e la salvaguardia del nostro grande patrimonio materiale immateriale di architettura, artigianato, arte contemporanea e design passi attraverso la formazione di generazioni future più consapevoli, con una “testa ben fatta”, per dirla con Edgar Morin, con uno spirito critico spiccato, che consenta di progettare un mondo e un futuro migliore. BUILDERS OF TOMORROW Immaginare il futuro tra design e arte a cura di Marinella Paderni e Giovanna Cassese nell’ambito di “Future is Design” – Premio Nazionale delle Arti 2017 – Sezione design, XII edizione Comitato scientifico: Giovanna Cassese, Marinella Paderni, Claudia Casali, Daniela Lotta e Irene Biolchini 28 settembre – 25 ottobre 2017 Inaugurazione 28 settembre, ore 20 MIC – Museo Internazionale delle Ceramiche Viale Alfredo Baccarini 19, Faenza Info: www.micfaenza.org
Formafantasma, Acquedotto I (Water pitcher), II (Vinegar dispenser), III (Oil dispenser), 2016, porcellana, edition of 30 + 2 AP. Editor and courtesy: Giustini / Stagetti Galleria O. Roma 10
Matilde Piazzi, Rinascimento, 2013 (dettaglio)
13 OTTOBRE 2017 – 20 GENNAIO 2018
Rinascimento
INGRESSO LIBERO Spazio Arte
La persona e il suo luogo di Matilde Piazzi a cura di Eleonora Frattarolo CUBO Centro Unipol BOlogna Piazza Vieira de Mello, 3 e 5 (BO) - Tel 051.507.6060 - www.cubounipol.it App CUBO
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STUDIO VISIT
MY CAT IS AN ALIEN. STUDIO VISIT CON “RAPIMENTO ALIENO” Intervista a MY CAT IS AN ALIEN di Corinna Conci
Bendata, perdo il senso dell’orientamento nel viaggio che mi porta allo studio dei My Cat Is An Alien. In auto verso una meta sconosciuta e poi mani che mi accompagnano a scendere, per entrare in un luogo fresco e dal quale provengono suoni che sembrano voci di sirene: stringo gli occhi quando il foulard mi viene tolto dal viso e il blu, l’indaco, il viola delle grandi tele mi arrivano addosso. Un rapimento alieno. A tutti gli effetti. Ci sono quarzi ialini di diverse dimensioni, rocce sedimentarie, sassi fossili, che segnano dei percorsi di energia e costituiscono installazioni collegate alle vibrazioni della terra. Ci sono occhi che ti osservano e che ti proteggono, ci sono grandi scatole contenenti armi giocattolo degli anni ’50. Originali. Funzionanti. E poi c’è lui, il gatto alieno, nato da più di 200 metri di filo di ferro e presente accanto ai fratelli Roberto e Maurizio Opalio per il loro debutto nel 1998 sul palco dei
Sonic Youth. Ora capisco perché Thurston Moore dice: “My Cat Is An Alien is My Cat is An Alien”. Questa è un’altra realtà. Inizialmente Roberto aveva risposto alla mia proposta di intervista con l’idea del silenzio: immaginava pagine senza parole, lunghe circa nove anni, un tributo a John Cage e alla sua opera 4’33”. Quando poi ci accordiamo per incontrarci e organizziamo un rapimento consenziente per raggiungere lo studio, tornata a casa la sera mi accorgo che la registrazione delle domande+risposte non c’è più. Sparite le voci e spariti i suoni dal registratore rimasto acceso per ore. Come desiderava Roberto Opalio: un’intervista in silenzio che si manifesta come uno stato di puro onirismo. La mia memoria va alla terza traccia del doppio LP “The Dance Of Oneirism” (2015) firmato dai My Cat Is An Alien, colonna sonora nell’esperienza psichica della
Rapimento alieno. © Corinna Conci. Da sinistra: Roberto Opalio, Corinna Conci, Maurizio Opalio Nella pagina a fianco: Veduta interna dell’Alien Studio dei My Cat Is An Alien, Torino. Foto Courtesy: MCIAA Archives
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mia visita al loro studio. La musica è il nucleo centrale del vostro lavoro, caratterizzato da una cifra intermediale e fluida che utilizza i linguaggi della fotografia e del video, della pittura e della scultura. My Cat Is An Alien: Concepiamo la musica come il fil rouge che lega qualunque altro lavoro e media artistico che utilizziamo. Data la nostra natura di outsiders, la musica di MCIAA non ha referente alcuno se non gli stessi MCIAA. Dall’inizio della nostra carriera abbiamo pubblicato più di 200 album con le etichette del settore più rilevanti a livello internazionale, curandone ogni artwork. Per esempio il progetto “From the earth to the Spheres” (2004-2006) era volto a mettere in discussione la relazione tra arte visiva e sonora, creando un caso senza precedenti: una serie di collaborazioni su vinile la cui “copertina” era un originale dipinto mixed media creato da Roberto in 100 esemplari. Un oggetto da Museo o Galleria che forniva, nell’era imperante del CD, la possibilità di superare il confine tra arte alta e cultura pop. Aprivano e chiudevano la serie Thur-
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ston Moore e Christian Marclay. L’obiettivo era chiaro: “Music beyond Art / Art beyond Music”. La vostra arte e il materiale con il quale la costituite comunicano un contatto tra voi e lo spazio, inteso come territorio ma anche come sistema solare e oltre, l’ “outer space” come lo definite voi. Maurizio Opalio: Tutto ciò che proviene dal cosmo e che ha originato questo pianeta prima o poi torna in superficie. Quando mi trovo su vette di oltre 3.000 metri, raccolgo frammenti di roccia che attirano la mia attenzione: andranno a costituire installazioni di mio fratello e mie, sulle quali dipingo a inchiostro un alfabeto quasi medianico che chiamo “scrittura cosmogonica”. Il vuoto è un concetto che riecheggia spesso nella vostra poetica, a partire dal titolo del doppio LP del 2006 “Greetings from the Great Void” per arrivare allo scritto firmato da Roberto, contenuto nel cofanetto triplo CD “What Space Is Made For” (2011). Roberto Opalio: Il “Grande Vuoto” è l’a-
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rea più estrema e non-finita di spazio che racchiude e permea tutto l’esistente. Rappresenta anche la dimensione di assoluta incolmabilità psico-esistenziale. È il senso stesso della nostra arte e musica. No-Mind. Total Freedom. La natura ontologica delle nostre creazioni. Nella nostra musica i ruoli miei e di mio fratello sono, allo stesso tempo, totalmente antitetici e complementari: tramite simpatetici canali invisibili di interconnessione e decostruzione forgiamo estensioni poetiche che collassano e riaffiorano dallo strapiombo del Grande Vuoto. Il nostro lavoro è un ponte tra arte primordiale e ciò che si spinge oltre il futuro. Pur vivendo totalmente il presente, qui e ora. Siete stati invitati ad attivare musicalmente il Padiglione Francia della 57. Biennale di Venezia durante i tre giorni di vernissage. Come è andata questa esperienza? My Cat Is An Alien: Siamo stati chiamati da Xavier Veilhan, su suggerimento di Christian Marclay in veste di curatore, a inaugurare il Padiglione francese trasformato in un enorme studio di registrazione. Conosciamo Christian dal 2002, entusiasta dell’LP
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My Cat Is An Alien / Christian Marclay, From the earth to the Spheres, Vol.7, split ART LP (2006). Foto Courtesy: MCIAA Archives
pubblicatoci da Thurston Moore, e considerando l’approccio performativo potente e radicale di MCIAA lo ha ritenuto adatto ad attivare Studio Venezia. Veilhan ci ha lasciato carta bianca e tutti i feedback di shock positivo nei nostri confronti hanno ripagato la sua fiducia. Dopo aver suonato due strutture sonore dei fratelli Baschet, il Direttore della Fondazione ci ha subito proposto una collaborazione in Francia, e la loro discendente si è commossa vedendo in noi lo stesso spirito di ricerca con cui i fratelli Bernard e François avevano creato questi strumenti negli anni ’50. Siamo radicali compositori istantanei: la musica deve vivere l’istante, hic et nunc, senza che nulla sia stabilito, né concepito verbalmente o mentalmente. Perciò abbiamo vissuto l’esperienza di Studio Venezia come spazio di registrazione “totale”, in cui l’interazione con il pubblico doveva far parte integrante dell’atto creativo e delle registrazioni stesse. Quali sono i vostri prossimi progetti? My Cat Is An Alien: È appena uscita la pri-
ma monografia d’arte su MCIAA “the other sound of art” (Kappabit). La prossima mostra (“Oltre il libro d’artista”) sarà tesa a scardinare tutti i parametri precostituiti legati al concetto di private press artists’ books, dopo anni di art editions anche in ambito fonografico. Stiamo inoltre lavorando ad un ambizioso progetto discografico e museale riguardante le registrazioni di Studio Venezia, in cui le composizioni istantanee verranno ricontestualizzate trasformandone la propria natura ontologica. My Cat Is An Alien (MCIAA). Progetto dei fratelli Maurizio e Roberto Opalio. Il duo si forma a Torino a fine 1997, prima di trasferirsi in una remota e segreta regione delle Alpi Occidentali. MCIAA è un’entità intermediale che ingloba musica sperimentale in forma di composizioni istantanee, sciamaniche live performance audiovisuali, film e video di “poesia cinematica”, pittura, installazione, fotografia, design, scrittura e poesia, edizioni fonografiche d’arte e libri d’artista. Considerati “outsider”, l’originalità e la mole del loro universo artistico gli valgono la copertina di
The Wire. Contano oltre 200 dischi licenziati in tutto il mondo dalle più prestigiose etichette d’avanguardia. Sono ospiti dei maggiori festival musicali e mostre museali internazionali, tra cui Sonic Youth etc.: Sensational Fix (2008-2012). Hanno collaborato con artisti del calibro di Thurston Moore e Christian Marclay. Nel 2017 hanno inaugurato per Xavier Veilhan il Padiglione francese alla 57. Biennale d’arte di Venezia. Info: www.mycatisanalien.com Eventi futuri: Performance intermediale: My Cat Is An Alien Trafó House of Contemporary Arts, Budapest (HU) Trafó Grand Hall, UH Fest 2017 7 ottobre 2017, ore 18.00 www.trafo.hu Presentazione catalogo e live performance: “My Cat Is An Alien. The other sound of art” Circolo della Stampa, Palazzo Ceriana Mayneri, Torino 15 novembre 2017, ore 21.00 www.palazzocerianamayneri.it Personale: My Cat Is An Alien “Oltre il libro d’artista” Galleria Libreria Antiquaria Freddi, Torino 16 – 30 novembre 2017 Inaugurazione giovedì 16 novembre ore 18.00 www.antiquafreddi.it Galleria di riferimento: CONTACT artecontemporanea, Roma www.galleriacontact.it
My Cat Is An Alien, live performance a Studio Venezia (2017) di Xavier Veilhan, 57. Biennale Arte Venezia. Foto: © Photo Diane Arques / Veilhan / ADAGP, Paris, 2017
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ARTE
STUDIO LA CITTÀ. DIECI ANNI IN GALTAROSSA VERONA | STUDIO LA CITTÀ | FINO AL 30 SETTEMBRE 2017 Intervista a HÉLÈNE DE FRANCHIS di Francesca Di Giorgio
Oltre 300 mostre nella galleria di Lungadige Galtarossa 21, senza contare quelle “esterne” nate dall’intreccio di relazioni e collaborazioni sviluppate negli anni. Studio la Città di Verona fa il punto dei suoi ultimi dieci anni, i primi nella “nuova” sede, anche se il suo CV va ben oltre un decennio, con due mostre di inizio stagione costruite come una ininterrotta sequenza di fotogrammi, gli scatti di Michele Alberto Sereni, e una “connection” apparentemente insolita con il mondo della bici e in particolare con Dario Pegoretti che pensa, concepisce ed esegue un telaio per bicicletta proprio come farebbe un’artista.
Un paio di anni fa avevamo incontrato la direttrice Hélène de Franchis che ci aveva svelato molto sul suo modo di intendere l’arte, oggi la raggiungiamo mentre è a Dubai, in occasione di The Eclipse di Jacob Hashimoto, la mostra alla Leila Heller Gallery e a Verona sono già in cantiere una personale di Emil Lukas (dal 12 ottobre), con alcune delle opere esposte anche a Venezia durante la Biennale e alcuni pezzi nuovissimi e un progetto particolare, a dicembre, a cura da Marco Meneguzzo con una serie di importanti opere degli anni ’70: Smith, Leverett, Hoyland, Camoni, Caccioni, Dorazio, Fogli, Folci ecc…
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La prima cosa che ha pensato quando ha visto installate, come fotogrammi di un lunghissimo film, le immagini scattate da Michele Alberto Sereni sulle mostre realizzate negli ultimi dieci anni? Devo dire che non ho dato grande importanza ai dieci anni, perché in confronto ai quasi 50 dalla nascita della galleria non rappresentano un numero particolarmente emozionante… ho trovato però divertente rivedere tutte quelle foto, veramente non mi sembrava fosse passato tanto tempo. Tutto mi è parso molto recente e molto vivo. Una bella sensazione.
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Guardare indietro spinge a fare i conti con soddisfazioni, delusioni, stimoli e spunti per progetti futuri… Con quale filosofia ha pensato alla mostra Dieci anni in Galtarossa e come pensa sarà utile questo flashback per impostare il lavoro futuro? Ho già intitolato la mostra dopo i 35 anni, je ne regrette rien, ed è ancora così: non che non mi renda conto di aver fatto degli errori o delle valutazioni azzardate, ma mi sembra che il tutto faccia parte proprio del mio carattere e della vita in generale. Avrei voluto fare anche altre cose ma non è stato sempre possibile. A volte divento intollerante e per puntiglio scarto delle cose, per fortuna guardando quelle foto so solo io cosa non avrei dovuto scartare o scegliere. Quello che ho capito riguardando questi dieci anni è che ci sono state delle mostre che mi hanno dato veramente piacere e mi hanno fatto capire cose che non avrei mai potuto comprendere se non vivessi nell’arte. È sempre utile fare un riepilogo per poter continuare con le motivazioni giuste. Il luogo scelto come ultima sede della galleria, come ha sottolineato anche Marco Meneguzzo in un testo in catalogo, non è affatto scontato. In un certo senso Studio la Città ha assistito, e partecipato,
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alla nascita di un nuovo distretto creativo veronese? Non credo proprio di essermi spostata in Lungadige Galtarossa perché pensavo di iniziare un distretto creativo veronese… Dieci anni fa in questa città questo concetto era ancora in fieri. Ho scelto questo posto semplicemente perché mi piaceva! Questo spazio è lo spazio ideale per il mio lavoro: soffitti alti, spazi aperti, luce fantastica è il sogno di qualsiasi gallerista newyorchese. È anche vero che quando mi sono spostata, alcuni amici mi hanno detto con preoccupazione che ‘andavo in periferia’ (in realtà siamo a poco più di 800 metri dall’Arena), ma è pur vero che l’arte contemporanea fa fatica a trovare spazi nei centri storici delle città Italiane. The Bike Connection, il secondo progetto inaugurato in parallelo in galleria, lo scorso 16 settembre, è strettamente collegato sia agli spazi di galleria sia all’arte e agli artisti con cui collabora. Ci può raccontare il legame con Dario Pegoretti? La mostra The Bike Connection è una stravaganza nata inizialmente per caso, poi è diventata una cosa seria e attualissima. Ho conosciuto Dario Pegoretti perché uno dei miei artisti, Jacob Hashimoto, aveva già una
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The Bike Connection, installation view, Studio la Città, Verona. Foto: Michele Alberto Sereni Nella pagina a fianco: Dieci anni in Galtarossa, Misura del tempo – Michele Alberto Sereni, 2017, installation view. Foto: Michele Alberto Sereni
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sua bicicletta e mi parlava di questo telaista spiegandomi che era il number one nel suo settore. Quando per caso si è trasferito in un capannone della Galtarossa l’ho conosciuto e, naturalmente, Hashimoto ha subito voluto un’altra bici. La condizione di Pegoretti è stata che se la dipingesse Hashimoto stesso. Così la bicicletta reca due firme: quella di Pegoretti e quella di Hashimoto. Da qui è nata l’idea di fare una mostra sulle eccellenze della bici e dell’arte per far capire che la qualità è la cosa che unisce tutto. Così è intervenuta la Brooks England number one delle selle in cuoio raffinatissimo e il lavoro di due artisti, Jacob Hashimoto e Dario Pegoretti. Abbiamo poi completato la “connection” con il design esponendo per gentile concessione di Zanotta quattro sgabelli Sella di Gian Giacomo e Achille Castiglioni. Ho poi invitato Shaun Gladwell, artista australiano di fama internazionale, a fare una performance su una sua bici, è stato emozionante, degna del più grande museo contemporaneo! Insomma ci siamo veramente divertiti. Desideravo proprio aprire la stagione in un modo ludico per dare avvio ad una stagione che auspico ricca di idee nuove.
chi sono e quello che faccio, trovo che chi cerca deve cercare, se riceve tutto su un piatto o lo scopre con un click non ha lo stesso significato e rischia di fraintendere l’importanza della notizia e la necessità di approfondire. La conseguenza di questo è lo sguardo superficiale, la necessità di produrre delle immagini che abbiano un impatto immediato. Ho letto questa frase tempo fa: “…ciò che non si vede ma che esiste, coperto dal silenzio, in attesa dello sguardo che sa vedere”. Vorrei continuare a credere di avere quello sguardo.
Com’è cambiato il lavoro del gallerista in questi ultimi dieci anni? Quali valutazioni sono davvero fondamentali per creare basi solide? In questi dieci anni il mondo dell’arte è cambiato tantissimo, come del resto un po’ tutto nel mondo. Io cerco di mantenere gli ideali e la ricerca di quando ho iniziato. La globalizzazione ha cambiato molte cose, internet e i social hanno stravolto la comunicazione. Non ho sempre voglia di far sapere a tutti
Orari: da martedì a sabato, dalle 9:00 alle 13:00 e dalle 15:00 alle 19:00
Dieci anni in Galtarossa. Misura del tempo foto di Michele Alberto Sereni catalogo con testo di Marco Meneguzzo The Bike Connection Dario Pegoretti – Brooks England con video e performance di Shaun Gladwell 16 – 30 settembre 2017 Studio la Città Lungadige Galtarossa 21, Verona
Info: +39 045 597549 info@studiolacitta.it http://studiolacitta.it
Dall’alto: Achille e Pier Giacomo Castiglioni, Sella, 1957, sella nera di bicicletta da corsa, asta in acciaio verniciato in rosa, basamento in fusione di ghisa Mostra 322. Back to the Land - Andreco, Cristian Chironi, Neha Choksi, Andrea Nacciarriti, Giorgia Severi, Julius Von Bismark, Francesco Simeti, a cura di Andrea Lerda. Foto: Michele Alberto Sereni
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Laura Giardino
Out of Field Inaugurazione 14 ottobre h. 17.30 A cura di
Marina Guida Promossa da
Assessorato alla Cultura e al Turismo del Comune di Napoli PAN Palazzo delle Arti di Napoli, Via dei Mille 60, Napoli 15 ottobre - 7 novembre 2017 In collaborazione con
Galleria AREA\B, Milano - 02 890 59 535 | 02 58 316 316 - info@areab.org - www.areab.org Catalogo
E20 Progetti Editore, con testo critico di Marina Guida Info al pubblico
081.7958651 – pan@comune.napoli.it
assessorato alla cultura e al turismo
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LA MOSTRA
TUTTI GLI “ISMI” DI ARMANDO TESTA: UN MONUMENTO ALLA CREATIVITÀ ROVERETO (TN) | MART | 22 LUGLIO – 15 OTTOBRE 2017 Intervista a GEMMA DE ANGELIS TESTA di Eleonora Roaro
Con la mostra Tutti gli “ismi” di Armando Testa il MART di Rovereto rende omaggio all’estro di Armando Testa (Torino, 1917 – Torino, 1992) in occasione del centenario della sua nascita. Le sue creazioni, in cui l’umorismo è un elemento fondamentale, concedono un’evasione dall’ovvietà del reale, e in questo è fortissima l’influenza dei più importanti “ismi” del Novecento: futurismo, surrealismo, astrattismo. Gemma De Angelis Testa, moglie di Armando e curatrice della mostra assieme a Gianfranco Maraniello, ha definito l’esposizione un monumento alla creatività, in quanto si concentra non solo sulla sua
attività da pubblicitario, ma anche sui suoi riferimenti visivi e al suo rapporto con l’arte. Abbiamo incontrato Gemma Testa e dialogato sul suo ruolo di collezionista, del suo legame con il marito e, soprattutto, della comune passione per l’arte. Chi era Gemma prima dell’incontro con Armando Testa? Come vi siete conosciuti e come questo ha cambiato le vostre vite? Sin da bambina ho sempre mostrato interesse per l’arte: mi divertivo a sfogliare cataloghi di grandi artisti quali Modigliani, Morandi e Van Gogh. Questa mia naturale
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Gemma Testa al Mart in occasione dell’apertura della mostra. Foto: Mart, Jacopo Salvi
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inclinazione ha gettato le basi per il mio futuro interesse verso l’arte contemporanea. Ho incontrato Armando Testa a Venezia nel 1970 dove partecipavo al concorso per l’elezione della cinemodella dell’anno, che si teneva in concomitanza con il Festival del film pubblicitario di cui Armando presiedeva la commissione. Avevo già alle spalle una breve ma intensa carriera di fotomodella e collaboravo con grandi fotografi. Armando ha intuito il mio potenziale creativo e mi ha chiesto di lavorare accanto a lui. Per anni ci siamo dedicati all’approfondimento dell’arte contemporanea, in uno scambio continuo e reciproco di stimoli e conoscenze. Dopo alcuni anni dalla scomparsa di mio marito sono rientrata a Milano che, malgrado fosse una città artisticamente viva, poteva sviluppare maggiormente il dialogo tra pubblico e privato. Ho pensato quindi a un progetto e, in un’ottica di mecenatismo collettivo, mi sono messa in contatto con alcuni importanti collezionisti. Nel 2003 su mia iniziativa è nata l’Associazione ACACIA che, ancora oggi, porta avanti la sua missione sostenendo l’arte contemporanea e gli artisti italiani. La comune passione per l’arte è stata un’occasione di crescita reciproca? In che modo vi influenzavate a vicenda?
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L’arte è stata la colonna sonora che ha accompagnato la nostra vita insieme. Mio marito era una persona piena di vitalità, allegra e curiosa: era difficile annoiarsi, trovava sempre qualcosa da fare, qualche luogo da scoprire, qualche mostra da visitare. L’arte per noi rappresentava una visione del mondo, in grado di evidenziare temi universali. Lui non era un collezionista e all’inizio anch’io non ci pensavo, l’unica cosa di cui amava circondarsi erano i libri che con il passare degli anni hanno letteralmente invaso la nostra casa. Mio marito mi ha insegnato che le grandi opere parlano da sole
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Dall’alto: Armando Testa, Pippo (Lines), 1966-67. Courtesy: Collezione Gemma De Angelis Testa Tutti gli “ismi” di Armando Testa, veduta dell’allestimento. Foto: Mart Rovereto, Jacopo Salvi
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e che trasmettono, attraverso la forma e il segno, il loro contenuto. C’è una campagna di Armando Testa alla quale è particolarmente legata? Tutte le campagne di Armando sono memorabili, ma io sono particolarmente affezionata a quelle che abbiamo creato insieme, in particolare quella per Sorrisi e Canzoni, che ha avuto origine da una mia idea: ho immaginato l’urlo di Munch sotto un casco da motociclista. Una sintesi perfetta, un legame pittorico, che è piaciuto molto a mio marito. La campagna venne apprezzata anche dal pubblico ed ebbe un grande successo. Oggi come promuove la figura e il patrimonio creativo di suo marito e qual è stato il suo ruolo nella mostra in corso al Mart di Rovereto? Dalla scomparsa di Armando mi dedico al suo archivio e ogni volta scopro sempre qualcosa di nuovo. È un’inesauribile miniera di spunti e idee da cui nascono nuovi progetti e stimoli per nuove esposizioni. Dopo la sua scomparsa ho co-curato tutte le sue mostre. L’ultima iniziativa alla quale ho lavorato è la personale Tutti gli “ismi” di Armando Testa al Mart di Rovereto. Il Direttore Gianfranco Maraniello ed io abbiamo collabora-
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to in sintonia per presentare un’esposizione straordinaria, un monumento alla creatività di Armando. La mostra, organizzata per temi, comprende gran parte dell’attività di mio marito, evidenziando la contemporaneità di molte sue invenzioni e presentando anche opere inedite. Il titolo trae ispirazione da una dichiarazione di Armando ed esplora a 360° gradi la sua opera attraverso un percorso che comprende manifesti, disegni, fotografie, dipinti e sculture, il tutto scandito da interviste storiche e spot televisivi. Qual è oggi l’eredità di Armando Testa nell’immaginario italiano e non solo? L’eredità di Armando è tutt’ora la sua contemporaneità che è fonte d’ispirazione per tanti artisti, in passato come oggi. Penso ad esempio alla lampadina limone e alla ricerca connessa al tema del cibo, entrambe nate come vere e proprie ricerche artistiche. Nell’ultimo periodo la nuova generazione di artisti e critici è riuscita a guardare alla sua attività con uno sguardo nuovo e inconsueto, ed è proprio da questo nuovo approccio alla sua produzione, che nascono i nuovi progetti realizzati e quelli in corso di realizzazione. Armando ha avuto un ruolo di anticipatore che ha saputo cogliere con lungimiranza il potere delle immagini, e l’importanza della loro condivisione negli
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scambi e nelle relazioni che oggi intessiamo quotidianamente, soprattutto attraverso i social networks come Instagram. TUTTI GLI “ISMI” DI ARMANDO TESTA a cura di Gianfranco Maraniello con Gemma De Angelis Testa 22 luglio – 15 ottobre 2017 Mart – museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto Corso Bettini 43, Rovereto (TN) Info: +39 0464 438887 info@mart.trento.it mart@pec.mart.tn.it www.mart.tn.it
Tutti gli “ismi” di Armando Testa, veduta dell’allestimento. Foto: Mart Rovereto, Jacopo Salvi
torino | 2 - 5 novembre 2 0 1 7 ex ospedale maria adelaide
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SPAZI
FONDAZIONE DINO ZOLI: COSTRUIRE GLI SPAZI #ARTE&IMPRESA Intervista a NADIA STEFANEL di Chiara Serri
Le vetrate della Fondazione Dino Zoli danno sulla campagna. Uno spazio ampio – 1500 metri quadrati – e completamente modulabile, di volta in volta ridefinito per ospitare la raccolta d’arte, le mostre e gli eventi. Arte, imprenditoria e attenzione al territorio per una realtà che promuove lo sviluppo della cultura con uno sguardo teso al sociale. Incontriamo Nadia Stefanel, dal gennaio 2017 Cultural and Communication Manager presso il Gruppo Dino Zoli, a pochi giorni dalla sua partenza per Singapore dove, in occasione del Gran Premio di Formula 1 (illuminato da DZ Engineering, società del Gruppo Dino Zoli), curerà la mostra fotogra-
fica di Mindy Tan e Wilfred Lim dedicata alla Motor Valley… Come e quando è nata la Fondazione Dino Zoli? La Fondazione Dino Zoli è nata ufficialmente nel 2007 da una scommessa di Dino Zoli – che fa impresa con ottimismo e passione dal 1972 – attraverso la collaborazione con una galleria di Forlì. Per la Fondazione è stato costruito appositamente un grande edificio, inserito nel contesto aziendale. Il primo direttore è stato Maurizio Vanni, ora al Lu.C.C.A. – Lucca Center of Contemporary Art, che ha organizzato, in particolare, due
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Fondazione Dino Zoli. Foto: Vincenzo Bruno Nella pagina a fianco, dall’alto: Nadia Stefanel in visita alla Biennale Arte 2017, Padiglione Gran Bretagna Motor Valley, a tale. An italian project – Mindy Tan, Dino Zoli (fondatore Gruppo Dino Zoli) presso Fondazione Dino Zoli, Forlì
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grandi eventi dedicati a Baldessari / Depero e Schifano. Quali sono le peculiarità dell’edificio che ospita la Fondazione? La Fondazione è alloggiata al secondo piano di un edificio di 1500 metri quadrati. Uno spazio modulabile che gira su se stesso: luci e pannelli si muovono, infatti, su lunghi binari, così da poter ridefinire continuamente gli spazi. Oltre all’area espositiva, l’edificio ospita una sala conferenze, una sala di lettura, la zona bar e la hall, dove è installata la grande Goccia della Terra dell’artista Franco Scepi, simbolo dell’ultima goccia d’acqua sulla Terra, dedicata a tutte le madri. La nascita della raccolta d’arte? Le opere principali che la compongono? Le prime acquisizioni sono state orientate da Dino Zoli e dai vari direttori. Abbiamo opere di Perilli, Bonalumi, Moreni, Paladino, una scultura di De Chirico, uno Scanavino del 1970, lavori di Baj, Ontani, Veronesi e Crippa, scenografie di Rotella, sculture di Lodola e molto altro. Al momento abbiamo individuato due ambiti su cui lavorare: il tessuto e l’illuminazione, che coincidono con i due core business del Gruppo: DZ Textile e DZ Engineering. Desideriamo relazionarci
con artisti giovani che utilizzino la stoffa, la luce, la fotografia. L’azienda è sempre presente. È un viaggio comune… Quali sono state le principali attività da gennaio ad oggi? Il nostro primo passo è stato creare una connessione forte con il territorio. Prima si crea una comunità e poi si cammina… Forlì è un territorio interessante: i Musei di San Domenico negli ultimi dieci anni hanno lavorato molto bene, così come la Fondazione Cassa di Risparmio. Cerchiamo di inserirci in questo contesto avanzando proposte di qualità. Il primo evento che abbiamo organizzato negli spazi della Fondazione è stata la mostra Touroperator di Massimo Sansavini, dedicata ai naufragi di Lampedusa.
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Un tema difficile, politicamente schierato, una scelta coraggiosa che, tuttavia, ci ha ripagato, coinvolgendo un cospicuo numero di visitatori. Sansavini è stato il primo ad entrare nella base NATO di Lampedusa per recuperare i legni degli scafi. Dramma, morte e tragedia riconvertite dall’artista in nuova speranza. È nostra ferma convinzione che l’arte e la cultura possano dare un orientamento e trasferire al pubblico significati forti. Una parte del progetto è stata allestita anche a Bologna, nella sede della Regione, perché riteniamo che fare rete sia fondamentale. Per questo, abbiamo aderito anche alla Rete transfrontaliera dei Musei dell’Adriatico. Abbiamo inoltre organizzato iniziative connesse al sociale ed una cena benefica con un’asta di opere d’arte il cui ricavato è stato devoluto all’associazione sportiva dilettantistica ISB di Forlì, che si occupa di persone diversamente abili, in occasione della partenza della dodicesima tappa del Giro d’Italia da Forlì. Per quanto riguarda i progetti “fuori sede”? Nella settimana del Gran Premio di Formula 1 di Singapore presenteremo, presso The Arts House di Singapore, il progetto Motor Valley, a tale. An italian project. Un’idea nata
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in collaborazione con DZ Engineering, società del Gruppo Dino Zoli che illumina anche i grandi autodromi. Attraverso il Festival Internazionale di Fotografia di Singapore, abbiamo selezionato due giovani fotografi, Mindy Tan e Wilfred Lim, che lo scorso giugno sono stati in residenza tra Forlì, Imola, Bologna e Modena, fotografando la Motor Valley. Ne è uscito un piccolo mondo antico, fatto di motori, musei e tradizioni, fotografati con gli occhi meravigliati di uno straniero. Potremo vedere alcune delle opere di Mindy Tan e Wilfred Lim anche in Italia? Sì, sempre in settembre, per la Settimana del Buon Vivere, allestiremo in Fondazione la mostra Stories. I racconti della Motor Valley, un percorso incentrato sulle persone incontrate lungo gli itinerari della Motor Valley. Progetti in cantiere? Tanti. In primo luogo la collaborazione con Silvia Camporesi che ha avuto accesso a tutti gli spazi aziendali riportando un intenso spaccato di artigianalità e competenza. L’artista ha fotografato i materiali, i tessuti, le mani al lavoro, raccontando una parte importante della nostra storia. In secondo luogo, la collaborazione con Mustafa Sabbagh, dal quale acquisiremo presto due
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opere dedicate alla Ebe del Canova, realizzate in occasione del bicentenario della commissione della statua simbolo di Forlì. Una fotografia sarà esposta in Fondazione, l’altra sarà donata ai Musei di San Domenico. In ottobre, l’artista sarà inoltre presente presso la nostra sede con una selezione di fotografie tratte dalla serie Made in Italy e, molto probabilmente, con un lavoro sitespecific, unico e tridimensionale, pensato a partire dai tessuti DZ Textile. Nel 2018, infine, in occasione del cinquantenario della morte di Pino Pascali stiamo ipotizzando di realizzare una mostra di suoi disegni insieme alla Fondazione Museo Pino Pascali. Nadia Stefanel nasce nel 1972 a Ginevra, vive e lavora tra Correggio (RE) e Forlì. Dopo undici anni alla direzione del Correggio Art Home, centro studi dedicato ad Antonio Allegri, dal 2017 è Cultural and Communication Manager presso il Gruppo Dino Zoli e Direttore della Fondazione Dino Zoli. Eventi in corso: Mindy Tan e Wilfred Lim, Motor Valley, a tale. An italian project A cura di Nadia Stefanel The Arts House 1 Old Parliament Lane, Singapore Mostra promossa da DZ Engineering in
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collaborazione con Fondazione Dino Zoli Con il patrocinio dell’Ambasciata d’Italia a Singapore, dell’Istituto Italiano di Cultura a Singapore, della Regione Emilia Romagna 14 – 17 settembre 2017 Info: www.theartshouse.sg Mindy Tan e Wilfred Lim, Stories. I racconti della Motor Valley A cura di Nadia Stefanel Mostra promossa dalla Fondazione Dino Zoli in occasione della Settimana del Buon Vivere (settimanadelbuonvivere.it) 23 settembre – 15 ottobre 2017 Fondazione Dino Zoli Viale Bologna 288, Forlì Orari: martedì-giovedì ore 9.30-12.30, venerdì-domenica ore 9.30-12.30 e 16.0019.00, chiuso il lunedì. Ingresso libero Info: Fondazione Dino Zoli +39 0543 755770 info@fondazionedinozoli.com www.fondazionedinozoli.com
Motor Valley, a tale. An italian project - Wilfred Lim, Museo Panini, Modena
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ARTE
WILLIAM KENTRIDGE ALLE OGR DI TORINO: DOVE STORIA, ARTE E CREATIVITÀ SI INCONTRANO TORINO | OGR – OFFICINE GRANDI RIPARAZIONI | DAL 30 SETTEMBRE 2017 Intervista a WILLIAM KENTRIDGE di Elena Inchingolo
A Torino, dopo il maestoso murales romano Triumphs and Laments, realizzato nel 2016 sul Lungotevere, William Kentridge realizza un’altra opera di arte pubblica intitolata Procession of Reparationists. L’opera, ispirata al lavoro dell’uomo nella pratica di riparazione dei treni, sarà svelata il 30 settembre nella Corte Est dell’edificio in occasione della grande festa inaugurale che, nella riqualificazione dell’ex-area industriale, sancisce l’apertura di un nuovo polo d’arte e innovazione culturale. L’opera di William Kentridge è stata com-
missionata e interamente sostenuta dalla Fondazione CRT per l’arte Moderna e Contemporanea, su invito di Carolyn ChristovBakargiev, Direttrice del Castello di Rivoli – Museo d’Arte Contemporanea a cui ne è stata affidata la curatela e la produzione. Procession of Reparationists è la prima di una serie di commissioni pubbliche – le Corte Est Commissions – realizzate site-specific da grandi artisti e pensate per essere fruibili dall’intera città. A Kentridge abbiamo rivolto alcune domande per meglio comprendere il processo cre-
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Qui e nella pagina a fianco, in alto: William Kentridge, Procession of Reparationists, 2017, 15 silhouette in acciaio, 13 basi in cemento e ferro, 410 x 350 x 41200 cm ca., Fondazione per l’Arte Moderna e Contemporanea CRT, 2017, in comodato presso Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, Rivoli-Torino Nella pagina a fianco, in basso: OGR - Officine Grandi Riparazioni, Torino. Foto: Daniele Ratti
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ativo del suo fare arte ed in particolare dell’opera destinata ad entrare nella Collezione della Fondazione CRT per l’Arte Moderna e Contemporanea. Le sue opere nascono da una “cross-fertilization between media”: disegno, video, scultura. Ha seguito lo stesso processo costitutivo anche per la realizzazione di Procession of Reparationists, l’opera sitespecific che ha pensato per l’inaugurazione delle OGR di Torino? L’opera alle OGR di Torino è stata determinata in parte dal fatto che le sculture dovessero essere ben visibili anche dallo spazio esterno. Inoltre era necessario fossero semplici perché non c’era né il tempo né il budget per realizzarle in tre dimensioni con materiali spessi e complessi. Ho pensato così di lavorare essenzialmente con disegni che sono diventati ritagli di carta, i quali a loro volta si sono trasformati in silhouette di acciaio rigido. In queste opere più elementi si sovrappongono e si intersecano tra loro: c’è qualcosa della ruvidezza della carta intagliata, c’è la pesantezza della scultura in metallo – in questo caso spessi fogli d’acciaio – e ci sono le possibilità date dalle forme in acciaio tagliato che acquistano l’effetto della carta ritagliata. L’idea originaria che ha portato a Procession of Reparationists? Procession of Reparationists prende vita dalle caratteristiche specifiche dello spazio in cui, un tempo, a Torino, si riparavano i treni. L’opera espone il senso della storia industriale di quella parte dell’Italia, la migrazione delle persone che dal Sud si spostavano al Nord per lavorare nelle fabbriche, il fatto che le OGR siano state sede di così tanta fatica umana. Le sculture sono figure ibride di uomini e macchine, come se lavorando a lungo con esse, le persone fossero diventate un tutt’uno con la tecnologia: tra le altre ci sono ad esempio donne e orologi timbra-cartellino che, stremati dal lavoro quotidiano, si piegano gli uni contro gli altri a formare una sagoma unica. Per ciascuna di queste figure, mi sono ispirato a immagini tratte da fotografie d’epoca scattate sia all’interno delle OGR sia in altre fabbriche nel Nord Italia.
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cosa ha pensato? Lo trovai splendido, era un luogo completamente abbandonato con il suo cortile totalmente vuoto. Rendere le OGR uno spazio nuovamente fruibile con luci, sedute, arredi per eventi artistici e musicali inevitabilmente distrae dalla bellezza del luogo, deserto e grezzo così com’è senza interventi, dove tutto quello che c’è è la possibilità dell’immaginazione. Certamente, non appena si inizia a ristrutturarlo questa potenzialità è ridefinita dalle specifiche decisioni del progettista: esse, buone o cattive che siano, sono finalizzate a ricostruire uno spazio completamente, riducendone quindi la facoltà immaginativa.
sono allo stesso tempo elementi fissi, stabili, che, quindi, non si muovono nello spazio, ma si ispirano a immagini in movimento; sono come figure bloccate in acciaio pesante. Le sagome vorrebbero muoversi attraverso il tempo, ma non ne hanno la possibilità: esse rappresentano un tipo di tempo tenuto sotto controllo.
Ci può indicare tre parole che possano descrivere Procession of Reparationists, facendoci immaginare il risultato finale? Di fatto Processions of Reparationists è un insieme di sagome di persone e macchine assemblate… È difficile dare una risposta a questa domanda, anzi è impossibile in tre parole descriverne l’esito!
In che termini e in quale misura il teatro ha influenzato la sua pratica artistica? Sì, il teatro è per me molto importante! Esso ha molto a che fare con il movimento. Al netto della performance, il corpo dell’artista agisce sul palcoscenico come un pennello. Anche nel disegno il corpo assume lo stesso ruolo, attraverso i gesti e i movimenti del fare. In questo caso, ciò che restituisce teatralità al mio lavoro è il senso di costruire una possibile narrazione attraverso l’uso di più personaggi, non di una singola figura monumentale, ma di quattordici differenti figure che “attraversano” il cortile delle Officine Grandi Riparazioni.
La parola processione ci pone a confronto con un senso di avanzamento spazio-temporale. Quale significato ha per lei lo scorrere del tempo? Penso che come artista si debba pensare al mondo come ad una serie di fatti in continua trasformazione, cambiamento, provvisorietà. Le sculture di Procession of Reparationists, tuttavia, hanno in sé una contraddizione:
Sperimentare nuove processualità è un tratto distintivo del suo lavoro. Come è nato il progetto di Triumphs and Laments, l’epico murales realizzato lo scorso anno a Roma sul Lungotevere tra Ponte Mazzini e Ponte Sisto? Procession of Reparationists deriva dal progetto romano Triumphs and Laments, che consiste in imponenti figure di circa dodici
Quando ha visto per la prima volta le OGR
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metri di altezza realizzate con un processo di pulitura ad acqua delle pietre degli argini del Tevere. Procession of Reparationists, invece, si compone di figure di circa 4 metri di altezza in acciaio intagliato, ma il senso che accomuna entrambi i lavori è di espandere il carattere umano in una scala molto più grande di quella esistente. A Torino ho pensato alle sculture come ad un’immagine fissa che potesse essere fruita da diverse direzioni. A Roma, invece, mi sono concentrato sulla natura contraddittoria della storia per cui i trionfi e le celebrazioni di qualcuno sono i fallimenti e i disastri di qualcun’altro. Nel novembre 2016 ha fondato The Centre for the Less Good Idea, a Maboneng, il nuovo distretto artistico di Johannesburg. Si tratta di uno spazio post-industriale ripristinato e dedicato allo sviluppo del processo artistico in forma multidisciplinare. La sua fondazione è un luogo paragonabile alle OGR? Forte di questa esperienza, cosa si sente di suggerire per un’efficace gestione del progetto torinese? La mia fondazione non può essere parago-
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nata alle OGR. Le Officine Grandi Riparazioni sono un enorme edificio post-industriale che, con il supporto di fondi cittadini (pubblici e privati), viene convertito in un grandioso centro d’arte, con spazi dedicati alle mostre, al teatro ed alla musica, in cui, a mio avviso, saranno possibili grandi progetti pubblici. The Centre for the Less Good Idea è un piccolo spazio che può collocarsi in un angolo, in una stanza delle OGR. È un luogo indipendente in cui, per esporre, non è necessario scrivere alcun progetto. È un centro dove artisti, musicisti, attori, cantanti si incontrano per collaborare, sperimentare, testare le proprie idee, consentendo quella “stupidità” tipica del processo creativo ancora non completato, che non sarebbe possibile in un’istituzione di grandi dimensioni, con persone che hanno bisogno di sapere in anticipo cosa si sta facendo o come i fondi verranno impiegati. Quindi, quando ho visto lo spazio delle OGR ho nutrito una certa invidia per questo gigantesco e meraviglioso edificio industriale, ma successivamente, quando ho pensato all’organizzazione che è necessaria per un luogo
William Kentridge, Triumphs and Laments, work in progress, Roma. Foto: Luciano Sebastiano
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simile, sono stato molto contento del mio piccolo centro d’arte in Johannesburg. Per quanto riguarda il progetto torinese non ho suggerimenti per l’organizzazione; lo spazio necessita di una gestione capace, di una forte direzione artistica e di una molteplicità di impulsi. Tuttavia vorrei condividere, con le persone che trasformano questo edificio e che vi lavorano, un pensiero, simile al giuramento di Ippocrate: prova a non fare danni, intervieni il meno possibile sull’edificio e cerca di consentire alle persone di scoprire le logiche proprie dello spazio! William Kentridge è nato nel 1955 a Johannesburg (Sudafrica), dove vive e lavora. Progetto in corso: Procession of Reparationists OGR-Officine Grandi Riparazioni Corso Castelfidardo 22, Torino www.ogrtorino.it Galleria di riferimento: Lia Rumma, Milano/Napoli www.liarumma.it
PADOVA 2017 28ª MOSTRA MERCATO D’ARTE MODERNA E CONTEMPORANEA
10 - 13 NOVEMBRE FIERA DI PADOVA
Con il Patrocinio di:
Provincia di Padova
Comune di Padova
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ARTE
FOREVER NEVER COMES. COME UNA PROPAGAZIONE DI ONDE NEL TEMPO GROSSETO | AREA ARCHEOLOGICA DI ROSELLE E MUSEO ARCHEOLOGICO E D’ARTE DELLA MAREMMA | 26 AGOSTO 2017 – 26 GENNAIO 2018 Intervista a LAPO SIMEONI di Francesca Di Giorgio
In Forever Never Comes la dimensione temporale svolge un ruolo centrale non solo per le location museali coinvolte, l’Area Archeologica di Roselle (GR) e il Museo Archeologico e d’Arte della Maremma, per i due poli chiamati a dialogare – archeologia e contemporaneità – ma soprattutto per l’“attesa” evocata dal titolo: quel “sempre” (forever) che mai arriverà (never comes). L’arte contemporanea vive della e nell’attesa ma non è questa, forse, l’eternità a cui pensavano i nostri “antenati”… Il progetto, a cura di Lapo Simeoni, è l’ultimo, in ordine
di tempo, per l’artista nato ad Orbetello, in provincia di Grosseto, che da anni vive e lavora a Berlino e che si è già più volte confrontato con il ruolo di curatore. 44 artisti e quasi 70 opere per un viaggio spazio temporale ad ampio spettro. Da quali input nasce la mostra e come hai pensato di “costruirla”? Il luogo dove cresciamo nell’infanzia ci porta a costruire un immaginario che si ripercuote come una propagazione di onde nel tempo. Sono cresciuto nei luoghi del-
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Lapo Simeoni, dettaglio dell’artwork di Sandro del Pistoia. Foto: Carlo Bonazza, agosto 2017
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la mostra, dove molte popolazioni si sono susseguite, tra cui gli Etruschi, un popolo magico e misterioso. Tutti i frammenti della vita si possono rielaborare e possono essere messi in discussione se interfacciati con lo spazio ed il tempo. L’idea si è sviluppata come una naturale ricerca del mistero che l’uomo affronta dalla nascita, crescita e futuro, oltre lo spazio ed il tempo. Date queste premesse ho iniziato ad ideare Forever Never Comes alcuni anni fa, realizzando alcune mostre dalla tematica simile, studiando gli artisti che lavorano nello specifico con: tempo, antropologia, archeologia, consumismo e spazio solo per citarne alcune. In un periodo piuttosto lungo ho trasformato, sviluppato e livellato il progetto, creando quei collegamenti che potessero raggiungere una nuova chiave di lettura.
Forever Never Comes, Area Archeologica di Roselle (GR), ZONA 0. Foto: Carlo Bonazza
Com’è nato, invece, il confronto con l’Area Archeologica di Roselle e con il Museo Archeologico e d’Arte della Maremma? Il Museo Archeologico e l’Area Archeologica di Roselle sono due luoghi che raccolgono la storia temporale di una zona molto ampia. La Maremma è tuttora, per fortuna, intaccata marginalmente dal tempo del
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consumismo, si possono ancora visitare luoghi pieni di storia e magia. Da questi luoghi ho poi iniziato a studiare più approfonditamente la storia ed i reperti custoditi dal Museo e dall’Area Archeologica. Il Museo Archeologico si sviluppa in un percorso cronologico, andava quindi realizzata una metodologia curatoriale parallela, per poter far dialogare le opere d’arte contemporanea in stretta correlazione con le tematiche formali e temporali molto complesse contenute nei siti. Confrontarmi con la storia del passato, andando incontro alla vita contemporanea, fino ad affrontare delle visioni sul futuro, mi ha portato a curare la mostra in simbiosi con il Museo Archeologico e l’Area Archeologica di Roselle, andando sempre più nel profondo inconscio che lega il vivere nel tempo. Nel Museo sono presenti 40 sale numerate cronologicamente. Ogni artista invitato ha presentato un’opera o progetto, tenendo presente il dialogo con i reperti. Il visitatore entrando in ogni sala entra così in contatto con due mondi temporali diversi che dialogano, o si scontrano, a seconda della sensibilità dell’osservatore. Per l’Area di Roselle si tratta di spazi aperti molto diversi dalle sale adibite a
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Museo del Palazzo del Vecchio Tribunale. Su quali piani si è instaurato, quindi, il dialogo tra reperti e testimonianze conservati e gli artisti contemporanei coinvolti? Il Museo si sviluppa su tre piani, ogni piano raccoglie un periodo storico cronologico molto ampio che si ricollega in ogni piano, ritornando anche a ritroso in alcune sale, dal VII a.C al XIX (al 2 piano è presente un Museo nel Museo: il Museo d’Arte Sacra della Diocesi di Grosseto). Studiando la struttura/planimetria del Museo composta nei tre piani da 40 sale di varie dimensioni e dell’allestimento museale, ho avuto la possibilità di approfondire diversi livelli di lettura nel progetto. Grazie alla possibilità data dal Direttore del Museo Mariagrazia Celuzza e dal suo staff, di poter far interagire le opere direttamente con i reperti archeologici, ho lavorato sulla costruzione del percorso integrando le tematiche di ogni sala o singolo reperto con le opere di ogni artista invitato. Puoi farci qualche esempio pratico di come hanno lavorato gli artisti in loco? Al piano terra, la prima sala presenta un’opera di Luca Pozzi che introduce il visita-
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tore al rapporto tra uomo, spazio e tempo con un’enorme piattaforma su cui vi è stampato sopra un Black Hole nell’universo, sospesa su di essa una spugna che lievita grazie ad un campo elettromagnetico. Nella Sala 3 sono esposte nove opere di Francesca Ferreri inserite all’interno delle teche. Queste opere si mimetizzano e contrastano come dei reperti contemporanei ritrovati recentemente, bottiglie e oggetti di uso comune inglobate a frammenti ceramici, ricostruiscono mentalmente un salto a-temporale del consumismo ricomposto disorganicamente. Alcune opere sono state selezionate per la stretta connessione con i reperti come nella Sala 13 di Martina Merlini, altri artisti hanno lavorato site specific realizzando opere ispirate dai reperti stessi, come l’opera Present never dies, Future never lies (2017), di Eloise Ghioni. Le sale del piano terra raccolgono reperti provenienti dall’Area Archeologica di Roselle, quindi in collegamento diretto con la seconda parte del progetto. Massimiliano Pelletti, in accordo con la Soprintendenza, ha raccolto una pietra informe sporadica dall’Area Archeologica di Roselle per ricavarne e ricostruirne una sorta di figura arcaica, con degli oc-
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Forever Never Comes, Area Archeologica di Roselle (GR), ZONA 16. Gerard Moroder. Foto: Carlo Bonazza
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Forever Never Comes, Area Archeologica di Roselle (GR), ZONA 13. Philip Topolovac. Foto: Carlo Bonazza
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chi in madreperla e onice. La roccia successivamente è presentata nella Sala 11 del Museo dove sono raccolte le sculture Romane, ricreando quella sorta di ritrovamento contemporaneo in un’area archeologica. Un’altra opera in collegamento con questa sala è quella di Philip Topolovac, il quale ha presentato sotto al ciclo Statuario dell’Augusteo una sorta di archeologia statuaria post-guerra fredda, con varie sculture in gesso anche semi distrutte con calchi di vecchi satelliti russi insieme a sculture di putti settecenteschi. Philip Topolovac ha presentato poi a Roselle, di fronte alla Basilica dei Bassi, un braciere in ferro che riproduce la struttura del monumento Palazzo delle Civiltà realizzato in epoca fascista e che si rifaceva al periodo imperiale romano. Questa combustione temporale crea così un certo senso di spiazzamento portando lo spettatore a ripercorrere fasce temporali interconnesse. Così ogni sala del Museo o zona dell’Area di Roselle raccoglie 44 artisti e quasi 70 opere che si interfacciano con la tematica del tempo, per un periodo limitato, fino al 26 ottobre per l’Area Archeologica e fino al 26 gennaio 2018 per il Museo Archeologico.
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La “combustione” temporale di cui parli coinvolge anche l’anagrafe e la provenienza degli artisti molto varia… La mostra racchiude tre forme temporali: passato, presente e futuro, le quali, attraverso i reperti del Museo, creano una sorta di glich temporale che mette in discussione la visione classica del visitatore. Gli artisti sono stati invitati pensando quindi in relazione alla corrispondenza con le sale del Museo o con le zone selezionate insieme alla Soprintendenza. Un’opera, in particolare, che ho fortemente voluto è Dare Tempo al Tempo, un bellissimo arazzo realizzato da Alighiero Boetti nel 1988, unico artista storicizzato in mostra. Per scelta ho voluto poi invitare sia artisti emergenti e con una grande forza comunicativa per citarne alcuni: Andrea Martinucci, Cleo Fariselli, Luca Grechi, come artisti conosciuti a livello internazionale tra cui; Broomberg & Chanarin, Bosco Sodi, Moira Ricci, Aaron Van Erp, Paulo Nimer Pjota. Questo immenso patrimonio artistico museale, quindi, si confronta con generazioni diverse le quali affrontano queste tematiche con sensibilità completamente diverse e con una poesia o forza che trascende l’età anagrafica per misurarsi nella vastità della tematica affrontata.
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Ogni artista si, poi, è confrontato con due location che affrontano più livelli temporali sovrapposti non solo degli etruschi e dei romani ma include anche il Museo della Diocesi di Grosseto (opere del XII-XIX sec. d.C.), raccogliendo così più un’ulteriore fascia temporale in correlazione alle opere d’arte contemporanea, scontrandosi ed interagendo sia a livello concettuale sia formale con i reperti. Oltre alla visita della mostra quali altre occasioni di incontro avete pensato? In occasione della giornata AMACI, il 14 ottobre, verrà realizzato dal Museo Archeologico un convegno aperto al pubblico, per affrontare nello specifico grazie ad Archeologi, Artisti e Scienziati il rapporto tra Arte Contemporanea e Archeologia. Nei mesi successivi verrà invece presentato il catalogo che racchiude tutta la documentazione scritta e fotografica della mostra, successivamente verrà realizzato un ultimo evento finale. Sono già attivi i laboratori didattici presso il Museo, oltre che visite guidate ed eventi collaterali. Questo progetto voluto dall’amministrazione Comunale di Grosseto, e grazie alla Soprintendenza, vuole diventare per la sua unicità, promotore di un nuovo processo costruttivo tra Arte Contemporanea e Storia.
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FOREVER NEVER COMES. Metabolismo del Tempo a cura di Lapo Simeoni In collaborazione con: Comune di Grosseto, Museo Archeologico, Parco di Roselle, Soprintendenza Archeologia, Belle arti e paesaggio di Siena e Grosseto, Fondazione Boetti. Gallerie nazionali e internazionali: Aigen+Art – Berlino, Galleria The flat di Massimo Carasi – Milano, Galleria Collica Ligreggi – Catania. foundraising: BeArt. Foverer Never Comes www.forevernevercomes.com 26 agosto 2017 – 26 gennaio 2018 MUSEO ARCHEOLOGICO E D’ARTE DELLA MAREMMA, GROSSETO Palazzo del Vecchio Tribunale, Piazza Baccarini 3, Grosseto Info: +39 0564 488752 – 488750 – 488760 maam@comune.grosseto.it http://maam.comune.grosseto.it 26 agosto 2017 – 26 ottobre 2017 AREA ARCHEOLOGICA DI ROSELLE, (GR) Sovrintendenza A.B.A.P. – Siena Grosseto Arezzo Via dei Ruderi, loc. Roselle (GR) Info: +39 0564 402403
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Forever Never Comes, Museo Archeologico e d’Arte della Maremma, Sala 2. Luca Pozzi. Foto: Carlo Bonazza
Galleria SPAZIO TESTONI Bologna www.spaziotestoni.it
MATTEO TENARDI
Luoghi Instabili* *la deriva delle cose e il ciclo dell’acqua settembre - ottobre 2017
ELYSE GALIANO
Apolline, Constance et les autres... novembre - dicembre 2017
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SKOROMNAYA: ALLA RICERCA DELLO SPIRITO COLLETTIVO DEL MONDO CONTEMPORANEO LUGANO | MUST GALLERY | FINO AL 22 OTTOBRE 2017 Intervista ad ANNA SKOROMNAYA di Livia Savorelli
La conoscenza del lavoro di Anna Skoromnaya nasce in un preciso momento: la sua selezione tra gli artisti finalisti, prima, e la vincita di un premio speciale, poi nell’ambito dell’Arteam Cup 2016, premio organizzato dall’Associazione Arteam che presiedo. Nelle sale del Palazzo del Monferrato di Alessandria, dove la mostra aveva luogo, Homeward – il lavoro selezionato – era un perfetto connubio di luce, movimento, suono. Avendo vissuto molto da vicino il lavoro e
la crescita di questa giovane artista bielorussa, la decisione di occuparmi di questa intervista, proprio nel momento che la vede protagonista a Lugano, fino al 24 settembre, della mostra derivante dal Premio Speciale Must Gallery aggiudicatosi in occasione di Arteam Cup… Partiamo dai tuoi esordi, la grafica d’arte prima e la pittura poi. Cosa ha determinato l’approdo ai new media? Cosa vuole esprimere la tua arte, attraverso l’uso dei
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light box e del sonoro? La fine degli anni ottanta nell’URSS coincise con il repentino ingresso della tecnologia nelle case. In breve si iniziò a parlare di personal computer e a capire quanto le nuove tecnologie potessero davvero cambiare le nostre vite ed il mondo. I vari ricordi gioiosi della mia infanzia, vissuta in quel contesto, includono l’arrivo della mia prima video camera, dell’attrezzatura audio, del notebook, fino al tanto desiderato Macintosh.
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Credo che la scelta di inserire costantemente i new media all’interno delle mie opere venga anche da quelle lontane emozioni, dalla consapevolezza che si tratti di strumenti che rappresentano come nessun altro i nostri tempi, consentendo soprattutto di esprimermi con una ricchezza comunicativa, una maggiore dinamicità e una multisensorialità che trovo, non solo contemporanee, ma molto più vicine alla mia sensibilità artistica. Ho dedicato vari anni al disegno, alla pittura e alla composizione, laureandomi proprio in pittura all’Accademia di Belle Arti di Firenze, dopo un triennio in grafica d’arte all’Accademia di Minsk. Credo che le basi artistiche siano molto importanti, perché rappresentano sempre, negli anni e nelle diverse sperimentazioni, un punto di riferimento essenziale a cui attingere. Anch’io, come molti, ho mirato ad una dimensione nuova; in particolare la staticità delle immagini mi è sempre apparsa come un limite, così mi sono dedicata alla ricerca e alla sperimentazione con la luce led e, nel 2014, sono riuscita a presentare la mia prima serie di lavori multimediali, SOS CODE. Si tratta di opere realizzate con una tecnica del tutto inedita, che io ho chiamato ”lightbox dinamico”, dove le figure sono
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in movimento, in continua trasformazione, attraverso una sorta di illusione ottica creata grazie allo spostamento della luce led incorporata, con una traccia sonora che la integra e, al contempo, consente allo spettatore di recepire in modo multisensoriale il tema affrontato. Parliamo di Homeward e della produzione a quel lavoro più affine, quali i temi affrontati? Da anni sono interessata a scandagliare gli aspetti relativi all’animo umano, alle sue trasformazioni connesse a momenti cruciali della vita, analizzando le spinte e le cadute, i vuoti e le ambizioni dell’uomo. Questo lavoro di ricerca mi ha portato a sviluppare un crescente interesse verso lo spirito collettivo del mondo contemporaneo, andando ad investigare i rapporti all’interno della società. Ho quindi realizzato la serie SOS CODE per affrontare un immaginario viaggio interiore di un singolo, riflettendo sul deficit comunicativo e di interrelazione tra gli individui. Le difficoltà di comunicare e di essere ascoltati in EMERGENCE, i meccanismi di trasformazione psicologica in STEPS, la confusa deriva di un vivere senza punti di riferimento anche relazionali in ADRIFT sono le tappe di
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Anna Skoromnaya, Popcorn Machine, 2017, ologramma, plexiglas lucido e satinato, audio, cm 610x344x220. Foto: Andrea Parisi Nella pagina a fianco: Anna Skoromnaya alla mostra di Arteam Cup 2016, Palazzo del Monferrato, Alessandria
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questo percorso, la cifra tematica che ho sentito il dovere di arricchire con la denuncia dei meccanismi di esclusione dell’altro, vissuto come diverso e, quindi, pericoloso. HOMEWARD descrive proprio il tragitto simbolico e finale di quest’esperienza umana verso la consapevolezza del suo essere sociale. Nel corpo, che si leva faticosamente in direzione del sole, vi è la forza evocativa del percorso di avvicinamento a considerarsi parte di una comunità. Da una condizione di prostrazione determinata dai vari egoismi, l’uomo si muove infatti per arrivare alla dimensione ideale che lo ricongiunge al suo io più autentico, dove le diversità diventano valori e rappresentano la pienezza stessa del vivere.
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semblaggio finale dell’opera? Il lavoro nel campo dei new media prevede un lungo e costante percorso di ricerca e sperimentazione che accompagna le fasi di ideazione e di progettazione di ogni opera. Mi piace utilizzare dei media specifici per ogni nuova installazione, il che richiede però uno studio progettuale ad hoc. L’ideazione di un’opera inizia dalla stesura di varie bozze, dove riesco a sintetizzare le idee, selezionando quelle più essenziali ed efficaci, passando poi ai disegni tecnici, dove studio da vari punti di vista proporzioni e forme di ogni singolo dettaglio che andrò a realizzare. Integrando la parte
Dopo l’aggiudicazione del premio hai lavorato senza sosta ad un progetto la cui prima tappa è stata presentata proprio in occasione di questa mostra-premio… Ci racconti brevemente a chi vuoi dare voce con Kindergarten? Kindergarten è un viaggio surreale tra le macerie di un fragile e delicato mondo stritolato dall’egoismo. Vuole anche però essere una denuncia contro la compressione, la negazione dei diritti della fascia più vulnerabile della nostra società, i bambini. Al giorno d’oggi ci sono ancora milioni di piccoli sfruttati, costretti a lavorare in condizioni disumane, senza possibilità di studiare, giocare, vivere la propria infanzia e costruire il proprio futuro. È agghiacciante pensare che vere e proprie legioni di bimbi sono mandate ad uccidere e a morire in guerre, a diventare, a loro insaputa, strumenti di morte, attentatori suicidi con la folle promessa di guadagnarsi un posto in Paradiso. Altrettanto vergognosa è la condizione di centinaia di migliaia di bambine che ancora sono vendute come spose, mutilate nella loro più tenera intimità, private della possibilità di sognare, innamorarsi, di poter scegliere, di amare. Credo fermamente che l’arte possa e debba costituire talvolta anche un forte veicolo di testimonianza, mirato ad aiutare chi non ha forza, chi non ha voce. Gli ultimi, i più deboli, spesso sono i più importanti perché, come in questo caso, possono essere il futuro della società o il suo stesso fallimento. La serie Kindergarten è il mio incontenibile grido di vergogna verso ciò a cui ho sentito il dovere e prima ancora l’impellente bisogno di dare forma. Il lavoro ha comportato un grande dispendio di tempo ed energie. Ci racconti brevemente l’iter creativo, partendo dai backstage fotografici fino all’effettivo as-
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Anna Skoromnaya, Cream Hand Mixer, dettaglio, serie Kindergarten, 2017. Foto: Andrea Parisi
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Anna Skoromnaya, Cream Hand Mixer, dettaglio, serie Kindergarten, 2017. Foto: Andrea Parisi
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multimediale con diversi materiali come ferro, plastica, legno o acciaio, sono in costante rapporto con i miei collaboratori, con i quali curo personalmente la realizzazione delle varie componenti disegnate che faranno parte dell’opera, una volta assemblate. Riprese video e set fotografici richiedono anticipatamente un’attenta preparazione degli spazi, con selezione e prove di modelli, realizzazione dei costumi, trucco e tanto altro. La componente audio, sempre presente nelle mie opere, richiede altrettante fasi di lavoro in studio a sperimentare adeguate soluzioni sonore. Lavorando con le tecnologie cerco sempre
di far sì che l’artificio tecnologico non prevalga sull’opera stessa, ma costituisca un mezzo espressivo che rafforzi il messaggio che voglio comunicare. Tutto ciò a volte richiede mesi di sperimentazione, fallimenti e prove, finché non si arriva ad ottenere l’effetto artistico desiderato. Solo allora si può procedere alla fase dell’effettivo assemblaggio dell’opera, dove non mancano gli aspetti meccanici, elettrici, elettronici e logistici. È la fase in cui diventa abitudine portare in tasca viti, chiavi, morsetti e cavi, ma è anche il momento in cui finalmente, dopo tanto lavoro, l’opera prende corpo ed inizia a vivere di vita propria. Entriamo ora nel merito dei lavori presenti in mostra. Oltre ad una selezione dei tuoi lavori precedenti, due delle tre installazioni del ciclo Kindergarten. Primo elemento di coesione: il riferimento a particolari tipi di cibo. Secondo: l’uso di ologrammi e monitor, innestati in strutture fortemente connotate sia visivamente sia materialmente. Terzo: un’immagine, in movimento, fortemente spiazzante. Quarto: la scelta del sonoro che acuisce l’effetto di straniamento visivo. Quali sensazioni vuoi innestare nel pubblico che si aggira nel tuo kindergarten? Kindergarten è un parco giochi molto particolare: i bambini che dovrebbero giocarci non ci sono o, meglio, ne sono rimaste le immagini in movimento, le voci evocate dalle filastrocche di sottofondo, inglobate all’interno delle forme come fossero giocattoli nelle mani degli adulti. Le tre installazioni che compongono la serie prendono il nome dai diversi macchinari che producono cibi cari ai bambini nei parchi: la Popcorn Machine, che fa esplodere il mais, riferita all’installazione sui bimbi martirizzati nelle guerre, Cream Hand Mixer, la cremeria meccanica che ruota senza fine come i piccoli sfruttati nel lavoro della seconda installazione ed, infine, il Cotton Candy Maker, macchina per lo zucchero filato, come il velo triste delle tante spose bambine nella terza opera. Tutte le opere della serie sono basate sui contrasti, sulle contrapposizioni anche stridenti tra il piano ideale e quello della cruda realtà. Per sottolineare questo aspetto, ho voluto trasformare i giochi tipici di un parco in strumenti di lavoro, così lo scivolo è diventato un nastro trasportatore, l’altalena un ingranaggio, la giostra un sistema di chiavi meccaniche e bulloni di diverse dimensioni, mentre i bambini sono presenti come fossero dei fantasmi, lavorano realmente invece di giocare, trasportano con fatica mattoni e legna, puliscono scarpe,
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cuciono vestiti, spaccano pietre. L’apparenza e la sostanza, in questa serie, sono due piani che si intersecano e si confondono, anzi confondono e vogliono colpire, scuotere lo spettatore che è trascinato senza preavviso in una dimensione di fiaba spezzata, come lo è l’infanzia di chi è vittima di questi spregevoli egoismi. Ecco che quindi la città fatta di costruzioni è una sorta di Palmira, che racchiude in sé effimeri ologrammi, ciò che rimane dei bambini martirizzati dalla follia omicida di maestri senza fede, evanescenti resti incapsulati in dei sarcofaghi giocattolo.
a creare un sentire comune e condiviso delle priorità a cui dedicare almeno parte del proprio tempo e delle proprie risorse. Quello che scelgo come tema delle mie narrazioni è per me sempre un forte impegno di testimonianza sociale, non solo una rappresentazione, anzi, direi che per me questi costituiscono due momenti inscindibili, entrambi essenziali sia come artista sia ancor prima come persona.
Per concludere, secondo te, cosa può fare un artista per migliorare questo mondo? Credi che la denuncia sociale, attuata attraverso l’arte, possa contribuire a focalizzare l’attenzione sui drammi della nostra contemporaneità? L’arte da sempre rappresenta, testimonia e sensibilizza; per il mio modo di sentire e vivere l’arte essa deve aprire dei varchi nelle coscienze. Per questo credo che si debba denunciare con fermezza e coraggio anche ciò con cui è scomodo confrontarsi, magari solo perché a volte si preferirebbe voltar pagina e guardare altrove, contribuendo
6 luglio – 22 ottobre 2017
Anna Skoromnaya. Kindergarten
Must Gallery via del Canvetto, 6900 Lugano Orari: martedì 14-18 | giovedi 14-18 e su appuntamento Info: +41 919702184 info@mustgallery.ch www.mustgallery.ch Catalogo: Vanillaedizioni, con testo di Antonio D’Amico
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Anna Skoromnaya, Steps, 2014, dettaglio, stampa lambda, light box con intervento di luce LED dinamica, sequenza 7’ 35’’, cm 130×180
MOUNIR FATMI Solo show
a cura di Silvia Cirelli
26 OTTOBRE - 7 GENNAIO 2018
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REBUILDING SPACES: PER UN’ARTE CHE RIDISEGNA LO SPAZIO FISICO E MENTALE CASALE MONFERRATO (AL) | CASTELLO DEL MONFERRATO 8 OTTOBRE 2017 – 14 GENNAIO 2018 Intervista a NICCOLÒ BONECHI di Matteo Galbiati
La visione e l’analisi dello spazio, inteso come luogo del vivere e dell’accadere, come ambiente dove il tempo e le forme si muovono, evolvono, mutano, cambiano, esistono, è il soggetto unico della mostra Rebuilding spaces che porta negli storici ambienti del Castello del Monferrato a Casale Monferrato (AL) le opere di importanti artisti internazionali. Le cinque sezioni della mostra che fanno dialogare a coppie i lavori di questi grandi maestri aiutano a svelare nuove riflessioni che rendono emotivamente partecipata l’opportunità della loro visione. Ci accompagna alla scoperta di questa
esposizione il suo curatore Niccolò Bonechi che abbiamo intervistato per l’occasione: Quali autori e quali opere di ciascuno di loro hai scelto per questo progetto? Secondo quali caratteristiche? Gli artisti selezionati per Rebuilding spaces sono dieci, molti di essi oramai storicizzati (Piero Fogliati, Piero Gilardi, Luigi Mainolfi, Paolo Minoli) o comunque già presenti in importanti rassegne internazionali (Pablo Atchugarry, Eduard Habicher, Arcangelo Sassolino), altri mid-career (Bonzanos Art Group, Mario Fallini, Rudy Pulcinelli), ma
comunque – e questo è il dato essenziale – tutti operano in una direzione installativoscultorea, sia a livello concettuale che formale, anche quando intraprendono un percorso bidimensionale. Ecco che la scelta è ricaduta su opere che, attraverso la propria forza espressiva, fossero in grado di modificare non soltanto lo spazio fisico che le accoglie ma, soprattutto, lo spazio mentale dello spettatore, cercando di fatto di annullare il gap che li separa. Questa è la grande scommessa – e la mia personale speranza – ovvero concedere al visitatore la possibilità di dialogare in maniera autentica e responsiva con l’intera esposizione. La mostra si suddivide poi in precise sezioni, ce le puoi riassumere? Per quanto le opere esposte siano necessariamente “costrette” a confrontarsi con il concetto di spazio tout court, ho riscontrato la possibilità di dialoghi più intimi tra di esse, ma soprattutto tra le indagini artistiche degli artisti selezionati. Per questo motivo ho volutamente messo in connessione gli artisti a coppie, ed ecco che si sono venute a creare cinque sezioni all’interno della stessa mostra: Sull’interpretazione della luce (Piero Fogliati e Paolo Minoli), Artificio e Natura (Piero Gilardi e Luigi Mainolfi), L’intangibile consistenza della materia (Pablo Atchugarry e Eduard Habicher), Di pieni e di vuoti (Bonzanos Art Group e Rudy Pulcinelli), Sospensioni (Mario Fallini e Arcangelo Sassolino). Questa esposizione intende “ricostruire lo spazio? In che termini? Secondo quali modalità? Ci sono molti livelli di lettura per questa mostra e devo dire che la scelta del titolo è stata senz’altro un’illuminazione in tal senso, in quanto mi ha permesso d’indentificare molteplici contesti spaziali, che poi sono dettati dalla scelta delle cinque sezioni. Ciò
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che m’interessa analizzare con questo progetto è, appunto, il concetto di spazio inteso come smisurato campo di azione, pertanto la possibilità per l’artista di costruire ex novo una realtà altra, senza alcun vincolo formale o rap-presentativo. Il luogo che accoglie i vari autori non è uno spazio qualsiasi: come si legano le opere alle specificità del Castello del Monferrato? Per quanto abbia mantenuto esternamente intatto il suo fascino originario, il Castello del Monferrato si presenta internamente come una struttura moderna e ben concepita per eventi espositivi di qualsiasi natura. Con questo voglio dire che per il progetto non è tanto funzionale la consapevolezza della storicità del luogo, bensì la sua morfologia interna: di fatti lo spazio è armonicamente composto da tante sale medio-grandi, collocate sullo stesso livello e disposte su due braccia della struttura. La collocazione interna permette sì una continuità nel percorso espositivo, ma allo stesso tempo di segnare tanti momenti diversi. Ecco che ogni autore si “impossesserà” di una, massimo due sale, e ne ricostruirà la spazio attraverso un intervento che non snatura né la forza espressiva dell’opera né, tanto meno, la storicità del luogo che la accoglie.
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catalogo bilingue italiano-inglese Edizioni Bertani Artisti: Pablo Atchugarry, Bonzanos Art Group, Mario Fallini, Piero Fogliati, Piero Gilardi, Eduard Habicher, Luigi Mainolfi, Paolo Minoli, Rudy Pulcinelli, Arcangelo Sassolino
Info: Comune di Casale Monferrato +39 0142 444330 manifestazioni@comune.casale-monferrato.al.it www.comune.casale-monferrato.al.it
8 ottobre 2017 – 14 gennaio 2018 Inaugurazione domenica 8 ottobre ore 11.00 Castello del Monferrato Piazza Castello, Casale Monferrato (AL) Orari: sabato e domenica 10.00-13.00 e 15.00-19.00; visite guidate su appuntamento (+39 0142 444330) Ingresso libero
Quale concetto di spazio emerge – alla fine – agli occhi dello spettatore? Come lo vive? Credo fortemente nella necessità che lo spettatore sia disposto a concedersi emotivamente alla mostra. Come al solito fornirò ad esso alcuni strumenti per poter “leggere” la mostra con più facilità, ma è necessario uno sforzo nell’altro senso perché sia compiuta quella che io definisco una “esperienza totalizzante” che sia in grado di annullare definitivamente la distanza spazio-temporale tra l’opera ed il suo interlocutore. Quale nota specifica di questo progetto vuoi mettere in luce? In generale, come artisti di generazioni e derivazioni differenti abbiano affrontato un percorso tanto lontano nei risultati formali, quanto vicino in quelli concettuali. Rebuilding spaces. Dieci artisti in dialogo sul concetto di spazio a cura di Niccolò Bonechi organizzazione Città di Casale Monferrato in collaborazione con Bonioni Arte, Reggio Emilia; Lara&Rino Costa Arte Contemporanea, Casale Monferrato (AL) coordinamento tecnico Associazione Santa Caterina Onlus, Casale Monferrato
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Piero Gilardi, Mango, 1992, poliuretano espanso, cm 300x300x300. Courtesy: Bonioni Arte, Reggio Emilia Nella pagina a fianco: Paolo Minoli, Trasmutazione, 1980, acrilico su tavola e rilievi in legno, cm 120x120. Courtesy: Bonioni Arte, Reggio Emilia
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MUSICA / TEATRO
MARLENE KUNTZ: “L’AVVICINAMENTO A UN’ALTRA PARTE DEL SÉ” ROMA | TEATRO AMBRA JOVINELLI | 24 – 29 OTTOBRE 2017 Intervista a CRISTIANO GODANO (MARLENE KUNTZ) di Corinna Conci
Quando le esperienze della carriera di una band sono memorizzate e documentate in suoni, immagini e parole per crearne una storia consapevole, si aprono scenari diversi per indagare nuove parti della propria identità artistica. Il film “Complimenti per la festa” (2016) racconta la vita dei Marlene Kuntz tramite un archivio del passato di immagini e interviste insieme a momenti catturati in “Catartica Tour” (2014), celebrazione del primo album “Catartica” (1994). Lo sguardo del regista Sebastiano Luca Insinga dà corpo alla figura cangiante di una delle band simbolo del rock indipendente italiano, attiva fin dagli inizi degli anni ’90. Collaborazioni internazionali che spaziano dal mondo della musica a quello della danza e dell’arte visiva, sonorizzazioni di cinema muto, pubblicazioni di libri, musicazioni dei propri testi condivisa con i fan: si tratta di esperienze che creano un percorso composto da molti pezzi diversi, profondamente connessi, adesso integrati. Dopo le ultime date del tour “Onorate il Vile” (2017) per celebrare il secondo album “Il Vile” (1996), i Marlene Kuntz si trovano nuo-
vamente in studio. Questo periodo di generazione del nuovo disco si affaccia però ora verso l’interno: un tempo che sembra più riflessivo e maturo, una dedica a uno stato interiore che prima non era possibile sentire. Al di là di un po’ di mistero e un po’ di pudore, parliamo del nuovo album al quale state lavorando in questo periodo e che uscirà nei prossimi mesi. Qualcosa di nuovo e più introspettivo oppure coerenza con le chitarre elettriche dell’ultimo disco? Ci stiamo lavorando da alcuni mesi ormai, e se c’è una cosa che per ora caratterizza i vari pezzi è la siderale distanza rispetto a “Lunga Attesa”, che era un disco molto elettrico, dunque di base impiantato sulle chitarre elettriche. Il mood per ora è particolarmente lento e intensissimo: credo sia nelle nostre priorità cercare di fare uno dei dischi più intensi e toccanti della nostra carriera. Sicuramente introspettivo. Probabilmente scuro. Alcuni mesi fa avete lanciato un’iniziativa che ha coinvolto attivamente i vostri fan: musicare il testo della title-track dell’ulti-
Dall’alto: Cristiano Godano - Marlene Kuntz. Foto: Leonardo Rinaldesi Marlene Kuntz Cristiano Godano, Luca Bergia Live Catartica Tour (2014) © Simone Cargnoni - JUMP CUT Nella pagina a fianco: Marlene Kuntz Cristiano Godano, Riccardo Tesio Live Catartica Tour (2014) © Simone Cargnoni – JUMP CUT
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mo album “Lunga Attesa” (2016) creando una versione personale. Cosa è successo e pensate di riproporre questa idea? Fu una buona trovata, indubbiamente… Sul nostro fb avevamo una sorta di piccolo appuntamento, ovvero il testo della settimana. Si trattava di un testo mio, già edito, esibito senza la musica a corredo, per la semplice lettura. Da lì è stato semplice immaginare che avremmo potuto postarne uno nuovo, sconosciuto alla gente, di quelli in lavorazione per “Lunga Attesa”. E da lì è stato altrettanto semplice immaginare che avremmo potuto chiedere a qualsiasi musicista fosse stato interessato di provare a musicarlo. L’ultimo step fu immaginare di sceglierne tre alla fine di un certo lasso di tempo dato a disposizione per la creazione, e invitare i loro autori a suonare prima di noi a un nostro concerto: tutto questo per stimolare la partecipazione. Arrivarono più di trecento versioni, e fu tanto divertente quanto complicato ascoltarle con serietà tutte… Non credo riproporremo questa idea, perché purtroppo sappiamo che ci chiederebbe tanto altro tempo per l’ascolto. Scrivere è atto di meditazione, che assume un diverso stato con l’esperienza: in questi anni senti che si è modificato il tuo approccio alla scrittura dei testi?
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C’è più consapevolezza, ed è inevitabile, perché sono venti e più anni che scrivo testi, e se non avessi acquisito consapevolezza sarei un idiota irriflessivo. La consapevolezza tiene a bada l’istinto, che viene contemperato e filtrato dal raziocinio e dall’esperienza: per quel che mi riguarda è un valore positivo, perché se guardo ai miei testi di inizio carriera percepisco spesso certe esagerazioni istintuali, ottime per fare colpo sulla gente ma eccessivamente sentimentali e slabbrate rispetto al mio modo intimo di pensare, che per attitudine è in genere incline alle complicazioni filosofiche e al distacco dalle certezze di chi urla sempre. L’ultima settimana di ottobre presenterete al teatro Ambra Jovinelli di Roma una sonorizzazione dal vivo del film “Il castello di Vorgelod” di Murnau (1921), un’opera sacra per i cinefili. La performance d’improvvisazione avrà una formula speciale perché affiancata dalla voce narrante di Claudio Santamaria che si farà attore in scena. Come nasce questa collaborazione e come si caratterizzerà lo spettacolo? Siamo stati coinvolti in sonorizzazioni di film muti parecchie altre volte, e dunque per noi è consuetudine questo tipo di performance. Avevamo voglia di rifarne una in questo autunno venturo e ci era venuto in mente
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di renderla più stuzzicante, per noi e per il pubblico, con la presenza di un attore in veste di voce narrante. Claudio Santamaria è un amico dei Marlene da parecchio tempo, e va da se che l’incontro è stato particolarmente facile da favorire. In tutta franchezza le prove dello spettacolo sono ancora da fare, dunque non mi è semplice rispondere alla seconda parte della tua domanda: ci saranno un lavoro di regia e una scenografia, questo senz’altro, e sarà una differenza sostanziale rispetto alle nostre precedenti esperienze in questo ambito. Il Castello di Vorgelod. Viaggio musicale nella pellicola di Murnau tra parole e immagini Presentato da Nuovo Teatro diretta da Marco Balsamo Voce e live electronics Claudio Santamaria Colonna sonora e sonorizzazione live Marlene Kuntz Regia Fabrizio Arcuri 24 – 29 ottobre 2017 Teatro Ambra Jovinelli Via Gugliemo Pepe 43, Roma Info: www.ambrajovinelli.org www.marlenekuntz.com
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L’ARTE COME AZIONE EDUCATIVA: MARIA ROSA SOSSAI EDITORIA | TORRI DEL VENTO EDIZIONI Intervista a MARIA ROSA SOSSAI di Matilde Puleo
L’autrice della pubblicazione Vivere insieme, l’arte come azione educativa, Torri del vento, Palermo, 2017 fa con noi una chiacchierata per parlare degli stimoli offerti dal libro, del pubblico, della critica d’arte e delle organizzazioni, come momento di scambio di valori e passioni, nonché per riflettere sullo sviluppo del territorio e sulle priorità dell’azione educativa. Le manifestazioni artistiche e la cultura in generale subiscono ormai da tempo un duro attacco da parte della spettacolarizzazione e dell’esigenza di intrattenimento. Se non se ne parla non si esiste. Eppure, liberata dal dover apparire, come si può dare all’arte un compito conoscitivo e dunque mettere in risalto il suo essere un’epistemologia del mondo? Nel modo più semplice e diretto: vivendo dei momenti comunitari con le persone che sentiamo a noi affini e creando con loro
degli spazi di reale scambio e dialogo. Ho capito già da tempo che è impossibile risolvere i mali del mondo, nel nostro caso specifico, la mercificazione dell’arte e il suo conseguente impoverimento etico ed estetico. Se non vogliamo vivere la frustrazione e l’impotenza che ne derivano, dobbiamo agire, partendo da ciò che abbiamo di più prossimo e iniziare un processo di aggregazione, che possiamo definire militante, senza paura di essere tacciati di ideologia. Riscopriamo insieme la militanza che ha come scopo finale la nostra stessa felicità, alla quale abbiamo diritto, tutti indistintamente. Come si può ottenere? Ritirando, per quanto possibile, le deleghe ed esaudendo i nostri desideri. Un esempio è l’esercizio Ognuno ha il festival che si merita proposto dal collettivo ALAgroup (di cui sono la cofondatrice) in cui, alla frustrazione di non potere essere presenti fisicamente
Dall’alto: Maria Rosa Sossai Ognuno ha il festival che si merita, Cantiere Toscana. Foto: Marco Passaro Nella pagina a fianco: ALAgroup, La felicità che viene. Workshop. Liceo Artistico Caravaggio di Milano. Foto: Marco Passaro
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riviste di settore per essere informati. Oggi le fonti d’informazione in tempo reale sono nei social spesso gestiti dai diretti interessati che in questo modo pubblicizzano l’evento. Ciò che ancora ha un pubblico sono gli approfondimenti tematici, perché esiste tutt’ora il bisogno di approfondire, per motivi di studio e per la passione della ricerca.
a un festival che avevamo scoperto essere troppo distante da Roma, abbiamo deciso di creare il nostro festival seduti attorno al tavolino di un bar, invitando personaggi come Foucault, Barthes, i quali hanno accettato volentieri il nostro invito. Abbiamo letto e commentato i loro testi ed era come se effettivamente fossero con noi. Per me questo significa ritirare le deleghe e creare degli spazi di condivisione creativa, anche se immaginari ma autentici perché generano un reale senso di libertà. Leggendoti si capisce che occuparsi d’arte significa sviluppare un senso civico. Accettare la responsabilità comune di far parte di progetti che attivino una consapevolezza reale. Nell’epoca di arte mercificata come sono le esperienze che si svincolano e agiscono nella collettività? Sono esperienze, come dicevo prima, che hanno come scopo ultimo la felicità degli individui che le compiono. E la felicità è contagiosa, esattamente come lo sono l’infelicità e la sofferenza. Cambiano gli esiti su di noi e su quelli che ci stanno vicino. L’arte quindi assolve al compito di svelare quanto sia bello e gratificante rivolgere la nostra attenzione agli altri, senza secondi fini. In realtà il mondo dell’arte non è affatto così empatico, è al contrario formale, gerarchico, regolato da un codice di comportamento non scritto. Per fortuna, però, l’arte non esaurisce la sua forza vitale nel sistema commerciale. I migliori artisti e i migliori critici e curatori indicano altre strade, quelle in cui la bellezza dell’arte coincide con un compito educativo. Basta pensare a Joseph Beuys, a Gina Pane e a tanti altri maestri.
L’attenzione e l’orientamento rivolti agli studenti dicono che la scoperta reciproca ha inizio da un comune “non so” che solitamente né a scuola né tantomeno nel mondo dell’arte si realizza davvero. Le ipotesi radicali di donne come Carla Lonzi, a partire da una messa in discussione del ruolo del critico d’arte, sono rimaste sperimentazioni al limite e oggi sono praticamente ipotesi dette invano. Come si muovono e chi sono gli artisti che lavorano in questa direzione? Non credo che le ipotesi radicali siano cadute nel vuoto. In un’era in cui la rivoluzione non è più possibile, diventano di nuovo rilevanti i singoli contributi di artisti che lavorano all’interno di collettivi, o che hanno fondato delle scuole dove l’apprendimento non è finalizzato al conseguimento di un titolo di studio. Penso alle scuole fondate da Tania Bruguera, Marinella Senatore, Piero Golia e da altri. Una vera educazione si fonda sulla conoscenza di sé, e sull’importanza di creare un ambiente propizio alla comprensione, scriveva Krishnamurti. Nell’Italia negli anni di yes-man e dei giornalisti sottostimati, come può la capacità creativa del critico ritrovare una necessità d’essere e rispondere alle modalità di fare che cambiano continuamente? La condizione della critica d’arte in Italia è drammatica. Gli articoli e le recensioni non sono pagati o sono sottopagati. Senza reali finanziamenti e borse di studio, la critica sta morendo, e comunque sta attraversando un momento di grande cambiamento, così come i giornali e la carta stampata. Nessuno ha più bisogno di leggere le recensioni e gli articoli pubblicati ogni due mesi dalle
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Maria Rosa Sossai è critica d’arte e curatrice. Ha insegnato Storia dell’arte in un liceo romano. Nel 2009 ha fondato l’associazione esterno22, che promuove l’educazione attraverso l’arte contemporanea, confluita nel 2012 in ALAgroup (Accademia libera dell’arte, www.alagroup.org). Dal 2005 al 2008 ha curato progetti site specific per il museo d’arte contemporanea MAN di Nuoro. Tiene regolarmente conferenze e seminari in istituzioni pubbliche e private. Ha pubblicato i libri “Artevideo, storie e culture del video d’artista in Italia” (2002), “Film d’artista, percorsi e confronti tra arte e cinema” (2008, Silvana Editoriale) e “Vivere insieme, l’arte come azione educativa” (2017, Torri del vento).
Titolo: Vivere insieme, l’arte come azione educativa Autore: Maria Rosa Sossai Editore: Torri del Vento Collana: I capperi Data di Pubblicazione: aprile 2017 Pagine: 380 Prezzo: 22,00 euro Info: www.torridelventoedizioni.it
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LA VITA IN FIGURE DI ARTURO MARTINI EDITORIA | JOHAN & LEVI EDITORE di Luca Bochicchio
Tra le primizie della scorsa primavera, nate nel “giardino delle monografie” dell’editore Johan & Levi, c’è anche l’ultima fatica di Elena Pontiggia: Arturo Martini. La vita in figure. Neppure trecento pagine per ripercorrere la vita (e che vita!) dello scultore trevisano… anzi italiano. Una prima e spontanea riflessione riguarda, infatti, la geografia dell’artista; se è vero che, a dispetto dei suoi continui spostamenti, Martini ha fatto periodicamente ritorno nella natia Treviso, scorrere d’un fiato le tappe della sua frenetica esistenza rende palpabile, fin dalle prime battute, l’orizzonte nazionale del suo pensiero e del suo operato. Non solo questo. Il bisogno pressante di Martini di vivere a stretto contatto con i cenacoli artistici e intellettuali di Roma, Milano e Venezia (questo è anche un approssimativo ordine di gradimento dello scultore), fuggendo di volta in volta dalla provincia di Treviso, Faenza e Vado Ligure, derivava certamente dalla consapevolezza del proprio valore e del ruolo che sarebbe dovuto spettargli nel Paese di cui avvertiva fortissima la forza della tradizione ma anche le energie contemporanee, delle quali egli era a tutti gli effetti un protagonista seppure a volte incompreso o sottostimato (una legge non scritta che trova conferma non di rado nell’avanguardia). Il fatto poi che Martini abbia cercato precocemente (nonostante le pressoché costanti difficoltà economiche) il confronto diretto con le capitali estere dell’arte – Monaco e Parigi – ben inquadra la volontà “storica” dell’uomo e dell’artista nel suo percorso di affermazione nazionale. Non cito a caso la questione “nazionale” di Martini: il pregio di biografie come questa, e come ad esempio le precedenti su Boccioni o Manzoni, è anche quello di divulgare, di raccontare i grandi attori della storia dell’arte italiana moderna e contemporanea, senza perdersi negli specialismi tecnici della disciplina storica (specialismi che interessano, appunto, i professionisti della materia, i quali dovrebbero poter attingere ad altri tipi di dati nei convegni, nelle riviste e nelle mo-
nografie scientifiche). Questo sforzo divulgativo, ma di sostanza, va necessariamente a beneficio della consapevolezza civile del pubblico del nostro Paese, che annovera in esso decine di migliaia di appassionati d’arte che continuano a chiedere (e le indagini svolte in modo empirico nei musei e nelle università lo dimostrano) maggiori informazioni, approfondimenti, in sintesi una migliore mediazione e divulgazione scientifica, anche in ambito artistico e culturale. Il passo successivo e necessario sarebbe rendere queste monografie fruibili ad un pubblico internazionale con traduzioni sistematiche almeno in inglese, che possano trovare distribuzione nel circuito globale in modo da iniziare a diffondere nel pubblico internazionale il messaggio che in Italia la storia dell’arte non si è fermata a Caravaggio o, quando va bene, a Canova, ma che esiste un patrimonio artistico del XIX e XX secolo non soltanto degno della tradizione precedente, ma in molti casi aggiornato e realmente all’avanguardia. Il caso di Marti-
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Cover volume Arturo Martini. La vita in figure. Johan&Levi editore
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ni è emblematico in questo senso: oltre ad essere lo scultore italiano più importante della prima metà del ‘900 e fra quelli che più hanno influenzato le successive generazioni, è in assoluto un protagonista della ricerca scultorea internazionale insieme a Brancusi, Calder, Giacometti e Moore, solo per citare alcuni nomi chiave che ritroviamo con frequenza nelle mostre internazionali. Tornando, quindi, alla monografia scritta da Elena Pontiggia, il suo pregio è di aver saputo dare conto, con dovizia di particolari che non soverchiano mai la freschezza della narrazione, degli innumerevoli contatti, riferimenti, dissidi, innamoramenti, voli e cadute di un uomo tormentato e geniale come Martini. Il ritratto dell’uomo dialoga con quello dell’artista, così come la narrazione biografica rimbalza sul resoconto storico-artistico. A mio avviso i primi due aspetti (l’uomo e la narrazione) hanno un peso maggiore rispetto ai secondi (l’artista e l’analisi storica), ma tengo a precisare che l’intenso ed evocativo racconto della vita di Martini poggia sempre su una solida documentazione, con interessanti riassetti cronologici e qualche spunto inedito. Questo libro intenso e piacevole è la dimostrazione che quando si raggiunge un’adeguata e solida base di studi specifici – e quelli condotti in Italia su Martini, soprattutto
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nel corso degli ultimi tre decenni, lo sono stati – allora è il momento di valorizzare con coraggio e intelligenza tali dati, tale conoscenza frutto del minuzioso lavoro di molti ricercatori (come testimoniato nei ringraziamenti dell’autrice e nella bibliografia). Credo sia molto importante che i dati ottenuti dalle ricerche servano a restituire interpretazioni, racconti, chiavi di lettura, attraverso narrazioni che possono esprimersi con linguaggi e in canali diversi, dalle mostre alle monografie, dagli articoli su riviste ai film, dai cortometraggi ai documentari. Otre che di ricerca c’è bisogno di competenti e dotati scrittori di libri e sceneggiature, che sappiano valorizzare i migliori studi dei nostri ricercatori universitari e di quelli indipendenti, portando ad ulteriori livelli di divulgazione e diffusione la conoscenza sull’arte, perché da quella passa l’educazione e la consapevolezza civile. Arturo Martini. La vita in figure Autore: Elena Pontiggia Anno: 2017 Lingua: Italiano Pagine: 304 Prezzo: 25,00 € ISBN: 978-88-6010-185-3 Formato: 15,5x23 cm Illustrazioni: 70 b/n www.johanandlevi.com
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Arturo Martini, Nudo al sole, 1930, terracotta da stampo, cm 45x148x72 cm. Collezione privata. Foto: courtesy Archivio Gian Ferrari
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LE DIVERSE SONORITÀ DI MIMMO PALADINO, COMPOSITORE DI FORME EDITORIA | SKIRA EDITORE di Matteo Galbiati
Germano Celant ha firmato per Skira un grande monografia che, ordinata in modo scientifico e sistematico, racconta in modo esaustivo e completo la storia artistica di Mimmo Paladino (1948). Questo volume attraversa, quindi, con una complessa e approfondita analisi critica, tutte le stagioni creative dell’artista mettendo in risalto la sua vasta ricerca che si è sempre contraddistinta per un’intensità particolare e caratteristica e per essersi sempre rivolta a esperienze culturalmente diverse, in territori immaginifici dove le arti, il tempo e la storia umana hanno modo di intrecciarsi e contaminarsi in un rapporto multidisciplina-
re e multilinguistico. L’intenzione di questo intenso lavoro di analisi – questo strumento editoriale sarà sicuramente di importanza fondamentale, una pietra miliare, per chi vorrà studiare e conoscere in profondità le pieghe del pensiero di Paladino – è proprio quello di indagare gli aspetti differenti che ne hanno segnato l’itinerario nel corso degli anni: lo sguardo che predilige Celant nella sua analisi è quello aperto che lo osserva a 360°, prendendo in attenta considerazione non solo la sua pittura, ma anche il lavoro da lui eseguito per il teatro, la scultura, il cinema, gli interventi pubblici su vasta scala…
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Mimmo Paladino, Porta di Lampedusa, porta d’Europa, 2008, pittura murale, dimensioni ambientali, installazione per la mostra al Museo dell’Ara Pacis, Roma, 2008. Foto: Ferdinando Scianna
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Le riflessioni riportate contribuiscono quindi ad affermare nella storia il pensiero e le creazioni di un inconfutabile maestro del suo tempo, un protagonista assoluto della scena artistica internazionale che in questo volume viene indagato a tutto tondo, il suo linguaggio, la sua poetica, il suo segno attraversano i decenni e lo seguono dal 1963 ai giorni nostri. Pagina per pagina il lettore riscopre tutti i passi compiuti da Paladino grazie anche ad un amplissimo repertorio di immagini e di documenti, utilissimi nell’accompagnare l’esplorazione critica condotta: immagini di repertorio, allestimenti di mostre, documentazioni originali, disegni e progetti, le note e gli incisi con le parole dello stesso artista, fotografie rendono immersivo e totalizzante il suo pensiero che non si slega mai dal passato, dalle radici culturali in cui si è generato, ma che sa anche proiettarsi in avanti guardando al futuro. Le sue evoluzioni e i suoi cambiamenti lasciano chiarire l’orizzonte del suo sguardo che si racchiude e riassume, in queste pagine, in una storia che ha dato all’arte mondiale brani di forte impatto emotivo e di profondo significato spirituale e morale. Molte sue opere, del resto, sono diventate vere e proprie icone, spunti per rendere fertile l’im-
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maginazione, per ritrovare la necessità di un dialogo e un confronto con le arti e con il senso delle immagini, senso che la cultura di oggi spesso svilisce e annienta. L’archeologia mnemonica, visiva, stilizzata e spesso rarefatta delle opere di Paladino asseconda il tempo dell’uomo di cui lui pare essere un eccellente indagatore: l’illusione e l’immobilità dell’arte in lui allestisce uno scenario che sempre si riempie, invece, di vita, di mito, di vissuto dalla storia definita o definibile. Traduce il silenzio rumoroso di una interiorità in divenire di cui le sue immagini si fanno specchio in cui riflettersi. Questo fondamentale volume diventa allora guida e indice per ascoltare, con ancor maggiore attenzione, la voce intensa ed energica di questo grande poeta dell’arte di oggi.
Titolo: Mimmo Paladino Testi di: Germano Celant e Diletta Borromeo Collana: Arte Moderna. Monografie Anno: 2017 Pagine: 736 Edizione: italiana Immagini: 793 a colori Prezzo: Euro 75.00 Editore: Skira Editore
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Dall’alto: Mimmo Paladino, SKIRA editore, cover del volume Mimmo Paladino, Il saldatore, 2014, tecnica mista su tela, due elementi, dimensioni totali cm 170x325x230. Collezione dell’artista. Foto: Peppe Avallone
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