eCoNomiA
Sistema bancario nel mirino |
GeopoliTiCA
L’evoluzione egiziana
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SiCUReZZA
Sudafrica: allarme sicurezza
anno I - n. 7 agosto 2013
Crisi economica
ACHTUNG, BABY! E se la prossima vittima della recessione che ha colpito l’Europa fosse la Germania di Angela Merkel?
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SommARio
eCoNomiA 8 Storia di un
“fuoco amico” 12 Vince sempre il banco? 16 Verità e favole
made in UE RUBRiCHe
20 Dai diamanti
18 do YoU SpReAd? Voci dal mercato globale
insanguinati al boom economico 22 Gioco di squadra
GeopoliTiCA 26 La guerra per l’acqua 32 Timeline
26 SiCUReZZA
della “rivoluzione” 36 La sfida dei canali
40 Un storia in bianco
e nero 44 A quale partito
è iscritto Dio?
24 poliTiCAmeNTe SCoRReTTo Quello che gli altri non dicono 30 dURA lex Sotto la lente del diritto 38 l’ARABA feNiCe Donne, società e i tanti volti dell’Islam 48 A diRe il veRo... L’analisi di approfondimento
iNolTRe 6 mAppAmoNdo
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50 UN liBRo Al meSe 50 CoSì diCoNo
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L’editoriale
Germania: too big to fail?
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el mese di agosto ricorre il secondo anniversario della durissima lettera che la Banca Centrale Europea inviò al governo italiano. Era una lettera in 22 punti, nei quali venivano elencate tutte le misure finanziarie di ordine congiunturale e strutturale, che il governo italiano avrebbe dovuto intraprendere per procedere sulla strada del risanamento dei conti pubblici e ricevere il sostegno delle istituzioni europee. Anche se la lettera portava la firma di Mario Draghi, molti commentatori individuarono dietro la rudezza di alcuni dei quesiti la mano della Germania. Da quel momento, il main stream giornalistico italiano ha impiegato fiumi di inchiostro per dimostrare che Angela Merkel e i suoi consiglieri economici sono la causa della rigidità delle misure di austerity imposte dall’Europa ai suoi membri. Sono passati due anni dalla lettera della BCE e abbiamo pensato fosse quindi opportuno dedicare una parte sostanziale di questo numero del nostro magazine all’economia europea e alle sue prospettive di sviluppo o di crisi. Le nostre analisi, come vedrete, si discostano in parte dall’attuale pensiero dominante, quello che vede la Germania preda di un’ideologia dell’austerity che la rende protagonista delle politiche europee che hanno portato alla “punizione” dei greci e dei ciprioti e alla tenuta di una economia europea ingabbiata dai rigidi paletti teutonici. In realtà, non è così: anche la Germania lotta per sopravvivere e il governo di Angela Merkel tenta di arrivare alle elezioni di ottobre evitando una crisi bancaria di grandi dimensioni. Infatti, tutte le più grandi banche tedesche hanno in portafoglio titoli tossici a volontà e titoli di investimento ad alto rischio, che potrebbero farle esplodere da un momento all’altro. Non poteva sfuggire nella nostra analisi il rapporto tra banche e cittadini. Da quando è stato abbattuto il confine tra banche di credito e banche d’affari, i conti correnti dei risparmiatori sono divenuti investimenti e, come tali, soggetti a rischio. Un rischio che analizziamo insieme a un quadro dell’economia italiana che presenta aspetti molto meno negativi di quelli che appaiono dai titoli dei giornali. Un quadro generale che speriamo interessi i nostri lettori e che abbiamo comunque completato con altri approfondimenti analitici nel campo della geopolitica e della sicurezza.
mario mori
iNBox il diReTToRe ediToRiAle RiSpoNde
Quel che resta dell’URSS Ciò che manca alla vostra analisi è contestualizzare, altrimenti resta la solita propaganda in stile occidentale che non serve a nulla per raccontare la Storia vera. Giuseppe Chiappi Caro Chiappi noi la storia, quella vera, cerchiamo di scriverla ogni giorno. Non è detto che ci riusciamo sempre ma comunque ci proviamo. Non capisco la sua critica sulla mancanza di contestualizzazione. A me sembra proprio il contrario. Non abbiamo certamente tranciato giudizi sulle repubbliche nate dalle ceneri dell’URSS usando il moralismo occidentalista all’americana. Abbiamo solo notato che saltato il “tappo” comunista, buono o cattivo che fosse, la situazione in quei territori si è fatta instabile: senza giudizi di valore o fendenti moralistici. Tutto qui.
Cuba e il pasticcio nordcoreano Come si fa a credere a Cuba? Vi ricordate 40 anni fa, quando dissero che le armi sovietiche non esistevano, e oggi invece ce le ritroviamo a Panama? Manuel Godano Cuba è in “guerra”, se non a livello militare, quantomeno a livello politico-ecomico con gli Stati Uniti. Come alleati le sono rimasti forse solo i nordcoreani. Alla fine ha sempre ragione Churchill: “In guerra la prima vittima è la verità”.
L’attentatore di Boston Dzhokhar Tsarnaev su Rolling Stone: giusto o sbagliato? I media catturano l’attenzione della gente per guadagnare soldi, passando sopra qualsiasi tipo di cadavere. Le persone non si dovrebbero fare condizionare da queste strategie di vendita. Maria Aranini Il gusto per lo scoop purtroppo sconfina facilmente nel cattivo gusto. Dove non possono arrivare le leggi, dovrebbe arrivare la buona educazione e la correttezza dell’informazione: dovrebbero essere queste le uniche “barriere” per la libertà di informazione.
Chi prenderà il posto di Zeta-40 alla guida dei Los Zetas? Il colpo sarebbe stato acciuffare El Chapo Joaquín Guzman. Francesco Atzeni Il problema con la guerra alla droga è che non si può pensare di vincerla con un colpo solo. L’arma nucleare contro i cartelli non esiste. È un conflitto fatto di piccole vittorie e, spesso, di grandi sconfitte come l’uccisione del responsabile della lotta ai cartelli criminali Miguel Ramonet Salazar. Per questo sarà una guerra lunga, che difficilmente vedrà una fine finché il Nord America continuerà a essere il cliente privilegiato dei fornitori messicani.
Anno I - Numero 7 - agosto 2013
DIRETTORE RESPONSABILE Luciano Tirinnanzi @luciotirinnanzi redazione@lookoutnews.it
EDITORE G-Risk - CEO Giuseppe De Donno Via Tagliamento, 25 00198 Roma Tel. +39 06 8549343 - Fax +39 06 85344635 segreteria_grisk@grisk.it - www.grisk.it
REDAZIONE Rocco Bellantone Dario Scittarelli Cristiana Era Marta Pranzetti
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mAppAmoNdo STATi UNiTi Wikileaks, manning evita l’ergastolo Bradley Manning, la gola profonda dell’esercito americano coinvolto nel caso Wikileaks, è stato condannato dalla Corte Marziale di Fort Meade per aver violato più volte l’Espionage Act. Manning non è stato però riconosciuto colpevole del reato di connivenza con il nemico. Se avesse subito il massimo della pena, avrebbe dovuto scontare 136 anni di carcere.
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meSSiCo Si mette male per i los Zetas Dopo l’arresto del leader “Zeta40”, alias Angel Trevino Morales, catturato nella città di Nuevo Laredo al confine vicino al confine con gli Stati Uniti, adesso i Los Zetas devono vedersela anche con la concorrenza. A lanciare la sfida per il dominio del mercato del narcotraffico sono i Cavalieri Templari, che hanno già fatto sentire la loro presenza eliminando il vice ammiraglio della marina messicana, Carlos Miguel Salazar.
mAli Keita in testa per la presidenza Secondo i risultati comunicati dal governo del Mali, l’ex primo ministro Ibrahim Boubacar Keita ha ottenuto un ampio vantaggio rispetto agli sfidanti alle elezioni presidenziali del 28 luglio. Per lui si prospetta dunque una vittoria netta. Dietro di lui si posiziona Soumaila Cissè, ex presidente della Commissione dell’Unione Economica Monetaria dell’Africa Occidentale. Affluenza oltre il 50%.
ReGNo UNiTo Benvenuto George Alexander louis È nato il 22 luglio George Alexander Louis, figlio di William duca di Cambridge e di Catherine Elizabeth Middleton, terzo in linea di successione al trono. La scelta è ricaduta su un nome tradizionale e all’insegna della continuità, favorito anche dai bookmaker. George è stato il nome di sei re britannici.
iRAQ luglio di sangue In Iraq sono state oltre 850 le vittime nel solo mese di luglio. Dall’inizio del 2013 i morti sono più di 3.000, il bilancio peggiore dal 2008. Nello scontro settario tra la minoranza sciita al potere e la maggioranza sunnita è ormai evidente la mano di Al Qaeda, che punta alla destabilizzazione del Paese per mettere le mani sul petrolio.
CoReA del NoRd il mistero della Chong Chon Gang A metà luglio, all’imbocco sul versante caraibico del canale di Panama è stato sequestrato un cargo battente bandiera nordcoreana. A bordo, tra tonnellate di sacchi di zucchero, era nascosto un arsenale di armi provenienti da Cuba. L’Avana si è difesa dicendo che si trattava di armi obsolete d’epoca sovietica. Ma ormai la frittata era fatta, e adesso Cuba e Nord Corea dovranno darne conto alla comunità internazionale.
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Germania Modelli bancari e ricette tedesche La soliditĂ del sistema creditizio
Italia Dalle regole UE alla sfida per la crescita
Angola Sviluppo e paradossi
America Latina Economie a confronto
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Germania |
Storia di un
Il fallimento del sistema della “banca universale” e la necessità manifesta di separare banche di investimento e di risparmio, riportano al “peccato originale”: l’ipoteca tedesca sul modello bancario comune
“fuoco amico” N B. Woods
el luglio scorso, la senatrice democratica del Massachusetts, Elizabeth Warren, e il senatore repubblicano dell’Arizona sconfitto nelle elezioni presidenziali del 2008, John McCain, hanno presentato al Senato statunitense un progetto di legge per la reintroduzione del Glass-Steagall Act, cioè la legislazione della Grande Depressione che separava l’attività delle banche commerciali da quella delle banche d’investimento, abolito dal Gramm-Leach-Bliley Act durante l’Amministrazione Clinton (1999). La proposta dell’inedita coppia di senatori bipartisan giunge dopo che, da oltre tre anni, il progetto di riforma previsto dal Dodd-Frank Act è ancora bloccato dall’azione delle potenti lobby finanziarie. La necessità di operare una scissione tra la raccolta del risparmio e l’attività di banca d’investimento rappresenta la presa d’atto formale del fallimento del modello della
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“banca universale” che si è affermato negli anni Novanta nei mercati finanziari mondiali. Se negli Stati Uniti la responsabilità finale di una simile scelta ricade sull’amministrazione democratica di Bill Clinton - complici la più prolungata crescita economica mai registrata nel Paese e l’incessante attività di deregolamentazione dei mercati - in Europa è l’emanazione della Seconda Direttiva in materia bancaria (89/646/CEE) che sancisce l’affermarsi del modello bancario tedesco, ritenuto superiore al sistema del doppio circuito e al gruppo polifunzionale. La motivazione di fondo che guida questa imponente ristrutturazione bancaria è essenzialmente la profittabilità: la banca universale è lo strumento idoneo a garantire, attraverso processi di fusione e di incorporazione che assicurano la presenza di economie di scala e di produzione congiunta, l’efficiente competizione nei mercati globalizzati e deregolamentati, dove si affermano sempre più quei prodotti dell’alchimia finanziaria denominati “derivati”. Quindi, l’Unione Europea nasce con questa forte ipoteca tedesca, che prima impose il proprio modello bancario e poi dieci anni più tardi imporrà le parità di conversione tra le valute nazionali e l’euro. Le conseguenze di tale acquiescenza ai diktat tedeschi sono sotto gli occhi di tutti: sistemi economici nazionali fortemente sofferenti e sistemi
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bancari fragili e vulnerabili, compreso quello tedesco. Vale la pena fare alcune considerazioni: la Germania, dopo gli USA e il Regno Unito, è il Paese che più si è impegnato nei salvataggi bancari, spesso con vere e proprie nazionalizzazioni. La Deutsche Bank, cioè la maggior banca d’investimento europea (e la sesta nel mondo), risulta coinvolta nei più importanti scandali che hanno colpito le borse europee: dal Libor, o tasso interbancario di riferimento, alla più recente accusa di aver cospirato, insieme ad altre 12 banche, per impedire lo spostamento degli scambi dei derivati su piattaforme informatiche più trasparenti e meno rischiose. Per finire con l’accusa di aver nascosto miliardi di dollari di perdite sui derivati durante la crisi, per evitare il salvataggio da parte del governo tedesco. Considerando lo stato della Deutsche Bank, recentemente ricapitalizzata per 2 miliardi
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Il dizionario Il Fondo Monetario Internazionale nasce su impulso degli Accordi di Bretton Woods del 1944 per regolare la cooperazione economica tra Stati e le svalutazioni monetarie. Oggi include 188 Paesi ed è guidato da Christine Lagarde. L’accordo istitutivo dice che il FMI deve: promuovere la cooperazione monetaria internazionale; facilitare l'espansione del commercio internazionale; promuovere la stabilità e l'ordine dei rapporti di cambio evitando svalutaioni competitive; dare fiducia agli Stati membri rendendo disponibili con adeguate garanzie le risorse del Fondo per affrontare le difficoltà della bilancia dei pagamenti; abbreviare la durata e ridurre la misura degli squilibri delle bilance dei pagamenti degli Stati membri.
di euro (azione da molti analisti considerata insufficiente al punto che Thomas Hoenig, vice presidente del Federal Deposit Insurance Corporation, ha dichiarato che Deutsche Bank è “spaventosamente sottocapitalizzata”) e la pendenza di procedimenti per pratiche anticoncorrenziali che potrebbero rendere inadeguati i 2,4 miliardi di euro accantonati per coprire eventuali condanne; considerata la crisi profonda della Commerzbank, la seconda banca privata tedesca; considerato infine lo stato problematico di molte altre banche tedesche, la contrarietà della Cancelliera Merkel alla ristrutturazione del debito sovrano di Grecia e Cipro più che una
scelta dettata dai guadagni sui titoli di quei Paesi e dai bassi costi del proprio indebitamento statale, appare motivata da ragioni di sopravvivenza del sistema bancario nazionale, non in grado di affrontare una svalutazione del proprio attivo. Considerando, da ultimo, che le stime del Fondo Monetario Internazionale accreditano la crescita della Germania dello 0,6% nel 2013 e di un incerto 1,5% nel 2014 (media della crescita annua del PIL nel periodo 1995-2004: Germania 1,3%, Francia 2,2%, Italia 1,6%), il totale fallimento del sistema fondato sulla “banca universale”, la destrutturazione dei sistemi produttivi dei Paesi UE e la lunga recessione nella quale si dibatte l’economia continentale, vale la pena di chiedersi per quanto ancora vada riconosciuta ai tedeschi la legittimità di una così problematica leadership.
L’UE nasce con forte ipoteca tedesca: prima imponendo il proprio modello bancario e poi la parità di conversione tra valute nazionali ed euro
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Germania |
Salvare la banche per evitare crisi sistemiche, grazie all’aiuto dello Stato, non basta più. Come gestire le “too big to fail” che cadono nella spirale della crisi del sistema creditizio? 12
Vince sempre il banco?
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a Grande Recessione iniziata con la crisi dei mutui subprime nel 2007, ha modificato la struttura dei mercati finanziari attraverso l’impetuoso susseguirsi di fallimenti, fusioni e acquisizioni di banche e compagnie di assicurazioni. Al fine di evitare ulteriori fallimenti e incontrollabili reazioni a catena, come quelle seguite alla bancarotta di Lehman & Brothers, i processi di concentrazione non sono stati lasciati all’azione delle forze del mercato, ma coordinati dal governo degli Stati Uniti (Tesoro e Fondo Federale di Assicurazione sui Depositi FDIC) e dalla Federal Reserve (FED).
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Gli USA, sotto l’Amministrazione Bush (ottobre 2008, con Henry Paulson ministro del Tesoro), hanno stanziato 700 miliardi di dollari per i salvataggi bancari attraverso l’Emergency Economic Stabilization Act (EESA) e poi, sotto l’Amministrazione Obama (marzo 2009, con Timothy Geithner ministro del Tesoro), hanno anche garantito e concesso prestiti agevolati per ritirare dal mercato i titoli tossici, ovvero i derivati
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più rischiosi sui mutui subprime, attraverso il Public Private Partnership Investment Program for Lagacy Assets (PPIPLA). Il 4 novembre 2011, il Financial Stability Board (FSB), che coordina l’azione delle autorità monetarie e finanziarie dei Paesi membri del G20, ha definito un gruppo di 29 banche considerate troppo grandi per fallire (TBTF ovvero “Too Big To Fail”), cioè così grandi e legate al sistema finanziario da rendere il costo economico e sociale di un loro fallimento insostenibile per l’intera economia mondiale. La presa d’atto dell’eventualità di un’irreversibile crisi sistemica associata alla bancarotta di questi giganti ha indotto i governi nazionali a cercare di rispristinare le condizioni minime di un corretto esercizio dell’attività bancaria e finanziaria attraverso la loro ricapitalizzazione. Il salvataggio delle “Too Big To Fail” è avvenuto attraverso un processo di adeguamento del capitale proprio, con prestiti a tassi agevolati o, in circostanze estreme, come nel caso della Royal Bank of Scotland, attraverso la nazionalizzazione. In assenza di alternative praticabili, questi provvedimenti sono stati finanziati con la fiscalità generale, creando così distorsioni e inefficienze che hanno accresciuto il rischio di comportamenti opportunistici (azzardo morale) e di nuove e più estese emergenze nei mercati. Contemporaneamente, i Paesi dell’Unione Europea - in particolare Regno Unito, Germania, Belgio, Olanda e Francia - hanno dovuto sostenere diverse
banche nazionali di dimensioni ragguardevoli, anch’esse pericolosamente in crisi di solvibilità, attraverso aiuti pubblici di alcune migliaia di miliardi di euro, fino a realizzare in alcuni casi delle vere e proprie nazionalizzazioni. E questo pur non trattandosi di istituti compresi tra quelli sistemici: Lloyds TSB, HBOS, IKB, Commerzbank, Sns Reaal, Dexia, etc. Cos’ha determinato un simile sconquasso e la crisi di un sistema che pure aveva garantito il corretto funzionamento dei mercati bancari e finanziari per oltre settant’anni? Le varie commissioni d’inchiesta identificano tre cause fondamentali nella crisi del sistema bancario e finanziario mondiale: la struttura patrimoniale delle banche; la commistione dell’attività di raccolta del risparmio e del finanziamento degli investimenti (si veda l’articolo precedente); lo sviluppo incontrollato del mercato dei titoli derivati.
Le 29 “infallibili”
1. BANK of AmeRiCA 2. BANK of CHiNA 3. BANK of NeW YoRK melloN 4. BANQUe popUlAiRe Cde 5. BARClAYS 6. BNp pARiBAS 7. CiTiGRoUp 8. CommeRZBANK 9. CRediT SUiSSe 10. deUTSCHe BANK 11. dexiA 12. GoldmAN SACHS 13. GRoUp CRédiT AGRiCole 14. HSBC 15. iNG BANK 16. Jp moRGAN 17. lloYdS BANKiNG GRoUp 18. miTSUBiSHi UfJ fG 19. miZUHo fG 20. moRGAN STANleY 21. NoRdeA 22. RoYAl BANK of SCoTlANd 23. SANTANdeR 24. SoCiéTé GéNéRAl 25. STATe STReeT 26. SUmiTomo miTSUi fG 27. UBS 28. UNiCRediT 29. WellS fARGo
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Sul mercato dei titoli derivati si è già scritto (LookOut n.2 marzo 2013). Vale solo la pena ricordare che, nonostante i propositi di riforma, i primi provvedimenti legislativi (European Market Infrastructure Regulation) e l’istituzione delle Controparti Centrali nei mercati asiatici e statunitensi, le banche TBTF, una volta superata l’emergenza, hanno ripreso a operare massicciamente su questi mercati come e più di prima della crisi dei mutui subprime, portando a dicembre 2012 il loro valore a oltre 632 mila miliardi di dollari, di cui oltre il 40% concentrato tra: JP Morgan, CityBank, Bank Of America e Goldman & Sachs Bank. E questo a fronte di un PIL mondiale di 72 mila miliardi di dollari, rispetto ai 595 mila miliardi di dollari (con PIL mondiale 55 mila miliardi di dollari) del 2007. Il capitale proprio - che come ogni imprenditore sa è fondamentale nel garantire i diritti dei creditori nelle banche - ha subìto un progressivo e inarrestabile ridimensionamento, che ha portato il coefficiente di patrimonializzazione da percentuali superiori al 50%, quindi simili a quelli di ogni impresa della seconda metà dell’Ottocento,
ai valori inferiori al 5% dei nostri giorni (alla fine del 2006 la situazione era la seguente: RBS 4,5%, Lloyds 3,3%, Barclays 2,7%, Deutsche Bank 2,9%, UBS 2,3%). L’insufficiente capitalizzazione ha reso le banche molto vulnerabili e fragili, per la ridotta capacità di assorbire le perdite
dovute alla crisi. Infatti, la combinazione dell’esiguità del capitale proprio a fronte degli impieghi, sintetizzata da un rapporto di leva finanziaria - anche detto leverage ratio: rapporto tra il capitale netto e il totale delle attività - di oltre 40 punti (cioè il doppio di quello ritenuto normale sulla base dei dati
Il dizionario Il 5 agosto del 2011 il governo italiano ricevette la famosa (e contestata) lettera della Banca Centrale Europea. Il “diktat” conteneva un elenco d’impegni immediati: accrescere il potenziale di crescita; assicurare la sostenibilità delle finanze pubbliche; correggere il bilancio; prevedere la riduzione automatica del deficit; controllo dell’indebitamento. Dopo quella lettera, la BCE acquistò titoli italiani per 160 miliardi di euro e il governo s’impegnò al pareggio di bilancio, poco prima di decadere. 14
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storici: la Deutsche Bank ha una leva superiore a 50), e il malfunzionamento del sistema di ponderazione dei rischi dell’attivo (Basilea I e II), tutto ciò ha reso le banche incapaci di sostenere le svalutazioni del loro attivo. In questa condizione, nel dicembre 2010, il Comitato di Basilea per la Vigilanza Bancaria (BCBS, Basel Committee on Banking Supervision) ovvero il Comitato dei Governatori delle Banche Centrali, ha approvato l’accordo “Basilea III” che impone nuovi requisiti patrimoniali e un diverso sistema di ponderazione dei rischi connessi agli impieghi bancari (Basel III - A global regulatory framework for more resilient banks and banking systems, December 2010, revised June 2011). Ma la ferma opposizione delle banche ha determinato un ritardo nell’applicazione delle norme di Basilea III e, soprattutto, un vero e proprio sabotaggio della riforma strutturale del doppio circuito (Retail Investment). Così, con i bilanci statali stretti tra il fiscal compact e la recessione generalizzata, e ormai dissanguati per i continui e ingenti finanziamenti al settore bancario, l’Ecofin - nel timore di dover affrontare una nuova crisi con pochi mezzi a disposizione - ha annunciato il cosiddetto “Accordo sui fallimenti ordinati delle banche”. Tale accordo (raggiunto a Bruxelles il
27 giugno 2013) sancisce il passaggio dal salvataggio da parte degli Stati alla suddivisione delle perdite all’interno della banca stessa. In base al meccanismo definito, in caso di fallimento le perdite saranno coperte, in ordine: dagli azionisti, dagli obbligazionisti e infine dai depositanti, fatti salvi i depositi inferiori a centomila euro che sono garantiti dal Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi (FITD). Premesso il dubbio sull’adeguatezza del FITD nel caso di fallimenti sistemici, l’accordo di giugno generalizza la regola già applicata a Cipro: i depositi, anche quelli in conto corrente, non sono più intoccabili e comunque tutelati, ma concorrono a ripianare le passività bancarie in caso di fallimento. Quindi, da una parte i cittadini sono obbligati ad avere un deposito o conto corrente bancario per poter eseguire pagamenti superiori a mille euro, dall’altra devono anche rispondere della gestione delle banche, sulle quali non hanno però nessun controllo. Si è, insomma, in presenza di una vera e propria rivoluzione copernicana su cui non si è ancora riflettuto abbastanza ma che, in prima battuta, sembra suggerire una buona prassi: visto che le banche non sono tutte uguali, meglio controllare attentamente il bilancio, prima di depositare i propri risparmi. (B.W.)
Basilea III
B
asilea III, che dovrebbe operare a pieno regime solo nel 2019, prevede di accrescere il patrimonio di vigilanza delle banche (TIER I + TIER II) all’8%, di cui almeno il 4,5% in azioni e utili non distribuiti (TIER I-CET1). Tuttavia, questa manovra - volta a migliorare la qualità e la quantità del capitale proprio delle banche allo scopo di ridurre il rischio sistemico tuttora stimato molto elevato - è ritenuta da molti insufficiente e inadeguata, tanto da indurre la Commissione Indipendente sulle Banche istituita dal primo ministro David Cameron nel giugno del 2010 (nota come Commissione Vickers), a suggerire non solo di portare il capitale proprio almeno al 10% e di porre dei limiti alla leva finanziaria, ma soprattutto a richiedere la re-introduzione della divisione tra attività di raccolta del risparmio (Retail) da tutelare e proteggere, e l’attività d’investimento (Investment), che viceversa potrebbe fallire. Più o meno, le medesime raccomandazioni sono incluse nel DoddFrank Act statunitense e auspicate da molti analisti e studiosi.
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Italia |
Verità e favole made in UE
I numeri di Bankitalia offrono un quadro credibile dell’Italia che ne certifica una condizione migliore di altri Paesi UE, nonostante gli indicatori generali restino negativi. Che succede?
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a pubblicazione da parte della Banca D’Italia (BI) del bollettino economico e del rapporto sulla stabilità finanziaria unitamente alle difficoltà nelle quali si dibatte il governo presieduto dal premier Letta, offrono l’occasione per una riflessione sul momento che sta vivendo il nostro paese. I rapporti della BI disegnano un Paese che, nonostante le difficili condizioni internazionali, si è impegnato in una seria opera di riordino dei propri conti: il disavanzo pubblico è sceso al 2,6%; l’avanzo primario, cioè al netto della spesa
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per interessi, è stimato al 2,7%, con un trend crescente in controtendenza rispetto ai maggiori Paesi della UE; la vita media residua del debito pubblico è di 6,5 anni (Germania 6,4 e Francia 6,8) in linea con la media UE; la quota di debito pubblico detenuta da non residenti è del 35% (Germania 61% e Francia 63% dopo la Spagna è la più bassa della UE); la bilancia dei pagamenti ha registrato
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un avanzo del saldo del conto corrente grazie al miglioramento del saldo mercantile (+17,8 miliardi di euro); il guadagno di competitività dal 2010 è di oltre 5 punti percentuali e, per finire, l’inflazione è ben sotto il 2%. Nonostante questo quadro, gli indicatori generali sono negativi: il debito pubblico raggiungerà il 130%, il Prodotto Interno Lordo (PIL) si ridurrà di un ulteriore 1,9%, la ricchezza delle famiglie si è ridotta di alcune decine di miliardi; le condizioni finanziarie e di liquidità delle imprese sono peggiorate, determinando oltre 8.000 fallimenti dall’inizio dell’anno; l’accesso al credito delle imprese non finanziarie si è ulteriormente ridotto; le sofferenze bancarie hanno raggiunto il 7,2% dei prestiti alla clientela; i tassi attesi d’insolvenza sono cresciuti; le retribuzioni unitarie nominali e reali si sono ridotte, proseguendo nel trend negativo; la disoccupazione ha superato il 12% e infine i poveri assoluti sono ormai l’8% della popolazione (5,7% nel 2011). La contraddizione tra queste due descrizioni è evidente e fa sorgere molti dubbi sulla bontà delle politiche economiche e finanziarie praticate della UE. A livello internazionale una gran parte degli sforzi sostenuti dai Paesi della UE sono vanificati dall’insostenibile crescita di valore dell’euro rispetto allo yen (+30% da settembre), al dollaro (+15% da settembre) e anche alla sterlina inglese (+25% dal 2007). Quindi il recupero competitivo che i Paesi UE compiono è annullato dalla rivalutazione della moneta unica.
L’austerità espansiva predicata da alcuni (Alesina, Ardagna e i Bocconi Boys) e applicata su scala continentale nella UE ha prodotto solo recessione e prospettive future di crescita molto incerte, al più di qualche decimale, che rendono il tanto vituperato tasso di crescita italiano della fine degli anni ’90 un vero e proprio boom. L’azione del moltiplicatore fiscale è devastante e affossa irrimediabilmente le economie rendendo vano ogni sacrificio, facendo salire inesorabilmente il rapporto debito pubblico/PIL, indebolendo le difese degli stati e avvicinando fatalmente la crisi sistemica. Il FMI scrive che da questi livelli di debito pubblico/PIL (per tutti i paesi UE superiori al famoso 90%) si esce
solo con inflazione o svalutazione, meglio se con tutte e due insieme; esattamente l’opposto di quello che si sta facendo. Il Regno Unito di Cameron e Osborne, il Paese più conforme ai dettami dell’austerità espansiva, nonostante la svalutazione della sterlina, avrà nel 2013 un PIL ancora del 3,9% inferiore a quello del 2008, un tasso di disoccupazione del 7,8%, un rapporto deficit pubblico/PIL al 7,6%, un rapporto debito pubblico/PIL vicino al 100% e, per concludere, un rapporto investimenti/PIL così basso da finire al 159° posto su 173 Paesi, in compagnia dell’altro esempio di austerità che è l’Irlanda, della Grecia e di Cipro, devastati dalle manovre di austerità. Altro che uscita dalla UE. (B.W.)
La disoccupazione giovanile in Europa
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L’Italia che può crescere B. Woods
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Agli inizi del Novecento i grandi imprenditori erano raffigurati come i padroni delle ferriere, trent’anni fa le grandi imprese si chiamavano GM, GE, IBM, EXXON e impiegavano centinaia di migliaia di persone, mentre oggi i big dei listini azionari si chiamano APPLE, MICROSOFT e i loro profitti, come fa notare il prof. Krugman, dipendono dalle regole imposte ai mercati, cioè dal loro potere nei e sui mercati, visto che il costo marginale dei loro prodotti è prossimo a zero. Il paradosso è che mentre si deregolamentavano i mercati, si sono accresciuti i monopoli naturali privati, garantendo gli extra profitti di quasimonopolio, uccidendo così la libera cones eyn correnza: complimenti per il risultato! dK r a La finanza è, se possibile, in una condizione ancora peggiore. La banca universale ha richiesto la distruzione di ogni regola, con il risultato di avere un’economia mondiale di carta che non finanzia gli investimenti reali, ma che sulla base di sole scommesse, spesso a due (i famosi derivati), riproduce se stessa e come un castello di carta può crollare per un colpo di vento. Una semplice domanda: quale attività reale è in grado di competere con i guadagni delle speculazioni finanziarie senza costo? Nessuna. Se si guarda indietro a ciò che hanno fatto le élite del passato, forse si intravede una via d’uscita dall’impasse. All’indomani della Grande Depressione, quando anche allora la sterlina si svalutava, John Ma yn
L’
Europa ha già vissuto tutto questo ma, come spesso accade, la memoria collettiva difetta. L’attuale Grande Recessione non è molto diversa dalla Grande Depressione e forse alcuni errori strategici, come quello di voler comprimere la domanda aggregata avrebbero dovuto essere evitati. J.M. Keynes ha scritto il più importante trattato di economia del Novecento, LA TEORIA GENERALE DELL’OCCUPAZIONE, DELL’INTERESSE E DELLA MONETA, nella speranza che venissero risparmiate al mondo le tragedie degli anni ’30, argomentando che ridurre i salari è controproducente, che imporre sacrifici durante una crisi ha effetti perversi, che la domanda aggregata andrebbe sostenuta e che la finanza andrebbe regolamentata e trattata come un’attività socialmente pericolosa, dal momento che le borse somigliano sempre più a dei casinò dove il banco, o meglio le grandi banche, vincono sempre (Too Big To Fail).
Lo Stato Italiano non può impegnarsi direttamente nel finanziamento di un ente d’investimento ma può favorire, fungendo da garante di ultima istanza, la nascita di una società di diritto privato partecipata
in Italia venne proibito alle banche di svolgere contemporaneamente l’attività di raccolta del risparmio e l’attività d’investimento (Legge Bancaria del 1936), mentre la ristrutturazione finanziaria e industriale venne affidata a un ente appena creato: l’IRI (Istituto per al Ricostruzione Industriale). Oggi lo Stato Italiano non può impegnarsi direttamente nel finanziamento di un ente d’investimento (fiscal compact, etc.), ma può favorire, fungendo da garante di ultima istanza, la nascita di una SOCIETÀ DI DIRITTO PRIVATO partecipata da banche, assicurazioni e soprattutto dai due grandi portafogli di liquidità del nostro Paese: la Cassa Depositi e Prestiti e i Fondi Pensione. Questa nuova società potrebbe fornire prestiti a tassi agevolati, comunque superiori ai rendimenti sui titoli di alcuni paesi UE in pancia ai fondi pensione, per alcune decine di miliardi di euro, garantiti dallo stato, con i quali avviare una radicale opera di ammodernamento infrastrutturale, industriale ed energetico del Paese, consentendo così al governo di dedicare le magre risorse ricavate dai faticosi aggiustamenti del bilancio pubblico alla riduzione del cuneo fiscale, e di concentrarsi sull’alienazione dei beni e servizi non strategici. L’impresa, difficile ma non impossibile, consentirebbe quel recupero della produttività industriale rispetto a Francia e Germania, condizione necessaria per una duratura crescita economica. LOOKOUT n. 7 agosto 2013
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Angola | di Cristiana Era
Dai diamanti insanguinati al boom economico
Dopo una lunga e sanguinosa guerra civile l’Angola, grazie a pacificazione politica e risorse naturali, è una delle più promettenti economie africane e Paese di nuova immigrazione
L’
Angola è tristemente nota per i “blood diamonds” - i diamanti insanguinati con cui veniva finanziato il traffico di armi che alimentava il conflitto tra le due principali fazioni
Nazioni Unite a imporre l’embargo sui diamanti non certificati e poi, nel 2000, l’Assemblea Generale ad approvare la Risoluzione 55/56 di condanna dei traffici di armi e diamanti. Oggi questo Paese cerca il riscatto: da un passato coloniale
ne; da un territorio ancora disseminato di campi minati; e da un’immagine di Paese corrotto, inefficiente, insicuro e sottosviluppato. La fragile democrazia nata nel 2002 con la firma di un
Paradossi angolani Nonostante il boom economico e la democratizzazione, in Angola persiste un divario socio-economico estremamente alto, che crea il paradosso di un Paese tra i più ricchi del continente per potenzialità e risorse, pur rimanendo uno dei più poveri in termini di distribuzione del reddito. Ben oltre la metà della popolazione (circa il 53,5%), infatti, vive in condizioni di povertà. Le differenze sono marcate soprattutto fra le città, che hanno avuto un’impennata nello sviluppo dei servizi e delle infrastrutture, e le aree rurali, dove si concentra la maggior parte della popolazione. Il governo ha annunciato una politica economica volta a favorire le piccole imprese e una più equa distribuzione della ricchezza nazionale. Tuttavia, molti ostacoli permangono, a causa soprattutto di pratiche diffuse di corruzione, a livello sia amministrativo che governativo.
politiche, l’UNITA (Unione Nazionale per l’Indipendenza Totale dell’Angola) e l’MPLA (Movimento Popolare per la Liberazione dell’Angola) - un commercio che prima ha spinto le
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non troppo lontano (ha ottenuto l’indipendenza dal Portogallo solo nel 1975); da una guerra civile che ha dilaniato la sua terra causando la morte di centinaia di migliaia di perso-
cessate-il-fuoco ha comunque consentito all’Angola di riprendere fiato e creare le condizioni di sicurezza necessarie a rendere il Paese sufficientemente attraente per gli investitori stranieri,
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date le sue enormi risorse naturali e la più recente politica complice la campagna elettorale dello scorso anno - volta alla creazione di infrastrutture efficienti e moderne, voluta dal presidente José Eduardo dos Santos. I risultati sono più che incoraggianti: negli ultimi dieci anni, l’economia è cresciuta con tassi che hanno raggiunto fino al 12%, con stime che, per l’anno corrente e per il 2014, si attestato tra il 6 e l’8%. La relativa stabilizzazione ha portato in Angola - e soprattutto nella capitale Luanda - ingenti capitali stranieri, spesso in fuga dalle economie stagnanti dell’Occidente (come nel caso del Portogallo che mantiene ancora forti interessi e una comunità portoghese in aumento nell’ex colonia) oppure alla ricerca di fonti energetiche, materie prime e mercati di sbocco per i propri prodotti e per la manodopera.
Oltre a oro e diamanti, l’Angola possiede ingenti giacimenti petroliferi: infatti, è tra i primi Paesi esportatori al mondo, con circa 10 miliardi di barili di riserve e una produzione giornaliera di 1,81 milioni di barili di greggio. Lo scorso giugno, la maggiore compagnia petrolifera cinese (CNPC) ha rilevato dall’americana Marathon Oil Corp la sua quota - pari al 10% per lo sfruttamento del giacimento offshore denominato “Block” di gas e petrolio dell’Angola, dopo che già in passato aveva acquisito anche il 5% della francese Total. Valore della transazione: 1,52 miliardi di dollari, per una capacità produttiva stimata di 533 milioni di barili di greggio. Ma non c’è solo petrolio: Pechino, in linea con tutta la sua politica estera di espansione in Africa, sta costruendo interi quartieri in cui probabilmente risiederanno i migranti cinesi.
Ne è un esempio Nova Cidade de Kalimba, una vera e propria città “made in China” con scuole, palazzi e centri commerciali, sorta alla periferia di Luanda e progettata per accogliere 500mila persone. Un investimento da 2,5 miliardi di euro, secondo alcune fonti, in concorrenza con il Brasile, altrettanto attivo nel settore dell’edilizia. In quello che sembra un paradosso storico, la manodopera qualificata portoghese emigra anch’essa nell’ex colonia, in cerca di migliori sbocchi professionali. Anche l’Italia ha interessi qui, per il momento soprattutto nel settore energetico, dove sono presenti Eni e Saipem. Un Eldorado africano, dunque, nonostante la crisi internazionale: i diamanti di sangue saranno presto solo un ricordo?
Oltre a oro e diamanti, l’Angola possiede ingenti giacimenti petroliferi: è tra i primi esportatori al mondo, con circa 10 miliardi di barili di riserve e una produzione giornaliera di 1,81 milioni di barili di greggio LOOKOUT n. 7 agosto 2013
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Gioco di squadra L’America Latina reagisce alla crisi dell’Occidente intensificando gli scambi nel Pacifico e promuovendo piani di sviluppo regionali
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a crisi dell’eurozona, gli stenti dell’economia americana e il complesso assestamento della finanza giapponese si riflettono negativamente anche sull’America Latina. Meno soldi in circolazione, meno consumi, meno rimesse da parte del popolo degli emigrati e anche meno esportazioni verso quelli che per il Sud America fino a qualche anno fa erano clienti di prima classe. Un dato su tutti riguarda la Spagna, come noto uno dei Paesi europei più colpiti dalla recessione. Da qui, solo nel 2012 i risparmi inviati in patria dagli emigrati di origine sudamericana sono diminuiti del 14%. Il calo del potere d’acquisto rischia pertanto di frenare il percorso di crescita delle economie sudamericane. Questi Paesi sinora si sono dimostrati capaci di reagire e, salvo imprevisti, dovrebbero riuscire a chiudere il 2013 con un tasso di crescita medio del 4-5%. A favore della tenuta delle economie sudamericane stanno giocando diversi fattori: in primis la stabilità politica delle singole nazioni, seguita da moderati tassi di crescita, dall’inflazione tenuta sotto controllo, dall’abbassamento del debito estero e dalla diversificazione delle produzioni. Sul piano interno, l’insieme di questi fattori ha portato a una generale diminuzione della povertà, all’aumento dei salari e, dunque, a una maggiore capacità di acquisto e a un graduale riequilibrio tra
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le differenti classi sociali. Il risultato è che l’America Latina oggi dimostra - più di ogni altro momento della sua storia - di poter essere indipendente dall’Occidente poiché la sua crescita deriva in maniera sempre più significativa dalla domanda interna e non più solo da quella esterna. Il resto dipende dal possesso di materie prime (il rame per il Cile, il petrolio e il caffè per il Brasile, l’agricoltura e l’allevamento per l’Argentina e l’Uruguay), il cui valore di mercato, nonostante la crisi globale, continua a fare la differenza. La crescita è stata inoltre sostenuta dall’aumento degli scambi commerciali nell’area del Pacifico, con la Cina che da sola monopolizza in pratica le esportazioni dell’intero Sud America confermandosi il primo partner commerciale per Brasile e Cile e il secondo per Argentina e Perù, mentre il Centro America e i Paesi Caraibici continuano a dipendere soprattutto dai rapporti con gli Stati Uniti. A tutto ciò si aggiunge la graduale integrazione dei singoli modelli di sviluppo nazionali in piani strategici di profilo regionale. E così, mentre l’Europa si sgretola e gli Stati Uniti arrancano, il Sud America accelera puntando all’occorrenza anche al gioco di squadra.
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di Tersite
Djezinformatsia
A
Donald Rumnsfeld
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bbonda la disinformazione sugli avvenimenti mondiali. Una tecnica di intelligence, mutuata da quell’antica arte retorica della Politica che, basata sulla paura che spinge il popolo tra interessate braccia protettrici, è artefice originaria di inganno e travisamento. Finita l’emergenza prescrittiva della Guerra Fredda, l’informazione si è liberalizzata, proponendo visioni meno partigiane. Almeno fino al 9/11, quando il fumogeno di un altro Male Assoluto degli apparati di “Djezinformatsia” (disinformazione) ha di nuovo polarizzato l’informazione, sfruttando l’opportunità per distogliere l’attenzione dalla crisi esplosiva dell’Occidente e applicare i preventivati piani di sostegno. Così è passata la disinformazione sull’improrogabile invasione dell’Afghanistan. Mentre essa già rientrava nell’offensiva della “dottrina Rumsfeld”, elaborata sin dai ‘90 per globalizzare la Pax Americana. E, naturalmente, Al-Qaeda non è stata sconfitta così come l’Afghanistan
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è ancora in balia dei talebani nonostante dodici anni di guerra, 3.300 soldati ISAF morti e incalcolabili civili. La Djezinformatsia successiva (ancora camuffando la “dottrina Rumsfeld”) è doppia: anzitutto sulla complicità di Saddam Hussein con Al-Qaeda. E poi, visto che la prima non reggeva, sulle armi di distruzione di massa. Anche in quel caso le armi non c’erano, come non c’era Al-Qaeda che, però, appena caduto Hussein, si è infilata in Iraq in pianta stabile con le sue stragi, che hanno prodotto la morte di circa 5.000 soldati della coalizione e incalcolabili stragi di civili. L’ex premier britannico Tony Blair, ora “ministro della guerra” della JP Morgan a 2 milioni di sterline annue, è un noto diffusore di Djezinformatsia: non a caso viene chiamato Bliar (Bbugiardo). Non pago di aver mentito al suo Paese per portarlo in guerra in Iraq, ora diffonde disinformazioni per provocare un intervento occidentale in Siria. Sempre in applicazione della “dottrina Rumsfeld” nell’area del Great Middle East Project e con la Siria già nell’Asse del male. In un suo editoriale apparso sul Daily Mail (3 giugno 2013), sparge Djezinformatsia a piene mani partendo dall’orribile omicidio del soldato inglese da parte dell’invasato vendicatore musulmano. E lo fa per arrivare alla necessità di salvaguardare l’Inghilterra combattendo quell’ideologia alla radice: ossia in Medio Oriente. Mentre, invece, Londra è un “Londonistan” proprio perché l’Inghilterra utilizza estremisti islamici nel suo asse d’interessi strategici: repubbliche musulmane ex sovietiche, Pakistan, Afghanistan e Libia, dove agenti inglesi hanno pianificato la presa di Tripoli con l’aiuto degli jihadisti dell’area. Blair, dopo un garbuglio di superficialità politico-religiose sui Paesi islamici, arriva a tracciare il parallelo tra quell’omicidio e le intenzioni di
Assad di ripulire i sunniti in Siria, e chiuderli in un bantustan privo di risorse (mentre stermina gli oppositori utilizzando armi chimiche). Le affermazioni di Blair sul presunto genocidio dei sunniti sarebbero classificabili sotto la voce dei deliri, se non fosse che supportano autorevolmente l’attuale leitmotiv degli interventisti, che vorrebbero la Siria preda di una guerra di religione tra sciiti e sunniti. Fallito il tentativo d’ingerenza negli affari interni di uno stato sovrano, duplicando la “liberazione” della Libia, la nuova risorsa è un intervento per fermare lo sterminio di una guerra religiosa. Superando così astutamente gli impedimenti del diritto internazionale sulla sovranità. Guerra di religione perché, si sostiene, gli alawiti di Assad - minoranza islamica non riconosciuta dai sunniti - per darsi maggior peso si sono affiliati alla componente sciita. Mentre le truppe jihadiste infiltratesi in Siria (sponsor Arabia e Qatar) e gli oppositori interni dell’integralista Fratellanza Musulmana (sponsor USA), appartengono alla supercorazzata sunnita. Non fosse però che in soccorso di Assad sono giunti gli sciiti iraniani e di Hezbollah, mentre l’esercito che ha retto lo scontro è al 90% di soldati sunniti. Quindi, quel sostegno è soprattutto politico e molto poco religioso, e lo scontro centrale è anche tra aggressori sunniti etero-finanziati e lealisti sunniti. Inoltre, la popolazione siriana, al 75% sunnita, è rimasta in buona parte fedele ad Assad non solo per la sagacia distributiva del regime, ma anche per il timore della sharia applicata dagli jhadisti in cerca di un pan-Califfato Islamico. Il cui credo, estraneo ai sunniti siriani, si riconosce nell’estremismo wahabita: variante sunnita seguita in Arabia, Qatar e dalla Fratellanza Musulmana, nonché fonte ispiratrice dei gruppi terroristici islamisti. Da quell’estremismo nascono anche gli scontri con i sunniti più moderati dell’Esercito Libero Siriano, culminati nell’assassinio del comandante di Latakia da parte del gruppo qaedista Stato Islamico in Iraq e nel Levante. Altro esempio di guerra politica interna tra sunniti e sunniti. La Djezinformatsia in onda nei media occidentali lascia credere, nascondendolo, che questo groviglio possa essere sepolto sotto i bombardamenti
Tony Blair
aerei. Se di guerra di religione si vuole proprio parlare, ma sempre incastrata in supremazie geo-strategiche, essa non è in corso in Siria, ma sulla Siria. Obiettivo principale di Arabia e Qatar (e USA-GB) è l’Iran sciita, da assediare nei confini costringendolo sulla difensiva. Per questo prosegue dal Golfo il supporto ai qaedisti che in Iraq fanno stragi di bombe tra la maggioranza sciita al potere. Per quanto lo sciismo conti solo il 10% dell’Islam, è geograficamente racchiuso in una roccaforte sull’asse Iraq-Iran-Siria e supportato dal potente vicino russo e dall’appoggio cinese. Nello scontro regionale tra sunniti e sciiti si riverbera, dunque, quello globale: Stati Uniti contro Russia e Cina. Questi i conflitti di fondo da cui la Djezinformatsia vuole distogliere l’attenzione perché fornirebbero la chiave di lettura degli avvenimenti. Una Djezinformatsia che si fa velina a cui i più si adeguano, senza neanche esserne comandati o pagati. Per sola stolidità di pensiero.
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Egitto La diga etiope I focolai di guerra I tre anni che hanno cambiato il Paese
Nicaragua Il canale pi첫 grande del mondo
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Egitto |
La guerra
Il punto non è la religione né la politica né l’economia. Ma la sopravvivenza, che all’Egitto è garantita dalle acque del Nilo fin dalla notte dei tempi. Il Cairo è disposto a tutto per non metterla a rischio
per l’acqua M di Dario Scittarelli
entre i lavori per la costruzione in Etiopia di una gigantesca diga sul Nilo, la Grand Ethiopian Renaissance Dam, proseguono intensamente sotto la direzione del gruppo italiano Salini, i venti di guerra tra Il Cairo e Addis Abeba crescono pericolosamente di intensità. “Difenderemo ogni goccia d’acqua del Nilo con il nostro sangue!” fu il duro monito che l’ormai ex presidente egiziano Morsi rivolse all’Etiopia pochi giorni prima di essere defenestrato dai militari. Questi ultimi, dal canto loro, sembrano parimenti intenzionati a mantenere alta la tensione con gli etiopi e, nei circoli politico-militari del Cairo, si parla sempre più frequentemente di una prossima “guerra del Nilo”. Il problema non è solo tecnico. Perché per l’Egitto il Nilo non è soltanto un corso d’acqua: è la ragione stessa dell’esistenza
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della nazione. Toccare il Nilo per gli egiziani significa mettere in discussione l’identità millenaria di una civiltà della quale vanno orgogliosi. L’Egitto, lo scriveva già Erodoto, è infatti “il dono del Nilo”. E dal Nilo l’Egitto prende ogni anno ben 55 miliardi di metri cubi di acqua, su un totale di 75 miliardi. La rimanente parte, circa 20 miliardi di metri cubi, spetta invece, per la stragrande maggioranza, al Sudan: circa 18 miliardi di metri cubi. Ciò che avanza viene suddiviso tra Etiopia, Uganda, Ruanda, Kenya, Tanzania e Burundi. È questo il risultato di un accordo siglato tra il Cairo e Khartoum nel 1959, poco dopo l’indipendenza del Sudan, accordo cui l’Etiopia non partecipò. Ma oggi che il diritto di veto egiziano su tutti i progetti upstream del Nilo (risalente al 1929) è ormai un retaggio dell’era coloniale, l’Etiopia sta costruendo proprio a monte, sul Nilo Azzurro, la più grande diga del continente africano. La versione del Cairo Una riduzione di quasi il 50% del volume delle acque del Nilo: è questo ciò che l’Egitto teme possa avvenire con la realizzazione della Renaissance Dam. Un downgrade alquanto significativo: da 55 miliardi di metri cubi annui si scenderebbe infatti a 30 miliardi. E, se si stima che per far fronte all’incremento demografico previsto nel Paese per il 2050 (150 milioni di abitanti) serviranno
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almeno 20 miliardi di metri cubi di acqua in più all’anno, ben si comprende l’ostilità del Cairo al progetto. Oltretutto, una diminuzione nel flusso di acqua avrebbe ulteriori ripercussioni negative nel Paese, influenzando la navigabilità del Nilo, la sua pescosità (gli agenti inquinanti sarebbero meno “diluiti”) e la fertilità delle sue sponde, in quanto la diga tratterrebbe il limo e gli altri sedimenti che contribuiscono da sempre ad arricchire il terreno. Di conseguenza, nel lungo periodo, la Grand Ethiopian Renaissance Dam avrebbe effetti negativi anche sull’agricoltura egiziana e sull’occupazione nel settore. La risposta etiope Addis Abeba rassicura: la Renaissance Dam servirà a produrre energia idroelettrica e, in quanto tale, non ridurrà la quantità di acqua che dal Nilo Azzurro arriva al Cairo (come accadrebbe, ad esempio, se lo scopo dell’opera fosse l’irrigazione). Una volta riempito l’enorme bacino artificiale, quindi, il volume delle acque resterà sostanzialmente inalterato. Unico accorgimento: coordinare sempre le operazioni della diga etiope a monte con quella egiziana di Assuan a valle, evitando di chiudere la Renaissance Dam nei periodi di siccità. Del resto, sembra proprio che il governo di Addis Abeba voglia intraprendere un percorso cooperativo: come si legge nel sito dedicato alla costruzione dell’opera, la diga è “espressione dell’impegno
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dell’Etiopia per il vantaggio di tutti i Paesi del bacino del Nilo”. Ai quali - è il caso di aggiungere - con 800 milioni di euro di ricavi stimati all’anno, l’Etiopia sarà ben lieta di vendere loro energia elettrica. Gli osservatori internazionali Le diplomazie ritengono che la “guerra del Nilo” possa essere scongiurata solo se l’Etiopia sarà in grado di fornire al Cairo garanzie serie e “visibili” sul flusso delle acque, limitando decisamente l’ampiezza della diga. Una concessione che difficilmente l’Etiopia vorrà fare. Al momento, soluzioni negoziali sembrano difficili e il caos che regna in Egitto non facilita un razionale percorso di trattativa. Al contrario, non è da escludere che i militari, per attenuare le tensioni interne e chiamare alla mobilitazione anche i sostenitori di Morsi contro il nemico esterno, possano tentare di far salire la temperatura della crisi per difendere “anche col sangue ogni goccia d’acqua del Nilo”.
La posizione di Khartoum Il Sudan sostiene apertamente il progetto. La diga, infatti, stabilizzerebbe il volume delle acque, riducendo notevolmente il rischio di inondazioni. Trattenendo i sedimenti, inoltre, aumenterebbe il ciclo di vita delle altre centrali idroelettriche situate a valle. Due aspetti che appaiono più rilevanti rispetto al rischio di una minore fertilità dei terreni, che potrebbe essere determinata proprio dall’assenza di depositi argillosi nelle acque del fiume. Al momento l’unica opposizione alla Grand Ethiopian Renaissance Dam proviene da sporadiche sacche di islamisti che appoggiano piuttosto acriticamente i Fratelli Musulmani egiziani: una minoranza alquanto trascurabile.
GRAND ETHIOPIAN RENAISSANCE DAM Luogo: Etiopia, regione Benishangul-Gumuz Inizio lavori: aprile 2011 Fine lavori: luglio 2017 Stato attuale dei lavori: 15% Costo dell’opera: 3,3 miliardi di euro Scopo: produzione di energia idroelettrica Produzione prevista: 15.000 Gwh/anno Capacità: 10 milioni di metri cubi
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dURA lex SoTTo lA leNTe del diRiTTo
Disputa lungo il fiume Draconian
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Q
ualche settimana fa l’Etiopia ha deciso di deviare il corso del Nilo Azzurro per la costruzione della prima di quattro dighe, la più importante: lunga 1.789 metri e alta 145, inonderà un’area di 1.680 Km2. All’indomani della notizia, il presidente egiziano Morsi - prima di essere destituito - non ha escluso un intervento militare per scongiurare la realizzazione dell’opera destinata a impoverire la portata d’acqua del Nilo riservata all’Egitto. Il Nilo è il secondo corso d’acqua del pianeta. Il suo bacino è alimentato da due affluenti principali: il Nilo Bianco e il Nilo Azzurro. Il primo, che offre il 15% della portata, sorge dal Lago Vittoria (Kenya, Tanzania, Uganda); il secondo, che implementa la portata di ben l’85%, proprio dal Lago Tana in Etiopia. Lo sfruttamento delle risorse idriche condivise è regolato in via generale dalla Convenzione dei corsi d’acqua internazionali sugli usi diversi dalla navigazione, adottata dall’ONU nel 1997, al fine di favorire la cooperazione tra gli Stati rivieraschi e conciliare le due posizioni teoriche, dominanti fino ad allora, nei conflitti per le risorse idriche: la teoria
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della sovranità territoriale assoluta e la teoria della integrità territoriale assoluta. Per la prima, è lecito che uno Stato sfrutti le acque che scorrono sul suo territorio prescindendo dalle necessità degli altri Stati ripuari. Per la seconda, invece, ciascuno Stato ha il diritto di ricevere inalterato il flusso di un corso d’acqua, secondo il diritto naturale di controllo della risorsa idrica. Si tratta di un accordo quadro dal contenuto generico tendente a contemperare le opposte teorie, secondo il concetto della perfetta uguaglianza di tutti gli Stati rivieraschi nell’uso dell’intero corso del fiume e l’esclusione di ogni privilegio, mediante la elaborazione di criteri di limitazione della sovranità territoriale basati sui concetti di equità e ragionevolezza. A livello “pattizio”, la ripartizione delle acque del Nilo è regolamentata dal trattato, tutt’ora in vigore, firmato nel 1959 tra Egitto e Sudan, che riconosce al primo il diritto di sfruttare il 75% delle acque, lasciando al secondo la rimanente parte. L’intesa ha storicamente garantito una posizione di rilievo all’Egitto che, pur trovandosi a valle, ha da sempre potuto sfruttare la porzione più grande delle risorse idriche a danno dei Paesi ubicati a monte del corso d’acqua. Ma l’incremento demografico e l’accresciuto fabbisogno energetico hanno mutato rapidamente gli equilibri dell’area. Così, per evitare conflitti, si è tentato più volte di riformulare il trattato del 1959: da ultimo, nel 1999 con la Nile Basin Initiative, allorquando i Paesi che vi aderirono - tra cui Egitto e Sudan - dichiararono di voler “raggiungere uno sviluppo socio-economico sostenibile attraverso un uso equo delle risorse idriche e dei benefici del comune bacino del Nilo”. Ma il Cooperative Framework Agreement, redatto solo nel 2010 a conclusione della difficile trattativa, non è stato sottoscritto né dal Sudan né dall’Egitto. L’Etiopia, invece, nonostante l’opposizione egiziana, ha ratificato, il 13 giugno scorso, l’intesa già sottoscritta da Burundi, Kenya, Ruanda, Tanzania e Uganda. E con l’inaugurazione del cantiere per la Renaissance Dam sembra non più rinviabile l’avvio di un negoziato per scongiurare una possibile guerra regionale.
Gli SCeNARi poSSiBili lA “GUeRRA dell’ACQUA” eGiTTo-eTiopiA
Obiettivo “diga della discordia” eGiTTo
eTiopiA
468.500
182.500
4.487
301
9.646
1.205
2.760
488
863
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Qualora l’Etiopia perseverasse nella finalizzazione della “diga della discordia”, la più probabile azione di guerra intrapresa dai generali egiziani consisterebbe in un unico “strike” ad opera della Royal Egyptian Air Force (REAF), finalizzato a distruggere l’intera diga o a danneggiarla per rallentarne i lavori. Per fare ciò, l’aviazione dovrebbe far alzare in volo buona parte dei suoi aerei da caccia (Gloster, Spitfire, Hawker, Curtis, Fiat, quasi tutti di fabbricazione inglese) e sorvolare lo spazio aereo dell’Eritrea. Se la supremazia egiziana in campo militare resta incontrastata in tutta l’Africa, ciò nonostante l’avversario non è del tutto impreparato: negli ultimi anni l’Etiopia
ha fatto significativi investimenti nel settore della difesa, in modo da rendersi autonoma e sviluppare internamente un esercito moderno. Attualmente devolve alla difesa il 2,4% del proprio PIL. Nel febbraio 2013 è stata annunciata la costruzione del primo drone di fabbricazione etiope, un grosso passo in avanti per l’Etiopia, che in passato (2011) aveva già concluso un accordo con l’israeliana BlueBird Aero Systems per l’acquisto di droni. Secondo il World Military Strength Rankings 2013 le forze etiopi sono classificate al 29simo posto nel mondo e al secondo per quanto riguarda il continente africano. Hanno più volte contribuito alle Missioni ONU come peacekeepers.
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Egitto |
Timeline della “rivoluzione”
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NovemBRe diCemBRe feBBRAio mARZo Il presidente Mubarak è costretto a dimettersi, il potere passa in mano al Consiglio militare. Approvato il pacchetto di riforme costituzionali, si profilano nuove elezioni.
mAGGio GiUGNo lUGlio S’intensificano le proteste a piazza Tahrir al Cairo. Crescono i gruppi e i movimenti islamici.
Torna la violenza in piazza Tahrir, durissimi scontri tra manifestanti ed esercito. Il primo ministro Essam Sharaf si dimette. Iniziano le elezioni parlamentari. Entra in carica un governo di unità nazionale, guidato dal primo ministro Kamal al-Ganzouri.
GeNNAio
ApRile
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Il presidente Hosni Mubarak rimpasta il governo per calmare le proteste di piazza, senza successo. Di fronte alle richieste dei manifestanti di rassegnare le dimissioni, offre di dimettersi a settembre.
Il presidente deposto, Hosni Mubarak, viene arrestato, insieme a parte della sua famiglia, con l'accusa di corruzione.
L’esercito disperde i manifestanti di piazza Tahrir, mentre Mubarak va sotto processo al Cairo, accusato anche di avere ordinato l'uccisione di manifestanti.
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2012
AGoSTo
mARZo Muore Shenouda III, il papa della Chiesa copta.
GeNNAio I partiti islamisti vincono le elezioni parlamentari. Emergono i Fratelli Musulmani.
Il nuovo primo ministro Hisham Qandil nomina un gabinetto dominato da figure dal governo uscente, tecnocrati e islamisti, escludendo le forze laiche e liberali. Il neo-presidente Morsi licenzia il ministro della Difesa Tantawi e il capo di stato maggiore Sami Annan e inizia la stesura di una nuova Costituzione. Combattenti islamici attaccano un avamposto dell’esercito nel Sinai, uccidendo 16 soldati.
mAGGio GiUGNo I Fratelli Musulmani candidano Mohammed Morsi, che supera il primo turno di votazione delle prime elezioni presidenziali libere. L’esercito annuncia la fine dello stato di emergenza in vigore dal 1981. Morsi vince le elezioni presidenziali mentre Hosni Mubarak viene condannato al carcere a vita per complicità nell’omicidio dei manifestanti in piazza.
diCemBRe L’assemblea costituente a maggioranza islamista approva la bozza di Costituzione che aumenta il ruolo dell'Islam e limita la libertà dei cittadini. Si annuncia un referendum.
NovemBRe Il presidente Morsi emette un decreto per spogliare la magistratura del diritto di contestare le sue decisioni, crescono le proteste popolari. Il Vescovo Tawadros è eletto nuovo papa dei cristiani copti.
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GeopoliTiCA
pRoSpeTTive peR il fUTURo
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lUGlio
mARZo Un tribunale boccia la proposta del presidente di Morsi di anticipare le elezioni parlamentari.
Le proteste si fanno incessanti e piazza Tahrir si riempie di contestatori. L’esercito appoggia i manifestanti e intima a Morsi di dimettersi entro 48 ore a partire dal 1 luglio. Morsi rifiuta di dimettersi, l’esercito marcia sul palazzo presidenziale: depone il presidente, sospende la Costituzione e nomina Adly Mansour reggente pro tempore.
GeNNAio
GiUGNo
Nuove violenze di piazza, oltre 50 persone vengono uccise. Il capo dell'esercito ammonisce Morsi e avverte che la lotta politica sta spingendo lo Stato al collasso.
Morsi nomina alleati islamisti come leader regionali in 13 dei 27 governatorati dell'Egitto. Nomina anche un membro di un ex gruppo armato islamista, legato a un massacro di turisti a Luxor nel 1997. Ciò alimenta le proteste e spinge il governatore di Luxor alle dimissioni.
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In Egitto è stata una rivoluzione a metà. Mubarak, infatti, è caduto quando i militari hanno “consentito” alle folle di innescare il processo che ha abbattuto il vertice di un regime, senza toccarne la struttura amministrativa e di difesa. Adesso, la road map del presidente ad interim Adly Mansour, se avrà successo, nel medio periodo vedrà ridimensionate le aspirazioni della Fratellanza, che tenta di ripristinare lo status quo ante, anche con la violenza: con la fine del Ramadan (10 agosto), la situazione potrebbe ulteriormente degenerare. Il conferimento della premiership all’economista Hazem El Beblawi, già ministro delle Finanze e in contatto con il FMI, può garantire che gli aiuti dall’estero continuino ad arrivare. È un segnale conciliante dei militari: “avanti con moderazione”, per favorire il ritorno alla normalità. La disputa con l’Etiopia è invece un progetto a lungo termine e Addis Abeba ha tempo per tornare sui suoi passi. Altrimenti, scopriremo perché i militari si sono risolti a tornare al potere così presto.
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Le rotte commerciali del nuovo millennio potrebbero ridisegnare le carte nautiche del Novecento. Il canale di Panama presto potrebbe essere messo in ombra da quello nicaraguense, a trazione cinese di Hugo
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La sfida dei canali
opo quasi cento anni di dominio incontrastato, presto il canale di Panama potrebbe vedere messo in discussione il suo monopolio lungo la rotta commerciale che collega l’Atlantico al Pacifico. La “minaccia” arriva dal vicino Nicaragua, che il 7 giugno ha sbloccato il progetto per la costruzione di un canale transoceanico, avvicinando così il Paese alla realizzazione di un sogno coltivato da quando, nel 1914, gli Stati Uniti preferirono puntare su Panama per la costruzione di questa grande opera. La missione è stata affidata all’uomo d’affari cinese Wang Jing, proprietario del Gruppo
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HKND, con base a Hong Kong. Il progetto partirà nel 2014 con un investimento base pari a 40 miliardi di dollari. I lavori saranno realizzati dalla società registrata ad hoc, HK Nicaragua Canal Development Investment Company, a cui il governo nicaraguense ha affidato una concessione di 50 anni. Il canale, per la cui costruzione saranno necessari tra i dieci e i quindici anni, sarà lungo 286 chilometri (il triplo di quello di Panama) e collegherà
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i Caraibi con il Pacifico, attraversando il Lago di Nicaragua, il più grande lago d’acqua dolce dell’America Centrale, consentendo l’attraversamento a navi container con carichi massimi di 250.000 tonnellate (il doppio del peso permesso a Panama). Numeri imponenti, che rischiano di offuscare la cerimonia per la conclusione dei lavori di ampliamento del canale di Panama, programmata per la fine del 2014, in occasione del centenario dell’opera. Se Panama annaspa, dal canto suo il Nicaragua gongola. Sorride il presidente Daniel Ortega, che potrebbe passare alla storia come l’uomo che ha permesso la storica realizzazione dell’opera. E sorridono gli imprenditori del Paese, perché oltre agli affari legati al commercio il canale si porterà dietro un enorme indotto derivante dalla realizzazione di grandi infrastrutture: due porti, due zone di libero commercio, un oleodotto, una ferrovia e un aeroporto internazionale. C’è anche chi la pensa diversamente, come le associazioni ambientaliste e gli studiosi preoccupati per l’impatto ambientale del canale e chi, poi, non si fida affatto di Wang Jing.
nonostante Cina e Nicaragua Quarant’anni, originario di Penon abbiano rapporti formali. chino, prima di darsi agli affari Tra i partner di Jing vi sarebbeJing ha studiato medicina. Ha ro infatti la China Railway Coniniziato comprando una miniestruction e altri gruppi petrolira d’oro in Cambogia e poi, nel feri statali, che vedono di buon 2010, ha investito sulla multinaocchio la possibilità di ammorzionale delle telecomunicaziotizzare i costi del trasporto del ni Xinwei Telecom Enterprise petrolio e del carbone attraverso Group, società che ha allargato l’America Latina. il proprio giro arrivando fino al Nicaragua, dove però dei 700 milioni di dollari di finanziamenti promessi ad oggi si è I legislatori hanno dato il via libera ad una società cinese di visto ben poco. progettare, costruire e gestire un canale di navigazione in tutta Dice di non avela nazione centroamericana. re legami di sangue con membri del governo cinese, né tantomeno con rappresentanti del partito comunista o dell’esercito. A prescindere dalle voci che si rincorrono sul web su una sua possibile parentela con Whang Zheng (vice presidente cinese dal 1988 al 1993), ciò che è certo è che Pechino ha già messo più di un piede dentro quest’opera,
Il progetto nicaraguense
Il dizionario Per celebrare i cento anni del canale di Panama, il governo panamense conta di chiudere entro il 2014 i lavori di espansione dell’opera permettendo il passaggio di navi più grandi. In corrispondenza di ciascuno degli imbocchi del Canale, verranno costruite due nuove serie di chiuse parallele a quelle esistenti. Ma il patto tra il presidente del Nicaragua, Daniel Ortega e l’uomo d’affari cinese Wang Jing (insieme nella foto), rischia adesso di rovinare la festa di Panama.
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l’ARABA feNiCe doNNe, SoCieTà e i TANTi volTi dell’iSlAm
Jihad del sesso e spose a contratto La giurisprudenza islamica e la disciplina dell’eros di Marta Pranzetti
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a un mese a questa parte, circola su internet la notizia di giovani musulmane votate al jihad che vanno in Siria a offrirsi ai ribelli in evidente crisi da astinenza sessuale. Lo chiamano jihad al-nikah (dall’arabo nikah, matrimonio) e sembrerebbe essere autorizzato da diverse fatawa emesse da giurisperiti musulmani di prestigio. Su tutti, l’Imam saudita ed esperto teologo Muhammad al-Arifi, secondo cui alle giovani devote che soddisfino i valorosi combattenti si aprirebbero “le porte del Paradiso”. Ma il termine si diffondeva via etere già nel 2012 quando, con jihad al-nikah, si è fatto riferimento al fenomeno che riguardava i jihadisti in guerra contro il regime siriano, autorizzati da altrettante farneticanti fatawa a soddisfare i loro piaceri terreni abusando sessualmente delle donne siriane fatte
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prigioniere. Il diritto sharaitico dispone, in effetti, che il combattente - si presuppone per il Jihad islamico - possa abusare dei suoi prigionieri, presunti kuffar (infedeli). Ma il concetto, per l’utilizzo che ne è stato poi fatto, risulta evidentemente distorto per adattarlo ai combattenti del fronte siriano che, se proprio si vuole leggere nell’ottica della “guerra santa”, contrappone i ribelli (sunniti) al regime alawita (setta sciita) degli Assad. In qualsiasi modo lo si legga, comunque, il fenomeno resta raccapricciante come quelli che in qualsiasi altra guerra, a prescindere dall’Islam, implicano violenze di massa. Ma perché, allora, parlare di “matrimonio”? Il diritto islamico prevede effettivamente diverse tipologie di contratto matrimoniale e il concetto di “sposa a termine” non è avulso dal sostrato culturale arabo-musulmano. Oltre al matrimonio canonico - che dura a vita, necessita di testimoni, prevede l’offerta di una dote, è regolato da norme per il ripudio, la separazione, l’assegnazione dei figli e l’eredità - il Corano ammette un “matrimonio di piacere” che può essere contratto a termine. È questo il caso del nikah al-mutah, praticato dalla corrente sciita che consente di unirsi in matrimonio (ma senza alcuna tutela giuridica né diritto di rescissione) per un periodo di tempo concordato tra le parti e di poter avere rapporti sessuali altrimenti non autorizzati. Questa pratica è
ampiamente diffusa in Iran (dove addirittura si sta sviluppando l’equivalente delle nostre “case chiuse” in cui si possono contrarre matrimoni a ora), in Iraq (dopo la caduta di Saddam Hussein, che ne aveva vietato la pratica) e in Libano (dall’avvento del partito sciita di Hezbollah). L’usanza trova
è consentito a chi non può permettersi più di una moglie (nelle disposizioni concernenti la poligamia, il Corano stabilisce che ogni moglie deve essere trattata ugualmente) o a chi passa lunghi periodi di tempo lontano da casa per lavoro. La pratica è diffusa soprattutto tra gli uomini facoltosi degli Stati del Golfo che si spostano in Egitto, India, Mauritania, Yemen, Indonesia (e di recente anche in Siria, o meglio nei campi dei rifugiati siriani in Giordania), per ottenere prestazioni
giustificazione diretta nel Corano (Sura 4:24 che autorizza gli uomini impegnati nel Jihad e perciò lontani da casa per lungo tempo a contrarre matrimoni temporanei per ovviare al peccato derivante da relazioni extraconiugali) ma nella tradizione sunnita è stata abolita dal secondo Califfo, successore di Maometto, perché ritenuta una maniera di legalizzare l’adulterio e la prostituzione. Eppure, anche la corrente sunnita ammette un’alternativa di tutto comodo al matrimonio “eterno”: si chiama nikah al-misyar ed
sessuali, rese lecite da un fittizio contratto di matrimonio, in cambio di denaro. Tralasciata ogni considerazione morale su pratiche che in qualche modo liberalizzano i costumi sessuali in una cultura rigidamente conservatrice (è evidente che la giurisprudenza islamica, come ogni altra legge che si rispetti, trovi ad ogni divieto il suo espediente per eluderlo), i problemi concreti legati al jihad al-nikah e alle varie formule di matrimonio temporaneo ricadono tutti sulla donna e sugli eventuali suoi figli. I quali, senza alcuna tutela giuridica, rimangono stigmatizzati a vita nella società di appartenenza per il disonore procurato alla famiglia da un atto che, spesso, più che da una scelta volontaria dipende da necessità economiche. Se non addirittura da abusi sessuali subiti.
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Sudafrica L’allarme sociale e della sicurezza I numeri e le speranze
Islam La Sharia tra politica ed economia
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Statistiche impietose indicano il Paese africano come uno dei più pericolosi al mondo sotto il profilo della sicurezza, reale e percepita
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l Sudafrica è noto al mondo per tre cose: Nelson Mandela, i diamanti e la criminalità. Mettendo da parte le prime due, a vario modo connesse con la sempiterna controversia sull’apartheid, a questa nazione resta una pessima reputazione quanto a condizioni di sicurezza interne. Quel che Madiba (com’è soprannominato l’ex presidente e Nobel per la Pace) lascia in eredità al Sudafrica, nell’ora in cui si avvicina il suo distacco terreno, è un Paese dal doppio volto e dalle molte contraddizioni. Il lavoro impostato dall’uomo-simbolo che ha rotto l’immobilismo sociale sudafricano, infatti, non è ancora finito. Alla fine del 2012, il Citizen Council for Public Security and Criminal Justice ha pubblicato uno studio sulle 50 città più pericolose del mondo. Nella graduatoria, sono le città del Centro e Sud America ad occupare i primi 20 posti. Eppure, figurano ben quattro città sudafricane: Cape Town al 34esimo posto e Port Elizabeth al 41esimo; seguono Durban e Johannesburg, rispettivamente al 49esimo e 50esimo posto. Port Elizabeth, inoltre, è classificata come più pericolosa di Mosul in Iraq.
Un storia in bianco e nero di Devendra
Anche se il tasso di omicidi in Sudafrica nell’ultimo ventennio è sceso, passando da un indice di 69,4 omicidi ogni 100mila abitanti a circa la metà
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Il dizionario Nato a Nkandla il 12 aprile del 1942, Jacob Zuma è presidente del Sudafrica dal 2009. Iscritto dall’età di 17 anni all’African National Congress, nel 1963 viene arresto con l’accusa di cospirazione contro lo stato. Sconta la pena a Robben Island insieme a Nelson Mandela. Dopo l’esilio in Mozambico e Zambia, all’inizio degli anni Novanta torna in patria assumendo la presidenza del partito nel 2007. Ha cinque mogli, venti figli dichiarati e alle spalle una serie di guai giudiziari legati ad accuse di corruzione e racket.
(un tasso comunque superiore di 13 volte a quello degli Stati Uniti), il Paese resta in cima alle classifiche mondiali dei crimini violenti contro la persona. Il numero di omicidi è elevatissimo: ogni giorno se ne contano in media 40 e altrettanti sono i tentativi. Un dato estrapolato direttamente dalle statistiche del South African Police Service che, perciò, tende piuttosto al ribasso. Il Medical Research Council riporta una media ben diversa: oltre diecimila omicidi in più l’anno, pari a circa 70 morti al giorno. La township di Kwa Mashu, alla periferia di Durban, offre
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una prova tangibile del primato sudafricano: indicata dai media sudafricani come “la capitale degli omicidi”, nel 2012 solo qui si sono contati 300 casi di omicidio. Un dato ancor più inquietante se lo si affianca alla mappa del degrado sociale e alle statistiche degli stupri. La prima mostra inequivocabilmente che povertà e delinquenza nelle città sudafricane non conoscono confini e sono distribuite “a macchia di leopardo”. Ma il vero aspetto inquietante relativo alla sicurezza è che il primato assoluto delle violenze si concentra nel campo degli stupri:
una donna su quattro ha riferito di aver subito violenza sessuale e un uomo ogni tre ha ammesso di aver stuprato una donna, almeno una volta nella vita. Dunque, stiamo parlando di dati non riferibili a un contesto preciso o isolato: nel 2012, sono stati registrati 64mila casi di stupro. Ma si tratta di un dato parziale, secondo i criminologi sudafricani, in quanto spesso le vittime evitano volontariamente le denunce alle autorità. Quali le possibili ragioni di tanta violenza endemica? Un elemento chiarificatore
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viene dal fatto che il Sudafrica è il secondo Paese al mondo in termini di gap economico e sociale, diviso tra una ristretta minoranza ricca e influente, e un’oceanica maggioranza di popolazione indigente. Se guardiamo alla “città dell’oro” ovvero Johannesburg (che è anche la più popolosa) il luogo noto come il “più ricco miglio quadrato di tutta l’Africa” cioè il sobborgo cittadino di Sandton, scopriamo che è attiguo a uno slum (baraccopoli) dove non arriva neppure l’acqua corrente. A intricare la trama della sicurezza, si aggiunge la questione della polizia. Scarsamente addestrata, molto corrotta e incline all’uso della violenza, la polizia sudafricana (sovente accusata di avere “il grilletto facile”) sembra aver preso alla lettera le parole del presidente Zuma che ancora nel 2011 dichiarava: “la polizia dev’essere temuta e rispettata”. Inoltre, a fronte dei 200mila agenti schierati dal governo nella lotta anticrimine, operano
il doppio degli addetti alla sicurezza privata (non meno di 400mila). Questi ultimi rispondono solo a interessi particolari e vengono impiegati nella protezione di: centri residenziali, condomini, banche, ristoranti, centri commerciali, cantieri, centri finanziari sono tutti sotto la vigilanza armata di istituti di sicurezza privati. Infine, il Corruption Perceptions Index 2012, il Sudafrica si trova al 69esimo posto su 176 Paesi per indice di corruzione “percepita”. Una posizione non particolarmente grave (l’Italia è al 72esimo) che ciò nonostante esprime un trend negativo, anno dopo anno: il fenomeno della corruttela nella pubblica amministrazione sudafricana è in continua crescita e si è progressivamente aggravato proprio durante la presidenza Zuma.
Povertà e delinquenza nelle città sudafricane non conoscono confini e sono distribuite a macchia di leopardo
“L’arcobaleno”
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onostante questo quadro a tinte fosche, il Sudafrica è e resta la “nazione arcobaleno” per via di quel sostrato socio-culturale così ricco e variegato che in mezzo a tante criticità di varia natura (traffico di stupefacenti e criminalità correlata, terrorismo, violenza politica, Aids), regala al Paese molte altre caratteristiche positive. Qui le undici lingue ufficialmente riconosciute dalla Costituzione si mischiano in una comunità composta di neri (79%), bianchi (10%), meticci (9%), indiani e asiatici (2,5%) con un altrettanto variopinto tessuto religioso. Tutta questa diversità è uno degli elementichiave del Sudafrica che tuttavia, proprio come i colori dell’arcobaleno, resta a compartimenti stagni e non si sovrappone mai. Così, oggi che il Paese è orfano della sua guida morale (Nelson Mandela è in fin di vita al momento in cui scriviamo, ndr) e del simbolo della lotta alla segregazione razziale, il problema fondamentale risiede ancora nelle marcate differenze e nel mancato processo di vera integrazione, pesante fardello della scellerata politica di apartheid che, nonostante gli sforzi, non è mai stata compiutamente superata ed è mutata in una miscellanea di contraddizioni.
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A quale partito è iscritto Dio? di Giusi Landi
La fede nel mercato e il mercato della fede nell’Islam di oggi
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opo decenni di fallimenti dello Stato-nazione arabo, i musulmani conservatori hanno ripreso a propagandare la teocrazia quale modello di Stato naturale, trapiantando il nucleo sciaraitico nella Carta Costituzionale, fino al recente golpe militare egiziano che ha portato alla destituzione del Presidente Morsi e alla sospensione della Costituzione e del Parlamento islamisti. Che conferma la ritmica alternanza riformismo/radicalismo in questo particolare emisfero. Le correnti conservatrici hanno dunque messo mano alla “cassetta degli attrezzi” dell’Islam - un poco arrugginita - con l’intento di riattualizzarla. Vero è che gli islamisti soffrono per la carenza di idee originali in economia e di un modello con il quale fronteggiare la crisi strutturale del sistema socio-economico. Tuttavia, la forte presenza di Stati paternalistici lascia poco margine a un’applicazione ortodossa delle politiche economiche neo-liberiste.
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Per giunta, quella islamica è un’economia sottoposta a norme di carattere etico, direttamente discendenti dalla rivelazione coranica. Così, secondo la moral economy islamica, lo sviluppo economico sostenibile deve realizzarsi senza oltrepassare i limiti imposti dalla legge divina. Il che stride con il trattamento dei lavoratori immigrati nel Golfo, e con l’opulenza petrolifera ben poco sostenibile di città come Abu Dhabi o Dubai. Questo lo sanno bene i gruppi conservatori al potere. Ma sanno anche che ogni possibile riforma del sistema economico deve essere conforme al dettato coranico. L’economia islamica, in fondo, non può dirsi anticapitalista: riconosce mercato, proprietà privata e profitto. Allora, l’obiettivo sarebbe favorire l’integrazione dei Paesi islamici nell’economia globale, nel rispetto dei valori etici dell’Islam. Lo asseriscono anche i teorici della moral economy islamica per i quali l’economia di mercato non è un male assoluto. La tesi è suggestiva: se è vero che l’economia
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di mercato reifica la cultura morale, è vero pure che la produzione di merci è rianimata dalla persona, ente morale che soffia la vita nell’argilla delle pratiche economiche. Si sbagliano gli integralisti che imputano alla globalizzazione e all’economia capitalistica il declino delle culture tradizionali.
musulmani forgiano ed elaborano il proprio Islam. È per questo che un notevole livello di pragmatismo sta animando le politiche dei movimenti islamisti al potere. Ma avranno la capacità di investire in innovazione e strategia economica per portare avanti un progetto di sviluppo sostenibile? La via
Modelli di consumo certificati come islamici (islamic fashion, islamic pop, hamburger halal), rappresentano una via verso il capitalismo Si potrebbe obiettare che l’operazione dell’economia halal di apporre sui prodotti tag di conformità alle norme coraniche, non “risacralizza” il mondo, ma semplicemente rende sacra una merce: un’operazione di marketing volta a produrre un dio subalterno che possa intendersela con il diable de commerce. Ma tant’è. Il concetto di nuova borghesia islamista portatrice di modelli di consumo certificati come islamici (islamic fashion, islamic pop, hamburger halal), rappresenta una rispettabile via verso il capitalismo, fino al punto che sarebbe lecito chiedersi se i piccoli e medi imprenditori islamisti del Musiad, così poco islamici, non facciano altro che praticare santamente l’ipocrisia. Qualcuno replica che sono sinceramente e genuinamente musulmani, ma l’Islam che professano è socialmente costruito, e quindi influenzato, dagli scambi di mercato. Il mercato è dunque - come sostiene Daniele Atzori uno dei luoghi in cui questi
d’uscita di questi Paesi sembra essere quella di avviare un processo graduale di riforme evolutive, in grado di produrre governi democratici. Non basta scrivere e votare una Carta. È necessario un living frame work di economia, istituzioni e processi che dia effettività alle parole contenute in quei paper flowers che sono le costituzioni scritte. La questione desta non poche perplessità. Più di qualcuno è pronto a giurare che i movimenti islamisti sono finiti sul letto di Procuste. Ad ogni modo, si auspica che le mutevoli dinamiche modernizzatrici del mercato non distolgano troppo l’anima del devoto musulmano dal tawhid, l’Eterna verità della Presenza Divina. Se solo fosse possibile sapere nelle fila di quale movimento politico milita davvero Dio! A lasciarsi ispirare dal bel Saggio sulla lucidità di Saramago, si sarebbe portati a concludere - non senza un pizzico di cinismo - che voterebbe scheda bianca.
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A CURA di loRieN CoNSUlTiNG
La “Sindrome NIMBY” in Italia Personalmente ritiene che questo rappresenti un problema per lo sviluppo economico dell’Italia?
I movimenti di protesta Istituto: Lorien Consulting s.r.l. - Criteri seguiti per la formazione del campione: campione rappresentativo della popolazione italiana maggiorenne, rappresentativo per sesso, età e area geografica - Metodo di raccolta delle informazioni: indagine quantitativa telefonica (CATI, Computer Assisted Telephone Interview) - Numero delle persone interpellate ed universo di riferimento: 1.000 cittadini italiani maggiorenni - Data in cui è stato realizzato il sondaggio: 19 - 21 luglio 2013 - Metodo di elaborazione: SPSS
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iene definita “sindrome di NIMBY” (not in my back yard, ovvero non nel mio giardino) l’atteggiamento di protesta contro opere di interesse pubblico che possano avere effetti negativi sui territori in cui verranno costruite. Quali sono le paure legate a questo concetto da parte degli italiani? Il 39% degli italiani mantiene un “atteggiamento NIMBY”: è favorevole alla costruzione di impianti e infrastrutture utili allo sviluppo del Paese, ma solo se tali opere si realizzano oltre i 20km da casa propria.
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A diRe il veRo... l’ANAliSi di AppRofoNdimeNTo
Quando le bugie fanno vincere una guerra Il Grigio
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harles Cruickshank nel suo libro Deception in World War II definisce la disinformazione e l’inganno: “l’arte di indurre il nemico a fare qualcosa o a non fare qualcosa in modo da indebolirne la posizione tattica e strategica”. Quest’arte del raggiro, arricchita da un’imponente messinscena, ha consentito a un’armata alleata di sole sei divisioni di sbarcare in Normandia, all’alba del 6 giugno di 59 anni fa, e di sopravvivere abbastanza per ricevere rinforzi e avviare l’invasione dell’Europa. Ricordate i primi venti minuti del film “Salvate il soldato Ryan”? Descrivono la situazione infernale in cui sulla spiaggia Omaha si è venuta a trovare la prima ondata di fanti americani
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al momento dello sbarco. In pochi minuti le difese tedesche, composte da pochi uomini, senza un carro armato, armati soltanto di mitragliatrici e mortai, hanno spazzato via il 90% dei 1.450 soldati americani. Tre ore dopo lo sbarco, le perdite tra morti e feriti arrivavano a 3.500 e, la sera del 6 giugno, i morti americani a Omaha erano arrivati a oltre 3.000. Il disastro di Omaha dimostra che uno sbarco, quando il nemico è ben trincerato e armato, può diventare un’operazione suicida. La fortuna di Neptune (così è definita la parte anfibia dell’operazione Overlord) è stata che sulle altre quattro spiagge i tedeschi avevano schierato truppe raccogliticce, in massima parte composte da soldati russi arruolati nei campi di concentramento. Quindi, le altre truppe americane (spiaggia di Utah), i soldati canadesi (spiaggia di Juno), e gli anglo-francesi (spiagge di Sword e Gold) riuscirono a sbarcare e avanzare nell’entroterra con un tasso di perdite dieci volte inferiore a quelle subite dagli americani a Omaha. La sera del 6 giugno tutta la testa di ponte in Normandia era ben trincerata e non un solo carro armato tedesco era comparso all’orizzonte.
Operazione Bodyguard Congeniata a sostegno dell’operazione Neptune, parte anfibia dell’operazione Overlord. Il suo scopo era di convincere i tedeschi che lo sbarco in Normandia sarebbe stato una “finta”. I veri sbarchi sarebbero stati altrove. Si compone di diverse operazioni sussidiarie: - Operazione Fortitude North: un inesistente IV corpo d’armata si prepara ad invadere la Norvegia partendo dalla Scozia. Al generale Andrew Thorne, ben conosciuto e temuto dai tedeschi, viene dato il comando della finta armata; - Operazione Fortitude South: 50 finte divisioni del First United States Army Group dislocate nel sud dell’Inghilterra al comando del generale Patton, pronte a invadere la Francia dal passo di Calais; - Operazione Zeppelin: un’inesistente XII armata inglese doveva invadere dal Medio Oriente i Balcani nel luglio del 1944. Per fronteggiarla, i tedeschi richiamarano dalla Francia e dal Vallo Atlantico la divisione PanzerLehr, due divisioni panzer delle SS e una divisione di fanteria. Queste forze vennero dislocate in Ungheria. Se fossero state presenti sulle spiagge, il 6 giugno l’invasione sarebbe fallita. L’ambasciata tedesca in Svezia concorse involontariamente a convincere Hitler che la minaccia di uno sbarco in Norvegia era reale; - Le operazioni Graffham e Royal Flush: concepite per fare pressione sulla Svezia con richieste di diritti di sorvolo e minacce alla sua neutralità, allo scopo di convincere i tedeschi dell’imminente invasione della Norvegia; - Operazione Vendetta: simile a Royal Flush, convinse i tedeschi che il governo spagnolo era pronto a “guardare dall’altra parte” mentre dal Nord Africa gli alleati preparavano un’invasione sulle coste mediterranee della Francia. Venne utilizzato un sosia del generale Montgomery, che in pompa magna passò in rassegna le truppe inglesi in Nord Africa facendo evidenti cenni alla prossima invasione;
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A diRe il veRo...
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n Pujol, alias Ga Jua rbo
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studi cinematografici di Pinewood riuscì a convincere Hitler del fatto che la Normandia era una finta e che i suoi preziosi e micidiali carri armati dovevano restare di riserva in Francia, in Norvegia e in Ungheria per fronteggiare gli altri sbarchi, quelli “veri”. L’agente che ha contribuito in modo decisivo a convincere i tedeschi è stato Garbo, al secolo Joan Pujol Garcia, uno spagnolo diplomato in allevamento dei polli che, dopo essere stato reclutato dall’MI5 inglese, convinse lo spionaggio militare tedesco (l’Abwher dell’ammiraglio Wilhelm Canaris) ad accettarlo come principale agente nazista in Spagna grazie a una rete di 27 agenti inesistenti, creata e mantenuta in vita con un intero armamentario falso di comunicazioni radio, lettere con l’inchiostro invisibile e passaggi notturni della frontiera franco-spagnola. La rete di Garbo inviò ai tedeschi in sei mesi 500 messaggi, tutti sui prossimi sbarchi. Garbo nella notte fra il 5 e il 6 giugno fu il primo ad avvertire l’alto lm Canaris Wilhe
Il successo dello sbarco, oltre che al sacrificio dei soldati, lo si deve all’immaginazione di un gruppo di uomini dei servizi segreti inglesi - non più di una decina - che ha concepito e attuato una colossale operazione di disinformazione, che in sei mesi ha convinto Hitler e i suoi generali che gli alleati sarebbero sbarcati ovunque tranne che in Normandia: l’operazione Bodyguard. Bodyguard è stata un complesso di ben dieci operazioni diverse, disegnate per convincere i tedeschi che l’invasione sarebbe stata lanciata nel luglio del 1944 dalle coste inglesi verso il passo di Calais (operazione Fortitude South) e si sarebbe accompagnata ad altre offensive e ad altri sbarchi in Norvegia (operazione Fortitude North), nel Sud della Francia, in Grecia e nei Balcani. Per convincere i tedeschi, la sezione XX (“Double Cross”) dei servizi segreti inglesi, che gestiva decine di agenti dello spionaggio tedesco - arrestati appena arrivati in Inghilterra e “convinti” a riciclarsi come doppi agenti (l’alternativa era la fucilazione) - grazie a un flusso ininterrotto di notizie vere, verosimili, mezze vere e false e con un imponente traffico radio tra i comandi di un armata inesistente schierata in Scozia e pronta, ad aggredire la Norvegia con “l’armata fantasma” del generale George Patton - composta da enormi accampamenti popolati di manichini e da imponenti schieramenti di mezzi corazzati di gomma allestiti con il contributo degli
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l’ANAliSi di AppRofoNdimeNTo n tto
Gli sbarchi in Normandia L’operazione Neptune comportò lo sbarco di sei divisioni, all’alba del 6 giugno del 1944, su cinque spiagge normanne: - Spiaggia di Utah: assegnata agli americani. Venne conquistata al prezzo di 197 morti con lo sbarco di 23.000 soldati e di 1.700 veicoli; - Omaha, la spiaggia “insanguinata”. Tremila morti, la maggior parte nelle prime tre ore dello sbarco. La sera del 6 giugno sbarcarono 30.000 americani; comando tedesco dell’imminenza dello sbarco fasullo in Normandia. Per questo il 29 luglio, un mese e mezzo dopo l’inizio dell’invasione, Hitler concesse a Garbo la croce di ferro tedesca, ordinando alle divisioni corazzate di continuare ad attendere il vero sbarco al passo di Calais, tenendo in allerta 400.000 soldati in Norvegia, la fortissima divisione corazzata Panzer-Lehr in Ungheria (spedita in fretta e furia dalla Francia!) e altre decine di migliaia di truppe scelte di paracadusti appoggiate dai carri in Grecia. Con il castello di menzogne costruito dagli inglesi, Hitler perse l’ultima occasione di vincere la guerra. Se il 6 giugno su tutte le spiagge le cose fossero andate come a Omaha, se ci fossero state anche poche decine di panzer tedeschi e se l’artigliera non fosse stata tutta concentrata sul passo di Calais, l’invasione sarebbe fallita con conseguenze gravissime per la causa alleata. Con l’operazione Bodyguard, l’intelligence ha dimostrato il supporto che intelligenza, fantasia e coraggio possono dare a uno sforzo bellico. Altro che barba finta, per fare questo mestiere ci vuole il cervello. Commentando questi eventi, Churchill ha scritto: “In tempo di guerre la verità è così preziosa che essa deve essere protetta da una schiera di guardie del corpo (bodyguard, appunto) di bugie”.
- Gold: assegnata alla fanteria e ai commando inglesi. Conquistata nella giornata del 6 giugno al costo di un centinaio di morti; - Juno: assegnata ai canadesi. Ben presidiata da un solo reggimento di fanteria tedesca, costò ai canadesi 1.074 tra morti e feriti; - Sword, assegnata a inglesi e francesi: 630 tra morti e feriti su 28.000 soldati sbarcati, oltre a 2.600 veicoli. Le forze tedesche erano così scarse che la maggior parte delle vittime alleate venne causata da piccoli manipoli di franchi tiratori.
LOOKOUT n. 7 agosto 2013
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UN liBRo Al meSe A CURA di @RoccoBellantone
Z. La guerra dei narcos di Diego Enrique Osorno La Nuova frontiera 2013 pp. 384 15,00 euro
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on è un bel momento per i Los Zetas. Orfano del suo leader “Zeta-40”, alias Angel Trevino Morales, catturato nel suo feudo di Nuevo Laredo al confine con gli Stati Uniti, il cartello della droga più potente del Messico deve adesso guardarsi dalla concorrenza delle altre bande, a partire dai temuti Cavalieri Templari. Di questo Messico, da decenni ostaggio del business che si arricchisce lungo le rotte del narcotraffico su cui si muovono quintali di cocaina e marijuna verso il Nord America e il resto del mondo, parla il giornalista messicano Diego Enrique Osorno nel libro Z. La guerra dei narcos. Da quando nel 2006 l’allora presidente Calderón dichiarò guerra ai cartelli della droga, gli stati messicani del nord, al confine con gli States, sono divenuti teatro di mattanze quotidiane, registrano una media spaventosa di 13.000 omicidi l’anno. Dal racconto di Osorno emerge il ritratto di questi luoghi di frontiera, abbandonati a se stessi tra le braccia di un conflitto che non risparmia niente e nessuno, mietendo sequestri, decapitazioni ed esecuzioni di massa. Come Ciudad Juárez, emblema di questo conflitto, o gli stati del Tamaulipas e del Nuevo León, terra dei Los Zetas dove adesso potrebbe scoppiare una nuova lotta tra i cartelli della droga.
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LOOKOUT n. 7 agosto 2013
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CoSì diCoNo
I migliori alleati di un regime nuovo, insediato con la violenza, non sono i suoi partigiani ma i suoi avversari
”
THomAS edWARd lAWReNCe (1888-1935)
I
l tenente colonnello Thomas Edward Lawrence è tra le figure più affascinanti del Novecento. Difficilmente inquadrabile in un ruolo preciso data la complessità e varietà dei suoi interessi, oltre al copioso curriculum militare al servizio di Sua Maestà, svolse numerosi mestieri e coltivò più passioni: grande viaggiatore, archeologo entusiasta per il British Museum, scrittore dalle forti tendenze poetiche, spericolato motociclista, fu anche aviere della RAF e agente segreto con una lunga serie di pseudonimi. Al termine della carriera, deluso dall’atteggiamento inglese e dagli eventi post-bellici, declinò la carica istituzionale di vicerè delle Indie e rifiutò di ricevere dalle mani del re Giorgio V la Victoria Cross, ovvero la più alta onorificenza militare dell’Impero Britannico, che veniva assegnata per “cospicuo coraggio o per audacia o importanti atti di valore o auto-sacrificio, o estrema devozione al dovere in presenza del nemico”. Tra gli occidentali più esperti di Medio Oriente, e della Siria in particolare, è ricordato soprattutto per aver contribuito concretamente alla rivolta araba, che permise il collasso definitivo dell’Impero Ottomano.
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