geopolitica
MO, l’ora di religione
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sicureZZa
Il Brasile in ebollizione
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economia
La favola dell’austerity
anno I - n. 6 luglio 2013
sunniti ontro
sciiti Dal Nordafrica alla Penisola Araba, dalla Siria al Libano e Iraq, l’Islam combatte contro se stesso. È la sua “Guerra dei Trent’anni”?
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sommario
geopolitica 8 La fede e la ragione 12 La “Guerra
dei Trent’anni” 14 La catastrofe
umanitaria 18 Rouhani, il settimo
Presidente
sicureZZa
26 Panem et circenses
non bastano 30 Erdogan e Piazza
Taksim, prova superata 32 Sviluppo,
altro che “siesta”!
14 economia 38 La favola dell’austerità
espansiva 42 La caduta degli dei
rubriche 16 dura lex Sotto la lente del diritto 24 l’araba fenice Donne, società e i tanti volti dell’Islam 20 a dire il vero... L’analisi di approfondimento 46 do you spread? Voci dal mercato globale
34 Terremoti e altri disastri
inoltre 6 mappamondo
46
50 un libro al mese 50 così dicono
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L’editoriale
Riflessioni (serie) d’inizio estate
L’
11 settembre del 2001, quando Al Qaeda ha attaccato gli Stati Uniti, tutti abbiamo temuto che gli attentati significassero l’inizio di un confronto politico e militare definitivo tra Islam e Occidente. Questo per fortuna non è avvenuto, ma l’aggressività sanguinaria dei jihadisti sunniti e dei loro sponsor politici ha creato le premesse per un nuovo conflitto, questa volta tutto all’interno dell’Islam, tra sciiti e sunniti. È un conflitto nel quale interagiscono fattori politici, religiosi, economici e sociali. È un conflitto destinato a durare e che abbiamo ritenuto di analizzare in profondità, per tentare di comprenderne le coordinate strategiche. Nelle piazze del Brasile e della Turchia sono comparse folle di autoconvocati, che via sms e tramite Facebook e Twitter si raccolgono per farsi sentire da una politica troppo spesso ottusamente conservatrice e corrotta. Il popolo degli Occupy è una nuova realtà politica e sociologica che spesso riesce a imporsi e a imporre mutamenti politici. Per questo ne abbiamo svelato le anime, insieme alle nuove realtà che emergeranno dalla vittoria in Iran del moderato Hassan Rouhani e dal rinascimento economico del Messico. In questo numero ci occupiamo anche di casa nostra e dei suoi problemi economici, spesso aggravati non soltanto da terremoti finanziari ma anche da quelli reali che fanno dell’Italia un Paese a rischio e che fanno di questo rischio una possibile opportunità economica. Rimettere in sesto il nostro patrimonio abitativo potrebbe infatti contribuire anche a ordinare i conti pubblici. In questa partita si affrontano le scuole di pensiero dei rigoristi e dei fautori di una politica di crescita espansiva. Non abbiamo una ricetta economica precisa, ma il nostro B. Woods sospetta che di solo rigore si possa morire.
mario mori
inbox il direttore editoriale risponde
Il governo italiano si incarta sugli F35
Edward Snowden fa tremare di nuovo l’America La cosa che più mi stupisce di questo caso è la tanta animosità con cui Snowden viene difeso dall’opinione pubblica. Fosse animato da veri ideali potrei anche capirlo. Invece si tratta di un ragazzo che ha venduto il suo Paese per soldi, o sbaglio? Francesco Atzeni
Credo che sia necessario acquistare gli F35 per sostituire i vecchi e obsoleti Tornado di vent’anni fa. Lo si potrebbe fare magari ammortizzando la spesa in più anni. Che ne pensate? Giuseppe Musumeci Certo, in tempo di crisi la spesa per gli F35 può suscitare perplessità. Il problema è che la decisione andrebbe presa non tanto sull’onda di una risposta emotiva ad argomenti facili ed un po’ qualunquistici (“usiamo i soldi degli F35 per mettere in sicurezza le scuole...”) ma all’interno di una riflessione complessiva del nostro modello di difesa. La funzione delle forze armate diventa logica e coerente solo all’interno di una politica difensiva chiara e razionale. È in questi confini che andrebbe discussa l’utilità o meno degli F35 o di una portaerei. Insomma, non interventi spot ma un ragionamento serio e aggiornato alla realtà economica e sociale in cui viviamo.
Armi ai ribelli: l’Occidente fa bene? No, lei non sbaglia. Snowden non può essere considerato un “combattente per la libertà”. È un uomo che ha tradito il suo Paese e i suoi impegni di dipendente pubblico americano. Ma, ed è un “ma” grosso come una casa, ha contribuito anche a far emergere quello che in molti cominciavamo a sospettare. L’amministrazione Obama ha un piglio arrogante e decisionista che la porta a non esitare, con i droni, ad uccidere senza processo i suoi “nemici” (anche cittadini americani!) in giro per il mondo, che non esita a mettere in piedi un piano di intercettazioni dei giornalisti ritenuti “nemici” e che non esita a spulciare tra la posta e i computer dei suoi cittadini. “Oportet ut scandala eveniant”: Snowden è un delinquente, ma il suo gesto forse riporterà nei binari un’amministrazione che sul piano dei diritti sembra deragliare.
La decisione dell’Occidente di fornire armi ai ribelli siriani è scellerata. Queste armi andranno in mano agli integralisti e ad Al Qaeda che poi, quando ne avrà bisogno, tornerà a puntarle contro di noi come è già accaduto in passato. John Dalto Su questo magazine lo abbiamo già scritto: non necessariamente il nemico di un cattivo è automaticamente un buono. Assad forse è un cattivo, ma i suoi oppositori sono migliori? Dare le armi a casaccio in un conflitto civile significa rafforzare le formazioni più aggressive e spregiudicate. Gli americani rifornirono di missili e di armi tutti i combattenti antisovietici in Afghanistan. Se ne sono avvantaggiati solo i talebani e Al Qaeda. Purtroppo spesso i policy makers agiscono più sotto la spinta del mainstream mediatico che di una riflessione storica e analitica. In Siria, come del resto è già successo in Libia, quando il genio sarà uscito dalla lampada sarà difficile farcelo rientrare.
Anno I - Numero 6 - luglio 2013
DIRETTORE RESPONSABILE Luciano Tirinnanzi @luciotirinnanzi redazione@lookoutnews.it
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REDAZIONE Rocco Bellantone Dario Scittarelli Cristiana Era Marta Pranzetti
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ART DIRECTION Francesco Verduci
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mappamondo nicaragua un nuovo canale per il centro america Presto il canale di Panama potrebbe avere un concorrente scomodo. Il Congresso nazionale del Nicaragua ha infatti approvato la costruzione di un canale lungo 286 km che attraverserà l’intero territorio nazionale, collegando la costa caraibica a quella pacifica. L’opera sarà realizzata dal cinese Wang Jing, proprietario del Gruppo HKND con base a Hong Kong. Prezzo 40 miliardi di dollari, inizio dei lavori nel 2014.
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mali maxi taglie per catturare i terroristi islamici Un fondo da 23 milioni di dollari per fermare la minaccia qaedista nel Continente africano. Gli USA offrono laute ricompense per ottenere informazioni sui più pericolosi militanti islamici operativi nel Maghreb e nel Sahel. La taglia più alta, pari a 7 milioni di dollari, pende sulla testa del leader di Boko Haram Abubakar Shekau. Mokhtar Belmokhtar ne varrebbe invece solo 5.
irlanda del nord g8: nessuna data per la conferenza di ginevra Uscita dalla recessione, crescita dell’economia, emergenza lavoro per i giovani. Sono questi i temi principali di cui hanno discusso a Lough Erne, in Irlanda del Nord, Stati Uniti, Giappone, Germania, Francia, Regno Unito, Italia, Canada e Russia, in occasione del G8 il 17 giugno. Nessuna novità sul fronte siriano e nessuna data per la Conferenza di Ginevra: si accettano scommesse.
india new delhi pensa al petrolio iracheno In attesa di capire se e come il neo presidente iraniano Rouhani riuscirà a limare le condizioni dell’embargo, il 7 giugno l’India - insieme a Cina, Malesia, Corea del Sud, Singapore, Sud Africa, Sri Lanka, Turchia e Taiwan - ha ottenuto dal dipartimento di Stato americano un’ulteriore deroga per le sue importazioni petrolifere dall’Iran. Se le cose dovessero andare male, New Delhi ha già il sostituto: l’Iraq. Ovviamente Cina permettendo.
russia un interruttore per spegnere il web Vladimir Putin vorrebbe affidare il controllo di internet a un’agenzia dell’ONU, mentre ogni Paese dovrebbe possedere un “interruttore” per spegnere il world wide web in caso di emergenza. La sua proposta, a dir poco sopra le righe, arriva qualche giorno dopo lo scoppio del “Datagate” e le rivelazioni bollenti dell’ex funzionario della CIA e del National Security Agency Edward Snowden. Chissà come l’avrà presa Obama?
australia i labor fanno fuori il premier gillard Il Partito Laburista australiano cambia volto in vista delle elezioni del 14 settembre. Il gruppo parlamentare, riunito d’emergenza il 26 giugno, ha costretto il premier in carica Julia Gillard a fare un passo indietro in favore del suo predecessore Kevin Rudd. La Gillard era in calo nei sondaggi. Adesso per i Liberal di Toni Abbott sarà certamente più dura.
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geopolitica
Medio Oriente La “Guerra dei Trent’anni” Le differenze tra le due anime principali dell’Islam
Siria L’aspetto umanitario della guerra
Iran Il dopo elezioni
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Fede e ragione sono gli ingredienti salienti per tentare di leggere con gli occhi del vicino Oriente una guerra che mescola politica e religione. C’è questo e altro nella “Guerra dei Trent’anni” dell’Islam
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Islam |
La fede
a scossa impressa all’impalcatura creata in quindici secoli alla Chiesa di Roma dalla riforma di Martin Lutero non soltanto ha creato le comunità protestanti ma ha destabilizzato l’intero assetto politico europeo che, pochi decenni dopo la ribellione religiosa luterana, è sfociata in una guerra continentale: la Guerra dei Trent’Anni, che dal 1618 al 1648 ha sconvolto gli assetti politici, economici e sociali del Vecchio Continente.
e la ragione Il Grigio
Perché parliamo della Guerra dei Trent’Anni in riferimento a quello che sta succedendo oggi in Medio Oriente? Perché i tre conflitti più importanti che si stanno svolgendo sotto i nostri occhi in Siria, in Iraq e, per molti versi, in Libano, hanno le stesse caratteristiche storiche di questa guerra.
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geopolitica
Il dizionario Amal è la prima formazione sciita che alla fine degli anni Settanta partecipa alla prima guerra civile libanese nella quale si scontrano, in una congerie di alleanze, che spesso finisce in un tutti contro tutti, le varie anime confessionali del mosaico libanese: gli sciiti, appunto, i sunniti, i drusi, i palestinsi e i cristiano maroniti.
Sud raccogliersi sotto le bandiere del primo partito sciita della storia libeanese, Amal, fondato da un coraggioso avvocato di Beirut, Nabil Berri. Dai quindici anni di guerra civile escono indubbiamente come forza dominante proprio gli sciiti, che dal ‘90 occupano (e, di fatto, amministrano) tutto il Libano Sud sotto le bandiere della formazione che sulle ceneri di Amal è diventata protagonista delle tensioni mediorientali: Hezbollah, il Partito di Dio. Pur essendo nata come formazione guerrigliera e terroristica clandestina, a lei vanno attribuiti gli attentati che fecero strage di marines americani e di soldati francesi a Beirut nel 1983. Hezbollah è riuscito a crescere come partito politico e forza militare quasi regolare, l’unica che può vantare di aver sconfitto l’esercito di Israele durante la campagna del 2006. Il suo segreto è stato costruire una propria infrastruttura amministrativa locale che nel Libano sud gestisce addirittura ospedali, scuole e case di riposo. Grazie al sodalizio stabilito con l’Iran – la casa madre degli sciiti di I sunniti, i seguaci della Sunna (la consuetudine), costituiscono la cortutto il mondo - Hezbollah è divenrente ortodossa e maggioritaria dell’Islam, mentre gli sciiti (la “fazione tata una piccola potenza economidi Alì”) rappresentano quella minoritaria: la proporzione è almeno di ca e militare e oggi la troviamo imsettanta-trenta in favore dei sunniti. pegnata a sostenere in Siria il regiLa divisione ebbe origine dopo la morte di Maometto, nel 632 d.C., me di Assad, rappresentante degli quando i fedeli si contesero l’eredità religiosa e politica tra Abu Bakr, amialawiti, una minoranza del 15% di co e padre della moglie di Maometto, ed Alì, cugino e genero del Profeta. derivazione sciita che da oltre cinDevoti alla tradizione, secondo i sunniti l’eredità e la guida dell’Islam quant’anni governa la Siria con il spettano a coloro che seguono gli insegnamenti di Maometto, senza particontributo di una componente delcolari legami di sangue. Al contrario, gli sciiti hanno sempre ritenuto che l’alta borghesia sunnita. il successore di Maometto dovesse essere un consanguineo del Profeta. Ridurre il conflitto siriano a una Inoltre, al contrario dei sunniti, gli sciiti sono organizzati secondo una guerra di religione sarebbe fuorsorta di gerarchia e rispondono a un clero (Ayatollah, Hojjatoleslam e mujviante e pericoloso. Il conflitto ha tahid). In tal senso, le differenze sull’interpretazione del Corano sono non delle radici economiche e sociali che tanto teologiche quanto epistemologiche: l’interpretazione simbolica sciita almeno all’inizio hanno superato è contestata dai sunniti, secondo cui l’interpretazione dev’essere letterale. Al posto dei cattolici e dei protestanti oggi ci sono sunniti e sciiti. Al posto dei principi tedeschi e olandesi ci sono i “proletari” sciiti libanesi, siriani e iracheni. Al posto dei vescovi, del papato e dei re cattolici, le classi dirigenti sunnite del Libano e dell’Iraq e la maggioranza sunnita siriana. Un mix di religione e politica che, com’è accaduto da noi, può durare un’intera generazione. Tutto comincia con la scomparsa a Tripoli nel 1978 dell’imam sciita Moussa Sadr. Esule in Libia per sfuggire alle persecuzioni dei cristiano-maroniti e dei sunniti in Libano, venne probabilmente ucciso dai servizi segreti di Gheddafi per fare un favore alla casa regnante saudita. L’assassinio di Sadr provoca i primi fermenti di ribellione in Libano, che vedono il sottoproletariato sciita della periferia sud di Beirut e i poverissimi contadini e allevatori della Valle della Bekaa e del Libano
Differenze tra sunniti e sciiti
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quelle religiose. È infatti iniziato come la rivolta di una borghesia sunnita non adeguatamente rappresentata nei centri del potere siriano che ha preteso di far pesare con il suo 75% della popolazione la demografia in politica. La resistenza alawita e degli Assad - che i media occidentali davano per spacciati da oltre un anno - si spiega con la certezza che alla vittoria sunnita seguirebbe un’imponente pulizia etnica ai danni di alawiti, cristiani e collaborazionisti sunniti. Nel conflitto siriano la religione rispunta quando, in risposta al pesante intervento di Hezbollah a sostegno dei lealisti siriani, agli inizi di maggio lo sceicco libanese sunnita Salim Al Rafii lancia una fatwa, cioè un appello religioso, invitando tutti i sunniti libanesi alla mobilitazione per la difesa dei confratelli siriani. La fatwa riporta la religione al centro del conflitto. Ma la soluzione resterà comunque politica, e per capire quello che succederà bisogna guardare fuori dai confini siriani: a Mosca, Teheran, Ankara e Riad. La “Guerra dei Trent’anni” continua in Iraq, dove è saltato il “tappo” che comprimeva con la dittatura di Saddam Hussein e opprimeva la maggioranza sciita che, col suo 65% di popolazione, dopo l’intervento americano ha mostrato di voler contare nella politica del nuovo Iraq. Qui è in corso una vera e propria guerra civile combattuta con kamikaze e autobomba. E anche qui i protagonisti veri sono fuori: da un parte l’Iran, che con un Iraq sciita vedrebbe rafforzate le sue ambizioni di potenza regionale (gli iraniani amano definirsi “persiani” per ricordare i fasti di un impero che non sarebbe difficile ricostruire sotto le insegne del credo sciita). Dall’altra, c’è l’Arabia Saudita che vedrebbe traballare le sue altrettanto forti ambizioni di potenza regionale. La nostra “Guerra dei Trent’anni” innescata dalla religione ha trasformato, con la pace di Westfalia, l’Europa Continentale. Sparita l’egemonia del papato e del Sacro Romano Impero, sono nati gli Stati nazionali come li conosciamo oggi. Il grande conflitto tra sciiti e sunniti, ne siamo sicuri, quale che sarà l’esito, cambierà gli equilibri geopolitici di tutto il vicino Oriente.
“Non credo alla guerra di religione” Il parere di Abdellah Redouane, Segretario Generale del Centro Islamico culturale d’Italia, con un passato presso il Ministero degli Affari Religiosi in Marocco. In Medio Oriente stiamo assistendo a una guerra di religione transnazionale? Credo che già parlare di “guerra di religione” possa connotarsi come uso di una terminologia impropria. Al di là della presenza di sovrastrutture comuni, ciascuno dei Paesi interessati dalla questione è portatore di proprie specifiche peculiarità, che li rende difficilmente paragonabili l’uno all’altro. Escluderei quindi la presenza di un progetto transnazionale o di un comune disegno a monte. Se non è la Guerra dei Trent’anni, cosa contrappone sunniti e sciiti? Ogni fenomeno storico dovrebbe sempre essere contestualizzato e inserito nel suo retroterra concettuale e dottrinale. Trasmigrare categorie e analisi da un contesto all’altro non solo non aiuta, ma rende più difficile un’analisi serena e scientifica. Differenziazioni tra sunniti e sciiti sono presenti in campo giuridico, teologico, escatologico, sul concetto di autorità, di grazia salvifica e tutte si inseriscono nel divenire storico. Ma sarebbe erroneo dire che i sunniti stanno ai cristiani ortodossi come gli sciiti stanno ai cristiani cattolici, o simili. Sunniti e sciiti riconoscono la Profezia di Muhammad, pace e benedizioni su di lui, recitano lo stesso Corano, credono nel Dio unico. Spesso, gli sciiti sono la minoranza povera e isolata. Quanto incide questo nel contrasto con i sunniti? Indubbiamente, situazioni di disagio economico e sociale influiscono. Ma questo accade ovunque, e non solo nelle relazioni tra sunniti e sciiti. Basti pensare agli scontri nelle periferie di grandi metropoli urbane, che non necessariamente nascono da motivazioni religiose. (M.P.)
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geopolitica
La “Guerra dei Trent’anni”
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LIBANO Per adesso solo gli sciiti libanesi di Hezbollah hanno ammesso ufficialmente di combattere in Siria accanto al regime. Grazie a loro, non solo si sono riequilibrate le forze in campo e riconquistate città importanti come Qusayr, ma il disegno del “Partito di Dio” prevede un califfato sciita transnazionale che unisca Siria e Libano sotto la medesima bandiera. Ragion per cui il governo a guida sunnita di Tamman Salam, è quanto mai a rischio: scontri armati tra esercito, sunniti ed Hezbollah sono ormai realtà.
uerra settaria tra sunniti e sciiti, milioni di rifugiati, una terra lacerata dalle bombe che hanno raTURCHIA so al suolo città intere, Le proteste di Gezi Park e piazpotenze straniere che za Taksim a Istanbul, poi estese trafficano armi e uomilibano in molte altre città, hanno esauni, pattuglie di soldatarito nel giro di due settimane la glie che terrorizzano le loro carica potenzialmente depopolazioni inermi, stabilizzante. L’approccio del confini in ebollizione, premier Erdogan dopo i primi forse persino uso di argiorni di sbandamento, è risulmi chimiche. Tutto quetato efficace e la tenuta del gosto, e se possibile molto verno non è mai stata in discusegitto altro ancora, è il panorasione. Il partito islamista AKP, a ma del Medio Oriente larga maggioranza sunnita, per del 2013 di cui la Siria è il momento non rischia. Resta il il cuore pugnalato a fatto che il 20% dei turchi sono morte, alimentato solo sciiti del ramo Alevi. dall’odio e dal calcolo politico. Per la prima volta, si capisce come questa guerra si stia ingigantendo anziché concludersi, come la Conferenza di pace di Ginevra sia sempre più EGITTO una chimera e come i confini siLa popolarità del presidente Morsi, sostenuto dalla riani siano davvero in discussioFratellanza sunnita, continua a calare (è scesa al 42% ne per la prima volta da quasi in appena un mese) ma, in attesa di indire nuove eleun secolo. La possibilità stessa zioni e modificare la Costituzione, il presidente ha sodi una frammentazione del Paespeso ogni rapporto diplomatico con il regime di Asse non è recondita. Come non lo sad, chiuso l’Ambasciata siriana al Cairo e ritirato la è più il contagio di altri Stati condelegazione egiziana a Damasco. finanti. Su tutti, il Libano.
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IRAQ L’Iraq è diventato un campo di battaglia tra forze in lotta per il potere dopo l’invasione guidata dagli USA del 2003. Da quando il governo sciita ha assunto il comando dopo che gli Stati Uniti hanno lasciato il Paese nel 2011, la guerra civile è degenerata a suon di bombe (già oltre duemila morti dallo scorso anno) a causa dello scontro tra il governo che, pur instabile, resta in mano alle forze sciite, e la minoranza sunnita, che non lo riconosce.
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arabia saudita Qatar
ARABIA SAUDITA La monarchia sunnita di Re Abdullah, nonostante sia impegnata nella successione al proprio interno, insieme al Qatar è il principale sostenitore dei ribelli siriani. A loro, i sauditi hanno fornito appoggio diplomatico (Abdullah stesso è stato più volte a colloquio con Assad), economico e militare. Pur avendo promosso iniziative diplomatiche insieme ai Paesi del Golfo e alle Nazioni Unite, restano in prima linea nel conflitto e pretendono un ruolo da protagonisti nella gestione del mondo islamico che verrà.
IRAN L’Iran, la più grande potenza sciita di tutto il Medio Oriente, sostiene dichiaratamente il regime alawita di Bashar Assad, consapevole che una debacle sciita in Siria rischierebbe di spazzare via dalle cartine geografiche lo sciismo, relegandolo nei confini nazionali. I suoi pasdaran sono a tutti gli effetti sul campo di battaglia e costituiscono una componente essenziale (la più addestrata) tra le forze fedeli ad Assad. Il neo-presidente Rouhani non può modificare la situazione e, anzi, l’Iran rischia di impegnarsi sempre più a fondo nel conflitto.
QATAR Ad Hamad bin Khalifa Al-Thani è appena succeduto il figlio Hamim alla guida del Paese ma nulla cambia il fatto che l’Emirato sunnita del Qatar sostiene economicamente, e in parte militarmente, i ribelli siriani. Dopo aver appoggiato gli USA contro l’Iraq e ricoperto un ruolo fondamentale nella caduta di Gheddafi, il governo di Doha ospita anche un ufficio dei talebani dell’Afghanistan. La sua posizione nel mondo arabo è e resta dominante.
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Siria |
La catastrofe umanitaria
di Rocco Bellantone
È vero che i ribelli stanno già ricevendo armi dall’estero? Di proclami dall’estero se ne stanno facendo tanti, ma ad oggi di cose concrete non se ne sono viste molte. Qualcosa si è mosso, è vero, ma per fermare la controffensiva del regime servono altri mezzi, come i lanciarazzi di ultima generazione.
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entre le truppe di Assad recuperano terreno sui ribelli puntando alla riconquista di Aleppo, a migliaia di chilometri di distanza nelle ambasciate e nelle sedi delle diplomazie internazionali di mezza Europa va in scena il secondo tempo del conflitto siriano. È qui che il Consiglio Nazionale Siriano dirige le operazioni per ottenere dalla comunità internazionale armi ed equipaggiamenti da inviare ai ribelli. Tra i suoi membri c’è anche Feisal Al Mohamad, medico siriano che vive a Roma dal 1975.
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Si può inquadrare questa come una guerra di religione tra sciiti alawiti e sunniti? No, è assolutamente sbagliato. Quelli che muoiono sono di ogni fede ed etnia: ci sono sciiti, sunniti, curdi, drusi. Non si può generalizzare dicendo che i ribelli sono tutti di fede sunnita e che gli sciiti, invece, sono con Assad. Se si vuole fare propaganda, va bene. Ma se si cerca la verità, questa non è la giusta direzione. Quale sarebbe la verità? Che si tratta di una guerra portata avanti dai siriani per conquistare la libertà, per troppo tempo negata dal regime di Assad.
Secondo lei si farà la Conferenza di Ginevra? Personalmente, la vedo dura. Secondo me non si farà. O meglio, alle condizioni attuali è impossibile che si faccia. Cosa ci dice del ruolo italiano in questo conflitto? Ufficialmente non c’è nessun contatto tra il governo italiano e i ribelli. L’Italia continua a inviare aiuti umanitari ai profughi, come d’altronde ha sempre fatto. Ma lo fa soprattutto attraverso la Caritas o la Croce Rossa. Possiamo capire questa scelta, ma non possiamo condividerla. Il fatto che l’Italia non si esponga ufficialmente al nostro fianco (dei ribelli, ndr) non viene compreso dai siriani.
Cosa pensa dei gruppi estremisti che combattano, Jabhat Al Nusra da una parte ed Hezbollah dall’altra? Si tratta di una di quelle disgrazie che possono capitare a un popolo come il mio, specie in un momento di caos come quello che stiamo attraversando. Non credo che avranno un ruolo importante in Siria. È dall’inizio che ci sono stranieri che combattono in questo conflitto da una parte e dall’altra. C’è Al Nusra, ci sono diversi gruppi iracheni ma anche yemeniti e russi. Sono per lo più mercenari, guerrieri itineranti in cerca di profitti. E poi ci sono anche gli iraniani che non molleranno mai la presa sulla Siria, perché il loro vero obiettivo è inseguire l’ideale dell’Impero
Persiano. La loro strategia proseguirà anche con il nuovo presidente Rouhani. Se volessimo utilizzare una metafora, in questo momento la Siria è come un grande ring: tutti vogliono salirci e mettersi in mostra facendo vedere i propri muscoli. Che dimensioni ha assunto l’emergenza umanitaria? La situazione è drammatica sotto il profilo sanitario, economico e, ovviamente, della sicurezza. Manca tutto: dal pane alle coperte ai medicinali. Le persone non sanno cosa fare, soprattutto i genitori che devono badare ai propri figli. Dal punto di vista psicologico, invece, la situazione è opprimente: i siriani ce l’hanno con il mondo, perché il mondo non li aiuta per come invece potrebbe. Siete voi che dovete aiutarci a liberare questo Paese. La Siria è
già un Paese pieno di disabili e handicappati e non dimentichiamoci che statisticamente per ogni morto ci sono tre feriti. Se i morti sono 100.000, allora vuol dire che i feriti saranno almeno 300.000. Vi rendete conto che è un vero e proprio disastro per il nostro Paese? Come si riuscirà ad arrivare a nuove elezioni nel 2014? Io spero che le elezioni nel 2014 ci siano davvero. Non siamo noi a chiedere che Bashar Assad faccia un passo indietro, è piuttosto la Costituzione siriana che gli impedisce già oggi di correre per un terzo mandato. La legge c’è ancora, dunque basta solo applicarla.
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dura lex sotto la lente del diritto
La legge della Shari’a Draconian
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e costituzioni di ispirazione islamica si caratterizzano, salvo rare eccezioni, per il riferimento alla Shari’a come “fonte principale” ovvero come “una delle fonti” della legislazione. La questione non assume carattere meramente formale comportando, come diretta conseguenza, la possibilità di sindacare la legittimità costituzionale delle norme su base sciaraitica. Peraltro va rimarcato come il dibattito in corso nel mondo araboislamico in ordine ai continui arresti giurisprudenziali sulla nozione di Shari’a, si vada sempre più arricchendo di nuove prospettive a seguito dei molteplici tentativi di costituzionalizzare il Diritto di Dio sotto la spinta dei movimenti islamici ascesi al potere a seguito della primavera araba. Benché collocata a un livello gerarchicamente superiore rispetto
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a qualsiasi regola emanata dall’autorità politica, la legislazione positiva ha via via relegato la Shari’a al ruolo di norma dal valore preminentemente etico-religioso, priva del carattere cogente per la mancanza di organi giurisdizionali in grado di assicurarne la diretta applicazione. In questo contesto l’eventuale rinvio alle norme del cd. sistema Shari’a/Fiqh avviene solo ad opera del legislatore statale che fissa casi e limiti del rinvio: è affidata al legislatore, dunque, la potestà di ampliare o delimitare, di volta in volta, l’ambito operativo del sistema normativo discendente dalla “Rivelazione”, la cui mutevole interpretazione resta pur sempre affidata ai giurisperiti. L’inserimento in costituzione della Shari’a consente, quindi, di prefigurare un sistema valoriale - riconducibile a principi metapositivi - cui fare ricorso ogni volta si profili la necessità di verificare la coerenza del dato normativo ai principi sciaraitici. La storia recente dimostra, tuttavia, come il processo per rendere affettivo, sotto il profilo in esame, il controllo di costituzionalità, sia ancora in gran parte da compiere, nonostante l’accelerazione impressa dalle “primavere arabe” al riformismo costituzionale. La disamina della giurisprudenza costituzionale egiziana e del dibattito in corso in quel Paese intorno alla riforma della carta fondamentale ne costituisce un esempio emblematico. Con la riforma nel 1980, infatti, il legislatore egiziano aveva modificato la costituzione prevedendo, all’art. 2, che i principi generali della giurisprudenza islamica - la Shari’a,
appunto - dovessero costituire l’“unica” fonte della legislazione statale, così rafforzando le aspettative di revisione generale dell’ordinamento nutrite dai gruppi islamisti. La Corte, invece, ha fatto ricorso a una metodologia applicativa dell’art. 2 fondata su due linee guida. Da una parte ha stabilito il principio di irretroattività del controllo costituzionale sulle leggi entrate in vigore prima della modifica del 1980. La questione si pose nel 1985 in occasione della pronunzia del giudice delle leggi sulle costituzionalità degli interessi bancari, da sempre ritenuti in contrasto con la Shari’a. Nell’occasione la Corte stabilì il principio per effetto del quale la responsabilità di modificare i testi legislativi in contrasto con l’art. 2 della Costituzione dovesse spettare al legislatore, dovendosi garantire la stabilità del sistema politico e istituzionale e, con esso, anche la previsione della Shari’a quale fonte del sistema giuridico. Dall’altra la giurisprudenza costituzionale ha distinto due tipologie di principi: quelli mutuati da norme della Shari’a da considerare assolute, perentorie e non modificabili da prassi applicative evolutive (fonti non modificabili), e quelle flessibili e non perentorie che, pertanto, riflettono il giudizio umano (fonti modificabili). La teoria, delineata in una importante sentenza del 15 maggio 1993, ha comportato la creazione di un cosiddetto spazio laico di interpretazione della Shari’a non fondato su canoni ermeneutici elusivamente giuridico religiosi. Tuttavia il dibattito attuale sulla modifica della costituzione egiziana, avviato dopo la primavera araba che ha attraversato il Paese, segnala un evidente tentativo di regressione. La decisione di conservare l’articolo 2 della Costituzione del 1971, riformato nel 1980, è il frutto di un consenso generale maturato nell’ambito dell’assemblea costituente, anche se i salafiti hanno tentato, invano,
di modificarlo per fare delle “norme” della Shari’a, e non dei suoi principi, o della stessa sharî‘a islamica, la fonte della legislazione. Tuttavia sono riusciti a includere una nuova disposizione, l’articolo 219, che, nel tentativo di definire il concetto di “principi della sharî‘a islamica”, imponendo all’interprete di tenere conto di tutti i pareri emessi dai giureconsulti del passato, punta a contrastare l’interpretazione modernista dell’articolo 2 adottata dalla Corte costituzionale. Con la conseguenza. Il cammino di modernizzazione degli ordinamenti giuridici arabo-musulmani non sembra al riparo da nuovi ostacoli che rischiano di vanificare il tentativo, attuato per via giurisprudenziale, di modernizzare la tradizione giuridica vivente delle società islamiche contemporanee.
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geopolitica
Iran |
Rouhani, il settimo Presidente
di Dario Scittarelli
Le elezioni dello scorso 14 giugno in Iran sono state salutate come una possibile “nuova fase moderata” per la Repubblica Islamica. Sarà così?
È
Hassan Rouhani il vincitore delle presidenziali del 14 giugno. Il successore di Ahmadinejad è stato eletto al primo turno - evitando di pochissimo il ballottaggio - tra una rosa di sei candidati, cinque dei quali erano diretta espressione dell’ala conservatrice del Paese, ovvero della Guida Suprema Khamenei. Rouhani, per quanto moderato, era l’unico candidato riformista: l’11 giugno Mohammad Reza Aref, altro rappresentante della corrente,
aveva lasciato la corsa alla presidenza per favorirlo. Il giorno prima si era ritirato anche Qolam Ali Haddad Adel - ennesimo fedelissimo dell’ayatollah - portando così da otto a sei il numero complessivo dei candidati. Con uno scarto di oltre 12 milioni di voti, Rouhani ha stracciato i due grandi favoriti di queste elezioni, il sindaco di Teheran Mohammad Baqer Qalibaf e il negoziatore per il nucleare Sajid Jalili. Il settimo Presidente, 64 anni, assumerà ufficialmente l’incarico il 3 agosto, e resterà al potere fino
al 2017. Rouhani, esponente del clero sciita, è stato negoziatore per il nucleare tra il 2003 e il 2005, sotto la presidenza di Khatami, ed è ricordato positivamente dalla diplomazia internazionale. È proprio la vicinanza a Mohammad Khatami, il Presidente riformista, a lasciar ben sperare sul controverso programma nucleare iraniano, che potrebbe essere, sì, portato a termine, ma presumibilmente con un’enfasi sulla sua dimensione civile più che militare. Rouhani sembrerebbe dunque distante dalle provocazioni
gli altri presidenti della repubblica islamica abulhassan banisadr 1980 - 1981 (deposto)
akbar hashemi rafsanjani 1989 - 1997 (doppio mandato)
mohammad ali rajai 1981 (assassinato)
mohammad Khatami 1997 - 2005 (doppio mandato)
ali Khamenei 1981 - 1989 (doppio mandato)
mahmoud ahmadinejad 2005 - 2013 (doppio mandato)
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geopolitica
I numeri delle elezioni 50,5 milioni votanti totali: 36,7 milioni affluenza: 72,7% schede nulle: 1,2 milioni (3,39%) aventi diritto:
di Ahmadinejad che tanto preoccupavano Tel Aviv e Washington, e questo anche perché - con due fronti già aperti in Siria e in Iraq - ulteriori prese di posizione avventuristiche non farebbero che isolare ulteriormente l’Iran dalla scena internazionale. Molto cauto, tuttavia, l’ottimismo di Obama, che non eliminerà le sanzioni contro Teheran. Da Israele, affonda invece il colpo il Primo Ministro Netanyahu: è comunque l’ayatollah Khamenei a determinare le sorti della Repubblica Islamica. E della sua politica nucleare.
sajid jalili 4,2 milioni (11,36%)
mohsen reZaei 3,9 milioni (10,58%)
ali aKbar velayati 2,3 milioni (6,18%)
mohammad gharaZi 0,5 milioni (1,22%)
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a dire il vero... l’analisi di approfondimento
Barbafinta sarà lei! Il Grigio
B
asta. Non se ne può più. Il cinema, la novellistica e il giornalismo all’ingrosso hanno compiuto negli ultimi decenni una vera e propria character assassination ai danni di una figura professionale che si è ben conquistata un posto d’onore nella Storia: l’agente segreto, o meglio il funzionario dell’intelligence, o peggio lo 007 con la barba finta. L’ennesimo colpo al buon nome e all’immagine delle spie lo ha dato l’ultima versione di James Bond, quel Daniel Craig che con i suoi vestitucci attillati e la sua smorfia permanente e arrogante da bullo di periferia dovrebbe essere chiamato a risarcire in sede civile il danno d’immagine recato a una nobile categoria di professionisti. Guardate questi vecchi ritratti in bianco e nero. Questi signori, con le loro facce da professori, da impiegati, da avvocati, hanno cambiato il corso della storia contemporanea salvando centinaia di migliaia di vite umane e contribuendo alla sconfitta del nazismo senza saltare su treni in corsa e senza lanciarsi dai carrelli delle gru,
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Nel tondo: Charles Cholmondeley e Ewen Montagu
ma usando soltanto il loro cervello. Come? Adesso lo vediamo. Il primo a destra è Ewen Montagu. Ufficiale di complemento della Royal Navy. Insieme al suo collega Charles Cholmondeley in una stanzetta nei sotterranei di Whitehall, sede del Twenty Committee che sovrintendeva alle operazioni di disinformazione e di “riciclaggio” degli agenti nazisti catturati in Gran Bretagna, concepì un’operazione di disinformazione ai danni di Hitler per rendere più sicuran l’invasione della Sicilia prevista per l’estate nel 1943. Il piano prevedeva la trasformazione del barbone vagabondo gallese Glyndwr Michael, o meglio del suo corpo, nel cadavere del maggiore William Martin dei Royal Marines, componente dello Stato Maggiore Imperiale. I due ufficiali, una volta concepito il piano e preso possesso di un cadavere che nessuno reclamava, lo misero nel congelatore della Morgue dell’ospedale Saint Bartholomew di Londra in attesa del momento adatto per scaricarlo sulle coste spagnole con una borsa contenente documenti falsi, ma autentici in quanto scritti su carta intestata con l’autorizzazione di tutti i vertici delle forze armate che dimostravano inequivocabilmente che lo sbarco in Sicilia sarebbe stato solo una finta per nascondere ai tedeschi i veri obiettivi dell’invasione del Sud Europa, ovvero la Corsica e la Grecia. Scaricato il povero barbone in un’area che si sapeva pullulare di spie tedesche, i due uomini dell’intelligence affidarono al maggiore Martin il compito di salvare la forza di invasione in Sicilia,
Nella foto grande: l’uomo “che non fu mai”. Il vagabondo gallese trasformato da morto in maggiore dei Royal Marines In alto: Mincemeat, il corpo del “Maggiore” viene calato in mare
nel quadro di quella che avevano denominato in modo un po’ macabro “Operazione Mincemeat”, “carne trita”. Quando i tedeschi misero le mani sui documenti del falso maggiore, caddero nella trappola e inviarono rinforzi immediatamente in Sardegna, Corsica e Grecia, divisioni sottratte al fronte orientale. Hitler ebbe addirittura un battibecco con Mussolini, il quale insisteva che la Sicilia dovesse essere presidiata mentre il Fuhrer sosteneva che era inutile perché gli alleati sarebbero sbarcati altrove, e lui “ne aveva le prove”. Tutti sappiamo come andò a finire. Lo sbarco in Sicilia fu quasi una passeggiata per gli alleati, che non trovarono resistenza sulle spiagge e che in poche settimane arrivarono sulla penisola. Questo è il primo dato che merita di essere sottolineato. Una operazione di “intelligence”, concepita da persone “intelligenti”, spregiudicata nella forme e negli strumenti ma estremamente cauta e meticolosa nella preparazione, non ha soltanto contribuito a far vincere la guerra agli alleati ma anche a salvare vite umane. Sul fronte orientale, un contributo vitale alla salvezza dell’Unione Sovietica e alla vittoria di Stalin lo dettero un commerciante di libri tedesco emigrato in Svizzera, Rudolf Roessler, un professore ungherese in contatto con i servizi militari sovietici GRU Sandor Rado, e Alexander Foote, un ambiguo uomo d’affari inglese che dopo la guerra in Spagna si era trasferito in Svizzera. Questi tre uomini misero in piedi la rete “Lucy” con base a Ginevra che per più di due anni ricevette direttamente dalle stanze dello stato maggiore tedesco messaggi che contenevano tutti i piani più dettagliati delle offensive naziste in Russia. La “materia prima” veniva fornita da ben dieci ufficiali superiori, tutti rimasti sconosciuti anche dopo la fine della Guerra, che fornivano a “Lucy” informazioni delicatissime mescolandole nel traffico radio che partiva dai locali dello stato maggiore. I dieci avevano fornito i dettagli anche delle prime offensive tedesche contro l’Unione Sovietica, a cominciare dall’“Operazione Barbarossa”, ma non erano stati creduti da Stalin che, sospettoso com’era, pensava si trattasse di frutti avvelenati.
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a dire il vero... l’analisi di approfondimento
Truppe americane sbarcano sulle spiagge siciliuane praticamente senza opposizione
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xander Sandor R Ale ad o
Rudolf Roess ler
“Gruppo di Armate Centro” venne praticamente annientato grazie a “Lucy” che aveva dato il tempo ai russi di costruire fossati anticarro invalicabili lungo tutte le vie della prevista avanzata tedesca. Da allora, per tutti in venti mesi successivi i tedeschi si sono sempre ritirati fino alla periferia di Berlino. Ci sarebbe molto ancora da raccontare sulle operazioni “Bodyguard” e “Fortitude” per la protezione dello sbarco in Normandia. Ma al momento ci interessa soltanto attirare l’attenzione sulle finissime intelligenze che hanno lavorato a sostegno dello sforzo alleato durante la seconda guerra mondiale. Intelligenze contenute in corpi ordinari e non di damerini spaccamontagne e maleducati che potrebbero, come nel caso di James Bond, essere i protagonisti di questo fulminante aneddoto sull’arguzia di Winston Churchill. Un giorno per togliersi di torno un commensale maleducato che chiedeva insistentemente dove fosse il bagno, ad alta voce gli disse: “Il bagno è in fondo al corridoio. Sulla destra c’è una porta, ci troverà la scritta Gentlemen. Ma lei può entrare lo stesso”. Alexander Foo te
Quando i tremendi successi delle avanzate tedesche dell’estate del 1941 consentirono alla Wehrmacht di arrivare quasi alle porte di Mosca, Stalin, che non aveva creduto a quei messaggi ma che ne aveva poi verificato l’attendibilità a posteriori e al prezzo di centinaia di migliaia di morti, finalmente riconobbe che “Lucy” era una gemma rara. Proprio da quel momento sono cominciati i guai per i tedeschi in Russia. Per un anno e mezzo tutte le mosse naziste sono state anticipate e depotenziate. L’ultimo colpo definitivo dal quale la Wehrmacht non si riprese più fu la Battaglia di Kursk. Doveva essere un colpo a sorpresa, l’operazione “Cittadella”, ma quando la Wehrmacht con i suoi carri armati scavalcò i crinali dell’altopiano di Kursk si trovò di fronte il triplo delle forze corazzate che i generali prevedevano di affrontare. In poco più di quindici giorni il
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l’araba fenice donne, società e i tanti volti dell’islam
Quando il religious divide si ripercuote sulle donne Il caso del Bahrain e del diritto di famiglia (solo) sunnita di Marta Pranzetti
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el maggio del 2009 il Re Hamad bin Isa alKhalifa approvava la nuova legge sul diritto di famiglia. Una mossa tanto attesa che, regolando questioni come il matrimonio, il divorzio e l’affidamento dei figli, migliorava lo status legale della donna, fino ad allora considerato inferiore a quello dell’uomo secondo il testo sharaitico che disciplinava il diritto familiare, in assenza di ulteriori legislazioni. La mossa si iscriveva nella più ampia cornice di riforme che il capo di Stato aveva promesso quando ereditò il trono dal padre nel 1999 e che, in parte, mise in atto con gli emendamenti costituzionali del 2002 che estesero alle donne il diritto di voto attivo e passivo. Fin qui niente di strano, se consideriamo che la monarchia alKhalifa (che governa il Bahrain dal 1783) si è sempre mostrata “progressista” (la prima scuola
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femminile fu fondata nel 1928 e oggi il tasso di alfabetizzazione femminile è superiore all’80%). Quel che stona, nella vicenda, è che la legge non si applica a tutte le donne del Regno, bensì solo a quelle sunnite. Già, perché il Bahrain, come molti altri Paesi arabo-musulmani, sta vivendo negli ultimi anni una situazione di forte bipolarismo interno all’Islam che si traduce in tensioni religiose, spesso violente, tra sunniti e sciiti. Il caso particolare del piccolo regno nel Golfo Persico vuole che l’élite al potere che detiene la quasi totalità delle cariche pubbliche - da quelle istituzionali, a quelle militari e degli affari - sia sunnita, mentre la maggioranza della popolazione (stime attuali indicano il 70%) sia sciita. Senza entrare nel dettaglio del come si è arrivati a questo precario equilibrio socio-politico, basta tenere conto del fatto che le misure legislative introdotte dagli al-Khalifa sono state miraLa legge non te a marginalizsi applica a tutte zare il potere le donne del della maggioranRegno, ma solo za sciita. Questo a quelle sunnite. si è tradotto in una flebile opCiò si traduce in posizione in Partensioni religiose, lamento di partispesso violente ti e movimenti
di ideologia sciita particolarmente conservatori (il partito integralista Al Wefaq, i movimenti Haq e Wafa) ed è sfociato nelle proteste che dal 2011 rivendicano una monarchia costituzionale e riforme volte a mitigare la discriminazione
Bahrain, l’ayatollah iracheno Ali Al Sistani. Con il blocco da parte sciita (che si spiega anche considerando il fatto che Al Wefaq non contempla alcuna figura di rappresentanza femminile all’interno della sua leadership), il parlamento approvava comunque la parte sunnita della legge, da allora in vigore ma non per tutte le donne del Regno.
religiosa che si sta accentuando nel Paese. Così Al Wefaq - unica voce sciita presente in parlamento nel 2009 quando veniva approvata la legge in questione - rigettava la parte di testo che si riferiva alla sua comunità. Secondo i leader religiosi, infatti, il Parlamento non è un istituto all’altezza di decidere su questioni di famiglia radicate nella giurisprudenza religiosa, ammettendo a legiferare su tali questioni solo la massima figura di riferimento degli sciiti in
Quando, nel 2011, sono divampate le proteste anche in Bahrain sull’onda della Primavera Araba, la questione è tornata alla ribalta. Le donne che hanno preso parte alle manifestazioni hanno chiesto, tra le tante rivendicazioni, l’estensione della legge a tutte le connazionali. L’anno successivo la questione veniva addirittura portata in seno alle Nazioni Unite con un raduno, sostenuto da membri della Human Rights Watch Society del Bahrain (BHRWS), di fronte alla sede ONU a Manama. A nulla è valso l’aver interpellato il Consiglio Supremo delle Donne, un organo consultivo del governo presieduto da Sheikha Sabika bint Ibrahim Al Khalifa, moglie del Re. Purtroppo, quando il concetto di unità nazionale viene dopo quello di appartenenza religiosa, questo è il rischio che si corre.
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Santa Sede Lo Stato della Città del Vaticano è sorto con il Trattato Lateranense, firmato l’11 febbraio 1929 tra la Santa Sede e l’Italia, che ne ha sancito la personalità di Ente sovrano di diritto pubblico internazionale, costituito per assicurare alla Santa Sede,La nella Rouseff messa sua qualità di suprema istituzione
Brasile
all’angolo dalle proteste
Turchia Il Paese ha retto alla forte ondata di dissenso
Messico Le mosse di Nieto
Italia Ragionamenti su un Paese altamente sismico
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Brasile |
di Hugo
Panem et circenses
l Brasile, sesta economia del pianeta e cinque volte vincitore dei Mondiali di Calcio, è oggi scenario di grandi manifestazioni di dissenso che hanno obbligato la presidente del Paese, l’ex guerrillera di sinistra Dilma Rousseff, a riconoscere il valore della “voce della strada” e a invitare i leader della protesta a un dialogo per discutere un Patto Nazionale in risposta al malcontento popolare. Le grandi manifestazioni di protesta popolari hanno in pratica demolito una premessa: se fossero stati garantiti “panem et circenses”, il popolo - disorganizzato, depoliticizzato - avrebbe accettato di buon grado che la politica proseguisse nel proprio disegno. La continuità e l’efficacia del programma “Borsa Famiglia” volto ad assicurare il panem anche attraverso i circenses (la Coppa del Mondo e il suo preludio, la Confederation Cup, e poi i Giochi Olimpici) confidando nella passività dei cittadini brasiliani, si è rivelata una visione errata che è stata fatta in mille pezzi negli ultimi giorni.
non bastano La Confederations Cup in vista dei Mondiali di calcio del 2014 ha riacceso le disuguaglianze sociali nascoste sotto la coperta di governi d’estrazione socialista. Ma, oggi, serve molto di più per arginare la rabbia dei milioni di poveri brasiliani
Asserire che le proteste siano state causate dall’aumento di 20 centesimi del prezzo del biglietto del trasporto pubblico di San Paolo, significa confondere il detonatore della ribellione con le cause profonde che la provocano, tra cui l’enorme debito pubblico generato dai governi che si sono LOOKOUT n. 6 luglio 2013
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Il dizionario Il Brasile, quinto Paese al mondo per estensione e sesto per economia, con i suoi 200 milioni di abitanti occupa due terzi del territorio dell’America Latina. Il modello di sviluppo economico intrapreso dall’ex presidente Lula e proseguito sotto Dilma Rousseff, definito “inclusivo”, si è basato su tre pilastri: una politica fiscale di responsabilità, una politica monetaria indipendente e un regime flessibile del tasso di cambio.
succeduti e che solo negli ultimi anni si è attenuato, grazie al governo Lula. L’ondata di proteste è stata causata dalla pessima situazione dei servizi di sanità pubblica; dall’inclinazione classista e razzista per l’accesso all’istruzione; dalla corruzione governativa (la presidente Rousseff ha dovuto cacciare più di un ministro); dall’arroganza tecnocratica dei governanti, a tutti i livelli, che evitano sistematicamente di offrire risposte al popolo: come nel caso della riforma della previdenza sociale o della Riforma Agraria paralizzata o dei reclami
degli indigeni sulle grandi opere in Amazzonia. In Brasile c’è una crisi legata anche all’urbanistica: c’è stata una grandissima speculazione immobiliare che ha portato i prezzi degli affitti alle stelle e i prezzi dei terreni a lievitare fino al 150% in più, solo negli ultimi tre anni. Il programma per le abitazioni “mi casa, mi vida” ha spinto i poveri verso le periferie, senza peraltro disponibilità di infrastrutture minime. Il tutto ha portato a una crisi strutturale delle grandi città dove le persone stanno ormai vivendo in un inferno: solo per fare un esempio, si calcola che la mancanza di infrastrutture faccia perdere tre o quattro ore al giorno solo per il tragitto dei San Paolo e Rio de Janeiro, le due più grandi città del Brasile, hanno revocato lavoratori che dalle peril’aumento delle tariffe per il trasporto pubblico, per tentare di placare le proteste ferie devono raggiungere il centro. La società civile brasiliana che protesta è molto variegata, e va dalle espressioni territoriali potenti come il Movimenti senza Terra fino a una vasta rete di organizzazioni di carattere religioso, sindacale o etnico, molte delle quali con un’incredibile vitalità culturale, ma che al tempo stesso non sono abituate a fare fronte comune per far valere le proprie istanze. La pratica della manifestazione e del blocco delle strade è comune in Bolivia,
Chi ha revocato l’aumento delle tariffe
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Il sondaggio brasileiro La pratica della manifestazione e del blocco delle strade è comune in Bolivia, Argentina o Venezuela ma fino a oggi è stata quasi assente in Brasile Argentina o Venezuela ma, fino a oggi, è stata quasi assente in Brasile: solo il Carnevale unisce, perché in quella cerimonia i ruoli si invertono - il ricco si traveste da povero, il povero prende in mano la città - ed è possibile una catarsi attraverso il ballo, prima di tornare alla cruda realtà. Questo spiega la sorpresa relativa alle mobilitazioni di massa dei giorni scorsi, così come la reazione impreparata della classe politica. La sopresa deriva anche dal fatto che - a differenza di ciò che accade in Paesi con simili movimenti di “indignados”, come la Spagna - in Brasile non governa la destra ma una presidente di sinistra, in continuità con un ciclo di progressi sociali importante. Certo, è impossibile ridurre le ragioni della protesta popolare in Brasile a una contingenza, come è prematuro prevedere il futuro di queste manifestazioni, ma di una cosa possiamo essere sicuri: le masse che sono scese in piazza in più di cento città brasiliane possono anche non sapere dove stanno andando, ma marciando unite possono anche far cadere il governo.
C
osa pensano i brasiliani delle manifestazioni che dal 2 giugno tengono sotto scacco il Paese? Qualche risposta arriva da un sondaggio pubblicato dal settimanale brasiliano Epoca, realizzato dall’Istituto Ipobe (Instituto Brasileiro de Opinião Pública e Estatística) nel periodo compreso tra il 16 e il 20 giugno. Dall’indagine, che ha preso in riferimento le risposte di 1.089 persone residenti in 79 diverse città, risulta che il 75% è favorevole alla manifestazioni, ma solo la metà di questi ritiene che esse contribuiranno a cambiare realmente le cose. Nel totale, però, solo il 6% confessa di aver partecipato alle proteste. Questi sono i motivi per cui i brasiliani sono scesi in strada a manifestare: il 77% per le carenze dei mezzi di trasporto, il 47% per l’inadeguatezza della classe politica, il 32% per la corruzione, il 31% per i disservizi nei settori dell’istruzione e della sanità, il 18% per l’inflazione. In generale, per gli intervistati i principali problemi del
Brasile sono invece la sanità (78%), la giustizia e la sicurezza (55%), l’istruzione (26%), la mancanza di farmaci (26%), la corruzione (17%) e la diffusione della povertà (11%). Due dati emersi sono particolarmente interessanti, sintomatici del fatto che le proteste sono partecipate da persone di diversa estrazione sociale, con bisogni spesso differenti ma unite dalla rivendicazione di voler vivere in un Paese migliore. Il 71% del campione preso in esame afferma infatti di sentirsi soddisfatto del proprio standard di vita, mentre il 43% si aspetta qualcosa di buono per il futuro. Confermata, infine, la passione eterna dei brasiliani per il calcio, nonostante sia l’emblema dello sperpero di denaro pubblico per l’organizzazione di due tornei di caratura internazionale come la Confederations Cup di questo giugno e i Mondiali del 2014. La Coppa del Mondo, in fondo, fa gola a quasi la metà dei brasiliani (43%), mentre solo il 29% continua a essere contrario.
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Turchia |
Erdogan e Piazza Taksim, prova superata Sia il popolo turco che il suo premier hanno superato la “prova di democrazia” e rimandato tutto alle elezioni del 2014: nel caso, si consumerà allora la vendetta dei giovani di Gezi Park dal nostro corrispondente a Istanbul, Giuseppe Mancini
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e proteste del parco Gezi e di piazza Taksim a Istanbul, poi estese in molte altre città della Turchia, hanno esaurito nel giro di due settimane la loro carica potenzialmente destabilizzante. L’approccio adottato dal premier Erdogan dopo i primi giorni di sbandamento - durezza nella retorica, fermezza nelle strade, apertura di canali di dialogo coi manifestanti - è risultato efficace nel restituire in tempi ragionevoli una pur tesa normalità; i danni materiali sono però ingenti, quelli umani - con morti, feriti gravi e numerosissimi manifestanti intossicati dai gas lacrimogeni - incalcolabili e incubatori di risentimento. È stata soprattutto intaccata l’immagine che il governo dell’AKP, partito conservatore d’ispirazione islamica al potere del 2002, era riuscito faticosamente a costruirsi un governo politicamente riformista, abile e lungimirante in economia,
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modello di equilibrio tra democrazia e Islam. Eppure, la contestazione collettiva che ha scosso il paese ha gridato allo stato di polizia, all’islamizzazione, alla dittatura: mentre i media internazionali hanno tracciato frettolosi paralleli con le “primavere arabe”. L’ampiezza delle manifestazioni, che hanno visto in piazza complessivamente due milioni e mezzo di cittadini turchi, deriva dal convergere di diverse sensibilità e motivazioni: degli ecologisti della protesta originaria, contrari a un progetto di sviluppo urbano nell’area del parco; della nuova generazione - media borghesia, con alto livello
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La saldatura è avvenuta a causa di un uso considerato eccessivo della forza da parte della polizia
di scolarizzazione - che mal sopporta le intromissioni nella sfera privata da parte del governo; dei gruppi della sinistra extraparlamentare; delle fazioni kemaliste ostili all’AKP perché considerato incompatibile coi valori della repubblica laicista fondata da Atatürk. La saldatura è avvenuta a causa di un uso considerato eccessivo della forza da parte della polizia, durante il primo sgombro - il 31 maggio - del sit-in al parco Gezi; e dei discorsi incendiari del premier, già preso di mira per l’attitudine paternalista e lo stile decisionista, che ha definito i manifestanti “vandali” e “terroristi”. La tenuta del governo non
è però mai stata in discussione. Sul piano squisitamente politico, c’è una ragione ulteriore e profonda che ha spinto le prime due componenti a scendere in piazza: l’incapacità delle opposizioni parlamentari - il CHP kemalista e l’MHP nazionalista a rappresentare le richieste di più democrazia e più libertà che provengono dalle nuove generazioni, più connesse e più aperte al mondo. Erdogan invece ha ricevuto una delegazione della “Piattaforma di Taksim”, insieme ad alcuni attori e cantanti, e ha proposto di indire un referendum per decidere le sorti del parco, insistendo comunque per la ricostruzione della caserma ottomana d’artiglieria - da destinare non più a centro commerciale, ma a museo civico - demolita nel 1940. Il premier ha scelto di misurarsi anch’egli con la piazza, ma quella dei propri sostenitori: con degli affollatissimi comizi ad Ankara, a Istanbul (oltre un milione di persone) e in altre città che hanno segnato l’inizio della campagna elettorale per le amministrative di marzo 2014. Nel frattempo, ha ordinato un nuovo e ancor più duro sgombero, seguito da due giorni di ulteriori scontri. Quando è tornata la calma, i reduci del Gezi Park sono passati a forme creative di protesta:
performances, rappresentazioni visuali, humour raffinato e tagliente. In molti parchi della città sono nati dei forum, delle assemblee serali per produrre idee, progetti e magari candidati: anche se il passaggio dallo spontaneismo alla politica dei partiti sembra in questo momento - per l’inesperienza dei partecipanti e la mancanza di leader - impervio e comunque lontanissimo. Le istituzioni hanno invece esigenze e ritmi diversi: il futuro della Turchia si gioca sul progetto di una nuova costituzione, in cui riconoscere pari diritti e dignità a tutti i gruppi etnici e religiosi in passato discriminati; e sul processo di pace con il PKK curdo, per mettere fine a una guerra civile durata 30 anni. Nell’ambito del riassetto delle strutture della Repubblica, Erdogan punta anche all’introduzione del presidenzialismo per candidarsi l’anno prossimo alla più alta carica: ma la sua popolarità è stata intaccata, non è detto che riesca a far passare la riforma auspicata ed eventualmente a essere eletto. Molto dipenderà dal BDP filocurdo, partner nel processo di pace, i cui voti in Parlamento potrebbero rivelarsi decisivi: il segnale è stato dato, i curdi non sono scesi in piazza se non a titolo individuale. LOOKOUT n. 6 luglio 2013
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Messico | di Hugo
L’inizio della presidenza del progressista Peña Nieto non sta deludendo le attese e punta ad aprire il mercato alla libera concorrenza
Sviluppo, altro che “siesta”!
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el suo discorso d’insediamento, pronunciato il primo dicembre 2012, il neo presidente messicano Peña Nieto illustrò i cinque punti attorno a cui sarebbe ruotata l’azione del suo governo: sicurezza interna, equità sociale, istruzione, prosperità e politiche estere. Partendo da questi presupposti, il giorno dopo Nieto convocò i rappresentanti dei principali partiti del Paese - il Partito Rivoluzionario Istituzionale di cui
ied - investimenti esteri in messico nel 2012
52,9% industria 46,8% terziario 38,8% manifatturiero 14,9% commercio 14,8% servizi finanziari 9,4% edilizia 4,8% settore immobiliare 17,2% altri settori 32
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è il leader, il Partito d’Azione Nazionale e il Partito della Rivoluzione Democratica - e firmò insieme a loro il “Patto per il Messico”, un accordo basato su tre principi fondamentali: il rafforzamento dello Stato, il passaggio a un sistema economico più democratico e l’allargamento dei diritti sociali a tutta la popolazione. Da qui è partito il nuovo esecutivo di Peña Nieto nell’affrontare quegli ostacoli che storicamente fanno del Messico un Paese dalle grandi potenzialità ma sostanzialmente “bloccato”. Tra questi vi sono la corruzione della classe politica e dirigente, la chiusura del mercato alla libera concorrenza, la sicurezza e la riforma del sistema giudiziario, senza dimenticare, ovviamente, la piaga del narcotraffico e della criminalità organizzata, rappresentata oggi da una manciata di numeri inquietanti: 100.000 morti negli ultimi sei anni, centinaia di migliaia di vittime per violazione dei diritti umani, 27.000 persone scomparse. il segno + dell’economia In questo complesso scenario Nieto ormai si muove da sei mesi. La sua azione di governo, contraddistinta nel mese di marzo anche dall’intenzione di mettere mano alla Costituzione per aprire il mercato alla libera concorrenza e aggiornare il sistema delle telecomunicazioni, è sostenuta da un trend positivo dell’economia, con il PIL in crescita nel 2011 (+3,9%) e 2012 (+4,2%) e adesso stabile nel 2013 al +4%. I dati forniti dalla Banca centrale messicana indicano che il 2012 si è chiuso con l’inflazione al 3,57%, in aumento nel 2013 fino al 4,6% di giugno. Nello stesso arco di tempo il cambio del pesos messicano è passato fa 12,9102 pesos per dollaro a 13,1790. A livello globale, nel 2012 il surplus per l’economia messicana ammonta a 163 milioni di dollari: 370.914,6 milioni di dollari derivati dalle esportazioni (FOB) contro 370.751,6 milioni di dollari per le importazioni (CIF).
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il rapporto con obama Nieto ha messo da subito in evidenza la necessità per il Messico di ritagliarsi un ruolo di maggior rilievo nello scenario politico internazionale. D’altronde, agli occhi dell’Occidente il Paese gode dell’etichetta di partner affidabile a cui affidarsi nel momento in cui ci siano da risolvere problemi in Centro e Sud America. Tutto continuerà comunque a ruotare attorno al rapporto con gli Stati Uniti, che col Messico condividono affari (coprono quasi l’80% delle esportazioni e il 50% delle importazioni messicane), oltre a questioni spinose come la sicurezza transfrontaliera, il contrasto al narcotraffico, la gestione dei flussi migratori irregolari e qualche disastro ambientale. la rottura tra centro e sudamerica Il Messico serve eccome agli Stati Uniti. Lo dimostra la recente visita di Barack Obama, che punta sui buoni rapporti con Nieto per estendere al Centro e Sud America il Trans-Pacific Partnership (TPP) e consentire agli USA l’accesso a mercati emergenti sinora inesplorati. Una mossa rischiosa che potrebbe avere come effetto indesiderato anche quello di tagliare in due il Centro e il Sud America, acuendo le distanze tra i Paesi dell’Alleanza del Pacifico (Messico, insieme a Cile, Perù e Colombia) e quelli del MERCOSUR (Brasile, Argentina, Uruguay e Venezuela, con il Paraguay temporaneamente sospeso). Il Messico proverà comunque a correre questo rischio facendo da spalla agli Stati Uniti. D’altronde, in gioco c’è un processo di ammodernamento energetico degli USA, sempre più protagonisti della sfida dello shale gas. Una prospettiva nuova che produrrà occasioni interessanti anche per il vicino Messico. nuovi affari nel resto del mondo Nieto continuerà comunque a cercare un dialogo per un’integrazione economica con i Paesi del Sud America. Nel suo primo tour ufficiale è stato in Guatemala, Colombia, Brasile, Chile e Argentina. Nieto guarderà ovviamente anche all’Europa, con cui i rapporti sono sempre stati buoni. Si impegnerà inoltre a consolidare le relazioni con i Paesi asiatici sfruttando il TPP e cercherà di portare il Messico oltre le barriere di sempre, vale a dire in Africa e Medio Oriente.
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Italia | di B. Woods
Terremoti e altri disastri
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nche nel mese scorso, alcuni terremoti hanno interessato da nord a sud il territorio italiano (Veronese, Frusinate, Messinese, Lunigiana). Fortunatamente, la magnitudo dei sismi è stata piuttosto bassa, tra i 2.4 e i 4.5 gradi della scala Richter, e non si sono registrati seri danni a cose o persone. La penisola italiana, stretta tra i movimenti della placca africana ed eurasiatica e attraversata
Da molti anni si discute sulla necessità di introdurre anche in Italia un sistema di assicurazioni contro le calamità naturali
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da una lunghissima spaccatura chiamata Faglia Gloria, è conosciuta sin dall’antichità come un’area a elevata attività sismica. Negli ultimi 2.500 anni, le cronache italiche documentano il verificarsi di oltre 30mila eventi sismici di media e forte intensità; solo durante il secolo scorso, si sono verificati ben 7 terremoti con magnitudo superiore a 6.5 gradi. In queste condizioni, gli scienziati si attendono nei prossimi anni il verificarsi
di un evento catastrofico di magnitudo superiore a 7.5 nell’Italia centro-meridionale. Dalla mappa di pericolosità sismica, si ricava che oltre il 65% dei Comuni italiani è classificato all’interno di zone sismiche. I Comuni dovrebbero rispettare precise norme sulla progettazione e realizzazione delle costruzioni
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Gli scienziati si attendono nei prossimi anni un evento catastrofico di magnitudo superiore a 7.5 Richter nell’Italia centro-meridionale. Dall’applicazione degli standard di costruzione all’introduzione di un sistema di assicurazione obbligatoria, ecco cosa si può fare nuove e sull’adeguamento di quelle vecchie, ma com’è ormai costume nel nostro Paese, l’applicazione delle norme è spesso disattesa o episodica. Tuttavia, come i recenti terremoti dell’Abbruzzo e dell’Emilia ci ricordano, le conseguenze del mancato adeguamento degli standard costruttivi produce lutti e catastrofi che avrebbero potuto
essere, se non evitate, almeno mitigate nelle conseguenze. Se a questi dati si aggiungono quelli del dissesto idrogeologico (l’82% dei Comuni italiani è a rischio dissesto idrogeologico, mentre il 6,1% del territorio è esposto a frane e smottamenti) emerge il quadro di un Paese fragile, insicuro e
impreparato al verificarsi delle emergenze naturali. Da molti anni si discute sulla necessità di introdurre anche in Italia un sistema di assicurazioni contro le calamità naturali, in particolare contro i danni da
Rischio sismico in Italia
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terremoti, che consenta di svincolare le ricostruzioni dai tempi e dalle forme, laddove possano ancora esistere, dell’intervento statale. Da più parti è stata richiesta l’introduzione di un sistema assicurativo di tipo obbligatorio, visto il fallimento dei regimi facoltativi, sulla scorta di quanto presente in altri Paesi dell’Unione Europea, come Belgio, Francia, Spagna, etc. L’introduzione di un sistema di assicurazione obbligatoria non solo consentirebbe lo sviluppo di un mercato efficiente in termini di premi assicurativi (riduzione dei costi, ora stimati tra i 100 e i 250 euro annui per un’abitazione standard), ma produrrebbe lo sviluppo di un efficace monitoraggio sullo stato degli immobili e quindi, laddove necessario, l’avvio di processi di consolidamento e messa a norma
degli edifici che rivitalizzerebbero il settore edile senza consumi addizionali di territorio. In un sistema assicurativo obbligatorio, lo Stato potrebbe operare per garantire l’efficienza e l’assicurabilità prevedendo, ad esempio: forme di partecipazione all’indennizzo (copertura residuale in caso di superamento di massimali di rimborso); agevolazioni fiscali sulle riserve delle compagnie di assicurazione; creazione di un pool assicurativo con contribuzione pari alla quota di mercato in premi. Inoltre, l’introduzione di un sistema assicurativo obbligatorio rappresenterebbe un ostacolo pressoché insormontabile per l’abusivismo edilizio e il consumo indiscriminato del territorio. Secondo la Banca d’Italia (La ricchezza delle famiglie italiane, dicembre 2012), alla fine del 2011 la ricchezza netta delle famiglie
italiane era pari 8.619 miliardi di euro (pari a 140mila euro pro capite e 350mila euro per famiglia): le attività reali ammontavano a 5.978 miliardi di euro, di cui 5.027 miliardi di euro in abitazioni (84%). In una congiuntura economica come quella attuale, segnata da un rapporto debito pubblico/PIL del 130%, da una profonda recessione e da una profonda crisi occupazionale nel settore dell’edilizia (550.000 posti di lavoro dal 2008 ad oggi), l’introduzione di un sistema assicurativo obbligatorio sugli immobili permetterebbe una vera e propria win-win situation, che potrebbe esser realizzata con bassi costi, magari prevedendo forme di fiscalizzazione sul tipo di quelle introdotte dal recente provvedimento in materia di efficienza energetica degli edifici, e che metterebbe al sicuro buona parte della ricchezza degli italiani, rivitalizzando il settore dell’edilizia.
L’Aquila, Barack Obama e Silvio Berlusconi osservano i danni dovuti al terremoto del 2009
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economia
Unione Europea Austerity: fine di un’illusione
Grecia Un bilancio molto amaro
Mondo Si chiude l’era della delocalizzazione?
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Eurozona |
di B. Woods
La favola dell’austerità
el numero scorso del The New York Review of Books (in edicola il 6 giugno) ovvero il più autorevole periodico letterario culturale in lingua inglese, con oltre 135.000 copie vendute nel mondo, compariva un articolo di Paul Krugman, professore di economia a Princeton, premio Nobel per l’economia nel 2008, dove il professore compie una spietata disamina sul come e sul perché si sia affermata la via dell’austerità fiscale per uscire dalla crisi globale del 2008/2009. La recensione di alcuni recenti libri sulla crisi del 2008/2009, consente al professor Krugman di ricostruire come il mito dell’austerità, una delle più potenti leggende in cui gli esseri umani vogliono credere, “sia diventato una dottrina e un esperimento politico”. All’inizio fu la bolla del mercato immobiliare, che aveva reso l’economia americana ed europea dipendente dal mercato delle abitazioni. Poi il crollo dei prezzi delle abitazioni avviò un violento processo di deleverage
espansiva
Confutate le tesi di Reinhart-Rogoff, di Alesina-Ardagna e dei cosiddetti Bocconi Boys, Paul Krugman e il sempreverde John Maynard Keynes offrono una soluzione alternativa all’austerity odierna
(riduzione della leva finanziaria) con il massiccio rimborso del debito pregresso. Il risultato di un processo generalizzato e contemporaneo di vendita di asset finanziari per saldare i debiti, come ogni libro di testo insegna, fu la contrazione della domanda aggregata e quindi la LOOKOUT n. 6 luglio 2013
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Il dizionario Alberto Alesina e Silvia Ardagna sono considerati i fautori del rigore economico. Il loro studio sulla cosiddetta “austerità espansiva”, risalente al 2009, è all’origine delle politiche più impopolari nell’Ue: secondo i Bocconi Boys, sono i conti pubblici in regola ad accrescere la fiducia dei mercati internazionali e degli investitori nazionali, riducendo l’effetto disorientante dei titoli pubblici rispetto al risparmio privato. Non si punta all’aumento delle tasse, ma alla riduzione della spesa pubblica.
recessione. L’Occidente entrò in recessione, come nella Grande Crisi del 1929, ma a differenza di allora, dice Krugman, questa volta avevamo i sistemi di assicurazione sociale, i servizi sanitari nazionali, gli ammortizzatori sociali, in breve il welfare state, e soprattutto, grazie a John Maynard Keynes, sapevamo quali erano gli errori che non bisognava ripetere per evitare l’avviarsi di una spirale senza fine. Ma se negli Stati Uniti, memori della lezione della grande depressione, la Federal Reserve ha tenuto i tassi d’interesse ai minimi storici e sostenuto il corso delle attività finanziarie comprando di tutto sul mercato secondario e l’amministrazione Obama ha riversato 800 miliardi di dollari nell’economia, al contrario in Europa la reazione delle autorità economiche e finanziarie è stata molto più blanda e incerta, forse nell’illusione che l’Atlantico potesse confinare i danni prodotti dalla crisi. L’illusione durò poco e lo tzunami della crisi dei mutui subprime si abbatté violentemente sull’Unione Europea colpendo Irlanda, Portogallo, Spagna, Italia, Regno Unito e travolgendo la Grecia. A questo punto, racconta Krugman, nella mente dei leader delle economie mondiali si radicò la convinzione che il tempo delle politiche espansive per favorire la crescita economica fosse
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concluso. Il punto di svolta fu il summit del G7 tenuto a Iqaluit (Circolo Polare Artico) nel febbraio del 2010, dove i leader delle economie più industrializzate decidsero di attuare politiche fiscali restrittive per mettere un argine ai danni prodotti dalle spese in deficit. Nel racconto di Krugman, due teorie hanno cementato questa disastrosa congettura: la convinzione che esistesse un limite nel rapporto debito/PIL, al di là del quale la crescita economica futura risulta compromessa (il 90% di Reinhart e Rogoff) e l’idea che potesse esistere un’austerità espansiva, secondo cui i tagli di spesa si traducono non in recessione ma in crescita economica (Alesina-Ardagna e i cosiddetti Bocconi boys). La tesi di Alesina e Ardagna, due professori italiani di Harvard, è semplice e disarmante nella sua ingenuità: se i tagli sono abbastanza severi e permanenti da escludere ulteriori manovre di aggiustamento future, se i tassi d’interesse sono bassi e il mercato del lavoro è flessibile, allora gli operatori avranno fiducia nel futuro e investiranno. La tesi sulle aspettative virtuose di Alesina e Ardagna riscosse l’immediato sostegno dell’allora presidente della Banca Centrale Europea, Jean-Claude Trichet, e l’austerità a tutti i costi divenne la politica economica dell’Unione Europea. Tuttavia, come ogni buon libro di testo di macroeconomia insegna, i risultati delle politiche restrittive attuate negli ultimi tre anni nei
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2010-2013 - Come si è modificato il PIL
Paesi europei colpiti dal deficit eccessivo sono stati disastrosi: più elevati sono stati i tagli della spesa, maggiore la caduta del PIL che si è osservata, altro che la crescita prevista da Alesina e Ardagna. In un domino inesorabile, tutti i Paesi dell’Unione Europea sono stati coinvolti dalla recessione che ha aggravato il rapporto debito/Pil (tutta la UE), fatto esplodere il rapporto deficit/PIL (Francia e Regno Unito) e indotto la stagnazione (Germania). Nell’articolo La notte degli Alesina viventi pubblicato sul New York Times, il professor Krugman dimostra come l’austerità espansiva e la politica dei tagli indiscriminati alla spesa pubblica predicate dai Bocconi boys sia stata sconfessata/falsificata dai fatti e abbia prodotto solo ulteriore recessione, aggravando la crisi invece di risolverla. In una situazione in cui i prezzi delle materie prime sono bassi (quelli delle terre rare dimezzati), l’energia abbondante, il costo del lavoro sotto controllo, i tassi d’interesse ai minimi assoluti (i tassi d’interesse reali sono negativi) e l’inflazione ai minimi storici, perché l’abbondante liquidità presente nei mercati si orienta di nuovo verso l’economia di carta, ricreando così le condizioni
per una nuova bolla speculativa, invece che verso gli investimenti nell’economia reale? Perché le aspettative virtuose di Alesina e Ardagna non si realizzano/avverano? Forse perché si è tagliato poco? O più semplicemente perché se tutti riducono la domanda allora nessuno compra e quindi nessuno investe e i guadagni dovuti alla crescita dei listini azionari, investiti da una liquidità senza precedenti, confluiscono nelle mani della speculazione finanziaria senza regole e senza costi (too big to fail)? Se la tesi di Reinhart e Rogoff è stata falsificata da uno studente di dottorato e quella basata sulle aspettative virtuose di Alesina e Ardagna dall’evidenza dei fatti, perché non si intraprende senza indugio la strada indicata da Obama e soprattutto da Abe? Suggeriva ancora John Maynard Keynes: “Il boom e non la crisi è il momento giusto per l’austerità”. Questa prescrizione, conclude Krugman, è giusta anche se può apparire insoddisfacente da un punto di vista emozionale, soprattutto da chi continua ad avere una visione moralistica e non tecnico-funzionale della macroeconomia.
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Grecia |
La Grecia ha bisogno di trovare risorse, fiducia ma soprattutto tempo. Eppure il piano della Troika è troppo stringente. Atene non sa più a che santo votarsi 42
La caduta degli dei
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l Wall Street Journal ha reso pubblico il rapporto confidenziale “Ex post evaluation of exceptional access under the 2010 stand-by arrangement” in cui il Fondo Monetario Internazionale (FMI) afferma di aver commesso gravi errori nella gestione della crisi del debito sovrano della Grecia. Il FMI dichiara di aver sottovalutato le conseguenze delle misure di austerità imposte alla Grecia. L’analisi condotta nel lungo rapporto dimostra che le drastiche manovre di aggiustamento richieste alla Grecia hanno prodotto una disastrosa e violentissima recessione, che mette in discussione la capacità di rispettare la
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road map concordata con la Troika (FMI, Banca Centrale Europea, Commissione Europea). In particolare, il FMI solleva molti dubbi sulla possibilità che la Grecia sia in grado di rispettare l’accordo di ridurre il rapporto debito pubblico/PIL, attualmente al 175%, al 124% entro il 2020 e sostanzialmente sotto il 110% a partire dal 2022. Il FMI afferma che l’ingresso della Grecia nell’area dell’euro si è tradotto il una drastica
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riduzione della spesa per gli interessi sul debito, crollati di oltre il 50% dall’11,5% degli anni Novanta, al 5% degli anni Duemila. Tuttavia, questo importante dividendo fiscale non è stato utilizzato per ridurre il debito pubblico, ma dissipato in aumenti di salari, pensioni, eccetera, e conseguenze della politi- penalizzando i percettori di reddito che hanno portato il ca di austerità sembrano fisso e consentendo al settore privarapporto deficit pubaver sorpreso anche gli ispi- to di disfarsi dei titoli pubblici posblico/PIL al 15% già ratori: la recessione che ha colpito seduti (in questo realizzando il nel 2008. In queste l’economia greca si è rivelata ben principio ispiratore delle politiche condizioni, la crisi fisuperiore alle attese, in particolare fiscali: “salvaguardare comunque i nanziaria globale del il valore del moltiplicatore fiscale, cioè creditori”). Infine, l’amara sorpresa 2008/2009 ha colpidi quanto un’economia si contrae che, a fronte di una caduta dei salato duramente il moper ogni euro di tagli alla spesa o di ri, si è osservata la sostanziale rigididello di sviluppo con aumenti delle tasse, è risultato di tà dei prezzi dei beni e servizi. La finanziamento in decirca tre volte superiore alle stime. stabilità dei prezzi non solo ha amficit attuato dalla Le politiche fiscali hanno determi- plificato la riduzione del potere di Grecia, determinannato la caduta del PIL del 17% acquisto delle famiglie, prodotta done l’insostenibilità (2012) rispetto al 2007, bene oltre dal taglio dei salari monetari (per costo (+3% in un il 5,5% stimato, e un tasso di disoc- 20%), ma ha anche limitato la rialsolo anno) e per ficupazione del 27% (la disoccupa- locazione delle risorse verso i settoducia (declassamenzione giovanile è al 62%), a fronte ri legati all’export, quindi non ti continui del rating di un’attesa del 15%. Inoltre, le compromessi dalla caduta della doa partire da A+ a SD, manovre attuate hanno colpito in manda interna, a vantaggio di setcioè default selettivo maniera difforme la società greca, tori protetti come l’energetico. a un passo dal totale default). riforme strutturali di tutti i L’ambizioso piano - di dimenGià nell’aprile del 2010, visto mercati, a cominciare da quello sioni considerevoli per i parail fallimento delle nuove sottodel lavoro, per recuperare commetri internazionali e primo scrizioni sul mercato finanziapetitività insieme a misure atte programma a coinvolgere dirio, era chiaro a tutti che la a garantire l’adeguatezza patrirettamente la Banca Centrale Grecia non avrebbe potuto salmoniale delle banche, quindi Europea - anche per i ripetuti varsi se non con una profonda la sopravvivenza del sistema fitentennamenti e ritardi, ha suristrutturazione del debito finanziario minacciata dal deperato i 200 miliardi di euro, a nanziata dall’Unione Europea. prezzamento dei titoli del debifronte di un PIL greco di 194 Al contrario, complici la retorito sovrano (origine poi della miliardi di euro (2012). ca dell’azzardo morale e della crisi cipriota). La strategia dirigista della politica dei sacrifici/compiti a L’articolazione delle politiTroika ha imposto così la dracasa, la Troika ha optato per che di austerità necessarie a ristica riduzione del deficit priuna serie di prestiti atti a finandurre il deficit primario dell’8% mario, al netto cioè della spesa ziare la ristrutturazione econonel 2011 e del 14,5% nel triennio per interessi, e una serie di mica e finanziaria del Paese.
Le conseguenze dell’austerità sul Partenone
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successivo, è più o meno nota: tagli a salari e pensioni nel settore pubblico; eliminazione della 13esima e 14esima mensilità; deregolamentazione del mercato del lavoro nel settore privato; tagli alla spesa sanitaria; aumento delle tasse dirette e indirette; blocco del turnover e licenziamenti nel settore pubblico (ancora nel giugno scorso, si è avuta la chiusura della tv pubblica ERT e il licenziamento di tutti i 2.800 dipendenti, mentre ulteriori 15.000 licenziamenti sono previsti entro il 2015), liberalizzazioni e privatizzazioni, etc. Il FMI sottolinea che l’aggiustamento imposto alla Grecia non aveva significativi precedenti nella storia, ma che tuttavia rappresentava la condizione minima necessaria per perseguire l’obiettivo di riportare il rapporto debito pubblico/PIL al 120% nel 2020. In conclusione, il rapporto del FMI proietta forti dubbi sulle forme e sui tempi del programma di risanamento imposto alla Grecia e riconosce che sarebbe stato meglio concedere più tempo per ridurre il deficit primario, permettere una maggiore flessibilità nell’adozione delle politiche fiscali e concentrarsi su poche ma possibili riforme strutturali. Concludendo, viste le forti perplessità sulla sostenibilità del piano di rientro dal deficit eccessivo, il rapporto non esclude che la ristrutturazione del debito sovrano, da sempre fortemente avversata da Germania e Olanda, non si riveli l’unica strada percorribile per evitare il default della Grecia e quindi una nuova e ben più severa crisi dell’euro.
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Le misure di austerity
INSIS SpA is an italian company specialized in designing and manufacturing of multi-technological systems for Civil and Military application. INSIS SpA is able to offer cost-effective and tailored solutions in different areas related to electronics, servo-techniques, electro-optics, high precision mechanics and their conbination. Thanks to its background on system analysis, INSIS SpA is able to provide valuable contribution to the customers according to a flexible and cooperative model, being able By Official acknowledgment of Iyalian Government, INSIS SpA is a National Research Laboratory and it is listed in the Laboratories Register of Italian Scientific and Tecnological Research Ministry since 1997. Since 1999 the Company has been issued by CSQ of the ISO 9001 Certification.
do you spread? voci dal mercato globale
Delocalizzare o rilocalizzare? B. Woods
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ncora il mese scorso un importante imprenditore italiano leader nel settore mobili di arredo ha annunciato circa duemila licenziamenti e la decisione di trasferire la produzione in Brasile, completando la completa delocalizzazione dell’azienda, che già produce in Cina, India e Romania. La crisi e le politiche di austerità imposte nell’Unione Europea hanno aggravato la recessione italiana determinando, in questo primo semestre del 2013, un aumento dei fallimenti aziendali del 13%, la chiusura di 4.218 aziende e l’esplosione dei protesti (oltre 47 mila aziende, secondo il Cerved). In queste condizioni la strategia della delocalizzazione appare ancora a molti imprenditori come una strada per conservare le posizioni sui mercati. Ma le cose stanno veramente così, oppure è arrivato il momento di sfatare un altro mito? Negli anni Ottanta e soprattutto Novanta le imprese, statunitensi e inglesi in primis, hanno combattuto la battaglia contro i costi del lavoro e del capitale trasferendo all’estero le
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produzioni manifatturiere (delocalizzazione), soprattutto quelle ad alta intensità di lavoro. I maggiori beneficiari di questo apparentemente inarrestabile processo sono stati la Cina, l’India, alcuni Paesi asiatici (Vietnam) e dell’Europa dell’Est (Romania). La delocalizzazione ha fatto crescere il commercio internazionale e affrancato dalla povertà circa un miliardo di esseri umani: per esempio, nella sola Cina il volume del commercio legato alle produzioni delocalizzate è passato dai 10 miliardi di dollari del 1994 ai 300 miliardi di dollari del 2008. Tuttavia, i flussi dei capitali - come segnala il Boston Consulting Group (2012) - sembrano avere invertito la rotta, non solo perché “il 37% degli amministratori delegati delle imprese con fatturato superiore a un miliardo di dollari annui stanno progettando di riportare negli Stati Uniti dalla Cina le produzioni, e la percentuale sale al 48% per le imprese con fatturato superiore ai 10 miliardi di dollari”, ma anche perché concretamente alcuni giganti come General Electric, Apple, General Motors, Ford, Caterpillar hanno già ripreso a investire massicciamente in America. Le ragioni sono molteplici: allungamento della catena produttiva con crescenti inefficienze, costo dei trasporti, distanza dai mercati finali, maggiori controlli sulla qualità, protezione dei brevetti e dei diritti di proprietà. Ma soprattutto un’esplosiva dinamica del costo del lavoro rispetto agli incrementi di produttività. Per esempio, nella sola Cina i salari medi nella manifattura sono cresciuti del 69% tra il 2005 e il 2010, e ci si attende che crescano a un tasso del 17% annuo nei prossimi anni, a fronte di una crescita stimata del 3% dei salari manifatturieri statunitensi e del 5%
di quelli messicani. Se a questo si unisce l’insostenibilità del basso valore dello yuan contro il dollaro, il quadro diventa sufficientemente esauriente. Ma questa tendenza è in atto solo negli Stati Uniti? Ovviamente no. La ri-localizzazione, favorita in questo caso dal basso valore della sterlina, coinvolge anche il Regno Unito, a cominciare dai giganti del settore alimentare.Qual è il segreto di questo cambio di direzione? Essenzialmente il basso costo dell’energia, conseguenza della rivoluzione del gas e petrolio non convenzionale, e il massiccio ricorso all’innovazione, in particolare all’IT, che ha consentito alle imprese di accrescere fortemente la produttività senza ricorrere a nuovi occupati. Nel rapporto annuale sulla rilocalizzazione (U.S. Re-Shoring: A Turning Point, MIT 2012), il Massachusetts Institute of Technology riporta che il processo di ri-localizzazione negli Stati Uniti sarebbe favorito da azioni dell’amministrazione Obama come: riduzione della tassazione sull’impresa, agevolazioni fiscali, incentivi per la ricerca e lo sviluppo, investimenti in formazione e miglioramento delle infrastrutture. Invece di continuare a perseguire insensate politiche di austerità, perché l’UE non fa propria questa agenda e con azioni concrete non convince gli imprenditori che il luogo giusto per rinascere è il nostro continente, dove, è bene ricordarlo, per ogni posto di lavoro creato nella manifattura si originano tre posti di lavoro nei servizi?
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outlooK a cura di lorien consulting
Italia e Islam: paure e convinzioni
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alla fine del 2010, l’universo arabo è stato sconvolto dalla cosiddetta Primavera Araba, che ha portato contestazioni, manifestazioni, guerre e rivolte, ma talvolta anche importanti cambiamenti democratici, in numerosi Paesi di Nord Africa, Medio e Vicino Oriente, tra cui, più recentemente, in Siria, dove il conflitto risulta ancora aperto. Sebbene tali scontri abbiano una eco mondiale, gli italiani ne hanno una percezione lontana da sé, tanto che, prenden-
Quali sono i rischi e problemi che maggiormente preoccupano gli italiani?
Attacchi terroristici in Italia
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www.lorienconsulting.it
do in considerazione la più recente rivolta, la Guerra civile siriana, solamente il 24% si ritiene adeguatamente informato a riguardo e, di questo, ben il 40,6% non sa indicare le parti coinvolte nel conflitto. Il restante 59,4% percepisce l’opposizione al governo di Assad come democratica (26,6%), trascurando la radice islamica del Consiglio Nazionale Siriano (citato solo dal 7% del campione). Inoltre, la metà del campione intervistato (47,6%) ritiene poco o per nulla probabile che il conflitto si possa estendere anche oltre i confini siriani (il 30,9% non risponde).
Quanto è preoccupato dal rischio di attacchi terroristici in Europa?
Gli italiani si ritengono infatti maggiormente preoccupati, attualmente, da altri problemi che ritengono più contingenti, quali la disoccupazione, la crisi economica e l’inquinamento; immediatamente dopo, il 15,9% cita il terrorismo. Se chiesto all’intero campione, però, solo il 10,3% ritiene probabile che avvengano effettivamente attacchi terroristici in Italia, che assumerebbero comunque una connotazione prevalentemente politica (27,9%) più che religiosa (20,8%). Sale nettamente la probabilità invece di attacchi terroristici in Europa, che preoccupano
Quanto ritiene di essere informato sull’attuale guerra civile in Siria?
il 49,3% della popolazione italiana. Gli italiani, dunque, non si sentono coinvolti in prima persona nei conflitti arabi, né temono conseguenti attacchi terroristici in Italia (più facilmente nel resto d’Europa); il concetto poi di terrorismo non è comunque da essi necessariamente collegato ad attacchi terroristici di matrice religiosa islamica. Ritengono al contrario che gli immigrati musulmani possano integrarsi pacificamente in Europa (35%), chiedendo loro, però, flessibilità nell’accettare le regole civili e sociali che trovano (35,2%).
Quanto è probabile che il conflitto siriano si estenda oltre il Paese?
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Istituto: Lorien Consulting s.r.l. - Criteri seguiti per la formazione del campione: campione rappresentativo della popolazione italiana maggiorenne, rappresentativo per sesso, età e area geografica - Metodo di raccolta delle informazioni: indagine quantitativa telefonica (CATI, Computer Assisted Telephone Interview) - Numero delle persone interpellate ed universo di riferimento: 1.000 cittadini italiani maggiorenni - Data in cui è stato realizzato il sondaggio: 25-26 giugno 2013 - Metodo di elaborazione: SPSS
Che tipo di attacco terroristico teme maggiormente per l’Italia?
un libro al mese a cura di @roccobellantone
Maledetto Dostoevskij di Atiq Rahini Einaudi 2013 pp. 208 18,50 euro
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fghanistan, fine anni Ottanta. In una Kabul straziata dai dieci anni di resistenza che i mujaheddin opposero all’invasione sovietica, germoglia il tormento di Rassul, protagonista di Maledetto Dostoevskij, scritto da Atiq Rahimi, scrittore e regista afghano naturalizzato francese. Rassul è un giovane studente da poco rientrato in patria dall’Unione Sovietica. Qui per anni ha avidamente masticato le opere di Dostoevskij, lontano dai fucili a tracolla con cui, dal 1979 al 1989, i mujaheddin afghani hanno combattuto e respinto i carri armati dell’Armata Rossa. Tornato in patria, Rassul si macchia di un omicidio per liberare dalla schiavitù e dalla prostituzione Sophia, la sua ragazza. Commesso il delitto, il giovane adesso freme per espiare le proprie colpe rimettendosi al giudizio dei magistrati afghani. Presto però si renderà conto che nel Paese non esiste più alcuna giustizia, ma solo affari e vendette, mascherati dietro una guerra tra fratelli che ha ben poco di religioso. Quell’Afghanistan, lontano più di vent’anni, è un po’ come quello di oggi, ostaggio dei talebani: una terra massacrata dal piombo e dagli interessi “degli altri”. 50
LOOKOUT n. 6 luglio 2013
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così dicono
Ogni burocrazia si adopera per rafforzare la superiorità della sua posizione, mantenendo segrete le sue informazioni e le sue intenzioni max Weber (1864 -1920)
I
”
l tedesco prussiano Karl Emil Maximilian Weber è stato definito storico, filosofo ed economista. Ma, più di ogni altra cosa, egli è il padre fondatore della moderna sociologia. Nato nel 1864 nella città universitaria di Erfurt, in Turingia, Max fu un bambino precoce: studiò accanitamente legge, storia, filosofia ed economia, prima di adempiere al servizio militare. Così divenne presto un professore di economia, insegnando a Berlino, Friburgo, Hedelberg, Vienna e Monaco. A causa di un diverbio e della successiva morte del padre nel 1897, Weber, ancora molto giovane, subì un esaurimento nervoso, fatto che lo sconvolse al punto da impedirgli di lavorare per cinque anni. Depressione, ansia e insonnia lo tennero lontano dalla cattedra fino al 1903, quando riemerse scrivendo per una rivista di scienze sociali e regalando al mondo nel 1905 la sua più famosa opera, “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo”, pubblicazione illuminante e seminale che discuteva intorno all’idea che la nascita del capitalismo moderno fosse attribuibile al protestantesimo, e in particolare al calvinismo. Tornò a insegnare solo nel 1918 e due anni dopo morì.
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