Lookout magazine n. 0 gennaio 2013

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anno I - n. 0 gennaio 2013

L’inverno delle PRIMAVERE La Sharia in Egitto, il conflitto in Siria e il caos libico. I frutti avvelenati delle rivoluzioni arabe

SIcUREZZA

Elezioni in Egitto |

gEoPolItIcA

Il nuovo corso cinese |

EconoMIA

Il gas del futuro


SPAZIO PUBBLICITARIO DISPONIBILE Per informazioni:

Tel. +39 06 8549343 - segreteria_grisk@grisk.it


SoMMARIo

SIcUREZZA 8 Mi costituisco 12 Perché il regime

non cade 14 Killing machines 16 Nieto cerca consenso

RUbRIchE

con la lotta al narcotraffico 18 Il cortile di Gaza

gEoPolItIcA 22 La via cinese

al capitalismo 26 Roccaforte Af-Pak 28 Kosovo, il confine

36 EconoMIA

36 Shale gas: l’ultima

frontiera

difficile 30 Il mosaico balcanico 32 Il Venezuela aspetta

il nuovo leader

40 Alla ricerca di una

nuova dipendenza 42 Il paradiso

19 dURA lEx Sotto la lente del diritto 20 A dIRE Il VERo... L’analisi di approfondimento 34 l’AnARchIco 2.0 Storie di ordinaria eversione 44 do yoU SPREAd? Voci dal mercato globale 46 PolItIcAMEntE ScoRREtto Quello che gli altri non dicono

dell’energia InoltRE 6 MAPPAMondo

22

48 Un lIbRo Al MESE 48 coSì dIcono

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Il coraggio di scommettere

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uò sembrare strano che un’azienda di security si lanci in un’avventura editoriale. G-Risk Security & Intelligence Services è infatti un’azienda che fornisce in Italia e all’estero servizi di sicurezza e di business intelligence a imprese italiane e straniere spesso operanti in aree calde del mondo. Nel corso degli anni, G-Risk si è dotata di una rete informativa transnazionale e di uno staff di analisti che hanno contribuito a far crescere la cultura della sicurezza in una vasta area imprenditoriale. Da questa esperienza pluriennale nasce oggi LookOut News, un ambizioso progetto editoriale che ci vedrà impegnati a fornire un notiziario quotidiano sugli eventi geopolitici più importanti del mondo, arricchito da un media briefing settimanale e da un magazine mensile, nel quale verranno riversati i frutti di una complessa e articolata ricerca informativa e di analisi. In questo Numero Zero, condividiamo con voi le nostre informazioni e le nostre riflessioni sui principali teatri di crisi sociale e politica internazionale: dall’Egitto al Kosovo, dalla Siria al Pakistan. I riflettori dell’analisi geopolitica vengono poi puntati su Venezuela, Messico e Cina, mentre dai nostri esperti economici vi vengono proposte riflessioni in tema di nuove fonti energetiche e di crisi dell’eurozona. Alcune rubriche fisse completano la lettura e contribuiranno, lo spero, ad aumentare la platea dei lettori. Per affrontare questa avventura, G-Risk ha deciso di arricchire il proprio gruppo di analisti con nuove risorse umane e professionali e ha per questo assunto due giornalisti, un art director e due analiste esperte in relazioni internazionali. Questo mentre il nostro Paese sta attraversando una difficile congiuntura economica che ha pesanti ricadute sulle attività imprenditoriali e sui profili occupazionali. Si è trattato di uno sforzo significativo che sento il dovere di citare perché testimonia di un certo coraggio imprenditoriale, decisamente in controtendenza rispetto a un panorama generale nel quale le ombre sembrano dominare sulle luci. La nostra è una scommessa sul futuro all’insegna dell’ottimismo, che può forse essere utile anche per dimostrare che oggi, in Italia, esistono ancora “capitani coraggiosi” disposti a investire nei giovani e nella cultura.

Mario Mori


Inbox 15-22 dicembre 2012 - l’Egitto al voto per la nuova Costituzione

Anno I - Numero 0 - gennaio 2013 EDITORE G-Risk - CEO Giuseppe De Donno Via Tagliamento, 25 00198 Roma Tel. +39 06 8549343 - Fax +39 06 85344635 segreteria_grisk@grisk.it - www.grisk.it DIRETTORE SCIENTIFICO Mario Mori DIRETTORE EDITORIALE Alfredo Mantici - direttore@lookoutnews.it

DIRETTORE RESPONSABILE Luciano Tirinnanzi redazione@lookoutnews.it REDAZIONE Rocco Bellantone Dario Scittarelli Cristiana Era Marta Pranzetti ART DIRECTION Francesco Verduci In attesa di registrazione presso il Tribunale di Roma

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MAPPAMondo USA: Kerry segretario Secondo fonti interne del Partito Democratico, John Kerry, 69 anni, ex candidato alle presidenziali del 2004, sarà il nuovo segretario di stato degli Stati Uniti. Il suo nome è stato rispolverato dopo la rinuncia dell’ambasciatrice dell’Onu Susan Rice. La politica estera degli Usa nel 2013 è stata un disastro. Il problema è che con Kerry si potrebbe fare ancora peggio.

REgno UnIto: risarcimento milionario Il governo britannico ha accettato di risarcire con 2,2 milioni di sterline Sami Al Sa’di, oppositore del regime di Gheddafi. Nel 2004, in un’operazione congiunta fra Regno Unito, Stati Uniti e Libia, Al Sa’di venne trasferito di forza a Tripoli dove fu incarcerato e torturato. Troppi soldi per la Regina: maledetti yankee.

PRESS RooM “obAMA PERSonA dEll’Anno 2012”

TIME - dicembre 2012 “hollAndE, bAgno dI follA nEl cEntRo dI AlgERI”

Le Figaro - 20 dicembre 2012 “VotAndo PER lA dIVISIonE”

Al Haram - 19 dicembre 2012 “APPRoVAto PIAno PER 2.610 UnItà A gERUSAlEMME ESt”

Jerusalem Post - 19 dicembre 2012

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SUdAn: uccelli spioni Un avvoltoio-spia inviato in Sudan da Israele è stato catturato nella regione occidentale del Darfur. Sul volatile è stata trovata strumentazione alimentata da energia solare, capace di trasmettere informazioni, comprese immagini, via satellite e anche dotata di un GPS. C’erano una volta i piccioni viaggiatori.


ISRAElE: dimissioni al vertice All’indomani dell’incriminazione per frode e abuso di fiducia, il ministro degli Esteri Avigdor Lieberman ha rassegnato le dimissioni. In vista delle elezioni anticipate del 22 gennaio, viene così stravolto il panorama istituzionale israeliano. Meglio tenersi i voti del partito di estrema destra Yisrael Beitenu o disfarsi di un alleato scomodo? A Netanyahu la scelta.

SIRIA: il vice di Assad vuole l’occidente in campo Il vicepresidente siriano, Farouk al-Sharaa, il sunnita di più alto grado nel regime e indicato come possibile leader del dopo Assad, ha affermato di ritenere necessario un coinvolgimento dell’occidente per evitare lo stallo nella guerra. Studia già da capo di Stato o ha dei suggeritori? O entrambe le cose?

gIAPPonE: isterismi sulle isole contese Alta tensione tra Cina e Giappone. Un aereo da ricognizione cinese ha sorvolato le isole contese Senkaku/Diaoyu nel Mar della Cina Orientale. Il Giappone non ci ha pensato su due volte e ha mandato aerei da caccia F-15 per sorvegliare l’arcipelago: nuovo capitolo per i fratelli coltelli.

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SIcUREZZA

Egitto L’esito del referendum sulla costituzione La diaspora dei copti

Siria Il punto sulla guerra civile

USA La “nuova Cia” dei droni

Messico La sfida di Enrique Peña Nieto

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SIcUREZZA

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econdo il diritto internazionale generalmente riconosciuto, la Costituzione di uno stato che si vuole definire “moderno” non può prescindere dal contenere il concetto di laicità. Ma l’Egitto non è uno stato come tanti e di questo prerequisito se ne frega altamente. L’Egitto è il più grande Paese arabo e svolge un ruolo più che centrale nelle politiche che regolano questa parte di mondo. Inoltre, possiede l’esercito più forte tra i Paesi arabi. Fattori questi che, al netto delle ingerenze occidentali, fanno una bella differenza nel Medio Oriente delle primavere. Anche se agli occhi della storia il processo rivoluzionario egiziano ha seguito un iter naturale - destituzione del “tiranno”, nuovi parlamento e presidente, fase costituente e referendum delle future istituzioni - la parabola della primavera egiziana non può certo dirsi conclusa con il varo della Costituzione. Il blitz di Morsi contro la magistratura ha infatti rischiato di compromettere seriamente la

Mi costituisco Il “sì” scontato alla nuova Costituzione evita il caos istituzionale, ma non conclude nemmeno il processo di transizione verso uno stato di diritto. E la Sharia resta la stella polare dell’Egitto, insieme all’esercito

transizione politica mentre l’appoggio del popolo e di numerose forze moderate alla transizione democratica e laica non è bastato. Perché nemmeno nel moderno Egitto la secolarizzazione è facilmente esigibile. Certo, molte altre assemblee costituenti nella storia recente hanno dovuto fare i conti con il

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SIcUREZZA

“fattore religione”. Anche l’Italia - tra l’altro, unico Paese occidentale in cui la maggior parte degli egiziani ha votato a favore della Costituzione di Morsi - ha in parte derogato al principio che fu di Cavour di “libera Chiesa in libero Stato”, permettendo di

fatto alla Chiesa cattolica di avere notevole influenza sulla vita politica nazionale, attraverso la Democrazia Cristiana. Un processo assimilabile, con i dovuti distinguo, a quanto sta accadendo in Egitto: il movimento dei Fratelli Musulmani, tra

Il dizionario I Fratelli Musulmani, o la Fratellanza, è il movimento islamico più antico e diffuso in tutto il mondo arabo. Fondato in Egitto nel 1928 da Hassan Al Banna, segue rigorosamente la legge islamica e persegue la sua piena applicazione, in contrapposizione alla secolarizzazione e all’Occidente corrotto. Al Banna viene assassinato nel 1948, due mesi dopo la morte del premier egiziano Mahmud Fahmi Nokrashi, che aveva ordinato lo scioglimento del movimento. I Fratelli Musulmani divengono illegali in Egitto nel 1954, in seguito all’accusa di aver assassinato Nasser. Da allora, sono considerati illegittimi e perseguitati: nel 1966 l’ideologo del movimento Sayyid Qutb è impiccato e i Fratelli perseguitati. Ma già dagli anni Settanta entrano in politica sotto diversi simboli. Oggi il leader è considerato Muhammad Badi, ottava Guida della Fratellanza. Il loro sito web ufficiale in lingua inglese è www.ikhwanweb.com.

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SIcUREZZA

l’altro illegali nel Paese fino al crollo di Mubarak, oggi sono prepotentemente rientrati in gioco e svolgono un ruolo crescente sotto l’ombrello del partito Giustizia e Libertà. Rispetto al 1971, nella nuova legge suprema ci sono sì dei passi in avanti: in primis, la nascita dello stato di diritto e la circoscrizione del potere del presidente, eleggibile per quattro anni e rieleggibile solo una volta. Ma sta di fatto che la Sharia si conferma la principale fonte legislativa del Paese e la sua interpretazione viene demandata senza appello all’autorità religiosa e, in particolare, agli esperti dell’Università di Al Azhar, il più antico istituto accademico religioso sunnita del mondo islamico. Per quanto oggi Al Azhar rappresenti la parte più moderata dell’islam egiziano - con cui i Fratelli Musulmani sono in aperta contrapposizione - ciò non significa che più avanti dalla Moschea di Al Azhar non possa partire il sostegno all’Islam più radicale. Così, alla fine, l’unica Alla fine, istituzione a vincere l’unica è il potente esercito. istituzione I militari hanno ottea vincere nuto tutto ciò che volevano: nel sistema è il potente costituzionale è stato esercito infatti incorporato il loro sistema giuridico e sono stati mantenuti i loro privilegi. Non solo, l’articolo 198 lascia intatta la possibilità ai militari di giudicare i civili a loro discrezione. Ma tutto ciò era prevedibile. Perché, in fondo, sono loro che hanno provveduto alla destituzione di Mubarak e che oggi garantiscono l’ordine pubblico. Così come furono loro a destituire il re Faruq, a sostenere Nasser, a perseguire la Fratellanza, a difendere Sadat e a respingere Israele nella guerra del Kippur. E non si può immaginare un equilibrio nel Paese senza l’esercito. Né si può escludere che Morsi - il quale si è dimostrato incapace di divenire un nuovo faraone venga sollevato dal suo ruolo, nel momento in cui la situazione si farà più tesa.

La diaspora dei copti

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a notte tra il 9 e il 10 ottobre, al Cairo, si sono verificati violenti scontri tra cristiani, musulmani ed esercito: 24 i morti, oltre 200 i feriti. Si tratta senz’altro di uno degli episodi più gravi avvenuti nel Paese a partire dal 25 gennaio, data d’inizio della “Primavera egiziana”. Le dinamiche di quanto accaduto sono poco chiare, ma sembra che la manifestazione sia partita come un pacifico sit-in davanti alla sede televisione di Stato, nella zona di Maspero, e che sia stato proprio l’esercito ad attaccare i manifestanti cristiani, travolgendo la folla con veicoli militari. I musulmani si sarebbero poi uniti ai copti per contrastare le forze dell’ordine. Come interpretare i recenti scontri del Cairo? Le violenze contro i cristiani hanno subito una brusca impennata dopo il varo della Costituzione provvisoria che, secondo il clero salafita estremista, trasforma di fatto i copti in dhimmis, ovvero in cittadini di seconda categoria. Adesso si teme una grande diaspora dei copti. Questo episodio, se confermato, metterebbe in luce il tentativo - da parte dei militari che controllano l’Egitto ad interim - di creare deliberatamente una situazione di instabilità all’interno del Paese che legittimi il perdurare del loro stesso regime, o che consenta a essi di mantenere una situazione di dominanza nel futuro della nazione. E quale modo migliore se non creare ad hoc un “nemico cristiano” cui attribuire la causa della mancata realizzazione delle tanto agognate riforme, di quel rinnovamento che era l’essenza stessa dei moti del 25 gennaio? Del resto, i copti occupano da sempre un ruolo preminente all’interno della società egiziana: professionisti e uomini d’affari affermati contro cui è facile convogliare il malcontento popolare. E, proprio per questo motivo, essi costituiscono un pilastro dell’economia egiziana: cosa accadrebbe, dunque, se la maggioranza di essi abbandonasse il Paese?

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Perché il regime non cade Nonostante la guerra civile sia alimentata dai dissidi tra la minoranza alawita al potere e la maggioranza sunnita, la natura del conflitto siriano resta prettamente economica

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a guerra civile siriana vede principalmente contrapposti gli alawiti minoranza che governa il Paese da oltre quarant’anni - e i sunniti, che costituiscono la maggioranza della popolazione. Si tratta di due comunità religiose, ma è bene chiarire subito che la natura del conflitto non è confessionale, ma economica. Infatti, tutti i settori nevralgici della vita

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del Paese - dalla politica alle alte sfere militari, fino al sistema produttivo e alle telecomunicazioni - sono controllati dalla minoranza alawita. La maggioranza sunnita - se si escludono le famiglie di imprenditori si trova invece in una posizione di totale


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La storia degli Assad

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a famiglia Assad sale al potere nel 1970 con un colpo di stato ad opera di Hafez Assad, già Ministro della Difesa dal 1966. Hafez è quindi Primo Ministro dal 1970 al 1971 e Presidente dal 1971 al 2000. Alla morte di Hafez, nel 2000, la presidenza viene ereditata dal figlio Bashar Assad. Con il colpo di stato del 1970 si sono invertiti i rapporti di forza tra sunniti - da sempre gruppo dominante nella regione - e alawiti, passati da perseguitati a persecutori.

sudditanza. Bisogna tuttavia considerare che il pugno di ferro del regime, nonché l’impostazione laica e socialista conferita alla Siria dagli Assad, ha avuto, negli anni, il merito di ridurre al minimo la conflittualità all’interno della nazione. È per questo motivo che oggi molte minoranze, come i cristiani e i drusi, temendo di diventare vittime di un conflitto settario, qualora i sunniti - e con loro i Fratelli Musulmani - dovessero salire al potere, continuano a essere in favore del regime. Ma anche le famiglie sunnite, che hanno dato vita ad attività nel commercio e nell’industria, vedendo qualsiasi cambiamento come una minaccia ai privilegi acquisiti durante il regime alawita, sono schierate con gli Assad. Sul versante militare, poi, se è pur vero che le truppe sono in prevalenza sunnite, va tenuto presente che le loro sorti sono legate al mantenimento

Il Qatar e l’Arabia Saudita sono in prima linea nel sostenere la ribellione contro gli Assad

in vita del regime stesso. Quinquindi con diritto di veto), di, malgrado le numerose dehanno bocciato la risoluzione fezioni, molti soldati, sebbeproposta dalla Lega Araba per ne sunniti, continuano a diallontanare Bashar Assad e fendere la minoranza alawita portare la Siria alle sue prime al potere. Sul fronte internazionale, il Qatar e l’Arabia I gRUPPI Saudita sono in prima liRElIgIoSI nea nel sostenere la ribellione contro gli AsIn SIRIA sad, finanziando riforni74% Sunniti (17 milioni) menti di armi all’opposizione siriana nel tentati12% Alawiti (3 milioni) vo di limitare l’ascesa ira10% cristiani (2 milioni) niana nella regione. Fondamentale, inoltre, è 4% drusi (1 milione) il ruolo della Turchia, che, offrendo asilo ai disertori dell’esercito siriano, ha libere elezioni. La Repubblica reso possibile la costituzione Islamica è invece legata al regidella Free Syrian Army, che dalme degli Assad attraverso una l’ottobre 2011 conduce azioni solida alleanza nata nel 1980 in militari in difesa delle principaseguito all’invasione irachena li città ribelli, come Hama e dell’Iran. Nel fallimento della Homs. missione di peacekeeping Al lato opposto dello scacchiedell’ONU (aprile-agosto 2012) re sono posizionate Russia, Ciè proprio la Repubblica Islamina e la Repubblica Islamica delca - che, attraverso la Siria, forl’Iran. La Russia - oltre a forninisce supporto a Hezbollah in re armi e missili alle forze alawiLibano e ad Hamas nella Strite - vuole mantenere l’accesso scia di Gaza - a costituire l’ostaal porto di Tartus, unico sbocco colo principale a un intervensul Mediterraneo per la sua to internazionale decisivo conflotta. Russia e Cina, nel febbratro gli Assad, insieme alla preio 2012, in veste di membri persenza di numerose formazioni manenti del Consiglio di Sicujihadiste schierate dalla parte rezza delle Nazioni Unite (e dei ribelli. LOOKOUT n. 0 gennaio 2013

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Killing machines Il premio Nobel Barack Obama, la guerra preventiva della “nuova CIA” e i dubbi dell’ONU sull’ultimo gadget della guerra tecnologica, i droni. Si combatte così il terrorismo?

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inalmente i solerti guardiani dei diritti umani delle Nazioni Unite si sono resi conto che la licenza di uccidere che i presidenti degli Stati Uniti, George W. Bush prima e Barack Obama poi (quest’ultimo premio Nobel per la pace), si sono auto assegnati nell’ambito della guerra al terrorismo forse presenta problemi di liceità in termini di diritto internazionale. Alla fine dello scorso mese di ottobre, l’Osservatorio speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani e sull’antiterrorismo ha avviato un’inchiesta sulle esecuzioni

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“mirate” di terroristi o “nemici degli Stati Uniti” che, su ordine diretto del presidente, la CIA e il Comando delle Forze Speciali compiono ormai da ann, in varie parti del mondo. Lo strumento di queste esecuzioni è il “drone”, l’ultimo gadget della guerra tecnologica, che, comandato a distanza con un joystick, consente di colpire con discreta precisione un nemico annidato in qualsiasi parte del mondo. La guerra al terrorismo dichiarata dagli Stati Uniti dopo l’undici settembre 2001 ha provocato l’adozione di misure che, con l’andare del tempo e il raffreddamento delle emozioni

collettive, cominciano a destare dubbi e perplessità di natura politica e giuridica in settori sempre più ampi della società americana e delle istituzioni internazionali. Le uccisioni con i droni hanno sollevato negli USA obiezioni di costituzionalità anche perché in alcuni casi sono stati colpiti cittadini americani che, di fatto, sono stati condannati alla pena capitale non da una corte di giustizia, ma direttamente e senza processo dal presidente degli Stati Uniti. Ha fatto discutere ad esempio l’uccisione di Anwar Al Maliki, cittadino americano divenuto capo operativo di Al


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Qaeda nella Penisola arabica (AQAP), colpito da un drone nello Yemen nel settembre 2011. Un precedente pericoloso per una decisione così drastica: la morte decisa a distanza e inflitta al di fuori di un contesto bellico immediato, senza alcuna tutela dei diritti costituzionali di cui dovrebbero godere i cittadini americani (non ci domandiamo neanche quali siano, nell’ambito di questa dottrina, i diritti dei cittadini non americani). La continua escalation della guerra dei droni ha portato anche a una drastica modificazione della struttura e della filosofia operativa della CIA che, sotto la guida del generale Petreaus, si è trasformata progressivamente da organismo di intelligence in struttura paramilitare (una “killing machine”, secondo una fonte del Pentagono citata dalla Washington Post) che impiega circa duemila funzionari nella gestione dei droni e il 20% dei suoi analisti nella selezione dei bersagli. La “nuova CIA” e l’amministrazione Obama oggi sono sotto la lente di Ben Emerson, direttore dell’Osservatorio speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani e sull’antiterrorismo. La reazione di Washington a questa

inchiesta è stata immediata: una task force di giuristi della Casa Bianca e della CIA è stata messa all’opera per trovare sia pur tardivamente - una copertura giuridica alle uccisioni mirate e tracciare le nuove linee guida della guerra dei droni, un pratica spregiudicata che, se ha conseguito indubbi successi nella liquidazione di soggetti pericolosi, non appare sostenuta da solide basi etiche e di diritto, interno e internazionale, neanche agli occhi degli osservatori più benevoli. Passata l’emergenza e l’emozione dell’11 settembre è forse il momento di chiedersi: si può combattere il male con il male? Quando si tratta di combattere il terrorismo si possono sospendere a tempo indeterminato leggi e diritti costituzionali? Chi stabilisce tempi e modi? Il presidente degli Stati Uniti ha poteri di natura eccezionale all’interno del suo Paese e fuori dai suoi confini? Non sono domande facili, ma per dare una prima risposta può essere utile citare l’esperienza italiana nella lotta al terrorismo. Per trent’anni, l’Italia ha contrastato e combattuto il terrorismo interno e internazionale con strumenti ordinari e straordinari che non sono mai usciti dai confini della Costituzione repubblicana e dei suoi codici. La battaglia contro il terrorismo è stata combattuta e vinta senza prendere pericolose scorciatoie operative e giuridiche e senza trasformare gli apparati di sicurezza italiani in “killing machines”.

La guerra dal cielo

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uso di questi piccoli apparecchi senza pilota, in grado di lanciare missili teleguidati Hellfire, senza essere scoperti né dai radar né dalle vittime, ha subito negli ultimi anni una notevole espansione. Nel 2011 circa 600 terroristi (o presunti tali) sono stati eliminati in Afghanistan, Pakistan, Yemen, Somalia, Sudan e Nigeria. Si sono registrati errori o incidenti che hanno causato “danni collaterali” e cioè vittime tra civili colpiti per sbaglio o perché al momento dell’azione si trovavano nelle vicinanze degli obiettivi (le cosiddette “CIVCASS”, ovvero civilian casualties). Nel novembre dello scorso anno destò scalpore l’uccisione di venticinque soldati pakistani ad opera di un drone della CIA, che li aveva scambiati per talebani, un episodio che ha causato una tensione senza precedenti tra Washington e Islamabad. Nel 2012 le esecuzioni mirate sono proseguite di buona lena: le stime ufficiali parlano di 300 obiettivi colpiti nei primi dieci mesi dell’anno.

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Nieto cerca consenso con la lotta al narcotraffico Il neopresidente del PRI ha ingaggiato il generale colombiano Oscar Naranjo per allentare il tasso di criminalità nel Paese

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n Messico esistono gravi problemi di sicurezza, violenza e criminalità. I governi che si sono succeduti nell’amministrazione della lotta contro questo fenomeno hanno raggiunto risultati modesti e in alcuni casi controproducenti in

mandato, nel dicembre del 2006, l’ex presidente messicano aveva intrapreso una lotta aperta contro il crimine organizzato, che però come risultato ha prodotto un centinaio di migliaia di vittime in tutto il Paese. Ridurre queste cifre è la grande sfida che adesso il nuovo

giornalista e analista politico messicano Jorge Zepeda – spinge a un presidenzialismo fermo. È una posizione netta contro quei governatori panisti che in questi anni si sono convertiti in signori feudali, contro quegli impresari che sono diventati più potenti dello Stato e contro

Cosa eredita il presidente - Il tasso di omicidi è dell’11,5%. Solo un delitto su cinque viene denunciato; - Gli omicidi annui legati al crimine organizzato sono passati dai 3mila del 2007 a più di 15mila nel 2010; - Negli ultimi tre anni gli omicidi di giovani tra i 25 e i 29 anni sono passati dal 26 al 41%; - Nell’ultimo anno sono stati effettuati circa 20mila sequestri di stranieri; - Ogni giorno dal Messico arrivano negli Usa circa 2mila armi al giorno; - Tra il 2004 e il 2010 i quattro reati maggiormente commessi dai narcotrafficanti sono: estorsione, rapimento, rapine in banche e assalti a veicoli.

ambito elettorale. Per molti analisti la strategia di sicurezza del governo di Felipe Calderón è la ragione del fallimento del PAN (Partito Azione Nazionale) alle elezioni presidenziali del 2012. All’inizio del suo

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presidente del Messico, Enrique Peña Nieto del PRI (Partito Rivoluzionario Istituzionale), è chiamato ad affrontare. La sfida più importante per il neopresidente è la lotta al narcotraffico. «La società - spiega il

la cerchia di leader sindacali irremovibili. Tutti vogliono un arbitro che regoli questo caos. In questo scenario, Peña Nieto potrebbe essere un democratico nonostante sé stesso». Nieto qualche mese fa ha ingaggiato


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il generale colombiano Oscar Naranjo, che nel suo curriculum vanta più di trent’anni di servizio nella sicurezza del suo Paese combattendo il narcotraffico e la guerrilla. La scelta è stata però vista con sospetto dall’opinione pubblica messicana, dall’esercito e dalla politica, che non si fidano di uno “straniero” che, fra l’altro, gode anche della piena fiducia dell’UE. Per diminuire la violenza e aumentare la protezione dei cittadini, Naranjo ha posto una condizione necessaria: fare della lotta al narcotraffico un affare di Stato e non di partito, in modo da generare consenso nazionale. Da fonti vicine al nuove presidente è emerso che verrà creata una sottosegreteria dell’Interno da cui dipenderà un’agenzia che farà da tramite tra tutte le corporazioni della sicurezza, compresa quella federale. In questa sezione opererà la gendarmeria, le cui funzioni verranno rese note una volta che verranno formalizzate ufficialmente tutte le implementazioni del sistema. In quest’ambito è previsto inoltre che la “Piattaforma Messico” passerà sotto il comando di questa agenzia, al fine di incanalare in un’unica direzione tutte le informazioni dei diversi organi di sicurezza nazionale, vale a dire la Procura Generale della Repubblica, la Segreteria della Marina e la Segreteria per la Difesa Nazionale. Si sta discutendo, infine, della possibilità di inserire la figura di un comando unico a livello statale, che risponderebbe direttamente al governo.

La svolta verso l’Iberoamerica

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l Messico di oggi è un lontano parente di quello di vent’anni fa. Nei primi anni Novanta, il presidente Ernesto Zedillo, che all’epoca militava ancora nel PRI (Partito Rivoluzionario Istituzionale), cercò di applicare un’agenda riformista. Il suo piano però fallì a causa della crisi economica del 1994, che portò il governo alla perdita della maggioranza nelle camere e a subire una pesante sconfitta alle elezioni legislative del 1997. E così, quel Messico che negli anni Ottanta era la prima economia dell’America Latina, oggi

ha dovuto cedere il primato all’ascesa del Brasile. Sotto Vincente Fox (20002006) e Feliper Calderón (2006-2012), entrambi panisti, il Paese ha voltato le spalle all’area iberoamericana. Adesso, invece, lo scenario sembra cambiato. Prima di recarsi in visita ufficiale negli Stati Uniti, Peña Nieto è infatti andato in Guatemala, Colombia, Brasile, Argentina e Perù. Il suo principale interesse, quindi, è sviluppare l’Alleanza del Pacifico e di fare di Città del Messico la capitale politica del mondo di lingua castigliana.

I cARtEllI dEllA dRogA In MESSIco

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SIcUREZZA

Il cortile Donne e internet in Medio Oriente di Gaza I Tutto il mondo è paese: questo adagio vale anche per il Medio Oriente, dove i giovani cercano solo la normalità e poco gl’interessano i sofismi delle Nazioni Unite

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entre Hillary Clinton sviene per non testimoniare davanti alla Commissione Esteri del Senato sugli attacchi a Bengasi. Mentre al Cairo vince la Costituzione di un presidente già ridimensionato dall’esercito. Mentre la Turchia schiera al confine siriano i Patriot e la Palestina sospende il lancio di missili ridicoli per vedersi riconosciuto dall’ONU, Israele avvia la costruzione di nuove unità abitative a Gerusalemme Est. Vista così, la politica nel Medio Oriente sembra davvero un compendio di dispetti reciproci tra attori consumati e senza più stimoli, che

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n Libano il 68% delle donne naviga su internet più di sette ore a settimana, lavoro escluso. Seguono gli Emirati Arabi (55%), Kuwait (53%), Egitto (50%), Qatar (47%), Arabia Saudita e Giordania (44%), Bahrain (42%), Siria (34%) e Oman (30%). Il 91% delle libanesi, l'80% delle egiziane, il 78% delle emiratine hanno un account sul social network. (Fonte: anaZahra.com) portano avanti stancamente un gioco di potere in cui sono rimasti ingabbiati tanto tempo fa. Questa regione sembra infatti inscenare giorno dopo giorno una sceneggiatura retriva che qualcun altro ha scritto per lei, senza riuscire a comprendere più il senso di ciò che sta recitando. Se gli USA non hanno più una “visione” né una chiara politica estera sul MO, nemmeno i comprimari e le altre comparse sanno più cosa è bene fare. Israele e Palestina sono attestate sullo status quo e nessuno ha intenzione di cedere, come al solito. Assad non può che resistere fino alla morte, come si conviene per ogni capitolo finale di una dittatura, mentre la Turchia continua a inseguire quel ruolo da protagonista che non possiede più dai tempi della Persia. Ma i governi di questi Paesi, ormai vittime del proprio ruolo, non hanno più alcun appeal da parte del loro “pubblico”, ossia i cittadini. Se la primavera araba ci ha insegnato qualcosa,

è che la grande gioventù islamica al tempo di internet vuole solo quello che i loro coetanei d’America, Europa (e, in parte, dell’Asia) già possiedono: una normalità borghese. E a nulla serviranno il radicalizzarsi di posizioni ideologiche. Considerato poi che l’età media in Palestina, Egitto e Siria è intorno ai 23 anni (in Italia, tanto per dire, è di 44), si capisce come il sogno di questi giovani non sia la supremazia territoriale ma una stabilità economica che permetta di vivere come la maggior parte dei loro coetanei d’occidente. insomma, religione e patria restano fattori culturalmente rilevanti, ma preferiscono aumentare la connessione internet piuttosto che i confini.


dURA lEx Sotto lA lEntE dEl dIRItto di Draconian

Palestina, diritti e doveri

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n occasione del 65esimo anniversario della Risoluzione 181 che approvava il Piano di partizione della Palestina, l’Autorità Nazionale Palestinese ha chiesto e ottenuto all’ONU l’upgrade da semplice “entità” a “stato non membro osservatore permanente”. È stata, dunque, accantonata l’idea di presentare richiesta di ammissione come nuovo Stato membro, in quanto la stessa avrebbe dovuto ottenere prima del voto favorevole dei due terzi dell’Assemblea generale - la previa approvazione del Consiglio di sicurezza, con voto positivo di almeno 9 dei 15 Stati componenti e nessun voto contrario degli Stati con diritto di veto: UK, Francia, Cina, Russia e gli “intransigenti” USA. Ciò, peraltro, non avrebbe comunque comportato la piena qualificazione della Palestina come Stato in quanto, per il diritto internazionale, requisiti della statualità sono: il territorio, la popolazione e l’esercizio effettivo di un’autorità indipendente e sovrana. L’ANP dall’ottobre 1974 aveva visto l’OLP (Organizzazione per la liberazione della Palestina)

rappresentare il popolo palestinese nel ruolo di “osservatore” anche in numerosi organi dell’ONU e poi ottenere il riconoscimento della proclamazione dello Stato della Palestina ad opera della Risoluzione del 15 dicembre 1988. Questo aveva comportato la variazione della denominazione “OLP” in “Palestina” e condotto, dieci anni dopo, a veder concessi diritti e prerogative ulteriori rispetto a quelli di entità osservatrice. Dunque, nel suo nuovo status di “nonmember Observer State”, avrà maggiori diritti ma anche maggiori responsabilità. Potrà, infatti, diventare membro di organizzazioni e prendere parte a convenzioni internazionali, comprese quelle sui diritti umani, nonché garantirsi l’accesso ai tribunali internazionali: - alla Corte internazionale di Giustizia, attraverso un riconoscimento della sua giurisdizione, che costituirebbe il presupposto ineludibile perché la Palestina diventi interlocutore anche del principale organo giudiziario dell’ONU; - alla Corte penale internazionale, organo permanente, indipendente dalle Nazioni Unite, di cui l’ANP ha riconosciuto la giurisdizione per eventuali crimini internazionali commessi sul proprio territorio a partire dal primo luglio 2002, compresi i presunti crimini commessi dalle forze israeliane durante l’“Operazione Piombo Fuso” di fine 2008 e la questione ancora attuale degli insediamenti nella Westbank. Sul fronte delle responsabilità, consistendo l’ottenuto riconoscimento in un’iniziativa unilaterale che contravviene agli Accordi di Oslo del 1993, questi ultimi potrebbero essere dichiarati non validi e, dunque, revocati. Così come il nuovo Stato osservatore non potrà esimersi da importanti implicazioni in materia di prevenzione del terrorismo e delle violazioni di diritti umani. redazione@lookout-magazine.it

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A dIRE Il VERo... l’AnAlISI dI APPRofondIMEnto di Il Grigio

L’ipocrisia delle cancellerie occidentali sulle primavere

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e diplomazie e i media occidentali, fin dalla fine della Seconda guerra mondiale, quando sul versante ovest del mondo è diventata dominante nelle relazioni internazionali la linea tracciata dal Dipartimento di Stato americano, hanno osservato e descritto le rivoluzioni che si sono susseguite nel pianeta con strumenti di analisi spesso semplicistici e manichei. A parte il pensiero dominante sui “nemici dei miei nemici” che diventano automaticamente “miei amici”, l’atteggiamento prevalente, specialmente nel nuovo secolo, è stato il seguente: se il dittatore di turno ha il suo nome scritto sulla parte della lavagna riservata ai cattivi, allora i ribelli che lo vogliono abbattere diventano

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automaticamente dei buoni. Il corollario altrettanto semplicistico e fuorviante che ne discende recita quindi che, chi lavora per abbattere una dittatura, diventa necessariamente un combattente per la democrazia. Il risultato di questo approccio - che forse nasconde atteggiamenti non innocenti di neo colonialismo falsamente paternalista - li vediamo oggi nell’imbarazzo che domina le cancellerie e le redazioni dei media occidentali, quando si analizzano e si valutano i risultati e gli effetti di quelle rivolte che forse troppo frettolosamente sono state etichettate come “primavere arabe”. Ad esempio, siamo sicuri che in Libia e in Egitto abbiano realmente vinto i buoni? Siamo altrettanto sicuri che oggi in Siria chi combatte contro la “tirannia” degli Assad sia da considerarsi un sincero democratico? No. Non ne siamo affatto sicuri. Mentre la nostra diplomazia tace prudentemente sull’improvvisa ma non imprevedibile involuzione autoritaria della “primavera egiziana”, il Dipartimento di Stato USA esprime prudenti preoccupazioni per la svolta antidemocratica imposta all’Egitto dal presidente Morsi che, seppur eletto dal suffragio popolare, di fronte alle prime difficoltà imposte dalla dialettica democratica, ha pensato bene di attribuirsi, motu proprio, poteri dittatoriali. In Siria, Assad continua a resistere ai tentativi di abbatterlo da parte di una Free Syrian Army dominata dall’estremismo sunnita, perché ha il sostegno, oltre che della Russia, delle comunità alawite, cristiane e druse che combattono al suo fianco. Nella certezza che, in caso di vittoria degli islamisti (e dei qaedisti che li affiancano), la


pulizia etnica e religiosa che ne seguirebbe farebbe impallidire il ricordo delle stragi che finora hanno segnato la “primavera siriana”. In una lettera inviata a Gian Micalessin, inviato speciale del Giornale, un quarantaduenne cristiano di Damasco, Saaman Daud, descritto come «persona mite ed educata», scrive all’indomani dell’ennesima strage compiuta dagli islamisti in un quartiere cristianodruso della Capitale siriana, che «l’occidente, Italia compresa, non vuole più ascoltare la nostra storia, non vuole più guardare l’altra faccia della verità». E qual è l’altra faccia della verità? Quella di una fuga di massa di alawiti, cristiani e drusi che abbandonano il loro Paese (come stanno facendo i copti d’Egitto) sotto la spinta degli attentati e delle minacce degli islamisti e del timore del bagno di sangue che potrebbe verificarsi all’indomani di una vittoria degli insorti, magari grazie a un “aiutino” occidentale. Tutto questo non cancella le responsabilità storiche e i crimini degli Assad. Ma suggerisce che, di fronte alla crisi siriana così come di fronte a tutte le crisi attuali e potenziali di uno scacchiere ricco di risorse - che vede contrapposti non certo sostenitori della democrazia contro fanatici del totalitarismo quegli stessi attori internazionali (da Stati Uniti e Inghilterra, fino a Francia e Italia) che già si sono lanciati in un’avventura militare per “portare la democrazia” a Tripoli e i cui risultati inadeguati (per dirla blandamente) sono oggi sotto i

nostri occhi, debbano riflettere con rigore e cautela, prima di intervenire pesantemente - a Tripoli come al Cairo - a favore dei presunti democratici che sembrano mirare soltanto a imporre una dura rule of law di matrice islamista e anti liberale. direttore@lookoutnews.it

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Santa Sede Lo Stato della Città del Vaticano è sorto con il Trattato Lateranense, firmato l’11 febbraio 1929 tra la Santa Sede e l’Italia, che ne ha sancito la personalità di Ente sovrano di diritto pubblico internazionale, I risultati costituito per assicurare alla Santa Sede, nella18° Congresso del sua qualità di suprema istituzione

Cina

Chi resta e chi va

Pakistan Haqqani, l’ago della bilancia

Kosovo Un’indipendenza a metà

Serbia Le difficoltà politiche e amministrative

Venezuela Discutendo della leadership 22

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a storia della Cina del XX secolo dimostra che questo Paese possiede dei valori profondamente diversi da quelli occidentali, non solo nella gestione della cosa pubblica. Anzitutto, la sua cultura non contempla la religiosità né l’idea di trascendenza ma è invece fortemente materialista e ha come guida la natura. Nella mentalità cinese, inoltre, una cosa comprende l’altra, proprio come per lo yin e lo yang. Si rifiutano, cioè, le opposizioni: dicotomie come bene-male o buoni-cattivi non si adattano affatto al modus vivendi (e operandi) della Repubblica Popolare. Ora, se applichiamo questo concetto alla politica del Partito Comunista Cinese, possiamo arrivare ad affermare che i cinesi non credono in un’antitesi inconciliabile fra occidente e oriente, dalla quale in futuro potrebbe discendere solo un conflitto. Il comunismo cinese,

La via cinese al capitalismo La grande sfida della Cina odierna è la transizione politica del Paese, che deve conciliare una difficile armonizzazione interna con un maggior dialogo verso l’esterno. Anche a questo è servito il 18esimo Congresso Nazionale del PCC

insomma, non si comporta come il comunismo russo, che applicava la strategia delle opposte fazioni al fine di gestire il proprio potere. Né come la politica estera statunitense, che ancora oggi vede nell’America il bene e nei nemici del suo interesse il male “assoluto”. La Cina ha ormai imparato a confrontarsi con gli occidentali e, attraverso le armi dell’economia ben più potenti e pervasive dei

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Il dizionario Il Partito Comunista Cinese nasce nel 1921 dopo lo scoppio della Rivoluzione d’ottobre. Nel 1949, a seguito della sconfitta nella guerra civile del partito nazionalista Guodmindang di Chiang Kai-shek, diventa il partito unico di governo della Repubblica Popolare Cinese. La figura storica è Mao Tse-tung, in carica dal 1943 al 1976, anno della sua morte. Dopo il 1978 il partito abbandona l’ideologia marxista ortodossa per il socialismo cinese, aprendosi all’economia di mercato. Oggi il PCC è il più grande partito politico del mondo con circa ottanta milioni di membri.

missili e degli eserciti - può confrontarsi alla pari, aprendosi al dialogo senza timore. Questo è uno dei due temi centrali che il governo, e dunque il Partito, stanno affrontando per riuscire a gestire quella riforma politica che è stata promessa e discussa approfonditamente lo scorso novembre, durante il 18esimo Congresso Nazionale del PCC. Come ha ben sottolineato il sinologo Francesco Sisci*: «Le differenze nei sistemi politici moltiplicano motivi di diffidenza e incomprensione e potrebbero facilmente portare a scontri,

fratture economiche e guerre. Certamente, vi sono alcune cose che il mondo può imparare dalla Cina ma, dal momento che il mondo è stato dominato e governato per gli ultimi trecento anni da regole e idee occidentali, è praticamente impossibile che nei prossimi trent’anni il mondo possa accettare le regole di origine cinese». La conseguenza, per Sisci, è che «l’armonizzazione della Cina e del mondo deve avvenire in gran parte secondo le norme occidentali». Ciò non significa però che la transizione democratica della

Il repulisti mandarino

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l cambio della guardia ai vertici del Partito Comunista Cinese ha dato il via a una serie di licenziamenti di funzionari della sicurezza di partito. C’è preoccupazione, in particolare, per il lavoro della Commissione centrale per il controllo della disciplina, di cui oggi è a capo Wang Qishan, membro del Comitato

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Cina debba rispecchiare quella occidentale. Né la democrazia va confusa con il voto nelle urne (altrimenti, dovremmo affermare che la più grande democrazia al mondo è l’India). Comunque, è al proprio interno che la Cina deve guardare per prima cosa. Studiando l’occidente, la Cina pare in effetti aver trovato una soluzione per armonizzare il rapporto tra istituzioni e popolo, dimostrando di aver capito l’importanza del “soft power”, ovvero del potere morbido. Oggi il deterrente non possono

permanente dell’Ufficio politico del Comitato Centrale del PCC. La Commissione sta infatti investigando sulla presunta corruzione di alcuni deputati, tra cui Li Chuncheng, considerato molto vicino a Zhou Yongkang, già nei servizi speciali cinesi e amico di Bo Xilai. L’indagine potrebbe costar cara anche a Meng Jianzhu, il nuovo segretario del Comitato per gli Affari Politici e Legislativi (PLAC), che sovrintende i servizi di intelligence, molto vicino a Zhou.


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più essere gli armamenti, ma l’accondiscendenza. Verso il proprio popolo innanzitutto, che solo nella distribuzione del benessere può trovare le ragioni per continuare a sottostare al governo e tollerare il Partito senza ribellarsi. E in tal senso, la nuova dirigenza sta affrontando una vera opera di restyling che, unitamente alla percezione di una maggiore moderazione, potrà giustificare la guida del Partito comunista in Cina ancora per lungo tempo. Il make up del PCC avvenuto durante il Congresso, al di là delle nomine e del rinnovamento dei dirigenti, è stato infatti volutamente improntato alla sobrietà. A cominciare da Xi Jinping, che ha inaugurato un nuovo stile, eliminando cerimoniali pomposi, striscioni, bandiere, tappeti rossi e tutte quelle dimostrazioni di sfarzo inappropriato in un Paese dove gli scandali legati alla corruzione dei dirigenti di partito sono ormai mal digeriti dal popolo e potrebbero innescare reazioni popolari dall’esito imprevedibile. Del resto, anche Mao Tse-tung, reinterpretando la dottrina bolscevica vinse la rivoluzione comunista convincendo i contadini e non il proletariato operaio, visto che quest’ultimo non raggiungeva il 10% della popolazione. Oggi che invece per la prima volta la popolazione urbana si è fatta più numerosa ed esigente, è giunto il momento di accontentarla, trovando una “via cinese” verso una forma di capitalismo orientale. * corrispondente dalla Cina per Il Sole 24 Ore

Il XVIII Congresso del Partito Comunista Cinese

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i Jinping è stato eletto nuovo segretario del Partito. Xi guiderà il nuovo Comitato Permanente del Politburo (Ufficio Politico), che passa da 9 a 7 membri e annovera: il vice-premier Li Keqiang (da marzo, nuovo primo ministro); Zhang Dejiang, con studi in Nordcorea; Yu Zhengsheng, capo del Partito a Shanghai; Liu Yunshan, capo della propaganda; Wang Qishan, della Commissione disciplinare; Zhang Gaoli, capo di Tianjin. Nel Comitato Centrale (ma non nel Comitato Permanente)

figurano anche: Wang Yang, segretario del Guangdong considerato un riformista; Li Yuanchao, capo dell’organizzazione; Liu Yandong, ritenuta a buon diritto la donna più influente del Partito (questi ultimi due sono molto vicini al dimissionario Hu Jintao). Nello statuto del PCC sono stati mantenuti i riferimenti alle teorie di Marx, Lenin, Mao Tze-tung, Deng Xiaoping e Jiang Zemin, ed è stato aggiunto il lascito teorico del decennio di Hu Jintao: sviluppo scientifico, pace sociale, crescita sostenibile e welfare state.

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Roccaforte Af-Pak

Gli Haqqani hanno in mano le chiavi della pace, e possono fermare l’instabilità della regione atraverso un processo displomatico

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embri della rete Haqqani, l’organizzazione criminale e terroristica afghana che trova rifugio e protezione in Pakistan nelle aree tribali del nord Waziristan al confine con l’Afghanistan, si sono detti disposti a partecipare ai negoziati di pace con gli Stati Uniti. Gli Haqqani sono responsabili dell’omicidio dell’ex Presidente afghano Burhanuddin Rabbani, degli attacchi dell’aprile 2012 alle ambasciate e al 26

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quartier generale NATO in Afghanistan e del giugno 2011 al Continental Hotel alle porte di Kabul. Il Pentagono stima che il nucleo intransigente sia composto dai 2mila ai 4mila militanti. In perfetto stile mafioso - il New York Times li ha definiti i “Sopranos” dell’Afghanistan - gli Haqqani si finanziano con il traffico


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di droga, rapimenti, estorsioni, oltre a donazioni e finanziamenti erogati soprattutto dagli Emirati e dall’Arabia Saudita. L’annuncio segue di poco le dichiarazioni di Kabul sull’impossibilità di trattare con gli Haqqani, ritenuti responsabili di attacchi contro il governo e le forze armate afghane, oltre che di aver costituito una rete di spionaggio al servizio di un paese straniero, con chiaro riferimento al Pakistan. I rapporti AfghanistanPakistan, in effetti, passano anche attraverso la famiglia Haqqani che rappresenterà una sfida per il dopo-2014. Gli Haqqani fanno parte a tutti gli effetti del movimento talebano, del quale rappresentano probabilmente la componente meglio organizzata. Jalaluddin Haqqani, il loro leader e capofamiglia, era infatti membro del governo afghano dei talebani. Il gruppo, d’altronde, fa parte della stessa cultura afghana, appartenendo a una delle tribù radicate nel sud est del Paese - gli Zadran dove hanno ancora un largo seguito, con la possibilità di controllare vaste aree afghane ed esercitare una significativa influenza sui futuri equilibri interni. Lo sanno bene i servizi di intelligence pakistani, che da anni mantengono forti legami con la leadership della rete garantendole protezione sul proprio territorio. Questi legami, ormai ampiamente comprovati da documenti e intercettazioni, rappresentano per Islamabad una leva di potere sulla politica del filo-occidentale Karzai, che sta avviando relazioni sempre

I “Sopranos” d’Afghanistan

La foto segnaletica di Sirajuddin Haqqani diffusa dall’FBI (taglia da 5 milioni di dollari)

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a rete, legata ai talebani, ad Al Qaeda e all’intelligence pakistana, nasce in Afghanistan verso la metà degli anni Settanta come gruppo di mujaheddin per combattere l’occupazione sovietica. Finanziato dalla CIA negli anni Ottanta e Novanta, ha la sua roccaforte a Miranshah, nel nord Waziristan. Il leader è Jalaluddin Haqqani, un warlord afghano di etnia pashtun che ha lasciato la parte operativa ai figli Sirajuddin e Nasiruddin. Nel settembre 2012 gli USA hanno inserito gli Haqqani nell’elenco ufficiale delle organizzazioni terroristiche internazionali. A novembre la rete è stata inserita anche nella lista dell’ONU dal Comitato delle Sanzioni.

più strette con l’odiata e temuta India. Mentre Washington continua ad accusare il Presidente Zardari di ambiguità e di non fare abbastanza per combattere il terrorismo che si annida nelle enclave del pashtunistan pakistano. Di conseguenza, si intensificano gli attacchi dei droni americani che hanno provocato tra le 2.500 e le 3.000 vittime dal 2004 ad oggi. I droni, però, provocano tensione in un rapporto bilaterale da sempre complesso e mettono in imbarazzo e in difficoltà il governo di Islamabad, costretto a barcamenarsi tra le proteste antiamericane della popolazione e la necessità di non rompere quel legame da cui dipendono gran parte degli aiuti internazionali che il Pakistan riceve.

Il tavolo della pace Sul perché gli Haqqani abbiano deciso di sedersi al tavolo della pace si possono solo fare delle ipotesi. Il fatto di condizionare la decisione all’assenza del governo Karzai alle trattative può indicare un tentativo di testare fino a che punto gli Stati Uniti desiderino un accordo prima del ritiro definitivo del 2014. Ma potrebbe anche essere un modo per rientrare sulla scena afghana come interlocutore legittimamente riconosciuto, indicando implicitamente che non c’è posto per Karzai e il suo clan nel futuro politico dell’Afghanistan.

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Kosovo, il confine difficile

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o scorso 10 settembre, il Kosovo ha compiuto un passo decisivo verso la totale autonomia: quel giorno sono scaduti i termini legali del piano Ahtisaari, un sistema di regole varato sotto la supervisione della UE che, dal 2007, ha monitorato e controllato il processo di integrazione tra le etnie kosovare (albanesi, serbi e turchi). Il piano Ahtisaari, studiato soprattutto per offrire garanzie alla minoranza serba, non è stato adeguatamente implementato dal governo di Pristina, a stragrande maggioranza albanese, e oggi la situazione nel piccolo Stato nato dalla guerra che la NATO

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ha scatenato contro la Serbia di Milosevic nel 1999 per fermare i massacri degli albanesi - è lungi dal potersi definire tranquilla. I rapporti con Belgrado sono infatti ancora molto tesi e la situazione alla frontiera del nord resta un incubo amministrativo e politico. Dal 10 settembre, l’Unione Europea ha chiuso tutti i suoi uffici nella regione a eccezione dell’EULEX, l’ufficio per il controllo della legalità (Eurpoean Rule of Law Mission in Kosovo). Circa 60mila kosovari di etnia albanese vivono nelle quattro provincie del nord (Leposavic, Zvecan, Podujevo e Mitrovica) in una situazione amministrativa a dir poco caotica, e l’incapacità

del governo di Pristina di controllare i suoi confini con la Serbia pesa come un macigno sul completo riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo (ben cinque membri della UE ancora non la riconoscono) e ostacola l’inserimento della Serbia nell’area Schengen e il suo possibile ingresso nell’Unione Europea. Le tensioni danneggiano sia Pristina che Belgrado, ma i rispettivi governi sembrano incapaci di trovare un accordo di convivenza basato sul reciproco riconoscimento. La nuova dirigenza serba uscita vincitrice dalle ultime elezioni politiche e presidenziali non sembra in grado di proporre soluzioni politiche che in qualche


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Passata la “tempesta” torna il sereno

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Dopo tanti anni le posizioni tra le parti in causa si sono fatte ancor più distanti ed oggi il Kosovo resta l’ostacolo principale all’ingresso della Serbia in Europa modo riconoscano che il Kosovo, seppure con il sostegno delle armi euro-americane, ha conquistato la propria indipendenza. Il massimo che il primo ministro Dacic e il presidente Nicolic sembrano disposti ad accettare è una spartizione che faccia tornare alla Serbia almeno le quattro provincie del nord, una secessione giudicata inaccettabile da Pristina. In queste provincie, d’altronde, la maggioranza locale serba vive con stipendi, sussidi e pensioni di provenienza serba. Sessantamila abitanti che, ad esempio, continuano a immatricolare a Belgrado le proprie automobili e rifiutano (anche con la violenza) la presenza di poliziotti

kosovari ai varchi di frontiera. Varchi che, dopo gli scontri del 2011, restano di fatto incustoditi. Nel nord, le municipalità serbe funzionano come uffici di collegamento con Belgrado, mentre gli ospedali e le scuole sono integrati totalmente con il sistema sanitario e scolastico serbo. Il sentimento antiserbo e xenofobo della maggioranza albanese nei confronti dei concittadini serbi resta elevato e condiziona il governo di Pristina che non riesce, o non vuole, applicare quella parte fondamentale del piano Athsaari che prevedeva concrete misure di assistenza e di autonomia amministrativa per la minoranza.

nte Gotovina e Mladen Markac sono i due ex generali croati condannati per crimini di guerra a seguito dell’operazione Tempesta, un’offensiva dell’esercito croato contro i secessionisti serbi nella città di Krajina del 1995. Ai due erano stati comminati rispettivamente 24 e 18 anni in primo grado, con l’accusa di aver volontariamente cannoneggiato scuole e ospedali a fini di pulizia etnica. Con tre giudici a favore e due contrari (tra cui l’italiano Fausto Pocar), il Tribunale penale internazionale dell’Aja li ha però assolti in appello il 16 novembre 2012, ribaltando la sentenza di primo grado e spianando così la strada all’ingresso della Croazia nell’Unione Europea dal luglio prossimo.

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Il mosaico balcanico Il guazzabuglio politico e amministrativo che vive in quest’aria è fonte continua di tensioni e la situazione resta confusa

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ggi solo i 25mila serbi che vivono a sud del fiume Ibar, raccolti in borghi rurali o nelle città-dormitorio di Granica e Strpce, e accettano (malvolentieri) l’autorità di Pristina, pur continuando a ricevere sussidi da Belgrado. Il nord, invece, resta un guazzabuglio politico e amministrativo che è fonte continua di tensioni che spesso sfociano in scontri tra estremisti dei due gruppi etnici e reciproche violenze, rispetto alle quali la KFOR, la forza multinazionale di peacekeeping schierata fin dal 1999, appare del tutto impotente. Nelle municipalità a maggioranza albanese le aggressioni contro i serbi (descritte dagli osservatori UE come veri e

propri pogrom) sono all’ordine del giorno. A Feriza, nello scorso mese di luglio, il capo della comunità serba e la moglie sono stati uccisi in casa, mentre nel comune di Kiline si sono registrati tentativi di avvelenare le derrate alimentari destinate ai negozi serbi. La situazione tesa e confusa è alimentata anche dall’ostinazione con la quale i serbi continuano a insegnare alle nuove generazioni soltanto la lingua della “madrepatria”, costruendo una barriera linguistica destinata in futuro ad alimentare ulteriormente odio e reciproca xenofobia. Le dichiarazioni pubbliche dei politici serbi e kosovari non sembrano improntate alla ricerca di soluzioni negoziate: il capo del team di negoziatori serbi, Dejan Pavicevic, che sotto

Il sogno kosovaro e l’incubo serbo

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ncontrando a fine ottobre il segretario di stato Hillary Clinton e la rappresentante della Commissione UE, Catherine Ashton, il primo ministro kosovaro Hashim Thaci ha detto che «tredici anni dopo la guerra e quattro dopo l’indipendeza, il Kosovo non è ancora il Kosovo dei nostri sogni…».Quasi a confermare queste parole, il 21 novembre il sindaco della principale municipalità serbo-kosovara del nord, Mitrovica, commentando gli ennesimi scontri interetnici, ha esplicitamente ammesso che «nel Kosovo settentrionale i serbi non consentiranno mai al governo di Pristina di imporre le sue istituzioni».

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l’egida della UE discute con le controparti a Bruxelles sul futuro dei rapporti tra Serbia e Kosovo, ha dichiarato di recente che i serbi sono «disposti ad accettare solo i controlli Eulex alle frontiere» e che «queste non diverranno mai confini di stato». Il suo interlocutore kosovaro, Edita Tahiri, ha pensato bene di replicare che «le legittime istituzioni kosovare avranno il controllo integrale dei confini». Dopo tanti anni le posizioni tra le parti in causa si sono, se possibile, radicalizzate e fatte più distanti e oggi il Kosovo resta l’ostacolo principale all’ingresso della Serbia in Europa, in una dinamica negoziale paralizzata da veti reciproci che sembra fatta apposta per spingere ulteriormente Belgrado nell’orbita politico-economica russa. Nei Balcani sembrano ancora prevalere gli istinti autodistruttivi, mentre l’Europa continua a osservare la situazione con freddezza burocratica. Visto che i focolai d’instabilità kosovari si alimentano proprio alle porte di casa nostra, forse sarebbe lecito attendersi un impegno più dinamico da parte della diplomazia italiana, nella ricerca di spazi di mediazione in grado di evitare che in tutta l’area balcanica tornino, come da trazione secolare, a parlare le armi al posto della politica.


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Il Venezuela aspetta il nuovo leader

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l futuro del Venezuela resta appeso alle precarie condizioni di salute del presidente Hugo Chavez. A inizio dicembre il leader boliviano si è recato all’Avana, dove è stato sottoposto a un nuovo intervento per estirpare un tumore dalla zona pelvica. Per Chavez si tratta della quarta operazione da quando, nel giugno 2010, gli è stata diagnosticata la malattia. Questa volta, però, prima di partire per Cuba, il presidente venezuelano ha voluto indicare al popolo il suo successore, nel caso in cui non dovesse superare l’intervento o non fosse più in condizioni fisiche idonee per continuare a guidare il Paese. Il prescelto è il ministro degli Esteri e vice presidente Nicolas Maduro. Classe 1962, Maduro è un amico intimo di Chavez. Inizia l’attività politica nelle fila del Sitrameca (Sindacato Metro de Caracas). Nella metà degli anni Novanta entra nel Movimento Bolivariano Rivoluzionario 200 e

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contribuisce a lanciare la volata di Chavez verso la vittoria alle elezioni presidenziali del 1999. Lo stesso anno viene eletto deputato alla Assemblea Nazionale Costituente, partecipando alla scrittura della nuova Costituzione del Venezuela. Nel 2005 diventa presidente del parlamento e nel 2006 viene nominato ministro degli Affari Esteri. In questi sei anni di mandato ha portato a buon esito vari accordi bilaterali con Cina, Russia e Iran, premurandosi di tenere il Venezuela a debita distanza dagli Stati Uniti. L’8 dicembre, dopo l’annuncio di Chavez, Maduro ha assunto la presidenza, ma il suo mandato non andrà oltre un periodo massimo di novanta giorni. Secondo la costituzione venezuelana, infatti, al termine di questo governo ad interim sarà il Parlamento a guidare l’esecutivo sino al giorno del voto. Il principale ostacolo per l’ascesa di Maduro potrebbe essere proprio il presidente del Parlamento, Diosdado Cabello, a cui spetterebbe il compito di sciogliere l’assemblea e indire le nuove elezioni. Cabello infatti punta a proporsi in prima persona per il dopo Chavez. In questo mese proverà pertanto a frenare la corsa di Maduro, impedendo a Chavez di investire da Cuba il suo erede attraverso un aggiramento della Costituzione. In sostanza non ha molte chance, anche se ha dalla sua il consenso della nuova borghesia venezuelana. Sul fronte estero, la prospettiva di un’uscita di scena di Chavez è stata accolta di buon grado dai mercati finanziari. Secondo il Financial Times, infatti, rispetto al suo predecessore Maduro sarebbe più incline a imprimere al Paese una virata moderata, rassicurando così banche e


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Con Chavez confinato a Cuba per un nuovo intervento chirurgico, Maduro ha assunto la guida ad interim del Paese. Ottime le reazioni dei mercati finanziari

fondi di investimento internazionali. «La malattia di Chavez - scrive il Financial - potrebbe dare spazio a un governo più amichevole con i mercati finanziari». Sul versante interno, invece, pur essendo orfano del suo leader, il PSUV (Partido Socialista Unido de Venezuela) ha rispettato i pronostici imponendosi alle recenti elezioni regionali in 20 stati su 23, che hanno registrato una bassa affluenza attestandosi al 52%. L’unica sconfitta significativa l’ha incassata a Miranda, il secondo stato più grande del Venezuela, conquistato da Henrique Capriles del MUD (Mesa de la Unidad Democrática), che si è così preso una piccola rivincita dopo essere stato battuto da Chavez alle presidenziali del 7 ottobre scorso. Il bicchiere rimane comunque abbondantemente pieno per il PSUV, che è aggiudicato l’importante stato di Zullia e strappato all’opposizione anche Carabobo, Gtachira, Tachira e Nueva Esparta.

Il malato immaginario

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n fitto elenco di accordi economici e investimenti strategici tiene avvinghiati i destini di Cuba e Venezuela. Il rapporto tra i due Paesi è definito principalmente dallo scambio di petrolio. L’Avana riceve infatti da Caracas i due terzi della sua domanda di greggio, offrendo come contropartita aiuti in campo medico, insegnanti, servizi in materia sportiva, informatica, agricola e di sicurezza. Il Venezuela vende ai cugini il petrolio a prezzi molto vantaggiosi e recentemente ha anche investito per il recupero di una raffineria a Santiago di Cuba e per la costruzione di un nuovo centro a Matanzas. È facile dunque immaginare il perché di tanta apprensione cubana per la tenuta fisica di Hugo Chavez.

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l’AnARchIco 2.0 StoRIE dI oRdInARIA EVERSIonE di Guy F.

Social terrorism

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l fenomeno degli attentati anarchici ha una diffusione mondiale che è trasversale rispetto ai caratteri geopolitici delle aree interessate. È infatti presente sia nell’America del Nord che in quella Latina, come in Russia, fino alla Siberia, come nel sud-est asiatico, Filippine e Indonesia, ma anche in Australia. Questa così ampia diffusione non è frutto di un’intesa sovversiva globale ma, al contrario, della globalizzazione economico-finanziaria che ha avuto definitivo impulso dal crollo dell’URSS. La successiva dirompente globalizzazione della circolazione dei capitali più che delle merci - accompagnata da standardizzate prescrizioni di Banca Mondiale e FMI funzionali a quella circolazione (privatizzazioni e drastici tagli al Welfare) - ha cioè catalizzato una corrispettiva reazione conflittuale, omogeneizzando aree geopolitiche prima diversificate anche sotto l’aspetto antagonista. L’attuale “Grande Crisi”, scaturita dalla fallace promessa di autoregolazione del pervadente 34

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mercato finanziario speculativo, ha poi accentuato il contrasto al liberismo. La scelta operata negli anni Settanta di surrogare l’economia con la sua finanziarizzazione, ha portato a somma esponenziale la crisi cronica del sistema capitalistico nel mantenere il proprio “valore”, nella profittabilità degli investimenti produttivi, e quindi i propri “valori”, nel pluralismo dei poteri e nei diritti individuali. Questo impoverimento di senso palesato dalla crisi, unito all’impoverimento materiale, ha radicalizzato tutte le pulsioni alternative e antagoniste. La concomitanza epocale della sconfitta del comunismo e della conseguente proposizione nel liberismo di un capitalismo aggressivo oltre le regole stesse della democrazia, ha in questo modo rivitalizzato il libertarismo anarchico nato sotto l’assolutismo. Laddove l’anarchismo era stato offuscato proprio dal comunismo, nella strumentazione della lotta di classe industriale, e dalla democrazia, nella creazione e garanzia di diritti e libertà. Così oggi, inservibile l’obsoleta teoria comunista, il pensiero anarchico, nella sua ampia variegatezza libertaria, ha fornito riferimento per le correnti che nel mondo post-industriale intendono opporre criteri valoriali alla rivendicata assolutezza della logica del profitto. Dal veganesimo, alla difesa degli animali, dell’ambiente, delle comunità locali e del loro territorio, del potere d’acquisto e dei risparmi con Occupy Wall Street. Con forme di lotta che possono variare - a seconda degli attori ma anche delle circostanze - dal pacifismo e resistenza passiva al milintantismo di piazza, all’aggressività black block e fino alla estremizzazione del “gesto” nell’attentato. Ove la variegatezza non è però contrasto, come nella passata militanza


comunista, ma arricchente differenziazione in una condivisa e solidale visione dell’impegno rivoluzionario. È l’unitarietà nella diversità, peculiarmente anarchica, ad avere mondializzato nella FAI-FRI (Federazione Anarchica Informale-Fronte Rivoluzionario Internazionale) i militanti che attuano attentati. Un’adesione “elettiva”, e non organizzativa, possibile grazie alla rete Internet che, rompendo l’isolamento minoritario, rende partecipi gli uni delle attività degli altri, con comunicati e foto e filmati degli attentati, fa avviare dibattiti e trarre obbiettivi. È quindi la Rete, nella sua potente e integrativa immaterialità, a fornire il collante all’“informalità” organizzativa. Così come, nell’immediata propaganda mondiale delle azioni cercata nella fase ottocentesca del “primo” anarchismo con l’eclatanza del “gesto” individuale -, è probabilmente la rete ad aver finora limitato l’intensità offensiva al di qua dell’omicidio. Gli attentatori anarchici del XXI secolo sono in avanzata sinergia con il network: anarchici 2.0. redazione@lookoutnews.it

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Santa Sede Lo Stato della Città del Vaticano è sorto con il Trattato Lateranense, firmato l’11 febbraio 1929 tra la Santa Sede e l’Italia, che ne ha sancito la personalità di Ente sovrano di diritto pubblico internazionale, Le nuove strategie costituito per assicurare alla Santa Sede, nella energetiche sua qualità di suprema istituzione

USA

L’impatto ambientale

Italia La dipendenza dagli altri La questione dei rigassificatori

Papua Nuova Guinea L’interesse delle multinazionali nell’area

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Shale gas: l’ultima L’estrazione del gas da scisti potrebbe avviare un nuovo boom economico, mutando gli scenari geopolitici e mitigando gli effetti sull’ambiente. La sfida è iniziata

I

l 21 novembre il Parlamento Europeo ha approvato (con 492 voti favorevoli, 195 contrari e 13 astenuti) due risoluzioni in materia di sfruttamento del petrolio e del gas da scisti, in base alle quali si è attribuito a ciascuno Stato membro il diritto di decidere in materia di esplorazioni e sfruttamento. È stato invece bocciato l’emendamento che chiedeva la messa al bando della tecnica di frantumazione idraulica, necessaria per liberare

frontiera il gas imprigionato nei sedimenti rocciosi. Le risoluzioni contengono anche l’invito ad approntare una vigorosa legislazione che limiti gli effetti ambientali dell’estrazione del gas da scisti quali: il frastuono dei pozzi, il consumo di acqua e di suolo, l’inquinamento delle falde profonde e delle acque di superficie e l’inquinamento del paesaggio. In particolare, le risoluzioni si soffermano sulla necessità di disciplinare rigorosamente il consumo di acqua (2300-4000 metri cubi a pozzo) e di additivi chimici, attualmente segreti, usati nelle miscele per la frantumazione idraulica. Lo shale gas è un cosiddetto “gas non convenzionale”, ovvero gas localizzato in bacini scarsamente permeabili, a profondità comprese tra 1500 e 2500 metri. Per l’estrazione viene utilizzata una tecnica messa a punto dalla Mitchell Energy and Development Corporation, che prevede - una volta raggiunto

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GLOBAL SHALE GAS BASINS

Top reserve holders (2009) - In trillion cubic metres

11 Canada Poland 5.3

U.S.

24.4 8.2 Libya

6.5

36.1

China

Algeria

Mexico 19.3

6.4

ASSESSED BASINS

Brazil Australia 11.2

With resource estimate Without resource estimate

13.7 South Africa Argentina

21.9 Source: EIA based on Advanced Resources International Inc data, BP

Graphic: Catherine Trevethan

Nel 2011, l’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA) ha identificato 48 bacini di gas da scisti in 32 diversi Stati, per un totale di 70 grandi formazioni, pari a 187.000 miliardi di metri cubi (mmc) attualmente estraibili, con riserve stimate in 624.000 mmc (risked gas in place). I giacimenti di gas da scisti sono concentrati in Cina, USA, Argentina, Messico e Canada. Attualmente, il maggior produttore di gas non convenzionale sono gli USA, dove lo shale gas costituisce circa il 37% della produzione totale di gas naturale. Il costo di estrazione dello shale gas negli USA va da 3,74 $/Mbtu per il pozzo Marcellus (Pennsylvania) a 5,18 $/Mbtu per il pozzo Barnett (Texas). Negli Stati Uniti, in seguito alla messa a coltivazione dei

lo strato di roccia scistosa e rivestito il pozzo con cemento e materiali conduttori, in genere acciaio - trivellazioni orizzontali (horizontal drilling) per centinaia di metri e la produzione di microfratture nelle rocce con impulsi elettrici ad alta tensione. Nell’ultima fase della trivellazione viene iniettata nel pozzo una miscela di acqua (oltre 90%), sabbia (9%) e additivi chimici, con lo scopo di fratturare definitivamente le rocce (hydraulic fracturing) e consentire al gas intrappolato di fluire ad alta pressione verso la superficie. Insieme al gas in pressione, una quota compresa tra il 15 e il 60% della miscela usata per la frantumazione idraulica rifluisce in superficie, mentre la parte restante resta imprigionata in profondità.

HYDRAULIC FRACTURING - ITS GROWTH AND RISKS THE PROCESS

Common Fracturing Equipment

Hydraulic fracturing, commonly known as fracking, is the creation of fractures in rock formations in the earth using pressurised fluid, generally for the purpose of extracting natural gas

Data monitoring van

Wellhead

Frac tanks stimulation fluid storage

Chemical storage trucks

Frac pumps Frac blender

Aquifer

Sand storage units

Waste water pit Municipal water well (over 300 m) Private well Cemented well casing protects aquifer Waste cuttings generated during drilling are brought to a plastic-lined pit at the surface “Kickoff” point Drillers begin arc that levels off horizontally when shale layer is reached

Waste water well

RISKS Air emissions Methane gas associated with natural gas extraction can leak into air Drinking water Chemicals used in fracking process have the potential to contaminate aquifers Earthquakes The disposal of waste fluid from the fracking process is cited as a cause of earthquakes. Disposed fluids migrate below the injection area, destabilising the natural fractures in the rock formation

Injection area

Il dizionario

Horizontal Drilling

1

Well drilled horizontally at 914-1,524 m

Approx. distance from surface: 2,400 m

2

3

4

5

Production casing inserted into borehole, then surrounded with cement

Charges then detonated inside a perforating gun, blasting small holes into the shale

Pressurised mixture of water, sand and chemicals then pumped into the well at 15,900 litres a minute

The fluid generates numerous small fissures in the shale, freeing trapped gas that flows to the surface

Gas

Fractures

Illustration not to scale

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Lo shale gas, o il gas da scisti, è un gas, in prevalenza metano, contenuto all’interno di rocce bituminose. La frantumazione di queste rocce, cha appaiono alla vista come sottili lastre sovrapposte di roccia, consente al gas naturale in esse intrappolato di fuoriuscire.


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giacimenti di shale gas il prezzo del gas è passato da 7/8$ (2008) a 3$ (2012) per mcf (milione di piede cubico), mentre la dipendenza dalle importazioni, in particolare di gas naturale liquefatto, si è notevolmente ridotta. La IEA prevede che entro il 2015 gli USA sopravanzeranno la Russia, diventando così il primo produttore mondiale di gas naturale, a un prezzo pari a 1/5 di quello europeo. L’estrazione su vasta scala del gas da scisti negli USA ha avuto effetti positivi non solo sull’indotto e le industrie collegate dei trasporti, delle abitazioni e della produzione di energia, ma anche sulle produzioni industriali, un tempo ritenute mature o trasferite all’estero (chimica, fertilizzanti, acciaio, alluminio, pneumatici, plastiche, vernici e giocattoli) che, viceversa, stanno investendo per decine di L’estrazione miliardi di dollari. In Europa il gas, che potrebbe avviare può essere acquistato un nuovo boom su mercati spot o con economico contratti indicizzati legati al prezzo del petrolio, ha un prezzo mediamente superiore di 3-4 volte che in USA. Nonostante ciò, la produzione di gas non convenzionale è modesta (alcuni milioni di mc), anche se a partire del 2009 si è assistito a una ripresa delle esplorazioni, in particolare in: Polonia, Austria (bacino di Vienna), Francia (bacino di Parigi e bacino del Sud-Est), Germania-Olanda (bacino del Mare del Nord), Svezia e UK. In conclusione, l’estrazione di gas da scisti, che potrebbe anche avviare un nuovo boom economico, pone tuttavia importanti sfide che vanno dai nuovi scenari geopolitici, al miglioramento delle tecniche di estrazione, alla mitigazione degli effetti sull’ambiente e sulla salute umana, alla revisione delle strategie di approvvigionamento per i Paesi a elevata dipendenza energetica.

L’impatto ambientale dello shale gas

L’

estrazione del gas da scisti, come ogni attività estrattiva, produce effetti potenzialmente molto rilevanti sull’ambiente: inquinamento dell’aria per il rilascio di metano in atmosfera, del terreno, delle falde etc. Esistono comunque rischi specifici connessi alla natura delle riserve esplorate e delle tecniche di estrazione. Le riserve di gas da scisti sono meno concentrate delle riserve di gas convenzionale (ad esempio, il bacino del Marcellus Shale negli USA si estende per 250.000 kmq) e lo sfruttamento richiede più estesi campi di estrazione. Mediamente, corrisponde a un pozzo per kmq contro un pozzo ogni 10 kmq nel caso delle riserve convenzionali. I pozzi, una volta raggiunto lo strato di scisto, si sviluppano orizzontalmente al suo interno (anche se in Argentina si stanno sperimentando con successo pozzi a sola perforazione verticale). L’estrazione del gas avviene provocando fratture multiple nello strato scistoso attraverso microesplosioni, e quindi disgregando le rocce attraverso il pompaggio ad alta pressione di miscele di acqua, sabbia e additivi chimici (frantumazione idraulica). La tecnica di estrazione mediante frantumazione delle rocce, usata anche nello sfruttamento di gas da riserve convenzionali, da sabbie e da carbone, pone una serie di rischi ambientali: in particolare per ciò che riguarda la contaminazione delle acque profonde e di superficie sia con le miscele di fatturazione che con i metalli pesanti, gas o elementi radioattivi contenuti nel giacimento. Infine, va considerato il consumo di acqua e di additivi chimici (diverse decine di composti tra cui alcuni molto tossici) usati nelle miscele di fatturazione. Su quest’ultimo aspetto, sono in sperimentazione tecniche per il recupero dell’acqua di frantumazione e per l’uso di additivi non tossici (Cuadrilla Resources impiega solo tre composti, tra cui un lubrificante comunemente impiegato in cosmetica e un biocida utilizzato per purificare l’acqua).

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Alla ricerca di una nuova dipendenza La dipendenza energetica italiana e l’annoso problema del costo delle forniture rendono necessaria l’individuazione di una nuova strategia

L’

ultima edizione del Rapporto Energia e Ambiente dell’ENEA (2012) evidenzia come l’Italia continui a essere un Paese a elevata dipendenza energetica - le importazioni nette di fonti di energia superano l’80% del fabbisogno energetico na-

re civile (35,4%) e dei trasporti (30,6%), mentre in calo si confermano i consumi dell’industria (23,2%) e dell’agricoltura (2,2%). In questo quadro di forte sofferenza energetica, il crescente impiego di gas per la produzione di energia, se da una parte consente, rispetto a carbone e

12,5%). Solo il 12% del gas importato viaggia via nave (GNL, gas naturale liquefatto). La struttura dell’approvvigionamento determina anche la struttura del costo di fornitura che risulta sbilanciato verso i più onerosi contratti a lungo termine (“Take or Pay”) indicizzati ai prezzi del petrolio,

I nuovi terminali

N

ove nuovi terminali di rigassificazione, che se realizzati assicurerebbero la diversificazione e potrebbero trasformare l’Italia in un riesportatore di gas, hanno ricevuto una valutazione positiva ai fini dell’impatto ambientale (VIA). Tuttavia, accanto ai tre terminali il cui iter risulta bloccato da tempo (Livorno, Rosignano e Brindisi), nelle ultime settimane si sono aggiunti lo stop del terminale di Siracusa (8 miliardi di metri cubi annui di capacità per 800 milioni di euro di investimento), con l’abbandono del progetto da parte della Shell; il congelamento del rigassificatore di Porto Recanati (5 miliardi di mc annui) da parte di Gas de France Suez; la crescente opposizione di piazza contro il rigassificatore di Zaule-Trieste (8 miliardi di mc annui di capacità per 500 milioni di investimento) della spagnola Gas Natural e le persistenti difficoltà di finanziamento per il rigassificatore Api di Falconara (4 miliardi di mc annui).

zionale - con un costo pari al 3,4% del Pil (53.866 milioni di euro nel 2010). La composizione della domanda per fonte energetica mostra la specifica dipendenza italiana da petrolio e gas (oltre 80%), con un aumento progressivo dell’uso di gas. Gli impieghi finali, al 2010, indicano una crescita del setto40

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petrolio, la riduzione di emissioni di gas serra, dall’altra pone il problema della sicurezza delle forniture e del loro costo. La produzione nazionale di gas si attesta intorno al 10%, il resto viene importato tramite gasdotti in massima parte da Paesi extracomunitari (Algeria 36,6%, Russia 20% e Libia

rispetto ai più concorrenziali contratti a breve termine (“Spot”). Le infrastrutture di importazione sono costituite da: due gasdotti di terra, TAG (Tarvisio) e TENP (Svizzera); due gasdotti marini, TrasMed (Mazzara) e GreenStream (Gela); e due rigassificatori, Panigaglia e Rovigo.


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oUtlooK

Conoscenza dei gassificatori L

a maggior parte degli italiani ha sentito parlare di gassificatori, ma solo l’8% sa darne una definizione appropriata (un altro 8% li confonde con i rigassificatori; il restante non sa); dopo una veloce spiegazione della loro funzione, ben più della metà ricorda di averne sentito parlare (57%) e sono ancora di più coloro che si dichiarano predisposti positivamente alla costruzione di nuovi impianti in Italia (59,1%). Quanto sarebbe d’accordo con la costruzione di nuovi gassificatori in Italia?

G

li italiani, indecisi sulla sostenibilità dei gassificatori, li promuovono a livello italiano, ma non rischiano ad averli «nel loro cortile». Solo la scarsa metà dei rispondenti, infatti (48,2%), sarebbe d’accordo alla costruzione di un nuovo gassificatore nella propria zona di residenza, mentre il 59,1% lo era se, genericamente, in Italia. Quanto sarebbe d’accordo con la costruzione di nuovi gassificatori nella sua zona di residenza?

www.lorienconsulting.it

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Istituto: Lorien Consulting s.r.l. - Criteri seguiti per la formazione del campione: campione rappresentativo della popolazione italiana maggiorenne, rappresentativo per sesso, età e area geografica - Metodo di raccolta delle informazioni: indagine quantitativa telefonica (CATI, Computer Assisted Telephone Interview) - Numero delle persone interpellate ed universo di riferimento: 1.000 cittadini italiani maggiorenni - Data in cui è stato realizzato il sondaggio: 14 – 17 dicembre 2012 - Metodo di elaborazione: SPSS

Questa situazione caratterizzata da forte dipendenza strategica, costi molto elevati, un insufficiente sistema di trasporto e stoccaggio e un’incerta sicurezza delle forniture (vedi il contenzioso Russia-Ucraina e l’instabilità dei Paesi del Sud Mediterraneo), ha indotto il Ministero degli Esteri ad auspicare una riduzione della dipendenza da tubo attraverso «la costruzione di almeno tre o quattro rigassificatori, per una capacità complessiva, di 25/30 miliardi di metri cubi annui […] e l’aumento significativo delle capacità degli impianti di stoccaggio (infrastrutture tecnicamente più complesse di quelle per il petrolio e derivati)». Queste indicazioni sono riprese nella nuova Strategia Energetica Nazionale elaborata dopo vent’anni dal Governo Monti, in cui la «promozione di un mercato del gas competitivo, integrato con l’Europa e con prezzi a essa allineati, e con l’opportunità di diventare il principale hub sud europeo» viene individuata come una delle azioni prioritarie da intraprendere. La costruzione di nuovi rigassificatori rappresenta, quindi, un pilastro su cui costruire un’efficiente diversificazione delle fonti di approvvigionamento e sfruttare, in termini di prezzi e aree di approvvigionamento, la “nuova età dell’oro del gas” (IEA - Golden Rules for a Golden Age of Gas 2012), prevista sulla base delle ingenti disponibilità di giacimenti sfruttabili di gas non convenzionale (gas da scisti). Il problema, però, è che ad oggi al Paese manca una credibile strategia d’insieme.

a cura di Lorien Consulting


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Il paradiso dell’energia

Mentre in Oceania c’è chi sogna crescita e sviluppo, negli Stati Uniti è iniziata la corsa all’oro papuano

C

on oltre 330 miliardi di metri cubi di riserve di gas naturale nell’area montagnosa interna (le Southern Highlands) e nelle province occidentali, Papua Nuova Guinea ha il potenziale per diventare uno dei maggiori esportatori di gas dell’Oceania e dare una spinta a una economia ancora poco sviluppata a causa delle forti carenze infrastrutturali. Da qualche anno nel Paese sono già attive multinazionali americane interessate sia al petrolio che al gas. Nel 2009 la Exxon Mobil ha conclu-

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so un accordo con il governo per la realizzazione del Progetto PNG LNG (Papua New Guinea - Liquid Natural Gas). Il PNG LNG, un investimento da 19 miliardi di dollari che dovrebbe essere operativo entro il 2014, prevede lo sfruttamento del gas delle aree di Hides, Angore, Juha, Gobe, Moran e Utubu, oltre che alla costruzione di impianti di estrazione, liquefazione e stoccaggio, e di gasdotti


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grandi risorse naturali di gas via terra e off shore. La joint in Indonesia e in Nuova Zelanconvenzionale e non convenventure comprende anche l’apda per l’utilizzo dei depositi di zionale - su cui gli Stati Uniti porto di aziende italiane che gas, grazie anche alle nuove mantengono la supremazia in hanno ottenuto diversi contrattecniche di perforazione e di termini di sfruttamento - avrà ti di fornitura, in particolare estrazione che permettono di dei risvolti geopolitici che non Saipem (gruppo ENI), GE raggiungere siti fino a pochi mancheranno di riproporre la Nuovo Pignone, Tenaris e Caanni fa ritenuti di difficile accesvecchia contrapposizione USAmeron Italy. Sulla parte finanso. Il tutto nell’ottica di ridurre Russia. Forse una nuova guerra ziaria, invece, sono presenti SAla dipendenza da altre fonti quafredda sull’energia? Con un’EuCE e Banca Intesa. li petrolio e carbone e, per ropa in gran parte dipendente Per il Paese è il più grosso proquanto riguarda gli Stati Uniti, dal gigante russo Gazprom, è getto mai portato avanti, in grado del raggiungimento dell’autoun’ipotesi da non scartare. di far fruttare le risorse e di sufficienza energetica. È facile www.pnglng.com/project/artists.htm raddoppiare il Pil. In pratica, prevedere che il controllo su un motore potenziato per la crescita e lo sviluppo, con un boom delle esportazioni principalmente PAPUA NEW GUINEA LANDSLIDE verso il mercato asiatico, PNG LNG Gas Project – Upstream Developments dove stanno crescendo i Proposed Wellpad bisogni energetici di giTumbi Quarry Jan 24 Infrasturcture/Quarry area A mountainside collapses through one of ganti come Cina, India e Existing facility several quarries, killing at least 25 people Giappone. In un contesto Onshore pipeline alignment socio-politico instabile coHides gas Idauwi village me quello papuano, gli inTagari river plant (OSL) vestimenti LNG possono Nogoli camp dare un forte contributo Hides waste Juni allo sviluppo di strutture e training management facility area infrastrutture (soprattutAngore Wellpads to porto e aeroporto, energia elettrica e autoOnshore pipeline strade) e rafforzare una Proposed crescita che già nel 2012 new facility ha superato abbondanteTimalia River Hides gas Borrow Pit conditioning mente il 7%. plant Al PNG LNG si affiancano Komo altri progetti per l’esploairfield Timalia river Komo razione e lo sfruttamento village di risorse energetiche in Wewak PACIFIC Oceania e nel Pacifico. Le OCEAN OWNERSHIP OF GAS PROJECT multinazionali, soprattutNational Petroleum Kutubu to le americane Exxon, Company of Papua oil facility Oil Search New Guinea 16.8% PAPUA Chevron, Conoco-Phil29% Kopi NEW Santos 13.5% lips, Apache Corporation GUINEA Exxon LNG plant Nippon Oil e Anadarko, stanno inten33.2% Exploration 4.7% Subsea Port sificando le operazioni gas line Moresby Mineral Resources 100 km in Australia (dove recenDevelopment Company 2.8% Gas line Liquids line temente sono stati scoSources: Exxon, Reuters perti nuovi giacimenti),

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do yoU SPREAd? VocI dAl MERcAto globAlE di B. Woods

Il declassamento della Francia e l’effetto domino

F

acendo seguito a quanto anticipato da Standard & Poor’s (13 gennaio 2012) e al rapporto speciale pubblicato su The Economist (17 novembre 2012), in edicola con l’inquietante titolo La bomba a orologeria nel cuore dell’Europa, il 19 novembre Moody’s ha declassato i titoli del debito pubblico della Francia da AAA ad AA1, confermando inoltre l’aspettativa di un ulteriore deterioramento della qualità del debito sovrano (outlook negativo). Il declassamento è motivato dalle incerte prospettive di crescita economica, dalla dinamica del debito pubblico e dall’esposizione del sistema bancario verso i paesi deboli dell’area dell’euro. Le richieste per un cambiamento della valutazione sono come sempre esplicite: riforme strutturali del mercato del lavoro, dello stato sociale e della spesa pubblica; ovvero nulla di diver-

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so da quanto già ascoltato più volte in questi anni. Allo stesso modo non sembra diversa l’incredulità e la frustrazione dei governanti francesi da quella già vista quando in molti ritenevano che il problema fossero i PIG (Portogallo, Irlanda e Grecia), poi PIGS (Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna) e infine PIIGS (Portogallo, Irlanda, Grecia, Spagna e Italia). Ma la Francia poteva realmente ritenersi un’eccezione? Analizzando i dati si direbbe di no. Nel 2012, il debito pubblico francese si colloca abbondantemente oltre il 90% del prodotto interno lordo, con una dinamica sempre crescente dal 1981, quando rappresentava solo il 22%. Inoltre, se si contabilizzasse anche il bilancio della Cassa Depositi e Prestiti (Caisse des Depots et Consignations) il debito francese salirebbe ben oltre la quota psicologica del 100% del Pil. Lo stesso accadrebbe per la virtuosa Germania (il cui debito pubblico è oltre l’80% del Pil) se si tenesse conto dei debiti della sua Kreditanstalt für Wiederaufbau. Il deficit pubblico, che si collocava nel 2011 a -5,2%, è stimato a -4,5% nel 2012. Il tasso di disoccupazione ha raggiunto il 10,8%, con una disoccupazione giovanile vicina al 25%. Il costo del lavoro (indice 2008=100) si attesta al 109,6%, mentre la produttività per ora di lavoro (indice 2005=100) è 104,1 e il deficit degli scambi internazionali ha raggiunto -69,6 miliardi di euro. Infine, la crescita del Pil è stimata a +0,6% nel 2012 e a +1,2% nel 2013. Il declassamento della Francia fa tramontare definitivamente l’illusione delle eccezioni? Come vanno interpretati il declassamento dell’Austria


da parte di Standard & Poor’s (da AAA ad AA+, gennaio 2012) e l’outlook negativo attribuito a Germania, Paesi Bassi e Lussemburgo da Moody’s (luglio 2012)? Come appare ora la minaccia di un possibile default rivolta agli stati riluttanti a realizzare le riforme strutturali richieste e la prospettiva della disintegrazione dell’euro? Vediamo alcuni dati L’eurozona contribuisce a circa il 20% del PIL mondiale, (i PIIGS al 6,7%, la sola Grecia allo 0,5%). Il peso finanziario dell’area dell’euro è superiore (le banche detengono il 35% delle attività finanziarie mondiali), esistono migliaia di miliardi di contratti derivati denominati in euro nelle borse mondiali, infine l’euro è una moneta internazionale nella quale è espresso il 25% delle riserve valutarie mondiali. Il precedente più recente di disgregazione di un sistema monetario è rappresentato dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica (1991-1993), che però rappresentava solo il 2,5% del Pil

mondiale e aveva un livello di integrazione finanziaria molto limitato. Se qualcuno ricorda cosa accadde in quei Paesi, dovrebbe considerare che il reddito pro capite dei soli PIIGS è di sei volte superiore a quello dell’ex URSS e che gli effetti della dissoluzione di un sistema monetario sui mercati sono ritenuti essere funzione crescente del reddito. Quindi un vero e proprio salto nel buio più pesto, con conseguenze non quantificabili ma tendenzialmente catastrofiche. In questa prospettiva il fallimento dell’euro sembra un’eventualità tecnicamente possibile, ma

economicamente insostenibile per l’intero sistema economico mondiale, e la difesa anche di un solo stato dal possibile fallimento è una strategia razionale contro l’effetto domino. Forse è il momento di riflettere sul fatto che accanto a Banche “Too big to fail” esistono Stati e Sistemi di Stati “Too big to fail” e immaginare nuovi scenari in cui le politiche di riduzione del debito e le riforme strutturali, ma anche nuove e più incisive regole nei mercati finanziari, siano concordate dalle parti, tutte dotate di una deterrenza credibile. redazione@lookout-magazine.it

Le “Mani Pulite” di Parigi

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l socialista Jérôme Cahuzac, ministro del bilancio e paladino del rigore nei conti pubblici del governo Ayrault, avrebbe posseduto fino al 2010 un conto mai dichiarato al fisco francese, presso la banca svizzera Ubs. Il ministro è noto per le ferree regole “anti-evasione” ma sarebbe persino detentore di un conto nel paradiso fiscale di Singapore. I soldi proverrebbero da consulenze occulte a case farmaceutiche.

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PolItIcAMEntE ScoRREtto qUEllo chE glI AltRI non dIcono di Tersite

I finanziatori della libertà

L

Greater Middle East Initiative Medio Oriente tradizionale Il “nuovo” Medio Oriente Il progetto GMEI di espansione

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e hoax mass-mediatiche, corredo primario per far passare l’“altrimenti inaccettabile”, cadono ormai a pioggia. La “Bufala dell’anno” va senz’altro al battage mondiale sui “combattenti della libertà” contro il regime di Assad. Il perché, in fondo, non è di difficile intuizione: - i finanziatori della “Libertà” (Arabia, Qatar, Bahrein) sono califfati islamici dove a dire “democrazia” o “tolleranza religiosa” si rischia il taglio della lingua, e la locale primavera araba ha preso mitragliate;

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- i “combattenti” sono del reseau degli jihadisti accorsi contro i sovietici in Afghanistan. Nel caso siriano, i locali Fratelli Musulmani e sunniti panarabi, qaedisti o prossimi, che da repertorio sostengono la guerra santa con stragi di bomba; - sponsor (armi e addestramento, elettronica e intelligence satellitare) sono quelli che - incuranti del ribaltone afghano: dalla riuscita sconfitta dell’URSS al blowback delle Twin Towers usano ora il fanatismo sunnita per destabilizzare l’area musulmana dal Nord Africa all’AsiaRussia centrale. Cioè gli USA, con il supporto dei più esperti (e spregiudicati) inglesi. Si tratta del primo regime change “chiavi in mano” sub-appaltato a: estremisti islamici; spokesmen esuli, futuri grassatori, adepti di intelligence USA e Dipartimento di Stato, i velinari mass-media occidentali e degli emirati. Il pacchetto che ha per


Visto si stampi!

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l ruolo di jiahdisti e agenti USA-GB è più che trapelato sulla stampa internazionale. Dal Sunday Express allo spagnolo ABC, a giornali israeliani. Con il The Guardian a “coprire” col giochetto degli infiltrati”. E il New York Tymes a scrivere la storiella che sì la CIA è in Turchia, ad armare e addestrare, ma anche per aiutare i “bravi ragazzi” a togliere le armi a qaedisti e similia. Salvo che sono proprio questi, motivati fino al suicidio, a tenere la prima linea. E così il NYT deve ricredersi: non solo gli jihadisti con la bandiera nera controllano il Nord, ma il loro ascendente radicalizza l’ELS (Esercito di Liberazione Siriana). Nel balletto anche il governo USA - la cui destra finge di non sapere cosa fa la sinistra (e che Londra è un “Londonistan” per i terroristi islamici) - annuncia l’inserimento di uno dei gruppi (Jabhat Al Nusra) tra le organizzazioni terroriste al bando.

nastro l’hoax “combattenti della libertà” è affinamento multidisciplinare del realismo di Brzezinski sull’Afghanistan (che sarà mai “qualche testa calda islamica”) e della conseguente ipocrisia. L’applicazione serrata della Greater Middle East Initiative - palese in Iraq (hoax “armi di distruzione di massa”), camuffata in Libia e poi in Siria - è certo facilitata dalla vocazione araba alle dittature, ma ha ben altri motivi. Detto in sintesi: il dollaro moneta imperiale. Cioè la sicurezza degli USA che, in fallimento da decenni, resistono grazie al dollaro imposto nel mondo come moneta di scambio, e ai Tbonds come finanziamento. Con a garanzia, non certo i conti, ma la loro unica forza: quella militare, straripante dal crollo dell’URSS. Vassallare la Siria - mercato per dollari e armi, fonte di idrocarburi e base mediterranea da togliere ai russi - è aprire un varco per l’Iran. Nemico USA perché (come prima l’Iraq) scambia euro/petrolio minando il dollaro, e ne è fornitore alla Cina in yuan (30 miliardi l’anno di nonpetrodollari).

Quello un obiettivo strategico: imporre il dollaro su tutte le vie del petrolio, e rafforzare il ricatto alla Cina agendo sui suoi rifornimenti. La Cina, oltre che futuro competitor militare, è acquirente estero in trilioni di dollari dei T-bonds, dal cui carico “tossico” inizia però a sganciarsi. Mentre, per di più, scambia in yuan (con Iran, Russia, Giappone) come alternativa più solida al dollaro. Per gli USA, sopravvissuti finora di debito sul dollaro stampato a man bassa, un annuncio di rovina. Per uscirne: costringere la Cina all’“alleanza”, e inficiare le velleità multipolari (tra cui l’euro) con la sottrazione di mercati e stabilità nelle aree di interesse. Così il rischio per l’Europa è di frontiere geo-economiche sotto assedio di paesi in mano a salafiti, oppure laici ma minacciati dall’estremismo sunnita-qaedista. Con gli Usa pronti a correre in soccorso, con il loro counter-terrorism e il loro tributo del dollaro. redazione@lookoutnews.it

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Un lIbRo Al MESE A cURA dI Rocco bEllAntonE

coSì dIcono

Dan Raviv e Yossi Melman Levant Books, 2012 pp. 352 16,00 euro

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e pensavate di conoscere parecchie cose sull’intelligence israeliana, questo libro vi riporterà con i piedi per terra. Il volume Spies against Armaggedon è a firma dei giornalisti investigativi israeliani Dan Raviv e Yossi Melman. Un’accurata ricostruzione delle operazioni clandestine architettate dal Mossad in tutto il mondo. Rilevanti sono i passaggi che rimandano all’intervento preventivo in Siria nell’estate del 2007, per far fronte all’imminente minaccia nucleare che di lì a poco sarebbe stata innescata dagli Assad. «Il timore di un errore di calcolo - si legge al capitolo 7 - era molto grande. Israele, in fin dei conti, stava per compiere un’azione alquanto provocatoria, che poteva essere considerata un atto di guerra cui la Siria avrebbe potuto reagire [...] Il segreto non trapelò, nemmeno per allusioni: piuttosto stupefacente per una società loquace». Il nodo centrale rimanda però alle verità sospese sulla striscia di attentati attraverso cui il Mossad ha gambizzato l’intellighenzia iraniana, eliminando negli ultimi due anni scienziati nucleari ed esperti missilistici. Dalla lista nera sono stati depennati i nomi eccellenti di Daryoush Rezaei, Majid Shahriari, Ali Mohammadi e Mostafa Ahmadi Roshan, direttore del nuovo centro situato a Qom per l’arricchimento dell’uranio. Affari sbrigati rigorosamente in casa, come sottolineano gli autori: «Per una missione così pericolosa, come un assassinio nella capitale iraniana, il Mossad non fa affidamento su mercenari».

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Avrei preferito inventare una macchina che tutta la gente avrebbe potuto usare. Un tagliaerba, ad esempio.

MIKhAIl KAlAShnIKoV

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alashnikov è ormai sinonimo di armi, anzi dell’arma fino ad oggi più diffusa e affidabile al mondo, che porta ancora il nome del suo inventore. Oggi 92enne, il russo Michail Timofeevic Kalashnikov sognava una tranquilla vita nei campi. Invece, da soldato fu ferito dai nazisti e da ingegnere progettò nel 1947 l’arma più importante del XX secolo, che chiamò “Avtomat Kalasnikova obrazca 1947 goda”, il cui acronimo è AK-47, ma che nella vulgata è semplicemente il kalashnikov. La beffa è che il povero Michail non ha mai potuto godere dei proventi economici della sua grande invenzione e oggi è sopravvissuto persino alla sua micidiale creatura, che presto andrà in pensione: la fabbrica di Izhvesk, negli Urali, è infatti alle prese con la crisi economica, a dispetto del proliferare delle guerre. Ma il suo fucile è ancora su tutte le copertine del pianeta, visto che la rivolta libica e quella siriana si combatte a colpi di kalashnikov. E pensare che lui voleva costruire trattori.


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