Lookout magazine n5 giugno 2013

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geopolitica

Il Pakistan di Sharif

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SicuReZZa

Le ex repubbliche sovietiche

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economia

L’isolamento della Merkel

anno I - n. 5 giugno 2013

Ha già vinto

lui

La Guida Suprema dell’Iran, Ayatollah Ali Khamenei, ha ipotecato le elezioni per il dopo Ahmadinejad SPECIALE ELEZIONI


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SommaRio

geopolitica 8 Chi può vincere

e chi ha già perso 14 Fuori dai giochi 17 Teheran, osservata

speciale di Washington 18 Un futuro conservatore 20 Divampa lo scontro

tribale 24 Il “soft power” cinese

SicuReZZa 28 Le repubbliche

40 economia

dimenticate 32 Di chi è questa

guerra?

40 La solitudine

della Cancelliera

33 Il puzzle post sovietico

44 Clima di pace?

38 Il tramonto

46 Se il “colibrì”

del chavismo

ha ripreso il volo

RubRiche 26 l’aRaba fenice Donne, società e i tanti volti dell’Islam 34 duRa lex Sotto la lente del diritto 48 do you SpRead? Voci dal mercato globale 50 politicamente ScoRRetto Quello che gli altri non dicono

inoltRe 6 mappamondo

14

50 un libRo al meSe 50 coSì dicono

LOOKOUT n. 4 maggio 2013

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L’editoriale

L’importanza geopolitica di Asia e Medio Oriente

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ormalmente un mensile non può inseguire per motivi tecnici l’attualità. In questo numero noi abbiamo però deciso di correre comunque un rischio: non soltanto inseguiamo i fatti di cronaca, ma ci spingiamo oltre, analizzando ciò che verrà. A metà giugno in Iran ci saranno le elezioni politiche. Non si sa chi vincerà, ma i giochi sembrano comunque fatti. Vista l’importanza del dopo elezioni a Teheran, abbiamo voluto quindi spostare la luce dei nostri riflettori sull’Asia meridionale e centrale. È uno scacchiere che giocherà a breve e medio termine un ruolo fondamentale negli equilibri internazionali, e che sarà in grado di sviluppare nuove e importanti relazioni internazionali in Medio Oriente, e tra la Russia e il resto del mondo. Non abbiamo risposte precise ma i nostri lettori avranno buoni elementi di riflessione. Altrettanti spunti potranno venire dal nostro tentativo di portare fuori dal cono d’ombra le vicende di quelle repubbliche dell’ex URSS che alla caduta dell’impero sovietico hanno provocato una serie di piccole guerre regionali. Guerre dimenticate ma che ancora condizionano la stabilità dell’ex Unione Sovietica e pongono gravi ipoteche sulla stabilità di regioni attraversate da gasdotti, vie del petrolio e traffici di droga. In un recente convegno organizzato dalle piccole e medie imprese italiane, l’addetto commerciale dell’ambasciata del Pakistan a Roma ha invitato i nostri imprenditori a investire nel suo Paese. Un Paese che attua “friendly policies” verso gli imprenditori stranieri ma che - e su questo il diplomatico ha sorvolato - è uno dei posti più pericolosi del mondo. Il nostro focus sul Pakistan potrebbe essere utile a comprendere questo “mercato” attraente e pericoloso.

mario mori


inbox il diRettoRe editoRiale RiSponde

La spy story tra Russia e USA: chi ci guadagna? Il caso dell’agente della CIA arrestato a Mosca è il classico sgambetto tra diplomazie. Mi chiedo cosa possa ottenere il Cremlino con questa mossa? Shymura Hagakure Vediamo intanto cosa ha ottenuto il Cremlino finora. Ha fatto saltare un’operazione della CIA a Mosca dimostrando che gli operativi americani coinvolti erano una banda di dilettanti allo sbaraglio. Il settore human intelligence della CIA ne esce con le ossa rotte, e questo fatto non potrà che aggravare le condizioni di un servizio segreto che ha progressivamente ridotto la sua attività istituzionale e di raccolta delle informazioni a favore della guerra dei droni. Certo è più facile uccidere un nemico che controllarlo e magari farlo passare dalla propria parte. Per questo la “nuova CIA” si è trasformata sotto il comando di Obama in una “killing machine”. Il caso di Ryan Fogle, il funzionario della CIA che operava a Mosca sotto la copertura di terzo segretario politico dell’ambasciata USA, arrestato nel tentativo di reclutare un agente russo per un milione di dollari è emblematico. Forse quello che è successo in questa occasione, e tutta la catena di errori, di ingenuità e di incompetenze che ha portato al suo smascheramento costringerà l’agenzia a una riflessione profonda che potrebbe convincerla a tornare nei confini di un’agenzia di intelligence. Non un organismo paramilitare, ma un servizio di professionisti dedicati alla raccolta e all’analisi delle informazioni segrete.

Embargo per l’invio di armi in Siria. Come andrà a finire? Credo che la decisione da parte dell’UE di porre fine all’embargo per l’invio di armi in Siria non provocherà una guerra su vasta scala. A nessun Paese farebbe gioco. Ognuno sa benissimo che farebbe un salto nel passato, distruggendo anche la propria economia. Giuseppe Musumeci Nonostante le dichiarazioni e le prese di posizione, è difficile che si raggiunga l’accordo sulla fine dell’embargo. Grazie alla testardaggine russa, all’indubbia capacità di resistenza mostrata da Assad e alla confusione che regna sovrana nel campo dei ribelli, per vedere la fine del tunnel siriano dovremmo attendere il prossimo round di una conferenza di pace che per avere successo dovrà trovare il modo di “tagliare le ali estreme” dei due schieramenti e di salvaguardare la sopravvivenza fisica degli sconfitti, quali che siano.

Chi riuscirà a fermare Boko Haram? I rastrellamenti contro i miliziani fondamentalisti in Nigeria e Niger hanno avuto come primo effetto la cacciata delle comunità tuareg locali. La mia preoccupazione è che a subire le conseguenze di queste rappresaglie siano ancora una volta i civili. È a questo che dovrebbe l’Occidente prima di tutto. Angela Chianese In ogni conflitto civile ci sono comunità non direttamente interessate che vengono prese tra i due fuochi. È il caso dei tuareg che in Niger non sono schierati né con i fondamentalisti di Boko Haram né con i cristiani. Trovare una via d’uscita alla situazione non è facile. L’Occidente non può fare il poliziotto dell’Africa e in queste situazioni il pachiderma ONU mostra tutta la sua colossale inefficienza burocratica. Non bisogna comunque dimenticare che il conflitto tra religioni in Niger e in Nigeria ha anche radici socioeconomiche. Purtroppo, e lo dico da italiano, la parte più ricca e corrotta delle società dei due Paesi è quella cristiana.

Anno I - Numero 5 - giugno 2013

DIRETTORE RESPONSABILE Luciano Tirinnanzi @luciotirinnanzi redazione@lookoutnews.it

EDITORE G-Risk - CEO Giuseppe De Donno Via Tagliamento, 25 00198 Roma Tel. +39 06 8549343 - Fax +39 06 85344635 segreteria_grisk@grisk.it - www.grisk.it

REDAZIONE Rocco Bellantone Dario Scittarelli Cristiana Era Marta Pranzetti

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ART DIRECTION Francesco Verduci

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mappamondo nigeRia: proclamato lo stato d’emergenza Il 15 maggio il presidente nigeriano Goodluck Jonathan ha dichiarato lo stato d’emergenza in tutto il Paese ordinando una pesante offensiva nelle province nordorientali di Borno, Adamawa e Yobe, dove da inizio aprile il gruppo islamista Boko Haram ha ucciso almeno 200 tra militari e civili. Torna a farsi sentire il nome del famigerato Mokhtar Belmokhtar, autore di due attentati che ne vicino Niger ha provocato l’uccisione di 21 persone.

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ue: italia fuori dal deficit eccessivo La Commissione europea allenta la presa sui piani di rientro dal debito di Francia, Spagna, Polonia, Portogallo, Paesi Bassi e Slovenia. L’Italia è fuori dalla procedura di deficit eccessivo, insieme ad Ungheria, Lettonia, Lituania e Romania, ma il presidente José Manuel Barroso ha raccomandato al premier Enrico Letta di non “rilassarsi”.

SiRia: mosca prende l’ue troppo alla lettera Il 28 maggio l’UE ha posto fine all’embargo per la vendita di armi in Siria. In attesa di conoscere quali saranno gli esiti della Conferenza di pace di Ginevra promossa da Russia e USA, da giugno ogni Paese membro può così decidere di agire autonomamente. Mosca ha preso alla lettera la comunicazione nel giro di due giorni ha inviato a Damasco missili anti-aerei S-300 e promesso 10 aerei da combattimento Mig-29 MM2.


auStRalia: hacker cinesi attaccano l’intelligence australiana Hacker cinesi si sarebbeo impossessati di alcuni preziosi file contenenti i progetti per la messa in sicurezza della nuova sede dell’ASIO, l’Australian Security Intelligence Organisation, situata a Canberra. Dopo una sfuriata iniziaale, il premier Julia Gillard ha preferito valutare l’accaduto con far play. D’altronde bisogna andarci con i piedi di piombo: gli affari con Pechino sono troppo importanti per Sydney.

noRd coRea: l’isolamento inizia a far male a Kim Jong-un Dopo mesi di proclami e minacce in mondovisione, il dittatore nordcoreano Kim Jong-un ha capito di averla fatta grossa. Per ricucire il rapporto con la Cina, il 22 maggio ha inviato a Pechino Choe Ryong-Hae, vice maresciallo e del politburo dell’esercito di Pyongyang. E qualche giorno più tardi ha fatto sapere alla Corea del Sud di essere pronto a trattare per la riapertura del polo industriale di Kaesong.

polineSia fRanceSe: i territori d’oltremare verso la decolonizzazione Il 17 maggio l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha adottato una risoluzione che iscrive la Polinesia francese nell’elenco dei territori da decolonizzare, insieme ad altri 16 territori sparsi in giro per il pianeta. Le vecchie glorie imperialiste, però, non l’hanno presa bene. La risoluzione è passata con 193 voti favorevoli, ma senza l’ok di Gran Bretagna, Stati Uniti, Germania e Paesi Bassi e con l’astensione della Francia.

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geopolitica

Iran L’arrocco dei conservatori Tutti i candidati Vincitori e vinti La Costituzione e la Vigilanza

Pakistan Il futuro prossimo Gli scontri etnici e i droni

Cina Il “soft power”

Sajid Jalili

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Speciale eleZioni iRan

Con un’abile mossa l’ala moderata e quella nazionalista sono state estromesse dalla partita per la presidenza. La strategia politica di Khamenei per difendere l’Iran e le sue istituzioni più conservatrici, prevede l’arrocco. Dopo il 14 giugno si saprà se è stata vincente

S

Iran |

di Luciano Tirinnanzi

Chi può vincere e

e il Segretario di Stato americano, John Kerry, parlando delle prossime elezioni presidenziali in Iran (14 giugno 2013) si è detto “scettico” sulla scelta dei candidati da parte del Consiglio di Vigilanza - asserendo che è difficile considerare quelle elezioni come libere dopo i veti opposti a diverse candidature la risposta del ministro degli Esteri iraniano, Ali Akbar Salehi, non si è fatta attendere.

chi ha già perso Salehi ha avuto un moto di stizza e, nel rispondere al suo omologo americano, ha citato nientemeno che la Carta di Algeri (4 luglio 1976), una dichiarazione non ufficiale sull’autodeterminazione e sui diritti universali dei popoli, secondo cui ogni popolo decide il proprio statuto politico in piena libertà e senza alcuna ingerenza esterna (art. 5).

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geopolitica

Il favorito

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ajid Jalili non è soltanto uno dei favoriti dell’ayatollah Khamenei, che lo ha voluto come segretario del Supremo Consiglio di Sicurezza Nazionale, ma è una figura trasversale a tutta la repubblica Islamica: è, infatti, molto apprezzato sia da Mohammad Taqi Mesbah Yazdi, rappresentante di una delle correnti religiose più importanti nonché consigliere molto influente di Ahmadinejad, sia dalle lobby iraniane che si riconoscono nei partiti e nelle organizzazioni conservatrici come l’Islamic Society of Engineers e l’Alleanza dei Costruttori dell’Iran Islamico. Sia da Catherine Ashton, alto rappresentante dell'Unione Europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza, che lo apprezza per le capacità diplomatiche e il dialogo sul nucleare con il 5+1 (Usa, Francia, Gran Bretagna, Russia e Cina più la Germania). Sarà lui il prossimo presidente della Repubblica Islamica dell’Iran?

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Come a dire che nessuno, men che meno gli Stati Uniti, dovrebbe “immischiarsi negli affari interni dell’Iran”. Secondo il ministro, infatti, il sostegno alla democrazia da parte degli Stati Uniti “è solo un sotterfugio ed è tutto uno spettacolo”. Perché, in fondo “sarebbe contrario agli interessi di Washington rispettare il diritto internazionale e smettere di interferire negli affari interni di altri Paesi” ha ironizzato Salehi. Ma fin qui, niente di nuovo: siamo nella dialettica ordinaria tra due Paesi che si avversano. Venendo all’attualità, mentre gli Stati Uniti quanto a politica estera sembrano oggi indecisi a tutto e appaiono piuttosto ripiegati sui problemi interni dell’amministrazione Obama (colpita da scandali a ripetizione), in Iran, è forse superfluo ricordarlo, si sta invece vivendo una fase di passaggio delicatissima, forse cruciale: il Paese è sempre più isolato e sotto l’occhio severo di un Occidente che non solo non apprezza la politica iraniana praticamente dal giorno della Rivoluzione, ma che lo strangola attraverso un embargo pesantissimo. Ragion per cui cerca di rafforzarsi, difendendo strenuamente le proprie posizioni. Ora, un Paese sovrano ha tutto il diritto di far applicare le regole che si è dato e nessuno Stato straniero dovrebbe in teoria interferire


Speciale eleZioni iRan

(altrimenti, per coerenza, gli Stati Uniti dovrebbero essere già intervenuti in Siria). Ciò detto, ha sorpreso molti - ma non tutti - la piega che hanno preso queste elezioni iraniane, ovvero il rafforzamento ottenuto manu militari dall’ala conservatrice della Repubblica Islamica, che trova nell’ayatollah Khamenei il suo maggiore sponsor, grazie al Consiglio di Vigilanza. È accaduto, infatti, che al momento di definire la lista definitiva dei candidati ammessi, il Consiglio di Vigilanza, cui la Costituzione affida il controllo delle elezioni del Presidente della Repubblica (così come gli affida l’interpretazione della Costituzione stessa e il controllo delle elezioni, dei Membri dell’Assemblea Nazionale e dei referendum), ha ammesso solamente otto candidati su oltre seicento possibili, sei dei quali di diretta emanazione dell’ala conservatrice. La Guida Suprema, ayatollah Ali Khamenei, ha così la strada spianata per vedere eletto presto un candidato a lui gradito, soprattutto dopo che le fratture e le distanze con Ahmadinejad sono divenute incolmabili. Con in mano sei delle otto candidature alla presidenza, appare dunque evidente il progetto politicostrategico di Teheran: rafforzare l’intera classe

clericale sciita iraniana, eliminando i possibili pericoli interni e le derive secolari o moderate che, agli occhi degli ayatollah, indebolirebbero la forza dell’Iran e minerebbero per sempre l’Islam sciita in un contesto storico che vede questa parte minoritaria dell’Islam sempre più isolata. Insomma, quello che lo stesso presidente Ahmadinejad ha contestato come un colpo di mano di Khamenei, altro non è se non una scelta estremamente pragmatica da parte della Guida Suprema, ben consapevole che per gli sciiti è di vitale importanza mantenere il potere almeno in Iran, visto che gli sciiti alawiti di Bashar Assad in Siria non sembrano poi così saldi al potere e ancor meno si sentono sicuri di sopravvivere ai sunniti, più numerosi e meglio protetti da una larga parte del mondo arabo come dall’Occidente. Il Medio Oriente, è ormai palese, si trova nel bel mezzo di una guerra di religione, incruenta in Iran ma già oltremodo sanguinaria in Siria e anche in Libano.

Una scelta pragmatica della Guida Suprema: per gli sciiti è di vitale importanza mantenere il potere almeno in Iran

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gli ScenaRi poSSibili eleZioni in iRan

Gli otto candidati alla presidenza

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a sfida per la poltrona di presidente della Repubblica Islamica non si giocherà tra le tre anime dell’Iran: quella conservatrice, quella moderata riformista e l’ala nazionalista. La prima, rappresentata oggi dalla Guida Suprema Ali Khamenei, ha già in tasca il risultato, visto che la seconda, rappresentata dall’ex presidente Akbar Rafsanjani, e la terza, guidata dall’attuale presidente Mahmoud Ahmadinejad, sono state scartate in favore di candidati tutti espressione dei conservatori. L’ex presidente riformista, Akbar Hashemi Rafsanjani, e il consuocero del presidente in carica, il nazionalista Esfandiar Rahim Mashaei - due nomi di punta non hanno passato il vaglio del Consiglio di Vigilanza. Ecco, invece, chi è passato e concorre ufficialmente all’elezione.

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ali aKbaR Velayati, classe 1945, è consigliere di Khamenei per gli affari esteri, ed è stato ministro degli esteri della Repubblica Islamica dal 1981 al 1997. Proposto già nel 2005, scelse di non correre. mohammad baqeR qalibaf, classe 1961, ex pasdaran e influente sindaco di Teheran, è stato a capo delle forze di polizia iraniane, dimettendosi per correre alle presidenziali del 2005. È tra i possibili vincitori. SaJid Jalili, classe 1965, già vice ministro degli esteri, è segretario del Supremo Consiglio di Sicurezza Nazionale, è il capo negoziatore per le questioni nucleari e pedina fondamentale dei conservatori. Anche lui in pole. qolam-ali haddad adel, classe 1945, ex presidente del parlamento e fedelissimo consuocero della Guida Suprema, è molto vicino alla famiglia dell’ayatollah. mohSen ReZaei, classe 1954, segretario del Consiglio per il Discernimento della Repubblica Islamica, ex comandante dei Guardiani della Rivoluzione ed ex sfidante di Ahmadinejad. mohammad ReZa aRef, classe 1951, docente universitario ed ex vice-presidente della Repubblica. È membro del Consiglio per il Discernimento della Repubblica. haSSan Rouhani, classe 1948, ex segretario del Consiglio supremo di sicurezza nazionale, è vicino alle correnti moderate e, in particolare, a Mohammad Khatami. mohammad ghaRaZi, classe 1941, ex ministro delle comunicazioni al tempo di Khatami, è anch’egli ascrivibile alla sfera d’influenza dei moderati. È il più anziano dei candidati.



geopolitica

Fuori dai giochi

Non potendo ricandidarsi, aveva indicato Mashaei come suo successore. Ma questo non è più l’Iran di Ahmadinejad: il presidente esce così di scena nonostante un bilancio della presidenza non così negativo come appare di Marta Pranzetti

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uando venne eletto nel 2005 pochi sapevano di lui, di quel candidato un po’ nazionalista e un po’ ultra-conservatore che spiazzò la comunità internazionale rubando la presidenza al veterano Rafsanjani (in carica dal 1989 al 1997). Ex sindaco di Teheran, Mahmoud Ahmadinejad ha acquistato sempre maggiore peso sulla scena politica iraniana al punto da arrivare oggi a essere un elemento scomodo per la Guida Suprema, tanto per la sua flessione nazionalistica e sempre meno conservatrice quanto per i suoi contestati

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atteggiamenti poco conformi alla morale islamica (fino alle polemiche suscitate dall’abbraccio tra il presidente e la madre di Hugo Chavez, ai funerali del leader venezuelano dello scorso marzo). Da due anni a questa parte, Ahmadinejad ha reso sempre più evidente la discrepanza di vedute con Khamenei e l’establishment religioso della Repubblica Islamica: dal tentativo


Speciale eleZioni iRan

di intaccare il fronte conservatore tramite la rimozione di importanti ministri vicini alla Guida Suprema (quali l’ex ministro degli Esteri, Manuchehr Mottaki, e l’ex ministro dell’Intelligence, Mohseni Ejei) al tentativo di promuovere una politica interna tra il nazionalistico e il populista. Che, considerata l’ostilità del clero sciita nei confronti dell’identità persiana dell’Iran, è stato interpretato come una sfida lanciata dal fronte presidenziale alla classe politica clericale. Durante i due mandati consecutivi (2005 e 2009) che l’ex Sindaco di Teheran si è aggiudicato - la legittimità degli scrutini è altra storia - l’Iran è stato sempre al centro degli affari internazionali, soprattutto per la sua forte retorica contraria a Washington e Tel Aviv e per la sua ferma posizione in difesa del programma iraniano sul nucleare, che gli hanno valso molta popolarità interna. Ma il bilancio dei suoi otto anni di presidenza, densi di avvenimenti, lo hanno allo stesso tempo esposto alle critiche internazionali: nel 2006 l’ONU decretava le prime sanzioni all’Iran contro la politica sul nucleare, sanzioni rinnovate poi nel 2010 e amplificate dall’embargo al petrolio iraniano nel 2012. La sua politica estera di dichiarata ostilità verso gli Stati Uniti e più in generale verso la comunità occidentale, si tradusse nella storica opposizione al diritto di veto dei

cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU mentre il suo odio verso Israele fu palese quasi subito quando, ancor caro agli ayatollah, nel 2005 si espresse per il rimpiazzo di Israele con uno stato palestinese - affermazione che, in ogni caso, fu sovrastimata dalla stampa internazionale e interpretata come aperta minaccia a Tel Aviv. Più di recente lo scoppio della guerra in Siria: la Repubblica islamica, oltre alla Russia, è il principale alleato del regime di Assad e il suo sostegno agli sciiti alawiti al potere gli rende più facile far arrivare armi al gruppo libanese di Hezbollah, con ciò minacciando sia pur indirettamente Israele.

Adesso, con l’avvicinarsi delle elezioni, l’astro di Ahmadinejad si spegne - l’ultima palese battaglia del presidente uscente contro gli ayatollah si conclude con una sconfitta - vista l’esclusione del suo delfino e genero, Efsandiar Rahim Mashaei, dalla lista dei candidati presidenziali, accettata da Khamenei. E fa sorridere che, nella sua campagna nazionale di sostegno a Mashaei, Ahmadinejad abbia invocato “elezioni trasparenti” proprio dopo che, con la rielezione nel 2009 contestata per brogli e irregolarità, aveva scatenato la peggiore insurrezione interna dopo la Rivoluzione.

La struttura del potere in Iran

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Speciale eleZioni iRan

Teheran, osservata speciale di Washington

di Devendra

La politica estera americana sul disastro siriano prescinde dalla Conferenza di Ginevra e guarda piuttosto al nuovo presidente iraniano

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inevra 2” sarebbe la conferenza di pace voluta da USA e Russia per tentare di sciogliere il nodo gordiano della guerra siriana. Ma, in attesa che le parti si incontrino tra le alpi svizzere, le ostilità proseguono e l’esercito fedele ad Assad ha lanciato un’importante offensiva al confine col Libano, grazie all’appoggio di Hezbollah. L’Unione Europea, a pochi giorni dal rinnovo dell’embargo alla Siria (è scaduto il 1

giugno), ha affermato di non avere intenzione di dargli seguito, facendo adirare la Russia, che ha promesso un nuovo copioso invio di missili antiaerei, e provocando la reazione di Israele, che afferma di “sapere cosa fare” nel caso in cui le armi di Mosca arrivino a destinazione. La Casa Bianca, invece, tace. Perché? Da tempo a Washington gira voce che “non ci sarà una maggiore sconfitta strategica per l’Iran che assistere al crollo del regime di Assad”. Dunque, Washington ha intenzione

di attendere non tanto la conferenza ma il dopo elezioni iraniane (14 giugno) per scoprire quali saranno le mosse del nuovo presidente della Repubblica Islamica, e che cos’ha da dire sulla guerra in Siria. Dopodiché potranno essere prese le contromosse. Ma l’ayatollah Khamenei ha giocato d’anticipo e ha ipotecato il controllo sulla presidenza. Come ha fatto? Grazie alla Costituzione, che offre alla Guida Suprema il controllo sul Comitato di Vigilanza:

Costituzione iraniana

aRticolo 91 Allo scopo di tutelare la Costituzione ed i principi Islamici assicurando che nessun atto legislativo ratificato dall’Assemblea Nazionale sia in contrasto con essi, è istituito un “Consiglio di Vigilanza”, composto dai seguenti Membri: 1. Sei Giuristi religiosi qualificati, esperti di Giurisprudenza Islamica, consapevoli delle esigenze del mondo contemporaneo e delle convenienze del tempo presente. La nomina di questi sei Membri è prerogativa della Guida della Rivoluzione o del Consiglio Direttivo della Rivoluzione. 2. Sei Giuristi esperti e qualificati nei diversi rami del diritto, scelti fra i giuristi di fede Islamica, proposti all’Assemblea Nazionale dalla Suprema Corte di Giustizia e incaricati con voto dell’Assemblea stessa. aRticolo 98 L’interpretazione della Costituzione è prerogativa del Consiglio di Vigilanza, che delibera con la maggioranza dei tre quarti dei suoi membri. aRticolo 99 Al Consiglio di Vigilanza è affidato il controllo delle elezioni del Presidente della Repubblica, delle elezioni dei Membri dell’Assemblea Nazionale e dei referendum.

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geopolitica

Pakistan |

di Cristiana Era

Un futuro conservatore

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ome per altri Paesi dell’intera Asia centrale e meridionale, il futuro del Pakistan all’indomani delle elezioni di maggio è un’ipotesi con diverse variabili che però non ne alterano il quadro più o meno già tracciato, a meno di eventi imprevisti, in politica interna o internazionale, di particolare rilevanza. Sesto Stato più popoloso del mondo (190 milioni di abitanti secondo le stime più recenti) e secondo per popolazione musulmana, il Pakistan è il crocevia tra Asia centrale, sudorientale e occidentale: ha alle spalle una storia di intrecci e conflitti regionali che ne determinano la politica di oggi e quella del futuro prossimo. Certamente queste elezioni hanno portato qualche novità. Innanzitutto quella di aver concluso una intera legislatura senza colpi di Stato, dopo 66 anni. Poi, l’arresto dell’ex Presidente Pervez Musharraf che, ironia della sorte, era rientrato in patria per concorrere come candidato. Quindi, sono da ascrivere alle novità più significative per il Paese: la mancata reazione dell’intera istituzione militare, la sentita partecipazione popolare al voto e il declino del Partito Popolare, che per decenni ha dominato la scena politica.

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la politica interna Non dovrebbe, invece, sorprendere il clima di violenza in cui si sono svolte le elezioni. Da mesi la situazione era incandescente e l’approssimarsi della scadenza elettorale ha semplicemente rappresentato il momento di maggiore conflittualità: il Pakistan è infatti già da tempo una nazione in bilico. Il governo civile che ha da poco concluso il proprio mandato non è riuscito a eliminare, o anche solo a ridurre, le criticità endemiche del passato e quelle attuali. In questo contesto, un peso rilevante lo hanno avuto anche le relazioni con i Paesi confinanti. Corruzione, carenze infrastrutturali (soprattutto energetiche), estremismo religioso, conflitti interetnici, discriminazione verso le minoranze (molti leader delle quali sono finiti assassinati), collusione fra elementi dell’intelligence (ISI) e gruppi legati ad al-Qaeda: sono queste le criticità maggiori che ostacolano la crescita economica e la fiducia della popolazione nelle istituzioni. Pertanto, difficilmente il neo-eletto premier Nawaz Sharif (Lega Musulmana-N), riuscirà ad apportare i cambiamenti necessari,


geopolitica

Mentre India, Iran e Cina si stanno preparando a una nuova fase del Grande Gioco, il Pakistan si fa conservatore e intransigente per preservare le proprie posizioni, ammiccando ai talebani e tentando di smarcarsi dagli Stati Uniti

considerando che lo stesso Sharif in passato è stato accusato di corruzione. È invece ipotizzabile una svolta del Paese in senso ancora più conservatore dal punto di vista religioso. la politica estera In politica estera, Islamabad subisce ancora gli effetti del passato coloniale: a est, le tensioni con la rivale India - percepita come eterna minaccia alla stabilità e agli interessi nella regione - hanno di fatto contribuito ad acuire le frizioni in un’area fortemente destabilizzata impedendo, tra l’altro, la realizzazione di progetti di sviluppo importanti quali il gasdotto transnazionale TAPI, su cui gli USA contavano per sottrarre Afghanistan e Pakistan alla pericolosa influenza iraniana. I contrasti con Washington sono oggi ulteriormente au-

mentati per le polemiche sui raid aerei dei droni della NATO, che hanno alimentato un’ondata di antiamericanismo in tutto il Paese. È prevedibile, inoltre, che la decisione del presidente Sharif di “aprire i negoziati con i talebani” costituisca motivo di ulteriori frizioni. Il confine con l’Afghanistan, la Linea Durand che divide l’area del Pashtunistan, continua a essere una “zona rossa”, in cui si annidano sacche di resistenza talebana che si organizzano e colpiscono sia al di qua che al di là della frontiera, peggiorando i già precari rapporti tra Kabul e Islamabad. Anche in Pakistan si sentiranno dunque gli effetti del ritiro della NATO: l’area è in fermento, l’insorgenza è pronta a riprendere le posizioni perse e India, Iran, Pakistan e Cina si stanno preparando a una nuova fase del Grande Gioco.

Il dizionario I più numerosi Punjabi (56%), ma anche i Sindhi (17%), i Pashtun (16%) e i Baluchi (3%), cui si sommano gli “immigrati” Muhajir: sono queste le principali etnie di stirpe iranica presenti in Pakistan. Altro gruppo etnico di origine musulmana che vive nel Paese è quello dei Bengali, particolarmente nel distretto di Karachi. Ma non mancano cristiani, hindu, buddisti e animisti.

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geopolitica

Pakistan | de Il Grigio

Il dopo Musharraf si fa ogni giorno più difficile per Sharif. Il Pakistan ottiene il triste primato di “paese più insicuro al mondo”. Ecco quali sono i gruppi talebani responsabili di un simile disastro 20

Divampa lo scontro tribale

I

numeri sono da brivido. Dal 2003 ad oggi in Pakistan sono morte per azioni di terrorismo oltre 47.000 persone. Di queste, 16.000 erano civili, 5.000 appartenenti alle forze dell’ordine e 26.000 terroristi o militanti di gruppi terroristici. Nei primi cinque mesi del 2013, in concomitanza con le elezioni, dello scorso 12 maggio che hanno visto un’impennata della violenza settaria rivolta contro esponenti e simpatizzanti dei partiti secolari, le vittime sono state 2.700 (1.400 civili, 283 militari, 962 terroristi). Le cifre parlano chiaro. Dopo l’Iraq, il Pakistan è il Paese più insicuro del mondo e la situazione

LOOKOUT n. 5 giugno 2013

sembra peggiorare di anno in anno. Basti pensare che in tutto il 2011 in Iraq il terrorismo ha provocato 1.800 vittime. Nello stesso anno in Pakistan le vittime sono state invece oltre 1.400, quasi la metà di quelle registrate nei primi cinque mesi di quest’anno. Pakistan quindi al secondo posto, ma con una differenza rispetto all’Iraq: si tratta di una potenza nucleare la cui instabilità potrebbe creare problemi gravissimi al resto del pianeta.


geopolitica

Secondo le ultime statistiche delle autorità della sicurezza pakistana, nel Paese operano ben dodici formazioni terroristiche endogene, trentadue gruppi transnazionali (tutti di matrice jihadista) e quattro grosse formazioni estremiste che vivono e sopravvivono nella zona grigia al confine tra violenza politica e terrorismo.

La divisione etnico/religiosa

tehreek-etaliban Senza perdersi nella galassia dei gruppi e gruppuscoli, per comprendere le pesanti implicazioni del fenomeno terroristico pakistano basterà prendere in esame i tre gruppi più importanti e pericolosi. Il primo è il Tehreek-e-Taliban (TTP). È una filiazione dei talebani afghani e raccoglie tredici gruppi regionali che operano sotto la leadership di Baitullah Mehsud nel sud Waziristan, in un’area denominata “FATA” (Federally Administered Tribal Areas), zona sotto amministrazione speciale dove sono abolite le garanzie e le protezioni costituzionali per i cittadini. Il loro obiettivo è portare il jihad contro gli occidentali presenti in Pakistan e lottare contro le regole che vigono in quest’area. Il TTP Conta su un numero di operativi che va dai 30 ai 35.000

militanti, tutti ben armati e addestrati. Nelle sei settimane che hanno preceduto le elezioni dello scorso 12 maggio, il gruppo è stato responsabile della gran parte degli attentati che hanno insanguinato le città pakistane, ma che non sono stati in grado di impedire un’affluenza alle urne per alcuni versi straordinaria di oltre il 60% degli elettori, in quello che era il primo passaggio elettorale dal regime militare alla democrazia parlamentare.

“FATA”, Federally Administered Tribal Areas, è la zona sotto amministrazione speciale dove sono state abolite le garanzie e le protezioni costituzionali per i cittadini LOOKOUT n. 5 giugno 2013

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lashkar-e-taiba Il secondo gruppo, ambiguo e pericoloso, è quello dei Lashkar-e-Taiba, considerato dalle autorità di sicurezza americane una delle organizzazioni più pericolose del mondo. Composto da militanti provenienti dalla classe medio alta (tra di essi figli di politici e di ufficiali dell’esercito), il gruppo è sostenuto senza remore dall’ISI (Inter-Services Intelligence), i servizi segreti pakistani, che li hanno utilizzati spregiudicatamente in funzione anti-indiana. Lashkar-e-Taiba è responsabile dello spettacolare attacco guerrigliero nella città indiana di Mumbai, che nel 2008 ha causato la morte di 166 persone tra cui sei cittadini americani, e portato sull’orlo di una guerra i due vicini nuclearizzati India e Pakistan. Lashkar è stato fondato nel 1989 e, grazie all’addestramento e al rifornimento di armi e di denaro da parte dell’ISI, è stato di fatto usato come una forza paramilitare dall’esercito pakistano

nella regione del Kashmir, contesa tra New Delhi e Islamabad. Si calcola che negli ultimi vent’anni nei campi di addestramento di Lashkar siano passati tra i 100.000 e i 300.000

guerriglieri. Oggi i “best and brightest”, così si autodefiniscono, sono dislocati nelle aree tribali pakistane, da dove partono per compiere raid contro le forze armate americane al di là

Il dopo elezioni in Pakistan (maggio 2013)

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della frontiera in Afghanistan. E proprio per il loro legame con le autorità pakistane, fino adesso i Lashkar sono stati risparmiati dalle incursioni dei droni della CIA. haqqani Il terzo gruppo più importante è quello degli Haqqani, anch’esso protetto dai servizi segreti pakistani. Gli haqqani nascono come un clan mafioso e religioso. Predoni e trafficanti d’oppio, dopo l’intervento americano e NATO in Afghanistan, hanno iniziato a colpire le truppe occidentali dalle loro basi nelle aree tribali pakistane. La loro rete può contare su una struttura militare che, secondo le stime dei servizi segreti occidentali, potrebbe arrivare alle 15.000 unità. Per i paradossi della storia, gli Haqqani sono stati alleati degli americani e hanno ricevuto grossi finanziamenti e forniture d’armi quando combattevano contro i sovietici in Afghanistan. Come i talebani, quando gli americani sono intervenuti in Afghanistan si sono rivoltati contro i loro vecchi alleati e oggi vengono considerati il gruppo terrorista più pericoloso di tutto lo scacchiere dell’Af-Pak. Gli Haqqani controllano una rete di piccoli gruppi terroristici e guerriglieri nel Waziristan del Nord e, a differenza dei loro “colleghi” del Lashkar, la loro vicinanza alle autorità pakistane non li ha immunizzati dagli attacchi dei droni americani. Pochi mesi fa il loro capo storico, Jalaluddin Haqqani, è stato ucciso da un missile lanciato da un drone USA.

Le sfide del nuovo governo pakistano e i droni di Obama

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on questa realtà si dovrà confrontare il governo di coalizione che si sta faticosamente formando dopo le elezioni. Sia la Pakistan Muslim League, guidata dal neo primo ministro Nawaz Sharif, che ha vinto conquistando la maggioranza relativa dei seggi, che il partito Pakistan Tehreek-e-Insaf, fondato dall’ex stella del cricket Imran Khan, avviati a formare un esecutivo insieme, sono decisi a negoziare con i gruppi guerriglieri ed estremisti. Khan, che tra l’altro ha primeggiato nelle province del nord-est e amministrerà direttamente le aree a maggiore intensità guerrigliera, immediatamente dopo le elezioni ha chiesto la fine delle operazioni militari e l’avvio immediato di negoziati con i talebani e con gli Haqqani per avviare un processo di pacificazione. Questo governo, pertanto, non renderà la vita facile agli americani e alla loro campagna di esecuzioni mirate con i droni. Una campagna che dal 2004 al maggio del 2013 ha provocato - tra militanti, civili e vittime collaterali - 337 morti solo in Pakistan.

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a quando Obama, premio nobel per la pace, è diventato presidente, la campagna dei droni si è estesa a dismisura e senza alcun controllo da parte di autorità legali americane o internazionali. L’uso dei droni è in grado di minare in modo micidiale i rapporti con le autorità pakistane, non più composte da militari golpisti ma da civili musulmani, per eleggere i quali gli elettori hanno sfidato le bombe e gli attacchi suicidi ai comizi e ai seggi. Uno studio dell’autunno 2012, compiuto da esperti delle università americane di Stanford e di New York, sostiene che la guerra dei droni sta rendendo “un inferno” la vita quotidiana dei civili pakistani. In tre attacchi sbagliati sono morti più di 50 civili e, in un caso, sono stati uccisi 25 soldati pakistani scambiati per guerriglieri. Sarà difficile per Obama continuare la sua micidiale guerra a distanza con l’assenso, anche clandestino, del nuovo governo di Islamabad. La “guerra al terrore” ha provocato troppo terrore.

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Cina |

Il “soft power” cinese di Luciano Tirinnanzi

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vete mai visto una banconota cinese? Vi siete domandati come mai è scritta non soltanto in mandarino ma anche in alfabeto arabo, tibetano e mancese? Su quelle banconote sono rappresentate tutte le principali minoranze nazionali che fanno parte della Cina, per una semplice ma fondamentale ragione: la volontà di rispettare le minoranze. Certo, non si può negare che nel grande Paese asiatico vi siano stati (e persistano) scontri etnici, come quello relativo agli Uiguri - la minoranza islamica che vive nel nord-ovest, in particolare nella regione autonoma dello Xinjiang - ma tali scontri non hanno carattere politico in senso stretto. Non costituiscono cioè un vero e proprio “problema” e si possono declassificare a episodi connaturati al Paese più popoloso al mondo. Con ciò non s’intende sottovalutare le tendenze indipendentiste di alcune regioni (vedi il Tibet), ma si vuol sottolineare il carattere inclusivo e tollerante che da sempre contraddistingue la Cina. Un Paese dove

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Dall’Impero Celeste alla Cina comunista, l’integrazione delle minoranze è sempre stata favorita. A patto che esse non rispondano a un capo di stato straniero, come i cattolici sono ancora l’istruzione e la lingua gli strumenti di egemonia culturale, che permettono di mantenere una pace durevole tra le mille anime che la compongono. E il motivo per cui la Cina si sta riprendendo quel ruolo di prim’attore nel mondo che aveva fino alla metà del XIX secolo, quando il suo prodotto interno lordo era superiore a quelli dell’Occidente e dell’Impero Britannico messi insieme, sta nel modo di gestire il proprio potere: attraverso il “soft power”. Ovvero senza armi, tanto per intendersi. La carta vincente di Pechino risiede, infatti, in quel “potere morbido” che non ha bisogno di manifestarsi con la repressione, e che è piuttosto il frutto di un’esperienza millenaria e di una filosofia stratificata e coltivata sapientemente nei secoli come il Confucianesimo. Per capire meglio la linearità

della filosofia che sta dietro alla tolleranza cinese, è utile confrontare il caso dell’Islam e del Cristianesimo in Cina. Il Cristianesimo, in particolare nella sua accezione cattolica, è da sempre rifiutato dalla Cina non per motivi ideologici, piuttosto per un motivo “tecnico”: questa religione, infatti, osserva i dettami che giungono dal Vaticano, una teocrazia che ha al proprio vertice il Papa, il quale è sì leader spirituale della Chiesa ma anche capo indiscusso dello Stato. E la Cina non può accettare che il capo di uno Stato straniero possa determinare i comportamenti dei sudditi cinesi, i quali in prima istanza


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Il pragmatismo di Mao

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debbono rendere conto solo al proprio Paese. Il fatto che non vi siano relazioni diplomatiche tra Vaticano e Cina è dovuto principalmente a questo impasse. Mentre, invece, i cinesi non si sentono minacciati dalla religione islamica perché questa confessione non prevede l’esistenza di un leader ma è strettamente prescrittiva, proprio come il Confucianesimo, e pertanto determina comportamenti etici che non discendono dall’ordine tassativo di un capo. Ne consegue che la Cina non ha di che temere dall’Islam e, infatti, non si sente minimamente minacciata, semmai rispetta e promuove la sua conoscenza e

studio, sovvenzionando scuole e università in tal senso. Bene lo spiega il filosofo inglese Bertrand Russell, che scrisse sulla Cina un trattato illuminante dal titolo The problem of China, nel quale si può leggere: “Noi, con la prospettiva intollerante, immaginiamo che se un uomo adotta una religione non può adottarne un’altra. I dogmi del cristianesimo e dell’islamismo, nelle loro forme ortodosse, sono congegnate in modo che nessun uomo possa accettare entrambi. Ma in Cina questa incompatibilità non esiste, un uomo può essere sia un buddista sia un confuciano, perché nulla è incompatibile con l’altro”.

egli anni Cinquanta e Sessanta, uno dei precetti di Mao Tze Tung non era quello di combattere le minoranze religiose bensì lottare contro lo sciovinismo degli Han, il cinese medio e il gruppo etnico maggioritario nel Paese: Mao era talmente consapevole dell’importanza del “soft power” che si faceva fotografare spesso e volentieri con studenti e rappresentanti delle varie minoranze, meglio se vestiti con gli abiti tipici, non solo perché convinto che fossero cinesi come tutti gli altri ma anche perché era pragmatico al punto da capire bene che pretendere da popolo di rispettare la legge e pagare le tasse era più che sufficiente. Piuttosto, erano gli Han i più pericolosi, qualora si fossero sentiti superiori agli altri cinesi.

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l’aRaba fenice donne, Società e i tanti Volti dell’iSlam

Nu Ahong : l’esperimento cinese delle donne Imam di Marta Pranzetti

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fine aprile, un ennesimo scontro tra forze dell’ordine e un gruppo di separatisti della regione dello Xinjiang ha ridestato l’attenzione internazionale verso le comunità musulmane in Cina che, nella loro singolarità, hanno dato vita a un ibrido dalla non facile applicazione nel resto del mondo islamico. Per contestualizzare: tra le 56 etnie riconosciute ufficialmente dal governo di Pechino, esistono diverse comunità musulmane tra cui spiccano quella degli Hui (la maggioritaria, concentrata particolarmente nella regione autonoma di Ningxia) e quella degli Uiguri (prevalente nella regione autonoma dello Xinjiang all’estremo nord-occidentale del Paese). Circa la metà dei 20 milioni di musulmani presenti in Cina sono di etnia Hui: di fede sunnita, questo ceppo discende dai commercianti arabi e persiani che si stabilirono lungo la Via della Seta durante il VII

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secolo e sono quasi completamente assimilati (per uso linguistico e tradizioni) al gruppo cinese predominante Han, anche grazie a un’imposta politica di matrimoni misti, voluta dalla dinastia Ming nel XIV secolo. Proprio in base a queste prerogative, l’etnia Hui gode di maggiore libertà religiosa rispetto a quella uigura che invece risulta discriminata sotto numerosi aspetti: ai minori di 18 anni, ad esempio, è vietato prendere parte a ogni tipo di pratica islamica, come anche è vietato studiare testi religiosi in scuole statali; in migliaia, poi, sono detenuti per attività religiosa illegale. Le comunità di origine turca che popolano lo Xinjiang, infatti, rappresentano una delle criticità più rilevanti per il governo cinese, alla stregua della regione autonoma del Tibet: rivendicando un’indipendenza che ricalchi l’esperimento del Turkestan Orientale degli anni ‘30, sono soggetti a repressione religiosa e a restrizioni delle libertà politiche più volte criticate dalle organizzazioni internazionali di L’Islam ha trovato difesa dei diritti umani. terreno fertile in fasi alterne, Cina, dove moschee e A sicuramente e scuole coraniche dopo la repressi sono moltiplicate sione operata da Mao ai danni nelle regioni delle minoranze a maggioranza durante la Rivomusulmana luzione Culturale,


l’Islam ha trovato terreno fertile in Cina, dove moschee e scuole coraniche si sono moltiplicate nelle regioni a maggioranza musulmana (Gansu, Ningxia, Qinghai e Xinjiang). Ma il serrato controllo che oggi Pechino detiene sull’esercizio delle pratiche religiose nel Paese ha portato all’isolamento degli

gnamento, queste figure sono parte integrante della realtà islamica locale. E, benché la loro autorità non si estenda oltre la sfera delle donne e dei bambini della comunità, resta molto significativo il fatto che le donne musulmane in Cina abbiano dato vita a un’Autorità religiosa così rilevante in un Paese dove, tra l’altro, le donne non partecipano così vistosamente alla vita pubblica. Basti pensare che la figura di Nu Ahong, riconosciuta dallo Stato, è stata ufficializzata tramite

eruditi musulmani cinesi rispetto al trend dominante nel mondo dell’Islam. E questo, a sua volta, ha dato vita a un fenomeno, unico nel contesto islamico, radicato in Cina da oltre due secoli: quello delle donne imam, Nu Ahong. Guide spirituali per le donne, le Nu Ahong operano in moschee e scuole religiose femminili e i loro ruoli variano da congregazione a congregazione: dalla preghiera alla mediazione in dispute sociali, dalla conduzione dei rituali all’inse-

l’istituzione di un esame nazionale di accesso alla carica e l’elargizione di un salario mensile - che, tuttavia, come osservano diverse erudite musulmane, risulta troppo basso per attrarre le nuove generazioni. È così che una carica tanto singolare e preziosa (indice che l’estremismo religioso e la subordinazione femminile che destano le maggiori controversie nell’Islam non sono che una delle sue interpretazioni) rischia di estinguersi nel giro delle prossime generazioni, minacciata non dalle repressioni dello Stato comunista, non dalla resistenza dei fondamentalisti islamici, ma dalle forze stesse dell’economia di mercato, che fanno preferire alle giovani studentesse musulmane altre strade più proficue a quelle dell’erudizione coranica.

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Santa Sede Lo Stato della Città del Vaticano è sorto con il Trattato Lateranense, firmato l’11 febbraio 1929 tra la Santa Sede e l’Italia, che ne ha sancito la personalità di Ente sovrano di diritto pubblico internazionale, costituito per assicurare alla Santa Sede, nella Il post 1991 sua qualità di suprema istituzione

Russia

Le “sorellastre” Caos ceceno

Georgia Il “fattore Caucaso”

Venezuela La sfida tra Maduro e Capriles

Foto storica del 19 agosto 1991, quando il presidente russo Boris Yeltsin parlò sopra un tank sovietico di fronte al palazzo governativo

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Russia |

de Il Grigio

Le repubbliche Trent’anni di stalinismo e altrettanti di comunismo non hanno spento i sentimenti nazionalistici che da sempre dividono le varie anime dell’ex URSS

utto finì la sera di natale del 1991. Erano passate da poco le 18 quando il comandante della Guardia Presidenziale, ricevuta una chiamata diretta dal presidente della repubblica russa Boris Yeltsin, ha ammainato per l’ultima volta la bandiera rossa dell’Unione Sovietica e issato sulle guglie del Cremlino il tricolore della Russia. Al

dimenticate momento della telefonata Yeltsin era l’unica autorità legalmente riconosciuta a Mosca. Alle 18, infatti, il presidente Mikhail Gorbaciov aveva dato le dimissioni da presidente dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. Con questo gesto simbolico si concludeva l’annus horribilis del comunismo sovietico, e iniziava un ventennio di instabilità e di tensioni interetniche in quella che un tempo era una grande superpotenza. Per centinaia di anni sotto gli zar, le “Russie” erano state tenute insieme soltanto col pugno di ferro dell’autorità centrale. Le decine e decine di nazionalità che componevano l’impero non avevano mai dato cenno di voler procedere verso l’integrazione: lingue, religioni, tratti somatici si mescolavano senza integrarsi, senza formare un’unica nazione. Quando, dopo la morte di Lenin, il georgiano Stalin prese il potere assoluto, si rese conto immediatamente che uno dei pericoli LOOKOUT n. 5 giugno 2013

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Il dizionario Come riunire le ex repubbliche sovietiche sotto l’ombrello di un patto di non aggressione? La Russia ci ha provato già dal 1992, quando ha fondato un’alleanza esclusiva e parallela alla NATO, denominata CSTO (Collective Security Treaty Organization), le cui attività si concentrano in particolare sull’Asia Centrale. Ne fanno parte: Russia, Armenia, Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan e Tagikistan.

maggiori che correva la giovane Unione Sovietica non veniva dalle trame degli imperialisti britannici o dalle velleità di revanche di una smidollata aristocrazia. I pericoli reali venivano dal frazionismo all’interno del partito comunista bolscevico e dal riemergere delle nazionalità che, sotto la spinta degli ideali rivoluzionari, ritenevano di potersi di nuovo esprimere all’interno del mosaico sovietico. Per fronteggiare il rischio di disgregazione, Stalin negli anni

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Trenta agì da par suo. Mentre con le durissime purghe negli stessi anni liquidava ogni traccia di resistenza all’interno del partito, e mentre costringeva l’intero apparato produttivo sovietico a passare non solo metaforicamente dall’aratro di legno al carro armato T-34, organizzò la più grande e spietata ondata di migrazioni forzate all’interno dei confini dell’Unione Sovietica, riuscendo con successo a eliminare il problema delle nazionalità. Queste non vennero integrate, ma disperse e mescolate forzatamente. I tatari della Crimea andarono al Nord. I ceceni vennero spostati sul Don al posto dei cosacchi. Georgiani, abcasi, tagiki e mongoli vennero tutti dispersi nell’immenso arcipelago industriale che in poco più di un decennio modernizzò l’Unione Sovietica. Il problema delle nazionalità in Unione Sovietica non è praticamente mai esistito. Tuttavia, durante il disgelo degli anni Sessanta, i vincoli imposti alla circolazione all’interno dei confini sovietici si allentarono progressivamente e molti nuclei etnici


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Le “sorellastre” Lo stalinismo e il comunismo tradizionalista non hanno spento in alcun modo i sentimenti nazionali e nazionalistici compressi sotto l’Unione Sovietica dislocati a forza da Stalin, riuscirono a rientrare nei confini delle loro repubbliche. Trent’anni di stalinismo e altri trenta di comunismo tradizionalista non hanno spento in alcun modo i sentimenti nazionali e nazionalistici compressi e coartati all’interno di un’“Unione” che si sarebbe rivelata essere solo di facciata. Non solo non si sono spenti i sentimenti nazionali, ma non si sono attenuati gli odi interetnici che soltanto i metodi aspri del partito e della polizia segreta erano riusciti a tenere sotto controllo.

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primi a darsele di santa ragione, mentre l’URSS volgeva al tramonto, furono i georgiani, gli abcasi e gli osseti. La crisi non è ancora risolta se è vero che ancora oggi 200 osservatori dell’UE vigilano sul fragile confine che separa Ossezia del Sud e Abcazia, ambedue sostenute dalla Russia, e la Georgia, che nella notte tra il 7 e l’8 agosto del 2008 non esitò a lanciare i missili sulla capitale dell’Ossezia. Gli altri due focolai di tensione ancora non sopita riguardano la Cecenia e il Nagorno-Karabakh. Anche la Cecenia è stata una delle prima a sollevarsi contro il gioco moscovita, e lo ha fatto all’insegna di una voglia di indipendenza che si è poggiata sulla resurrezione dell’islam nella sua veste più radicale. Tutti i capi militari e i presidenti della Cecenia indipendente, da Dudaev a Maskhadov a Basayev, sono stati uccisi dai russi durante un confronto che dal 1991 ad oggi ha provocato centinaia di migliaia di morti e la distruzione pressoché totale della capitale cecena Grozni. La Cecenia, con il suo petrolio, i suo gasdotti e i suoi oleodotti, non poteva essere

indipendente e contemporaneamente nemica di Mosca. La Russia non poteva consentirlo ed oggi la tiene sotto occupazione militare. Due guerre hanno visto scontrarsi i “cugini” arcinemici azeri e armeni. Tema del contendere: il sentimento indipendentista degli abitanti delle montagne del Nagorno-Karabakh, che rifiutano l’assimilazione da parte degli armeni entro i cui confini si trovavano dal 1991, e chiedono il ricongiungimento con i fratelli azeri. Tra il gennaio del 1992 e il maggio del 1994 il confronto militare ha provocato migliaia di morti, centinaia di migliaia di profughi e un odio che cova sotto la cenere con il confine tra Nagorno-Karabak e Azerbaijan, sconvolto da continue violazioni del cessate il fuoco faticosamente imposto da ben quattro risoluzioni del consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Islam, petrolio e nazionalismo: questi i veri ostacoli a qualsiasi tentativo del presidente russo Vladimir Putin di far tornare la Russia a essere una grande potenza e a sedere, senza imbarazzo, al tavolo di chi decide le sorti del mondo.

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Georgia |

Di chi è questa guerra?

di Dario Scittarelli

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on lo sfaldamento dell’Unione Sovietica, la Georgia passa da repubblica federata a repubblica indipendente. Al suo interno la nuova nazione continua a incorporare due territori che ne erano entrati a far parte fin dalla nascita dell’URSS: l’Ossezia del Sud (dal 1922) e l’Abcazia (dal 1931). Ma già sul finire del 1990 l’Ossezia del Sud dichiara la sua volontà di unirsi all’Ossezia del Nord e diventare una repubblica sovietica. Il conflitto che ne scaturisce dura un anno e mezzo, dal gennaio 1991 al giugno 1992, quando Tbilisi sarà costretta a firmare un cessate il fuoco per far fronte alle ambizioni separatiste dell’Abcazia. La nuova guerra terminerà nel settembre 1993, dopo una drammatica pulizia etnica dei georgiani presenti nella regione. Il coinvolgimento di Mosca - che già aveva preso parte ai due conflitti - diventa evidente nell’agosto del 2008, allo scoccare della nuova guerra tra Georgia e Ossezia del Sud. Nei cinque giorni di scontri le truppe russe penetrano nei confini georgiani, spingendosi fino alla città di Gori. Alla conclusione del conflitto, Mosca riconoscerà l’indipendenza di Abcazia e Ossezia del Sud - una mossa che verrà condannata da tutta la comunità internazionale - mentre la Georgia abbandonerà la Comunità degli Stati Indipendenti.

Ossezia del Sud e Abcazia appartengono formalmente alla Georgia, ma sono divenute de facto indipendenti da Tbilisi dopo una serie di aspri conflitti che, dal 1991, hanno visto la Russia schierarsi dalla loro parte. Cosa si nasconde dietro il suo appoggio alla causa separatista? Apparentemente iniziata per una violazione del cessate il fuoco da parte della Georgia, la guerra vede la Russia - ufficialmente - intervenire in difesa di oltre metà dei 70.000 sudosseti che avevano accolto la sua offerta di cittadinanza. In realtà le tensioni tra Mosca e Tbilisi erano cresciute esponenzialmente da quando nel 2004 Mikheil Saakashvili viene eletto presidente: le sue ambizioni di portare la Georgia all’interno di NATO e UE susciteranno non poche preoccupazioni per il Cremlino. Saakashvili attua infatti una politica di grande apertura verso le potenze occidentali,

Stati Uniti in primis: significativo l’incontro con l’allora vicepresidente americano Dick Cheney pochi giorni prima dell’attacco contro l’Ossezia, un incontro che non può che essere interpretato come un via libera da parte dell’amministrazione Bush e che fa ben comprendere la durezza della reazione di Putin. L’avvicinamento a Washington è determinato dal bisogno di rafforzare militarmente il Paese (gli USA si occuperanno dell’addestramento delle truppe georgiane, e Tbilisi invierà un contingente in

Dick Cheney, vicepresidente degli Stati Uniti d’America nell’era Bush 32

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Significativo l’incontro tra Saakashvili e Dick Cheney prima dell’attacco contro l’Ossezia del Sud Iraq) e dalla necessità di affrancarlo dalla dipendenza dagli idrocarburi russi. Nel 2006 viene quindi inaugurato l’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan, che dall’Azerbaijan, sul Mar Caspio, porta il petrolio fino al Mediterraneo orientale, in Turchia, ai confini con la Siria, passando proprio per la Georgia. Con la BTC Pipeline - che raccoglie, tra gli altri, gli interessi della britannica BP, principale partner, e delle americane Chevron, Conoco Phillips e Hess - Mosca, dopo aver già perso il controllo politico sul Caucaso, è dunque costretta a lasciare andare anche una fetta importante del monopolio economico che prima, attraverso la Gazprom, esercitava nell’area. Il suo intervento in difesa dell’indipendenza delle regioni georgiane è quindi un tentativo, riuscito, di sottrarle alla sfera d’influenza occidentale, facendo leva proprio sul conflitto interetnico. Nella guerra tra Russia e Georgia - dietro la quale si fronteggiano, per l’ennesima volta, Mosca e Washington - sono proprio Abcazia e Ossezia a perdere: due stati cuscinetto, ora sotto il controllo russo, che ser vono unicamente a proteggere i confini meridionali di una nostalgica, e fragile, Madre Russia.

Il puzzle post-sovietico

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rmenia, Azerbaijan, Bielorussia, Estonia, Georgia, Kazakistan, Kirghizistan, Lettonia, Lituania, Moldavia, Tagikistan, Turkmenistan, Ucraina, Uzbekistan. Sono questi i 14 pezzi che ai bordi della grande madre Russia vanno a comporre l’agitato puzzle dell’immenso spazio post-sovietico. Un mix di etnie, culture e religioni, in molti casi ancora in cerca di stabile collocazione a poco più di vent’anni dalla disgregazione dell’URSS. Ai margini di questo scenario continuano ad ardere sentimenti separatisti, specie nel Caucaso, dove si gioca una delle più importanti partite energetiche del pianeta. CECENIA Snodo petrolifero attraverso cui passano oleodotti e gasdotti, nel 1991 questa regione si è dichiarata indipendente dalla Russia. Da allora è ostaggio di un sanguinoso conflitto che ha prodotto due guerre (1991-1996 e 1999-2006), l’uccisione di tre presidenti per mano delle forze speciali russe e l’arricchimento di potenti warlords. Tra questi, c’è Shamil Basayev, passato alle cronache prima di essere ucciso per aver allargato le ostilità anche ai vicini Daghestan e Inguscezia, per il sequestro del Teatro Dubrovka nel 2002 e per la strage di Beslan nel 2004.

Quel che resta della Cecenia oggi è per la maggior parte sotto il controllo dell’esercito russo. Il resto lo governa Ramzan Kadyrov, che di fatto ha messo in piedi una dittatura macchiata quotidianamente da assassinii, stupri, rapimenti e casi di tortura. NAGORNO-KARABAKH Altra storia è quella del Nagorno-Karabakh, tra il gennaio del 1992 e il maggio del 1994 teatro di un conflitto tra la maggioranza etnica armena sostenuta dalla Repubblica Armena e la Repubblica dell’Azerbaijan. A quasi dieci anni dalla fine del conflitto, questa piccola repubblica da meno di 150.000 anime, non riconosciuta dalla comunità internazionale, sopravvive in un regime di cessate il fuoco da cui Armenia e Azerbaijan si tengono a distanza. TRANSNISTRIA Poco o nulla si sa invece della Transnistria, fazzoletto di terra popolato da circa 600.000 abitanti e rivendicato dalla Moldavia. Sulla sua bandiera verde e rossa in alto a sinistra campeggia ancora la falce e martello dell’URSS. Ultimo simbolo di un impero di cui ormai non si hanno più tracce.

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duRa lex Sotto la lente del diRitto

Chi ha il diritto di investire sul Caspio? Draconian

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ituato all’interno dello spazio eurasiatico, con una superficie di 371.000 chilometri e un volume d’acqua di 78.700 chilometri cubi, il Caspio è il più esteso bacino chiuso di acqua salata del mondo. I suoi fondali racchiudano oltre 75 miliardi di barili di petrolio e 6,9 trilioni di metri cubi di gas, il suo arenile ospita un ecosistema tanto complesso quanto delicato (nelle sue acque si trova il 90% di tutti gli storioni del mondo). La più rilevante tra le controversie attiene alla natura stessa del Caspio: è un mare o un lago? Il tema è di quelli complessi poiché dalla sua risoluzione dipende la possibilità di regolare le attività che si svolgono sia in superficie che nell’ambiente sottomarino. A cominciare dallo sfruttamento delle risorse energetiche.

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il diritto internazionale del mare Com’è noto, il diritto internazionale del mare e lo sfruttamento delle risorse in esso rinvenibili è regolato dalla Convenzione del diritto del mare di Montego Bay del 1982, che all’art. 77 definisce le risorse non viventi comprendendovi quelle minerali del fondo marino e del suo sottosuolo e, tra queste, le risorse in idrocarburi, il cui sfruttamento è da sempre all’origine dell’affermazione dei diritti degli Stati costieri sulla piattaforma continentale. L’art. 56, invece, a proposito della zona economica esclusiva, enuclea le attività per lo sfruttamento economico dell’ambiente, quali la produzione di energia dall’acqua, dalle correnti e dal vento. La ricerca e lo sfruttamento delle risorse in zone sotto giurisdizione nazionale soggiace a un regime giuridico imperniato sulla necessità di determinare i limiti di tali zone: mare territoriale, zona economica esclusiva, piattaforma continentale (verso l’esterno o rispetto agli Stati le cui coste siano adiacenti o fronteggianti). Quanto ai limiti esterni, la Convenzione del 1982 stabilisce che il mare territoriale non possa superare l’ampiezza massima di 12 miglia marine, misura adottata dalla gran parte degli Stati costieri, sebbene non siano infrequenti casi di Stati che hanno stabilito per le loro coste misure minori (3 o 6 miglia), senz’altro legittime, ovvero incompatibili con il limite inderogabile delle 12 miglia marine. Duecento miglia marine, invece, rappresentano il limite esterno sia della


zona economica esclusiva che della piattaforma continentale qualora il bordo esterno del margine continentale non si estenda al di là di tale limite: in tal caso trovano applicazione le complesse disposizioni dell’art. 76 della Convenzione del 1982, integrato dall’allegato II, relativo alla Commissione per i Limiti della Piattaforma Continentale. Ora è di tutta evidenza come, ai fini della ripartizione dei diritti di sfruttamento delle risorse naturali tra i cinque Paesi che si affacciano sul Caspio, assume rilievo estremo la definizione dello status da attribuirgli. Definirlo mare, infatti, determinerebbe la possibilità d’applicazione della Convenzione del diritto del mare di Montego Bay del 1982 e, in tale ipotesi, la giurisdizione sullo specchio d’acqua sarebbe ripartita tra tutti i Paesi litoranei, ciascuno dei quali potrebbe vantare un diritto esclusivo sulle ricchezze del proprio settore. A volerlo definire lago, invece, le norme applicabili sarebbero quelle mutuate dal diritto consuetudinario, con la conseguenza che la ripartizione della giurisdizione e, quindi, dei diritti di sfruttamento, avverrebbe in parti uguali. Ma lo specchio d’acqua, benchè salata, non è un mare perché circondato dalla terraferma e, tuttavia, è troppo grande per essere definito lago. Da ciò l’impossibilità di pervenire a una soluzione

condivisa, definitivamente naufragata nel 2011 in occasione del terzo summit tra i paesi rivieraschi per una “Convenzione sul Caspio”. In attesa che si definisca l’annosa questione circa lo status legale del Caspio, l’unica soluzione percorribile sembra essere quella orientata al rafforzamento di una rete di cooperazione basata sulla conclusione di trattati bilaterali. In questa prospettiva, però, mentre Azerbaijan, Russia e Kazakistan hanno già sottoscritto tre trattati bilaterali per definire i rispettivi confini, stabilire i diritti di cui ciascuno stato gode al loro interno e i doveri cui esso sarebbe soggetto nei confronti degli altri paesi. Turkmenistan e Iran, invece, pur ribadendo la necessità di una soluzione condivisa, ritengono nulli gli accordi bilaterali. E intanto cresce la corsa agli investimenti in armamenti navali dei cinque stati transfrontalieri.

Da sinistra: il presidente dell’Azerbaijan, Ilham Aliyev; del Turkmenistan, Kurbanguly Berdymukhamedov; del Kazakhstan, Nursultan Nazarbayev; dell’Iran, Mahmoud Ahmadinejad; della Russia, Vladimir Putin.

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www.lorienconsulting.it

a cuRa di loRien conSulting

Ius soli: italiani più consapevoli

Cittadinanza a figli di stranieri nati in Italia: favorevoli o contrari?

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situazione in Italia da parte di Governo e media ha evidentemente portato una maggiore conoscenza del fatto, ma non una maggiore sensibilizzazione. I principali fautori del cambiamento di legge sono gli elettori del centro sinistra (87,9%), seguiti, con grande distacco, dal centrodestra (61,1%); ultimi i centristi (56,3%). Percezione generale è comunque che gli immigrati abbiano attualmente i medesimi diritti degli italiani (57,8%); vi è poi un 23,2% che ritiene abbiano

meno diritti e un 12,8% che pensa gli immigrati abbiano attualmente più diritti rispetto agli italiani. Ma la condizione ideale sarebbe, per gli italiani, la parità: l’87,5% del campione auspica infatti un’uguaglianza di diritti, indipendentemente dal Paese di nascita dell’individuo, indipendentemente dl Paese di nascita dei genitori... Senz’altro, dunque, lo ius soli costituirebbe un primo importante segnale e passo verso questa uguaglianza desiderata da (quasi) tutti gli italiani.

Istituto: Lorien Consulting s.r.l. - Criteri seguiti per la formazione del campione: campione rappresentativo della popolazione italiana maggiorenne, rappresentativo per sesso, età e area geografica - Metodo di raccolta delle informazioni: indagine quantitativa telefonica (CATI, Computer Assisted Telephone Interview) - Numero delle persone interpellate ed universo di riferimento: 1.000 cittadini italiani maggiorenni - Data in cui è stato realizzato il sondaggio: 26 – 27 gennaio 2013 - Metodo di elaborazione: SPSS

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o ius soli indica l’acquisizione della cittadinanza a uno Stato da parte di chi nasce nel territorio di quello stesso Stato, indipendentemente dalla cittadinanza dei genitori. Nel mondo e nella stessa Europa molti stati, quali USA, Canada, Grecia, Francia, Irlanda, Gran Bretagna, Finlandia applicano lo ius soli, con o senza determinate condizioni. Sul suolo italiano, invece, la legislazione è differente: se una persona è nata in Italia da genitori di altra cittadinanza, non potrà avere la cittadinanza italiana finché non avrà compiuto i 18 anni; da quel momento, avrà solamente un anno di tempo per farne richiesta. In caso contrario, dovrà fare richiesta di residenza e risiedere in Italia almeno tre anni prima di poterla richiedere di nuovo. Tante condizioni, tante limitazioni, e gli italiani ne sono sempre più consapevoli. Ben il 73,5% del campione intervistato ne è infatti a conoscenza, dato di molto superiore a quello rilevato da Lorien due anni fa per il Comitato Italiano per l’Unicef (36,8%). Alla consapevolezza si accosta poi una quasi piena adesione al concetto dello ius soli: il 71.6% si dichiara infatti favorevole ad allargare la cittadinanza italiana a chiunque nasca in Italia, indipendentemente dalla provenienza dei genitori. Il dato non si discosta molto, però, da quello rilevato nel 2011 (76,9%): la maggiore comunicazione dell’attuale


INSIS SpA is an italian company specialized in designing and manufacturing of multi-technological systems for Civil and Military application. INSIS SpA is able to offer cost-effective and tailored solutions in different areas related to electronics, servo-techniques, electro-optics, high precision mechanics and their conbination. Thanks to its background on system analysis, INSIS SpA is able to provide valuable contribution to the customers according to a flexible and cooperative model, being able By Official acknowledgment of Iyalian Government, INSIS SpA is a National Research Laboratory and it is listed in the Laboratories Register of Italian Scientific and Tecnological Research Ministry since 1997. Since 1999 the Company has been issued by CSQ of the ISO 9001 Certification.


SicuReZZa

Venezuela | di Hugo

Non si ferma la battaglia di Henrique Capriles contro il chavismo residuale che ancora vive grazie a Nicolas Maduro. Dalla sua, Capriles ha un argomento più che convincente: la recessione economica venezuelana. Intanto, il PSUV retrocede

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Il tramonto del chavismo

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quasi due mesi dalle elezioni presidenziali, che tra polemiche e violenti scontri hanno decretato la vittoria del chavista Nicolas Maduro, il Venezuela è un Paese fondamentalmente spaccato in due. Non poteva essere diversamente, visto il minimo scarto (1,8% dei consensi) con cui il delfino di Chavez è riuscito ad avere la

meglio sul leader dell’opposizione Henrique Capriles. A nulla sono valse le richieste di quest’ultimo di ricontare le schede per certificare la validità del voto. A valere, semmai, è un dato ben più influente, da cui dipenderanno il presente e il futuro del Venezuela: questa tornata elettorale sancisce infatti il tramonto del sogno della rivoluzione chavista, sulla cui resistenza dopo Chavez erano già sorti non pochi dubbi in occasione delle precedenti elezioni del dicembre 2012, quando il caudillo venne riconfermato alla guida del Paese ma senza quel plebiscito che ne aveva accompagnato l’ascesa iniziata nel 1998.

La débâcle del PSUV Stati ZULIA MIRANDA DIST.CAPITAL CARABOBO LARA ARAGUA ANZOATEGUI BOLIVAR TACHIRA SUCRE FALCON MERIDA MONAGAS PORTUGUESA BARINAS TRUJILLO GUARICO YARACUY NUEVA ESPARTA APURE VARGAS COJEDES DELTA AMACURO AMAZZONIA

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16 dicembRe 2012 goVeRno oppoSiZione 52,2 47,8 NA 55,7 45,9 55,6 56,5 46,6 54,0 59,8 51,6 50,2 55,1 53,8 57,9 82,3 74,7 61,5 54,1 63,3 73,4 63,4 82,1 38,7

47,7 51,8 NA 43,6 53,9 44,2 42,9 43,8 45,5 35,7 35,9 39,8 41,7 24,9 42,1 17,3 25,2 37,8 45,7 22,2 25,1 36,0 16,0 55,0

14 apRile 2013 maduRo capRileS 47,7 47,3 51,3 50,5 47,7 54,1 47,3 47,9 37,0 57,5 53,0 42,9 55,5 65,4 50,2 59,8 59,2 56,6 46,9 61,7 57,1 61,2 61,3 52,5

52,1 52,3 48,2 49,2 52,0 45,6 52,5 51,8 62,9 42,4 46,7 56,9 44,3 34,3 47,7 40,0 40,6 43,2 52,9 38,1 42,5 38,7 38,5 47,4


SicuReZZa

Nella cartina, dall’alto: Nicolas Maduro ed Henrique Capriles

capriles, l’uomo del futuro I numeri parlano chiaro. Nell’arco di quattro mesi, tra l’ultima elezione di Chavez e la discussa vittoria di Maduro, il PSUV (Partido Socialista Unido de Venezuela) ha perso 8 province (Zulia, Miranda, Lara, Anzoategui, Bolívar, Táchira, Mérida e Nueva Esparta) e ha ottenuto una conferma risicata in molte altre (Carabobo, Barinas, Distretto Capital e Amazzonia). Seppur sconfitto, Capriles esce dunque più che fortificato da questo voto. Alla luce di quanto accaduto, il leader della coalizione di centrodestra Unità Nazionale rappresenta l’unica vera alternativa al chavismo e può dunque ambire seriamente a diventare il prossimo presidente del Venezuela. Dalla sua, Capriles ha strati sempre più larghi della popolazione, messa in ginocchio da un ultimo semestre terrificante sul piano economico.

l’economia in crisi In questi sei mesi è emersa più che mai l’inadeguatezza dei meccanismi di sostegno sociale propagandati nell’epoca chavista, rivelatisi inefficaci di fronte all’impennata dell’inflazione, alla progressiva svalutazione del bolivar, alla scarsità di beni di consumo di prima necessità e al congelamento dei salari. Il resto lo hanno fatto la corruzione, sempre più diffusa, e le tensioni sociali, sfociate in scontri tra manifestanti e forze di sicurezza che nei giorni seguiti al voto hanno causato la morte di sette persone.

il rischio implosione Problemi per Maduro potrebbero arrivare anche dall’interno, come dimostrano le bollenti conversazioni telefoniche tra Mario Silva, simbolo del chavismo, e Aramis Palacios, agente dei servizi segreti cubani operativo a Caracas. Nel corso di una telefonata, Silva parla di profonde divisioni all’interno del governo e di possibili defezioni anche nell’esercito, puntando il dito contro la grande rete di corruzione orchestrata all’ombra del chavismo dal presidente dell’Assemblea Nazionale, Diosdado Cabello. Parole pesanti come macigni, che potrebbero presto scaraventarsi contro la stabilità del governo di Maduro e avere degli effetti dirompenti in tutta l’America Latina.

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economia

Angela Merkel

Germania L’incredibile caso di “Reinhart & Rogoff” Il debito europeo

Giappone Allarme clima e dialogo con la Cina

Perù La crescita possibile

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economia

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Germania |

di B. Woods

La solitudine

n altro pilastro dell’austerità è crollato fragorosamente dopo aver perso il sostegno e la copertura ideologica dei teorici del ‘rigore a ogni costo’, cioè di quel Fondo Monetario Internazionale (FMI) che, da baluardo del fondamentalismo del mercato e delle politiche fiscali restrittive degli anni di Reagan e della Thatcher, sotto la guida del professor Blanchard si è progressivamente spostato verso politiche fiscali espansive, riconoscendo che il rigore peggiora il rapporto debito pubblico/Pil, invece di migliorarlo (World Economic Outlook October 2012, FMI). Nel 2010, nel celebrato articolo “Growth in a Time of Debt”, pubblicato dalla prestigiosa rivista American Economic Review, la professoressa C. Reinhart e il professor K. Rogoff - ribattezzati “R&R” ed entrambi docenti dell’Università di Harvard - propongono lo studio della relazione crescita/debito/inflazione, per un insieme di 44 nazioni su di un intervallo di

della Cancelliera Può un giovane di 28 anni sconfessare uno studio su cui si basano le politiche fiscali di un intero continente? Sembra di sì. Adesso, per la rigorista Germania sorgono problemi seri

200 anni. Le conclusioni, basate su oltre 3.700 osservazioni annuali, quindi in principio un data-set di tutto rispetto per l’economia, sono dirompenti: per la prima volta si afferma con ragionevole certezza che esiste un livello soglia del rapporto debito/Pil: 90% per l’insieme LOOKOUT n. 5 giugno 2013

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economia

Il dizionario Jens Weidmann, giovane governatore della Bundesbank (classe 1968), afferma che in futuro dovrà essere possibile far fallire uno Stato dell’Eurozona, in modo da “riportare la disciplina nel mercato”. Una volta che sarà raggiunta l’unione bancaria, infatti, nell’area euro non vi sarà più traccia del legame tra debiti sovrani e banche. Parlava a titolo personale o della Germania?

dei Paesi considerati, ma solo il 60% per i Paesi emergenti, superato il quale l’ulteriore peggioramento del rapporto comprometterebbe la crescita di lungo periodo. Basandosi sullo stesso data-set e proseguendo nella ricerca, nel 2012 “R&R” pubblicano sul Journal of Economic Perspectives “Public Debt Overhangs: Advanced Economy Episodes since 1800” ovvero “Il debito pubblico incombente: avvenimenti nelle economie sviluppate dal 1800”. Scopo del nuovo articolo è indagare le conseguenze sulla crescita e sui tassi d’interesse in Paesi in cui il rapporto debito pubblico/Pil sia risultato superiore alla soglia critica del 90% individuata. “R&R” concludono: se il rapporto debito pubblico/Pil eccede il 90% per più di 5 anni, pur non avendo effetti sui tassi d’interesse reali e sulle crisi finanziarie, si riduce sensibilmente il tasso annuo di crescita e si determinano perdite economiche consistenti e un sostanziale declino della produzione. Quindi, non è solo la conferma delle tesi del 2010 ma anche l’individuazione del livello del debito pubblico, questa volta, come la vera ipoteca sulla crescita economica di un Paese. Da porre in evidenza che, trattandosi di studi empirici, non di ricerche teoriche, la bontà delle conclusioni è assicurata dalla coerenza e correttezza della statistica utilizzata. Ma poco dopo accade l’incredibile: il ventottenne Thomas Herndon, studente di dottorato dell’Università Amherst (Massachussets), si mette a rifare i calcoli di “R&R” e non riesce a ottenere gli stessi risultati. Prova e riprova, ma i conti non tornano. Alla fine, Thomas si fa coraggio e chiede direttamente a “R&R”, i guru del rigore, i file sorgente.

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economia

Il debito dei governi europei Alla fine del secondo trimestre del 2012, il rapporto debito/PIL dei governi nell’area euro, saliva al 90% in confronto al 88,2% della fine del primo trimestre 2012. Nell’Europa A27 il rapporto è cresciuto dal 83,5% al 84,9%.

E cosa scopre? Che “R&R” hanno commesso alcuni grossolani errori: hanno disallineato le colonne nelle addizioni e, soprattutto, hanno escluso alcuni Paesi (Nuova Zelanda, Canada e Australia) che erano in controtendenza rispetto alle loro conclusioni. La vicenda diventa pubblica e “R&R” non possono far altro che ammettere gli errori e scusarsi. Tuttavia, se un errore di calcolo è sempre comprensibile e forse giustificabile, certamente politicamente non corretta si rivela la

pulizia dei dati, anche perché talvolta è la scorciatoia usata per validare una ricerca econometrica. A questo punto, visti i risultati ottenuti con le diverse scelte compiute da Barack Obama e da Shinzo Abe rispetto a quelle della UE, e visto il crollo dei puntelli teorici delle politiche deflattive, in molti adesso si interrogano sul perché la UE deve continuare a seguire le arbitrarie regole dettate in sorda solitudine dalla Cancelliera Merkel e dalla Bundesbank.

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economia

Giappone |

Clima di pace?

di B.Woods

Se fosse il clima l’occasione per un nuovo dialogo tra Cina e Giappone? Difficile, ma non impossibile. Se, da una parte, si fronteggiano per vecchie e nuove dispute territoriali, dall’altra soffrono per i livelli da record raggiunti dall’inquinamento ambientale

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a contesa tra i due giganti economici asiatici ha ormai carattere generale in un’escalation di azioni e reazioni che prefigurano scenari preoccupanti, basti pensare al recente confronto muscolare per le isole Senkaku. In questo contesto, si inserisce anche la vicenda delle foreste di cedri di Yakushima, un’isola montagnosa a sud di Kyushu. Yakushima ospita ecosistemi originari con oltre 1.900 specie e sottospecie di piante, 20 specie e sottospecie di mammiferi, tra cui il macaco giapponese e il cervo giapponese, e 150 specie di uccelli, tra cui il piccione giapponese e il pettirosso Ryukyu (considerati “monumenti naturali”). Yakushima custodisce, inoltre, le foreste primordiali di sugi o cedri giapponesi - il più vecchio dei quali si ritiene abbia più di 2.600 anni - dichiarate dall’UNESCO Patrimonio dell’Umanità (1993). Le foreste di cedri, meta di un intenso ecoturismo, sono da alcuni anni falcidiate da una misteriosa malattia che ne sta determinando la distruzione. Tra gli scienziati che hanno ricercato le cause della

morte dei pini secolari, nelle scorse settimane, è assurto agli onori della cronaca il professor Osamu Nakafushi. Secondo il Professor Nakafushi, ingegnere ambientale dell’Università di Shiga (Giappone), è l’inquinamento che sta uccidendo le foreste di cedri: il professore attribuisce, infatti, a fosforo e solfati la distruzione della chioma degli alberi e quindi delle foreste. Fin qui nulla di nuovo, l’azione delle piogge acide sulle piante è ben nota anche in Europa, dove tutti dovrebbero ricordare la distruzione della Foresta Nera negli anni Settanta. Sennonché, l’isola di Yakushima è ben lontana dai centri industriali giapponesi. E allora? Secondo il professor Nakafushi l’inquinamento che sta uccidendo i cedri secolari di Yakushima è il prodotto indesiderato (esternalità negativa) dell’impetuoso sviluppo industriale cinese. L’analisi dei residui chimici imprigionati nella neve e l’esame satellitare hanno rivelato che sono i venti che soffiano da Nord, in particolare dalle municipalità di Pechino e Tianjin situate a più di 1.400 km di distanza, a condurre i residui della combustione del carbone


economia

nel paradiso ecologico nipponico, dopo aver attraversato il Mar della Cina Orientale. La rivelazione e il picco assoluto di inquinamento registrato a Pechino durante lo scorso inverno (25 volte il livello di sicurezza nella concentrazione di poveri sottili PM2,5) hanno suscitato grande apprensione in tutto il Giappone e indotto le autorità, fino ad allora scettiche, a emettere provvedimenti di emergenza, come l’invito alle popolazioni a “non uscire in strada”, e a rivedere i protocolli sanitari di sicurezza. L’impossibilità di confinare l’inquinamento nel Paese che lo produce, unita alla difficoltà di applicazione del principio chi

inquina paga, sembrano indicare una sola strada per uscire da questo nuovo incubo: collaborare. Il carattere globale del cambiamento climatico rende, infatti, necessario ripensare i rapporti tra stati nazionali in un’ottica di cooperazione. Da una parte, Cina e Giappone si fronteggiano per vecchie e nuove dispute territoriali, dall’altra soffrono per i livelli da record raggiunti dall’inquinamento ambientale che, come detto, ha un carattere transnazionale. In questo contesto non avrebbe maggior senso cooperare piuttosto che affannarsi per primeggiare in competizioni a somma zero? Non è forse questo che il mondo si attende da popoli con culture millenarie?

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Perù |

Se il “colibrì” ha ripreso il volo

Il governo peruviano crede nel sorpasso economico delle potenze regionali. Anche se la testa della graduatoria resta lontana, la macchina ha cominciato a funzionare. Fujimori è definitivamente alle spalle? di Hugo

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econdo le ultime proiezioni del Fondo Monetario Internazionale, entro la fine del 2013 il Perù crescerà del 6,3%, staccando nettamente economie storicamente più solide come quelle di Messico, Argentina (+ 3,5%) e Brasile (3%). Un dato importante, che permette a questo stato di scavalcare la Colombia per PIL pro capite (11.403 dollari contro 11.284 dollari) e di guadagnarsi il nono posto nella classifica delle economie sudamericane. La testa della graduatoria resta lontana, considerato che il primo posto

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è custodito stabilmente dal Cile (PIL pro capite pari a 19.475 dollari), seguito da Panama e Uruguay. Ma, se si considera il valore medio del PIL in tutta l’America Latina (12.818 dollari), il bicchiere dalle parti di Lima può tranquillamente essere visto mezzo pieno. Per concretizzare questa crescita, il Perù ha fatto leva principalmente sulla sua posizione strategica, sullo sfruttamento,


economia

sulla raffinazione e sull’esportazione delle sue risorse minerarie, e sull’ittica. Ma non solo, perché il governo, guidato dal 2011 dal presidente nazionalista Ollanta Humala, negli ultimi anni ha investito anche sulla diversificazione della propria economia puntando su agroalimentare, industria leggera e ser vizi terziari. Non è stato facile, d’altronde, riprendersi da un cinquantennio disastroso sul piano politico, economico e sociale: dagli anni Cinquanta agli anni Settanta il Paese ha infatti patito un isolazionismo suicida, collassando a causa di una profonda crisi economia (fine anni Ottanta) e per la vertiginosa crescita dell’inflazione durante il primo governo guidato dal Partido Aprista Peruano di Alan García Pérez (1985-1990). Non è andata meglio nel decennio 1990-2000, coinciso con la presidenza di Alberto Fujimori: salito al potere in un momento delicato per la nazione, Fujimori ha imposto un governo totalitario cancellando le

Investimenti stranieri in Perù

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tando a quanto rivelato dalla CEPAL, la Commissione Economica per l’America Latina e i Caraibi delle Nazioni Unite, nel 2012 gli investimenti stranieri diretti in Perù hanno raggiunto i 12.240 milioni dollari, il che ha significato un aumento del 49% rispetto al 2011, molto meglio di Cile (+32%), Paraguay (+27%), Bolivia (+23%), Colombia (+18%) e Uruguay (+8%). Ad accaparrarsi i maggiori capitali dall’estero è stato il Brasile (65.272 milioni di dollari), nonostante il suo trend sia calato del 2% rispetto al 2011.

libertà democratiche e adottando una politica economica neoliberale, con drastiche misure per il contenimento dei prezzi e l’istituzione della nuova moneta peruviana Nuevo Sol, rivelatasi evanescente. Superata anche questa fase buia della sua storia, oggi il Perù guarda con orgoglio al futuro, forte di una crescita economica che negli ultimi dieci anni gli ha permesso di ritagliarsi una posizione stabile nello scacchiere economico del Sud America. Il rischio, semmai, potrebbe essere rappresentato da fattori esterni, come la crisi economica attraversata da Europa e Cina, il che potrebbe

portare a un vistoso calo della domanda dei suoi prodotti minerari. Ma, secondo il FMI, le basi per continuare a crescere e schivare questi ostacoli ci sono tutte. Fondamentale sarà varare una riforma strutturale del sistema economico e del mercato del lavoro, puntando sulla competitività, sulla realizzazione di nuove infrastrutture, sull’ammodernamento del tessuto industriale, ma senza dimenticare l’istruzione, la formazione di nuovi insegnanti e l’assistenza sanitaria. Insomma, partire dal basso e dare seguito a quanto di buono fatto dalla fine del disgraziato decennio di Fujimori.

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do you SpRead? Voci dal meRcato globale

Storia di una rivoluzione sotterranea B. Woods

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a rivoluzione della messa a coltivazione dei giacimenti di gas e di petrolio non convenzionali sta producendo grandi cambiamenti negli Stati Uniti. La IEA (Agenzia Internazionale dell’Energia) prevede che entro il 2015 gli USA sopravanzeranno la Russia, diventando così il primo produttore mondiale di gas naturale, mentre l’estrazione di petrolio ha già raggiunto gli 8,5 milioni di barili (1 barile corrisponde a 159 litri) facendo crollare le importazioni al 42% dei consumi e prefigurando l’autosufficienza di Washington in tempi brevi. La conseguenza più evidente, soprattutto in un clima segnato dalla lenta ripresa dalla recessione indotta dalla crisi del 2008, è stata la creazione di 1,7 milioni di nuovi posti di lavoro nel 2012, con la prospettiva di raggiungere i 3 milioni alla fine del decennio. La rivoluzione dell’energia da scisti ha prodotto, insomma, un notevole fermento di cui vorremmo raccontare alcuni episodi. Il primo riguarda il confronto

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indiretto che ha coinvolto Texas e California, stati da sempre guidati da visioni alternative della crescita economica. Il Texas ha imboccato senza indugi la strada dello sfruttamento dei propri giacimenti di petrolio (Eagle Ford, Permian Basin, etc.) raddoppiando la produzione rispetto al 2005, con la previsione di un ulteriore raddoppio entro il 2016. I salari medi dei 400.000 addetti nell’industria energetica sono di circa 100.000 dollari annui; mentre l’estrazione dei combustibili fossili, con un giro di affari pari a 80 miliardi di dollari, ha generato 12 miliardi di dollari di tasse statali e contribuito a ridurre il tasso di disoccupazione al 6,4%. La California, che presenta uno dei più elevati tassi di disoccupazione (9,4%), ha visto la produzione di petrolio ridursi ininterrottamente dal 2001, nonostante le notevoli riserve offshore e gli estesi giacimenti di shale gas, come quello di Monterey, dove però l’attività di prospezione/ estrazione è stata bloccata dall’azione di un giudice federale che ha chiesto un’ulteriore valutazione ambientale delle tecniche di fracking. Diversa sensibilità ambientale oppure, come fanno notare alcuni commentatori (Wall Street Journal in primis), in Texas i giacimenti si trovano su terreni privati mentre in California sono su terreni pubblici? Mentre il mondo fa i conti con i nuovi allarmanti dati sulla concentrazione di anidride carbonica (CO2) nell’aria - uno dei principali gas serra imputati dell’aumento medio delle temperature globali, che ha superato la soglia critica di 400 parti per milione secondo il NOAA, National


Oceanic and Atmospheric Administration - gli Stati Uniti progettano di convertire l’alimentazione della loro flotta di 8 milioni di autocarri pesanti (i famosi “18 ruote”) e quelli medi, passando dal gasolio al gas naturale liquefatto (LNG), con un risparmio di 3 milioni di barili di petrolio al giorno (15% dei consumi quotidiani). Il New York Times riporta che la United Parcel Service (UPS) prevede di avere un parco di 800 autocarri a 18 ruote alimentati da LNG nel 2014, mentre altri giganti come P&G si dicono orientati a seguirne le orme. Allo stato, l’ostacolo principale alla transizione è rappresentato dalla pressoché inesistente rete di distribuzione di gas per autotrazione: 53 impianti di LNG e 1.047 di CNG, a fronte di oltre 150.000 distributori di gasolio e benzina (fonte: Energy Department US). Sull’adeguamento della rete di distribuzione di LNG hanno recentemente scommesso alcune grandi compagnie come Clean Energy, Shell ed ENN, che prevedono di realizzare in tempi brevi 700 nuove stazioni di servizio.

Infine, nell’ultimo anno si è assistito a un intenso dibattito circa l’uso che gli Stati Uniti dovrebbero fare del gas da scisti, lo shale gas appunto. La questione è molto semplice: gli USA dovrebbero utilizzare la loro crescente produzione di gas per garantire ai loro alleati forniture energetiche a prezzi stabili, liberandoli dalla dipendenza dagli attuali produttori (Russia, Iran, Qatar, Arabia Saudita, etc.) oppure dovrebbero sfruttare l’accesso a una fonte energetica a basso costo, per riconquistare un vantaggio competitivo anche nelle produzioni ad alta intensità di energia? Nel dilemma di una scelta compresa tra geopolitica e primato economico, il Dipartimento dell’Energia temporeggia sulle oltre 20 richieste di autorizzazione all’esportazione di LNG, e l’industria dei combustibili da giacimenti non convenzionali continua a riversare energia a basso costo nel Paese. Nel frattempo, in Italia siamo ancora alla telenovela dei rigassificatori, mentre la UE si mostra quanto meno indifferente al tema...

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politicamente ScoRRetto quello che gli altRi non dicono

American Dream(less) di Tersite

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gni anno negli USA vivono la condizione di homeless 1,6 milioni di bambini. Il 42% sotto i 6 anni. In massima parte in famiglie formate da donne entro i 30 anni con due bambini. Il numero dei veterani di guerra homeless molti con disabilità per ferite di guerra - è raddoppiato dal 2010 al 2012. Il 29% degli adulti nelle famiglie homeless ha un impiego. I bambini homeless si ammalano di più: quattro volte per infezioni respiratorie, due per infezioni alle orecchie, cinque per problemi gastrointestinali, quattro per contrazione di asma, problemi emozionali e comportamentali. Gli homeless statunitensi non sono drop outs, come i nostri ‘barboni’, ma gente che tenta di condurre una vita normale. Così sono un milione i bambini

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che arrivano nelle scuole avendo passato la notte in una scatola di cartone o in una vecchia auto. I loro studi, come per la maggioranza delle madri single, sono fortemente viziati dal disagio. Il Center for Human Development indica che circa il 14% degli americani - cioè 40 milioni - manifestano carenze nella comprensione di giornali e volantini. La Working Poor Family Project riporta 10,4 milioni di famiglie di lavoratori (32%) al di sotto della Federal Line Poverty. Il totale di 47,5 milioni di persone, di cui 23,5 milioni di bambini, corrisponde alla popolazione combinata degli stati di California, Oregon e Washington. Tra il 1997 e il 2007 il salario minimo federale orario è rimasto a 5,15 $. L’incremento a 7,25 $ lascia ancora un single salariato al di sotto della soglia di povertà. La crisi ha consentito di creare negli ultimi tre anni nuovi posti di lavoro con una bassa qualità dell’occupazione, e in ragione di una corsa al ribasso dei salari. Nella media - soprattutto per le spese mediche - una famiglia dovrebbe avere un reddito doppio della Federal Povetry Line per poter corrispondere ai bisogni primari. Gli Stati Uniti sono il paese occidentale con la più alta percentuale di poveri, e con la più bassa aspettativa di vita: sono al 42° posto dopo Cuba, e preceduti solo da Cile e Portorico. Quelli che non sono in strada sono in carcere. Visto che tra i 2,5 milioni di detenuti statunitensi (il 25% della popolazione detenuta mondiale) aumentano quelli che sono dietro le sbarre per il mancato pagamento di multe, mutui, debito da carte di


credito o anche solo per qualche centinaio di dollari: il ripristino della famigerata Debtors’ Prison, ancora in violazione della Costituzione nella sua Equal Protection Clause. Si dirà “è la crisi”. No: la compressione dei salari e l’impoverimento della working class sono fenomeni pregressi, accentuati dalla crisi ma iniziati con la deindustrializzazione e finanziarizzazione dell’economia d’epoca reaganiana. L’impoverimento non è generale: così dalla fine degli anni ’90 il reddito è cresciuto del 14% per il 5% delle famiglie più ricche, e solo del 1,2% per quelle meno ricche. Il 20% delle famiglie con maggiore introito dispone del 48% del reddito totale, mentre il 20% delle famiglie con minor reddito di meno del 5%. La produttività dei lavoratori americani è cresciuta dell’80% dal 1973 e di ben il 23% dal 2000 a oggi. Cioè i profitti. Perché nello stesso periodo i salari sono cresciuti molto meno. Cosicché il reddito medio è diminuito di oltre il 12% dal 2000 al 2011, mentre l’economia è cresciuta del 18%. Come gli homeless vengono cacciati a forza dalle città, perché non sono una bella cosa da vedere, né da mostrare, per chi non può non continuare a credere nella propaganda da Guerra Fredda dell’American Dream e dell’American way of life, così fonti governative danno

New York, New York

N

ella Grande Mela, specchio degli USA, il numero di newyorchesi sotto la soglia di povertà è aumentato di 100mila unità dal 2010, con un tasso pari al 21%. Che sale sopra il 23% considerando le famiglie con figli (1 milione e 700mila persone in totale). Secondo la Coalition for the Homeless che il numero delle famiglie senza tetto a New York è aumentato del 73% dal 2002. I senza casa sono anche senza un pasto sicuro: ogni giorno negli USA cinquanta milioni di persone vivono la fame e un bambino su quattro è “food insicure”, nonostante il governo distribuisca ben 48 milioni di tessere alimentari (SNAP Program). Gli americani che vivono grazie ai buoni pasto sono oggi 1 su 6, mentre negli anni ‘70 erano 1 su 50. Tra chi ha chiesto assistenza alimentare a New York il 51% sono famiglie, il 37% lavoratori, il 17% anziani e il 9% senzatetto.

informazioni in netto contrasto con i dati degli stessi Uffici Federali. Per queste fonti, gli homeless sono in diminuzione e per non scoraggiare arruolamenti, essendo un Paese in guerra permanente - il numero dei veterani homeless sarebbe addirittura dimezzato, anziché raddoppiato. Chi volesse credere che questo disastro sociale sia un fenomeno d’oltreoceano si sbaglierebbe. La regola liberista dell’indifferenza al benessere sociale per l’accumulo di profitto vige da un trentennio in tutti Paesi occidentali, e gli USA sono solo un po’ più avanti. In Germania, nel novembre del 2012, un rapporto parlamentare sulle condizioni sociali ha superato le maglie della “riservatezza” . Il governo aveva diffuso dati aggiustati fino al loro rovesciamento di senso: dal

rapporto risulta che già nel 1998 il 10% più ricco della popolazione si divideva il 45% della ricchezza, mentre il 50% più povero ne possedeva solo il 4%. Nel 2008, la sperequazione ha portato il 10% più ricco a dividersi il 53% della ricchezza, mentre quella del 50% più povero è scesa drasticamente all’1%. E il numero dei poveri ha continuato a salire: dal 15,5% del 2008 al 15,8% del 2010. Tra coloro che vivono da soli, o tra i genitori single, arriva fino al 37%. La soglia di povertà in Germania è a 940 euro. Ancora, mentre i salari più alti sono cresciuti negli ultimi dieci anni, quelli più bassi sono crollati. Nel 2010 oltre 4 milioni di persone hanno lavorato per meno di 7 euro l’ora. Analoga, se non peggiore, la curva del degrado sociale in Inghilterra dagli anni ‘80.

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un libRo al meSe a cuRa di @luciotirinnanzi

coSì dicono

Lui è tornato di Timur Vermes Editrice Bompiani 2013 pp. 448 18,50 euro

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he effetto vi farebbe scoprire che Adolf Hitler è di nuovo tra noi? È questo il punto di partenza di Lui è tornato, il caso editoriale del 2013, libro fantasy scritto dalla penna del giornalista e ghost writer tedesco Timur Vermes, che sta spopolando in Germania, dove ha già venduto oltre 600mila copie, e che è in corso di traduzione in ben 26 lingue. L’idea, bisogna riconoscerlo, è davvero originale: Vermes mette in scena una comica quanto inquietante ricomparsa di uno dei più famigerati dittatori della storia, il quale si sveglia nel bel mezzo di un prato a Berlino nel 2011, vestito in uniforme e convinto che la guerra sia ancora in atto. Hitler, che parla in prima persona, si avventura alla scoperta di una nuova realtà che, però, fa presto sua e che lo porta a vivere una seconda chance come “popstar” di un canale di intrattenimento televisivo fino a voler rifondare il partito. Oltre al fatto che il personaggio ricalca fedelmente quelli che l’autore ipotizza potessero essere i reali pensieri del fuhrer, con ciò dando spessore a questo romanzo, si ride moltissimo. L’operazione non corre pericoli di antisemitismo o incitamento al nazismo perché, tra le righe, è un continuo ridicolizzare l’epopea nazista. Ma a uscirne male è soprattutto la Bundesrepublik odierna, cui Hitler non risparmia critiche feroci.

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Il popolo si è battuto per l’Islam. E Islam significa tutto. L’Islam ingloba tutto. L’Islam è tutto Ruhollah Khomeini (1902 -1989)

C

hissà cosa avrebbe pensato Ruhollah Khomeini nell’osservare l’Iran di oggi e il pragmatismo attraverso cui il suo successore, l’ayatollah Ali Khamenei, lo sta conducendo al voto? Ciò che è certo è che, a quasi venticinque anni dalla sua morte, il suo insegnamento continua ad accompagnare le scelte di questo Paese, decisive per le sorti del Medio Oriente ma anche dell’Asia Centrale. Se l’Iran è tornato all’Islam, d’altronde, lo deve a lui e alla sua rivoluzione che nel 1979 portò il popolo a rivoltarsi contro lo scià Reza Pahlavi. Ristabilitosi a Teheran dopo sedici anni di esilio, Khomeini instaurò una Repubblica islamica, divenendone la guida spirituale fino al giorno della sua morte, il 3 giugno del 1989. In un decennio riportò il Paese all’Islam radicale, assegnando al nemico americano “il volto e gli occhi di satana”. Lo ricordò bene anche l’Italia, grazie all’intervista realizzata da Oriana Fallaci per il Corriere della Sera, pubblicata il 26 settembre del 1979. Alla domanda della giornalista se mai l’ayatollah avesse pianto o provato pietà, egli rispose: “Io piango, rido, soffro: pensa che non sia un essere umano?”.



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