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Simone Ferrarini, Jim Morrison, 2012, acrilico su carta, performance pittorica
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Nicola Verlato, Car crash #10, particolare, 2013, olio su tela, cm 91x61. Courtesy: Galleria Giovanni Bonelli, Milano | BonelliLAB, Canneto sull’Oglio (MN)
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ESPOARTE Registrazione del Tribunale di Savona n. 517 del 15 febbraio 2001 Espoarte è un periodico di arte e cultura contemporanea edito dall’Associazione Culturale Arteam. © Proprietà letteraria riservata. È vietata la riproduzione, anche parziale, di testi pubblicati senza l’autorizzazione scritta della Direzione e dell’Editore. Corrispondenza, comunicati, cartelle stampa, cataloghi e quanto utile alla redazione per la pubblicazione di articoli vanno inviati all’indirizzo di redazione. Le opinioni degli autori impegnano soltanto la loro responsabilità e non rispecchiano necessariamente quelle della direzione della rivista. Tutti i materiali inviati, compresi manoscritti e fotografie, anche se non pubblicati, non verranno restituiti.
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Direttore Editoriale Livia Savorelli Publisher Diego Santamaria Direttore Web Matteo Galbiati Segreteria di Redazione Francesca Di Giorgio Direttore Responsabile Silvia Campese Redazione via Traversa dei Ceramisti 8/b 17012 Albissola Marina (SV) Tel. +39 019 4004123 redazione@espoarte.net Art Director Elena Borneto Redazione grafica – Traffico pubblicità villaggiodellacomunicazione® traffico@villcom.net
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MAR Museo d’Arte della città di Ravenna Elio Marchegiani Ana Mendieta Museo Marca Open Space centro per l’arte contemporanea PAC Padiglione d’Arte Contemporanea Roberto Paci Dalò Nam June Paik Palazzo Grassi (P)arerga & (P)aralipomena della (P)ittura Vettor Pisani Pittura analitica Arnaldo Pomodoro Sbobina|Design Beatrice Scaccia Julian Schnabel Serre dei Giardini di Castello Rudolf Stingel Studio Gariboldi Studio Vigato La Triennale di Milano Valmore studio d’arte Nicola Verlato Claudio Verna Jeff Wall Alberto Zanchetta William Marc Zanghi Gianfranco Zappettini Fernando Zucchi
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Hanno collaborato a questo numero: Ginevra Bria, Lara Caccia, Maria Chiara Cardini, Francesca Di Giorgio, Laura Francesca Di Trapani, Jack Fisher, Matteo Galbiati, Roberto Lacarbonara, Kevin McManus, Simone Rebora, Gabriele Salvaterra, Chiara Serri, Viviana Siviero, Daniela Trincia, Alice Zannoni, Igor Zanti, Mattia Zappile
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Interviste
Leggi su espoarte.net http://www.espoarte.net/arte/tutte-le-parentesi-della-pittura-p-a-canneto-sull%E2%80%99oglio/
Tutte le parentesi della pittura. (P) a Canneto sull’Oglio CANNETO SULL’OGLIO (MN) | BonelliLAB | 13 aprile – 22 giugno 2013 Intervista ad ALBERTO ZANCHETTA di Kevin McManus
(P)arerga & (P)aralipomena della (P)ittura, veduta della mostra, BonelliLAB, Canneto sull’Oglio (MN)
Siamo sempre più abituati, anche a causa dell’ormai dilagante sindrome da “televendita”, a mostre che sembrano voler vendere gli artisti esposti, presentandoli dall’interno, quasi come miracoli unici e irripetibili nell’altrimenti monotono orizzonte della storia dell’arte. Perfino le logiche delle “grandi mostre”, legate come sono a quelle del prodotto, degli indici di gradimento e del fatturato, si sono ormai adeguate a questa antifona, fatte salve alcune meritevoli eccezioni. Fa quindi piacere visitare una mostra che, pur dedicando ampio e articolato spazio a una forma d’arte sempre passibile di banalizzazione commerciale come la pittura figurativa, la legge con uno sguardo esterno, cercando di decostruirne le logiche ma, soprattutto, di metter in evidenza i modi con cui la pittura stessa si decostruisce e ricostruisce, giocando (seriamente) con i propri paradossi.
È il caso della mostra (P): (P)arerga & (P)aralipomena della (P)ittura, in corso da BonelliLAB a Canneto sull’Oglio. Ne parliamo con il curatore Alberto Zanchetta. Può dare una concisa presentazione dell’idea di fondo che anima la mostra e di come questa idea ha influenzato le sue scelte curatoriali?
(P) è stata concepita come un’epitome. Si è cercato di aprire e chiudere un discorso – ecco il motivo delle parentesi tonde del titolo – intorno alla pittura con la P maiuscola. Potremmo altresì concepirlo come il tentativo di (P)ensare la (P)ittura al (P)resente, vale a dire con un atteggiamento compilatorio, classificatorio e compulsivo. Anziché organizzare una mostra di pittura, ho voluto curare una mostra sulla pittura, e intorno a essa. I parerga e i paralipomena cui allude il sottotitolo 4
offrono uno scambio proficuo e prolifico tra le opere e tutta una serie di oggetti, reperti e documenti che servono a implementare e/o contestualizzare le aree tematiche della mostra. A ben vedere si tratta di sei mostre in una, ciascuna delle quali mette a fuoco alcune problematiche connesse alla pittura: dall’ambiguità all’ambivalenza, dalla reiterazione (dell’immagine) alla contraffazione (del linguaggio), dalla crisi alla critica della pittura, dal prototipo del museo all’inganno del mausoleo, eccetera eccetera. Tra gli aspetti più salienti c’è sicuramente l’assunto secondo cui la pittura non la si fa solo con la pittura. In mostra sono presenti molti media differenti, e fin dall’inizio è testimoniata l’importanza delle grandi posizioni critiche del ‘900. Fino a che punto è stata sua intenzione apportare una riflessione sulla pittura, e
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fino a che punto si tratta di una riflessione sull’immagine e sull’immaginario? La pittura figurativa è oggi un veicolo dell’immaginario o crede che possa mantenere una propria specificità linguistica?
Molti degli artisti invitati scontano l’appellativo di pittori figurativi, tuttavia: sono fermamente convinto che non esista una pittura figurativa in strictu sensu perché tutta l’arte è sempre stata tras-figurativa. L’immagine non è altro che un infingimento a[da]tto a indagare il medium artistico. Esiste infatti uno scambio vicendevole tra il piano immaginifico e quello materiale, ed è proprio in questo interstizio che si palesano le aderenze, le confluenze e i dissolvimenti cui si sottopone la pittura – sin dalle sue origini. La seconda sezione è dedicata al “tradimento”. C’è l’impressione che la pittura dall’inizio dell’era postmoderna a oggi tenda soprattutto a riflettere su questo tradimento, piuttosto che a cercare una via di redenzione. È d’accordo?
Premesso che “tradizione” e “tradimento” condividono la stessa etimologia, è evidente che l’intera storia della pittura si è evoluta assecondando questo atteggiamento bipolare. La mostra intende però focalizzare l’attenzione anche sul tradimento della parola scritta (dai/dei critici), la quale non spiega né documenta ma finisce inevitabilmente per interpretare la pittura. La necessità di esprimere l’inesprimibile ha fatto sì che l’ars picta diventasse un “argomento”, mentre sarebbe da considerarsi una prova ontologica che non abbisogna di alcun commento. Detto ciò, la pittura mette in scena un’infedeltà rispetto a un passato pesante e pressante, cerca di sfuggire alla retorica della tradizione per non irrigidire e isterilire la propria disciplina. Il tradimento non è altro che un tentativo di travisare in modo consapevole, è cioè una falsa trasmissione che si dà come traduzione – in una forma sempre nuova, sempre diversa, sempre attuale; anche quando la pittura sembra “già vista”, in realtà ci permette di “vedere meglio” qualcosa che diamo per scontato. È sintomatico il fatto che la mostra assuma la figura di Giuda il delatore come uno strumento (alla stregua della tela, dei colori e dei pennelli) per perpetuare e perpetrare la pittura. Proprio come ogni artista, l’Iscariota è pronto al gesto d’amore
(P)arerga & (P)aralipomena della (P)ittura, veduta della mostra, BonelliLAB, Canneto sull’Oglio (MN)
Gabriele Arruzzo, Ritratto di un’idea (Melencolia), 2012, smalto e acrilico su tela, più cornice, cm 167x167. Courtesy: BonelliLAB, Canneto sull’Oglio (MN) 5
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più estremo: tradire, cioè rivelare e rivoluzionare. Le letture più influenti del postmodernismo si articolano attorno a due posizioni principali: quella dell’area Jameson/Baudrillard che critica la tendenza alla simulacralità, e quella che invece la interpreta come una forma feconda di ironia. In breve, la pittura conferma queste due possibilità?
La pittura, così come tutte le altre discipline artistiche, ammette un’infinità di possibilità che sono ancora da verificare. Rispetto al diktat di Jameson e Baudrillard vorrei puntualizzare che la pittura può sembrare simile ma giammai identica, a niente, neppure a se stessa. In merito all’ironia: il riferimento
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è ovviamente alla parodia dei codici, quindi a un di-vertimento che è di-versione, ovverosia un’im-pertinenza che vuole incrinare lo status-quo; non bisogna però dimenticare che la Pittura, quella con l’iniziale maiuscola, è anzitutto un atto morale, e in quanto tale va presa molto sul serio. Il postmoderno, a suo parere, ha un futuro? O, come ha anticipato Bourriaud qualche anno fa, ne stiamo uscendo?
Effettivamente stiamo cercando una via di fuga. Fino a qualche anno addietro si è continuato a teorizzare il postmoderno, mentre adesso è giunto il momento di storicizzare quel periodo, in modo da lasciarcelo alle spalle. È comunque innegabile l’importanza
che il postmodernismo ha avuto sulla pittura, di contro all’incolore e opaco [dis]agio del Movimento Moderno, reazione che ha dato vita a un engagement che ancora oggi non possiamo provare né confutare appieno. (P)arerga & (P)aralipomena della (P)ittura a cura di Alberto Zanchetta BonelliLAB Via Cavour 29, Canneto sull’Oglio (MN) 13 aprile – 22 giugno 2013 Orari: lunedì – venerdì 9.30-12.30 e 14.3019.00; sabato 15.00-18.30 Info: +39 0376 723161 lab@bonelliarte.com www.bonelliarte.com
Visto in cover
Nicola Verlato, Car crash #10, 2013, olio su tela, cm 91x61. Courtesy: Galleria Giovanni Bonelli, Milano | BonelliLAB, Canneto sull’Oglio (MN)
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Nicola Verlato
Nicola Verlato, cover artist di questo numero digital, sarà protagonista anche della mostra From dusk till dawn, alla Galleria Giovanni Bonelli, prima personale italiana dell’artista dopo sei anni di assenza. Il progetto – che esplora il legame tra pittura e cultura popolare di massa – prende il nome dall’omonimo film di Robert Rodriguez e Quentin Tarantino. L’allestimento, ideato dall’artista appositamente per lo spazio, segue le regole della messa in scena cinematografica e organizza le opere secondo quattro momenti distinti: un prologo, un finale drammatico, un intermezzo e un nuovo inizio. Dal tramonto, all’alba, appunto.
NICOLA VERLATO sarà intervistato su ESPOARTE #81... COMING SOON!
NICOLA VERLATO FROM DUSK TILL DAWN 24 maggio - 14 luglio 2013 GALLERIA GIOVANNI BONELLI via Luigi Porro Lambertenghi, 6 Milano tel. 02 87246945 info@galleriagiovannibonelli.it www.galleriagiovannibonelli.it In alto: Nicola Verlato, Road to Nowhere, 2013, olio su tela, cm 149,9x243,9. Courtesy: Galleria Giovanni Bonelli, Milano
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Interviste
Leggi su espoarte.net http://www.espoarte.net/arte/ferrarini-e-manai-da-studio-vigato-due-emiliani-dal-segno-veloce/
Ferrarini e Manai da Studio Vigato. Due emiliani dal segno veloce ALESSANDRIA | Studio Vigato | 18 maggio – 20 luglio 2013 Intervista a SIMONE FERRARINI di Viviana Siviero Un giovane artista (Simone Ferrarini) che si dice “non arrivato” e quindi libero di pensare al proprio processo creativo; un artista ormai storicizzato (Piero Manai), che ha lasciato questa dimensione terrena con un’eredità forte che passa dal segno ma parla più di una qualunque semplice figura. Due passioni a confronto, due sentimenti avvicinati per esaltarsi reciprocamente e regalare allo spettatore molto più che una riflessione dovuta alla stessa rapidità d’esecuzione o all’origine culturale, che restano comunque i punti di partenza. Paesaggi, figure, volti, pittura pura senza discorsi né orpelli: una mostra intelligente e azzeccata che va sen’altro vista, soprattutto per capire le
complessità e bisogni dell’oggi in relazione al passato, che a ben guardare non è poi così lontano quando è l’anima pura delle cose a stabilire le regole. “Verniciatore seriale” vs “pittore vero”: questa è una tua affermazione relativa all’accostamento che la Galleria Studio Vigato ha pensato di proporre fra i tuoi lavori e quelli di Piero Manai. Puoi darci la tua definizione di artista in questa epoca di crisi in relazione alle tue affermazioni riguardo te stesso (e Manai)? Il verniciatore seriale è colui che dipinge per istinto, per puro sfogo passionale; non ha ricerca né obiettivi, vernicia e basta. Il pittore ha una
Simone Ferrarini, Paesaggio, 2010, cm 200x250 8
ricerca, una sperimentazione, dei riferimenti e spesso anche dei progetti. Non saprei definire l’artista vero, ma so di che tipo d’artista c’è bisogno in questo periodo: qualcuno che riesca a dare concretamente qualcosa alla gente comune, c’è bisogno di creatività, di vitalità, di idee nuove, oggi più che mai. E gli artisti veri possono avere questo ruolo. Ci vorrebbe un Pier Paolo Pasolini dell’arte visiva contemporanea. Vi faccio un nome: Giovanni Gaggia e Casa Sponge, un’artista che riesce a mantenere la purezza del suo progetto senza adattarsi al gusto comune e nello stesso tempo interagire con molte persone, anche lontane dall’arte, influenzandole… Ci parli di Piero Manai e della scelta di Galle-
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ria Studio Vigato di accostare i tuoi lavori ai suoi? Che tipo di dialogo ne viene fuori? Ci sono artisti che mi piacciono, altri che mi appassionano e altri ancora che mi danno buoni consigli. Questi ultimi sono per me i più importanti; sono pochi e tra questi c’è anche Manai. Osservando e ri-osservando il suo lavoro ho ricevuto da lui il consiglio che la pittura non serve per fare la figura, ma la figura serve a fare la pittura. Il dialogo che viene fuori dalla mostra? Beh probabilmente Manai mi direbbe “Ferarein, fer mia seimper il ciocapiat… fe meno roba deinter chi queder lè” . Vigato ha trovato alcuni punti in comune, come la velocità di esecuzione, il segno veloce e forse anche la provenienza emiliana. Che mostra sarà? Cosa vedremo? Detto banalmente sarà una mostra di pittura attraverso paesaggi, figure e volti. Non ci saranno grandi show o discorsi sui massimi sistemi, ma semplicemente pittura. Sarà come andare in un club dove i musicisti fanno la propria musica con passione senza aggiungere altro. Progetti per il futuro? Cosa ti interessa davvero e cosa stai facendo? In dieci anni di progetto di formazione ho sempre detto che la riuscita non è nel risultato finale ma nello sfruttamento del processo pittorico: dipingere è un momento di vita bellissimo, che sviluppa un sacco di cose, dalla creatività, alla capacità di osservazione, fino alla libertà di arrabbiarsi. L’ho insegnato per anni ma lo applicavo raramente nella mia vita perché dovevo “fare il pittore”. Ora che sono un “pittore non arrivato” ho potuto finalmente liberarmi del risultato finale e godermi il processo pittorico. Il progetto per il futuro è disegnare. Cosa sto facendo? Disegno. Cosa mi interessa? Disegnare. Ferrarini e Manai nelle parole di Marisa Vescovo: Questa mostra dedicata al giovane Simone Ferrarini e all’indimenticato Piero Manai, entrambi emiliani, trova una sua ragione di essere nella “malattia” romantico-espressionista, nella forte trasgressione immaginativa , che è comune a tutti e due gli artisti, che mai hanno sentito l’esigenza di impedire la “divina libertà dell’arte”, o di trasformarla in forme formalmente anguste e classiche. Se pensiamo al lavoro di Piero Manai, ci sovvengono subito le sue mani sporche di colore, che cercano di sfiorare i tasti dell’infinito, per superare i propri limiti, la sua psiche protetta, ma non troppo, dalle ali della malinconia e del disagio di vivere. La sua mente ribollente era nutrita dai fantasmi di un dolore e di una rabbia diretta verso la pigra borghesia della sua città, ma non solo, che non davano, negli anni Settanta-Ottanta, troppo ascolto alla parola dell’arte. [...] Simone Ferrarini propone in questa occasione –
Dall’alto: Piero Manai, 1982, cm 100x100 | Simone Ferrarini, 2009, pittura su carta da pacchi, cm 300x150
oltre ai suoi noti volti sconvolti e urlanti la fatica di essere – anche dei paesaggi caratterizzati da un colore cupo, oppure squillante e sulfureo, che cercano di esprimere l’inquietudine, la vertigine, il terrore dell’uomo moderno innanzi a una natura profondamente ostile, vista con deformazioni convulse, come hanno fatto i romantici (dai quali è nato l’Espressionismo), con alta e intensa melanconia. [...]. Egli sfronda il suo lavoro di tutte le connessioni arbitrarie che lo legano alla quotidianità, mettendo in moto un processo di dissoluzione dei legami, che stringono insieme uomini e cose, facendo apparire sulla tela, o sulla carta, un paesaggio di colline, case, alberi, che ci parlano di una perdita di armonia, di pace, una
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perdita che non ci allontana dal fantasma di un possibile autogenocidio per mano della natura.
Simone Ferrarini | Pietro Manai. L’urlo dell’anima 18 maggio – 20 luglio 2013 Inaugurazione sabato 18 maggio Studio Vigato Via Ghilini 30, Alessandria Info: www.studiovigato.com info@studiovigato.com
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Interviste
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Fernando Zucchi. L’arte vien giocando VITULANO (BN) | GiaMaArt studio | 20 aprile – 31 luglio 2013 Intervista a FERNANDO ZUCCHI di Igor Zanti
Fernando Zucchi, Il sogno di una vita 4, 2013, cm 45x60
Area di Gioco, la mostra personale di Fernando Zucchi ospitata da GiaMaArt studio, è piuttosto insolita: il tema centrale, infatti, come si deduce dal titolo, è lo sport, attività che l’artista pratica con costanza e passione. Espoarte lo ha incontrato per rivolgergli qualche domanda. Caro Fernando come mai la tua mostra da GiaMaArt studio si intitola Area di Gioco? Il titolo Area di gioco nasce da un intuizione mia e di Alessandro Trabucco. Siamo arrivati a questo risultato passando attraverso una serie di sciarade e di giochi di parole… Il titolo indica un’estensione circoscritta entro il quale si svolge un quotidiano esercizio fisico o mentale e in occasione della mostra da GiaMaArt, si sovrappone con lo spazio espositivo. L’area di gioco è anche, al tempo stesso, un luogo di incontro in cui, metaforicamente, si possono condividere idee e punti di vista. Come mai hai deciso di dedicare la mostra allo sport, un tema piuttosto insolito per l’arte contemporanea? L’attività sportiva equivale al benessere, prendere in considerazione una tematica del genere
può solo aiutarci a vivere bene. Lo sport, inoltre, è anche sinonimo di determinazione. Sono uno sportivo, ho praticato diversi sport a livello agonistico. L’arte e lo sport hanno molti punti in comune, come la grande voglia di mettersi alla prova, di superare i propri limiti e poi, ancora, la passione e l’ interesse, tutte qualità necessarie a svolgere attività mentali e fisiche. Devo confessare che una bella spinta l’ho avuta dal gallerista Gianfranco Matarazzo. Ricordo ancora quando gli parlai della mia idea. Gianfranco, all’epoca, era il presidente del Vitulano Calcio e restò sorpreso ed incuriosito dal mio progetto. Già da quel momento comprendemmo di poter realizzare qualcosa insieme basato su interessi comuni. In questi nuovi lavori si nota un il dualismo semantico accentuato dall’introduzione di un elemento di sapore quasi scultoreo. Come è nata questa nuova serie? Mi piace quando si parla di sapore scultoreo, mi ricorda la sperimentazione che facevo assiduamente ai tempi dell’Accademia. In questi anni non mi sono mai fermato nella ricerca ed ho sempre tentato di trovare nuove soluzioni che mi appagassero da un punto di vista estetico e
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formale. In principio il mio lavoro era molto calibrato, bidimensionale e, per qualche addetto ai lavori, forse, ancora poco graffiante, ma di fatto aveva già in nuce tutti gli elementi portanti della mia attuale ricerca. Ultimamente, dopo una attenta analisi e un costante lavoro di squadra con Italo Bergantini della galleria Romberg, ho attuato dei drastici cambiamenti. Dopo aver dipinto lo sfondo, disegno e dipingo le figure sagomate, successivamente dispongo gli oggetti fino ad arrivare alla sagoma. La sagoma viene disegnata su di una tavoletta di betulla e poi lavorata con il traforo; una volta fissata mi permette di avere una realtà prospettica. L’occhio acquista profondità e il gioco mentale assume tridimensionalità. Anche nella metodologia del mio lavoro si ritorna inevitabilmente al gioco. Qual è il tuo metodo di lavoro? Parto, ovviamente, da un idea! Successivamente studio lo spazio espositivo e poi passo alla ricerca di testi e delle immagini. Spesso le foto le trovo su internet ma capita anche di dover fare degli scatti o dei disegni preparatori. Nel caso della mostra Area di gioco ho girato molto per palestre, campi, centri di benessere, piscine e stadi, per vedere le performance e per riuscire a portare via dai singoli atleti ogni minimo dettaglio. Mi sono soffermato in più occasioni a parlare con sportivi, per capire in modo approfondito quali fossero le motivazioni principali che li portassero in modo costante alla disciplina. Dopo un’attenta analisi posso dire che le più importanti motivazioni che ho riscontrato, e che mi hanno suscitato interesse per il progetto, sono lo spirito di competizione, la voglia di divertimento e la ricerca del benessere.
Fernando Zucchi, Alto valore naturalistico 2, 2013, cm 70x90
Fernando Zucchi. Area di Gioco a cura di Alessandro Trabucco 20 aprile – 31 luglio 2013 GiaMaArt studio Via Iadonisi 32, Vitulano (BN) Orari: martedì/sabato dalle ore 16.00 e alle 20.00 e su appuntamento Info: +39 0824 878665 | +39 338 956582 info@giamaartstudio.it www.giamaartstudio.it
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Angelo Maisto e i misteri del “quarto regno” VITULANO (BN) | CASA TURESE arte contemporanea | 11 maggio – 30 giugno 2013 Intervista ad ANGELO MAISTO di Francesca Di Giorgio Analogie, la nuova mostra personale di Angelo Maisto (1977), inaugura il nuovo spazio espositivo di Casa Turese, in cui presente, passato e futuro convivono. Solo qualche mese fa dall’incontro con Tommaso De Maria nasceva un racconto su un attento progetto di recupero di un antico casale che tornava a nuova vita (http://www.espoarte. net/arte/casa-turese-un-patrimonio-familiaretorna-ad-essere-collettivo/). Ora, non è difficile immaginare quanto le Analogie del titolo si trasferiscano dalle opere al luogo, in termini di sintonia. Questo perché il prelievo che Maisto attua nel quotidiano è “senza tempo” anche se, come l’artista stesso precisa, la storia dell’arte c’entra (sempre) eccome! Una tua opera può scatenare molti riferimenti… Quali sono i tuoi rapporti con l’arte nel quotidiano? Se ti riferisci a Capra testa a carriola che ricorda la “Capra” di Picasso… beh certo, la storia dell’arte fa parte del patrimonio di un artista, io ho avuto la fortuna di trascorrere gran parte della mia infanzia vagando tra le sale del Museo di Capodimonte (grazie al lavoro di mio padre) tra le nature morte del ’600 e i quadri di Caravaggio, pensando che fossero opera di un mago. Ancora oggi mi sorprendo a guardare una mela dal punto di vista di linea, luce e colore. Quello tra gli acquarelli su carta e i personaggi-sculture è un “confronto enciclopedico”. In che modo stabilisci i termini di questo dialogo? Fin da bambino ho sempre pensato al mondo degli oggetti come ad una sorta di “quarto re-
gno” da affiancare al regno animale, vegetale e minerale. Le mie passioni, l’etologia, l’entomologia, la botanica e l’ammirazione per il mondo di Bosch, hanno segnato la mia immaginazione. Assorbite e digerite questa passioni ho cominciato a creare il mio “quarto regno” che, grazie alla potenza evocatrice dell’analogia, mi dà la possibilità di mostrare la mia visione del mondo. Vista la natura delle tue opere si può immaginare Angelo Maisto circondato da una quantità varia ed innumerevole di cose e materiali. Provi a descriverci il tuo studio? Il mio studio è diviso in quelli che io chiamo “angolo del bricoleur”, dove spaiati su un grande tavolo ci sono innumerevoli oggetti che poi trasformo in sculture e bacheche, e il tavolo “dell’entomologo” , dove realizzo, con precisione maniacale, le mie tavole ad acquerello. Per la prossima Biennale di Venezia Massimiliano Gioni ha recuperato un incompiuto enciclopedico-utopico e mi ha fatto pensare se, anche in te, in qualche modo, vive il pensiero di sintetizzare e contenere tutta la ricchezza e la varietà del mondo… Mi rivedo nell’idea di Gioni riguardo il sogno di costruire un’immagine del mondo (tramite il lavoro degli artisti) capace di sintetizzarne la molteplice ricchezza. Per me recuperare oggetti quindi “memorie” significa riordinare il mondo attuando la Diakosmesis, così da restituire senso e bellezza a noi e al mondo. L’idea che tutto il conosciuto possa essere se stesso e, allo stesso tempo, anche altro
Angelo Maisto, Analogie, veduta panoramica della mostra a Casa Turese 12
Angelo Maisto, Capra testa a carriola (scultura)
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tende verso l’infinito… Esiste questa tensione nel tuo lavoro? Questo concetto mi affascina. La vera fonte del mistero, per me, sono le “Cose” e l’indagarne il senso nascosto. La mia ricerca, in fondo, ha come come fine il “santificare” le cose semplici, gli oggetti, perché sono questi che parleranno di noi e della nostra storia. Angelo Maisto. Analogie a cura di Massimo Bignardi 11 maggio – 30 giugno 2013 Inaugurazione sabato 11 maggio, ore 19.00 CASA TURESE arte contemporanea Via Fuschi di Sopra 64, 87, 89, Vitulano (BN) Orari: da martedì a sabato dalle ore 15.00 alle ore 20.00 (anche su appuntamento) Info: +39 0824 874650 | +39 333 3443684 info@casaturese.it www.casaturese.it
Dall’alto: Angelo Maisto, Capra testa a carriola (capra cabillocephala), acqurello su carta Angelo Maisto, Vedetta - coracophylax florens, acquarello 13
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Interviste
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Arte per le macchine. Una personale di Igor Eškinja ROVERETO | Paolo Maria Deanesi Gallery | 12 aprile – 2 giugno 2013 Intervista a IGOR EŠKNJA di Gabriele Salvaterra Alla Paolo Maria Deanesi Gallery una nuova personale di Igor Eškinja (artista di copertina – Espoarte #58 aprile-maggio 2009, ndr), la seconda in questo spazio, con i lavori degli ultimi due anni. Soprattutto opere fotografiche e un’installazione che indagano le apparenze della realtà, impiegando i dispositivi tradizionalmente deputati alla rappresentazione oggettiva – la galleria, il fondale fotografico, la fotografia – per rivoltarli in macchine creatrici di illusioni. “Ottenere una discontinuità con elementi normalmente utilizzati per neutralizzare e unificare” così sintetizza il curatore Daniele Capra la scelta di Eškinja e le opere presenti. Ne abbiamo parlato con l’artista. Ho cominciato a conoscere le tue opere a partire dal tappeto di polvere presentato a Manifesta 7 nel 2008. Il tuo lavoro sembra
utilizzare inganni ottici o inversioni nei materiali per deludere la prima impressione: la realtà dell’immagine si riconosce solo dopo una prolungata osservazione. Sei interessato a un discorso percettivo? Più che al discorso della percezione sono interessato a quello della trasformazione. Mi interessa partire da una situazione e da materiali che quasi non percepiamo, come la polvere o i nastri adesivi, e trasformarli in qualche cosa di diverso attraverso l’immagine. Qui in mostra infatti la maggior parte delle opere sono immagini fotografiche, perché non hai voluto allestire l’oggetto direttamente nella galleria? Mi piace utilizzare l’anamorfosi perché crea oggetti fatti nella realtà ma che sono visibili soltanto attraverso la tecnologia, attraverso un unico
Igor Eškinja, veduta della mostra Infinity paper, Paolo Maria Deanesi Gallery, Rovereto (TN) 14
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punto di vista offerto dall’obiettivo fotografico. In questo modo si crea il paradosso di un’arte che non è fatta per gli uomini ma per le macchine. Per le macchine? Sì, se vai a un concerto o a una festa vedi un sacco di gente che invece di godersi lo spettacolo lo registra con il cellulare o la videocamera. Non dico che sia giusto o sbagliato, è un fatto. La gente oggi ha bisogno della registrazione e di un filtro tecnologico per rendersi conto di vivere qualcosa. Inoltre gran parte della nostra sensibilità si forma sui documenti come immagini, foto o cataloghi. Così cerco di creare immagini che siano subito documento e che escludano volutamente la nostra esperienza diretta. Cosa ti ha spinto ad interessarti alla carta seamless, utilizzata normalmente nei fondali fotografici? Mi interessa perché è un materiale che serve a togliere le cose dal contesto, allo stesso modo del white cube nel quale la carta è stata allestita. Sono entrambi elementi quasi invisibili che servono a fare risaltare qualcos’altro. La carta è un non-oggetto, un elemento secondario che qui diventa protagonista.
Igor Eškinja, veduta della mostra Infinity paper, Paolo Maria Deanesi Gallery, Rovereto (TN) 15
Così le dai un carattere? Sì, diventa qualcos’altro attraverso un processo di illusione e ribaltamento, è un materiale che rappresenta un non-spazio e in questo modo raddoppia le condizioni della galleria, anch’essa luogo asettico. Quindi anche la fotografia, con la sua oggettività, partecipa a questo ribaltamento: un medium tra i più trasparenti utilizzati per creare un’illusione? Proprio così! Igor Eškinja. Infinity paper a cura di Daniele Capra 12 aprile – 2 giugno 2013 Paolo Maria Deanesi Gallery Via San Giovanni Bosco 9, Rovereto (TN) Orari: giovedì, venerdì e sabato: 16.00 – 20.00 altri giorni su appuntamento Info: +39 0464 439834 gallery@paolomariadeanesi.it www.paolomariadeanesi.it
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Interviste
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Sculture dalla “scrittura sconcertante”. Riapre a Milano la Fondazione Pomodoro MILANO | Fondazione Arnaldo Pomodoro | 10 aprile – 30 giugno 2013 Intervista ad ARNALDO POMODORO di Matteo Galbiati Dopo la discussa chiusura della grande sede in via Solari – che tanto ha rammaricato pubblico e addetti ai lavori che vi hanno sempre trovato grandi mostre oltre che a un ricco calendario di varie e diversificate attività – torna a Milano la Fondazione Arnaldo Pomodoro, che riprende le sue proposte ripartendo dalla nuova sede di via Vigevano, nella dinamica e vitale zona dei Navigli, luogo carico di significati per il maestro Pomodoro che qui ha da sempre avuto il proprio studio milanese. La prima mostra – in apertura il prossimo aprile – è proprio dedicata ad Arnaldo Pomodoro di cui viene riletta la prima fase di ricerca e lavoro. In occasione della ripresa delle attività abbiamo posto al Maestro alcune domande. La Fondazione riapre in un luogo simbolo per lei: è vicino al suo studio, un ambiente che le è particolarmente caro. Cosa significa per lei, che con una tenace volontà ha voluto promuovere l’arte attuale, poter ripartire con le attività espositive della Fondazione? La Fondazione ha chiuso la sede espositiva di Via Solari, ma ha continuato la sua attività di studio e archivio in Vicolo dei Lavandai 2/A. Ora dispone di un contiguo luogo espositivo,
dove si esporranno le collezioni e si terranno mostre diverse. Qui lei concepisce e fa nascere le sue opere, ma la Fondazione promuove anche un percorso di studio e ricerca, diventando ancora più un polo di attrazione e di confronto. A che pubblico si rivolge? Pensa possa essere diverso rispetto all’esperienza precedente? La Fondazione si rivolge a tutti coloro che amano l’arte e la cultura. In prospettiva ingloberà il mio studio e diventerà una sorta di studiomuseo, cioè un luogo di conoscenza e di elaborazione che parli del mio lavoro, ma che riguardi anche, nel suo complesso, la pratica della scultura e dell’arte. Si prosegue nel segno della continuità oppure è l’inizio di qualcosa di nuovo? Cosa cambia in questo spazio? Gli scopi della Fondazione, nata nel 1995 con sede in Vicolo dei Lavandai, sono sempre gli stessi mentre nel tempo sono cambiate le sedi espositive: prima a Rozzano, alla periferia di Milano, in un padiglione industriale di circa 1200 metri quadri ristrutturato e riorganizzato da Pierluigi Cerri, poi in Via Solari dove il gran-
Fondazione Arnaldo Pomodoro, Milano - veduta della serara di inaugurazione, martedì 9 aprile 2013 16
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Fondazione Arnaldo Pomodoro, Milano - veduta della serara di inaugurazione, martedì 9 aprile 2013
de spazio, magistralmente ristrutturato da Cerri e da Alessandro Colombo, ha permesso di fare delle grandi mostre temporanee e diverse attività culturali. Negli anni sono andate maturando le condizioni per la scelta che considero definitiva: destinare gli spazi del mio studio a sede delle attività scientifiche ed espositive della Fondazione. Da qui è nata la terza fase che stiamo affrontando e che si proietta nel futuro. Quali sono i contenuti particolari di questa prima mostra, curata da Flaminio Gualdoni, che la vede protagonista? Quali principi hanno governato le scelte delle opere? Nel corso degli anni sono riuscito a riavere molti dei miei primi lavori, fino a formare un gruppo significativo di opere che ora ho deciso di esporre per documentare l’inizio del mio percorso artistico. «L’influenza intellettuale di Klee – scrive Flaminio Gualdoni – si avverte nel passo lirico e nella filigrana naturale tipici di Pomodoro di quel tempo, esplicitati da titoli in cui si dice di ‘orizzonte’, ‘situazione vegetale’, ‘estensione vegetale’, ‘paesaggio’. È, questo, il percorso che lo conduce alla consapevolezza del segno astratto come cellula plastica, caratteristico di tutta la sua straordinaria vicenda successiva». Cos’è la scrittura sconcertante cui allude il titolo? Si riferisce al testo di presentazione della mostra a Roma, alla Galleria dell’Obelisco del 1955, nel quale Leonardo Sinisgalli così scriveva: «È questa una scrittura sconcertante, che sentiamo densa di un fascino nuovo, quasi magnetico. Spieghiamoci. Questi lavori, come i piombi fioriti nell’acqua bollente, come le calamite, come i ferri di cavallo, hanno un potere cieco, una carica che deriva dalla loro materia, e dalla loro forma proprio come uno scongiuro, un abracadabra o, in campi più perigliosi,
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l’anello di Pacinotti, la ‘gabbia di scoiattolo’ di Galileo Ferraris. È veramente strano: ogni volta che ci tocca presentare artisti nuovi, ci accorgiamo che di necessità dobbiamo attingere ai ricordi, a una cultura, ai termini di un vocabolario più vasto del solito registro critico». Per il 2013 prevedete due mostre: la prima, come detto, dedicata alla fase iniziale del suo lavoro e una seconda dedicata a Baj. Quali saranno gli orientamenti futuri delle scelte? Pensate ancora di porre anche attenzione sulle ricerche della nuova generazione di artisti? Certamente, è uno degli scopi della Fondazione quello di sostenere la ricerca a 360° gradi delle giovani generazioni, aprendo lo spazio non solo per eventi espositivi, ma anche per iniziative diverse nei campi delle varie discipline artistiche e culturali. Cosa si augura per il nuovo futuro della Fondazione? Quali obiettivi si prefigge? Che possa proseguire a lungo in questa direzione. Una scrittura sconcertante. Arnaldo Pomodoro. Opere 1954-1960 a cura di Flaminio Gualdoni 10 aprile – 30 giugno 2013 Fondazione Arnaldo Pomodoro Vicolo Lavandai 2/A (ingresso da Via Vigevano 9), Milano Orari: da mercoledì a venerdì 16.00-19.00 Ingresso libero Info: +39 02 89075394 info@fondazionearnaldopomodoro.it www.fondazionearnaldopomodoro.it
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Interviste
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Beatrice Scaccia un’artista italiana nello studio di Jeff Koons Intervista a BEATRICE SCACCIA di Daniela Trincia Giunta a New York già da “due anni e due mesi”, Beatrice Scaccia si è lentamente introdotta nelle maglie della quotidianità della Grande Mela che mantiene intatto il suo simbolico fascino di novità e di libertà, nonostante il fiorire di nuovi ed energici centri attrattori. Nata a Frosinone nel 1978, è con l’assegnazione nel 2009 di uno studio per tre mesi nel Lower East Side Printshop di Manhattan che Scaccia ha i primi contatti con New York. Conoscenze che la sproneranno a presentarsi successivamente alle porte di uno tra i più famosi studi, quello di Jeff Koons che, in seguito a scambi
di mail e colloqui, la chiamerà nel 2011 appena un posto diventa vacante. Dall’iniziale esordio con lavori di incisione, gradualmente l’attenzione di Scaccia si è spostata verso altre tecniche, anche più articolate, come l’animazione. Dopo la mostra, Perfect Stage, negli spazi di Bosi Contemporary, a febbraio 2013 , nei suoi programmi futuri ci sono una residenza di due mesi nella Residency Unlimited e una personale nella 41artecontemporarea di Torino. Ma è la stessa Beatrice Scaccia a raccontare la sua avventura…
Sono più di due anni che sei a New York, anche se all’inizio eri piuttosto titubante… Sì, all’inizio non mi andava molto, però poi ha vinto la curiosità per un luogo che permette il confronto con persone provenienti da tutto il mondo. E, grazie al lavoro, ho conosciuto genti di altre culture che non mi hanno mai fatto rimpiangere la mia scelta. Come si svolge la tua “giornata tipo” nella Grande Mela? New York è una città molto difficile, richiede molto lavoro. La mia giornata comincia alle 5.30 del mattino, perché alle 7.00 devo essere presente allo studio. L’orario è flessibile ma io preferisco iniziare presto così, dopo le mie otto/ dieci ore di lavoro, mi rimane sufficiente tempo da dedicare ai miei progetti. Come sei approdata allo studio di Jeff Koons? Hai contatti diretti con lui? Durante un workshop, cui ho partecipato circa tre anni fa, ho conosciuto una persona che lavorava nello studio che mi ha consigliato di visitarlo. Così ho fatto. Ho ottenuto un colloquio col manager dello studio che ha visionato il mio portfolio giudicandolo positivamente. Ma, in quel momento, non avevano necessità di collaboratori. Quando però si è liberato un posto mi hanno chiamata. Non ho contatti diretti con Koons. Ogni giorno è presente ma, essendo lo studio organizzato come un’azienda, Koons ha il suo “ufficio” mentre noi collaboratori lavoriamo in altri ambienti. E da lui si apprende una profonda professionalità. Osservando i tuoi ultimi lavori per la personale The Perfect Stage nella Bosi Contemporary si nota l’introduzione del colore: è una novità “americana”? Più che novità è un ritorno. Perché prima dipingevo. Per trovare la mia strada, ho tolto tutto per dedicarmi solo al disegno per poi reinserire gradualmente il colore. Però solo il rosso fiammingo, quello che utilizzavo per le velature. La vera novità è aver iniziato a lavorare con l’animazione.
Beatrice Scaccia, Untitled No.4, The Perfect Stage, 2012, pencil, gesso, oil pastels, oil and wax on paper, inch 50x38 18
Con il movimento… Sì, perché penso che il mio percorso sia sempre più narrativo, per me richiede azione e, per questo, sto frequentando un corso di animazione alla School of Visual Art. Ciò spiega anche la presenza di una voce fuori campo che
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unisce voce e scrittura. E sto anche pensando alla realizzazione di pupazzi, che ammettono anche una certa libertà di azione, da utilizzare per queste animazioni. Quindi nulla è statico e nessun disegno è a sé ma parte di una storia. Inoltre sono sempre più interessata all’installazione che il video consente. Sono cioè interessata ai concetti di spazio e tempo. Con l’istallazione si crea uno spazio che avvolge lo spettatore e aiuta a dare un’idea di memoria, e quindi tempo. Ma di ogni soggetto è impossibile definirne la fisionomia… Non mi interessa la fisionomia perché è un personaggio di una storia più universale, e più non è dettagliato più è partecipe alla narrazione. È come un involucro. Altro elemento è il gioco. Nell’ultima mostra infatti il personaggio “saltava” su un letto, che è un’azione personale ma che chiunque da bambino ha compiuto. Così carico di vestiti, il protagonista appare piuttosto come uno gnomo curioso, che indaga se stesso, la propria sessualità… Sì, ancora non sa cosa fa. Questo perché mi piace giocare su livelli diversi, anche di signifi-
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cati. E il letto è anche il luogo che solitamente è associato alla sessualità. Ma è una sessualità che è nascosta dietro strati di vestiti… Perché non è importante conoscerla e perché mi piace anche quest’ambiguità. Mi capita infatti di pensare prima a come vestire il personaggio e poi all’azione che voglio fargli compiere. Perché tutto si ricollega alla mia ricerca sulla “maschera”: tutti siamo coperti sempre da qualche altra cosa, che sia ruolo sociale o abbigliamento ed è questa idea che poi diventa gioco. Perché, cosa vorresti scoprire? Difficile rispondere. Penso che si lavori sempre per risolvere dei problemi ma le risposte sono difficili. È complicato definire il profilo di una persona e spesso l’ambiguità ci porta a distruggere, a nascondere, a evadere, si indossano più vestiti per confondere ancora di più. E il gioco aiuta a perdere di vista la logica. Confrontandomi con altri artisti ho infatti notato che molti pensano troppo a cosa vogliono dire e a come esprimerlo, invece io faccio esattamente il contrario.
Veduta della mostra The Perfect Stage, Bosy Contemporary, New York 19
Disegni su materiali delicati come carta giapponese, come mai? Perché mi interessa usare cera d’api che consente di ottenere una doppia faccia dell’immagine, una sorta di riflesso che conserva una doppia identità, e questo tipo di carta lo permette. Info: Bosi Contemporary, New York www.bosicontemporary.com
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Interviste > Premi
MantegnaCercasi… Elisa Bertaglia vince tra tuffo e ascensione MANTOVA | MantegnaCercasi Intervista ad ELISA BERTAGLIA di Chiara Serri
PREMIO ORIENTALMENTE, Elisa Bertaglia, Alma Venus et Venatrix Diana, 2013, olio, carboncino e grafite su carta, cm 100x150
Corpi, radici sospese, serpi e animali fantastici nelle opere di Elisa Bertaglia, giovane artista di Rovigo che avevamo presentato sul numero #74 di Espoarte, poco dopo la sua prima personale. Da allora, tante mostre e menzioni, fino alla vittoria del premio MantegnaCercasi, ex aequo con Marco Pace (il Premio Camera di Commercio se lo è aggiudicato Elena Monzo, ndr). Su invito di Francesca Baboni e Stefano Taddei, ha realizzato una carta di grandi dimensioni, in cui il segno è traccia, l’uomo fuscello di fronte alla sublime grandezza della natura. Il concorso MantegnaCercasi si propone di “fare di Mantova la città del Rinascimento Contemporaneo”. Una grande responsabilità… MantegnaCercasi è stato una sorpresa: nel cuore della città rinascimentale un concorso dedicato ai giovani artisti. C’è bisogno di ini-
ziative come questa che diano voce alle nuove generazioni, a sostegno dell’arte e della cultura. Sono stata invitata da Francesca Baboni e Stefano Taddei, che hanno creduto fin dall’inizio nel mio lavoro. Devo a loro questo successo! La prima edizione di MantegnaCercasi s’intitola Orientalmente. A te e agli altri artisti invitati è stato chiesto di offrire una personale lettura della cultura cinese. Come ti sei approcciata al progetto? Ho cercato di individuare, all’interno della mia ricerca, alcuni aspetti assimilabili alla cultura orientale, come l’utilizzo della carta, la costruzione a-prospettica dell’ambiente e l’utilizzo del bianco, successivamente potenziati nell’opera in concorso. Siccome era previsto un periodo di esposizione nelle vetrine del centro, ho realizzato un lavoro di grandi dimensioni, che potesse essere letto anche da lontano.
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Nella motivazione della tua vittoria è dato grande risalto all’uso della carta, che da sempre caratterizza la tua ricerca. Un materiale, per anni relegato in secondo piano, oggi oggetto di rinnovato interesse. Come sei arrivata a fare della carta il tuo supporto d’elezione? Per me la carta è un materiale prezioso, che amo proprio per le sue caratteristiche intrinseche. Ho iniziato a lavorare principalmente su carta nel 2008 e nel 2009 il mio primo lavoro è stato selezionato per una collettiva alla Fondazione Bevilacqua La Masa. Da quel momento ne ho intuito le potenzialità espressive. La carta è un materiale vibrante, che risponde al meglio alle necessità del mio linguaggio, coniugando immediatezza gestuale e grande libertà nell’uso congiunto di diverse tecniche: olio, pastello, pennarello, carboncino…
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Da sinistra: Elisa Bertaglia, Alma Venus, 2012, tecnica mista su carta, cm 20,5x12,5 Elisa Bertaglia, Profunde, 2013, olio, carboncino e matita su carta, cm 29,5x20,5
L’opera selezionata appartiene alla serie Alma Venus et Venatrix Diana. Di cosa si tratta? Lavoro spesso per cicli di opere (Populus I-II-IIIIV, Alma Venus et Venatrix Diana, Profunde), ai quali raramente pongo la parola “fine”. Il titolo Alma Venus et Venatrix Diana risale al 2011, anno in cui ho realizzato la mia prima personale a Reggio Emilia. A partire dall’incipit del De Rerum Natura di Lucrezio, la serie analizza il tema della caccia, intesa come pulsione primordiale e istintiva dell’uomo nell’approcciarsi a ciò che lo circonda. L’opera in concorso è pienamente inserita in questo ciclo. Tre bambini avvolti da vipere sono sospesi nel vuoto, in bilico tra tuffo e ascensione, in un’ambientazione scenografica, spoglia e onirica, definita da tre imponenti massi verticali. Il mio lavoro si sviluppa attraverso un linguaggio simbolico: i bambini avvolti da vipere rappresentano il difficile passaggio dall’infanzia all’età adulta, la loro condizione di sospensione è metafora della crisi d’identità, propria della società contemporanea. I soggetti privilegiati delle tue opere? Il legame con la letteratura per me è molto importante, ma non si tratta d’illustrazione. I miei soggetti – bambini, radici sospese, lupi, animali fantastici, corvi e giovani donne – fanno riferimento ad un immaginario personale e collettivo, che attinge al mio vissuto, ma anche alla tradizione e alla memoria dei luoghi del Polesine. Nella rappresentazione, i soggetti sono sottoposti ad un processo di astrazione, divenendo emblemi di una nuova mitologia. A cosa stai lavorando in questo momento? C’è all’orizzonte una nuova serie?
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Ho appena ultimato un nuovo ciclo, Profunde, esposto in anteprima presso la Galleria Arte a Colori di Colle Val D’Elsa (SI). Al momento sto lavorando ad una nuova serie, ancora senza titolo, che verrà esposta nell’ambito della collettiva Luci Sorgenti, curata da Miriam Montani a Cascia Umbra (PG) dal prossimo 21 maggio. Altri progetti in cantiere? Oltre alla mostra in Umbria, ho in programma una personale alla Galleria MZ di Augsburg (Germania) ed una collettiva a Palazzo Principi di Correggio (RE), a cura di Francesca Baboni e Stefano Taddei. Le sorti dell’opera vincitrice del concorso MantegnaCercasi? L’opera sarà esposta, fino al 16 maggio, presso la Galleria Mossini di Mantova. Entrerà successivamente a fare parte della Pinacoteca della Camera di Commercio di Mantova. Per finire con il sorriso: che effetto fa essere paragonati al Mantegna? Stupendo… ma non ci si può prendere troppo su serio! Info: www.mantegnacercasi.it www.mantegnacercasi.it/elisa-bertaglia www.elisabertaglia.com Gallerie di riferimento: Galleria MZ, Augsburg, Germania RezArte Contemporanea, Reggio Emilia
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Interviste > Performing Arts
Roberto Paci Dalò sbarca a Venezia con la performance Ye Shanghai VENEZIA | Serre dei Giardini di Castello | 29 maggio 2013 Intervista a ROBERTO PACI DALÒ di Jack Fisher
Jack Fisher è allo start up di una nuova avventura. Il caso vuole che, come successe due anni fa con la rubrica che tenevo per ArteSera, il mio inizio sia con Roberto Paci Dalò. Mi ritrovo anche oggi a parlare di storia e di persone. Allora era Enklave Rimini, un’opera creata per il Teatro Galli chiuso (come teatro) dal 1944 dopo i bombardamenti alleati, che raccontava una storia sorprendente. Tra il 1945 e il 1947 la più grande città di lingua tedesca fuori dai confini della Germania è Rimini, sulla costa nord orientale italiana. 150.000 persone vivono in “Enklave Rimini”, il campo di prigionia controllato dall’esercito inglese che ospita ex soldati e ufficiali della Wehrmacht. Un campo molto particolare fatto di università, giornali quotidiani, orchestre sinfoniche e da ballo, club filatelici, gallerie d’arte, cinema, ospedali, tipografie, compagnie teatrali. Il primo laboratorio europeo di denazificazione.
in fuga dall’Europa prima e durante la seconda guerra mondiale, formando la più grande comunità ebraica in oriente. Una città nella città, estremamente eterotipa, dove ogni comunità yiddish ha riportato e ricostruito le proprie radici e la propria vita. Dal 1903 al 1949 più di cinquanta tra giornali e riviste ebraici sono uscite in inglese, russo, tedesco, francese, cinese, giapponese, polacco, ebraico e yiddish a Shanghai. Ye Shanghai nasce dalla scoperta di un fondo di immagini rimasto in giacenza per 90 anni e culmina in una performance dove questi materiali visivi, leggermente modificati e con l’aggiunta di suoni, mutano in una straordinaria opera contemporanea. La performance – proposta fino ad oggi a Shanghai, Bruxelles, Barcelona e Vienna – il 29 maggio, in occasione della 55. Biennale di Venezia, sarà visibile alle Serre dei Giardini di Castello. Ne parliamo con il protagonista….
Ora è Ye Shanghai un’altra storia sconosciuta a tanti: il ghetto della megalopoli cinese, un fazzoletto di terra che ha accolto 23.000 rifugiati
Cosa hai provato la prima volta che ti hanno mostrato queste immagini? Emozione profonda. Una macchina del tempo
dove all’improvviso sono riemerse dagli archivi del BFI a Londra immagini rimaste nascoste per quasi un secolo. Mi racconti la genesi dell’opera? Un invito da parte di Massimo Torrigiani (direttore di SH Contemporary, la fiera d’arte contemporanea di Shanghai) e Davide Quadrio (direttore e co-fondatore di Arthub Asia) mi ha portato a effettuare un primo viaggio a Shanghai nel maggio del 2012, per immaginare un progetto da presentarsi alla fiera stessa. Si trattava per me della prima volta in Cina. Durante il viaggio ho potuto fare sopralluoghi e un workshop all’università Fudan che mi hanno permesso di disegnare la forma del progetto. A questo è seguito un grosso lavoro negli archivi e con il team creato all’università per arrivare a costruire il plot narrativo dell’opera che poi è stata realizzata sul posto nel settembre scorso. I miei produttori (Davide Quadrio e Francesca Girelli di Arthub Asia) hanno creato le condizioni affinché si potesse realizzare l’opera e altri partner (Messagerie) hanno sostenuto economicamente il progetto. Si è poi voluto immaginare un lavoro sui formati per cui l’opera è distribuita sia come performance audio-video sia come film autonomo (che andrà in giro per festival) o installazione audio-video destinata a musei e gallerie. Hai lavorato a Shanghai con un gruppo di lavoro internazionale, composto in parte da studenti dell’Università, conoscevano questa parte di storia? No. Nessuno di loro aveva sentito parlare di questa vicenda. Insieme abbiamo visitato i luoghi dove hanno potuto inoltrarsi in un mondo a loro sconosciuto. Guardo il film, ascolto il sonoro, un tourbillon di sensazioni mi avvolge, è straniante vedere filmati storici dove uomini e donne di etnie diverse vivono Shanghai… Il vero straniamento è l’eterotopia. Nel cuore della Cina pre-rivoluzionaria, una comunità relativamente ampia che ha ricostruito una Germania ebraica fatta di architetture, negozi, lingue, giornali, attività commerciali di ogni tipo creati da sopravvissuti. La realtà supera spesso l’immaginazione.
Roberto Paci Dalò, Ye Shanghai 22
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Non saprei come definire tutto questo ma mi piace pensarlo come esempio da guardare nel nostro quotidiano quando nella cronaca emergono storie di migranti in fuga che cercano rifugio anche in Italia. Un paese che non è certo pronto a tutto questo e che ancora deve imparare le regole minime dell’accoglienza. Come arrivi ad una sintesi sonora di questo genere, dove musiche d’epoca si innestato con suoni dell’oggi? Buona parte del mio lavoro musicale e acustico gioca proprio con questa relazione tra tempi e luoghi. Lavorare in archivio, recuperando materiali dimenticati, permette la creazione di un database inusuale dove convivono tempi diversi. Nel lavoro ci sono ad esempio soundscapes degli anni ’30 e ’40 con le voci di venditori in strada. Relazionare queste voci con quelle della contemporaneità crea un corto circuito che mi interessa sempre più studiare e usare tatticamente. Roberto, quale è l’importanza di questa tua azione? Non posso certo parlare in prima persona dell’importanza di un mio progetto. Diciamo che si tratta di un contributo alla storia della Cina sopratutto in un periodo come questo di necessaria recuperata consapevolezza (per i cinesi) del proprio passato e della propria storia prima del 1949. Queste immagini, questi suoni, provengono da quell’era e chiaramente mostrano la bellezza di una cultura soffocata dagli eventi. Chi ti ha permesso di realizzare Ye Shanghai? L’opera è stata realizzata grazie al lavoro di un gruppo di partner: SH Contemporary (la fiera d’arte contemporanea di Shanghai diretta da Massimo Torrigiani), Arthub Asia (i produttori Davide Quadrio e Francesca Girelli), il mio gruppo Giardini Pensili, il brand Messagerie (quanto di meglio è prodotto in Italia nella moda per uomo), NOTCH Festival (il festival cinese dedicato a elettronica e performance). A questi si aggiunge la collaborazione decisiva di BFI British Film Institute di Londra e dei suoi tesori custoditi negli archivi, iTOPIA Shanghai, Home Movies (l’archivio nazionale del film di famiglia)
Roberto Paci Dalò, Ye Shanghai
e la camera ottica di Gorizia (laboratorio di restauro del film). Dopo Vienna, Shanghai, Bruxelles, Barcellona, cosa significa (se significato ne ha) per te portarla in Italia ed a Venezia durante la Biennale? C’è un particolare di estrema importanza in tutta la vicenda. I profughi che fuggivano alla violenza nazista si imbarcavano a Trieste su navi del Lloyd. Il nostro piccolo Adriatico era quindi la via di fuga verso l’estremo Oriente. Città, come Venezia e Rimini, sono luoghi che in fondo fanno parte di questa incredibile vicenda. Dopo una lunga preparazione con presentazioni in Asia e Europa arrivare finalmente in Italia – e in particolare proprio qui – è un passaggio cruciale nello sviluppo del progetto. Cosa stai combinando, cosa farai dopo il 29 maggio? Di nuovo a Lecce e in Salento per proseguire sopralluoghi dedicati ai progetti che realizzerò da quelle parti in settembre e ottobre. L’uscita del vinile Ye Shanghai pubblicato da Fantom Music (la nuova etichetta che affianca il lavoro visivo della rivista di fotografia Fantom).
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Ulteriori presentazioni della performance. Un nuovo progetto a Shanghai il prossimo novembre. Roberto Paci Dalò. Ye Shanghai Ye shanghai è un’opera distribuita in tre formati: performance audio-video, installazione, film. Co-prodotta da ArtHub Asia, SH Contemporary, Giardini Pensili, NOTCH Festival, Messagerie. In associazione con BFI British Film Institute Londra. In collaborazione con iTOPIA Management Consulting Co. Ltd., Fudan University Shanghai, Home Movies – archivio nazionale del film di famiglia, La camera ottica Gorizia. L’evento: Ye Shanghai. Performance evento parallelo alla 55. Esposizione Internazionale d’Arte – La Biennale di Venezia Serre dei Giardini di Castello, Venezia 29 maggio 2013 ore 21,00 Info: www.robertopacidalo.com
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Interviste > Design
Interior ecodesign… Come ti re-invento il materiale Sbobina|Design Intervista ad EMILIANO BONA di Matteo Galbiati Un orientamento che appare sempre più delineato e presente – tanto nei sistemi produttivi quanto anche nell’arte e nella creatività – è un impegno, a diverso titolo e con diverse risorse, verso un’etica della produzione con attenzione particolarmente rivolta al tema del riuso, del re-
cupero e della salvaguardia dell’ambiente. Ridurre gli sprechi, evitare la consumazione inutile di prodotti, creare dal già fatto, non significa solo ottimizzare risorse ed energie o fare scelte consapevoli, ma anche sviluppare una creatività che nasce da una consapevolezza profonda
e che mira a valori altri, diversi dalla mera affermazione, dal successo o dal profitto. La collezione di Sbobina|Design s’ispira proprio a questa volontà di recuperare ciò che esiste già per re-interpretarlo in altri oggetti d’uso che non rinunciano ad un principio di bellezza estetica ma, anzi, riavvicinano il gusto a quell’antico fare artigiano – per inevitabili procedimenti di interventi manuali richiesti dallo specifico processo produttivo – che valorizza l’unicità irripetibile del pezzo prodotto. Incontriamo il giovane Emiliano Bona ideatore di Sbobina|Design – reduce dal recente Salone Internazionale del Mobile di Milano dove ha presentato una nuova collezione – che proprio dell’ecodesign e dell’umanizzazione del prodotto ha fatto fondamento primo della filosofia delle sue realizzazioni: Come e quando hai iniziato a dedicarti al design? Ti sei orientato fin da subito al recupero e alla re-interpretazione di materiali industriali che avevano una precedente diversa funzione? Dopo aver lavorato per anni a stretto contatto con alcuni grandi artisti contemporanei, che nel loro lavoro hanno privilegiato l’impiego di materiale povero in tutte le sue valenze formali e simboliche, ho iniziato un percorso personale di studio di tale materiale nelle arti applicate, mia passione da sempre. Il recupero in sè non è importante per me, è stato invece fondamentale fin da subito il lavoro e la trasformazione dei materiali industriali, legno e ferro soprattutto, usurati e deformati dal tempo, così da renderli nei miei arredi ironici e conferirgli una nuova leggerezza, quasi come trasformare un asino da soma nell’asino di Sancho Panza!
Sbobina|Design, Lampade Zivago, cm 160x130x30
Cosa ispira ogni tua creazione? Quanta progettualità c’è, quanto istinto o intuizione invece? Mi ispirano i giocattoli di fine Ottocento e le forme astratto-geometriche di alcuni movimenti artistici d’avanguardia del primo Novecento, Suprematismo in primis. C’è moltissima progettualità, legata alla funzionalità dei miei prodotti che devono essere comodi e non decorativi, ma c’è molto istinto per i colori e certi dettagli, come le ruote che metterei ovunque.
Sbobina|Design, allestimento per il Salone Internazionale del Mobile 2013, Fabbrica del Vapore, Milano 24
Quanto influisce e/o condiziona le forme
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Sbobina|Design, Librerie Zazie, cm 140x35x30, cm 205x35x30 e cm 180x30x30
nuove – e i loro conseguenti utilizzi – l’uso dell’oggetto di partenza che poi recuperi? Io parto autonomamente sempre da un progetto definito, più simile a un canovaccio teatrale che a un copione vero e proprio: l’oggetto di partenza ovviamente crea sempre inconvenienti tecnici, e spesso suggerisce involontariamente delle modifiche formali al progetto iniziale, molte volte piacevolmente sorprendenti. Si sa sempre dove si parte, ma mai esattamente dove si finisce. Come nel jazz.
Assolutamente. Quello che privilegio è l’unicità che ogni pezzo deve far trasparire dalla propria pelle, perché il lavoro manuale aggiunge sempre al prodotto una valenza umana e temporale, oltre che formale, che una pratica industriale non consente. L’industria intesa come macchina che produce serialità ad infinitum è destinata a fallire.
Come vengono lavorati i tuoi pezzi? Si inizia con la pulizia del materiale, procedura lunga e difficile perché si deve intervenire manualmente come un restauratore per evitare di togliere irreversibilmente il temps perdu del materiale. Dopodichè si costruisce il pezzo, sempre rigorosamente a mano, cercando un equilibrio tra la ludicità, l’ironia e un’eleganza formale più minimale possibile.
Quando parli di umanizzazione delle forme industriali cosa intendi esattamente? Prendi un prodotto industriale – che è stato creato nell’industria e che viene utilizzato per la sua funzionalità nell’industria – lo guardi, lo smonti, lo lavori, lo colori, gli dedichi del tempo, delle idee, delle riflessioni. A quel punto l’industria sa di uomo, e non più il contrario.
Il tuo modo di operare sull’oggetto rende il processo produttivo più vicino all’unicità dell’artigianato che non alla pratica industriale. Un valore che sembra non solo estetico ma anche etico…
Cos’è l’ecodesign? È l’embrione di una possibile rivoluzione.
Durante lo scorso Salone Internazionale del Mobile hai presentato una nuova collezione: di cosa si tratta e in cosa differisce dalle altre? Presso la Fabbrica del Vapore ho presentato alcune nuove sedute Boris. La loro forma modu-
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lare consente di accostarle tra loro per creare delle panche, oppure di sovrapporle creando delle librerie. La modularità nel design, come nell’arte, è qualcosa che mi lascia sempre a bocca aperta, come un bambino. Bobine elettriche, assi da ponteggio, pallet… Quale altro materiale industriale ready made potresti riabilitare? Progetti in corso? Cosa vorresti realizzare? Sto concludendo una nuova linea di armadietti e librerie creati da casse di imballo per opere d’arte. L’idea che una cassa, che poteva in precedenza contenere un patrimonio, possa ora contenere frutta o verdura, o un semplice libro mi diverte molto. Blasfemo al punto giusto. A breve aprirò al pubblico un grande atelier insieme ad altri designer e artisti che svilupperà al massimo l’interdisciplinarietà di tutte le arti, ecodesign e arti visive in primis. Sbobina|Design Info: Emiliano Bona +39 333 6657615 info@sbobinadesign.com www.sbobinadesign.com
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Una nuova strada nella pittura di William Marc Zanghi PALERMO | Galleria RizzutoArte | 18 aprile – 25 maggio 2013 di LAURA FRANCESCA DI TRAPANI
William Marc Zanghi, Isola, 2013, vernici su tela, cm 150X200
La narrazione di Zanghi attraversa un tempo e un luogo che è suo. Appartiene al suo tempo e al suo spazio. Lui vi si aggira dentro, dapprima con la sua pittura e successivamente con la sua sottile presenza, che resta come invischiata in quelle cromie edulcoranti una realtà intrinseca ben distante dall’essere festante. Sono entrata in contatto con i suoi demoni pittorici quando il figurativo era più preponderante, quando le sue isole erano popolate di personaggi che vi si aggiravano sulla sua superficie in una ricerca perenne e spasmodica di un qualcosa che non era dato sapere se avessero poi mai rintracciato. Personaggi e ambientazioni – che divenivano anch’esse soggetti – vestite di un certo mistero legato all’essenza dell’essere, in un susseguirsi di interrogativi irrisolti – e la bellezza consisteva proprio in questo – come “[...] una sorta di fatale brodaglia, di fetida melma, costituita dai suoi dubbi e turbamenti[...]”, ricordando l’assonanza che in quei lavori avevo trovato con Dostoevskij. Oggi mi sono persa per le sue nuove strade – giocando col titolo di questo nuovo percorso – dove luoghi dell’infinito diventano vere
e proprie mappe. Mappe nelle quali il tempo sembra fluire in tutte le direzioni, privo di ogni rigore. Trasmettono sensazioni di ora, di quello che potrebbe essere e di quello che è stato. Un dinamismo scandito da macchie, da piccoli puntini e da piccole teste antropomorfe che rimandano ad un lavoro archeologico di minuzia. Le cataloga, le espone in teche museali o con piccoli basamenti gli uni allineati accanto agli altri, con una scientificità che perde di omologazione, per essere invece affermazione di ogni singolo personaggio. È uno Zanghi che ha saputo guardare dentro la sua pittura, riuscendo (cosa non scontata) a non restarne invischiato e a non divenirne schiavo. È diventato semmai “domatore” della sua stessa arte. Le superfici, i luoghi, si sono trasformati, si fanno guardare da altre prospettive, come nel trittico di carte allestito nel pavimento e reso calpestabile, per far raggiungere al visitatore nuovi punti di osservazione. L’intero percorso è un passaggio ritmato tra ieri e oggi, raggiungendo un punto di equilibrio perfetto, dove l’evoluzione non dimentica l’origine, ma anzi la ingloba, narrandola con un lemma inedito. I luoghi fantastici si spopolano senza lasciare quel senso di vuoto ma manifestando una presenza ancora più forte, proprio nell’assenza.
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William Marc Zanghi. Strade perdute a cura di Lorenzo Bruni 18 aprile – 25 maggio 2013 Galleria RizzutoArte Via Monte Cuccio 30, Palermo Orari: da giovedì a sabato, ore 15.00 – 19.00 Info: +39 091 526843 www.rizzutoarte.com
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Giacomo Balla. A Bologna come non si è mai visto BOLOGNA | Galleria d’Arte Cinquantasei | 6 aprile – 1 giugno 2013 di alice zannoni Senza voler usare una falsa retorica populista, tocca ammettere che l’Italia è veramente strana; il rapporto del nostro Paese con la cultura, poi, è come quello di un figlio ripudiato in casa (solo così si può giustificare la vergognosa cifra del ben 1% di soldi pubblici destinati ai beni culturali!) e solo così si può comprendere come una mostra di portata internazionale sia presentata da una piccola galleria privata a Bologna, cosa che altrove avrebbe ingolosito i musei più importanti facendone, con un po’ di marketing, come si sa fare all’estero, un “caso culturale.” Stiamo parlando della mostra Balla coloratissimo e luminosissimo, a cura di Elena Gigli che, alla Galleria Cinquantasei di Bologna, espone in anteprima mondiale i collage di Giacomo Balla realizzati tra il 1914 e il 1925: 35 mai esposti fin’ora, di cui 5 inediti. Si stima che in tutto le opere di questo tipo siano poco più di un centinaio nel mondo, il che fa della sperimentazione di carte colorate una “chicca” rispetto alla produzione totale dell’artista da considerare nel periodo del primo futurismo. Probabilmente è la penuria di mate-
riale del momento bellico che ha spinto Balla a servirsi dei pezzi di carta trovati in giro, come gli incarti dei cioccolatini o gli scarti di fotografie, ma la critica ritiene che, oltre alla necessità, l’operazione rientri perfettamente nello spirito di “ricostruzione futurista dell’universo” di cui Balla, con Depero, è propugnatore. Il catalogo della mostra presenta interventi critici di Elena Gigli, Claudio Spadoni ed Estemio Serri che, in qualità di comitato scientifico, hanno deciso di corredare il testo con la sezione “Giacomo Balla” con opere dal 1904 agli anni ’50 per meglio contestualizzare i collage all’interno della produzione e far comprendere che, nella parabola poetica di Balla, il rapporto con il naturalismo, in particolare il recupero della figurazione degli anni ’30, trova radici già nel momento di massima produzione astratta, ben evidente anche nella “pittura di carta” il cui riferimento è sempre la natura nell’ipotesi di “ricostruzione globale”. Quando le istituzioni mancano per fortuna che ad intervenire c’è la sensibilità e la passione del privato e in questo la galleria Cinquantasei di Bologna ha dato prova di eccellenza, a confer-
Giacomo Balla, Colpo di fucile, sd 1917, olio su tela, cm 37x46,5 27
mare il tutto le parole di Estemio Serri, fondatore storico dello spazio espositivo: «Nessuna opera è in vendita, è una mostra culturale fatta con il solo investimento della galleria. Il desiderio era quello di trattare con grande impegno un artista di rilevanza internazionale che fa parte del movimento italiano più importante al mondo”. Balla coloratissimo e luminosissimo. I collage 1914-1925 A cura di Elena Gigli 6 aprile – 1 giugno 2013 Galleria d’Arte Cinquantasei via Mascarella 59/b, Bologna Orari: da martedì al sabato: 10.00 – 13.00 | 16.00 – 19.0; domenica e lunedì 16.00 – 19.00 Info: +39 051 250885 info@galleria56.it www.galleria56.it
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Nam June Paik a Modena. Il “punto zero” della videoarte MODENA | Galleria Civica | 16 febbraio – 2 giugno 2013 di Mattia zappile Dopo un lungo periodo di latitanza dalle gallerie italiane, torna il variopinto immaginario artistico di Nam June Paik. Fino al 2 giugno la Galleria Civica di Modena propone al pubblico un viaggio tra le opere e le testimonianze dell’artista coreano all’interno della mostra Nam June Paik in Italia. Alla mostra si è aggiunta giovedì 21 marzo scorso, al Palazzo Santa Margherita, la presentazione dell’omonimo libro a cura di Silvana Editoriale. Obiettivo dei due eventi è raccogliere materiali e ripercorrere il lungo e prolifico rapporto tra Paik e il nostro Paese. Strettamente legato alle scelte estetiche e alle ambizioni del percorso di sperimentazione che ha segnato la sua carriera, l’interesse per l’Opera, in cui l’artista ritrova quegli ideali di sincretismo e contaminazione tra linguaggi eterogenei che contraddistinguono tutte le sue produzioni, porta Nam June Paik in Italia negli anni ’70. Da allora e per vent’anni l’artista fa dello stivale la sua seconda casa andando a rinfoltire la copiosa presenza nel nostro Paese di personaggi legati al movimento Neo-Dada e a Fluxus che in quegli anni assumono un ruolo centrale sulla scena artistica italiana. Il coronamento di un legame che ha avuto profonde ripercussioni sia sull’arte di Paik che in generale sull’arte nazionale arriva nel 1993 con il Leone d’Oro alla Biennale
di Venezia. Wuppertal, 11 marzo 1963, giorno zero. Tra pianoforti, pentole e manichini, oggetti che decontestualizzati e sottratti alla funzione cui la progettualità industriale li aveva condannati diventano architetture di un mondo reinventato, 13 televisori proiettano immagini a getto continuo. Anch’esse, come ogni centimetro della Galleria Parnass, sono state sabotate, stuprate, con gesto tanto distruttivo, come rottura con la tradizione artistica e di fatto con la proposta esistenziale della contemporaneità, quanto costruttivo, come riappropiazione della cosa nei termini di una prassi artistica non più solo estetica, vedi il ready made di Duchamp, ma finanche politica perché vitale. La mano dietro e dentro questo strano pianeta è quella di Nam June Paik. Quel luogo e quel giorno, oltre che punto zero della videoarte, ufficialmente nata, sono anche il trampolino della fortunata e imprevedibile carriera artistica di Paik. Musicista, scultore, attore, regista, ammaliato dal fascino del contrasto, della scoperta del nuovo e del diverso, nel nomadismo tra differenti linguaggi artistici, nell’eterogeneità dell’opera singola e ancora nel gesto anarchico liberatorio della ricontestualizzazione dell’oggetto, lo sperimentatore
coreano attraversa il pianeta e le arti alla ricerca di impulsi che ne alimentino il potere creativo. Lungo il sentiero trova corroborante oasi nelle terre d’Italia.
Nam June Paik in Italia Organizzazione e Produzione: Galleria civica di Modena e Fondazione Cassa di Risparmio di Modena in collaborazione con Fondazione Solares di Parma Galleria civica di Modena Palazzo Santa Margherita, Palazzina dei Giardini corso Canalgrande, Modena 16 febbraio – 2 giugno 2013 Orari: mercoledì-venerdì 10.30-13.00; 16.0019.30 sabato, domenica e festivi 10.30-19.30 lunedì e martedì chiuso Ingresso gratuito Info: +39 059 2032911/2032940 www.galleriacivicadimodena.it
Da sinistra: Nam June Paik, Sacro e profano, 1993 2 monitor con video e scultura, collezione privata Nam June Paik, Luciano Pavarotti, 1995, radio, monitor e oggetti vari, collezione privata 28
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Jeff Wall al PAC di Milano… “Pittura” istantanea MILANO | PAC Padiglione d’Arte Contemporanea | 19 marzo 2013 – 9 giugno 2013 di ginevra bria Quarantadue opere in mostra, alcune esposte per la prima volta in Italia, sanciscono il percorso fotografico di uno fra gli artisti contemporanei più innovativi degli ultimi trent’anni, come riferisce il testo di introduzione all’appuntamento. A Milano, infatti, dal 19 marzo al 9 giugno 2013, il PAC Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano presenta Actuality, la prima grande retrospettiva italiana del fotografo canadese Jeff Wall (1946, Vancouver). I lightbox, riproduzioni fotografiche di medie, piccole e infine grandi dimensioni, evidenziano le sue composizioni come il risultato finale di ricostruzioni composte in studio, frutto della pianificazione di ogni dettaglio e di giorni, a volte settimane, di sapienti visioni pittoriche. L’artista, infatti, interviene alterando digitalmente molti dei suoi scenari, mantenendo ogni paesaggio, da lui impostato come rappresentazione, vivo e fermo come a imprimere nuova vita a realtà e a quotidianità. Il titolo Actuality è stato creato per dare enfasi al concetto che le foto esposte in mostra fossero connesse direttamente al mondo reale e non fossero prettamente diverse da altri tipi di fotografie. Actuality mette in risalto il fatto che,
anche quando Wall ha coinvolto diversi tipi di costruzioni, sintattiche o compositive, all’interno delle sue immagini, comunque, non si scende mai a patti con una categoria di realtà a noi già familiare, resa tale dalla fotografia stessa. La mostra è una selezione operata fra lavori più recenti e progetti già noti. Ne fanno parte lightboxes, stampe in bianco e nero e stampe a colori di diverse misure e di differenti generi. Come afferma lo stesso Wall: «in verità, Actuality non è stata pensata per essere una retrospettiva e nemmeno un sistematico survey show. Ritengo il percorso semplicemente un gruppo di immagini che io sento abbiano abbastanza cose in comune tra di loro da restituire agli occhi del visitatore un insieme interessante che, alla fine, riesce a conferire un senso indicato a descrivere il mio intero lavoro». La mostra al PAC curata da Francesco Bonami si presenta come una galleria dinamica di dipinti esatti, dove la posa di ogni paesaggio, così come quella di ogni soggetto, sembra fissata alla fotografia come colori ad olio sulla tela. I lightboxes, infatti, tra sintassi pubblicitaria e dettami concettuali della Scuola di Vancouver, raccontano istanti rappresi di violenza
urbana, di razzismo, povertà e tensioni sociali rappresentati con ottocentesca sospensione compositiva. Jeff Wall. Actuality a cura di Francesco Bonami 19 marzo 2013 – 9 giugno 2013 PAC Padiglione d’Arte Contemporanea Via Palestro, Milano Info: +39 02 88446359 www.comune.milano.it/pac www.facebook.com/pacmilano L’intervista a Jeff Wall, a cura di Alessandro Trabucco, SUL NUMERO #80 di Espoarte. ACQUISTA ORA: http://www.espoarte.net/shop/magazineshop/espoarte-numero-80-%E2%80%93trimestre-n-2-2013/
Jeff Wall, Vancouver, 7 Dec. 2009. Ivan Sayers, costume historian, lectures at the University Women’s Club. Virginia, Newton-Moss wears a British ensemble c. 1910, from, Sayers’ collection. 2009, fotografia a colori, 224.3x182.5 cm. Courtesy dell’artista e della Galleria Lorcan O’Neill, Roma 29
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Cinque esperienze analitiche. A Vicenza il valore di “fare pittura” VICENZA | Valmore studio d’arte | 19 aprile – 14 giugno 2013 di Matteo Galbiati
In linea con le scelte della galleria, che privilegia soprattutto un lavoro di analisi e proposta dell’arte italiana degli anni ’60 e ’70 impegnandosi specialmente su proposte legate alle ricerche degli artisti cinetico-visuali, la mostra presentata da Valmore guarda all’altra tendenza, in seno a quegli anni, che vede molti artisti indagare il valore analitico della pittura. Sebbene abbiano condotto ricerche differenti, tanto nel mezzo quanto nella sensibilità, molti di questi artisti hanno condiviso un comune sentire che riponeva fiducia e valore nella voce della pittura, in una fase storica in cui questa pareva essere definitivamente condannata all’oblio. Attraverso cinque indiscussi protagonisti di quella stagione – Cotani, Guarneri, Marchegiani, Verna e Zappettini – si suggerisce al pubblico come la loro intenzione volesse orientarsi
verso un’opera che, rivendicando con forza la propria matrice pittorica, sottolineasse il valore ancora determinante di questo mezzo. La loro indagine, autonomamente svolta, cercava – e cerca – di sviluppare le problematiche in ordine di linguaggio – e sue modalità operative e realizzative – tese ad un radicale rinnovamento del repertorio rappresentativo in opposizione alle nuove tendenze allora emergenti. La loro idea muove, quindi, ad una rifondazione radicale del presupposto stesso del fare pittura: concentrati su un’auto-analisi delle matrici fondamentali del dipingere, individuano nella tensione del nuovo modo di rappresentazione e dei conseguenti inediti contenuti messi in evidenza la chiave di volta del processo di cambiamento da loro messo in atto. La pittura analitica ha voluto svincolarsi dal desiderio di rappresentare la fisicità delle cose e dal misurarsi su pro-
blematiche poste in ordine di spazio, per porsi invece come fenomeno che accade e diviene nel tempo. Ciascuno di questi artisti ha liberato la pittura da vincoli rappresentativi e, orientandola all’esclusione dell’arbitrarietà di visioni soggettive, ha costruito una definizione di intrinseca e logica compostezza sintattica del colore nella sua grammatica originaria. Naturalmente pittorica. La linea analitica dell’arte. Pittura Analitica Artisti: Paolo Cotani, Riccardo Guarneri, Elio Marchegiani, Claudio Verna, Gianfranco Zappettini 19 aprile – 14 giugno 2013 Valmore studio d’arte Contrà Porta S. Croce 14, Vicenza Orari: lunedì 15.00-17.00; martedì-venerdì 10.30-13.00 e 15.00-18.30; altri giorni su appuntamento Ingresso libero Info: +39 0444 322557 arte@valmore.it
Gianfranco Zappettini, Superficie analitica n. 244, 1973, acrilico su tela e polvere di quarzo, cm 80x80 30
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L’arte dei folli, l’arte dei geni: a Ravenna opere borderline RAVENNA | MAR Museo d’Arte della città di Ravenna | 17 febbraio – 16 giugno 2013 di Matteo Galbiati Borderline: linea di confine. Questa la traduzione nel significato letterale del termine. Una linea di confine che – nella definizione psicoanalitica – separa sottilmente e labilmente lo stato di “normalità” da quello di alterazione da psicosi o nevrosi. Conosciamo il disturbo borderline come patologia della personalità che suscita, negli individui che ne sono affetti, un’instabilità emotiva, un cambiamento relazionale tra sé e gli altri, una percezione distorta e variabile del mondo: semplicemente descrive quelli che un tempo venivano considerate persone originali o, più sbrigativamente, folli. Questa decodificazione dell’essere la ritroviamo anche nell’idea generale che la gente spesso ha della sensibilità e del carattere della figura tipo dell’artista. Molti di loro, nelle loro opere ma anche nelle loro biografie, mostrano evidente quella disregolazione emozionale con cui si definisce proprio il disturbo borderline. Claudio Spadoni, direttore scientifico del MAR, coadiuvato nella curatela da Gabriele Mazzotta e dallo psichiatra e psicoterapeuta Giorgio Bedoni, parte proprio da questa idea per tessere l’attento percorso della nuova mostra del museo ravennate. Secondo lo stile di ricerca delle esposizioni precedenti, sempre impegnate su temi particolari e impegnativi, curate con rigore attento nei contenuti e mai pretestuose, in questo progetto si vuole offrire al pubblico proprio la possibilità di indagare, attraverso una selezione di capolavori dei maggiori artisti tra passato e presente, quell’area creativa dell’artisticità i cui confini sono spesso stati considerati labili e fragili. Tra genio e sregolatezza, tra talento e follia si cerca di oltrepassare le convenzioni, le categorie e i limiti incerti delle esperienza artistiche che hanno attraversato soprattutto il secolo appena trascorso. Le opere esposte – da Goya a Géricault, da Klee a Basquiat, con l’Art Brut come presenza costante – si prefiggono di tentare di superare i limiti nei quali è stata spesso – e ingiustamente – relegata l’arte di quegli artisti dimenticati, maledetti, alienati o, semplicemente folli. Isolati dalla critica, dal mercato e dal successo, la loro esperienza emotiva ed artistica in realtà non si allontana troppo dai modi – né li esaspera – di coloro i quali sono stati consacrati nell’ufficialità dell’arte. Ritroviamo quindi una reciprocità nei
Tancredi Parmeggiani, Peccato carnale e il rosso cardinale, omaggio al pittore GiulioTurcato
contenuti e nei toni che variano tra confini ludici, poetici, infantili, surreali, primitivi e, talvolta, persino violenti. La mostra esprime quanto oggi, in fondo, nel critico contesto della nostra modernità, la definizione di borderline – inteso come individuo messo sulla sua personale linea di confine – sia essenzialmente di tipo antropologico, sociale e culturale, prima ancora che clinico e patologico o artistico. Una mostra che conquista, nelle differenti sezioni in cui è acutamente suddivisa, la nostra ammirazione di visitatori, non solo per la qualità alta delle opere raccolte e legate assieme dal filo conduttore del tema proposto, ma anche per la rivelazione di quelle immagini che, dalla superficie delle opere, per quanto sentiamo lontane da noi e dal nostro essere, ci penetrano tanto chiaramente da appartenerci ed albergare nella profondità dell’animo di ciascuno noi. Borderline. Artisti tra normalità e follia. Da Bosch a Dalì, dall’Art brut a Basquiat
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a cura di Giorgio Bedoni, Gabriele Mazzotta e Claudio Spadoni, in collaborazione con Fondazione Antonio Mazzotta 17 febbraio – 16 giugno 2013 MAR Museo Museo d’Arte della città di Ravenna Via di Roma 13, Ravenna Orari: fino al 31 marzo martedì-venerdì 9.0018.00, sabato e domenica 9.00-19.00; dall’1 aprile martedì-giovedì 9.00-18.00; venerdì 9.00-21.00; sabato e domenica 9.00-19.00; chiuso lunedì; aperture festive: Pasqua, Lunedì dell’Angelo, 25 Aprile, 1° Maggio e 2 Giugno Ingresso: Euro 9,00, Euro 7,00 studenti accademie e università, Euro 4,00 insegnanti Info: +39 0544 482477 – +39 0544 482356 info@museocitta.ra.it www.museocitta.ra.it
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Ana Mendieta: acqua, fuoco e terra RIVOLI (TO) | Castello di Rivoli | 30 gennaio – 16 giugno 2013 di Maria Chiara Cardini Una cosa che colpisce, visitando la mostra dedicata ad Ana Mendieta, allestita nella Manica Lunga del Castello di Rivoli, è il contrasto tra il corpo dell’artista, acerbo, il volto candido ornato da occhi profondi e lunghe ciglia, e la potenza del suo fare artistico. L’impronta bruciata di una mano in Untitled, 1978, opera con cui si apre il percorso espositivo, sembra appartenere a quella di una bambina tanto è minuta. Non è così, il corpo è il suo: adoperato, modificato, ossessivamente riprodotto. Mendieta, esule e orfana, è una pioniera della body art e della performance. Una femminista non convenzionale e certo non narcisistica, come invece è stata spesso qualificata, banalmente, la ricerca di molte donne artiste negli anni ’70. Inoltre fotografa, documenta le sue azioni con il video, scolpisce e opera all’interno della Land Art, così che quel corpo, che a un primo sguardo ci sembrava di dover proteggere, appare in tutta la sua forza generatrice o distruttrice, come in Bird transformation e in Death of a Chicken (1972). In quindici anni questa artista cubana – americana ha prodotto tantissimo. Sculture all’aperto in Iowa, utilizzando materiali primordiali come il sangue, il fango, il fuoco e l’acqua, convergono nella serie Silueta che ripete l’immagine del suo corpo a terra, con foglie, erba, pietre e polvere da sparo combusta. Poi disegni delicati ed eleganti su foglie, corteccia, carta e sculture di grandi dimensioni in cui la caratteristica silhouette femminile è bruciata all’interno di tronchi d’albero. Dice l’artista: «Mi sono immersa negli elementi stessi che mi generarono, utilizzando la terra come tela e la mia anima come strumento». Anche il culto dei morti, espresso attraverso i modi tipici della Santeria, è un tema ricorrente. I suoi lavori trattano di “eros, vita e morte”, come dirà lei stessa. Per Ana Mendieta una fine tragica, ventotto anni fa cade dalla finestra del 34° piano del suo appartamento al Greenwich Village (Manhattan, a New York). L’unica persona con lei in quel momento è il marito (da soli otto mesi), lo scultore Carl Andre, che è arrestato e accusato di omicidio di secondo grado, infine assolto. L’esito del triennale processo sarà inquadrato come ingiusto, dal mondo dell’arte, solo dagli anni 2000. La retrospettiva al Castello di Rivoli, curata da
Beatrice Merz e Olga Gambari, porta per la prima volta in un museo pubblico italiano il lavoro magico, poetico e totalmente immerso negli elementi primordiali di questa ritrovata artista. Ana Mendieta. She got love A cura di Beatrice Merz e Olga Gambari 30 gennaio – 16 giugno 2013
Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea Piazza Mafalda di Savoia, Rivoli (TO) Orari: da martedì a venerdì 10.00 – 17.00; sabato e domenica 10.00 – 19.00 Info: +39 011 9565222 info@castellodirivoli.org www.castellodirivoli.org
Ana Mendieta, Silueta de Cohetes, 1976, lifetime color photo, cm 20.3 x 25.4, Fondazione per l’Arte Moderna e Contemporanea CRT in comodato al Castello di Rivoli e Gam
Ana Mendieta, fotogramma dal video Untitled (Creek #2), 1974, film Super-8 trasferito su DVD, colore, muto, 3’ 30”, Collezione privata, Modena © The Estate of Ana Mendieta Collection. Courtesy: Galerie Lelong, New York 32
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Schnabel al CIAC di Foligno… il racconto della pittura FOLIGNO | CIAC Centro Italiano Arte Contemporanea | 20 aprile – 23 giugno 2013 di Matteo galbiati Attraverso quattordici grandi capolavori – molti dei quali assolutamente inediti per il pubblico italiano – il CIAC di Foligno celebra uno tra gli artisti più conosciuti del panorama internazionale: Julian Schnabel. Dell’artista newyorkese, celebre e apprezzato non solo per l’inconfondibile segno-gesto della sua pittura, ma anche come raffinato regista cinematografico, si guarda, attraverso le opere selezionate per l’occasione, proprio al peculiare linguaggio pittorico basato su una pittura espressiva, vivace e accesa, attenta al valore liberamente gestuale ed istintivo del suo colore. La sua impronta pittorica – fatta di segni, scritte, cromie che sembrano seguire un’espressività affrancata da formule prestabilite e dinamica nel farsi, quasi da apparire inconscia – ha ascritto Schnabel a quel movimento definito come neo-espressionista, voce che ha contraddistinto una certa pittura a partire dall’ultimo trentennio del XX secolo. Benché vicino ad altri influenti maestri americani, e non meno disgiunto dai protagonisti dell’arte europea e della Transavanguardia italiana, Schnabel pratica la sostanza cromatica in modo caustico e cangiante, forse apparentemente primitivo ma connotato dall’uso del colore – sempre spregiudicato e trasgressivo – del tutto autonomo e individuale, lontano da ogni emulazione o conformismo. Attraverso vari supporti eterogenei, che accolgono una pluralità di materiali, si legge anche quanto sia fondamentale in lui l’impronta del vissuto e del segno di un tempo e di una storia pregressi, impronte che l’artista proprio non rifiuta né nasconde, ma anzi vuole contemplare e integrare come parte essenziale della sua opera. La creatività fantastica di Schnabel gli permette sempre di lasciar emergere le forme in misura così autonoma e indipendente, perché queste sono capaci di riattivarsi e riconfigurarsi tanto nel corso del processo creativo, quanto negli istanti rinnovati della loro visione e contemplazione, quando la sua intonazione pittorica dà prova di reggere e perdurare, oltre un tempo circoscritto, nell’apertura e nell’interazione con ogni possibile altra esperienza di chi osserva e con essa si rapporta. Questa mostra – anche per l’eccezionalità di alcune opere presentate – si offre come momento peculiare per confrontarsi con il lavoro dell’artista americano di cui l’esposizione testi-
Julian Schnabel, vedute della mostra, CIAC Centro Italiano Arte Contemporanea, Foligno (PG)
monia, in un ricercato e studiato riassunto, le differenti fasi del percorso creativo, indirizzando lo sguardo verso la conquista di quei nuovi territori cui l’arte e il pensiero di Schnabel vogliono sempre tendere. Julian Schnabel a cura di Italo Tomassoni 20 aprile – 23 giugno 2013
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CIAC Centro Italiano Arte Contemporanea Via del Campanile 13, Foligno (PG) Orari: venerdì-domenica 10.00-13.00 e 15.30-19.00 Ingresso gratuito Info: +39 0742 357035 info@centroitalianoartecontemporanea.it www.centroitalianoartecontemporanea.com
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Vettor Pisani. Il sistema sistemato CATANZARO | Open Space centro per l’arte contemporanea | 7 maggio – 20 giugno 2013 di ROBERTO LACARBONARA
E il progetto si chiamerà: Museo della Catastrofe. O almeno questo sarebbe stato, nelle intenzioni di Vettor Pisani, l’esito spontaneo di un’intera produzione artistica – e di una vita – caratterizzata dalla totale dedizione ad un’estetica della rovina, della decadenza. Già da qualche anno lavorava inseguendo questa fievole intuizione quando, all’età di 77 anni, nella sua abitazione romana, Vettor Pisani si è tolto la vita impiccandosi alla finestra del bagno; per uccidersi aveva utilizzato i lacci delle sue scarpe. Eppure in quei giorni sembrava concretizzarsi il suo antico disegno di trasformare, a Serre di Rapolano presso Siena, una cava di pietra abbandonata in un’opera abitabile e vivibile, luogo di contemplazione e scambio. Affascinato da quel luogo, Pisani vedeva la cava non come frutto dell’azione negativa dell’uomo, devastatrice del paesaggio naturale, bensì come luogo di produzione di lavoro. In questi giorni, una preziosa mostra realizzata a Catanzaro da Open Space centro per l’arte contemporanea e curata da Graziano Menolascina, rievoca pienamente lo spirito ironico e sofferto con cui Pisani aveva conquistato il mondo dell’arte contemporanea a partire dagli anni ‘70, attraverso il talentuoso impiego del
proprio coraggio poetico, della propria irriverenza nei confronti del sapere costituito. Il Ritratto con scatto (2000/2011) mostra immediatamente il grave peso della consapevolezza che l’artista aveva di sé e del “sistema” arte: una fotografia che pende al di sotto di una inconsueta pistola da silicone ritrae il maestro nella sua penultima mostra romana, allorché sui muri della galleria Limen 895 aveva scritto di sé: “Sono un artista povero e famoso”. Non era l’unica iscrizione murale della mostra: “Io sono un vero falso d’autore” e “In verità vi dico, la verità non esiste”, completavano le acide dichiarazioni della indimenticata retrospettiva dal titolo “Carpe diem”; un’idea, quest’ultima, nata dall’omonima opera che introduceva in galleria delle vere carpe, immerse nell’acqua all’interno di un frigorifero rovesciato. La mostra calabrese non dimentica i grandi complici di Pisani: gli animali, perlopiù domestici, generalmente docili ed innocui. È il caso di Leprotto (2000), piccola scultura di una lepre, uno dei simboli più ricorrenti nella figurazione del maestro, o di I pesci rossi, artista dal sistema sistemato (2000/2011), un fotomontaggio analogico in cui l’immagine dell’artista, alle prese con scodelle ed altri attrezzi domestici, convive con il nuoto libero di enormi pesci rossi
Vettor Pisani, Pesci Rossi, Artista dal sistema sistemato, 2000. Foto: Federico Losito
(altro emblema di una cura affettiva e familiare seppure smisurata ed inquietante nelle proporzioni). Quest’ultimo lavoro dà il titolo alla mostra, L’artista dal sistema sistemato, un vero e proprio manifesto scritto per l’occasione da Mimma Pisani, in cui si legge: “Attraverso folate bluastre / Vestito di malandata cenere / Giungeva nel regno delle ombre / Avvolto dalle macerie del Male”. È la sintesi brutale ma fragilissima della vicenda di un uomo in perenne spostamento, vestito della sola cenere azzurra e della polvere minerale che si addensa su Viaggio all’isola azzurra (2000): reliquia e modello di un abisso terrestre, con le sue intricate e oscure passioni che muovono il viaggio sullo specchio d’acqua di un piccolo oceano. Ogni opera di Pisani risulta irrimediabilmente attraversata dagli stessi fantasmi, calata nello
Vettor Pisani, Ritratto con scatto, 2000. Foto: Federico Losito 34
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stesso sistema sistemato, ovvero nella consapevolezza che l’umano è immerso in un bacino ristretto e rassicurante, come un Edipo nelle mani della Sfinge (opera del 1980 che tanta popolarità aveva conferito a Pisani). Ma da questo spazio contenuto l’artista aveva sempre escogitato le occasioni dell’altrove, di quel Luogo posteriore impossibile da definire ma di cui si avverte la mancanza, il desiderio, la tensione per l’andare. Era questa la tensione che agitava la grande sensibilità di un artista “povero e famoso” che ambiva di concludere i suoi giorni dentro un antro scavato nella pietra; o come un uomo preso in giro dai suoi stessi sogni che, nel “Sogno di un uomo ridicolo” di Dovstoeskij, si congedava da se stesso e dal mondo, con laconico lamento, sussurrando trepidante: Ed io andrò, andrò! Vettor Pisani (Napoli 1934 – Roma 2011). Architetto, pittore e commediografo. Ha esposto in numerose mostre personali, collettive e di gruppo. È stato invitato a rassegne nazionali e internazionali (Documenta 5, Kassel; Biennale di Venezia 1976, 1978, 1984, 1986, 1990, 1993; Quadriennale di Roma 1973, 1986, 1992). Nel 2012 il Museo di arte contemporanea di Roma ha dedicato all’artista la mostra Omaggio a Vettor Pisani, in cui è stata esposta una selezione di lavori che ne documentano compiutamente la poetica, affiancati da documenti inediti di archivio. La sua bibliografia è presente in numerose pubblicazioni di carattere generale e monografico. Sue opere si trovano in Musei, collezioni pubbliche e private in Italia e all’estero. Vettor Pisani. Artista dal Sistema Sistemato a cura di Graziano Menolascina 7 maggio – 20 giugno 2013 Open Space centro per l’arte contemporanea Via Romagna 55, Catanzaro Info: +39 o961 61839 openspace.artecont@teletu.it
Vettor Pisani, Leprotto, 2000. Foto: Federico Losito 35
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Una storia riannodata: la riscoperta delle opere di Jack Clemente MILANO – Studio Gariboldi | BERGAMO – Galleria Bergamo | 20 aprile – 30 giugno 2013 di Matteo galbiati Tra gli stand dell’ultima edizione di MiArt ci ha colpito in modo particolare quello dello Studio Gariboldi, interamente dedicato all’anteprima della mostra antologica dedicata a Jack Clemente (1926-1974), ora presente negli allestimenti nella sua sede di Milano e presso gli ambienti della Galleria Bergamo nell’omonima città. Seguendo il loro orientamento, indirizzato soprattutto al recupero e alla valorizzazione delle ricerche degli anni ’60, ad oltre quarant’anni di distanza – era il 1972 – dall’ultima sua mostra, nelle due gallerie le opere di Clemente tornano di nuovo protagoniste facendo riscoprire al pubblico una figura emblematica dell’arte italiana di quel ricco e fecondo periodo. Canape, corde, legno, elementi semplici che in una sapiente combinazione di forme e materia si caricano di grandissima suggestione: sono questi gli “ingredienti” dei lavori di Clemente, artista oggi ancora troppo poco conosciuto. Quello che si potrebbe definire come quadro, nella sua accezione diventa un territorio sconfinante dove l’immagine passa dal valore pittorico alla presenza, spaziale e concreta, della scultura. Se può apparire evidente un certo gusto per il lavoro artigianale e la sua dimensione di bellezza formale, non meno importante è pure il valore espressivo e sentimentale più viscerale e umorale: in lui l’opera si presenta, infatti, allo sguardo come oggetto reale e sensibile, concreto prima ancora che mentale, in grado di suscitare immediate reazioni e sensazioni. Le superfici, in cui si disseminano nodi e la corda viene ammansita e addomesticata come un incantatore di serpenti fa col suo flauto davanti alle spire gonfie di un cobra, vengono manipolate da Clemente attraverso un segno presente, organizzato e reale che guizza comunque in
eruzioni imprevedibili e impreviste. Ordine e disordine, estremi che l’artista riesce abilmente a controllare ed armonizzare. Quello che avviene entro la superficie del “quadro” è vibrante come una passione incontenibilmente deflagrante che, silenziosamente e senza clamori eccessivi, divampa davanti al nostro sguardo. Impossibile non accostare per questo la sua esperienza a quella di Burri, Fontana, Castellani… Del resto, scorrendo la sua biografia, si percepisce bene come fosse vicino, partecipe e aggiornato, al clima culturale della sua epoca: le occasioni di collaborazioni ed esposizioni dimostrano come la sua breve storia artistica sia stata interamente vissuta a contatto con gli ambienti più attivi e della cultura intellettuale ed artistica, non solo italiana, ma anche internazionale di quegli anni. Da sottolineare anche la monografia edita per l’occasione nella quale, oltre all’intenso testo di Francesco Tedeschi e al contributo prezioso di Nicoletta Pallini Clemente, sono pubblicati anche un testo originale di Giuliano Zincone del 1968 e uno di Milena Milani, artista cara amica di Clemente in quel periodo. La mostra è un’occasione straordinaria per la conoscenza e la scoperta di questo grande e poliedrico artista. Occasione che non deve es-
Jack Clemente. Archeologie di un recente passato, stand MiArt 2013, Studio Gariboldi, Milano-Bergamo 36
sere assolutamente persa. Jack Clemente. Archeologie di un recente passato testi critici di Francesco Tedeschi, Milena Milani e Giuliano Zincone catalogo a cura di Nicoletta Pallini Clemente e Francesco Tedeschi 20 aprile – 30 giugno 2013 Studio Gariboldi Corso Manforte 23, Milano Orari: lunedì-venerdì 15.00-19.00; oppure su appuntamento Info: +39 02 76016499 posta@studiogariboldi.com www.studiogariboldi.com Galleria Bergamo Contrada Tre Passi 1, Bergamo Orari: lunedì-venerdì 15.00-19.00; oppure su appuntamento Info: +39 035 237261 corrado.rota@alice.it
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Andy Cross. “Painting inside of my painting” REGGIO EMILIA | Collezione Maramotti | 5 maggio – 31 luglio 2013 di chiara serri Dipinge all’interno della sua pittura, Andy Cross (Richmond, 1979), in un cottage classico con tanto di veranda e tetto a spioventi. Per costruirlo, oltre cento dipinti, utilizzati come mattoni, secondo un approccio che lo stesso autore definisce “non emozionale”. Se gli si chiede quale sia l’opera più importante, sorride e non proferisce parola, perché le tele, per lui, altro non sono se non materiale edile, plausibile di tagli, modifiche e parziali demolizioni. Murati con diversi orientamenti, i quadri impediscono una lettura lineare, spiazzando lo spettatore, generalmente predisposto ad un sistema narrativo sequenziale. Un espediente utile per tenere la mente lontana e fare dell’installazione un’esperienza prima di tutto visiva. Protetto dalle sue creazioni, in uno spazio sicuro e confortevole, arredato con un cavalletto ed un tavolo da lavoro, Andy Cross ci racconta la genesi del progetto, ideato nel suo piccolo studio di Brooklyn e poi trasferito presso la Collezione Maramotti di Reggio Emilia che, dopo la collettiva Painting as a Radical Form (2012-13), presenta fino al 31 luglio la sua prima personale italiana. Sulle pareti esterne, opere realizzate dagli ultimi anni ’90 ad oggi, senza alcuna distinzione di genere o linguaggio. Ritratti, autoritratti, nudi, nature morte, opere astratte e testuali, scevri da stilemi che garantiscano un’immediata riconoscibilità. Tele dipinte durante i numerosi viaggi, dalla California al Vietnam e all’India, con materiali disponibili in loco. Più che un diario di viaggio, una traccia della sua esperienza pittorica, volta ad «indagare la storia attraverso un’esplorazione a tutto tondo: geografica, scientifica, politica e culturale». A completare la mostra, dieci opere su carta caratterizzate da una continua stratificazione ed una piccola fotografia, appesa nelle vicinanze della casa. Un elemento, a prima vista trascurabile, che risponde, tuttavia, ad una domanda rilevante: «Cos’è la pittura?». «La pittura è una forma di comunicazione comprensibile a tutti, è opera di un artista che cerca di volare». Nella foto, Andy Cross stesso, che imbraccia una tela e spicca il volo. In contemporanea, la Collezione Maramotti ospita anche una mostra di Laure Prouvost, vincitrice della quarta edizione del Max Mara Art Prize for Women, un’installazione permanente di Jason Dodge di recente inaugurazione e la personale di Evgeny Antufiev, di cui abbiamo avuto modo di parlare sul numero #80 di Espoarte.
ANDY CROSS. House Painter
Orari: giovedì e venerdì 14.30 – 18.30, sabato e domenica 10.30 – 18.30
5 maggio – 31 luglio 2013 Collezione Maramotti Via Fratelli Cervi 66, Reggio Emilia
Info: +39 0522 382484 info@collezionemaramotti.org www.collezionemaramotti.org
Andy Cross, House Painter, 2012, veduta di mostra, maggio 2013, Collezione Maramotti, Reggio Emilia. Foto: Dario Lasagni
Andy Cross all’interno della sua opera House Painter, maggio 2013. Collezione Maramotti, Reggio Emilia. Foto: Dario Lasagni 37
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80 anni di creatività: Milano festeggia La Triennale MILANO | La Triennale | Appuntamenti in varie date di Matteo galbiati Nel 1923 nella Villa Reale di Monza si tenne la I edizione della Biennale delle Arti decorative dell’ISIA (acronimo per Istituto Superiore di Industrie Artistiche creato sempre a Monza l’anno precedente), esposizione che voleva valorizzare il lavoro e la creatività nelle arti applicate degli studenti di quella scuola e che però si aprì presto anche a ricchi contributi nazionali e internazionali, qualificandosi come appuntamento atteso e ambita vetrina. Con una cadenza biennale si svolse quindi per le successive edizioni del 1925, 1927 e del 1930, quando iniziò invece a seguire una cadenza triennale. La svolta si ebbe nel 1933, in occasione della V Triennale, quando tutto venne trasferito a Milano nella nuova sede, appositamente costruita, del Palazzo dell’Arte, superba realizzazione del progetto di Giovanni Muzio. Dopo lavori durati dal 1931 al 1933, apriva – grazie al cospicuo lascito testamentario al Comune da parte dell’imprenditore tessile Antonio Bernocchi – esattamente il 10 maggio di 80 anni fa la nuova grande istituzione milanese. Destinata negli anni non solo ad accogliere le successive manifestazioni triennali, ma a diventare sede privilegiata e internazionalmente conosciuta per i maggiori eventi espositivi proposti a Milano. Questo luogo, conosciuto oggi semplicemente come La Triennale, ha dato prova con la sua ininterrotta storia di aver rispettato e mantenuto l’intenzione e gli scopi cui era stato destinato: farsi centro d’aggregazione, promozione e aggiornamento per le proposte legate alla creatività più innovativa. Architettura, design, arti visive, moda, musica, teatro e comunicazione, presentazioni, incontri, conferenze, … sono solo una parte dei settori che lo hanno sempre qualificato come centro ricettivo e sensibile – se non precursore – dei cambiamenti sociali, culturali, di gusto e costume del proprio tempo. La Triennale oggi celebra il proprio anniversario offrendo ai suoi visitatori innumerevoli occasioni d’incontro tra cui quattro importanti mostre: una che racconta, attraverso suggestive immagini, la storia dell’istituzione milanese con documenti provenienti dal suo archivio; l’altra riserva al pubblico 100 capolavori delle collezioni del Museo MaGa di Gallarate che, dopo l’incendio dello scorso febbraio, attendendo la riapertura,
prosegue l’attività dando in prestito le proprie opere (ci sarà anche un’altra diversa mostra presso la Villa Reale di Monza). Le altre due mostre si occuperanno invece rispettivamente dei temi e questioni affrontati dall’imminente Expo del 2015 e del tema della crisi, distruzione, ricostruzione ed evoluzione del paesaggio in Afghanistan, Iraq e New York attraverso un progetto che Antonio Ottomanelli – architetto e fotografo – sta conducendo dal 2010. Non mancherà Run for T, al secondo appuntamento, corsa podistica nel Parco Sempione, un ricco programma di concerti jazz presso il Teatro dell’Arte, e tutte le sere aperitivi al Triennale Design Café con musica, performance live all’aperto. Non ci si dimentica nemmeno dei più piccoli ai quali sono dedicati laboratori specifici e un concerto. Buon compleanno e auguri Triennale!
Mostre: Triennale di Milano, 80 anni. 1933-2013. Una storia unica dagli archivi della Triennale 10 maggio – 26 maggio 2013 “E subito riprende il viaggio…”. Opere dalle collezioni del MA*GA dopo l’incendio 10 maggio – 25 agosto 2013 Pianeta Expo 2015. Conoscere, gustare, divertirsi 11 maggio – 9 giugno 2013 Collateral Landscape. Frammenti di paesaggio ai margini della ricostruzione postbellica 12 maggio – 23 giugno 2013 La Triennale di Milano Viale Alemagna 6, Milano Info: +39 02 724341 | www.triennale.org
X Triennale 1954, scalone d’onore, stuoia su disegno di Giuseppe Aymone, sulla parete in fondo ante di porta su disegno di Mirko Basaldella, soffitto realizzato con dischi colorati di vetro soffiato su disegno di Giuseppe Capogrossi. Foto: Ancillotti (particolare) 38
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La nuova forma del libro… secondo gli artisti CATANZARO | Museo MARCA | 4 maggio – 5 ottobre 2013 di lara caccia Bookhouse. La forma del libro è il titolo emblematico della nuova mostra inaugurata al MARCA di Catanzaro: una collettiva, che vede la presenza di più di cinquanta opere di artisti storici, italiani ed internazionali e di giovani artisti nati nell’era digitale, dedicata al libro: non più però nell’accezione del libro d’artista, anche se ogni tanto se ne può notare una convergenza, quanto piuttosto con un’attenzione specifica alla forma “perfetta” del libro e a tutto ciò a cui questa forma rimanda. Ed è proprio il curatore, Alberto Fiz, a far emergere quanto il libro, pur andando incontro ad una generazione informatizzata, riesca a mantenere il suo fascino nell’immaginario della collettività. Sembra quasi di assistere al paradosso dinanzi al quale ci aveva lasciato Fahrenheit 451: dove il contenuto sopravviveva alla forma del libro. In questo caso, però, le pagine scritte, ricamate, scolpite, ingigantite, rimpicciolite, e ancora bruciate, congelate ecc…, non rimandano ad una struttura semantica, ma attraverso il loro “stare nello spazio” – così come diceva Heidegger dell’opera d’arte – racchiudono sia il significante che il significato dell’oggetto libro nella storia. La maggior parte dei libri della mostra hanno perso la “parola”, oppure quando compare è solo una metafora di sé stessa, cioè sta ad indicare una pagina scritta; ma ciò che permane e prevarica nelle opere esposte è la forma del libro. Questa diventa modulo ripetuto che va a costruire una biblioteca, una torre, un tappeto, un muro, oppure elemento scultoreo a sé stante, fino a diventare un qualcosa di immateriale attraverso i video: ognuno dei quali è la soluzione corrispondente al personale rapporto degli artisti con i libri, che è stato approfondito anche in alcune interviste inserite nel catalogo della mostra. Un percorso emozionante dove il fruitore, come chi legge, si immedesima nel “racconto” delle opere. E proprio questo percorso è stato immaginato da Wanda Ferro, Presidente della Provincia di Catanzaro, come attraversato da un unico filo rosso che raccoglie la memoria degli eventi culturali ed artistici realizzati in questi anni: dagli artisti che hanno già esposto a Catanzaro e dalle tematiche affrontate. Come l’installazione esterna all’ingresso del museo, dal titolo Biografias di Alicia Martin (re-
Alicia Martin, Singularidad, 2011-2012, installazione site-specific, Ciudad de la Cultura, Santiago de Compostela
alizzata in loco con i volumi forniti dalla casa Editrice Rubbettino), che attira nel suo vortice il passante invitandolo ad entrare. Così questa nuova avventura espositiva si è protratta verso il cittadino. Si è passati dall’approfondita conoscenza di un determinato artista delle mostre precedenti, che pur essendo eventi unici, potrebbero essere considerati limitati alla fruizione di un pubblico addetto ai lavori, ad un livello di lettura che non si limita all’arte contemporanea e che potrà, in questi mesi, soddisfare numerosi “lettori”. Bookhouse. La forma del libro a cura di Alberto Fiz Testi critici di Achille Bonito Oliva, Alberto Fiz, Lorand Hegyi, Lea Vergine e Peter Weibel, con un saggio inedito di Emilio Isgrò, l’intervista a Mimmo Paladino di Marco Vallora e le testimonianze degli artisti sul loro rapporto con il libro Artisti: Vincenzo Agnetti, Pierre Alechinsky, Maddalena Ambrosio, Stefano Arienti, Art & Language, Per Barclay, Gianfranco Baruchello, Irma Blank, Gregorio Botta, Pier Paolo Calzolari, Paolo Canevari, Clegg & Gutt-
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mann, Davide Coltro, Enzo Cucchi, Ceal Floyer, Maria Friberg, Jean-François Guiton, Gary Hill, Candida Höfer, Emilio Isgrò, Airan Kang, On Kawara, William Kentridge, Anselm Kiefer, Jiří Kolář, Jannis Kounellis, Matej Krén, Anouk Kruithof, Maria Lai, Alicia Martín, Sabrina Mezzaqui, Claes Oldenburg & Coosje Van Bruggen, Dennis Oppenheim, Mimmo Paladino, Giulio Paolini, Claudio Parmiggiani, Michelangelo Pistoletto, Dmitry Alexandrovich Prigov, Michael Rakowitz, Rashid Rana, Robert Rauschenberg, Kibong Rhee, Gerhild Rother, Lisa Schmitz, Richard Wentworth, Peter Wüthrich 4 maggio – 5 ottobre 2013 Museo MARCA Via Alessandro Turco 63, Catanzaro Orari: martedì-domenica 9.30-13.00 e 16.0020.30; lunedì chiuso Ingresso Euro 3,00 Info: +39 096 1746797 info@museomarca.com www.museomarca.info
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Klee e Melotti, incontro a sorpresa in riva al lago LUGANO | Museo d’Arte | 17 marzo – 30 giugno 2013 di Matteo galbiati Può nascere un suggestivo dialogo fatto di strette reciprocità e di comuni visioni tra due grandi artisti che non ebbero mai occasione di conoscersi e incontrarsi di persona? Guardando ai sobri e misurati allestimenti – nulla è lasciato al caso e nessuna opera è fuori posto o di troppo – del Museo d’Arte di Lugano l’incontro ideale tra Paul Klee (1879-1940) e Fausto Melotti (1901-1986) avviene con piacevole sorpresa ed incanto, con una ri-scoperta intensa e piena di fascino che rende il percorso espositivo fluido, scorrevole e di facile lettura, sebbene molte delle tematiche affrontate nelle varie sale abbiamo un profondo spessore poetico e intellettuale. Klee e Melotti, due storie artistiche differenti, figlie e specchio della loro epoca, che da una prima specifica fase autonoma, trovano nel tempo un’assimilazione dei propri percorsi su territori comuni e condivisi del sentire. Un rapporto avvenuto sempre a distanza, uno scambio silenzioso e istintivo, frutto di temperamenti e animi che avevano una coerente e congruente correlazione su reciproche affinità d’interesse, che la loro espressione artistica avrebbe poi sviluppato in un modo tanto strettamente prossimo. Proprio su questi comuni campi d’azione avviene lo sviluppo di questa mostra che individua, con sorprendente puntualità, i punti di contatto che i due artisti hanno inconsapevolmente legato alle forme delle loro opere. Comporre questo racconto, intrigante incontro di sensibilità – che si traduce in uno stretto rapporto di rimandi impliciti – è la missione che i curatori della mostra hanno saputo far emergere – con un’eccellente regia e una linea di scelte determinata e sicura – nelle sale del museo luganese, fornendo occasione di un dialogo che allieta lo sguardo di ogni osservatore e ne tocca sempre l’immaginazione. Una mostra imperdibile e davvero valida per tutti, non è stato infatti un caso incontrare famiglie con bambini (anche piccoli) – sono i più abili e attenti osservatori delle opere – al seguito che, invece di soffocare la ragione in un centro commerciale qualunque, ritrovano la libertà immaginativa dell’arte per aprire la mente alla conoscenza. E questa mostra risulta, anche per lo specifico linguaggio di Klee e Melotti – e l’eccellente allestimento realizzato – il mezzo migliore.
Settanta opere (dipinti, acquarelli e disegni) di Klee e circa ottanta (sculture e disegni) di Melotti – provenienti da prestigiose istituzioni, musei e collezioni pubbliche e con la generosità e disponibilità di collezionisti privati, il contributo del Zentrum Paul Klee di Berna e dell’Archivio Fausto Melotti di Milano – si distribuiscono nelle sezioni Origini, Astrazioni e geometrie, Ritmi musicali, La figura si fa linea, Stanze e partiture, In scena, Secondo natura, Ritmi come paesaggi, Alfabeti e Zoologia fantastica, capitoli tematici che si susseguono svolgendo la lettura dei differenti aspetti da cui emerge quella loro possible “relazione postuma”. Su tutto domina un ritmo poetico-melodico che vede, proprio nella musica, il mezzo reciproco per dare forma al pensiero e la via per la manifestazione di una nuova misura della percezione della realtà. E non è un caso che il maestro svizzero fosse un provetto violinista, e lo scultore italiano avesse conseguito il diploma in pianoforte e fosse un raffinato musicologo. Una mostra che è una sorpresa continua. Tutto questo in attesa dell’attivazione effettiva del nuovo centro culturale di Lugano – il LAC – che vedrà la luce nel 2014, ma che è identità
virtualmente già presente per l’unione della direzione del Museo d’Arte di Lugano e il Museo Cantonale d’Arte, musei dalla cui definitiva fusione prenderà avvio il nuovo ente. Klee – Melotti a cura di Guido Comis e Bettina Della Casa 17 marzo – 30 giugno 2013 Museo d’Arte Riva Caccia 5, Lugano Orari: martedì-domenica 10.00-18.00, venerdì 10.00-21.00 Ingresso: Franchi 12,00; AVS, gruppi e studenti 17-25 anni Franchi 8,00; gratuito ragazzi fino a 16 anni, la prima domenica del mese e domenica 12 maggio (Giornata Internazionale dei Musei) Info: +41 58 8667214 info.mda@lugano.ch www.klee-melotti.ch www.mda.lugano.ch
Fausto Melotti, Canone orientale, 1985, ottone dorato, cm 101.5x130x20, Archivio Melotti, Milano. © Archivio Melotti, Milano 40
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Fantasie urbane Oltre Sant’Elia: cento anni di immaginazioni “metropolitane” COMO | Villa Olmo e Pinacoteca Civica | 24 marzo – 14 luglio 2013 di Matteo galbiati
Antonio Sant’Elia, Edificio industriale con torre angolare, databile 1913, matita nera, pastello grigio e acquerello rosso su carta, cm 27,3x41,5
Sono passati quasi cento anni da quando Antonio Sant’Elia (1888-1916), architetto visionario e sognatore – precursore “teorico” di molti aspetti della città contemporanea – presentò nel 1914, alla mostra milanese intitolata Nuove Tendenze, una serie di dodici disegni in cui dava evidenza alle sue idee archtettoniche: erano esempi della sua La Città Nuova. Parte proprio da questo punto – anche pensando ad una valorizzazione dell’opera dell’architetto futurista di cui nulla fu effettivamente costruito (eccezion fatta per una villa nel comasco) – il progetto della mostra aperta a Villa Olmo, in cui si vuole suggerire al pubblico elementi particolari, talvolta inconsueti, spesso inediti o da riscoprire, con cui analizzare – anche intellettualmente – il concetto di spazio umano del vivere e l’immagine stessa di metropoli. Un pensiero che risale già alla metà dell’Ottocento – nel pieno dello sviluppo industriale – quello sull’evoluzione rutilante dell’ambiente urbano, che andava rapidamente modificando regole e stili di vita, ma che solo il XX secolo trova poi modo di ampliare, approfondire e consolidarne significativamente l’analisi. Questa mostra non ha un percorso semplice e non è facile calarsi nella linea analitica percorsa attraverso un allestimento che spazia da opere, dipinti, disegni, progetti a installazioni, sculture
e vedeo: un secolo di pensieri sul tema della città nuova affrontato a 360 gradi e riassunto non solo con la voce degli architetti “praticanti”, ma anche dei teorici dell’architettura e degli artisti. Il risultato, che emerge agli occhi del visitatore attento – attraverso le 100 opere selezionate (abbiamo opere del già citato Antonio Sant’Elia, ma anche di Umberto Boccioni, Fernand Léger, Mario Sironi, Le Corbusier, Frank Lloyd Wright, Fritz Lang, Yona Friedman, Archizoom, Superstudio, Chris Burden, Carsten Höller e molti altri ancora…) – è indirizzato non tanto sulla città fine a se stessa, bloccata in un sistema di autoregolamentazione, ma soprattutto sulla possibilità di aprire a orientamenti e pensieri diversi, nuovi. Ci si muove verso spunti, idee e strumenti per rinnovare – non senza una dose di visionarietà come suggerito da molte delle opere esposte – il nostro presente, che può essere stravolto e affrontato, appunto, secondo una logica nuova. Un messaggio radicale che si recupera lentamente, passo dopo passo, dall’inizio del percorso fino all’ultima sala, quando i nostri occhi hanno vissuto ed esorcizzato l’immagine che avevamo di città all’inizio della visita. Una sezione di questo progetto prosegue nell’allestimento presso la Pinacoteca Civica della città lariana con il preciso scopo di offrire,
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tanto ai comaschi quanto a tutti i visitatori della mostra, l’occasione – davvero imperdibile – di poter ammirare un nucleo di 50 affascinanti disegni di Sant’Elia, opere che da molti anni sono rimaste inaccessibili, per questioni conservative, al grande pubblico. Le carte con i progetti visionari dell’architetto comasco, da cui tutto pare avere avuto inizio, si potranno ri-scoprire in tutto il loro fascino utopista ma, oggi a posteriori, nella loro attualità così tanto plausibile. Con questa esposizione si è lavorato con una prospettiva di ricerca, inaugurando un progetto che si compone di tre capitoli successivi: alla mostra di quest’anno, infatti, ne seguiranno altre due che proseguiranno e svilupperanno ulteriormente la tematica metropolitana, concludendosi nel 2015, anno dell’Esposizione Universale di Milano – Expo 2015 – evento incentrato in modo particolare sulle politiche di sviluppo sostenibile, da cui la riflessione sul panorama urbano non può certo prescindere. La città nuova. Oltre Sant’Elia. 1913 cento anni di visioni urbane 2013 a cura di Marco De Michelis 24 marzo – 14 luglio 2013 Villa Olmo Via Simone Cantoni 1, Como Pinacoteca Civica Via Diaz 84, Como Orari: Villa Olmo martedì-giovedì 9.00-20.00, venerdì-domenica 9.00-22.00; Pinacoteca Civica martedì-giovedì 10.00-20.00, sabato-domenica10.00-20.00, venerdì 10.00-22.00; chiusi lunedì Ingresso: Euro 10,00, ridotto Euro 8,00, famiglie (2 adulti e figli tra 6 e 18 anni) 25,00, scuole Euro 5,00, gratuito disabili con accompagnatore e bambini fino a 6 anni Info: +39 031 571979 villaolmo@comune.como.it www.lacittanuova.it
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Rudolf Stingel interpreta Palazzo Grassi VENEZIA | Palazzo Grassi | 7 aprile – 31 dicembre 2013 di simone rebora
Veduta dell’installazione a Palazzo Grassi, Venezia. Foto: Stefan Altenburger. Courtesy dell’artista
Per la prima volta nella sua storia, l’intera superficie espositiva di Palazzo Grassi a Venezia è offerta all’opera di un solo artista, Rudolf Stingel. Un progetto grandioso, che riesce ad accordare maestosità e intimismo, facendo leva su quei giochi di specchi tra realtà e astrazione, cui Stingel ci ha tanto abituati negli ultimi anni. La mostra, in sé, comporta poche novità sostanziali nel percorso dell’artista, ma non può essere in alcun modo ridotta allo statuto di semplice “retrospettiva”. Le opere esposte sono per la maggior parte recentissime, senza escludere decisi scavi nella produzione del passato. Ma il vero nucleo pulsante del progetto sono i pavimenti e le pareti del Palazzo, interamente tappezzate da oltre 5.000 metri quadri di tappeti. L’effetto straniante, ma al contempo avvolgente,
è ottenuto riproducendo in ogni stanza la stessa foto di un singolo tappeto (oltretutto assai vissuto, e visibilmente consumato), ingrandita fino all’emergere della pixelatura, e in seguito stampata su tappeti “vergini”. La mostra si presenta così come un’unica, enorme installazione, che guida il visitatore attraverso un’esperienza “freudiana” (gli ambienti così foderati sono un evidente richiamo al celebre studio del padre della psicanalisi), un’autoanalisi che passa attraverso la riflessione sul concetto di “pittura”. Quest’ultimo viene messo in dubbio a ogni piè sospinto, nell’inesausto ripetersi di quella decorazione fittizia, ma è inevitabile che, a lungo andare, questa stessa finzione giunga ad intaccare la naturale percezione della realtà. Da qui, il secondo passo è la contemplazione
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delle singole tele. Nel grande atrio, in una posizione volutamente defilata, è un autoritratto del pittore, realizzato con la consueta tecnica della copia ultrarealista a partire da fotografia. Al primo piano, trova invece largo spazio l’astrazione, con una forte dominanza del decorativismo (ulteriore richiamo al motivo del tappeto). L’unico soggetto realista è qui nel ritratto dell’amico Franz West, posto nella più splendida tra le sale, affacciata direttamente sul Canal Grande. Le stanze ospitano in genere un solo dipinto, di dimensioni variabili e non di rado ridottissime, nel confronto con le grandi pareti tappezzate. Non mancano poi, nei passaggi laterali, alcune “sale di decompressione”, lasciate interamente vuote. Al secondo piano la figuratività torna dominante, con una serie di “ritratti” raffiguranti illustrazioni in bianco e nero di
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sculture lignee antiche, provenienti in buona parte dal Tirolo. Ma proprio qui, quando il cerchio sembra finalmente chiudersi nello spazio dell’intimità, gli elementi decorativi affiorano nuovamente: inserti di ricamo sovrapposti a raffigurazioni della realtà copiata, sovrapposte a loro volta alla copia di un tappeto che era stata riprodotta su un tappeto. Un vortice di pensieri, si direbbe, che dal moto circolare scivola indefinitamente verso quello spiraliforme. Martin Bethenod (amministratore delegato e direttore di Palazzo Grassi – Punta della Dogana) ha voluto sottolineare “la carta bianca lasciata all’artista” per questo progetto, a testimonianza della «continuità del legame saldo che unisce l’artista e Palazzo Grassi – Punta della Dogana – François Pinault Foundation dalle origini dell’istituzione. Sin dall’apertura di Palazzo Grassi nel 2006, infatti, Rudolf Stingel è stato presente in tutte le esposizioni della collezione, sempre in maniera particolarmente significativa». Come suo solito, Stingel rilascia dichiarazioni col contagocce, lasciando più volentieri agli spettatori e ai critici il compito di trovare un senso (e un valore) alle sue opere. Più disposta al dialogo, Elena Geuna (coordinatrice del progetto) ci parla di una mostra che è anche un omaggio alla città di Venezia, ibridata di riferimenti alla cultura Mitteleuropea, tanto cara al pittore. Una mostra da vivere come «esperienza visiva e sensoriale, che modifica la percezione dello spazio architettonico». E quel che ne risulta è, paradossalmente,«una riflessione sulla riappropriazione delle immagini». Interrogata più nel dettaglio sul suo lavoro con Stingel, anche la Geuna tende però a defilarsi un poco, sottolineando come il suo ruolo sia stato quello di «semplice tramite tra l’artista, Palazzo Grassi e François Pinault, affiancando l’artista (che è anche il curatore della mostra) solo per i problemi pratici». Riferendosi poi ad alcune scelte curatoriali (come l’inserimento delle didascalie all’ingresso di ogni stanza e le serie di stanze allestite di soli tappeti), tiene a sottolineare come «il tappeto è al centro della poetica di Stingel da molti anni, e si trasforma non solo in strumento di ricerca, ma diventa pittura quando applicato alle pareti – così come era già stato nella Biennale del ’93».
Rudolf Stingel, Untitled (Franz West), 2011, veduta dell’installazione, Palazzo Grassi, Venezia, olio su tela, cm 334.3x310.5. Pinault Collection. Foto: Stefan Altenburger. Courtesy dell’artista
Rudolf Stingel a cura di Rudolf Stingel 7 aprile – 31 dicembre 2013 Palazzo Grassi Campo San Manuele 3231, Venezia Orari: tutti i giorni 10.00-19.00 | chiuso il martedì Info: +39 041 5231680 | www.palazzograssi.it
Rudolf Stingel, Untitled, 2012, veduta dell’installazione, Palazzo Grassi, Venezia, olio e smalto su tela, cm 300x242. Collezione dell’artista. Foto: Stefan Altenburger. Courtesy dell’artista 43
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