Lookout magazine n. 4 maggio 2013

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geopolitica

Tutti gli interessi di Ankara

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SicureZZa

I pro e i contro dell’embargo

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economia

India: la tigre di carta

anno I - n. 4 maggio 2013

L’imperatore in cerca di

un regno Recep Tayyip Erdogan: il premier turco che sogna l’Europa ma strizza l’occhio a tutta l’Asia


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Sommario

geopolitica 8 Il nuovo

eroe nazionale? 12 Storia di un idillio

interrotto (e di una riappacificazione) 16 “Bridge togheter”,

il gioco si fa serio 20 L’isola del tesoro 22 La sottile linea verde

SicureZZa 28 Quanto vi sentite

sicuri? 32 Se una cassafortenon

20 economia

38 Un Paese

tutto da coltivare 44 Ménage à trois

basta più... 46 Il canto 34 La pistola alla tempia

del “cigno nero” 48 La crescita

panamense

rubriche 18 l’araba fenice Donne, società e i tanti volti dell’Islam 24 a dire il vero... L’analisi di approfondimento 36 dura lex Sotto la lente del diritto 49 do you Spread? Voci dal mercato globale

inoltre 6 mappamondo

38

50 un libro al meSe 50 coSì dicono

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L’editoriale

Oltrefrontiera: i nuovi protagonisti del gran teatro mondiale

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opo essere stata un impero per quasi sei secoli, alla fine della prima guerra mondiale la Turchia sembrava precipitata in una condizione di sottosviluppo e di decadenza. Oggi la Repubblica Turca è uno dei protagonisti non solo delle politiche regionali ma della politica mondiale. Cosa è successo in quest’ultimo secolo? Come ha fatto la Turchia, nell’anno del novantesimo compleanno della sua Repubblica, a trasformarsi in una solida democrazia in grado non soltanto di far convivere l’Islam con le istituzioni parlamentari, ma anche di candidarsi al ruolo di interlocutore obbligato dell’Europa e di tutto l’Occidente? Abbiamo tentato di rispondere a questi quesiti con una serie di analisi e di interventi che speriamo contribuiscano a illuminare di luce bianca e obiettiva una realtà importante delle relazioni internazionali contemporanee. Sempre nella nostra ricerca di analisi delle realtà geopolitiche più importanti ci siamo concentrati anche sull’India, un gigante strategico che appare tuttavia minato da una fragilità strutturale che lo rende imprevedibile e potenzialmente instabile. Visti i suoi legami con la Turchia, la sua situazione economica e la sua presenza piccola ma comunque importante nell’Eurozona, non abbiamo trascurato una riflessione su Cipro, una strana realtà politica che la vede divisa tra due “nemici” ma alleati in seno alla NATO: Atene e Ankara. Merita di essere infine segnalata una doppia riflessione, analitica e giuridica, sul tema dell’embargo, uno strumento forte nelle relazioni internazionali che spesso ha dimostrato e può dimostrare ancora di avere effetti controproducenti e pericolosi per la stabilità internazionale. Cipro: un microcosmo politico ed economico molto più complesso ed importante di quanto il suo spessore geografico lasci intendere. L’avventura di LookOut News continua e noi proseguiamo ad accompagnarvi nel “mondo che nessuno vi racconta”.

mario mori


inbox il direttore editoriale riSponde

Le armi chimiche, Assad e Al Qaeda Via Assad, dentro i Fratelli Mussulmani e Al Qaeda come in Libia ed Egitto. Con infiltrazioni anche in Tunisia, Algeria, Sudan e inevitabili persecuzioni nei confronti delle comunità cristiane. Se l’Occidente farà cadere il regime siriano, sarà questo lo scenario che avremo davanti? John Dalto Come avrà visto sulla Siria noi non ci siamo accodati alla vulgata occidentale che in modo semplicistico osserva quello che sta succedendo ormai da due anni come una lotta tra i “buoni” (i combattenti per la “libertà”) e i “cattivi” (Assad e le forze lealiste). La situazione è più complicata e non dovrebbe essere tagliata con l’accetta come fanno quasi tutti i commentatori europei che tentano in modo abbastanza insensato, spesso sulla scorta di notizie fasulle o inverosimili, di trascinare i governi occidentali in un’ennesima avventura militare che rischia di finire come in Libia, dove dopo che è stato fatto uscire il dentifricio dal tubetto (o anche si è aperto il vaso di Pandora dell’islamismo), è difficile farlo tornare al suo posto. In Siria è in corso un conflitto mortale tra la minoranza alawita e la maggioranza sunnita. I primi sanno che in caso di vittoria degli avversari cesseranno di esistere come etnia e come classe dirigente. I secondi cercano l’egemonia e sembrano non aver scrupolo di farsi aiutare da Al Qaeda. Conviene all’Occidente aiutare i ribelli? La CIA negli anni Ottanta ha inondato i talebani di soldi e di missili per sostenerli nella lotta contro i sovietici. Abbiamo visto come è andata a finire.

Medio Oriente di fuoco Ritengo indispensabile aggiornarsi sulle questioni mediorientali i cui sviluppi sono imprevedibili in questa fase di mutamenti epocali. Cosa dobbiamo aspettarci? Filippo Vanelli Al momento solo la Tunisia sembra aver trovato una, sia pur precaria, stabilità. Libia ed Egitto non sembrano riuscire a trovare pace dopo le rispettive primavere. L’Occidente continua a guardare con una pericolosa ingenuità tutte le sommosse in Nord Africa e nel mondo arabo nella convinzione che chi lotta contro i “cattivi” sia da considerarsi di fatto un “buono”. I risultati delle rivolte della primavera araba dimostrano il contrario.

Boston, an american history Come mai, solo dopo quanto accaduto a Boston, a Obama sia venuto in mente di insistere nel voler disarmare i civili? Sergio Letizia Quello che è successo davanti a Palazzo Chigi il 28 aprile ci dovrebbe indurre a riflettere su quanto sia pericoloso portare la protesta sociale all’esasperazione armata. Quando il conflitto sociale tende ad inasprirsi gli Stati democratici debbono tutelarsi con misure di controllo più rigide. Churchill diceva “forse la democrazia è la peggiore forma di governo, ad eccezione di tutte le altre che si sono sperimentate finora”.

Il cappio del fiscal compact Non è questo il modo di gestire la crescita dell’Unione Europea. Partiti male, siamo finiti come mai peggio prima e ovunque. Raffaella D’Ambra La debolezza della costruzione europea nasce dall’assunto che l’economia possa governare la politica. In realtà è vero il contrario.

Anno I - Numero 4 - maggio 2013

DIRETTORE RESPONSABILE Luciano Tirinnanzi @luciotirinnanzi redazione@lookoutnews.it

EDITORE G-Risk - CEO Giuseppe De Donno Via Tagliamento, 25 00198 Roma Tel. +39 06 8549343 - Fax +39 06 85344635 segreteria_grisk@grisk.it - www.grisk.it

REDAZIONE Rocco Bellantone Dario Scittarelli Cristiana Era Marta Pranzetti

DIRETTORE SCIENTIFICO Mario Mori

ART DIRECTION Francesco Verduci

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facebook.com/LookoutNews twitter.com/lookoutnews Registrata presso il Tribunale di Roma n. 13/2013 del 15/01/2013

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mappamondo veneZuela: maduro è il successore di chavez, nonostante il ricorso di capriles Henrique Capriles, il leader dell’opposizione venezuelana, ha presentato un ricorso davanti al Tribunale Supremo di Giustizia contro la vittoria di Nicolas Maduro alle elezioni del 14 aprile, ottenuta con uno scarto di soli 235mila voti. Ma il delfino di Chavez si è ormai insediato al potere, forte dell’appoggio dell’Unione delle Nazioni Sudamericane.

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regno unito: stop ai paradisi fiscali d’oltremare Il Regno Unito ha chiesto ai territori britannici d’oltremare di aprire i registri dei propri depositi bancari per contribuire alla lotta all’evasione fiscale e al riciclaggio di denaro. Nella black list risultano Bermuda, Isole Cayman e Isole Vergini Britanniche, Isola di Man, Anguilla, Montserrat, Turks e Caicos, Jersey e Guernsey. Le informazioni ottenute verranno condivise anche con Germania, Francia, Italia e Spagna.

italia: napolitano incarica letta. alta tensione a roma Il 24 aprile il capo dello Stato Giorgio Napolitano ha incaricato il vice segretario del Partito Democraticon Enrico Letta di formare un nuovo governo. Il 28 aprile il premier incaricato e i suoi 21 ministri hanno giurato al Quirinale, mentre in contemporanea davanti a Palazzo Chigi Luigi Preiti, calabrese di 49 anni, esplodeva sette colpi di pistola ferendo due carabinieri e un passante.


turchia: a ottobre si festeggia i 90 anni della repubblica Il 29 ottobre 2013 sarà una giornata storica per la Turchia: nel novantesimo anniversario della Repubblica fondata da Atatürk verranno inaugurati il tunnel ferroviario sotto il Bosforo e la linea ad alta velocità da Istanbul a Eski ehir, grazie alla quale il tempo di collegamento tra Ankara e Istanbul verrà ridotto da 5 a 3 ore. Da qui passerà la “via ferrata della Seta” che congiungerà Londra alla Cina.

bangladeSh: crolla il rana palace di dacca: almeno 500 morti È salito a oltre 500 il numero delle vittime causate dal crollo del Rana Palace di Dacca, in Bangladesh, il 24 aprile. Al momento del crollo, all’interno dell’edificio si trovavano circa 3.000 lavoratori tessili sottopagati. Il Dipartimento di Stato americano ha ammesso la presenza di diversi e importanti marchi statunitensi ed europei tra i clienti abituali dello stabilimento.

nord corea: condanna ai lavori forzati un cittadino americano La Suprema Corte nordcoreana ha condannato il cittadino statunitense Kenneth Bae a 15 anni di lavori forzati. Bae, il cui nome è stato tradotto in nordocoreano in Pae Jun-ho, era stato arrestato il 3 novembre 2012 nella città portuale di Rason, nel nord-est del paese, con l’accusa di “aver avuto un atteggiamento animoso contro la Repubblica popolare democratica della Corea e di aver tentato di rovesciare il regime”. Washington ha chiesto la sua liberazione immediata.

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geopolitica

Turchia L’ago della bilancia mediorientale Erdogan e le Americhe Le relazioni turco-israeliane Le olimpiadi di Istanbul

Cipro I giacimenti off-shore Cipro Nord, la sottile linea verde

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geopolitica

Frustrate le aspettative di entrare nell’Unione Europea, Erdogan sogna un ruolo più incisivo a livello internazionale e si ritaglia la parte di “ago della bilancia” nello scenario mediorientale

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di Cristiana Era

Turchia |

Il nuovo

in dal suo insediamento nel 2002, la figura del Primo Ministro Recep Tayyip Erdogan non ha mancato di sollevare interesse, talvolta mista a preoccupazione, per la sua appartenenza a un movimento islamista, il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP). La sua premiership è iniziata all’insegna della politica estera, sintetizzabile con “zero problemi con i Paesi vicini”. Politica successivamente rivista e corretta dallo stesso Erdogan, che ha così rivelato

eroe nazionale? doti di raffinato pragmatismo politico. In politica interna, il premier turco ha proceduto a una progressiva emarginazione dei militari, che tradizionalmente e costituzionalmente hanno rappresentato un baluardo a difesa del laicismo dello Stato moderno voluto dal padre della patria, Mustafà Kemal Ataturk.

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geopolitica

Il dizionario Giovani Turchi, e ancor prima Giovani Ottomani, erano chiamati tutti gli appartenenti a quel movimento politico e intellettuale del diciannovesimo secolo, d’ispirazione nazionalista e mazziniana (la Giovine Italia), che sognava di trasformare l’Impero Ottomano in una più moderna ed efficiente istituzione, e che viveva nel mito ottocentesco del progresso. Questa spinta alla modernità fu ben incanalata da Kemal Ataturk che nel 1923 porterà la Turchia a trasformarsi nella Repubblica che oggi conosciamo.

La sfida ai militari, che può indicare la supremazia del potere civile liberamente eletto, ossia uno dei capisaldi democratici, può essere in realtà interpretata anche come uno scontro tra laicismo (non necessariamente democratico, visto che in passato i generali turchi hanno governato il Paese con colpi di stato e pugno di ferro) e l’islamismo, non sempre moderato, dell’AKP. Significativo è stato il 2011, quando centinaia di ufficiali sono finiti sotto processo (evento mai avvenuto prima nella storia della Turchia moderna) e i Capi di Stato Maggiore di Esercito, Forze dell’ordine e Aeronautica si sono dimessi, rimpiazzati da elementi meno ostili all’entourage del premier. L’intero processo giudiziario per cospirazione contro il governo, noto con il nome di “Ergenekon”, ha fatto finire in prigione, tra gli altri, l’ex Capo di Stato Maggiore della Difesa, Ilker Basbug, e ha ridotto al silenzio una gran parte delle Forze Armate. Sotto la spinta iniziale di Fethullah Gülen - leader

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del movimento islamico Cemaat e vero ideatore del caso “Ergenekon” - Erdogan è riuscito a indebolire uno dei più consistenti eserciti della regione (oltre che della NATO) grazie allo scaltro utilizzo dello strumento della magistratura. Il Ceemat non è ufficialmente un movimento politico, ma rappresenta una vera “terza forza” nel Paese: grazie ai suoi 6 milioni di seguaci, al controllo di svariate testate giornalistiche e all’infiltrazione di propri adepti nelle file di polizia e magistratura. Con il suo supporto, l’AKP ha potuto vincere le elezioni e consentire a Erdogan di accrescere il proprio potere. Il rapporto di collaborazione, tuttavia, si è incrinato con l’acuirsi delle tensioni interne per gli eccessi giudiziari e per l’attacco diretto contro gli stessi uomini di Erdogan e contro i negoziati con il PKK, a cui il leader di Ceemat, Gülen, è sempre stato profondamente ostile. Questo ha indotto il premier turco a riavvicinarsi ai militari, perché evidentemente non li vuole eliminare ma solo


geopolitica

indebolire. E non potrebbe essere diversamente: quello turco è il secondo esercito più grande dell’Alleanza Atlantica, gode di prestigio e sostegno da parte della popolazione e, con un conflitto come quello siriano che preme ai confini, Erdogan è stato costretto sia a moderare le proprie posizioni sia a rivedere la politica dell’AKP. A ben vedere, Erdogan ha rivisto anche altre posizioni, più radicali, di un passato non troppo lontano: ha abbandonato l’amico siriano Bashar Assad, sostenendo il Libero Esercito Siriano e piazzando missili Patriot al confine; ha smorzato i toni antisemiti e si è riavvicinato a Israele; ha allentato i rapporti con l’Iran; sta, infine, espandendo la propria politica economica sia verso l’Asia che verso l’Africa, forte di un’economia in crescita e dell’immagine di “ago della bilancia” che pian piano si sta costruendo nella regione. In fin dei conti, quella di Erdogan è una visione moderna di una politica di stampo neo-ottomano e, se l’Unione Europea ha smorzato gli entusiasmi turchi per un accesso imminente, il governo di Ankara ha cominciato a guardare altrove per accrescere il proprio ruolo di potenza regionale. Nonostante gli eccessi dell’appartenenza a un partito (e alla sua ideologia) che vorrebbe l’Islam non relegato alla sola sfera privata, il pragmatismo politico a cui abbiamo accennato lo ha portato a correggere il tiro e a saper attendere. Del resto, sul piano internazionale prestigio e potere valgono bene l’attesa. E valgono un accordo con il PKK.

La Turchia in America

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egli ultimi anni le mire espansionistiche turche si sono spinte anche verso i Caraibi e il Sud America. Tutto inizia nel 2003, con l’insediamento alla guida del governo di Tayyip Erdogan. Eppure non deve essere stato semplice rompere con una tradizione che ha visto la Turchia lontana da queste terre per tutto il Novecento, dai primi anni Venti di Mustafa Kemal Atatürk alla metà degli anni Novanta. Qualcosa ha iniziato a muoversi solo nel 1995, quando Süleyman Demirel compì le prime visite ufficiali di un presidente turco in Argentina, Brasile e Cile. Grazie a quella visita, Ankara inaugurò proprie ambasciate a Buenos Aires, Brasilia, Santiago, L’Avana, Città del Messico e Caracas. Ma non solo, perché alla forma è seguita anche la sostanza, con la firma dei primi accordi di cooperazione economica e commerciale e l’avvio di un importante programma di scambi interculturali che portò, nel 2009, all’apertura di un Centro Studi sull’America Latina presso l’Università di Ankara. Nel 1998 fu la volta del “Plan de Acción para América Latina”, varato per definire un quadro legale dei rapporti bilaterali con le nazioni sudamericane e promuovere rapporti commerciali di alto livello attraverso commissioni economiche congiunte e l’assegnazione alla Turchia del grado di Paese osservatore dei meccanismi di cooperazione regionale, quali la Comunità Caraibica (CARICOM) e l’Organizzazione degli Stati Americani (OSA). Selahattin Alpar, all’epoca responsabile dei rapporti tra la Turchia e le Americhe, ideò nel 2006 l’anno turco dell’America Latina e dei Caraibi. Il resto lo ha fatto Erdogan. È il caso della nomina della Turchia a membro non permanente nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU per il biennio 2009-2010, ottenuta grazie ai voti dei Paesi sudamericani. E delle tante poltrone su cui Ankara siede all’interno degli organismi sudamericani e caraibici come l’Organizzazione degli Stati Americani (OSA), l’Associazione degli Stati dei Caraibi (ASC), il Mercato Comune del Sud America (MERCOSUR), il Gruppo Rio e la Comunità Caraibica (CARICOM).

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geopolitica

Israele | de Il Grigio

Storia di un idillio interrotto (e di una riappacificazione)

Le relazioni altalenanti di buon vicinato tra Turchia e Israele hanno conosciuto nel tempo grandi accelerazioni e improvvisi stop, mediati dagli infaticabili Stati Uniti. Ora, quel rapporto serve a entrambi. Sempre di più

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lla fine dello scorso mese di marzo, grazie ai buoni uffici di Barack Obama e del suo segretario di Stato John Kerry, sono riprese le relazioni tra Turchia e Israele, dopo tre anni di gelo e ostilità.

relazioni tra i due Paesi sono andate avanti con alti e bassi in relazione all’altalenante susseguirsi di crisi e guerre in Medio Oriente, che hanno portato ad allontanamenti e riavvicinamenti reciproci, ma mai alla rottura.

nel quale israeliani e palestinesi hanno avviato un’impresa industriale congiunta. Nel 2006, il presidente israeliano Shimon Peres e il presidente dell’ANP (Autorità Nazionale Palestinese) Abbas, di

L’assalto alla Mavi Marmara La “flottilla” è stata raccolta e organizzata da un gruppo turco denominato Fondazione per i Diritti Umani per le libertà e per l’aiuto umanitario. Ma non riesce a superare il blocco israeliano e quando un gruppo di sayerette makhtal, i corpi speciali dell’esercito israeliano, abborda da un elicottero una delle navi turche, la Mavi Marmara, scoppia il finimondo. I soldati israeliani vengono accolti da una resistenza organizzata tutt’altro che pacifista: con sbarre e coltelli i primi tre israeliani che tentano l’abbordaggio vengono feriti e disarmati. Quelli che seguono reagiscono con gelida professionalità e nove pacifisti turchi rimangono cadaveri sul ponte della Mavi Marmara. L’operazione è una catastrofe politica per Israele e i media locali si scagliano contro il Mossad e contro l’intelligence militare, accusandoli di non aver previsto che i pacifisti potessero reagire. La reazione turca è violentissima e la delegazione di Ankara a Gerusalemme viene chiusa e l’ambasciatore richiamato in patria. A Israele vengono chieste “scuse formali”.

La Turchia è stato il primo Paese con una popolazione a maggioranza musulmana a riconoscere lo Stato di Israele, nel marzo del 1949. Da allora, le

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Fino al maggio del 2010 tra i due Stati c’è stata più cooperazione di quanto non venisse ammesso pubblicamente. Addirittura, la Turchia è l’unico posto

fronte al Parlamento di Ankara descrissero l’iniziativa di creare un “parco industriale” israelo-palestinese proprio in Turchia.


geopolitica

Dal 1949 al 2010 le relazioni, i contatti e la collaborazione tra Israele e Turchia sono stati molto più profondi di quanto i leader dei due Paesi, per ovvie ragioni di opportunità politica, amassero confessare in pubblico. Tutto sembra saltare la mattina del 31 marzo del 2010: una flottiglia di sei piccole navi si dirige dalle acque aperte del Mediterraneo verso la Striscia di Gaza, sottoposta dagli israeliani a embargo da quando, proprio in quei giorni, i miliziani di Hamas hanno intensificato i lanci di razzi su territorio israeliano. Le sei navi, secondo quanto dichiarato dai proprietari turchi,

trasportano beni di conforto e medicinali ai palestinesi di Gaza. Assaltate dai corpi speciali israeliani, il bilancio di tutta l’operazione sarà di 9 vittime turche e l’interruzione delle relazioni tra i due Paesi. La soluzione della crisi poteva essere immediata se solo Gerusalemme avesse ammesso le proprie responsabilità. Ma, mentre il premier Netanyahu sembrava propendere per le scuse, il ministro degli Esteri Lieberman, un falco di origini newyorkesi, è per la linea dura e rifiuta qualsiasi scusa. Il risultato sono tre anni di gelo e di relazioni interrotte e, più che altro,

della fine apparente di un sogno politico che sembrava realizzato: la collaborazione tra una nazione araba e lo Stato di Israele. Per fortuna di tutti i protagonisti della vicenda, nel dicembre del 2012 Lieberman si è dovuto dimettere dalla carica di ministro degli Esteri perché implicato in uno scandalo finanziario. Benjiamin Nethanyahu, uscito “non vincitore” dalle elezioni politiche di fine gennaio, ha così approfittato della difficoltà di formare un gabinetto equilibrato dal punto di vista politico, per tenere per sé la carica di ministro degli Esteri. Nethanyahu è un politico pragmatico

Erdogan guadagna punti in Occidente perché, mettendo a tacere il dissenso islamista interno, dimostra che un dialogo con Israele è possibile

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geopolitica

e non ha esitato ad accettare in tutta fretta i buoni uffici di Obama per ristabilire le relazioni con la Turchia e con il suo premier Erdogan. Ma perché tanta fretta? Perché sullo sfondo ci sono l’Iran e la minaccia del suo programma nucleare. Se, come hanno sempre dichiarato gli israeliani, Teheran riuscisse a dotarsi di un’arma nucleare, Israele sarebbe costretto ad agire con un’incursione aerea sui siti di produzione delle armi atomiche. Per la buona riuscita

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di uno “strike” serve un buon addestramento. Israele non ha praticamente spazio aereo. La riconciliazione favorita da Obama e da Kerry permette all’aviazione israeliana di tornare a fare quello che i turchi in gran segreto gli hanno consentito di fare negli ultimi quarant’anni: usare per l’addestramento dei suoi piloti gli sconfinanti spazi dell’altopiano dell’Anatolia Centrale, un’area scarsamente popolata dove i piloti di Israele hanno per decenni imparato a volare. Ora la pianificazione di un eventuale attacco ai siti nucleari iraniani è più facile. E tutti i protagonisti della vicenda, con l’ovvia eccezione di Ahmadinejad e dei suoi ayatollah, possono dichiararsi soddisfatti. Nethanyahu dimostra che Israele è pronto a riconoscere i propri errori e a riprendere le relazioni con un vicino strategico.

Obama e Kerry ne escono come mediatori infaticabili e persuasivi. Erdogan guadagna punti in Occidente perché da un lato, mettendo a tacere il dissenso islamista interno, dimostra che un dialogo è possibile con gli ebrei di Israele. Dall’altro, si presenta all’Europa come un candidato ancora affidabile al possibile accesso all’eurozona, e come un politico moderato che sa tenere ben distinta la religione nazionale dagli interessi strategici di un Paese protagonista degli equilibri regionali. Un ultimo punto a favore di Erdogan è il segnale lanciato a Teheran: un segnale di attenzione sui rischi concreti di isolamento che corre il regime iraniano se non mette un freno ai suoi sogni di potenza nucleari, un segnale tanto più efficace quanto più si avvicinano le elezioni del 14 giugno.


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Turchia: italiani aperti. Ma non tutti

Turchia ed Europa: favorevoli o contrari?

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Turchia e italiani: integrazione di culture

italiani un’appartenenza puramente territoriale della Turchia all’Europa (19,6%); a seguire, la paura delle troppe differenze culturali (14%) e, nello specifico, del mondo islamico che essa rappresenta (3,4%). Eppure, alla domanda diretta di quanto possa spaventare il peso del mondo musulmano in Europa, con un’entrata della Turchia, solo il 22,5% si ritiene effettivamente preoccupato. Molto più consistente il restante 77,5% che si definisce sereno in questo senso.

Tra gli italiani ci sono dunque, in primis, poca conoscenza e poca informazione a riguardo; una volta colmata, in parte, la carenza, la popolazione adulta si divide in due metà, poiché, se da un lato c’è la paura che la Turchia possa incidere negativamente sulla situazione economica europea e, nello specifico, italiana (già di per sé in forte crisi), dall’altro c’è senz’altro il sogno di una profonda integrazione fra popoli, anche quando appartenenti a culture o religioni diverse.

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Istituto: Lorien Consulting s.r.l. - Criteri seguiti per la formazione del campione: campione rappresentativo della popolazione italiana maggiorenne, rappresentativo per sesso, età e area geografica - Metodo di raccolta delle informazioni: indagine quantitativa telefonica (CATI, Computer Assisted Telephone Interview) - Numero delle persone interpellate ed universo di riferimento: 1.000 cittadini italiani maggiorenni - Data in cui è stato realizzato il sondaggio: 15 - 18 gennaio 2013 - Metodo di elaborazione: SPSS

onostante i numerosi tentativi di negoziazione e contrariamente a quanto ritiene il 26,2% della popolazione adulta italiana, la Turchia non ha ancora pienamente aderito all’Unione Europea. Ne è a conoscenza il 35,3% degli italiani, mentre il 38,5% afferma di non avere le basi per poter dare una netta risposta. Qualunque sia la formazione di base, una volta resa nota l’attuale situazione geopolitica in relazione allo stato turco, poco più della metà degli italiani (51,8%) si ritiene favorevole a una sua piena adesione all’Unione Europea. È favorevole per eventuali politiche economiche che aiuterebbero, nell’opinione dei rispondenti, la stessa Turchia (12,7%) o persino l’Italia (11,8%) a risollevarsi dalla crisi; ma lo è in particolar modo per un’insita apertura mentale e culturale che porta a pensare e sperare a una effettiva integrazione tra Paesi (39,4%). Qualcuno spera infine che l’entrata della Turchia nella UE possa portarla verso una situazione più serena, pacifica (8,5%). L’altra metà degli italiani (48,3%) si ritiene invece tendenzialmente sfavorevole all’entrata della Turchia in Europa. Più rarefatti i motivi: da un lato c’è senz’altro la paura che questo possa peggiorare la situazione economica italiana (22,3%), dall’altro si trova un giudizio dettato più da considerazioni geografiche (e, probabilmente, culturali) che fanno negare agli


geopolitica

Turchia | di Giuseppe Mancini

“Bridge togheter”, il gioco si fa serio

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stanbul aspira a diventare una capitale globale: dell’economia, della diplomazia, della cultura. E anche dello sport, una vetrina per presentare al mondo intero i successi del Partito della giustizia e dello sviluppo (AKP) guidato dal premier Recep Tayyip Erdogan. Il grande sogno, infatti, si chiama Olimpiadi, quelle del 2020. Dopo quattro candidature quasi in serie, sfumate già nella fase preliminare, le possibilità di vittoria sono stavolta molto concrete: insieme alla città sul Bosforo, sono rimaste in lizza solo Madrid e Tokyo.

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La decisione definitiva verrà presa dal Comitato internazionale olimpico (Cio) il 7 settembre prossimo, a Buenos Aires. Erdogan ha già annunciato che ci sarà. Per misurarne da vicino le credenziali, una delegazione del Cio è stata in città dal 23 al 27 marzo: ha incontrato le massime cariche istituzionali e imprenditoriali, ha visitato gli impianti già esistenti e le attrattive culturali, ha gustato l’ospitalità turca. Parlando ai delegati, il presidente Abdullah Gül è stato esplicito: “Questo è il momento della Turchia, siamo pronti come mai prima d’ora”. E, del resto, i giochi sono legati al futuro del

Paese. In una visione strategica, essi rappresentano uno dei pilastri del master plan per trasformare la Turchia entro il 2023 - centenario della fondazione della Repubblica - in uno dei dieci Paesi più ricchi, moderni e influenti al mondo. E sono parte integrante di due ulteriori iniziative di largo respiro: il piano da quasi due miliardi per la realizzazione di 415 nuovi impianti sportivi in ogni angolo del Paese; il piano multi-modale di trasporti urbani 2009-2023, che prevede la costruzione di un network di 200 chilometri di metropolitana (oltre a strade, ponti e tunnel) per collegare tutte le diverse estensioni della città, da una parte e dall’altra del Bosforo. “Bridge together” è non a caso lo slogan prescelto: in riferimento ai due continenti e ai ponti che li uniscono, allo “sport come ponte tra culture, credenze e tradizioni” per assicurare “comprensione globale, inclusività, armonia”. Il dialogo tra le civiltà.


geopolitica

Nel budget complessivo di 19,2 miliardi di dollari, circa 10 sono quelli destinati alle infrastrutture di mobilità. I giochi saranno “senza automobili”: non si potrà accedere alle aree olimpiche in

olimpico, su linee dedicate. Le aree degradate della città cambieranno volto grazie a progetti di recupero urbano, e verranno realizzati interventi di restauro sui monumenti in cattivo stato di

Le Olimpiadi del 2020 sono un obiettivo irrinunciabile per la Turchia e il suo governo. Un giro d’affari immenso che intende proiettare il Paese ai vertici del mondo, dall’una e dall’altra sponda del Bosforo macchina e i possessori di biglietti per le gare potranno utilizzare gratuitamente i mezzi pubblici. I soldi ci sono già, sono stati formalmente stanziati: praticamente tutti investimenti, a fronte di spese per l’organizzazione di circa 3 miliardi di dollari. I più grandi gruppi industriali si sono ufficialmente impegnati a dare manforte. Tutte e 7 le zone olimpiche previste - con alcuni impianti già realizzati, come lo stadio olimpico Atatürk - saranno a non più di 35 minuti di viaggio dal villaggio

conservazione che, in alcuni casi (come la Porta d’oro, ingresso trionfale a Costantinopoli) faranno da sfondo alle competizioni. A occuparsi della costruzione delle strutture sarà la potentissima Toki: l’agenzia governativa che sovrintende allo sviluppo urbano e che, in 30 anni di attività, ha prodotto centinaia di migliaia di unità abitative, oltre a impianti sportivi pubblici.

Secondo il suo direttore, Ahmet Haluk Karabel, in virtù della loro esperienza sarà “business as usual” realizzare il master plan dei giochi. Anzi, tutto sarà pronto già un anno prima delle scadenze ultimative. Sempre con un occhio al domani: il villaggio olimpico da 17.500 posti, costerà circa mezzo miliardi di dollari e, al termine dei giochi, diventerà il nucleo di un nuovo quartiere avveniristico con 600.000 abitanti. Allo stesso modo, il traning center olimpico diventerà una sorta di università turca dello sport, mentre lo stadio del Bosforo - che verrà costruito per le cerimonie di apertura e chiusura, sulla riva asiatica - diventerà un’area per concerti e spettacoli. La Turchia, insomma, guarda lontano e sogna in grande.

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l’araba fenice donne, Società e i tanti volti dell’iSlam

Identità femminile in Turchia: schizofrenia tra secolarismo e Islam di Marta Pranzetti

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n recente articolo dello Hurriyet Daily News turco riporta che, decaduto un divieto in vigore dalla fondazione della Repubblica, alle donne deputate all’Assemblea Generale sarà ora consentito indossare giacche e pantaloni. Una notizia quantomeno singolare ai nostri occhi. Eppure in Turchia - come del resto in molti altri Paesi sull’identità della donna si scontrano ancora oggi i poteri politici: il corpo femminile; il modo in cui veste, copre (o scopre) i capelli; se sia sposata; il tipo di educazione e quanti figli abbia. Queste sono le questioni sulle quali attori, predominantemente di sesso maschile, combattono le loro battaglie politiche. La Turchia odierna (dove il 99% della popolazione è di religione musulmana) è il frutto del grandioso progetto di riforma che Ataturk avviò negli anni Venti del Novecento e rappresenta un interessante esperimento di commistione tra secolarismo e Islam. Esperimento che mostra però i suoi punti

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deboli proprio nella condizione femminile e nelle sue discrepanze tra legislazione e costumi societari. La questione del velo in Turchia - ovvero il divieto vigente di ostentare simboli politico-religiosi per chi ricopre ruoli pubblici e istituzionali - rappresenta bene lo stato di schizofrenia, generato dal tentativo kemalista di proteggere il regime secolare, che si scontra con chi sostiene la libertà di espressione religiosa e dove si insinua l’onnipresente timore di un revival islamico. Il tutto a solo detrimento della donna, discriminata nel suo diritto di indossare o non indossare il velo e, di conseguenza, nell’accesso a eventuali incarichi pubblici (dall’insegnamento nelle università fino alla rappresentanza in Parlamento). Ma non è solo nel costume che la donna risente dei valori di una società che evidentemente non tiene il passo con le riforme formalmente apportate. Nonostante il Codice Civile adottato nel 1926 garantisse già all’epoca i diritti fondamentali delle donne (la poligamia fu abolita e i diritti relativi a divorzio ed eredità furono resi paritari) e nonostante il diritto di voto attivo e passivo al Parlamento concesso loro nel 1934 (anticipando tra l’altro diversi Paesi “liberali” d’Europa), l’uguaglianza tra i sessi in Turchia ha subito una battuta d’arresto significativa negli ultimi dieci anni. Anni che coincidono con la salita al governo dell’AKP, il partito islamico-conservatore del premier Erdogan che dal 2002 ha conquistato la maggioranza in Parlamento. Il dato più rappresentativo del declino della condizione della donna - oltre all’indice 2012 del Global Gender Gap Report che piazza la Turchia al


124esimo posto su una lista di 135 Paesi esaminati - è il tasso di partecipazione femminile al lavoro, sceso, secondo dati ONU, dal 40% del 2000 al 27% del 2012. Il problema di una società fondamentalmente conservatrice e patriarcale si ripercuote, inoltre, anche fisicamente sulla donna: la violenza domestica, i matrimoni forzati e i delitti d’onore costituiscono la piaga peggiore che affligge le donne turche. La cultura popolare considera, infatti, la violenza domestica una questione privata e l’apparato legislativo è

stato finora poco attento a garantire gli stessi diritti a tutte le donne vittime di maltrattamenti. Unica nota positiva, la controversa legge n. 4320 del 1998 sulla protezione della famiglia (che assicurava, per esempio, assistenza solo a donne sposate): è stata finalmente superata nel marzo 2012 dalla legge n. 6284 sulla protezione della famiglia e la prevenzione della violenza contro le donne (tutte, indipendentemente dal loro status sociale). Includendo al suo interno anche il riferimento alla Convenzione di Istanbul del 2011, la Turchia si dimostra dunque impegnata, almeno in materia di diritto, nell’adeguarsi ai canoni stabiliti dalla Commissione europea come requisiti per l’adesione. Ma certo sarà necessario più tempo perché tale adeguamento si traduca anche nei valori della sua società.

Questione di “velo” Secondo un sondaggio del 2010, oltre il 60% delle donne in Turchia usa il velo. Il divieto di indossarlo, al contrario di quanto si pensi, non è stabilito dalla Costituzione né tantomeno imposto dal padre fondatore della Repubblica: è vero che Ataturk scoraggiasse l’uso del velo (e anzi passò una legge che vietava di indossare abiti tradizionali ottomani) ma il divieto formale di indossarlo a donne che ricoprivano ruoli istituzionali risale al colpo di Stato del 1980 per mano dell’apparato militare fautore del secolarismo. Un successivo rinforzo al divieto venne dato nel 1998 quando, sempre i militari, estromisero dal governo un Primo Ministro dichiaratamente islamico ed estesero il divieto anche alle studentesse nelle università (ma la restrizione originariamente faceva riferimento non al tesettur turco - un leggero foulard colorato che copre testa e collo - quanto all’hijab arabo che era divenuto simbolo dell’Islam politico). Da allora, i casi di protesta si sono moltiplicati - soprattutto dopo la salita al governo dell’AKP - e la questione ha avuto risonanza nella stampa nazionale e internazionale. Il premier Erdogan ha tentato di annullare il divieto nel 2008, tramite un emendamento costituzionale che difendeva il diritto all’educazione. Nonostante il partito kemalista all’opposizione (CHP) fosse contrario perché la rimozione del divieto attentava al secolarismo della Repubblica, l’emendamento fu approvato dal Parlamento ma successivamente bloccato dalla Corte Costituzionale. Ad oggi, comunque, almeno nelle università il divieto, pur vigente, si è molto affievolito.

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geopolitica

Cipro | di B. Woods

Cipro e i suoi giacimenti offshore di idrocarburi fanno gola a molti. Nonostante la bufera economica al centro del Mediterraneo, è partita la corsa all’oro per fare dell’isola la testa di ponte del gas naturale in Europa 20

L’isola del tesoro

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el 2011 la texana Noble Energy Incorporation, leader mondiale nelle esplorazioni offshore e attiva nelle prospezioni nel Mediterraneo a largo di Israele sin dal 1998 (Leviathan Field), annuncia la scoperta di un giacimento - stimato in oltre 7 trilioni di piedi cubici (tfc) di gas naturale - nel blocco 12 della Zona Economica Esclusiva (ZEE), a sud di Cipro.

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Da allora, sono giunte al governo cipriota 33 offerte da 15 diverse società o consorzi, per ottenere le licenze per esplorazioni nella ZEE. Nel gennaio 2013, l’italiana ENI e la sudcoreana KOGAS, attraverso un consorzio che vede una partecipazione in proporzioni 80% ENI e 20% KOGAS, hanno


geopolitica

Dalla Russia con “amore”

La scoperta dei giacimenti off-shore a sud di Cipro ha riacceso le dispute, mai sopite, con la Repubblica Turca di Cipro Nord ottenuto licenze per esplorazioni nei blocchi 2, 3 e 9. Mentre in febbraio la Total si è aggiudicata per 100 milioni di euro la licenza per l’esplorazione dei blocchi 10 e 11. Infine, sempre in febbraio, le israeliane Delek Drilling e Anver Oil-Gas Exploration hanno firmato un accordo per l’acquisto del 30% sui diritti di esplorazione di gas e petrolio a largo di Cipro. Quindi, ottime notizie per la disastrata economia cipriota, duramente colpita dalla recessione economica e dai sacrifici imposti per la concessione del prestito europeo di 10 miliardi di euro, necessario per evitare il collasso del sistema finanziario. Sennonché, la scoperta dei giacimenti off-shore a sud di Cipro ha riacceso le dispute, mai sopite, con la Repubblica Turca di Cipro Nord - autoproclamatasi Repubblica dopo l’invasione Turca del 1974 e riconosciuta solo da Ankara - in particolare per il riconoscimento della ZEE. La Turchia, su questo tema, ha una atteggiamento contradditorio: non riconosce la ZEE nel Mediterraneo, ma la invoca nel Mar Nero.

Nicosia, i ciprioti protestano di fronte al parlamento (22 marzo 2013)

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l più volte ventilato aiuto economico russo alla repubblica cipriota - vista la presenza di ingenti depositi bancari di cittadini e società russe, la posizione strategica dell’isola e i giacimenti di idrocarburi - si è rivelato poca cosa. Anche l’offerta di Gazprom (che pure aveva interrotto alla fine dello scorso anno i negoziati per la concessione delle ricerche nel blocco 9) di fornire i mezzi finanziari per evitare il prestito internazionale in cambio della cessione dei diritti sui giacimenti off-shore, non è stata ritenuta accettabile dal governo cipriota. La crisi economica ha paradossalmente riavvicinato le due parti dell’isola, riducendo le distanze tra il Sud greco in profonda recessione e il Nord, in una fase di relativa ripresa in virtù della crescita economica turca degli ultimi anni dopo decadi di recessione. Questa condizione, unita alle pesanti difficoltà economico-sociali della Grecia, potrebbe favorire la ripresa dei progetti di cooperazione, come quello per il prolungamento dell’acquedotto che dalla Turchia rifornirà Cipro Nord, o gli accordi per la fornitura di energia elettrica. Infine la Turchia stessa, che in questo clima di contesa, come ritorsione all’accordo sull’esplorazioni offshore ha congelato ogni collaborazione con ENI: in particolare, ha sospeso il progetto del gasdotto Samsun-Ceyhan che dovrebbe trasportare il greggio dal Mar Nero al Mediterraneo, e ha recentemente auspicato una futura cooperazione con Israele e Cipro per la costruzione di un gasdotto che dai giacimenti mediterranei convogli, attraverso la Turchia, il gas naturale in Europa. Forse la crisi dell’euro e la gestione dei giacimenti offshore potrebbero rappresentare l’occasione per raggiungere finalmente una pace accettabile e porre fine all’instabilità regionale. Sarà così?

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geopolitica

Cipro | di Dario Scittarelli

La sottile linea verde

Dal 1974 la Green Line separa la Repubblica Turca di Cipro del Nord e la Repubblica di Cipro. Anche se dal 2003 è possibile attraversare la frontiera, oggi quella stessa linea sembra dividere sempre più Medio Oriente e Occidente

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mministrata dagli inglesi fin dal 1878, Cipro diventa una colonia dell’Impero Britannico nel 1925, dopo oltre tre secoli di dominio ottomano. L’isola raggiungerà l’indipendenza nel 1960, ma il divide et impera britannico aveva già esacerbato le tensioni tra la comunità greca che mirava all’énosis - l’unione con la Grecia e quella turca che, in risposta, punta alla taksìm,

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ovvero a una divisione dell’isola. I primi scontri armati si verificano già nel 1955 con la nascita dell’EOKA, formazione paramilitare filo-greca di ispirazione nazionalista. Per mantenere il controllo dell’isola, gli inglesi rispondono alle azioni di guerriglia dell’EOKA armando forze turco-cipriote, che si organizzeranno tre anni più tardi nel movimento di resistenza del TMT, finanziato da Ankara.

Nel 1964 i contrasti sfoceranno poi in guerra aperta, richiedendo l’intervento delle Nazioni Unite, il cui contingente è presente sull’isola da allora. L’occupazione turca del nord di Cipro avviene il 20 luglio del 1974, in reazione a un golpe militare sostenuto dall’Atene dei colonnelli (e con il placet di Washington, che, in piena Guerra Fredda,


geopolitica

malvedeva l’adesione di Cipro ai Paesi Non Allineati) volto al raggiungimento dell’énosis. L’isola diventa così teatro di un conflitto tra due Stati membri della NATO. Ma l’intervento turco non va interpretato come un’azione militare di carattere espansionistico, bensì come un atto di orgoglio nazionale in difesa della propria gente. Fino a quel momento, infatti, i turcociprioti erano vissuti in una condizione di apartheid, allontanati dalla vita politica, sociale ed economica del Paese da parte della maggioranza greco-cipriota. In seguito all’occupazione, i circa 170.000 greco-ciprioti che vivevano nella parte settentrionale dell’isola vengono esiliati al sud, a maggioranza greca; i 50.000 turco-ciprioti presenti nell’area meridionale

si rifugiano invece al nord, dove giungerà, tra l’altro, una massiccia ondata migratoria proveniente dall’Anatolia. Nel 1983 il territorio settentrionale si autoproclama Repubblica Turca di Cipro del Nord: riconosciuta solo da Ankara, essa ha tuttavia fin dal 1979 lo status di osservatore presso l’Organizzazione della Cooperazione Islamica, il che equivale a un implicito riconoscimento della sua indipendenza da parte dei Paesi islamici. Nel 2002 Cipro - tutta - è invitata ad aderire all’Unione Europea, ma il Piano Annan promosso dall’ONU per dare un assetto federale all’isola, sottoposto a referendum

nell’aprile 2004, viene accettato solo dal lato turco. Di conseguenza, è solo la parte meridionale dell’isola a entrare de facto in Europa nel maggio dello stesso anno, con una linea verde che separerà non solo musulmani e ortodossi, ma anche economie con gradi di sviluppo molto differenti. Al di là dell’attuale eurocrisi della Cipro meridionale, è il notevole divario economico tra nord e sud a rendere altamente improbabile una riunificazione dell’isola e, con essa, l’ingresso della Turchia in Europa. Ma, a questo, Erdogan pare abbia già rinunciato, tanto che oggi il nuovo confine tra Medio Oriente e Occidente sembra passare proprio per Nicosia.

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a dire il vero... l’analiSi di approfondimento

Operazione Rosenholz Il Grigio

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er anni, nella comunità internazionale dei servizi segreti (o intelligence community, come ama definirsi), si è favoleggiato in merito al colpo da maestro che la CIA avrebbe fatto dopo la caduta del Muro di Berlino quando riuscì a impossessarsi dei file contenenti i nomi di migliaia di spie disseminate nei Paesi occidentali dal servizio segreto estero della DDR (la HVA, diretta per trent’anni da Markus Wolf), a cominciare dalla vicina Germania Federale (RFT). Le voci abilmente diffuse dai vertici di Langley per coprire la vera storia - false o mezze verità parlavano di un agente del KGB russo di stanza nella sede berlinese di Karlshorst che, durante le fasi finali del collasso della DDR nei primi mesi successivi alla caduta del Muro, avrebbe venduto centinaia di cd rom contenenti decine di migliaia di nomi a un agente della CIA che incontrò a Varsavia. Queste voci vennero fatte filtrare alla stampa e per oltre vent’anni sono state la “verità” sul caso degli archivi della STASI (il Ministero della Sicurezza

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Nazionale della DDR diretto da Erich Mielke, di cui faceva parte anche la HVA). La vera storia in realtà è più semplice, più avventurosa e per alcuni versi più paradossale. ecco come andarono le cose Nel pomeriggio del 9 novembre 1989 il Politburo della Repubblica Democratica Tedesca decise di “abolire il visto di uscita” per i cittadini dell’Est che intendevano recarsi all’estero. Nessuno ha mai saputo se si sia trattato di un errore dovuto alla stanchezza o alla tensione o di un calcolo politico rivelatosi suicida. Forse i burocrati del partito non si resero conto che il “visto” più imponente che ostacolava i viaggi dei tedeschi orientali era il Muro di Berlino. Con un tratto di penna, quindi, venne di fatto deciso l’abbattimento del Muro, e fin dalla serata del 9 novembre, decine di migliaia di berlinesi festanti si diressero verso i varchi di accesso alla parte Ovest della città, pretendendo con successo di espatriare senza visto. Mentre la folla di cittadini si riversava dalla parte ormai ex comunista della città verso i quartieri scintillanti dell’opulenta Berlino Ovest, un intraprendente agente della CIA della “BoB” (Base of Berlin: per sottolineare l’importanza strategica di Berlino la centrale della CIA nella città veniva identificata come base e non come stazione) fendeva la corrente umana al contrario per raggiungere il quartier generale della STASI in Normannenstrasse. I tetri edifici nei quali oscuri funzionari per decenni avevano terrorizzato i cittadini di tutta la Germania Orientale giocando spregiudicatamente con “le vite degli altri”, erano stati abbandonati da tutti i vertici e i quadri dirigenti.


Soltanto una sparuta pattuglia di archivisti e di impiegati di second’ordine occupava ancora alcune delle centinaia di stanze dalle quali era stato coordinato il più imponente apparato di spionaggio e di controspionaggio europeo negli anni della Guerra Fredda. L’agente della CIA si mosse rapidamente e, individuato un archivista, si fece condurre nei sotterranei dove, all’interno di casseforti e di armadi blindati ormai senza protezione, erano custoditi i segreti dell’Est. L’americano si fece consegnare - pagando sull’unghia la somma di 75.000 dollari - tre cassette contenenti 280 cd rom, dentro cui erano chiusi a chiave i nomi di migliaia di agenti inviati dalla STASI a spiare l’Occidente. Le credenziali apparivano ineccepibili: infatti, sui registri d’archivio le cassette erano indicate come contenenti “i nomi degli agenti all’Ovest”. il colpo del secolo Era il colpo del secolo, conseguito tra l’altro pagando una miseria rispetto al valore teorico del materiale comprato. Ma il diavolo, come si sa, si nasconde nei particolari: quando gli americani aprirono i file si trovarono sì di fronte ai nominativi di decine di migliaia di agenti, corredati anche dai rispettivi nomi in codice. Ma nei file non c’era traccia delle attività svolte dalle persone citate, né della loro carriera spionistica né del loro ruolo in Occidente. Per farla semplice, quello che trovarono fu un elenco di nomi e cognomi affiancati dal solo nome in codice. Ad esempio, si leggeva di Martin Schmidt detto “Mirtillo”, ma non una sola notizia su come “Mirtillo” fosse stato impiegato. Adesso vediamo la seconda parte della storia: mentre il solerte funzionario della CIA si impadroniva dei file (l’intera operazione sarebbe stata nominata “Rosenholz”), anche gli agenti del servizio per la tutela della Costituzione della Germania Occidentale, il BFV (Bundesamt für Verfassungsschutz), non erano rimasti con le mani in mano. Solo che arrivarono a Normannenstrasse con qualche ora di ritardo. Perciò, anche loro misero le mani su centinaia di cd rom ma, quando i tedeschi li aprirono, ebbero una brutta sorpresa: i file contenevano sì i nomi in codice degli agenti della STASI e anche dettagli sui loro campi di attività, ma dei nomi e cognomi reali neanche l’ombra.

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a dire il vero... l’analiSi di approfondimento

il mistero dell’operazione “rosenholz” Riassumendo e semplificando: gli americani sapevano che “Mirtillo” identificava Martin Schmidt, ma non ne conoscevano né il ruolo né l’attività svolta, dunque non sapevano che diavolo avesse combinato durante la Guerra Fredda. I tedeschi sapevano che “Mirtillo” aveva operato all’Ovest, conoscevano i dettagli d’archivio su tutte le sue attività, ma non il nome. Senza riunire le due mezze mele, insomma, nessuno sarebbe riuscito ad avere un quadro completo delle attività dei servizi segreti dell’Est. Molto facile, si dirà: bastava che americani e tedeschi si sedessero attorno a un tavolo e mettessero insieme le due metà della mela. Ma, come si sa, nel gioco degli specchi dello spionaggio e del controspionaggio non esistono amici o alleati, ma soltanto concorrenti. E, in questo gioco, quali che siano le posizioni ufficiali dei rispettivi governi, nessuno offre niente in cambio di niente. Gli americani erano disposti a mettere in comune con i loro colleghi tedeschi i file dell’operazione Rosenholz, a patto che i tedeschi scambiassero la loro metà delle informazioni. I tedeschi rifiutarono immediatamente di condividere le informazioni, perché nella Repubblica Federale, dopo il crollo della Germania Est, era stata varata una rigidissima legge sulla privacy che impediva la diffusione di notizie sulle attività di spionaggio di cittadini tedeschi,

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sigillando i file relativi in un archivio impenetrabile, al quale un singolo cittadino che avesse chiesto di prendere visione del proprio fascicolo di archivio poteva accedere solo previa motivata domanda. In questo modo, le autorità tedesche volevano evitare di mettere in piazza segreti imbarazzanti (niente di strano se si pensa che nella Germania dell’Est metà dei cittadini spiava l’altra metà e che migliaia di tedeschi dell’Ovest avevano lavorato, per ideologia o per denaro, per i cugini orientali). il finale della vicenda In sostanza i tedeschi dell’Ovest, non rivelando i segreti dello spionaggio orientale, volevano evitare di generare accuse e recriminazioni che avrebbero certo destabilizzato una Germania che si andava faticosamente riunificando. Per questi motivi, alla richiesta degli americani di condividere le informazioni, i tedeschi risposero nein e gli americani, offesi, chiusero i loro file nelle valigie e se ne tornarono a Washington. Dal 1990 al 2005 la polemica tra i servizi americani e quelli tedeschi è andata avanti in modo feroce. Solo per questo, sono saltate collaborazioni in territori delicati come il Medio Oriente o l’Afghanistan, e lo strappo non si è ancora ricucito. Anzi, è ancora corso cattivo sangue quando, alla fine degli anni Duemila, gli americani hanno dato ad altri alleati i nomi di loro concittadini trovati nei cd rom della Normannenstrasse (sempre e solo il nome e il codice). Anche i servizi di questi Paesi, quando hanno bussato alla porta tedesca, si sono sentiti rispondere nein. Per cui il cattivo sangue è corso anche tra tedeschi e inglesi, olandesi, danesi. L’operazione Rosenholz è, insomma, un colpo grosso nello spionaggio che ha causato più problemi di quanti ne abbia risolti.



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Italia Conciliare sicurezza e tecnologia Controllo e minaccia informatica

Mondo Riflessioni sull’embargo Il processo sanzionatorio

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Italia |

Quanto

embra una frase banale e forse lo è: la tecnologia cambia le nostre vite. Proviamo a pensare a come i cellulari abbiano cambiato i comportamenti criminali. Negli anni Settanta e Ottanta, l’Italia è stata investita da un massiccio fenomeno di sequestri di persona a scopo di estorsione. Centinaia di persone sono state rapite per motivi economici o politici. Si è parlato di “emergenza sequestri”. Dalla metà degli anni Novanta il fenomeno si è eclissato. È svanito come neve al sole. Perché? Per una migliore capacità di risposta delle

vi sentite sicuri? L’impennata tecnologica si accompagna a un ripensamento delle logiche aziendali e determina la necessità di aggiornare costantemente la sicurezza

forze di polizia e della magistratura? No. Semplicemente perché con l’avvento del telefono cellulare e con la contestuale scomparsa dei telefoni a gettoni, la vita dei rapitori si è fatta più difficile. Rapire una persona è diventato praticamente infattibile, per il semplice motivo che è diventato impossibile comunicare le richieste di riscatto, senza essere immediatamente localizzati e identificati. Pochi giorni fa l’ex segretario di un grande partito politico italiano ha chiesto ai suoi parlamentari di smetterla di farsi “influenzare dagli sms, dai tweet e da Facebook”. Gli smartphone sono riusciti a modificare le dinamiche del rapporto tra eletti ed elettori. Una simile inondazione di novità tecnologiche non poteva non influenzare i profili generali della security. Chi ha visto il LOOKOUT n. 4 maggio 2013

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film Argo ha notato come la Central Intelligence agenti di operare grazie a nuove identità. Nel caAgency in pochi giorni organizzò un’operazione so di Argo, l’operazione prevedeva che gli agenti di esfiltrazione di diplomatici della CIA operassero sotto la coamericani rifugiati all’ambasciapertura di una casa cinematograLo spionaggio ta canadese di Teheran durante fica hollywoodiana. Allora fu un moderno ricorre l’assalto dei pasdaran all’ambasuccesso ma oggi, grazie a (o per ampiamente alla sciata americana (dicembre colpa di) Google, è impossibile 1979) con un’operazione che “human intelligence”. costruire leggende attendibili partiva dalla creazione, in pochi Ogni azienda strategica che non abbiano una loro “stogiorni, di una “leggenda”. dovrebbe provvedere ria” verificabile in rete. Oggi Con leggenda si intende la chiunque può controllare se un alla promozione creazione di una storia di copergiornalista è un “vero giornalidi una consapevole sta” semplicemente cliccando il tura attendibile che consenta a un agente o a un gruppo di cultura della sicurezza suo nome su Google.

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Lo spionaggio moderno, come abbiamo visto, tuttora ricorre ampiamente alla human intelligence, al reclutamento cioè di fonti umane inserite nei settori bersaglio. Per questo, ogni azienda strategica dovrebbe provvedere al suo interno alla promozione e diffusione di una moderna “security consciousness”, ovvero di una consapevole cultura della sicurezza in grado di fornire gli strumenti operativi e culturali per l’aggiornamento costante del personale, impiegato sulle minacce derivanti da tentativi di raccolta illegale di informazioni e sui pericoli che tali tentativi provocano all’azienda e alle persone eventualmente coinvolte.

come ripenSare la SicureZZa Questi esempi illustrano perché anche la sicurezza al livello istituzionale e aziendale debba essere ripensata: 1) La disponibilità del “NOS” (il “nulla osta di sicurezza” rilasciato dall’UCSE) per il personale impiegato nelle mansioni più delicate può non essere sufficiente a garantirne la totale affidabilità in un “mercato” ricco di tentazioni, proprio come un “certificato antimafia” non è in grado di garantire l’immunità di un’impresa dai tentativi di infiltrazione del crimine organizzato. 2) Anche se negli uffici delle istituzioni più delicate come in quelli delle aziende di interesse strategico abbondano le casseforti e le “segreterie speciali”, in ossequio ad antichi e ormai obsoleti codici di sicurezza, ai giorni nostri nulla impedisce a un dipendente infedele di usare il suo telefono cellulare per fotografare con comodo documenti classificati, “prima” di riporli in cassaforte, e di trasmetterli in qualsiasi parte del mondo. 3) Inoltre, se il sistema informatico non è protetto in modo efficace, esso può essere aggredito, in via artigianale, con una pen drive, o con mezzi più sofisticati, dall’esterno degli uffici (abbiamo visto il caso della finta roccia piazzata dal Mossad all’esterno dell’impianto atomico iraniano), oppure ancora a distanza, con una professionale attività di hackeraggio. 4) Alla tutela degli impianti si dovrebbe, quindi, affiancare un’aggiornata serie di misure utili alla tutela del know-how, sia sotto il profilo del controllo del “fattore umano” che sotto quello della difesa tecnologica.

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Se una cassaforte non basta più...

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ttraverso uno screening delle posizioni interne più delicate, la “cultura della sicurezza” andrebbe modulata secondo le esigenze settoriali e diffusa attraverso percorsi di formazione e informazione, differenziati secondo i vari livelli di importanza del personale coinvolto, idonei alla sensibilizzazione e all’aggiornamento di dirigenti, tecnici e personale esecutivo sulle modalità di tutela delle informazioni sensibili e sui rischi derivanti da condotte inappropriate, incaute o illegali. Una buona formazione - che spesso comporta anche una positiva fidelizzazione del personale coinvolto - rende indubbiamente più difficile (e costoso) l’approccio di chi tenta di reclutare informatori qualificati all’interno di un’impresa e rende meno defatiganti e onerose le attività di controllo del personale. Queste ultime dovrebbero, in definitiva, tenere debito conto del nuovo panorama della minaccia informativa che le aziende si trovano ad affrontare in presenza dei rischi derivanti

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dai nuovi strumenti dell’intelligence “globalizzata”. Vista l’indubbia delicatezza del profilo “humint” della minaccia spionistica, se un “file” chiuso in cassaforte non è più al sicuro (per la possibilità che ha di essere fotografato o scaricato direttamente dal computer) occorre ripensare a tutti gli strumenti di tutela fisica e legale della documentazione classificata o comunque delicata così come del patrimonio delle conoscenze aziendali e dei materiali più sensibili, adeguando i controlli ai nuovi livelli della minaccia. Oggi lo spionaggio industriale e scientifico è uno strumento di controllo dei mercati e di risparmio di risorse da dedicare alla ricerca. Accanto alla “humint”, come abbiamo visto, le nuove spie hanno a disposizione una messe imponente di strumenti tecnologici, con i quali occorre confrontarsi nel predisporre moderne barriere di sicurezza. Un adeguato dispositivo di cyber security è altresì essenziale per garantire la sicurezza delle comunicazioni aziendali e dei dati relativi alla ricerca, alle tecnologie e ai progetti strategici. Tutto il panorama delle attività di spionaggio registrate dalla fine della Guerra Fredda dimostra che oggi, più che nel passato, occorre tutelare Stati, istituzioni e aziende non solo dalle attività clandestine di nemici dichiarati e conosciuti, ma anche dalle “attenzioni” di amici e di alleati interessati, ad esempio, a conoscere comunque informazioni classificate o a partecipare in condizioni di illecito vantaggio a gare internazionali, avendo acquisito con l’uso di mezzi finanziari relativamente modesti informazioni sensibili spesso frutto di anni di lavoro e di ricerca scientifica. Perché lo spionaggio è stato definito “il secondo mestiere più antico del mondo”? Perché, al pari del “primo”, esso appartiene alla natura umana, una natura che porta spesso a ritenere che con il denaro si possano ottenere più risultati che con il lavoro.


INSIS SpA is an italian company specialized in designing and manufacturing of multi-technological systems for Civil and Military application. INSIS SpA is able to offer cost-effective and tailored solutions in different areas related to electronics, servo-techniques, electro-optics, high precision mechanics and their conbination. Thanks to its background on system analysis, INSIS SpA is able to provide valuable contribution to the customers according to a flexible and cooperative model, being able By Official acknowledgment of Iyalian Government, INSIS SpA is a National Research Laboratory and it is listed in the Laboratories Register of Italian Scientific and Tecnological Research Ministry since 1997. Since 1999 the Company has been issued by CSQ of the ISO 9001 Certification.


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e ne stanno lì, rinserrati, dietro a una cortina di ferro. Messi all’angolo dalla sospensione dei commerci. Anchilosati nella prigione dell’isolamento economico: sono i Paesi sotto embargo. Totale o parziale, decretato dall’ONU o imposto da organizzazioni regionali come l’Unione Europea, o l’OSCE, o ingiunto unilateralmente come quello storico degli USA contro Cuba. E poi l’embargo contro la ex-Yugoslavia del 1991, seguito da quello alla Libia del 1992, e ancora da quello degli USA all’Afganistan del 2001 dopo l’11 settembre. Infine, i recenti embarghi petroliferi contro l’Iraq e l’Iran. L’embargo è a tutti gli effetti un’arma economica e il Paese che ne viene colpito è costretto a vivere mozzando il fiato, come sotto una soffocante cappa di piombo. Alcuni deflagrano come un ordigno, a seguito dell’innesco di tali misure economiche.

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Mondo | di Giusi Landi

La pistola alla tempia

Riflessioni sull’embargo: pro e contro dei regimi sanzionatori, un’arma a doppio taglio per chi li attua e per chi li subisce Ve ne sono di due tipi: commerciali e finanziarie. Ma sia le une (restrizioni quantitative nelle importazioni e nelle esportazioni) che le altre (congelamento dei fondi, sospensione degli aiuti, espropriazioni, confische, tassazioni discriminatorie, e così via) affondano la lama nel cuore dell’apparato commerciale e finanziario del Paese oggetto delle restrizioni. Questi nodi gordiani di “prepotenza diplomatica” mettono a repentaglio infrastrutture, risparmio, investimenti, beni di prima necessità.

Logorano la spina dorsale di un Paese. Tutto sommato è facile perorare sui soprusi dell’embargo, senza doversi appigliare a inutili lirismi. Sappiamo già, per tragica scienza, che un regime sanzionatorio è una prova di forza, una tattica offensiva, volta a piegare la volontà del nemico e talvolta a indebolirne il regime. Un golpe perfetto senza spargimento di una sola goccia di sangue. Canonico argomento, dunque, su cui sarebbe, forse, ozioso tornare. Sta di fatto che nessuno ha smesso di


SicureZZa

considerarli un abuso. Dotati di un labile ancoraggio nel diritto internazionale pattizio, gli embarghi fluttuano in un mare di ambiguità e indeterminazione. Una forma intermedia tra la semplice concorrenza economica e la guerra vera e propria, che imbozzola gli Stati nelle utilitarie pratiche della violenza negoziatrice. Ciò detto, non sarebbe corretto trattare la questione sotto un profilo esclusivamente etico. Per quanto, in tal senso, intercedono a favore delle misure economiche argomentazioni più che convincenti. In fondo, lo Stato sanzionatore agisce in base a una volontà politica e non secondo una logica di annientamento. L’economia ha sempre costituito una delle cause principali delle guerre (e quindi delle paci). Segno che tra economia e sicurezza - militare e non - sono sempre esistiti intrecci stretti e multiformi. Quanto basta a ribadire che il governante non è privo di etica quando persegue

gli interessi di sicurezza del proprio Stato, ma agisce in base a una “etica della responsabilità”, persuaso che la sicurezza rappresenti l’interesse di tutta la collettività. Manuali di geopolitica ed esperti economisti s’interrogano sulla reale efficacia delle misure di embargo (e delle armi economiche, in genere) e si ostinano a impostare la questione dell’embargo sul piano di un rigoroso bilancio pregiudizi-benefici. Del resto, è nozione unanime che le misure di embargo consentono solo raramente di quantizzarne i costi e i benefici derivanti ai singoli Stati. La decisione di porre in essere una politica delle sanzioni non è “a costo zero”. La politica delle sanzioni carica in capo a ogni Paese una serie di oneri diretti e indiretti. Anzi, l’embargo pare addirittura esacerbare i problemi che ne hanno suggerito l’adozione. A conti fatti, la funzione di leverage dell’embargo non sempre

premia lo Stato sanzionatore, perché genera effetti che, alla lunga, si ritorcono anche su di lui. Sì, perché, gli effetti deleteri del regime sanzionatorio sugli scambi - non può negarsi - ci sono: come gli intermediari avvoltoi, il fiorire del mercato nero, per mancato rifornimento di valuta pregiata, il sordo risentimento della popolazione, strumentalizzato dallo Stato trasgressore per guadagnare sostegno e consenso. I giornali di tono serio parlano di effetto “rally around the flag” che può sfociare nel fanatismo e nel fondamentalismo prodotto proprio dall’embargo. In definitiva, i fatti sono questi: se da una parte lo sviluppo economico e il benessere materiale fungono da fattori di stabilizzazione dello scenario internazionale, dall’altra, l’adozione di misure economiche e commerciali fortemente restrittive finisce per tradursi in un aumento delle tensioni, foriere di possibili instabilità regionali.

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dura lex Sotto la lente del diritto

La legge dell’embargo Draconian

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a sempre concepito come misura sanzionatoria, l’embargo (totale o parziale), determinando la sospensione dei rapporti commerciali con altre nazioni e l’interruzione delle relazioni economiche, si configura come ritorsione (rectius, sanzione) se non comporta la violazione di obblighi internazionali precedentemente assunti. Nel caso sia adottato in violazione di un trattato di commercio, l’embargo assume la forma della rappresaglia ed è consentito esclusivamente in risposta a un atto illecito. La Carta delle Nazioni Unite prevede che il Consiglio di Sicurezza possa decidere l’adozione, da parte degli Stati membri, di misure di embargo contro uno Stato colpevole di una minaccia alla pace, di una violazione della pace o di un atto di aggressione (artt. 39 e 41).

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La misura, inoltre, è considerata anche come atto con il quale uno Stato dispone il sequestro di navi mercantili estere, ancora nei suoi porti o presenti nelle sue acque territoriali, oppure impedisce loro di allontanarsene. È considerata inoltre come misura di pressione politica o, ancor più, come atto di rappresaglia, nel qual caso assume la denominazione tecnica di arret de prince o arret de puissance. Ancora, come vero e proprio atto di guerra, nel qual caso non può essere disposto se non da quando sia scaduto un termine ragionevole entro il quale le navi di commercio battenti la bandiera di uno Stato nemico, ancorate in un porto nazionale o che si trovino nelle acque territoriali dello Stato al momento dell’inizio dell’ostilità, debbano allontanarsene. La natura sanzionatoria delle previsioni di embargo si fonda sul contenuto dell’articolo 41 della Carta delle Nazioni Unite che conferisce al Consiglio di Sicurezza il potere “di decidere quali misure, non richiedenti l’uso delle forze armate, debbano essere prese per dare effetto alle sue decisioni […] comprendendo l’interruzione completa o parziale dei rapporti economici”. Il successivo articolo 42 precisa che “se le misure previste nell’articolo 41 si sono dimostrate inadeguate, il Consiglio può intraprendere con forze aeree, navali o terrestri, ogni azione che sia necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale”. Quindi, la sanzione predefinita (unilaterale, se decisa da un solo stato; multilaterale, quando la


decisione è assunta da un insieme di Stati) è rappresentata dall’interruzione o dalla minaccia di interruzione delle relazioni finanziarie e commerciali, tale da provocare un danno al Paese da colpire (quale, ad esempio, la perdita di un vantaggio di cui disponeva oppure il peggioramento della situazione economica). All’embargo in senso stretto, inteso come sospensione delle esportazioni destinate al Paese colpito, si affiancano: il boicottaggio, consistente nella sospensione delle importazioni; e il blocco, che si sostanzia nell’uso di misure coercitive per far rispettare un embargo o anche il boicottaggio. Discorso a parte va fatto, invece, per il cosiddetto embargo strategico, riferito, cioè, alla sicurezza nazionale e tendente a evitare lo sfruttamento di prodotti e tecnologie che potrebbero aumentare il potenziale aggressivo dello stato da sanzionare. Si tratta di una misura incentrata sulla necessità di limitare la potenza militare dello stato colpito, più che quella economica in senso stretto. il processo sanzionatorio Quanto alla gestione del processo sanzionatorio la storia, anche recente, insegna che le modalità di utilizzo dell’embargo possono essere molteplici, in funzione sia del suo carattere bilaterale o multilaterale, che degli obiettivi concretamente perseguiti. In tale contesto si rivelano fondamentali, per ottenere il

Alcuni casi storici

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el 1990 è stato fatto ricorso all’embargo totale contro l’Iraq, colpevole di un atto di aggressione verso il Kuwait. Le Nazioni Unite inoltre si sono considerate legittimate ad intervenire per reprimere violazioni di diritti umani di particolare gravità, quale l’apartheid, anche se perpetrate all’interno di uno stato come nel caso dell’embargo totale contro la Rhodesia (1968 - 1979) e dall’embargo limitato alle forniture di armi contro la Repubblica Sudafricana (1977). sostegno dell’opinione pubblica, la giustificazione della sanzione e la conoscenza degli obiettivi perseguiti e delle ragioni per le quali sono stati posti a fondamento delle misure sanzionatorie. Una variabile importante è poi rappresentata dal tempo, in grado di far evolvere i rapporti di forza tra stati avversari. Così le sanzioni si possono via via rafforzare e aumentare, incrementando l’effetto cumulativo: in tal caso, lo Stato colpito ha il tempo di adattarsi alla nuova situazione. Al contrario, si possono applicare subito e integralmente: l’effetto è immediato e lo Stato colpito non ha il tempo di adeguarsi. A livello internazionale, pur non essendovi unanimità di vedute sull’efficacia dei due metodi, è generalmente riconosciuto il principio secondo cui più le sanzioni durano nel tempo e meno sono effettive. È certo, però, che l’efficacia degli embarghi resta sempre più affidata alla cooperazione internazionale. Le alleanze tra Stati sanzionanti, infatti, hanno spesso costi politici elevati. Perfino l’applicazione delle sanzioni ONU - imposte ai sensi del capitolo 7 della Carta e quindi tali da dover essere applicate da

tutti i Paesi firmatari - è spesso caratterizzata da logiche di compromesso politico: gli USA ottennero attraverso il Consiglio di Sicurezza il sostegno arabo contro l’Iraq al momento della guerra del Golfo, ma solo annullando il debito militare dell’Egitto e lasciando libertà di manovra alla Siria in Libano. Per il Paese sanzionante, quindi, è più importante impedire azioni perturbatrici da parte di altri Paesi, che ricercare direttamente la loro cooperazione. Peraltro, anche quando si crea, la coalizione rischia di durare poco: i Paesi coalizzati, infatti, osservano quello che un tempo costitutiva uno sbocco per i loro mercati essere ora “occupato” da altri Paesi, spesso ostili (perché il Paese sanzionato cercherà l’aiuto dei Paesi nemici di quelli che sanzionano). Le categorie sociali più colpite dall’embargo protesteranno e l’opinione pubblica potrà fare calare il suo sostegno alle sanzioni a causa delle conseguenze umanitarie sul Paese colpito. Un embargo, anche teoricamente giustificato, dunque, rischia di trasformarsi, come la storia più recente dimostra, in uno strumento sanzionatorio inefficace e facilmente raggirabile.

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economia

Santa Sede Lo Stato della Città del Vaticano è sorto con il Trattato Lateranense, firmato l’11 febbraio 1929 tra la Santa Sede e l’Italia, che ne ha sancito la personalità di Ente sovrano di diritto pubblico internazionale, costituito per assicurare alla Santa Sede, nella Le contraddizioni sua qualità di suprema istituzione

India

di New Delhi

La tigre di carta La legge delle caste indiane

Georgia Gli accordi trilaterali

Cipro Il “cigno nero”

Panama Le incognite della crescita

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economia

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di B. Woods

India |

Un Paese

egli anni successivi all’indipendenza dal Regno Unito (1947), l’India è stata coinvolta in diversi conflitti locali (Maldive, Sri Lanka, etc.) e ricorrenti guerre regionali, legate a contese territoriali, sia con il Pakistan (1947, 1965, 1971, 1999) che con la Cina (1962). L’India fronteggia, infine, da alcuni decenni movimenti armati indipendentisti in diversi stati e distretti: Naxatile, Esercito Popolare di Liberazione, Mujahideen e Lashkar-eTaiba sono solo alcuni esempi. In questo scenario, le spese per gli armamenti sono cresciute ininterrottamente (+38% negli ultimi cinque anni) tanto da collocare l’India al primo posto tra gli acquirenti mondiali (oltre il 10% del volume globale delle vendite di armi, secondo lo Stockholm International Peace Research Institute). Nonostante la crescente spesa per gli armamenti convenzionali e le oltre 80 testate nucleari attribuite all’arsenale indiano, prestigiosi think tank ritengono che “nel Paese manchi la

tutto da coltivare L’efficacia delle politiche di un Paese che insegue prepotentemente la crescita, si vedono anche dalla capacità di tradurre tutto ciò in un benessere duraturo e un progresso tangibile per la popolazione

cultura atta a perseguire un’attiva politica della sicurezza [...] i politici e i burocrati mostrano scarso interesse nella strategia di grande potenza [...] e il ministero della Difesa mostra una cronica carenza di esperienza militare” (The Economist n. 8829, 2013). LOOKOUT n. 4 maggio 2013

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economia

Il dizionario Alle quattro originarie caste tradizionali che comparvero in India già nel primo Millennio a.C. - brahmani (sacerdoti), kshatrya (guerrieri), vaishya (mercanti e artigiani) e shudra (servi) - si aggiungevano i paria o intoccabili, cosiddetti “fuori casta” e considerati d’infimo rango. Le successive distinzioni e sottocaste hanno reso la società indiana estremamente complicata. Pur se la Costituzione indiana moderna (1950) considera illegale la divisione in caste, permane nel Paese una forte discriminazione sociale.

Tutto ciò si traduce in sprechi come lo sviluppo del carro Arjun, in fallimenti come il progetto per il nuovo caccia che si trascina da oltre 20 anni, e in episodi diffusi di corruzione, che ipotecano pesantemente l’efficienza e l’efficacia di imponenti spese militari, confinando così l’India al ruolo di potenza regionale. Tanto per capire, la Repubblica indiana, con il suo miliardo e 200 milioni di abitanti, è al decimo posto nella graduatoria mondiale del prodotto interno lordo, con un Pil pari a 1.847,977 miliardi di dollari. Nella medesima classifica, la povera Italia, nonostante i suoi soli 60 milioni di abitanti, è invece all’ottavo posto, con 2.193,971 miliardi di dollari. In India, agricoltura e pesca impiegano il 50%

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della forza lavoro e producono il 12% del Pil, mentre il terziario e l’industria si dividono il restante 50% della forza lavoro producendo rispettivamente il 60% e il 28% del Pil. Dal 2000 al 2009, il prodotto interno lordo indiano è cresciuto in media dell’8% annuo, tanto da qualificare l’India come uno dei Paesi emergenti più promettenti. Tuttavia, la crisi mondiale del 2008 ha prodotto una brusca frenata nella crescita indiana (+2,4% nel 2010), anche se il Paese sembra essersi lasciato alle spalle la crisi (+6,8% nel 2012) e ha evidenziato, semmai, alcune criticità che ne condizionano la sostenibilità e la capacità di resistere agli shock esterni. Dunque, l’India continua a essere essenzialmente un Paese agricolo, su cui pesa la prospettiva


economia

di una crescente inflazione in particolare in questo settore, con una crescita economica strutturalmente debole che ha fatto sì che una parte estesa della popolazione sia sotto-occupata in settori a bassa paga e a bassa produttività, con un conseguente precario accesso ai servizi essenziali (sanità, educazione, etc.). La crescita economica ha, inoltre, accresciuto le disuguaglianze sociali e mantenuto una larga parte della popolazione al di sotto della povertà, sia essa definita con parametri nazionali o internazionali. Infine, l’India deve fronteggiare un massiccio fenomeno di urbanizzazione che porterà, entro il 2030, il 40% della popolazione complessiva nelle aree urbane, il doppio di quanto registrato nel 2000. Alla luce di tutto ciò, anche dal punto di vista economico, qualificare l’India come una “grande potenza” appare quanto meno avventato.

La tigre di carta

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e agenzie di rating, come S&P e Fitch, confermano l’outlook negativo indiano, nella prospettiva di un nuovo declassamento dall’attuale BBB-. Il panorama può essere così sintetizzato: l’India presenta un tasso di disoccupazione del 10%, il debito dello stato centrale è al 70% del Pil, mentre il deficit si attesta al 6%. La bilancia dei pagamenti, nonostante le forti rimesse, mostra un saldo negativo pari al 4,2% del Pil (circa 80 miliardi di dollari), mentre il tasso di inflazione ha raggiunto l’8,8%. È innegabile che, nello scorso decennio, l’India abbia compiuto dei progressi in termini di lotta alla povertà (che si è ridotta dal 37,2% del 2004-05 al 29,8% del 2009-10, mentre nello stesso periodo la povertà agricola si è ridotta dal 41,8% al 33,8% e quella urbana è passata dal 25,7% al 20,9%), grazie all’ingresso di 9 milioni di nuovi occupati l’anno. Tuttavia la ripresa economica indiana mostra segni di preoccupante debolezza, in particolare nella formazione di capitale, dovuti a: - presenza di strozzature nella produzione di energia (l’India è il quarto consumatore mondiale di energia, ne importa oltre il 26% con un tasso di elettrificazione del 66% ed oltre 400 milioni di persone senza accesso); - carenza di infrastrutture (la World Bank stima in mille miliardi di dollari le spese necessarie per infrastrutture nei prossimi cinque anni); - ritardi nella formazione del capitale umano (il numero di anni scolastici frequentati nella popolazione maggiore di 15 anni è pari a 5, inferiore persino ai 6 del Sud Africa e agli 8 della Cina). Permane, nonostante l’innegabile ottima performance del settore della ricerca e sviluppo (R&S), la scarsa attenzione agli investimenti nel settore - circa lo 0,7% del Pil - e la cronica debolezza nel settore IT, che potrebbero mettere in discussione il ruolo di hub globale per i servizi ad alta intensità di conoscenza in outsourcing.

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economia

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impennata economica indiana reca con sé alcuni aspetti tra loro fortemente contrastanti. Da un lato, c’è il boom economico che ha fatto registrare nel Paese una crescita che ha del miracoloso e ha improvvisamente portato i Dalit (ovvero la casta dei paria, gli Intoccabili “oppressi”, gerarchicamente la più bassa) dalle più infime posizioni della scala sociale indiana a una condizione senza precedenti che, dalla miseria più nera li ha proiettati fino al rango di milionari. Dall’altro, c’è il divario insanabile tra i diversi gruppi sociali. Quello che è stato salutato in patria come un “periodo d’oro” per i Dalit, e che ha ristretto la forbice salariale della casta degli Intoccabili rispetto alle altre (i Dalit hanno persino una loro Camera di Commercio e Industria a Mumbai), si è però presto affievolito a giudicare dai dati sulle percentuali di proprietà che, pur crescendo, restano bassi e non favoriscono una piena ascesa sociale della nuova “middle class”; un fenomeno trasversale che

Gli ultimi saranno i primi?

India |

Al boom economico indiano non si è ancora accompagnato un processo di democratizzazione interessa tutta l’India, indipendentemente dalla regione oggetto del campione statistico. Il fatto che ancora oggi i membri della caste più alte si rifiutino di lavorare con i membri delle caste inferiori è un fattore culturale che poco ha a che fare con l’economia ma che è destinato a incidere molto su quest’ultima (senza contare il montare di movimenti sociali per porre fine alla discriminazione di casta). L’esempio dei Nadars, però, può essere utile a comprendere come la tendenza in campo economico sia inclusiva delle caste inferiori, anche se il fenomeno integrativo richiederà molto più tempo di quanto si creda: fino a circa

L’ascesa dei Dalit

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ell’Uttar Pradesh, lo Stato settentrionale indiano e il più popoloso di tutta l’India, la percentuale di Dalit che possiede un’attività propria è passato dal 6% al 36,7% (Uttar Pradesh occidentale), e dal 4,2% al 11% (Uttar Pradesh orientale). La percentuale di Dalit che è passata della occupazioni tradizionali come il ciabattino o il sarto o il muratore, a quelle non tradizionali, come l’imprenditore, è salito dal 14% al 37%, a est, e dal 9,3% al 42% a ovest di questo Stato. Il lavoro forzato cui erano obbligati nei decenni passati ha conosciuto così una diminuzione dal 32,1% al solo 1,1% e le famiglie contadine impegnate in agricoltura sono scese di oltre il 20%.

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di Devendra

150 anni fa la casta dei Nadars era pressoché a uno stadio molto vicino a quello degli Intoccabili. Mentre oggi, i Nadars rappresentano una comunità imprenditoriale di primo piano in India, cresciuta fino a superare i dieci milioni di appartenenti e i cui membri occupano stabilmente ruoli dirigenziali in campo economico, politico, accademico e sociale. Basterà l’ascesa economica delle caste inferiori a pacificare le tensioni sociali e le mille contraddizioni in seno a questo Paese? Molto dipenderà dalle percentuali di crescita dell’India stessa: se l’economia dovesse rallentare, il processo di democratizzazione e livellamento sociale sarà il primo ad arrestarsi.


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economia

Georgia |

Ménage à trois di Giuseppe Mancini

Nella ricca e controversa Asia Centrale, si nota un fermento economico e pattizio che ha pochi precedenti. Gli obiettivi sempre più ambiziosi dei suoi primi attori richiedono ora cooperazione e condivisione

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e intese trilaterali, più o meno istituzionalizzate, sono uno degli strumenti privilegiati della diplomazia recente di Ankara. Le propone costantemente ai suoi interlocutori il ministro degli Esteri Ahmet Davuto lu: per iniziative di mediazione e confidence-building, come nel caso di quella duplice tra Turchia-BosniaCroazia e Turchia-Bosnia-Serbia; per consultazioni periodiche su temi di comune interesse, ad esempio la trilaterale Turchia-Azerbaijan-Iran; per progetti ambiziosi di cooperazione economica e politica su base regionale, come quella tra Turchia, ancora Azerbaijan e Georgia. Il primo incontro di questo nuovo gruppo si è tenuto lo scorso anno a Trabzon; il secondo, in ritardo di un semestre rispetto a quanto preventivato, il 28 marzo a Batumi sul mar Nero: con la partecipazione di Davuto lu, della padrona di casa Maia Panjikidze, del loro omologo azero Elmar Mammadyarov. Già nella dichiarazione di Trabzon dell’8 giugno 2012 - il documento fondativo della trilaterale - le parti hanno fatto esplicita la loro volontà di trasformare il Caucaso meridionale in un’area

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di “stabilità e prosperità”: ancorata ai meccanismi di sicurezza e cooperazione atlantici ed europei, solcata dai corridoi multi-dimensionali e trans-europei - energia, trasporti, comunicazioni - lungo gli assi Est-Ovest e Nord-Sud. L’obiettivo primario e preliminare è la risoluzione dei conflitti regionali, “pacifica e nel più breve tempo possibile”: quello del Nagorno-Karabakh, che oppone l’Azerbaigian e l’Armenia; quelli dell’Abkhazia e dell’Ossezia meridionale, che dividono Georgia e Russia. In effetti, proprio all’indomani della guerra lampo russo-georgiana (nell’agosto 2008) il premier turco Recep Tayyip Erdogan aveva proposto la creazione di una “Piattaforma per la cooperazione e la stabilità nel Caucaso”, con l’inclusione


economia

di tutti e cinque gli Stati della regione: il progetto non è mai decollato, la trilaterale TurchiaAzerbaijan-Georgia è una sorta di “piano B” che non esclude, per il futuro, il coinvolgimento di Russia e Armenia. Ankara, Tbilisi e Baku rivendicano in ogni caso il principio di intangibilità dei confini: in opposizione, cioè, alle aspirazioni di Erevan e Mosca. Il comunicato congiunto di Batumi mette in evidenza la dimensione economica, considerata il punto di partenza per una “più profonda integrazione regionale”: esempi emblematici di questa cooperazione trilaterale sono l’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan e il gasdotto Baku-Tbilisi-Erzurum, già realizzati; oppure la linea ferroviaria Baku-Tbilisi-Kars, che costituirà uno dei tasselli della “via ferrata della Seta” tra Londra e la Cina, e avrà un’importanza fondamentale nel ritiro delle truppe alleate dall’Afghanistan a partire dal 2014. In più, non mancano richiami a nuovi progetti energetici, alle fonti rinnovabili, all’assistenza umanitaria e alla sanità, alla preservazione del patrimonio storico condiviso, agli scambi cultural-accademici e sportivi, per il

Il premier turco Erdogan con il presidente dell’Azerbaijan Ilham Aliyev, 26 giugno 2012

diretto coinvolgimento della “società civile”; ed è stato già attivato un business forum dedicato alle piccole e medie imprese: la terza edizione - dopo quelle in Georgia e in Turchia - si terrà in Azerbaigian tra qualche settimana. Tutte le iniziative concordate sono raccolte in un action plan triennale, e il prossimo incontro della trilaterale è previsto nel secondo semestre del 2013 seguendo la rotazione stabilita. A Batumi si è anche parlato di abolizione dei visti, nell’ambito di una vera e propria area di libero scambio: la costante ricetta di Davuto lu

per stabilizzare le periferie della Turchia - Balcani, Asia centrale, Medio oriente - “ripristinando le connessioni del passato”. Ma il 28 marzo c’è stato un imprevisto: le esercitazioni militari a sorpresa decise dal presidente russo Vladimir Putin (settemila soldati e 36 navi) proprio nella regione del mar Nero. Una coincidenza o un esplicito messaggio? La Georgia a scanso di equivoci è corsa ai ripari, almeno retorici: e ha ipotizzato la partecipazione di Turchia e Azerbaijan alle esercitazioni con gli Stati Uniti previste per l’anno prossimo.

Il dizionario In attuazione della dichiarazione di Trabzon, a Batumi (Georgia, capitale della regione dell’Agiaria) è stato approvato il Piano di Cooperazione Trilaterale per il triennio 2013-2015, orientato a determinare azioni concrete e piani di cooperazione in tutti i settori principali di interesse comune azero-georgianoturco. Oltre al rafforzamento dei legami economici e commerciali, si è sottolineata la necessità del ritorno sicuro e dignitoso dei rifugiati e degli sfollati ai loro luoghi di origine.

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economia

Cipro | di B. Woods

Il canto del “cigno nero”

Crisi e ristrutturazione: basterà la ricetta europea a salvare un Paese e un intero sistema bancario che non riesce a realizzare profitti?

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a strenua opposizione del parlamento e del popolo cipriota all’introduzione di una tassa generalizzata sui depositi bancari, ha fatto sì che venissero riviste le condizioni poste alla concessione del prestito di 10 miliardi di euro necessario a evitare il collasso del sistema finanziario da parte di Fondo Monetario Internazionale, Banca Centrale Europea e della Commissione Europea (la cosiddetta “Troika”). I nuovi accordi del 25 marzo

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prevedono: la protezione dei depositi fino a centomila euro, in linea con la garanzia offerta ai depositi bancari in tutta l’area euro; la divisione della Laiki Bank o Banca Popolare di Cipro, in una banca buona che raccoglierà il deposito fino a centomila euro; attività “buone” per 9 miliardi di euro, assorbite dalla Banca di Cipro (BoC) e da una banca “cattiva”, che invece verrà liquidata. Per i depositi oltre i centomila euro, è prevista una ‘perdita secca’ del 60%, così articolata: conversione del 37,5% del valo-

re in azioni della banca (BoC) e congelamento di un ulteriore 22,5%, in attesa della definizione di un credibile piano di ristrutturazione patrimoniale. Il memorandum di accordo firmato dal governo cipriota per ottenere il rifinanziamento europeo prevede inoltre: aumento delle tasse sui depositi; contributo di solidarietà sui redditi e pensioni del settore privato fino al 3,5%; aumento dei contributi sociali dal 6,8% al 7,8%; introduzione di una tassa fissa sulle società; abolizione del cap sulle imposte societarie.


economia

Il piano di salvataggio

In questo scenario, la crisi di Cipro offre lo spunto per una riflessione più ampia sulla possibilità che il crollo del sistema finanziario possa verificarsi in altri Paesi dell’area euro che posseggono sistemi bancari le cui attività sono multipli del proprio Prodotto interno lordo (PIL). Un recente articolo pubblicato dal prestigioso thinktank europeo Bruegel risponde categoricamente “no” al sinistro e inquietante quesito. La spiegazione di una simile conclusione è sorprendentemente semplice: a differenza delle banche cipriote, le banche degli altri Paesi realizzano profitti. La motivazione può sembrare convincente ma, a ben guardare i dati allegati, sorge più di qualche dubbio. Il Lussemburgo ha, in termini percentuali, un settore bancario molto più esteso (oltre 20 volte il PIL) di quello cipriota (8 volte il PIL) che, viceversa, è simile a quello maltese e irlandese, nonché un po’ più ampio di quello danese e del Regno Unito (5 volte il PIL). Nel biennio 2009-2010, la profittabilità delle

la criSi di cipro impartiSce alcune fondamentali leZioni: 1) Anche i depositi bancari nel sistema finanziario attuale, se le banche non sono pubbliche, sono attività rischiose; 2) La protezione dei depositi fino a centomila euro si basa sul fondo di garanzia europeo (Deposit Guarantee Schemes) la cui capacità di far fronte a una crisi sistemica, in assenza di una banca centrale europea prestatore di ultima istanza, è alquanto vaga; 3) Gli stress test sulle banche europee sono inutili e dannosi, visto che Laiki Bank, Banca di Cipro ed Hellenic nel 2011 avevano superato i test; 4) Per i Paesi dell’area euro, la soluzione dei problemi può venire solo dall’Europa. Infatti, il tanto invocato aiuto russo, non solo si è rivelato tardivo (8 aprile 2011), cioè dopo il varo del piano di aiuti europeo, ma anche modesto (un allungamento della scadenza di 5 anni e una riduzione del tasso d’interesse dal 4,5% al 2,5% sul debito di 2,5 miliardi contratto nel 2011); 5) I paradisi off-shore possono collassare e trasformarsi in inferni finanziari.

banche cipriote era considerata da record e le sofferenze bancarie erano in linea con quelle di Regno Unito e Danimarca e comunque inferiori a quelle maltesi. Lo scenario cambia drasticamente nel 2011, in concomitanza con l’aggravarsi della crisi greca e la ristrutturazione del debito sovrano ellenico: il sistema bancario cipriota ha in pancia un’enorme quantità di titoli pubblici greci che inducono perdite spaventose (4,5 miliardi di euro) e devastano i bilanci. La crisi del settore immobiliare e la riduzione dei flussi turistici producono una sostanziale stagnazione economica, che rende impossibile al governo il rifinanziamento delle banche. Quindi, in un solo semestre la crisi precipita e vanifica stress test e profitti. Qual è oggi la situazione dei sistemi bancari ipertrofici? Le banche, in particolare quelle

del Regno Unito, stando alle raccomandazioni della commissione Vickers hanno indici di capitalizzazione inadeguati, il Return on Assets (ROA) è zero o inferiore all’1% e le sofferenze, con l’eccezione del Lussemburgo, sono simili a quelle delle banche cipriote nel biennio 2009-2010. Alla luce di tali considerazioni, la risposta al quesito se Cipro sia un cigno nero è meno categorica e vacilla nell’incertezza sulla composizione degli attivi bancari e dell’adeguatezza del capitale proprio.

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economia

Panama |

La crescita panamense

di Hugo

Aumento del debito estero, disuguaglianza sociale, gestione politica fiscale e monetaria, sono le prossime sfide da vincere

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aragonato agli altri Paesi del Centro America, negli anni della crisi economica globale Panamá è comunque riuscita a mantenersi su buoni standard di crescita registrando un +3.2% nel 2009, +7,6% nel 2010 sino stabilirsi su un +10,5% nell’ultimo biennio 2011-2012. Numeri che dimostrano la capacità di reazione dell’economia panamense soprattutto nelle situazioni difficili. Un andamento che però non dovrebbe sorprendere nessuno, considerato che dalla nazionalizzazione del Canale nel 2000 l’economia nazionale non si è più arrestata aprendosi agli sconfinati mercati dell’Asia e dell’Oceano Pacifico. In un quadro del genere, gli interrogativi però non mancano. Anzitutto occorre capire come Panamá saprà rispondere all’aumento della domanda interna (basti pensare ai progetti di ampliamento del Canale) e del debito estero. In secondo luogo, occorrerà verificare se questa crescita avrà degli effetti positivi anche per la popolazione, o se si tratta

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dell’ennesima bolla finanziaria gonfiata da prestiti e investimenti esteri di cui qualcuno chiederà presto il conto. Nonostante il tasso di povertà “ordinaria” sia sceso dal 48,5% del 2002 al 27% nel 2011 (mentre la povertà “estrema” è passata dal 21 all’11% nello stesso periodo), la disuguaglianza tra la classe ricca e quelle meno abbienti resta relativamente alta. Vale per tutti l’ordinaria discriminazione attuata nei confronti delle comunità indigene delle zone rurali, che hanno un accesso notevolmente limitato ai servizi d’istruzione di base, all’elettricità e alle cure sanitarie rispetto ai residenti nei centri urbani. Oltre alla povertà e alle discriminazioni etniche e di classe, pesa anche l’elevato tasso di disoccupazione. Tre fattori, che se miscelati a una possibile crisi politica o economica, potrebbe innescare dei conflitti sociali difficili da controllare. Altra questione è quella legata alla gestione della politica fiscale e monetaria. Il futuro dell’assetto macroeconomico di Panamá dipende infatti dalla capacità del governo guidato

dal luglio del 2009 dall’imprenditore italo-panamense Ricardo Martinelli di mantenere gli attuali livelli di crescita coprendo gli investimenti pubblici e privati e controllando la spesa pubblica. Preservare questo equilibrio garantirebbe al Paese di non essere travolto nella spirale dell’inflazione, un rischio sempre dietro l’angolo per un Paese piccolo, con una modesta popolazione (non supera i 3.500.000 abitanti) e con una base produttiva fragile. La sfida è quella di realizzare un sistema produttivo sostenibile, capace nel medio-lungo termine di autoalimentarsi e riuscire progressivamente ad affrancarsi dai prestiti esteri anche attraverso nuovi incentivi alle attività private. Ciò dovrà però andare di pari passo con la creazione di una rete di protezione sociale più efficace, in grado di alleggerire il tasso di povertà, allargare l’accesso della popolazione ai servizi sanitari e all’istruzione, produrre nuova occupazione e distribuire in maniera più equa la ricchezza. Indios compresi.


do you Spread? voci dal mercato globale

I russi parlano boliviano

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Sopra: Evo Morales a colloquio con Vladimir Putin Pagina precedente: le nuove chiuse del progetto di espansione del Canale sul lato Pacifico (Panama City)

uando si parla di gas in Sud America, con il suo miliardo e mezzo di metri cubi la Bolivia è uno di quei Paesi emergenti da tenere d’occhio nei prossimi anni. Soprattutto se si considera che, stando alle ultime stime, a queste latitudini la domanda della materia dovrebbe continuare a crescere specie in Argentina e Brasile, che solo nel 2011 hanno comprato da Bogotà rispettivamente 9,7 e 3,6 milioni di metro cubi di gas. Da più di cinque anni su quest’area ha puntato gli occhi Gazprom. Fiutando l’affare prima di altri competitor, nell’ottobre del 2007 il colosso energetico russo ha infatti inaugurato due sue succursali in Venezuela e Bolivia, dove ha sottoscritto un accordo di collaborazione con la compagnia petrolifera di Stato YPFB (Yacimientos Petrolíferos Fiscales Bolivianos). L’intesa prevede l’avvio di una larga cooperazione per lo sfruttamento del parco di idrocarburi boliviano, con la possibilità di investire nella realizzazione di nuove infrastrutture, produrre GNL (Gas Naturale Liquefatto) e trasferire le competenze necessarie agli

ingegneri e ai tecnici boliviani. Meno di un anno dopo, nel marzo del 2008, Gazprom e YPFB sono tornate a sedersi a un tavolo raggiungendo un accordo quadro che ha consentito alla società russa di esplorare il sottosuolo bloviano, mettendo di fatto le mani sulle aree di Sunchal, Azero e Carohuacho. Nel settembre del 2008 lo studio dell’area di Azero è stata al centro di un accordo trilaterale tra Gazprom, YPFB e la succursale boliviana di Total E&P. Da qui è stato mosso il primo concreto passo verso la creazione di un’unica società per l’estrazione e lo sfruttamento di idrocarburi in Bolivia, di cui ad oggi Gazprom detiene quasi il 20% delle quote di partecipazione. Un altro patto a tre è stato stretto nel febbraio del 2009 da Gazprom, YPFB e VNIIGAZ (oggi anch’essa controllata dai russi) allo scopo di elaborare un piano generale per lo sviluppo dell’industria del gas boliviano fino al 2030. Qualche giorno dopo, Gazprom e il ministero di Idrocarburi e dell’Energia boliviano hanno implementato il primo accordo sottoscritto nel 2007 con YPFB. Nel settembre 2010, invece, i russi hanno subappaltato al 60% ai francesi della Total i lavori di esplorazione delle aree di Ipatí e Aquio e concesso un altro 20% agli argentini della Tecpetrol. L’accordo è stato aggiornato a inizio aprile di quest’anno. Sempre ad aprile il Congresso Nazionale boliviano ha approvato una legge attraverso cui viene concesso a Gazprom di sfruttare i ricchi giacimenti di Incahuasi, dove sarebbero custoditi 176.000 milioni di metri cubi di gas e 15 milioni di tonnellate di condensato. Insomma, ormai i russi sono di casa a Bogotà e non hanno alcuna intenzione di fermarsi. Per la Federazione Russa, d’altronde, quella di Gazprom è una presenza fondamentale per la sua espansione energetica in tutto il Sud America. L’obiettivo di Mosca a breve termine è l’estensione del proprio giro d’affari verso il Brasile, l’Uruguay e il Paraguay.

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un libro al meSe a cura di @roccobellantone

coSì dicono Radio Venezia Giulia di Roberto Spazzali Editrice Goriziana 2013 pp. 234 24,00 euro

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ggi 3 novembre, giorno di San Giusto e anniversario della redenzione di Trieste, una voce libera parla finalmente agli italiani della Venezia Giulia; dopo anni di oppressione fascista, nazista e sedicente progressista. Una trinità che soltanto nel nome si distingue: ma che nella sostanza e nella forma è identica”. Così parlò per la prima volta nell’autunno del ’45 Radio Venezia Giulia, on air sulla frequenza 1380 kHz di Venezia. L’unica emittente clandestina italiana del dopoguerra, nata su proposta del Comitato di liberazione nazionale giuliano e sostenuta dal ministero degli Esteri, venne allestita per garantire l’informazione e il sostegno psicologico alla popolazione italiana della regione Venezia Giulia e dare un segnale ai compatrioti residenti a Istria rastrellati dai soldati di Tito. Un’esperienza di resistenza formidabile, di cui parla il libro Radio Venezia Giulia. Informazione, propaganda e intelligence nella guerra fredda adriatica (1945-1954), firmato dallo studioso Roberto Spazzali per l’Editrice Goriziana. Dentro c’è la storia di questa radio e dei giornalisti che hanno dato pensieri e voce alle sue trasmissioni: da Pier Antonio Quarantotti Gambini, il primo direttore, a Ugo Milelli, corrispondente del Corriere della Sera, al console Justo Giusti del Giardino, che si occupò anche di sviluppare una rete di informazione sui territori occupati.

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LOOKOUT n. 1 febbraio 2013

lavoro “ Ilèmio impedire alla Gran Bretagna di diventare rossa margareth thatcher (1925 - 2013)

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olei che fu leader del Partito Conservatore inglese e primo ministro del Regno Unito dal 1979 al 1990, resta ancora oggi l’unica donna ad aver abitato al numero 10 di Downing Street. Forse anche per via di quel carisma difficilmente eguagliabile e di quella forza persuasiva che fece dello “stile Thatcher” un marchio di fabbrica (anche discutibile) in tutto il mondo e un esempio di incrollabile tenacia nel consesso politico-diplomatico internazionale. Da qui il nomignolo “the iron lady”, coniato appositamente per lei da Krasnaja Zvezda, il quotidiano ministeriale delle forze armate sovietiche (prima) e russe (poi) che, volendo insultarla per l’astio dimostrato dalla Thatcher nei confronti dell’Unione Sovietica, le fece invece un inaspettato regalo, consegnando alla storia un nome che senza dubbio accrebbe la fama e la considerazione della Signora ministro, poiché dipinse meglio di chiunque altro la sua caratteristica principale: l’inflessibilità.



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