geopolItICA
La guerra per il Continente Nero |
SICUReZZA
La Cina alla conquista del mondo |
eConomIA
I danni del Fiscal Compact
anno I - n. 3 aprile 2013
Vogliono tutti
l’AFRICA Dalla Cina all’Arabia Saudita fino a Mokhtar Belmokhtar, la primula rossa di Al Qaeda
Siamo un’impresa integrata nell’energia e nell’ambiente, impegnata a crescere nelle attività di sviluppo, progettazione, realizzazione e manutenzione di grandi impianti industriali, nonché nelle attività di ricerca di nuove fonti energetiche alternative innovative ed eco-compatibili. La nostra Mission è creare e distribuire valore nel settore energetico ed ambientale al fine di soddisfare le esigenze dei Clienti, la competitività dei territori in cui operiamo, e le aspettative di tutte le persone che collaborano con noi.
www.generalspa.it
SommARIo
geopolItICA 8 Famoso o famigerato? 12 La penetrazione araba
nel continente 16 Vent’anni di sangue 20 Eni, Cina e Sauditi:
conflitto o cooperazione?
SICUReZZA 26 Tutto tranne
30 eConomIA
che pacifico 30 La neocolonizzazione
38 Il cappio del
Fiscal Compact
d’Africa si chiama Cina 32 Dopo di me il petrolio 34 Una partnership
alla pari
42 L’argine europeo
alla finanza tossica 48 Il centravanti
dei BRICS 50 La Terra si ribella
RUbRIChe 18 do yoU SpReAd? Voci dal mercato globale 22 A dIRe Il veRo... L’analisi di approfondimento 36 l’ARAbA FenICe Donne, società e i tanti volti dell’Islam 46 dURA lex Sotto la lente del diritto
InoltRe 6 mAppAmondo
16
52 Un lIbRo Al meSe 52 CoSì dICono
LOOKOUT n. 3 aprile 2013
3
L’editoriale
La nostra Africa
S
tavolta guardiamo all’Africa. Il mitico “continente nero” ha forse perso un po’ dello smalto romantico che ci ha tramandato Hemingway e ma è entrato a pieno titolo nello scacchiere geopolitico perché, nonostante tutte le sue contraddizioni sociali e politiche, è un bacino di ricchezze inestimabili che ha, come ovvio, attirato l’interesse di due tra i maggiori protagonisti economici mondiali: gli arabi e i cinesi. È per questo motivo che nel numero di aprile abbiamo voluto proporvi una serie di analisi sull’Africa che non trascurano di esaminare la concreta possibilità che il continente, oltre ad attirare gli interessi economici stranieri, possa diventare una nuova base operativa dei terroristi di Al Qaeda. In realtà per Al Qaeda si tratterebbe di un ritorno. Infatti, pochi ricordano che la prima uscita operativa del movimento di Osama Bin Laden, dopo la fine delle operazioni in Afghanistan, ebbe la Somalia come teatro d’azione. Il 3 e 4 ottobre del 1993 i guerriglieri somali abbatterono tre elicotteri americani sui cieli di Mogadiscio uccidendo 18 fra ranger e piloti, utilizzando le tecniche insegnate loro dagli emissari di Bin Laden che in quel momento si trovava in Sudan. In Somalia, invece, gli Shabaab islamisti sono ormai un pericoloso interlocutore di qualsiasi nuovo governo. Qui il servizio segreto francese ha subito di recente la sua più cocente sconfitta. Mentre sul Mozambico. dove l’ENI ha scoperto i più ricchi giacimenti di gas della storia, adesso ha puntato gli occhi il regno saudita. Non potevamo trascurare l’Estremo Oriente, dove un gruppo di isolette sperdute nel Mar Cinese Orientale rischiano di portare Cina e Giappone a un confronto diretto anche militare. Mentre, come potrete vedere, Pechino non trascura di rivolgersi in maniera decisa allo scacchiere sudamericano. Nel nostro consueto “giro del mondo” non potevamo trascurare l’Italia e i suoi rapporti con un’eurozona che sembra sempre più dominata da inflessibili burocrati, i quali con un “fiscal compact” tanto rigido quanto ottuso potrebbero congelare drammaticamente le nostre prospettive di uscita dalla crisi. Un’ultima informazione per voi lettori: abbiamo superato i 10.000 contatti al mese e consolidato la presenza della nostra rubrica “Oltrefrontiera” su Panorama, nel segno di una collaborazione con una testata prestigiosa che si sta facendo ogni giorno più proficua. Ciò dimostra non soltanto che ci seguite con attenzione, ma anche che con un efficace passaparola l’interesse verso il nostro progetto cresce costantemente.
mario mori
Inbox Il dIRettoRe edItoRIAle RISponde
Cipro sarà una nuova Grecia? L’aiuto dell’eurozona a Cipro assomiglia più che altro a un vero e proprio reato di rapina. E poi, soprattutto, aiuti in cambio di cosa? Massimo Siliato L’esperienza greca insegna che l’eurozona a dominanza luterana quando offre aiuti tende anche a punire le “cicale” del sud Europa. Alla Grecia è stata imposta una pesantissima svalutazione interna: non potendo diminuire svalutandolo il valore della moneta unica, si è imposto ai governanti greci di “svalutare” il tenore di vita dei suoi abitanti. La Grecia sta al momento soffrendo in silenzio per una cura che l’ha di fatto messa sul piano economico in una condizione clinica di coma farmacologico. Cipro è ancora più piccola della Grecia. Negli ultimi anni è cresciuta grazie a una spregiudicata politica di attrazione di capitali dall’estero, specialmente dalla Russia e dai Paesi arabi. I ciprioti speravano che il loro ingresso in Europa portasse alla soluzione del contenzioso con la Turchia e alla totale indipendenza dell’isola. Non hanno ottenuto nemmeno questo. Che aiuti ha ricevuto o riceverà Nicosia? Temiamo che siano gli aiuti sufficienti a salvaguardare le banche del Nord Europa, che si sono allegramente riempite di titoli tossici provenienti dal sud Europa per tutto lo scorso decennio. Una partita di giro che mira a salvare non tanto Nicosia quanto chi ha investito in uno pseudo paradiso fiscale.
Nucleare: chi comanda in Corea del Nord? Sapremo mai la verità su ciò che veramente sta accadendo sul fronte delle due Coree? Riccardo Ameri Il problema con Pyongyang nasce dal fatto che i meccanismi del processo decisionale delle alte sfere governative sono chiusi in una barriera impenetrabile all’interno di un Paese impenetrabile. Chi comanda oggi? Il giovane Kim Jong-Un, erede dinastico dei “grandi e amati leader” papà e nonno, o la cerchia militare? Qual è l’influenza della Cina sul governo nordcoreano? Le distanze ideologiche tra i due Paesi si sono ingigantite da quando Pechino ha deciso la svolta verso un capitalismo di stato agile e spregiudicato che ha messo in soffitta i sacri testi del marxismo-leninismo. È difficile credere che i neo capitalisti di Pechino possano esercitare una moral suasion sull’avventurismo nordcoreano. In questi giorni la Corea del Nord sta puntando i missili sulla zona smilitarizzata e su obiettivi americani nel sud. Lo scenario è incerto ma gravido di pericoli, perché la storia insegna che quando si spinge troppo sull’acceleratore della minaccia armata basta un nonnulla per finire fuori strada con imprevedibili conseguenze regionali.
Papa Francesco e l’ultimo tango di Cristina Cristina Kirchner è subito volata a Roma per abbracciare Papa Francesco. Qualcuno però si dimentica che la Kirchner è la stessa che ha sempre osteggiato Jorge Bergoglio quando era in Argentina. Francesca Di Martino L’Argentina è di nuovo sulle soglie di un default economico e la Kirchner prova, da politicante che si ritiene astuta, di cavalcare la tigre del nazionalismo. Ha tentato con le Falkland-Malvinas ignorando due cose. La prima è che le isole sono ormai da due secoli abitate da inglesi. La seconda è che le Malvinas portano sfortuna ai governi argentini (il caso di Leopoldo Galtieri docet). Oggi tenta di sfruttare l’emozione per l’elezione al soglio di Pietro di un Papa argentino. Ma l’emozione non dura a lungo e la dura lex dell’economia potrebbe mettere fine ai suoi balletti.
Anno I - Numero 3 - aprile 2013
DIRETTORE RESPONSABILE Luciano Tirinnanzi @luciotirinnanzi redazione@lookoutnews.it
EDITORE G-Risk - CEO Giuseppe De Donno Via Tagliamento, 25 00198 Roma Tel. +39 06 8549343 - Fax +39 06 85344635 segreteria_grisk@grisk.it - www.grisk.it
REDAZIONE Rocco Bellantone Dario Scittarelli Cristiana Era Marta Pranzetti
DIRETTORE SCIENTIFICO Mario Mori
ART DIRECTION Francesco Verduci
DIRETTORE EDITORIALE Alfredo Mantici direttore@lookoutnews.it
facebook.com/LookoutNews twitter.com/lookoutnews Registrata presso il Tribunale di Roma n. 13/2013 del 15/01/2013
LOOKOUT n. 3 aprile 2013
5
mAppAmondo USA: bicchiere mezzo vuoto per obama in medio oriente Nel suo tour in Israele, Palestina e Giordania il presidente statunitense Barack Obama ha ottenuto due mezze vittorie (il disgelo con Nethanyahu e la telefonata rappacificatrice tra quest’ultimo ed Erdogan), un pareggio risicato sulla questione palestinese e una sostanziale sconfitta sul fronte siriano e su quello iraniano: due minacce con cui Washington dovrà continuare a fare i conti.
6
LOOKOUT n. 3 aprile 2013
ARgentInA: le Falkland alla Regina 1.513 sì contro 3 no. Peggio di così non poteva andare per l’Argentina di Cristina Kirchner, crollata in diretta mondiale sotto i colpi della minuscola popolazione delle isole Falkland, che il 10 e 11 marzo hanno deciso di rimanere sotto la tutela della Corona britannica. Le cose si mettono male per il presidente argentino in vista delle elezioni legislative di ottobre. E a complicare la situazione ora c’è anche la figura ingombrante di Papa Francesco.
RepUbblICA CentRAFRICAnA: Seleka al potere Dopo aver rovesciato il 24 marzo il governo del presidente Francois Bozize, il leader del movimento ribelle Seleka Michel Djotodia ha sospeso la Costituzione e sciolto il parlamento. Djotodia, garantendo che ripristinerà l’ordine in attesa delle prossime elezioni. La situazione è monitorata attentamente dall’Eliseo, a cui fanno gola soprattutto i ricchi giacimenti minerari del Paese.
SIRIA: in Qatar la prima ambasciata dell’opposizione Al summit della Lega Araba in programma a Doha l’opposizione siriana ha ottenuto il primo riconoscimento internazionale come legittima rappresentante del popolo siriano. Il 27 marzo il leader dimissionario della Coalizione Nazionale Ahmed al-Khatib ha inaugurato la prima ambasciata: una villa offerta dal governo del Qatar nell’elegante quartiere diplomatico su cui sventola la bandiera della rivoluzione.
RUSSIA: mosca conquista il podio delle armi Stando a quanto riferito dal dossier SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute) tra il 2008 e il 2012 il volume di produzione di armi nel mondo ha registrato un incremento del 17%. I primi due posti continuano a essere occupati stabilmente da USA e Cina. La novità è che adesso alle loro spalle c’è la Russia, che passa dal quinto al terzo posto scavalcano Regno Unito e Francia.
CInA: xi Jinping piglia tutto Dopo la visita al Cremlino, il neopresidente cinese Xi Jinping è volato in Africa. Atterrato in Tanzania, è passato per il vertice dei BRICS a Durban chiudendo il giro in Congo. Il perché di questa lunga trasferta lo spiegano i numeri: mentre l’Occidente si proclama paladino della democrazia nel Maghreb e in Medio Oriente, Pechino solo nel 2012 in partnership con i Paesi africani ha fatturato un business da 200 miliardi di dollari. E di certo non intende fermarsi nel 2013.
LOOKOUT n. 3 aprile 2013
7
geopolItICA
Mali Le mille facce di Belmokhtar L’altro volto di AQIM
Africa Influenza e penetrazione araba
Somalia Vent’anni di Al Shabaab
Mozambico Gli interessi di Eni, Cina e Sauditi
8
LOOKOUT n. 3 aprile 2013
geopolItICA
Tutti vogliono l’Africa. Gli interessi della regione sono enormi e, ad amministrare il caos, gli interessi divergenti e variegati, servono loro: i predoni delle guerre travestiti da terroristi
È
di Luciano Tirinnanzi
Mali |
Famoso o
uno degli uomini più ricercati del mondo. È un terrorista. È uno jihadista di Al Qaeda. È un trafficante di armi. È al centro di una caccia all’uomo internazionale. È stato più volte dichiarato morto per poi riapparire. E oggi è scomparso
famigerato? di nuovo. No, non stiamo parlando di Osama Bin Laden ma della nuova icona del terrorismo qaedista: Mr. Marlboro, al secolo Mokhtar Belmokhtar. La sua immagine, come nella migliore tradizione iconografica dell’Islam, non era mai stata nota né riprodotta fino a poco tempo fa e, se non fosse per alcuni video diffusi negli ultimi mesi da Al Qaeda nel Maghreb Islamico - che lo raffigurano guercio, con il classico mitra al fianco e la bandiera nera alle spalle inneggiante il Jihad - , non sapremmo neanche che volto ha. Sembra quasi che l’incognita del volto sia una volontà precisa da parte dei terroristi che si
LOOKOUT n. 3 aprile 2013
9
geopolItICA
Il dizionario Nato in Algeria nel 1972, Mokhtar Belmokhtar conobbe Osama Bin Laden nel 1990, in un campo di addestramento in Sudan. L’anno successivo, a soli diciannove anni, fu tra i numerosi volontari a recarsi in Afghanistan per combattere l’Unione Sovietica, al fianco dei mujaheddin. Durante quella guerra subì una ferita al volto che gli causò la perdita dell’occhio sinistro e gli procurò il primo dei suoi numerosi soprannomi: “Belaouar”, ovvero il guercio.
affacciano oggi nella scena internazionale e che questo schema venga volutamente riproposto dalla galassia qaedista: è vero che le immagini sia di Bin Laden sia di Al Zawahiri (il numero uno e due di Al Qaeda) siano state sovraesposte nel tempo e che le loro facce siano note ovunque, dall’11 settembre in poi. Però, anche Osama ha improvvisamente deciso di scomparire, e ciò è avvenuto molto tempo prima di essere scovato e ucciso. Quasi come se volesse imitare il Profeta che, velato nel volto, a un certo punto semplicemente scompare. E, comunque, Bin Laden e Al Zawahiri rappresentano ormai la “vecchia Al Qaeda” mentre la “nuova Al Qaeda” è poco colta: non comunica se non con i fatti, non teorizza ma agisce e sembra non amare affatto né i video né le esternazioni di alcun tipo, se non quando strettamente necessarie. Pare, insomma, prediligere sempre e comunque l’anonimato e l’irriconoscibilità dei propri leader, aggiungendo mistero e confusione sull’organizzazione e su chi siano davvero
i suoi capi. Non si dimentichi che, inizialmente, lo stesso Belmokhtar era alla testa di un gruppo noto come Al-Mulathameen, ovvero la “brigata dell’uomo mascherato”. Casomai, oggi è il voyeurismo dell’Occidente a spingere costantemente l’opinione pubblica a desiderare di conoscere il volto del cattivo di turno, a vedere che faccia abbia il nemico pubblico numero uno: per gli americani, è così fin dai tempi del West, una tradizione che è proseguita con i vari John Dillinger e che arriva fino a oggi. Da quando è stato riconosciuto quale ideatore dell’attacco all’impianto di In Amenas in Algeria (suo Paese di nascita), Mokhtar Belmokhtar è diventato un’icona pop, ed è assurto improvvisamente a leader della “nuova Al Qaeda”, per poi sparire nuovamente come nel più classico dei copioni. Così, anche l’esercito del Ciad, che lo inseguiva fin dalla presa francese di Timbuctù a fine gennaio scorso, lo ha confuso più volte con altri combattenti e lo ha creduto morto insieme ad Abou Zeid nelle impenetrabili montagne nel nord del Mali, salvo poi essere smentito dai francesi stessi, che non hanno ancora riscontri ufficiali del suo decesso. Che sia defunto o meno durante i pesanti scontri avvenuti ad Adrar Des Ifoghas (Mali), l’effetto che lui e gli altri “most wanted terrorist” hanno
L’ultima immagine conosciuta di Osama Bin Laden, scattata nel compound di Abbottabad
10
LOOKOUT n. 3 aprile 2013
geopolItICA
a livello emotivo sull’opinione pubblica, è devastante. Sì, perché la proliferazione di primule rosse nel giardino del terrorismo internazionale ma soprattutto l’incertezza sulle loro sorti - comunica insicurezza al mondo e rende implicita la sconfitta dell’Occidente che è costretto a inseguire costantemente questi estremisti, come nel più classico dei film di guardie e ladri. E, ormai, il fantasma di Belmokhtar aleggia non solo nel Nord Africa ma è vivo anche in Europa, Francia in primis, dove l’allerta attentati è salita progressivamente dall’inizio della guerra. Che poi, è bene ricordarlo, Mokhtar Belmokhtar non è affatto un rivoluzionario né un ideologo né un fondamentalista che ha sposato la causa della guerra santa. È piuttosto un predone, un signore della guerra, un trafficante, un sequestratore. Insomma, non è un profeta del Jihad ma un bandito. Il fatto è che anche Belmokhtar è un bieco criminale può, a seconda della diventato un’icona distorsione dell’in- pop, ed è assurto formazione, assurgeimprovvisamente re a simbolo di una a leader della lotta. Ed è proprio quanto accade con “nuova Al Qaeda”, per poi sparire Mr. Marlboro, che non a caso si è gua- nuovamente come dagnato una posizionel più classico ne grazie al traffico dei copioni di sigarette in Algeria (non certo un curriculum da ideologo). Ad ogni buon conto, egli è oggi il simbolo delle contraddizioni e delle falle nel sistema della lotta al terrorismo internazionale. La miglior risposta a questa gente, che gestisce le molte terre di nessuno e che si nasconde dietro la parola Al Qaeda, sarebbe la cattura. Ma non come avvenuto con Osama Bin Laden, di cui ad oggi non si ha una benché minima foto o documentazione che dimostri effettivamente il suo trapasso (perché?). Più opportuno allora venire a sapere della morte di un terrorista come avvenuto con il colonnello Gheddafi, di cui si rimane certamente colpiti per il cinismo e la durezza delle ultime immagini da vivo, ma di cui non rimane alcun dubbio circa la sua fine.
L’altro volto di AQIM
A
bdelhamid Abou Zeid, leader di Al Qaeda nel Maghreb Islamico (AQIM), è stato riconosciuto morto dalle autorità francesi, grazie a verifiche effettuate sul suo Dna, cui è seguito l’annuncio dello stesso presidente francese Francois Hollande alle agenzie stampa del mondo. Secondo le ricostruzioni, è rimasto colpito a fine febbraio durante un attacco ad Adrar des Ifoghas, le montagne nel nord del Mali dove si stanno ancora svolgendo le operazioni di guerra da patre delle forze franco-ciadiane. Il terrorista di origini algerine (è nato nel 1958 a Deb Deb, nella provincia di Illizi), ha mutuato il proprio nome da un altro combattente morto in Ciad nel 2004, Abid Hammadou, usato più volte per sfuggire alla cattura e proteggere la propria identità durante le attività terroristiche e di traffici illeciti, mentre Abou Zeid corrisponde invece al nome di battaglia. Oltre ad Abid Hamadou, usava anche il nome di Mohamed Ghedir ed era consociuto anche con i nomi di Abou Zeidavuto e Mosab Abdelouadoud. Zeid era definito l’Emiro del Sud o il piccolo Emiro (per la sua bassa statura) e considerato a tutti gli effetti un warlord, un signore della guerra molto attivo nel narcotraffico, nei rapimenti e, solo in un secondo momento, identificato come jihadista. In altre parole, guerra santa o meno, egli ha sfruttato - come il suo sodale Mokhtar Belmokhtar - il vuoto di potere in quest’angolo di Africa, per intensificare i propri traffici ed estendere il proprio potere.
LOOKOUT n. 3 aprile 2013
11
geopolItICA
Africa |
di Marta Pranzetti
La penetrazione araba nel continente
Il rapporto fra il continente e il mondo arabo, oltre che geografico, affonda le proprie radici nella storia. Oggi i vecchi legami commerciali si stanno rinsaldando
A
ncor prima della grande corsa europea alla colonizzazione dell’Africa, gli arabi erano stanziati nel continente
12
LOOKOUT n. 3 aprile 2013
nero, principalmente in Nord Africa e nel Corno, dove giunsero dalla penisola arabica. Sultanati e avamposti commerciali erano presenti giĂ dal X secolo - come testimonia lo storico e
geografo arabo al-Ma’sudi - anche lungo tutta la costa orientale e sulle isole di Zanzibar e Madagascar. Non per niente, il Mozambico deve il suo nome allo sceicco arabo Musa Bin Biki che
geopolItICA
governava l’isola di Mozambico al tempo dell’arrivo di Vasco de Gama nel 1488. I vecchi legami commerciali tra Arabia e Africa hanno subito negli ultimi anni un rinnovato impulso. Gli odierni Stati del Golfo (Arabia Saudita, Qatar ed Emirati Arabi Uniti in particolare), con il loro inconfondibile fiuto per gli affari, sono tornati a mettere gli occhi sul loro vicino africano, per una serie di ragioni di carattere economico e geostrategico. Innanzitutto, la crisi del mercato europeo e americano ha spinto gli investitori arabi a cercare nuovi sbocchi, in più la
sorprendente crescita economica dell’Africa unita allo stabilizzarsi di alcuni dei suoi governi hanno fatto sì che le facoltose compagnie del Golfo spostassero il baricentro dei propri affari su una terra peraltro ricchissima dal punto di vista agro-alimentare (cosa non da poco per i Paesi desertici del Golfo) ed energetico. Già nel 2009 l’Arabia Saudita (con il suo striminzito 2% di terre coltivabili su un pur vasto territorio e una popolazione che si stima crescerà del 77% da qui al
L’attrazione per l’Africa da parte dei Paesi del Golfo è veicolata anche dal settore dei servizi e da quello delle infrastrutture
LOOKOUT n. 3 aprile 2013
13
geopolItICA
2050) aveva varato un piano per la sicurezza alimentare pari a 3 miliardi di riyals (circa 800 milioni di dollari) a sostegno degli investimenti di compagnie private saudite in progetti agricoli all’estero. I principali Paesi a trarne beneficio in Africa sono stati l’Etiopia, il Sudan, lo Zambia e il Mozambico. Allo stesso modo, anche il Qatar aveva dato avvio nel 2009 a una joint-venture di carattere agro-alimentare da un miliardo di dollari con il governo del Sudan. E nel 2012, in previsione di un incremento nelle relazioni commerciali con il
La Lega araba Organizzazione regionale di 22 Stati arabi, istituita al Cairo nel 1945
14
LOOKOUT n. 3 aprile 2013
Mozambico - a seguito della scoperta di immensi giacimenti di gas che lo renderebbero il quarto produttore al mondo, dopo Russia, Iran e Qatar - si è garantita una via d’accesso preferenziale nel Paese, istituendo una tratta aerea della Qatar Airways che opera tra Doha e Maputo via Johannesburg. Quella nell’ex colonia portoghese, tra l’altro, è la quarta tratta aperta in Africa dalla compagnia qatarina nel 2012 (dopo quelle in Ruanda, Tanzania e Kenya), segno di un netto incremento degli interessi in gioco. L’attrazione per l’Africa da parte dei Paesi del Golfo - di cui si discute spesso nelle riunioni della Lega Araba - è, inoltre, veicolata anche dal settore dei servizi e da quello delle infrastrutture. La concentrazione di investitori stranieri nei Paesi africani richiede necessariamente lo sviluppo di servizi di accoglienza e l’incremento delle capacità logistiche e infrastrutturali per la gestione delle operazioni. In tal senso, l’egregia esperienza emiratina nella costruzione e nell’implemento di porti, aeroporti, vie di collegamento e reti
geopolItICA
di comunicazione, svolge un ruolo basilare. Ad esempio, DP World (operatore portuale con sede a Dubai), che è stato per anni un key-player nello sviluppo infrastrutturale in Africa (gestendo dal 2000 le operazioni portuali in Senegal, Algeria e Gibuti), ha annunciato nel 2011 un investimento di un miliardo di dollari in Mozambico per far sì che il porto di Maputo soddisfi la domanda internazionale dei prossimi vent’anni. Ancora, Etisalat (gigante emiratino delle comunicazioni) oltre ai suoi investimenti in Nigeria ed Egitto ha esteso il raggio d’azione finanziando Atlantique Telecom, che opera in almeno sei stati dell’Africa occidentale, Zantel e Canar, rispettivamente operanti in Tanzania e Sudan. Nel settore alberghiero e dei servizi, invece, Rani Resorts (del gruppo Aujan di proprietà saudita) rappresenta oggi il maggiore investitore in ambito turistico in Mozambico, dove detiene attualmente cinque hotel di lusso e un resort in costruzione nell’arcipelago di Bazaruto. Un altro investitore saudita, il gruppo di costruzioni Radyolla,
ha recentemente rinnovato la sua intenzione di realizzare una raffineria petrolifera a Nacala in Mozambico - dopo l’interruzione dovuta alla recessione del 2008 - e costruire un oleodotto che colleghi il porto di Beira ai Paesi limitrofi (Zambia e Malawi raggiungendo addirittura parte della Repubblica Democratica del Congo). Il Mozambico, già detentore di una delle maggiori riserve di carbone, è evidentemente tra i Paesi africani che attualmente fanno più gola. Ma le ingenti quantità di gas che sono state scoperte anche in Tanzania, Kenya e Madagascar, suscitano sempre maggior interesse per via della simile composizione geologica che le caratterizza. Cina e Brasile si contendono già la piazza ma, viste le mosse strategiche già messe in atto nel garantirsi una presenza negli altri settori chiave dello sviluppo, i competitor arabi non tarderanno ad aggiudicarsi anche la loro fetta nella prossima sfida energetica.
FRELIMO-RENAMO La guerra africana fra blocchi opposti
R
oma, Comunità di Sant’Egidio, 4 ottobre 1992. È qui che, dopo due anni di trattative, i movimenti armati FRELIMO (Fronte di Liberazione del Mozambico) e RENAMO (Restistenza Nazionale Mozambicana) firmano gli accordi di pace, varando una nuova costituzione che di lì a pochi mesi avrebbe portato alle prime elezioni libere del Mozambico decolonizzato. Si conclude ufficialmente così la guerra fratricida che ha tenuto in ostaggio questo Paese ininterrottamente dal 1975 al 1992. Protagonista del processo di indipendenza del Paese dal Portogallo nel 1975, FRELIMO si allineò politicamente all’Unione Sovietica, imponendo al Mozambico un sistemo economico di stampo socialista. Sul fronte opposto, RENAMO, venne forgiato e finanziato dal blocco occidentale per arginare la deriva comunista. Terminato il conflitto, il potere di fatto è rimasto saldamente nelle mani di FRELIMO, che dalle prime votazioni democratiche del 1992 ha sempre governato il Paese prima con Joaquim Chissano e, successivamente, con Armando Guebuza, rieletto per un secondo mandato a fine 2009.
LOOKOUT n. 3 aprile 2013
15
geopolItICA
Somalia | di Dario Scittarelli
Dilaniata da una guerra civile fin dalla caduta di Siad Barre nel 1991, l’ex colonia italiana sembra raggiungere soltanto adesso un barlume di stabilità. Ma la minaccia degli Shabaab è sempre dietro l’angolo
16
Vent’anni di sangue
A
ll’inizio troviamo i conflitti intertribali, quelli che avevano portato al crollo del regime di Siad Barre. Seguono dieci anni di blackout, in cui a nulla serve l’operazione di Stati Uniti e ONU per ripristinare la pace. Poi, nel 2000, il primo governo transitorio che rimarrà in vita tre anni. E il secondo, nel 2004, appoggiato dagli USA e riconosciuto dalla comunità internazionale. È in questa fase che entrano in scena gli islamisti. Mentre il governo transitorio è in esilio a Nairobi e il nord della Somalia è nelle mani dei vari signori della
LOOKOUT n. 3 aprile 2013
guerra, nel sud del Paese si fa strada l’Unione delle Corti Islamiche. Finanziata da Arabia Saudita e altri Paesi del Golfo, e sostenuta militarmente dall’Eritrea, essa prende il controllo di Mogadiscio dal giugno al dicembre 2006. Il movimento Harakat al-Shabaab al-Mujahidin, più comunemente noto come Al Shabaab (“La Gioventù”), emerge in questo frangente come braccio
geopolItICA
armato dell’Unione delle Corti Islamiche. La formazione è in prima linea nel contrastare l’avanzata delle forze governative somale e delle truppe etiopi che, con l’appoggio degli Stati Uniti, tentano di sottrarre loro la capitale. Ma, anche con la liberazione di Mogadiscio il 28 dicembre 2006 e i successivi bombardamenti americani, gli Shabaab continuano a essere ben radicati nelle aree meridionali del Paese e ne prendono progressivamente il controllo. Con il ritiro delle truppe etiopi nel gennaio 2009, la formazione jihadista - ormai indipendente dall’Unione delle Corti Islamiche e affiliata ad Al Qaeda pone Mogadiscio sotto costante assedio, e riconquista la roccaforte governativa di Baidoa e la città portuale di Kismayo, strappandola al gruppo islamista rivale Hizbul Islam. Ma nel 2011 la carestia colpisce il sud della Somalia. Al Shabaab respinge gli aiuti umanitari occidentali e la credibilità dei mujaheddin che fino a quel momento godevano del pieno sostegno delle popolazioni locali - crolla drasticamente. Nell’ottobre dello stesso anno, con l’ingresso delle truppe keniote nel Paese, viene inferto agli Shabaab il colpo decisivo. Questi, che si erano già ritirati da Mogadiscio due mesi prima, abbandonano, nel corso del 2012, i territori precedentemente occupati. Kismayo - ultima roccaforte islamista,
Il leader di Al Shabaab Al centro, Ahmed Abdi Godane, detto Abu Zubeir
A
hmed Abdi Godane - nome di battaglia Mokhtar Abu Zubeir è stato ufficialmente nominato emiro di Al Shabaab nel dicembre 2007. Classe 1977, egli è anche uno dei fondatori dell’organizzazione. Nel suo primo annuncio come capo del movimento nel giugno 2008, Godane ha giurato fedeltà a Osama Bin Laden. Per il leader di Al Shabaab il territorio somalo è infatti solo uno dei tanti fronti del jihad globale condotto da Al Qaeda: obiettivo del gruppo, come si evince da una dichiarazione del giugno 2012, è imporre la sharia in Somalia e nel resto del Corno d’Africa, combattendo contro il governo di Mogadiscio e le due nazioni apostate, Kenya ed Etiopia. Nel febbraio 2008 il Dipartimento di Stato americano annovera Al Shabaab tra le organizzazioni terroristiche. Sul finire dello stesso anno l’Office of Foreign Assets Control ha proclamato Godane Specially Designated Global Terrorist.
nonché porto strategico che garantiva facili approvvigionamenti - cade nell’ottobre di quell’anno. Nel frattempo, nell’agosto 2012, dopo oltre vent’anni di conflitti e di vuoto istituzionale, si insedia a Mogadiscio il primo governo federale somalo. Con una forza militare di circa 7.000 uomini, molti dei quali
combattenti stranieri, Al Shabaab non può, tuttavia, considerarsi sconfitto. La sua presenza in molte aree rurali del Paese, da cui vengono coordinate le incessanti azioni di guerriglia contro il nuovo governo di Mogadiscio, costituisce ancora una seria minaccia alla stabilità della Somalia.
LOOKOUT n. 3 aprile 2013
17
do yoU SpReAd? voCI dAl meRCAto globAle
Sub-Sahara: la via africana allo sviluppo? B. Woods
18
LOOKOUT n. 3 aprile 2013
I
l recente rapporto “A Hopeful Continent” pubblicato sul settimanale britannico The Economist presenta l’Africa come “il continente con la più veloce crescita economica nel mondo”. I dati continentali riportati, pur nella precarietà del loro valore, sono comunque impressionanti. Nel primo decennio del XXI secolo, secondo The Economist, il reddito personale disponibile è cresciuto del 30% rispetto al 10% dell’ultima decade del Novecento, e il PIL è atteso a una crescita del 6% annuo nel prossimo decennio. A sostegno di questa tesi, vengono citati alcuni importanti indicatori di sviluppo sociale: il tasso di scolarizzazione secondaria è cresciuto di quasi il 50%, l’aspettativa di vita media è aumentata del 10%, la mortalità per malaria si è ridotta del 10% e quella per HIV del 74%. Infine, il processo di democratizzazione degli Stati emersi dalla fine dei regimi coloniali prima, e della Guerra fredda poi, ha coinvolto in forme diversamente evolute di partecipazione a libere elezioni, ben 51 Stati su 55 (es. Libia, Swaziland, Somalia ed Eritrea). Tuttavia, trattare il continente africano come un unicum non sembra una buona idea, e sarebbe forse meglio procedere con un’analisi differenziata, come fa per esempio la Banca Mondiale, che distingue nelle proprie statistiche il Nord Africa dall’Africa Sub-Sahariana. Seguendo questa indicazione e
analizzando i dati pubblicati nell’ultimo rapporto sull’economia mondiale (The World Bank: Global Economic Perspective, gennaio 2013) emerge un’Africa a doppia velocità: da una parte il Nord Africa, i cui Paesi investiti dalla Primavera Araba, dopo la brusca caduta del 2,4% del2011, mostrano una crescita del PIL tra il 2% (Egitto e Tunisia) e il 3% (Algeria e Marocco), con una tendenza a una crescita media superiore al 4% a partire dal 2015 (meno marcata per i esportatori di petrolio). Dall’altra parte, c’è l’Africa Sub-Sahariana, che anche nel 2012 ha fatto registrare un tasso medio di crescita del PIL del 4,6% (+6% per un terzo dei Paesi della Regione). In questo caso, il tasso stimato di crescita media per i prossimi anni è al 6%, grazie soprattutto all’alto prezzo delle risorse naturali, che continuano a far crescere il valore delle esportazioni e alimentano il flusso degli investimenti esteri (+5,5%, pari a 37,7 miliardi di dollari nel 2012, a fronte di una caduta degli investimenti nei Paesi in Via di Sviluppo del -6,6%). Anche il tasso medio d’inflazione segna due tendenze diverse: nel Nord Africa viaggia intorno al 5%, viceversa nell’Africa SubSahariana ha un valore doppio. Un ulteriore elemento caratterizza, differenzia e condiziona
le economie Sub-Sahariane: la dipendenza dalla domanda cinese, che da sola conta per ben il 50% delle esportazioni di metalli industriali e minerali (Zambia, Botswana, Namibia e Repubblica Democratica del Congo), e ancor più vale nel caso del petrolio (Angola e Sudan). La dipendenza dalla Cina è, inoltre, rilevante anche dal punto di vista del flusso di investimenti: la Cina fornisce circa un terzo del flusso netto di capitali nell’area (il FOCAC - Forum per la Cooperazione tra Cina e Africa - ha recentemente annunciato l’attivazione di una linea di credito di oltre 20 miliardi di dollari per lo sviluppo di infrastrutture, agricoltura e manifattura). Accanto quindi a rischi interni (situazione politica) ed esterni (stabilizzazione dei mercati finanziari, ripresa economica nell’area dell’euro, caduta dei prezzi delle materie prime, aumento dei prezzi dei prodotti alimentari) condivisi, l’Africa Sub-Sahariana mostra una specifica criticità: l’elevata dipendenza dalla domanda e dagli investimenti cinesi, la cui riduzione o peggio ancora il suo venir meno, produrrebbe un vero e proprio dissesto economico e finanziario nelle economie della regione, con immediate conseguenze sulla loro crescita economica.
LOOKOUT n. 3 aprile 2013
19
geopolItICA
Mozambico | de Il Grigio
Eni, Cina e Sauditi: conflitto o cooperazione?
Il ciclo avviato dall’Italia nel Paese africano sembra assolutamente virtuoso e la collaborazione con gli altri protagonisti del business legato alle energie potrebbe assicurare benefici comuni
L’
L’Italia è interlocutore privilegiato del governo di Maputo e ha saputo usare con intelligenza questo credito politico
20
LOOKOUT n. 3 aprile 2013
ENI ha nesso radici profonde in Mozambico non solo grazie al fiuto dei suoi dirigenti - che per primi hanno intuito che, al largo delle coste del paese africano conveniva investire in ricerche e sondaggi ma anche grazie a una fortunata circostanza storica: l’intesa di pace che nel 1992 ha messo fine a una lunga e sanguinosa guerra civile che dilaniava il paese dal 1975, segnando l’avvento di un’era di pace e di relativa prosperità, è stata resa possibile dagli sforzi compiuti in prima persona da Andrea Riccardi, capo storico della Comunità di Sant’Egidio e fino ad oggi ministro della cooperazione internazionale del governo Monti. È per questo che, da oltre vent’anni, l’Italia è interlocutore privilegiato del governo di Maputo e ha saputo usare con intelligenza questo credito politico per favorire la presenza dell’ENI nel Paese. Per dirla con le parole di un noto finanziere milanese: “Il Mozambico cresce, Riccardi mediò e l’Eni incassa...”. Nel febbraio dello scorso anno, il cane a sei zampe ha compiuto la scoperta del secolo in Mozambico: nel mare profondo, a
geopolItICA
pochi chilometri dalla costa, in quell’area chiamata in codice “Mamba”, gli ingegneri dell’ENI hanno scoperto un enorme giacimento di gas che, nelle parole di Paolo Scaroni (nella foto), amministratore delegato del colosso petrolifero italiano, cambierà “la geografia dell’Africa e dell’ENI nei prossimi anni”. Anni che vedranno investimenti per decine di miliardi di dollari. Nel piano strategico del quadriennio 2012-2015, infatti, sono già previsti investimenti per un totale di 56 miliardi di dollari. Al progetto, è notizia dello scorso 14 marzo, parteciperà anche la China National Petroleum Corporation, che ha acquistato dall’ENI, sotto la spinta entusiasta del governo di Pechino, il 20% delle quote italiane di partecipazione all’avventura offshore in Mozambico. “Mamba - ha dichiarato Scaroni - farà crescere l’ENI per decenni”. L’Arabia Saudita, di fronte ai successi del nostro gruppo petrolifero e della joint venture che ha portato i cinesi sulle coste del Mozambico, non è rimasta con le mani in mano e ha immediatamente rispolverato progetti e impegni nel Paese che giacevano inerti nei cassetti dal 2008, spedendo a Maputo
i prìncipi della Corona, con ampi poteri di rinegoziazione degli interventi sauditi. Il presidente mozambicano, Armando Emilio Guebusa, ha dichiarato recentemente che il suo Paese può ricevere da Riad “molti aiuti nel settore agricolo, delle infrastrutture energetiche e delle ferrovie”. Un appello al quale è seguito quello del ministro delle risorse energetiche e minerarie, Esperanza Bies, che il 12 marzo scorso ha pubblicamente affermato: “Il Mozambico vuole investimenti e sostegno tecnico dai sauditi per sviluppare meglio il settore del petrolio, del gas e delle risorse minerarie”. Le richieste non sono cadute nel vuoto ma sono state immediatamente accolte da Riad, che è scesa in campo firmando accordi nei settori della costruzione di raffinerie e di gasdotti. È bene notare che l’impegno saudita, per ora non vuole confliggere con quello dell’Eni nel campo della ricerca e dell’estrazione, ma gli si affianca nella sola
fornitura di servizi e infrastrutture. Questo, quindi, è lo scenario mozambicano: ENI scopre e sfrutta al meglio imponenti giacimenti di gas che assicureranno all’Italia un netto calo della dipendenza energetica; i cinesi si associano agli italiani; i sauditi entrano, con la forza dei loro petroldollari, nel business delle infrastrutture, evitando di competere sul versante dell’estrazione. Il ciclo avviato sembra assolutamente virtuoso: l’augurio è che i tre grandi stakeholder siano capaci di lavorare insieme per la loro e l’altrui crescita, contribuendo all’economia di un Paese emergente che, come tutto il continente africano, è ricchissimo di risorse ma che fino a poco tempo fa è stato povero di oneste energie culturali, intellettuali e produttive, in grado di assicurare una crescita coerente con le proprie immense risorse. Il Mozambico cresce e si sviluppa grazie anche allo spirito d’impresa italiano e, nel suo piccolo, alla lungimiranza e all’impegno della comunità di Sant’Egidio.
LOOKOUT n. 3 aprile 2013
21
A dIRe Il veRo... l’AnAlISI dI AppRoFondImento
I Servizi francesi e il fiasco somalo Il Grigio
N
ell’analizzare il tentativo finito nel sangue di liberare un agente dei Servizi segreti francesi detenuto dagli Shabaab somali (gennaio 2013), l’intervento che segue solleva il problema delle attività paramilitari autonome degli organismi di sicurezza. Sull’argomento esistono, a grandi linee, due scuole di pensiero. La prima sostiene che il compito esclusivo dei servizi di intelligence sia quello di raccogliere informazioni delegando, quando necessario, eventuali “azioni dirette”ai corpi speciali della polizia o delle forze armate. È la linea degli inglesi e degli israeliani, i cui servizi operano all’interno di precisi protocolli operativi di stretto coordinamento con le forze speciali. La seconda scuola preferisce servizi totalmente autonomi anche sul piano dell’intervento “militare”, quando le circostanze lo richiedono. A questa scuola aderiscono l’americana CIA, e la francese DGSE (Direction Generale de la Securitè Exterieure). Le attività paramilitari dei servizi
22
LOOKOUT n. 3 aprile 2013
assorbono enormi risorse finanziarie, sottratte al lavoro oscuro ma alla lunga produttivo (e istituzionale) di individuazione, reclutamento e gestione di preziose fonti informative. Ciò è stato ed è fonte di grossi problemi per gli organismi che amano le scorciatoie paramilitari o comunque le operazioni “attive” condotte in totale autonomia. Per quanto bene addestrati, gli operatori dei servizi non possono competere - per efficienza operativa e per supporto logistico - con gli uomini dei corpi speciali delle forze armate. I servizi, però, sono molto spesso gelosi della propria autonomia e preferiscono fare tutto da soli. Dalla Baia dei Porci (quando la CIA tentò praticamente da sola di organizzare l’invasione di Cuba) alla liberazione di Giuliana Sgrena (quando il team operativo del SISMI italiano evitò di chiedere la scorta dei paracadutisti del “Tuscania” di stanza a Baghdad) per finire col fiasco della tentata liberazione dell’agente francese “Denis”, molti insuccessi sul campo dimostrano che la filosofia operativa degli inglesi e degli israeliani, per citare i più importanti, è più realistica e più prudente: i servizi raccolgono e analizzano le informazioni e, quando la situazione lo richiede, fanno intervenire le forze speciali. Certo, in tutte le burocrazie l’autonomia è potere. Ma, spesso, l’efficienza è un’altra cosa.
dgSe nellA bUFeRA È il 14 luglio del 2009. Nell’anniversario della presa della Bastiglia, a Mogadiscio un commando di guerriglieri islamisti, gli Al Shabaab, ha catturato due “giornalisti” francesi nell’albergo dove alloggiavano. I due nomi, “Denis Allex” e “Marc Aubriere”, sono in codice poiché in realtà essi erano agenti dello spionaggio francese. Sotto la più improbabile delle coperture (ai tempi di Google è fin troppo facile scoprire se uno è veramente un giornalista), i due si trovavano in Somalia come consulenti per l’addestramento della polizia e della
guardia presidenziale, istituite dal fragile governo federale provvisorio. Mentre “Marc” è riuscito a tornare in libertà il 25 agosto 2009 in circostanze misteriose (a Parigi, ai piani alti della Defense si parla del pagamento di un congruo riscatto), “Denis” è stato condotto nelle campagne circostanti il santuario degli Shabaab, a Bulo Marer, nel sud della Somalia, e detenuto fino al 12 gennaio scorso. Nell’agosto del 2012, dopo la diffusione di un video che mostrava
l’ostaggio in discrete condizioni psicofisiche, il direttore della DGSE, il prefetto Erard Corbin de Margoux, ha deciso - e imprudentemente annunciato - il rifiuto di Parigi di pagare un riscatto per il proprio funzionario, lasciando intendere che l’unica opzione in campo era quella del ricorso alla forza contro gli Shabaab. Gli islamisti somali, attenti “followers” della rete (dialogano persino su twitter), una volta capita l’antifona hanno rafforzato i dispositivi di guardia intorno al compound dove era rinchiuso l’ostaggio e si sono preparati ad attendere l’arrivo dei “liberatori”. Nell’avviare i preparativi per la liberazione di “Denis”, il capo della DGSE ha preso anche un’altra decisione che presto si sarebbe rivelata fatale: ha rifiutato di coinvolgere nell’operazione di salvataggio dell’ostaggio il COS, Commandement des Operation Speciaux, ovvero il gruppo interforze che raccoglie i migliori specialisti delle operazioni clandestine delle forze armate d’oltralpe. Dando prova di possedere un orgoglio professionale pari, forse, soltanto alla sua imprudenza, il prefetto de Margoux ha deciso, infatti, che essendo “Denis” un dipendente della DGSE, il servizio, per liberarlo, avrebbe fatto tutto da solo. In che modo? Schierando in campo l’unità paramilitare della DGSE, il “Service d’Action”. Istituito ai tempi della guerra d’Algeria, quando il servizio si chiamava SDECE, il “Service d’Action” è stato per molti anni usato per compiere i “lavori sporchi” che l’intelligence francese con molta disinvoltura (ricordate il film Nikita?) ha realizzato in tutta la sua storia recente. Il problema, fanno notare fonti attendibili e infuriate ai vertici della Difesa francese (il servizio segreto dipende dal Ministro della Difesa), è che un conto è rapire o eliminare un islamista algerino sotto casa e un altro è organizzare un assalto di commando in territorio ostile. Nonostante le perplessità dei militari, monsieur le Prefect non ha voluto sentire ragioni e, all’inizio dello scorso mese di gennaio, ha dato luce verde alla preparazione dell’operazione che avrebbe dovuto portare alla liberazione di “Denis”. Nella notte tra l’11 e il 12 gennaio i commando della DGSE sono stati depositati dagli elicotteri, con una decisione inspiegabile per i militari, a ben nove chilometri di distanza dal villaggio di
LOOKOUT n. 3 aprile 2013
23
A dIRe Il veRo... l’AnAlISI dI AppRoFondImento
Bulo Marer e dal compound nel quale “Denis” era rinchiuso sotto stretta sorveglianza. Nessuno ha spiegato perché non si sia previsto di sbarcare gli assaltatori a ridosso della prigione. Fatto sta che i commando francesi, nel farsi strada a piedi nella notte nelle campagne somale, inevitabilmente si sono fatti notare dagli avamposti degli Shabaab disseminati in un’area che è totalmente controllata dagli islamisti. Quando, quasi all’alba, i francesi sono arrivati alla villetta in cui era rinchiuso il loro collega hanno trovato la sorpresa di un micidiale comitato d’accoglienza che li ha investiti con una pioggia di proiettili di ogni calibro. La battaglia è durata circa tre ore, durante le quali gli Shabaab hanno avuto buon gioco nel tenere a bada gli assaltatori francesi e hanno avuto il tempo di eliminare l’ostaggio (al quale non è stata d’aiuto la conversione all’Islam, molto pubblicizzata dai rapitori). Durante gli scontri, un altro agente francese è stato ucciso e molti sono stati feriti più o meno gravemente. Quando la situazione stava per diventare veramente critica per la disparità delle forze in campo, il capo dei commando francesi ha dato l’ordine di sganciamento e i superstiti hanno battuto in ritirata, per poi essere esfiltrati da elicotteri Caracal della DGSE. L’analisi “post mortem” dell’operazione
24
LOOKOUT n. 3 aprile 2013
compiuta nel corso dell’inchiesta interna alla “Piscine” (questo è il nome in gergo del quartier generale della DGSE a Parigi, al 11 di Boulevard Mortier) si è conclusa poche settimane fa e le conclusioni auto-assolutorie del vertice del servizio, secondo il quale “è stato fatto tutto il possibile”, non hanno convinto i vertici del Ministero della Difesa francese né la presidenza della Repubblica. La decisione di non utilizzare il COS, ad esempio, è stata giudicata miope e operativamente suicida. Viene fatto l’esempio dei servizi inglesi che, quando hanno bisogno di supporto militare, non fanno certamente tutto da soli (il James Bond che salta da un tetto all’altro non è mai esistito), ma chiedono un aiuto discreto al SAS (Special Air Service) o al SBS (Special Boat Squadron), come del resto fanno i servizi israeliani con il Sayeret Makhtal. Il fallimento somalo - mentre altri sei ostaggi francesi sono ancora nelle mani dei jihadisti nel Sahel - secondo fonti qualificate, sta convincendo il ministro della Difesa francese, Jean Yves le Drian, a chiedere al Presidente Hollande di obbligare la DGSE ad abbandonare ogni velleità di azione paramilitare e a dedicarsi esclusivamente alla raccolta e all’analisi di informazioni. Si parla insistentemente di un ormai prossimo scioglimento del “Service d’Action” e del trasferimento dei suoi uomini e delle sue competenze al “Commandement des Operation Speciaux”, alle dipendenze operative dello Stato Maggiore Interforze. Il Prefetto De Margoux è stato nominato direttore della DGSE nell’ottobre del 2008. Con la scusa dell’ormai prossimo giro di boa quinquennale del suo mandato, Hollande potrebbe sostituirlo a breve senza clamore (e, per carità di patria, senza alcun riferimento al fiasco somalo), riportando la DGSE nei confini operativi di un “normale” servizio di intelligence. Intanto, in Somalia, emissari di Parigi stanno tentando di avviare trattative per avere indietro almeno le salme di “Denis” e del commando morto a Bulo Marer. La DGSE è disposta a pagare un forte riscatto per le salme. Ma l’operazione si è già arenata per mancanza di interlocutori affidabili.
SICUReZZA
Isole Senkaku Il braccio di ferro sino-giapponese
Africa L’avanzata cinese
Venezuela L’eredità di Chavez e il rapporto con l’Oriente
Sudafrica L’asse Pechino-Pretoria
26
LOOKOUT n. 3 aprile 2013
SICUReZZA
Q
de Il Grigio
Cina-Giappone |
Tutto tranne
uasi disabitate, le isole Senkaku, proprietà (privata) di un possidente giapponese, hanno un problema: nel mare circostante c’è un tesoro di petrolio, gas e risorse minerarie. Questo tesoro e il suo sfruttamento hanno fatto salire la tensione in tutta l’Asia orientale e stanno portando Cina e Giappone sull’orlo di un confronto militare dagli esiti imprevedibili. Il 9 marzo scorso, il quotidiano filippino Manila Standard Today ha titolato in prima pagina: “Nubi di guerra sull’Asia?”.
che pacifico
Senkaku: un nome da tenere a mente. Può un piccolo arcipelago formato da quattro isolotti nel mar della Cina, a metà strada tra Taiwan e Okinawa, essere il detonatore di una guerra?
Da quando a Tokyo si è insediato il governo conservatore e nazionalista di Shinzo Abe, alla fine del 2012, il Giappone ha dato il via - grazie a una modifica costituzionale che amplia, al di fuori dell’autodifesa, il ruolo delle forze armate - a un riarmo impressionante e ha alzato i toni del confronto strategico con Pechino a livelli decisamente pericolosi. Il più recente motivo del contendere è dato proprio dalle isole Senkaku. Il confronto, prima dialettico e poi sul terreno (o meglio, sul mare) ha raggiunto nelle ultime settimane i livelli di guardia. Solo a febbraio, in due separati incidenti al largo delle isole, i radar delle motovedette lanciamissili cinesi hanno “illuminato” una corvetta e un elicottero della marina imperiale, provocando le dure proteste di Tokyo. LOOKOUT n. 3 aprile 2013
27
SICUReZZA
Il dizionario Isole Senkaku/Diaoyu: il Giappone ne rivendica il possesso fin dal 1895 ma, da quando sono stati scoperti al largo degli isolotti importanti giacimenti di petrolio e di gas (1968), Pechino ha iniziato a far sentire la propria voce sulla sovranità cinese delle isole che risalirebbe, a suo dire, al XIV secolo. Le Senkaku al momento sono di proprietà privata di un ricco giapponese ma recentemente il sindaco di Tokyo, Shintaro Hshihara, ha lanciato una pubblica sottoscrizione per farle diventare proprietà della municipalità della capitale giapponese, retta da una giunta di estrema destra.
Gli Stati Uniti, dopo l’incidente, hanno dovuto ricordare ai cinesi che “secondo il trattato di alleanza tra Usa e Giappone, se quest’ultimo venisse attaccato essi dovrebbero intervenire a fianco dell’alleato...”. Parole chiare, anche se pronunciate malvolentieri dal portavoce di Barack Obama. Shinzo Abe, al termine di una recente visita a Washington, ha ammesso che il presidente
americano gli era apparso molto “riluttante” di fronte ai proclami bellicosi del nuovo governo giapponese. Tuttavia la tensione continua a crescere e tutti i media asiatici parlano oggi apertamente di “uno scenario da 1914”. Secondo Kurt Campbell, assistente del segretario di Stato americano uscente, la disputa sino-giapponese “rappresenta una polveriera”. Nella contesa, al momento verbale, sono scese in campo anche le Filippine, che si sono schierate apertamente con l’antico nemico giapponese. Il ministro degli esteri di Manila, Albert Del Rosario, a marzo ha dichiarato che “il Giappone è un fattore di equilibrio in tutta l’Asia orientale”, sottintendendo che, al contrario, Pechino sarebbe causa di squilibrio. Dimenticate le sofferenze loro inflitte dai soldati del Sol Levante durante la seconda guerra mondiale, i filippini oggi hanno più paura dell’espansionismo cinese che del nazionalismo giapponese. La disputa sulle isole Senkaku è inoltre aggravata da fattori psicologici ed economici, che rendono precari i rapporti tra Tokyo e Pechino. I cinesi lamentano che l’Imperatore del Giappone non ha mai chiesto ufficialmente scusa
La disputa sulle Isole Senkaku/Diaoyu
28
LOOKOUT n. 3 aprile 2013
SICUReZZA
Le spese militari cinesi La disputa sulle isole Senkaku è inoltre aggravata da fattori psicologici ed economici, che rendono precari i rapporti tra Tokyo e Pechino per le sofferenze patite dal popolo cinese: durante l’occupazione dell’esercito del Sol Levante in Manciuria prima, e nel resto della Cina poi (la strage di Nanchino non è stata dimenticata). Dal loro punto di vista, i giapponesi sostengono non a torto - che i libri di testo cinesi delle scuole di ogni ordine e grado, grondano odio nei confronti di tutto ciò che è giapponese e descrivono i soldati del Sol Levante come dei criminali incalliti. Sembrano temi di poca sostanza pratica ma, in uno scenario dominato dai simbolismi e dal rispetto (o dal mancato rispetto) delle forme, sono temi che contano molto e sono forieri di grossi problemi. Dal 2009 ad oggi il Giappone ha diminuito del 10% la propria presenza nel mercato manifatturiero e dell’alta tecnologia in Cina, contribuendo ad aggravare la crisi occupazionale che inizia ad appannare i trionfi del miracolo economico cinese. Per tutta risposta, Pechino ha ripreso a stimolare la crescita di sentimenti nazionalisti agitando lo spettro del militarismo giapponese, pur continuando ad avanzare pretese territoriali (isole) nei confronti di Filippine, Vietnam, Brunei, Taiwan e Indonesia. Insomma, sta spaventando tutto lo scacchiere. Siamo sull’orlo di una guerra? Difficile dirlo. Finora non sono state prese decisioni irrevocabili,
ma le premesse per un confronto militare ci sono tutte. Paradossalmente, un aiuto imprevisto potrebbe venire dai “folli” di Pyongyang. Le minacce di guerra della leadership nordcoreana contro Seul e Washington potrebbero indurre tutti i protagonisti, politici e militari, del contenzioso sino-giapponese a più miti consigli, visto che oggi il clear and present danger per tutta l’Asia orientale viene da una Corea del Nord nuclearizzata, militarizzata e guidata da una banda di pericolosi avventuristi. Un fatto è certo: mentre gli Stati Uniti sembrano timidi e distratti e l’Europa si volta ostentatamente dall’altra parte, uno scacchiere delicato può esplodere in qualsiasi momento.
LOOKOUT n. 3 aprile 2013
29
SICUReZZA
Africa |
La neocolonizzazione dell’Africa si chiama Cina
Nella corsa all’accaparramento delle immense risorse del continente, il Dragone soppianta le ex potenze coloniali e gli Stati Uniti, con massicci investimenti e importazioni di manufatti cinesi a basso costo di Cristiana Era
30
L
a penetrazione cinese in Africa si impone prepotentemente all’attenzione internazionale nel 2006, quando viene pubblicato il documento programmatico “China’s African Policy” in cui si delineano le linee guida dell’espansionismo economico di Pechino sul continente. Il 2006 non è l’anno di inizio (dal 2001 al 2005 l’interscambio tra i due continenti si era già quadruplicato) ma è quello in
LOOKOUT n. 3 aprile 2013
cui Pechino rivela la sua politica più aggressiva e spregiudicata: al documento fanno seguito una serie di visite ufficiali ad alto livello (inclusi il presidente Hu Jintao e il premier Wen Jiabao) in vari Paesi africani, ovviamente accompagnate dalla firma di accordi di cooperazione economica, appalti per le
SICUReZZA
infrastrutture e proficui contratti energetici. Il trionfo arriva poi con il summit di Pechino. Durante il vertice Cina-Africa ben quarantotto capi di Stato africani si recano nella capitale comunista: per Pechino è un successo, non solo economico ma anche mediatico. L’immagine della Cina si rafforza, e con essa l’influenza sull’Africa. E nel 2011 il commercio tra le due sponde raggiunge i 160 miliardi di dollari, il 28% in più rispetto al 2010. L’espansionismo dell’ultimo decennio ha poco a che fare con le questioni ideologiche degli anni ’60 e ’70: alla leadership cinese non interessa più dare il sostegno ad altri regimi comunisti o alle correnti terzomondiste, piuttosto sono i livelli di crescita interna che spingono la dirigenza a cercare le risorse necessarie per sostenerla. E l’Africa è un immenso bacino di ricchezze: legname, cotone, petrolio, uranio, diamanti, oro, cobalto, platino. Queste risorse arrivano da tutto il continente: Niger, Repubblica Democratica del Congo, Zimbabwe, Sudafrica, Angola, Sudan, Nigeria, Guinea Equatoriale, Gabon, Liberia. Pechino non ha dovuto faticare molto per corteggiare gli Stati africani. In questo momento è l’unica potenza in grado di pagare in contanti le risorse di cui ha bisogno e lo fa approfittando delle difficoltà economiche
Focus Etiopia
I
l premier recentemente scomparso Meles Zenawi ha adottato il modello asiatico di sviluppo, oltre ad aprire le porte agli investimenti e alle imprese cinesi (già 250 nel 2008, molte delle quali operanti nel settore calzaturiero). Cinquecento milioni di dollari della Industrial and Commercial Bank of China garantiranno, inoltre, la realizzazione della gigantesca diga idroelettrica Gilgel Gibe III, nonostante vi siano rapporti che evidenzino come il progetto rischi di alterare l’intero ecosistema della zona, con pesanti ripercussioni anche dal punto di vista demografico. Dato l’alto tasso di crescita dell’Etiopia negli ultimi anni - che si prevede continuerà anche nel periodo 2013-2015 - difficilmente si potrà assistere a un cambiamento di politica, con buona pace delle democrazie occidentali.
internazionali che colpiscono i principali concorrenti: Stati Uniti e Unione Europea. Allo stesso tempo interviene con una politica di aiuti e di drastica riduzione del debito, inonda il continente con massicci finanziamenti per le infrastrutture (costruisce oleodotti, ponti, strade, ferrovie, edifici, centrali idroelettriche, dighe), offre prestiti a tassi agevolati, apre il proprio mercato interno ai prodotti africani. Ultima, ma non meno importante per l’enorme successo in Africa, è stata la politica di non ingerenza nelle questioni interne degli Stati, a cui Pechino si è
attenuta scrupolosamente, e che gli ha dato un vantaggio enorme sugli ex colonizzatori quali Francia, Gran Bretagna e anche Stati Uniti, ormai vincolati dalle proprie opinioni pubbliche e dalle politiche di aiuti, condizionati al rispetto dei diritti umani. Una vulnerabilità, quest’ultima, che ha enormemente agevolato l’ingresso della Cina in Africa. E per molti dei Paesi africani guidati da regimi corrotti e autoritari, quali il Sudan e lo Zimbabwe, la presenza della potenza asiatica ha permesso di rigettare gli aiuti del Fondo Monetario Internazionale, ma anche di ovviare alle sanzioni internazionali per le violazioni dei diritti umani. Da ultimo, la notizia del 15 marzo scorso della vendita dell’ENI del 20% del proprio giacimento di gas in Mozambico alla China National Petroleum Corporation, segno che la politica di Pechino non cambia con la nuova dirigenza. LOOKOUT n. 3 aprile 2013
31
SICUReZZA
Venezuela | di Hugo
Dopo di me, il petrolio
Tra Pechino e Caracas, il matrimonio continua e i due Paesi restano fedeli ai propri interessi comuni, anche dopo la scomparsa di Hugo Chavez
P
er il futuro presidente del Venezuela una delle missioni più importanti lasciate in eredità da Hugo Chavez sarà quella di continuare a far fruttare i rapporti con la Cina. Lo ha ben capito il favorito Nicolas Maduro, che nei mesi del suo incarico ad interim alla guida del Paese ha prontamente inviato dei messaggi rassicuranti al governo cinese, ribadendo il concetto nei giorni successivi la morte del Caudillo: “renderemo un grande omaggio al nostro Comandante - ha affermato - dando continuità alle relazioni strategiche che ci tengono uniti alla Cina”. Caracas continuerà così a essere una delle mete privilegiate per lo shopping dei cinesi, rispettando la tradizione di un matrimonio diplomatico ed economico celebrato nel lontano 1974 e, da allora, rafforzato da accordi di cooperazione e,
32
LOOKOUT n. 3 aprile 2013
soprattutto, da maxiesportazioni di petrolio. I rapporti da buoni sono diventati ottimi dal giorno dell’insediamento alla Casa Rosada di Hugo Chavez nel 1999. Puntando su una partnership privilegiata con la Cina, oltre che possedere indiscutibili doti da trascinatore populista, il Comandante dimostrò di avere anche un gran fiuto per gli affari. Da allora, infatti, il Venezuela ha sottoscritto con il governo cinese 328 accordi di cooperazione, pari al 14% dei contratti internazionali sottoscritti dal governo di Caracas nell’arco degli ultimi tredici anni, dato che colloca la Cina dietro soltanto all’Argentina nella classifica dei partner commerciali favoriti nell’epoca chavista. Il grosso della partita si è giocato, ovviamente, nel settore energetico. Nel 2012 il Venezuela è stato il settimo produttore di petrolio al mondo producendo in media 306.000 barili al giorno, il
33% in più rispetto al 2011. Con l’obiettivo di sfamare qui il proprio fabbisogno di petrolio (la Cina è il secondo consumatore mondiale di petrolio), Pechino ha suggellato l’intesa con Caracas attraverso una serie di accordi da cui è scaturito un enorme giro d’affari (vedi box). La PDVSA (Petróleos de Venezuela S.A.) ha costruito tre raffinerie di greggio in territorio cinese. Pechino, a sua volta, ha attivato delle proprie acciaierie per la costruzione di tre petroliere giganti da installare in Venezuela. Un ruolo fondamentale è giocato dai giacimenti di Junin (riserva da circa 40 miliardi di barili), capaci di soddisfare le richieste cinesi da qui ai prossimi ottant’anni. Ovviamente, non sono state lasciate da parte le altre risorse venezuelane. Sono infatti stati avviati
SICUReZZA
glI ACCoRdI
degli studi di fattibilità per rinvigorire il settore minerario, puntando sulla grande ricchezza di ferro, carbone, oro, diamanti, alluminio e bauxite del Venezuela. Soldi sono stati investiti anche nel settore dei trasporti e per le forniture militari. Il piano congiunto ha previsto la costruzione di una rete ferroviaria lunga 468 chilometri nella regione dei Llanos, realizzata in collaborazione con la CREC (China Railways Engineering Corporation). Con un investimento iniziale di 600 milioni di dollari, la China Harbour Engineering e il Ministero dei Trasporti venezuelano hanno realizzato un terminal a Puerto Cabello per l’ampliamento del porto, mentre nel 2010 il Venezuela ha comprato dalla Corporazione industriale-militare cinese 25 aeronavi per fondare proprie linee aeree e rafforzare la compagnia di bandiera Conviasa. Effetti positivi sono stati registrati anche nel campo degli scambi commerciali. Tra il 1999 e il 2011 si è passati da un business contenuto pari a 78
milioni di dollari a 4.837.000 miliardi, facendo della Cina il primo partner commerciale del Venezuela. Hanno una lunga storia, invece, gli scambi culturali e turistici tra i due Paesi, iniziati nel 1981. La Cina, insomma, fa sul serio e adesso guarda ambiziosa a tutto il Centro e Sud America. Per il Forum sulla Cooperazione Economica AsiaticoPacifica (APEC), che ospiterà nel 2014, l’obiettivo di Pechino è stringere un accordo con i Paesi membri della CELAC (Comunità degli Stati Latino Americani e Caraibici). Maduro è già avvisato: a quell’appuntamento il suo appoggio sarà d’obbligo per non perdere i miliardi di dollari promessi dalla Cina per i prossimi anni.
1) Accordo con la CITIC (China International Trust and Investment Corporation), colosso finanziario controllato dallo Stato cinese, per l’esplorazione geologica delle riserve minerarie del Venezuela; 2) Costruzione di piattaforme petrolifere per esplorazioni off-shore nei mari venezuelani, con annessi cantieri navali e acciaierie; 3) Accordo per lo sviluppo di un polo industriale congiunto nell’area di Junin, situata lungo la fascia petrolifera dell’Orinoco, con un investimento cinese pari a circa 16 miliardi di dollari; 4) Accordo per lo sviluppo di un polo industriale congiunto nell’area di Carabobo, anch’essa situata lungo la fascia petrolifera dell’Orinoco; 5) Accordo per la costituzione di una società mista operativa nel ramo della raffinazione del greggio ricavato nelle aree di Junin e Carabobo. Obiettivo della società è progettare, realizzare e mettere in funzione la raffineria Cabruta (capacità di processare circa 220.000 barili al giorno), situata a Santa Rita, nello stato di Guárico; 6) Accordo con la CITIC per lo sviluppo del progetto minerario “Las Cristinas”, finalizzato alla formazione e all’impiego di personale specializzato per lavorare sulle piattaforme, presso i cantieri e nelle raffinerie; 7) Sottoscrizione di un prestito da 4 miliardi dollari dalla ICBC (Industrial and Commercial Bank of China) per lo sviluppo di progetti abitativi da parte della compagnia petrolifera statale venezuelana PDVSA (Petróleos de Venezuela S.A.) e della CITIC. Nel 2005 il ministero venezuelano per le Abitazioni e la CITIC hanno varato un investimento congiunto da 905 milioni di dollari per la costruzione di circa 30.000 alloggi con l’obiettivo di arginare la crisi immobiliare. 8) Accordo per il finanziamento di 4 miliardi di dollari per un piano di espansione della produzione della Empresa Mixta Petrolera Sinovensa S.A.
LOOKOUT n. 3 aprile 2013
33
SICUReZZA
Sudafrica |
di Cristiana Era
Una partnership alla pari Il mercato sviluppo economico sudafricano obbliga la Cina a optare per un rapporto bilaterale più equilibrato
L’
avanzata economica cinese in Africa assume aspetti in qualche modo differenti nel rapporto con la superpotenza emergente, il Sudafrica. Nella sua politica economica di espansione nel continente, Pechino ha sottolineato ufficialmente il carattere paritario delle partnership che ha via via istituito con i vari Stati. Ma, all’atto pratico, l’unico legame in cui esiste un equilibrio di forze è quello con il Sudafrica. Paese con un elevato sviluppo economico e con un consolidato processo di democratizzazione iniziato nel 1990, il Sudafrica ha superato la crisi del 2009 e la sua economia è tornata a crescere abbastanza rapidamente, nonostante il permanere di forti diseguaglianze sociali e un alto livello di disoccupazione. Tra gli Stati africani, è indubbiamente quello che ha meno bisogno dei massicci flussi di prestiti cinesi con bassi tassi di interesse. Per questo, la partnership strategica è decisamente più equilibrata, ma non
34
LOOKOUT n. 3 aprile 2013
meno importante per Pechino, visto che il Sudafrica è la prima economia del continente e ha un ruolo politico di primo piano nelle relazioni interafricane. L’asse Pechino-Pretoria va ben oltre lo scambio commerciale tra materie prime africane e manufatti cinesi: quella degli ultimi anni è una vera e propria cooperazione “ad ogni livello”, per usare le parole dell’ex premier Wen Jiabao, che va dalle energie rinnovabili alla green economy, dall’agricoltura all’educazione, dalla salute alla cultura. Nel 2010, grazie alla mediazione del Dragone, il Sudafrica è entrato a far parte delle economie emergenti dei BRIC (Brasile, Russia India, Cina), trasformandolo così nella nuova dizione “BRICS”, un aggregato geo-economico che comprende oltre il 42% della popolazione mondiale, il 20% del PIL mondiale e circa il 16% del commercio internazionale. Solo l’anno precedente, gli investimenti cinesi avevano raggiunto i 2,3 miliardi di dollari e nel 2007 la Industrial and Commercial Bank of China ha acquisito il 20% della Standard Bank sudafricana. Con un tasso di disoccupazione che arriva al 60% in alcune regioni del Paese, gli imprenditori cinesi hanno
potuto contare su una grande disponibilità di manodopera a basso costo. Le loro aziende sono proliferate e hanno creato posti di lavoro, come nella tradizione occidentale della delocalizzazione industriale del libero mercato. Al di là delle luci, il Dragone però ha importato anche le ombre di uno sfruttamento con salari al di sotto del minimo legale, intere giornate lavorative, assenza di condizioni di sicurezza e di qualunque forma di tutela. Per il momento, in Sudafrica le proteste contro i dirigenti cinesi non sono ancora sfociate in aperta violenza (come invece è stato il caso dello Zambia nel 2012, dove un dirigente cinese di una miniera è stato linciato dai lavoratori in sciopero). Ma il problema c’è e rischia di esplodere a fronte di tensioni sociali già esistenti in settori cruciali per l’economia sudafricana, come quello minerario. Altamente simbolico è stato infine l’annuncio della visita a Pretoria il 26 marzo del neoeletto presidente della Repubblica Popolare Cinese, Xi Jinping, solo pochi giorni dopo la sua nomina e in concomitanza con il summit dei BRICS a Durban. Un segnale forte che gli interessi del Dragone in Sudafrica non sono cambiati.
INSIS SpA is an italian company specialized in designing and manufacturing of multi-technological systems for Civil and Military application. INSIS SpA is able to offer cost-effective and tailored solutions in different areas related to electronics, servo-techniques, electro-optics, high precision mechanics and their conbination. Thanks to its background on system analysis, INSIS SpA is able to provide valuable contribution to the customers according to a flexible and cooperative model, being able By Official acknowledgment of Iyalian Government, INSIS SpA is a National Research Laboratory and it is listed in the Laboratories Register of Italian Scientific and Tecnological Research Ministry since 1997. Since 1999 the Company has been issued by CSQ of the ISO 9001 Certification.
l’ARAbA FenICe donne, SoCIetà e I tAntI voltI dell’ISlAm
Femen Egypt: l’ultima interpretazione del femminismo? di Marta Pranzetti
E
rano gli anni Ottanta dell’Ottocento quando Hubertine Auclert coniava sul suo giornale La Citoyenne il termine “femminismo” criticando la predominanza e il predominio maschile e rivendicando i diritti e l’emancipazione della donna promessi dalla Rivoluzione francese. Da allora il termine ha fatto il giro del mondo adattando il proprio significato ai contesti nei quali è andato radicandosi e rappresenta oggi un movimento eterogeneo, composito e assolutamente idiosincratico. Niente di più vero nel caso dell’attivismo di genere nel mondo arabo-islamico, che ha dato vita a forme del tutto diversificate di movimenti che spesso troppo genericamente vengono ricondotti alla categoria del femminismo. L’Egitto è stato patria pioniera nell’attivismo femminista. Tra la fine del diciannovesimo e l’inizio del ventesimo secolo, parallelamente alla rinascita (“nahda”) culturale, sociale e politica che coinvolse l’allora impero ottomano, andarono
36
LOOKOUT n. 3 aprile 2013
delineandosi i primi movimenti di emancipazione femminile di stampo laico caratterizzati da un tratto nazionalista e da sfumature panarabe. Superando le barriere confessionali, le donne egiziane, musulmane e non, appartenenti alle classi medio-alte si batterono per l’istruzione femminile, la partecipazione alla vita pubblica e il diritto di voto, alla stregua delle donne nel continente europeo. Icona di questo femminismo è sicuramente Hoda Sha’arawi che, dopo aver coordinato le proteste di gruppi di donne scese in piazza durante la rivoluzione del 1919, fondò nel 1923 l’Unione femminista egiziana partecipando ai primi congressi femministi dell’epoca, di cui uno a Roma. Tra gli anni Ottanta e Novanta del Novecento, anche a seguito dell’ascesa dell’Islam politico su scala internazionale, sono andati diffondendosi movimenti femministi più accentuatamente religiosi che rivalutano la figura e il ruolo della donna all’interno della cornice islamica e che si servono di una rinnovata interpretazione delle fonti in chiave tutta femminile. In Egitto, questo femminismo più propriamente “islamico” trova la sua pioniera in Zaynab al-Ghazali, che nel 1948 entrò a far parte della sezione delle Sorelle Musulmane del movimento della Fratellanza di alBanna per portare avanti il progetto di emancipazione femminile nel rispetto del ruolo di moglie e madre della donna nell’Islam. Una nuova ondata di movimenti femministi ha preso piede con le ultime proteste che hanno scosso il mondo arabo-islamico nel 2011. Le donne, che sono state parte attiva delle rivoluzioni,
rifiutano oggi di essere relegate al solo ambito domestico e pretendono l’instaurazione di sistemi di giustizia sociale e democrazia partecipativa per non tornare ad avere il ruolo di cittadine di seconda classe. Si tratta dunque di un femminismo ancora diverso: più “inclusivista” e “combattivo” perché si batte per l’uguaglianza dei diritti civili e viene portato avanti nelle piazze anziché in centri di
globalizzato di oggi trovano luce, grazie all’interconnessione mediatica che ne estende la portata, anche movimenti femministi olistici e più radicali che difendono la libertà in senso ampio e in tutte le sue accezioni. Nasce così, nel dicembre 2012, la branca egiziana di Femen - il movimento “sexestremist” di origine ucraina che, contro la prostituzione, la corruzione politica, il turismo sessuale, l’oppressione religiosa e il sessismo, sceglie il corpo nudo come veicolo primario per i propri slogan. Fondata dalla blogger egiziana Aliaa Magda el-Mahdy - già nota per le sue denunce contro l’oscurantismo del suo Paese - l’antenna di
studio esclusivi. È il caso, questo, dei tanti movimenti sorti nell’ultimo anno in Egitto per far fronte, tra le altre cause, alle violenze perpetrate dagli apparati di governo nei confronti di donne (e uomini) manifestanti. Questi movimenti sembrano condividere, nella loro impostazione, una coscienza collettiva che riconosce la necessità del rispetto dei valori locali nelle rivendicazioni di genere. Ma, contestualmente al diffondersi di questo “attivismo localizzato”, nel mondo
questo movimento, che raccoglie già migliaia di adesioni su Facebook, rappresenta l’approdo contemporaneo del femminismo arabo. Nonostante le critiche sollevate, in ambiente islamico e non, da donne e uomini indistintamente, contro l’esibizionismo ostentato dal gruppo di nudiste in nome della libertà femminile, anche questo movimento è espressione di una delle tante anime dell’attivismo di genere - non di certo islamico, ma sostenuto anche nel mondo arabo - riflesso stesso dell’epoca in cui opera. Se ci pensiamo, Hoda Sha’arawi aveva osato anche lei, togliendosi il velo pubblicamente al rientro da Roma, per mandare un segnale forte alla società del suo tempo. Evidentemente oggi il velo non basta più.
LOOKOUT n. 3 aprile 2013
37
eConomIA
Atene, un poliziotto simula il suicidio davanti al Parlamento greco
Santa Sede Lo Stato della Città del Vaticano è sorto con il Trattato Lateranense, firmato l’11 febbraio 1929 tra la Santa Sede e l’Italia, che ne ha sancito la personalità di Ente sovrano di diritto pubblico internazionale, costituito per assicurare alla Santa Sede, nella sua qualità di suprema istituzione
Unione Europea
La questione del patto fiscale L’EMIR
Gli italiani e l’Europa
Brasile Il centravanti dei BRICS
Mondo Il cambiamento climatico
38
LOOKOUT n. 3 aprile 2013
eConomIA
C
Unione Europea |
di Giusi Landi
Il cappio del
on l’avvio dell’Unione monetaria, i vincoli imposti alla politica fiscale sono stati recentemente inaspriti con l’approvazione del Fiscal Compact. Il Patto Fiscale, che occupa l’intero titolo terzo del Trattato sulla Stabilità, coordinamento e governance nell’unione economica e monetaria, parla un lessico rigorista portando all’estremo i parametri del Trattato di Maastricht (1991) e le disposizioni fiscali, già emanate nel Patto di stabilità e crescita del 1999. Introduce una specie
Fiscal Compact Tutte le difficoltà del Patto Fiscale e gli onerosi saldi di bilancio voluti dall’egemonia tecnocrate di Bruxelles per gli Stati dell’eurozona
di “golden rule” rafforzata, secondo cui il saldo di bilancio strutturale - ossia al netto dell’andamento del ciclo - non deve superare lo 0,5% del PIL, mentre la distanza fra la quota del debito sul PIL e la percentuale del 60% deve invece essere ridotta del 5% l’anno. L’egemonia tecnocrate di Bruxelles ha decretato, per intenderci, che il saldo di bilancio degli Stati dell’eurozona - includendo anche la spesa per gli investimenti - si chiuda in pareggio o quasi: un sentiero di convergenza rapida verso l’equilibrio dei bilanci nazionali. Tradotto significa che la compressione dei bilanci comporterà, per lo Stato italiano, l’impegno alla riduzione del debito pubblico di 45 miliardi di euro l’anno, per ben quattro lustri, nel tentativo di decrementare il LOOKOUT n. 3 aprile 2013
39
eConomIA
Il dizionario Il Patto di bilancio europeo o Trattato sulla stabilità è stato approvato il 2 marzo 2012 da 25 dei 27 stati membri dell’Unione Europea, ed eccezione di Repubblica Ceca e Regno Unito. Entrato in vigore dal 1 gennaio 2013, prevede: l’inserimento in Costituzione dell'obbligo di perseguire il pareggio di bilancio e di non superare la soglia di deficit strutturale superiore allo 0,5% (1% per i Paesi con debito pubblico inferiore al 60% del Pil). Impone, inoltre, una significativa riduzione del debito al ritmo di un 5% all’anno, fino al rapporto del 60% sul Pil nell’arco di un ventennio.
rapporto debito/PIL dall’attuale 120 % (circa) fino alla soglia canonica del 60%. Il debito italiano rimane tra i più alti del mondo e la spesa pubblica esige di essere “aggredita e rimodellata”. È tristemente noto: le misure draconiane del trattato di stabilità fiscale impongono tetti rigidi di spesa ad economie in recessione per arrestare l’incremento dell’indebitamento pubblico. E, se ancora non bastasse, l’intarsio normativo tra il Trattato intergovernativo e le costituzioni nazionali, perfezionatosi in Italia con la modifica dell’art. 81 della Carta fondamentale, lascia deboli speranze ad eventuali retrocessioni. A conti fatti, dunque, non si può negare che il nostro destino sia ormai incatenato, in maniera indissolubile, a quello europeo. Del resto il Paese non era in grado di reggersi sulle proprie gambe e i tecnocrati montiani hanno
40
LOOKOUT n. 3 aprile 2013
pensato bene di affidarlo all’Europa germanocentrica che adesso ci fa sentire il fiato sul collo. I più sobillano che la cecità dei nostri governanti genererà politiche economicamente suicide, votate all’austerità perpetua. Atmosfere cupe, purgatoriali, che richiamano alla memoria gli acuminati versi danteschi “Ahi, serva Italia, di dolore ostello, nave senza nocchiero in gran tempesta, non donna di provincie ma bordello”. Solo che, per un curioso contrappasso ironico, questa volta un nocchiero l’Italia sembra averlo trovato, se non fosse che è un inflessibile autocrate. Ne è riprova il fatto che la cogenza delle norme viene affidata a minuziose procedure di controllo e severe misure sanzionatorie, volte proprio a garantire la corretta trasposizione dei principi pattizi. Infatti, qualora non venga data esecuzione alla sentenza emessa nei confronti del
eConomIA
paese contraente, che non abbia rispettato i limiti di deficit fissati per i disavanzi eccessivi, la Corte di giustizia, su istanza di uno Stato membro, dispone l’applicazione di sanzioni finanziarie nei confronti del paese inadempiente. La misura sanzionatoria ammonta a un importo massimo equivalente allo 0,1% del PIL dello Stato trasgressore. E, per dirla tutta, nel caso dell’Italia la sanzione pecuniaria potrebbe ammontare a circa 15 miliardi di euro da versare al Fondo ESM, cd. fondo salva stati. Insomma il patto di stabilità assume, via via, i contorni di un robusto steccato cinto da rigidi paletti, dentro il quale il gregge di Eurolandia - stretto nella trappola - soffoca i mugugni e fa buon viso al cattivo gioco delle autocrazie tedesche e nord europee.
I cittadini europei e il Patto
V
iene da chiedersi cosa pensano i cittadini italiani del subdolo patto che ha declassato la sovranità fiscale nazionale in cambio di una comoda porta aperta sul Fondo salvastati. E cosa della funesta prospettiva di vivere lunghi anni di feroce austerità. Forse il pensiero della resa obbligata dei nostri figli di fronte alla inevitabile recessione futura è il peggiore spettro che riposa nella coscienza di ognuno, e che, per nostra viltà, non osiamo disturbare. Forse perché, in una fase critica così acuta, oltre che strascicare il pesante fardello degli affanni quotidiani, non ce la sentiamo di scoperchiare pure il vaso di pandora del debito pubblico, malgrado stia inabissando il paese ed espropriando sempre più le nostre vite. Dal canto loro, gli euroburocrati, per svelenire gli animi ed aggregare consenso, spergiurano che tutto ciò è un passaggio obbligato per rafforzare il coordinamento delle politiche economiche. Ma restiamo saldi a terra. Da più parti si è obiettato come degli astratti vincoli numerici su debiti e deficit pubblici, che non tengano conto delle complessità e contraddizioni dell’economia, non giovano, di certo, al difficile compito di realizzare la tanto agognata integrazione fiscale.
Certo i buoni economisti - filomontiani d’intenti - hanno, in tutti i modi, tentato di accreditare il concetto che occorre rilanciare le politiche economiche degli Stati europei verso elevati livelli di competitività, se si vogliono fronteggiare le svettanti economie dei Paesi emergenti e che l’integrazione fiscale è il primo passo verso l’integrazione europea. Ma ricordiamoci che, spesso, il granello che smuovi è la valanga che ti sommerge. Ad ogni modo una riflessione sul Patto di stabilità non ci si può esimere dal formularla: sia che venga prospettato come una necessità intimata dalle dure leggi dell’economia, sia che venga nobilitato a strumento per irrobustire le ambiziose - speriamo non utopistiche - vocazioni europeiste del vecchio continente, qualcuno ha malinconicamente soggiunto che “in quella ventina di paginette scritte spaziate” vi sia racchiuso “il futuro duro e amaro delle tante persone che hanno creduto di vivere nella società e nell’economia della crescita infinita”. Ma, secondo gli esperti, il futuro della governance economica europea non può essere affidato ad un’integrazione “à la carte”. L’avviata unione budgetaria - teorizzano sapientemente - rappresenta solo il primo passo verso una vera e propria unione fiscale. E noi che, inermi ed avviliti, stiamo a guardare commentiamo “anche no”.
LOOKOUT n. 3 aprile 2013
41
eConomIA
UE |
L’argine europeo alla finanza tossica
di B. Woods
I
l 15 marzo è entrato in vigore nell’Unione Europea l’EMIR (European Market Infrastructure Regulation), cioè il nuovo sistema di regolamento e gestione delle garanzie per le negoziazioni finanziarie effettuate sui mercati OTC (overthe-counter), cioè al di fuori dei mercati regolamentati (fuori borsa). Il nuovo Regolamento (EU 648/2012) introduce un obbligo generale a carico degli operatori di ricorrere alle cosiddette Controparti Centrali (CCPs) per la compensazione dei derivati OTC standardizzati e di comunicare le caratteristiche dei contratti a un sistema centralizzato di registrazione (Trade Repository). La funzione principale delle Controparti Centrali o Stanze di Compensazione (Clearing House) è di agire come un intermediario tra le due parti che negoziano un derivato OTC. In questo modo, un derivato viene sostituito da due contratti separati, che coinvolgono ciascuno un contraente e la CCP, facendo così in modo che la CCP “diventi l’acquirente di ogni venditore e il venditore di ogni acquirente”. In caso di fallimento (default) di una delle controparti, la CCP risponderebbe delle obbligazioni del fallito e
42
LOOKOUT n. 3 aprile 2013
onorerebbe l’obbligazione, realizzando il trasferimento del rischio di controparte. In virtù di questa assunzione di rischio, le CCP impongono, richiedono e riscuotono margini dai partecipanti diretti e dalle CCP con le quali hanno concluso accordi di interoperabilità. Inoltre, per coprire le perdite potenziali che eccedono i margini riscossi dai contraenti, le CCPs dovranno dotarsi di fondi propri (patrimonio) e costituire un fondo di garanzia in attività liquide o prontamente liquidabili, con rischio minimo, da depositare presso operatori di sistemi di regolamento titoli che assicurino la protezione totale di tali strumenti finanziari. Vista la complessità delle disposizioni, il legislatore ha previsto un processo graduale di attuazione che dovrebbe concludersi nel 2015. L’introduzione dell’EMIR segue la creazione di CCPs (Singapore Exchange, Hong Kong Exchanges & Clearing, insieme alla coreana KRX, Japan Securities Clearing Corporation) nei mercati asiatici e nel mercato statunitense, in applicazione del DoddFrank Wall Street Reform and Consumer Protection Act. Tuttavia, in virtù degli stringenti requisiti è lecito attendersi che si costituiscano un numero
eConomIA
L’EMIR, European Market Infrastructure Regulation, è il nuovo sistema di regolamento e gestione delle garanzie per le negoziazioni finanziarie effettuate sui mercati OTC, cioè fuori delle borse
limitato di CCPs (secondo alcuni studi, tutt’al più poche decine) con una sensibile crescita di quei costi di transazione, la cui esiguità è alla base della straordinaria esplosione dei derivati OTC (Accenture, nello studio The OTC Derivative Market, stima una crescita dei costi di transazione del 30% già nella prima fase di applicazione del solo Dodd-Frank Wall Street Reform and Consumer Protection Act). L’entrata in vigore del regolamento europeo, seppur meno generale (si applica unicamente al di sopra di certe soglie di valori nozionali per controparti non finanziarie e per alcune entità extra UE, mentre negli USA riguarda tutti gli operatori) e vincolante (non riporta l’obbligo dell’uso di piattaforme elettroniche per l’esecuzione dei contratti, a differenza di quanto previsto in USA) rappresenta un’altra importante tappa nel processo di adeguamento delle norme mondiali alla finanza creativa, per limitare il rischio di collasso del sistema finanziario ed economico mondiale (rischio sistemico) indotto dall’esplosione della bomba a orologeria rappresentata dai contratti derivati. La minaccia di uno tsunami finanziario indotto dalla crisi di
liquidità e solvibilità nei mercati OTC è, infatti, ben lungi dall’essere neutralizzata. I contratti derivati dopo una fase di contrazione, all’indomani dei grandi fallimenti bancari americani ed europei, hanno ripreso a crescere, raggiungendo un valore nozionale e un livello di concentrazione almeno pari a quelli pre-crisi (2008): si parla di 638.928 miliardi di dollari (giugno 2012), cioè oltre nove volte il PIL mondiale, dopo aver superato i 706.000 miliardi di dollari (giugno 2011), quindi ben oltre la soglia dei 683.814 miliardi di dollari del giugno 2008. La composizione dei derivati OTC mostra tendenze ancora più preoccupanti, essendo ulteriormente cresciuta la percentuale di contratti sui tassi d’interesse dal 67% (2008) al 77% (2012), di cui oltre il 36% in euro, e sui tassi di cambio dal 9% (2008) al 10,5% (2012), di cui oltre il 73% con scadenze brevissime (fino a un anno) e solo l’8% con scadenza oltre i cinque anni (Banca dei Regolamenti Internazionali - BRI - Rapporto Trimestrale dicembre 2012). “Avanti adagio” sembra ancora una volta essere il leitmotiv dell’azione europea, ma fino a quando l’UE potrà permettersi esitazioni e compromessi?
LOOKOUT n. 3 aprile 2013
43
Tu gestisci il core business, noi pensiamo al resto. Specializzata nella progettazione e gestione di servizi di Facility Management per la conduzione delle attività no core delle aziende, MANITAL è in grado di operare su tutta la penisola con la forza di centinaia di aziende specializzate per settore di attività e per aree di intervento. Si rivolge alla Pubblica Amministrazione, ai Gruppi Industriali, alle medie imprese appartenenti ai diversi settori di attività. Un mix di professionalità e flessibilità al servizio del cliente.
Il vosTro Facility Partner
oUtlook
www.lorienconsulting.it
A CURA dI loRIen ConSUltIng
I
n un periodo in cui il sentimento degli italiani è quello di essere “in sospeso” dal punto di vista politico (almeno il Papa è stato eletto, e in tempi brevi), l’atteggiamento è quello di riporre fiducia in figure alte e autorevoli, quali il Presidente della Repubblica (67,2%) e l’Unione Europea (54,5%); mentre all’ultimo posto si riescono a trovare i partiti (15,2%). Dall’Europa, più che una continua subordinazione ai governi nazionali, ci si aspetta un rafforzamento politico (69,1%), desiderio manifestato in maniera trasversale dai votanti di tutte le coalizioni, ma in particolar modo dal centro sinistra. In realtà la percentuale di chi auspica un rafforzamento politico dell’UE cala rispetto al dato rilevato nel 2012 (73%). Ma non appena ci si focalizza sulla “crisi economica”, torna l’idea di un’Unione Europea che protegge, che aiuta un Paese in crisi come l’Italia (62% vs il 59% del 2012), molto più che ostacolarlo (30%). Eppure “si stava meglio quando si stava peggio”, e l’esperienza dell’euro, a oltre dieci anni dalla sua introduzione, viene definita prevalentemente negativa (54%); qualcuno, come gli elettori della Lega (68%) e buona parte dei non votanti (49%), sogna addirittura un ritorno alla Lira, ma, in realtà, coloro che auspicano il ritorno alla vecchia moneta sono solo il 24% del campione totale. Ma all’interno dell’Unione europea c’è un Paese, mediterraneo come l’Italia, ma con
Come vedono l’Europa gli italiani
UE: aiuto od ostacolo?
L’esperienza dell’Euro
una crisi più pronunciata e preoccupante, che spaventa fortemente gli italiani: la Grecia. Solo per il 51% del campione italiano intervistato la Grecia resterà nell’eurozona, dato che cala di ben 12 punti percentuali (63%) se lo si confronta con la rilevazione effettuata immediatamente dopo le elezioni greche (giugno 2012). Ciò che spaventa maggiormente gli italiani è che la crisi greca possa avere ripercussioni
negative sulla stessa economia italiana (così per il 56% del campione), determinando un punto di non ritorno. Andando per analogia, gli italiani vedono dunque l’Unione Europea un po’ come una mamma, a cui affidarsi in un momento di profonda crisi (economica, ideologica, identitaria) e le cui regole vengono percepite un po’ strette, ma, col senno di poi, più utili delle precedenti.
LOOKOUT n. 3 aprile 2013
45
Istituto: Lorien Consulting s.r.l. - Criteri seguiti per la formazione del campione: campione rappresentativo della popolazione italiana maggiorenne, rappresentativo per sesso, età e area geografica - Metodo di raccolta delle informazioni: indagine quantitativa telefonica (CATI, Computer Assisted Telephone Interview) - Numero delle persone interpellate ed universo di riferimento: 1.000 cittadini italiani maggiorenni - Data in cui è stato realizzato il sondaggio: 15 - 18 gennaio 2013 - Metodo di elaborazione: SPSS
Italiani ed Europa: tra paura e fiducia
dURA lex Sotto lA lente del dIRItto
Storia di una tappa forzata Draconian
C
on l’inizio del nuovo anno, ha preso avvio il Fiscal Compact che, nel prevedere l’obbligo del pareggio di bilancio inserito nella Costituzione, stabilisce multe severe per chi non lo rispetta e disegna un percorso a tappe forzate per la diminuzione progressiva del debito pubblico. Ad oggi sono solo dodici gli Stati che hanno ratificato il patto (fra cui l’Italia), numero comunque sufficiente a farne scattare l’entrata in vigore. Tuttavia non mancano le perplessità circa la presunta illegalità del principio del pareggio di bilancio. Due le principali argomentazioni a sostegno. L’art. 2 del Trattato sulla stabilità, coordinamento e governance nell’Unione economica e monetaria dispone che le disposizioni vengano interpretate e applicate in conformità ai principi sanciti nel Trattato costitutivo dell’UE (“would non have the effect to induce the Member States parties to the Agreement to omit applying its provisions once it has come into effect”).
46
LOOKOUT n. 3 aprile 2013
Il secondo paragrafo dello stesso articolo, inoltre, ribadisce che le disposizioni del Trattato si applicano compatibilmente con le disposizione dei Trattati e con il diritto dell’Unione e non devono interferire con le competenze deferite agli organi istituzionali dell’Unione economica e monetaria. Per comprendere meglio, è necessaria una premessa. Gli atti giuridici europei sono riconducibili a due distinte categorie: quelli che si collocano all’interno, e quelli che si pongono all’esterno del diritto dell’Unione. Il Fiscal Compact possiede una matrice giuridica esterna al diritto dell’Unione. Qualcuno lo ha definito una specie di “core group”, distinto dal resto dell’UE. Il termine “Trattato”, infatti, viene adoperato quasi a voler rafforzare l’efficacia di un atto assimilabile ad un accordo intergovernativo collocabile fuori dall’ordinamento dell’Unione. Invece fonte primaria del diritto sull’Unione è il Trattato di Lisbona del 2009 che, recependo i contenuti del Trattato di Maastricht, ha ripreso, nell’art. 126 TFUE, il contenuto dell’art. 104 c) TUE. E in merito alle politiche di bilancio, quest’ultimo articolo fissa i parametri del 3% nei deficit e del 60 % nel debito pubblico. Pertanto fissare un obbligo di pareggio del bilancio risulta contrario all’art. 104 c TUE (i famosi parametri di Maastrich) che riconosce allo stato membro la capacità giuridica di indebitarsi sino al 3% annuo. Ora la disciplina contenuta nelle due disposizioni appena richiamate può essere modificata solo applicando la procedura di cui all’art. 48 TUE (Lisbona). Ma la procedura di revisione dei Trattati UE esige il consenso unanime di tutti gli Eurostati e l’accordo intergovernativo che ha introdotto il Fiscal Compact, seppure siglato da 25 Paesi europei, è stato ratificato solo da 12 stati dell’eurozona.
In verità è stata proprio l’assenza del requisito dell’unanimità, condizione necessaria alla modifica dei Trattati europei, a legittimare il ricorso allo strumento del Trattato internazionale. Tuttavia, un atto extra UE non può modificare le norme di un ordinamento giuridico sovraordinato. Sarebbe illegittimo e dunque inapplicabile. La seconda argomentazione in ordine all’illegittimità delle norme sul pareggio del bilancio si fonda su una incolmabile discrasia contenutistica tra regolamenti europei, che equivalgono, per intenderci, alle leggi ordinarie nazionali. Nel punto 8 del reg. 1175/2011, entrato in vigore il 6 dicembre 2011, si attesta formalmente che sulla base dell’esperienza acquisita sono stati commessi errori nel corso dei primi dieci anni dell’Unione economica e monetaria. Il reg. 1175/2011 è un atto di legislazione ordinario. Alla sua emanazione hanno concorso la BCE, i Parlamenti degli Stati membri, il Parlamento europeo, il Consiglio europeo. Che tutti hanno condiviso il giudizio sugli errori commessi. Chi ha commesso l’errore e quando? La Commissione si arbitrò di sostituire l’articolo 104 C del trattato dell’Unione Europea con due regolamenti, uno dei quali è appunto il 1466/97. In sintesi: il parametro dell’indebitamento al 3% uno dei famosi “parametri di Maastricht” - veniva sostituito, in diretto e radicale contrasto con la norma del Trattato, “con il parametro dello zero per cento,
cioè il pareggio di bilancio, togliendo invece rilevanza al parametro del rapporto debito/Pil al 60 per cento”. Ma al di là di ciò, occorre considerare che il regolamento sta al Trattato come una legge ordinaria sta alla Costituzione dello Stato. Ora la legge ordinaria non può modificare una legge di rango Costituzionale: se lo facesse si tratterebbe di un atto radicalmente nullo. Allo stesso modo un regolamento non può avere la pretesa di correggere o modificare le norme di un trattato gerarchicamente sovraordinato. Così il reg. 1175/2011, accertata la “erroneità” del reg. 1466/97, lo ha abrogato. E adesso un accordo intergovernativo torna a tradire le norme vigenti del Trattato di Lisbona e quelle stabilite nel reg. 1175/2011. La natura di accordo internazionale genera perplessità anche sotto il profilo del ruolo della Commissione relativamente alle procedure di attuazione del Fiscal Compact e con riguardo al ruolo della Corte di Giustizia. L’obiezione è sempre la medesima: le istituzioni dell’Unione sono chiamate a
svolgere unicamente funzioni e compiti ad esse attribuiti dal diritto dell’Unione; non hanno titolo per spingersi al di fuori di questo ambito e operare all’interno di un sistema normativo a esse estraneo. Qualcuno ha osservato che il divieto per gli Stati membri e le relative istituzioni vale tuttavia fino a che non sia lo stesso diritto UE a consentirne il superamento. Ed in realtà una previsione del genere è contenuta nell’art. 273 TFUE, che autorizza la Corte di giustizia a conoscere qualsiasi controversia tra Stati membri “in connessione con l’oggetto dei Trattati”. Ma anche questa norma si presta a qualche dubbio interpretativo, poiché pare riferirsi ai “Trattati” in senso tecnico. Per giunta, poi, manca un consenso esplicito, da parte di tutti i governi nazionali, che autorizzi l’espletamento delle funzioni giurisdizionali della Corte di giustizia in ordine agli accordi nati fuori dall’Unione. Si prospetta dunque una preclusione all’utilizzo degli organi istituzionali dell’Unione, al di fuori dei compiti da essi ordinariamente svolti in base alle disposizioni dei Trattati.
LOOKOUT n. 3 aprile 2013
47
eConomIA
Brasile | di Hugo
Il centravanti dei BRICS
Tutto il mondo guarda al centro e al Sud America, la nuova “terra promessa” che ormai l’Occidente guarda con crescente interesse. Su tutti, spicca il Brasile, gigante economico in ascesa
C
on la nomina a Papa di Jorge Mario Bergoglio, dopo 1.272 anni il mondo cattolico torna a essere rappresentato da un pontefice di origini non europee. Con questa designazione, il Centro e Sud America
e determinato di una regione che ormai ha acquistato credibilità piena agli occhi dell’Occidente sia sul piano politico che su quello economico, grazie soprattutto all’attuazione di piani di riforme basati su un libero scambio adesso non più sregolato ma vincolato da una disciplina
di pochi anni: la Giornale Mondiale della Gioventù del prossimo luglio, che porterà a Rio de Janeiro milioni di fedeli, i Mondiali di Calcio del 2014 e i Giochi Olimpici del 2016. Per lo Stato carioca sarà un triennio di massima visibilità su scala internazionale, di grandi opere e
Verso i mondiali 2014: “samba” a rilento
I
Mondiali di Calcio del 2014 e le Olimpiadi del 2016 rappresentano un test cruciale per valutare su larga scala le potenzialità dell’economia brasiliana. In vista di questi appuntamenti, la Banca Centrale brasiliana ha previsto una crescita del PIL fino al 4% con un aumento di un punto nel 2014. Per rispettare queste previsioni è però necessario che tutto fili liscio. E proprio per far ciò che questo accada, qualche mese fa il governo di Dilma Rousseff, che nei prossimi due anni si gioca la sua conferma per un secondo mandato, ha varato un piano di incentivi economici pari a 65.000 milioni di dollari per sostenere le imprese private nella realizzazione dei progetti legati a mondiali e Olimpiadi. La situazione al momento non è delle più rosee. Stando a quanto dichiarato da fonti istituzionali, risulta infatti che solo il 5-10% delle infrastrutture previste è stato completato, il 55% è in corso e il restante 40% è ancora in via di assegnazione o di sviluppo. A pallone i brasiliani saranno pure i più forti al mondo. Ma da qui a giugno 2014 ciò che conta è mettere da parte il carnevale e la samba e badare piuttosto a rispettare le consegne.
vengono proiettati verso un futuro da protagonisti nella Chiesa di Roma, ergendosi a “nuova terra promessa” con 483 milioni di fedeli (il 41% del totale), 60 milioni in più rispetto al 1990. In questo scenario, Papa Francesco rappresenta il volto pulito
48
LOOKOUT n. 3 aprile 2013
fiscale che si sta rivelando efficace. Oltre il nuovo Pontefice, il cambiamento è rappresentato dal Brasile, gigante economico in ascesa, pronto a suggellare il proprio stato di grazia con tre eventi di caratura internazionale che si svolgeranno nell’arco
di ingenti investimenti provenienti dall’estero, e a trarne beneficio saranno anche molti altri Paesi confinanti. In quest’ottica, la crescita del Centro e del Sud America da qui ai prossimi anni
eConomIA
sarà esponenziale, anche se le previsioni del Fondo Monetario Internazionale dicono che non tutti saranno capaci di fare in egual misura questo balzo in avanti. I numeri forniti dalla CEPAL (Commissione Economica per l’America Latina e i Paesi Caraibici) dicono che sebbene nel 2012 la crisi economica si sia fatta sentire anche a queste latitudini (+3,1% contro +4,3% del 2011), a fine 2013 l’asticella dovrebbe riassestarsi al +3,8%. Come detto, molto dipenderà dal Brasile e dalla sua capacità di trainare verso il salto di qualità anche economie molto più piccole e deboli della sua. Dal punto di vista strettamente geopolitico, la regione è invece spaccata in due assi. C’è la “frangia atlantica” formata da Brasile, Argentina, Venezuela, Uruguay e Bolivia, in cui lo Stato mantiene una forte predominanza sulla vita economica e sociale del Paese. E poi c’è la cosiddetta Alleanza del Pacifico di stampo liberista, a cui fanno riferimento invece Colombia, Perù, Messico, Cile e Costa Rica.
È qui che si sono firmati i negoziati del Trattato di Libero Commercio che hanno innescato degli scambi tra questi Stati con Australia, Vietnam e soprattutto Stati Uniti. Le loro economie insieme arrivano a un totale di 1,4 miliardi di dollari e registrano esportazioni annue da 300 miliardi di dollari, avvicinando il loro tasso di crescita medio a quello del Brasile nel 2013. Nonostante le reciproche accuse di protezionismo e di filoamericanismo che si rimbalzano tra una capitale e l’altra, le varie anime del Centro e del Sud America punteranno al sodo silenziando i problemi interni e convergendo piuttosto gli interessi particolari verso comuni obiettivi strategici soprattutto negli scambi commerciali e nel settore dell’energia.
LOOKOUT n. 3 aprile 2013
49
eConomIA
Mondo |
La Terra si ribella
di Hugo
Aumento delle temperature, catastrofi naturali, siccità, desertificazioni e malattie mortali. Ecco da cosa dovrà difendersi l’uomo del Terzo millennio
C
he la natura fosse un infimo nemico per la salute dell’uomo lo sapevamo già da tempo. Il problema, semmai, è arrivare a ricostruire la concatenazione di fattori che lega la miriade di fenomeni generati dal cambiamento climatico alle centinaia di malattie che colpiscono ad ogni latitudine del mondo l’uomo del terzo millennio. Mentre i diversi modelli di predittività epidemiologica avanzano macinando statistiche e risultati, ciò che è certo è che dobbiamo fare i conti con le ripercussioni sempre più allarmanti derivate dagli effetti del climate change: dal crescente numero di morti a causa dell’incontrollato aumento delle temperature all’irrompere di catastrofi naturali puntualmente inattese, sino all’insorgere di malattie mortali come la malaria che sembravano essere definitivamente debellate. Andiamo per ordine. Dall’inizio del Novecento ad oggi le temperature in tutto il pianeta sono aumentate in media di circa mezzo grado e le previsioni non sono confortanti, considerato che si suppone che possano continuare a crescere oscillando tra una minima di 1,4° a
50
LOOKOUT n. 3 aprile 2013
una massima di 5.8°. Ciò causerà una nuova ondata di disastri naturali che avranno degli effetti devastanti sugli equilibri della biosfera. Il problema è piuttosto serio, e per capirlo basta voltarsi indietro come ha fatto l’Organizzazione Mondiale della Sanità, secondo cui gli effetti del cambiamento climatico tra il 1970 e i primi anni Duemila hanno provocato 150.000 morti. Come noto, a pesare sull’andamento di questo fenomeno sono i prodotti nefasti partoriti dall’effetto serra. L’aumento delle temperatura, la siccità e l’innalzamento del livello del mare dovuto allo scioglimento dei ghiacciai alterano in maniera irreparabile la natura dei biosistemi, erodendo il parco delle biodiversità, impoverendo i beni alimentari concessi dalla terra e dai mari, e asciugando le fonti di acqua potabile. Proprio dalla disponibilità di acqua dipendono in maniera sensibile le sorti di questa partita. Gli squilibri economici tra Nord e Sud del mondo fanno sì che nel Terzo millennio 1,1 milioni di persone continuino a non avere accesso diretto a fonti d’acqua sicure, e che 2,4 milioni vivano nella totale assenza di condizioni igieniche. Fattori che da soli bastano per fare della dissenteria infantile la principale causa di morte a livello mondiale. Il resto, come detto, lo fa il cambiamento climatico, che attraverso il danneggiamento degli ecosistemi naturali favorisce la propagazione di infezioni ed epidemie come la malaria e il colera. Non tutto, però, dipende da questo fenomeno, come dimostrano le ultime ricerche dell’OMS, dalle quali si evince che per altre malattie il clima ha giocato un ruolo rilevante ma non fondamentale. È il caso della leishmaniosi, del dengue, della meningite, della febbre gialla, della Chagas, della parassitosi intestinale, della borreliosi e della tubercolosi.
eConomIA
A rischio Centro e Sud America Chi ha sofferto più di altri negli ultimi decenni del cambiamento climatico sono i Paesi del Sud America, responsabili da soli del 12,5% delle emissioni mondiali. Stando alle previsioni più recenti, da qui alla fine del secolo le temperature continueranno a salire oltre i 4°, provocando un incremento degli uragani e una graduale desertificazione della superficie coltivabile. A farne le spese saranno soprattutto gli Stati caraibici e le regioni tropicali, aggravando lo stato di povertà delle popolazioni locali. Sorti analoghe toccherebbero anche a diversi paesi dell’Africa equatoriale e all’India.
livello degli oceani Dal 1998 lo scioglimento dei ghiacciai della Patagonia ha contribuito all’innalzamento annuale del 2% del livello del mare. Qualora la temperatura dovesse continuare ad aumentare, verrebbero gradualmente inghiottite dall’acqua le piccole isole caraibiche situate appena sopra il livello del mare. Le perdite stimate entro il 2080 ammontano già a circa 70 milioni di dollari.
Cicloni tropicali Una delle paure maggiori legata alla sicurezza ambientale dell’America Centrale e dei Caraibi è l’aumento dei cicloni tropicali. Gli occhi sono puntati sulla costa orientale del Messico, area particolarmente esposta a rischi anche a causa dell’incremento demografico e all’aumento spesso sregolato della costruzione di infrastrutture.
LOOKOUT n. 3 aprile 2013
51
Un lIbRo Al meSe A CURA dI @Roccobellantone
CoSì dICono
La leggenda del giornalista spia di Lando Dell’Amico Koinè 2013 pp. 376 18,00 euro
Q
“
uando partì l’avventura di AGR la mia intenzione era quella di dare vita a un organo di informazione indipendente. Trovai subito l’appoggio di Enrico Mattei e poco dopo anche quello di Attilio Monti. Mi trovai da subito in questa situazione, e devo ammettere che spesso non fu una cosa semplice da gestire”. Parole del giornalista Lando Dell’Amico, giornalista, ex fascista di sinistra che abbandonò il PCI dopo la morte di Stalin e fondò l’Agenzia Giornalistica Repubblica. Di lui, e dei suoi discussi rapporti con i servizi segreti, con certi ambienti politici e con le più importanti lobby economiche del Paese, molto si è detto e molto altro si è fantasticato. Una storia lunga e intensa, su cui il protagonista torna per fare definitivamente chiarezza con il volume La leggenda del giornalista spia, pubblicato dall’editore Koinè. Il risultato è un libro-testimonianza sugli aspetti più oscuri della storia d’Italia dopo la seconda guerra mondiale: dall’inchiesta parlamentare sul ‘Banchiere di Dio’ Roberto Calvi tra Andreotti e Tambroni ai misteri legati al capo del KGB a Roma Laurenti Beria e al generale Giovanni De Lorenzo. Ovunque si stende l’ombra del ‘Gastronomo’ Federico Umberto D’Amato, il capo della Divisione Affari Riservati del Viminale, vero e proprio protettore dell’autore e custode, come pochi altri, dei tanti segreti che ancora oggi nasconde la nostra giovane Repubblica.
52
LOOKOUT n. 1 febbraio 2013
Unitevi! Mobilitatevi! “Lottate! Tra l’incudine delle azioni di massa e il martello della lotta armata dobbiamo annientare l’apartheid! nelSon mAndelA (1918)
L
”
a storia di Mandela è segnata fin dalla nascita quando, nel 1918, i genitori scelgono per lui il nome di battesimo Rolihlahla, ovvero “colui che combina guai”. Solo dopo qualche anno di scuola, un insegnante deciderà di consegnarlo alla storia come Nelson. E, in effetti, Mandela combina davvero quei numerosi “guai” che lo portano prima a organizzare la resistenza contro le leggi segregazioniste, e poi alla lotta armata attraverso il movimento politico e multirazziale African National Congress (ANC). Il resto è storia: Nelson viene arrestato per aver complottato al fine di rovesciare il governo con la violenza e condannato al carcere a vita. Questo destino all’apparenza sventurato volge però in suo favore, poiché il carcere lo trasforma in un simbolo internazionale della resistenza all’apartheid e della lotta contro il razzismo. Nel 1990, quando il Sudafrica si arrende all’idea di libere elezioni democratiche per tutte le etnie, Mandela può uscire dal carcere a testa alta, ricevere un nobel per la Pace ed essere insignito della presidenza del Paese.
G-risk, società italiana di security e intelligence, nasce a Roma nel 2007 da una fertile partnership tra analisti ed esperti di istituzioni nazionali ed estere dedicate alla prevenzione e alla gestione del rischio. Sostenuta da capitali privati - che ne assicurano la piena autonomia gestionale G-Risk dispone di numerose sedi operative in Italia e nel resto del mondo: roma, Genova, Beirut, riyadh, Karachi, la Paz, Bogotá, caracas, Montreal.
realmente le attività aziendali e gli asset strategici, umani e tecnologici.
La strategia di G-Risk si basa sulla stretta integrazione tra team di analisi strategica e gruppi operativi in grado di intervenire in qualsiasi momento in aree domestiche e internazionali. Le nostre unità sono presenti nelle maggiori aree critiche del pianeta per investigare sulle realtà locali con cui la società cliente desidera intraprendere attività e relazioni commerciali, otteLa nostra mission è garantire la sicurezza prima nendo tutte le informazioni necessarie nel minor che qualsiasi minaccia possa compromettere tempo possibile.
www.grisk.it