gEOPOLITICA
Egitto, Israele: che succede?
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ECOnOmIA
Perché investire in Pakistan
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SICUREZZA
Marocco, l’Islam possibile
anno I - n. 8 settembre 2013
ASSADSSInO? Gli USA hanno deciso di intervenire unilateralmente contro il regime siriano accusato di aver gasato la popolazione. E adesso? ESCLUSIVO: PARLA L’AVVOCATO DI AL QAEDA
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SOmmARIO
gEOPOLITICA 8 Il presidente
controvoglia 14 La calma in mezzo
alla tempesta 17 Un normale stato
di tensione 18 Parola all’“avvocato
di Al Qaeda” 22 Testimonianze
dal caos RUbRIChE
24 Game Over
Insert Coins 28 A DIRE IL VERO... L’analisi di approfondimento
ECOnOmIA 32 Italiani? Affare fatto 38 Fondi pensione:
una dimenticanza? 42 Rischio catastrofie
disastri industriali 44 La nuova frontiera
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SICUREZZA
messicana 45 Argentina: un nuovo
default?
30 DURA LEx Sotto la lente del diritto 46 DO yOU SPREAD? Voci dal mercato globale 54 L’ARAbA fEnICE Donne, società e i tanti volti dell’Islam
48 Tra fede e laicità 52 Caraibi contesi
InOLTRE 6 mAPPAmOnDO
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56 Un LIbRO AL mESE 56 COSì DICOnO
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L’editoriale
Siria: siamo davvero pronti ad allearci con Al Qaeda?
N
el momento in cui questo numero del nostro magazine va in rete, ancora non è chiaro cosa succederà in Siria. Dopo i venti di guerra delle scorse settimane, quando sembrava che un contingente anglofrancese e americano fosse pronto a scatenare una spedizione punitiva contro il regime di Assad per l’accusa di aver utilizzato armi chimiche contro i ribelli, la situazione sembra essersi raffreddata. Il parlamento inglese prima, la leadership russe e le diplomazie europee poi, sono riuscite nel tentativo di costringere il presidente Obama a raffreddare gli animi della sua amministrazione e a riflettere sul da farsi. A cosa servirebbe oggi un intervento occidentale in Siria? A chi darebbe supporto? A chi farebbe comodo? La risposta purtroppo è una: un impegno militare contro il regime di Assad non potrebbe che favorire il fronte degli insorti, all’interno del quale la componente di Al Qaeda è sempre più forte. Dovremmo vedere quindi gli Stati Uniti e i suoi più stretti alleati schierarsi sul campo con i propri acerrimi nemici? Prima di arrivare a questo un supplemento di ragionamento è forse opportuno ed anche il suggerimento di Papa Francesco meriterebbe attenzione. Per questi motivi in questo numero ci dedichiamo con particolare attenzione allo scacchiere mediorientale, senza trascurare di analizzare il comportamento dei più importanti stakeholder dello scacchiere a cominciare, primo fra tutti, da Israele che in un momento in cui sembrano prevalere le emozioni e le spinte irrazionali sta dando dimostrazione di moderazione e fermezza sorprendenti. Il Pakistan negli ultimi anni è stato rappresentato sui media occidentali come un Paese dilaniato da tensioni tribali e da lacerazioni religiose irrisolvibili. Ma questo è anche un grande Paese che può offrire eccellenti opportunità di investimento per l’industria italiana. Ne abbiamo parlato con l’addetto commerciale dell’ambasciata pakistana a Roma Farid Ahmad Tarar, che spiega in una luna intervista quanto Islamabad sia disposta a fare per attrarre investimenti occidentali. Un importante reportage dall’Egitto, con un’intervista esclusiva all’avvocato del successore di Osama Bin Laden, il medico egiziano Ayman al Zawahiry, attualmente indiscusso capo di Al Qaeda, e una serie di approfondite riflessioni economiche completano un giro d’orizzonte che contiamo possa essere utile ai nostri selezionati e sofisticati lettori.
mario mori
InbOx IL DIRETTORE EDITORIALE RISPOnDE
Scioperi dei minatori in Sudafrica È possibile ipotizzare una “primavera sudafricana”? Shymura Hagakure È necessario intanto chiarire cosa intendiamo per “primavera”. Quelle arabe, in realtà, sono state insurrezioni animate da motivazioni religiose prima ancora che politiche, contro leadership corrotte al loro interno da decenni di potere incontrastato. Le primavere sono state battaglie contro il secolarismo e contro il potere laico. Nessuno di questi elementi è presente in Sud Africa, un Paese enormemente ricco di risorse che, dopo vent’anni di governi eletti democraticamente, non riesce a trovare un equilibrio sociale e politico stabile. I grandi problemi del Sud Africa oggi nascono da indici di criminalità decisamente allarmanti. Stupri e omicidi a scopo di rapina ne fanno uno dei Paesi più pericolosi del mondo e contribuiscono a tenere lontani gli investimenti stranieri. Anche i crimini a sfondo politico raggiungono livelli sbalorditivi. Il Sud Africa detiene inoltre il triste primato del Paese con gli “scioperi più sanguinosi del mondo”. Una “primavera sudafricana” non può che passare per un processo che vede al primo posto il ripristino di accettabili condizioni di legalità. I successori di Mandela ne saranno capaci? Al momento è difficile dare una risposta, ma nel breve periodo purtroppo le cose non dovrebbero cambiare.
Il rebus delle armi chimiche in Siria L’Occidente prima vende armi alle dittature e poi le attacca. Lo stesso sta accadendo in Siria. Come possono pensare che continuiamo a credere alle loro versioni? Maria Aranini L’atteggiamento degli americani e degli europei nei confronti delle leadership del mondo arabo è sempre stato molto ondivago e dettato dalle opportunità immediate. Nel luglio del 2009, al G8 de L’Aquila, tutti i capi di Stato europei e occidentali, Obama in testa, hanno stretto la mano e raggiunto accordi con Gheddafi e con Mubarak, salvo scoprire “all’improvviso” che erano due feroci dittatori da scaricare nella pattumiera della storia. Lo stesso stanno facendo con Assad, partner commerciale di prima grandezza di tanti Paesi occidentali, primi fra tutti Francia e Italia. C’è una logica in tutto questo? Speriamo comunque che la ragione prevalga sull’istinto e sulla convenienza politica interna.
L’Egitto, l’Etiopia e la diga della discordia Se dovesse essere guerra tra Eriopia ed Egitto, non ci sarebbe storia: i milioni di dollari Usa concessi ogni anno come aiuti all’esercito egiziano si faranno sentire. È reale, allora, pensare a un conflitto? Giuseppe Musumeci Il presidente Morsi aveva usato toni di guerra contro il progetto della Ethiopian Millenium Dam anche per distrarre il popolo egiziano dalle disastrose conseguenze economiche della sua politica basata sulla religione. I militari che lo hanno rovesciato sinora non hanno fatto pubbliche dichiarazioni contro il progetto e contro i lavori della diga. È difficile pensare che la nuova leadership egiziana, impegnata nella difficile soluzione dei problemi interni al Paese, si lanci in una insensata avventura militare che rischierebbe anche di portare all’isolamento internazionale dell’Egitto.
Anno I - Numero 8 - settembre 2013
DIRETTORE RESPONSABILE Luciano Tirinnanzi @luciotirinnanzi redazione@lookoutnews.it
EDITORE G-Risk - CEO Giuseppe De Donno Via Tagliamento, 25 00198 Roma Tel. +39 06 8549343 - Fax +39 06 85344635 segreteria_grisk@grisk.it - www.grisk.it
REDAZIONE Rocco Bellantone Dario Scittarelli Cristiana Era Marta Pranzetti
DIRETTORE SCIENTIFICO Mario Mori
ART DIRECTION Francesco Verduci
DIRETTORE EDITORIALE Alfredo Mantici direttore@lookoutnews.it
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mAPPAmOnDO mESSICO Preso Ugly betty, capo del cartello di Juarez Le forze di sicurezza messicane hanno arrestato nello stato occidentale di Nayarit, Alberto Carrillo Fuentes, meglio noto come “Ugly Betty”, capo del cartello di Juarez. È il terzo top leader del narcotraffico messicano preso negli ultimi tre mesi, dopo la cattura a luglio del capo dei Los Zetas Zetas, Miguel Angel Trevino (Zeta-40) e ad agosto del numero uno del cartello del Golfo, Mario Ramirez Trevino.
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mALI Si insedia il nuovo presidente Keita Il 4 settembre si è insediato il nuovo presidente del Mali, Ibrahim Boubacar Keita. Già primo ministro, l’11 agosto Keita ha battuto al secondo turno Soumaila Cissé. Dopo il conflitto durato per mesi contro i ribelli tuareg e i gruppi jihadisti legati ad Al Qaeda, risolto grazie all’intervento delle forze armate francesi, il Paese sta lentamente tornando alla normalità: ad oggi sono circa 100mila i rifugiati rientrati nelle città del nord.
nIgERIA Presto la più grande raffineria d’Africa Aliko Dangote, l’uomo d’affari più ricco del continente africano, finanzierà la costruzione nelk sud-ovest della Nigeria di una grande raffineria di petrolio da 9 miliardi di dollari. La struttura sarà operativa dal 2016 e permetterà al Paese, il più grande produttore di greggio in Africa, di non dover più importare dall’estero carburante per coprire il suo fabbisogno nazionale. L’investimento produrrà migliaia di posti di lavoro.
gRECIA Un terzo pacchetto di aiuti Il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schaeuble, ha confermato che la Grecia avrà bisogno di un terzo pacchetto di aiuti internazionali. L’operazione è da 11 miliardi di euro e sarà valida fino al 2015. Oltre ad Atene, anche Portogallo, Irlanda e Cipro continueranno a dipendere dai prestiti dell’UE e del FMI. Scongiurato, invece, almeno per ora il crollo delle economie di Italia e Spagna.
InDIA Raghuram Rajan alla banca centrale L’economista di fama internazionale Raghuram Rajan è il 23° governatore della Reserve Bank of India. Nato il 3 febbraio del 1963, è stato direttore del Fondo Monetario Internazionale. Per lui si prospetta un compito non semplice, considerato l’indebolimento registrato negli ultimi mesi dalla moneta nazionale, la rupia indiana, il disavanzo del debito pubblico e il netto rallentamento della crescita economica.
CInA Le prime epurazioni di xi Jinping Cade la prima testa eccellente del Partito Comunista Cinese da quando si è insediato il presidente Xi Jinping. Si tratta di Jiang Jiemin, numero uno della SASAC, l’ente statale che controlla e gestisce quasi tutte le società pubbliche del Paese, indagato per aver effettuato dei pagamenti illeciti a compagnie petrolifere straniere. Prima di lui era stato “fatto fuori” Zhou Yongkang, altro ex dirigente del settore energetico cinese, vicino all’ex membro del Politburo Bo Xilai.
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gEOPOLITICA
Siria La famiglia Assad Le prospettive del conflitto
Israele La strategia di Netanyahu
Egitto Intervista all’avvocato di Al Zawahiri Dentro la protesta
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O
ggi ci sono molti politici occidentali ma pochi statisti. Alcuni di questi politici non leggono la storia e non imparano da essa, mentre altri non hanno nemmeno il ricordo degli eventi recenti. Questi politici non hanno imparato alcuna lezione dagli ultimi cinquant’anni? Non hanno capito che dalla guerra del Vietnam in poi, tutte le guerre che hanno combattuto sono state un fallimento? Non hanno imparato che da queste guerre essi non hanno guadagnato nulla, se non la distruzione dei Paesi che hanno combattuto, cosa che ha avuto un effetto destabilizzante per il Medio Oriente e per altre parti del mondo? Non hanno compreso che tutte queste guerre non hanno prodotto alcun apprezzamento nei loro confronti da parte dei popoli interessati? Questi politici dovrebbero sapere che il terrorismo non è una carta vincente che si gioca
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Siria |
di Luciano Tirinnanzi
Il presidente
controvoglia Pochi dubitano della violenza in Siria e della determinazione di Bashar Assad, ma il dittatore siriano è più una marionetta in mano ai militari che un lucido assassino
quando conviene e che si tiene in tasca quando non conviene. Il terrorismo è come uno scorpione: ti può pungere inaspettatamente, in qualsiasi momento. Pertanto, non è possibile sostenere contemporaneamente il terrorismo in Siria, mentre lo si combatte in Mali, come non si può sostenere il terrorismo
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in Cecenia e poi combatterlo in Afghanistan. Il nostro messaggio al mondo è semplice: la Siria non sarà mai uno Stato fantoccio alla mercé dell’Occidente. Siamo un Paese indipendente, combatteremo da soli il terrorismo e costruiremo liberamente le relazioni con gli altri Paesi, in un modo che serva al meglio gli interessi del popolo siriano”. Con queste parole, il presidente della Repubblica Araba di Siria, si consegna forse alla storia. È una parte del discorso affidato soltanto due settimane fa da Bashar Assad ai microfoni di Izvestia, l’agenzia governativa russa, che lo ha intervistato in ragione dell’amicizia che lega l’attuale nemico numero uno
L’ombrello USA sull’uso di gas La CIA ritiene che la Siria abbia sviluppato un programma di armi chimiche “per anni e possiede una scorta di agenti per la guerra batteriologica, che può essere lanciata da aerei, missili balistici, razzi e artiglieria" La Siria sarebbe in possesso di gas mostarda e sarin, un agente nervino altamente tossico. Un rapporto dell’intelligence turca, stima che nel Paese vi siano 1.000 tonnellate di armi chimiche, conservate in 50 città. La Siria non ha mai firmato la Convenzione sulle armi chimiche (CWC) né ratificato la Convenzione sulle armi biologiche e tossiche (BTWC).
Le ragioni economiche di una guerra Oleodotti
esistente progetto russo previsto progetto Francia/USA
TURCHIA Latakia
Ceyhan
SIRIA
LIBANO GIORDANIA
IRAQ Kirkuk
IRAN
Bassora
KUWAIT ARABIA SAUDITA
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QATAR
degli USA al nemico numero due o tre (a seconda delle convenienze) degli States, ovvero Vladimir Putin. E pensare che il giovane studente di oftalmologia (classe 1965) sognava una vita di ricerca a Londra - oltre che in Siria, Bashar ha studiato anche alla Western Eye Hospital londinese nel 1992 - dove amava vivere all’occidentale e fare spese pazze insieme alla futura moglie Asma: sposata nel 2000, la first lady vanta un passato alla JP Morgan ed è ascrivibile alla categoria femminile delle “shop addicted”, al punto che neanche in piena guerra civile riusciva a smettere di comprare online qualsiasi oggetto costoso le capitasse sotto mano (nel 2012 è riuscita a spendere 450mila dollari per un lampadario da appendere nella dimora estiva di Latakia). Così il terzogenito della famiglia alawita, dalla quiete e riservatezza dei libri di medicina e degli studi arabo-francesi, si è improvvisamente ritrovato successore designato alla guida del suo Paese per volere del padre Hafez, che gli aveva preferito il primogenito, Bassel (o Basil), ma
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che si è dovuto ricredere quando un incidente automobilistico ha cambiato le carte in tavola dell’eredità, insieme alla vita del promettente figlio prediletto: nel 1994 Bassel muore e Bashar viene spinto controvoglia a una rapidissima carriera militare (diventa colonnello in soli cinque anni all’accademia militare di Homs). Fino a che un nuovo lutto familiare - questa volta è il padre Hafez a mancare, nel 2000 - lo proietta direttamente nel palazzo presidenziale di Damasco, pur se la sua nomina formalmente contraddice-
va la legge: l’età minima per assumere la carica era di 35 anni mentre Bashar, all’epoca, non li aveva ancora compiuti. Il destino del presidente della Siria, probabilmente prossimo a ricevere una pioggia di bombe dalle armate a stelle e strisce, appare così segnato e viene da pensare che non sia mai stato sotto il suo pieno controllo. Né le decisioni ultime prese dal consiglio di guerra siriano sarebbero mai state nelle sue mani. Se dovessimo dar retta alla simbologia dei numeri e affidarci alla cabala, potremmo azzardare che una ragione si aggiunge allo sventurato destino del dittatore siriano, ed è
La famiglia ASSAD
inscritta nella sua data di nascita: l’undici settembre, proprio il giorno a partire dal quale, insieme alle candeline, si potrebbe spegnere l’ultima speranza di un “presidente controvoglia”.
TImELInE DEL REgImE 1963 - Il partito Baath va al potere e impone lo stato di emergenza. 1971 - Hafez al-Assad è eletto presidente con mandato di sette anni. 1973 - Hafez comanda all’esercito di sopprimere le rivolte seguite al suo contravvenire alla costituzione, che prevede che il presidente sia musulmano. 1982 - L’esercito soffoca le rivolte dei Fratelli Musulmani insorti nella città di Hama. 1983 - Hafez ha un attacco di cuore. 1984 - Il fratello di Hafez, Rifaat, viene promosso vicepresidente. 1994 - Il figlio di Hafez, Bassel, il preferito alla successione del padre, muore in un incidente d’auto. 1998 - Rifaat viene rimosso da vice-presidente. 2000 - Hafez Assad muore, gli succede il figlio Bashar. 2007 - il presidente Bashar ottiene un secondo mandato di sette anni. 2011 - Ondata di proteste in Siria, inizia la guerra civile.
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REGNO UNITO
U.S.A.
FRANCIA RUSSIA IITALIA TALIA TA A TURCHIA TUNISIA
CIPRO
MAROCCO
SIRIA IRAQ
IR
GIORDANIA ALGERIA
MALI
LIBIA
EGITTO
ARABIA SAUDITA
NIGER YEMEN
Il RISIKO delle possibili alleanze 12
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World War III?
L’
AFGHANISTAN
RAN
ATAR
PAKISTAN
U.A.E. OMAN
Paesi alleati in campo Possibili aree coinvolte Paesi avversari Paesi alleati/neutrali
ora che si avvicina è grave e impone riflessioni serie sul futuro prossimo degli equilibri internazionali. Al netto della dietrologia sulle vere ragioni dell’intervento, nessuno a Occidente e a Oriente può dirsi al riparo dalle conseguenze di una guerra mediterranea, che potrebbe trascendere la spedizione punitiva ordinata da Obama sulla Siria e che potrebbe coinvolgere numerose nazioni in una “grande guerra”. Basta guardare la cartina di questa parte di mondo per farsi un’idea: la Siria è crocevia tra l’Islam sunnita - dalla penisola araba fino alle propaggini asiatiche dell’Iraq - l’Europa turca e il confine asiatico, dove dominano le potenze che contendono agli USA la supremazia mondiale, le superpotenze russa e cinese. Mosca appare sempre più angosciata all’idea dell’intervento unilaterale. Ma, come sottolineato dal suo ministro degli esteri Sergei Lavrov, “il nostro approccio è sempre stato pragmatico. E lo stesso vale oggi”. Lavrov segue il motto che fu di Alexandr Gorchakov (cancelliere dal 1798 al 1883) il quale sosteneva che le decisioni in politica estera “dovrebbero seguire due obiettivi. Il primo è mantenere la Russia al di fuori da ogni tipo di complicazione esterna che possa distrarre i nostri sforzi dallo sviluppo interno. Il secondo è fare in modo che non avvenga alcun cambiamento in Europa”. Speriamo che valga ancora a lungo. Le monarchie petrolifere arabe (Arabia Saudita, Qatar, Emirati Arabi Uniti) sono invece terrorizzate dalla prospettiva di un contagio democratico che segua l’onda lunga delle primavere arabe. Perciò, perseguono obiettivi personali - il Qatar investe sui Fratelli Musulmani mentre i sauditi appoggiano governi laici come in Egitto - che, in ogni caso, non prevedono spazio per la presenza sciita (Libano, Siria, Iraq e Iran) nel nuovo scacchiere mediorientale a trazione sunnita. La qual cosa potrebbe generare la temuta “Guerra dei Trent’anni” sciiti-sunniti. Se, infine, Israele mantiene un prudente posizione difensiva (pur in massima allerta), potrebbe presto vedersi costretta a correggere il tiro e mirare a Teheran per spazzar via definitivamente la minaccia nucleare iraniana. Sono però gli Stati Uniti, “interventisti per vocazione”, a essere meno chiari di chiunque altro circa il loro personale progetto in Medio Oriente. E questo è un bel problema.
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Israele | de Il Grigio
La calma in mezzo alla tempesta
Prudenza “svizzera” e piani di riserva. Sul tavolo di guerra del premier ci sono le opzioni per rispondere a ogni tipo di aggressione. Israele non è mai impreparata
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in dalla sua fondazione sessantacinque anni or sono, Israele si è imposto, circondato com’è da centinaia di milioni di nemici dichiarati, come una potenza regionale pronta all’uso - anche spregiudicato - della forza militare per difendere il suo diritto all’esistenza. Le cosiddette “primavere arabe”, che in realtà si sono dimostrate ribellioni delle masse sunnite dell’intero teatro arabo musulmano per far valere i propri numeri maggioritari rispetto alle classi dirigenti, in teoria avrebbero dovuto accentuare la sensazione di accerchiamento di Israele, i cui interlocutori regionali apparivano sempre più preda di una deriva islamista. Conoscendo i precedenti dei leader israeliani, pronti a scatenare guerre preventive come nel 1967 o spregiudicate operazioni di eliminazione dei suoi nemici (come dopo la strage delle Olimpiadi di Monaco del 1972), sarebbe stato lecito attendersi dal governo israeliano una posizione dura e aggressiva nei confronti delle nuove realtà mediorientali.
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Anche nei confronti dell’Iran, che solo all’inizio di quest’anno era minacciato di strike preventivi contro i centri di produzione di energia nucleare, Tel Aviv negli ultimi mesi ha mantenuto un atteggiamento sorprendentemente moderato. Insomma, di fronte a un Medio Oriente che appare sempre più preda della violenza e dell’estremismo, il governo di Benjamin Netanyahu ha mantenuto un duplice profilo: alta vigilanza e bassa tensione polemica. Uscito con una maggioranza precaria dalle ultime elezioni politiche, Netanyahu si è immediatamente liberato del suo imbarazzante ministro degli esteri, Avigdor Lieberman, le cui posizioni estremiste avevano contribuito alla rottura totale delle relazioni con la Turchia dopo l’incidente della Mavi Marmara, la nave turca assalita nel 2010 dalle forze speciali israeliane mentre tentava di superare il blocco di Gaza: il rifiuto di Lieberman di offrire scuse formali al governo di Ankara per la morte di nove cittadini turchi, rischiò di far perdere ad Israele il più antico e consolidato interlocutore politico islamico.
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L’ESPAnSIOnE DI ISRAELE 1906
1920
Modern day boundaries Ottoman Empire’s border with Egypt
1921
1947
Area ceded to Frenchruled Syria in 1923
Palestine
Oggi 50 miles
SYRIA
50 km
Tel Aviv
West Bank
Transjordan Gaza Strip
Suez EGYPT Periodo Ottomano
Conferenza di San Remo
Nel nuovo gabinetto Netanyahu, oltre che quella di primo ministro ha mantenuto anche la carica di ministro degli Esteri e ha preso direttamente in mano le redini della politica estera israeliana all’insegna di un sorprendente atteggiamento di costante cautela e moderazione. Un esempio di questo nuovo corso della politica israeliana è desumibile dall’atteggiamento del governo di Tel Aviv nei confronti delle turbolenze egiziane.
Separazione dalla Transgiordania
Piano delle Nazioni Unite
JORDAN
Indipendenza (15 maggio 1948)
Anche durante la presidenza egiziana di Morsi, le forze armate israeliane avevano mantenuto riservatissimi canali di cooperazione con quelle egizie per tenere sotto controllo le bande islamiste del Sinai. Dopo la defenestrazione di Morsi, pur senza manifestare un aperto appoggio al generale Al Sisi - certamente, per non metterlo in imbarazzo Netanyahu ha preso un’iniziativa per certi versi incredibile:
Benjamin Netanyahu
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d’intesa (clandestina) nientemeno che con la monarchia saudita, Israele ha avviato un’intensa campagna internazionale per assicurare un sostegno finanziario al “nuovo” Egitto. Così, alla fine dello scorso mese di luglio, il premier israeliano ha inviato a Washington uno dei suoi più stretti e fidati collaboratori, Eran Lerman, ovvero il vice direttore del Consiglio per la Sicurezza Nazionale di Israele, per promuovere insieme al senatore repubblicano, Raund Paul, l’avvio di un “Piano Marshall” per l’Egitto, la cui economia è stata ridotta in condizioni molto precarie dal governo Morsi. Netanyahu, quindi, con l’apparentemente incredibile sostegno dei sauditi, si è fatto promotore di un ambizioso progetto di sostegno del nuovo corso egiziano nella consapevolezza che, nel mondo arabo, solo la crescita economica è in grado di consentire l’emergere di classi medie e borghesi moderne e secolarizzate, le quali sono le sole in grado di fronteggiare le onnipresenti spinte islamiste. Anche nei confronti di Siria e Iran, nonostante i venti di guerra agitati da un’amministrazione Obama che sembra priva di un chiaro disegno strategico per il Medio Oriente, Israele ha mostrato toni di ragionevolezza e inaspettata moderazione, almeno sinora.
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Il giovane ministro delle relazioni internazionali e degli Affari Strategici, Yuval Steiniz (anch’egli stretto collaboratore di Netanyahu), nello smentire le accuse frettolosamente lanciate dal premier turco Erdogan contro Israele, accusato senza mezzi termini di essere l’ispiratore del golpe dei militari egiziani, ha dichiarato: “la nostra politica estera è di non interferenza negli affari dei nostri vicini. L’intero Medio Oriente è attraversato da tempeste violente. Noi oggi siamo come la Svizzera durante la seconda guerra mondiale: quando tutta l’Europa era in guerra, la Svizzera era neutrale”. Come si vede, si tratta di posizioni molto moderate e coraggiose, in un momento storico nel quale l’amministrazione USA e i suoi più stretti alleati appaiono impegnati in avventure nelle quali sembrano contare più i muscoli che il cervello (Libia e Siria insegnano). Insomma, da “Sparta del Medio Oriente” Israele vuole diventare una Berna del Levante. Una lezione per tutti di fredda razionalità, prudenza strategica e coraggio politico.
Il commento Sistema di difesa Iron Dome
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sraele è diventato improvvisamente buono? Tutt’altro. Probabilmente i suoi leader analizzano freddamente una realtà, quella delle fallite primavere arabe e del confronto sempre più violento tra sunniti e sciiti che, nel lungo periodo, non potrà che portare a una progressiva diminuzione delle forze dei suoi nemici storici. Alla fine dei giochi, anche se non si sa quando, tutti i protagonisti dei conflitti in atto in Siria, Iraq e in tutto il Medio Oriente usciranno impoveriti e dissanguati da una guerra civile interreligiosa di grandi proporzioni. Israele sa che restare fuori da questi conflitti vuol dire avere domani interlocutori e avversari meno potenti. Hezbollah in Siria combatte contro gli jihadisti di Al Nusra, ambedue nemici giurati di Israele. C’è da credere che, alla fine del confronto, le loro forze saranno comunque ridimensionate, se non ridotte al lumicino.
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Israele |
Un normale stato di tensione
di Rocco Bellantone
Tel Aviv ha già pronto un piano per reagire a un eventuale attacco siriano? Parla il direttore di Shalom, Giacomo Khan
Israele è realmente a rischio? Da settimane, Tel Aviv aveva denunciato l’utilizzo di armi non convenzionali in Siria. Il problema è che questo conflitto si è ormai trasformato in una guerra tribale tra sunniti e sciiti, di fronte alla quale va constatata l’oggettiva incapacità di intervenire da parte dell’Occidente. Netanyahu ha affermato che ciò che sta accadendo in Siria, come in Libano, rappresenta un banco di prova attraverso cui l’Iran testa la propria forza. Bene, qualora Israele fosse costretto a difendersi da un attacco siriano entrando nel suo territorio, le distanze dall’Iran si assottiglierebbero, con tutti i rischi che uno scenario del genere comporta. Gli USA andranno fino in fondo? Non sono così sicuro che l’America interverrà a breve. Il problema è che, se la Siria viene attaccata, risponderà facendo ricorso al suo micidiale arsenale.
Si riferisce alle armi chimiche? Lo sanno tutti che l’esercito siriano ha fatto uso di gas, lo testimoniano i satelliti e i radar aerei. Adesso, però, possono usarlo anche contro le truppe occidentali. Anche se la vera domanda è un’altra: perché l’Occidente vende queste armi a Paesi che non sono stabili o a regimi come quello siriano?
Se poi si dovesse verificare una contemporanea azione militare da nord, da sud e da est da parte di Siria, Hezbollah e Hamas, allora il sistema missilistico di difesa israeliano (Iron Dome, ndr) potrebbe entrare in difficoltà. Ma si tratta di uno scenario molto aggressivo. Se così fosse, non ci sarebbe più spazio per nessuna trattativa.
Insomma, Israele è già pronto alla guerra? So per certo che stanno distribuendo nuove maschere anti gas. Per Israele vivere in questo stato di tensione è la normalità. In questi mesi, Siria e Libano hanno continuato a lanciare missili sull’Alta Galilea. La popolazione, perciò, è preparata: i bunker sono ben attrezzati, ogni casa ha la sua camera stagna con porte di ferro e finestre blindate. Se Damasco dovesse passare ad azioni aggressive, nessuno potrebbe negare a Tel Aviv il diritto all’autodifesa.
Questo conflitto può allargarsi oltre i confini mediorientali? Questo è un retaggio che ci trasciniamo dalla fine della seconda guerra mondiale. Oggi ci sono reti diplomatiche internazionali come l’ONU e strumenti preventivi e sanzionatori in grado di impedire che ciò avvenga. Il problema, dunque, resta il conflitto regionale in sé. Se però Assad, in un tentativo disperato, attaccherà davvero Israele la guerra potrebbe interessare anche Paesi limitrofi, come è già è accaduto altre volte nel Novecento.
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Egitto |
dal nostro corrispondente al Cairo, Cristiano Tinazzi
Parola all’“avvocato di Al Qaeda” Amico di Al Zawahiri, erede di Osama Bin Laden, e difensore di Abu Omar (ricordate il caso dell’imam rapito in Italia dalla Cia?), ecco il pensiero di Montasser El Zayat, il legale egiziano più quotato del Medio Oriente Una valutazione sui fatti in corso in Egitto sia legale che personale. Non c’è nessuna differenza. La posizione giuridica e personale è la stessa. È in atto una violenza contro le libertà e i diritti umani, un golpe contro un
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partito che è arrivato al potere tramite le urne. D’accordo. Ma cosa pensa del processo appena iniziato contro i vertici dei Fratelli Musulmani? Non esiste un vero processo, nel senso che non ci sono accuse reali, c’è una finzione, una costruzione dell’impianto accusatorio senza nessuna prova. Qualunque cosa avviene, adesso la colpa viene addebitata automaticamente a loro. Sono convinto che il problema vero che abbiamo adesso siano i militari. Stanno operando per sradicare i Fratelli Musulmani, questo è il vero processo in atto. Mentre io sono certo che i Fratelli Musulmani non vogliono usare la violenza. In questi giorni, però, si parla di mettere al bando i partiti religiosi. È un argomento senza contenuti. In nessuno statuto dei partiti che sono stati legalizzati dopo la rivoluzione di gennaio, c’è scritto che sono partiti
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religiosi o che si vieta l’iscrizione ai non musulmani. Come si dice da noi, questa è solo “sabbia contro il vento”. In questo momento, solo la Fratellanza è sottoposta ad arresti. Se la cosa dovesse estendersi anche ad altri movimenti, cosa succederebbe? È già partita la caccia all’uomo. Uno dei leader di Jamaa Islamiya (Mostafa Hamza, ndr) è stato arrestato. Adesso ci sono
campagne di arresti non solo contro coloro che sono scesi in piazza gridando al golpe o tra i membri della Fratellanza, ma anche contro tutti quelli che sono stati scarcerati dopo la rivoluzione. Possiamo dire che stiamo tornando al periodo di Mubarak? Tutti gli eventi che stanno avvenendo in questi giorni vanno a favore di Mubarak. D’altronde, il generale al-Sisi era il capo dei servizi segreti militari di Mubarak.
Ci sono persone in Italia che sono state complici con loro. Prima di dare la grazia, queste stesse persone dovevano riconoscere le proprie colpe
La parola “terrorista” è ormai d’uso comune... Sì, e viene usata come uno strumento per spaventare Europa e Stati Uniti. Ma noi siamo
abituati a sentirci chiamare in questo modo, è un termine che viene usato per descrivere chiunque sia contro il governo. Fin da Nasser nel 1954. Nasser ha ucciso, imprigionato e perseguitato la Fratellanza ma, alla fine, l’unico risultato ottenuto è stato quello di renderla ancora più forte. Lo stesso errore lo hanno fatto Sadat prima e Mubarak poi. Ora, però, l’Ikhwan (i Fratelli, ndr) deve studiare bene i motivi per cui parte della popolazione gli ha voltato le spalle, provando astio nei loro confronti. Ora però le posizioni si sono estremizzate. Come trovare un dialogo? Difficile trovare una persona sana di mente in un gruppo di
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Il dizionario Mohamed al Zawahiri, fratello più giovane del leader di Al Qaeda, è stato arrestato a Giza dagli uomini della sicurezza egiziana lo scorso 17 agosto. Mohamed era da tempo nel mirino dei servizi d’intelligence (nonché della CIA), poiché considerato leader della Jihad Islamica Egiziana, sostenitore dell’ex presidente Morsi e promotore della Guerra Santa in Egitto.
matti (ride, ndr). Il problema non sono soltanto i militari, adesso. Democratici e liberali hanno tirato giù la maschera e svelato il loro vero volto, mostrando un’intransigenza più radicale dei militari stessi. Quali sono i punti di forza di Jamaa Islamiya? Il principale punto di forza è aver respinto la violenza come
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mezzo politico, operando una revisione e una rettifica dei propri riferimenti. E ha dimostrato di essere nel giusto. Però gli attacchi ai cristiani sembrano dimostrare il contrario... Jamaa Islamiya ha condannato gli attacchi alle chiese e ai cristiani: questo modo di fare non rientra nei metodi utilizzati dal movimento. Non siamo
stati noi o i Fratelli ad attaccare. Sono i criminali comuni. Stranamente la polizia, come confermato dal vescovo copto Makarios, seppure chiamata più volte, non è quasi mai intervenuta per proteggere i siti dei cristiani. Parliamo di Abu Omar: che conclusione ha tratto dalla vicenda?
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I responsabili di questo crimine sono gli americani, che usavano altri governi criminali come basi per interrogare ed estorcere informazioni e dichiarazioni forzate sotto tortura. Paesi arretrati che si prestavano a fare da braccio esecutivo agli statunitensi. Non è successo solo ad Abu Omar ma a molti altri. Il fatto che sia stata data la grazia a questa gente è un atto contro la giustizia. Ci sono persone in Italia che sono state complici con loro. Prima di dare la grazia, queste stesse persone dovevano riconoscere le proprie colpe. E, per voltare pagina su questa vergognosa storia, avrebbero dovuto dare un risarcimento ad Abu Omar. Se c’è intenzione di applicare la giustizia, ecco, ora Omar dovrebbe avere un risarcimento.
Parliamo della sua amicizia con il leader di Al Qaeda, Ayman al Zawahiry. Cosa pensa di lui? È un lungo viaggio che parte dagli anni ‘80 e arriva fino agli attentati contro le ambasciate americane. Per parlare di lui servirebbero ore e ore, stiamo parlando di quasi 25 anni di amicizia. Una lunga storia fatta di incontri, scontri, accordi e divergenze. L’uomo che ho conosciuto è una persona umana, generosa, istruita, molto affabile. Tutti quelli che hanno avuto a che fare con lui lo possono confermare. Nello stesso tempo, l’altra personalità di Al Zawahiri è invece molto dura. Posso dire che lui è molto influenzato
da al-Qutb (Sayyid Qutb, politico e ideologo egiziano, ndr). Quali sono le sue principali caratteristiche? Il suo pensiero non muta mai e non si può interloquire con lui. Nella sua prima fase, il suo scontro era diretto soprattutto contro l’Egitto, che non applicava la legge islamica. Nella seconda fase, invece, il suo jihad si è esteso al mondo intero. Nonostante le relazioni affabili che c’erano tra di noi, però, poco a poco ci siamo allontanati perché ho iniziato criticare la sua metodologia. E, per lui, una critica equivale a uno scontro irreparabile.
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Golpe o restaurazione che sia, l’Egitto dei militari deve scegliere come capitalizzare il consenso della popolazione stanca della Fratellanza. Ad esempio, ascoltando la voce dei cristiani copti dal nostro corrispondente al Cairo, Cristiano Tinazzi
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Egitto |
Testimonianze dal caos
e ci sia mai stata una democrazia compiuta dopo la caduta di Mubarak, questa è una domanda alla quale in pochi possono rispondere affermativamente. Perché il potere, quello vero, che si nascondeva anche dietro al presidente Mohammad Morsi (eletto nel giugno 2012 e deposto il 3 luglio scorso), è sempre rimasto in mano ai militari. Un Egitto confuso, dove i liberali rinnegano i principi basilari della democrazia e dell’alternanza al potere mentre coloro che gridano al colpo di Stato in nome di una democrazia calpestata come i Fratelli Musulmani, mancano di principi liberali. Prendiamo Mohammad el-Baradei: l’ex vicepresidente e premio Nobel per la pace - dimessosi il 14 agosto scorso in disaccordo con la decisione di intervenire con la forza contro i manifestanti a Rabaa e Nadha - oggi è a Vienna e pare non abbia nessuna intenzione di rientrare. Non solo: il fronte di Tamarod, quello dei rivoluzionari del 6 aprile, di tutti coloro che dal 2011 sono scesi prima in piazza prima contro
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Mubarak, poi contro l’interregno dello Scaf (il comitato supremo delle Forze Armate) e infine contro il governo Morsi, sono spariti. Non manifestano più contro la brutalità della polizia e per difendere i diritti umani e civili. Anzi, a sentire i loro discorsi, sono diventati ancora più radicali dei militari nel voler estirpare la Fratellanza dall’Egitto. Heliopolis è uno dei quartieri bene del Cairo. “Qui non ci sono stati problemi”, raccontano alcuni fedeli durante la messa nella chiesa copta di Mar Morkos (tutti sostenitori del generale Al-Sisi). Sul porticato, alcuni ragazzi raccontano di avere paura: “Come cristiani siamo una minoranza nel Paese ma i fratelli musulmani gridano affermando che questo è stato un
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golpe copto - dice Mark, 16 anni L’unica cosa che vogliamo è la sicurezza e la pace e i militari stanno cercando di combattere i terroristi”. Alek Hassanieh, stilista e membro del movimento dell’Unione della Gioventù Rivoluzionaria, è convinto che il problema siano “i Fratelli Musulmani. La nostra rivoluzione non è mai terminata. Chiuso il capitolo con la Fratellanza, ci batteremo di nuovo contro i militari se non ci porteranno a nuove elezioni. Vogliamo chiamarlo anche questo un colpo di Stato? Va bene, ma adesso è stato giustificato”. Golpe democratico, atto necessario, volontà popolare. Sono tutti termini utilizzati come sinonimo soft di quello che è nei fatti un vero e proprio colpo di Stato militare. L’Ikhwan, il partito dei Fratelli, al momento cerca di serrare i ranghi e ricostruire la propria dirigenza dopo l’ondata di arresti che l’ha decapitata. Non nuova a repressioni e clandestinità, la Fratellanza sta cercando di attuare tecniche di protesta civile piuttosto che cercare lo scontro diretto con le forze di polizia ed esercito. Le manifestazioni delle ultime settimane, infatti, hanno visto proteste in tutto il Paese da parte dei sostenitori
pro Morsi, ma non in numero tale come quello raggiunto nelle manifestazioni di Rabaa e Nahda: sono piuttosto “flash mob” in diversi punti della città e non vere e proprie concentrazioni. Tanti rivoli che poi ingrossano cortei improvvisati. Le quattro dita alzate (per ricordare il massacro a piazza Rabaa) e poster raffiguranti Mohammed Morsi sono i tratti distintivi dei manifestanti. Da settimane, circola l’invito a tutti i sostenitori dell’Alleanza per il ripristino della legalità - movimento pro Morsi che raggruppa numerosi partiti - a non pagare più tasse e utenze domestiche. Morsi ha sbagliato molte cose durante il suo anno di governo. Un anno disastroso per l’economia del Paese, che ha visto la Fratellanza perdere consensi mese dopo mese. In molti lo avevano votato, anche se non si ritrovavano nella rigidità religiosa del movimento. L’alternativa, d’altronde, era tra Mohammad Morsi e Ahmadd Shafiq, uomo di Mubarak e perciò un pezzo del vecchio regime. Un generale, ovviamente. Nell’ottobre 2011, nel periodo di transizione guidato dallo Scaf (il comando supremo delle Forze Armate egiziane), una manifestazione pacifica composta perlopiù da giovani cristiani copti nei pressi del palazzo della radiotelevisione pubblica, viene attaccata dalle forze di sicurezza: 28 morti (tutti tra i manifestanti) e 212
feriti è il risultato della violenta repressione. I manifestanti vengono accusati dalla televisione pubblica di essere “agenti infiltrati stranieri”. Di volta in volta, in Egitto, cambiano i soggetti ma le accuse rimangono le stesse. Oggi tocca ai Fratelli Musulmani essere additati come terroristi. Di quell’esperienza terribile, Vita e Toni, due giovani copti del Maspero Youth Union, portano al collo una medaglietta con inciso il volto di un loro amico schiacciato da un cingolato. Oggi, però, simpatizzano con i militari: “L’esercito ci difende dagli estremisti”, dicono seduti in un ristoro della stazione di benzina della catena Watanyya, bevendo acqua Safi e mangiando panini della Shemco. Tutti marchi di proprietà dell’esercito. Accusati di aver partecipato al golpe contro Morsi, i copti oggi sono vittime di numerosi attacchi da parte di militanti islamisti. Uno degli epicentri di violenza è il governatorato di Minya, dove decine tra chiese, edifici, abitazioni e negozi di cristiani, vengono incendiate e distrutte. La polizia non c’è, l’esercito latita. Sembra quasi che vogliano lasciar fare, per poi intervenire a giochi fatti e colpire nel mucchio dei movimenti islamisti. Dietro a tutti, vittime e carnefici a seconda del momento, come impassibili sfingi, divinità protettrici del Paese, siedono sempre loro: i Faraoni dello Scaf.
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Egitto | di Dario Scittarelli
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l 14 agosto 2013 l’esercito attacca i sit-in permanenti dei Fratelli Musulmani al Cairo. Gas lacrimogeni, carri armati, cecchini. Dodici ore di combattimento in pieno giorno, più di 800 i morti. In Egitto ritorna lo stato di emergenza, e il nuovo presidente Adli Mansour impone il coprifuoco dalle 21 alle 6 del mattino. Almeno nella capitale, le proteste degli islamisti - andate avanti incessantemente a partire dalla destituzione di Mohammed Morsi il 3 luglio - si fermano quasi del tutto. L’Egitto è spaccato a metà, con i Fratelli Musulmani da una parte, pronti a diventare martiri, e il resto della popolazione dall’altra. Certo, dopo un
anno di inconsistente governo Morsi, persino i suoi sostenitori (quelli più evoluti, almeno) hanno appoggiato il golpe dei militari, ma ciò non è bastato a bilanciare il gioco di forze nel Paese. E, a meno che l’esercito non abbia intenzione di avviare una sistematica campagna di eliminazione degli islamisti (obiettivo piuttosto ambizioso vista la popolazione di 85 milioni di abitanti), non si intravede, a breve, una via d’uscita alla crisi egiziana. Il motivo è semplice: né il braccio politico Giustizia e Libertà dei Fratelli Musulmani né l’opposizione laica del Fronte di Salvezza Nazionale (destinato presto a spezzarsi tra le sue anime di destra e sinistra) hanno capacità e numeri sufficienti a guidare la nazione.
Per avere un’idea tangibile dell’ingovernabilità del Paese basta guardare al Sinai, ennesimo frutto avvelenato di una primavera araba che, nella sua declinazione egiziana, l’11 febbraio 2011 portò alla caduta di Mubarak. Da sempre zona a rischio jihadismo, il Sinai è diventato oggi una no man’s land in mano ai terroristi. E i terroristi - diversamente da quanto sta cercando di far credere il nuovo governo militare attraverso i media - non sono gli islamisti accampati in piazza Tahrir, ma gruppi armati organizzati che tengono sotto scacco le forze di polizia, e legati ai militanti palestinesi di Hamas della confinante Striscia di Gaza. Facile, quindi, intuire la posizione dei vicini di casa israeliani nel quadro regionale: aperto sostegno ai militari. Dalla stessa parte anche Arabia Saudita, Emirati Arabi e Kuwait. Il nuovo asse saudita (cui si contrappone quello turco-qatariota, a sostegno dei Fratelli Musulmani) è un segnale evidente dello
LE ALTRE fORZE POLITIChE In EgITTO IL FRONTE DI SALVEZZA NAZIONALE Nato nel novembre del 2012, il Fronte di Salvezza Nazionale è una coalizione delle forze di opposizione laiche che ha come obiettivo la difesa e il ripristino degli ideali della rivoluzione egiziana del 2011. Il raggruppamento è guidato da Mohamed El Baradei, premio Nobel per la pace nel 2005 e direttore generale dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica tra il 1997 e il 2009. Tuttavia, a dispetto della fama e del prestigio di cui gode all’estero, El Baradei è poco noto in patria. Dopo la destituzione di Morsi, El Baradei viene nominato vicepresidente il 9 luglio 2013 ma si dimette il 14 agosto, proprio in conseguenza della dura repressione dell’esercito contro i Fratelli Musulmani.
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Finito l’incubo Morsi, il Paese resta in bilico tra jihadisti, islamisti, salafiti e laici spostamento di equilibri nello scacchiere internazionale. Infatti, il pacchetto di aiuti dei tre Paesi del Golfo proposto all’Egitto già da metà luglio, ammonta a circa 12 miliardi di dollari: una cifra che rende ridicola - se le violenze contro i dimostranti dovessero ripetersi - qualsiasi minaccia statunitense ed europea di sospensione o ridimensionamento delle proprie sovvenzioni (visto che, insieme, non raggiungono i tre miliardi di dollari). Ma l’Occidente sarebbe davvero disposto a schierarsi contro il nuovo governo egiziano in nome di un astratto concetto di democrazia? Probabilmente no. Del resto, gli Stati Uniti hanno evitato accuratamente di definire “golpe” la destituzione di Morsi: meglio i militari che gli islamisti. Anche perché quegli stessi obiettivi di crescita
democratica e sociale invocati dalle primavere arabe appaiono ancora molto lontani dall’essere raggiunti. Nel mentre, l’economia egiziana è in caduta libera: il turismo, prima risorsa economica della nazione, è crollato (meno di 5 milioni di visitatori da gennaio a maggio di quest’anno) e i ricavi del canale di Suez sono scesi del 4% nel primo semestre del 2013, per una cifra pari a 2,4 miliardi dollari. Questo il prezzo da pagare per un anno di sterili dibattiti su quanto la Sharia dovesse contare nella Costituzione. Questa l’eredità che il primo presidente democraticamente eletto d’Egitto lascia, tra gli altri beni, al suo Paese.
IL FRONTE SALAFITA A differenza dei Fratelli Musulmani, i salafiti non hanno alle spalle un’organizzazione unica ma sono suddivisi in una galassia di movimenti e partiti, alcuni dei quali hanno trovato un inquadramento nel blocco Alleanza per l’Egitto, colonna dell’islamismo ultra-conservatore. Tra essi, spicca il partito Al Nour, giunto secondo alle elezioni del gennaio 2012. Fondato nel 2011 al termine della rivoluzione egiziana, Al Nour era in precedenza all’interno della coalizione elettorale Alleanza Democratica per l’Egitto capitanata da Giustizia e Libertà. Nei giorni della destituzione di Morsi il partito si è però schierato con l’esercito insieme all’opposizione, partecipando poi alle consultazioni per la formazione del nuovo esecutivo. Oggi rappresenta il vero ago della bilancia del nuovo corso egiziano.
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entre a luglio solo il 24% degli italiani si riteneva adeguatamente informato sulla situazione siriana (e del Medio Oriente in generale), ora lo è il 68% della popolazione. Con l’informazione sale anche la preoccupazione personale nei confronti di tali avvenimenti: se pochi mesi fa solo il 30% degli italiani si riteneva preoccupato di una potenziale escalation violenta in Medio Oriente, ora lo è l’82%, contro un ben più esiguo 17% che si dice maggiormente sereno a riguardo. Come possibile strumento di risoluzione del conflitto, il 61% degli italiani non è comunque favorevole a un intervento militare: di questi, il 44% richiede nello specifico un intervento di tipo diplomatico, rivolgendosi anche alla Corte dei Diritti dell’Uomo; il 10% non ritiene ci siano prove sufficienti a giustificare interventi diretti; l’8% teme eventuali conseguenze, anche gravi, a livello internazionale. Dei restanti, il 20% ritiene che ci siano prove sufficienti per un intervento militare, ma per il 13% non senza l’accordo dell’ONU. D’accordo con il Ministro degli Esteri Emma Bonino, dunque, gli italiani non auspicano un intervento militare diretto in Siria accanto agli Stati Uniti, non senza un mandato esplicito da parte delle Nazioni Unite.
«Personalmente quanto si ritiene informato sugli avvenimenti che stanno sconvolgendo la Siria e tutto il Medio Oriente?»
68%
degli italiani SI RITIENE MOLTO o ABBASTANZA INFORMATO SUGLI AVVENIMENTI IN SIRIA
Il 30% non si ritiene informato
«Personalmente quanto si ritiene PREOCCUPATO dalla possibilità di un’escalation di violenza in Medio Oriente?»
82%
È MOLTO o ABBASTANZA PREOCCUPATO DI UN’ESCALATION IN MEDIO-ORIENTE
Il 17% non è preoccupato
«Secondo Lei quale sarebbe la soluzione più auspicabile rispetto alla crisi siriana e all’accusa di utilizzo di armi chimiche?»
61%
degli italiani è CONTRARIO all’intervento militare in Siria
Il 20% è favorevole
«Il Ministro degli Esteri ha dichiarato che l’Italia non interverrà senza un mandato dell’ONU. Quanto è d’accordo con la posizione assunta?»
86%
è (molto o abbastanza) D’ACCORDO CON LA POSIZIONE DI EMMA BONINO
Il 11% non è d’accordo
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Istituto: Lorien Consulting s.r.l. - Criteri seguiti per la formazione del campione: campione rappresentativo per sesso ed età della popolazione italiana maggiorenne Metodo di raccolta delle informazioni: indagine telefonica (CATI, Computer Assisted Telephone Interview) - Numero delle persone interpellate ed universo di riferimento: 1.000 cittadini italiani maggiorenni - Data in cui è stato realizzato il sondaggio: 31 agosto - 1 Settembre 2013 - SPSS – Intervallo di confidenza 95%
Siria e armi chimiche: il punto di vista degli italiani
A DIRE IL VERO... L’AnALISI DI APPROfOnDImEnTO
Intelligence post ’89 Il Grigio
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e durante la guerra fredda la disponi- e nel settore degli armamenti a esse collegate, i bilità quasi esclusiva da parte delle missili. Risorse investite in minima parte in ricerdue principali superpotenze d’impo- ca scientifica (troppo lenta e costosa) e in gran nenti e sofisticati arsenali nucleari ha parte in attività di spionaggio (molto più econoassicurato un sostanziale equilibrio mica in termini di rapporto costo/efficacia e costrategico basato sulla dissuasione derivante dalla sto/beneficio). potenziale distruzione reciproca - che, di fatto, Lungi dal determinare la “fine della storia” - seha impedito qualsiasi confronto militare diretto - condo l’incauta analisi del politologo Francis Fula caduta dell’Unione Sovietica nel 1991 ha de- kuyama - ciò ha stimolato mire e appetiti da parte terminato uno sparigliamento delle carte e lo svi- di nuovi attori geopolitici privi della tutela sovieluppo della minaccia di una proliferazione nu- tica o svincolati dal controllo dell’altra superpocleare multipolare e incontrollata. tenza, e decisi a dotarsi di risorse nucleari per Per tutti gli anni ’90, l’Occidente si è confron- conquistare un ruolo di potenze regionali. tato con la paura che dalle macerie dell’URSS In questa cornice lo spionaggio internazionale, fuoriuscissero in modo incontrollato seprima circoscritto ai riti del confronto Est greti e materiali atomici in grado di Ovest, ha ripreso vigore, per un moti“Roccia-spia” dotare terroristi e “Stati canaglia” di vo molto semplice: le spie fanno ritecnologie utili a produrre ordigni sparmiare ai loro controllori enornucleari. In realtà, le nazioni nate mi quantità di denaro. “Rubare” dalla dissoluzione del colosso soun segreto tecnologico, in defivietico si sono dimostrate molto nitiva, costa molto meno che più affidabili di quanto si credestentare di raggiungere gli stessi se. Secondo uno studio elaborato risultati con la normale ricerca nel 1998 da Servizi segreti italiani e scientifica. CIA, su 100 casi di presunto contrabLa fine della guerra fredda ha mobando di materiali e di tecnologie atodernizzato il “grande gioco” dello spiomiche provenienti dall’ex URSS, 80 potevanaggio, attraverso la mobilitazione di un no catalogarsi come semplici truffe, mentre i re- esercito di agenti impegnati nella raccolta di sestanti 20 casi erano da ricondursi a operazioni di greti scientifici, a controllare e tentare di fruprovocazione orchestrate dai Servizi occidentali strare i progressi tecnologici di Paesi a rischio, per tentare (senza successo) di “stanare” eventuali come l’Iran, e a contrastare le attività di spiovenditori di segreti e di materiali sensibili sul naggio industriale e di “procurement” di matemercato europeo. riali sensibili, compresi i materiali “dual use”, faSe dall’ex URSS non si sono quindi registrate cilmente convertibili da innocenti usi civili a pené fughe di scienziati atomici verso Paesi inten- ricolosi usi militari. zionati ad attingere al mercato clandestino dei Lo spionaggio nel mondo multipolare ha ascervelli, né una massiccia dispersione di tecnolo- sunto carattere asimmetrico: non esistono garangie e di materiali a prezzi di saldo, per tutti i ’90 zie per amici e alleati. In questo nuovo scenario, alcuni Paesi (dalla Libia all’Iraq, dall’Iran alla l’incubo di tutti i capi dei Servizi occidentali e Corea del Nord, passando per Israele) hanno israeliani vede ora i gruppi del terrorismo intercontinuato a investire risorse in campo nucleare nazionale (da Al Qaeda a Hezbollah) capaci di
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acquisire tecnologie e materiali, anche “dual use”, che li potrebbero mettere in grado di fabbricare in proprio un rudimentale ordigno nucleare (la cosiddetta “bomba sporca”) autotrasportabile, da far esplodere in campo “nemico”, come ad esempio in una metropoli dell’Occidente. Israele, in questo gioco, è andato oltre la raccolta d’informazioni sulle mosse del suo avversario più pericoloso, il regime di Teheran: ha lanciato una vera e propria campagna di eliminazione fisica di tecnici civili e militari impegnati nel programma atomico iraniano che, dal 2007 a oggi, è già costata la vita a cinque scienziati e al responsabile militare dello sviluppo dei sistemi missilistici. Il successo di questa strategia ha bloccato i progetti di bombardamento dei siti iraniani di produzione di acqua pesante e di arricchimento del plutonio. Infatti, i militari di Gerusalemme al contrario del Mossad, convinto dell’efficacia delle eliminazioni mirate vorrebbero replicare le spettacolari azioni compiute nel 1985 contro il reattore iracheno di Osirak e contro quello siriano di Dayr az-Zawr nel 2007 che, grazie a bombardamenti di precisione, hanno azzerato le mire nucleari di Saddam Hussein prima, e di Bashar alAssad, poi. Per avere un’idea dei mezzi moderni e intrusivi utilizzati nello spionaggio in campo nucleare, è utile ricordare l’episodio del settembre 2012, avvenuto a ridosso dell’impianto nucleare iraniano di Fordow: durante un’ispezione intorno alla base, è stata trovata una finta roccia al cui interno erano custoditi sofisticati
apparecchi in grado di intercettare tutti i dati dei computer della base. La rocciaspia è una specialità dello spionaggio di Israele. Un’analoga apparecchiatura è stata trovata in Libano presso una base militare di Hezbollah. L’episodio dimostra non solo le micidiali capacità professionali degli agenti israeliani ma anche che all’impiego di fonti umane (la “humint”, ovvero la “human intelligence”) viene sempre più spesso affiancata la technical intelligence nella sua versione di cyber intelligence, la nuova frontiera dello spionaggio contemporaneo. Nel “nuclear game”, nonostante l’uso di tecnologie avanzate (dai satelliti ai droni, fino ai super-computer), l’obiettivo primario resta il reclutamento di tecnici e scienziati del fronte avversario. In quel fronte non debbono essere considerati solo i nemici tradizionali e dichiarati, ma anche i “non nemici”, gli amici e gli alleati, ovvero tutti coloro che hanno bisogno di informazioni segrete da acquisire anche con mezzi clandestini. Il panorama delle attività di spionaggio odierno dimostra che oggi, più che nel passato, occorre tutelare Stati, istituzioni e aziende anche dalle “attenzioni” di chiunque sia interessato a conoscere informazioni classificate o a partecipare in condizioni di illecito vantaggio a gare internazionali, avendo acquisito con l’uso di mezzi finanziari relativamente modesti, informazioni sensibili frutto di anni di lavoro e ricerca scientifica. Perché lo spionaggio è “il secondo mestiere più antico del mondo”? Perché, al pari del “primo”, appartiene alla natura umana, la quale porta spesso a ritenere che con il denaro si possano ottenere più risultati che con il lavoro.
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DURA LEx SOTTO LA LEnTE DEL DIRITTO
Spionaggio industriale e tutela legale Draconian
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ell’era dell’economia globalizzata, fondata sul ricorso esasperato alla concorrenza e alla conoscenza, le informazioni costituiscono il principale strumento in mano alle aziende per produrre profitto e, più in generale, “valore”. Si diffonde, dunque, la tendenza - comunemente definita spionaggio industriale - a procurarsi illecitamente notizie riservate sull’attività progettuale, produttiva o operativa di un’azienda, allo scopo di prevenirne la concorrenza o addirittura di ostacolarne l’azione. Le conseguenze sono rilevanti: alterazione delle normali dinamiche di mercato dovuta all’acquisizione di indebiti vantaggi competitivi; corrispondente danno per le aziende che investono sullo sviluppo della ricerca. Sull’altro versante, poi, gli ingenti interessi economici che ruotano intorno al fenomeno dello spionaggio industriale hanno moltiplicato gli episodi di corruzione interna e, più in generale, il traffico di informazioni
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illecitamente acquisite mediante il ricorso all’opera sofisticata di vere e proprie reti di spionaggio industriale. Di contro, il sistema di protezione legale, risulta inidoneo a garantire la tutela che lo Stato dovrebbe assicurare a quanti, nel mondo dell’industria, investono capitali in ricerca e tecnologie. L’aspetto più controverso ha riguardato - fino alla riforma del Codice della Proprietà Industriale del 2010 - l’individuazione delle informazioni che, avendo utilità aziendale sia diretta che indiretta, assumono rilevanza strategica e sono, quindi, considerate meritevoli di protezione. Al riguardo, l’art. 99 CPI prevede una tutela che va da quella di cui all’art. 2598 cc in materia di concorrenza sleale, a quella riconosciuta in presenza dei tradizionali titoli di privativa industriale (marchi, brevetti) o intellettuale (diritto d’autore), in assenza dei quali la protezione è accordata solo in presenza dei requisiti minimi previsti dall’art. 98 CPI. La disposizione, che sottolinea l’interesse del legislatore a salvaguardare come bene in sé qualunque forma di know-how aziendale, stabilisce che costituiscono oggetto di tutela le informazioni aziendali e le esperienze tecnico-industriali, comprese quelle commerciali, soggette al legittimo controllo del detentore, i dati relativi a prove o altri dati segreti, la cui elaborazione comporti un considerevole impegno ed alla cui presentazione sia subordinata l’autorizzazione dell’immissione in commercio di prodotti chimici, farmaceutici o agricoli implicanti l’uso di nuove sostanze chimiche. Tali informazioni, inoltre, devono: essere segrete, nel senso che non siano nel loro insieme o nella precisa configurazione e combinazione dei loro elementi generalmente note o
facilmente accessibili agli esperti e agli operatori del settore; avere valore economico in quanto segrete; essere sottoposte a misure da ritenersi ragionevolmente adeguate a mantenerle segrete. Potremmo quindi dire che il valore economico dell’asset informativo aziendale è direttamente proporzionale al grado di inaccessibilità o riservatezza delle informazioni. E lo stesso vale per le tutele previste dal CPI: in assenza di segretezza, infatti, risulterà ben difficile configurare le condotte di rivelazione, acquisizione o utilizzo illecito. Di qui l’importanza di adottare un adeguato sistema di protezione, il cui ruolo deve ritenersi molto accresciuto, non solo per l’esplicito riconoscimento normativo - l’art. 98 CPI subordina alla sua previsione la possibilità di esigere tutela legale - ma anche per l’atavica lentezza del sistema giudiziario, incapace di definire celermente le controversie di natura civilistica, e la sostanziale inadeguatezza della risposta sanzionatoria in ambito penale, ove i limiti di pena previsti per le singole fattispecie di reato risultano inadeguati rispetto alla rilevanza che assumono in concreto i beni giuridici presidiati dalle norme incriminatrici. Il ricorso ad adeguate strategie prevenzionistiche diviene dunque un onere che l’art. 98 CPI, pur senza individuare nello specifico le singole misure, pone a carico dei soggetti preposti al legittimo controllo sulle informazioni, ovverosia non soltanto il titolare dell’impresa, ma anche quanti, tra gli appartenenti alla compagine sociale, sono gravati dall’obbligo di fedeltà, o ricevono le informazioni da comunicare a terzi per finalità aziendali. Peraltro, il riferimento normativo al criterio di ragionevole adeguatezza fa sì che le misure da predisporre, sia verso l’interno (personale
aziendale) che verso l’esterno (clienti, fornitori, terzi in generale), possano essere graduate in funzione delle condizioni di detenzione e delle modalità di utilizzo delle informazioni, nonché dei soggetti che possono accedervi. Allo stato, dunque, la protezione dallo spionaggio industriale può risultare efficace solo se affidata a un mix di misure di natura legale (clausole, contratti, accordi di non divulgazione), organizzativa (procedure, policies aziendali, separation of duties, formazione) e tecnologica (strumenti di protezione fisica e logica dei sistemi informativi ed elettronici). Nell’attesa che il legislatore ritorni sul tema inasprendo il sistema sanzionatorio.
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ECOnOmIA
Santa Sede Lo Stato della Città del Vaticano è sorto con il Trattato Lateranense, firmato l’11 febbraio 1929 tra la Santa Sede e l’Italia, che ne ha sancito la personalità di Ente sovrano di diritto pubblico internazionale, costituito per assicurare alla Santa Sede, nella Vademecum sua qualità di suprema istituzione
Pakistan
per gli investimenti
Italia Il “caso” dei Fondi Pensione Storie di ordinarie catastrofi
Messico Liberalizzazione del mecato energetico
Argentina Un Paese a rischio fallimento
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L’Italia è tra i maggiori investitori in Pakistan. Quali sono e dove sono localizzate geograficamente le aziende italiane? Il Pakistan considera l’Italia uno dei principali partner commerciali nel contesto UE. Le nostre due economie sono complementari in diversi settori. Ci sono diverse aree in cui le aziende italiane sono attive: il comparto petrolifero e del gas è uno dei principali. L’ENI, ad esempio, è presente con un investimento pari a circa 1,5 miliardi di dollari. L’ENI in realtà è entrata nel mercato pakistano nel 2000, con una joint venture con altre due aziende statali, la Oil and Gas Development Company Limited (OGDCL) e la Pakistan Petroleum Limited (PPL). Sono impegnate in un progetto di esplorazione lungo le coste della regione del Sindh e, attualmente, la produzione è di 58 mila barili di greggio al giorno. Lo scorso anno, il Pakistan ha dato in concessione una sessantina di licenze di esplorazione e l’ENI ha cercato di ampliare la propria presenza aumentando gli investimenti.
Italiani? Affare fatto
Pakistan | di Cristiana Era
Come e dove investire in un Paese che torna ad essere terra d’opportunità? Lo spiega Farid Ahmad Tarar, Consigliere Commerciale dell’Ambasciata Pakistana in Italia
Altre aziende attive sono la Landi Renzo, Di Febo, Loreto, BRC: sono leader in componenti CNG (compressed natural gas). A causa della carenza di energia elettrica, negli ultimi anni molte delle abitazioni e degli impianti industriali sono stati riconvertiti a gas naturale; gli italiani sono molto forti in questo settore. Mentre, per il comparto farmaceutico, sono LOOKOUT n. 8 settembre 2013
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presenti la Angelini e la CESI. Poi c’è la FIAT, at- E se ci sono alcuni Paesi, più specificatamente alcutiva nel settore agricolo: qui, chiunque lavori nel ne aziende, che hanno il know how e le tecnologie, comparto agricolo conosce molto bene il mar- possono aiutare il Pakistan a sviluppare queste fonti chio, sinonimo di trattori e di attrezzi agricoli. E alternative di energia. Anni fa avevamo più risorse adesso c’è anche la New Holland, specializzata in idroelettriche, ma con il tempo la quantità è dimimacchinari per la mietitura. nuita ed ecco perché i costi energetici sono saliti. Di Geograficamente parlando, alcune aziende conseguenza, sono aumentati anche i costi per sono situate a Karachi, altre nel Punjab le imprese. Per rendere il business più oppure hanno delle joint venture con concorrenziale, il Pakistan deve riusciid Ahmad Tarar Far aziende locali. Infine, ci sono azienre ad avere non solo più energia, ma de che operano in tutto il Pakistan anche prezzi concorrenziali. come importatrici di macchinari. Quali opportunità d’investimento In quali altri settori la cooperasi presentano per le imprese itazione commerciale tra i nostri liane che vogliono investire nel Paesi può essere ulteriormente settore idrocarburi? sviluppata? Il Pakistan offre condizioni favoreCredo che l’energia rappresenti il voli al business e agli investitori: negli settore più importante. In questo moultimi dieci anni gli investimenti dall’estemento, il Pakistan sta affrontando una grave ca- ro hanno raggiunto 27,5 miliardi di dollari. Ciò è renza energetica, o quanto meno c’è una signifi- dovuto principalmente a una politica di liberalizcativa differenza fra domanda e offerta di quasi zazioni e deregulation. Ecco perché ben 800 mul5.000 MW. Oggi è questa la priorità per il governo tinazionali operano in Pakistan: ci sono opportuche sta cercando di compensare da nuove fonti nità e incentivi non presenti altrove nell’area. La di energia; quindi, non solo nel mondo tradizio- sua collocazione geostrategica fa del Pakistan un nale della produzione di energia ma anche nel passaggio verso altri Paesi petroliferi dell’Asia carbone, nel settore idroelettrico, nelle energie centrale. Quindi, quando un nuovo giacimento rinnovabili, come il solare, l’eolico, l’elettricità di petrolio o di gas viene scoperto, non ci sono dalle biomasse. La provincia del Punjab, che ha solo opzioni vantaggiose nel mercato interno ma una ricca tradizione agricola, ma anche il resto anche possibilità di joint venture con altre aziendel Paese negli ultimi anni ha cercato di sviluppa- de e Paesi limitrofi. Inoltre, ci sono numerosi lotre dei meccanismi per produrre energia dalla ti e corridoi in cui, in termini di standard intercanna da zucchero. E anche nel settore del bio- nazionali, la percentuale di successo è molto alta, gas ci sono possibilità che andrebbero esplorate. perché il settore delle esplorazioni petrolifere e
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Il dizionario Il premier pakistano Nawaz Sharif, seguendo il copione che lo ha portato alla terza rielezione con il partito di centro destra PML - ramificazione della Pakistan Muslim League - è stufo degli attacchi dei droni USA, principale motivo del raffreddamento dei rapporti bilaterali tra Stati Uniti e Pakistan degli ultimi anni: “i droni lanciano una sfida alla nostra sovranità. Confindo che la nostra preoccupazione sarà compresa correttamente” ha minacciato di recente.
di gas è un business che richiama ingenti quantità di capitale. Richiede molti investimenti e occorre aspettare. Ci sono studi disponibili che indicano quali sono le aree dove vi sono maggiori opportunità. Lo scorso anno, il settore petrolifero e del gas è stato quello che ha attratto la maggior parte degli investimenti diretti dall’estero, circa 500 milioni di dollari. Vi sono particolari incentivi? Il governo pakistano ha messo a punto una politica di investimenti che offre la possibilità di detenere il 100% di quote azionarie straniere in tutti i settori, tranne quelli delle armi e delle munizioni, degli esplosivi, della sicurezza, e della produzione di materiali particolari. A parte queste eccezioni, tutti gli altri comparti sono aperti agli investimenti diretti e non c’è il requisito di avere un partner commerciale; quindi è possibile ottenere tutti i profitti e i dividendi. Molte possibilità sono offerte dal nuovo governo anche nel campo delle costruzioni e delle infrastrutture.
Se vogliamo riassumere dove conviene investire, oltre al comparto petrolio e gas, vanno considerati le infrastrutture (edifici e vie di comunicazione), il settore agricolo, il tessile, dei macchinari e il settore automobilistico. Tornando agli incentivi, uno di questi riguarda l’uguaglianza di trattamento tra investitori stranieri e locali. In alcuni Paesi permangono misure protezionistiche ma qui le regole sono uguali per tutti. E per le importazioni? Per quanto riguarda l’importazione di materie prime e l’esportazione di manufatti c’è un regime tariffario pari a zero. Esistono poi numerose agevolazioni in termini di tassazione. Ci sono delle linee guida a questo proposito: ad esempio, c’è un dazio di solo il 5% per le importazioni di impianti, macchinari, attrezzature per la manifattura, per le infrastrutture e per il settore sociale. Su questi specifici settori, il dazio di importazione è più alto per i locali. Per i servizi, il regime
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dei dazi doganali varia tra lo 0 e il 5%, comprese l’IT, dove le aziende italiane sono molto forti, e le telecomunicazioni. Anche in agricoltura non vi sono dazi. In Pakistan, esistono due leggi in particolare che proteggono totalmente gli investimenti diretti stranieri: la Foreign Private Investment Promotion and Protection Act del 1976 e la Protection of the Economic Reforms Act del 1992. Dunque, la tutela dei vostri investimenti è inserita in un chiaro contesto normativo. Tempo fa correva voce di un possibile inasprimento della pressione fiscale sulle aziende straniere. Può confermare o smentire tali voci? Recentemente è stata approvata la legge finanziaria (in Pakistan l’anno finanziario inizia a luglio e termina in giugno, ndr). Nel budget annunciato per il 2013-2014 non c’è niente del genere. Credo che si tratti solo di voci, non ci sono misure governative in tal senso. Lei ha parlato del Pakistan come via del gas e del petrolio. Già da tempo si parla di un progetto di gasdotto che partendo dal Turkmenistan passerebbe per Afghanistan, Pakistan e India (TAPI). A che punto siamo? Poco tempo fa a Islamabad si è tenuto un incontro al Ministero per il Petrolio e le Risorse Naturali: in quell’occasione, il governo ha espresso forte volontà di dare nuovo impulso a questo
La crisi energetica in Pakistan
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programma ma soprattutto di spingere per una sua accelerazione. Il governo sta mettendo a punto un fondo di investimento a cui tutti i Paesi partner potranno attingere per portare avanti un progetto che, nell’ultimo anno, è rimasto in sospeso. Per quali altri motivi oggi in Pakistan conviene investire? Se guardiamo alle statistiche, nonostante le difficoltà causate dalla crisi energetica e da una situazione precaria dal punto di vista dell’ordine pubblico, l’economia del Paese ha dimostrato una solida capacità di ripresa. Il nostro PIL si è assestato intorno a una crescita del 3-4% annuo negli ultimi quattro anni. Inoltre, il mercato è vasto: 180 milioni di consumatori e una forza lavoro professionalmente qualificata. Ma il dato più importante è che il 40% circa di questa forza lavoro ha tra i 20 e i 35 anni. Noi lo definiamo un “giovane dividendo demografico” sul quale il Paese intende capitalizzare attraverso lo sviluppo di capacità professionali, più opportunità di impiego e migliore istruzione. Inoltre il Pakistan offre ancora manodopera a buon mercato: se vengono rimossi quei pochi ostacoli, si avrà un’opzione allettante per gli investimenti. Soprattutto se paragonata ad altri Paesi come la Cina dove i costi della manodopera e del mercato aumentano. Molte delle risorse energetiche sono situate lungo i confini con Afghanistan e Iran. Come garantire la sicurezza di queste aree e rassicurare gli investitori? Negli ultimi 3-4 anni, questo problema ha avuto grosse ripercussioni negative sul quadro economico locale ed ecco perché il nuovo governo ha identificato tre principali priorità: ordine pubblico, crisi energetica, infrastrutture e comunicazioni. Nel corso dell’ultimo mese, ci sono state consultazioni serrate con tutte le parti interessate, nazionali e straniere, sulla
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L’economia del Paese ha dimostrato una solida capacità di ripresa. Il nostro PIL si è assestato intorno a una crescita del 3-4% annuo negli ultimi quattro anni definizione di una strategia che abbia il supporto di tutte le istituzioni e di tutte le correnti politiche. Nei prossimi mesi, dovremmo assistere allo sviluppo delle linee guida di tale strategia per includere tutti i principali attori sulla questione della sicurezza. Durante l’ultima visita in Cina, il primo ministro ha rassicurato gli investitori cinesi che sarà responsabilità dello Stato fornire standard elevati di sicurezza in modo da poter operare in un ambiente favorevole e libero. Questa è una delle priorità del governo. Quanto inciderà sulla sicurezza interna pakistana il ritiro delle forze ISAF dall’Afghanistan nel 2014? Non sono un esperto di politica estera, però credo che tutte le parti coinvolte stiano dialogando e credo sia prematuro fare previsioni. Se nei prossimi mesi la situazione sulla sicurezza migliorerà, nasceranno certamente altre opportunità per le imprese e l’economia dell’intera regione non potrà che trarne beneficio.
Crescita e democrazia
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l Pakistan come nuova economia emergente? Sembrerebbe di sì, a giudicare dagli sviluppi economici e politici dell’ultimo anno. Dopo decenni d’instabilità, dittature, mancanza di sicurezza e un sistema economico disastrato, il Paese sta facendo uno sforzo consistente per consolidare un processo democratico iniziato nel 2008 e che ha visto - per la prima volta nella sua storia la scadenza naturale di un governo civile democraticamente eletto. Ulteriori passi in avanti sono state l’elezione di Nawaz Sharif a primo ministro nel giugno scorso, e l’elezione del nuovo presidente del Pakistan, Mamnoon Hussain, il 30 luglio. Il governo appare determinato a combattere le sacche di terrorismo legate all’Islam radicale che si annidano al confine con l’Afghanistan e che, finora, hanno creato non pochi problemi di stabilità interna, oltre che internazionale.
La visita del 26 agosto scorso del presidente Karzai in Pakistan ha segnato il tentativo di voltare pagina e riaprire un dialogo tra due Paesi che, almeno ufficialmente, combattono la stessa battaglia - la lotta ai movimenti radicali islamisti ma tra cui regna da tempo sfiducia e diffidenza. Dopo aver bollato l’apertura di un ufficio politico a Doha (Qatar) lo scorso giugno come il tentativo di creare un governo in esilio, Karzai è ora alla disperata ricerca di un canale di comunicazione con i talebani che sia indipendente dagli Stati Uniti. Quel canale potrebbe così passare proprio dal Pakistan: il governo Sharif ha mostrato in questi ultimi tempi poca inclinazione a negoziare con i talebani, ma sicuramente una normalizzazione dei rapporti con Kabul sarà strumentale a un consolidamento politico interno. Semmai, la questione aperta rimarrà quella relativa a quanto il Pakistan possa effettivamente influire sulle decisioni dei gruppi talebani presenti sul proprio territorio.
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Italia | di B. Woods
Fondi pensione: una dimenticanza?
Nel dibattito di questa breve estate su come e dove trovare i fondi e attraverso quali forme finanziare la ripresa economica del nostro Paese, colpisce l’assenza di ogni riferimento ai Fondi Pensione
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dire che, in termini di risorse accumulate, il sistema della previdenza complementare ha oltrepassato i 104 miliardi di euro, il 6,7 per cento del PIL. Pur se ancora contenute nel confronto internazionale, le risorse di pertinenza del sistema sono raddoppiate fra il dicembre 2006 e la fine del 2012. Un risultato di tutto rispetto, alla luce delle turbolenze che hanno investito in questo periodo i mercati finanziari. La forma ad accumulazione che caratterizza
il risparmio previdenziale, e la fase di ancora relativa gioventù del nostro sistema, consente all’ordinaria gestione previdenziale di generare flussi di cassa positivi e stabili: dal 2007 al 2012 la raccolta netta delle forme pensionistiche complementari è stata di circa 35 miliardi di euro, oscillando fra 6,5 e 7,5 miliardi l’anno (intorno allo 0,5 per cento del PIL secondo la Relazione Annuale della Commissione di Vigilanza sui Fondi Pensione COVIP - 2012). A questi 104 miliardi di euro, i
I risultati delle politiche monetarie espansive fTSE all-share milano +9,79% CAC 40 Parigi +15,23% DAx 30 francoforte +29,06% AEx Amsterdam +9,68% fTSE100 Londra 5,84% S&P500 new york +13,41% nASDAQ new york +15,91% nIKKEI Tokio +23% hAng SEng hong Kong +22,91%
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Dal 2007 al 2012 la raccolta netta delle forme pensionistiche complementari è stata di circa 35 miliardi di euro
fondi pensione negoziali (chiusi e di categoria) contribuiscono con oltre 30,174 miliardi di euro e i fondi pensione aperti con 10,078 miliardi. Il quadro normativo di riferimento della previdenza complementare è delineato nel d.Lgs. 252 del 2005, che prevede il meccanismo delle adesioni tacite (adesione dei lavoratori dipendenti del settore privato che non esprimono alcuna volontà nei tempi e nei modi fissati per il conferimento del TFR) e indirizza così i conferimenti del TFR principalmente verso i fondi pensione negoziali. Come sono impiegate queste ingenti risorse? Il 60% dei fondi chiusi e il 40% dei fondi aperti è investito in titoli di stato (25,4% e 24,7% rispettivamente in titoli di stato italiani); il 10,4% e il 3,9% in altri titoli di debito (rispettivamente 2% e 1,1% in titoli italiani); infine, il 16,6% e il 21,2% in azioni, di cui solo lo 0,9% dei fondi chiusi e l’1,8% dei fondi aperti in azioni italiane. Per quanto riguarda i rendimenti, nel 2012 i risultati di gestione delle forme pensionistiche complementari sono stati superiori al tasso di rivalutazione del TFR, pari al 2,9%. Il risultato è stato dell’8,2% per i fondi negoziali e del 9,1% per i fondi aperti. Questi dati vanno però contestualizzati in uno scenario caratterizzato dalla crescita generalizzata dei corsi delle azioni e delle obbligazioni, dovuta alle politiche monetarie espansive di Stati Uniti, Giappone ed Europa, che hanno portato gli
Il dizionario Fondi pensione negoziali: fondi pensione costituiti in base all’iniziativa delle parti sociali mediante contratti o accordi collettivi a qualunque livello, regolamenti aziendali, accordi fra lavoratori autonomi o liberi professionisti promossi dai sindacati o dalle associazioni di categoria (COVIP 2012). Comparti di investimento: garantito (23% e 26% degli iscritti rispettivamente nei fondi chiusi e aperti), obbligazionari (36,2% e 17% rispettivamente nei fondi chiusi e aperti), bilanciati (39,9% e 39% rispettivamente nei fondi chiusi e aperti) e azionari (1,4% e 27% rispettivamente nei fondi chiusi e aperti). Rendimenti medi annui dei maggiori fondi pensione negoziali: 2007-2011 (TFR 2,8%). Fondo pensione Cometa (Metalmeccanici): 426.734 iscritti pari al 42,7% degli iscritti potenziali (SICUREZZA 0,51%; MONETARIO PLUS 1,87%; REDDITO 2,19%; CRESCITA 0,10%). Fondo pensione Fonchim (Chimici): 149.341 iscritti pari al 78% degli iscritti potenziali (GARANTITO* 1,12%; STABILITA’ 0,87%; CRESCITA -1,91%). Fondo pensione Telemaco (Telecomunicazioni): 62.361 iscritti pari al 41,6% degli iscritti potenziali (GARANTITO* 2,21%; CONSERVATIVO 2,90%; PRUDENTE 1,96%; BILANCIATO 0,36%; CRESCITA -1,13%). * disponibile solo per il triennio 2009-2011, Tfr medio del triennio 2,7%.
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indici delle borse - quindi degli indicatori medi di performance - a segnare incrementi notevoli (vedi tabella a pag. 39). Analizzati in una prospettiva storica, come meglio si addice a dei fondi pensione, i dati sono sconfortanti, come riporta lo studio di MedioBanca sui DATI di 956 FONDI e SICAV ITALIANI 1984-2011. Nel periodo 20002011 i fondi pensione negoziali hanno accumulato un rendimento del 27,1% a fronte di una rivalutazione del TFR (senza rischio) del 34,8%. Se si considera il quinquennio 2007-2011 (successivo all’esplosione della Grande Recessione indotta dalla crisi dei mutui sub-prime), la rivalutazione del TFR è stata del 13,9%, mentre il rendimento cumulato dei fondi pensione negoziali è stato del 5,4% e quello dei fondi pensione aperti del 1,1% (negativo). Con riferimento al grado di concentrazione del mercato dei fondi pensione negoziali, si osserva che il 47% delle risorse è affidato a cinque gestori e, tra i gestori, le SGR detengono la quota più consistente (pari al 37,4%), le imprese di assicurazione gestiscono il 20,4%, le banche il 4,4% e le SIM lo 0,9%; inoltre, la componente estera dei gestori copre il 49% del mercato. Nel mercato dei fondi pensione aperti, in termini d’iscritti, gestiscono una quota di mercato superiore al 50%: Arca Sgr, Intesa Previdenza, Axa-Mps Vita, Allianz Ras, Carifirenze, Eurizon Vita e Carige Am.
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Qualche breve osservazione
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e il TFR viene lasciato in azienda e questa ha meno di 50 dipendenti, il datore di lavoro accantona nominalmente questa somma, ma di fatto la utilizza nell’azienda stessa (per le aziende con più di 50 dipendenti, il TFR va versato al Fondo della Tesoreria dello Stato presso l’Inps). In una recessione caratterizzata da crescenti difficoltà di accesso al credito (credit crunch) come quella attuale, i conferimenti automatici ai fondi pensione negoziali non fanno che aggravare le difficoltà delle piccole e medie imprese. Per quanto riguarda i rendimenti dei fondi pensione, le evidenze sono inquietanti: non solo perdono troppo quando le cose vanno male, ma guadagnano poco anche quando gli indici di borsa vanno in doppia cifra. In breve: sottrazione netta di risorse all’economia del Paese (70% all’estero), scarse e spesso insufficienti performance, alti costi nonostante l’elevata concentrazione della gestione. Infine, preoccupa la presenza anche nei portafogli dei fondi pensione negoziali dei titoli derivati (1,4% del portafoglio nel 2011), che sono vere e proprie “armi di distruzione di ricchezza” la cui sottoscrizione si
è rivelata disastrosa per tutti. Tranne che per le grandi banche d’affari americane (ricordate le perdite realizzate dal Monte dei Paschi di Siena, da diversi Comuni e dallo stesso Ministero del Tesoro, che hanno pagato centinaia di milioni di euro per uscire da tunnel infernali di perdite illimitate?). Quindi, come afferma il professor Pizzuti, ordinario di Politica Economica e di Economia e Politica del Welfare State presso l’Università La Sapienza di Roma e vicepresidente del fondo pensionistico negoziale Cometa, “i fondi pensione assorbono risparmio previdenziale che in gran parte se ne va all’estero a finanziare i nostri concorrenti e la parte che rimane in Italia è investita fondamentalmente in titoli del debito pubblico” (Rapporto sullo Stato Sociale 2013). Si può pensare a qualcosa di più soddisfacente, fermo restando il compito istituzionale di garantire al meglio la pensione ai loro iscritti? Sicuramente sì. Ad esempio, prevedendo forme d’investimento, garantite in ultima istanza dallo Stato e volte a finanziare le strutture produttive strategiche (essenzialmente, reti) del nostro Paese.
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Italia |
Rischio catastrofi e disastri industriali
di B. Woods
Quanto siamo consapevoli dei pericoli che si annidano nel settore industriale italiano? I piani di emergenza sono adeguati? Urge una corretta e adeguata analisi del rischio
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a Presentazione del Rapporto M AT T M - I S P R A (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) su La mappatura dei pericoli d’incidente rilevante in Italia (5 luglio 2013) offre lo spunto per alcune considerazioni sullo stato della prevenzione/mitigazione delle conseguenze connesse al verificarsi di catastrofi e disastri nel nostro Paese. Il rapporto rappresenta una fotografia dei pericoli associati ai siti suscettibili di causare incidenti rilevanti in Italia (stabilimenti RIR) sulla base di sei indicatori, che sono rappresentativi della distribuzione, della tipologia, delle caratteristiche e delle tendenze evolutive dei siti RIR. Il quadro normativo di riferimento è costituito dalla Direttiva 82/501/CEE o direttiva Seveso, recepita con il DL 17 maggio 1988, n.175, dalla Direttiva 96/82/CE o direttiva Seveso II, recepita con il D.Lgs 17 agosto 1999, n.334, e dalla Direttiva Comunitaria 2003/105/CE
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o direttiva Seveso II bis, recepita con il D.Lgs 21 settembre 2005, n.238. Le tre direttive Seveso (comune brianzolo a sud dello stabilimento ICMESA, investito dalla fuoriuscita della nube di diossina nel 1976) individuano le industrie potenzialmente pericolose sulla base delle quantità di sostanze pericolose presenti e definiscono azioni, misure e controlli atti a prevenire il verificarsi di un incidente rilevante, ovvero mitigarne le conseguenze. Sulla base dell’Inventario Nazionale degli stabilimenti suscettibili di causare incidenti rilevanti - ricavato dalle autocertificazioni dei gestori degli stabilimenti pervenute al MATTM - si evidenzia che in Italia sono presenti 1.142 impianti a rischio catastrofe, di cui 588 molto pericolosi e per i quali, sulla base del D.Lgs 17 agosto 1999, n.334 art. 8 “…sono stati predisposti i piani d’emergenza interni e sono stati forniti all’autorità competente di cui all’articolo 20 gli elementi utili per l’elaborazione del piano d’emergenza
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In Italia sono presenti 1.142 impianti a rischio catastrofe, di cui 588 molto pericolosi
esterno al fine di prendere le misure necessarie in caso di incidente rilevante”. Almeno uno dei siti RIR potenzialmente catastrofici è presente in ogni regione italiana, anche se il maggior numero è concentrato in Piemonte (103), Lombardia (287), Veneto (112) ed Emilia-Romagna (99). In particolare, i siti RIR sono altamente concentrati: nella provincia di Milano (69); nel Comune di Ravenna (26); a Genova (14); e, incredibile ma vero, a Venezia (15), cioè la città con il più elevato grado di vulnerabilità a eventi disastrosi (ricordate l’incendio del Teatro La Fenice?). Il rapporto denuncia, infine, che il 22% dei 514 siti con maggiori quantitativi di sostanze pericolose, è situato a meno di 100 metri da una linea di costa o da un fiume o lago, mentre un gran numero di impianti chimici e petrolchimici è localizzato in aree sismiche. Esiste una stretta relazione tra quanto descritto dal rappor-
to e l’effettiva tutela - azioni di prevenzione - della popolazione e dell’ambiente? La risposta, come suggeriscono le stesse conclusioni dell’ingegner Ricchiuti, ovvero il curatore del rapporto, è un ottimistico “ni”. Si può e si deve fare di più. Non solo per ciò che concerne i controlli, le ispezioni e l’approntamento dei piani di emergenza esterni che spesso, come nel caso di alcune regioni, semplicemente non esistono. Si può e si deve fare di più per ciò che riguarda la gestione del rischio, cioè per l’implementazione di quell’insieme di tecniche che, partendo dall’assessment, consentono di elaborare azioni volte a prevenire e/o mitigare le conseguenze degli eventi catastrofici. In uno scenario caratterizzato da possibili catastrofi e disastri, una corretta e adeguata analisi del rischio non è una scelta opzionale, ma parte degli investimenti necessari per un’efficiente e sostenibile gestione di un’attività produttiva.
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Messico | di Hugo
La nuova frontiera messicana
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l Messico è pronto a varare una delle manovre economiche più importanti della sua storia. Il presidente Enrique Peña Nieto ha presentato in parlamento una proposta per aprire il mercato energetico agli investitori esteri, mettendo così fine a un monopolio di stato durato 75 anni. Sul piano legislativo, la strategia impostata da Nieto prevede il superamento del decreto Lázaro Cárdenas datato 1940, attraverso la riforma degli articoli 27 e 28 della Costituzione messicana. L’obiettivo però non sarà la totale privatizzazione del settore, bensì la sua graduale apertura a partnership con società straniere che potranno firmare con la Pemex (Petróleos Mexicanos), la compagnia petrolifera di Stato, contratti per l’esplorazione e lo sfruttamento dei giacimenti, puntando ovviamente anche alla nuova frontiera dello shale gas. La strada della liberalizzazione, d’altronde, rappresenta un passaggio obbligato se il Messico intende fare un salto di qualità energetico e attrarre così non solo capitali, ma anche innovazione tecnologica e know how di cui al momento è sprovvisto. I prezzi con cui si pone sul mercato internazionale, d’altronde, giocano a suo favore. Con 2,5 milioni di
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Chi sale e chi scende: la presidenza Nieto punta ad aprire il mercato energetico agli investimenti esteri. Fine del monopolio? barili prodotti al giorno, possiede la sesta riserva più grande al mondo, e fissando il prezzo per ogni barile a circa 3.3 dollari (più o meno lo stesso prezzo degli USA) può battere facilmente la concorrenza dei Paesi asiatici (tra i 15 e i 16 dollari al barile) ed europei (tra i 10 e gli 11 dollari al barile). Se la proposta di Nieto passerà, per la Pemex verrà realizzato un regime fiscale ad hoc, puntando anzitutto alla trasparenza dei suoi conti. Il presidente è convinto che ciò consentirà al Messico di portare a pareggio produzione e investimenti, consentendo così al Messico di valorizzare realmente tutte le proprie risorse.
L’esempio della Colombia, che attuando un piano di riforme simile negli ultimi dieci anni ha duplicato la propria produzione di idrocarburi, e del Brasile, che dal 1993 ad oggi l’ha invece triplicata, lasciano ben sperare. Restano da superare i dubbi dei partiti di sinistra. Per il Partito della Rivoluzione Democratica il governo Nieto rischia infatti di svendere agli stranieri la Pemex e, con essa, un pezzo importante della storia messicana. Il presidente ha però dalla sua i numeri e il sostegno di chi vuole entrare in questo mercato: in pratica, il nuovo corso energetico del Messico è già partito.
Lo shale gas in America Latina
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America Latina possiede 284 trilioni di metri cubi di gas naturale. Al primo posto c’è il Venezuela con il 69%, seguito da Brasile (6%), Trinidad e Tobago (5%) e poi Argentina, Bolivia, Perù e Messico, tutti al 4%. Questo scenario potrebbe radicalmente cambiare con l’irrompere nel mercato energetico dello shale gas, che permetterebbe a tutto il Sud America di moltiplicare di più di 7 volte le proprie risorse. L’Argentina andrebbe al primo posto (774 tcf - trilion cubic feet), seguita da Messico (681 tcf) e Brasile (226 tcf), poi Bolivia (48 tcf) e Venezuela (11 tcf). Il primato mondiale spetterebbe però a Cina e Stati Uniti, che posseggono rispettivamente 1.275 e 862 tcf di shale gas.
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Argentina |
Un nuovo default? Chi sale e chi scende: a differenza degli auspici, Buenos Aires è ancora alle prese con la “reflazione”
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enerdì 23 agosto l’Argentina ha perso l’appello presentato alla Second US Circuit Court of Appeals di New York. La Corte ha condannato Buenos Aires a pagare 1,33 miliardi di dollari ai possessori di titoli di Stato che avevano rifiutato la ristrutturazione del debito (30 centesimi per ogni dollaro e allungamento delle scadenze) dopo il default di circa 100 miliardi del 2001. La Corte ha sospeso l’esecuzione della sentenza, in attesa del pronunciamento della Corte Suprema sull’appello presentato contro il risarcimento accordato ai creditori, i cosiddetti holdout bondholders, guidati
dalla Elliot Management Corporation, ora esposta per oltre 630 milioni. La sentenza, evidentemente annunciata, è stata preceduta a luglio dalla cancellazione dei piani di sostegno predisposti dal Fondo Monetario Internazionale (FMI), indotta dal Tesoro degli Stati Uniti per evitare le conseguenze di un nuovo default. La decisione sulla ristrutturazione del debito sovrano argentino che, come ha affermato Christine Lagarde - direttore generale del FMI - costituisce una pesante ipoteca su ogni futura ristrutturazione del debito sovrano di qualunque Paese, avviene mentre in Argentina infuria la campagna in vista delle elezioni che il 27 ottobre rinnoveranno metà della Camera e un terzo del Senato (la campagna elettorale vede Mauricio Macri, sindaco di Buenos Aires, opporsi al partito della presidente Kirchner). La “decada ganada” ovvero l’ultimo decennio seguito al default del 2001 (ricordate le code fuori alle banche chiuse, le imponenti manifestazioni a Plaza de Mayo, il movimento Cacerolazo di fronte alla Casa Rosada?) è stato segnato dalle presidenze di Nestor e Cristina Kirchner. Durante le presidenze Kirchner, le politiche espansive
(bassi tassi d’interesse e basso valore del peso) hanno prodotto imponenti attivi commerciali e tassi medi di crescita del 9%. La Grande Recessione ha però colpito duramente la fragile ripresa argentina e la caduta della domanda estera è stata contrasta con una crescente spesa pubblica finanziata dalla Banca centrale. La situazione economica è rapidamente peggiorata: l’inflazione è cresciuta fino a tassi con doppia cifra (tasso ufficiale al 10%, ma quello reale è almeno il doppio) e il peso si è ufficialmente svalutato di oltre il 12% dall’inizio dell’anno (4,75 pesos per un dollaro, al mercato nero occorrono però 6,75 pesos per un dollaro, pari a una svalutazione del 40%). Tutto ciò non è stato sufficiente a contrastare la perdita di competitività dei prodotti argentini. La bilancia commerciale è tornata a valori negativi, la disoccupazione sfiora l’8% e il deficit pubblico raggiunge il 2,6% e la crescita del 3,9% prevista per l’anno in corso già improbabile per l’imponente fuga di capitali - potrebbe essere vanificata dalle decisioni statunitensi. L’Argentina potrebbe, insomma, precipitare in nuovo default e in una vera e propria “reflazione” (l’insieme di recessione e inflazione sperimentata in occidente negli anni ‘70) dagli sviluppi imprevedibili, come ha recentemente ammonito il ministro delle Finanze francesi Pierre Moscovici, e non solo per il Sud del mondo.
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DO yOU SPREAD? VOCI DAL mERCATO gLObALE
Il mondo in ribasso di B. Woods
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entre lo spread tra BTP (Buoni del Tesoro Poliennali) decennali e il Bund tedesco è riuscito a scendere fino a 235 punti base (14 agosto 2013), l’Eurozona ha registrato una crescita del PIL dello 0,3% nel secondo semestre 2013. A ben guardare, non solo si conferma l’esistenza di un’Eurozona a due velocità, ma si riceve anche l’impressione che sia troppo presto per parlare di uscita dalla crisi (il Commissario europeo agli Affari economici e monetari, Olli Rehn, ha parlato di una ripresa ancora in vista). Infatti, non autorizza aspettative ottimistiche il permanere di una crescita negativa in Paesi come Spagna (-0,1%), Italia (-0,2%) e persino in Olanda (-0,2%), quinta economia dell’area, una volta annoverata tra i Paesi virtuosi e paladini dell’austerità ma ora afflitta dal deficit pubblico eccessivo (stimato al 3,9% per il 2013) e precipitata in una nuova recessione che ha
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ridotto i consumi del 2,4% e portato il tasso di disoccupazione al 7%. La Grecia ha fatto segnare un’ulteriore contrazione del 4,16% nel PIL del secondo semestre del 2013, seppure con un avanzo primario del bilancio dello stato di oltre 2,5 miliardi. Quindi, nonostante i durissimi sacrifici imposti al Paese ellenico, l’economia non mostra alcuna ripresa. Anzi, si fa sempre più probabile l’eventualità di nuovo pacchetto di aiuti e la necessità di un’ulteriore ristrutturazione del debito attraverso un allungamento delle scadenze e una cancellazione vera e propria (il Fondo Monetario Internazionale stima che la Grecia incorrerà in un ulteriore buco da 40 miliardi nei prossimi tre anni). Nel caso in cui la Grecia avesse bisogno di un terzo bail-out, per l’Italia sarebbero a rischio i prestiti bilaterali di 10 miliardi concessi tra il 2010 e il 2011, mentre per la Germania le perdite potrebbero variare tra i 10 e i 30 miliardi. Il proseguire dell’Eurozona sulla strada dell’austerità espansiva non solo non sembra produrre i risultati attesi ma, nonostante la crescita economica stimata almeno al +2% per il 2013 degli USA e del Giappone - conseguenze delle politiche di spesa in deficit - potrebbe trasformare il rallentamento della crescita dei BRICS in un’annunciata fine del miracolo economico che avrebbe ripercussioni disastrose. La domanda europea insufficiente, il calo dei prezzi delle materie prime e l’eccessiva dipendenza dalle esportazioni, marcano un’evidente debolezza strutturale della loro crescita economica. Il Brasile, segnato dal crollo dei prezzi delle materie prime e dalla svalutazione del real (-16% da maggio), dopo lo 0,9% di crescita del PIL del
2012, difficilmente raggiungerà il 2% nel 2013 nonostante il deprezzamento della moneta nazionale. La Russia - essenzialmente una “energy-economy” è a un passo dalla stagnazione e il +2% del PIL nel 2013 appare come un miraggio. L’India è segnata da un’incessante fuga di capitali, nonostante i limiti introdotti all’esportazione, che ha fatto precipitare il valore della rupia ai minimi storici - da 64 a 55 rupie per un dollaro a maggio - e indotto una crescente inflazione ora al 9,5%. Con un deficit delle partite correnti al 4,4% del PIL nel secondo semestre, la crescita prevista del 5% per l’anno in corso appare ancora a rischio, nonostante sia la più bassa del decennio. Il Sudafrica vive una condizione simile a quella indiana: calo dei prezzi delle materie prime (che costituiscono oltre il 60% delle esportazioni), inflazione al 6%, svalutazione del rand (-20% nel 2013), deficit di bilancio sopra il 5% del PIL e deficit commerciale prossimo al 6%, hanno determinato una vera e propria fuga degli investimenti esteri e messo una seria ipoteca sulla crescita economica, stimata ottimisticamente al 2% per l’anno in corso. Infine, la Cina: segnata dalle crescenti turbolenze nel mercato interbancario, dalle tensioni per il cambio yuan/dollaro, dalla caduta delle esportazioni e delle importazioni, nonché dalla riduzione delle riserve valutarie, potrebbe realizzare una crescita del PIL intorno al 7%, sicuramente importante ma
ben lontana dai tassi a doppia cifra dell’ultimo trentennio. Le politiche restrittive e gli alti tassi d’interesse delle autorità monetarie dei BRICS per sostenere i corsi delle valute molto probabilmente provocheranno l’esplosione di una nuova bolla speculativa, come accaduto a fine anni ’90. Negli Stati Uniti, dove è esplosa la bolla dei 40 milioni di studenti indebitati per oltre 1.200 miliardi di dollari, con buona pace dei sostenitori di questo sistema di finanziamento dell’istruzione - per inciso, gli stessi teorici dell’austerità espansiva - il presidente Barack Obama ha richiesto un’accelerazione all’adozione dei provvedimenti previsti dal DoddFrank Act. L’iniziativa di Barack Obama è contestuale all’avvio di nuove inchieste del dipartimento della Giustizia e dell’autorità di vigilanza sulla borsa (SEC) sulle irregolarità commesse dalle banche Too Big To Fail nei mercati finanziari e in quelli delle materie prime. Al momento, l’iniziativa sembra concentrarsi su JP Morgan, la più grande banca americana, considerata anche il braccio esecutivo della Riserva Federale (FED).
Il messaggio appare inequivocabile: chi ha barato pagherà e non ci saranno sconti per nessuno. Nel frattempo, aspettando le elezioni tedesche, l’UE tentenna e rimanda la riforma dei mercati del credito. Infine, a testimonianza della pericolosità dei sistemi di contrattazione ad alta frequenza (High Frequency Trading) nei mercati finanziari, va registrata l’emissione di centinaia di migliaia di ordini sbagliati sul mercato delle opzioni su azioni da parte di Goldman & Sacks. In seguito al malfunzionamento del sistema, il software utilizzato da Goldman & Sacks avrebbe immesso automaticamente nel mercato ordini di vendita e acquisto irrazionali. Le perdite inattese, che potrebbero ammontare a diverse centinaia di milioni di dollari, ripropongono drammaticamente il tema della sicurezza e della trasparenza nei mercati di scambio elettronici, già evidenziate dal caso Knight Capital (circa 500 milioni di perdite e conseguente fallimento della finanziaria), e la non dilazionabilità delle richieste di regolamentazione avanzate dall’Amministrazione Obama.
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Santa Sede Lo Stato della Città del Vaticano è sorto con il Trattato Lateranense, firmato l’11 febbraio 1929 tra la Santa Sede e l’Italia, che ne ha sancito la personalità di Ente sovrano di diritto pubblico internazionale, costituito per assicurare alla Santa Sede, Lanella via marocchina sua qualità di suprema istituzione
Marocco al progresso
Nicaragua Acque caraibiche sempre più agitate
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C’
Marocco |
di Cristiana Era
è un Paese nell’Africa settentrionale che sembra, per il momento, essere uscito indenne dai disastrosi sconvolgimenti che in varia misura hanno colpito tutto il Maghreb. È il Regno del Marocco, al-Mamlaka al-Maghribiyya, ossia “il Regno dell’Occidente” guidato da Muhammad VI, membro della dinastia alawita che governa sul Marocco dal XVII secolo. È pur vero che nel 2011 il vento della primavera araba ha fatto capolino anche nelle strade di Rabat, come nel resto del Maghreb. Ma qui non ha mai minacciato seriamente la monarchia, almeno fino ad ora. Le richieste che venivano dai manifestanti del Movimento “20 Febbraio” hanno riguardato soprattutto una limitazione del potere del sovrano e una maggiore pluralità politica. Contrariamente ad altri autocrati arabi, Mohammed VI ha, pur con mille contraddizioni, mitigato volontariamente il governo dittatoriale del padre (pur mantenendo la supremazia nelle decisioni politiche
Tra fede e laicità Re Mohammed VI è riuscito a mantenersi al potere nonostante le proteste: grazie a riforme, confronti tra forze politiche e coesistenza tra principi islamici e Stato laico
fondamentali). Sin dal suo insediamento nel 1999, infatti, ha attuato una politica di controllo e repressione dell’Islam radicale facendo sì che il Marocco risultasse meno esposto ai fenomeni di terrorismo rispetto ad altri Paesi quali ad esempio la vicina Algeria. Agli occhi della LOOKOUT n. 8 settembre 2013
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popolazione, la peculiarità religiosa del sovrano, ossia la diretta discendenza dal Profeta (la dinastia regnante discende da Al-Asan, uno dei figli di Al e Fima, giunto in Marocco alla fine del XIII secolo) e il titolo di “Comandante dei Credenti”, ha legittimato il suo ruolo di custode dell’Islam e gli ha consentito di riformare nel 2004 il Diritto di famiglia (moudawana), concedendo maggiori tutele alle donne. Il sovrano ha inoltre istituito dei programmi accademici appositamente pensati per la formazione delle donne nel ruolo di guida spirituale. Queste aperture, pur motivate dalla volontà di mantenere un controllo sulla sfera religiosa piuttosto che rappresentare un’apertura sociale verso il pluralismo e la tolleranza religiosa, hanno consentito l’introduzione di una legislazione sostanzialmente laica. Altra particolarità del Marocco è la presenza delle minoranze cattolica ed ebraica (la più numerosa del mondo arabo), che non sembrano essere oggetto di discriminazioni, come invece accade ai copti in Egitto. Alle rivendicazioni del 2011, Muhammad VI ha risposto con la promulgazione di una nuova Costituzione che ha dato maggiore spazio all’esecutivo e al parlamento, pur lasciando ampio margine d’intervento al sovrano in tutte le decisioni politiche più importanti. Le proteste, quindi, sono diminuite e non hanno portato ai grandi movimenti di piazza degli altri Paesi toccati dalla
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“primavera araba”. L’apertura del sovrano si è spinta fino a consentire l’inclusione dei partiti islamisti nella vita politica del Marocco. Ma si tratta di un esperimento controllato, anche alla luce degli eventi egiziani. Il partito islamico attualmente al governo, Giustizia e Sviluppo, oltre che dagli avversari politici è stato criticato dal re, per gli scarsi risultati nella lotta alla corruzione e nella politica economica. Le pressioni arrivano anche per gli avvenimenti del Cairo, che hanno fatto di Giustizia e Sviluppo un sorvegliato speciale e che adesso rischia di perdere anche quei pochi diritti ottenuti grazie alle proteste del 2011. Cosa differenzia, dunque, il Marocco dal resto dell’Africa settentrionale? Sono due gli elementi più significativi: la monarchia, almeno formalmente, ha accolto alcune delle istanze della piazza prima che questa si radicalizzasse fino al punto di non ritorno, permettendo che il suo ruolo non venisse messo in discussione e impedendo ai movimenti islamici di inserirsi nei vuoti di potere causati negli altri Paesi dalla caduta del regime. Infine, ma non da meno, la discendenza diretta dal Profeta ha tolto ai movimenti islamici quel ruolo di “guardiani assoluti della fede” che hanno invece potuto e ostentatamente voluto ricoprire altrove. Muhammad VI, infine, ha scelto di gestire la protesta e non di opporsi ad essa. Ad oggi, la sua sembra essere l’unica opzione vincente rimasta.
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L’Islam possibile La Monarchia costituzionale del Marocco è recente, figlia della decolonizzazione del secondo dopoguerra. Istituita nel 1956, quando il Marocco è diventato indipendente dalla Francia, sostituisce l’antico Sultanato ma ne rappresenta la continuità, dato che il Sultano Sidi Mohammed Ben Youssef, che aveva sostenuto l’indipendenza del Paese (e perciò considerato uno dei padri fondatori del Marocco moderno) ne diventò il primo sovrano, con il nome di Mohammed V. L’ascesa al trono di Muhammed VI nel 1999 ha rappresentato un’inversione di tendenza rispetto alla dittatura del padre, Hassan II, anche se il processo di democratizzazione non si può definire ancora completato.
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Caraibi contesi Da anni Nicaragua e Colombia si contendono le acque del Mar dei Caraibi occidentale. Per Bogotà sarà difficile avere la meglio sul governo di Managua
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el 1984 il Nicaragua si rivolse alla Corte Internazionale di Giustizia per chiedere il ritiro delle truppe militari e paramilitari USA dai propri territori, ottenendolo due anni più tardi. Raggiunta l’emancipazione dagli Stati Uniti, il governo di Managua ha cominciato a fare a spallate con i dirimpettai per rimarcare i propri confini in Centro America, bussando a turno alla porta di Honduras, Costa Rica e Colombia e riuscendo sempre a farsi rispettare in sede internazionale. Nel giro di pochi anni il Nicaragua è così diventato un osso duro con il quale è meglio non avere contenziosi. Ne sa qualcosa la Colombia. Il 6 dicembre del 2001 i due Paesi si sono presentati di fronte alla Corte Internazionale di Giustizia per definire le porzioni di Mar dei Caraibi che gli spettano. Il primo round, nel 2007, è andato alla Colombia, a cui è stato riconosciuto il possedimento delle isole di San Andrés, Providencia e Santa Catalina. Il discorso è ripreso il 19 novembre del 2012, con la Corte che ha assegnato alla Colombia anche il gruppo di isolotti delle Siete Cayos, trasferendo però il 43% del perimetro marittimo di sua appartenenza (circa 75mila kmq di mare) al Nicaragua. Il presidente colombiano Juan Manuel Santos non l’ha presa bene e il 28 novembre ha annunciato l’uscita della Colombia dal “Patto di Bogotá”, non riconoscendo, di fatto, il giudizio della Corte sui contenziosi internazionali. A luglio di quest’anno ad agitare ulteriormente le acque ci ha pensato il governo nicaragueno,
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accusato dalla Colombia di aver concesso l’autorizzazione di effettuare delle perlustrazioni a delle compagnie petrolifere in una porzione di mare colombiano, precisamente nella riserva naturale denominata Seaflower (estesa per circa 350mila kmq). Lo scambio di accuse si è tradotto in una generale mobilitazione militare, con navi vendetta delle marine dei due Paesi a presidiare le acque. Gli ultimi numeri dicono che il Nicaragua nel 2013 ha speso molto di più della Colombia per il proprio esercito (67 milioni di dollari contro 14.400). Parlare di imminente conflitto, però, sarebbe precipitoso. Di mezzo c’è il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, a cui il Nicaragua ha già annunciato di appellarsi, forte di uno score che in passato l’ha quasi sempre visto vincitore in dispute internazionali.
L’ARAbA fEnICE DOnnE, SOCIETà E I TAnTI VOLTI DELL’ISLAm
La “generazione Moudawana” Il nuovo femminismo marocchino di Marta Pranzetti
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suo tempo, l’introduzione della riforma del Codice di Famiglia (Moudawana) aveva costituito una storica vittoria per il movimento femminista marocchino rappresentato dalla “Primavera della Democrazia e dell’Uguaglianza”, una coalizione di una trentina di associazioni femminili che si sono battute e si battono per l’emancipazione della donna in Marocco. Sancendo l’uguaglianza e la corresponsabilità tra donna e uomo nella gestione della famiglia, la Moudawana rappresentava nel 2004 una normativa all’avanguardia nell’equiparazione della donna e dell’uomo sul piano legale dei diritti familiari. Rispetto al testo che vigeva dal 1957, il Codice riformato introduceva sostanziali differenze come: l’abolizione del wali (tutore - generalmente il padre o il fratello maggiore
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della sposa, che doveva esprimere il proprio consenso al matrimonio); il divorzio consensuale; la ripartizione dei beni matrimoniali; il diritto materno alla tutela dei figli o al domicilio familiare in caso di divorzio; il vincolo del benestare della donna alla poligamia del marito. Sebbene le stesse associazioni abbiano a suo tempo criticato la mancata informazione sulla divulgazione del Codice (tanto che molti studi hanno documentato un gran numero di donne per niente consapevoli dei loro nuovi acquisiti diritti), le femministe potevano ritenersi soddisfatte dell’obiettivo raggiunto. A dieci anni dalla riforma della Moudawana, però, emergono limiti e difetti di un Codice che ancora incontra resistenze e che, al tempo stesso, non basta più a coprire le esigenze di una società che muta. Oggi numerose associazioni femminili lamentano la mancata applicazione in sede giudiziaria di molte delle leggi previste dal Codice riformato, nonché innumerevoli sotterfugi escogitati per ovviare ad alcuni cavilli giuridici. Il caso più preoccupante riguarda i matrimoni minorili: se con la riforma del 2004 l’età minima per il matrimonio passava dai 15 ai 18 anni, il problema delle spose bambine affligge ancora marcatamente il Paese, in particolare nelle zone meno urbanizzate. Infatti, se la Moudawana autorizza i matrimoni precoci solo in casi “eccezionali”,
è pur vero che oltre il 90% delle domande degli ultimi anni risulta ancora tale. La violenza domestica è l’altro nodo cruciale su cui la società civile continua a battersi: ogni anno, sei milioni di marocchine sono vittime di abusi e il ritardo legislativo in materia cozza fortemente con la rati-
cui decida di sposarla (ragion per cui la sedicenne in questione, prima vittima dell’abuso sessuale e poi promessa sposa del suo molestatore, si tolse la vita). Ma il progetto di legge che il governo islamista di Benkirane aveva promesso in risposta alle polemiche del 2012, è ancora in discussione al Parlamento. Dall’arrivo al potere del Partito di Giustizia e Sviluppo (PJD), le iniziative a favore dei diritti femminili non sembrano essere una priorità.
fica da parte del Marocco della Convenzione internazionale per l’Eliminazione di ogni forma di Discriminazione Contro le Donne (CEDAW), avvenuta nel 1993. Dall’anno scorso è stata fatta molta pressione affinché il governo tenesse conto dell’ingiustificabile vuoto legalislativo in materia di tutela della donna, in particolare dopo le aspre polemiche suscitate dal caso Amina Filali intorno all’Art. 475 del Codice Penale, che permette a un uomo che abbia violentato una donna di scampare alla propria condanna nel caso in
Il recente progetto per promuovere l’uguaglianza di genere presentato da Bassima Hakkaoui (Ministro della Solidarietà, della Famiglia e dello Sviluppo Sociale e unico membro donna dell’attuale governo) ha suscitato qualche critica da parte dell’ambiente femminista più “militante”, che considera il progetto ancora troppo conservatore. Contemplando tra i suoi obiettivi la creazione di un’Autorità per la parità e la lotta contro la discriminazione (come vuole espressamente l’Art. 19 della nuova Costituzione emendata da Mohammed VI nel 2011), il progetto resta carente per quanto attiene alle nuove problematiche - segnatamente sulle questioni di violenza sessuale e aborti clandestini - che emergono con le nuove generazioni man mano che si infrangono i tabù sociali.
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Un LIbRO AL mESE A CURA DI @Roccobellantone
COSì DICOnO Stato di legittimi difesa Obama e la filosofia della guerra al terrorismo di Simone Regazzoni Ponte Alle Grazie 2013 pp. 128 13,00 euro
“
A parte il Regno di Dio, non c’è sulla terra nazione che sia superiore alle altre
”
L’
Obama guerrafondaio delle ultime settimane si sta rivelando una grande delusione per l’elettorato progressista? La risposta è sì, ma chi ha creduto in lui non dovrebbe sentirsi tradito. È questa la tesi sostenuta da Simone Regazzoni, allievo di Derrida e professore di Estetica all’Università di Pavia, nel saggio Stato di legittima difesa, da pochi giorni nelle librerie per Ponte alle Grazie. Per l’autore ciò che sta facendo il presidente americano altro non è se non una radicalizzazione del motto tanto caro al suo predecessore, George W. Bush: “quando si tratta di nemici, meglio uccidere che fare prigionieri”. Un mantra che Obama sta seguendo adesso in Siria, come in passato aveva già fatto in Libia, abbattendo Gheddafi, e in Afghanistan e Pakistan, telecomandando i suoi droni contro i talebani. I suoi sostenitori, però, non devono sentirsi indignati. Perché, secondo Regazzoni, “Obama rappresenta oggi una grande occasione per i progressisti di tutto il mondo: l’occasione di misurare lo scarto tra un discorso progressista in stile WikiLeaks e gli atti politici progressisti che rispondono al reale della congiuntura storica”. Motivo per cui l’America continuerà a fare giustizia per sé e per gli altri, nonostante a guidarli sia un premio Nobel per la Pace.
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hAILé SELASSIé (1892-1975)
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as Tafarì Maconnèn fu negus d’Etiopia col nome di Hailé Selassié I. Noto anche per aver subito la “mobilitazione generale” voluta da Benito Mussolini contro l’Etiopia, l’imperatore abissino fu protagonista d’importanti pagine di storia, tra cui la denuncia alla defunta Società delle Nazioni, circa i crimini di guerra compiuti dall’Italia fascista e, in particolare, circa l’uso da parte dell’esercito di Vittorio Emanuele III di armi chimiche, definite dal negus “fine e mortale pioggia”. Il suo trionfale ritorno ad Addis Abeba nel maggio del 1941, dopo la caduta dell’Africa Orientale Italiana e la restaurazione ad opera degli inglesi, conferirà a Selassié gloria eterna presso il suo popolo. In quell’occasione, conscio dell’importanza del momento, egli dirà alla folla adorante: “Non vi macchiate di atti di crudeltà, così come ha fatto sino all’ultimo istante il vostro avversario. State attenti a non guastare il buon nome dell’Etiopia. Prenderemo le armi al nemico e lo lasceremo ritornare a casa per la stessa via dalla quale è venuto”. Selassié, grazie anche a simili manifestazioni di pragmatismo, regnerà sul suo impero fino alla morte, giunta il 27 agosto del 1975.
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