STATO ISLAMICO I volti dei leader del Caliato
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SANTA DUBITO
Non è nelle grazie del gotha di Bruxelles. Ma il nostro Alto Rappresentante UE ha tutte le carte in regola per fare bene. Ecco i dossier che la metteranno alla prova
anno I - n. 13 novembre 2014 |
Federica Mogherini
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giovane, donna, deterMinata e ben preparata. le doti del nuMero uno degli esteri dell’unione ci sonotutte. Manca solaMente il resto
| anno II - numero 13 - novembre 2014 geopolitica 12 iraQ Come si finanzia lo Stato Islamico
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18 Qatar Piccoli emirati crescono 27 aFghanistan RPG, arma simbolo
osservatorio sociale
Monitoraggio dei principali eventi e FenoMeni ribellistici ed eversivi nel nostro paese
econoMia
le rubriche
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libano che ci Fa l’italia in libano?
22 l’araba Fenice Terroriste o freedom fighters? 42 do you spread? I conti in tasca agli italiani 44 borsa energetica Riad contro tutti 52 spy gaMes Quando le spie erano scout
56 osservatorio sociale Calma apparente 58 dietro lo specchio Regime change e diversioni strategiche 59 un libro al Mese Congo
26 europa Un colpo al cerchio 32 italia Renzinomics 34 reportage da salonicco
Tra le macerie d’Europa 36 polonia Gli equilibristi di Varsavia 38 libia Crisi libica, un affare italiano 40 libano Che ci fa l’Italia in Libano?
sicurezza 46 regno unito Alle armi! Alle armi! 49 regno unito Come funziona iTrace
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la vignetta
“ Tu nis ia: l e pr ime el ezi oni d em ocratic he 26 ottob re 2 01 4 ”
GIHEN BEN MAHMOUD Artista di origine tunisina, vive e lavora da sette anni a Milano come disegnatrice ed interprete, da sempre coltiva la passione per il disegno e la scrittura. Ha lavorato per diversi anni come graphic designer con Edizioni MC (Tunisi), per poi iscriversi alla Scuola d’Arte Applicata a Milano. Gihèn ha illustrato vari libri per l’infanzia, campagne pubblicitarie e manifesti. Realizza inoltre illustrazioni per articoli di stampa in Tunisia, Italia e nel resto del mondo su argomenti di attualità sociale e politica. Questo disegno è estratto dalla mostra OrienTellers, quando le donne raccontano l’Oriente organizzata dall’università IULM di Roma.
LA VOLTA BUONA, FORSE DI MARIO MORI
l’editoriale
a copertina che abbiamo dedicato a Federica Mogherini è solo apparentemente irriverente. Non dubitiamo, infatti, che la nuova responsabile della politica estera europea abbia la capacità, la preparazione e la forza di carattere necessarie per onorare il suo impegno. La copertina non è neanche un atto di piaggeria verso il governo. È soltanto il riconoscimento di un innegabile risultato positivo conseguito dal presidente del consiglio Matteo Renzi, non solo nell’assicurare all’Italia un posto che conta nel “super governo” europeo ma anche una vittoria tattica nella sua battaglia, a Roma come a Bruxelles, per fare in modo che la politica torni in primo piano attraverso il ridimensionamento degli sconosciuti
L
burocrati che troppo spesso nel nostro Paese e in Europa hanno condizionato “le politiche”. Un altro elemento positivo, tutto da dimostrare (e da qui il nostro “dubito” di copertina), della nomina della nuova Lady Pesc potrà risultare da un rilancio della politica estera dell’Unione: se proviamo a guardare a tutte le grandi crisi dell’ultimo decennio, fatichiamo a trovare qualche timido accenno alla presenza dell’UE sullo scacchiere internazionale. Dal Nord Africa al Medio Oriente, dall’Africa all’Europa, dal Sud America all’Asia, l’emergere di crisi nei vari focolai di tensione regionali e internazionali non ha mai visto l’Europa come protagonista in tentativi di mediazione e di soluzione. Forse con la Mogherini potrebbe essere la volta buona.
inbox il direttore editoriale risponde
obama e la sconfitta alle elezioni di mid-term In America si dice sempre che il presidente che si avvicina alla fine del suo mandato è ‘un’anatra zoppa’. Ma se gli americani non credono più in Obama è semplicemente perché non ha mantenuto le promesse fatte. Adesso dovrà negoziare ogni mossa con i repubblicani e questo inciderà negativamente anche sulla politica estera. Chi ci guadagna in tutto ciò? Forse la risposta si trova nella parte orientale del mappamondo...
come evitare la delocalizzazione delle imprese italiane Mentre i tedeschi hanno avuto proprio nell’economia del trasporto un buon vantaggio in grado di compensare le perdite derivate dalla delocalizzazione, in Italia questo non è successo. E non per questioni geografiche, ma infrastrutturali. Se sullo sfondo andiamo a metterci un cuneo fiscale allucinante e un quadro giuridico sempre mutevole, incerto e spesso dipendente dai localismi, la frittata è spiegata. paolo flegar
Burocrazia, sindacati, Tar, codice civile, codice di procedura penale, codice penale, sanità, amministrazioni locali, tasse sul lavoro, sui lavoratori, su chi vuole lavorare, su chi vuole far lavorare... Vuole qualche altro motivo che spieghi la delocalizzazione?
rino carino
Ucraina, pUtin continUa a spiazzare Usa e Ue In realtà non tutti i presidenti americani a metà mandato vengono definiti ‘anatre zoppe’. Con questo termine si qualificano i presidenti che entrano da sconfitti nella fase calante del loro mandato, presidenti che hanno perso credibilità presso l’elettorato o capacità di influenza sul Congresso. Obama è uscito dalle elezioni di midterm in condizioni peggiori di un’anatra zoppa: ha raggiunto i minimi storici di popolarità per un presidente, ha smarrito peso a livello internazionale grazie a una interminabile serie di gaffe e di tentennamenti (ricordate la “linea rossa” in Siria?) e, quello che più conta, non ha più una maggioranza al Senato o alla Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti. Forse non soltanto nella parte orientale del mappamondo bisogna cercare chi ci guadagnerà. Anche al centro e al sud della carta geografica c’è chi è soddisfatto di un colosso americano retto da un presidente che si trova a fare i conti con una realtà di cose fatte ma, soprattutto, non fatte.
Dopo che la Russia ha ottenuto con gli accordi di Minsk il cessate il fuoco nell’est dell’Ucraina, per gli USA, l’Unione Europea e la NATO rincorrere il Cremlino sarà ancora più difficile. L’Occidente d’altronde non può nemmeno fidarsi troppo del nuovo governo di Kiev come alleato. marco f.
Putin ha dimostrato in tutta la crisi ucraina di stare sempre avanti di un paio di lunghezze rispetto a Europa e Stati Uniti. Il sostegno incondizionato offerto dai governi occidentali alla rivolta di Piazza Maidan, che solo oggi scopriamo essere stato un golpe organizzato da gruppi neo-nazisti ucraini con l’appoggio della CIA (Brennan, il direttore, per lavorare meglio si è addirittura fatto arredare un ufficio a Kiev), ha costretto di fatto l’Unione Europea a offrire costose garanzie finanziarie al governo di Poroshenko, ha portato la Russia a governare le trattative con il nuovo governo ucraino e ha messo in castigo dietro la lavagna come uno scolaretto indisciplinato un segretario di Stato americano, John Kerry, che è riuscito a sbagliare sia quando ha aperto bocca che quando è stato zitto.
la morte del petroliere de margerie, cUriose coincidenze Le teorie complottiste sulla morte dell’ad di Total Christophe de Margerie sono certamente interessanti. Resta da spiegare, però, chi lo ha ucciso. Sono stati gli USA sotto il naso di Putin? O lo stesso Putin per creare un “caso”? Oppure Hollande per far fuori un personaggio scomodo? marcello mori
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Le teorie del complotto sono sempre molto affascinanti, ma spesso portano fuori strada. Certo la morte di De Margerie priva la Russia di Putin di un prestigioso supporter occidentale. Ma lei ce li vede Obama e Hollande intenti a pianificare un’operazione così sofisticata? Francamente forse sono più fortunati che subdoli.
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Messico
uruguay
Marocco
spagna
Lo stallo nelle indagini sul caso dei 43 studenti scomparsi a fine settembre a Iguala ha provocato scontri in tutto il Paese. E ora spuntano anche le spese pazze della first lady Angelica Rivera Hurtado.
Il candidato del Frente Amplio Tabaré Vazquez corre da favorito al ballottaggio presidenziale del 30 novembre contro Lacalle Pou. Difficile però ripetere il gobierno feliz di José Mujica.
La nazionale marocchina è stata squalificata dalla Coppa d’Africa 2015 dopo che il governo si è rifiutato di ospitare il torneo di calcio, temendo la diffusione del virus Ebola. Riuscirà la FIFA a trovare una nuova sede?
Il 9 novembre quasi due milioni di persone hanno votato il referendum per l’indipendenza della Catalogna, che ha però solo valore simbolico. Per il governatore della Catalogna in arrivo guai giudiziari.
nigeria
Dopo la tregua tra il governo di Abuja e Boko Haram, gli islamisti continuano a fare razzie e adesso potrebbero ostacolare anche la rielezione del presidente Goodluck Jonathan. Pace a rischio.
iran
In attesa del 24 novembre, ancora nessun passo avanti sul nucleare iraniano. Teheran intanto non perde tempo e firma con Mosca un accordo per costruire otto nuovi reattori nucleari.
aFghanistan
L’insediamento di un nuovo governo non è servito per arginare la furia dei talebani. Nel 2014 più di 4.500 soldati afhgani sono stati uccisi, a un mese dalla fine della missione internazionale.
cina
Al vertice APEC, Xi Jinping ha rafforzato la partnership energetica con la Russia. Ma il vero obiettivo del patto stretto con Putin è tagliare fuori il dollaro dagli interscambi tra Mosca e Pechino.
ACCADDE
OGGI
COME ERA IL MURO NELL’89
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Perimetro totale: 155 km Controlli elettronici: 127,5 km Torri di osservazione: 302 Cani da guardia: 259 Bunker: 20 Addetti alla sorveglianza: 11.000 soldati
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gerMania |
di Luciano Tirinnanzi
9 novembre 1989 Fine delle ideologie 25 ANNI SENZA IL MURO l 9 novembre 1989, a forza di picconate, venne giù il celebre muro di Berlino e, con esso, crollarono come noto anche quegli ideali comunisti propagandati sui generis dall’Unione Sovietica, che a sua volta non resse al colpo fatale assestatogli dalla storia e dal capitalismo. Eretto nell’agosto del 1961 per dividere in due visioni antagoniste del mondo un Paese occupato e un intero continente devastato dalla seconda guerra mondiale, la caduta del muro avrebbe dovuto segnare anche un significativo progresso nelle relazioni internazionali tra Est e Ovest. Non andò esattamente così. Ciò nonostante, quello fu un giorno vittorioso. Per i tedeschi innanzitutto, ma anche per Stati Uniti, Vaticano e numerosi altri Paesi europei. Per molti altri, invece, a cominciare dai Paesi del blocco sovietico che guardavano a Mosca come all’unico orizzonte politico possibile, fu solo l’inizio del declino. Da quel modello che dominò il mondo dalla Conferenza di Yalta in poi - quando Roosevelt, Stalin e Churchill delinearono le rispettive aree di influenza - si era giunti così a un nuovo capitolo, ancora tutto da scrivere.
I
L’attivista e politico polacco Adam Michnik distribuì nel seguente modo i meriti di quel risultato epocale, che segnò la fine delle ideologie del XX secolo: “Se chiediamo a Washington, diranno che è caduto per merito di Reagan. Se a Mosca, per Gorbaciov. Se in Vaticano, per merito di Karol Wojtyla. Se a Berlino per merito di Kohl. Se a Varsavia, diranno che è stato per merito nostro. Per me ha cominciato a cadere a Danzica, quando la protesta degli operai di Solidarnosc sancì la fine del comunismo: erano dei proletari che protestavano contro la dittatura del proletariato”. La fine delle ideologie si stava portando dietro la fine del dominio del mondo da parte di due oligopoli. Un avvenimento che era la somma di più cause e al quale si era giunti grazie al contributo di numerosi soggetti politici, molti dei quali iniziarono ad attrezzarsi per costruire la geopolitica del futuro già dal giorno seguente. Solo l’Italia, tra le potenze europee, sembra non essere mai riuscita a evolvere da quello schema. Secondo lo scacchiere crimeano del 1945, noi eravamo parte dell’Occidente e tali saremmo
dovuti restare, ma una larga parte della popolazione per decenni guardò fiduciosa a Mosca e al comunismo, senza tuttavia spostare l’ago della bilancia politica, per come era stata concepita. Oggi che tutto questo non c’è più, che il muro di Berlino è divenuto il proverbiale ‘pezzo da museo’ (alcune sue parti si possono persino acquistare su Ebay) e che sia Mosca sia Pechino parlano ormai il linguaggio del capitalismo, in Italia la nostalgia del tempo che fu è però rimasta. Con tutto il suo odore stantio e la sua anacronistica resistenza al cambiamento, che ci ha precipitati in un incubo amministrativo per insipienza di classi dirigenti che non hanno mai riconosciuto la fine di una stagione e che si comportano alla stregua dei peggiori amanti, che non riescono ad accettare la fine di una, pur grande, storia d’amore.
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FACES
I volti più significativi del mese Il dopo ELEZIONI in Ucraina
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ALEKSANDR ZAKHARCHENKO Classe 1976, ex elettricista e oggi capo delle milizie Oplot, è stato eletto primo ministro della Repubblica Popolare di Donetsk, con il 75% delle preferenze.
IGOR PLOTNITSKY Classe 1964, già ministro della Difesa e da agosto presidente della Repubblica Popolare di Lugansk, è stato riconfermato leader con il 63%.
PETRO POROSHENKO Il presidente dell’Ucraina, quello vero, non è riuscito a imporre la sua coalizione nelle urne (22%), pertanto la sua leadership esce ridimensionata.
VLADIMIR PUTIN Nonostante gli americani sognino di disarcionarlo dal Cremlino, l’unico a ridere oggi è il presidente della Russia, il cui indice di gradimento ha raggiunto il 70,3%, tra i massimi storici.
ARSENY YATSENIUK La coalizione del primo ministro ucraino ha ottenuto un ottimo 23% alle elezioni parlamentari. Oggi è lui a insidiare la presidenza e a spingere per il proseguimento delle ostilità.
BARACK OBAMA Dopo aver perso anche il Senato nelle elezioni di mid-term, il presidente USA non controlla più il Congresso (e nemmeno il Paese). Il suo indice di gradimento è al 40%, in caduta libera.
geopolitica CALIFFATO ISLAMICO Le finanze La catena di comando Le figure chiave La “promessa di Allah”
QATAR Gli obiettivi di Doha
ITALIA I commerci con la penisola qatarina
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Come si finanzia lo Stato Islamico
geopolitica
l’ascesa del gruppo è stata possibile anche grazie alle enormi disponibilità economiche, calcolate oggi intorno ai due miliardi di dollari. estorsioni, contrabbando, riscatti di ostaggi, ma soprattutto vendita del petrolio al mercato nero, finanziamenti esteri e razzie nelle banche. ma quanto pesano queste voci nel bilancio dei jihadisti sUnniti? di Luciano Tirinnanzi
IRAQ uando a giugno le armate di Abu Bakr Al Baghdadi conquistano Mosul, nella Iraq’s United Bank for Investment trovano un tesoro di 500 miliardi di dinari - oltre 450 milioni di dollari, un quarto del patrimonio totale - che permette loro di fare il salto di qualità. Ma, in parte, questa notizia è propaganda. Athil al-Nujaifi, governatore della provincia di Ninive (dove si trova Mosul), ha confermato come i jihadisti sunniti abbiano razziato numerosi milioni da questa e da altre banche nell’area. Ma la grande banca finanziaria irachena fino a poche settimane fa sosteneva che quel mezzo miliardo di dollari ghermito dai miliziani dalla filiale di Mosul “non è mai stato rubato” e che la banca continua a operare normalmente. Eppure, è un fatto che Mosul sia stata ampiamente saccheggiata di soldi, armi e mezzi prima di divenire la capitale irachena del Califfato, controllata direttamente dalle milizie del Califfo, che ha scelto proprio questa città per fare la sua prima e unica apparizione in pubblico.
Q
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geopolitica
LA CADUTA DI MOSUL
Base militare di Al Kindi Tigris
Mosul Baghdad
Musherfa 6 Avanzata dei combattenti IS Haramut 6 Tamoz 17 6 Mosul Hotel 8 9 Hay al-Islah al-Ziraie 6 Hay Tanak 6
Hay Uraibi
IRAQ
10 Gharawi cade in un’imboscata
Iraqi Operation 7 Command Aeroporto di Mosul 2 miglia 2 km
GIUGNO 6
Intorno alle 03:20, i combattenti dello Stato Islamico entrano a Mosul attraverso cinque distretti lungo il bordo occidentale della città.
I miliziani di IS fanno strage della polizia irachena nella parte settentrionale del quartiere Tamoz 17. La Terza divisione dell’esercito iracheno abbandona il bordo occidentale della città e anche tra la polizia iniziano le defezioni.
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Qanbar, vice capo del personale del ministero della Difesa, e Ghaidan, comandante delle forze di terra irachene, arriva a Mosul e assume il controllo da Gharawi, capo dei federali.
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Arrivano altre truppe IS che assaltano una stazione di polizia nel quartiere Hay Urabi e poi si dirigono all’Hotel Mosul. Continuano le diserzioni e le fughe di poliziotti e federali.
Un’autocisterna riempita con esplosivo esplode di fronte all’Hotel Mosul, mettendo in fuga gli ultimi federali e poliziotti rimasti. IS raggiunge il lato occidentale del fiume Tigri. Esercito e ufficiali locali si riuniscono al Comando Operazioni intorno all’aeroporto. Qanbar e Ghaidan si dirigono verso la base militare di Al Kindi, che poi abbandonano nella notte.
10 Gharawi lascia il Comando Operazioni e attraversa il Tigri, dove cade in un’imboscata, ma riesce a fuggire dalla città a bordo di un veicolo corazzato.
fonte: reuters
il caso della banca di mosUl I soldi spariti dalle casse della United Bank facevano parte delle riserve liquide e auree dell’istituto di credito. Vanno esclusi invece i titoli quotati in borsa, i quali sono facili da controllare e da bloccare. Il bilancio dell’istituto bancario iracheno al 31 marzo di quest’anno mostrava che la banca centrale (di cui Mosul è solo una delle 21 filiali) aveva in pancia 227 miliardi di dinari investiti, 371 mld di depositi,
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nella pen-drive di un corriere dello Stato Islamico, intercettato dai servizi segreti iracheni. Dunque, mancherebbe all’appello un altro miliardo di dollari. Se ne deduce che il grosso dei finanziamenti allo Stato Islamico giunga da altre fonti. Quali? il finanziamento internazionale Come noto, uno dei cinque pilastri dell’Islam su cui si basa la professione di fede di ogni buon musulmano, è la Zakat, traducibile come “elemosina” nel suo senso più nobile: è fatto obbligo per ogni musulmano dimostrare la propria benevolenza e misericordia verso i propri fratelli attraverso la donazione spontanea di una parte delle proprie ricchezze. Un sistema che può travalicare la fede e può servire da finanziamento occulto per attività niente affatto connesse con le pratiche religiose o sociali, come ad esempio la jihad. Arabia Saudita e Qatar sono direttamente coinvolte in questo senso. Non si tratta solo di accuse, ma di considerazioni che provengono da numerose istituzioni, a cominciare dalla Casa Bianca. Già nel 2001 gli Stati Uniti avevano creato unità specializzate nello screening dei flussi finanziari esteri, concentrando le indagini proprio sulla Penisola Araba, e facendo conseguentemente pressione sui governi di Arabia Saudita, Kuwait e Qatar per reprimere il finanziamento di gruppi estremisti. Che tuttavia non si è mai interrotto.
QATAR E ARABIA SAUDITA SONO COINVOLTE NEL FINANZIAMENTO 61,5 mld di provvigioni e solo 38 mld di riserve. Se i dati della United Bank sono corretti, la cifra reale di cui i miliziani hanno potuto usufruire realmente si aggira allora intorno ai 120 miliardi di dinari, pari a circa 85 milioni di dollari. Forse ancor meno. Sempre che le riserve si trovassero tutte a Mosul. In ogni caso, si tratta di una cifra ben lontana dai 450 milioni di dollari denunciati. Prima della caduta di Mosul, sappiamo per certo che la reale disponibilità economica del Califfato era pari a 875 milioni di dollari. La notizia è giunta a noi attraverso i dati contabili scoperti 14
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geopolitica
nelle casse del Califfato quotidianamente una cifra compresa tra i 200 e i 400 mila dollari, attraverso la vendita del greggio al mercato nero, al governo turco e allo stesso regime siriano. Controllare le strade da Jarabulus a Kobane in Siria e l’autostrada che corre lungo la provincia di Anbar in Iraq, consentirà a IS di incrementare tali commerci, che avvengono per lo più su gomma, attraverso autocisterne. Anche le razzie perpetrate a danno delle aree archeologiche garantiscono una straordiMARZO 2014 Il documento del naria fonte di finanziamento (la Siria, afferma bilancio ufficiale l’UNESCO, possiede oltre 10mila siti greci, rodella United Bank mani, ottomani e di altre civiltà). Secondo l’inof Iraq telligence britannica, solo i saccheggi presso il sito archeologico intorno ad Al Nabuk, tra le montagne Qalamoun a ovest di Damasco, hanno portato allo Stato Islamico guadagni per 36 milioni di dollari. Inoltre, le immagini satellitari della città greco-romana di Apamea mostrano distintamente scavi e dissotterramenti incontrollati con i bulldozer, a riprova di quanto spaventoso sia il livello di razzie raggiunto da parte dei predoni che operano per conto dei jihadisti sunniti, e di quanto remunerativo sia questo business.
Questi tre governi hanno anzi affermato che parte delle donazioni, emerse come chiara fonte di finanziamento diretta ai combattenti in Siria dal 2011 in poi, sono giustificate dalla necessità di sostenere le forze ribelli in Siria contro il regime di Bashar Al Assad. Enti di beneficenza e singoli uomini facoltosi del Golfo hanno dunque effettivamente donato, sia pur indirettamente, cifre enormi a enti o soggetti collegati tanto all’esercito Siriano Libero quanto a Jabhat al-Nusra, sia attraverso bonifici sia per tramite di emissari con valigette piene di contanti. Secondo una nota informativa del Brookings Doha Center (ente di ricerca politico-economico del Qatar, con sede anche a Washington), a maggio scorso la gran parte della raccolta fondi privati e di beneficenza per l’insurrezione in Siria era concentra nelle sole aree dove operano i jihadisti. Fino alla fine dello scorso anno, dicono fonti inglesi ben informate, è stato possibile rintracciare i dettagli dei depositi bancari internazionali per le donazioni. Oggi questo metodo è stato sostituito da comunicazioni cellulari, contatti telefonici e account WhatsApp utilizzati per coordinare le donazioni e trasmettere indirizzi stradali dove raccogliere fisicamente il denaro. petrolio e archeologia Per capire come funziona l’economia dello Stato Islamico, non vanno dimenticati i profitti dei giacimenti petroliferi che ancora controllano in Siria orientale e nel Nord dell’Iraq. IS esporta circa 9mila barili di petrolio al giorno a prezzi che vanno dai 25 ai 45 dollari al barile. Il che porta
le tasse Infine, lo Stato Islamico ha creato anche un vero e proprio sistema di tassazione, tanto in Siria quanto in Iraq, che colpisce sia le piccole e medie imprese sia i cittadini musulmani e non, con relativi distinguo. Nella loro capitale irachena Mosul, ad esempio, oltre agli esercizi commerciali, le tasse vengono imposte anche alle compagnie telefoniche che dispongono di ripetitori nelle zone controllate da IS. Nella capitale siriana Raqqa, invece, agli imprenditori si richiedono 20 dollari ogni due mesi in cambio di energia elettrica, acqua e sicurezza per la propria azienda. Un tributo che, in maniera lungimirante, è inferiore alle tasse (e alle tangenti) che prima erano dovute al governo di Assad. Ai cristiani, inoltre, è stata imposta la Jizya, la stessa tassa che il profeta Maometto richiedeva alle comunità non musulmane in cambio di protezione. Tutti i tributi vengono riscossi attraverso rappresentanti politici locali e gestiti dalla Banca di Credito di Raqqa, che oggi funziona come autorità fiscale almeno per la Siria e le cui ricevute portano il timbro con il logo dello Stato Islamico. Discorso simile vale per gli stipendi ai funzionari pubblici e ai soldati, che si aggirano intorno ai 500 dollari al mese, per un totale di circa 60mila uomini. Fa 360 milioni l’anno che possono uscire dalle casse dello Stato Islamico, meno di un quarto delle ricchezze totali, il cui resto può dunque essere investito ancora a lungo nella loro “Guerra Santa”. Il Califfato, dunque, si sta comportando esattamente come uno Stato sovrano e ha dato vita a un sistema tradizionale di economia di guerra che, ahimè, funziona fin troppo bene. Se non si capisce questo, non si comprende appieno la sua forza e la sua pericolosità.
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geopolitica
LA CATENA DI COMANDO DELLO STATO ISLAMICO CONSIGLIO DELLA SHURA* (CONSIGLIERI MILITARI E RELIGIOSI)
MEMBRI ANZIANI (CONSIGLIERI)
ABU MUSAB AL ZARQAWI LEADER DI AL QAEDA IN IRAQ E IDEATORE DEL PROGETTO PRIMORDIALE DELLO “STATO ISLAMICO” ASSASSINATO NEL 2006 DAGLI USA
ABU SHEMA RESPONSABILE ARMAMENTI
ABU MOHAMMAD AL-ADNANI PORTAVOCE DELLO STATO ISLAMICO
ABU KIFAH RESPONSABILE GUERRIGLIA E ATTENTATI
ABU OMAR AL-SHISHANI COMANDANTE DELLE FORZE ARMATE IN SIRIA ALIAS “IL CECENO”
ABU SUJA CONSIGLIERE AFFARI CONNESSI CON LA RELIGIONE
ABU BAKR AL-BAGHDADI FONDATORE E DEL CALIFFATO E LEADER ASSOLUTO DELLO STATO ISLAMICO IS CONOSCIUTO COME CALIFFO IBRAHIM
*Sono indicate solo le figure chiave
CAPO DI STATO E DI GOVERNO ATTUALMENTE AL POTERE
GABINETTO DI GUERRA BRACCIO ESECUTIVO
?
LUOGOTENENTI
ABU MUSLIM AL-TURKMANI
ABU ARI AL ANBARI
VICE DI AL BAGHDADI E COMANDANTE IN IRAQ
VICE DI AL BAGHDADI E COMANDANTE IN SIRIA
GOVERNATORI DELLE PROVINCE IRACHENE
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GOVERNATORI-EMIRI DELLE PROVINCE SIRIANE
FINANCE COUNCIL
MILITARY COUNCIL
SECURITY COUNCIL
MEDIA COUNCIL
ARMI, PETROLIO, ECONOMIA
DIFESA E DOGANE
POLIZIA INTERNA E GIUDIZIARIA
MASS MEDIA E SOCIAL NETWORK
LEADERSHIP COUNCIL
FIGHTERS ASSISTANCE COUNCIL
INTELLIGENCE COUNCIL
LEGGI E KEY POLICIES
GESTIONE COMBATTENTI STRANIERI
SERVIZI SEGRETI
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geopolitica
Figure chiave di IS ABU MUSLIM AL-TURKMANI “NUMERO DUE” DEL CALIFFATO Forse la figura più importante dopo il Califfo stesso, Al Turkmani è un esperto militare iracheno, proveniente dai ranghi dei baathisti. Ha servito Saddam Hussein come generale dell’esercito, come membro della guardia repubblicana (nelle forze speciali del palazzo presidenziale) e ha militato anche nella disciolta Istikhbarat, l’intelligence militare di Baghdad, sino al 2003. Come Al Baghdadi, anche Al Turkmani è stato imprigionato a Camp Bucca, le discusse carceri irachene sotto il controllo americano durante l’invasione che ha deposto il regime. Oggi governa le province irachene ed è a capo delle operazioni militari in Iraq. Potrebbe essere morto durante il raid americano dell’8 novembre 2014 su Qaim (Iraq) in cui sarebbe stato ferito lo stesso Califfo. ABU OMAR AL-SHISHANI ALTO COMANDANTE IN SIRIA Nome di battaglia “Al Shishani”, conosciuto anche come “il ceceno”, è nato in Georgia nel 1986. Ha combattuto nelle fila dei ribelli siriani contro il regime siriano di Assad, prima di prestare giuramento al Califfato nel 2012. Figura chiave dell’alto comando militare, Shishani è a capo delle operazioni in Siria e ha condotto anche la vittoriosa campagna militare che ha portato lo Stato Islamico ad avere il controllo dell’Iraq del nord. Ormai leggendario tra i miliziani, il suo volto caucasico e in particolare la sua barba rossiccia sono ormai divenuti un’icona: la sua immagine compare in numerosi video realizzati dalla propaganda jihadista mentre la sua faccia viene riprodotta su auto, carri armati, muri e persino t-shirt. Per tale ragione, i giornalisti lo chiamano anche “ginger jihadist”. Attualmente, si ritiene stia conducendo la campagna contro i curdi al confine turco-siriano. ABU MOHAMMAD AL-ADNANI PORTAVOCE E “IDEOLOGO DI IS” Nato nel 1977 a Idlib, in Siria, Al Adnani è indicato come un combattente jihadista sin dai tempi della guerra in Iraq del 2003, anche se gli americani lo hanno inserito nell’elenco dei “terroristi internazionali” soltanto nel 2013. Descritto come appassionato lettore e assiduo frequentatore di moschee, sotto il Califfato Al Adnani è divenuto una sorta di Ministro per la Propaganda. È lui che sovrintende a tutte le comunicazioni ufficiali e ai messaggi veicolati ai media da IS. Si ritiene anche che abbia personalmente curato la dichiarazione ufficiale multilingue del 29 giugno 2014 (foto in alto), che annunciava al mondo la creazione dello Stato Islamico.
Proclama dello Stato Islamico robabilmente, lo Stato Islamico è un parto dello Stato maggiore della difesa irachena, promosso da quella parte di sunniti che si sono rifiutati di subire discriminazioni etnico-religiose. In ogni caso, il gruppo è cresciuto oltre ogni aspettativa e oggi ha debordato in una forma arcaica di teocrazia, dove vige principalmente la legge della spada. Per capire meglio di cosa stiamo parlando, può essere utile leggere la proclamazione della nascita dello Stato, “La promessa di Allah”.
P
Lo Stato islamico - rappresentato da Ahl-Halli-wal -’aqd (l’autorità del proprio popolo), composto da personalità di alto livello, dirigenti e dal Consiglio della Shura - ha deliberato di annunciare l’istituzione del Califfato Islamico, la nomina di un khalifah (Califfo) per i musulmani, e il pegno di fedeltà allo shaykh (Sceicco), il Mujahid, lo studioso che pratica ciò che predica, il fedele, il leader, il guerriero, il rinnovatore, discendente dalla famiglia del Profeta, lo schiavo di Allah Ibrahim, Ibn ‘Awwad Ibn Ibrãhim Ibn’ Ali Ibn Muhammad al-Badri al-Hashimi Husayni al-Qurashi per lignaggio, as-Sãmurrã’i per nascita ed educazione, al-Baghdadi per dimora e studio. E lui ha accettato la bay’ah (pegno di fedeltà). Così, egli è l’imam e khalifah per i musulNASCITA DEL CALIFFATO mani in tutto il mondo. Di conseguenza, in nome dello Stato islamico l’Iraq e Sham (ISIS) è d’ora in poi rimosso da tutte le deliberazioni e le comunicazioni ufficiali, e il nome ufficiale dalla data della presente dichiarazione è Stato islamico. Chiariamo ai musulmani che con questa dichiarazione del Khilafah (Califfato) spetta a tutti i musulmani di giurare fedeltà al khalifah Ibrahim e sostenerlo (che Allah lo preservi). La legittimità di tutti gli Emirati, i gruppi, gli stati e le organizzazioni, diventa nulla per l’espansione dell’autorità del Khilafah e l’arrivo delle sue truppe nei loro territori. Imam Ahmad (che Allah abbia misericordia di lui) ha detto, come riportato da ‘Abdus Ibn Malik al-’Attãr: “Non è permesso a nessuno che crede in Allah di dormire senza contemplare come proprio capo chiunque li conquisti con la spada fino a che non diventa Khalifah e si chiama Amirul-Mu’minin (il capo dei credenti), sia che queSTIME CIA sto leader sia un giusto o un peccatore”.
2014 29 giugno
31.500 miliziani ISIS
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geopolitica
Piccoli emirati crescono riserve di gas immense, un impero mediatico e affari milionari in tutto il mondo. ecco come il Qatar sta capitalizzando al massimo il caos generato dalle primavere arabe di Rocco Bellantone
ella campagna militare contro lo Stato Islamico, Barack Obama sa di non potersi fidare dei propri alleati. I dubbi maggiori della Casa Bianca si addensano principalmente nell’area del Golfo, dove Arabia Saudita e Qatar conducono una partita parallela a quella dell’Occidente, sin dallo scoppio delle primavere arabe. La posizione del Qatar è emblematica. Poco più di due milioni di abitanti e un territorio grande quanto l’Abruzzo, l’emirato di Doha ha capitalizzato al massimo in questi anni il caos generato dalla fase post-rivoluzionaria, muovendo simultaneamente le proprie pedine in Siria, Libia e negli ultimi mesi anche in Iraq.
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L’obiettivo è avere sempre più in- libico di Misurata per sostenere anche fluenza nella politica regionale e in- le offensive della coalizione islamista ternazionale, facendo leva sulle enor- Alba Libica e del gruppo jihadista Ansar mi capacità economiche di cui dispo- Al Sharia contro le forze governative e ne e su una macchina le milizie agli ordini delda guerra mediatica l’ex generale Khalifa qual è il canale satelliHaftar. Lo stesso trattaGolfo BAHRAIN Persico tare Al Jazeera. Il resto mento è stato riservato lo fanno i petroldollari negli scorsi anni ai palee le armi, attraverso stinesi di Hamas, cui il Doha QATAR cui il Qatar foraggia le Qatar ha offerto ospitali25 miglia attività dei principali tà e versato centinaia di 25 km gruppi estremisti islamilioni di dollari nei loSAUDI ARABIA mici operativi nei focoro conti correnti dopo lai di tensione del che nel 2012 la formaNord Africa e del Mezione sunnita aveva deQATAR dio Oriente. Il prodotto INtErNo ciso di abbandonare la sua sede in Siria. Tra settembre e ottolordo dEl 2013 Era bre, Doha ha inviato cariIl vero pallino dell’emiparI a 202,5 MIlIardI dI dollarI chi di armi all’aeroporto ro Tamim bin Hamad Al
Thani resta però la Siria. Sin dai primi combattimenti tra i ribelli siriani e l’esercito di Damasco, il Qatar ha infatti puntato tutto sul regime change. Non solo per questioni ideologiche o religiose (far cadere un governo sciita in favore di un nuovo esecutivo sunnita), ma anche per motivi economici. La destituzione di Bashar Assad agevolerebbe l’inizio dei lavori per la costruzione di un nuovo gasdotto che dal North Dome (il maggiore giacimento al mondo di gas naturale condensato, situato nel Golfo persico e condiviso tra Qatar e Iran) si potrebbe agganciare al Nabucco per rifornire l’Europa, attraversando Siria e Turchia. Senza Bashar Assad, amico di Mosca, in un sol colpo Doha avrebbe l’appoggio di un governo amico
per riuscire a sottrarre il monopolio del gas in quest’area alla russa Gazprom. Anche le armi inviate in Siria via Balcani (principalmente dalla Croazia attraverso intermediari in Turchia) sono una questione dirimente. Passate dalle mani dei combattenti del Free Syrian Army a quelle dei combattenti jihadisti, hanno contribuito al rafforzamento delle forze anti-Assad. È stato il gruppo Ahrar al-Sham ad avere un ruolo chiave nel trasformare la rivolta contro il regime in un’avanzata islamista. A fare da collante con la galassia jihadista è stato per lunghi tratti il potente uomo d’affari e accademico Abdul Rahman al-Nuaimi, inserito nella black list dei terroristi internazionali dal dipartimento del Tesoro americano.
AHRAR AL-SHAM Il gruppo Ahrar al-Sham (gli uomini liberi del Levante) è stato fondato alla fine del 2011 nella provincia siriana di Idlib. Nel dicembre del 2012 ha annunciato la formazione del Fronte Islamico Siriano in un cui si sono confluiti 11 gruppi integralisti islamici
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Sarebbe stato lui in questi anni a girare centinaia di milioni di dollari ai qaedisti di Jabhat Al Nusra in Siria, all’esercito del Califfo Al Baghdadi in Iraq e ad Al Shabaab in Somalia. Nella sua ascesa, il Qatar ha incontrato anche degli ostacoli. In Egitto, il progetto di mantenere al potere i Fratelli Musulmani è fallito dopo nemmeno un anno e nella Striscia di Gaza Hamas è stato annientato dalle forze di sicurezza israeliane. Doha in questo momento si trova in una posizione difficilmente attaccabile dall’Occidente: ha messo a disposizione della coalizione la base aerea di Al Udeid, da dove decollano i caccia americani diretti in Siria e Iraq, mantiene alla guida della Coalizione Nazionale Siriana un uomo fidato come Ahmad Tohmé e condivide affari multimilionari con i governi di tutto il mondo. Tre buoni motivi per ritenere che il piccolo emirato non avrà difficoltà a portare avanti ancora per molto tempo i suoi piani.
FOTO D’EPOCA NEl fEBBraIo dEl 2008 al thaNI Era aNCora prINCIpE E assad avEva aNCora UNo stato
RAPPORTI ITALIA QATAR la cooperazione militare tra roma e doha
Il 29 settembre del 2011 il governo italiano, guidato al tempo dall’ex primo ministro Silvio Berlusconi, ha sottoscritto un accordo di cooperazione militare con il Qatar, per la “notevole crescita del ruolo diplomatico dello Stato arabo” nella guerra civile libica. L’intesa consiste principalmente nella partecipazione congiunta delle forze armate dei due Paesi a esercitazioni e operazioni umanitarie e di peacekeeping. La partnership prevede anche attività di PRINCIPALI PROGETTI IN QATAR addestramento. Periodicamente i piloti della Qatar Air Force vengono istruiti dal personale PROGETTI VALORE (USD) dell’Aeronautica italiana nella gestione dei Qatar Railways Development Company cargo C-130 e ufficiali del nostro esercito 42.900.000.000 Qatar Rail Network Program addestrano la guardia d’élite che si occupa della protezione personale dell’emiro qatarino 17.500.000.000 NDIASC - New Doha International Airport Tamim bin Hamad al-Thani. Il patto tra Italia e Qatar ha inoltre spianato 15.000.000.000 Ashghal - Doha Bay Crossing la strada alle società dell’industria militare italiana verso un mercato in costante crescita. UDC - The Pearl Qatar 14.000.000.000 Selex ES, controllata di Finmeccanica, ha firmato un contratto da 340 milioni di euro Ashghal - Local Roads 13.700.000.000 per fornire alle forze di sicurezza qatarine and Drainage Programme il sistema di sorveglianza radar multi-funzione Kronos. La marina del Qatar sta investendo 5.500.000.000 LREDC - Lusail City per l’acquisto di elicotteri e missili. Un business ormai consolidato è anche quello Msheireb Properties - Msheireb 5.500.000.000 dei prodotti di elettronica. Doha è interessata ai sistemi di avvistamento dei droni e ai Qatar CAA - Space City Establishment 3.300.000.000 software avanzati per le intercettazioni delle comunicazioni, che potrebbero tornargli NBK Holding - Al Waab City 3.200.000.000 utili per blindare i Mondiali di Calcio del 2012. Sistemi di difesa altamente tecnologici che 3.082.000.000 QFA - 2022 Stadiums stanno già facendo la fortuna delle imprese belliche nostrane.
fonte: zawya.com
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FARE BUSINESS ALL’ESTERO
QATAR: OIL&GAS E MOLTO ALTRO mercati mediorientali che non hanno subito eccessivamente le ripercussioni delle primavere arabe continuano a reggersi grazie alla disponibilità di ingenti risorse naturali e a una maggiore trasparenza nella gestione della spesa pubblica. Le immense riserve e l’incremento della produzione di idrocarburi attestano al 4,5% la crescita media del PIL dei Paesi del Golfo nel biennio 2013-2014. Gli introiti da idrocarburi saranno destinati a investimenti nel pubblico costituendo così il principale stimolo per le economie dell’area. La crescente spesa per gli investimenti e per le politiche pubbliche favorirà inoltre un maggiore accesso al credito e aprirà nuove opportunità in diversi settori. Questi elementi favoriranno certamente l’export italiano, che proprio in quest’area aumenterà a ritmi più elevati rispetto a tutte le altre macro regioni mondiali. Le previsioni per il quadriennio 2014-2017 descrivono infatti il Medio
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Oriente come un porto sicuro per le imprese italiane. La stabilità politica e la solidità economica continueranno ad agevolare le importazioni dal Golfo con effetti positivi per le esportazioni del nostro Paese, di cui si stima una crescita pari al 9% in media nei prossimi tre anni. OPPORTUNITÀ PER IL MADE IN ITALY Tra tutti i Paesi di questa regione quello che negli ultimi anni ha assunto un ruolo sempre più strategico dal punto di vista politico e commerciale è il Qatar. Qui la dinamica delle esportazioni italiane sarà più lenta nel breve periodo una volta terminato il programma ventennale di sviluppo del gas naturale liquido. All’orizzonte appaiono comunque importanti prospettive e incoraggianti opportunità relative alla costruzione di infrastrutture in vista dei Mondiali di Calcio in programma nel 2022. Il Paese ha mostrato una crescita esponenziale. Secondo gli ultimi dati del 2013, il PIL cresce a un tasso del 5,5%. Anche se in calo rispetto agli scorsi anni, questa tendenza
le opportunità per il nostro made in Italy non mancano. Consigli utili per fare buoni affari nella piccola grande penisola del golfo persico dovrebbe essere mantenuta anche nel prossimo triennio. La crescita del PIL è trainata soprattutto dall’espansione di settori non legati allo sfruttamento di petrolio e gas. Per molte delle nostre imprese di ingegneria e costruzioni o di produzione del made in Italy le opportunità di certo non mancano. Alcune nostre aziende sono già presenti in questo mercato, come Salini Impregilo, Anas e Finmeccanica. FATTORI DI RISCHIO Tra i fattori critici il più rilevante è di carattere relazionale. Se non si ha il partner giusto in loco difficilmente si potrà coltivare un business redditizio. A nulla valgono ricerche di mercato, studi di prefattibilità, fiere e missioni. La conditio sine qua non è la presenza di un partner commerciale disposto ad accompagnare e far crescere un’azienda, i suoi prodotti e servizi sul mercato locale. Un altro elemento fondamentale è rappresentato dagli investimenti iniziali. Un atteggiamento passivo o attendista penalizza (e di molto) ogni tipo di affare.
a cura di
IBS ITALIA Società di consulenza specializzata nell’offerta di servizi all’internazionalizzazione d’impresa: studi di mercato, tax planning, ricerca partner, assistenza operativa in loco, organizzazione eventi, redazione pratiche per finanziamenti agevolati
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Terroriste o freedom fighters? Le tante donne attive nelle fila dei combattenti curdi contro lo Stato Islamico, oggi osannate come liberatrici, saranno le terroriste di domani? di Marta Pranzetti Arabista, laureata in Scienze Politiche, si occupa di analisi strategica (geopolitica e sicurezza) con particolare attenzione ai temi dell’Islam politico, del terrorismo e delle questioni di genere.
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attentatrici nello Sri Lanka dal 1987 al 2008
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uando si è cominciato a parlare di donne come Mayssa Abdo o Airin Mirkan, definite “eroine curde”, gli squadroni della morte fedeli ad Al Baghdadi erano alle porte di Kobane. Diverse settimane dopo, lo scenario dei combattimenti resta quasi immutato grazie soprattutto alla tenace resistenza curda che è riuscita a contenere le milizie estremiste. È in questo contesto che Mayssa o Airin sono balzate agli onori della cronaca, esaltate per il loro coraggio e la loro caparbietà. Due interrogativi si pongono, però, leggendo la stampa internazionale che riporta la notizia della “prima donna contro IS”. Innanzitutto, viene da chiedersi cosa sarebbe cambiato agli occhi dell’opinione pubblica se, invece di difendere la causa nazionalistica contro l’avanzare di un esercito inumano, Mayssa o Airin avessero contrastato truppe regolari irachene, turche o siriane, che pure da sempre rendono la vita impossibile al popolo curdo. E poi, cosa significa quando i giornali scrivono “la prima donna contro IS”? Non si tratta certo della prima e unica donna musulmana che decide di combattere per una causa coraggiosa. La storia ci insegna che sono tante (e sempre di più) le donne attive in campo militare-guerriero e altrettante quelle impiegate (consapevoli o costrette questa è una parentesi a parte) in operazioni suicide come efficace strategia di attacco. L’ambiente che più ha visto l’impiego di donne “martiri” in ambito islamico è quello del terrorismo ceceno, che è già stato oggetto di questa rubrica. Ma appaiono altrettanto numerose le donne nel militantismo palestinese, afghano e pakistano. Categoria a parte formano le combattenti nelle squadre Peshmerga, che dal 2012 si sono unite ai ranghi della resistenza curda contro gli attacchi del regime siriano di Assad e che oggi collaborano nella lotta contro IS. Ricordiamoci che le stesse Unità di Protezione del Popolo curdo in Siria (YPG), oggi osannate come “liberatrici”, hanno affiancato in passato il PKK (organizzazione militante curda attiva in Turchia dagli anni ’80 e considerata terroristica dalla comunità internazionale) nelle loro comuni rivendicazioni. Un altro gruppo islamista radicale che di recente ha preso a sfruttare le donne è quello di Boko Haram. Lo scorso giugno nella città di Gombe, nel nord-est del Paese, la prima donna-kamikaze africana si è fatta esplodere contro un comando militare. Episodio che si è poi tragicamente ripetuto
donne, società e i tanti volti dell’islaM
a fine luglio quando quattro adolescenti si sono fatte esplodere a Kano. Per quanto il significato escatologico che il martirio assume nella religione islamica possa essere considerato un vettore che rende l’atto suicida non solo permissibile ma doveroso, deve però essere chiaro che il fenomeno degli attentati suicidi non è esclusivamente legato all’Islam: la prima donna in assoluto a passare alla storia come attentatrice suicida fu Sana Khyadali, giovane libanese membro del partito nazionalista sociale siriano che, insieme ai partiti laici del Baath e del partito comunista libanese, contrastarono la Tsahal a suon di attentati dopo l’invasione israeliana in Libano del 1982. In altro contesto geografico, fu l’LTTE (organizzazione militante nazionalista attiva in Sri Lanka) a sfruttare sistematicamente la tattica del suicidio nella guerriglia antigovernativa: su un totale di 378 attacchi suicidi condotti tra il 1987 e il 2008, secondo dati del Ministero della Difesa srilankese, le attentatrici furono ben 104. La sottile linea rossa che distingue terroristi e freedom fighters anima il dibattito della comunità internazionale dagli anni Sessanta e, adesso che sempre più donne partecipano alla causa nazionalista (o religiosa), questa considerazione si estende anche ai comparti femminili delle squadre militanti. Quando l’incubo di IS sarà passato, le milizie curde continueranno nella loro militanza armata l’occasione di poter realizzare uno Stato indipendente infatti non è mai stata così realistica come nella guerra allo Stato Islamico, quindi difficilmente torneranno a casa, a conflitto finito, senza pretendere un tornaconto che invece difficilmente gli verrà garantito da Turchia, Siria e Iraq – e allora a Mayssa e alle sue compagne toccherà inevitabilmente passare sulla sponda “sbagliata” della storia e, da eroina che sono, forse dovranno accettare di vedersi affibiata l’etichetta quasi unanime di terroriste.
Chi sono le eroine curde MAYSSA ABDO, meglio nota con il nome di battaglia Narin Afrin, è alla testa di una delle Unità femminili (YPJ) di Protezione del Popolo curdo - YPG, la forza di autodifesa del Partito di Unione Democratica (PYD) che ha istaurato un governo autonomo nel Royava (Kurdistan occidentale siriano). Si battono attualmente contro l’avanzare dello Stato islamico in Siria e Iraq. AIRIN MIRKAN, pseudonimo di Dilar Gencxemis, era madre di due figli e comandante di un’altra unità del YPJ. È passata alla storia come la prima attentatrice suicida curda che si è immolata pur di non cadere in mano al nemico.
Tra le fila del YPJ altre donne, come CEYLAN OZALP, hanno preferito uccidersi pur di non finire nelle mani di IS. La percentuale di donne che combattono nella YPJ è molto alta, considerando anche l’impostazione laica e paritaria della società curda che si discosta dalla tradizionale cultura misogina che caratterizza tutta la regione.
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PLACES I luoghi meno conosciuti al mondo ottobre-Novembre 2014
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JERICO, CISGIORDANIA Un pellegrino cristiano s’immerge nella “fonte battesimale” del fiume Giordano, presso Qasr el-Yahud.
MELILLA, SPAGNA Nell’enclave marocchina, gli spagnoli giocano a golf mentre gli immigrati giocano a guardie e ladri alla frontiera (23 ottobre).
KOBANE, SIRIA La cittadina siriana al confine turco appare così quasi ogni giorno, da quando è stretta d’assedio dallo Stato Islamico (29 ottobre).
KABUL, AFGHANISTAN Musulmani sciiti si autoflagellano durante la processione di Muharram, primo dei quattro mesi sacri dell’anno (31 ottobre).
CANTIL, CALIFORNIA I resti del Virgin Galactic’s SpaceShipTwo, navicella spaziale per il turismo nello spazio, schiantatasi al suolo il 2 novembre.
HAMILTON, CANADA Soldati canadesi scortano la bara del caporale Nathan Cirillo, vittima dell’attacco al parlamento di Ottawa (28 ottobre).
econoMia la copertina
UN COLPO AL CERCHIO di Alfredo Mantici
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Giovane, donna, determinata e ben preparata. le doti del numero uno degli esteri dell’Unione ci sono tutte. Manca solamente il resto
EUROPA iciamoci la verità. Negli ultimi cinque anni sotto la guida della baronessa inglese Catherine Ashton la politica estera dell’Unione Europea ha brillato secondo le interpretazioni più severe per la sua assenza e, secondo le valutazioni più benevole, per la sua timidezza. In nessuno dei delicati dossier di politica internazionale, dall’Ucraina alla Siria, dall’Iraq ai Balcani, dalla Cina al Giappone, si è mai riusciti a capire quale fosse la posizione dell’Unione, a parte qualche dichiarazione “politicamente corretta”. La nomina di Federica Mogherini all’incarico di Lady Pesc rappresenta non soltanto un grande risultato per Matteo Renzi ma, forse, può contribuire a ridare all’Europa il ruolo di protagonista al tavolo delle relazioni internazionali. La Mogherini è stata scelta come commissario europeo per la politica estera nonostante le forti resistenze conservatrici che si sono registrate in Italia e a Bruxelles. Già la sua nomina a ministro degli Esteri italiano da parte del presidente del consiglio Matteo Renzi era stata accolta con stupore un po’ provinciale dai commentatori politici, in quanto di lei si ricordava soprattutto un pungente giudizio sull’allora sindaco di Firenze pubblicato via Twitter nel novembre del 2012. “Renzi ha bisogno di studiare un bel po’ di politica estera, non arriva alla sufficienza, temo”, twittava all’epoca. Diventato premier, evidentemente Renzi non ha giudicato quel tweet un insulto ma ha fortemente voluto la Mogherini alla testa della nostra diplomazia scontrandosi duramente, secondo fonti qualificate, con il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che avrebbe preferito una riconferma del ministro uscente Emma Bonino.
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Nonostante le voci degli scettici, Federica Mogherini si è subito imposta alla Farnesina come “ministro secchione” essendo, per sua stessa ammissione, una “fanatica della mediazione”. Seguendo le indicazioni date da Renzi ai suoi ministri (“sono i politici che governano e non i tecnici”), la Mogherini ha gestia seguire: to in prima persona tutti i più importanti dossier ITALIA posati sul suo tavoL’economia al lo, arrivando additempo di Renzi rittura - circostanza che ha gettato nello sconcerto gli alti GRECIA funzionari del ministero degli Affari Reportage Esteri - a scrivere inda Salonicco tegralmente da sola tutti i testi dei suoi POLONIA interventi in parlamento, sia in aula La posizione che in commissiodi Varsavia ne, così come in sull’Ucraina campo europeo e internazionale. LIBIA Parlando perfettamente inglese e Il fronte caldo francese ha sempre capeggiato all’estero delegazioni molto LIBANO “snelle” rispetto al passato e ha avuto La missione italiana la possibilità di svolgere incontri e trattative a tu per tu con i più importanti leader europei, d’oltreoceano e di altri fondamentali scacchieri senza la costante assistenza di interpreti e di funzionari. Alla vigilia della sua nomina europea si sono levate critiche abbastanza velenose da parte del Financial Times, Le Monde e Wall Street Journal, oltre a quelle di buona parte dei commentatori italiani che hanno tentato di ostacolare la sua nomina ai vertici della politica estera UE.
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LA CARRIERA POLITICA Nata a Roma nel 1973 da una famiglia della buona borghesia (il padre Flavio, morto nel 1994, è stato un regista e sceneggiatore di grande successo), Federica Mogherini ha dimostrato fin dalla giovane età una spiccata propensione per l’impegno politico e di studio in campo internazionale. Laureata in Scienze Politiche con una tesi sul tema Islam e Politica, durante un periodo in Francia nell’ambito del programma Erasmus all’Istitute de Recherche e d’Etudes sur le Monde Arabe et la Méditerranée (IRENAM) si è impegnata politicamente a sinistra, prima nei ranghi della Federazione Giovanile Comunista Italiana e, poi, nelle fila dell’allora PDS, aderendo a “Sinistra Giovanile” di cui rapidamente divenne Responsabile Esteri. Molto attiva in campo internazionale, negli anni Novanta la Mogherini aderisce allo “European Youth Forum” e viene nominata vicepresidente dell’“European Community Organization of Socialist Youth” e membro della segreteria del “Forum della Gioventù della FAO”. Questi incarichi le consentono di intessere una fitta rete di relazioni con colleghi dell’area socialista europea, molti dei quali oggi hanno fatto carriera in campo politico, amministrativo e istituzionale in Francia, Germania, Olanda, Inghilterra e Spagna. Vicina a Walter Veltroni, di cui è stata collaboratrice quando l’esponente DS era sindaco di Roma, dal 2003 è stata nominata responsabile del partito per i rapporti internazionali del Dipartimento Esteri. Successivamente, durante la segreteria di Piero Fassino, è stata nominata responsabile nazionale dei rapporti con l’estero e delle relazioni internazionali. Entrata in parlamento nella XVI Legislatura, Federica Mogherini è stata nominata segretaria della Commissione Difesa, posto che ricopre per cinque anni, mentre è anche membro della delegazione parlamentare italiana presso il Consiglio d’Europa. Confermata nel suo seggio di deputato nelle elezioni del 2013, prima di essere nominata ministro degli Esteri nel febbraio del 2014, la Mogherini è presidente della delegazione parlamentare italiana presso la NATO e membro delle commissioni Esteri, Difesa e Politiche dell’Unione Europea. Come deputato nelle due legislature ha fatto registrare un record di presenze in aula con lo “score” del 98,7%.
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I dossier di Lady PESC come nuovo rappresentante della politica estera europea, federica mogherini dovrà gestire dei dossier molto delicati per dare forma a una nuova politica estera comunitaria, che nel passato quinquennio di gestione di catherine ashton (foto) si è messa in evidenza in negativo per il suo bassissimo profilo.
PESC Acronimo di Politica Estera e Sicurezza Comune
1. IL CONFRONTO MOSCA-BRUXELLES Per quanto riguarda la crisi tra Russia e Ucraina, e più in particolare le tensioni tra Europa, Stati Uniti e Russia, la Mogherini è stata criticata dalla stampa internazionale e da diplomatici dei Paesi Baltici per essere decisamente “filorussa”. L’atteggiamento tenuto durante la crisi tra Kiev e Mosca ha però decisamente smentito queste accuse, confermando che la Mogherini di fronte a una disputa diplomatica propende sempre per l’avvio di negoziati e non per l’uso della forza. Di fronte a una sconcertante dichiarazione del capo della diplomazia USA John Kerry, secondo il quale dove non arrivano i diplomatici debbono intervenire i militari, la Mogherini ha ribadito che “è interesse dell’Ucraina, dell’Europa e della Russia che la crisi abbia una soluzione politica e non una soluzione militare, che semplicemente non esiste […] L’Italia esclude un’azione militare, che sarebbe devastante anzitutto per l’Ucraina, per l’est dell’Europa oltre che per il futuro delle nostre relazioni”. Insomma la Mogherini, un politico cresciuto come ama sottolineare lei stessa “dopo la caduta del Muro di Berlino”, promette di riportare un po’ di politica in Europa sottraendola a quei grigi funzionari che dall’economia alle relazioni internazionali tentano continuamente di prendere il sopravvento sugli uomini e sulle donne che comunque hanno alle spalle una legittimazione popolare. Le premesse per una nuova politica europea più dinamica e pragmatica ci sono tutte e la Mogherini ne può essere l’interprete. Staremo a vedere.
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PRIMO VICE PRESIDENTE
LA NUOVA COMMISSIONE UE
FRANS TIMMERMANS Armonizzazione dei Regolamenti, Relazioni Interistituzionali, Stato di Diritto e Carta dei Diritti Fondamentali
PRESIDENTE JEAN-CLAUDE JUNCKER
VICE PRESIDENTE KRISTALINA GEORGIEVA Budget e Risorse Umane
VICE PRESIDENTE ALENKA BRATUSEK Unione Energetica
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VICE PRESIDENT VICE PRESIDENTE JYRKI KATAINEN Lavoro, Crescita, Investimenti e Competitività
VALDIS DOMBROVSK Euro e Dialogo Sociale
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2. LA QUESTIONE PALESTINESE Un atteggiamento altrettanto pragmatico e favorevole a negoziati a tutto campo viene rivolto alla questione israelo-palestinese. Nonostante sia stata accusata di essere filo-palestinese (molti commentatori italiani e stranieri le hanno rinfacciato una fotografia che la ritrae a braccetto con Yasser Arafat, ndr), nel commentare l’ultima crisi di Gaza la Mogherini non si è limitata a chiedere la fine delle incursioni israeliane contro la Striscia, ma non ha esitato a riconoscere che la reazione israeliana è stata motivata dal lancio di missili da parte dei miliziani di Hamas e dall’uso dei tunnel per attaccare cittadini e soldati israeliani. Come si vede, non si tratta delle posizioni tradizionali della sinistra post-comunista che negli ultimi due decenni ha subito una innegabile deriva filo-palestinese.
ALTO RAPPRESENTANTE FEDERICA MOGHERINI Affari Esteri e Sicurezza Comune Vice Presidente
VICE PRESIDENTE ANDRUS ANSIP Mercato Unico Digitale
AL AQSA La moschea di Gerusalemme simbolo della Spianata, luogo sacro conteso da ebrei e musulmani
3. STATO ISLAMICO Per quanto riguarda l’intervento contro lo Stato Islamico (IS), la Mogherini si sta dimostrando molto prudente per il timore che un coinvolgimento diretto dell’Italia, dell’Europa e della NATO possa comportare insostenibili ritorsioni terroristiche sul territorio europeo. È assolutamente contraria a un intervento militare diretto della NATO e dei Paesi europei, mentre preme per un maggiore coinvolgimento nel processo di contenimento dell’esercito islamico da parte dei Paesi arabi della regione. In proposito, la Mogherini si è attivata per favorire anche un coinvolgimento dell’Iran nella lotta internazionale contro i jihadisti dell’IS, perché Teheran è un interlocutore fondamentale in Medio Oriente oltre che “protettore” di tutti gli sciiti dell’area. Argomento appena discusso in Oman nella trilaterale con John Kerry.
Qui Farnesina
IL “SECONDO PATTO GENTILONI” Nel momento in cui, prima dei Patti Lateranensi, i cattolici non avevano alcuno spazio nella politica italiana, Vincenzo Ottorino Gentiloni, il bisnonno del nuovo titolare della Farnesina Paolo, s’inventò il Patto omonimo, con il quale veniva aperta la strada alla rappresentanza politica dei cattolici italiani. Correva l’anno 1912, il Presidente del Consiglio era il coriaceo Giovanni Giolitti e il Pontefice era Pio X. La rappresentanza dei cattolici nella vita politica del Regno era stata di fatto esclusa dal Vaticano, dopo che la conquista di Roma del 1870 aveva segnato una sorta di Aventino ante litteram del cattolicesimo italico rispetto alla politica nazionale. La scelta del premier Renzi di nominare Paolo Gentiloni al ministero degli Affari Esteri in sostituzione di Federica Mogherini ha dunque dei significati storici e simbolici. Il bisnonno ridette rappresentanza politica ai cattolici italiani, il pronipote ricostruirà una politica estera italiana?
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Renzinomics Il vincolo del 3% del rapporto deficit pubblico/pIl non consente molti margini per operare. la manovra del governo renzi, ovvero il documento di Economia e finanza in salsa leopolda, convincerà i suoi detrattori, UE in primis? di Ottorino Restelli
ITALIA Europa e le istituzioni nate dalla caduta del muro di Berlino, in primo luogo la Commissione, hanno subito una trasformazione radicale rispetto ai sogni dei padri fondatori e alle intenzioni dei grandi edificatori Jacques Delors, Helmuth Kohl e Francois Mitterand. L’UE che doveva europeizzare la Germania è stata invece germanizzata dai tedeschi e da una pattuglia di Stati (Finlandia e Repubbliche Baltiche al primo posto) che ne condividono la visione economica. Forse è arrivato il momento di riflettere sui tempi e i modi dell’allargamento dell’UE e sul perché e come una pattuglia di Stati ex-comunisti e di pochi milioni di abitanti, abbia potuto mettere nell’angolo i grandi Paesi che sono stati gli ispiratori e le fondamenta dell’Unione. In assenza di una leva valutaria (le famose svalutazioni competitive), l’unica strada praticabile per un rilancio della competitività è la riduzione dei costi. Poiché il costo dell’energia è fissato a livello internazionale, come pure quello del capitale, l’unico fattore che può essere svalutato è pertanto il lavoro. Ed è proprio su questo che la Germania, la Commissione e i vertici di Bruxelles vogliono che s’intervenga. È accaduto con Irlanda, Portogallo, Grecia e Spagna ed è questa l’unica strada aperta lasciata anche all’Italia. Non importa se poi la cura uccide i malati o se la bassa inflazione - che potrebbe trasformarsi in una deflazione almeno in Italia, Grecia e Spagna, cioè in una riduzione del livello generale dei prezzi - rischia di trascinare l’Europa nella terza recessione dalla crisi dei mutui subprime di Wall Street, come anche Standard & Poor’s ammonisce nel suo recente rapporto sull’eurozona e come sostiene il Fondo Monetario Internazionale, che stima al 40% la probabilità
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che ciò accada. Un’eventualità che altri Paesi come USA e Regno Unito hanno potuto evitare grazie a politiche monetarie e fiscali espansive. Quindi, non solo il “modello spagnolo” non esiste, ma le politiche dell’austerità espansiva hanno devastato le economie continentali, distruggendo ricchezza e capacità produttiva potenziale (25%) e facendo crescere la disoccupazione a livelli intollerabili, nonostante i bassi salari. Inoltre, le politiche della Commis300 sione hanno fatto esplodere il debiMILIARDI to pubblico, passato in media dal DI EURO 66% del 2008 al 93,9% del secondo semestre del 2014. Non solo, la CIfra hanno fatto emergere problemi di proMEssa stabilità ai sistemi bancari, a causa da JUNCKEr delle sofferenze e dei crediti inesigiaI 28 bili e, dulcis in fundo, hanno indotto aspettative recessive negli investitori, che di conseguenza non investono. Le possibilità di ripresa sono allora LUXLEAK nelle mani del neo presidente della Il caso che sta Commissione europea, Jean-Claude scuotendo il Lussemburgo di Juncker, che ha promesso 300 miliardi Juncker per le di investimenti nei prossimi tre anni eccessive per re-industrializzare l’UE a partire facilitazioni da energia, infrastrutture e banda lardel fisco locale, ga. Bisognerebbe, però, ricordare che dietro cui si cela l’Unione ha un PIL di oltre 13mila miforse una grande evasione fiscale liardi (2013) e che 300 miliardi in tre anni sono da distribuire tra 28 Paesi.
ITALIA Indice dei prezzi al consumo -0,3%
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LA MANOVRA ITALIANA La manovra del governo esce ridimensionata dalla lettera del vicepresidente della Commissione, Jyrki Katainen. La spesa in deficit, ottenuta cioè facendo crescere il rapporto deficit pubblico/PIL, si riduce da 11 a 6 miliardi e l’intera manovra passa da 36 a 31 miliardi. Nel dettaglio, il saldo di 31 miliardi risulta così determinato, tra azioni e coperture: • maggiori spese per 20,2 miliardi, tra cui conferma del bonus di 80 euro (9,5 mld, allentamento del patto di stabilità interno per gli Enti Locali del valore di 3,4 mld), rifinanziamento degli ammortizzatori sociali (1,5 mld) e stanziamento di 1,2 miliardi per la scuola. • minori entrate per 31 miliardi, tra cui la clausola di salvaguardia (3 mld), riduzione IRAP (2,7 mld), decontribuzioni e agevolazioni fiscali (4,5 mld). • minori spese per 16 miliardi, tra cui tagli alle Regioni (3,5 mld), tagli a Comuni e Province (2,3 mld), tagli ai Ministeri (circa 2 mld), riduzione del piano di coesione sociale (1,5 mld). • maggiori entrate per 10 miliardi, provenienti da tassazione TFR in busta paga, lotta all’evasione e tassazione dei giochi. A ciò va aggiunto il finanziamento in deficit, che porta il rapporto deficit pubblico/PIL al 2,6% invece che al 2,9% iniziale. Una manovra articolata che cerca di far ripartire l’economia puntando su una crescita dei consumi interni, attraverso trasferimenti ai ceti a basso reddito e sugli investimenti privati, riducendo gli oneri contributivi e fiscali delle assunzioni. Quindi, il motore della ripresa è individuato nella spesa privata per consumi e investimenti. Peccato che non solo la teoria economica, ma soprattutto la storia insegni che in una situazione come quella della Grande Recessione, senza il massiccio intervento pubblico non si va da nessuna parte. Forse questa manovra riuscirà ad evitare che il 2015 sia il quarto anno consecutivo di recessione, ma rilanciare la crescita economica del Paese è tutt’altra cosa.
PATTO DI STABILITÀ Come aggirare i vincoli?
PAROLA DI PADOAN “I rapportI tra rENzI E JUNCKEr soNo CordIalI. Il Caso IN partE è CostrUIto ad artE” 6 Nov 2014
Qui le ipotesi sono diverse. C’è chi propone l’uscita dall’eurozona e il ritorno alla Lira. Chi invece propone di trovare una soluzione mobilitando le molte risorse che ancora, non si sa per quanto, esistono in questo Paese e impegnarle su un disegno chiaro di politica industriale. L’idea, condivisa da molti (anche dall’ex ministro Corrado Passera), è quella di mobilizzare una parte, quella non strategica, di quell’immenso patrimonio pubblico dell’Italia - stimato nel 2012 dalla Cassa Depositi e Prestiti in 1.800 miliardi di euro, di cui 700 miliardi considerati immediatamente fruttiferi - costituiti da: immobili, concessioni, crediti e partecipazioni. Altri, più prudentemente, stimano il patrimonio pubblico in 1.000 miliardi di euro. Sia come sia, colpisce l’elevato valore del patrimonio pubblico dell’Italia, che per ora giace immobilizzato. Intanto, si potrebbe costituire un fondo dove far confluire una piccola parte (80-100 miliardi) di questo patrimonio e collocare quote di questo fondo tra i grandi possessori di liquidità di questo Paese: Assicurazioni (108 miliardi di euro di premi annui raccolti, 526 miliardi di euro di investimenti e 397 miliardi di euro a copertura delle
riserve tecniche, fonte IVASS 2013), Fondi Pensione e Casse Previdenziali (104 miliardi di euro di raccolta, fonte COVIP 2012) e Cassa Depositi e Prestiti (305 miliardi di euro di attivo, di cui 139 di liquidità, e impieghi per soli 22 miliardi). Il fondo avrebbe il mandato di vendere entro un certo numero di anni (cinque, per esempio) quanto in portafoglio e assicurare ai titolari delle quote - garantite dallo Stato - un rendimento pari a un titolo pubblico di pari periodo. Le cessioni potrebbero avvenire alle famiglie (per esempio a quei 2 milioni di nuclei familiari che posseggono qualcosa come 4.000 miliardi di attività) o a quei fondi sovrani stranieri così attenti alle bellezze Italiane. Con questi miliardi, lo Stato potrebbe avviare una vera politica industriale attraverso investimenti nei settori strategici come l’energia e le infrastrutture di rete e dare un’importante e imponente scossa all’economia nazionale. Non esistono altre strade. Occorrono coraggio e astuzia, rimanere nei parametri, ma fare quello che tutti, al di fuori del Palazzo, ritengono necessario e non più rinviabile: lanciare una grande stagione di investimenti pubblici.
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appresenta uno dei più lampanti esempi di cosa abbia prodotto la crisi per l’economia dell’Europa: è Salonicco, spaccato crudo ma veritiero della Grecia di oggi. Seconda metropoli del Paese dopo la capitale Atene per importanza economica e dimensioni, Salonicco è una città decaduta. Aggirandosi per le strette vie del centro, come lungo le arterie stradali che la collegano con il resto della Macedonia, il panorama che si presenta agli occhi del visitatore è quello di una città appena uscita da una guerra. La verità è che la guerra, a Salonicco come in tutta la Grecia, si sta ancora combattendo: “Ovunque ti giri non ci sono altro che negozi chiusi, appartamenti abbandonati, case distrutte”, racconta chi è nato e cresciuto qui. “Salonicco è una città che sta morendo - spiegano alcuni commercianti - i negozi falliscono, la gente perde il lavoro, perde la casa, perde la dignità”. Basta fare un giro in Piazza Aristotelous per rendersene conto. La piazza intitolata al grande filosofo sorge non distante dal lungomare, vicino alla Torre bianca, simbolo dell’antica Tessalonica. La piazza è diventata un enorme dormitorio a cielo aperto in cui mendicanti, barboni, alcolizzati, tossici, cani e gatti randagi si mescolano tra loro, dando vita a una società sommersa di disperati. “Qui si trovano solo alcol ed eroina” dice un passante. Colpisce anche l’enorme quantità di graffiti che ricoprono i muri e i grandi palazzoni costruiti frettolosamente dopo il grande incendio del 1917: scritte e simbologie anarchiche e appelli alla rivolta contro l’Europa sono dappertutto. I sentimenti anti-euro e anti-Germania sono i più gettonati. “Stanno provando in ogni modo a toglierci il sorriso, ma non ci riusciranno mai. E questo li fa arrabbiare sempre di più: sono invidiosi perché loro sono sempre tristi e non sanno godersi la vita” spiega un altro cittadino del posto. In questa situazione di profondo disagio sociale ed economico, c’è un reato che, più di altri, è in costante crescita: è il traffico di esseri umani. Provengono dalle vicine Bulgaria, Albania o Turchia, ma anche dalla Russia e dai Paesi più poveri dell’Est Europa. Sono donne e bambini costretti a mendicare, lavorare come schiavi e prostituirsi (ironia della sorte, quest’anno Salonicco è stata nominata European Youth Capital 2014). “Il 18 ottobre si è tenuta in tutto il mondo la Walk for Freedom, una marcia organizzata da A21 (Abolish Injustice in 21st century, ndr), una organizzazione non governativa internazionale che si è data l’obiettivo di sensibilizzare le persone contro questa enorme piaga - spiega Kalli Mitelineos, responsabile
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GrECIa
REPORTAGE
di Matteo Trombacco
Tra le macerie d’Europa
da
SALONICCO EpICENtro dElla CrIsI
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dell’associazione a Salonicco - Alla manifestazione di quest’anno hanno partecipato oltre 2.700 sostenitori, 350mila in tutto il mondo. Il grande risultato ottenuto a Salonicco è anche dovuto all’enorme cassa di risonanza che è stata data all’evento dalla contemporaneità con l’International Thessaloniki Night Half Marathon che ha abbracciato il progetto finanziandolo e facendo sfilare i partecipanti poco prima del via della gara”. Tra le varie iniziative messe in campo da A21, a Salonicco come nel resto del mondo, c’è anche la formazione delle forze dell’ordine per imparare a gestire le vittime di questi reati. “Non abbiamo dati precisi sul fenomeno - spiega Annie Kardas, referente internazionale del progetto A21- sappiamo solo che è in aumento in tutto il mondo e in special modo in Grecia, Paese che più di altri ha pesantemente risentito della crisi economica. Secondo il Rapporto sul Traffico delle Persone 2014, pubblicato dal Dipartimento di Stato americano, i casi di traffico di persone segnalati sul suolo greco nel 2013 sono stati 37, mentre 142 sono state le persone perseguite per lo stesso crimine. Purtroppo, però, le condanne sono state 46 e solo quattro sentenze hanno portato a condanne tra i quindici e i ventidue anni”. Sfruttamento del lavoro minorile, schiavitù, prostituzione sono anche le accuse mosse contro i trafficanti di uomini che costringono le donne a vendersi e i bambini a mendicare, rubare o lavorare in fabbriche illegali: “L’anno scorso - prosegue Kalli Mitelineos - siamo riusciti a salvare alcune ragazze strappandole al racket della prostituzione che, qui a Salonicco, non viene praticato per strada, ma solo in appartamenti e, purtroppo, in alcuni alberghi di lusso della città. È qui che la malavita trova la propria clientela, scegliendola per lo più tra gli stranieri”. Osservando Salonicco dall’alto, dalle colline su cui si adagia la sua periferia più a nord, si scorge una città affascinante e viva, fatta di persone che hanno ancora voglia di vivere e combattere, ma anche una metropoli in cui orde di fantasmi si aggirano tra le rovine di un passato che non c’è più. I segni della crisi economica sono profondi: si notano nelle abitazioni, nell’incuria in cui versano gli spazi pubblici e gli antichi monumenti romani, greci, bizantini e ottomani. E poi animali randagi, macchine abbandonate, ricoperte di ruggine e polvere, lasciate a marcire quando sono venuti a mancare i soldi per mantenerle. Ma, soprattutto, l’abbandono di Salonicco e la sfiducia nell’euro si scorgono negli occhi della gente che, nonostante tutto, continua a resistere.
TRA I REATI IN CRESCITA IL TRAFFICO DI ESSERI UMANI
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POLONIA
GLI EQUILIBRISMI DI VARSAVIA varsavia osserva con attenzione l’evoluzione della crisi ucraina. Mantenere la giusta distanza tra gli alleati della Nato e il “nemico russo” non sarà semplice di Marco Giaconi
a Polonia è sicuramente il Paese più interessato alla “occidentalizzazione” dell’Ucraina. L’operazione NATO “Rapid Trident” ai confini ucraini è stata in gran parte determinata dalle pressioni di Varsavia sul comando generale dell’Alleanza. E, certamente, un gruppo di operativi del servizio segreto polacco (WSI, Wojskowe Słuzby Informacyjne) ha penetrato le regioni antirusse e operato al meglio per favorire le azioni delle aree maggiormente contrarie all’annessione della Crimea al Cremlino. Jerzy Dziewulski, un dirigente dell’intelligence di Varsavia, è stato fotografato più volte in assetto militare al fianco di Alexander Turcinov, ex presidente del parlamento ucraino. La sua presenza testimonia che in Ucraina operano elementi delle forze speciali polacche. Il perché, d’altronde, è ovvio. Se l’Ucraina ritorna russa, la Polonia - che peraltro dopo la seconda guerra mondiale ha perso una parte di territori proprio in favore di Kiev - sarebbe chiusa da due lati dalla Federazione Russa.
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Questa prospettiva, unita al progetto della “Novorossiya” (“Nuova Russia”) di Vladimir Putin, non può non allarmare Varsavia, che ancora oggi non dimentica le fosse di Katyn in Ucraina, dove nel 1941 furono massacrati 22mila ufficiali polacchi dalla GPU staliniana (Direttorato Statale Politico Unificato), che in seguito avrebbe dato la colpa dell’eccidio ai nazisti. La Polonia ha rimarcato la sua posizione antirussa nel 2009. Con l’aiuto della Svezia è stata capofila del programma “Eastern Partnership”, finalizzato a favorire le relazioni tra l’UE e le vecchie periferie dell’impero sovietico a est dell’Unione, ovvero l’Ucraina, la Bielorussia, la Moldavia, la Georgia, l’Armenia e l’Azerbaigian. Il trattato di libero scambio tra l’UE e l’Ucraina era pronto per essere firmato, ma Viktor Yanukovich, allora presidente del Paese, rifiutò di firmarlo poco prima del summit della Eastern Partnership, nel novembre del 2013. Alla luce di ciò che è accaduto nei primi mesi del 2014, è evidente che Yanukovich è stato sollevato dal potere anche con il sostegno polacco. Ed è altrettanto evidente che Mosca, con le armi dell’information warfare, sta portando avanti il progetto di ricostituire, con altri mezzi, il suo spazio geopolitico naturale, che Vladimir Putin ritiene quello dell’antica Unione Sovietica. Non a caso, nel 2006 il presidente russo era stato chiaro in merito. “La caduta dell’URSS è stato il più grande disastro geopolitico del XX secolo” furono le sue parole. Adesso, il contesto per dare concretezza ai suoi piani è più che mai favorevole: l’UE e la NATO si sono impelagati in una lunga “war on terror”, i leader occidentali mostrano di pensare sempre più spesso a una politica estera più da Croce Rossa che da Stati sovrani, l’economia occidentale (salvo gli USA) è debolissima e sempre più dipendente dagli idrocarburi, mentre le primavere arabe hanno destabilizzato il Mediterraneo meridionale, senza risultati.
Quello di Putin è il potere di chi parla il linguaggio della Realpolitik, mentre i Paesi Occidentali sono deboli come tutti gli idealisti e fanno una politica estera dipendente dagli umori dell’elettorato. Così, in risposta alle azioni di Mosca in Ucraina, la Polonia ha richiesto alla NATO una presenza permanente di almeno 10mila soldati dell’Alleanza Atlantica sul proprio territorio, subendo un rifiuto sia del Comando NATO sia di Washington, che in questo momento non intendono complicare ulteriormente i rapporti già pessimi con Mosca. Qualcosa comunque è destinato a muoversi. Un’operazione dell’Alleanza prevede rotazioni di truppe e strutture ampliate per i contingenti già sul terreno e interesserà, oltre che la Polonia, anche anche la Romania, la Bulgaria e i Paesi Baltici. Inoltre, Varsavia condivide un lungo confine con la Bielorussia, una sorta di “Bulgaria post-sovietica” per fedeltà a Mosca, e contiene anche la militarizzata exclave di Kaliningrad, l’antica Koenigsberg e patria di Kant. E, da parte sua, la Russia durante le operazioni in Ucraina ha ammassato truppe ai confini dell’Ucraina orientale, dei Paesi Baltici e della Moldavia. Se, com’è probabile, l’Europa occidentale chiederà la sospensione delle sanzioni contro la Russia, allora Varsavia si sentirà strategicamente sola. La scelta della Polonia sarà dunque, con ogni probabilità, quella di vendere autonomamente armi all’Ucraina e stabilire una rete autonoma dall’UE insieme ai Paesi del Gruppo di Visegrad (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria) per costituire una brigata unificata per il peacekeeping regionale. Una brigata di 4.500 elementi, composta da unità militari nazionali separate e un quartier generale situato proprio in Polonia. Per Varsavia, insomma, la separazione dell’Ucraina dal mondo post-sovietico è un obiettivo strategico primario, che però potrà realizzarsi solo avvicinando definitivamente Kiev all’Unione Europea. Ovviamente, Russia permettendo.
IL DIZIO NARIO Rapid Trident è un’esercitazione annuale diretta dell’EUCOM statunitense e condotta dall’USAREUR in Ucraina per migliorare l'interoperabilità tra Ucraina, Stati Uniti, NATO e i Paesi membri del Partenariato per la Pace. Sono 15 in totale i Paesi partecipano alle esercitazioni militari con un organico di circa 1.300 persone: Ucraina, Azerbaijan, Bulgaria, Canada, Georgia, Germania, Regno Unito, Lettonia, Lituania, Moldavia, Norvegia, Polonia, Romania e Spagna.
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Crisi libica, un affare italiano gli sforzi diplomatici dell’occidente sinora non sono serviti a frenare l’avanzata delle milizie islamiste a tripoli e bengasi. per l’italia potrebbe essere l’ultima occasione per marcare la propria presenza nell’area del mediterraneo di Rocco Bellantone
LIBIA rima la conferenza internazionale di Madrid tra i rappresentanti dei Paesi del Mediterraneo e del Nord Africa del 17 settembre. Poi, tra il 29 settembre e l’11 ottobre, i negoziati separati tra i rappresentanti dei due parlamenti di Tobruk e Tripoli, organizzati a Ghadames e Tripoli con la supervisione della missione UNSMIL (United Nations Support Mission in Libya). Infine, la dichiarazione congiunta attraverso cui il 18 ottobre Francia, Italia, Germania, Regno Unito e Stati Uniti hanno chiesto la cessazione delle ostilità, minacciando di applicare sanzioni individuali contro chiunque “tenti di sabotare il processo di riconciliazione nazionale”. Riavvolto il nastro delle trattative e dei proclami, non è rimasto granché degli sforzi dell’Occidente se non la consapevolezza che per evitare il fallimento dello Stato libico serviranno operazioni militari più incisive. Altro che diplomazia.
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Deve essersene reso conto anche il capo dello scricchiolante governo libico, Abdullah Al Thinni, il quale dopo le titubanze degli ultimi mesi, per fermare l’avanzata delle milizie islamiste a Bengasi e Tripoli si è visto costretto a metà ottobre a concedere carta bianca a un alleato scomodo come il generale Khalifa Haftar, pur dubitando della sua lealtà. A parlare in Libia è dunque ancora il linguaggio delle armi, mai realmente deposte dalla guerra civile che nel 2011 ha portato all’uccisione del Colonnello Gheddafi. L’immagine della Libia odierna mostra che i tempi per la democrazia non sono affatto maturi, e forse non lo saranno mai. Lo dicono le profonde spaccature politiche e l’instabilità istituzionale, con doppi parlamenti e doppi governi a contendersi il potere: uno legittimamente eletto alle elezioni del 25 giugno scorso, a maggioranza laica e guidato dal premier Al Thinni, confinato a Tobruk, vicino al confine egiziano (prima di essere esautorato); l’altro nella capitale Tripoli, espressione delle fazioni islamiste e il cui premier è Omar al-Hassi.
TOBRUK La Corte Suprema libica ha sciolto il Parlamento “laico” che si era ricostituito qui dopo la fuga da Tripoli (6 novembre 2014)
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PROTAGONISTI IN sENso orarIo: Il GENEralE “GolpIsta” KalIfa haftar; Il lEadEr IslaMIsta oMar al-hassI; Il MINIstro dElla dIfEsa ItalIaNo roBErta pINottI CoN l’oMoloGo Usa, ChUCK haGEl; Il “prEMIEr dI toBrUK”, aBdUllah al thINNI
A questa frammentazione politica corrisponde poi una fragilità militare manifesta, per rimediare alla quale sinora non sono bastati né la campagna antiterrorismo “Operazione Dignità” lanciata a maggio da Haftar, né i raid aerei condotti dai caccia delle aviazioni di Egitto ed Emirati Arabi Uniti sulle postazioni degli islamisti. Mentre i morti aumentano e i focolai di tensione si estendono dalla Cirenaica alla Tripolitania con la complicità ormai certa di governi e finanziatori esteri (leggi Sudan e Qatar), la missione volta a sradicare dalla Libia il
terrorismo di matrice islamista diventa sempre più proibitiva. Ansar Al Sharia a Bengasi e la coalizione Alba Libica a Tripoli hanno ormai stretto in una morsa il governo, forti del patto di alleanza con lo Stato Islamico annunciato a inizio ottobre a Derna. Lo stesso Califfo siro-iracheno Al Baghdadi ha fatto sentire la sua vicinanza agli jihadisti, invitando centinaia di miliziani da Tunisia e Algeria a raggiungere il Paese e ottenendo l’appoggio di un numero consistente di uomini delle tribù berbere che controllano la regione meridionale del Fezzan.
È IL MOMENTO DELL’ITALIA Sono almeno due i motivi che dovrebbero spingere le potenze euro-atlantiche a non abbandonare questa causa. Il primo rimanda agli interessi energetici e al controllo di larga parte dei giacimenti e dei terminal degl’idrocarburi presenti in territorio libico. Il secondo - che riguarda principalmente l’Unione Europea - riconduce all’annoso problema dei migranti che dall’Africa subsahariana risalgono fino alle coste libiche per poi affrontare la traversata del Mediterraneo. Stati Uniti, Francia e Regno Unito, registi della caduta del Colonnello, hanno deciso di voltare le spalle a Tripoli e dirottare i loro interessi strategici nella grande guerra contro lo Stato Islamico. L’Italia si è accodata, ma è ancora in tempo per colmare questo vuoto. Lo ha detto chiaramente il premier Matteo Renzi, lo ha sottolineato l’Alto rappresentante UE Federica Mogherini e, il primo novembre, lo ha annunciato anche il ministro della Difesa, Roberta Pinotti, durante una visita al Cairo, dove ha incontrato il presidente egiziano Abdel Fattah Al Sisi e il ministro della Difesa, Sedki Sobhi. Al momento, la missione militare italiana in Libia - rimodulata nell’ottobre del 2013 - prevede il monitoraggio e l’organizzazione delle attività addestrative delle forze armate libiche. In totale, sono stati formati 1.345 militari ed è stata supportata la fase di screening del primo contingente libico (254 militari) arrivato in Italia nel gennaio del 2014. Nell’immediato futuro, l’impegno del nostro Paese potrebbe però aumentare in maniera sensibile. “Siamo disponibili a dare una mano a costituire delle forze armate in grado di tenere in sicurezza la Libia - ha affermato dal Cairo il ministro Pinotti - a condizione di avere un interlocutore credibile. Certamente, ci sarà bisogno di fornire anche delle armi”. Il momento dell’Italia potrebbe dunque arrivare a breve. La Libia, in ogni caso, non può aspettare ancora a lungo.
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Che ci fa l’Italia in Libano? la missione Unifil a guida italiana avrebbe bisogno di essere ripensata per andare incontro al nuovo scenario della guerra in medio oriente di Marta Pranzetti
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na terra dagli equilibri fragili”. Così il Ministro della Difesa italiano, Roberta Pinotti, aveva definito il Libano in occasione dell’avvicendamento del comando UNIFIL lo scorso luglio, quando il Generale Paolo Serra passava il testimone al Generale Luciano Portolano, in un raro ma fiero caso di passaggio di consegne tra italiani. In quell’occasione, il Ministro aveva elogiato la “lunga e delicata” missione di pace nella Terra dei Cedri - dove l’Italia è impegnata ininterrottamente dal 1978 - definendola un “modello operativo” per imparzialità nella mediazione, capacità di cooperazione tra le forze armate e il governo libanesi e, ancora, per sensibilità umana e ricerca di dialogo. Caratteristiche che indiscutibilmente si potrebbero applicare al nostro impegno militare in Libano, se non fosse che uno dei suoi obiettivi fondamentali - monitorare l’attività di Hezbollah (il “Partito di Dio” e movimento armato sciita libanese) e impedirne il riarmo - lasci alquanto a desiderare. Un dubbio sull’efficacia della missione sorge, infatti, quando si viene a sapere che cellule di Hezbollah operano da tempo ben oltre i confini nazionali. Dal 2013 è noto il coinvolgimento delle milizie sciite del Partito di Dio in terra siriana e, più di recente, anche in Iraq contro lo spauracchio dello
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i soldati del contingente italiano schierati nell’area
Stato Islamico, organizzazione sunnita che minaccia l’espansione nel Levante. Una jihad nella jihad, dunque, che evidenzia sin troppo bene come l’operatività di Hezbollah sia tutto fuorché contenuta. Ovviamente, non solo a causa delle inefficienze dei nostri soldati. Se a questo si sommano le minacce che il leader del Partito, Hassan Nasrallah, non ha smesso di lanciare contro Israele - l’ultima durante un raduno sciita a Beirut in novembre, in occasione della festività dell’Ashura, quando ha dichiarato di essere in possesso di altri razzi che facilmente potrebbero colpire la “Palestina occupata” (leggasi Israele, ndr) - questo la dice lunga sui
risultati effettivi di una missione che pure sarebbe il fiore all’occhiello italiano, insieme all’Afghanistan. Certo, tra gli obiettivi del mandato UNIFIL è esplicitamente citato che il riarmo debba essere monitorato “tra il fiume Litani e la Blue Line” (la linea di confine con Israele) il che, se inteso letteralmente, esula la missione dei caschi blu da ogni responsabilità relativamente alla rinnovata attività di Hezbollah. Ma non sarebbe forse il caso di rivedere nel 2015 (per l’ennesima volta, ma con più cognizione di causa) il mandato di una missione che di sicuro rimarrà ancora attiva, vista la fragilità del contesto nazionale libanese e dell’intero Medio Oriente?
HEZBOLLAH FUORI DAI CONFINI La Forza di Interposizione in Libano delle Nazioni Unite nasce con le Risoluzioni ONU 425 e 426, in risposta all’intervento armato israeliano in Libano del 1978. Il mandato viene rivisto a più riprese (nel 1982 e nel 2000) e infine ampliato con la Risoluzione 1701 del 2006, a seguito dell’intervento militare israeliano in territorio libanese. La missione, a guida italiana, consta attualmente di un contingente militare internazionale di 10.319 unità, di cui 1.100 italiani, e quasi un migliaio di civili. Le vittime tra il personale sinora sono state 306.
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l’opinione
QUALE RUOLO PUÒ AVERE L’ITALIA ALL’ESTERO? VINCENZO CAMPORINI Generale dell’aeronautica Militare, già Capo di stato Maggiore della difesa ome c’era da aspettarsi, l’Italia sta facendo la sua parte in Iraq. D’altronde, era impensabile chiamarsi fuori dalla coalizione internazionale. L’impegno del nostro Paese è in linea con il momento di crisi che stiamo attraversando sul piano finanziario. Le nostre forze armate hanno però messo a disposizione assetti molto preziosi. I nostri fornitori in volo sono tra i più moderni, di altissimo livello dal punto di vista tecnico. Lo stesso discorso vale per i nostri predator (droni), fondamentali per garantire una copertura di intelligence adeguata in un teatro di guerra vasto e complicato come quello iracheno, dove individuare gli obiettivi da colpire è essenziale. Per quanto riguarda il Libano, UNIFIL è certamente una missione di grande peso e prestigio che l’Italia ha sempre guidato in maniera efficace. Se la situazione in questo Paese sinora non è implosa è certamente anche per merito dei caschi blu guidati dall’Italia. In questo scenario resta scoperto il fronte libico, dove al di là delle dichiarazioni e buone intenzioni, non è in programma al momento alcuna iniziativa di carattere internazionale. Pensare che l’Italia si possa fare promotrice di un’operazione simile ad esempio alla missione ALBA (Albania, 1997) è al di fuori di qualsiasi criterio di fattibilità. La Libia rimane un problema enorme, a cui però purtroppo la comunità internazionale colpevolmente non sta dedicando nessuna attenzione.
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PAOLO MESSA Giornalista e fondatore della testata formiche Italia si conferma un partner importante della comunità internazionale sia nell’ambito delle missioni della NATO che nel quadro delle iniziative realizzate sotto l’egida delle Nazioni Unite. Lo dimostra il ruolo di primo piano svolto in Libano. Non sempre però il nostro Paese è promotore di interventi in grado di favorire maggiormente i nostri interessi geopolitici e strategici. Quello che è accaduto in Libia nel 2011 è emblematico di questo stato di cose e anche adesso non è chiaro se l’Italia sia realmente intenzionata a organizzare un’operazione su cui far convergere poi la comunità internazionale. In qualità di Lady Pesc, Federica Mogherini può avere un ruolo determinante. Il suo è un profilo eccellente. Il problema, semmai, è che la Commissione Esteri e Sicurezza dell’UE non dispone di un proprio budget, il che la dice lunga sulla politica internazionale dell’Europa in questi anni. Il dossier più delicato nelle mani della Mogherini riguarda non tanto l’Iraq quanto i rapporti con Mosca. La situazione è molto complessa, anche a causa dell’atteggiamento poco severo dell’UE e, in particolare, dell’Italia nel momento in cui la Russia ha invaso il territorio ucraino. Per rimettere ordine più che le sanzioni serviranno grandi doti diplomatiche e di mediazione.
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I conti in tasca agli italiani I numeri della disuguaglianza sociale di Brian Woods
l Capitale nel XXI Secolo di Thomas Piketty ha riacceso il mai sopito dibattito scientifico e culturale su origine ed evoluzione della disuguaglianza sociale. Negli ultimi due decenni la letteratura scientifica sulla disuguaglianza e sulla strettamente connessa nozione di povertà si è concentrata sulla definizione di misure e indici, cercando di superare i limiti intrinseci di misure unidimensionali come il reddito o il consumo, a vantaggio di indici multidimensionali di caratteri come salute, scolarizzazione, reddito, etc. Non è questo il luogo per presentare i risultati dei recenti sviluppi teorici sul tema, visto che l’obiettivo di questo breve articolo è semplicemente richiamare la drammatica attualità e necessità di una generale riforma dell’imposizione fiscale in Italia. Per questo scopo, è allora sufficiente fare riferimento a indicatori semplici, come gl’indici di concentrazione di Gini*, che hanno il pregio di essere “certificati” e fornire un’immediata interpretazione delle dinamiche subite dalla società italiana nell’ultimo ventennio. I dati citati sono contenuti ne La ricchezza delle famiglie italiane e nei Bilanci delle famiglie italiane della Banca d’Italia. Ciò che interessa è individuare delle evidenze che dovrebbero suggerire indagini più accurate e soprattutto riforme non più rinviabili.
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cosa è accadUto alla distribUzione di QUesta ricchezza? Dal 1995, l’indice di concentrazione di Gini relativo al reddito è mutato continuamente, mostrando dapprima riduzioni e poi tornando a crescere, in particolare negli ultimi anni, fino a raggiungere lo 0,34 nel 2012. Viceversa, l’indice di Gini della ricchezza ha conosciuto una crescita continua, passando dallo 8.542 0,618 del 1995 allo 0,64 MILIARDI nel 2012. Inoltre, il 10% DI EURO delle famiglie più ricche la rICChEzza possiede il 46,6% della ItalIaNa ricchezza netta familiare NEl 2012 totale (era il 45,7% nel 2010). La concentrazione della ricchezza finanziaria è ancora più elevata, attestandosi attorno allo 0,74, mentre cresce quella delle passività finanziarie arrivando allo 0,93. Il che si traduce in un indice di concentrazione di Gini misurato sui redditi familiari del 35,6%, in crescita. L’IRPEF è una tassa che grava per oltre 82% su lavoro dipendente (12 milioni) e pensioni (16 milioni), mentre il lavoro autonomo (oltre 11 milioni di persone su 23 milioni di occupati) paga solo il 18%. Forse c’è qualcosa che non va e più che il ridisegno delle aliquote marginali, andrebbe completamente ripensata l’imposizione sul reddito. Poi, se circa 2 milioni
voci dal Mercato globale
di famiglie posseggono qualcosa come 4.000 miliardi di attività, l’istituzione di una tassa sul patrimonio complessivo, ovunque posseduto, superiore a 1 milione di euro con un’aliquota crescente dall’1% al 2%, appare difficilmente rinviabile. Forse la lotta all’evasione, all’elusione e alla distrazione dei redditi va condotta in modo più serio e mirato, magari dando degli obiettivi coerenti all’Agenzia delle Entrate ed evitando gli accertamenti a strascico, che fanno sì il budget (chi non commette errori con un sistema cosi farraginoso e ostile?) ma sicuramente non combattono l’evasione e garantiscono ancora sonni tranquilli ai veri evasori. I mezzi ci sono, l’Information Technology ha fatto passi da gigante e solo in Italia nessuno sembra essersene accorto. È credibile che in un mondo in cui si può approssimare l’attitudine terroristica di un individuo semplicemente scrutandolo con una telecamera, cioè scomponendo i tratti di carattere, comportamenti, abitudini, vezzi etc., non si possa costruire un algoritmo (data-mining e analisi multidimensionale) che segnali i sospetti casi di evasione, semplicemente frugando nelle migliaia di dati disponibili che riguardano ciascun individuo? la ricchezza degli italiani Ai prezzi del 2012, la ricchezza, al netto delle passività, delle famiglie italiane (circa 8 volte il reddito) è passata da 6.207 miliardi di euro (1995) a 8.542 miliardi di euro (2012), in continua riduzione dal 2008, anno in cui ha raggiunto il massimo di 9.411 miliardi di euro. La ricchezza netta per famiglia è cresciuta da 317.374 euro nel 1995 a 357.476 euro nel 2012
(407.956 nel 2006), mentre la ricchezza individuale è passata da 109.193 euro nel 1995 a 143.124 euro nel 2012 (161.250 euro nel 2006). La diversa dinamica della ricchezza netta individuale rispetto a quella familiare è dovuta alla progressiva riduzione del numero dei componenti medi della famiglia, passati da 2,89 (1995) a 2,48 (2012). La composizione della ricchezza risulta modificata a vantaggio delle attività finanziarie, essendosi ridotte le attività reali dal 65% (1995) al 61,1% (84% abitazioni). Il numero di annualità necessario a un affittuario per acquistare un appartamento di 100 mq è più che raddoppiato da 5 a 11. Gli individui poveri (povertà relativa) sul territorio nazionale sono il 14,1% del totale, ma raggiungono il 24,7% nel Mezzogiorno e oltre il 30% tra i nati all’estero. I recenti dati della Banca d’Italia indicano che il reddito totale da lavoro dipendente è di 16.248 euro, quello totale del lavoro indipendente è di 18.206 e quello dei pensionati è di 11.482 euro. Nel 2012 il reddito familiare è stato di 30.380 euro ma, con un’evidente e insostenibile asimmetria, il 10% delle famiglie con il reddito più basso percepisce il 2,4% del totale dei redditi prodotti, mentre il 10% per cento di quelle con redditi più elevati percepisce un reddito pari al 26,3% del totale.
*L’Indice di concentrazione di Gini misura la diseguaglianza di una distribuzione, ovvero in che modo un bene condivisibile è diviso tra la popolazione. Si applica in particolare nella distribuzione del reddito o della ricchezza
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borsa energetica
Riad contro tutti È guerra per il prezzo del petrolio. Nel mirino dell’Arabia Saudita, l’Iran e la produzione non convenzionale americana a cura di Nomisma Energia
opo quattro anni di stabilità sopra i 100 dollari, a inizio novembre i prezzi del Brent, i benchmark (punto di riferimento) delle quotazioni internazionali sono scesi verso gli 80 dollari, il valore minimo dall’inizio delle primavere arabe nel dicembre del 2010. La discesa, iniziata a luglio di quest’anno, è legata secondo alcuni a un semplice allineamento tra domanda e offerta. I più maliziosi credono invece che si tratti di una vera e propria “guerra per il prezzo” tra l’Arabia Saudita e il resto del mondo. In base a quest’ultima interpretazione, il governo di Riad avrebbe come principali bersagli sia l’Iran che la produzione non convenzionale americana dello shale oil e tight oil. Ciò sta generando una crescente attesa per la prossima riunione del cartello OPEC in
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PREZZO GREGGIO NECESSARIO PER EQUILIBRIO DI BILANCIO NEI PAESI OPEC NEL 2013
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programma il 27 novembre a Vienna. È infatti quella la sede naturale in cui prendere la decisione di tagliare il tetto produttivo e assegnare quote individuali agli Stati membri (Iraq incluso) con l’effetto di riportare i prezzi sopra i 100 dollari al barile (bbl), creando una crescita verso valori più sostenibili per i diversi budget dei Paesi del cartello. Molti degli Stati produttori (tra questi Iran, Nigeria, Ecuador, Algeria Venezuela, Iraq e Libia) hanno piani di spesa e investimenti costruiti su valori medi del greggio oltre i 100 dollari/bbl, e pertanto soffrono particolarmente dal calo delle quotazioni. Tra questi il più distante dal prezzo di riferimento è l’Iran, che a causa dell’embargo ha una economia debole costretta ad affidarsi molto alla rendita derivante dal petrolio. Tuttavia, le affermazioni di alcuni degli attori coinvolti preannunciano che a Vienna il target produttivo, fissato nel dicembre del 2011, verrà nuovamente confermato a 30 milioni di barili al giorno (mln.bbl/g), in una strategia volta a spingere fuori dal mercato le produzioni più costose e che si trovano al di fuori dell’OPEC (con in testa l’output non convenzionale degli Stati Uniti), con buona pace, però, per i bilanci dei Paesi più esposti al calo dei prezzi. Su questo terreno si sta giocando la partita tra Riad e Teheran, e resta da vedere come tale situazione si rifletterà sui negoziati del 24 novembre tra l’Iran e il gruppo dei 5+1 (Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Russia, Cina + Germania) sul suo contestato programma nucleare. È infatti presumibile che un’apertura dell’Occidente nei confronti dell’Iran venga difficilmente digerita dai rivali sauditi. Questi, forti di importanti primati (come ad esempio il possedimento delle più vaste riserve petrolifere al mondo, la principale produzione del cartello, seconda solo a quella della Russia, e non ultimo la capacità inutilizzata maggiore), manovrando il proprio livello di output pos-
coMe caMbia il Mercato del petrolio e del gas
sono infatti incidere sui prezzi, e quindi sulle rendite di gli altri principali attori del mercato. Nonostante il costante calo delle quotazioni internazionali del petrolio, scese di 30 dollari/bbl negli ultimi tre mesi, la produzione dei Paesi dell’OPEC non accenna a calare mantenendosi ampiamente sopra i 30 mln.bbl/g. E Riad, che ha innescato formalmente la spirale di ribassi scontando il prezzo del proprio greggio verso i mercati asiatici, non sembra intenzionata a tagliare la produzione, lasciando scivolare i prezzi e mentendo la propria quota di mercato. Se a settembre a dettare la crescita della produzione è stata in gran parte la ripresa dell’output dei due mercati più instabili del 2014, Libia e Iraq, adesso è l’Arabia Saudita che avendo coperto gli ammanchi di mercato legati alle rivolte che via via si sono succedute negli ultimi quattro anni, dovrebbe arretrare lasciando spazio agli altri membri del cartello. In prospettiva, se un ritorno stabile verso quota 1,5 mln.bbl/g dell’era
PRODUZIONE MONDIALE PETROLIO E NGLs* (MLN.BBL/G)
elaborazioni ne nomisma energia su dati oil market report
Gheddafi da parte della Libia nonostante il graduale reintegro della produzione iniziato in estate, è visto con scetticismo per il perdurare delle tensioni interne, è invece più probabile quello dell’Iraq, dove la produzione ha ricominciato a fluire sostenuta dal sud del Paese, mentre grazie ai bombardamenti delle forze alleate lo Stato Islamico ha visto ridimensionarsi drasticamente le risorse petrolifere a sua disposizione, e con esse la capacità di influire sugli equilibri di mercato. A queste condizioni, in un contesto di bassa domanda globale, la spirale ribassista è destinata a protrarsi. Notizie estremamente positive per le asfittiche economie europee.
NOMISMA ENERGIA Nomisma è una società di studi economici indipendente. Realizza attività di ricerca e consulenza economica per imprese, associazioni e pubbliche amministrazioni, a livello nazionale e internazionale
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sicurezza FOCUS REGNO UNITO Come funziona il software londinese
MONDO La minaccia cyber
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sicurezza
Alle armi! Alle armi! REGNO UNITO tracciare il traffico degli armamenti non è mai stato così a portata di mano. ecco il primo software (britannico) in grado di mappare le rotte dei signori della guerra. funzionerà? di Eleonora Vio
l presidente degli Stati Uniti Barack Obama è stato chiaro. Il piano è “smantellare e distruggere” lo Stato Islamico (IS). Governi e policy maker hanno un gran da fare per stabilire in cosa consista la forza dell’organizzazione agli ordini del Califfo Al Baghdadi. Nessuno prima d’ora - nemmeno Al Qaeda, da cui IS si è distaccato - aveva dimostrato una capacità bellica tale da permettergli non solo di allargare le sue fila internamente, ma soprattutto di ottenere una serie d’importanti vittorie sia in Iraq che in Siria. L’ente londinese Conflict Armament Research (CAR), con il suo ultimo comunicato sulle armi nelle mani dell’IS tra Siria e Iraq e il nuovo software di nome iTrace, che dal 27 settembre 2014 fa luce sui traffici di armi convenzionali, è riuscito a dare una prima risposta a queste perplessità. In dieci giorni a fianco dei curdi dell’Unità di Protezione del Popolo (YPG) nei pressi di Ayn al-Arab (ovvero Kobane) nel nord della Siria, e dei peshmerga del Governo Regionale Curdo (KRG) a nord-ovest di Mosul, la squadra britannica del CAR ha analizzato le armi sequestrate all’IS.
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“Sono stati trovati razzi anticarro jugoslavi M79 identici a quelli donati dall’Arabia Saudita alle forze ribelli siriane” dice il direttore del CAR, James Bevan. “È plausibile pensare che il governo saudita abbia distribuito queste armi a diverse fazioni, alcune delle quali si sono poi unite all’IS, oppure che l’IS stesso le abbia sequestrate ai ribelli”. Il timore che armi fornite a un gruppo cadano nelle mani di altri combattenti coinvolti nella guerra civile è motivo sufficiente per gli USA per non armare pesantemente alcun gruppo in Siria. La situazione è diversa in Iraq, dove il governo statunitense sta fornendo un ingente arsenale alle forze curde. “I peshmerga rispondono all’organo centrale del KRG (Kurdistan Regional Government), perciò sono più strutturati rispetto ai ribelli siriani, la cui lealtà politica individuale non è chiara” spiega Bevan. “In questo senso il rischio di donare loro armi, e che queste siano utilizzate per altri scopi, è ridotto, ma l’IS può sempre accaparrarsele in un secondo momento”. La maggior parte delle armi analizzate dal CAR sono state sottratte dall’IS all’esercito iracheno nella campagna nel nord Iraq conclusasi con la presa di Mosul, e dimostra proprio come la forza dell’IS consista anche nella disponibilità di armi requisite in battaglia. “Si tratta di fucili M16 e munizioni donati dagli Stati Uniti al governo iracheno” continua Bevan. “Anche se non stupisce il fatto in sé, queste armi sono state trovate in Siria e ciò evidenzia le capacità logistiche dell’IS nel muovere armi velocemente e per lunghe distanze”. In possesso dei militanti dell’IS sono finite anche armi di piccolo calibro sottratte alle forze governative siriane durante incursioni alle installazioni militari, succedutesi nei tre anni e mezzo di scontri. Su alcune armi ritrovate è stato cancellato il numero di serie, rendendo impossibile al produttore dell’arma identificare chi l’avesse ricevuta. Trattandosi però di vecchie armi, di cui probabilmente era già andata persa nota, “la rimozione del numero suona più che altro da avvertimento” è il parere di Bevan. “Qualcuno vuole cancellare la sua complicità nel traffico e quasi sicuramente si tratta di un attore locale, ora sta a noi capire chi”. Alle investigazioni sul campo, che stabiliscono il percorso compiuto da un’arma dalla sua fabbricazione alla vendita, e all’eventuale smercio ai ribelli, segue il caricamento dei dati raccolti su iTrace ovvero “il più potente database di pubblico accesso per rintracciare armi al mondo” come lo definisce il CAR.
iTrace deve la sua esistenza ai fondi ottenuti dall’Unione Europea e a un’intuizione avuta dallo stesso Bevan e da gran parte della sua squadra durante il 2009, due anni prima della nascita del CAR, quando ancora monitoravano le sanzioni per conto dell’ONU. “Ci siamo accorti che i traffici d’armi verso Stati sottoposti all’embargo trascendevano i confini nazionali e avevano una dimensione regionale” spiega Bevan. “Ad esempio, abbiamo visto come le armi sudanesi trovate in Darfur fossero identiche ad altre trovate in Costa d’Avorio, Repubblica Democratica del Congo e Repubblica Centrafricana”. Al CAR ci sono voluti due anni d’indagini in Africa subsahariana, per raccogliere i dati necessari a ottenere i finanziamenti per iTrace, ma il potenziale del database è stato chiaro fin da subito. Con la sua capacità di trattare grossi flussi d’informazioni e di costruire mappe interattive,
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LA RIMOZIONE DEL NUMERO SERVE DA AVVERTIMENTO
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iTrace permette di collegare migliaia di singoli casi tramite semplici dati, come la localizzazione o il numero di serie dell’arma, in un modello dinamico che riflette la fornitura d’armi a livello regionale e globale. A usufruirne saranno non solo i decisori di piani politici ed economici che, tra le altre cose, dovranno stare più attenti a fornire armi a Stati responsabili di traffici in mercati illeciti, ma anche i giornalisti per le loro investigazioni e il grande pubblico. Infatti, iTrace nelle intenzioni ha il pregio di rendere un settore elitario come quello delle armi alla portata di tutti.
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Come funziona iTrace Il software ideato dalla Conflict armament research consente di effettuare analisi mirate sui traffici di armi. tanti sono i criteri di ricerca: calibro, numeri di serie, scelta del paese produttore o quello in cui l’arma è stata ritrovata ffettuare ricerche su iTrace, oltre ad essere cosa semplice e alla portata di tutti, consente davvero all’utente, chiunque esso sia, di rendersi conto dell’imponenza dei traffici d’armi su scala mondiale. Per prima cosa, bisogna effettuare la registrazione sul sito della Conflict Armament Research (CAR) nella sezione dedicata al prezioso software. Attraverso la compilazione di un form con i propri dati personali e la scelta di una password, si riceve poi una mail di conferma dell’avvenuta registrazione. Da questo momento, è possibile avviare le specifiche ricerche sui traffici d’armi sfruttando tutte le potenzialità di iTrace. Sul portale del CAR, dopo aver eseguito il login, cliccando sull’opzione “Advanced Search” (ricerca avanzata) il gioco è fatto.
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La prima opzione che viene richiesta è la selezione del database (archivio) in cui compiere la ricerca. La scelta, a seconda delle preferenze, è tra: munizioni, produttori, stock ovvero carichi di armi o munizioni, e infine armi. Si procede poi alla scelta del periodo in cui completare l’analisi, che va dagli ultimi sei mesi fino a vent’anni fa. A seguire, ci sono altri filtri che servono a definire la ricerca desiderata in maniera estremamente dettagliata. Il programma consente di risalire al produttore, al calibro, all’anno di produzione, al luogo in cui un’arma è stata ritrovata così come al numero di serie o addirittura se esso sia stato cancellato. Selezionando su “Add to search” (aggiungi alla ricerca), i parametri inseriti verranno momentaneamente salvati, in caso si voglia procedere a un’altra ricerca. I
risultati di due o più ricerche possono poi essere incrociati al fine di offrire un’analisi ad hoc, secondo le singole esigenze. Eseguendo alcune prove è possibile sbizzarrirsi nelle più disparate ricerche e scoprire, per esempio, che un missile “PG 7V” da 40mm prodotto in Bulgaria e ritrovato in Etiopia sia transitato per l’Eritrea, e visualizzare tali spostamenti su un’interfaccia stile “Google Earth” con tanto di rotte in evidenza. Se la ricerca viene, invece, effettuata su un determinato tipo di arma rinvenuta in un Paese specifico, sarà possibile ottenere tutta una serie di informazioni sull’arma stessa, con tanto di fotografie dettagliate. La stessa
procedura è adottabile per qualsiasi tipo di munizioni. Il database, in continuo aggiornamento, si propone di essere sempre più preciso e ricco di informazioni.
CAR Fornisce una gamma di soluzioni su misura per soddisfare le esigenze di governi, organizzazioni internazionali e non governative e istituti di ricerca
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Cyberwar is coming! But not so fast... di VIncenzo Perugia
siamo all’alba di una guerra di nuova concezione oppure è soltanto una suggestione?
STATI UNITI
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a cyberwar non è mai accaduta in passato, non si sta verificando nel presente, ed è altamente improbabile che possa disturbare il futuro”. A scriverlo è Thomas Rid, in un interessante articolo denominato Cyberguerra e pace, apparso a fine 2013 su Foreign Affairs. Lo studioso e Lettore del King’s College di Londra aveva già espresso questo concetto anche nel suo libro La Cyberwar non avverrà (2013), in controtendenza rispetto al resto degli analisti mondiali. Quella di Rid sarà pure una semplificazione sulla realtà della guerra virtuale e sui legami tra cyberspazio e sicurezza ma, in effetti, ancora oggi, nonostante numerose azioni di sabotaggio e spionaggio, gli attacchi informatici
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non hanno comportato una concreta minaccia alla pace mondiale. Tali azioni sono qualcosa di separato dalla guerra convenzionale, perché non riescono a soddisfare tutte e tre le definizioni che furono di Von Clausewitz sulla guerra: dev’essere violenta, strumentale e attribuibile a un’azione intrapresa da una parte per raggiungere un obiettivo politico. Pertanto, sostiene Rid, pur se il mondo è immerso nella tecnologia e le attività nel cyberspazio sono diventate inseparabili dalle operazioni quotidiane (si pensi agli affari, all’istruzione, alla gestione digitale della pubblica amministrazione, e anche agli eserciti), di qui a inserire gli attacchi informatici nelle tecniche di guerra ce ne passa. La prima volta che si parlò con contezza di questa minaccia era il 1993,
quando ancora il mondo non era né cablato né connesso e non poteva dirsi pronto alla rivoluzione di Internet che, in ogni caso, sarebbe arrivata di lì a poco. “Cyberwar Is Coming!” scrissero al tempo due analisti della RAND Corporation, John Arquilla e David Ronfeldt, sostenendo che l’astro nascente del web avrebbe radicalmente trasformato il concetto stesso di guerra. Ancora niente di così catastrofico è accaduto. Ciò nonostante, nel febbraio del 2011 l’ex direttore della CIA, Leon Panetta, sentì il bisogno di avvertire il Congresso degli Stati Uniti che “la prossima Pearl Harbor potrebbe benissimo essere un attacco cibernetico”. Dunque, ha ragione la CIA o Thomas Rid? In fondo, sarebbe meglio per tutti non doverlo scoprire mai.
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l’opinione
iTRACE, UNA GRANDE ILLUSIONE? STEFANO MELE avvocato specializzato in diritto delle tecnologie, privacy, sicurezza delle informazioni e intelligence icuramente il sistema iTrace, realizzato attraverso un fondo finanziato dall’Unione Europea, è un progetto molto interessante. La valutazione, il monitoraggio e il rintracciamento dei traffici illeciti di armi si riferisce però solo a quelle leggere di piccolo calibro e alle relative munizioni. È un’attività utile perché può supportare l’azione delle agenzie nazionali, sempre più impegnate a monitorare i conflitti di media e ampia portata che si stanno concentrando principalmente in Medio Oriente e Africa. Capire da dove provengono le armi destinate ai gruppi terroristici operativi in queste aree è certamente importante. Tutto dipenderà dalle capacità dei team di investigatori del Conflict Armament Research impegnati nella raccolta di informazioni sul territorio. Il problema, però, è che il vero business attorno a cui ruotano questi traffici illeciti riguarda le armi pesanti e le cyber armi, vale a dire i malware utilizzati da Stati o compagnie private per compiere attacchi di alto profilo. Riuscire a tracciare questo segmento permetterebbe di avere un quadro più nitido degli attori coinvolti in queste attività illecite, focalizzando l’obiettivo non solo sui compratori ma anche sui produttori e sui finanziatori.
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FABIO GHIONI Esperto in sicurezza e tecnologie non convenzionali, autore del libro hacker republic on credo che il sistema iTrace avrà un grande impatto sul monitoraggio dei traffici di armi nel mondo. Da quello che ho potuto osservare le sue funzioni sono infatti piuttosto limitate. In pratica servirà solo a impedire a piccoli produttori di armamenti di vendere “in proprio” senza passare per la cerchia delle monopoliste del settore. In quest’ottica, anche la possibilità di arginare quei traffici illeciti attraverso cui si stanno armando ad esempio i gruppi terroristici appare remota. Ripeto, iTrace contribuirà piuttosto a far assorbire i piccoli produttori nelle multinazionali che riforniscono d’armi e munizioni tutto il mondo. Le grandi lobby delle armi non ne risentiranno. Quella di poter vedere fermati i loro affari è solo una grande illusione. E lo stesso vale per la scelta di rendere il sistema aperto a chiunque voglia registrarsi: una concessione che ritengo irrilevante.
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Quando le spie erano scout La storia di un attore di teatro, protagonista (a modo suo) della Guerra di secessione americana iugno 1863. Da oltre due anni sul suolo degli Stati Uniti si combatte una feroce guerra civile che vede contrapposti gli undici Stati della Confederazione del Sud, che dall’aprile del 1861 hanno deciso di abbandonare gli Stati Uniti, e i restanti Stati dell’Unione, guidati dal presidente Abraham Lincoln. Sul campo di battaglia si affrontano due forze disomogenee. I confederati del Sud, in massima parte di origini anglosassoni, protestanti e di estrazione agricola, combattono per mantenere in piedi il loro sistema di vita, basato su un’aristocrazia terriera, elegante e cavalleresca. Quando viene messa in discussione la schiavitù, uno dei pilastri di questo sistema su cui si fonda anche la coltura del cotone, la reazione del Sud è andarsene sbattendo la porta. Dall’altra parte c’è il Nord, capitalista, industriale e multietnico, che vuole imporre con la forza delle armi il mantenimento dell’Unione, minacciando - ma lo ha fatto solo dopo due anni di guerra - di dichiarare per legge l’abolizione della schiavitù.
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di Alfredo Mantici Direttore editoriale di Lookout News, capo del Dipartimento analisi del Sisde fino al 2008
Sin dalle prime battute del conflitto, i confederati si dimostrano un osso durissimo. La disponibilità per i due eserciti di nuove armi micidiali - come il fucile a canna rigata e la pallottola Minié - provoca decine di migliaia di morti in una guerra che i politici di entrambi gli schieramenti erano convinti dovesse durare poche settimane. Robert E. Lee, comandante dell’Armata della Virginia del Nord (riconosciuto all’unanimità dagli storici come “il generale più amato della storia americana”), d’accordo con il presidente degli Stati del Sud Jefferson Davis, decide di portare la guerra dal baluardo confederato della Virginia, al Nord. L’invasione è rapida e fulminante e porta l’esercito confederato alle porte di Washington. Fino a questo momento, nessuno dei due contendenti è riuscito a far buon uso dello spionaggio. Le difficoltà di comunicazione a distanza rendono d’altronde difficile la raccolta d’informazioni tempestive sulle intenzioni degli avversari. In tutte le grandi battaglie, gli eserciti si sono quasi sempre scontrati alla cieca. L’unica vera fonte di notizie sono le brigate di cavalleria. Espulse dal campo di battaglia dalle nuove micidiali armi della fanteria (che rendono impossibili le cariche a sciabola sguainata dei tempi di Napoleone) vengono sistematicamente utilizzate per sondare il terreno alla ricerca delle forze armate avversarie. Una spia sUdista Quando Lee attraversa il fiume Potomac, confine orientale tra il Nord e il Sud, entrando in Pennsylvania con un esercito di 75mila soldati, si trova in gravi difficoltà. Il comandante della cavalleria confederata, J.E.B. Stuart, che per definizione dovrebbe essere “gli occhi e le orecchie” dell’armata, è scomparso nel nulla con i suoi cavalleggeri. Mandato in avanscoperta per raccogliere informazioni, ha preferito lanciarsi in una scorribanda dal
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storie di spionaggio e controspionaggio
sapore propagandistico ma completamente inutile sotto il profilo militare. Lee è pertanto costretto ad avanzare in territorio nemico senza un piano preciso. I suoi tre corpi d’armata si muovono sparpagliati e alla rinfusa, distribuiti su colonne lunghe decine di chilometri. Senza saperlo, il suo esercito si ritrova presto nelle vicinanze della formidabile Armata del Potomac, formata da 120mila nordisti. La soluzione per evitare una sconfitta inevitabile arriva da una spia o meglio, come pudicamente si chiamavano allora, da uno scout. Si tratta di Henry Thomas HarriPer tre giorni, dal 1 al 3 luglio, i confederati son, un attore shakespeariano molto noto nel circuito teatrale della Virginia. Pagato in oro e gli unionisti si affronteranno nella battaglia sonante, Harrison comincia a vagare per la più sanguinosa mai combattuta sul suolo amePennsylvania facendosi passare per un conta- ricano. Il generale Lee non riesce a prevalere dino in cerca della moglie fuggita al seguito di neanche inviando 13mila soldati grigi contro la un soldato dell’Unione. Con questa scusa, sinistra “collina del cimitero”, in quella che bussa alle case dei contadini e arriva a chiede- verrà ricordata come la carica di Pickett. Grare informazioni anche alle sentinelle degli ac- zie alla spia Harrison, riesce comunque a non campamenti. In pochi giorni, nella seconda far soccombere definitivamente la sua armata. Nonostante la sconfitta sul campo, i suoi uometà di quel giugno fatale, Harrison è in mini riescono infatti a rientrare ordinagrado di ricostruire nel dettaglio l’intetamente in Virginia, pronti per ro schieramento unionista. Quello un’altra battaglia. che vede lo raggela. Nella reciproSe il 3 luglio l’Armata del Polo sCoUt ca ignoranza, i due eserciti bih. t. harrIsoN tomac fosse stata distrutta - covaccano a poche miglia l’uno ha salvato me certamente sarebbe succesdall’altro. Con la differenza che, Il GENEralE so senza le informazioni di Harrispetto alle forze del Sud, i norROBERT E. LEE rison - la ricorrenza del 4 luglio disti sono molto più compatti. sarebbe stata festeggiata insieme A rischio della propria vita, nelalla notizia della fine della guerra. la notte del 28 giugno Harrison rieLo scout Harrison ha salvato il generasce a presentarsi agli avamposti confederati. Condotto alla presenza del generale le Lee. La guerra, invece, durerà altri ventidue (“se Longstreet non ti riconosce, ti impic- mesi, concludendosi con un bilancio di oltre chiamo”) riesce a convincerlo dell’attendibi- 620mila soldati del Nord e del Sud deceduti. Finito il conflitto, Harrison non smentisce lità delle sue informazioni. Pur sconcertato dal fatto di doversi “fidare di una spia”, an- la propria natura. Si sposa, ha dei figli e un che il generale Lee sembra convinto da Har- bel giorno sparisce di casa per venticinque rison. Invia così staffette in ogni direzione anni per mettersi alla ricerca dell’oro. Al rienper far convergere tutti i suoi corpi d’armata tro, la famiglia si rifiuta di riaccoglierlo. Triste verso una cittadina che entrerà nella storia: epilogo per uno dei protagonisti meno conosciuti della grande guerra americana. Gettysburg.
HENRY THOMAS HARRISON 1832-1923 Harrison è stato un avventuriero americano e uno “scout”. Nel 1862 era finito nelle prigioni nordiste perché trovato a girovagare nelle vicinanze di accampamenti militari. Scarcerato per insufficienza di prove, fu reclutato come spia dal generale confederato James Longstreet, che ne apprezzò l’intelligenza e la capacità di osservazione
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RAGES
Le principali manifestazioni di rabbia e dissenso l’autunno caldo nelle piazze
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OUAGADOUGOU, BURKINA FASO Manifestanti fanno irruzione nella sede della tv di Stato. Dopo 27 anni i militari pongono fine al regime del presidente Blaise Compaoré (30 ottobre).
BRUXELLES, BELGIO Scontri tra manifestanti e forze dell’ordine in occasione dello sciopero generale contro le politiche di austerità annunciate dal governo di centrodestra (6 novembre).
LONDRA, REGNO UNITO Anonymus in azione vicino a Buckingham Palace nel Guy Fawkes day, giornata in memoria del ribelle cattolico che voleva far saltare in aria il parlamento britannico nel 1605 (5 novembre).
KIEV, UCRAINA Militanti nazionalisti, sostenitori del partito di estrema destra Svoboda, protestano di fronte al Parlamento nella Giornata dei Cosacchi Ucraini (14 ottobre).
SANAA, YEMEN Sostenitori del gruppo sciita degli Houthi eseguono la danza tradizionale Baraa. I secessionisti del Sud e AQAP minacciano la stabilitĂ del governo centrale (12 ottobre).
GERUSALEMME, ISRAELE Nuovi scontri dopo che il 5 novembre un membro di Hamas si è lanciato contro la folla nel rione nel rione di Sheikh Jarrah, uccidendo un cittadino israeliano.
osservatorio sociale Monitoraggio dei principali eventi e fenomeni ribellistici ed eversivi nel nostro Paese
Calma apparente nche se nel mese di ottobre non si sono registrati attentati di matrice anarco-insurrezionalista, è lecito presumere che i “nuclei di fuoco” che finora sono sfuggiti all’opera di prevenzione e repressione sviluppata dalla Magistratura e dalle forze dell’ordine proseguano nella pianificazione di “azioni dirette” lungo le direttrici già delineate nell’ultimo biennio. Sono altrettanto probabili ulteriori tentativi di strumentalizzazione di manifestazioni di piazza legate alla situazione di crisi economica che investe il nostro Paese. A ottobre è proseguita la stasi nelle operazioni terroristiche di matrice anarco-insurrezionalista che ha caratterizzato gli ultimi mesi. Non si sono, infatti, registrati attentati dinamitardi o iniziative eversive né in Val di Susa né in altre aree di attività dell’antagonismo italiano. Il calo dell’iniziativa anarchica può essere sostanzialmente ricondotto all’azione incalzante di magistratura e forze dell’ordine che, dall’inizio dell’anno, hanno inferto duri colpi alle reti antagoniste. Per rendersi conto di quanto l’opera di prevenzione e repressione abbia inciso sull’attività anarchica, è sufficiente scorrere i siti d’area che riportano ormai quasi soltanto aggiornamenti sulla situazione giudiziaria dei “compagni arrestati” e comunicati di solidarietà e protesta “contro la repressione”. Nonostante la momentanea interruzione delle azioni dinamitarde, gli anarchici sono scesi in campo a Bologna il 18 ottobre, dando luogo a una violenta manifestazione contro la presenza in città del governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, invitato dalle autorità accademiche a tenere una “lectio magistralis” presso l’ateneo cittadino. Un centinaio d’incappucciati ha tentato di raggiungere l’Università scontrandosi con la polizia, contro cui sono stati lanciati bastoni, bombe carta, fumogeni, bottiglie e barattoli di vernice. Secondo il questore gli anarchici “cercavano l’incidente” tentando di rendere ancora più teso il clima da “autunno caldo” che, a causa della crisi economica, inizia a prendere corpo nel nostro Paese. Un clima che è testimoniato anche dagli scontri di Piazza Indipendenza a Roma del 29 ottobre, quando sindacalisti della Fiom e lavoratori della AST di Terni si sono scontrati con le forze dell’ordine durante una manifestazione di protesta per la paventata chiusura dello stabilimento “acciai speciali” della città umbra.
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TIMELINE DEGLI EVENTI 18 ottobre BOLOGNA Scontri con la polizia all’Università, in risposta alla presenza nell’ateneo del governatore della Banca D’Italia, Ignazio Visco. 29 ottobre ROMA Scontri in piazza dell’Indipendenza tra poliziotti, sindacalisti della FIOM e lavoratori dell’AST di Terni. 8 novembre BOLOGNA Aggressione da parte di alcuni centri sociali all’auto dell’eurodeputato e segretario della Lega Nord, Matteo Salvini.
copertina OTTOBRE
2014 Aggiornato al 10 novembre 2014
ATTENTATI LETTERE O PACCHI BOMBA INCIDENTI DI PIAZZA RAPINE O AGGRESSIONI RISCHI O MINACCE ARRESTI BOLOGNA
ROMA
dietro lo specchio
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Regime change e diversioni strategiche Fallito il tentativo di prendere il potere dopo le rivolte di Piazza Maidan, l’Occidente è in cerca di nuove soluzioni l regime change messo in opera a Kiev non ha portato agli USA quanto sperato. Non ha provocato un intervento armato della Russia, così da porla tra gli Stati canaglia nemici dell’Occidente, portare truppe NATO e missili a ridosso della sua frontiera, e riavviare in grande stile una nuova Guerra Fredda, per scompaginare - più velocemente dei quarant’anni impiegati per portare l’URSS al crollo finanziario - le alleanze che sorreggono il potere di Putin e provocare un regime change ben più importante di quello ucraino. La Russia, secondo la vice-segretario Victoria Nuland e i consiglieri di guerra neocon dell’Amministrazione Obama, sarebbe stata così ricacciata nella subordinazione dei bei tempi del beone intrallazzatore Boris Yeltsin, che per premio aveva potuto lasciar depredare il Paese da suoi famigli, poi oligarchi. Un risultato ottenuto è stato quello di incrinare la partnership russo-europea: un polo indipendente, altro ostacolo al predominio mondiale degli USA e del dollaro. La Russia non è caduta nella trappola perché ormai disincantata, dopo un primo periodo di acquiescenza per la propria debolezza, aveva ben compreso gli intenti di vassallaggio travisati nel “libero mercato globale” osannato dagli USA. Ma avrebbe avuto difficoltà a evitare l’intervento, e al contempo mantenere un’interposizione territoriale con le truppe NATO, se i russi degli oblast orientali dell’Ucraina non si fossero opposti al regime change di Kiev, organizzandosi politicamente e militarmente per la propria autonomia. Il cessate-il-fuoco tra le parti (l’Ucraina per la debacle dell’esercito e la Russia per i danni già apportati alla sua debole economia) ha posto fine alla guerra ma non alle ostilità.
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Il fUtUro dEll’Est UCraINa sarà dEtErMINato NoN dalla DIPLOMAZIA Ma dallE
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La Repubblica di Donetsk ha bisogno di un aeroporto, e per questo lì ancora si combatte. Il territorio delle repubbliche sarà determinato dalle armi, e per questo l’esercito ucraino continua ad attaccare i villaggi orientali in un continuo prendi e lascia con le milizie della Novorossija. Né il cessate-il-fuoco ha risolto diatribe e riposizionamenti all’interno delle oligarchie ucraine, formatesi anch’esse, come quelle russe, nell’arrembaggio della privatizzazione capitalistica ad appannaggio di bande di profittatori, costituitesi poi in Ucraina in partiti politici di supporto. Così, è ancora indefinibile la posizione dell’oligarca Rinat Akhmetov che, uomo più ricco d’Europa, ha tutte le sue aziende nella Repubblica di Donetsk. I cui dirigenti comunisti hanno annunciato
storie di un Mondo al rovescio
che ogni industria sarà riportata “in proprietà del popolo”. Akhmetov, a differenza degli altri oligarchi, non si è prontamente schierato con la giunta di Kiev, limitandosi a sostenere l’integrità del Paese. Ora, dopo la tregua che ha riconosciuto di fatto le due repubbliche orientali, l’oligarca non ha preso posizione, ma la sua Fondazione è attivissima nel fornire aiuti alla popolazione del Donbass (anche con il Rinat Akhmetov Help Children Project). Fatto sta che l’hangar dell’aeroporto di Dontesk con il suo aereo viene accuratamente tenuto al riparo dai colpi dei ribelli. Akhmetov ha perso finora il 20% del suo capitale, ma ne ha ancora in abbondanza per mantenere una posizione di partecipata attesa. Nel frattempo, dati gli stretti legami commerciali, è sicuramente in contatto con le autorità russe e anche con i suoi omologhi, per
far sì che Putin riporti a più miti consigli i comunisti delle due repubbliche. Ma Putin non può premere più di tanto. Per il ruolo svolto dai comunisti ucraini, e per non inimicarsi l’alleanza del Partito Comunista russo che, proprio per l’Ucraina, lo sostiene nel braccio di ferro con i liberisti. Né può togliere supporto alle due repubbliche perché per ogni russo sarebbe un tradimento. E proprio su questo si sta ora articolando una diversione strategica (disinformazione) degli esperti PSYOP (guerra psicologica) americani: ovvero la messa in circolo in Russia della voce che Putin, sotto pressione degli oligarchi, avrebbe tradito le repubbliche accordandosi con il presidente ucraino Petro Poroshenko su una loro autonomia all’interno dell’Ucraina. La speranza USA è che il popolo gli si rivolti contro, portando a un assedio di tutti i gruppi politici. Fatto che potrebbe consentire ai filo-occidentali nel suo stesso partito di metterlo da parte. Al Dipartimento di Stato hanno sicuramente già pronto un nuovo Yeltsin.
un libro al Mese
congo di David van Reybrouck Feltrinelli - 2014 pp. 688 - 25,00 euro er comprendere la natura della Repubblica Democratica del Congo occorre ben altro che tenere a memoria i nomi che hanno contraddistinto i suoi ultimi cento anni di storia: Congo Belga dal 1908 al 1960, poi Repubblica del Congo, infine Zaire dal 1971 al 1997 in seguito al golpe di Mobutu Sese Seko. Afferrare le radici di questo immenso Paese - 2,3 milioni di chilometri quadrati, un’area grande come l’Europa Occidentale e due terzi dell’India, l’unico Stato in tutta l’Africa con due fusi orari - significa andare alla foce del suo maestoso fiume: un enorme getto di detriti, terra e alberi che nel picco della stagione dei monsoni invade l’Oceano Atlantico per più di 800 chilometri. L’immagine che affiora dal reportage realizzato dal giornalista belga David Van Reybrouck segue l’andamento di questo fiume: un flusso continuo di testimonianze, ricordi di passati coloniali, regimi e colpi di Stato, e ancora etnie, lingue e codici tribali e rimandi all’archeologia, alla geografia e alla climatologia di questi luoghi. È come una persona, spiega l’autore, che dopo essersi tagliata i polsi “li tiene sotto l’acqua, ma per sempre”.
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