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ettore frani ascendenze metafisiche. la visione sospesa dell’artista

Interviste

Mirco Marchelli a Palazzo Fortuny. Scena muta per nuvole basse

Mostre

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Simone Ferrarini, Jim Morrison, 2012, acrilico su carta, performance pittorica

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ESPOARTE DIGITAL #79 ½ Espoarte Digital è un progetto editoriale di Espoarte in edizione esclusivamente digitale, tutto da sfogliare e da leggere, con i migliori contenuti pubblicati sul sito www.espoarte.net e molti altri realizzati ad hoc.

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Ettore Frani, particolare del trittico Fortezza, 2012, olio su tavola, cm 100x290. Courtesy: L’ARIETE artecontemporanea. Foto: Paola Feraiorni

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Hanno collaborato a questo numero: Martina Adamuccio, Ilaria Bignotti, Ginevra Bria, Chiara Cardini, Alessandra Casadei, Luisa Castellini, Silvia Conta, Francesca Di Giorgio, Elena Dolcini, Matteo Galbiati, Elena Girelli, Massimo Marchetti, Kevin McManus, Simone Rebora, Gabriele Salvaterra, Chiara Serri, Viviana Siviero, Maria Cristina Strati, Daniela Trincia, Giovanni Viceconte, Igor Zanti, Mattia Zappile

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Interviste

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Ascendenze metafisiche. La visione sospesa di Ettore Frani TERAMO | L’Arca, Laboratorio per le arti contemporanee | 2 marzo - 14 aprile 2013 Intervista a ETTORE FRANI di Matteo Galbiati

Inaugurata il 2 marzo scorso, Attrazione Celeste è la nuova mostra che vede protagonista il giovane Ettore Frani. Reduce da una serie di impegnativi progetti e da numerosi riconoscimenti, in questa occasione presenta l’ultimo ciclo di lavori che affrontano una nuova e trasfigurata visione della Natura e della figura umana. L’artista molisano, reinventando le forme antiche dei polittici sacri, lascia intercorrere sulla tavola la raffinatezza di una pittura ad olio che, nonostante guardi alla tradizione e al passato nei modi, riesce, nell’espressione, ad essere spunto coinvolgente, attuale e contemporaneo. Il suo linguaggio si contraddistingue per un lirismo pittorico che si fa pura poesia. Una poesia dipinta dunque dove lo sguardo riscopre il valore della rivelazione e dell’indagine; dove la suggestione

guida la visione in manifestazioni eteree e trasparenti, sospese in una dimensione che è apparizione carica di mistero. Le immagini sembrano così inafferrabili nella loro spiritualità, quanto si sentono reali per la loro manifesta sensibilità. Attrazione Celeste: un titolo impegnativo ma particolarmente adatto a preannunciare la svolta ultima del tuo lavoro? Da dove deriva? Ho ritenuto necessario sottolineare questo nuovo momento di passaggio con un’espressione poetica dal forte valore simbolico, suggerita dalle parole della poetessa Cvetaeva. Se in passato il mio sguardo si è concentrato maggiormente sul concetto di soglia, privilegiando l’orizzontalità e la profondità, in questa mostra raccoglie ed accoglie l’intimo

desiderio di esprimere il mistero di una certa verticalità che si manifesta in tutto ciò che ci circonda, trasfigurando così gli elementi della natura in danza che controverte la naturale attrazione terrestre. Hai sempre avuto uno sguardo scarno ed essenziale rispetto la figurazione che nelle ultime opere diventa ancor più mistica e misteriosa, pur suggestiva e avvincente. Dove guardi e cosa vuoi far vedere al pubblico? L’essere umano guarda ed è anche ri-guardato. Vorrei poter stabilire una relazione con ciò che giustamente chiami mistero, per salva-guardarlo. Il mio sguardo si fa custode di ciò che mi sopravanza per testimoniare un’esperienza altra da donare allo spettatore.

Ettore Frani, veduta della mostra “Attrazione celeste”, L’Arca, Teramo. Courtesy: L’ARIETE artecontemporanea. Foto: Giampiero Marcocci 4


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La tua pittura, compressa dentro un’evanescenza effimera e in perenne variazione, diventa visione onirica, leggera e transeunte, è un respiro fugace che sposta oltre il senso del proprio vedere. Dove punta e cosa scova la visione? La visione è un tema fondante della mia poetica, non è un tema tra gli altri. Parlare di visione è parlare intimamente di pittura. Non si tratta di vedere e di mostrare, ma di prendere sotto guardia un’alterità irriducibile. L’occhio trova quel che già sa, ma ciò che tento di realizzare attraverso la pittura è accogliere il mistero che viene incontro, senza aggrapparmi a ciò che già conosco. La visione scopre, così, un’essere intento a prendersi cura. Dove punta? Proprio lì dove non sono, dove

maggiormente trovo la mia autenticità. Luce e ombra, bianco e nero, niente e tutto. Cosa si vede e comprende oltre questi opposti binomi? Oltre l’impasto inscindibile di luce e tenebra, riesco ad intuire solo il mistero più assoluto. Il vero e unico soggetto non è rappresentabile, solo indicato ed evocato attraverso gli opposti di cui parlavi. Eliminando ciò che per me è inessenziale, la sintesi di bianco e nero mostra il tentativo di circoscrivere quel nucleo indicibile a cui la mia pittura prova ad accostarsi. Il tuo lavoro suggerisce anche una forte passione per l’essere pittore: innegabile

Ettore Frani, Attrazione celeste, 2012, olio su tavola, cm 100x70. Courtesy: L’ARIETE artecontemporanea. Foto: Paola Feraiorni 5


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pensare ad una pittura colta e raffinata che non disconosce mai – senza compiacersi in modo autoreferenziale – una capacità e un sapere dal gusto antico. Cosa significa per te essere pittore e dipingere? La mia poetica è certamente legata ad un saper fare che può richiamare ad antiche modalità espressive. In questo, ovviamente, non trovo nulla di inattuale. Non apprezzo affatto la distinzione tra antico e contemporaneo: la pittura, quando è davvero tale, va sempre oltre se stessa, è pertanto fuori da mode e tempo contingente. Essere pittore è sì essere nel tempo, ma non del tempo. Non è un’esperienza estetica, bensì etica. Dipingere è accordarsi a un’altra e superiore realtà dove l’artista sia capace di trovare la propria autenticità prima di tutto come uomo. Ed è proprio attraverso il dipingere che il pittore fa e si fa, nella speranza di raggiungere in ultimo il suo essere al mondo. Quale missione ha oggi la pittura? Oggi si fa forza di una voce gridata e scomposta, che cerca il gusto della moda corrente, ma che spesso perde di vista la dimen-

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sione del pensiero e della conoscenza. È sintomo di un oblio e una dannazione irreparabile? Credo ci sia questo oblio, accompagnato da ostentazione e facile compiacimento. Personalmente ripongo una profonda fiducia nell’espressione pittorica, nonostante possa essere continuamente minacciata o negata, ma è proprio di fronte a questo che la pittura non può arretrare, pena la sua scomparsa. Auspico che non si adegui ai valori del tempo attuale, che sappia dare ancora voce al profondo senso spirituale e trascendente dell’uomo e credere ancora, indugiando proprio lì dove non sembra esserci nulla. Portare una testimonianza di fiducia e fede, nonostante tutto. Abbiamo fiducia nel linguaggio di artisti bravi e capaci come te. Cosa pensi degli artisti della tua generazione? Ti ringrazio, ma non ritengo di aver meritato l’appellativo di artista. Spero siano in molti, soprattutto tra i giovani, a sentire la necessità di una diversa, e meno distratta, attenzione per quello che è il senso più profondo dell’espressione artistica, ma bisogna lavora-

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re duramente e molto. Davvero molto. Vedo intorno a me, a volte, una certa sensibilità e riflessione. Altri tentano come io tento. Che rapporto c’è tra questa mostra e quella che hai presentato alla Casa di Raffaello ad Urbino? Attrazione celeste è stata presentata prima ad Urbino in forma ridotta – con una sezione dedicata ad alcune opere di importanti cicli precedenti – e completata nel museo di Teramo. I due istituti collaborano tra loro grazie all’intermediazione di Umberto Palestini, direttore artistico de L’Arca e membro della commissione artistica all’interno dell’Accademia Raffaello. La tua mostra si inserisce nel progetto Factory-Contemporary Art promosso da L’Arca. Ci racconti qualcosa sulle attività proposte da questo centro di ricerca sui linguaggi artistici contemporanei? Il Factory-Contemporary art è un progetto che supporta e promuove giovani talenti, provenienti dall’accademia di Belle Arti di Urbino, che hanno ricevuto in questi anni maggiore interesse da parte della critica. L’Arca


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di Teramo, invece, è uno spazio museale innovativo dedicato alla ricerca e alla sperimentazione, un laboratorio atto a sviluppare un modello di condivisione e apprendimento partendo da diverse espressioni artistiche. Il regista Giuseppe Gaudino ha realizzato il cortometraggio A libro chiuso, ispirato alla tua opera, film che sarà presentato in occasione della mostra. Ci racconti qualcosa sui suoi contenuti? Come hai lavorato con lui? Che visione traccia del tuo lavoro? L’anello di congiunzione tra me e Gaudino è stato Leonardo Bonetti, scrittore con il quale ho collaborato nel 2012 realizzando le opere per il suo libro dal titolo A libro chiuso. Il cortometraggio prende vita da qui. Girato nel mio studio, in due giorni di lavoro, il film è, come il regista stesso afferma, una “suggestione libera” su queste mie tavole, alcune delle quali realizzate in corso d’opera. La sua cifra stilistica, ben riconoscibile, ha abbracciato con sensibilità il mio lavoro evocando ciò che non è visibile nell’incontro frontale con l’opera pittorica. Nei dodici minuti da lui montati si evince lo scorrere del

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tempo, la modulazione della luce e il ritmo lento e cadenzato del lavoro in studio, attraverso un’originale visione in cui gli oggetti intimi del pittore danzano accompagnati dalle suggestive note di Dvořák. La visione che ne emerge è poetica e onirica.

Ettore Frani. Attrazione celeste a cura di Umberto Palestini in collaborazione con L’ARIETE artecontemporanea

Quale pensi sia il prossimo approdo della tua pittura? Attualmente mi sto dedicando, con maggiore ascolto, al tema fondante e originario della luce. Penso, però, che al compimento di ogni ciclo, quale può essere la realizzazione di una mostra personale, sia già in nuce il germe di ciò che apparirà nei lavori futuri. Operando contemporaneamente su più opere, posso osservare con attenzione le nuove suggestioni e i nuovi orientamenti della mia ricerca. In studio avvengono continue metamorfosi e ripiegamenti lungo percorsi ellittici, pertanto, posso sì indicare una direzione o un’intenzione, ma certamente non un approdo. In sostanza non posso prevedere, ma solo accogliere, ciò che continuamente sorprende e sposta il mio lavoro.

L’Arca, Laboratorio per le arti contemporanee Largo San Matteo, Teramo

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2 marzo - 14 aprile 2013

Orari: da martedì a domenica 16.0019.00 Ingresso libero Info: +39 0861240732 – +39 0861251336 www.larcalab.it info@larcalab.it

Ettore Frani, Fortezza (trittico), 2012, olio su tavola, cm 100x290. Courtesy: L’ARIETE artecontemporanea. Foto: Paola Feraiorni


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Interviste

Leggi su espoarte.net http://www.espoarte.net/arte/nunzio-paci-il-segno-di-una-natura-cannibale/

Nunzio Paci. Il segno di una natura “cannibale”

NUNZIO PACI è anche su ESPOARTE #80... COMING SOON!

MILANO | Officine dell’Immagine | 21 febbraio - 31 marzo 2013 Intervista a NUNZIO PACI di Matteo Galbiati La mostra personale, presentata a Milano presso Officine dell’Immagine, ha un carattere decisamente museale: sono, infatti, tutte grandi tele quelle che circondano lo sguardo dello spettatore e lo proiettano dentro al cuore sensibile delle immagini di Nunzio Paci. Il giovane talentuoso artista, oltre alla freschezza e alla capacità tecnica, riesce a restituire, rispettando anche una tradizione pittorica dalle ascendenze antiche e nobili, un linguaggio immediato e deducibile nel contenuto, ma anche sollecito nell’evidenziare profondi interrogativi sul mistero dell’esistenza. La sua visione fa perno sul rapporto uomo-natura, sul particolare e l’universale, posizioni che lasciano decorrere lo sguardo dal piccolo e fragile elemento mortale al senso di un ciclo universale eterno, carico di enigmi e mistero. Abbiamo posto al giovane artista bolognese alcune domande:

Mi è difficile rispondere perché da sempre considero il mio lavoro come un unico corpo in costante evoluzione. Percepisco che qualcosa sta cambiando, ma il mio sguardo è ancora troppo coinvolto per analizzare in maniera oggettiva questo cambiamento…

Tempo fa mi parlavi di un ciclo di opere che si definiva per l’attenzione posta su quelle che hai definito come “malformazioni” e oggi sono contento di tornare a riflettere insieme sul tuo lavoro di ricerca. Cosa troviamo di nuovo, diverso o di stretta continuità in questi lavori?

In mostra vediamo gli ultimi esiti della tua ricerca. Cos’è De Signatura Rerum? De Signatura Rerum è il mio universo. Un universo nel quale non esiste un confine tra i regni e dove ogni elemento è chiamato ad interagire fisicamente per la sopravvivenza propria e dell’altro.

Avevamo parlato di corpi non portatori di patologie specifiche ma di tensioni al cambiamento, cui muove anche tutto il corpus della tua ricerca. Cosa implicano, mutano e identificano questi cambiamenti? Nella mia visione il cambiamento è frutto del contatto con il diverso e voglio credere che sia possibile pensare alla diversità come “veicolo di conoscenza” dove nuovi elementi si fondono per generare soggetti capaci di comprendersi e completarsi reciprocamente.

Qui e nella pagina a fianco: Vedute della mostra “Nunzio Paci. De signatura rerum”, Officine dell’Immagine, Milano 8

Uomo e natura, un binomio che vive una relazione complessa e travagliata. Come si rapporta la dimensione naturale con quella umana nel tuo lavoro? Nel mio lavoro non esistono gerarchie o ruoli tra i soggetti. La metamorfosi avviene attraverso un’imprevedibile tensione alla mescolanza che rappresenta il punto di partenza per la conoscenza e la comprensione del diverso. Hai introdotto anche l’analisi del mondo vegetale che si accosta a quello animale che hai sempre studiato. Cosa implica quest’aggiunta? In questa fase ho sentito l’esigenza di introdurre il momento della germinazione nel normale processo di sviluppo di un organismo complesso. In un secondo momento ho ipotizzato che il frutto di questa metamorfosi potesse essere alimento per l’organismo stesso, così come per i suoi simili. Ho definito, dunque, “cannibali” questi soggetti e credo sia questo l’elemento che caratterizza l’ultimo periodo. Questi ultimi tuoi avvincenti lavori s’ispirano alla dottrina delle segnature di Paracelso e Jakob Böhme. Ci spieghi la relazione di queste teorie filosofiche e medico-scientifiche con il tuo fare artistico e il tuo pensiero poetico? Ciò che mi affascina nei trattati di Paracelso e Böhme – che intendo fare mio in un certo senso – è l’idea di una natura che porta con sé dei “segni”, che a loro volta vanno a comporre un codice non decifrabile se non osservato nella sua interezza e complessità: una natura che comunica con il proprio linguaggio – la cui chiave di lettura è dunque accessibile – ma che resta spesso oscuro. Cito un brano significativo: “La segnatura sta nell’essenza ed è simile ad un liuto che rimane silenzioso, ed è muto e incompreso, ma se qualcuno lo suona, allora s’intende.” Ti sei adoperato su grandi formati che mi riportano alle maestose opere dei maestri del passato: come ti relazioni a dimensioni tanto imponenti? Che impatto pensi abbiano sulla sensibilità del pubblico sempre meno avvezzo ad ammirare opere, soprattutto di giovani artisti, di


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grandezza museale? Quando nella mia mente iniziano a formarsi le prime immagini, non percepisco un “valore di dimensione” bensì una sottile linea di confine che separa la realtà dall’immaginazione. M’interessa riuscire a ricreare un collegamento tra questi due mondi e non l’impatto emotivo che la dimensione può suscitare. Quali sono i tuoi punti di riferimento? Gli altri tuoi modelli artistici e culturali? Non credo di avere dei veri e propri modelli intesi come esempi da seguire per gli obbiettivi che hanno raggiunto, ma quanto per la difficoltà che hanno impiegato nel raggiungerli. In queste figure mi rispecchio e voglio continuare a credere. Una lettura superficiale potrebbe avvicinare il lavoro a quello del plastinatore Gunther Von Hagens. Credo ci siano però premesse ben differenti, dobbiamo fugare dubbi in chi potrebbe fare questo paragone… Considero, infatti, il lavoro di Von Hagens interessante dal punto di vista scientifico, ma non trovo nessun altro legame, se non quello anatomico, con la mia ricerca. Il mio intento non è quello di descrivere l’anatomia di un corpo estremizzandone la visione con intenti provocatori, di scherno o di leggerezza, ma cercare una riflessione più profonda sulla vita e su ciò che mi è vicino. Come nascono e come si sviluppano i tuoi lavori che lasciano vedere, oltre ad un’abile precisione pittorica, una fase originante che è studiata meticolosamente? Di cosa vive questa fase meditativa preliminare? Cosa contempla? La mia difficoltà nel rispondere a questa tua domanda denota, nel mio modo di procedere, una componente irrazionale che, nonostante l’ostinazione quasi maniacale con la quale eseguo i miei riti quotidiani, investe in maniera imprescindibile il mio lavoro. Il riferimento culturale e intellettivo del tuo lavoro affonda le proprie radici in un complesso di pensiero che deriva da una tradizione molto arcaica, utilizzi mezzi espressivi tradizionali e conferisci all’immagine un nobile impianto “antico”, in cosa pensi siano tanto attuali e contemporanee le tue opere? Non mi sono mai posto il problema di essere “contemporaneo” o “attuale”. Quando lavoro il mio unico pensiero è quello di riuscire a riprodurre quello che la mia mente mi suggerisce, anche se, a posteriori, non sono convinto che il mio modo di lavorare sia così “tradizionale”!

Cosa racconti o suggerisci all’uomo di oggi? Non ho la presunzione di suggerire niente a nessuno, anzi mi ritengo una vittima dei miei suggerimenti. Nel mio percorso spero di incontrare sempre più vittime dei propri pensieri anziché prigionieri delle idee altrui. Come pensi possa evolvere il tuo linguaggio? Quali progetti vorresti realizzare in futuro? Ho sempre cercato di distrarre la mia mente dal concetto di “evoluzione” per lasciare che questo processo fosse il più naturale possibile e non mi rendesse schiavo di un preciso disegno. Per il futuro spero solo di avere il tempo necessario per soddisfare il mio bisogno di conoscenza e osservazione.

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Nunzio Paci. De signatura rerum a cura di Davide W. Pairone Catalogo: vanillaedizioni 21 febbraio - 31 marzo 2013 Officine dell’Immagine Via Atto Vannucci 13, Milano Orari: da martedì a venerdì 15.00-19.00, sabato 11.00-19.00, altri giorni su appuntamento Info: +39 0331898608, +39 3345490900 www.officinedellimmagine.it info@officinedellimmagine.it


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Interviste

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Scena muta per nuvole basse. Marchelli a Palazzo Fortuny VENEZIA | Palazzo Fortuny | 9 febbraio – 8 aprile 2013 Intervista a MIRCO MARCHELLI di Viviana Siviero

Scena muta per nuvole basse è il titolo della nuova mostra personale di Mirco Marchelli, inaugurata a Palazzo Fortuny di Venezia, a cura di Paolo Bolpagni e Elena Povellato, in collaborazione con Galleria Traghetto (Venezia), Marco Rossi Artecontemporanea (Milano) e Cardelli&Fontana Artecontemporanea (Sarzana): una mostra sontuosa che rende omaggio a Richard Wagner intersecandosi alla mostra Fortuny e Wagner. Il wagnerismo nelle arti visive in Italia, con cui la Fondazione Musei Civici di Venezia ha inteso onorare il grande compositore tedesco nell’anno del bicentenario della nascita. Mirco Marchelli tratta il ricordo in maniera moderna ed intelligente, trasformandolo in opera d’arte, mantenendo la sua dignità senza scadere in alcun modo nel banale né tantomeno nello stucchevole. Opere vecchie sono messe in dialogo con le più recenti, per creare un percorso che dialoga con gli splendidi ambienti dello storico Palazzo veneziano, culminante in un’installazione che rappresenta la nuova direzione espressiva della poetica dell’artista. Un’opera che coinvolge la musica in un discorso armonioso fra ragione e sentimento… Un tentativo riuscito per realizzare un’opera d’arte totale a partire, come sempre, dall’anima stessa del luogo, dal suo genio, di cui gli oggetti di Mariano Fortuny sono ancora pregni. Ci vuoi raccontare la mostra attraverso le opere che ritieni basilari? Ci spieghi i perché del titolo? Mi pare interessante raccontare la mostra partendo proprio dal titolo dell’opera inedita nuvole basse, un’installazione sonora composta da un cilindro (5,60 m x 2,80 m), nero, completamente immerso nel buio. L’unica luce presente è puntata su uno sgabello; Il titolo si riferisce direttamente a Venezia, ovattata e per nulla solare, ma anche in qualche modo un riferimento alla mia terra, il basso Piemonte. Per realizzare l’opera ho scritto una partitura per 12 flauti, 12 ottoni e voce recitante, realizzando una sorta di ambiente descrittivo che rappresenta la mia idea sonora e verbale di un ipotetico discorso legato appunto all’immagine di nuvole basse. Ribaltando il concetto del suono stesso, ho sistemato i 12 flauti registrati nel perimetro

Mirco Marchelli, Nuvole basse, 2013, carta, legno, tempera, ceramica, cera, cm 37x24x32. Foto: Mario Vidor

Mirco Marchelli, Orizzontale quasi verticale, 2005, carta, tela, acrilico, tempera, cera, cm. 80x69x10.Foto Mario Vidor

basso del cilindro mentre gli ottoni sono stati collocati in alto in modo da far calare il suono sopra le teste degli spettatori. Il buio che avvolge i 24 suoni aumenta la sensazione di uno spaesamento introspettivo sottolineante citazioni naturalistiche e descrittive. L’effetto ottenuto è in parte subacqueo, e in parte ae10

reo in quanto il fluttuare dei flauti si contrappone al pulsare degli ottoni. Il testo che viene recitato è composto da parole che formano immagini mentali che hanno un immediato riferimento sonoro, come ad esempio tuoni e campane a martello, per creare nella mente dello spettatore un coinvolgimento senso-


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Mirco Marchelli, In cauti suoni, 2013, tela, carta, acrilico, tempera, cera, cm 38x62x6. Foto: Mario Vidor

riale totale. L’installazione è il cuore dell’intera esposizione che si completa nell’arco dei tre piani di Palazzo Fortuny ed è altresì un omaggio a Wagner. Oltre all’installazione inedita il cui racconto non può che aumentare la nostra curiosità, come si sviluppa il resto della mostra? L’installazione musicale in realtà è l’ultima cosa che lo spettatore incontra. Si è creato un percorso che rende chiaro il mio mondo espressivo collocando le opere il più possibile dialoganti con lo spazio ospitante dando vita ad una scena muta naturale fortemente teatrale. Si è scelto di mescolare opere recenti ad opere provenienti da collezioni private realizzate fino a 15 anni fa. Questo specifico utilizzo di opere è utile per far capire la mia impostazione del lavoro a partire dal suo nucleo. I materiali cambiano nel tempo così come il loro utilizzo. Lavoro che si basa su una poetica ben precisa… Il primo pensiero è sicuramente quello di un discorso legato alla memoria, ma credo che la mia sia una sorta di poetica del rimando. Nei miei lavori ci sono sempre riferimenti musicali e letterari con chiari richiami alla pittura del passato recente e lontano. Puoi anticiparci i tuoi progetti per il futuro? Ho in programma una mostra personale – che si intitolerà Ballabili miniati – la prossima estate, da Cardelli&Fontana (Sarzana), la cui idea precede addirittura la nascita dell’installazione veneziana di cui abbiamo parlato. 11

Vorrei dare forma concreta ad un tentativo di coinvolgere ed esprimere ancor più fortemente l’elemento musicale. Prevedo di utilizzare il violoncello. Sto infatti rielaborando alcune sonate per clavicembalo di Domenico Scarlatti, un compositore che amo molto. Persino nella musica mi esprimo attraverso il rimando. Mantengo la forma stessa delle sonate cancellando parte delle note e utilizzando le rimanenti rielaborando il tutto nella tessitura del violoncello. Vorrei sistemare gli altoparlanti in uno spazio oscurato, facendo in modo che ogni suono si attivi solo al passaggio dello spettatore, che si trasformerà in un elemento attivo capace di determinare una parte consistente dell’opera e la sua fisionomia sonora. Mirco Marchelli. Scena muta per nuvole basse A cura di Paolo Bolpagni e Elena Povellato In collaborazione con Galleria Traghetto (Venezia), Marco Rossi Artecontemporanea (Milano) e Cardelli&Fontana Artecontemporanea (Sarzana) 9 febbraio – 8 aprile 2013 Palazzo Fortuny San Marco 3780 – San Beneto, Venezia Orario: 10.00 – 18.00 (biglietteria 10.00 – 17.00); chiuso il martedì Info: 848082000 (call center dall’Italia) fortuny.visitmuve.it info@fmcvenezia.it fortuny.visitmuve.it


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Interviste

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Guglielmo Castelli è a Genova… al di là di ogni ragionevole dubbio GENOVA | Guidi&Schoen Arte Contemporanea | Fino al 14 marzo 2013 Intervista a GUGLIELMO CASTELLI di Viviana Siviero

Al di là di ogni ragionevole dubbio, per tratteggiare le paure di una giovinezza immobilizzata dal terrore di sbagliare, inconsapevole del fatto che, nonostante tutto, ne uscirà vittoriosa, nonostante l’assenza spazio-temporale che sembra imprigionarla ma in realtà la protegge. Questo è ciò che racconta l’abile pennello di Guglielmo Castelli, in mostra con la sua produzione più recente da Guidi&Schoen Arte Contemporanea di Genova. Qual è il dubbio più irragionevole dei tuoi personaggi? Il dubbio di poter essere fautori di destini altrui e la consapevolezza di come la loro scelta o non scelta possa essere determinante per il loro silenzio.

Ci racconti il cuore della tua poetica in relazione alla tua persona? Ti puoi presentare attraverso i tuoi personaggi? Ho da sempre prediletto il processo al risultato e di come questo potesse creare stanze senza tempo, piene di melanconia, che è diversa dalla malinconia perché non ancora patologica. L’elemento che forse più accomuna me e le mie creature è la sensazione della caduta e di come in realtà, in fondo, questo stato precario vada bene, così com’è. Non si tratta di personaggi delicati se non nei toni, che sono però ospedalieri, come se avessero subito un’immersione in candeggina. Per pulire, per estirpare una colpa o l’errore o, per l’appunto, il dubbio. Sono ironicamente cinici, ferrati in quello che vogliono e si protendono per prenderselo.

Guglielmo Castelli, Al di là di ogni ragionevole dubbio, Guidi&Schoen Arte Contemporanea, Genova 12


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Non c’è uno stretto ed immediato legame fra loro e me, credo che nascano dalla necessità. Una necessità del ricordo e di come sia importante il fallimento per tenerlo a sé. Per capire e comprendere meglio questa vita che è una giostra. Quotidiana. Kafka diceva:«fallisci, fallisci, fallisci meglio». E soprattutto non ho nessuna pretesa, sono un contastorie di racconti che in un modo o nell’altro appartengono a tutti. Una mostra, quella da Guidi&Schoen a Genova che mette in luce le caratteristiche di una pittura che si compie in una sintesi che non lascia spazio ad alcuna sbavatura di significato: che cosa speri che porterà il pubblico a casa con sé a livello esperienziale? Che cosa rappresenta per te la pittura e cosa ti permette? Spero porti ironia e silenzio. Quel silenzio che precede una risposta. Dove tutto è lì, in quel momento preciso. Per quanto riguarda il pubblico (che è una parola enorme, che spaventa) spero che il mio lavoro lo porti dinanzi al fatto che la mia pittura si basa sulla dicotomia fra ferocia dei gesti o di elementi, entrambi trattati ed espressi con la grazia delle tonalità e delle forme. Ma vorrei anche venisse alla luce il fatto di come spesso sia la parola a formare l’immagine. I titoli sono la corteccia di questo mio percorso, i più si riferiscono a romanzi che amo e dimostrano come una formazione culturale sia importante in questo lavoro. L’ironia dell’immagine non è nulla se non gioca con quella della parola. Infine vorrei emergesse un fattore più generalizzato riguardo al ruolo di “ artista”: sono la dimostrazione di come, anche alla mia giovane età, si possa far questo mestiere seriamente, in maniera doverosa e rispettosa. Senza voler prendere in giro o pretendere cose che non esistono. I tuoi personaggi sono stati dipinti dalla critica «immobilizzati dalla paura dell’errore, e allo stesso tempo sedotti dalla possibilità di sbagliare volontariamente, sono in attesa della soluzione», che si intravede come positiva o almeno costruttiva e non tragica, perché? Da cosa trai ispirazione?

Guglielmo Castelli, Prima Piano, 2013, acrilico, gesso, olio e smalto su tela, cm 60x50

Come dicevo il più delle volte è la parola a creare l’immagine. Amo molto leggere, questo mi ha portato a entrare ed uscire da mondi lontani, a giocare con personaggi dalle mutevoli nature, ma avevano tutti una storia. Così ho creato una sorta di parco giochi. Mio, forse e più che parco giochi labirinto. La soluzione tragica non la vedo meno costruttiva di una soluzione positiva. Se ce la faranno? Sì, eccome. Si salveranno, alla fine. Mi interessa però l’attimo prima della caduta o quello subito dopo. Il risultato che sia positivo o meno non mi importa. Progetti per il futuro? Ci puoi dare qualche anticipazione? Mi piacerebbe sviluppare in maniera più strutturata la parte scultorea e capire se ci potrà essere un dialogo tra i due linguag13

gi che prediligo; quello pittorico e quello scultoreo per l’appunto. Ho tanti progetti e speranze. Una in particolare: quella di poter cambiare spesso idea. Guglielmo Castelli. Al di là di ogni ragionevole dubbio 14 febbraio – 14 marzo 2013 Guidi&Schoen Arte Contemporanea Vico Casana 31r, Genova Orari: dal lunedì pomeriggio al sabato 10.00-12.30 / 16.00-19.00 Info: +39 010 2530557 www.guidieschoen.com info@guidieschoen.com


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Mario Nigro. Storia di un pensiero pittorico CHEMNITZ | Kunstsammlungen Chemnitz Intervista a INGRID MÖSSINGER e FRANCESCA POLA di Matteo Galbiati

A vent’anni dalla scomparsa è stata una prestigiosa istituzione museale tedesca – il Kunstsammlungen di Chemnitz – a celebrare l’artista Mario Nigro, omaggiandone la ricerca con una grande antologica. La retrospettiva, che ha recentemente chiuso i battenti, ha riunito più di trenta lavori che, attraverso una severa selezione, hanno evidenziato il complesso percorso poetico del maestro livornese: dagli Spazi totali ai Tempi totali, dalla Metafisica del colore ai Dipinti satanici – per citare alcuni dei cicli presentati in mostra – il linguaggio di Nigro ha posto attenzione e coscienza su una pittura che si è sempre scostata dall’esperienza oggettiva meramente descrittiva per maturare, con lucida inventiva, un coerente, quanto radicale, sistema di pensiero che si avvicinasse agli ideali universali dell’uomo e che si fondasse sul divenire della sua esperienza. Le opere di Nigro definiscono, con una personalità originale e autonoma, istanze nuove, spazi nuovi; aprono prospettive inedite e sconosciute che guardano oltre i confini stretti del visibile e del reale. Al Kunstsammlungen di Chemnitz si è quindi potuto ammirare, decifrandone le coordinate e i gradienti principali, i segni più esaustivi e prioritari della ricerca

di Nigro, attraverso opere in cui il suono e l’immagine perdurante della sua riflessione rimangono vivi e attualissimi. Una mostra che ci auguriamo possa avere un seguito anche in Italia. Per un bilancio di questo importante puntamento abbiamo posto alle domande alle curatrici - Ingrid Mössinger e Francesca Pola - alcune domande: Matteo Galbiati: La prestigiosa istituzione che dirige ha dedicato una mostra a Mario Nigro, artista italiano, importante per la storia delle vicende artistiche dell’ultimo cinquantennio, ma che in Italia, rispetto ad altri, non è ancora celebrato e riconosciuto come meriterebbe. Perché questa scelta? Ingrid Mössinger: Mario Nigro è certamente una tra le personalità maggiori tra quegli artisti che sono stati pionieri dei movimenti artistici del secondo dopoguerra. Il suo forte potere creativo e il suo pensiero radicale sono mirabili ed esemplari. Il lavoro e la ricerca di Mario Nigro si trovano, a mio avviso, esattamente al confine netto tra il passato e il futuro. Questi sono solo alcuni tra i numerosi argomenti e motivazioni che hanno favo-

Mario Nigro. Werke 1952-1992, veduta della mostra, Kunstsammlungen Chemnitz, Chemnitz (Germania). Courtesy: Kunstsammlungen Cheminitz. Foto: André Koch 14

rito il progetto di questa mostra delle opere di Mario Nigro in Germania. Ha in programma altre grandi esposizioni come questa dedicata a Mario Nigro dedicate ad artisti italiani? Mi piacerebbe sicuramente presentare le ricerche di diversi altri artisti italiani che hanno operato in questo fecondo periodo, questi progetti rimangono subordinati alle possibilità del budget del museo. La mostra ha da poco chiuso, quale bilancio fa di questa esposizione? Che risposta ha dato il pubblico tedesco? Sono molto soddisfatta. Abbiamo avuto risposte decisamente positive, con un’affluenza di circa 25.000 visitatori. Soprattutto qui, in Sassonia, molti tra i numerosi spettatori hanno dichiarato di aver ammirato il lavoro di Mario Nigro e di averlo trovato una meravigliosa scoperta. Dopo la pubblicazione del monumentale catalogo generale dell’opera pittorica di Nigro, questa mostra rappresenta la prima grande restrospettiva dedicata alla sua figura. Perché è stato scelta questa sede istituzionale in Germania? Francesca Pola: La Germania è sempre stata molto sensibile all’opera di Nigro, già dai primi anni Settanta, con una serie di mostre anche personali e la sua presenza in varie collezione pubbliche e private. Credo che le ragioni di questo successo dipendano da quella particolare unione che c’è nell’opera di Nigro tra espressione e razionalità, tra portato emotivo e rigore strutturale, che sono costantemente posti in tensione tra loro. Sono componenti che nel suo lavoro vengono a costituire una sorta di distillato mediterraneo di un dualismo tipico anche dell’arte tedesca: quello appunto tra espressività ed esattezza. Sicuramente il successo della mostra di Chemnitz dimostra questa continuità di relazione, ma rende anche Nigro un artista sempre più diffusamente europeo e mondiale nella sua ricezione attuale. Gli studi scientifici sulla sua opera possono essere approfonditi anche – e so-


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Mario Nigro. Werke 1952-1992, veduta della mostra, Kunstsammlungen Chemnitz, Chemnitz (Germania). Courtesy: Kunstsammlungen Cheminitz. Foto: André Koch

prattutto – in occasioni come questa, offrendo alpubblico uno sguardo peculiare sulle sue opere. Che principi avete adottato nella scelta rigorosa delle trentadue opere che avete presentato in questa occasione? La definizione del corpus delle opere ha seguito sostanzialmente due criteri molto rigorosi, individuati con Ingrid Mössinger, che devo dire è stata veramente un direttore di museo esemplare nella sua attenzione ad ogni aspetto del progetto costruito insieme. Da un lato, era per noi importante presentare al pubblico internazionale una scelta di eccellenza, storicamente significativa ed emblematica dell’opera di Nigro, ma anche un percorso che fosse chiaramente leggibile da un pubblico il più vasto possibile, e potesse restituire sia la ricchezza sia la coerenza del suo procedere creativo. Dall’altro, è stato essenziale mantenere nella scelta un’attenta e costante relazione con la specificità degli spazi espositivi del Kunstsammlungen Chemnitz, che sono veramente eccezionali nella loro ampiezza e luminosità: abbiamo potuto così esporre con grande efficacia anche grandi opere a carattere installativo, come quelle straordinarie presentate da Nigro nella sua sala personale alla Biennale di Venezia del 1968, il monumentale Ettore e Andromaca (esposto alla Biennale di Venezia, nel 1978), o ancora lavori di grande dimensione appartententi ai cicli degli Incontri e dei Dipinti satanici. Sei una tra le più attente studiose della sua figura, ci dici brevemente in cosa si

contraddistingue la visione poetica di Nigro, coerente anche attraverso un percorso composto da cicli di opere, apparentemente, tanto diverse tra di loro? Ci dai il segno della peculiare grandezza di Nigro? Nigro è uno dei grandi maestri dell’arte italiana della seconda metà del XX secolo, uno dei grandi inventori di linguaggio che hanno letteralmente “ricostruito” la cultura visiva del nostro paese, in un’ottica internazionale, dalla tabula rasa del secondo dopoguerra, in parallelo ad altri grandi maestri come Fontana, Burri, Capogrossi, Vedova. Credo che tutto il suo lavoro vada visto in questa prospettiva altamente etica, che lo porta a rinnovare e modificare continuamente il suo lavoro come necessità di restare sempre aderente a quello che accade intorno a lui nel mondo, attraverso quella che lui stesso già nel 1969 ha definito “una ricerca estetica come struttura intima dell’uomo”. Per lui, è una questione di responsabilità verso la collettività, con la quale cerca sempre e costantemente un dialogo: questo io ritengo renderà sempre più attuale il suo lavoro, perché Nigro ha cercato di unificare prospettiva individuale e universale, ha cercato di stabilire con la sua opera un dialogo tra gli uomini e le culture, attraverso i tempi della storia, anticipando di decenni quella prospettiva che oggi riconosciamo come glocale, tra singolo e mondo. Sono previste mostre celebrative anche in Italia? Ci puoi anticipare qualche progetto? 15

L’attività dell’Archivio Mario Nigro, che ha sede a Milano, prosegue da molti anni non solo nella catalogazione scientifica e nella tutela dell’opera dell’artista, ma anche nel coltivare relazioni con importanti istituzioni italiane e straniere, con la collaborazione fondamentale della galleria A arte Studio Invernizzi di Milano. Lo fa anche attraverso la sua attiva collaborazione a importanti mostre monografiche, come ad esempio nel 2000 la retrospettiva all’Institut Mathildenhöhe di Darmstadt, o nel 2006 l’Omaggio a Mario Nigro alla Collezione Peggy Guggenheim di Venezia. La mostra al Kunstsammlungen Chemnitz, e il catalogo che contestualmente abbiamo costruito insieme al museo con grande attenzione, hanno riscosso un notevole interesse e riscontro di stampa anche in Italia: questo è certamente un ottimo segnale da parte del nostro paese, che auspichiamo possa preludere a una sempre maggiore diffusione e a un sempre più esteso riconoscimento dell’opera di questo protagonista del XX secolo, qui come all’estero. Mario Nigro. Werke 1952-1992 a cura di Ingrid Mössinger e Francesca Pola Kunstsammlungen Chemnitz, Chemnitz (Germania) www.kunstsammlungen-chemnitz.justexpertise.de


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Vincenzo De Bellis. Miart talks! MILANO | Fieramilanocity | 2-7 aprile 2013 Intervista a VINCENZO DE BELLIS di Ginevra Bria

Miart diventa maggiorenne. Al suo diciottesimo anno d’età, la prossima edizione della Fiera dell’Arte milanese si preannuncia diversa. Alla ricerca di strategie alternative, di maggiore visibilità internazionale e sempre più portata a creare sovrapposizioni e attraversamenti tra le arti contemporanee. Espoarte ha chiesto al direttore Vincenzo De Bellis di approfondire impressioni e progetti, a quattro settimane esatte dall’inaugurazione. Che cos’era e che cosa deve diventare miart? Avevo collaborato alle precedenti edizioni di miart per curare una sezione dedicata ai talks e quella era stata un’occasione per avere una visione della situazione anche dall’interno. Sono sempre stato convinto che la fiera avesse delle potenzialità che, se sviluppate adeguatamente e per un arco di tempo prolungato, avrebbero potuto portare a dei risultati sorprendenti. Appare evidente che non solo la fiera, ma tutta la città ha sofferto sino ad oggi della debolezza istituzionale di Milano sul fronte del contemporaneo. Le gallerie private hanno in parte sopperito a questa lacuna ma è evidente che non è bastato. Quando ho visitato la fiera per la prima volta nel 2003, mi era sembrato che vivesse in una dimensione molto provinciale, anche in termini di pubblico. D’altra parte, è difficile contare sulla presenza di un pubblico meno “locale” se durante la fiera la città non offre altro. Le edizioni precedenti hanno segnato l’inizio di un certo cambiamento, e da lì sono partito. Poi ho pensato di strutturare alcune cose in modo diverso, ma sono convinto che c’era del buono e il fatto che ci siano delle conferme di quei progetti anche all’interno del mio è un chiaro segno di questo. Credo in Milano e l’ho sempre dimostrato con il mio lavoro. Milano è l’unica città davvero internazionale in Italia e ha un’offerta eccellente di arte moderna e contemporanea grazie ai musei civici come il Museo del Novecento, la Galleria d’Arte Moderna, il PAC, la Triennale e alle Fondazioni come Prada, Trussardi, l’HangarBicocca. Inoltre vorrei ricordare gli altri “mondi” di Milano – dalla moda al design, all’architettura – che nessuna altra città italiana ha e che invece

Ritratto di Vincenzo de Bellis

le grandi capitali internazionali hanno. La trasversalità di Milano è una delle caratteristiche più importanti che vorrei sottolineare anche con il mio progetto. Qual è il primo pensiero che hai avuto nel momento della tua nomina di direttore di miart 2013? Quale la tua prima preoccupazione? Da anni mi sto occupando di un lavoro curatoriale inteso in termini di ripensamento delle dinamiche istituzionali dell’arte e Peep Hole, oggi nella nuova sede della Fonderia Battaglia, ne è la testimonianza tangibile. Proseguendo questo percorso, la fiera può diventare un nuovo tipo di istituzione. Quando mi è stato chiesto di presentare un progetto per miart, la prima condizione che ho posto è stata di sostenerlo nella sua completezza se fosse stato approvato. Questo è avvenuto ed è stata la prima sorpresa positiva e di conseguenza una dimostrazione di reciproca fiducia. Il progetto implicava ovviamente anche la creazione di un nuovo team di lavoro. Sono infatti convinto che per rilanciare la fiera bisognasse partire proprio dalle persone. Per il resto, so che non è facile ma c’è una grande volontà di impegno da parte di tutti, dall’organizzazione alle gallerie e alle 16

istituzioni artistiche milanesi e sono sicuro che insieme faremo un buon lavoro. La diciottesima edizione di miart prevede la suddivisione delle gallerie selezionate in quattro sezioni: Established ed Emergent – confermate dalle scorse edizioni, ma riconfigurate nei parametri di partecipazione – e le nuove THENnow e Object. Potresti illustrarcele? Ho confermato le due sezioni principali, “Established” riservata alle gallerie che lavorano con artisti consolidati ed “Emergent” che riunisce gallerie nate dopo il 2007, attive con artisti giovani o che partecipano per la prima volta a miart ed è curata da Andrew Bonacina, curatore dell’International Project Space di Birmingham. La presenza del design a miart 2013 nella sezione “Object” curata da Federica Sala e Michela Pelizzari, che vivrà nell’allestimento a fianco delle gallerie d’arte, è la dimensione di Milano come riconosciuta capitale internazionale del design con genera una considerevole capacità progettuale e attrattiva per addetti ai lavori e pubblico. Anche il design, come la moda, è indissolubilmente legato alla cultura e all’economia di questa città. Quindi invece di mostrare le proprie debo-


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lezze, questo è il momento di evidenziare i propri punti di forza. Inoltre le sovrapposizioni tra i due mondi sono sempre più evidenti e per questo è giusto e doveroso sottolinearlo in questo momento e in questo contesto. Al di là delle classiche sezioni Establish ed Emergent ci parli della novità THENnow? È una nuova sezione su invito: THENnow, letteralmente allora-ora, in cui artisti storicizzati, attivi da diverse generazioni, si confrontano con giovani artisti in una relazione uno ad uno. Questa parte è curata da Florence Derieux, Direttrice, FRAC Champagne-Ardenne, Reims, e da Andrea Viliani, critico e curatore di base a Milano. In questa sezione i due mondi che da sempre convivono a miart, moderno e contemporaneo, entrano in stretto dialogo sia dal punto di vista concettuale che da quello allestitivo. Non si tratta, e lo sottolineo, di un tentativo di riscoperta di artisti storici come altri stanno facendo egregiamente, ma piuttosto di un modo di sottolineare il concetto di influenza che un artista ha nei confronti di un altro nel tempo. Ogni artista (ci sono nomi straordinari con opere museali) e ogni coppia è stata accuratamente scelta per una vicinanza formale o concettuale anche se gli artisti non necessariamente si conoscevano in modo diretto, o avevano collaborato in passato. THENnow racchiude l’intero concetto della fiera stessa: le molteplici relazioni tra arte moderna e contemporanea; i legami stratificati tra la ricerca artistica e la produzione di architettura/design, il tentativo di redigere un possibile Zeitgeist della nostra cultura contemporanea. Quale significato vuole trasmettere la nuova, policroma visual identity di miart 2013, rispetto alla versione costruttivista di miart 2012? La nuova immagine di miart 2013, a cura di Mousse, esprime a 360 gradi l’idea del laboratorio della contemporaneità con immagini insolite ma stimolanti e di solido impianto concettuale, cromaticamente attraenti ed evocative con risultati sorprendenti. La scelta dell’immagine è un prodotto del lavoro di team e naturalmente esprime esattamente la nostra visione della fiera negli anni duemila inoltrati! Ho sempre pensato che per realizzare un progetto così complesso come una fiera negli anni duemiladieci, in cui le fiere appunto si sono trasformate in eventi complessi e in vere istituzioni temporanee e che devono pensare a tutti gli aspetti della produzione artistica, c’è bisogno di riunire tante forze diverse e non si può essere da soli. Io ho portato con me un team straor-

Antony Gormley, Reign. Courtesy: l’artista e Galleria Continua

Harry Thaler, “Silk Chandelier”, 2012

dinario di persone di indubbio valore e con grandi conoscenze senza i quali ben poco di quello che abbiamo fatto si sarebbe potuto realizzare.

gramma di serate – tra cabaret, avanspettacolo e teatro più o meno sperimentale – in cui artisti internazionali metteranno in scena un piccolo festival di arte dal vivo al Teatro Arsenale in Via Cesare Correnti 11, luogo di emblematici avvenimenti nella vita spirituale e artistica della città dal 1200 a oggi. Queste serate, che si svolgono dal 3 al 6 aprile dalle ore 22 alle 24, saranno un vero proprio dopo fiera, aperto a tutti e a ingresso libero, animato da artisti internazionali.

A tuo modo di vedere perché finalmente, quest’anno miart può confrontarsi con le altre fiere dell’arte europee? Il passaggio alla dimensione internazionale di miart 2013 è basato prima di tutto sulla qualità alta delle gallerie partecipanti sia del moderno che del contemporaneo e del design: su un totale di 140, 61 sono estere e provengono da 15 paesi del mondo. Riprova è la partecipazione di altissimo livello dei relatori dei relatori del programma miartalks, a cura di Fionn Meade e Alessandro Rabottini, che sono 25 e rappresentano le voci più influenti dell’arte contemporanea e del design nel mondo comprendono una selezione internazionale di direttori di musei, curatori indipendenti, artisti. Inoltre tutta la città, insieme a miart, accoglierà i 150 ospiti vip – collezionisti, rappresentanti di istituzioni culturali ed artistiche – della fiera per la visita dei musei e delle mostre con eventi speciali dedicati. Com’è cambiato, invece, quest’anno il sistema di configurazione e di allestimento dei progetti curatoriali satelliti? Chi saranno i protagonisti? Il progetto a cui tengo di più è quello curato a quattro mani con Massimiliano Gioni per miart 2013: quest’anno infatti la Fondazione Nicola Trussardi e miart realizzano insieme una serie di performance, concerti, intermezzi e altri eventi diversi. Liberi Tutti è un pro17

Quale augurio pronunciare dunque, in vista, del grande opening tra quattro settimane esatte? C’è molta attesa, lo sentiamo, e c’è un clima di fiducia generalizzato che si respira nell’ambito della preparazione di miart 2013 ci sostiene e ci infonde energia: sento fiducia da parte di tutti e rispetto anche per la sfida diciamo, eufemisticamente, difficile. Siamo riusciti a creare una situazione di attesa e di speranza e l’esito, che mi auguro positivo, sarà un bel segnale per tutti e per la città. miart 2013 5 – 7 aprile 2013 Vernissage e Preview (su invito) 4 aprile 2013 Fieramilanocity ingresso Viale Scarampo, Gate 5 pad. 3, Milano Orari: dalle ore 12.00 alle 20.00 Info: +39 024997.1 www.miart.it miart@fieramilano.it


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Postwar. Protagonisti italiani “over the colour” VENEZIA | Peggy Guggenheim Collection | 23 febbraio – 15 aprile 2013 Intervista a LUCA MASSIMO BARBERO di Ilaria Bignotti

Tutti li vogliono tutti li cercano. Pochi riescono a raccontarli con la dovuta complessità e attenzione, gli artisti e le opere di quel ventennio di intensa ricerca creativa che si estese dagli anni ’50 all’inizio degli anni ’70 del XX secolo. Il taglio critico-espositivo dato da Luca Massimo Barbero alla mostra Postwar – Protagonisti italiani, dedicata a Lucio Fontana, Piero Dorazio, Enrico Castellani, Paolo Scheggi e Rodolfo Aricò, allestita alla Peggy Guggenheim Collection di Venezia è, in questo senso, esemplare. Da sempre impegnato a ricollocare storicamente ricerche artistiche di alto valore e in alcuni casi ingiustamente dimenticate dalle mode temporanee, e a rintracciarne legami e relazioni attraverso una vivace attività curatoriale e una attenta ricerca scientifica, Barbero ha voluto raccontare a Espoarte le ragioni di questa mostra dal titolo interessante… Siamo partiti da qui. Quali sono le motivazioni alla base di questo progetto espositivo? Il percorso intreccia due temi fondamentali: da un lato il momento storico nel quale si avviarono queste ricerche, il secondo dopoguerra e quindi la capacità dell’arte italiana di rinnovare il proprio linguaggio a partire da una attenta considerazione delle avanguardie storiche da un lato e dal superamento

dell’Informale dall’altro. Il problema del colore come scelta, nelle sue declinazioni come monocromo, materia e codificazione è la ricerca, il filo rosso potremmo dire, che unisce e distingue gli artisti esposti, diventando campo di azione primario delle loro indagini. La mostra si compone di cinque sale, come tappe di un racconto. Ancora, il percorso si apre con Lucio Fontana, considerato spesso quale padre spirituale di queste ricerche… Fontana è un punto cruciale e nodale di svolta delle ricerche artistiche italiane dagli anni ’50 in poi, e la prima sala è una preziosa antologica che racconta il suo percorso d’indagine attraverso alcune fasi fondamentali: a partire da due opere meravigliose, un Concetto spaziale del 1951 e uno del 1957 denso di tensioni plastiche, memori di quelle barocche e futuriste, opere che recentemente sono entrate nella Collezione Guggenheim grazie alla donazione Schullhof; i Quanta del 1960 testimoniano il loro legame e la loro capacità di anticipazione delle cosiddette shaped canvas (tele sagomate) e contengono quella energia primaria che è anche specchio delle vicende storiche del tempo; ma la sala di Fontana ha il pregio di mostrare anche l’artista meno noto: ecco allora la sua ricerca con la ceramica, presentata attraverso tre piatti di straordinario im-

Piero Dorazio, Unitas, 1965, olio su tela, cm 45,8x76,5. Collezione Peggy Guggenheim, Venezia. © Piero Dorazio, by SIAE 2013 18

Lucio Fontana (1899-1968), Concetto spaziale, 1951, olio su tela, cm 85,1x66. Fondazione Solomon R. Guggenheim, Venezia. Collezione Hannelore B. e Rudolph B. Schulhof, lascito Hannelore B. Schulhof, 2012. © Fondazione Lucio Fontana, Milano, by SIAE 2013

patto estetico e infine, andando indietro nel tempo, un disegno del 1939-1940, che è ovviamente riduttivo chiamare disegno: una Battaglia di oltre un metro di lunghezza che contiene già le tensioni plastiche della sua ricerca successiva. Da questa sala si accede a quella di Dorazio, dove le opere sembrano dialogare una con l’altra attraverso rispondenze cromatiche. Quale la scelta espositiva in questo caso? Come per Fontana si è voluto sottolineare la sua relazione con la storia dell’arte precedente, partendo cronologicamente dalla riflessione sulle ricerche della fine del XIX secolo nelle quali il problema del colore iniziò a essere indagato con scientifica attenzione e pluralità di linguaggi, così Dorazio è presentato nella sua tensione verso il suo tempo ma anche nella sua relazione con le avanguardie storiche. Cito a memoria: egli stesso disse di avere imparato da Balla che le immagini non possono esistere senza la luce che le compenetra e le fa palpitare; così nelle opere esposte troviamo le risultanze della ricerca sul monocromo e le componenti razionaliste


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Postwar. Protagonisti italiani. Collezione Peggy Guggenheim, Foto: Lorenzo Ceretta

destinate a sfociare in quella trasparenza di trame che caratterizzano le sue opere, due delle quali si confrontano specchiandosi, tendendo al monocromo blu e giallo. Il percorso prosegue con Enrico Castellani, da sempre riconosciuto quale “figlio” di Lucio Fontana: quale la lettura datane da questa mostra? Proprio il confronto con l’opera di Castellani e con quella di Scheggi, nella sala successiva, vuole anche dichiarare che è scorretto parlare di un rapporto così strettamente dipendente e consequenziale tra Fontana e gli artisti della generazione successiva: la mostra vuole invece far riflettere, lasciando parlare le opere esposte, sulla presenza, piuttosto, di echi che si rincorrono l’una nell’altra ricerca, echi originali e indipendenti. Tra i lavori di Castellani, l’esposizione presenta la Superficie angolare rossa del 1961, una delle tre Superfici bianche che composero l’ambiente realizzato dall’artista per la mostra Lo spazio dell’immagine a Foligno nel 1967 e una Superficie Blu degli anni ’70. La ricerca di Paolo Scheggi, un altro artista al quale si sta finalmente dedicando la dovuta attenzione a partire da quella che lei stesso gli ha rivolto fin dall’inizio del 2000, è invece presentata nella sala successiva, intitolandosi Omaggio a Paolo Scheggi. Lucio Fontana scriveva al giovane Scheggi

fin dal 1962 parole cariche di stima verso i suoi “quadri così profondamente neri, rossi, bianchi”: la sala infatti propone una attenta selezione di queste opere che fin dal titolo, Intersuperfici, contengono l’idea di un lavoro di stratificazioni di superfici monocrome, e al contempo di profondità diverse, espresse attraverso le fustellature prima irregolari e poi regolari e calcolate create dall’artista sui vari livelli. Fondamentale l’ingresso nella Collezione del Guggenheim di una di queste opere, una Intersuperficie curva bianca detta anche Zone riflesse del 1963, donata da Franca e Cosima Scheggi: ingresso che testimonia e dichiara finalmente la rilevanza internazionale della ricerca di Scheggi. Infine, Aricò, con il quale si chiude la mostra, e al quale Espoarte rivolgerà un apposito approfondimento, come si intitola anche la sala dedicata a questo artista… Le chiediamo dunque di voler concludere questo percorso e, se possibile, di darci in anteprima qualche notizia sui suoi progetti futuri. Anche Aricò meritava una ricerca che sapesse addentrarsi nella sua ricerca; ma lascio allora al prossimo articolo la parola su questo protagonista dell’arte italiana; tra i progetti in corso e futuri, innanzitutto, è la presentazione a livello internazionale della grande monografia dedicata a Capogrossi: il 27 febbraio è stata infatti presentata a Parigi, alla Galerie Tornabuoni Art Paris; un altro progetto mi 19

vede impegnato a confrontare le ricerche tra arti visive e architettura, tra anni ’50 e ’70; progetto che si collega alla mostra aperta a Vercelli fino a maggio, dedicata al percorso dall’Informale alla Pop Art e dedicata finalmente a ricostruire la natura internazionale di questi linguaggi, a partire da un confronto necessario tra Europa e USA, capace di superare e abbandonare le chiusure geografiche e culturali che spesso hanno ridotto gli approfondimenti sulle singole ricerche: ecco allora i confronti in mostra tra Noland e Serra da un lato e Castellani e Scheggi dall’altro; tra Hockney e Warhol e Schifano… confronti destinati anche, a dimostrare, che gli anni ’60 furono davvero un momento cruciale per l’arte italiana. Da protagonista. Postwar. Protagonisti italiani. Lucio Fontana, Piero Dorazio, Enrico Castellani, Paolo Scheggi, Rodolfo Aricò a cura di Luca Massimo Barbero 23 febbraio – 15 aprile 2013 Peggy Guggenheim Collection Palazzo Venier dei Leoni Dorsoduro 701, I-30123 Venezia Info: +39 041240541 info@guggenheim-venice.it www.guggenheim-venice.it


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Interviste > Nuovi Spazi

Riccardo Costantini inaugura a Torino con Ray Smith TORINO | Riccardo Costantini Contemporary Intervista a RICCARDO COSTANTINI di Maria Cristina Strati

In questo periodo di crisi, in cui tante attività e tante gallerie d’arte chiudono i battenti, Riccardo Costantini decide di andare controcorrente e apre un nuovo spazio espositivo. Accade a Torino, quella che per molti anni è stata considerata la capitale dell’arte contemporanea in Italia. Nella centralissima Via della Rocca, in pieno Borgo Nuovo (per i non torinesi, il quartiere principe delle gallerie d’arte del capoluogo sabaudo), Costantini ha rilevato gli spazi che furono della storica Galleria Biasutti e si prepara così ad intraprendere una nuova avventura. La galleria ha aperto con una mostra dedicata a Ray Smith dal titolo un po’ provocatorio It’s time to change. E di cambiamento si tratta: la galleria dichiara una evidente vocazione al contemporaneo italiano e straniero. L’esposizione, che proseguirà fino al prossimo 13 aprile, si avvale della curatela di Omar Pascual Castillo, direttore del CAAM di Las Palmas de Gran Canaria, il Centro Atlantico di Arte Moderna, in Spagna, e si compone di una cinquantina di lavori su tela e su carta. Reduce da mostre personali nelle maggiori gallerie del mondo – da Gagosian a Bischofberger, Sperone Westwater e Akira Ikeda – Ray Smith ha realizzato alcuni dei lavori in mostra appositamente per l’evento torinese.

Tema dominante dell’esposizione è appunto il tempo: le tele rappresentano infatti grandi quadranti di orologi. Questi appaiono modificati, distorti, quasi a voler mettere in discussione la nostra abituale nozione di tempo e della sua percezione. In altre parole, l’artista porta a tema la distanza esistente tra la percezione concreta del tempo nel vissuto quotidiano e l’astrazione teorica della temporalità intesa come convenzione. L’intento è mettere in discussione ciò che maggiormente si dà per scontato: un invito ad aprire gli occhi, a percepire, a porsi in rapporto alla realtà senza filtri e opinioni preconcette. Il colpo d’occhio per chi entra in galleria è immediatamente sulle tele, disposte in maniera volutamente disordinata, random, su e giù per le pareti dello spazio espositivo. Gli orologi colorati e sformati di Ray Smith, o meglio, i loro quadranti, appaiono plastici, originali, traboccanti energia e vivacità. A prima vista ricordano certi trentatré giri in vinile che andavano di moda negli anni ’80, sulla cui superficie erano dipinte immagini coloratissime e lucide. L’effetto è piacevole, un po’ esuberante e un po’ glamour. I disegni si dividono in due diverse serie: la prima mostra corpi di donna costruiti con la

Veduta della mostra Ray Smith “It’s time to change”, Riccardo Costantini Contemporary, Torino 20

tecnica surrealista del cadavre exquis (per chi non lo sapesse, non c’entra Tim Burton: si tratta di una tecnica basata sull’assemblaggio casuale di pezzi di immagini, nata da un gioco da svolgere in gruppo, per cui ogni partecipante disegna un pezzo di un foglio di carta senza vedere il lavoro degli altri, dando così luogo a un risultato fortuito, dettato dall’inconscio); la seconda è invece incentrata su figure tracciate con sottili linee di nero e di colore rosso, acquerellate con eleganza, dal forte impatto espressivo. Così descritta, la mostra sembra porsi in contrasto con le tendenze minimaliste e concettuali della “torinesissima” arte povera. Scelta di campo, decisione strategica o semplice volontà di seguire un gusto nuovo, scevro dalle influenze del contesto? Staremo a vedere. Per ora non resta che goderci la mostra, sicuramente riuscita e interessante, e tenere d’occhio questo nuovo spazio espositivo. Aprire una nuova galleria sembra un gesto coraggioso e sicuramente animato da una vera passione per l’arte! Che cosa ti ha spinto a intraprendere questa nuova avventura? Non c’è un solo motivo per cui ho deciso di aprire una galleria con il mio nome: pas-

Ritratto di Riccardo Costantini


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Ray Smith, Alexis, olio su tela, ø cm 106,7

sione, incoscienza, coraggio, presunzione, desiderio di fare scelte autonome, ognuno di questi elementi è solo parte della decisione di dare inizio al progetto. La mia storia personale mi ha posto a contatto con il mondo dell’arte fin dalla metà degli anni ’80 quando la mia famiglia decide di aprire una galleria a Milano. Dopo università e varie esperienze professionali, ho lavorato con i miei familiari per circa un decennio ponendo termine a questa esperienza nei primi mesi del 2010. La scelta di Torino è arrivata quasi per caso, accettando di dirigere una galleria di arte contemporanea di questa città che, nel frattempo, ho iniziato ad amare ed apprezzare profondamente. Esauritasi tale esperienza ho iniziato a collaborare con la galleria Giampiero Biasutti ed il progetto Riccardo Costantini Contemporary nasce proprio nello spazio di questa storica galleria torinese. Che tipo di ricerca intendi fare nella tua nuova galleria? Quali sono i tuoi progetti futuri? Il mio desiderio è quello di lavorare il più possibile con progetti curatoriali nazionali ed internazionali. L’idea è quella di non avere forti specializzazioni ma di lavorare con qualsiasi mezzo espressivo: dalla pittura al video,

dalla scultura/installazione alla fotografia. Cercherò di presentare artisti che, indipendentemente dall’età anagrafica e dalla loro importanza, abbiano qualcosa da dire e non perdano il gusto di fare ricerca. Dopo la mostra di Ray Smith, che risponde in tutto e per tutto all’idea di lavoro espressa poco sopra, presenterò Ubay Murillo, un giovane artista spagnolo che vive e lavora a Berlino, e che con una personale pittura figurativa tratta di temi politico/sociali. Sempre prima dell’estate sarà la volta di una collettiva di fotografia composta da artisti che seguo da tempo fra i quali Gianpiero Fanuli e Piero Mollica. In autunno sarà la volta di Vanni Cuoghi, con un progetto ancora in definizione, ed una personale di Edoardo Romagnoli con una mostra che darà ampia visibilità ad aspetti non ancora molto conosciuti della sua ricerca. Come è nata la personale di Ray Smith? Conosco Ray da qualche anno ed in passato ho già avuto il piacere di lavorare con lui con grande soddisfazione. Mi è sembrato quasi naturale proporgli di iniziare la mia avventura con una sua mostra curata da Omar Pascual Castillo, direttore artistico del Centro Atlantico de Arte Moderno di Las Palmas. Mi ha colpito subito sia il lavoro che il progetto espositivo di questa mostra. 21

Ray è un vulcano, una vera e propria forza della natura: non è solo un artista intelligente e raffinato che fa ricerca senza perdere contatto con i temi e i presupposti che determinano da sempre il suo progetto artistico e pittorico; oggi Ray è anche uno degli artisti della sua generazione più in vista e alla ribalta nella scena newyorkese per ciò che negli ultimi anni è uscito ed è stato prodotto nel e dal suo studio di Brooklyn: uno su tutti il collettivo Bruce High Quality Foundation prodotto da Ray Smith e curato da Vito Schnabel. Riccardo Costantini Contemporary Via della Rocca 6/b, Torino Orari: da martedì a sabato ore 11.00 – 19.00. Domenica e lunedì chiuso Info: +39 011 8141099 | +39 348 6703677 riccardocostantinicontemporary@gmail.com Mostra in corso: Ray Smith. It’s Time to change a cura di Omar Pascual Castillo 22 febbraio – 13 aprile 2013


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Christian Fogarolli tra testimonianza e cancellazione TRENTO | Arte Boccanera | 2 febbraio - 26 aprile 2013 Intervista a CHRISTIAN FOGAROLLI di Gabriele Salvaterra Christian Fogarolli, fino al 31 marzo, presenta alla Galleria Arte Boccanera di Trento white, un viaggio nei meandri dell’identità attraverso l’analisi di personalità allo stesso tempo anonime ed emblematiche. Utilizzan-

do un’ampia varietà di strategie e tecniche emergono dal passato vissuti complessi e drammatici in un dialogo costante tra identità e sua determinazione. Ne abbiamo parlato con l’artista…

Gabriele Salvaterra: Parlaci del tuo lavoro. Com’è iniziato l’interesse verso l’aspetto identitario delle persone e come hai scelto di approcciare il campo di indagine dei manicomi? Christian Fogarolli: L’attenzione verso ex istituzioni manicomiali non ha collegamenti diretti con indagini di stampo sociologico o politico; la genesi della ricerca è stato l’interesse per l’identità unito allo studio della fotografia criminale e segnaletica di primo Novecento. Su questa base ho impostato il mio progetto, incentrandolo sul rapporto fotografia/psicologia/identità e pensando che questi luoghi mi potessero aiutare nell’indagine. All’interno dello spazio espositivo c’è una netta suddivisione tra due progetti, anche cronologicamente distinti. Che differenze hai trovato nell’approccio a questi lavori? Da Boccanera si è deciso si presentare Lost identities e blackout. I due progetti in mostra sono diversi, ma simili e uniti allo stesso tempo. Lo scarto temporale credo non esista, le identità indagate sono praticamente coeve. Personalità e luoghi differenti uniti da metamorfosi e ossessioni simili. L’approccio di studio è stato certamente diverso, in blackout la ricerca identitaria di un individuo non avviene più attraverso corpi e fisionomie, ma tramite oggetti personali ed intimi: il “gioco” in questo caso è inverso.

Christian Fogarolli, Lost Identities, 2012, Video still, Video 1.48 min

In blackout mi incuriosisce il personaggio di Miss Swann, una figura caratterizzata da un impulso accumulatorio che si può riconoscere anche nel tuo lavoro. Cosa ti ha attratto nella sua vita? Sicuramente riconosco in me alcune analogie con questo enigmatico personaggio, particolarmente nell’azione di custodia di memorie, ma Miss Swann appartiene, in piccola parte, a ciascun uomo.

Veduta installazione mostra Christian Fogarolli “white”, Arte Boccanera, Trento. Foto: Andrea Turso 22

Nella tua ricerca riservi anche spazio all’intervento pittorico. Che ruolo ha la pittura nel tuo lavoro? Nei miei lavori l’intervento pittorico interagisce talvolta con l’immagine fotografica, questo può così permettere all’osservatore di avere nuove chiavi di lettura incrementando


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Christian Fogarolli, polittico Martirio cod. 458923, 2012, olio su fotografia da lastra negativa in vetro 1920, cm 80x100

gli stimoli dell’immaginazione. A differenza della ricerca fotografica, nel gesto pittorico non seguo precise regole o canoni, tecnica a parte, ma lascio che sia l’istinto del momento a guidarmi verso quell’atto di intromissione. Mi sembra quindi che siano riconoscibili sia una volontà di testimoniare una realtà storica sia un impulso alla cancellazione. Qual è il tuo intento? Documentare precisamente o suggestionare? Potrei dire che la mia ricerca può essere letta come un continuo contrasto tra “testimonianza” e “cancellazione”. Testimonianza vista come lettura e proposta sotto nuova veste di materiale emerso da ricerca d’archivio. Cancellazione come conseguente impulso espresso tramite interventi sull’immagine utilizzati come mezzo di indagine per il non conosciuto. Quindi direi non “documentare”, non sono un archivista, e nemmeno “suggestionare”, ma piuttosto creare indizi e

possibilità di ragionamento su alcuni aspetti dell’identità; nel cercarli in me stesso li pongo indirettamente agli altri.

po sto portando avanti le ricerche in nuove istituzioni manicomiali per poter confrontare dati e nuovi elementi.

E come fuggire alla morbosità che la presentazione di realtà drammatiche può portare con sé? Pensi che ci possa essere il rischio di innescare un piacere dell’orrido? Credo che il piacere dello scomodo, di ciò che è nascosto, strano o inconcepibile non nasca certo dal mio lavoro, ma esista da sempre. Non rinnego di vedere molta più bellezza nella bruttezza, ma non ho mai avuto obiettivi di morbosità o angoscia; in Lost identities, per esempio, credo che la vera angoscia umana non si trovi nei soggetti ritratti, ma in chi stava e sta dall’altra parte dell’obiettivo.

Christian Fogarolli. white a cura di Chiara Ianeselli

Quali progetti hai per il futuro? Nell’ultimo periodo ho impostato le basi per un nuovo progetto tutto inedito e al contem23

2 febbraio – 26 aprile 2013 Arte Boccanera via Milano 128, Trento Info: +39 0461 984206 C +39 340 5747013 www.arteboccanera.com Evento in corso: La magnifica ossessione 26 ottobre 2012 - 06 ottobre 2013 Mart – Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto Corso Bettini 43, Rovereto (TN) www.mart.trento.it


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Interviste

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Fabbrica Borroni. Uno spazio per l’arte dallo Spirito italiano BOLLATE (MI) | Fabbrica Borroni Intervista ad Eugenio Borroni e Annalisa Bergo di Martina Adamuccio

Per molti, ancora oggi, lo spazio dedicato all’arte è separato da quello interpersonale, l’arte dovrebbe quindi fermarsi nei musei o negli spazi ad essa adibiti. Si arriva a pensare, dunque, che la mostra sia il momento in cui l’arte prende forma, cresce, si sviluppa e si esaurisce. La realtà, però, è che l’arte non si discosta da quello che è il nostro ambiente e da tutto ciò che ci circonda. Fabbrica Borroni lo ha già ben compreso, per questo motivo, performance, dibattiti sull’arte, incontri con gli artisti, letture e tanto altro, fanno in modo che la Fabbrica non sia solo uno spazio dedicato all’arte in senso stretto ma alla cultura in generale, dove principio fondamentale diventa poter godere del piacere che dalla stessa può derivarne… Fabbrica Borroni ha come scopo il soste-

gno e lo sviluppo della giovane arte italiana. Il tutto è coerentemente circondato dal lavoro di giovani curatori che si occupano delle mostre al suo interno. Perché, al contrario, molte gallerie hanno spesso ancora timore a dare in mano ai giovani le curatele? Ci raccontate la filosofia di Fabbrica Borroni e come si sviluppano i vostri progetti? Eugenio Borroni: Perché non hanno fiducia nei giovani e non li sanno motivare. Da parte mia ho sempre pensato che un curatore può esserlo senza saperlo, finché qualcuno non lo mette alla prova. In Fabbrica Borroni, tranne una grande mostra con la mia grande amica Chiara Canali, ho sempre affidato l’incarico ad esordienti, con buoni risultati. Inoltre ho sempre favorito esperienze curatoriali, in parallelo con il lavoro in Fabbrica,

nella convinzione che la Fabbrica è un trampolino di lancio importante. Infatti mediamente i curatori cambiano ogni due anni, per dar spazio ad altre opportunità ed idee. Ad esempio, per il Premio cui stiamo pensando, e che presto lanceremo, la parte dei curatori sarà del tutto nuova sia nelle intenzioni che nelle persone. Spirito italiano nasce come monito contro il sistema dell’arte contemporaneo, troppo spesso ridotto a merce in mano a pochi eletti che ne tirano a loro piacimento le redini… È cosi? Eugenio Borroni: È così, ma non direi che si tratti soltanto di un monito. È la constatazione derivata dalla grave situazione attuale del sistema dell’arte italiana: gallerie che chiudono, mercanti che truffano gli artisti, Fiere

Spirito italiano, Atto I, Daniela Alfarano, Marta Fumagalli, Debora Garritani, veduta della mostra negli spazi di Fabbrica Borroni 24


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www.espoarte.net Spirito italiano, Atto I, Daniela Alfarano, Marta Fumagalli, Debora Garritani, veduta della mostra negli spazi di Fabbrica Borroni

guadagno e ciò provoca, soprattutto per i giovani, una mancanza di crescita personale e artistica. È necessario, invece, comprendere che arte e cultura possono diventare un valido sostegno all’economia, lavorando per avvicinare e coinvolgere tutto il pubblico, ma senza cucirgli addosso un’arte su misura. In questo modo si permette ai giovani di sperimentare e far evolvere la loro ricerca perché non più vincolati ai gusti di una ristretta parte di pubblico. Inoltre, vanno garantiti contratti regolari ad artisti attribuendo il giusto valore, artistico ed economico, alla loro arte. Fabbrica Borroni via Matteotti 19, Bollate (MI) che spuntano in ogni città senza motivo, degrado e declassamento delle Fiere maggiori, sconforto e sfiducia dei giovani, ricerca di soluzioni alternative spesso solo commerciali. Sono tutte cose che constatiamo ogni giorno, ascoltando i racconti di artisti, curatori, appassionati, gente comune e normale. C’è il serio pericolo di diventare colonie o sub-agenti di consolidate gallerie e istituzioni estere, il che darebbe il colpo di grazia alle già fievoli speranze dei giovani artisti italiani. Non si tratta di trovare un accomodamento con chi comanda ancora e da troppo tempo in Italia, si tratta di operare una sostituzione e una rigenerazione del sistema, basati sulla qualità artistica e sulla correttezza dei comportamenti. Altrimenti le verginelle, che arrivano sempre per ultime, staranno ancora sedute nel primo banco in chiesa ad ascoltare un parroco spretato. La programmazione di Spirito italiano, continuerà in più atti fino a giugno 2013. Come si evolverà nello specifico? Chi sono gli artisti coinvolti? Annalisa Bergo: Il progetto Spirito italiano, al momento, vede la partecipazione di 18 giovani selezionati da Fabbrica Borroni. Si tratta di artisti dei quali conosciamo il percorso e seguiamo l’evoluzione artistica e personale da tempo e, quindi, siamo convinti che siano alcuni tra i più promettenti nell’attuale panorama giovane italiano. Il programma di Spirito italiano prevede, dunque, esposizioni bimestrali di tre artisti per un totale di sei Atti, fino a dicembre 2013. Per ogni Atto, la scelta degli affiancamenti viene fatta tenendo conto delle tematiche affrontate e delle modalità espressive di ciascun artista, così da dare luogo ad esposizioni nelle quali le opere entrino in dialogo e si valorizzino vicendevolmente. L’Atto I, inaugurato il 12 dicembre

2012, ha visto esposte le opere di tre donne: Daniela Alfarano, Marta Fumagalli e Debora Garritani che hanno indagato, con mezzi diversi, il rapporto tra l’uomo e la spiritualità. Di diverso impatto sarà l’Atto II (dal 13 febbraio) che vedrà, invece, i lavori materici e colorati, di tre artisti: Guido Airoldi, Diego Mazzaferro e Davide Paglia, quest’ultimo alla sua prima esposizione importante. Il progetto Spirito italiano sarà presentato ad Arte Accessibile Milano (12-13-14 aprile) anche tramite un dibattito aperto al pubblico. Aprile sarà anche il mese dell’Atto III (17 aprile), nel quale la riflessione sul singolo uomo come parte del Tutto si esprime attraverso le opere di Patrizia Emma Scialpi, Vincenzo Todaro e Barbara Uccelli. L’Atto IV (12 giugno) chiude la prima parte delle stagione espositiva di Spirito italiano, presentando il segno netto e pulito delle opere di Irene Balia, Francesca Manetta e Alessio Tibaldi. Ad ottobre, l’Atto V indagherà il rapporto tra presenza/assenza dell’uomo attraverso la pittura di Linda Carrara e le fotografie di Chiara Paderi e Daniela Ardiri, mentre l’esposizione degli artisti partecipanti al progetto, si concluderà a dicembre con l’Atto VI e le fotografie di Fancesca De Pieri, Simone Durante e le opere di Angela Viola. Durante il periodo espositivo, poi, sono previsti dibattiti su tematiche legate all’arte e alla società, performance musicali e teatrali, reading e incontri con gli artisti. Come affrontare il profondo problema che colpisce oggi gran parte dei giovani artisti che si vedono gettati all’interno di un mercato che spesso li considera solo come prodotti e nulla più? Annalisa Bergo: Gli artisti sono visti e selezionati spesso in quanto possibili fonti di 25

Eugenio Borroni: titolare di Fabbrica Borroni, responsabile Cultura, mostre, rapporti con artisti Annalisa Bergo: curatore Orari: lunedì – venerdì 10.00/18.00 Info: +39 02 3650 7381 www.fabbricaborroni.it www.spiritoitaliano.org Spirito italiano Atto I fino al 5 febbraio 2013 Artisti in mostra: Daniela Alfarano, Marta Fumagalli, Debora Garritani Performance: Barbara Uccelli Spirito italiano Atto II dal 13 febbraio 2013 artisti in mostra: Guido Airoldi, Diego Mazzaferro, Davide Paglia Spirito italiano Atto III dal 17 aprile 2013 artisti in mostra: Patrizia Emma Scialpi, Vincenzo Todaro, Barbara Uccelli AAM Arte Accessibile Milano 2013 giovedì 12, venerdì 13, sabato 14 aprile 2013 Palazzo Sole24 ore Via Monterosa 91, Milano allo stand di Fabbrica Borroni presentazione di tutti gli artisti partecipanti a Spirito italiano – conferenza e talk to talk di Eugenio Borroni in auditorium Spirito italiano Atto IV dal 12 giugno 2013 artisti in mostra: Irene Balia, Francesca Manetta, Alessio Tibaldi


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“L’EGO” di Matteo Negri a Genova Installazioni urbane, “Mine” e il DNA per la sua prima personale a Genova GENOVA | ABC-ARTE | Galleria Contemporanea | 18 gennaio – 19 aprile 2013 Intervista a MATTEO NEGRI di Luisa Castellini

Matteo Negri, At the end of the day, Genova, Via XX Settembre

Ironico e tagliente è David Foster Wallace nel romanzo ‑ “Una cosa divertente che non farò mai più” ‑ evocato dal titolo della prima personale genovese di Matteo Negri da ABC Arte. Il riferimento ha messo in moto un’altrettanto tagliente bagarre locale. Qualcuno ha, infatti, collegato il suicidio per impiccagione dello scrittore alle installazioni urbane dell’artista, gli acrobatici “Nodi”, additati a quel punto, ça va sans dire, come irriverenti e coloratissimi cappi. Altro che nodi della nautica portati in Lego fuori scala. Può capitare anche questo, con l’arte contemporanea, lo sappiamo. Comunque un buon “la” per scoprire insieme a lui questa sua ultima mostra. Ancor prima di aprire i battenti, la tua personale a Genova ha acceso una piccola

bagarre in città per via delle tue installazioni pubbliche: ha avuto la fisionomia che attendevi? L’esposizione in galleria come anche le installazioni in città sono figlie dello stesso progetto unitario. La dimensione pubblica dell’installazione urbana mette in moto dinamiche veloci di fruizione e rapporto tra opera e pubblico, spazio comune e operato dell’artista in esso. Sono persuaso che questo dibattito abbia accelerato una vorace curiosità per l’esposizione in galleria, come a cercare tasselli di un puzzle mancante, una terapia d’urto piacevole. Come è strutturata la tua mostra da ABC ARTE? Nella prima sala è proposta la foto di un’installazione di Mine in ceramica sopra un 26

tavolo da biliardo, e di fianco alla foto, un “Crocus di Mine in ceramica rossa, appositamente realizzato per la mostra. La stanza successiva è uno stacco assoluto in cui si erge l’elicoide del DNA bianco, allestito con palloncini bianchi che ne continuano l’altezza fino al soffitto. Queste due stanze indicano l’inizio e lo sviluppo di quanto si vede nelle altre stanze della galleria: le opere a parete in Lego cromato ispirate alle armonie di Mondrian, i Nodi – già visti nelle piazze della città – e le mappe in resina, ispirate al lavoro di Boetti. Mine in ceramica invetriata, grandi nodi in resina e ferro e, ancora, bronzo e materie plastiche, il tutto in guisa squisitamente pop: quale ruolo riveste nella tua ricerca la materia con la sua capacità di dissimularsi?


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Matteo Negri, veduta della mostra in galleria, “Una cosa divertente che non faro mai più”. Courtesy: ABC-ARTE, Genova

La ricerca e lo studio dei materiali sono la base di partenza per la realizzazione dei miei lavori. I materiali come i soggetti si rincorrono nel creare i miei lavori. Ogni materiale porta con sé la possibilità di scoperta. Sicuramente alcune opere nascono da un particolare materiale che sviluppo seguendo passo passo l’idea di partenza, ma spesso capita che sia il materiale stesso a guidarmi nella costruzione dell’opera. Il timbro che si rincorre in tutte le opere, siano esse Mine o Nodi, Mondrian o Mappe, è sicuramente la verniciatura finale che accarezza e avvolge tutte le superfici trasformandole definitivamente in altro. Con i mattoncini danesi Lego, l’Ego si fa demiurgo, costruttore: senza spaziotempo specifico il gioco resterebbe tale per il bambino quanto per l’artista? Diceva Francis Bacon «Vede, oggi l’arte è diventata un gioco con cui l’uomo di distrae; si può dire che sia sempre stato così, ma ora è interamente un gioco. Penso sia questo il modo con cui le cose sono cambiate, e ciò che trovo affascinante è che diventerà molto più dura per l’artista, perché egli deve veramente approfondire il gioco se vuole essere un bravo artista» (David Sylvester, “Interviste a Francis Bacon”, Skira: 1993). I tuoi Lego fanno acrobazie: si contorcono e si ergono senza sforzo alcuno per poi stendersi e farsi pelle per mappe, ancora una volta, coloratissime: piccola e grande scala, reale o immaginifica, si compenetrano di continuo fino al climax dell’icona-DNA. Come si detona questo approdo? Ho cercato di seguire la misteriosa bellezza

e perfezione che il DNA porta con sé, cercando di bloccarlo in posa in un momento impossibile da vedere nella realtà, ma di totale equilibrio tra una forma che è e una che sarà. E nell’alveo di questo approccio alla scultura che nascono le mie opere. Matteo Negri. Una cosa divertente che non rifarò mai più 18 gennaio – 19 aprile 2013 ABC-ARTE | Galleria Contemporanea via XX settembre 11A, Genova Info: +39 010 8683884 www.abc-arte.com

Matteo Negri, veduta della mostra in galleria, “Una cosa divertente che non faro mai più”. Courtesy: ABC-ARTE, Genova

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Interviste

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Sensuale, corporea e fuggevole. La vanitas (iper) secondo Casagrande&Recalcati MILANO | MyOwnGallery | 7 – 20 marzo 2013 Intervista a Casagrande&Recalcati di Francesca Di Giorgio

La tecnica (declinazioni di pittura ad olio) li vorrebbe “classici”, quanto meno con un occhio rivolto al passato, ma la luce che proviene dalle loro nature morte svela dell’altro. Sandra Casagrande e Roberto Recalcati, che da sempre lavorano sul confine di varie “discipline”, tornano con un progetto artistico site specific negli spazi di MyOwnGallery in zona Tortona a Milano. Nel quartiere dove arte, moda e design sono di casa il duo di artisti italiani costruisce la propria visione di vanitas volutamente “eccessiva”, preceduta da un “iper” che funge da prefisso e che tradisce una nuova destinazione. L’Ipervanitas di Casagrande&Recalcati è affermazione di una materia fragile e corruttibile in cui la bellezza è alla continua ricerca di equilibrio…

Provate a spiegare il vostro personale “esserci”, tra passato e presente… Il passato e la storia mutano in continuazione a seconda del punto di vista e della progettualità verso il futuro. Per noi si tratta di un continuo rimbalzo di suggestioni e riflessioni che portano alla creazione di immagini inedite, nuove, ma che raccolgono in sé, stratificate, tutta una tradizione di fatti che in qualche modo ci appartengono. L’uso della pittura ad olio (solo a volte a velature, più spesso a corpo pieno sfumato) per noi è un mezzo, uno strumento, che ci permette di tradurre attraverso una materia cremosa e seducente un’idea di bellezza intesa sì come armonia, ma in incessante squilibrio; un’idea di bellezza dinamica, resa però attraverso la massima definizione e fissità atemporale.

Casagrande&Recalcati, Ipervanitas I, 2013, olio su tela, cm 200x300 28

Cosa volete comunicare con il prefisso “iper”? Sembra quasi creare un contrasto con il significato di vanitas… Superate il tema della caducità della vita? Se nelle vanitas antiche l’intento “moraleggiante” è quello di non dare valore alle cose terrene puntando sulla spiritualità, con il suffisso “iper” vogliamo invece affermare un’adesione sensuale e corporea a tutto ciò che è fuggevole. Il passaggio del tempo è vissuto nella società contemporanea come qualcosa di assolutamente negativo e i segni di questo passaggio troppo spesso sono cancellati o negati, come nei devastanti restauri di edifici, dipinti ecc… La materia corruttibile è spesso considerata solo “zavorra”, un accidente o il supporto intercambiabile e sostituibile di un’idea; invece è proprio la materia, con la


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sua fragilità, in tutti i suoi stadi di continua metamorfosi a essere l’unica depositaria di ogni “significato”. Ipervanitas è la celebrazione di questa materialità fragile e dell’effimero come parte fondante dell’esperienza umana. Come avete “costruito” questa mostra e di quali lavori, realizzati ad hoc, si compone? Tutti i lavori sono stati pensati appositamente per la mostra. Inizialmente il progetto voleva associare, accostare, elementi di estrema vitalità (fiori e dettagli di corpi femminili) a immagini di rovine (architetture piranesiane, scheletri antichi e fossili) creando situazioni in cui questo dualismo si rispecchiasse e, in qualche modo, si “riconoscesse”. Successivamente il lavoro concreto sui primi dipinti ci ha portati a ridefinire e selezionare quei soggetti che più esprimevano una parentela di forme: “fiori umani” e “scheletri vegetali”. Mi pare, infatti, non siate stati tentati di interpretare il teschio tipico protagonista delle antiche vanitas e simbolo infestante delle ultime stagioni della moda, è così? Quando abbiamo iniziato a lavorare sugli scheletri, abbiamo subito escluso l’idea del teschio, non tanto perché troppo abusato, ma per la sua eccessiva valenza simbolica. In realtà un teschio (celato da un pizzo) c’è, ma dipinto da un punto di vista che non lo rende riconoscibile e che è lontano dalla tradizionale iconografia. All’attivo avete collaborazioni molto importanti in vari ambiti (vedi Dolce&Gabbana, Costa Crociere, Venini, Fendi Casa, Baxter e Italamp). C’è qualcuno con cui sognate di lavorare da tempo? Le collaborazioni, soprattutto con Costa Crociere e Dolce&Gabbana, sono state molto stimolanti, specialmente per la sinergia che si è creata e la fiducia che ci è stata concessa. Il rapporto con una committenza illuminata, consapevole del lavoro che si svolge, è fondamentale. Molti sono i nomi con cui ci piacerebbe collaborare, ma sarebbe incredibilmente bello pensare a un progetto artistico sostenuto dalle istituzioni italiane che ancora danno troppo poco peso all’importanza dell’arte e della cultura per lo sviluppo, anche economico, del nostro Paese. L’ultima volta che ci siamo “incrociati” è stato al C Dream di Costa Crociere a

Vedute della mostra “Casagrande&Recalcati - Ipervanitas”, 2013, MyOwnGalley, Milano

Genova, nel 2009. Riassumete per noi gli ultimi tre anni di Casagrande&Recalcati e ci anticipate almeno un progetto in cantiere? Riassumendo: ci è stata proposta la curatela artistica di Costa Fascinosa, siamo stati invitati a esporre all’evento collaterale della 54. Biennale di Venezia (Cracket Culture) e ad Open abbiamo realizzato un grande dipinto esposto in modo permanente al Palazzo della Regione Lombardia. Per il futuro ci sono dei progetti, ma sono ancora in fase di definizione ma… “non dire gatto se non ce l’hai nel sacco!” 29

Casagrande&Recalcati. Ipervanitas 7 marzo – 20 marzo 2013 MyOwnGallery Via Tortona 27, Milano Info: +39 02 422501 info@myowngallery.it www.myowngallery.it casagranderecalcati.com


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Paolo Bini da CerrutiArte. Naufragare nella pittura GENOVA | CerrutiArte | 7 febbraio – 16 marzo 2013 Intervista a Paolo Bini di Luisa Castellini

Galeotta la palude greca di Kalodiki per Paolo Bini, che presenta da Cerruti Arte a Genova una nuova personale. Ha abdicato alle sabbie e alle terre, che lo avevano assecondato nel ripercorrere intere ere geologiche dando vita a carotaggi in uno spaziotempo sidereo, a favore di una maggiore rarefazione. Paolo Bini (Battipaglia, 1984) invita il suo fruitore a naufragare nell’illusione, autentica, della pittura: scoglio e faro ma anche bussola di questa esperienza, che l’artista intende condurre presto anche su scala ambientale, il riaffiorare della struttura, di un ordine ancora possibile. Tutto è iniziato in Grecia, a Kalodiki… La tua nuova personale da Cerruti Arte presenta un corpus di lavori molto definito e recente: dove ci traghetta Kalodiki? Il titolo della mostra evoca la palude greca di Kalodiki, dove torno ogni anno, che è il mio rifugio. Si tratta di una palude molto lunga, di circa 5 km: una lingua verde di acque e alghe che si fa strada nella terra. Laggiù, durante l’estate, disegno moltissimo, educo la mano alla percezione visiva. Quando rientro questa guida, trovata attraverso l’esercizio costan-

te, viene decantata. L’elemento percettivo ed emotivo necessita sempre un controllo. Da questo percorso nascono le opere in mostra, tutte realizzate tra settembre 2012 e gennaio 2013. Sempre a Genova ricordo una tua installazione nel cortile di Palazzo Bianco (Rolli Days, 2010) articolata sulla stratificazione di sabbie e di terre. Queste tue nuove opere, invece, hanno rinunciato a quella matericità: cosa sta accadendo? All’inizio della mia ricerca ho esplorato le possibilità insite nella fisicità degli elementi, dalle terre alle sabbie: è quel cammino che mi ha condotto oggi a una maggiore sintesi del mio modus operandi e del mio linguaggio. Ho rinunciato al dialogo tra elementi diversi e anche agli inserti prettamente materici a favore di una rarefazione che si propaga al gesto e dunque al segno. L’inno a Kalodiki racchiude in sé questo mutamento e dischiude a una nuova fase della tua ricerca? Il percorso si apre con un’opera che presenta un vasto inserto su tela a testimonianza delle radici della mia ricerca; nelle altre, in-

Paolo Bini, Place, 2012, acrilico e mica su tavola, cm 50x70 30


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Paolo Bini, Kalodiki, veduta della mostra da CerrutiArte, Genova. 7 febbraio – 16 marzo 2013

vece, la pittura prende corpo da una semplice tabula rasa, con delle carte montate su tavola. Altre, infine, celano una lavorazione sottostante di impalpabili strisce di carta: è da qui che si muove, fisicamente e concettualmente, un nuovo spirito. Il movimento che le opere di “Kalodiki” compongono, dove ti sta conducendo? Sto guardando alla pittura in modo diverso: vorrei condurla nello spazio misurandomi con la scala ambientale attraverso interventi site-specific. Il mio obiettivo è far naufragare il fruitore nel colore, nello spazio illusivo della pittura ma senza abbandonarla: quello mai. Penso a questi futuri interventi come a eventi effimeri, di cui possa restare traccia solo documentaria e testimoniale. Qual è il tuo rapporto con la grande tradizione con cui da sempre ti misuri? Lo sguardo è sempre dietro la testa, custode della memoria e consapevole di quanto è stato ma proiettato verso il futuro. È in questa direzione che mi sto avvicinando alla pittura intesa come esperienza più totale e quindi ambientale, per la possibilità di creare dei fuori fuoco immersivi.

scatenata da questi naufragi nella pittura. Nelle mie opere sono sempre presenti questi “scogli”… Questo “scoglio” dello sguardo, non si fa presenza più netta nelle tue opere in mostra, muovendosi da una sorta di sfocatura fino a una risoluta linea di separazione? La presenza dell’ordine, dello “scoglio” cui aggrapparsi nel naufragio dell’emozione e da cui impostare una nuova rotta diventa effettivamente sempre più netta nelle opere in mostra. È come se aumentasse la distanza dall’esperienza diretta di Kalodiki: passo dopo passo le fila percettive del racconto si sfaldano per rispondere a istanze più universali. Quali sono i tuoi prossimi progetti? A metà aprile esporrò a Catanzaro, mentre a maggio la galleria Il Catalogo di Salerno presenterà una mia nuova personale.

Paolo Bini. Kalodiki testo di Claudia Gennari 7 febbraio – 16 marzo 2013

Tutti i dipinti della serie “Kalodiki” sono fortemente strutturati: è come se la tensione vitalistica, che lascia sempre affiorare un’inquietudine, un elemento inafferrabile, concedesse al fruitore un piccolo indizio… La struttura, la forma, è una sorta di approdo e di incipit. Una chiave ipotetica, ma possibile, per penetrare il mistero e la tempesta 31

CerrutiArte Piazza dei Garibaldi 18 R, Genova Orari: martedi-sabato: 9.30 – 12.30; 16 – 19.30 Info: +39 010 2759146 www.cerrutiarte.it


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Interviste

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Videoinsight®. L’arte che cura TORINO | Centro Videoinsight® | 5 marzo – 5 aprile 2013 Intervista a REBECCA RUSSO di Maria Cristina Strati Psicologa, psicoterapeuta, autrice di libri e collezionista d’arte contemporanea di fama internazionale, Rebecca Russo è anche l’inventrice del Metodo Videoinsight®, secondo il quale è possibile curare gli stati di sofferenza psicologica attraverso le opere d’arte contemporanea. Se è vero, infatti – come sostiene una larga parte della psicologia che si ispira soprattutto a Carl Gustav Jung – che le immagini “curano”, la capacità terapeutica delle immagini prodotte in ambito artistico aumenta in modo esponenziale. Da non confondersi con l’arte terapia, il metodo di Rebecca Russo punta precisamente sul potere delle immagini artistiche e sulla loro intensissima capacità evocativa. Martedì 5 marzo, presso il Centro Videoinsight® di Torino, saranno presentati al pubblico una serie di video di Michael Fliri. Seguirà una discussione nel corso della

quale si cercherà non tanto di fornire una descrizione o spiegazione critico teorica del lavoro di Fliri, quanto di scandagliare l’opera nella sua profondità, capire che cosa ha da dire personalmente, rispetto ai vissuti privati, intimi o sociali, a chi la guarda. L’evento è realizzato in collaborazione con la Galleria Raffaella Cortese di Milano. Già autrice di alcuni volumi sull’argomento, Russo ha ora realizzato anche un ebook sul tema, dove mette a disposizione del pubblico numerosissimi materiali: studi, testi, immagini e video. Si tratta insomma di invertire il modo tradizionale e un po’ intellettualmente elitario di rivolgersi all’arte contemporanea. Lungi dall’essere qualificata come un mero vezzo per pochi intenditori (o) eccentrici, l’arte qui si rivela capace di parlare a ciascuno, profondamente e in maniera rivelativa.

Veduta del Centro Videoinsight®, Torino 32

Può raccontare brevemente ai lettori come è nato il progetto Videoinsight®? Il progetto Videoinsight® nasce da un’intensa esperienza d’interazione con le immagini dell’arte contemporanea e con le immagini mentali e oniriche condivise nel setting della diagnosi e della cura psicologica. È il frutto dell’integrazione della scienza e dell’arte nella mia persona e nelle persone che ho aiutato nella mia vita. La quantità è stata fondamentale. L’opera d’arte contemporanea, se è autentica, esprime messaggi universali che riguardano i bisogni primari della vita, per questo può provocare il lavoro psichico a livello mentale e affettivo, conscio e inconscio, in tutte le persone. Il Metodo Videoinsight® è innovativo e unico nel contesto scientifico internazionale, ha prodotto risultati apprezzabili e significativi nell’ambito della Psicologia Clinica, della


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Michael Fliri, Getting too old to die young (hurt), 2008, foto a colori, cm 90x110

Psicosomatica, della Medicina. L’esperienza del Videoinsight® attiva nel paziente nuove risorse che promuovono l’evoluzione psicologica e il benessere psicosomatico. La rivoluzionaria ricerca effettuata in ambito ortopedico all’istituto Rizzoli di Bologna in collaborazione con il prof. Stefano Zaffagnini ha dimostrato con rigore scientifico che il Metodo Videoinsight® funziona anche nel recupero post-operatorio. Questo risultato è inedito e incredibile. Mai l’arte, la psicologia e la medicina si erano integrate in questo modo. È da poco uscito un e-book da lei firmato. In che cosa consiste? Dopo le pubblicazioni Videoinsight® Curare con l’arte contemporanea (edito da Silvana Editoriale nel e tradotto anche in inglese) e Il Metodo Videoinsight® (edito da Postmedia Books nel 2012), nel febbraio 2013 ho pubblicato l’ebook The Videoinsight® Concept, con CIC Edizioni internazionale (l’ebook è già disponibile su Apple Store). Si tratta di uno strumento decisamente innovativo, multimediale, interattivo, dinamico, inter-

nazionale, che permette di sperimentare il Videoinsight® attraverso l’interazione con centinaia di immagini scelte dell’arte contemporanea dotate di potenti significati psicologici. Sarà il riferimento bibliografico per il pubblico dell’arte, della psicologia, della medicina e per tutti gli allievi del Master e della Scuola di specializzazione in Videoinsight® che inizieranno nell’ottobre 2013 nelle città di Torino e di Bologna. Inaugurate a Torino una mostra di Michael Fliri. In che modo i suoi video hanno un potere terapeutico? Michael Fliri è un artista performativo che realizza video dotati di alto impatto Videoinsight®. Guarderemo con il pubblico cinque opere d’arte legate alle tematiche psicologiche della grinta vitale, della fatica esistenziale, della resistenza, della progettualità, della frustrazione, della coazione a ritenere, della fiducia e della motivazione. Quali sono i progetti futuri per Videoinsight®? Il Centro Videoinsight® di Torino continuerà 33

l’attività svolta in ambito clinico, filantropico e artistico, mentre la nuova Fondazione Arte Scienza Videoinsight® di Bologna dialogherà con le istituzioni pubbliche e private per portare avanti, a livello nazionale e internazionale, la ricerca scientifica e l’applicazione del Metodo Videoinsight® in ambito medico e psicologico. Michael Fliri. Proiezione e analisi di alcuni video secondo il Metodo Videoinsight® in collaborazione con la Galleria Raffella Cortese (Milano) 5 marzo – 5 aprile 2013 inaugurazione (serata Videoinsight®) martedi 5 marzo 2013, ore 21.00 Centro Videoinsight® Via Bonsignore 7, Torino Orari: lun-ven ore 15-19 sabato su appuntamento Info: www.videoinsight.it videoinsight@videoinsight.it


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Interviste > Fumetto

Gabriella Giandelli. Visioni da “Lontano” MODENA | D406 Fedeli alla Linea | Fino al 31 marzo 2013 Intervista a GABRIELLA GIANDELLI di Viviana Siviero

Gabriella Giandelli, artista del fumetto. Artista che, grazie al fumetto, mostra una strada fatta di esperimenti e sperimentazioni, di emozioni e di crescita, per raggiungere le vette più alte ed essere anche felici. Lei, che sembra creare per continuare a sentirsi bene. Perché, sembra dirci attraverso le sue tavole e i suoi personaggi come, questo suo

produrre, sia linfa ed ossigeno: un segno magnifico, una sintesi perfetta, un equilibrio fra tratto e colore che fa in modo che si possa assaporare la quotidianità più moderna e meno scontata del “fuori luogo”. Lo scorso 2 marzo Giandelli (che fra l’altro è anche la “mamma” del celebre ed amatissimo coniglietto Milo, che oltre ai libri si è guadagnato

Gabriella Giandelli, Lontano, 2013, matite colorate su carta, cm 48x33 in mostra fino al 31 marzo alla galleria D406 fedeli alla linea, Modena 34


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la propria serie di cartoni, prodotti e andati in onda per la Rai) ha inaugurato la sua ultima mostra personale – il cui titolo coincide con quello dell’ultimo libro in uscita, Lontano – alla galleria D406 Fedeli alla linea di Modena, che ha anche editato il volume insieme a Canicola. In mostra, oltre alle tavole inedite di grande formato del nuovo volume, anche tavole a fumetti che vanno da Silent blanket a Interiorae, per tracciare quello che, ad oggi, è il profilo più completo mai realizzato dell’artista. Gabriella ci parli del tuo lavoro e della tua persona? Chi sei e su cosa si basa la vostra ispirazione? Sono nata a Milano nel 1963. Ho iniziato a pubblicare fumetti nel 1984. I fumetti sono arrivati quasi per caso, in quel periodo in

Gabriella Giandelli, Lontano, 2013, matite colorate su carta, cm 48x33 in mostra fino al 31 marzo alla galleria D406 fedeli alla linea, Modena 35

Italia c’era molta sperimentazione all’interno di questo linguaggio e ciò che vedevo in giro m’interessava. Mi piaceva disegnare e mi sembrò di trovare in questo campo delle idee che riconoscevo e anche un possibile rifugio, istintivamente cercavo di poter lavorare sola e progettare storie a fumetti rispondeva a uno stile di vita, di quotidianità, che sentivo consono. Ero e sono tuttora una persona molto solitaria. Mi piace una dimensione del lavoro intima, personale. Da qui poi, in maniera piuttosto naturale, la scelta degli argomenti e degli ambienti descritti è stata sempre molto vicina a ciò che incontravo durante la mia vita. Il titolo della mostra coincide col titolo del tuo nuovo libro Lontano, edito da Canicola in collaborazione con D406-Fedeli


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Gabriella Giandelli, Otsuka, disegno per la Repubblica, 2012, matita su carta, cm 21x29,5

alla linea, presentato in anteprima in occasione del Festival BilBOlbul di Bologna lo scorso 24 febbraio: qual è la relazione che si crea fra le opere originali e le stesse che trovano invece la loro più naturale destinazione nell’essere libro? Nel mio lavoro, il disegno viene quasi sempre riprodotto su carta, non vive solo della sua fisicità originale. Certamente quando tutto questo poi arriva in mostra, su un muro, incorniciato, la fruizione cambia. Quando progetto, lavoro tenendo presente le regole della narrazione a fumetti ma riesco anche ad immaginare che possa avvenire un nuovo ordine, che i disegni possano essere percepiti anche al di fuori di queste regole, vivere un’altra vita più slegata dall’insieme del libro a cui erano destinate. Dei fogli che compongono il mio percorso so tutto, ricordo i momenti in cui li ho disegnati, riconosco qualsiasi dettaglio di loro ma sono molto contenta di separarmene. Mi piace guardare come vengono percepiti dagli altri in una mostra, vedere le cose che vengono colte. Dopo che ho realizzato i disegni, ho con loro un rapporto quasi distaccato,

posso lasciarli andare, abbiamo vissuto già tanto tempo insieme. Questo libro è come una ballata per me, una canzone. Racconta del tempo, della sua possibile dilatazione, brevissimo o lungo o infinito. A seconda del punto di vista. Nella storia c’è un personaggio che immagina una sua possibile vita idealizzata, sognata. Diventa difficile stabilire quale delle due vite sia più vera, tutto però procede velocemente. La vita di un uomo ricopre uno spazio di tempo ridicolo se visto da lontanissimo, da una stella lontana. In mostra le opere inedite affiancheranno quelle meno recenti: quale pensi sia la “lezione” che lo spettatore assorbirà dalla visione della tua mostra? Potresti essere “i nostri occhi” e raccontarcela attraverso la descrizione e la spiegazione di almeno due opere che secondo te sono basilari per la comprensione del tuo modus espressivo…? Una tavola di Silent Blanket, la numero 48, la fine. Sono molto legata a questo lavoro, Silent Blanket è il fumetto che ha rappresen36

tato una svolta nel mio percorso. Mi sono sentita più consapevole, più matura dopo averlo realizzato. È stato il primo lavoro in cui sono riuscita a raccontare un’esperienza personale filtrandola con la finzione in maniera più precisa ed elaborata che nei lavori precedenti. Il tema era quello della città, della vita di un individuo. Esploravo la sua inadeguatezza, il ripetersi di una quotidiana ricerca di comunicazione, resa vana dal vuoto di rapporti superficiali, schiacciati dai ritmi veloci della grande città. Questa tavola ha due grandi vignette: in alto il dettaglio del volto del protagonista mentre muore, il sangue sta colando dalla sua nuca, sotto un’immagine aerea della città con i palazzi verso sera, la descrizione delle finestre piuttosto dettagliate. Questa tavola rappresenta tutto il senso della storia, da una parte la solitudine nella morte del protagonista e dall’altra il formicaio della miriade di vite racchiuse nelle abitazioni, il loro svolgersi indifferente. Dal punto di vista del disegno ritrovo poi in questa tavola il piacere del dettaglio, il bisogno di lentezza nel disegnare. Qualcosa che spero di avere


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ancora la possibilità di sperimentare. Un disegno per La Repubblica. Le ragazze giapponesi con la foto del fidanzato promesso. I disegni per la recensione letteraria di Repubblica sono sempre un’immersione in mondi imprevisti, il tema del libro va illustrato,

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ampliato con le proprie impressioni. A volte i soggetti sono molto vicini al mio mondo e riesco rapidamente a visualizzarli, altre volte è più difficile. Mi piace questa collaborazione, proprio perché mi obbliga a sintetizzare un’immagine e a ritrovare il mio immaginario nel lavoro di qualcun altro. Questo disegno

è arrivato senza problemi, il libro di J.Otsuka affrontava un momento storico, gli anni precedenti la seconda guerra mondiale, in cui molte ragazze giapponesi raggiungevano i loro promessi sposi emigrati per lavoro in America. Non conoscevano l’uomo che avrebbero incontrato, avevano di lui solo una fotografia. Ho immaginato i sogni e soprattutto le speranze di queste ragazze che affrontavano un lungo viaggio verso un paese e un uomo sconosciuti. Mi è sembrato che dovessero essere persone dolci, ingenue come cuccioli. Ho voluto disegnarle così, ho provato molta tenerezza per loro. Progetti per il futuro: dove e come ti vedremo? È difficile poter dire dove mi vedrete, appena faccio un programma qualcosa cambia… Il giorno dell’inaugurazione della mostra è uscita una mia copertina per il NewYork Times Book Review e ne sono stata molto contenta, è una collaborazione appena nata e spero che duri un po’. Da tempo sogno di poter affrontare un nuovo progetto realizzato su disegni di grande formato. Finora mi sono mancati gli spazi e i tempi, mi auguro nei prossimi tempi di potervi lavorare. Gabriella Giandelli. Lontano in occasione di BilBolBul, in collaborazione con Canicola Fino al 31 Marzo 2013 Galleria D406 – Fedeli alla linea Via Cardinal Morone 31/33, Modena Info: +39 327 1841147 www.d406.it info@d406.it Lontano. Gabriella Giandelli 28 pagine a colori, 2013 Canicola edizioni Collana Sudaca Testo italiano/inglese 17 euro www.canicola.net

Dall’alto: Gabriella Giandelli, disegno per la copertina del New York Times di sabato 2 marzo 2013 Gabriella Giandelli, tavola originale del libro “Silent Blanket”, 1992, cm 48x33 37


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Interviste > Fumetto

Marco Ficarra. Quando le parole tornano disegno… Intervista a MARCO FICARRA di Francesca Di Giorgio

Marco Ficarra. Artista, grafico, illustratore. Autore di Stalag XB, il libro a fumetti edito da BeccoGiallo, in cui ha raccontato, attraverso la storia di suo zio, l’”inferno dei vivi” degli internati militari italiani. Insegna lettering all’Accademia di Belle Arti di Bologna (v. Manuale di lettering, Tunuè, 2012) ed è co-fondatore di Studio Ram, un laboratorio di grafica e servizi per l’editoria a 360 gradi. Lo abbiamo incontrato in Via del Pratello

63, a casa sua, da poco “trasformata” in un B&B, “Il Tortellino e le rose”, con i suoi lavori appesi alle pareti e con tanto di “mini” biblioteca dedicata al mondo del fumetto. Un posto accogliente nel cuore di Bologna dove, tra un caffè e l’altro, in contemporanea all’opening della settima edizione di BilBOlbul, ci siamo fatti raccontare cosa significa lavorare oggi nell’editoria…

Con Studio Ram da oltre quindici anni ti occupi di editoria in senso lato. Com’è cambiato negli anni il panorama di questo “settore” e, di pari passo, il lavoro tra carta e web? Sono entrato nel mondo dell’editoria come grafico cominciando con il lettering dei fumetti Marvel da lì è stato amore a prima vista. Ho visto cambiare molto il panorama editoriale, in particolare quello del fumetto. Fino a qualche anno fa c’è stata una crescita notevole in termini di produzione e di qualità. I lettori sono diventati molto esigenti. Il fumetto è entrato con forza in libreria e i media ne hanno parlato molto. Questo sembrava aver dato una spinta necessaria per andare oltre la nicchia degli appassionati e incrementare le vendite, purtroppo non è stato così. Per quanto riguarda l’editoria in generale, stiamo vivendo un momento difficile, d’altra parte non è solo questo settore a risentire della crisi economica mondiale. Però non mi sembra che gli editori lo stiano affrontando nel modo migliore, io immagino una trasformazione radicale del mercato soprattutto con il digitale. Un po’ come è successo per la musica un po’ di anni fa. Per molti sembra una sciagura mentre può essere l’occasione giusta per rinnovarsi e crescere. Un’opportunità che va colta al volo. Il mio lavoro adesso è molto orientato verso il digitale anche se la parte economica predominante è quella dell’editoria tradizionale. Il tentativo è quello di sperimentare un’editoria nativa in digitale e non quello che sta avvenendo adesso con la trasposizione dalla carta. Lo studio di Via San Valentino a Bologna è luogo di lavoro ma anche spazio espositivo. Quando è nato Ram Hotel, con chi collabora e come interagisce con la rete di Festival italiani e internazionali dedicati al fumetto? Ram Hotel nasce nel 2006 e si caratterizza da subito esponendo giovani autori del fumetto internazionale. Questa scelta nasce prima di tutto dalla voglia di conoscere realtà nuove e interessanti. Questi autori li conosciamo grazie ai festival internazionali di fumetto e alla nostra presenza attiva al Festival BilBOlbul di Bologna. Abbiamo ospitato tante mostre ed è un piacere vedere questi giovani autori proseguire il loro percorso con successo.

Marco Ficarra, tavola dal libro Stalag XB, BeccoGiallo editore 38


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Quest’anno, in occasione della settima edizione di BilBOlBul, ospitate il disegnatore argentino Berliac… Come siete entrati in contatto? Tracci un profilo per noi di questo straordinario artista? Abbiamo conosciuto Berliac grazie al viaggio argentino di Paolo Parisi, autore di fumetto e principale artefice del progetto Ram Hotel. Questo autore ci è sembrato molto interessante per il suo disegno e per la capacità di raccontare. Le sue storie indagano l’animo umano. Il suo nuovo lavoro, Playground, ancora in progress, è molto stimolante. L’idea è quella di raccontare il dietro le quinte di un film e del suo regista, parlando contemporaneamente del dietro le quinte del libro che lui sta realizzando. Un autore che si fa protagonista del suo lavoro creando fanzine e festival di fumetto indipendenti. Il suo tratto bianco e nero pittorico e le sue storie lo caratterizzano e lo inseriscono a pieno titolo nel solco della tradizione del fumetto argentino di qualità. Si può dire che tu sia stato uno dei pionieri nell’approfondire e sviluppare le tecniche per l’editoria a fumetti e, più precisamente, nel campo del lettering il tuo contributo ha segnato un passaggio decisivo dalla pratica manuale a quella digitale… Per la produzione di fumetti mi sono trovato nel momento più interessante e di passaggio dal lavoro manuale a quello digitale, un po’ come sta avvenendo oggi con la carta e il digitale. Ho partecipato a sviluppare il lettering digitale. Oggi sembra tutto molto ovvio ma allora ha rappresentato un cambio non indifferente nel modo di lavorare.

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Dal pennino al mouse non era tutto poi così scontato. Con il mio libro, Manuale di lettering edito da Tunuè, ho voluto raccontare la mia esperienza, nata nel 1995, fino ad oggi cercando di contestualizzare il ruolo del lettering nel fumetto con un accenno alla nascita della scrittura. Potrei riassumerlo dicendo che la scrittura è nata dal disegno e nel fumetto ritorna disegno. Una parte molto importante è rappresentata dalla parte manualistica con molte spiegazioni tecniche e tante immagini per raccontare i diversi passaggi per la realizzazione di un buon lettering. Dal disegno manuale di un carattere al lettering digitale. Dopo le fatiche del Manuale tornerai a disegnare? Cos’hai in mente per il futuro? Ho diversi progetti legati al disegno, in particolare ne ho uno che attende da parecchio. Si tratta della storia a fumetti dell’inventore del sommergibile spagnolo, Narciso Monturiol, che ha vissuto nell’Ottocento a Barcellona. La sua storia mi ha affascinato molto perché è stato un personaggio a metà tra utopia scientifica e utopia sociale. Realizza due prototipi di sommergibile entrambi funzionanti ma il suo lavoro non viene compreso dalla società spagnola. Contemporaneamente partecipa al movimento dei comunitaristi che sognavano di costruire la città ideale, Icaria, partendo da zero negli Stati Uniti. Anche il sogno utopistico della città fallisce. Insomma, un personaggio che ha vissuto intensamente la sua vita con molte intuizioni ma che rimane fondamentalmente un incompreso. Mi affascina immaginare il suo stato d’animo e raccontarlo.

Dall’alto: Berliac al lavoro da Studio Ram, Bologna Berliac, Playground

Per seguire il lavoro di Marco Ficarra: www.marcoficarra.net marcoficarra.wordpress.com Evento in corso: Berliac. “PLAYGROUND” in occasione della VII edizione di BilBOlbul Festival 23 febbraio – 28 marzo 2013 Inaugurazione sabato 23 febbraio ore 19.00 RAM Hotel via s.valentino 1/f, Bologna Info: +39 051 0567386 info@ramdesign.it ramhotel.ramdes.net Marco Ficarra, Stalag XB, BeccoGiallo editore 39


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Interviste > Premi

Premio Nocivelli 2012. Le mostre dei vincitori Intervista alle galleriste Maria Rosa Pividori e Daniela Tozzi di Francesca Di Giorgio Mentre il Premio Nocivelli lancia una nuova edizione (le iscrizioni sono aperte fino al 19 luglio 2013) chiudiamo il cerchio di quella passata intervistando chi ospiterà le personali dedicate ai vincitori assoluti del 2012. Parliamo con Maria Rosa Pividori della galleria 10.2! di Milano, dove Giorgio Tentolini (vincitore nella Categoria Over 25 con l’opera Stratifigrazioni) avrà la sua personale dal 3 luglio 2013 e con Daniela Tozzi di Adiacenze a Bologna, dove dal 23 marzo esporrà Cesare Galluzzo (vincitore nella Categoria Giovani Artisti con l’opera S-piegare). Insieme ripercorriamo l’esperienza con il Premio Nocivelli e scopriamo qualcosa in più su chi crede nel progetto e negli artisti… F. Di Giorgio: Le mostre personali di Tentolini e Galluzzo, che ospiterete nei vostri spazi, sono la prova ulteriore della fiducia riposta nel Premio e, allo stesso tempo, conferma di una reale partecipazione nel diffonderne la filosofia… Cosa significa per voi scegliere un artista da supportare? M.R. Pividori: Scegliere un artista vuol dire considerare la sintesi di tutto il lavoro proposto precedentemente e promuovere la visi-

Categoria over 25, opera vincitrice, Giorgio Tentolini, Stratifigrazioni, 2012

bilità di un nuovo tassello fondamentale per analizzare i nuovi linguaggi e nuove percezioni che solo con il fare, nel tempo, si preciseranno. Ritengo importante dare all’artista la possibilità di fare realmente l’esperienza mentre promuoverlo vuol dire mettere in gioco le proprie risorse e contatti acquisiti in 25 anni di lavoro sulla ricerca. D.Tozzi: Adiacenze è uno spazio espositivo per giovani artisti, quasi sempre appena usciti dall’Accademia o comunque alle prime esperienze. La scelta dell’artista è sempre abbastanza complessa in quanto richiediamo un progetto site specific che vada in qualche modo a modificare il “contenitore”, quindi in primis tutto il team che compone Adiacenze deve essere d’accordo sull’artista selezionato in quanto dalla scelta fino alla mostra stessa spesso si rimane a stretto contatto con l’artista per aiutarlo nella progettazione sia del concetto stesso che si vuole comunicare con la mostra, sia dell’allestimento finale. Successivamente alla mostra quello che si ripropone Adiacenze è di incanalare gli artisti verso il mondo dell’arte, proponendoli per mostre in galleria, ad esempio e consigliandoli nella partecipazione di concorsi/premi. Che tipo di rapporto vi piace instaurare con i “vostri” artisti? M.R. Pividori: Si inizia un rapporto di attenzione reciproca basato sulla libertà assoluta, si decide di fare bene da A a B e poi si può continuare da B a C o ci si ritrova in seguito, dalla M alla N… ove necessario per entrambi ma sempre nella migliore tensione, attenzione e progettualità. Un rapporto di dialogo aperto, di ascolto, di scambio delle esperienze e orientamento per conoscere meglio il complesso mondo dell’arte. D. Tozzi: Adiacenze si può definire un incubatore di giovani talenti che rende un po’ più lieve il traumatico passaggio dall’Accademia al mondo delle gallerie private. La maggior parte delle volte ci troviamo a stringere rapporti di forte stima e di amicizia che rimangono saldi al di là del lavoro. È molto importante che ciò avvenga perché ci consente di lavorare con più serenità imparando qualcosa di nuovo da ogni esperienza.

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Categoria Giovani Artisti, opera vincitrice, Cesare Galluzzo, S-piegare, 2012

Se doveste sintetizzare il lavoro di Giorgio Tentolini e Cesare Galluzzo… M.R. Pividori: Giorgio Tentolini progetta in digitale e realizza con un minuzioso lavoro manuale (forbici e bisturi), il tempo, la partenza da un dato reale, la trasformazione, la memoria profonda, sono elementi costanti e fondamentali del suo lavoro. D. Tozzi: Sintetizzare il lavoro di Cesare Galluzzo non è semplice; è un artista giovanissimo ma già capace di riassumere in un’opera grandi e complessi concetti. La sua ricerca si basa principalmente sulla geometria che come “misura della terra” riprende i discorsi concernenti la natura. Come nell’opera S-piegare, vincitrice del Premio Nocivelli, Galluzzo utilizza materiali naturali come il legno, o artificiali come il cemento creando immagini che ad un primo sguardo possono essere semplici – ma in realtà non lo sono – che assumono il compito di dare un ordine e rettificare il suo caos. Le rappresentazioni e il senso delle sue opere partono dall’irriducibile e fanno in modo che il fruitore imbocchi una strada che gli faccia acquisire un senso percorrendola. In seguito il bagaglio esperienziale del fruitore stesso crea propaggini da quella strada maestra dove ognuno trova le percezioni.


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Adiacenze, Bologna – veduta della mostra Alessio Ballerin “Human Tree”

A cosa stanno lavorando in vista delle imminenti mostre? M.R. Pividori: Tentolini continua la sua ricerca rivolta ad una diversa fruizione del dato reale, ha iniziato a lavorare sullo spazio della galleria cercando un dialogo tra la tecnica dei suoi lavori e gli elementi che compongono la memoria del luogo. D. Tozzi: Galluzzo per questa mostra sta lavorando sul concetto di architettura. Ci saranno opere concepite appositamente per Adiacenze a creare percorsi, per trasformare il luogo e ragionare sulle coordinate. Lui stesso ha detto «Sono partito dal disegno e il suo potenziale come idea, tentando di trasporlo fisicamente attraverso il filo (lino e canapa). I fili descrivono le cose, gli intenti e le idee: costituiscono un inserimento nello spazio che ne genera uno dentro l’altro, definendone i contorni. L’inserimento della curva nel mio lavoro, cosa che prima non era presente, mi ha permesso di creare installazioni più organiche, e delle curve create da segmenti uniti per le estremità». In base alla vostra esperienza e dal punto di vista di chi, come voi, opera all’incrocio tra cultura e mercato quali sono le opportunità offerte dal Premio Nocivelli e cosa vi sentite di consigliare ai partecipanti della prossima edizione? M.R. Pividori: Consiglierei di studiare i risultati delle precedenti edizioni, di proporre nuovi progetti che si inseriscano nel modo migliore nel luogo dell’esposizione quindi che considerino anche lo spazio, di essere aperti alla critica e al risultato dell’esperienza, di cercare di conoscere ed interagire con gli operatori del settore che sono presenti e partecipano alla manifestazione e di essere

consapevoli di essere protagonisti e testimoni del mecenatismo della famiglia Nocivelli. D.Tozzi: Mi ha fatto molto piacere partecipare attivamente a questa iniziativa perché molto seria e rigorosa. Le opportunità offerte dal Premio Nocivelli non si sintetizzano in un premio in denaro, ma nella proficua esperienza di poter fare una mostra in uno spazio espositivo e soprattutto, cosa non da poco, di poter presentare le proprie opere a una giuria composta da professionisti del settore, da curatori molto competenti che, vedendo le opere, potrebbero anche decidere di lavorare con i vari partecipanti, seppur non vincitori.

Premio Nocivelli IV edizione Le mostre dei vincitori 2012: Cesare Galluzzo Adiacenze Piazza San Martino 4/f, Bologna 23 marzo – 20 aprile 2013 Giorgio Tentolini 10.2! Via Volvinio 30, Milano 3 luglio – 26 luglio 2013 Info: +39 030 7776718 segreteria@premionocivelli.it www.premionocivelli.it

10.2.!, Milano – veduta della mostra G. Valentini, Foto Guidetti-Ricci 41


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Santi, peccati e peccatori a Milano… da Federico Rui MILANO | Federico Rui Arte Contemporanea | 7 febbraio – 29 marzo 2013 di IGOR ZANTI La galleria Federico Rui di Milano, piccolo ma raffinato spazio espositivo che alterna nella sua programmazione esposizioni di giovani artisti contemporanei con mostre dedicate ad artisti già storicizzati, presenta nella sua sede milanese, proprio a fianco del Palazzo della Permanente, la mostra Santi peccati e peccatori. L’esposizione, introdotta da un testo critico di Silvia Bottani, riunisce cinque artisti – Andrea Mariconti, Giovanni Gasparro, Angela Loveday, Gianluca Chiodi, Enrico Robusti – molto differenti tra di loro, per taglio stilistico e per ricerca tecnica, chiamati a riflettere sull’idea di peccato. La mostra presenta una selezione di lavori molto varia dove, a fianco dei raffinati e studiati scatti di Angela Loveday che, come li definisce nel testo critico Silvia Bottani, sono «dark tales che incarnano l’eterno femmineo», si possono scoprire i magnifici disegni di Enrico Robusti. L’artista emiliano mette in scena un’umanità deformata, a tratti freak, recuperando con ricercata sapienza un gusto alla Otto Dix. Da contraltare a queste due personalità già molto differenti tra di loro, troviamo le opere di Gianluca Chiodi, dove l’elemento sacro viene ritualizzato nel recupero della sua tradizionale iconografia, con forte riferimento alla pittura barocca, e viene reinterpretato in senso contemporaneo anche in riferimento alla realizzazione tecnica, che si distingue per l’utilizzo dell’encausto su scatto fotografico. Forse più affini risultano, se non altro per la scelta cromatica, le opere presentate in mostra da Mariconti e Gasparri, sebbene si distinguano profondamente da un punto di vista stilistico e per un trattamento del tema proposto in mostra. Da un lato, infatti, la pittura di Gasparri mostra un virtuosismo figurativo dettato da una forte consapevolezza della tecnica pittorica che si fonde con un senso della drammaticità profondo, e dall’atro la pittura più nervosa, meno dettagliata di Mariconti, di gusto maggiormente espressivo, si ricollega al tema principale della mostra utilizzando sugge-

Andrea Mariconti, Ambarvalia, 2012, olio cenere e petrolio su tela, cm 100x100

Angela Loveday, Between the devil and the deep blue sea, 2010, stampa lambda su dbond con plexi frontale 5mm, cm 80x120 42


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stioni, più che dichiarazioni. La mostra, nel suo complesso, sebbene presenti un’evidente e ricercata alternanza di mondi ed esperienze diverse, e possa sembrare un po’ sbilanciata nel trattare un tema così complesso come quello del peccato e della santità, fornisce un saggio interessante di un ambiente artistico di grande valore, che meriterebbe di avere anche, dal punto di vista istituzionale, maggiori occasioni di visibilità. Santi Peccati e Peccatori Andrea Mariconti, Giovanni Gasparro, Angela Loveday, Gianluca Chiodi, Enrico Robusti testo critico Silvia Bottani 7 febbraio – 29 marzo 2013 Federico Rui Arte Contemporanea via Turati 38, Milano Orari: da martedì a venerdi 15.00-19.00; giovedi 15.00-21.00; sabato su appuntamento Info: +39 392 49 28 569 federico@federicorui.com www.federicorui.com

Gianluca Chiodi, Monica and agostino penis, 2008, encausto su base fotografica e tela, cm 90x60 43


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Roberto Floreani a Palazzo Te. Una concezione circolare

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MANTOVA | Ala Napoleonica – Palazzo Te | fino al 7 aprile 2013 di MATTEO GALBIATI Una storia che continua. Pare questa l’indicazione che si desume dall’analisi delle oltre cinquanta opere – molte delle quali inedite e pensate per l’occasione – che Roberto Floreani presenta nella sua ultima mostra personale presso le auguste sale dell’Ala Napoleonica di Palazzo Te. Coerente con la sua ricerca, Floreani si distingue per un pensiero che riflette sempre partendo dagli ultimi assunti della sua pratica pittorica, offrendo l’uniformità logica della propria poetica e meditazione. Non possiamo non legare, quindi, questi ultimi lavori al percorso che l’artista ha tracciato nelle opere viste nelle sue precedenti grandi presentazioni: dopo le esperienze della Biennale di Venezia del 2009 e del MAGA di Gallarate del 2011, per il grande evento espositivo di Mantova Floreani riparte dall’anima viva dei concetti espressi da quanto fino ad ora ha compiuto. Ritroviamo tutti i temi cari all’artista: il concentrico che per lui è la concezione circolare del fare e della vita; la stratificazione pittorica come espressione della concentrazione esperienziale del creare; il valore assoluto del suo colore; i rimandi tra la cultura occidentale e quella orientale (da anni pratica discipline marziali); il valore della luce che si fa sostanza e forma; la tensione alchemica dei materiali impiegati e le reazioni imprevedibili nel tempo della realizzazione; la rilevante presenza degli aspetti spirituali come imprescindibili insegnamenti dell’astrazione storica. Le sei sale che compongono La Pietra e il

Cerchio guidano il nostro sguardo alla scoperta di una logica che si snoda tra passato e presente – dell’artista ma anche dell’altro in generale – e che esprime la circolarità di un pensiero che vive intensamente la successione degli attimi della propria storia indirizzando la ricerca al domani del proprio agire, ma anche recuperando i linguaggi semplici e reconditi della visione dell’uomo. L’astrazione di Floreani – praticata con una pittura sensibilissima e vibrante – guida a valicare il valore di immagine per diventare vera e propria espressione del pensare, di cui la mostra offre i suoi brani più intensi. Pietra come esempio della memoria, Cerchio come rimando alla continuità, tra ieri e domani, delle esperienze e delle vicende umane, in una successione di opere – diverse per stili e generi – che guidano lo sguardo su una lettura avvincente e stimolante, segno di come le opere di Floreani diventino sempre mezzo non solo espressivo, ma anche emotivo. Segnaliamo ai nostri lettori la programmazione, per il finissage della mostra, di una serata futurista – pratica non inedita per Floreani – che si terrà nel prestigioso Teatro Bibiena e che, nell’intenzione dell’artista, vuole essere anche un omaggio a Mantova, svolgendosi nello stesso giorno in cui, nel 1911, Marinetti ne presentò una sua proprio nella cittadina lombarda. In questa occasione è stato pubblicato un’aggiornata monografia, il catalogo, che rientra nelle edizioni del museo, documenta tutte le opere in mostra ed è

completato da saggi critici di Carlo Micheli e dello stesso Floreani e un’intervista all’artista curata da Beatrice Buscaroli. Questa mostra è stata, inoltre, inserita anche nella documentazione che la Città di Mantova ha presentato al VTO a Londra per sostenere la propria candidatura a capitale europea della cultura per l’anno 2019. Roberto Floreani. La Pietra e il Cerchio a cura di Carlo Micheli fino al 7 aprile 2013 Ala Napoleonica, Palazzo Te Viale Te 13, Mantova Orari: tutti i giorni dalle 9.00 alle 18.00, lunedì dalle 13.00 alle 18.00 Ingresso 8 euro (con visita a tutto il Palazzo inclusa) Ingresso stampa (con tessera) gratuito con consegna del catalogo Info: +39 0376323266 www.palazzote.it

Roberto Floreani, La Pietra e il Cerchio, 2012-2013, installazione di 30 opere, cm 65x40 cad. A fianco: particolare dell’installazione 44


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Otticità come ricerca della forma: Biasi da Dep Art MILANO | Galleria Dep Art | Fino al 27 aprile 2013 di KEVIN McMANUS Alberto Biasi. Rilievi ottico-dinamici a cura di Alberto Zanchetta Fino al 27 aprile 2013 Galleria Dep Art Via Mario Giuriati 9, Milano Orari: da martedì a sabato 15.00-19.00 (possibili variazioni, verificare sempre via telefono) Info: +39 02 36535620 www.depart.it art@depart.it

Alberto Biasi, veduta della mostra “Rilievi otticodinamici”, Galleria Dep Art, Milano

È un momento particolarmente fortunato per Alberto Biasi: la monografia di prossima uscita, edita da Silvana e curata da Marco Meneguzzo, è infatti preceduta da questa mostra dedicata ai rilievi ottico-dinamici, frutto dell’intenso e accurato lavoro svolto dalla galleria Dep Art, che già nel 2008 aveva trovato un primo esito in una mostra curata da Alberto Zanchetta, e in un catalogo che ricostruiva, sinteticamente ma efficacemente, l’evoluzione del linguaggio peculiare di questa importante serie di lavori. La mostra attualmente in corso ripropone il tema nel suo ampio sviluppo cronologico, e si accompagna a un’ampia monografia, a cura di Antonio Addamiano, nella quale si tenta una prima proposta di catalogo ragionato dei lavori ottico-dinamici dell’artista padovano. Vedere le opere degli anni Sessanta accanto a quelle più recenti consente di ripercorrere i cambiamenti, controllatissimi, di un’estetica nella quale mai il rigore formale concede alcunché agli “accidenti” della storia dell’arte; così che dalla fattura più artigianale delle prime opere si arriva all’aggiornamento di tecniche e materiali delle ultime, senza che la visione dell’artista appaia deviata da “catastrofi” o da ripensamenti particolari. In un periodo singolarmente fertile di mostre e riflessioni, anche di elevato livello scientifico, sulla fase di inizio anni Sessanta, e in

particolare sulle ricerche di area cinetica-optical-programmata, la continuità dei rilievi di Biasi costituisce un ulteriore motivo di riconsiderazione, a mezzo secolo di distanza, di un fenomeno così significativo per la nostra storia dell’arte. Biasi, innanzitutto, sembra essere “invecchiato” meno rispetto a fenomeni analoghi e coevi, la cui attualità, come si legge nella letteratura recente, è soprattutto di tipo storiografico, e in tal caso legato a quell’estetica dell’obsolescenza tecnologica normalmente associata ai prodotti di design. È forse il prezzo che quest’arte ha pagato alla portata radicalmente innovativa delle proprie istanze, che da una parte introducevano l’idea di una negoziazione dell’autorialità (l’“apertura” di Eco), mentre dall’altra puntavano per forza di cose su strumenti (e soluzioni formali da essi dedotte) soggetti a un costante e rapidissimo aggiornamento, e la cui estetica è dunque più strettamente legata al passare del tempo. In questo panorama, il lavoro di Biasi spicca per essersi mantenuto attuale, probabilmente per un’attenzione maggiore alla forma e all’unità del “quadro”, per una solida fedeltà nei confronti di un rigore e di una progettualità formale che si mantengono equidistanti dall’apertura totale dell’arte programmata come dagli esiti talvolta decorativi di tanta Op Art di oltreoceano. 45


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Evgeny Antufiev. Nel labirinto bianco.

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REGGIO EMILIA | Collezione Maramotti | 17 febbraio – 31 luglio 2013 di CHIARA SERRI

Persi, in un labirinto bianco. «Forma intricata, indistinta, baluginante», verosimile metafora dell’universo. Ai piedi, copriscarpe chirurgici, per non lasciare tracce; tra le mani, la mappa concettuale della mostra di Evgeny Antufiev, artista russo ospite della Collezione Maramotti di Reggio Emilia. Prima un leggero senso di spaesamento, dato dalla fila all’ingresso e dal “dress code” imposto dall’autore, poi la certezza di dover camminare in punta di piedi in un mondo non sempre benevolo, popolato da mostri, maschere rituali e frammenti del contemporaneo. Tutto ha inizio da un dettaglio – in questo caso la polaroid di un paesaggio siberiano – che viene successivamente inglobato in un complesso sistema di connessioni e rimandi. Dal bianco della neve al bianco dell’allestimento, colore dell’immortalità, dei cristalli, del marmo e delle ossa. Per l’artista, infatti, la presenza di diversi materiali è elemento imprescindibile, in quanto essi «rappresentano per l’arte ciò che il corpo è per l’uomo». Nelle prime sale, si evidenzia un consistente uso del tessuto, cucito a mano dall’autore per dare corpo a figure antropomorfe, esito di un lungo processo che, come nel caso di

Louise Bourgeois, assume significati simbolici, attingendo ad una storia personale e collettiva. Nelle stanze successive, i manufatti e gli oggetti sono allestiti secondo modelli ricorrenti, che richiamano l’ambito religioso e museale: da un lato l’altare di marmo, circondato da immagini sacre ed ex voto, dall’altro le teche delle raccolte etnografiche, all’interno delle quali sono conservati i reperti. Per finire, l’ultimo ambiente, ispirato allo studio dell’artista, con pezzi tratti dalle sue infinite collezioni, installazioni, elementi d’arredo ed un modellino in marmo, mostra nella mostra. Accanto all’uscita, una ruota della fortuna. Un solo biglietto per ogni visitatore, una chiave di lettura per l’intero percorso. Ad alcuni una frase, ad altri un “gadget”, ad altri ancora l’accesso ad una stanza segreta, conclusione di un viaggio fatto di scelte ed improvvisi vicoli ciechi. Accompagna l’esposizione un prezioso libro d’artista, con ringraziamenti scritti a penna, stickers e risguardi di marmo. Nonostante la giovane età, Evgeny Antufiev ha esposto al New Museum di New York su invito di Massimiliano Gioni, direttore della prossima Biennale di Venezia.

Chissà che a questa prima mostra italiana non ne seguano presto altre… Evgeny Antufiev. Twelve, wood, dolphin, knife, bowl, mask, crystal, bones and marble – fusion. Exploring materials 17 febbraio – 31 luglio 2013 Collezione Maramotti Via Fratelli Cervi 66, Reggio Emilia Orari: giovedì e venerdì 14.30-18.30, sabato e domenica 10.30-18.30, chiuso 25 aprile e 1 maggio Info: +39 0522 382484 info@collezionemaramotti.org www.collezionemaramotti.org

Evgeny Antufiev, Twelve, wood, dolphin, knife, bowl, mask, crystal, bones and marble – fusion. Exploring materials, veduta della mostra, Collezione Maramotti, Reggio Emilia. Foto: Dario Lasagni 46


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Gerhard Richter a Torino: sono tutte copie! TORINO | Fondazione Sandretto Re Rebaudengo | 31 gennaio – 21 aprile 2013 di ALESSANDRA CASADEI La mostra di Gerhard Richter alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo è senza dubbio un evento imperdibile per chiunque abbia interesse alla complessità della società contemporanea. Richter è uno dei più grandi artisti viventi della nostra epoca, che è riuscito a portare l’arte e la pittura a livelli estetici completamente nuovi. Talmente sorprendenti che a volte lasciano il pubblico al limite della perplessità. Immaginate di entrare in un museo ed invece dei quadri dipinti dai grandi artisti, ritrovarvi davanti alle loro fotografie: semplici stampe, delle immagini scattate all’originale. Niente bellezza della pennellata, nessuna esperienza della materia pittorica, solo un’immagine freddamente riprodotta. Truffa! Scandalo! Ridateci i soldi del biglietto! Verrebbe da gridare. E invece no, non è così che funziona.

che negli anni ’80 vede nelle “Edizioni” di Richter una raccolta potenzialmente finita di opere d’arte, la collezione perfetta, e non si lascia sfuggire l’occasione. In definitiva quindi, questa mostra non ha proprio nulla da invidiare alle grandi retrospettive che a questo artista sono state dedicate da Tate Modern e Centre Pompidou, lo scorso anno. Si tratta semmai di un’altra sfaccettatura del prisma che è la grande esperienza che Richter ha portato al mondo dell’arte.

Gerhard Richter – Edizioni 1965-2012 dalla Collezione Olbricht a cura di Wolfgang Schoppmann e Hubertus Butin 31 gennaio – 21 aprile 2013 Fondazione Sandretto Rebaudengo Via Modane 16, Torino Info: +39 011 3797600 info@fondsrr.org www.fondsrr.org

Eppure questo è proprio quello che succede alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, con la mostra di Gerhard Richter: andiamo per vedere uno dei più grandi pittori viventi e ci ritroviamo con delle ristampe dei suoi lavori più famosi. “Edizioni”, le chiamano, e sono fotografie dei lavori pittorici dell’artista che egli ripropone a volte cambiandone il supporto, altre volte con interventi grafici, altre volte ancora solo attraverso la mediazione fotografica e la stampa industriale. Dove sono i suoi quadri, dove la magia della pittura? Ma, soprattutto, che ci si va a fare ad una mostra così? “L’illusione – o meglio l’apparenza, la somiglianza – è il tema della mia vita (…) Tutto questo è, sembra, ed è visibile a noi perché lo percepiamo attraverso la luce riflessa della somiglianza. Nient’altro è visibile” (Gerard Richter: Texts, Writings, Interviews and Letters 1961-2007, London 2009, Thames & Hudson p. 215) E allora ci si va per riflettere, insieme all’artista, su cosa sia davvero un’immagine, su cosa sia reale e cosa no (non a caso la mostra si apre con un grande specchio alla parete), ma soprattutto si va per partecipare all’illusione della più grande collezione al mondo dell’opera di Richter. Già, perché quello che la Fondazione espone è il sogno di un collezionista tedesco, Thomas Olbricht,

Gerhard Richter – Edizioni 1965-2012 dalla Collezione Olbricht, vedute della mostra alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino 47


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Rodolfo Aricò la logica viva del colore e della forma VENEZIA | Collezione Peggy Guggenheim | 23 febbraio - 15 aprile 2013 di MATTEO GALBIATI

Cinque indiscussi maestri rappresentano e raccontano da protagonisti, nella mostra Postwar, le vicende artistiche dell’arte italiana del secondo dopoguerra nel periodo cruciale tra gli anni Sessanta e Settanta. Partendo da Lucio Fontana, maestro per intere generazioni di artisti, il percorso espositivo si snoda sala dopo sala, con un itinerario cronologico, presentando un’attenta analisi delle opere di Piero Dorazio, Enrico Castellani, Paolo Scheggi e Rodolfo Aricò. In ogni

sala lo spettatore incontra il temperamento e il linguaggio proprio di ciascuno di loro che dimostra – seguendo la rilettura attenta che ne ha dato Luca Massimo Barbero – quanto la loro pittura sia stata orientata verso il superamento dei contenuti dell’Informale che aveva caratterizzato i decenni precedenti la loro attività. Tutti accendono le opere con la forza coloristica e luministica del colore, che spesso ricorre al rigore simbolico della monocromia per lasciar intendere i contenuti

Dall’alto: Rodolfo Aricò, veduta della mostra, Collezione Peggy Guggenheim, Venezia. Courtesy: A arte Studio Invernizzi, Milano. Foto: Bruno Bani, Milano. © Archivio Rodolfo Aricò, Milano Rodolfo Aricò, L’oggetto tenebroso di Paolo Uccello, 1970, olio su tela, cm 48x96. Courtesy: A arte Studio Invernizzi, Milano. Foto: Bruno Bani, Milano. © Archivio Rodolfo Aricò, Milano 48


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più visionari e intellettuali quali atti fondanti il sapere e la conoscenza artistica: opera come dimensione di pensiero, opera come atto filosofico dunque. La mostra pone l’accento sul valore alto raggiunto dalle loro espressioni che, in quegli anni e con il loro fare, s’inserivano a pieno titolo nel dibattito proprio della scena artistica internazionale. La mostra ha la peculiarità di concentrarsi soprattutto sulle figure di Paolo Scheggi e Rodolfo Aricò, con approfondimenti specifici che diventano mostra nella mostra. Di Aricò – di cui si è edita un’approfondita monografia, in collaborazione con l’Archivio Rodolfo Aricò, interamente dedicata allo studio della sua produzione degli Anni ’60 – si sottolinea il lavoro dal contenuto più astratto-geometrico, quando la sua pittura si adoperava nella sottolineatura di forme archetipali e architetturali con opere che diventano veri e propri contrappunti spaziali. Tali segni legano l’atto visivo all’istante della contemplazione e della riflessione, nel tempo e nello spazio esatti della verifica del suo pronunciamento. La monocromia vibratile di Aricò produce forme che spostano l’attenzione dalla fisicità contingente a dinamiche che diventano pulsioni intellettive e spirituali. Il farsi

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della sua poesia, anche quando si mantiene composta entro un’apparente sembianza di illusoria forma rigorosa, scompone e disgrega la definizione della propria oggettività, presagendo il suo ri-divenire senza tempo. Anche la relazione con lo spazio e l’ambiente diventa per lui urgenza da verificare costantemente: queste opere, la cui geometria pare sollecitata da stati tensivi e alteranti il corpo stesso della pittura, lasciano solo precorrere la relazione opera-ambiente che, negli anni successivi, avrà risvolti sempre più fisici e concreti nelle manifestazioni di un’arte che vuole essere sempre più oggetto reale, concreto, ma anche voce della in-tangibilità di un filosofare attraverso il muto colore. Ogni opera di Aricò individua la manifestazione di un passaggio dell’accadere, è un atto colto e raffinato che l’artista passionalmente coglie dall’infinito del divenire e che mantiene in tensione in tutta la sua potenzialità esperiente. La purezza formale dei grandi capolavori in mostra vivifica un’aniconicità che non è mai algida, perché ci consegna una visione la cui libertà non si trattiene sulla superficie contenibile e arginabile del supporto ma, con ordine misurato e definibile, deflagra nella dimensione del vivere.

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Rodolfo Aricò. Oggetti di pittura e pittura di spazio nell’ambito della mostra Postwar. Protagonisti italiani a cura di Luca Massimo Barbero 23 febbraio - 15 aprile 2013 Collezione Peggy Guggenheim Dorsoduro 701, Venezia Orari: 10.00-18.00, chiuso il martedì Ingresso: Euro 14,00, Euro 12,00 over 65 anni, Euro 8,00 studenti, gratuito fino a 10 anni Info: +39 041 2405411 info@guggenheim-venice.it www.guggenheim-venice.it

Rodolfo Aricò, veduta della mostra, Collezione Peggy Guggenheim, Venezia. Courtesy: A arte Studio Invernizzi, Milano. Foto: Bruno Bani, Milano. © Archivio Rodolfo Aricò, Milano


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Rosemarie Trockel colta “in flagrante” al Museion BOLZANO | Museion | 2 febbraio – 1 maggio 2013 di GABRIELE SALVATERRA

Rosemarie Trockel, Flagrant Delight, Museion 2013. Foto Othmar Seehauser

Delizia fragrante o delitto in flagrante. La personale di Rosemarie Trockel gioca sul doppio senso, l’accostamento libero e l’eclettismo, in un allestimento che, prendendo spunto dall’opera dell’artista, non segue alcuna direttrice storica o tematica ma dispone liberamente le ottanta opere in un unico grande spazio. Al di là del gioco di parole il lavoro dell’artista insiste effettivamente sugli opposti riuscendo a coniugare arbitrarietà e disciplina, attrazione e repulsione, vulnerabilità e fermezza, ironia e serietà in un discorso dove il femminile emerge come fattore caratterizzante.

che a regalare i primi momenti di meraviglia. La loro pulizia e la modularità della loro forma risulta straniante quando si osserva che sono realizzate in leggera gommapiuma. Inaspettate e discrete queste installazioni esemplificano la capacità della Trockel di innestare in un lessico prettamente maschile come il minimalismo, la levità di un pensiero altro. Anche nelle grandi tele intessute di foggia quadrata, l’aspetto suprematista del quadrato di Malevič si apre all’intrecciarsi delle trame di derivazione femminile in un grande lavoro in cui allo stesso tempo si è accolti e rigettati dalla calda superficie lanosa.

sembra però quello di circoscrivere il lavoro di questa artista all’ambito, comunque limitato, della militanza femminista. Al contrario, le sue opere più riuscite vivono in rapporti formali dove oggetto e materia si trasfigurano e liberano dalla propria materialità per diventare un’immagine nuova, fortemente seduttiva al di là di qualsiasi indicazione di genere.

La spina dorsale della mostra è costituita dalla produzione forse più inaspettata per la Trockel, una serie di collage dove la tecnica dadaista e alcuni elementi del lessico di Max Ernst vengono piegati a uno sguardo nomade e postmoderno, libero di vagare nelle epoche e arraffare qua e là con spregiudicatezza. Per questo nell’aspetto materico delle sue ceramiche si può riconoscere qualche legame con le concrezioni di Jean Arp oppure, nei moduli geometrici applicati a parete, agganci con il minimalismo di Sol LeWitt.

In modo simile un simbolo della reclusione domestica come il battipanni si ribella al suo tradizionale statuto simbolico diventando molle e deforme. C’è poi spazio anche per le famose piastre da cucina che, assieme ai lavori a maglia, identificano immediatamente l’opera della Trockel. In questo caso è lo spostamento a determinare uno scarto nel significato dell’oggetto e con la disposizione di questi fornelli in verticale il più trito emblema di femminilità repressa ottiene una nuova direzionalità, aggressiva e resistente contro ogni consuetudine.

La presentazione a Bolzano è a cura di Letizia Ragaglia in collaborazione con Rosemarie Trockel

Liberi di passeggiare nell’ampio spazio del Museion sono proprio queste sculture bian-

In questa ampia carrellata il rischio maggiore 50

Rosemarie Trockel. Flagrant Delight a cura di Dirk Snauwaert 2 febbraio – 1 maggio 2013

Museion Via Dante, 6 (I), Bolzano Info: + 39 0471 223413 info@museion.it www.museion.it


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Angelo Savelli al MARCA. La poesia del bianco CATANZARO | Museo MARCA | fino al 30 marzo 2013 di GIOVANNI VICECONTE

Bianco Con occhi bianchi vedo Con una mente bianca penso Con bianche mani in un corpo bianco lavoro In un mondo bianco cammino In un cielo bianco respiro Sono in alto in alto su una montagna bianca Guardando in basso nel profondo Angelo Savelli Vasilij Kandinskij nel suo saggio Lo spirituale nell’arte scrive: «Il bianco, che spesso è considerato un non-colore, è quasi il simbolo di un mondo in cui tutti i colori, come principi e sostanze fisiche, sono scomparsi. È un mondo così alto rispetto a noi, che non ne avvertiamo il suono. Sentiamo solo un immenso silenzio che, tradotto in immagine fisica, ci appare come un muro freddo, invalicabile, indistruttibile, infinito. Per questo il bianco ci colpisce come un grande silenzio che ci sembra assoluto. È un silenzio che non è morto, ma è ricco di potenzialità». È il colore Bianco, ricco e vitale, il filo conduttore della mostra di Angelo Savelli (Pizzo Calabro 1911- 1955), che accompagna il visitatore del MARCA di Catanzaro che, a distanza di diciassette anni dalla mostra al Pecci di Prato tenutasi nel 1995, dedica una retrospettiva al maestro calabrese, curata da Alberto Fiz e Luigi Sansone. Un nucleo di settanta opere tra dipinti, scul-

Angelo Savelli. Il maestro del bianco. Veduta dell’allestimento al Museo MARCA di Catanzaro

ture e ceramiche, in un percorso espositivo che, partendo dalle sue prime esperienze figurative degli anni Trenta giunge all’universo “bianco”. Savelli interviene sulla superficie e sui materiali e, eliminando la classicità della forma, giunge a nuovi formati trapezoidali e triangolari, forme pure che danno continuità al primo quadro bianco realizzato dal russo Kazimir Malevich. Questa serie di lavori, realizzati da Angelo Savelli a partire dal 1957 dopo il suo arrivo a New York, nascono con naturalezza, ispirati da un’esperienza visiva che l’artista conduce in una chiesa di Firenze già nel 1944-45, momento che lui stesso considera determinante per la ricerca artistica di questo “periodo bianco”.

In mostra si ammirano anche le Corde che, oltre a rappresentare un ricordo del mare e della sua terra natia, riflettono su una ricerca dello spazio compositivo che, come in Lucio Fontana, vuole creare una dimensione altra. Dimensione che Savelli, diversamente dal taglio cui ricorre il maestro dello spazialismo, ottiene proprio dall’uso della materia e della profondità generati dal bianco. Il colore bianco per Savelli non rappresenta solo la parte intima e profonda di un individuo, ma esprime quella luce che deriva dalla consapevolezza-consenso dell’area oscura del proprio Io, attraverso il quale dà vita a un nuovo bianco, carico di una sottile spiritualità e di una luce propria. Angelo Savelli. Il maestro del bianco a cura di Alberto Fiz e Luigi Sansone fino al 30 marzo 2013 Museo MARCA Via Alessandro Turco 63, Catanzaro Orari: Da martedì a domenica 9.30-13.00 e 16.00-20.30; chiuso il lunedì Ingresso 3,00 euro Info: +39 0961746797 www.museomarca.info info@museomarca.com

Angelo Savelli, Growing up, 1980 51


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Still.life. Arnold Mario Dall’O al Kunst Merano MERANO (BZ) | Merano Arte | 1 febbraio – 1 aprile 2013 di SILVIA CONTA

La nuova mostra di Arnold Mario Dall’O a cura di Valerio Dehò presso la storica istituzione meranese, ripercorre le tappe della ricerca dell’artista attraverso opere degli ultimi tre anni fino ad opere inedite. Il percorso permette di apprezzare le sfaccettature più recenti della ricerca dell’artista che continua a muoversi in quell’universo di immagini e forme di cui è costellato il suo alfabeto eclettico dove si sommano riferimenti e simboli che attingono a sfere differenti: anatomia, storia, religione, pubblicità, arte popolare, quotidianità. Ci sono i grandi collage-pittura, le note sculture popolate di soldatini assemblati e galvanizzati in oro e argento o, quelle più recenti, in lacca e resina, come Frame. Ma ci sono anche opere in cartone, granito o poliuretano che fluttuano tra pittura e scultura, fino a lavori come Randstein, posto in esterno. In una passeggiata tra le sale con l’artista ci siamo soffermati a lungo sul nucleo inedito e più recente della sua produzione, Still.life, una serie di ritratti dipinti partendo da fotografie scaricate da un sito web in cui le immagini dei volti di defunti anonimi sono raccolte con l’intento di restituire loro un’identità a queste persone attraverso il loro riconoscimento. Ad

un primo sguardo il reticolo della sgranatura dovuta all’ingrandimento e le dimensioni delle immagini modificano la percezione che ne ha lo spettatore, che è indotto a confondere la fissità della morte con il sonno o le immagini tragicamente scomposte con scatti fotografici poco riusciti. La presa di coscienza della reale natura delle immagini di partenza – non esplicitata nella sala espositiva – muta irreversibilmente la percezione che lo spettatore ha dell’intera serie. Dall’O, dopo aver scelto i volti, ha ingrandito le immagini e le ha riprodotte pixel per pixel in una lenta pratica pittorica che ricorda un mantra. Durante i mesi trascorsi in questa operazione ha familiarizzato con i ritratti, interrogandosi inevitabilmente sulle storie di queste persone. Sono nati così gli altri dipinti che appartengono a questa serie: rappresentano elementi di vita quotidiana quali un vaso di fiori o un lampadario, un cane o la geometria di una tappezzeria, che l’artista accosta – in maniera non univoca – ai volti, quasi a tributare loro uno spontaneo, anche se arbitrario, frammento di un ipotetico passato, a noi precluso, che costituiva la loro esistenza.

Arnold Mario Dall’O, Twins, 100x240x42 cm, 2010, materiali vari, galvanizzato in nichel, lampade 52

Arnold Mario Dall’O, Still.life, 2012, pittura ad olio su carta, lacca finale, cm 10,58x41,4x3


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Arnold Mario Dall’O, Frame (empty), 2012, materiali vari, lacca, resina, cm 90x68x10

Arnold Mario Dall’O, Karton 1, 2011, pittura acrilica su cartone

La scelta di lavorare con questi ritratti non deriva da un macabro voyeurismo o da un tentativo di spettacolarizzazione, ma apre invece ad una riflessione sull’identità e il suo manifestarsi sociale, in un’epoca in cui l’esistenza sembra legittimata e quasi “autenticata” da immagini caricate nei social network. Per Dall’O le immagini di Still.Life costituiscono quello che chiama un “punto zero”: non narrano storie, sono immagini in qualche modo “pure”, che non forniscono indizi sulla storia di queste persone e non permettono di intravvedere una via per ricongiungerle al loro passato. Questa condizione suscita un’inquietante senso di incredulità e impotenza proprio perché tratte da internet, regno virtuale di una società che sembra quasi identificarsi nella costante connessione tra individui, in una dimensione in cui tutti sembrano conoscere tutti e sapere tutto l’uno dell’altro. L’utilizzo di questi ritratti non costituisce quindi un memento mori, ma è

una riflessione sia sul rapporto narrazioneimmagine-vita, che sul ritratto nella sua valenza storico-politica e cronachistica. Qui non c’è storia, non c’è scoop, “non c’è nulla da vedere”, come recitano i personaggi dei film. La voracità del consumismo delle immagini, della loro sovraproduzione e della spettacolarizzazione a tutti i costi è tranciato dall’assenza di un racconto. All’immagine fotografica è assegnato il tragico status di tentativo estremo di ricollegare i volti alle loro identità. La funzione della fotografia è quindi invertita rispetto a quella che le viene in genere attribuita: non documenta, non racconta, non crea icone, ma si arresta in una zona di tangenza tra vita-morte, che la società occidentale ha annullato e nascosto per riproporla solo in versioni cinematografiche o cronachistiche. Ancora una volta Dall’O riesce ad indurre lo spettatore ad interrogarsi sul presente, 53

ponendolo dinanzi a quelli stessi mezzi con cui l’uomo contemporaneo si illude di poter registrare e oggettivare la realtà, in qualche modo plasmarla, dominarla e – rendendola largamente condivisibile – apparentemente ancora più vera e definitiva. Ma la serie Still. life dimostra che si tratta solo dell’ennesima autoillusione umana e sociale. Arnold Mario Dall’O. Still.Life a cura di Valerio Dehò Merano Arte Via Portici 163, Merano (BZ) Orari: da martedì a domenica, ore 10.00 – 18.00. Chiuso lunedì Info: +39 0473 212643 www.kunstmeranoarte.org info@kunstmeranoarte.org


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Forlì riflette sugli anni del duce. Nessun revisionismo, ma una titanica ricostruzione storico-artistica FORLÌ | Musei San Domenico | 2 febbraio – 16 giugno 2013 di ELENA DOLCINI

Quest’anno Musei San Domenico di Forlì propone un evento colossale; quasi cinquecento opere costituiscono Novecento. Arte e vita in Italia tra le due guerre, una mostra che per profondità storiografica, formale e tematica amplia i confini della classica esposizione. A cominciare dal suo luogo contenitore, il San Domenico, che negli anni ha sempre saputo adattare la sua distintiva estetica architettonica a diverse manifestazioni artistiche e che quest’anno sarà una vera e propria fucina di eventi, proiezioni video e laboratorio di idee. La mostra, come ci spiega il sottotitolo, racconta dell’Italia tra le due guerre, un periodo storico complesso costituito da titaniche esaltazioni del regime, da un aspro dissenso, spesso limitato nella sua libertà formale e di conseguenza costretto a dichiarazioni

implicite, e dalla satira, che con la sua carica catartica e di sublimazione si poteva permette di chiamare il duce “crapa pelata”. Le opere di Sironi, Funi, Martini, Spreafico interagiscono tra le stanze del San Domenico, riconfermando la natura eclettica e dialogica di una mostra che vuole essere un manifesto per la cosiddetta “arte applicata”. Qui, infatti, pittura, scultura, architettura, design e grandi stampe pubblicitarie occupano il medesimo luogo, esemplificando non solo il rifiuto per un’arte pura, quella che sarà poi teorizzata negli anni ’40 da Greenberg, ma denunciando soprattutto la prolifica complementarietà tra arte e tecnica. Il curatore Fernando Mazzocca precisa che si tratta di una mostra prima di tutto artistica, ma che rivolge un’attenzione particolare

Gerardo Dottori, Aurora sul golfo, 1935. Perugia, Consiglio Regionale dell’Umbria 54


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Enrico Prampolini, Dinamica dell’azione (Miti dell’azione, Mussolini a cavallo), 1939. Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna

alla vita del tempo; “Novecento” possiede una visibile processualità interna, un solido strumento di aiuto per il visitatore guidato tra il culto dell’uomo, la glorificazione della personalità e il taedium vitae che poi diventa pessimismo storico alla fine della seconda guerra mondiale, soprattutto tra gli artisti che sempre sostennero Mussolini e il fascismo. Il borghese non è l’unico soggetto delle espressioni culturali del tempo; gli artisti rappresentano anche l’uomo comune, il contadino e le donne indaffarate nel crescere i propri figli. Nei dipinti di Cagnaccio di San Pietro e Carrà, ad esempio, le fatiche del lavoro così come quelle della maternità occupano uno spazio di rilievo, suggerendo al visitatore l’idea di un’umanità più vasta rispetto a quella esemplificata dalla cameretta, finestra sul mondo, in cui la dama si contempla allo specchio. Affianco all’esaltazione del corpo, per cui fisici femminili e maschili sono scolpiti con precisione e sensualità, “Novecento” evidenzia la passione per gli oggetti, nella loro perfezione compositiva e significato sentimentale. In L’attesa di Cagnaccio di San

Pietro una coppia di genitori aspetta al porto il ritorno del figlio; la pipa fumata dall’uomo e il fazzoletto riposto nella tasca della madre hanno come vita propria, sono elementi dalla perfetta resa ottica. Anche in Lacrime della cipolla, lo stesso artista rappresenta una coppia molto simile alla precedente; la donna sbuccia cipolle sempre con un fazzoletto in tasca e l’uomo la guarda fumando la sua pipa. Al di là dell’intento (iper)realista del pittore che ritrae ciò che vede, l’oggetto, lontano dall’essere mero ornamento, ha un’importanza emotiva e sentimentale e, come nella poetica di Pirandello, “può piacere anche per se stesso, per la diversità delle sensazioni piacevoli che ci suscita in una percezione, ma ben più spesso il piacere che un oggetto ci suscita non si trova nell’oggetto per se medesimo. La fantasia lo abbellisce, cingendolo e irradiandolo d’immagini care. Nell’oggetto, insomma amiamo quello che mettiamo noi”. La mostra al San Domenico resterà aperta fino a 16 giugno 2013, che è poi il tempo necessario per andare, ritornare e ritornare 55

ancora, in modo da familiarizzare sempre più con un’esposizione a tratti complessa, sia nel suo intento didattico, sia nella volontà di documentare la profonda compenetrazione tra una cangiante espressione formale e precari equilibri storici. Novecento arte e vita in Italia tra le due guerre a cura di Fernando Mazzocca con Stefano Grandesso, Maria Paola Maino, Ulisse Tramonti, Anna Villari 2 febbraio – 16 giugno 2013 Musei San Domenico Piazza Guido da Montefeltro, Forlì Info: +39 0543 1912030 www.mostranovecento.it


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Marco Mazzoni. Il ricordo è Un Consolatore Molesto MILANO | Galleria Patricia Armocida | 19 febbraio – 4 maggio 2013 di Elena Girelli

Un viaggio nei ricordi di storie magiche e surreali è il fil rouge della tanto attesa mostra personale milanese dell’artista Marco Mazzoni presso la Galleria Patricia Armocida a partire dal 19 febbraio prossimo. Le sue opere parlano di donne guaritrici, ammalianti, seducenti – forse mai esistite – appartenenti alla tradizione popolare sarda e conoscitrici delle proprietà curative delle piante presenti in natura. Proprio per questo sapere sono sempre state figure autorevoli nella comunità sociale, ma poi osteggiate con l’avvento della Controriforma e perseguitate perché associate al maligno, nonché in opposizione alla pratica curativa accademica esercitata dagli uomini. Nonostante ciò queste storie sono riuscite ad arrivare ai giorni nostri e hanno segnato

indelebilmente il destino del giovane artista, originario di Tortona, che a distanza di venti anni dalle estati passate in Sardegna apre il baule dei ricordi e li condivide con noi in questa mostra. Una figura femminile incorniciata da animali, fiori ed insetti, emerge dai toni delicati del rosa, dell’azzurro o del nero intenso sullo sfondo, qui rappresentati su carta con l’utilizzo di pastelli colorati, realizzati in modo tecnicamente perfetto e allo stesso tempo sublime ed etero. Quindici nuovi disegni di medie dimensioni, dodici illustrazioni su carta Moleskine e un’installazione site-specific, ci invitano ad intraprendere con l’artista un viaggio fantastico nelle arti segrete ed incantatrici della natura e nei ricordi, consolatori modesti di un’estate lontana che non tornerà più.

Marco Mazzoni. Il Ricordo è Un Consolatore Molesto Galleria Patricia Armocida via Lattanzio n. 77, Milano 19 febbraio – 4 maggio 2013 Opening 19 febbraio 2013 ore 19.00 Info: +39 02 36519304 galleriapatriciaarmocida@gmail.com www.galleriapatriciaarmocida.com

Marco Mazzoni, Transparent Days, 2013, matite colorate su carta, cm 20x20 56


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Restauro. A Ferrara un appuntamento per la ricostruzione FERRARA | Quartiere Fieristico | 20-23 marzo 2013 di MASSIMO MARCHETTI

La XX edizione del Salone dell’Arte del Restauro e della Conservazione dei Beni Culturali di Ferrara non sarà certamente un’edizione come le altre. Il terremoto, al pari dei danni di guerra, è la sciagura peggiore che possa esserci per un edificio storico o un’opera d’arte e di conseguenza, in questi anni, è stato spesso evocato nei dibattiti che si sono svolti durante l’appuntamento ferrarese. Questa volta però il destino ha voluto che ci si ritrovasse a constatarne le conseguenze de visu, a confrontarsi materialmente con un contesto in cui molte ferite non si sono ancora rimarginate. Il restauro quindi non è un tema del dopoterremoto ma il tema, per cui nei quattro giorni del Salone esso rappresenterà il fulcro del dibattito al di là della consueta varietà di incontri e seminari proposti. Significativamente il primo appuntamento della prima giornata (mercoledì 20) sarà dedicato, infatti, a un confronto sullo stato dei lavori di ricostruzione tra Emilia e Lombardia da un lato e Abruzzo dall’altro, poi a seguire un convegno sul problema suscitato dalla distruzione del sopracitato monumento di Finale dal titolo Torre dei Modenesi. Restituzione, restauro e ripristino filologico. Già dopo un paio di giorni dal crollo, infatti, sulle colonne dei giornali, ma anche su Facebook, gli auspici si erano subito polarizzati nei due approcci tipici alla questione: ricostruire la torre tale e quale nelle sue forme originarie col recupero dei mattoni o evitare ogni finzione storicizzando il terremoto in una “nuova” torre. Proprio per questo sarà di grande interesse seguire le due sessioni del convegno Dov’era ma non com’era: il ruolo centrale del restauro nella ricostruzione post-sismica (mercoledì 20 e giovedì 21), dove si potrà ascoltare innanzitutto la voce del Direttore regionale per i Beni culturali e paesaggistici dell’Emilia-Romagna, l’architetto Carla Di Francesco, critica fin dall’inizio verso le ricostruzioni con intenti mimetici. Ma, come si diceva, il Salone offrirà al di à di questo capitolo una vasta scelta di temi da analizzare. Ad esempio si parlerà del restauro della preziosissima Tribuna del Buon-

Castello delle Rocche di Finale Emilia dopo il terremoto

Opificio delle pietre dure, Firenze. Nel Laboratorio Bronzi e armi antiche, al lavoro sulla Banderuola di Palazzo Vecchio

talenti alla Galleria degli Uffizi, che l’ha restituita al pubblico dopo tre anni ma divenendo anch’esso poi elemento di discussione e divisione, oppure delle varie branche dell’Opificio delle Pietre Dure di Firenze, ai cui grandi restauri e attività di formazione e ricerca sarà dedicato un ampio convegno. Occasioni offerte anche a un pubblico non specialistico per conoscere e approfondire tutto ciò che chiamiamo “patrimonio culturale”. 57

Salone dell’arte del restauro e della conservazione dei Beni culturali e ambientali 20 – 23 marzo 2013 Quartiere Fieristico Via della Fiera 11, Ferrara Info: www.salonedelrestauro.com info@salonedelrestauro.com


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Alle origini di un mito: Cindy Sherman al Gucci Museo FIRENZE | Gucci Museo | 10 gennaio – 9 giugno 2013 di SIMONE REBORA Dopo un wagneriano Bill Viola e un iconoclastico Paul Fryer, il terzo appuntamento al Contemporary Art Space del Museo Gucci porta a Firenze gli “autoritratti concettuali” di Cindy Sherman. In questo caso, non si tratta di lavori recenti, quanto piuttosto di un recupero dei primissimi (e ormai storici) scatti della fotografa, quando il nucleo portante dell’opera successiva era già in larga parte definito: dal tratto stilistico più distintivo, che vede l’artista nel ruolo di fotografa, modella e truccatrice, fino alla consueta ambiguità dei soggetti, sospesi tra finzione filmica e indagine (pseudo-)antropologica, senza mai dimenticare l’attivismo in chiave femminista. Le due serie fotografiche Murder Mystery People e Bus Riders datano entrambe al 1976, quando una neolaureata Cindy Sherman fondava assieme ad altri giovani artisti lo spazio Hallwall, a Buffalo. E mentre le stampe originali sono andate perdute, ciò che ci viene oggi riproposto se ne distanzia anche sul piano concettuale. Perché i personaggi interpretati furono a quel tempo ritagliati in silhouette, a comporre le 82 scene di un immaginario film poliziesco, o per ritrarre i tipici viaggiatori del Metro Bus 535 di Buffalo. Recuperate nel 2000 in numero molto più ridotto, le piccole stampe espo-

ste a Firenze ci offrono invece tutto l’insieme della messa in scena, con gli scarni fondali, il filo per l’autoscatto sotto il piede, e persino una non identificata gamba che compare dal bordo estremo, a rompere l’asfittica solitudine dell’artista. In una sala separata, la brevissima pellicola Doll Clothes completa il percorso, richiamandosi addirittura agli anni del college (1975): la facile leggibilità in chiave femminista di questa “Casa di bambola”, rivela tutto il sostrato d’impegno nel discorso dapprima sviluppato. L’allestimento negli splendidi spazi del Gucci Museo si mantiene estremamente essenziale, preciso e rattenuto. L’unico rischio sembra risiedere nel grande divario tra la voluminosità delle sale e la piccola dimensione dei ritratti, esposti quasi come improbabili oggetti di culto. In definitiva, si va forse a cozzare con lo spirito che originalmente li animò: l’opera che si poneva come elemento di frattura dall’interno di un sistema di valori (e consumi) consolidato, si trova alla fine riassorbita in esso. E in contrasto con l’estrema pulizia delle due sale, le imperfezioni tecniche della pellicola (un bianco e nero sporco, uno stop-motion spurio) rendono più immediata tutta la genuinità di queste originali sperimentazioni.

Da sinistra: Veduta della mostra “Cindy Sherman, Early works”, Gucci Museo, Firenze. Foto: Alessandro Moggi Cindy Sherman, Untitled (Murder Mystery People), 1976-2000. Courtesy: l’artista e Metro Pictures. © Cindy Sherman 58

Cindy Sherman. Early Works a cura di Francesca Amfitheatrof 10 gennaio – 9 giugno 2013 Gucci Museo Piazza della Signoria, Firenze Orari: tutti i giorni 10.00-20.00 Info: +39 055 75923302 www.guccimuseo.com

Cindy Sherman, Doll Clothes, 1975, 16-mm film transferred to DVD, Black and white, silent, 2.22 min, loop. © Cindy Sherman


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Fotografia > Mostre

La scelta di Bourguedieu. Dieci anni di scatti da Bloo Gallery ROMA | Bloo Gallery | 15 febbraio – 13 aprile 2013 di DANIELA TRINCIA

Christophe Bourguedieu (1961, Marrakech, lavora a Vanves, Parigi) racconta delle storie. E le racconta attraverso piccoli dettagli. Ma sono storie soggettive, che egli ha colto e che ha costruito intuendo un dettaglio. Ed è quel dettaglio che il fotografo, francese d’adozione, mostra. Ed è attraverso quel susseguirsi di particolari che lo spettatore può costruire la sua storia, ricostruire i fatti. Forse sarà la sua formazione in legge e criminologia a far muovere Bourguedieu per dettagli, trattati come indizi, per ricostruire le scene, in questo caso non del delitto, ma artistiche. Che poi sempre di delitto si tratta, perché l’artista con la sua irruzione, uccide l’oblio e la noncuranza e consegna il suo lavoro alla memoria e all’attenzione. Perché è proprio lo spettatore che deve costruire il personale racconto divenendo, come accade per molti altri lavori, anch’egli soggetto imprescindibile del significato della mostra. Nella prima personale nel nostro Paese, da Bloo Gallery, prossima a festeggiare il suo

primo anno di attività tutta dedicata alla promozione e alla diffusione della fotografia realizzata da artisti di fama internazionale e non solo. Bourguedieu riunisce i lavori realizzati negli ultimi dieci anni dedicati, appunto, alla “costruzione dello sguardo… in costante contatto con i luoghi”. Nonostante non sia del tutto palese che i lavori esposti facciano parte di quattro serie distinte, essi permettono di seguire virtualmente gli spostamenti del fotografo attraverso la Finlandia, gli Stati Uniti, l’Australia e infine la Francia. Lavori di grande formato, con colori saturi.

Catherine), e il “luogo” (Kumpula, ClermontFerrand, Los Angeles, Perth), che può essere un animale, una casa, un albero, un divano che, decontestualizzati, si trasformano in un non-luogo che potrebbe essere collocato in qualsiasi parte dell’emisfero.

Bourguedieu, oltre a individuare delle persone con una certa profondità psicologica, tenta anche di tracciare una liaison tra la persona ritratta e il paesaggio, l’ambiente che ha, in qualche maniera, concorso alla determinazione dell’individuo ritratto. Compone cioè una sorta di ideale dittico formato da una figura umana, che raramente guarda nell’obiettivo (Annuška, Muurla, Nicole,

Orari: martedì – sabato dalle 14.00 alle 19.00 (o su appuntamento)

Christophe Bourguedieu. La Scelta di Bourguedieu Bloo Gallery via Tiburtina 149, Roma 15 febbraio – 13 aprile 2013

Info: +39 06 93374150 justine@bloogallery.it infos@bloogallery.it www.bloogallery.it

Da sinistra: Christophe Bourguedieu, Annuška, Helsinki, dalla serie “Tavastia”, 2000, stampa C-Print, cm 79x95 Christophe, Bourguedieu, Perth, dalla serie “Les Passagers”, 2005, stampa Lambda, cm 100x150 59


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Fotografia > Mostre

I miti demistificati di Uliano Lucas MILANO | Galleria Ca’ di Fra’ | Fino al 5 aprile 2013 di KEVIN McMANUS

Si prova una sensazione di familiarità, difficile per certi versi da descrivere, davanti agli scatti di Uliano Lucas raccolti dalla Galleria Ca’ di Fra’: ritratti di personaggi famosi, in qualche modo personalmente legati al fotografo, a documentare un mondo passato ma ciononostante quanto mai vicino. Non è la solita familiarità del personaggio famoso, già visto perché tutti l’hanno visto, contornato dall’aura della mediazione: è piuttosto “familiarità” intesa nel senso più letterale del termine, una vicinanza affettiva tra l’oggetto e il soggetto dello sguardo, quasi che Lucas voglia renderci compartecipi della confidenza instauratasi tra lui e questi personaggi. E non è cosa di poco conto che un grande fotografo, anziché elevare su un piedestallo il proprio sguardo e renderci, rispetto ad esso, passivi ammiratori (e l’atteggiamento è diffuso, ancora oggi, anche tra i fotoreporter), cerchi quasi di prestarcelo. È del resto assai chiaro Arturo Carlo Quintavalle quando, nel testo di presentazione alla mostra, illustra la differenza tra la prassi e l’estetica di Lucas e la tanto celebrata idea di Cartier Bresson “di una ‘immagine rubata’, di un momento in qualche modo unico, sublime, sospeso, fuori dal tempo”: Lucas non ruba nulla, ma anzi “vuole dialogare con chi riprende”, cosicché

il soggetto fotografato “viene come invitato a costruirsi il ritratto e, sono certo, Lucas scatta solo quando è divenuto amico, quando ha dialogato, quando ha scoperto la persona e si interessa alla persona”.

La prima qualità che un critico deve riconoscere a Lucas è quella di essere a sua volta “critico”, in quanto demistificatore affezionato dei propri soggetti: non più miti, ma persone.

A questo si aggiunga come l’espressione di questo rapporto di comunione col soggetto, che Lucas estende anche allo “spettatore”, sia reso proprio attraverso una piena ed esplicita consapevolezza delle proprietà formali del mezzo fotografico, dalla costruzione dell’immagine – intesa non come artificio, ma come capacità di cogliere nel visibile i valori formali della fotografia, e di trasferirli nello scatto – al confezionamento finale dell’“oggetto” foto: non proviamo dunque simpatia per queste immagini (anche qui, “simpatia” nel suo senso etimologico più profondo) in quanto sembrano “scattate da noi” – altra soluzione retorica fin troppo comune in una fotografia che si pretende “vera” –, ma in quanto nella maestria dell’operazione fotografica riconosciamo una capacità di sintesi che riassume in uno spazio limitato, e percepibile all’istante, l’insieme (e il rapporto) di persona e contesto, quell’insieme che regola i rapporti umani nella loro articolazione spazio-temporale.

Uliano Lucas. Lo sguardo restituito

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Fino al 5 aprile 2013 Galleria Ca’ di Fra’ Via Farini 2, Milano Orari: da lunedì a venerdì 10.00-13.00 e 15.00-19.00; il sabato su appuntamento ingresso libero Info: +39 02 29002108 gcomposti@gmail.com

Da sinistra: Uliano Lucas, lo scrittore Truman Capote durante una visita a Giovanni Agnelli, Torino, 1966, da un reportage realizzato per “L’Europeo” Uliano Lucas, Il pittore Franco Angeli nel suo studio, Roma, 1963, vintage, cm 30x20. Courtesy: Archivio Uliano Lucas / Ca’ di Fra’, Milano


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Fotografia > Eventi

Photofestival. Sette anni di fotografia a Milano MILANO | Sedi varie | 21 marzo – 30 aprile 2013 di Maria Chiara Cardini A Milano torna di scena la fotografia nella VII edizione del Photofestival, manifestazione che si suddivide tra gallerie d’arte e spazi espositivi: 100 mostre fotografiche, un programma espositivo vario e di qualità, che spazia dal reportage all’arte contemporanea, dagli emergenti ai maestri. Tra le numerose iniziative presenti, ci sono senz’altro da segnalare alcune mostre come quella presso la Galleria Carla Sozzani, dove si approfondisce lo sguardo sull’Italia dagli Anni ‘60 agli Anni ‘80 ripercorrendo la carriera di Alfa Castaldi. Dal reportage alla moda, dai nudi agli still life fino alle fotografie surrealiste e alle sperimentazioni. Castaldi, che frequenta il Bar Giamaica con Ugo Mulas e Mario Dondero, attraverso il reportage documenta la rinascita della vita culturale italiana e le nuove forme di ricerca artistica. Quando alla fine degli Anni ‘60 apre il suo studio a Milano e conosce Anna Piaggi (che diverrà la sua compagna), inizia ad occuparsi di moda. Una retrospettiva che rende omaggio ad un vero outsider della fotografia italiana. Imperdibile la mostra allo Spazio Oberdan del francese Robert Doisneau, ricordato so-

prattutto per le immagini della vita di strada parigina che si caratterizzano per un certo umorismo. Le sue fotografie ci conducono attraverso un mondo fatto di gentilezza e felicità. Qui si può riposare lo sguardo, sognare davanti alla poesia delle sue immagini. Roberta Valtorta alla Triennale presenta il lavoro di Paola De Pietri, nota per l’indagine che affronta da tempo sull’idea di territorio e sul rapporto dell’uomo con lo spazio abitato. Con To face, che raccoglie una selezione di opere di grande formato, attraversiamo il fronte italo-austriaco della Prima Guerra Mondiale, dove tra il 2009 e il 2011, la fotografa ha indagato il mutamento del paesaggio di montagna segnato dai bombardamenti, dalle trincee, dai residui della guerra. In zona Moscova, l’Amy-d Arte Spazio presenta la mostra I Luoghi della Mente del fotografo Franco Donaggio. Per formazione legato alla grafica e al mondo della pubblicità, utilizza da subito la fotografia come strumento creativo e nel 1995 riceve il prestigioso Kodak Gold Award. Donaggio da dieci anni utilizza il mezzo digitale per creare i suoi “sogni surrealisti” e, come afferma egli stes-

Alfa Castaldi, Firenze, 1958 ca. Courtesy: Archivio Alfa Castaldi

so in un’intervista, “(…) il primo ostacolo è la mancanza d’interesse e la scarsa curiosità per ciò che non si conosce”. Chiudiamo con la Galleria Maria Cilena Studio per l’arte contemporanea che propone il lavoro Polis & Polis di Francesco Corbetta. Il fotografo comasco, omaggia la città attraverso i suoi reportage urbani ricchi di colore e sperimentazione tecnica. Per non perdersi tra i molti altri avvenimenti consigliamo di accedere al sito dell’iniziativa e di procurarsi la guida con tutte le informazioni utili, questa è disponibile anche nelle gallerie aderenti e nelle più importanti librerie della città: Feltrinelli, Fnac, Hoepli e Rizzoli. Photofestival 2013 – VII Edizione Comitato scientifico Riccardo Costantini, Roberto Mutti e Giovanni Pelloso Promosso da A.I.F. (Associazione Italiana Foto & Digital Imaging), Camera di Commercio e Unione Confcommercio Milano 21 marzo – 30 aprile 2013 Sedi varie, Milano www.photofestival-milano.it segreteria.photofestival@gmail.com

Robert Doisneau, Il Bacio dell’Hotel de Ville, 1950. © Atelier Robert Doisneau 61


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Quando il Pop mangerà se stesso… Massimo Giacon al Triennale Design Museum MILANO | Triennale DesignCafé | 12 febbraio – 1 aprile 2013 Intervista a MASSIMO GIACON di Viviana Siviero

Triennale Design Museum presenta la produzione disculture in ceramica, edite da Superego editions negli ultimi 5 anni: una “famiglia” di colorati, mostruosi e grotteschi personaggi, creati nel tempo dalla celebre e dissacrante ironia di Massimo Giacon, artista poliedrico che spazia dal disegno al fumetto più aggiornato passando per moltissimi ambiti non meglio delineati per giungere fino alla musica. La Triennale lo celebra in un giusto tributo che diviene non tanto una forma di omaggio all’artista fine a se stesso, ma piuttosto una panoramica sulle possibilità generate nel tempo e nello spazio, da un POP altamente infettivo… Ci presenti la tua “Toy Story” malata e corrotta dal POP, per nome, forma e talento? Si tratta di una mostra storica “sui generis” che presenta tutte le ceramiche prodotte in questi ultimi 5 anni con Superego. Si tratta di piccole sculture in ceramica a tiratura limitata. Sono personaggi più o meno inquietanti ma che la brillantezza e la lucidità

della ceramica rende desiderabili. Un piccolo paradosso. Sei stato scelto dalla Triennale DesignCafè come “sguardo inedito”, per una sede prestigiosissima, che ne pensi, che ci dici a riguardo? È stata una piacevole sorpresa. Non ho dovuto fare molto, è stata Silvana Annichiarico, direttrice del Design Museum, a chiedermi se volevo occuparmi di una mostra su queste ceramiche (che nel frattempo giravano il mondo, dal Museum Shop del Beaubourg a vari negozi di design sparsi per il globo). La sede è davvero prestigiosa, infatti la cosa buffa è che negli ambienti delle gallerie mi guardano in maniera diversa… Ma vedrai che se ne dimenticheranno presto! È rituale, se non obbligatorio, chiederti il perché del titolo, dove HIM sostituisce IT come chiara allusione. Rispondiamo alle tue parole dicendo che “siamo pronti per giocare con questi nuovi amichetti”: ti chiediamo cosa ci fanno al mondo, nel

nostro mondo, e da quale realtà sono scaturiti… insomma, come si innestano nella realtà, quale frutto rappresentano? HIM sostituisce il più corretto IT perché non guardo al Pop come ad un’entità astratta, ma come a una specie di persona vera e propria, una persona che al momento non mi sta nemmeno molto simpatica, forse pure un po’ stupida. I miei amichetti si auto-fagocitano, dato che il Pop mangerà sé stesso, anche se chissà quando, visto che era una frase che si usava nella fine degli anni’80 e il Pop è ancora vivo oggi, anzi il Lowbrow Pop si è mangiato il Pop storico, in un costante rigenerarsi e auto-cannibalizzarsi, senza posa. Intanto il mondo va al diavolo. Ci anticipi i tuoi progetti per il futuro cosa hai in mente? Il mio prossimo appuntamento è a marzo ad Affordable Art Fair, dove insieme ad Ale Giorgini, Alberto Corradi e Diavù sarò presente allo stand di Repubblica XL. Non venderemo nulla, lavoreremo in diretta a un progetto collettivo per il Museion di Bolzano, progetto che vedrà la luce ai primi di maggio. Il progetto si chiama Q4attro. Poi ci sono nuovi progetti Alessi, un nuovo libro per RCS Lizard insieme a Tiziano Scarpa e, se riesco a trovare il tempo per raggruppare le idee, delle nuove lampade per Foscarini. Massimo Giacon The Pop Will Eat Himself Five years of Superego ceramics for weirdos un progetto a cura di Silvana Annicchiarico 12 febbraio – 1 aprile 2013 Triennale DesignCafé Viale Alemagna, 6 Milano Orari: martedì-domenica 10.30 – 20.30 | giovedì 10.30 – 23.00 Info: www.triennale.it +39 02 89093899

Massimo Giacon, So Cute. Foto: Armando Perna 62


Espoarte Digital

www.espoarte.net Leggi su espoarte.net http://www.espoarte.net/rubriche/cinema/la-migliore-offerta-il-culto-di-unarte-irrangiungibile/

Cinema

“La migliore offerta”. Il culto di un’arte irrangiungibile di MATTIA ZAPPILE

«And you run, and you run to catch up with the sun, but it’s sinking. Racing around to come up behind you again». Così cantavano i Pink Floyd cercando di dar voce al lato oscuro della luna. Il tempo come eterno ciclo ripetitivo all’inseguimento di un sole troppo lontano per essere raggiunto. Il mito di Sisifo nella sua folle, inutile scalata. A Oscar ormai decretati facciamo un passo indietro con La migliore offerta, il film in cui Giuseppe Tornatore tira le fila di un lungo percorso cinematografico fatto di frammenti e lampi di genio mai lineari, pennellando un affresco sulla disperazione umana e sul ruolo dell’arte.

guiamo, come bellezza senza imperfezione, come viso di donna dipinto, rimane confinata dietro un muro oltre il quale non possiamo andare. Il culto del simbolo artistico, e al più l’illusione che esso diventi carne così da poter essere posseduto, quantomeno toccato, sono le uniche tracce sublimate, ombre sul muro della caverna, di un oggetto senza corpo la cui ricerca ci porterà alla follia.

La migliore offerta Regia Giuseppe Tornatore Sceneggiatura Giuseppe Tornatore Distribuzione (Italia): Warner Bros. Pictures Italia Info: lamiglioreoffertailfilm.it

Virgil Oldman (Geoffrey Rush), un rinomato collezionista e battitore d’aste, vive in un tempio di solitudine nel quale il mondo è scomparso e la libido si è cancrizzata nel culto dell’oggetto artistico. Significativamente incapace di avere un contatto fisico con i corpi a lui estranei, Oldman viene ingaggiato per la vendita di un patrimonio da una misteriosa donna affetta da agorafobia. Per questo miraggio femminile che egli non può vedere né toccare, egli sviluppa una ossessione carica di angosce, un amore perverso perché slegato, al pari degli antichi ritratti femminili che colleziona in segreto, da ogni contatto con la materia di cui è fatta la realtà. Il neo-classicismo manierista con cui Tornatore esplora lo spazio e ci racconta la storia di questo incontro recitato e mai vissuto, ci rinfaccia con spudorata eleganza quanto ogni parola, ogni gesto, ogni istante siano parte di una grande rappresentazione con le sue regole e maschere. L’insanabile frattura tra il formalismo dell’artefatto, che l’artistademiurgo può dominare, è il fango della praxis nel quale l’uomo è dominato dalle sue stesse paure è la cifra interpretativa di questo thriller cerebrale, forse eccessivamente metaforico. I marchingegni automatici ritrovati dal protagonista nella casa di lei fanno da feticcio oggettuale di un discorso sull’esistenza in cui la menzogna e insieme il luccichio affascinante e ipnotico del cinema, dell’arte e dello spettacolo sociale che è la vita, si intrecciano in un gioco di similitudini. Quella luce che inse-

La migliore offerta, un film di Giuseppe Tornatore, 2012, distribuzione Warner Bros Italia. © 2012 Warner Bros. Pictures. 63


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