Fabrizio Mancini
APPUNTAMENTO A LONDRA
Fabrizio Mancini Appuntamento a Londra Fabio, quarantacinquenne vittima del precariato e poco incline ad abituarsi agli standard di vita precostituiti, conosce Liza bellissima donna di origine Dominicana, sposata con un figlio, che conduce una vita agiata all’ombra del mondo del gioco d’azzardo. Il loro incontro origina una storia di passione e d’amore calata con forza nella realtà circostante. L’epilogo a sorpresa premia i sentimenti più profondi e più puri, ridisegnando i contorni di ciascun protagonista. I personaggi della storia, frutto riconoscibile dei nostri tempi, sono la chiave d’accesso di cui si avvale l’autore per scrutare la sfera dei sentimenti, definire la linea di demarcazione che divide la passione dall’amore troppo spesso uniti e confusi fra loro e scivolare, attraverso questi, nelle bassezze del genere umano, più intento a soddisfare la sete di soldi, di successo, di potere che non a ricercare la dignità propria ed altrui. Il finale, solo apparentemente circoscritto al rapporto fra due persone, si propone di lanciare un grido di speranza universale, perché infondo l’amore e il giusto è ovunque. Sarebbe sufficiente saperlo trovare in noi stessi e riconoscerlo negli altri per riappropriarsi della serenità perduta, o forse mai conquistata dall’uomo.
IN COPERTINA: Foto di Fabrizio Mancini ART DIRECTOR: Fabrizio Mancini GRAPHIC DESIGNERS: Fabrizio Mancini
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L’autore Fabrizio Mancini Sono nato a Firenze l’8 marzo del 1965. A diciannove anni mi sono diplomato presso l’Istituto Tecnico per il Turismo. Ho fatto vari mestieri fra i quali mi piace ricordare il venditore porta a porta di aspirapolvere, il venditore di enciclopedie, il portiere d’albergo, l’edicolante, l’agente immobiliare, il web project manager. Da venti anni frequento, sotto varie vesti, l’ambiente del calcio. Nel 2003, dopo aver partecipato con successo al corso “Web Fashion Manager” presso l’Istituto Internazionale Polimoda di Firenze, sono stato fra gli autori del libro “Fashion on-line” edito da Franco Angeli, ma non ho mai scritto un romanzo prima di questo ed è stato curioso, appassionante, intrigante esplorare questa nuova dimensione artistica. In effetti ciò che mi ha spinto a scrivere “Appuntamento a Londra” è l’eterno bisogno di esprimere la mia creatività. In passato mi sono sfogato con la pittura, con la poesie e fin anche con la cucina, che se affrontata con amore diventa una eccezionale forma di espressione artistica. Non ci sono segni tangibili delle mie creazioni, in quanto le poche tele rimaste sono sepolte sotto la polvere di cantine, soffitte e garage; le poesie sono state cancellate dalla memorie dei computer, o fatte a pezzettini e gettate nei raccoglitori della raccolta differenziata; il cibo ha allietato talvolta il palato di qualche sfortunato amico o parente. Questa volta ho deciso di valorizzare il mio lavoro. Non ho la presunzione di essere uno scrittore, ma ho la consapevolezza che ognuno di noi ha qualcosa da raccontare e sono altresì convinto che lo stesso argomento può essere vissuto da angolature diverse, ma ugualmente rispettabili e credibili. Non esistono persone che hanno in mano la verità assoluta. Esistono piuttosto tante verità. Diceva saggiamente una mia cara amica: “Esistono tre realtà: quella che ognuno di noi racconta, quella oggettiva, quella che gli altri percepiscono”. Io ho il piacere di raccontarvi i miei pensieri, le mie idee, le mie convinzioni, i miei sentimenti.
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Copyright 2009 by Fabrizio Mancini
ANTEPRIMA
Questo romanzo è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi e avvenimenti sono frutto dell’immaginazione dell’autore e sono usati in chiave fittizia. Ogni somiglianza con persone esistenti o esistite, fatti è puramente casuale. 4
Questo libro è dedicato con amore a Gloria, la persona piÚ importante della mia vita
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“Se ti potessi guardare negli occhi, ti insegnerei che l’amore quello vero, non muore mai. Molte persone credono di aver amato, poche hanno amato davvero.�
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Colonna sonora del libro: negramaro “La finestra�
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1 Destino: il primo incontro Sono arrivato a Londra questa mattina con un volo low cost da Pisa. Raramente ho trovato giornate di sole in questa città e anche adesso, attraverso la grande finestra della mia camera d’hotel, vedo cadere una pioggerellina fine ed incessante. Nonostante il clima non sia dei migliori per grande parte dell’anno, Londra è uno di quei posti in cui mi sento come a casa mia. La camera in cui alloggio non è granchè. Le pareti sembrano di cartongesso e sento nitidamente le voci della coppia ospitata nella stanza a fianco. Stanno discutendo animatamente in lingua spagnola, ma non riesco a capire quale sia il motivo della loro colorita chiacchierata. L’albergo, che ho prenotato su internet, si chiama Notthing Hill Hotel. Si trova in Pembridge Square all’angolo con Pembridge Gardens, proprio dietro a Portobello Road. Il quartiere di Notthing Hill esercita su di me un fascino particolare, e il prezzo della camera è veramente vantaggioso. Questo angolo di Londra è molto silenzioso. Dal mio letto scorgo gli alberi che adornano la piazza. Le foglie hanno i caratteristici colori dell’autunno: rosse, gialle e marroni. Qualcuna inesorabilmente cade, altre tentano di resisterete al loro destino. Tutto intorno si affacciano bellissimi palazzi bianchi in stile classico. La pioggerellina, portata da un leggero vento, s’infrange sui vetri della finestra e scivola lenta verso il basso formando piccoli rivoli di acqua. Disteso sul letto, abbracciato a un cuscino senza anima, mi trovo solo con i miei pensieri in attesa dell’appuntamento più importante della mia vita. Ho fissato alle tre sulla terrazza della Tate Modern. L’orologio segna le due e mezzo, per cui mancano poco più di ventiquattro ore. In questi interminabili momenti, la mente spazia e la mia è andata a quando questa storia ebbe inizio. A pensarci bene, tutto cominciò nella primavera del duemiladue, quando, al termine di una furibonda lite, si sgretolò la scuola di calcio che tredici anni prima avevo fondato insieme a mio padre, a mio cugino e a Giampaolo, ex calciatore di serie A. Furono stagioni di grandi soddisfazioni sportive. Eravamo i numeri uno e lavoravamo per la Fiorentina. Non ho mai compreso le vere ragioni che ci portarono a quell’infausto e doloroso epilogo. Fu una vicenda che mi fece molto male. Da quel giorno non sono più stato capace di avere fiducia negli altri. So invece per certo che quell’avvenimento mi spinse a intraprendere nuove strade del tutto sconosciute. Ero disoccupato, cosicché decisi di partecipare al corso “Web Fashion Manager” organizzato dal Polimoda con i finanziamenti dalla Comunità Europea. Il Polimoda è una delle scuole di moda di maggior prestigio a livello mondiale e ha sede proprio a Firenze. Alla prova di ammissione, che riuscii a superare brillantemente, ci presentammo in centosettantacinque per venti posti. Quasi quarantenne mi trovai catapultato in una classe di ventenni e alcuni insegnanti erano più giovani di me. Fu un esperienza stupenda. Vivere la scuola a trentotto anni è davvero speciale. Non avevo tensioni ed era bellissimo rapportarsi con ragazze e ragazzi molto più giovani. Loro non immaginavano che fossi così vecchio. Lo scoprirono solo dopo alcuni mesi. Questo mi rese molto orgoglioso, perché significava che il mio aspetto, sia esteriore che interiore, appariva ancora giovanile. Inoltre mi piaceva esercitare la parte del saggio della compagnia. Il corso aveva l’obiettivo di formare specialisti web per il settore moda. Nessuno di noi ha mai trovato una collocazione professionale di quel tipo. Io fui fra i più fortunati. Era il febbraio del duemilatre quando il segretario del Polimoda mi disse: “Ho sentito dire che la Space One di Empoli cerca personale per l’ufficio web. Non opera nel settore moda, ma potresti contattarli ugualmente”.
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Il pomeriggio stesso presentai il mio curriculum. A quell’epoca abitavo a Empoli con Elga. Il giorno successivo fui contattato telefonicamente da uno dei soci e dopo pochi giorni inizia la mia nuova esperienza professionale. La Space One era un’azienda che si occupava principalmente di sofware e voleva lanciarsi nel mondo web. I suoi clienti erano per lo più piccole e medie aziende del distretto tessile di Prato. Ero felicissimo, amavo quel lavoro, ero ben considerato, mi piacevano i miei colleghi, con i capi avevo un bellissimo rapporto e, anche se la paga non era stratosferica, pensavo di poter crescere con il tempo all’interno dell’azienda. Ero lo specialista web: coordinavo i venditori, seguivo i clienti, progettavo l’aspetto grafico, curavo le fasi realizzative dei siti web e aiutavo l’ufficio marketing. In quel periodo avevo abbandonato il calcio. Un giorno mi contattò Gianni, un fotografo di Montelupo. Non ricordo il suo cognome. Fissai un appuntamento presso il suo negozio. Lui e sua moglie erano una coppia davvero particolare; Gianni accondiscendente e disponibile, lei autoritaria e molto tirata. Ogni volta che mi imbatto in coppie di questo tipo mi chiedo come un uomo possa sposare e sopportare una donna del genere. Molto meglio una martellata sui coglioni! Mi spiegò che era un fotografo di matrimoni e che lavorava principalmente con coppie di stranieri. “Gli italiani rompono davvero le palle” mi disse. Come dargli torto quando per partorire un servizio fotografico occorrono mesi e mesi. Gli stranieri, invece, si sposano e tornano al loro paese. Scatto, sviluppo e invio del book fotografico. Gianni lavorava preferibilmente con agenzie specializzate, le quali si rivolgevano a lui per affidargli il servizio fotografico del matrimonio da loro organizzato. Quel colloquio mi fece scoprire un mondo nuovo e sconosciuto che non avevo mai esplorato in precedenza. Esistono tantissime agenzie matrimoniali e la concorrenza fra loro è spietata. Gianni diventò mio cliente, anche se capii ben presto che rapportarsi con la moglie non sarebbe stato affatto semplice. Infatti lui pensava una cosa, mentre lei ne decideva un’altra. Erano una coppia talmente folle che mi divertiva molto vederli litigare e ciò contribuiva a rendermi estremamente paziente nei loro confronti. Un giorno, mentre ero seduto nel mio ufficio davanti al computer, squillò il telefono. “Ciao Fabio.” “Ciao, dimmi.” “C’è in linea un certo Gianni, posso passartelo?” “Yes” risposi io. “Pronto!” “ Ciao Fabio, sono Gianni” “Ciao Gianni, come va ?” “Tutto bene grazie.” “Di cosa hai bisogno?” “Ti spiego: una mia carissima amica, titolare di un agenzia matrimoniale a Firenze, ha bisogno di alcuni servizi web. Le ho consigliato di rivolgersi a te. Se sei d’accordo ti do il suo numero di telefono. Puoi contattarla subito, aspetta una tua chiamata.” “Senz’altro Gianni, ti ringrazio molto. Sono pronto a scrivere. Dimmi.” “Lei si chiama Liza Prado, Wedding in Florence and Tuscany e il suo telefono è 3388981647.” “Ok scritto. La chiamo subito. Ti ringrazio molto e non dimenticarti di salutarmi tua moglie. Ciao Gianni.” “Di niente. Mi raccomando trattala bene, poi ti mando la fattura per la provvigione. Scherzo! A presto Fabio. Ciao.” Attaccai il telefono e subito cominciai a rimuginare su questo nome. Come si suol dire, Liza Prado è un nome tipicamente esotico che mi riportava alla mente dive del cinema di ieri e di oggi. Andai subito a visitare il sito web. Era molto particolare, assai diverso da quello dei suoi competitors. Sulla home page scorrevano le immagini di un matrimonio in cui apparivano una donna alta, mulatta, vestita di bianco e un uomo assai più basso di lei. Sinceramente non mi parevano una 9
coppia ben assortita, ma soprattutto non riuscivo a capire se lei fosse una strafica, una discretona o un cesso taroccato. Le foto erano state scattate a Firenze, alcune al Piazzale Michelangelo, altre alla Galleria degli Uffizi. Continuai a scorrere le pagine di quel sito web e contemporaneamente composi il numero di telefono della signora Liza Prado. “Pronto.” “Sì pronto, sono Fabio Manzini di Space One. Parlo con la signora Liza Prado?” “Sì sono io, aspettavo la sua telefonata.” Aveva una voce molto intrigante, direi suadente con quello strano accento straniero. “Bene, di cosa ha bisogno?” La prima impressione fu di una donna molto loquace e assai determinata. Mi spiegò con enfasi le sue esigenze e mi propose di fissare un appuntamento per approfondire ciò che mi aveva anticipato telefonicamente. Mi recai a Firenze, lasciai la macchina nel garage dei miei genitori e presi lo scooter. Era una fredda e soleggiata mattina d’inverno quando imboccai Via Giosuè Carducci da Via dei Pilastri e risalii tutta la numerazione fino ad arrivare al civico ventidue. Proprio lì vicino c’era una banca. Mi tornò alla mente il periodo in cui facevo l’agente immobiliare. Erano gli anni d’oro della borsa e quella banca, come tante altre, aveva in vetrina un video sul quale scorrevano, in tempo reale, le quotazione dei titoli della Borsa di Milano. Anch’io facevo trading stretto e siccome ero sempre in giro, mi capitava spesso di fermarmi su quel marciapiede, davanti a quel video, per controllare le oscillazioni dei titoli. Molte altre persone facevano proprio come me ed era buffo vedere i capannelli di gente davanti alle vetrine delle banche. Ci accalcavamo di fronte a quei grigi monitor come fanno i fedeli davanti alla loro divinità, parlavamo, ci scambiavamo opinioni, cercavamo di carpire qualche giusta dritta, ci arrapavamo per i facili guadagni. Alla fine, l’abbiamo preso in culo e come spesso succede, si sono arricchiti sulla nostra pelle i potenti, i soliti manipolatori, i grandi finanzieri, gli imbroglioni di turno. C’era Telecom, Seat Pagine Gialle, Tim, Parmalat, Cirio. Si comprava e si vendeva di tutto; titoli di aziende importanti e titolini di aziende sconosciute che promettevano guadagni mirabolanti. Molte sono fallite; c’è stato il crack della Parmalat e della Cirio, l’Argentina ha fatto banca rotta e la crisi dei mutui americani ha messo in ginocchio l’economia statunitense e quella mondiale. Oggi i video non ci sono più e il popolo ha perso migliaia e migliaia di euro oltre al lavoro. Su quello stesso marciapiede ho sofferto d’amore per una ragazza bellissima per la quale avevo perso la testa. Uno di quei sogni impossibili che per un attimo sembrano vicini a realizzarsi. Ricordo di averla vista scherzare in Borgo Ognissanti con un suo amico. Quella scena mi fece ribollire il sangue, mi fece ingelosire come mai prima mi era capitato. Avevo bisogno di parlarle, cosicchè le telefonai proprio dalla cabina pubblica posta sull’angolo fra Via Carducci e Piazza di Sant’Ambrogio. Mentre ricordavo tutte queste belle cose, parcheggiai il mio MBK Evolis di colore nero, nell’unico buco rimasto disponibile in Via Carducci. A quello scooter ero molto affezionato, poiché fu il compagno inseparabile di tante battaglie ai tempi in cui, come una trottola, giravo Firenze con la speranza di vendere o affittare case. Un po’ infreddolito mi avvicinai ai campanelli e cercai Liza Prado. Cominciai la ricerca da quelli più alti, ma lei, ovviamente, abitava al primo piano! Suonai e qualcuno mi aprì il portone. Salii le scale a piede. Svoltata la prima rampa, lei apparve davanti a me. La riconobbi subito, era quella che avevo visto sulle foto del suo sito web! La signora Prado mi aspettava sulla porta di casa. Mi fece passare e mi fece accomodare in salotto. Era mulatta, alta, con due gambe lunghissime, il viso stranamente gonfio e due labbra molto, molto pronunciate. Una donna intrigante, di cui non seppi dare un giudizio ben definito. Comunque a me non piaceva. La casa era molto bella. Il salotto affacciava su Via Giosuè Carducci e ospitava due grandi divani oltre ad alcuni mobili d’antiquariato. Ci accomodammo uno di fronte all’altra su due poltroncine in stile ottocento, rivestite con tessuti di pregio. Sul pavimento e adagiati sul prezioso tappeto persiano 10
notai alcuni libri aperti. Non erano lì per caso, era un tocco di originalità che donava alla stanza un’ atmosfera calda, amichevole ed accogliente. Nell’ingresso alcuni giochi facevano intuire che in giro ci fosse un bambino. Infatti, dopo qualche minuto, dalla cucina sbucò suo figlio: era piccolo e bellissimo. Ancora non parlava, ma intuii subito che era geloso della mamma. Con lui c’era la tata e più tardi conobbi anche il marito della signora Liza Prado. Mi fece una strana impressione vedere quell’uomo, a quell’ora ancora in casa e non al lavoro. Fu il pensiero di un attimo. Con Liza parlammo molto amabilmente, le spiegai tutto quello che dovevo, mi offrì da bere. Mi trattenni a lungo, era piacevolissimo colloquiare con lei e mi sentivo davvero a mio agio. Quel giorno tornai in ufficio molto soddisfatto, ma non avrei mai immaginato che quell’incontro avrebbe cambiato la mia vita. Liza Prado diventò mia cliente. Qualche tempo dopo incontrai Gianni nel suo negozio di Montelupo. “Stai attento, Liza è una donna pericolosa” mi disse sorridendo. Fu così che il destino mi fece incrociare e conoscere la signora Liza Prado. Se quel giorno di primavera del duemiladue le cose fossero andate diversamente, sicuramente non avrei partecipato al corso “Web Fashion Manager”, non avrei lavorato a Space One, non avrei mai conosciuto Gianni, nessuno mi avrebbe mai presentato la signora Liza Prado e oggi non sarei qui a raccontarvi la storia più stravolgente della mia vita.
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2 Prima di lei Il giorno che incontrai Liza per la prima volta, convivevo ancora con Elga nella sua casa di Empoli. Elga è la persona più importante della mia vita. Quando Marco me la presentò, le avevano diagnosticato da poco tempo il LES, una rara malattia cronica autoimmune che può colpire diversi organi e tessuti del corpo. Il cortisone e gli altri farmaci che doveva assumere la rendevano gonfia. Nonostante la sua malattia era una ragazza brillante e molto simpatica, ma a Marco dissi che non mi piaceva. “Magari diventerà tua amica e ogni tanto la tromberai” mi rispose con tono sarcastico. “Lascia perdere, non mi piace. E poi io non sono il tipo da trombata e via. Comunque non voglio mettere limiti alla provvidenza.” Era autunno, Marco ed io avevamo deciso di organizzare una festa per l’ultimo dell’anno, cosicchè affittammo una lussuosa residenza storica nel Mugello. Le spese erano tante e per recuperare i soldi investiti dovevamo riuscire a vendere molti biglietti. Facemmo public relations per due mesi. Capii subito che Elga conosceva molte persone. Era una tipa dinamica e intraprendente e in quel momento non potevamo fare a meno del suo preziosissimo aiuto. Una mattina la incontrai casualmente in centro a Firenze, davanti ad una vetrina di un negozio in Via de’ Ginori. Da quel momento non ci siamo più persi. Come avevo previsto, lei riuscì a coinvolgere molte persone. Nel periodo che la conobbi ero comunque fidanzato con una ragazza per la quale non ho mai perso la testa. Ovviamente la sera dell’ultimo dell’anno sia Elga che Romina erano alla festa, per di più, verso mezzanotte arrivò anche Sonia, una ex che mi aveva malamente mollato due anni prima, ma alla quale erano tornate strane voglie . Insomma, un vero casino! Quando io parlavo con una delle tre, Marco intratteneva le altre due. Fortunatamente la villa era molto grande e disposta su tre piani, ciò mi consentiva di gestire meglio questa complicata situazione in cui ero venuto a trovarmi. Gli altri miei amici che non conoscevano e non capivano esattamente l’andamento delle cose, mi guardavano perplessi. A mezzanotte mi isolai in una stanza della villa e riapparvi solo dopo mezz’ora. Sarebbe stato difficile e imbarazzante gestire il momento del brindisi con tre donne che si ritenevano più o meno legate a me! I primi giorni del nuovo anno mi portarono a fare chiarezza e rimase solo Elga. Tre anni dopo aspettavamo un bambino. Quando me lo disse rimasi scioccato e faticavo a crederci. Dopo poche settimane ebbe un aborto spontaneo. La malattia non le aveva consentito di portare a termine la gravidanza. Quel bambino oggi avrebbe quindici anni. Periodicamente il LES tornava ad aggredirla e la costringeva a trascorrere lunghi periodi in ospedale. Elga era in cura presso il Santa Chiara di Pisa che si trova proprio accanto a Piazza dei Miracoli. Dalle sue finestre si poteva vedere la torre pendente, la cupola del duomo ed il battistero. Alcune volte, all’insaputa dei medici, uscivamo dalla clinica e andavamo a passeggiare nel centro della città. Quando la sera rientravo a Empoli, nella solitudine della nostra casa, cresceva la mia angoscia e mi capitava spesso di piangere. Lei è la persona più bella di questo mondo e pensavo che non meritasse di soffrire. E’ altruista, gentile, disponibile, vitale, concreta, caparbia, forte, tanto che, quando si ammala, è lei a darci coraggio e gioia. Convive con il suo destino senza mai piangersi addosso, senza mai lamentarsi. E’ una persona che sa dare felicità, è sempre disponibile verso gli altri chiunque essi siano, ha sempre un pensiero e una parola per tutti, aiuta senza riserve. Lei è davvero speciale. Purtroppo la nostra storia d’amore si è spenta giorno dopo giorno. A far scorrere i titoli di coda ci pensarono alcune macchie di rossetto sul colletto della mia camicia bianca. Quando Elga le vide, mi concesse soltanto il tempo necessario per raccogliere le mie cose. Per due giorni sparii dalla circolazione. Avevo bisogno di stare solo con me stesso e ricordo che passai tutta la notte a Quercianella nei pressi del porto, davanti alla scogliera. Era gennaio: pioveva, tirava un forte vento 12
e il mare agitato sbatteva con violenza sugli scogli. A Quercianella ho trascorso le vacanze della mia infanzia. Erano giorni felici insieme a mia madre, a mio padre, ai miei nonni, ai miei zii ed ai miei cuginetti. Quella notte, chiuso nella mia macchina, guardando nel vuoto, li ricordavo con nostalgia. Il pensiero che con Elga fosse davvero finita mi tormentava l’anima e la mente, perché consideravo quella storia appena conclusa l’ennesimo fallimento della mia vita, anche se ero consapevole che fosse arrivato il momento di voltare pagina e guardare avanti. Quando ci siamo messi insieme pensavo di riuscire a sopportare senza particolari problemi le piccole privazioni e le difficoltà che il suo stato imponeva. Volevo amarla, proteggerla, starle per sempre vicino nei momenti difficili e invece dimostrai di non essere abbastanza forte per affrontare e superare certe situazioni che si erano manifestate fino a quel giorno e che si sarebbero manifestate in futuro. L’avevo già tradita qualche anno prima. Quella volta fu il cellulare a svelare la storia che avevo con Krisztina, una ragazza ungherese molto bella che conobbi in Alto Adige durante un camp di calcio estivo. Fino ad allora ero stato sempre fedele, ragione per cui quell’esperienza fu per me sconvolgente. Inevitabilmente smarrii le certezze che mi avevano accompagnato fino a quel giorno e mi trovai catapultato in una dimensione sconosciuta, nella quale stentavo a riconoscermi. Pochi mesi fa Elga ha confessato di avermi tradito. Quando me lo ha detto non mi sono arrabbiato e ciò non ha alleviato i miei sensi di colpa. Piuttosto è stata un ulteriore conferma di quanto, ormai, fossimo distanti. La distanza di quel periodo non ci ha impedito di raccogliere e coltivare tutto ciò che un amore intenso lascia con il suo passaggio. Oggi ci vogliamo un bene dell’anima e siamo come fratello e sorella: niente e nessuno potrà mai allontanarci. La seconda volta che ho incontrato Liza, ero da poco fidanzato con Daniela, una donna brasiliana di origine libanese che avevo conosciuto al Copacabana di Firenze. Fu il classico colpo di fulmine. Era alta, bionda, occhi marroni, sguardo dolcissimo e profondo. Compresi subito che aveva un cuore molto buono. Quell’amore, dolce e travolgente, illuminò improvvisamente la nostra vita. Daniela era clandestina, faceva le pulizie nelle case e negli uffici; dormiva in un vecchio appartamento in Via degli Alfani insieme ad altre sette brasiliane; aveva molta nostalgia del Brasile, delle due figlie, della madre, dei parenti, degli amici. Suo padre era morto qualche anno prima. Lui dal Libano emigrò in Brasile dove, insieme ai suoi fratelli, aprì una clinica privata. Guadagnava moltissimo, ma dilapidò gran parte del suo patrimonio sul tavolo verde del poker. Alla sua morte lasciò in eredità due case all’unica figlia, una casa ed una pensione dignitosa alla moglie. Daniela aveva anche un fratello che morì molto giovane in un tragico incidente stradale con la sua potente moto. L’ Araba, come affettuosamente la chiamavo io, abitava a Goiania, capitale dello stato del Goias. Nonostante la geografia sia da sempre la mia più autentica passione e abbia il mondo impresso nella testa, non avevo mai sentito nominare prima quella città e quello stato. Mi documentai immediatamente e scoprii che Goiania è vicina a Brasilia, lontanissima dal mare e dal Brasile che si è soliti vedere sulle cartoline. Niente spiagge, niente bikini, niente culi, niente tette. A febbraio Daniela lasciò Firenze e tornò a casa. Paradossalmente per me fu un giorno davvero felice, perché la condizione di clandestina e la lontananza dagli affetti più cari generavano in lei paura, sofferenza e tanta nostalgia. Preferivo quindi saperla serena e felice nel suo mondo, anche se la lontananza ci avrebbe fatto soffrire. Quando ci salutammo le promisi che presto sarei andato a trovarla. Mentre saliva la scaletta dell’aereo mi guardava e piangeva, poiché temeva di non rivedermi mai più. Qualche mese dopo, andai a Goiania con Stefano. Lui è un ex portiere di calcio che avevo conosciuto alcuni anni prima durante un camp estivo. Una nota leggenda metropolitana narra che i bravi portieri siano un po’ pazzi. In effetti Stefano è stato un ottimo portiere ed è un personaggio molto particolare: estroverso, guascone, allegro, brillante. Abbiamo caratteri e personalità completamente opposte e, forse proprio per questo motivo, siamo veramente uniti, tanto che ci chiamiamo “fratelli”. 13
Decollammo da Firenze, poi a Milano Malpensa prendemmo l’aereo per San Paolo. Era la prima volta che andavamo in Brasile. Per questo motivo eravamo molto elettrizzati ed eccitati. A San Paolo dovevamo cambiare volo, ma soprattutto aeroporto. Erano le cinque del mattino quando uscimmo dal terminal di Gaurulhos e ci infilammo sul primo taxi che trovammo disponibile. I due aeroporti sono molto lontani fra loro. San Paolo è immensa, è una delle metropoli più grandi del mondo e per arrivare all’aeroporto da cui dovevamo imbarcarci sul volo interno per Goiania, impiegammo un’ora, lo stesso tempo che occorre per andare da Firenze a Livorno! Il sole stava sorgendo e le strade brulicavano di gente che si muoveva per andare a lavorare. E’ incredibile il traffico che a quell’ora intasa le strade di San Paolo. Il primo impatto, quando si arriva in un luogo sconosciuto, è sempre quello decisivo: Stefano ed io ci trovammo subito a nostro agio. Congonhas è il vecchio aeroporto di San Paolo. Un tempo era ai margini della città, negli anni è stato completamente inghiottito nel tessuto urbano della metropoli paulista, a tal punto che la pista è circondata da alti grattacieli e confina con un trafficatissimo viale alberato. In fase di atterraggio o di decollo gli aerei volano placidamente fra le alte costruzioni in cemento edificate senza troppa accortezza nelle vicinanze dell’aeroporto, tanto che una volta credo di aver visto attraverso il finestrino dell’aereo una famiglia che stava facendo colazione in cucina! Ho sempre pensato che fosse un aeroporto folle e pericolosissimo. Purtroppo questo mio convincimento ha trovato riscontro poco più di un anno fa, quando un aereo della compagnia Tam è finito lungo in fase di atterraggio, concludendo la sua folle corsa sul viale adiacente e sulle abitazioni che vi si affacciano. Fu una tragedia. Mai dimenticherò la prima volta che, insieme a Stefano, decollai da Congonhas. I raggi del sole illuminavano San Paolo, impastandosi magicamente con la foschia che ammantava la sterminata distesa di grattacieli, producendo così un paesaggio fiabesco e surreale di straordinaria suggestione. Più realisticamente, la foschia era il prodotto dello smog e quelli che apparivano come tanti funghi dalla forma magicamente cubica erano, più semplicemente, colate di cemento che hanno stravolto il paesaggio originale di quella terra. Comunque sia, l’effetto di quella visione fu meraviglioso e assolutamente indimenticabile. Dopo un’ora e mezzo di volo arrivammo a Goiania. Parlando con un tipo che avevamo conosciuto in aereo, scoprimmo che questa città è famosa per la bellezza delle sue donne. La leggenda racconta che siano le più belle di tutto il Brasile! Ad aspettarci all’aeroporto c’era Daniela con una sua amica venuta appositamente per conoscere Stefano. Aveva un bel viso, ma si faceva prima a saltarla che a girarle intorno. Fu molto emozionante rivedere Daniela. Lei era divorziata da tre anni e aveva due figlie: Gisele di 18 anni e Haifa di 21 anni. Quest’ultima aveva una bellissima bambina di due anni e una separazione alle spalle. Serginho, suo ex marito originario di Bahia, produceva cinture e jeans. In un batter d’occhio conobbi la mia nuova famiglia e senza fare nessuna fatica mi ritrovai nonno! Mi sistemai nella stanza di Daniela, mentre Stefano fu alloggiato nella camera di fronte dove usualmente dormiva Fernanda, nipote di Daniela. Fernanda era a Goiania per frequentare l’università. Durante la nostra permanenza Haifa, Gisele e Fernanda dormirono nella camera vicino alla cucina. Stefano ed io ci trovammo, quindi, contornati da quattro donne. La casa, come le altre di quella zona, era indipendente e si sviluppava unicamente al piano terreno. Un’alta cancellata la proteggeva dai malintenzionati e introduceva al loggiato usato per gozzovigliare o parcheggiare l’auto. Le stanze erano molto piccole e precedevano la corte interna che si sviluppava sul retro dell’abitazione. Stefano, come usano dire da quelle parti, è un “gallinho” ovvero un imbroccatore. Al primo risveglio in terra brasiliana, ancora fra il sonno, rincoglionito dal lungo viaggio e dal fuso orario, udì dei rumori nella propria stanza. Ebbe la forza di aprire soltanto un occhio, ritrovandosi immerso nella visione del culo perizomato di Fernanda che stava cercando qualcosa nell’armadio. Quando lei si accorse di averlo svegliato, molto candidamente si scusò e continuò la sua ricerca. Il suo bellissimo culo di ventenne continuò ad agitarsi, per qualche minuto, davanti agli occhi assonnati ed increduli di Stefano. 14
“Fratello, è un sogno o è tutto vero?! Mi hai portato in paradiso!”. Ero felicissimo e innamorato. Daniela mi piaceva davvero molto e le giornate scorrevano piacevolmente fra feste, musica e risate. Il Brasile e la sua stupefacente atmosfera di perenne allegria ci avevano conquistato. Tra i brasiliani, il concetto di famiglia allargata trova concreta realizzazione: si sposano facilmente, sfornano figli in quantità industriale, ma quando non si amano più, divorziano. Sono molto più leggeri e liberi di noi nell’affrontare queste situazioni e il rapporto post-separazione ne trae vantaggio. Tutti rimangono e diventano amici di tutti. Le famiglie brasiliane, già di per sé numerose, diventano così un vero bailamme di persone: bambini, bambine, fratelli, sorelle, figlie, figliastre, zii, cugini veri o presunti, mariti, ex mariti, mogli dell’ex marito, fidanzati delle figlie o della cugina tutti adorabilmente insieme a ballare, bere birra e fare festa, perché in Brasile tutte le sere è festa! Qualche giorno fa un mio amico che sposò una brasiliana da cui poi si è separato, mi ha detto: “Lo sai perché i brasiliani non vanno a letto? Perché fanno troppa fatica al alzarsi la mattina!” Qualche minuto più tardi ho incrociato la sua ex moglie. “Ciao Laisa, cosa fai di bello?” “La brasiliana!” “Cioè?” “Non faccio niente! Non ho soldi, ma sono felice, mentre il mio ex marito ha i soldi ma vegeta: lavorare e risparmiare, risparmiare e lavorare. E’ vita quella che fa lui?” Questo sono i brasiliani! La loro indole è, al tempo stesso, la loro forza ed il loro limite. Sono disgraziati perché indolenti, ma sempre felici e con il sorriso sulle labbra. Quella casa era più affollata di Via Calzaiuoli nell’ora di punta. Amiche ed amici di Daniela, Haifa, Gisele e Fernanda vi trascorrevano gran parte della giornata, rendendo sempre molto animato e divertente il nostro soggiorno a Goiania. Nei successivi viaggi in Brasile, questa situazione così inusuale rispetto a quelle che sono le nostre abitudini, cominciò a disturbarmi pesantemente. Stefano ed io tenevamo a portata di mano un foglio ed una penna con la quale, ogni volta che ci veniva presentato qualcuno, appuntavamo il nome ed il grado di parentela o di amicizia con Daniela. Quando partimmo per l’Italia, quel foglio era un vero groviglio di nomi e accostamenti. Un albero genealogico impressionante! Dopo una settimana trascorsa a Goiania, insieme a Daniela ci spostammo a Guaraparì, una località di mare vicino a Vitoria nello stato di Espirito Santo. L’albergo in cui eravamo alloggiati, si affacciava proprio sul mare e sulla grande spiaggia dove ogni sera verso le cinque, centinaia di ragazzi si ritrovavano per giocare a calcio. Le onde dell’Oceano Atlantico si infrangevano sulla terrazza della nostra camera, da cui potevamo ammirare l’intero lungomare. La strada cadeva a strapiombo sulla sabbia, formando uno sbalzo di qualche metro. Al tramonto i bambini prendevano la rincorsa dal centro della carreggiata e si lanciavano nel vuoto, volteggiando nell’aria prima di atterrare sul bagnasciuga. Il confronto con i nostri bambini è stridente! Purtroppo a Guaraparì mi è capitato anche di vedere i bambini di strada tirare la colla. Il lungomare aveva l’aspetto che ti attenderesti: palme, piante tropicali e chioschi si susseguivano uno di seguito all’altro. Ogni sera, prima di tuffarci nei ritmi brasiliani, cenavamo in uno dei tanti ristoranti all’aperto. Con il buio saliva il suono della musica e il lungomare si animava di gente che ballava, beveva e cantava. Vecchi, giovani e bambini uniti dal ritmo della musica e della festa. Noi ci sistemavamo vicino a un piccolo chiosco ambulante gestito da un tipo molto particolare. Aveva un viso simpatico: era grasso, pelato, aveva folti baffi bianchi e i denti rimasti erano ingialliti dalle sigarette, ma soprattutto indossava una vecchia e sdrucita maglia della Fiorentina. Incredibile! Sorseggiavamo la nostra caipirinha guardando le luci delle navi che in lontananza, nel buio, solcavano la grande baia di Guaraparì. Vicino a noi veniva sempre a sedersi un uomo di mezzo età, alto, secco e pieno di alcool. Appariva più vecchio degli anni che aveva. Lui scrutava con i suoi occhi assenti il cielo e ripeteva continuamente con voce lenta e cadenzata: “Gabbiao, gabbiao, gabbiao…”. Lo guardavamo, ridevamo e con il passare dei giorni facemmo la sua amicizia, aiutati 15
da Daniela nei nostri improbabili dialoghi. Nell’oscurità della notte e con molte birre in pancia, davanti ai suoi occhi vedeva volteggiare i gabbiani! I gabbiani non c’erano, o meglio, noi non li vedevamo. C’era invece una cameriera che non era certamente bellissima, ma neanche disprezzabile. Aveva un nome impronunciabile, simile a quel giocatore dell’Inter che si chiamava Van der Meyde. Per semplicità decidemmo di soprannominarla proprio in quel modo. Una mattina, Daniela ed io la vedemmo uscire dalla stanza di Stefano. La sera successiva, Stefano raccattò, sulla strada del ritorno, una mulatta molto imbenzinata di cui non seppe mai il nome. Furono le uniche scopate del suo viaggio in Brasile, oltre all’innamoramento non corrisposto per Haifa. Gli piaceva molto, ma lei non cedette al suo corteggiamento. Se Haifa e Stefano si fossero fidanzati, sarei diventato il loro suocero e loro i miei generi! Il Brasile, ma soprattutto i brasiliani ci avevano affascinati, tanto che al mio ritorno in Italia impiegai un mese per riprendermi dal quel viaggio. Non riuscivo più a dare lo stesso valore alle cose. I nostri ritmi, le nostre preoccupazioni, i nostri stress, le nostre ossessioni mi sembravano assurde e ingiustificate quando ripensavo al sorriso e alla gioia di quella gente che sapeva vivere felicemente senza niente. Sono stato in Brasile altre due volte, la prima delle quali con mia madre. Ero pronto a sposarmi ed a trasferirmi a Goiania, ma Daniela non la giudicò la soluzione migliore. Vi tornai nell’estate del duemilacinque con mia madre e mio padre. Fu un viaggio turisticamente bellissimo ma molto duro, in quanto avevo programmato di visitare la Chapada dos Viaderos, Salvador de Bahia, il Morro de Sao Paulo e le cascate di Iguazù. Una mattina partimmo per la Chapada dos Viaderos, un parco naturale nel cuore della savana brasiliana. Dovevamo percorrere quattrocento chilometri con la vecchia Ford Fiesta di Daniela. La macchina di colore bianco e con i seggiolini mezzi scassati assecondò le nostre velleità per oltre cento chilometri, prima di fermarsi lungo la strada che da Annapolis porta a Brasilia. Daniela pensò bene di telefonare immediatamente al suo meccanico di fiducia, il quale senza titubanze le disse: “Devi lasciarla ferma alcuni minuti e poi vedrai che ripartirà”. Infatti fu così, ma l’illusione che una breve sosta avesse magicamente risolto ogni problema, durò pochi attimi. La macchina si fermò nuovamente e quel viaggio si trasformò in un’avventura, o meglio ancora, in una vera e propria odissea. Potevamo percorrere solo pochissimi chilometri per volta ed a passo d’uomo. Con molta fatica arrivammo finalmente nella periferia di Brasilia. Era domenica, ma fortunatamente trovammo un meccanico aperto che cambiò il filtro della benzina e ci fece ripartire. Dopo venti chilometri eravamo nuovamente fermi e disperati, ma proprio quando stavamo per lasciare Brasilia incontrammo un altro meccanico. Lo accompagnai in un folle giro di prova, che gli servì per diagnosticare il male oscuro che attanagliava la povera e stanca Ford Fiesta di Daniela. “E’ il catalizzatore” sentenziò con sicurezza disarmante! Rinfrancati per avere finalmente trovato l’uomo giusto, nel posto giusto, al momento giusto, ci sedemmo all’ombra di un piccolo albero non distante dall’officina, mentre lui iniziò a lavorare sotto la macchina. In preda al sudore ed allo stress finii per ripensare alla Ford Fiesta che comprai nel lontano millenovecentonovantadue e improvvisamente mi sembrò di ricordare che quella macchina non avesse il catalizzatore. Tornai al fresco dell’officina e mi sedetti vicino al nostro prode meccanico, seguendone con attenzione ogni mossa. Il suo sguardo si fece sempre più perplesso e le sue martellate sulla marmitta sempre più intense e nervose. “Non riesco a liberare il catalizzatore!” Dopo mezz’ora di inutili tentativi riemerse da sotto la macchina e andò nel suo ufficio a rovistare fra fogli e libri appoggiati disordinatamente su una mensola polverosa. Ne estrasse uno sulla cui copertina c’era la fotografia di una Ford Fiesta. Lo sfogliò velocemente, si soffermò su una pagina, lo ripose e tornò verso di me. “Questa macchina non è catalizzata!” 16
“Cazzo! E tutte le martellate che hai tirato?” risposi ironico. Uscii dall’officina con un sorriso isterico sulle labbra. Daniela e i miei genitori erano ancora seduti all’ombra di quell’albero. Le strade, attraversate da qualche cane randagio alla ricerca di un po’ di fresco, erano semi deserte. Preso atto che il problema non poteva essere imputato al catalizzatore, il meccanico lavorò su altre parti del motore. Alle quattro del pomeriggio ripartimmo affranti e sfiduciati. Ci attendevano duecento chilometri nel nulla. Come preventivato, la macchina si fermò nuovamente in una zona arida e pianeggiante, mentre il sole stava ormai tramontando. Eravamo ancora molto lontani da Sao Jorge. Ero preoccupato. Su quella stessa strada, la sera precedente, un gruppo di banditi aveva assaltato l’auto di una troupe di documentaristi inglesi. Due di loro erano rimasti uccisi. Presi il volante della macchina, riavviai il motore e mi lanciai a tutta velocità lungo quella lingua d’asfalto che correva dritta e deserta verso Alto Paraiso. Vedevo il conta chilometri segnare centocinquanta, centosessanta, mentre fuori il buio aveva avvolto il panorama d’intorno. Mio padre e mia madre, terrorizzati dall’alta velocità e chiusi in un silenzio surreale, si tenevano forti alle maniglie dell’auto. Come per miracolo, la macchina non si fermò più. Giunti a Alto Paraiso svoltammo a sinistra e ci immettemmo in una strada sterrata di cui facevo fatica a percepire i limiti della carreggiata, tanto era intenso il buio. Impiegai quasi un’ora e mezzo per percorrere poco più di trenta chilometri. Arrivammo a Sao Jorge stremati, sudici e puzzolenti. Le strade di Sao Jorge erano polverose, dissestate e assolate. Mi sembrava di essere in un film western, quelli dove ci sono i messicani e dove una volta al giorno in paese arriva la diligenza. Nella piazza di Sao Jorge a mezzogiorno arrivava la corriera da Brasilia. Si fermava proprio davanti al saloon, anzi davanti al bar di “Pelè”. Prima che la corriera arrivasse in piazza, all’orizzonte scorgevamo la nuvola di polvere che lasciava dietro di se. Da quella corriera scendevano tanti ragazzi con zaino, sacco a pelo, chitarra e tamburi sulle spalle. In quei giorni a Sao Jorge si svolgeva un importantissimo festival musicale. Per le strade di quel piccolo paese sperduto nel cuore della savana brasiliana, gravitavano centinaia di giovani dall’aspetto trasandato e alternativo. Girava molto fumo e la birra scorreva a fiumi. La musica ci accompagnava per ventiquattr’ore al giorno. Il battito ritmico dei tamburi, le note dolci di una chitarra, il suono intenso di un pianoforte si diffondevano nell’aria come nuvole trasportate dal vento. Li sentivi forte nella calura di mezzogiorno e li percepivi in lontananza nel silenzio della notte. In quei giorni a Sao Jorge ho ascoltato musica stupenda. Nell’altra piazza del paese gli organizzatori avevano allestito un cinema all’aperto. Il proiettore era piazzato su un vecchio pullman degli anni cinquanta che gettava il suo fascio luminoso su uno schermo gigante che si stagliava imponente nell’oscurità del cielo stellato. La platea era composta da alcune panche in legno protette da una piccola tribunetta in tubi innocenti. La magia di quegli attimi era resa ancora più intensa dal gracchio della pellicola che scorreva incerta nelle ruzzole del proiettore. Erano sapori di altri tempi. Mi ricordai quando, in vacanza da bambino, le sere d’estate andavamo al cinema all’aperto di Quercianella. Ogni tanto la pellicola si inceppava e la gente fischiava, rideva e schiamazzava. Poi nel buio si udiva una voce baritonale: “Scusate, riprendiamo la proiezione. A sedere e silenzio per favore”. Applauso. Eravamo alla fine degli anni sessanta. Il primo giorno a Sao Jorge mia madre fu vittima di una crisi di disidratazione durante l’escursione nel parco naturale di Chapada dos Viaderos. Nei giorni successivi trascorse molte ore al bar di “Pelè”. Si sedeva ad un tavolo sotto il piccolo porticato in legno e guardava il film che le scorreva davanti agli occhi. Si divertiva molto. Sao Jorge le è rimasto nel cuore. Chissà se qualcuno le offrì mai una canna! Il viaggio di ritorno fu come quello di andata: un’odissea! Ci riposammo qualche giorno a Goiania. La sentivo come casa mia. Amavo Daniela e la sua famiglia. Lei era dolcissima e innamoratissima. Prima di rientrare in Italia avevo programmato di visitare Salvador de Bahia, il Morro de Sao Paulo e Iguazù. Le cascate di Iguazù valgono da sole un viaggio oltre oceano. L’emozione che ho provato davanti a questo autentico spettacolo della natura è per me tutt’ora inspiegabile. A Salvador ci immergemmo nell’anima nera del Brasile. Qui arrivavano gli schiavi dall’Africa e ancora oggi la 17
popolazione è a maggioranza nera. Il Morro de Sao Paulo è una piccola isola a due ore di barca da Bahia. Quando lasciammo il grande golfo sul quale si affaccia Salvador, il mare si fece impetuoso e la lancia sulla quale avevamo preso posto cominciò a ondeggiare pericolosamente. Eccetto il sottoscritto, tutti i passeggeri vomitarono copiosamente. I miei genitori arrivarono distrutti al Morro. Non avevano neanche la forza di alzarsi. Al Morro non possono circolare le macchine, ragione per cui dal porticciolo in cui eravamo attraccati dovevamo percorrere un chilometro di strada per raggiungere il carro che ci avrebbe portati alla “Pousada Praia do Incanto”. Alcuni ragazzi, per lo più di colore, aiutavano i turisti nel trasporto dei bagagli. Si servivano di rudimentali carriole da muratore sulle quali caricavano le valigie. Quella volta sulla carriola ci finì mia madre. Con le poche forze che ancora le erano rimaste, si adagiò lentamente sul fondo dell’improvvisato mezzo di trasporto. Spinta da un ragazzo di colore, sfilò per le sabbiose stradine del paese con le gambe penzoloni fuori dalla carriola, un grande cappello di paglia in testa e una valigia appoggiata sulla pancia. Io mi sobbarcai il trasporto di quasi tutti i bagagli della truppa, compreso un coloratissimo quadro che mio padre aveva acquistato a Salvador de Bahia La gente ci guardava e rideva. La “Pousada Praia do Incanto” era la più lontana dal paese. Oltre il muretto che la divideva da un folto palmeto, c’era solo mare e spiaggia. Eravamo gli unici clienti della Pousada. Furono tre giorni stupendi, anche se la notte spendevo il mio tempo a uccidere le decine di zanzare che infestavano quel posto. Al Morro le persone vivono in sintonia con la natura e con il suo ritmo. Quando uscivano da scuola, i bambini tornavano nelle loro case a piedi, camminando per chilometri sulla sabbia bagnata che la bassa marea lasciava percorribile per alcune ore durante il giorno. I ritmi di quella gente erano scanditi proprio dalle maree. Nella tarda mattinata l’acqua si ritirava per cinque, seicento metri fino alla barriera corallina e i pesci rimanevano imprigionati nelle vasche d’acqua che venivano a formarsi. Era a quell’ora che alcune famiglie di pescatori uscivano dalle loro umili case per raccogliere ciò che il mare aveva portato. Gli uomini maneggiavano sapientemente le grandi reti. Quando i pesci non avevano più scampo, le donne li afferravano con le mani riponendoli poi nelle sacche portate dai loro bambini. Il loro pescato era sempre abbondante. Puntualmente, ogni giorno verso le tre, i pescatori sparivano e qualche minuto dopo il mare cominciava a risalire. La sera verso le sette prendevamo il carro che la “Pousada Praia do Incanto” metteva a disposizione dei propri clienti e andavamo a mangiare in paese. L’unica strada sterrata dell’isola correva tortuosa fra file di palme e modeste case in legno. Nell’oscurità della notte si udivano soltanto i rumori della foresta e la luce soffusa della luna lasciava intravedere i contorni delle piante e delle colline circostanti. Lungo il tragitto incontravamo uomini in bicicletta, donne con grandi ceste sulla testa e bambini che giocavano ai bordi della strada. Spesso capitava che qualcuno di loro chiedesse un passaggio. L’autista fermava il carro e loro salivano velocemente sedendosi in silenzio sulle panche ancora libere. La popolazione del Morro è per lo più di colore. Su quel carro, nel buio assoluto della notte, si scorgevano solo i loro occhi e i loro denti. Al Morro c’era anche un aeroporto. Vi atterravano i piccoli aerei bi-elica provenienti da Salvador. La pista era una lunga striscia di erba alla cui estremità c’era una casetta in legno dove i viaggiatori sbrigavano le formalità prima dell’imbarco e dopo l’atterraggio. L’atmosfera che respirammo al Morro de Sao Paolo, il sapore intenso delle sue notti stellate, i volti degli uomini, delle donne e dei bambini di quell’isola così vicina a Salvador ma così lontana dal mondo, rimarranno per sempre nel profondo della mia anima. Trascorremmo a Goiania la nostra ultima settimana di quel fantastico viaggio. Ero consapevole che potevano essere gli ultimi giorni che avrei trascorso con Daniela e per questo motivo fui assalito da una tristezza sconfinata. Stavo male perché non trovavo risposte concrete al nostro desiderio di vivere per sempre insieme. Non potevamo più continuare il nostro rapporto a quelle condizioni. Per due anni avevo cercato di trovare la giusta soluzione, ma era realmente molto complicato. Amavo davvero Daniela e volevo offrirle un futuro sicuro e tranquillo, ma al tempo stesso non volevo avventurarmi in un’altra storia complicata e difficile. Lei invece per il nostro amore avrebbe fatto qualsiasi tipo di sacrificio. Rimanemmo d’accordo che se entro dicembre non trovavamo la soluzione per vivere insieme, ci saremmo lasciati. La nausea e la malinconia mi divoravano. 18
Daniela ci accompagnò all’aeroporto. Quando chiamarono il volo per Sao Paolo, ci stringemmo forte, ci baciammo, piangemmo, poi la vidi camminare verso l’uscita. Aveva i capelli lunghi, biondi, sciolti che calavano lungo la sua schiena, un jeans e una maglietta bianca. Lei era alta, bella, dolce, sensibile, molto più araba che brasiliana sia nei lineamenti che nello spirito. Il suo animo era straordinariamente buono e gentile. Si voltò per un ultimo attimo. Piangeva. Le mandai un bacio. Mi voltai. Un poliziotto controllò i miei documenti. Mi girai di nuovo. Lei non c’era più. Non l’ho più vista. Ci siamo sentiti ancora tante volte, ma quella fu l’ultima volta che ho visto il suo viso, che mi sono bagnato le guance con le sue lacrime, che ho sentito battere il suo cuore, che ho annusato il sapore delle sue labbra e il profumo della sua pelle, che nella profondità dei suoi occhi marroni ho visto la sua anima semplice. Gli stessi occhi che catturarono il mio cuore, quella sera al Copacabana di Firenze.
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3 I miei genitori Prima di partire per Londra ho rivisitato le mie vecchie agende e ho ricordato i frequenti appuntamenti di lavoro che avevo con la signora Liza Prado. Mi sfugge l’oggetto di quei continui incontri, poiché Liza si affidava a noi semplicemente per il posizionamento del suo sito web. Gli ultimi appuntamenti li evidenziavo con il suo nome seguito dal numero di cellulare e non con la denominazione dell’agenzia matrimoniale. Ci davamo del tu e ci dilungavamo in lunghe e cordiali chiacchierate, anche se lei spesso manifestava una certa insoddisfazione per il nostro servizio. Eravamo sempre molto gentili l’una nei confronti dell’altro. Con calma le ripetevo che i frutti del nostro lavoro non potevano essere immediati, ma si sarebbero visti a medio e lungo termine. Intanto il bambino cresceva. Qualche volta la tata apriva la porta di cucina e lui veniva in salotto a farci visita Non conosco il motivo, ma quella cucina mi incuriosiva molto. Esercitava su di me il fascino irresistibile che hanno le cose proibite. Dalla cucina arrivava il bambino, in cucina c’era la tata, in cucina il marito di Liza firmava e staccava gli assegni che poi lei mi consegnava, dalla cucina arrivavano le bevande che accompagnavano i nostri colloqui. Ogni volta che ci salutavamo mi sentivo felice e leggero, perché fra lei e me c’era un feeling molto particolare. Non pensavo a Liza come donna, ma esclusivamente come cliente. Io ero innamoratissimo di Daniela, mentre lei era sposata e aveva un figlio. Quando avevo appuntamento con la signora Prado, mi organizzavo per non dover tornare in ufficio a Empoli, poiché dal giorno in cui era finita la mia storia con Elga, abitavo con i miei genitori a Firenze. Sono nato e cresciuto nella casa dei miei genitori. Quando ero piccolo vivevamo insieme ai miei nonni materni. I genitori di mio padre non li ho mai conosciuti. Ogni giorno mio nonno mi portava con la bicicletta al Parco delle Cascine. Il parco, dal Ponte alla Vittoria fino all’Indiano, è lambito per tutta la sua lunghezza dall’Arno che nel 1966 aveva tracimato dagli argini alluvionando il centro storico e le campagne intorno a Firenze. Per anni le ruspe hanno continuato a pulire e sistemare il letto del fiume. Vedere i camion entrare nell’acqua e attraversarlo da una sponda all’altra mentre le ruspe li riempivano di terraglia e fango, era la mia passione. Con mio nonno passavamo intere mattinate sul greto dell’Arno ad osservare il procedere dei lavori di bonifica. Ero un tipo strano e probabilmente ancora oggi lo sono. Detestavo le giostre, la confusione e il rumore. Alle Cascine c’era uno spazio riservato ai bambini dove erano sistemati alcuni scivoli, l’altalena e un girello. Una volta mio nonno mi fece sedere sul girello e cominciò a spingerlo. Vedevo il mondo girare intorno a me. Sentii una forte nausea e cominciai ad urlare a squarciagola. Gli altri bambini si divertivano molto sul girello, io non ci sono mai più salito. L’unico appuntamento a cui non mancavo mai era la “Festa del Grillo”. Veniva celebrata ogni anno il giorno dell’Ascensione nel Parco delle Cascine. I viali alberati si riempivano di bancarelle che vendevano gabbiette nelle quali ponevamo i grilli che dovevamo trovare all’interno del Parco. La mattina successiva accanto alla gabbia trovavamo delle monetine. La stessa cosa avveniva con le lucciole. Nelle notti d’estate catturavamo le lucciole, le portavamo a casa, le mettevamo sotto ad un bicchiere e andavamo a letto sognando di svegliarci con tanti soldini. Oggi le lucciole è raro vederle e la festa del grillo ha perso quasi tutto il suo fascino. Il due giugno, in occasione della Festa della Repubblica, alle Cascine si svolgeva la parata militare. Sul viale che costeggia l’Arno sfilavano tutti i corpi dell’esercito. Il momento che attendevo con maggiore trepidazione era il passaggio dei bersaglieri. Andavano di corsa, suonavano la tromba ed avevano un cappello con grandissime piume. Accanto a me c’era sempre mio nonno. A lui piaceva molto il mare ed il sole. Un giorno d’estate, a Quercianella il sole lo ustionò. Gli venne il fuoco di Sant’Antonio e non si riprese mai più. Morì qualche mese dopo a Firenze in un letto dell’ospedale di Careggi. Fu il primo dolore della mia vita. Il giorno che venne a mancare, ero da mia zia. 20
Mia nonna invece si occupava di me nelle ore in cui rimanevo a casa. Alle cinque del pomeriggio mi preparava la merenda: pane e marmellata, pane burro e marmellata, pane e olio, pane burro e zucchero oppure pane vino e zucchero. Gustavo la mia merenda seduto accanto a lei e la guardavo cucire. Quando avevo finito di mangiare mi preparava la camomilla e poi giocavamo a carte. Io crescevo e lei divenne la mia migliore confidente. A lei raccontavo tutto, perfino i miei primi innamoramenti. Mi ascoltava in silenzio e talvolta si lasciava sfuggire anche qualche piccolo consiglio. Mia nonna era una donna molto buona. Avevo tredici anni quando un tumore la portò via per sempre. Anche se vado raramente al cimitero, lei è stata la persona più importante della mia vita e mi capita spesso di incontrarla nei miei pensieri. Non ho mai amato andare a deporre dei fiori su una tomba e recitare una preghiera. Preferisco coltivare il suo ricordo in mille altri modi, ma soprattutto cerco di essere buono come lo era lei. Trascorrevo gran parte delle mie giornate con i miei nonni. Mio babbo e mia mamma lavoravano e non potevano dedicarmi molto tempo. Mio babbo era uno dei tanti dipendenti delle Poste Italiane e, nel molto tempo che gli rimaneva libero, faceva l’allenatore di calcio. Aveva due sorelle: Anna e Marisa. Mia madre lavorava alle dipendenze di Anna. Anna era una sarta molto conosciuta. Vestiva le donne più in vista di Firenze e aveva importanti clienti anche a Roma. Mia madre invece ha un fratello e una sorella: Giovanni e Silvana. Sono cresciuto a pane e calcio. Mio padre mi portava spesso con sé agli allenamenti ed a vedere le partite. Ero molto bravo con il pallone fra i piedi. Nel cortile del condominio in cui abitavo passavamo intere giornate a giocare a calcio. Eravamo moltissimi bambini e io ero il migliore. A tredici, quattordici, quindici anni ho fatto molti provini per importanti società professionistiche, ma nel momento per me più importante sono andato in crisi e come calciatore mi sono perso. Mio padre non ha mai fatto niente per aiutarmi a sfondare nel calcio. Una volta mi prese in prestito per giocare una partita con la sua squadra. C’erano molti osservatori sulle tribune. Il giorno dopo, verso l’ora di pranzo, squillò il telefono di casa. “Ciao Bruno.” “Ciao Margheri, che piacere sentirti. Ti è piaciuta la partita di ieri?” “Sì molto. Hai messo su una bella squadrettina, e poi quel numero sei è bravissimo. Chi è?” “Mio figlio !” “Come tuo figlio? E non ci ha mai detto niente? Voglio rivederlo. Devi portarlo a fare un provino da noi.” Margheri era un vecchio osservatore della Fiorentina. Il provino si svolgeva su un campo di periferia lo stesso giorno in cui mio padre aveva gli allenamenti con la sua squadra, cosicchè. si limitò ad accompagnarmi in Piazza Stazione da dove presi un autobus. Arrivai allo Stadio di Sesto Fiorentino da solo, borsa sulle spalle e passo emozionato. Il provino andò bene ma non benissimo. Le mie zie amavano dire che ero il classico bravo bambino, uno di quei bambini che se la cavavano molto bene a scuola, di cui le maestre esprimevano giudizi positivi e i cui voti erano sempre alti. Ero apparentemente calmo, molto responsabile e avevo spesso il viso imbronciato. Mio padre ripete che sono nato incazzato, sono cresciuto incazzato e vivo costantemente incazzato. I miei genitori hanno sempre avuto fiducia in me e per questo non mi hanno molto controllato. Gli ultimi anni di scuola facevo molte forche, specialmente nel periodo primaverile. Spesso andavo a fare il bagno al lago di Chiesanuova con alcuni miei amici. “Dove vai con il telo da mare?” mi chiedeva mia madre prima che uscissi di casa. “A fare il bagno a Chiesanuova!” “Non fare lo stupido. Scherzi sempre.” Io le dicevo la verità, ma lei non mi credeva. Mi succede molte volte di non essere creduto forse perché, contrariamente a quanto sostiene mio padre, troppo spesso amo scherzare. Raccontare gli sfondoni è la mia vera specialità e visto il successo che ottengo, mi sono convinto di saperli raccontare davvero bene. Certe volte mi stupisco di me stesso, ma soprattutto del genere umano. Mi chiedo come alcune persone possano credere alle baggianate che dico.
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Mio padre e mia madre mi hanno fatto capire la differenza fra il bene e il male, fra il giusto e l’ingiusto, fra il buono ed il cattivo. Mi hanno ben educato, ma non sono stati una guida forte nei momenti importanti della mia vita. Mia madre dice che io non ho mai accettato i loro consigli. Io penso che in certi frangenti avrebbero dovuto avere la personalità di impormeli. Oggi avverto una strana sensazione di vuoto, come se qualcosa di davvero importante mi fosse mancato. A diciotto anni, come tutti i ragazzi, pensavo di poter spaccare il mondo, avevo mille sogni, niente mi sembrava impossibile. Forse, come dice mia madre, non ho ascoltato veramente i loro consigli, o forse loro non hanno saputo essere sufficientemente credibili ai miei occhi. Mia madre era una donna bellissima e le piaceva indossare vestiti che esaltassero le sue qualità estetiche. Gli uomini si giravano a guardarla e questo mi faceva soffrire: ero geloso! Un giorno dall’autobus la vidi abbracciata ad un uomo. Non era mio padre. Convinsi me stesso di essermi sbagliato, che avevo visto male. Lei non poteva essere mia madre, anche se in fondo sapevo benissimo che avevo visto giusto. In effetti, dopo la morte di mia nonna, percepivo che la situazione fra mia madre e mio padre si faceva giorno dopo giorno più pesante e le liti si susseguivano con sempre maggiore frequenza. Quando diventai grande mia madre s’innamorò di uno svitato molto più giovane di lei e decise andare a vivere con lui vicino a Pavia. In quel periodo ci sentivamo e ci vedevamo poco. Lui era un fallito. Le fece aprire una camiceria e le fregò molti soldi. Mio padre cercava in tutte le maniere di farle capire ciò che stava combinando, ma lei non lo ascoltava, cosicché decisi di intervenire per cercare di salvare il salvabile. Mia madre ed io ci amavamo follemente. Ascoltò le mie parole e alcuni giorni dopo, lasciò quell’uomo. Per qualche tempo ha vissuto da sola in un casolare della pianura Padana e ha continuato a pagare le malefatte di quel truffatore. Poi è tornata a casa, ma per qualche tempo ho faticato a ritrovare i sentimenti che provavo prima che se ne andasse. Lei è una donna sensibile, ingenua, buona e caparbia. Mio padre è nato in agosto ed è un tipico leone. Abbiamo caratteri e personalità totalmente differenti. Fin quando sono stato piccolo non ho avuto problemi con lui. Mi portava a giocare al calcio, cercava di essere premuroso, di aiutarmi. E’ sempre stato un buon padre, ma per alcuni anni non ha accettato che io fossi diverso da lui. Ci scontravamo su tutto e io soffrivo molto questa situazione. Per me era un avversario. Una sera le nostre incomprensione sfociarono in una discussione che coinvolse anche mia madre. Tutti e tre facemmo i conti con il nostro passato. Trovai la forza di dire tutte quelle cose che per anni mi ero tenuto dentro. Finalmente i nostri rapporti cambiarono e trovammo un migliore equilibrio. Oggi viviamo insieme, anche se io, fra qualche mese, mi trasferirò in un piccolo appartamento che ho comprato da poco. Mi piace dedicarmi ai miei genitori e godere della loro compagnia. Mia madre fa la pensionata-casalinga e passa gran parte del suo tempo a pulire e riordinare la casa, mentre mio padre si occupa ancora di calcio. Dormono nello stesso letto, ma ognuno di loro è libero di fare la propria vita senza però fare mancare niente all’altro. Mio padre ha altre compagnie, mentre mia madre dice di avere chiuso con gli uomini. Hanno il merito di aver saputo raccogliere ciò che il passaggio di un amore inevitabilmente lascia dietro di sé e hanno così trovato un nuovo punto d’intesa e di comprensione. Loro sono i miei genitori e io gli voglio e gli vorrò per sempre molto bene.
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4 Il giorno del mio compleanno Sono nato l’otto marzo del millenovecentosessantacinque sotto il segno dei pesci. Alla nascita pesavo quattro chili e mezzo. Il mio compleanno coincide con la festa della donna e questa concomitanza gli conferisce un gusto molto particolare che a me piace molto, anche se più che pensare a scartare i regali devo contare le donne della mia vita alle quali donare la mimosa. Ogni anno si presenta il solito dilemma, ovvero stabilire chi è realmente il festeggiato: le donne o Fabio? La soluzione che abbiamo adottato prevede che mio padre offra la cena o il pranzo a mia madre, a me e alla mia fidanzata. Certamente non è il massimo, ma per me è già abbastanza, considerato che non ho mai dato molta importanza al giorno del mio compleanno, come anche a quello di altre persone comprese le più care. Spesso mi dimentico di fare gli auguri e questa mia scarsa attenzione ha deluso molta gente. Mia madre ripete che gli animali hanno un’anima più sensibile della mia e forse non sbaglia. Non ho mai capito se il compleanno sia una ricorrenza felice o triste. Da una parte ricorda il giorno in cui siamo venuti al mondo, dall’altra sancisce senza pietà il passare inesorabile degli anni, e se vogliamo essere ancora più catastrofici, scandisce l’avvicinamento alla morte. Quindi, che cazzo festeggiamo?! Ricordo i miei primi compleanni. Erano i mitici anni sessanta, gli anni del boom economico, gli anni della definitiva rinascita dell’Italia dai disastri della guerra, ma anche gli anni in cui molti giovani intuirono che i valori dominanti andavano disgregandosi, erosi progressivamente da un modello di società opulenta e materialista. Evidentemente il virus del consumismo sfrenato si era già insinuato nella nostra società. Fortunatamente ho fatto in tempo ad assaporare gli ultimi rigurgiti di un’epoca in cui le persone erano in sintonia con loro stesse e con ciò che le circondava. Gente felice, impregnata di grandi ideali, legata alle tradizioni, alla famiglia e alla propria terra. Nelle strade sfrecciavano auto quali la 500, la 600, l’850, prodotte dalla Fiat per il popolo. Gli uomini erano per la gran parte impiegati nello Stato o lavoravano nelle grandi fabbriche del nord Italia, mentre le donne erano per lo più casalinghe. Milano e Torino erano grige città industriali, nelle quali trovavano rifugio migliaia di famiglie in cerca di lavoro, provenienti dal sud Italia. A quei tempi Firenze era ancora la culla dell’artigianato. Dentro le mura, i quartieri di Santa Croce, Santo Spirito, San Frediano pullulavano di botteghe artigiane che animavano la vita quotidiana delle antiche viuzze del centro storico. Non c’era la zona blu o la ztl. Le macchine giravano liberamente intorno al Duomo e Piazza Signoria era un grande parcheggio all’aperto. I miei primi compleanni scorrevano felici in famiglia, con la piacevole compagnia dei miei cugini, delle mie cugine, dei miei zii, delle miei zie e naturalmente dei miei nonni e dei miei genitori. Poi cominciarono i compleanni con gli amichetti. La mia generazione è stata l’ultima che ha potuto vivere e giocare in strada. Stavamo fuori di casa dalla mattina alla sera. Eravamo soli, non avevamo l’assillo e la protezione dei genitori. I compleanni erano classiche festicciole in casa. Si spengevano le candeline sulla torta, scartavamo i regali, facevamo merenda e giocavamo nelle nostre camerette. Fuori, la crisi economica dei primi anni settanta aveva preso il posto del boom economico degli anni sessanta. Ricordo con nostalgia le domeniche senza macchina. Il governo italiano, guidato dalla Democrazia Cristiana, al fine di risparmiare energia, vietò l’uso delle auto. La domenica tutti a piedi! Era triste, ma stranamente bello. Quando nacqui, nel 1965 il palazzo in cui abitavamo era in mezzo ai campi. Poi qualcuno decise che al posto dei campi dovevano sorgere decine di casermoni popolari, in cui vennero alloggiati migliaia di emigranti provenienti dal sud Italia, famiglie per bene in cerca di fortuna e anche molti delinquenti. L’Isolotto diventò un ghetto, un quartiere malfamato, il più difficile e problematico di Firenze. I miei genitori, insieme ad altri, pensarono bene di allontanarci da certe amicizie e con alcuni compagni d’infanzia frequentammo la Scuola Media Niccolò Machiavelli, che aveva la sua
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succursale nel cuore storico di Firenze, in Piazza Santa Maria Novella proprio davanti al capolinea del bus numero nove. Sul bus eravamo in tanti e facevamo un casino bestiale. In Borgo Ognissanti il bus si fermava di fronte alla Pescheria Becani e noi davamo sfogo a tutta la nostra stupidità di adolescenti. Tiravamo giù i finestrini e cominciavamo a urlare a squarciagola: “Becani pesci marci, Becani pesci marci!”. Un giorno, in preda a una crisi di nervi, il signor Becani prese fra le mani una cassetta di pesce fresco, rincorse l’autobus e cominciò a lanciarci contro la sua mercanzia. Fu una scena indimenticabile: lui, con quel lungo grembiule bianco, insanguinato e un po’ sudicio, nel mezzo della strada, di corsa e i pesci che volavano infrangendosi sui finestrini dell’autobus. Da quel giorno non fu più la stessa cosa. Imparammo a rispettare il signor Becani. Io ero uno dei più casinisti, uno dei più bravi e uno dei ragazzini più belli della scuola. In quegli anni avevo dimenticato la mia timidezza, la mia scontrosità ed anche la mia buona educazione, ammesso che ne avessi. Mi ero trasformato in una vera fava! Non mi riconoscevo più e ancora oggi, a distanza di anni, mi domando cosa mi fosse successo. In quel periodo, in occasione dei compleanni, organizzavamo delle feste nelle cantine o nei garage. Avevamo un vecchio impianto stereo, e soprattutto Andrea metteva a disposizione alcune stravaganti luci psichedeliche. Un gruppo di luci riproduceva fedelmente un semaforo. Era una vera figata! I suoi fratelli maggiori, due gemelli molto conosciuti nella zona, erano componenti di una rock band. Era grazie a loro se potevamo disporre di tutte le migliori diavolerie tecnologiche. Le nostre feste erano molto apprezzate dalle ragazzine. Mangiavamo, ballavamo e ci baciavamo. Alcune compagne di scuola baciavano con la lingua, altre si facevano strusciare solo sulle labbra. La sera, quando andavamo a letto, le nostre labbra prendevano fuoco. Poi Andrea si allontanò dalla nostra compagnia. Un giorno venimmo a sapere che aveva l’AIDS e qualche anno più tardi lo trovarono morto per un overdose sotto un ponte della Greve a Scandicci. Per tutti noi fu un grande dolore. In effetti non ricordo nitidamente quasi nessuno dei miei compleanni, eccetto due che rimarranno per sempre scolpiti nella mia mente. Era l’otto marzo del millenovecentonovantacinque. Da qualche anno convivevo con Elga nella sua casa di Empoli e lavoravo presso l’Agenzia Immobiliare “The City” in pieno centro a Firenze. Ogni mattina partivo da Empoli e raggiungevo il mio ufficio in Via de Pepi nel quartiere storico di Santa Croce. Generalmente terminavo di lavorare alle quattro del pomeriggio, per dedicarmi al mio secondo lavoro. A dire la verità, fare l’istruttore di calcio mi appassionava molto di più che essere agente immobiliare. Al termine di ogni allenamento mi sciroppavo quaranta minuti di traffico per fare rientro a Empoli. Quella sera, arrivando sotto casa non riuscii a trovare parcheggio. Solitamente non era difficile individuare il posto per infilare la mia Ford Fiesta di colore rosso. ”Porca puttana, ma che cazzo succede!” Continuai a borbottare finchè non trovai il buco giusto. Mi ero perfino dimenticato che fosse il mio compleanno e avevo rimosso dalla testa anche la festa delle donne. Elga ed io abitavamo al secondo piano di una piccola palazzina bifamiliare. L’appartamento sotto di noi era abitato da mia suocero. Accesi la luce, e nel silenzio cominciai a salire le scale. Come mia abitudine iniziai a chiamarla: “Elga, Elga”. Il nostro era un gioco dolce e bellissimo. Io la chiamavo e lei si affacciava dalla ringhiera accogliendomi con un grande sorriso. La mia voce rimbombava nella tromba delle scale, ma lei stranamente non si faceva vedere. La chiamai nuovamente: “Elga, Elga, Elga”. Niente, silenzio assoluto. Tirai fuori dalla tasca dei pantaloni il mazzo delle chiavi e aprii la porta. La casa era buia, non udivo alcun rumore. Accesi la luce e come d’incanto da dietro ogni muro si materializzarono tutti i miei amici. C’erano una trentina di persone ad aspettarmi. Ero felicissimo, ma per qualche istante rimasi imbambolato. Mi ricordai che era il giorno del mio compleanno e mai lo avevo festeggiato in compagnia di così tanta gente. Elga mi aveva fatto una splendida sorpresa. 24
“Cazzo, ecco perché tutte quelle macchine per la strada!” Alcuni ridevano, altri mi prendevano per il culo. Ricevetti tantissimi regali come mai ne avevo ricevuti nei miei precedenti compleanni. Di quel giorno conservo ancora una t-shirt rossa con il faccione del Che. Me la regalò Paolo. Non l’ho mai indossata ma mi piace tenerla. Molti in tutto questo non troverebbero niente d’indimenticabile, io invece conservo un ricordo indelebile di quella serata. A volte anche le cose più semplici sono di straordinaria importanza. Dipende come le si vivono e il valore intrinseco che hanno. I miei primi trent’anni erano andati e da allora pronuncio con difficoltà la mia età. Passare dai venti ai trenta è stato tremendo. Quando sono arrivato a trent’anni ho preso definitivamente coscienza che era finito il tempo dei balocchi. L’autunno del duemilacinque e l’inverno che ne seguì furono molto piovosi. La pioggia fu la colonna sonora del mio amore con Liza, insieme alla canzone di Jovanotti “Mi fido di te”. In particolare ci piaceva cantare il ritornello “la vertigine non è paura di cadere, ma voglia di volare”. E noi volavamo senza paura. La pioggia batteva sulla mia macchina nei nostri primi fugaci incontri; la pioggia rintoccava nel silenzio della notte quando ci incontravamo nell’appartamento mansardato in Via Alfani e faceva da placido contraltare alla frenesia della nostra passione, delle nostre emozioni, per poi accompagnarci dolcemente nel momento della quiete; la pioggia ci ha bagnato quando ci amavamo sullo scooter in un freddo sabato sera sulla strada che da Coverciano sale verso Fiesole. Ero e sono pazzo di lei e lei faceva tutto per me. Liza è stupenda: alta, mulatta, fisico mozzafiato, grande portamento, labbra da fantascienza, un fuoco dentro che è la sua virtù e il suo limite. Non ama le mezze misure: tutto o niente, dentro o fuori, un giorno alle stelle, l’altro alle stalle. E’ afro latino-americana, nata nella Repubblica Domenicana, trasferitasi in Venezuela, poi a New York, qualche mese a Londra e infine sposatasi a Firenze con un napoletano. Lei è figlia del mondo! Non mi aveva mai raccontato molto della sua vita, della sua infanzia, fin quando un giorno andammo a Civita di Bagnoregio, la città che muore. E’ un posto bello e romantico. Nell’attesa di pranzare ci fermammo ai margini di un viottolo lastricato. Mi sedetti su un muretto di vecchie pietre. Lei era fra le mie bracce. Il sole ci riscaldava. Davanti a noi il caratteristico paesaggio di quei luoghi, contraddistinto da colline cretose e valloni ben coltivati. Nella città che muore non ci sono macchine, non si odono rumori, tutto è silenzio. Lei mi guardò, mi baciò e poi aprì l’album dei ricordi. Erano ricordi dolorosi, ferite di donna-bambina molto profonde, oggi rimarginate con sofferenza e fatica. Ferite che lasciano comunque il segno, ferite che invecchiano su chi le ha subite come fossero squarci sulla pelle. Non grondano più sangue, ma sono lì, ancora visibili a ricordare luoghi, persone, situazioni. Era la donna che avevo sempre sognato. Ora era fra le mie braccia ed ero felice, anzi di più. L’inverno con le sue continue piogge andava smorzandosi nella primavera del duemilasei, ma prima c’era il giorno del mio quarantunesimo compleanno. Liza non mi disse niente, voleva farmi una sorpresa. Me ne aveva già fatte alcune ed erano state stupefacenti. Mi fidavo delle sua fantasia, del suo estro, per cui accettai di tenermi libero due giorni, il sette e l’otto marzo. Come consuetudine, passai a prenderla in Piazza D’Azeglio. Prima di avviare la macchina le chiesi quale fosse la nostra meta. “Dobbiamo andare vicino a Monteriggioni, così mi ha detto il proprietario.” “Il proprietario di cosa?” ”Non te lo dico. E’ una sorpresa. Guida e non fare altre domande.” Seguii i viali di circonvallazione, passai dal Piazzale Michelangelo, poi Le Due Strade, il Galluzzo, La Certosa e infine imboccai la superstrada per Siena, ora chiamata raccordo autostradale FirenzeSiena. Avevo in mente un'unica cosa, uno dei pochi giochi che ancora non avevamo fatto. Volevo fare l’amore in un bosco o in mezzo a un prato. “Oggi ti faccio l’amore in un bosco, appoggiata ad un albero!” “Non ci pensare proprio!” rispose lei.
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Appariva stranamente poco sensibile a questo mio desiderio, ma sapevo che sarebbe stato facile farle cambiare idea. Era una tipica giornata di inizio marzo, di quelle in cui le nuvole passano a coprire il sole, in cui il freddo prevale sui tepori della vicina primavera e in cui il vento, a tratti leggero, a volte forte e fastidioso, rende nitido l’orizzonte. Lasciata la superstrada cominciai a salire verso San Donato e poi verso Castellina in Chianti. Il paesaggio era bellissimo. Quella strada che corre lungo un’alta collina fra boschi e vigneti, mi è sempre piaciuta, perchè l’occhio può spaziare lontano e ammirare un panorama stupendo e sconfinato fino a scorgere, in lontananza, il profilo medioevale di Siena con le sue torri, i campanili, le cupole e il rosso dei tetti. Mentre guidavo cercavo di trovare il punto giusto per fermarmi, ma nessun luogo mi suggeriva particolare ispirazione, finchè dietro una curva vidi una stradina sterrata che saliva in un boschetto. Le mura di Monteriggioni si stagliavano davanti ai nostri occhi. Fu molto bello. Di quell’attimo Liza ama ricordare la brezza che accarezzava la nostra pelle. Pranzammo nel vecchio borgo di Monteriggioni. Il sette marzo del duemilasei ho mangiato il panino più costoso del mondo e della mia vita. Avrei voluto chiamare i Carabinieri, ma pensai che avrebbe rotto una sorta di incantesimo che si stava creando con Liza. Decisi allora che non avrei mai più messo piede in quel paese, o quanto meno avrei evitato accuratamente di acquistarci qualsiasi cosa. Finalmente Liza mi rivelò il luogo ove avremmo trascorso la notte del mio compleanno. La nostra meta era Borgo San Luigi. Le indicazioni che aveva ricevuto erano esatte. Sulla strada che da Monteriggioni corre dritta verso Colle Val D’Elsa, all’altezza di un alto cipresso, avremmo dovuto imboccare una pista sterrata, una delle innumerevoli strade in terra battuta che contribuiscono, con la loro tipicità, a rendere famosa la Toscana. Ci perdemmo per qualche chilometro nella campagna più manifesta, lasciandoci alle spalle la zona industriale di Colle. Un viale di cipressi in leggera salita accoglie i viaggiatori che arrivano a Borgo San Luigi. E’ il degno preludio di un luogo fiabesco e stupendo, immerso nel verde, caratterizzato da vecchie case in pietra oggi trasformate in mini-appartamenti. Liza aveva pensato a tutto. Mi ero fidato e come al solito lei era andata oltre le mie aspettative. Fui accolto con un bellissimo mazzo di rose rosse che, insieme alle molte altre regalatemi da lei, conservo gelosamente in una cesta. Aveva portato con sé centinaia di petali con cui cosparse la camera, il letto, il bagno, la vasca. Preparò con cura ogni angolo dell’appartamento, arricchendolo con sali, profumi e candele. Mi invitò a sedermi sulla poltrona, quindi mi bendò e andò a cambiarsi gli abiti. Immobile nel buio della sera, avvertivo crescere in me la curiosità per ciò che sarebbe stato. Dopo qualche minuto di assoluto silenzio, sentii i suoi passi rintoccare sul pavimento. Non capivo cosa stesse facendo. Poi d’improvviso la musica dei Gotan Project avvolse il mio corpo. Quando apparve davanti ai miei occhi indossava una camicia di seta nera, un completo di intimo bianco e un bellissimo stivale scamosciato nero che terminava sopra le ginocchia. Era una visione stupenda. Sulle note calde e sensuali di “Una musica brutal” cominciò a muoversi sinuosamente davanti a me, gettando in aria prima la camicetta, poi il reggiseno ed infine il perizoma. I nostri sguardi vogliosi si rincorrevano nota dopo nota, così come le nostre labbra morivano dal desiderio di sfiorarsi, di fondersi, di insinuarsi nel corpo altrui, fino all’istante in cui mi prese la mano, mi spogliò e mi condusse in bagno, laddove ci attendeva una vasca ricolma di acqua, sali, profumi e petali. La luce tenue delle candele e i ritmi calienti del tango argentino accompagnarono la fusione ritmata e passionale dei nostri corpi. Ci inebriammo d’amore! Liza non finiva mai di stupirmi, mi faceva sentire il suo Re e lei era la Regina di ogni mio sogno. Al ristorante aveva fatto apparecchiare un tavolo proprio davanti al caminetto. Si unirono a noi Marzia, un‘amica spagnola che conobbi quella sera, e il suo uomo. Non sapevo ancora che Marzia era sposata e aveva dei figli e che quella serata, come altre, era frutto di un momento di debolezza. Marzia era simpatica, così come l’uomo che era con lei. Fu una serata piacevole, un giorno di festa indimenticabile che sfociò in una notte di passione. Appartengo alla categoria di uomini a cui piace farlo la mattina, nel momento del risveglio, ragione per cui il giorno seguente cominciò dal punto esatto in cui si era interrotto quello precedente. 26
Dopo la colazione, servita in camera, rientrammo a Firenze. Non potrò mai dimenticare il sette marzo del duemilasei! E’ stato il compleanno più gustoso della mia vita, anche se festeggiato con un giorno d’anticipo.
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5 Sfigati Alla festa del mio trentesimo compleanno c’erano tutti i miei amici, anche se in effetti non ne ho molti. Io penso che gli amici non si misurano dal tempo trascorso in loro compagnia, bensì dalla disponibilità che si dimostra di avere l’uno verso l’altro nei momenti di vero bisogno. Sono convinto che gli amici vadano scelti, selezionati e non ho mai creduto alla possibilità di trovare un amico dietro l’angolo della strada. Con i miei amici, quelli veri, siamo cresciuti insieme oppure ci siamo conosciuti nel periodo scolastico o in ambito lavorativo. Paolo ama dire che dopo sua madre sono la persona che conosce da più tempo. Posso dire di lui la stessa cosa. E’ lui che al mio trentesimo compleanno mi ha regalato la t-shirt rossa con il Chè. Marco invece l’ho conosciuto all’Istituto Tecnico per il Turismo. Era l’estate del millenovecentottantadue, l’Italia del calcio si laureava, a Madrid, Campione del Mondo per la terza volta. Ricordo che seguii la partita contro il Brasile al confine fra Bulgaria e Grecia. Con i miei genitori stavamo viaggiando da due giorni verso Thassos, un’isola greca sulla quale avevamo deciso di trascorrere le vacanze estive. Partimmo in macchina da Firenze ed a Trieste ci inoltrammo nella ex Jugoslavia del Generale Tito. A quei tempi parlare di autostrada in Jugoslavia era pura utopia. La lingua d’asfalto a due sole corsie correva diritta verso Belgrado. Ci trovammo incolonnati con migliaia di turchi che in quel periodo tornavano al loro paese dopo aver trascorso un anno di lavoro da emigranti in Germania. Viaggiavano su vecchie Mercedes, stracolme di persone e bagagli. Ogni tanto qualche macchina finiva per i campi. Fu un’odissea! Fortunatamente a Sofia ognuno prese la sua strada. Noi ci trovammo immersi nella campagna bulgara. Nel pomeriggio arrivammo al confine con la Grecia. Faceva molto caldo, i colori della colline intorno erano bruciati dal sole. Pochissime macchine passavano da quel confine per entrare in Grecia. Era l’ora della partita. In una stanza c’era una piccola televisione. L’Italia battè il Brasile per tre a due e volò in semifinale. Paolo Rossi segnò tre goals. Non ho mai capito se seguimmo la partita sulla TV bulgara o su quella greca. A Thassos vidi le altre due partite. In semifinale superammo la Polonia e in finale incontrammo la Germania Ovest. Nell’ottantadue il mondo era ancora diviso in due e Berlino, come la Germania, erano il simbolo della divisione fra est e ovest, fra oriente e occidente, fra comunismo e capitalismo. Su quell’isola eravamo gli unici turisti italiani, per cui la sera della finale, davanti alla televisione greca nel bar del paese, ci trovammo sommersi dai tedeschi. Segnarono Rossi, Tardelli e Altobelli. Vincemmo tre a uno. Sandro Pertini, nostro Presidente della Repubblica, gioiva sfrenatamente sulle tribune del Santiago Bernabeu. Ero felicissimo, perchè per la prima volta ero campione del mondo. Proprio così, tutti gli italiani si sentirono Campioni del Mondo. Anche per mio padre fu la prima volta, visto che gli azzurri avevano vinto quel titolo nel 1938, due anni prima che lui nascesse. Sandro Pertini era un Socialista autentico, era stato partigiano ed aveva sofferto nei campi di concentramento nazisti. E’ stato il nostro più grande Presidente della Repubblica. Per noi italiani battere i tedeschi rappresenta qualcosa di più che una semplice vittoria sportiva, ed ogni successo contro di loro ci regala una gioia dal sapore particolare. Superarli nella finale del Campionato del Mondo di calcio fu ancora più esaltante, anche se purtroppo quella volta non ebbi l’opportunità di vivere i festeggiamenti che si scatenarono in Italia nella notte e nei giorni successivi alla partita. Tornati a Firenze, ricevetti una telefonata dalla segretaria della scuola. L’indomani mattina mi presentai al suo cospetto. “Caro Fabio la tua classe è stata smembrata. Molti tuoi compagni purtroppo sono bocciati. Ti diamo la possibilità di scegliere la tua futura classe fra queste.” Mi consegnò un foglio sul quale erano elencate le varie sezioni disponibili. “In questa c’è Lamberto Alessi?” chiesi io. “Controllo subito.” Guardò la composizione di quella sezione e annuì con la testa. “Bene, allora mi inserisca in questa sezione.” 28
La mia scelta si rivelò infelice, in quanto non riuscii a legare molto con i nuovi compagni di classe, in particolare con le compagne. Spesso non ricordavo neanche il loro nome. I professori, alcuni dei quali fumavano lo spinello, erano scarsi e spesso risultavano patetici nel loro voler apparire alternativi. Fu l’inizio della fine. La mia predisposizione per lo studio svanì in poche settimane e i due anni che seguirono furono realmente difficili. In quella classe conobbi Marco. Lui aveva frequentato i primi tre anni di scuola superiore a Grosseto. Quando dovevo rivolgermi a una mia compagna di classe chiedevo aiuto a lui: “Marco, come si chiama quella in prima fila, la terza da destra?”. Terminati gli studi cercammo di combinare qualcosa insieme in ambito turistico, ma non avemmo molta fortuna. Io feci il militare, lui il servizio civile. In quel periodo si fidanzò con Patrizia, una ragazza di Scandicci. Un giorno Marco e Patrizia mi presentarono Elga. Dopo aver organizzato insieme qualche bella festa, Marco ed io decidemmo di costituire un associazione turistico-sportivo. Nel millenovecentonovantadue cominciammo ad organizzare un importante torneo internazionale di calcio e un camp estivo. Ancora oggi portiamo avanti, con grande difficoltà, queste due attività. Per noi niente è facile! In questi anni abbiamo scoperto di appartenere alla categoria degli sfigati. Mia madre spesso ripete: “Se ci mettiamo a fare le camicie, nascono gli uomini senza collo”. Lei le camicie le faceva. Gli uomini hanno continuato a nascere regolarmente con il collo, ma ha dovuto ugualmente cessare l’attività per varie circostanze poco fortunate. Intendiamoci, non posso certamente lamentarmi di quello che la vita mi ha riservato fino ad oggi. Quando mi guardo intorno vedo persone che se la passano meglio di me e molte altre che se la passano decisamente peggio. Ogni sera ringrazio Dio per quello che mi regala ogni giorno e lo prego di pensare a tutte la gente che veramente soffre. A noi due accadono mille micro cazzate, situazioni sulle quali farci due risate fra amici nei rari momenti in cui ci ritroviamo insieme, piccoli e grandi contrattempi che ci fanno capire come apparterremo e saremo sempre dalla parte dei perdenti. Proprio l’altra sera Marco ci ha raccontato due inediti. Eravamo ad una festa organizzata da Lamberto. Fin dai tempi della scuola Lamberto è il migliore amico di Marco. Fra loro c’è un rapporto speciale. Hanno caratteri completamenti opposti. Lamberto è uno spregiudicato guascone, estroverso, imbroccatore; Marco è un moralista nel senso migliore del termine. Ho sempre avuto la sensazione che Lamberto rappresenti per Marco ciò che lui vorrebbe ma non riesce ad essere. Le loro professioni li portano a girare il mondo. Lamberto trascorre gran parte del suo tempo a Malta, dove ha comprato casa ed ha sposato una ragazza del luogo da cui si è separato dopo pochi mesi. Alla festa dell’altra sera era accompagnato da una lituana di Riga. Non ho mai capito cosa faccia esattamente di lavoro, né se le cose gli vadano bene o male. Dicono che con le donne abbia molto successo. A Marco tutto questo piace da impazzire. “Ogni volta che Lamberto viaggia in aereo imbrocca, se imbarca una ragazza che fa l’autostop ci scappa sempre qualcosa, io invece...” “Tu non hai speranze” dissi io. ”Infatti! Senti questa. Una sera stavo tornando a casa. Ero solo in macchina. Viaggiavo verso Grosseto. Era quasi sera, nel senso che era quasi buio. Ad un tratto, sul ciglio della strada vidi una ragazza fare l’auotostop. Era carina. Aveva un grande zaino. Mi fermai e le chiesi dove era diretta. Doveva raggiungere la Corsica con il traghetto in partenza dal porto di Piombino. Parlava un italiano molto approssimativo. Non era propriamente pulita, ma soprattutto non mi ero reso conto che c’era anche Costadinos. A quel punto non potevo certo tirarmi indietro. Ovviamente svanirono tutte le mie aspettative. Costadinos era un ragazzo greco alto e con una folta barba. Anche lei era greca. Si chiamava Ireni. Pensai immediatamente a Lamberto: ’Porca puttana, ma perché quando lui imbarca una ragazza ci scappa la scopata e quando decido di imbarcarla io, mi trovo con un barbuto in macchina e sommerso dagli zaini?’. Ma non era finita qui. Dopo qualche minuto lei abbassò completamente il finestrino della macchina, allargò i palmi delle mani, distese completamente le braccia e le allungò fuori dal finestrino. La guardai stupito. Allora lei mi chiese il permesso e mi disse che soffriva di un allergia alle mani, per cui doveva tenerle sempre ben arieggiate. Ma ti rendi 29
conto!? Lamberto tromba, io mi ritrovo in macchina due mega zaini sudici, Costadinos e questa greca che fece tutto il viaggio con le braccia distese fuori dal finestrino! Ma quando mai chi ha allergie alle mani deve viaggiare in queste condizioni? E se ce l’aveva alla testa che faceva? Tutte domande che non hanno una risposta logica.” “E in aereo? Dimmi, ti capita mai una fica al tuo fianco?” domandai io. In effetti quando saliamo in aereo c’è sempre la suspence per scoprire chi sarà il nostro vicino di posto. Noi uomini speriamo di incontrare la principessa azzurra, la donna della nostra vita, o più rudemente la strafica, o quella che con uno sguardo ammiccante ci invita a seguirla in bagno. In quei frangenti la fantasia vola, alimentata dalle solite leggende metropolitane che narrano di fantastiche scopate in alta quota. Un’emozione unica, una fantasia erotica che si annida nei sogni di ciascun uomo. Mi sono sempre chiesto dove questa folla di scopatori aerei trovi il tempo, il modo e soprattutto lo spazio per consumare la voglia di sesso a diecimila metri di altezza. “A proposito di questa domanda, vi racconto cos’è successo l’ultima volta che ho volato insieme a Lamberto. L’aereo era pieno. Lui era in una delle prime file, mentre io ero più indietro. Pochi istanti prima della partenza, la poltrona vicino alla sua era ancora vuota. Nella mia fila sedevano una madre argentina con il suo bambino. El nino non sembrava molto vispo ed era proprio al mio fianco. Il posto accanto a Lamberto rimase vuoto fin quando, all’ultimo istante, arrivò una bellissima ragazza alta, bionda e con due occhi incredibili. Parlava inglese. Lamberto ed io ci guardammo e sorridemmo. La sfiga mi aveva ancora una volta colpito! Il bello arrivò quando ci servirono il pasto. Per mangiare in aereo sono necessari anni di duro studio. E’ un’operazione che richiede esperienza, calma, precisione e tecnica sopraffina. Javier rideva e stringeva fra le mani una bustina di maionese. Lo guardavo terrorizzato, anche se cercavo di fare il simpatico. Quando aprì quella bustina pensai subito alla mia giacca grigia di Hugo Boss. Javier mi puntò, sorrise e con gesto rapido strizzò fra le dita quella maledetta bustina. Un attimo dopo i miei occhiali, la camicia e la giacca furono colpiti dagli schizzi di maionese. Un disastro! Non ebbi neanche la forza di incazzarmi, anzi mi lasciai scappare un bel sorriso…Che cazzo ridete? E’ una storia seria!” “La sapete quella del cinese in bicicletta?“ “Quale? Quella del cellulare?” “Si, quella del cellulare.” “Invece di continuare a ridere delle mie disgrazie, sentite questa di Fabio.” “Ridete pure. Ho tempo per raccontarvi altre cagate!” “Sei un essere ignobile! Non tirarti indietro. Parla, racconta!” “E perché sono un essere ignobile? Era una nebbiosa serata di novembre. Stavo tornando a casa con la mia nuova macchina. Arrivato a Empoli imboccai il viale che costeggia il fiume in direzione dello stadio. La visibilità era scarsa. Pioviscolava, c’era una leggera nebbia e in quel punto il viale non è ben illuminato. In lontananza riuscii a scorgere un uomo in bicicletta che procedeva nel mio stesso senso di marcia. Quando arrivai nelle sue vicinanze d’improvviso si girò, mi guardò e fece una inversione a 180 gradi. Me lo ritrovai davanti al cofano. Sterzai, ma sentii un rumore sordo. Davanti a me non c’era niente, allora guardai lo specchietto retrovisore e lo vidi disteso in terra. Mi fermai immediatamente e scesi dalla macchina. Fortunatamente si rialzò. Era un cinese, piccolo e impaurito. La fiancata della mia macchina era completamente sfregata. ‘Cazzo! Stai bene?’ ‘Sì, sì, bene.’ ‘Ma cosa cavolo ti è preso!’ ‘Tutto bene, tutto bene.’ ‘Tutto bene una sega. Io ho un danno! Hai un’assicurazione?’ ‘No…no...pel favole…no pel favole amico.’ ‘Allora come facciamo? Chiamo i Carabinieri?’ ‘Noooo…pel favole…io allevato ieri. Non ho documenti.’ ‘Ma porca puttana, che vuol dire allevato?…ah, sei arrivato ieri! E allora dimmi cosa facciamo? Hai dei soldi?’ 30
‘No. Non ho soldi.’ ‘Perfetto!’ ‘Questo cellulare, mio. Dale a te. Vuoi?’ Difronte al cinese in bicicletta che mi porgeva il suo telefono, mi sentii una merda, però non mollai. ‘E allora dammi il cellulare e fammi delle ricariche.’ ‘Plendi il cellulare. Glazie amico. Glazie. Tu sei velo amico.’ ‘Ma quale amico. Lasciamo perdere. Andiamo a casa.’ Il cinese in bicicletta mi dette il suo cellulare e ogni qual volta ne avevo bisogno, mi ricaricava il telefono. Io andai dal carrozziere e spesi duecentocinquantamila lire. Poi, un giorno, il cinese in bicicletta sparì. Non l’ho mai più visto e non ho mai saputo che fine abbia fatto.” Marco e gli altri mi insultavano e ridevano: “Sei veramente un essere ignobile, un approfittatore”. “Ora a chi tocca?” chiese Paolo. “A Marco” risposi io. “Ancora? Non ho altro da raccontarvi.” “E dai…Ti fornisco io il titolo.” “Vuoi umiliarmi fino in fondo. Non hai pietà. Sentiamo.” “Il navigatore satellitare.” Marco si mise a sorseggiare la birra con occhi e sguardo sorridenti, poi posò il bicchiere sul bordo della piscina e cominciò il suo ennesimo racconto. “Ero in auto con il rappresentante che si occupa della Germania. Come tante altre volte, stavamo andando a Monaco di Baviera. Sull’autostrada del Brennero, superato il confine con l’Austria, imboccò uno svincolo e si inserì sulla vecchia strada statale. ‘Wolfgang dove stiamo andando?’ ‘A Monaco.’ ‘E perché hai preso questa strada?’ ‘Me lo ha segnalato il navigatore satellitare.’ ‘Scusa Wolfgang, posso farti una domanda stupida?’ ‘Certo, purchè non sia troppo stupida.’ ‘Ok. Quante volte siamo andati insieme a Monaco?’ ‘Non lo so. Tante volte.’ ‘E quante volte hai seguito questo percorso?’ ‘Mai.’ ‘Però tu conosci bene la strada per andarci?’ ‘Certo! Era proprio una domanda stupida.’ ‘Cazzo, e allora perché oggi hai imboccato la strada statale e non ha proseguito sull’autostrada?’ ‘Perché me lo ha consigliato il satellitare!’ ‘Quindi se il satellitare ti indica di buttarti giù da un cavalcavia, tu segui la sua indicazione.’ Wolfgang si mise a ridere, io afferrai la carta stradale: ‘ascolta, siamo già in ritardo, non ho voglia d’incazzarmi. Fra qualche chilometro c’è un ingresso autostradale. Fammi la cortesia, abbandoniamo questa amena strada fra boschi e monti e torniamo alla normalità’. Se non che, l’entrata immetteva esclusivamente sulla corsia sud. Nostro malgrado ci trovammo a percorrere il valico del Brennero nella direzione opposta a quella che avremo dovuto seguire. Stavamo tornando in Italia! In prossimità del casello di Vipiteno ebbi una brillantissima idea: ‘Wolfgang siamo in ritardo. Taglia corto, fai un’inversione prima del casello, altrimenti saremo obbligati ad uscire e poi rientrare sull’autostrada’. ‘Se lo dici tu…’ ‘Certo che lo dico io! Accidenti al navigatore satellitare! A quest’ora eravamo già arrivati.’ ‘Ecco fatto! E adesso ripartiamo…’ Dopo qualche istante piombò su di noi, a sirene spiegate, una volante della Polizia Stradale. I due poliziotti, mitra in pugno, ci invitarono a lasciare l’auto ed appoggiare le mani sul cofano motore 31
tenendo le gambe ben divaricate. Grazie a Wolfgang e a quel cazzo di satellitare, dovetti subire una perquisizione come un qualsiasi delinquente. Per di più, proprio in quell’esatto istante passò un nostro vecchio cliente austriaco. Sperai che non ci riconoscesse e invece fermò la macchina e venne incontro a noi: ‘Marco, che combinazione! Cosa succede?’. ‘Ciao Walter. Niente di particolare. Una storia assurda. Ti spiegherò appena avremo risolto questa bega.’ Lo sapete come andò a finire?” “Che vi fecero un culo bestiale” risposi io. “Esatto! Come hai fatto ad indovinare?” “Perché sei uno sfigato all’ultimo stadio.” “Come te…” “In effetti hai ragione. Diciamo che siamo sfigati di successo.” “Di successo? Quale successo? Se fosse come dici tu, non sarei qui stasera. Noi siamo sfigati e basta.” “Ascoltate questa. Una volta, di ritorno da un viaggio in India, atterrai a Zurigo da dove presi il volo per Firenze. Avete presente quanto dista l’aeroporto di Zurigo da quello di Milano Malpensa?” “Poco, ma cosa c’entra questo?” “Ora lo capirai. In prossimità di Firenze il pilota cominciò le operazioni di atterraggio. Quando eravamo in prossimità della pista, l’aereo riprese improvvisamente quota. La hostess ci comunicò che non potevamo atterrare a Firenze per nebbia, e con voce gentile ci informò che saremo atterrati a Pisa. Sorvolammo per circa un’ora ogni angolo della Toscana, poi il pilota iniziò nuovamente le operazioni di atterraggio. Dall’oblò vedevo sfilare gli hangar dell’aeroporto militare. Ormai stavamo per toccare terra, quando il velivolo s’impennò bruscamente e cominciò a risalire destinazione Genova. Anche a Pisa la nebbia impedì l’atterraggio. A Genova trovammo condizione metereologiche proibitive. Il nostro tour si concluse a Milano Malpensa! Eravamo partiti da Zurigo per atterrare a Malpensa dopo 5 ore di volo.” Continuammo a bere vino, birra e alcolici di vario genere fino a tarda notte. Marco ed io rimorchiammo due ragazze giapponesi. Sembrava fatta. Scoparle sarebbe stato facile come segnare un rigore a porta vuota. Era sufficiente non sbagliare mira, ovvero fare le coppie giuste. “Marco, decidiamo. Te chi prendi? A me piacciono tutte e due, però mi sembra evidente che Maki sia più attratta da me che non da te.” “Bene, io mi concentro su Juriko e te su Maki.” “Ok. Mi sembra una soluzione equa, giusta e solidale.” Quando arrivammo alle nostre auto, probabilmente annebbiati dai fumi dell’alcol, invertimmo le coppie. Juriko salì sulla mia Fiat Punto, mentre Maki si adagiò sulla Bmw di Marco. Ambedue si addormentarono, ambedue ci dettero il bacino della buonanotte, ambedue sparirono per sempre nel buio di quella serata fra amici sfigati e anche molto imbranati. E adesso che sono qui a Londra, come posso sperare che domani la ruota della fortuna giri dalla mia parte? Eppure sono stranamente fiducioso, forse perché questa volta non sono nelle mani della Dea bendata, bensì in quella del cuore e dell’anima.
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6 Paradiso Inferno Recupero da sotto le lenzuola il braccio sinistro e getto il mio sguardo assonnato sull’orologio. Sono le tre. Questa sera alle otto ho appuntamento con Gisele. Gisele vive a Londra insieme ad un giovane ragazzo brasiliano con cui vorrebbe sposarsi. E’ una ragazza stupenda ed io le voglio molto bene, ragione per cui questa sera la rivedrò con grandissimo piacere. Prima però voglio fare due passi in Cecil Court, la strada in cui si trovano magnifici negozietti di stampe e libri antichi. Cecil Court è proprio nel cuore di Londra, fra Trafalgar Square e Covent Garden. Immergermi nella sua atmosfera mi regala sensazioni uniche, perché aggiunge ulteriore sapore alle tante magie che sa offrire questa splendida città. Ho deciso di interrompere bruscamente il fiume di pensieri in cui ero sprofondato e decido di alzarmi pigramente dal letto. Un’occhiata fuori dalla finestra giusto per capire se ancora piove. Non sentendo più le loro voci, penso che quelli della stanza accanto siano usciti, ma quando vado in bagno per farmi una veloce doccia, sento i loro inequivocabili gemiti. Stanno scopando! Mi sembra un rapporto molto intenso e passionale. Intorno al tono delle loro voci, la mia immaginazione costruisce l’identikit di due persone giovani. Immagino che lei sia una donna spagnola sui trent’anni, mora con i capelli lunghi, gli occhi profondi di colore nocciola e le labbra carnose. Penso a quanto sia fortunato quell’uomo ad avere una donna del genere, io che non scopo da tempo indefinito. Terminata la mia doccia mi vesto, e dopo poco tempo mi ritrovo immerso nel caos di Oxford Street. Migliaia di persone diversissime fra loro eppure tutte magicamente mescolate e confuse lungo i marciapiedi, dentro i grandi centri commerciali, sugli autobus, in un caleidoscopio di razze, colori, storie, pensieri, gioie e sofferenze. Un giorno, camminando in Oxford Street con Noemi, mi trovai avvolto in una sfera di silenzio surreale, al di fuori della quale vedevo sfilare davanti ai miei occhi assorti una galleria infinita di volti. Ricordo che Noemi interruppe la nostra momentanea distanza chiedendomi a cosa stessi pensando. “Come dici ?” risposi io. “Sì, ti chiedevo a cosa stai pensando?“ “A niente di particolare o forse a tutto. Stavo guardando le facce di questa gente e provavo a immaginare la loro provenienza, le loro storie, come fanno l’amore, a quanto siamo diversi e come è bello camminare tutti insieme l’uno a fianco dell’altro.” “Stavo facendo il tuo solito gioco, anche se non è proprio un gioco!” “Beh diciamo che è un gioco che fa pensare, riflettere. E’ bello. A me piace!” Londra è questa. E’ l’ombelico del mondo al di qua dell’Oceano. Di la c’è New York. Arrivato all’altezza di Oxford Circus imbocco Regent Street fino a Piccadilly Circus. Cammino con passo lento e attraverso Leicester Square. Poi finalmente entro in Cecil Court. D’improvviso mi trovo in un’altra città. Cecil Court è deserta. Solo qualche anziano signore ben vestito scruta le vetrine dei negozi di stampe e libri antichi, mentre alcuni turisti di passaggio curiosano fra le vecchie pubblicazioni esposte all’ingresso dei negozi. Io cerco un libro sul mito di James Dean. Domando ovunque ma senza fortuna. Lascio Cecil Court a mani vuote, ma con l’animo pieno di soddisfazione. Entrare in quei negozi così ricolmi di vecchi libri, di stampe antiche, sistemati in modo sconclusionato e approssimativo fra altissime librerie e mobili di legno vissuto, è per me un’emozione unica. Girato l’angolo sono sullo Strand nelle vicinanze di Aldwych, laddove c’è la fermata dell’autobus numero 6 che mi porterà prima a Kensal Rise e poi a Willesden Green. L’autobus passa dall’altra parte della strada. C’è molto traffico. I taxi neri, tipici di Londra, formano una fila senza fine, interrotta soltanto dai bus rossi a due piani. Mi infilo fra le macchine e raggiungo la pensilina da dove getto lo sguardo sull’insegna di un ristorante italiano: “Paradiso, 33
Inferno” è il suo nome e proprio davanti a quel ristorante parte il mio viaggio dal centro di Londra verso la periferia più lontana di questa sterminata metropoli, dove alle otto incontrerò Gisele. Mentre aspetto il bus, si avvicina un uomo non molto alto, mal vestito, con lunghi capelli neri. Capisco immediatamente che non dev’essere normale. Mi guarda dritto nel viso prima di liberare un sorriso inquietante, ma profondamente buono. Gli mancano anche alcuni denti. “Which number are you waiting? I think the number 16 !” “No...” risposi contraccambiando il suo sorriso. “Tu abla espanol. Tu es Argentino ?” “No…” “Marocco?” “No” “Where do you come from?” “Italia...Florence” “Bello, buono, bravo.” “Parli italiano?” “Poccco. Italia, Roma, Venezia” “Look…mio bus...ciao amico!” “Ciao amigo.” Dietro alcuni taxi vedo sbucare la sagoma del bus numero sei che molto lentamente si avvicina alla fermata. Nell’attimo in cui si aprono le porte scorgo un autista di colore. Gli faccio vedere il mio abbonamento giornaliero e salgo velocemente al piano superiore. Mi piace guardare dall’alto i marciapiede colorati di gente. L’autobus è ancora mezzo vuoto. Il viaggio sarà lungo, anche perché a quest’ora il traffico è molto intenso e uscire dal centro richiederà molto tempo. Sono le sette. La città è impreziosita da milioni di luci natalizie. Niente a che vedere con gli addobbi a cui sono abituato a Firenze. Qui è tutto grande! Prendo il cellulare e invio un sms a Gisele scrivendole che potrei anche ritardare. L’autobus procede nel caos ordinato di Londra verso King Cross Station e Trafalgar Square. Intorno a Trafalgar la strada si anima di migliaia di persone, per lo più giovani. Sprofondato nel mio sedile, mi immergo nel film della vita che ogni volta ammiro dai finestrini del bus con l’estasi di un bambino che non ha mai visto niente di simile. Tutto ciò mi cattura, mi rapisce, mi incuriosisce, mi anima, mi emoziona. E’ come vedere un film nuovo, ma uguale al precedente. E’ la stessa sensazione che ho provato a San Paolo piuttosto che a Rio de Janeiro. Migliaia di volti che nascondono storie diverse che amo immaginare, indovinare e cercare di capire fin nei loro risvolti più profondi. Quella gente sono per lo più turisti a caccia di una foto ricordo, alla ricerca di un regalo da portare alle persone care. A quest’ora della sera i loro volti mostrano la fatica, ma anche la gioia di una giornata trascorsa a scoprire le bellezze, la storia, il fascino di Londra. Sono spensierati, sorridenti. Persone normali a cui il destino ha regalato la possibilità di vivere un’esistenza migliore di qualche altro miliardo di persone che popolano il mondo. Fra loro anche molti studenti stranieri venuti in Inghilterra per imparare la lingua inglese. Li riconosci: sono molto giovani, viaggiano in piccoli gruppi e hanno negli occhi la curiosità, l’emozione per quella che è una delle loro prime esperienze alla scoperta del mondo. I grandi palazzi che si affacciano su Regent Street nascondono il quartiere di Soho che ospita Carnaby Street. Durante gli anni sessanta questa strada era il centro della swinging London, il cuore della moda giovanile. Una strada che diventò un’icona mondiale. Dopo alcuni anni di incuria, Carnaby Street sta riacquistando il suo vecchio splendore. Ci sono molti pub. Dall’autobus riesco a vedere quelli più vicini a Regent Street. Molti giovani bevono birra in piedi fuori dal locale. Sono vestiti tutti uguali. Pantalone e giacca grigia, camicia bianca, cravatta blu, scarpe nere, giubbotto nero. Sono impiegati negli uffici del centro e ogni giorno, quando terminano di lavorare, passano dal loro pub preferito prima di tornare a casa. A Londra abitano moltissime persone di colore. Fuori da questi locali vedo solo bianchi. E’ la fotografia di un attimo, perché nel frattempo l’autobus imbocca Oxford Street. Londra, la cosmopolita e multi etnica, si mostra nella sua essenza lungo i marciapiedi di questa lunga arteria su cui si affacciano uno dietro l’altro tutti i più grandi magazzini 34
presenti in città. Vista dal primo piano del bus, Oxford Street appare come un enorme formichiere in cui migliaia di persone sembrano diventare milioni di laboriose formiche che vanno, vengono, entrano, escono, attraversano, salgono, corrono, camminano, parlano, ridono, urlano. Qui ci sono proprio tutti, perché qui si trova merce per tutte le tasche. Palazzi carichi di storia si fondono con nuove architetture, insieme illuminati e nascosti dallo sfavillio degli addobbi natalizi. L’autobus è pieno. Ci sono alcuni turisti, quattro ragazze brasiliane, due muratori dell’est europa, donne e uomini di colore. Ci sono due donne arabe i cui indumenti lasciano vedere solo i loro occhi. Dietro di me un ragazzo e una ragazza, presumo spagnoli con il loro zainetto e una mappa di Londra in mano. C’è un vecchio uomo appoggiato allo scorrimano lungo le scalette che collegano il piano inferiore del bus a quello superiore. I suoi vestiti sono quelli che usavano negli anni settanta. Sotto all’impermeabile color crema rifinito da un collo enorme, sbucano un paio di pantaloni grigi a campana. L’anziano signore parla a ruota libera senza che nessuno lo ascolti. La birra ha fatto il suo effetto. La sua voce è facilmente riconoscibile. E’ l’unico che si esprime in inglese. Nelle mie orecchie si fondono infatti i suoni di tanti idiomi diversi. Mi viene il dubbio che in questa metropoli sconfinata ognuno viva nel suo microcosmo, inglobato ma diverso, integrato ma emarginato, assicurato ma clandestino. Il bisbiglio che accompagna il viaggio verso la periferia distrae il mio sguardo dalla strada e lo focalizza sugli occhi, le labbra, le espressioni, le smorfie di quella gente che fra milioni di persone vive la solitudine e la malinconia di una casa lontana, di una famiglia che forse non è qui con loro. Dall’oscurità della sera si intravede Hyde Park all’altezza di Marble Arch. L’auotobus numero sei gira intorno all’arco per poi imboccare Edgware Road. Alla prima fermata della nuova strada scendono le due donne arabe con il piccolo bimbo che portavano con loro. Edgware Road è la strada degli arabi. Uno accanto all’altro si susseguono bar, pub, ristoranti negozi per lo più libanesi. La strada è popolata da gente di etnia araba che a quest’ora della sera si gode un gustoso narghilè. Fra loro anche molte donne. Parlano amabilmente sedute intorno ai tavoli dei locali che caratterizzano questa parte di Londra. Sembrano passarsela bene. Sul marciapiede sfilano molte donne come quelle che da poco hanno lasciato il bus. Sono affogate nei loro caratteristici vestiti che lasciano scoperti solo gli occhi. Ricordo che una volta domandai a Daniela come i libanesi avessero potuto acquistare o aprire locali in una strada così importante di Londra. Lei, che aveva padre Libanese ed ha tutt’ora parenti in quella terra, mi spiegò che la ricchezza di quel popolo deriva in larga parte dal commercio di oro. I libanesi sono da sempre abili commercianti del metallo più prezioso e su questo hanno costruito le loro fortune. Presi per buona quella sua risposta, anche perché un giorno ormai lontano ricordo di aver studiato che i Fenici si stanziarono nell’attuale Libano fondandovi importanti città di mare, che si reggevano proprio sul commercio dei metalli preziosi. Loro, i Fenici, acquistavano e importavano i metalli preziosi fra i quali l’oro, li lavoravano abilmente e li usavano come merce di scambio con gli altri popoli vicini, solcando le onde del mare Mediterraneo. Oggi nel mondo globalizzato solcano il cielo, arrivano in terre più lontane e barattano l’oro con immobili e attività commerciali. Dietro di me sulla fila opposta, compitamente seduta vicino al finestrino, siede una donna araba. Non l’avevo notata prima. Probabilmente è salita da poco. A Maida Vale salgono sull’autobus quattro ragazzetti. Li guardo cercando di capire la loro età e arrivo alla determinazione che abbiano fra gli undici e i tredici anni. Dal loro abbigliamento, dai loro comportamenti mi sembra di capire che siano dei piccoli bulli. Sono boriosi ed il loro sguardo è altezzoso. Si siedono dietro di me, proprio accanto alla donna araba, tenendo appoggiati i piedi sullo schienale del seggiolino davanti a loro. Clifton Road è il cuore di Little Venice. Una domanda mi sorge spontanea: ma perché ogni angolo del mondo in cui ci sia un canale che scorre fra le case è chiamato “piccola Venezia”? Londra non fa eccezione e seppur qualche canale scorra nel tessuto urbano, non direi proprio che ricordi o somigli a Venezia. Tant’è, visto che anche Livorno ha la sua “Piccola Venezia”, godiamoci la “Little Venice” di Londra segnata dal Regent’s Canal che scorre tranquillo fra due file di alberi 35
secolari fino a Camden Town e oltre. Lungo le banchine in pietra del canale sono ormeggiati grandi barconi su cui vivono persone che ho sempre pensato avere alle loro spalle l’esperienza del sessantotto. Non so se sia vero, ma a me piace pensarlo. Fa chic. In effetti sono persone che vivono un po’ fuori dagli schemi. Alcuni di loro sono artisti che su queste grandi chiatte cercano probabilmente l’ispirazione giusta. A Clifton Road l’autobus ferma proprio davanti a un grazioso pub. Qui la strada è lastricata in pietra, ci sono bei negozi e tutto è ordinato. Gli alberi ed i fiori rendono ancora più grazioso questo angolo della città. Il centro è ormai alle nostre spalle. Maida Vale è un elegante quartiere residenziale con bei palazzi bianchi in stile classicheggiante. I ragazzi dietro di me ridono e scherzano, mentre la donna araba vicino a loro non batte ciglio e guarda fuori dal finestrino probabilmente assorta nei pensieri della sua difficile esistenza. In Clifton Gardens c’è Connaught House. E’ una bellissima costruzione impreziosita da grandi colonne che adornano i portoni d’ingresso. Le belle inferriate di colore nero, la rampa di scalette che introduce agli ingressi, le case al piano interrato mi ricordano quei films inglesi o americani in bianco e nero con Gregory Peck o Cary Grant che tanto amo. Qualche appartamento è illuminato. Riesco a scorgere molto bene quelli ubicati al primo piano. In uno di questi vedo un grande caminetto, quadri importanti alle pareti, un pianoforte a coda, una libreria stracolma di libri e l’immancabile televisione. La luce è molto calda. Mi piacerebbe moltissimo vivere in una casa del genere, in un posto del genere e chissà che un giorno non possa succedere. E’ improbabile, forse anche impossibile, ma mai dire mai! Al portone, sotto la casa illuminata, vedo rientrare un giovane ben vestito. Arriva con la sua bicicletta e mi immagino che sia uno di quelli che ho visto prima bere una birra fuori dai pub del centro. Forse è un colletto bianco della city o un normale impiegato di qualche ufficio più o meno importante. Lui è uscito questa mattina di casa, ha lavorato per ore davanti ad un computer, ha consumato un veloce ma artistico pasto in compagnia di qualche collega su una panchina di un parco londinese e poi è tornato alla sua scrivania per terminare la giornata lavorativa, prima di bere una buona birra e fare rientro nella sua casa di Clifton Gardens. E’ laureato e guadagna un buono stipendio. La sua vita scorre serena nell’opulenza di una città che gli offre l’opportunità di vivere degnamente e di non avere, quanto meno, problemi di sussistenza. Lui è ignaro di ciò che si abbatterà sulla sua testa di qui a poco. La peste finanziaria che travolgerà in modo particolare il mondo occidentale e capitalista è ormai alle porte. Dopo avere superato Warwick Avenue, l’autobus numero sei svolta da Formosa Street in Shirland Road. Clifton Road è ancora vicina, ma qui proprio sull’angolo di queste due strade c’è Charfield Court, un cubo di cemento con tante piccole finestre uguali fra loro, allineate l’una accanto all’altra e adornate con innocue tendine bianche. Il condominio è più basso rispetto al piano strada e vedo bene dentro alle case. Le stanze sono piccole, il pianoforte ha lasciato il posto ad una fila di panni tesi ad asciugare all’interno del soggiorno, alle pareti ci sono dei manifesti attaccati con pezzi di adesivo e la luce non è calda. Vedo una donna di colore fare da mangiare tenendo suo figlio fra le braccia. Non c’è la libreria, non ci sono libri, c’è da sbancare il lunario e loro ce la fanno. Vivono nel posto in cui sono nati, dove hanno gli affetti ed anche se non sono laureati, un lavoro ce l’hanno. Dalle loro finestre vedono molto nitidamente Connaught House. Il paradiso è li a due passi, ma loro sono in purgatorio e devono fare attenzione a non finire all’inferno. Adesso sull’autobus ci sono molte persone di colore. Kilburn Park Road è una brutta strada segnata da tre alti condomini: Hereford House, Bronte House e Fielding House. Mentre l’autobus vi sfila davanti, vedo nel cortile di uno di questi due poliziotti armi in pugno che seguono un ragazzo di colore. Ovviamente non posso comprendere ciò che stiano dicendo, ma capisco che gli stanno intimando di portarli da qualche parte. Il ragazzo fa un cenno con la mano, si avvia di passo veloce verso un portone e vi entra, seguito dai due poliziotti. I bei negozi, i pub hanno lasciato il posto a squallidi locali sudici ed approssimativi in cui si vende di tutto, in particolare cibo. Molti sono fast food, self service per lo più arabi e brasiliani. Siamo ormai nella sterminata periferia di Londra. Il sorriso che accompagnava il mio viaggio in Trafalgar Squadre o in Piccadilly Circus ha lasciato il posto alla riflessione. Mi scopro con la testa appoggiata 36
al vetro del finestrino, lo sguardo assorto e i pensieri che fluttuano senza ordine, quando d’improvviso sento la voce di quel ragazzino urlare stizzita: “Say please, say please!”. Mi volto e vedo la giovane donna araba in piedi, obbligata in quell’angolo dell’autobus dalla strafottenza del piccolo inglese. Lei vorrebbe scendere, ma lui con le gambe alte e i piedi appoggiati maleducatamente sullo schienale del seggiolino davanti, le vieta il passaggio pretendendo che lei gli chieda per favore. “Say please” ripete con tono isterico ed arrogante, mentre i suoi amici lo guardano e ridono. La fermata di Kensal Rise è ormai vicina. L’autobus accosta al marciapiede, si ferma, le portiere si aprono. La donna è sempre bloccata ma non cede alla richiesta del ragazzino. Quando tutto sembra perduto e io sto per intervenire, lei lascia da parte le buone maniere e con tono deciso proferisce qualche parola che non riesco a comprendere. Ha colpito nel segno. Il ragazzino cede e la donna araba umiliata ma non vinta può scendere dall’autobus. Lo fisso negli occhi con aria di sfida, ma lui dopo un istante si gira dall’altra parte. Sono disgustato. E’ un mondo che non mi piace. Sento e vedo tanta, troppa puzza in giro! L’autobus è quasi vuoto. Le strade corrono su e giù per le morbide colline sulle quali si è sviluppata questa zona di Londra. Le case ad un piano si susseguono ordinatamente senza interruzioni. Sembra una bella zona eppure non è più come prima, come quando nel millenovecentottantatre trascorsi due mesi a Bristol. Allora queste case erano certamente abitate da inglesi ed erano delle piccole bomboniere: pulite, ordinate, fiorite. Oggi sono popolate da decine di extracomunitari che qui vivono in affitto. Pagano duecentocinquanta sterline a posto letto e vivono in condizioni igienicosanitarie precarie. Fuori dalle loro case non ci sono fiori, ma immondizia. I vetri delle finestre sono sporchi e le tende spesso sono rotte. Si scorgono letti a castello, mentre le grandi valigie sopra gli armadi mi ricordano che questa gente è sempre in movimento. Cambiano spesso lavoro, cambiano spesso abitazione alla ricerca della migliore sistemazione. Mi viene da pensare che la loro vera casa è la valigia. I londinesi, quelli veri, oggi si sono rifugiati nelle campagne a godersi una tranquilla pensione ed hanno lasciato la città alla nuova immigrazione. Ho letto da qualche parte che qui vivono quasi tre milioni di immigrati, circa un terzo dell’intera popolazione residente. A Kensal Rise l’autobus passa davanti alla casa dove alloggiava Sasha e dove anche io fui ospitato la prima volta che venni a trovarla. Proprio davanti al portoncino d’ingresso riconosco Jennifer, una brasiliana di Annapolis che mi presentò Daniela e con cui riuscii a stringere una bella amicizia. Jennifer si era sposata giovane. Ebbe due figli ma poco dopo suo marito morì in un incidente stradale. Lei, brasiliana di pelle nera, cercò di arrangiarsi con vari lavoretti. Sua sorella faceva la maestra e la aiutava a crescere i due bimbi. Al suo paese però il lavoro scarseggiava e la vita non era facile. Il sogno di Jennifer era quello di offrire ai figli quelle opportunità che lei non potette avere. Jennifer voleva che i suoi figli potessero studiare, ma da sola in Brasile non poteva farcela. Un giorno, disperata, decise di prendere l’aereo e venire in Italia. Lasciò i suoi bambini con sua madre e sua sorella. Arrivò proprio a Firenze dove una sua amica le promise un lavoro. Per alcuni giorni Jennifer fu ospite a casa di questa amica brasiliana che qualche anno prima aveva sposato un italiano per poi separarsi qualche mese dopo. Ben presto Jennifer comprese che quel lavoro promesso non esisteva e che non era facile trovarne uno alternativo. Dopo poche settimane l’amica brasiliana le disse che non poteva più ospitarla. Jennifer non aveva soldi per pagarsi il biglietto aereo per rientrare in Brasile. Era disperata e fu allora che l’amica brasiliana le disse: “Senti, oggi parte una tizia. Lascia libero il posto in una casa in Via dell’Agnolo. Potresti andarci tu. Siete in due”. “Ma come faccio a pagare l’affitto? Non ho lavoro, non ho niente!” “Vi dividete i clienti” “Di quali clienti parli?” “Non siamo bambine. Non fare finta di non capire !”
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Jennifer scoppiò in un pianto senza fine. Quella notte non dormì. La mattina seguente ripose le sue cose nella grande valigia e camminando per le strade del centro di Firenze si diresse verso Via dell’Agnolo. Aveva gli occhi lucidi e ogni tanto una lacrima le percorreva il viso. “Quando arrivi in Via dell’Agnolo cerca il numero quattordici e suona il campanello con sopra scritto interno uno” le aveva detto l’amica. “Ciao sono Jennifer” “Piacere Sandra. Entra” Era un monolocale al piano terreno di una vecchissima palazzina. Sandra le spiegò che i clienti erano tutti di Jennifer. Lei era lì solo per compagnia e non poteva essere diversamente considerata la sua età e il non piacevole aspetto fisico. Jennifer doveva pagarle cinquanta euro al giorno più l’affitto della casa. Ogni sera telefonava in Brasile. Parlava con sua madre e con i figli. “Tutto bene mamma. Sono felice. Faccio le pulizie in un grande magazzino. Guadagno bene. Mi mancate molto !” “Figlia mia mangi ?” “Si mamma mangio, non preoccuparti” Jennifer parlava anche e soprattutto con i due figli. Voleva sapere tutto da loro e quando la telefonata finiva si metteva le mani fra i capelli e piangeva. Ogni settimana si recava al vicino Phone Center da dove inviava i soldi a casa. Era clandestina ma non puttana. Ho sempre pensato che le vere puttane, quelle con la “P” maiuscola non siano queste donne che vendono il loro corpo perché un mondo ingiusto le costringe a farlo, ma quelle che senza effettiva necessità la danno, si fanno sposare e magari si fanno mettere incinta da un uomo ricco e forse famoso. Quelle sono vere puttane, Jennifer è solo una persona sfortunata che ha deciso di vendere il proprio corpo per fare mangiare e studiare i propri figli. Con lo stipendio di un umile lavoro pulito non ci sarebbe riuscita. Quando Mario si è laureato, lei ha lasciato quel lavoro e oggi vive a Londra con sua zia. Fa le pulizie in un grande magazzino e in alcune abitazioni private. Si alza alle sei di mattina e ritorna a casa alle sette di sera. Ciò che guadagna le serve per pagarsi il posto letto, il mangiare e coprire le spese per gli studi di Paulinho. Jennifer mi aveva raccontato tutto questo una sera davanti al computer. Lei è iscritta a Orkut, un social network brasiliano e quel giorno stava parlando con Paulinho attraverso la web cam. Mi abbracciò e mi disse: “Fabio è una vita di merda non ce la faccio più. Io sono una persona di merda e tante volte penso che il mio posto sia per sempre all’inferno, in quel monolocale in Via dell’Agnolo. Non ho visto crescere i miei figli, non ho potuto coltivare un amore e oggi lavoro, dormo e mangio in questa città grigia dove piove sempre, dove la gente è fredda e dove non c’è musica. Non faccio altro che pulire, pulire e pulire per due soldi. Pulisco le case di questi borghesi del cazzo e sono gelosa, ma non dei loro soldi, non solo. Soprattutto lo sono nel saperli e vederli vicino ai loro affetti. Eppure loro non sanno quanto siano fortunati. Non riescono ad apprezzare ciò che hanno. Magari si rompono i coglioni nel trascorrere il Natale in compagnia dei parenti oppure si tradiscono senza rinunciare però al loro status di coppia e al perbenismo di facciata. Noi in Brasile quando non ci amiamo più facciamo festa. A volte penso che sarebbe stato meglio fare la puttana, almeno guadagnavo bene! Che vita è stata la mia?” “Non sei tu di merda, è il mondo che è di merda” le risposi io. E passando davanti a lei, seduto sull’autobus mi chiedo cosa sia la vita di una madre lontana dai propri figli, quanto possa essere drammatico vendere il proprio corpo perché non ci sono alternative, quanto sia umiliante abituarsi a quella vita. Accenno un saluto con la mano sperando che lei alzi gli occhi verso di me, ma proprio in quel momento si gira dall’altra parte ed il mio saluto svanisce sul vetro del finestrino. L’autobus arriva a Willesden Green. Siamo rimasti solo in tre, io e due anziane donne di colore. Con loro scendo all’ultima fermata disponibile prima che il numero sei entri nel deposito per la consueta pulizia prima di iniziare un nuovo viaggio verso il centro di Londra.
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Ho voglia di un caffè caldo. Proprio davanti alla fermata c’è il “Bon Bon Patisserie” dove ho fatto, in passato, diverse volte colazione. E’ un locale spartano dove fanno buone paste ed un ottimo caffè con latte. Il proprietario è un giovane ragazzo tunisino. Al banco c’è Mirella, una ragazza rumena che ha lavorato in Italia prima di trasferirsi a Londra. A quest’ora non ci sono più paste e Mirella sta facendo le pulizie prima di chiudere il locale. Una volta andammo a bere una birra in un pub qui vicino. A me piace molto scavare nella vita delle persone, capire il loro percorso, comprendere chi sono, da dove vengono, specialmente se hanno qualcosa di profondo da raccontare. Non mi annoia affatto ascoltare le loro storie, anzi mi aiuta a capire tante cose. Spesso sono vere e proprie lezioni di vita come quella che mi fece Mirella in quel pub di Willesden Green. Come Jennifer anche lei è qui perché vuole offrire al proprio figlio un’occasione di riscatto. Mirella è nata e cresciuta in un piccolo paese nei pressi di Cluj, uno di quei paesi dove le strade sono ancora sterrate, dove le case ad un piano hanno i tetti a strapiombo e la staccionata in legno delimita il giardino tutto intorno. Uno di quei paesi dove ancora oggi la gente si sposta su quei carri con le quattro grandi ruote in gomma trainati da muli o cavalli; un posto dove gli inverni sono spazzati dalle fredde correnti siberiane e la nebbia si mescola e si impasta con il paesaggio imbiancato dalla neve; un posto dove le poche e vecchie macchine sputano veleno e gli anziani hanno scavati sul volto i segni di una vita faticosa; un posto dove anche i cinquantenni sembrano già vecchi, ma dove le nuove generazioni cercano di costruire qualcosa di migliore per i loro figli. I genitori di Mirella vivono in questo posto e allevano Marius. La loro casa è vicino alla chiesa. Mirella è di religione ortodossa, credente e praticamente. Il prete è suo amico e suo importante punto di riferimento. La fede le ha regalato valori radicati e profondissimi quali il rispetto, l’altruismo, la famiglia, la speranza. Lei prega tutte le sere prima di coricarsi e quando ha un disagio telefona al suo prete in Romania. E’ in questo contesto che i genitori la indirizzarono a sposare un uomo che non amava fino in fondo. Da lui ebbe Marius, ma quando scoprì che la tradiva con un’altra ragazza del villaggio, Mirella non esitò a chiedere il divorzio. Per alcuni mesi si rifugiò in un monastero e fece vita di clausura prima di riaffacciarsi al mondo e emigrare in Alto Adige, dove lavorò come cameriera in un grande albergo in Val Badia. Poi decise di trasferirsi a Londra per poter imparare anche l’inglese. Mi ha raccontato che ogni tanto piange al pensiero di non vedere Marius e i suoi genitori. A Londra si sente sola e qualche volta le viene voglia di mollare tutto. Marius ha quindici anni. Lei lavorerà all’estero finchè lui non si sarà laureato. Fra qualche anno le piacerebbe tornare in Italia, riunirsi con Marius e farlo studiare all’università di Pisa. Poi finalmente tornerà al suo paese perché i soldi non sono tutto e gli affetti non si possono comprare. Quando mi affaccio alla vetrina, Mirella è china sulla gambe e sta pulendo il pavimento. Busso sugli sporti del negozio. Lei alza lo sguardo. Mi ha riconosciuto. “ Ciao! Cosa fai qui? Che sorpresa!“ Mi avvicino e ci scambiamo due baci sulle guance. “Sono venuto a farmi un giro a Londra. Volevo bermi un caffè ma vedo che è tardi “ “ Sì. Scusa abbiamo già chiuso ed ho già pulito la macchina. Però se vuoi…” “ No. Non ti preoccupare. Sarà per una prossima occasione, anche perché sto aspettando l’autobus.“ “ Tutto bene?“ “ Io sì e tu? Marius? “ “ Sono stata in Romania due mesi fa. E’ cresciuto. Era tanto che non lo vedevo. Mi ha fatto un certo effetto. A scuola va benissimo. L’insegnante mi ha detto che ha doti non comuni. Mi manca.” Lungo il marciapiede gruppi di afrocaraibici bevono, ridono e scherzano. In uno spiazzo proprio di fronte la polizia ne sta perquisendo almeno due. Hanno le mani appoggiate sul tetto della macchina, le gambe divaricate mentre una poliziotta documenti alla mano, sta chiedendo informazioni alla centrale. Mirella ed io continuiamo tranquillamente a parlare. A Willesden Green, come in altri quartieri di Londra, scene come questa sono all’ordine del giorno. Da dietro il semaforo vedo sbucare il duecentodieci. “ Ecco il mio autobus. Devo andare. Ciao Mirella e buona fortuna! Che tu possa realizzare tutti i tuoi sogni.“ 39
“ Ciao, anche te. Mi ha fatto piacere rivederti.“ Salgo sull’autobus lasciando dietro di me Mirella con la sua storia, le sue pene, le sue gioie. Probabilmente non la rivedrò mai più, eppure la porterò sempre con me sul carrozzone dei miei ricordi più cari. L’ho lasciata china sul pavimento dopo dodici ore di lavoro. Come tutte le sere tornerà a casa stanchissima, si chiuderà nella sua stanza, forse telefonerà a casa, pregherà e poi si addormenterà in attesa di un nuovo giorno uguale a quello che sta per terminare. La vita è un mistero fin dal suo concepimento ed il nostro destino si materializza fin dalla nascita. Possiamo nascere in un villaggio dello Zambia, oppure a New Jork, a Tokyo, a Sao Jeorge, a Trinidad. Siamo tutti figli disuguali di questa terra. Io sono fortunato per essere nato a Firenze in un contesto di un certo tipo, ma non sopporto l’idea che ci siano persone svantaggiate perché nate nel posto sbagliato. Mentre la mia testa sprofonda in pensieri troppo più grandi di me, le luci della sera scorrono veloci davanti ai miei occhi portandomi in brevissimo tempo a Harlesden. Nella tasca di sinistra del mio giubbotto nero sento vibrare il cellulare. E’ un messaggio di Elga: “Ciao trottolo come stai ? Mi raccomando non farmi stare in pensiero“. Le rispondo subito: “Tutto bene mimmina. Sto per immergermi nella Londra brasiliana“. Poi guardo l’orologio. Sono in perfetto orario. Gisele mi aveva detto di inviarle un sms appena sceso dal bus. “ Ciao Gisele. Ci sono.“ In attesa di ricevere la sua risposta, mi guardo intorno e mi accorgo di essere circondato da afrocaraibici. L’immensa volta illuminata del nuovo Wembley Stadium incombe su questi quartieri londinesi come un grande fratello. Anche se totalmente edificata, questa è una zona leggermente collinare per cui in lontananza si vedono le luci dei nuovi grattacieli della City. In un’ora di autobus sono passato dal paradiso all’inferno passando attraverso il purgatorio. Chi vuole comprendere il mondo può venire a Londra, salire sull’autobus numero sei, e da Aldwich arrivare fino a Willesden Green. Harlsden è la fotografia di una moderna favelas nel cuore della ricca e opulenta Europa. Non ci sono baracche, ma antiche case sovraffollate; non c’è il sole cuocente delle città povere del sud del mondo, ma la pioggia triste e incessante del nord europa; non ci sono fogne a cielo aperto, ma rifiuti ovunque tipo bottiglie, lattine, cartacce, pezzi di cibo perché qui è pieno di fast food low cost; non c’è una guerra fra polizia e narco trafficanti come a Rio de Janeiro, ma una guerra fra bande di bulli che ogni anno produce decine di vittime fra i cosiddetti bambini-ragazzi. Eppure io mi sento tranquillo e Londra mi piace. “Arrivo subito. Aspettami alla fermata dove ti avevo detto di scendere.” Per un attimo la mia mente torna all’appuntamento di domani. Vorrei inviare un sms a Liza, ma decido che non è una buona idea. In questi cinque minuti sono passate davanti a me molte donne di origine caraibica. La maggior parte di loro mi ricordano Liza e forse per questo motivo mi piacciono tantissimo. Hanno davvero dei culi stupendi. Quello di Liza mi piace molto, ma ha una forma assai diversa. Non è così prorompente, ma più allungato, degna conclusione di due gambe lunghissime e slanciate. Il corpo di Liza mi fa impazzire. Ogni volta che la penso, il mio desiderio va alle stelle e anche se scriverle mi era sembrata una cattiva idea, pensarla mi fa stare molto bene. Sento alcune gocce d’acqua bagnare il mio viso. Alzo gli occhi al cielo e mi accorgo che sta ricominciando a piovere. E’ una pioggia finissima, quasi impercettibile ma preferisco ripararmi sotto una piccola volta. Dall’altra parte della strada vedo arrivare Gisele. Mi sembra dimagrita. Le faccio un grande e sincero sorriso. Ho sempre nutrito un grande affetto per lei. Mi viene incontro. Ci abbracciamo con grande calore. “ Ohi….Marisa, Bruno?“ “ Bene. Tutto bene. Ti salutano.“ Lei accenna un sorriso. Prova a parlarmi, ma non conosce l’italiano e io ho dimenticato ormai quelle poche parole di portoghese che avevo imparato. “ Dove andiamo?“ “ A casa.“ 40
“ Ok. Ti sei fidanzata?“ Dal suo sorriso capisco che in effetti si è fidanzata. “ Sìì. Mi sposo.” “ Ti sposi ? Non credo ! Quando?“ “ Presto.“ Il nostro dialogo fatto di poche parole e molti gesti va avanti sotto la pioggia, lungo i marciapiedi di Harlsden. Passiamo in mezzo a gruppi di neri che mangiano e bevono standosene seduti sui cofani delle auto parcheggiate e sul nostro cammino incrociamo qualche arabo prima di incontrare un ristorante rumeno contiguo a uno portoghese. La mescolanza di razze ammirata in Oxford Street, nelle periferie lascia il posto alla vicinanza delle razze, nel senso che solo venendo qui si capisce come ogni comunità viva chiusa in se stessa, parli la propria lingua e abbia scarsi contatti con gli altri, men che meno con gli inglesi. Gli uni accanto agli altri, vicini ma separati, ognuno a rincorrere la nostalgia dei propri luoghi, delle proprie tradizioni, della propria cultura. Sull’altro lato della strada vedo la “Pizzeria Baiana”. E’ una pizzeria gestita da Brasiliani! Siamo arrivati. Fuori dalla casa dove abita Gisele, ci sono due grandi frigoriferi sudici e rugginosi e un materasso inzuppato d’acqua. Gisele mi fa strada. Cominciamo a salire le ripide scale. Ci sono cavi elettrici che sbucano e pendono da ogni parte, la moquette è lercia e c’è una gran puzza di mangiare. Vedo persone apparire e scomparire. Tutti mi salutano e io educatamente contraccambio. In bagno c’è una ragazza con lo spazzolino da denti in bocca e il dentifricio che le cola sul mento. Appoggiato alla porta, un giovane mulatto dal fisico abbondante aspetta tranquillamente il suo turno, torso nudo e asciugamano intorno al collo. Dalla fessura di una porta appena accostata vedo altre due ragazze che si baciano sdraiate sul letto. Quando penso che non ci siano più camere, Gisele mi fa cenno di salire l’ultima rampa. Sono dieci scalini ripidissimi al culmine dei quali c’è la sua camera. Siamo proprio sotto il tetto. La stanza non è grande, ma ha il vantaggio di essere dotata di un microscopico bagno privato. C’è posto per un letto a due piazze, un piccolo armadio e un divano letto stracolmo di peluche. I peluche sono la passione di Gisele. Uno di questi, un mastodontico orso bruno, è più grande di me! Dalla piccola finestra, la sterminata distesa di tetti rossi incornicia i grattacieli del centro di Londra, che illuminati si stagliano alti in lontananza. Gisele mi presenta il suo fidanzato Dudù e Aghnaldo, un gay arrivato a Londra proprio oggi in cerca di lavoro e fortuna. Questa sera, come spesso accade da queste parti, nuvoloni minacciosi rendono ancora più scuro e pesante il colore della notte. La conversazione a quattro scorre via piacevole, anche se i nostri idiomi sono differenti. Aghnaldo racconta di essere entrato in Inghilterra senza alcun tipo di permesso. Arriva da Lisbona dove ha vissuto e lavorato da clandestino per qualche mese. Faceva il cameriere in un locale gay. Poi ha deciso di sfidare la sorte. E’ salito su un aereo e si è presentato all’aeroporto di Londra. Dice di non sapersi spiegare come la polizia di frontiera abbia potuto farlo entrare in Inghilterra, ma racconta anche che questo si verifica di frequente, poiché alcuni suoi amici avevano anticipato con successo lo stesso percorso. Aghnaldo vive a Goiania ed è amico d’infanzia di Gisele. Quello di Gisele era l’unico numero di telefono utile che aveva con sé, l’unico concreto appiglio a cui aggrapparsi una volta arrivato a Londra, cosicchè appena superata la dogana le ha subito telefonato. Stanotte dormirà qui e da domani Gisele le ha trovato un posto di lavoro in un’impresa di pulizie. E’ successo tutto in sei ore. Incredibile! Dudù invece fa il muratore. Si alza alle quattro di mattina, prende autobus e metropolitana per raggiungere il cantiere posto dall’altra parte della città. La sera rientra verso le otto. Lavora sei giorni su sette. La domenica mattina gioca a calcio nel parco qui vicino. Insieme a lui giocano altri quattro brasiliani, qualche indiano, alcuni arabi e tre fra rumeni e bielorussi. Il suo viso ricorda tantissimo quello di Ronaldo. Di Ronaldo però non ha il fisico, lui è basso, né tanto meno la classe. Chiedo a Gisele quante persone abitano questa casa. “Quattordici!“ è la sua risposta. La stanza è piena di tutto ciò che è necessario per vivere. Fate conto di comprimere in dieci metri quadrati quello che in genere si tiene in un appartamento di cinquanta metri quadrati. Il caos mi
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sembra allucinante, eppure tutto è sistemato in modo quasi logico, compresa la televisione, un piccolo frigorifero, un impianto stereo e l’immancabile notebook. Ho sempre più l’impressione di trovarmi nelle viscere del mondo, laddove tutto si aggroviglia, si contorge, laddove forze e tensioni si ammassano inconsapevolmente prima di andare alla ricerca di un naturale punto di sfogo. Qualcuno bussa alla porta. Gisele apre. “ Giovanni !! …Entra!“ “ Ciao Gisele…Ciao Dudù.“ “Lui è Fabio, ex di Daniela e lui è Aghnaldo, un mio caro amico“ “ Piacere sono Giovanni. Tu sei italiano?“ “ Sì. Anche tu immagino. Di dove sei?“ “ Sardo e tu toscano mi sembra di capire.“ “ Firenze.“ Mentre Giovanni ed io cominciamo a fare conoscenza, Gisele scende in cucina e porta su un piatto con del frango arrosto, un poco di riso e qualche tramezzino. Dal frigorifero Dudù tira fuori tre bottiglie di birra. Giovanni è felicissimo di aver trovato un italiano con cui parlare e dopo qualche accenno calcistico inizia a raccontarmi quella che oggi è la sua vita. E’ buffo sentirlo parlare con quella tipica calata sarda. Nel piccolo paese in cui abita non ci sono opportunità di lavoro, cosicché da diversi anni emigra stagionalmente in giro per l’Europa. Per qualche mese fa il cameriere in Costa Azzurra, poi si trasferisce a Zurigo e infine a Londra. “ Per le feste di Natale vorrei tornare a casa, ma il volo costa troppo. Avrei voluto stare con i miei genitori, con i miei fratelli e le mie sorelle. Credo però che dovrò rassegnarmi a stare qui per qualche altro mese. Mi manca molto la mia terra, il mare, il sole, il caldo. A Londra la scorsa estate è piovuto praticamente tutti i giorni. Una vera tristezza! E poi questi inglesi…sono glaciali. L’altra sera il mio capo mi ha detto di portare il ghiaccio in sala. Gli ho risposto che di ghiaccio in sala ce n’era già troppo. Anche quando il ristorante è pieno non si sente volare una mosca. E poi di cibo non ne capiscono niente. Serviamo tutti cibi precotti eppure a loro piacciono da impazzire, purchè siano specialità italiane. A me fanno letteralmente schifo!“ “ Come conosci Gisele?“ “ Questa è la prima casa in cui ho abitato quando sono arrivato a Londra. Ero alloggiato in una delle stanze al piano di sotto. Condividevo la camera con un ragazzo brasiliano che lavorava nel mio stesso ristorante.“ Il tempo scorre veloce e mi accorgo che è arrivata l’ora di tornare in albergo. I saluti non sono mai stati il mio forte, specialmente nei casi in cui potrebbe essere l’ultima volta che vedo una persona cara. Prima di andarmene Gisele vuole scattare qualche foto in mia compagnia. Ambedue abbiamo evitato di parlare di sua madre. Tutti e due sappiamo che io le voglio bene, ma forse lei non sa quanto io sia mortificato per non essere riuscito a costruire un futuro solido per me e Daniela. Ci stringiamo forte, poi saluto Dudù, Aghnaldo, Giovanni e lentamente ridiscendo le ripide scale. Faccio un piccolo tratto di strada con l’autobus numero duecentodieci prima di salire sul cinquantadue, che passa da Nottingh Hill e Kensigton prima di dirigersi verso Victoria Station. L’autobus è pressoché vuoto. Alla prima fermata scendono due ragazzi di colore e sale un anziano signore. Non è quello che propriamente si dice il ritratto della salute. Indossa un vecchio cappotto marrone vintage, in testa porta un cappello approssimativo nella forma e nella sostanza bagnato dalla pioggia. La sua barba non è curata, un bellissimo bastone in legno puntella la sua claudicante camminata e la mano destra stringe un sacchetto di plastica bianco. Con tanto posto a disposizione viene a sedersi proprio vicino a me. Dalla tasca dell’impermeabile gli cade la Oster Card, ovvero quello che a Londra è l’abbonamento per i mezzi pubblici. Spinto da un moto di sano altruismo mi chino a raccoglierla e con fare cortese gliela porgo. “ Oh..Sorry. Thank you very much. Do you speak english?“ 42
“ A little “ rispondo io con voce incerta accompagnata da un sorriso di circostanza. Quell’uomo però mi ispira simpatia. Non so perché, ma il suo viso è buono, rassicurante nonostante l’aspetto trasandato. “ Where do you come from?“ “ Italy!“ “ Italia!!!!“ I suoi occhi si illuminano e il suo volto diventa sorridente. “Io ho lavorato per diversi anni in Italia. Ero ingegnere e vivevo a Pavia. Ho sposato una donna italiana. Adoro l’Italia. Amo il sole, il mare, la buona cucina, il vino rosso, tutte cose che qui non ci sono…“ “Io abito a Firenze. Conosce?“ “ Ma certo! La culla del rinascimento. Gli Uffizi, la Porta del Paradiso, Ponte Vecchio. Sono stato a Firenze con mia moglie. Lei è morta da qualche anno.“ “ Anche Londra è bella! A me piace molto.“ “Merda...si dice così se non ricordo male! Londra è bella, ma il mondo è brutto e a Londra vedi il mondo. Quando lavoravo in Italia, parlo degli anni cinquanta, avevamo una speranza, avevano una dignità, c’erano degli ideali in cui credere, per cui lottare. Sapevi dov’era il male, sapevi chi faceva del male. Intendiamoci, non era tutto rose e fiori, ma era certamente un mondo migliore di adesso. A Londra vivono milioni di disperati. Hanno sì due soldi nelle tasche, ma per averli devono lavorare dodici ore al giorno e lontani dal loro mondo, dall’affetto dei loro cari, senza garanzie, senza presente né futuro e vivono fianco a fianco con i borghesi, con i ricchi, vedono cose che a loro non toccheranno mai. Eppure sono qui perché fuggono da realtà ancora più dure, più drammatiche. A Londra tocchi con mano la distanza sempre più netta che divide i ricchi dai poveri, ti rendi conto di quanta gente nel mondo soffre, perché dietro ogni immigrato ce ne sono altri cento che al loro paese soffrono, sono disperati o muoiono di fame. Milioni di bambini in giro per il mondo devono rinunciare all’amore della loro madre perché lei è costretta a lavorare a Londra o in un’altra città per poter sopravvivere. Soprattutto il sistema impone che miliardi di persone vivano in povertà per garantire dignitosa sopravvivenza a pochi milioni di persone e una ricchezza smisurata a pochissimi bastardi. Si muore per fame, si muore sotto bombe lanciate in nome di Dio. Oggi non ci sono più i dittatori di una volta. Dittatori veri, uomini senza scrupoli dentro e fuori, come dire cattivi dentro e cattivi fuori. Oggi ci sono i dittatori con il sorriso sulle labbra, cattivissimi nell’animo rassicuranti fuori. Non destinano i dissidenti nei campi di concentramento per un folle ideale, affamano miliardi di persone per sporchi interessi personali, non fanno guerre di annessione, fanno finte guerre di liberazione, lanciano bombe intelligenti e quando uccidono innocenti inermi chiedono gentilmente scusa, usando il termine danni collaterali. “Caro amico, se vuoi divertirti vai a Harlsden o Willesden Green e ascolta le storie di quella gente. Niente può giustificare le enormi differenze che distinguono i pochi dai molti e in questa città vedi il paradiso, passi dal purgatorio e entri all’inferno!... E se vuoi una mia opinione, ti dico che tutto questo non potrà durare per molto altro tempo. Come ti chiami?“ “ Fabio.“ “Io Steven. Scusa Fabio ti ho annoiato. Ecco la mia fermata. Sono arrivato. Good luck Fabio. Hai figli?” “No.” “Bravo!...Ricorda, non essere egoista. Addio amico.” “Addio Steven.” Non mi ero affatto annoiato, avevo seguito le sue parole con molta attenzione. Senza conoscermi, Steven aveva fatto la sintesi e tirato le conclusioni di quanto visto nel mio viaggio sull’autobus numero sei. Una vibrazione accompagnata da un tenue trillo riporta la mia attenzione su cose più frivole, ovvero sul mio cellulare. “Buonanotte amore mio. Sofia.“ 43
7 Sofia Odio il cellulare. Mi inquieta l’idea di poter essere rintracciato in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo mi trovi. Sicuramente sono stato uno fra gli ultimi ad adottarlo come strumento di comunicazione, e fin dal primo giorno in cui l’ho adottato, cerco di usarlo il meno possibile. Probabilmente per questo ricevo pochissime telefonate, ma siccome sono sfigato i pochi che mi chiamano lo fanno sempre nell’attimo in cui sono sul cesso. Ciò mi fa inferocire, poiché appartengo a quella categoria di persone che affronta quel momento come fosse un rito sacro. Quando vado in bagno, porto sempre con me un vecchio Atlante Geografico De Agostini su cui sono riportati i confini e le bandiere di URSS, Jugoslavia, Cecoslovacchia. San Pietroburgo si chiamava ancora Leningrado. Con gli sms ho invece un rapporto meno conflittuale e quelli che ricevo da Sofia mi rendono sempre felice. Trovo invece estremamente comici gli sms natalizi. Avete presente quel fiume di messaggi che ogni anno puntualmente intasano il cellulare fra le otto mezzo e le dieci del 25 dicembre? Eccetto qualche sentito e personalizzato sms, si tratta per lo più di messaggi sparati nel mucchio e solo perché il numero si trova per un motivo inspiegabile memorizzato sul cellulare dello sparatore di turno, arrivano gli auguri suoi e di tutta la sua famiglia, compresa moglie e figli. Nomi improbabili e sconosciuti si visualizzano sul display, accompagnati da poesie stile carta baci Perugina o da battute dementi per famiglie dementi. Francy, Jonnhy, Katie, Lavinia, Gioele, Liuma, Michael e via dicendo. Li leggo e inebetito mi chiedo chi siano queste persone, se esistano ancora i nomi di una volta e soprattutto in quale momento pre o post parto vengano concepiti, selezionati, decisi e affibbiati sul groppone del proprio figlio o della propria figlia. “Buonanotte amore mio. Ho appena terminato un incontro extrasensoriale sull’autobus numero cinquantadue. Qui piove. Bacio.” Solo dopo averlo inviato, mi rendo conto di aver fatto riferimento alle condizioni meteorologiche, come se a Sofia interessasse realmente qualcosa o ciò influisse sul nostro rapporto. Evidentemente sto invecchiando e sto prendendo le abitudini di quelle donnine che impregnano le loro chiacchierate di discorsi riferiti al meteo: oggi fa freddo, stamani era più caldo, non si sa mai come vestirsi, basta con questo vento, non piove mai, non esistono più le mezze stagioni, è colpa del buco dell’ozono. Fortunatamente ancora non sono a questo livello e spero francamente di non arrivarci mai. “Qui è stata una bella giornata, fredda ma soleggiata.” “Cavolo! Mi parli del tempo anche te ! Ti pensavo più intelligente ☺.” “Vai a farti un giro. Buonanotte ☺.” “Bacio.” Terminato il mio scambio di sms con Sofia, mi accorgo di essere ormai giunto a destinazione. L’autobus infatti entra in Pembridge Road. Prenoto la discesa e all’angolo con Notting Hill Gate lo lascio al suo destino. Sofia l’ho conosciuta nel dicembre di due anni fa. All’inizio ci desideravamo, poi abbiamo capito che come coppia tradizionale non potevamo funzionare, cosicché siamo passati ad essere grandi amici e oggi possiamo dire che la nostra è un’amicizia amorosa. Con lei tutto è cominciato con lo scambio di qualche messaggio. Fino a quel giorno ci guardavamo da lontano e ci aspettavamo. Poi uno di noi due ha lanciato l’amo sotto forma di banale sms e l’altro ha abboccato senza opporre resistenza. In quel periodo io frequentavo Liza, ma non capivo bene se fossimo fidanzati o meno. A dire il vero ci prendevamo e ci lasciavamo con una certa frequenza o meglio, Liza mi lasciava e mi riprendeva a suo piacimento. Una volta Sofia mi scrisse: “Io non voglio rapporti con uomini sposati o fidanzati. Tu come sei messo? Dimmi la verità!”.
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E siccome ero perennemente confuso, per qualche istante pensai al mio stato sentimentale e conclusi che in quel momento ero libero. “Tranquilla, sono assolutamente single, me lo ha detto anche mio fratello.” Stefano ed io non siamo fratelli di sangue, ma dopo il nostro viaggio in Brasile abbiamo deciso di adottarci come tali. Anche lui stava vivendo una storia d’amore simile alla mia, cosicché capitava molto spesso di confidarci. Quando loro si lasciavano, Liza ed io ci riprendevamo e viceversa. “Fratello siamo maledetti, siamo destinati a soffrire” mi diceva con quel suo fare guascone. Ricevute da me tutte le garanzie richieste e accettato il fatto che ero single, Sofia e io cominciammo a frequentarci. Alla seconda uscita ci ritrovammo a fare sesso nella sua macchina, all’interno del parcheggio di un supermercato. Avevamo poche altre alternative considerato che io vivevo con i miei e lei, con i due figli, abitava presso sua madre. Era notte fonda e qualche ragazza di colore consumava, proprio in quel luogo, le sue prestazioni con sparuti clienti occasionali. Sofia mi piaceva, ma la sua eccessiva aggressività fece vacillare l’attrazione che nutrivo per lei. Mi pesava la sua continua voglia di sfida. La ritenevo molto intelligente e mi apparve subito come una donna sveglia, dinamica, estremamente sensibile, intuitiva, di personalità, ma eccessiva e quindi faticosa. Una di quelle persone da prendere come certe medicine, ovvero a piccole dosi. Non ci incontrammo più fino alla sera in cui capitò di poterci vedere a casa sua. La madre e i figli non c’erano, cosicchè decidemmo di approfittarne. Parlammo della nostra vita, delle nostre storie, dei nostri problemi. Mi raccontò che in quel periodo frequentava un uomo. Sinceramente non capii bene che tipo di rapporto fosse, se lui fosse sposato o meno, se lei ne fosse innamorata. L’unica cosa che compresi bene fu che si scopavano. Facemmo l’amore sul divano del salotto, attorniati dai suoi gatti che ogni tanto apparivano per poi scomparire sotto qualche mobile. In quei giorni Liza ed io avevamo ripreso a frequentarci, ma non stavamo insieme. Ogni sera verso le undici ci sentivamo per darci la buonanotte. Lei sapeva che quella sera io ero uscito, ma non sapeva che ero da Sofia. Le avevo detto che ero al pub con dei vecchi amici. Alle undici mi telefonò. Mi scocciava parlare davanti a Sofia, cosicché mi chiusi in una delle camere di quella casa a me sconosciuta. Quando tornai, in salotto calò il gelo. Non fu una fantastica serata, anche se Sofia cercò di non fare pesare l’accaduto oltre misura. “E tu saresti single?“ “Sì. Penso di sì. Sono single, me lo ha detto anche mio fratello!” risposi con un sorriso non molto convincente. Nei mesi successivi, lo slancio dei primi tempi lasciò il posto alla diffidenza, anche se io ero letteralmente stupito dalla sensibilità di Sofia. Lei sapeva decodificare ogni mio atteggiamento, sapeva capire cosa si nascondeva dietro certi miei comportamenti, sapeva leggere la psiche delle persone come nessun’altra. Il nostro rapporto stava lentamente modificandosi. Abbandonate velleità amorose o sessuali, cominciammo a prendere fiducia l’una nell’altro. La sua situazione familiare non era facile. Quando ancora era sposata, aveva visto il marito abbandonarsi sulla strada dell’alcool. Cercò di aiutarlo, di stargli vicino, ma quando divenne violento pensò bene di lasciarlo e di portare con sé i figli. Una brutta storia, cruda e triste in parte simile a quella di Liza. Due mariti con dipendenze, l’uno dal gioco, l’altro dall’alcool; due mariti poco presenti con i figli, assorbiti dal vortice delle loro vite difficili; due uomini come molti ce ne sono, assenti e spesso distratti. Ma Sofia è una donna con le palle, una di quelle che ha saputo prendere il toro per le corna e affrontarlo senza paura, sfidandolo in mare aperto con forza, lealtà e dignità. Liza invece è un’opportunista con le palle, ma pur sempre opportunista. Faccio il confronto fra Sofia e Liza, poichè ebbi la brillante idea di intrecciare i loro destini. Liza ed io decidemmo di trascorrere insieme una settimana di vacanza. Non avevamo molti soldi da spendere e come spesso mi accade quando devo programmare i miei viaggi, avevo le idee molto confuse. Ore ed ore trascorse su internet alla ricerca dell’idea giusta fino a quando, non so come, intercettai un sito web che promuoveva le località termali slovene. Nella mia mente passarono 45
immediatamente alcune immagini tipo bagni in acqua calda, lunghe ore di ozio, molto tempo per scopare, costo accessibile. Una miscela perfetta, anche se sentivo la responsabilità di non dover sbagliare nuovamente mira dopo la pessima scelta fatta l’estate prima, quando fuggimmo da un’isoletta francese, in cui il nudismo veniva praticato anche durante i pranzi, piuttosto che al bar o al supermercato. Scovai un nuovo e lussuoso albergo a Olimia. Prezzi fantastici, mega centro saunistico, piscine termali, spazi wellness. Non mi feci sfuggire l’occasione. Prenotai una suite composta da grande soggiorno, ampia camera matrimoniale, due bagni, due terrazze. Per sei giorni furono le vacanze che avevo sognato: lunghe ore in sauna, qualche bagno nella piscina termale, brevi passeggiate, grandi mangiate, ma soprattutto stupende scopate. Il giorno prima di rientrare in Italia proposi a Liza un’escursione a Maribor. Seppur molto decantata, vi assicuro che Maribor è una vera bufala. Scoprimmo che in quella zona producono dell’ottimo vino e che sotto la città si estende una grande cantina. Fu così che prima di fare ritorno a Olimia, ci facemmo condurre in una visita guidata nei sotterranei della città di Maribor insieme ad un gruppo di tedeschi. La visita prevedeva anche assaggi e degustazioni. Quando uscimmo eravamo molto allegri. Sulla piazza di Maribor scherzavamo e ridevamo come due stupidi bambini. Procedevamo a zig zag, fino a quando in prossimità di un bar molto frequentato, Liza mi mollò scherzosamente uno schiaffo. Alcuni ragazzi intenti a sorseggiare birra, videro tutta la scena e guardandomi cominciarono a sghignazzare. Non replicai a Liza, perché non mi piace usare le mani, ma provai un senso di umiliazione e vergogna. L’idea che la strafica malmenasse lo scemo di turno mi faceva impazzire. Per due ore non le rivolsi la parola e quando arrivammo in hotel lei sparì. Sono un tipo che s’incazza facilmente, ma che non riesce a tenere il muso molto a lungo. Ho solo bisogno di metabolizzare le cose e inquadrarle sotto la giusta luce. Andai a cercarla per fare pace. Non riuscivo a trovarla. Pensai che erano cazzi acidi, perché quando Liza si chiudeva in se stessa partoriva sempre idee nefaste. La ritrovai in camera e ciò che presagivo si concretizzò. “Ti devo parlare. Mettiti tranquillo e ascoltami bene. Fra noi è finita e questa volta non tornerò sulla mia decisione. E’ diverso dalle altre volte. Ho capito che non sei la persona con la quale voglio vivere una vita insieme. Ci sono cose di te che non mi piacciono. Hai un carattere di merda. Ho sbagliato con Antonio e non voglio più sbagliare. Tu mi hai deluso. Domani torniamo a Firenze, mi riporti a casa, poi non cercarmi mai più! Ti ripeto, questa volta è diverso. Devi capirlo e accettarlo.” Quella sera facemmo l’amore. La scopai con forza, con passione, con disperazione. Mentre era sotto di me e veniva a ripetizione, lei mi urlava: “Gustati bene questa scopata, perché è l’ultima che facciamo insieme. Voglio che te la ricordi, perché quando andrai con le altre tu penserai sempre e solo a me. Sarò la tua maledizione, mi nino!”. Io la schiaffeggiavo, piangevo, la baciavo, la penetravo con tutta la passione che avevo ancora in corpo e lei urlava, godeva e veniva senza sosta. Il suo nettare era arrivato a bagnarle perfino la schiena. “Anche tu ricordatela bene, perché non troverai mai più un uomo che ti scoperà come ho fatto io!” Il viaggio di ritorno fu piacevole. Eravamo ancora una volta ex, ma compresi che riconquistarla sarebbe stato più difficile che in passate occasioni. Il giorno dopo andò in questura a ritirare il suo nuovo passaporto. Finalmente, dopo tanti anni, iza era diventata cittadina italiana. Era una caldissima mattinata di agosto a Firenze, di quelle in cui l’asfalto ribolle distorcendo i contorni degli oggetti in lontananza, di quelle in cui di macchine in giro se ne vedano davvero poche e di persone a passeggio ancora meno. Ero a casa immerso nella mia tristezza quando Liza mi chiamò sul cellulare: “Ho una crisi di panico. Aiutami” mi disse con voce tremante. “Dove sei mi nina?” “Sono sotto la questura.” “Ok, vai sull’angolo della strada e aspettami lì. Arrivo fra dieci minuti. Cerca di tranquillizzarti.”
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Infilai un paio di scarpe, presi il mio scooter e dopo dieci minuti ero davanti a lei. Tremava come una foglia al vento. L’abbracciai, le parlai, la rincuorai, cercai di darle qualche buon consiglio. Lei si calmò e tornò da sola a casa. Non volle che l’accompagnassi. Nei giorni a seguire cercai di starle vicino, poi tutto finì. Liza dette seguito alle parole che mi disse a Olimia e fra noi calò il silenzio. Non riuscivo a darmi pace. Lei diceva di non amarmi più, invece io ero convinto che fra noi non fosse finita. In quei giorni il marito, con il quale ancora non si era separata, tornò a vivere in casa con lei ed il figlio. Aveva litigato aspramente con il padre e per lui non era più possibile vivere nella casa dei genitori. Inoltre non voleva saperne di andare in affitto da qualche parte, considerato che non sapeva levarsi un dito di culo, né tanto meno pulirsi un paio di mutande, né tanto meno cuocersi un uovo. Insomma, era molto più comodo impietosire la moglie e tornare a rompere i coglioni all’ovile. I miei occhi non avevano più luce, la mia anima era morta, la mia vita era vuota. Fu allora che decisi di confidarmi con Sofia e chiedere la sua comprensione. La consideravo l’unica persona in grado di potermi aiutare. Una sera di settembre andammo a cena in una trattoria in Via dè Neri e concludemmo la nottata al Moyo in Via de’Benci. Adoravo il Moyo. Era il locale a cui erano legate tante belle storie con Liza. C’era sempre l’atmosfera giusta: bella gente, musica straordinaria che miscelata con le canzoni dei Depeche Mode e dell’ottima vodka alla pesca, mi mandavano fuori di testa. Un mix che mi faceva sentire libero. Quella sera raccontai a Sofia per filo e per segno tutta la mia storia con Liza. “E’ ancora innamorata! Devi solo lasciarla in pace. E’ una donna confusa, afflitta da troppi problemi a cominciare da un marito che le è tornato fra i piedi a romperle le scatole. So bene cosa voglia dire avere un marito del genere. Trovo molte analogie fra la sua e la mia condizione. Deve ritrovare un suo equilibrio e quando le acque si saranno calmate, tornerà a vedere l’amore che ha per te. Non devi più assillarla. Tornerà lei. Stai tranquillo.” Sofia fu fantastica. Dopo quello che c’era stato fra noi, mi dimostrò un amore infinito, mi regalò la sua amicizia e ciò che io avevo intuito su di lei si rivelò esatto. Era una psicologa eccezionale. Io parlavo e lei deduceva, approfondiva, mi tirava le orecchie e mi donava consigli. Fu sincera, non me le mandava a dire dietro. Usava la carota e il bastone, beveva vodka alla pesca come me e mi ascoltava. “Tu sei il mio grillo parlante, sei la mia coscienza. Da adesso in poi farò tutto ciò che mi dici. Tu dovrai farmela riconquistare!” Quello sprazzo di settembre e le prime settimane di ottobre furono fantastiche. Avevo perso la mia donna, ma avevo scoperto e trovato una amica stupenda, una persona unica che mi aveva dato la forza di lottare, di sperare. Guidava ogni mia mossa ed io mi fidavo ciecamente di lei. Ho sempre pensato di essere pessimo nel comprendere le donne, cosicché meglio affidarsi alla sensibilità di Sofia. Arrivò il giorno del compleanno di Giovanni, il figlio di Liza. Non avevo mai voluto entrare nella sua vita, perché ero convinto, e sono tutt’oggi convinto, che avrei creato ulteriori scompensi. Lui non sa neanche che lavoro fa il padre. Crede che sia un importante funzionario di banca. Non sa che gioca a carte tutte le notti, ma io so che i bambini hanno una sensibilità inimmaginabile e captano tutto ciò che succede loro intorno. Non parlano, non urlano, non vomitano in faccia il loro disagio, perché ancora non hanno la forza di violare il mondo dei grandi, ma dentro soffrono e lanciano messaggi che vanno compresi e capiti. Vivere con un babbo assente che la notte non è in casa e che spesso dorme sul divano di cucina, vedere i propri genitori accapigliarsi un giorno si e l’altro pure, sentirsi dire che il babbo e la mamma non vanno più d’accordo, che il babbo va a vivere con i nonni salvo poi rivederlo tornare a casa dopo qualche mese, sono argomenti di per sé pesanti per un bambino di quattro anni. Per rispetto nei suoi confronti non ho mai voluto apparire nella sua vita, neanche come amico della mamma, perché io so che lui avrebbe capito. Liza mi ha sempre rinfacciato questa scelta. Per il quinto compleanno di Giovanni, decisi di fare capire a Liza che ero disponibile a modificare alcune mie convinzioni. Con il consenso di Sofia, pensai di fare recapitare il regalo a Giovanni nel 47
bel mezzo della sua festa. Per Liza sarebbe stata sicuramente una grande sorpresa, perché io non conoscevo né il giorno del compleanno, né sapevo dove sarebbe stata organizzata la festa. Mi improvvisai detective e raccolsi tutte le informazioni di cui avevo bisogno. Confezionai il regalo, una maglia della Fiorentina con il numero 10 su cui feci stampare in oro la scritta del suo nome. La sera stessa verso le dieci, ricevetti la telefonata di Liza. Quando vidi il suo nome apparire sul cellulare, sentii un buco allo stomaco. “Pronto?” “Ciao. Come stai?” “Bene…anzi…insomma mi è venuta la gastrite per pene d’amore. Comunque ora va meglio.” “Non dovevi disturbarti. Ti ringrazio. Anzi Giovanni ti ringrazia.” “Gli è piaciuto il regalo?” “Molto. Lo ha aperto a casa e subito l’ha indossata. Vuole diventare tifoso della Fiore. Il padre da buon napoletano l’ha guardato male.” “E la festa come è andata?” “Bene. I bimbi si sono divertiti. Ma come hai fatto a sapere che oggi è il compleanno di Giovanni, considerato che gli altri anni non sapevi neanche quando era il mio e dove l’avremmo festeggiato?” “L’amore muove le montagne!” “Scemo. Mi dispiace che tu abbia la gastrite.” “Non preoccuparti, guarirò. Senti sto uscendo, posso richiamarti domani?” “Scusa. Certo. Ok ci sentiamo domani. Buona serata.” “Ciao a domani.” Ero agitato, emozionato, eccitato, esultavo e stringevo i pugni come quando da piccolo segnavo un gol. Mi sembrava di essere scemo o probabilmente lo ero veramente. Telefonai a Sofia e le raccontai tutto. “Ok. Perfetto. Domani la chiami e inviti lei e suo figlio a trascorrere un pomeriggio insieme al Parco delle Cascine, magari domenica prossima.” Eseguii il consiglio di Sofia. Dopo qualche titubanza di circostanza, Liza accettò il mio invito. La domenica successiva ci incontrammo al Parco delle Cascine. Trascorsi due ore a giocare a pallone con Giovanni, mentre lei ci guardava teneramente. Quando arrivammo a salutarci, mi guardò intensamente. Capii che era fatta. La baciai sulla guancia e per un attimo le nostre labbra si sfiorarono. Sofia mi aveva condotto alla vittoria! Da quel momento diventò per me un mito e la nostra amicizia si fece speciale, unica, inaffondabile fino al giorno in cui affonderà, ma né lei né io vogliamo che ciò accada. In questo ultimo anno di acqua sotto i ponti ne è passata tanta. Ad aprile mi chiese di accompagnarla al matrimonio di un suo collega. Era bellissima, molto più bella del solito. Lei veste generalmente sportiva: jeans, maglietta, giubbotto, si trucca poco e non porta scarpe con il tacco. Indubbiamente non valorizza il suo aspetto esteriore. Quel giorno la trovai estremamente raffinata, spudoratamente donna, molto sensuale. Era una bellissima giornata di sole, parlammo amabilmente, ci divertimmo e ebbi l’onore di essere immortalato con persone che non conoscevo e di cui non ero né amico né parente. Ancora oggi mi scappa da ridere al pensiero che sul mega album fotografico di quel matrimonio ci sia anch’io. Un giorno, quando gli sposi andranno a rivederselo, si chiederanno chi sia. Sono le stranezze dei matrimoni, del rito ipocrita delle fotografie, dei sorrisi a richiesta, dei baci, del taglio della torta, della promessa di fedeltà davanti a Dio, della formula magica nel bene e nel male. Ogni volta che partecipo ad un matrimonio dapprima osservo inorridito il dipanarsi degli avvenimenti, poi nell’istante in cui gli sposi mi si avvicinano sorridenti e felici per farmi dono dei confetti, avrei voglia di dire loro: “Ridete che mamma ha fatto gli gnocchi. Cazzo ridete? Fra poco vi tromberete con amore, metterete al mondo un figlio, poi uno dei due tradirà e vi lascerete! Ma che cazzo ridete, fave! Da oggi partecipate anche voi al gran ballo dell’ipocrisia, ma voi non lo sapete”. Verso le sei salutammo la compagnia e andammo a casa di Sofia. Non abitava più con sua madre. Da qualche mese si era trasferita in una porzione di colonica sulle colline sopra Montelupo 48
Fiorentino. Non ero mai stato li, anche perché lei per qualche mese aveva convissuto con un tipo di cui probabilmente non era molto innamorata. Insomma, aveva fatto una grande errore. Liberarsene non fu semplice, ma alla fine lui se ne andò e lei si riappropriò dei suoi spazi. Ci sdraiammo sul letto e continuammo a parlare del più e del meno. Il suo cellulare squillava con insistenza, ma lei non rispondeva. Sul volto di Sofia apparve un velo di nervosismo. “Ma che cazzo vuole? Non ha mai fatto questi versi.” Cominciai a preoccuparmi. Mi sarebbe scocciato trovarmi in situazioni poco chiare, considerato che non stavamo scopando e non c’era stato assolutamente niente fra noi. La mia proverbiale sfiga si materializzò qualche minuto più tardi. Il tizio del telefono si presentò direttamente all’uscio di casa e cominciò a bussare con forza e insistenza. Mi ricordai di quando a casa di Liza arrivò all’improvviso il marito. Stavamo facendo l’amore nel loro letto. Giuro che mi sentii una vera merda. Presi tutti i miei carabattoli e mi precipitai in mutande nel vano scala condominiale, scarpe, pantaloni e maglietta fra le mani. Io sul pianerottolo del piano superiore, appiccicato al muro senza alitare e lui che saliva le scale incazzato a bestia con Liza, colpevole di non avergli aperto tempestivamente il portone. Non temevo lui, quanto la vecchina del secondo piano. La sentivo parlare vicino alla porta. Non ci mancava altro che uscisse proprio in quell’istante! Immaginavo la scena: la vecchina che esce dal proprio appartamento e mi trova in mutande sul pianerottolo, incollato al muro, con i vestiti ingarbugliati fra le braccia. Con lo sguardo sempre più pietrificato sentivo le due voci rimbombare nelle mie orecchie. ”Cazzo, perché ci hai messo così tanto ad aprire? Porca puttana, dov’eri?” “Fuffy…vieni…vieni a mangiare il tuo bocconcino. Bello il mio gattino.” D’improvviso sentii sbattere una porta e il silenzio tornò sovrano. Mi infilai precipitosamente nell’acensore, mi vestii frettolosamente e fuggii come un ladro dalla porta delle cantine. Memore di quella poco esaltante impresa, cominciai ad agitarmi. “Sofia, chi cazzo è? E’ il tuo uomo? Hai un uomo? Lo conosco? Rispondimi, non stare in silenzio!” “Zitto per favore! Si, lo conosci. Non l’aveva mai fatto prima. Non so cosa gli sia preso stasera.” “E’ la mia sfiga. Ci trova a letto. Vai tu a spiegargli che stavamo solo parlando! Porca puttana, oggi batto ogni record! Amante non scopante preso in flagrante!” “Che facciamo adesso? Non va via. Ha visto la luce!” “Ok. Allora io vado a nascondermi nell’altra stanza e tu vai ad aprire.” Dopo qualche istante mi ritrovai sotto uno stendi panni, fra tovaglie, fazzoletti, mutande, magliette qualche perizoma e il gatto che si strusciava alla mia gamba. Quando tutto sembrava perduto, lo sconosciuto uomo di Sofia si arrese e se ne andò. “Bene. Ho capito chi è. Non è il tipo giusto per te. Comunque adesso non ho voglia di parlare. Vado a casa. Magari la prossima volta mi racconti un po’ di cose.” Fu così che scoprii la storia fra Sofia e Francesco. Lei ne era innamorata. Lui non viveva più con la moglie, ma ancora non aveva avuto la forza di separarsi. Soprattutto lui aveva una relazione con una donna che viveva in Francia. Ogni quindici giorni andava a trovarla ad Annecy. Il figlio di Francesco era amico del figlio di Sofia. Ma il vero amore di Sofia era un 16 novembre. Un 16 novembre proprio come Liza. Con lui era finita: grandi scopate, grande passione, grandi emozioni. Per certi aspetti mi ricordava la storia con Liza. Finalmente sapevo quasi tutto di Sofia. Ci vedevamo tutte le settimane, ma casualmente scopavamo soltanto una volta al mese. Ridendo e scherzando le ripetevo: “Tre settimane lui e una io”. Immancabilmente alla quarta settimana battevo cassa. Francesco non mi è mai piaciuto troppo. E’ un tipo strano che certe volte mi indispone. Non l’ho mai detto a Sofia, perché ho rispetto dei suoi sentimenti, di lei e conseguentemente di tutte le persone che la circondano. Se lei lo amava e lo apprezzava, significava che io mi ero sbagliato o più probabilmente non lo conoscevo in profondità. In agosto avremmo voluto trascorrere una settimana di vacanza insieme, ma purtroppo il mio lavoro ci impedì di concretizzare questo nostro desiderio. Rimase molto delusa e ciò la spinse a prendere una importante decisione. 49
“Ho fatto un passo decisivo!” “Di quale passo parli?” “Ho confessato il mio amore a Francesco. Voglio avere una storia vera con lui.” Per un attimo ebbi timore di perderla, di smarrire la sua amicizia, di non poterla più frequentare. “Bene. E cosa ti ha risposto?” “Niente di particolare. Ora deve lasciare la sua donna, quella di Annecy.” Conoscendo la natura di noi uomini, compresi ben presto che quello, per Sofia e Francesco, sarebbe stato l’inizio della fine. “Non lo farà mai. Noi uomini in queste situazioni non abbiamo abbastanza palle. Finchè non sarà lei a dire basta, lui non prenderà mai una decisione così drastica. Ci sono passato anch’io.” “Tu dici? Io non penso. Comunque vedremo. Io sono felice di averglielo detto. Ora spetta solo a lui.” Purtroppo per lei, il tempo mi ha dato ragione. In questi ultimi due mesi il rapporto con Sofia ha assunto nuovi e bellissimi contorni. Insieme ci divertiamo molto. Poco tempo fa siamo andati al Garth, un locale all’angolo fra Piazza Santa Croce e Via de Benci. Abbiamo fatto il pieno di vodka alla pesca, mentre la musica invadeva le nostre teste. Fra tanti giovani ci baciavamo, ci strusciavamo, giocavamo con i cubetti di ghiaccio senza inibizioni. Fu molto bello perché ci sentivamo liberi e complici. Sofia ed io abbiamo capito che non potremo mai essere una coppia tradizionale. Sarebbe un fallimento. Abbiamo caratteri troppo diversi e lo scontro sarebbe inevitabile. Abbiamo invece trovato un equilibrio perfetto nell’amicizia amorosa. Siamo presenti l’una per l’altro, ma senza invadere gli spazi di libertà che desideriamo ritagliarci. Trascorriamo intere serate a parlare, ma se ci va facciamo l’amore. Ci piace molto ritrovarci davanti al caminetto di casa sua, gustarci una buona e semplice bistecca accompagnata da ottimo vino rosso. In quell’atmosfera così perfetta, viene semplice strizzarci vicendevolmente il cervello. Una sera lei mi ha chiesto: “Pensi di essere fedele?”. “Diciamo che a mio modo penso di non essere infedele. Credo soltanto che la natura umana non possa essere monogama, ma assolutamente poligama.” Ultimamente Sofia ha attraversato un periodo difficile. Lei che si era manifestata come una combattente di razza, mi ha palesato il suo lato debole, le sue insicurezze, i suoi dubbi. Ho cercato di starle vicino, di aiutarla senza risparmiarle niente. L’ho guardata negli occhi e le ho parlato francamente come mai avevo fatto in passato con altre persone. Penso che Sofia e io non ci perderemo mai, anche se adesso è seriamente incazzata per questo mio viaggio a Londra. Lei non condivide ciò che sto facendo, non capisce la mia dipendenza da Liza, soffre nel vedermi soffrire. Io invece ho capito che nessuno può aiutarmi. Il tempo degli aiuti è scaduto. Soltanto da solo potrò risolvere la mia intricata situazione e spero che questa città mi porti fortuna. “Dimenticavo. Ti ricordi di masterizzarmi il cd dei Subsonica? Ho voglia di ascoltarlo al mio rientro da Londra.” Dopo qualche istante, Sofia rispose al mio sms: “Amore mio sarà fatto. Spero che domani ti vada male. Sono gelosa ☺. Dai scherzo. Ti voglio bene da morire”. “Stronza! Anche io ti voglio bene da morire.”
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8 La notte prima dell’appuntamento Una luce flebile illumina l’ingresso del Notting Hill Hotel, diffondendosi impercettibilmente fra le colonne e i mobili della hall, mentre i miei passi rintoccano sul pavimento in legno infrangendo per qualche attimo il silenzio profondo della notte. Sento un groppo allo stomaco. La tristezza s’impadronisce dei miei pensieri e l’atmosfera decadente di questo albergo non mi aiuta certamente a superarla. Mentre salgo la rampa delle scale mi chiedo che senso abbia essere qui, quanto tutto questo sia assurdo e grottesco, quanto tutto ciò sia determinato dalla mie insane smanie di romantico sognatore incallito, che cazzo ci faccia un ultra quarantenne in una notte di fine novembre a brancolare nel buio di un hotel londinese in attesa di una giornata forse speciale o forse triste, ma comunque surreale. Penso che in questo preciso istante, alla mia età, avrei dovuto essere sposato, avrei dovuto essere nel letto coniugale, avrei dovuto avere dei bambini da crescere, avrei dovuto avere un lavoro fisso. Come spesso usa dire mio padre rivolgendosi a mia madre: “Ti ricordi cosa facevamo noi a quarantaquattro anni? Ecco, te lo dico io. Avevamo un figlio di venti anni e invece lui non sa neanche che lavoro faccia. Avevamo già versato trent’anni di contributi e tante altre belle cose. Ma che cazzo di figliolo hai fatto!”. Il sorriso con cui è solito accompagnare queste frasi, nelle sue intenzioni dovrebbe sdrammatizzarne il catastrofico contenuto, ma a me fanno ugualmente incazzare. “Innanzi tutto un lavoro ce l’ho. Per te lavorare significa alzarsi dal letto alla stessa ora tutte le mattine, farsi le otto ore giornaliere e buscare una miseria di soldi. Io guadagno di più e vivo meglio. E poi che cazzo parlate voi, intendo quelli della vostra generazione. Avete rubato lo stipendio per trent’anni. Eravate tutti dipendenti statali, comunali, parastatali, ferrovieri e via discorrendo. Ricordo bene quando il tuo collega Saracini in ufficio aveva attrezzato una vera e propria cucina. Ricordo bene le spaghettate delle ore dodici. Neanche nei più fantasiosi film di Fantozzi si erano spinti a tanto!“ Salendo quelle scale, per qualche secondo mi sento un benemerito coglione, poi invece penso che i coglioni siano loro, quelli che si sposano e divorziano, quelli che si sposano e fanno finta di avere un vita felice e serena, quelli che si sposano e vanno a puttana, quelle che si sposano e si scopano l’allenatore del proprio figlio, quelli che passano le vacanze a litigare con la moglie, quelle che passano le vacanze a messaggiarsi con l’amante, quelli che si sposano e trascorrano il Natale con i suoceri, quelli che viaggiano in Bmw e vivono in una catapecchia, quelli che sembrano pinco e invece sono pieni di debiti, quelli che sembrano uomini in carriera e invece sono dei co.co.co., quelli che una domenica si e una no vanno a pranzo dalla suocera, quelli che d’estate si presentano in spiaggia con l’ombrellone sotto braccio e il canottino formato coccodrillo sulla testa, quelli che per uscire una sera con gli amici devono inventarsi la scusa della partita di calcetto senza capire che alla moglie non pare il vero che si levi dalle palle per qualche ora, quelli che tutte le domeniche devono inventarsi dove portare la famiglia, quelli che l’ultimo dell’anno fanno il trenino, quelli che si fanno di coca, quelli che per fare due soldi sono disposti a calpestare ogni sentimento. Mi rendo conto che potrei continuare all’infinito, ma ritengo che sia un esercizio sterile per il quale non valga la pena spremermi ulteriormente il cervello. Ho mille difetti, ma non sono un coglione di questa specie e adoro il mio spirito libero, adoro poter fare i cazzi miei senza rendere conto a nessuno, adoro sognare, adoro sentirmi giovane e qualche volta immaturo, adoro avere tempo da dedicare alla mia donna, adoro fare l’amore pensando che in quel preciso istante quasi tutti gli altri stanno lavorando, adoro prendere un aereo e partire, adoro farmi le donne dei coglioni! Un tenue fascio di luce filtra dalla camera degli spagnoli. Da perfetto curioso anche un po’ maniaco avvicino l’orecchio alla loro porta e li sento gemere. Stanno scopando ancora una volta! Provo nuovamente un pizzico di sana invidia, io che nell’ultimo anno sono andato avanti per lunghi periodi a seghe e gazzosa.
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Quando entro nella mia stanza è quasi mezzanotte. Un messaggio a Elga e via a letto. D’improvviso le urla isteriche della spagnola squarciano il silenzio della notte. Appoggio l’orecchio alla parete, ma non riesco a capire cosa stiano dicendosi. Comprendo soltanto che si tratta di una litigata epocale. Qualche rumore sinistro mi induce a pensare il peggio, poi dopo venti minuti di urla, berci e stonfi, odo sbattere violentemente la porta e percepisco nitidamente i passi di qualcuno che si allontana lungo le scale. Corro alla finestra proprio mentre lei getta con rabbia la valigia nel bagagliaio e sale su un taxi guidato da un indiano. Non mi sembra bellissima come l’avevo immaginata e neanche giovanissima. Nell’attimo in cui il taxi sparisce dietro la prima curva lascio la finestra e ritorno nel mio letto. Ho i brividi, le mie gambe tremano, il mio cuore batte forte, penso a Liza, penso a domani e non riesco a dormire. Ho avuto poche donne nella mia vita e non sono mai stato il tipo di uomo che non conosce il nome della ragazza con cui va a letto. Contrariamente a quanti amano fare i collezionisti, io ho sempre donato il mio cuore e ho cercato di rapire l’anima della mia donna. Questa inclinazione mi ha portato ad amare molto ed a ricevere molto amore. Sono passati dieci anni da quando ho tradito per la prima volta. Adesso non riesco più a essere fedele. Non è un vanto, né un motivo di soddisfazione. Durante un camp di calcio persi la testa per Krisztina e da quel giorno non sono più stato lo stesso di prima. Fino ad allora la fedeltà era per me un valore assoluto, un muro invalicabile oltre il quale non riuscivo a immaginare cosa ci fosse. Oggi di quel muro sono rimaste solo le macerie, e il confine immaginario che divide fedeltà e tradimento l’ho oltrepassato molto spesso, a volte senza particolari problemi, altre volte con grandi rimorsi di coscienza. Mi sono imposto di amare esclusivamente donne bellissime preferendo la qualità alla quantità. Per uno strano gioco del destino molte di loro erano e sono straniere. Le ho adorate quasi tutte e di ognuna conservo un ricordo indelebile, una sorta di magia che porto dentro di me accompagnata da rispetto ed amore. Nessuna però è come lei. Lei è unica e speciale, una lunga emozione senza senso, una tempesta che mi ha travolto e che giorno dopo giorno spazza via ogni ragionamento logico e razionale. Forse non è la più bella. Ho avuto una donna più bella, ma lei è la più sensuale. Forse non è la migliore amatrice. Ho avuto una donna che amava meglio, ma lei ed io facciamo le più belle scopate della nostra vita. Forse non è la più dolce. Ho avuto una donna più dolce, ma la sua malinconia pastosa e la sua fragilità vanno comprese, capite, cercate nei suoi sguardi, nelle parole del suo corpo e hanno il sapore irresistibile di una scoperta. Forse non è la più docile. Ho avuto molte donne meno difficili, ma lei è una magnifica bisbetica che ama farsi domare. E’ sicuramente la più erotica, la più raffinata, la più fantasiosa, la più disinibita. In questo senso è la numero uno. All’inizio siamo stati una magnifica avventura con scadenza, poi abbiamo provato ad essere una coppia, poi amanti e da domani mi piacerebbe che lei e io sapessimo riconoscere, coltivare e raccogliere ciò che il passaggio di un amore come il nostro lascia nel profondo dell’anima. Dice di non amarmi. Anche io dico di non amarla. Oggi, dopo tre anni, la adoro. Era un sabato del giugno duemilacinque quando la vidi apparire improvvisamente da via Calzaiuoli e attraversare la strada verso il marciapiede che costeggia Piazza del Duomo fra i negozi di Raspini e Patrizia Pepe. Era stupenda. Rimasi folgorato, ma non la riconobbi immediatamente. Nonostante fossi in compagnia di Isabella, la seguii con lo sguardo e alla fine riconobbi la mia cliente. Proprio lei “Wedding in Florence and Tuscany”, quella che in “Space One” non riuscivano mai a rintracciare perché archiviata con il nome “Rose Rosse”. Lei Liza Prado, che mi aveva ricevuto più volte nella sua casa di Firenze in Via Carducci. Quella con il bambino piccolo, con la governante, con la tata, con il marito che mi staccava gli assegni ogni qual volta c’era da pagare il posizionamento del sito. Quella di cui Gianni, il fotografo di Montelupo, mi aveva consigliato di stare attento. Attento di cosa. Lei non mi piaceva. Quando il mio collega di ufficio vide il suo sito web mi domandò: “Chi è questa fica?”. “La titolare” risposi io. Seguirono i soliti commenti da uomini. “Adesso ho capito perché vai sempre a casa sua.” “No. C’è qualcosa in lei che non mi piace. Non la trovo per niente bella. Tutt’altro.” 52
Un po’ ci credevo a quello che dicevo. Ovviamente l’avrei scopata volentieri ma non ci pensavo. In quel periodo ero innamorato e incasinato. Quel sabato pomeriggio del duemilacinque i miei occhi videro una donna diversa, per certi versi irriconoscibile, sicuramente stupenda. Mentre la guardavo camminare ebbi subito la certezza che il suo matrimonio fosse naufragato e che un giorno non lontano lei ed io ci saremo incontrati. Non so perché mi balenò questo pensiero. So che fu una visione lucida, una certezza. Non avevo dubbi, dovevo soltanto attendere l’occasione giusta per corteggiarla e piombarle addosso come fanno i leoni con le loro prede. Ancora oggi penso che quell’attimo fuggente fu un preciso segno del destino, il battesimo di una storia d’amore e di emozioni uniche e irripetibili. Avevo visto giusto. Passò l’estate, arrivò l’autunno e con esso l’occasione che aspettavo da qualche mese, da quel pomeriggio di giugno. “C’è la Signora Liza Prado al telefono, posso passartela?” “Certo!” “Ci siamo” pensai dentro di me. “Pronto.” “Ciao Fabio, sono Liza, come stai?” “Ciao Liza, che piacere risentirti. Tutto bene e tu?” “Insomma. Vorrei vederti, devo dirti alcune cose. Magari andiamo a prendere un caffè da qualche parte.” “Devo essere preoccupato?” “No. Poi ti spiegherò a voce. In questi ultimi mesi sono successe tante cose.” Ci demmo appuntamento per la mattina successiva al Colle Bereto, un elegante locale nel centro storico di Firenze. Era una bellissima mattinata di inizio ottobre. Il cielo era limpidissimo, e l’aria era quella tipica dei giorni di fine estate o inizio autunno a seconda di come si preferisca immaginarla. Non so per lei, ma per me quello non era un appuntamento di lavoro. Il mio intuito continuava a suggerirmi che lei sarebbe stata mia. Ero molto agitato. Erano le undici e cinque quando il mio cellulare squillò. “Pronto.” “Ciao, scusa il ritardo, sto arrivando. Sono scesa adesso dall’autobus. Sono in Piazza del Duomo.” “Ok. Io sono qui.” Al suono della sua voce, il battito del mio cuore salì d’intensità. Decisi di aspettarla davanti al negozio di Louis Vuitton. Non riuscivo a distogliere lo sguardo dal quel tratto di marciapiede che sfocia in Piazza della Repubblica, mentre nella mia testa cercavo di immaginarla e le mie unghie si accanivano nervosamente sulla pelle del dito mignolo sinistro. Dopo qualche minuto di ansiosa attesa la vidi attraversare la strada. Mi sembrò ancora più bella di quanto l’avessi precedentemente immaginata. Una luce. Sedemmo ad un tavolo all’aperto e ordinammo due caffè di cui uno di orzo. Quello vero mi agita al punto da non farmi dormire. “Caro Fabio, devo darti una brutta notizia.” “Non ci posso credere. Ero convinto del contrario. Sentiamo.” Qualche secondo più tardi mi comunicò che avrebbe cessato di comprare i servizi da Space One, poiché i risultati ottenuti non erano in linea con le sue attese ed i suoi bisogni. A dire il vero, non provai dispiacere per quella notizia, in quanto io ero seduto davanti a lei per un altro motivo. Il clima gradevole e l’atmosfera rilassata che si era creata, ci spinsero lentamente a parlare non solo di business. Fu così che fra un discorso e l’altro, Liza mi rivelò di essersi separata. “Insomma, viviamo sempre sotto lo stesso tetto, ma presto lui se ne dovrà andare.” Tombola, bingo e cos’altro non so. Il mio intuito aveva sentito giusto e quella sua rivelazione mi sembrò come un invito al quale non poter rinunciare, ma lasciai cadere il discorso per non sembrare il classico uomo che si getta immediatamente sulla prima preda che gli passa davanti. Tutto procedeva come avevo immaginato a giugno. Per questo ero tranquillo e non avevo assolutamente
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timore che potesse sfuggirmi. Liza mi chiese di farle un ultimo piccolo lavoretto per il quale necessitavo di un cd che lei non aveva portato con sé. “Ok. Ci risentiamo per il cd e se poi non dovesse essere per quello, mi piacerebbe invitarti per un altro caffè insieme, questa volta extra lavoro.” “Ho un figlio, lo sai. Non ho molto tempo. Anzi non ho tempo per divagazioni. Ci sentiremo per il cd.” Ci scambiammo due baci di saluto sulle guance prima di perderci fra la gente che animava le strade del centro sotto quel caldo sole di inizio ottobre. La domenica seguente mi recai a fare la consueta passeggiata fra le viuzze del centro storico di Firenze. Mi piace molto camminare nei vicoli della mia città, quelli che generalmente sono vuoti, quelli dove si possono ammirare angoli medioevali di straordinaria bellezza. Quel pomeriggio ero particolarmente malinconico. Pensavo che la mia storia con Daniela fosse ormai giunta alla fine. La nostra lontananza e l’impossibilità di trovare una soluzione che non fosse il matrimonio per vivere una vita insieme, stavano logorando il nostro rapporto. Per risollevare il mio pessimo umore, pensai bene di inviare un sms a Liza. In altre parole, decisi di sferrare l’attacco, di provarci. Non so dove fosse in quel momento, né cosa stesse facendo. So che ci scambiammo moltissimi messaggi, alcuni dei quali abbastanza espliciti per capire che fra noi c’era un ottimo feeling. Alcuni giorni dopo, Liza rintracciò il cd che avrebbe dovuto consegnarmi per poter consentire ai miei colleghi di eseguire alcune piccole modifiche al suo sito web. Ci trovammo in Borgo degli Albizi e andammo al Bar de’ Visacci. Avevo trascorso una notte insonne al pensiero di incontrarla nuovamente. Ero agitatissimo, poiché avevo deciso di scoprire definitivamente le carte. La mia proverbiale timidezza non mi consente, in casi come questi, di improvvisare le fasi dell’approccio. Meglio studiare nei minimi dettagli il piano d’attacco. Ai Visacci ci sono delle piccole nicchie arredate con confortevoli divanetti verdi. Ci sedemmo in una di queste. Alla cameriera chiedemmo di portarci due tisane. Le mie gambe si muovevano incessantemente, palesando il mio imbarazzo che cercavo di mascherare tenendo lo sguardo dritto nei suoi occhi e cadenzando le mie parole con fare calmo e tranquillo. Non ho mai fatto il sogno che le raccontai. Era solo una scusa per avvicinarla e rompere gli indugi. Da giorni stavo studiando ogni parola e quella notte avevo affilato tutte le armi che pensavo di avere a disposizione. “Ti ho sognata questa notte!” “Ah si?…E cosa hai sognato?” “Mi vergogno a raccontartelo. Sono timido.” “Bene. Allora non raccontarmelo.” “No…te lo racconto. Ok…parto. Mi trovavo in aperta campagna lungo un canale che scorreva fra due alti argini. Su uno di questi imboccai, dopo aver attraversato un vecchio ponte in pietra, una strada sterrata che fiancheggiava il canale e sulla quale si affacciavano una di seguito all’altra tante case diroccate. L’ultima casa seppur senza tetto, era intonacata e dipinta. Mi affacciai alla sua porta e al centro di una grande stanza rossa c’eri tu seduta su un magnifico trono dorato. Eri stupenda. Il tuo corpo era coperto da un lungo velo arancione che lasciava intuire le tue linee sinuose. Mi sono avvicinato e poi…” “Poi cosa?” “Dovrei farti vedere quello che ho fatto nel sogno. Posso?…Non è niente di male.” Lei sorrise: “Ok…mi fido di te. Fammi vedere”. A quel punto avvicinai le mie labbra al suo orecchio e le sussurai: ”Mi piaci da morire e vorrei darti un bacio”. I suoi occhi ebbero un sussulto di dolcezza, prima che la mia bocca si avvicinasse alla sua per tentare di darle un bacio, al quale lei sfuggì con molta sensualità. Per alcuni secondi ci guardammo nel profondo degli occhi senza proferire parola. Ero emozionato, agitato, eccitato. Mi accompagnò allo scooter che avevo parcheggiato in Via Fiesolana. Fu lì che fummo travolti dal nostro desiderio. Non scorderò mai quel bacio. Fu bellissimo, dolce, sensuale, travolgente. Un sogno. Provate a chiudere gli occhi e pensare alle labbra più morbide e grandi che 54
potete immaginare. Quelle di Liza superano anche la vostra più fervida fantasia. Ogni volta che passo in Via Fiesolana guardo il parcheggio degli scooter e rivivo quell’attimo. La passione spazzò via ogni nostro pensiero razionale come foglie d’autunno al vento, come tronchi nell’acqua di un fiume in piena, come alberi di fronte alla lava di un vulcano in eruzione. Lei sapeva che nella mia vita c’era ancora Daniela e io percepivo che lei fosse troppo per me. Decidemmo di avere una storia con scadenza. Nessuno di noi due aveva avuto un esperienza simile in passato ed eravamo certi che, svuotata la passione, sarebbe finito tutto in poche settimane. A dire il vero, Liza provò a chiudere il nostro rapporto già dopo una quindicina di giorni, ma non ci riuscì. Fu quella la prima volta che dovetti correrle dietro, riconquistarla, farle capire che ancora non era giunto il momento. Non immaginavo che ci sarebbero state altre mille volte come quella! Mi inondava di regali e sorprese, fra le quali immensi mazzi di rose rosse che mi recapitava ovunque, anche in ufficio. Mi sembrava di essere Miky Rourcke nel film “Nove settimane e mezzo”. Lo facevamo da tutte le parti, a qualunque ora. I nostri corpi non sapevano resistere al richiamo l’una dell’altro. Il giorno seguente al compleanno trascorso con Liza a Borgo San Luigi, commisi la prima grande cazzata. Ammetto che si trattò di un errore imperdonabile. Le inviai per sbaglio un messaggio che avrei dovuto recapitare a Daniela: “Sei troppo lontana. Mi manchi dolce amore mio. Ti amo”. Ovviamente Liza s’infuriò e mi lasciò. Fino al giorno precedente continuavo a pensare che presto sarebbe arrivato il fatidico giorno di scadenza. Nella mia mente avevo ben presente che la nostra storia era solo una breve avventura di sesso. Non avevo ancora capito che avevo perso completamente la testa e forse il cuore per Liza. Lo compresi molto bene nell’attimo in cui mi riattaccò, in malo modo, il telefono in faccia. Ero fregato, non potevo più fare a meno di lei. Nella mia vita non sono mai riuscito a stare insieme ad una donna senza provare un sentimento profondo. Ci avevo provato altre volte senza riuscirci, ma questa volta pensavo che sarei stato abbastanza forte da lasciare fuori i sentimenti. Invece mi accorsi che avevo perso nuovamente la scommessa con me stesso. Mi trovai di fronte ad un bivio: Daniela o Liza? Compresi che non potevo rinunciare a Liza. Con l’aiuto di Marzia, l’amica di Liza che avevo conosciuto in occasione del mio compleanno, le recapitai un mazzo di profumate rose. Dopo qualche giorno ci riabbracciammo e riprendemmo la nostra avventura. Ci vedevamo quasi tutte le mattine. Ci incontravamo in centro anche solo per un bacio. Lei aveva la patente ma non la macchina, per cui si spostava in taxi o in autobus. Io con lo scooter la raggiungevo ovunque in pochi minuti. I nostri luoghi preferiti erano le panchine in pietra di Piazza Santa Croce, la balconata della Loggia dell’Orcagna in Piazza Signoria, le scalinate di Piazza Santissima Annunziata, il Bar Nabucco in Via XX Settembre o il Bar de’ Visacci in Borgo Albizi. Parlavamo di tutto eccetto che della sua infanzia. Era nata a Santo Domingo, ma stranamente non parlava mai della sua terra, delle sue origini, della sua infanzia. Preferiva raccontarmi degli anni trascorsi a Cartagena de Indios con sua madre o delle esperienze vissute a New York e a Londra. I suoi fratelli vivono negli Stati Uniti e parlano lo spanglish. Liza è molto affezionata a loro, come era legata a sua madre scomparsa solo qualche anno fa. Ancora oggi pensa frequentemente a lei e le manca davvero molto. Suo padre, che oggi vive in Florida con uno dei fratelli, non è mai stato molto presente, per cui nel corso degli anni si è creata con lui una sorta di incomunicabilità. Ho conosciuto e frequentato Liza in un periodo non facile per lei. Aveva da poco superato una forte depressione e non riusciva a risolvere il rapporto con il marito, il quale non voleva saperne di lasciare casa. Litigava frequentemente con lui. Io cercavo di aiutarla, di starle vicino, di consigliarla, di non farle pesare la mia presenza. Finalmente arrivò il giorno in cui Antonio lasciò casa e prese alloggio presso i suoi genitori. Eravamo felicissimi, anche se non avevamo un posto nostro in cui stare. Qualche volta ci rifugiavamo in un appartamento di proprietà di un’amica di Liza. Cercavamo di sfruttarlo al massimo nei giorni in cui non era affittato. 55
Nei periodi in cui era occupato, passavamo il week end a girovagare per la Toscana. Tutto ciò per me era molto oneroso. Sentivo molto il peso della nostra disuguaglianza. Lei ha un tenore di vita molto più alto del mio e io non potevo certo offrirle i lussi a cui era da anni abituata. La nostra passione, il nostro desiderio non accennavano a diminuire. Al contempo non trovavamo lo spunto per costruire, giorno dopo giorno, un legame più solido. Sovente rimaneva delusa da alcuni miei comportamenti, mentre io non riuscivo a mostrare la necessaria fiducia nel nostro rapporto, in quanto spesso cercava di lasciarmi, per cui cadevo in atteggiamenti che la sconcertavano e la portavano ad allontanarsi da me. Era un cane che si mordeva la coda. Ogni volta che mi lasciava iniziavano giorni di sofferenza che culminavano nell’emozione della riconquista. Una scarica di adrenalina, un gioco perverso, un attrazione fatale che accompagnava i giorni, le settimane, i mesi della nostra contorta, appassionata e mai scontata relazione. Quando, dopo qualche mese di esilio, Liza accettò che suo marito tornasse a vivere nella casa di Via Carducci, compresi che sarebbero cambiate molte cose. Una sera le dissi: “Perché non torni con lui?”. “Non ho bisogno dei tuoi consigli” mi rispose. Dal tono perentorio della sua risposta intuii che aveva già preso in considerazione questa possibilità. A Olimia non fu come le altre volte e se non avessi avuto l’aiuto di Sofia, quella volta non avrei mai più riconquistato Liza. Non immaginavo però ciò che sarebbe successo ad inizio dicembre. Era un sabato pomeriggio freddo e piovoso. Facemmo una passeggiata in centro. Notai subito qualcosa di strano, una distanza e un impaccio che mai prima c’erano stati fra noi. Verso le sette ci sedemmo l’una di fronte all’altro ad un tavolo del Colle Bereto e ordinammo una bordolese di Nero d’Avola. Versai con cura il vino nei due calici. Ad un tratto, senza preavviso, nel bel mezzo di un altro discorso, mentre io stavo parlando, lei abbassò lo sguardo, poi lo rialzò e guardandomi in viso mi disse: “Ho deciso di dare una nuova possibilità ad Antonio. Sono tornata insieme a lui”. Sentii una fitta al cuore, mentre tutto ciò che era intorno a noi cominciò a girare senza senso. I lineamenti del suo volto erano sfuocati e le voci del locale risuonavano nelle mie orecchie in modo disarmonico. Mi sentivo confuso, ferito, umiliato, offeso. Non avevo la forza di reagire, non sapevo come fare a rialzarmi, mi mancavano le energie. “Mi hai pugnalato ancora una volta! Questa volta alle spalle. Ogni volta mi ridoni la vita e poi mi uccidi di nuovo. Sei cinica, spietata, opportunista.” Per qualche minuto ci scambiammo battute anche pesanti e ci rinfacciammo molte cose del nostro passato. Poi la solita irrefrenabile attrazione prese nuovamente il sopravvento e ci salutammo da amanti. Sì, accettai di essere il suo amante. Durò poco più di un mese. A metà gennaio qualcuno saldò il debito di gioco con Antonio raccontandogli il tradimento della moglie. Lei negò tutto. Ammise soltanto di avere avuto una storia con me conclusasi ad agosto. Non so come lui potette crederle, so che furono giorni molto difficili. Diceva di amarmi, ma in quel momento non lo dimostrò, altrimenti avrebbe reagito diversamente. Mi disse soltanto di sparire dalla sua vita, perché era pericoloso anche solo continuare a sentirci. Nei primi mesi di quest’anno ci siamo visti molto di rado. Lei ha nuovamente lasciato il marito, con cui comunque continua a vivere sotto lo stesso tetto. Antonio le stacca gli assegni per le piccole e grandi necessità, compresa una stupenda cucina costata ventimila euro. Nei giorni che precedettero la Pasqua, facemmo l’amore a casa mia, poi lei confessò di non amarmi più. A fine giugno mi chiamò sul cellulare: “Se vieni a casa mia, può darsi che ti vada bene”. Presi lo scooter e dopo un quarto d’ora ero nel suo letto. Il marito era a Montecarlo. A luglio Liza è andata in vacanza con suo figlio e con suo marito. Hanno trascorso due mesi nel migliore albergo di Ponza. Per molti giorni ci siamo inviati sms, ci siamo sentiti telefonicamente, scherzavamo e ridevamo. Poi lei si è nuovamente e improvvisamente allontanata. Ogni volta che ne ha l’occasione, continua a ripetermi che fra noi è finita da oltre un anno che non mi ama più, che non mi desidera più, dimenticando che per due mesi sono stato il suo amante e che ogni tanto mi ha scopato senza molti scrupoli. Sono sicuro che fra noi due non potrà mai finire e 56
sono certo che lei voglia soffocare l’amore che prova per me, solo per cinico opportunismo. Non ho una casa abbastanza grande, non ho uno stipendio in linea con il suo tenore di vita, non ho un lavoro certo. Solo adesso capisco che i soldi rendono più facile anche una storia d’amore. Non ne posso più di questa situazione. Ho bisogno di capire tante cose, ho bisogno di sapere se lei sarà la donna della mia vita o se veramente fra noi è tutto finito. Londra era il nostro sogno. Volevamo venirci insieme. Una mattina di ottobre abbiamo fatto colazione insieme. Al tavolo di quella pasticceria le ho preso la mano e guardandola negli occhi le ho detto: “Mi nina, il giorno del tuo compleanno, il sedici novembre, alle ore quindici ti aspetterò a Londra sul terrazzo della Tate Modern. Sappi che se verrai dovrai essere mia per sempre, dovrai separarti definitivamente e legalmente da tuo marito, ti presenterò ai miei genitori, mi farai conoscere la tua famiglia e un giorno non lontano ci sposeremo. Se non verrai, fra noi sarà finita per sempre. Io sarò lì ad aspettarti. Ti amo e ti voglio, ma non posso più accettare di soffrire così per te. O dentro o fuori”. Lei mi guardò, accennò un sorriso, scosse il viso, lasciò la mia mano, si alzò e uscì dalla pasticceria. Rimasi solo con la mia brioche e il caffè d’orzo. La sera stessa mi telefonò a casa. “Stavi scherzando questa mattina?” “Assolutamente no. Io ti aspetterò a Londra, il sedici novembre, alle ore quindici sulla terrazza della Tate Modern. Hai tutto il tempo per pensare a ciò che ti ho detto. Londra è sempre stato il nostro piccolo sogno e da Londra voglio cominciare la vera storia con te.” “Fabio non mi mettere in difficoltà. Non fare così. Non andare a Londra. Che senso ha? Io non ci sarò.” “Non dirmi più niente. Pensaci e basta.” E’ molto tardi, o forse è quasi mattina. Sono stanco, stanco anche di pensare, di pensare a questa storia infinita che ha prosciugato ogni mia energia, che ogni volta sa emozionarmi e farmi soffrire. Domani mattina mi alzerò presto e andrò a Soho per comprare gli ultimi regali.
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9 La mattina prima dell’appuntamento Un raggio di sole filtra nella stanza attraverso uno spiraglio lasciato libero dalla tenda, proiettando uno squarcio di luce sull’angolo del letto. I miei occhi sono ancora impastati di sonno, così come la mia mente brancola nel torpore del risveglio, quando mi accorgo di abbracciare dolcemente il cuscino come fosse il corpo della mia donna. Ho dormito solo pochissime ore e, anche se non ho impegni inderogabili, preferisco alzarmi perché voglio trascorrere qualche ora a Soho. Il sedici novembre è arrivato e fra non molto saprò se Liza sarà mia per sempre oppure dovrò rimuoverla dalla mia vita e spostarla nell’angolo dei ricordi. Stamani c’è il sole, nel cielo le nuvole corrono veloci spazzate dal vento d’autunno, mentre Pembridge Square è vuota, inanimata, tranquilla e silenziosa più di sempre. In piedi davanti alla finestra getto lo sguardo in alto, verso il sole che fa capolino dietro al tetto del palazzo di fronte, alla ricerca del mio Dio, della sua energia, del suo aiuto. A voce bassa e rauca gli chiedo di fare in modo che il mio sogno si realizzi, ovvero che Liza si presenti alla Tate Modern. La tensione ha cominciato a divorarmi, risvegliando la mia colite. Lo spagnolo ed io usciamo dalle nostre rispettive stanze nel medesimo istante. Provo un certo imbarazzo tipico di chi sa che lui sa che io so. Decido di rompere gli indugi. “Buongiorno.” “Hola…escussa per esta notte. Tu italiano? Io ablo poco italiano.” “Non preoccuparti. Non dormivo questa notte.” “Ok. Ahi, le donne! Tutto complicado.” “Vero…hai ragione.” “Buena sorte.” “Grazie, anche a te.” Non è certo come lo immaginavo. Lo spagnolo della stanza accanto non è giovane e non ha l’aspetto prestante. E poi sarà veramente spagnolo? Lo osservo mentre fa colazione e mi viene da pensare che tutti e due, in questo istante, stiamo soffrendo per amore. E’ buffo pensare che in un mondo apparentemente pieno di odio e di guerre, l’amore fra le persone è ovunque. No, non voglio ricominciare a pensare. Ho la testa fusa, meglio quindi concentrarsi sulle cose da fare in questo indimenticabile sedici novembre duemilaotto. Tanto per cominciare, dopo una ricca colazione, torno in camera per lavarmi i denti, pulire l’intestino, raccogliere le mie cose e partire con destinazione Piccadilly Circus. Ho indossato i vestiti buoni, quelli che mi rendono più figo e mi sono cosparso del profumo che a lei piace di più. Non voglio lasciare niente al caso. Nel mio zainetto ho messo i regali che devo consegnarle e la scatola di cartone ancora ripiegata che dovrà contenerli. Ci sono anche i biglietti che ho scritto per ogni regalo e il suo vecchio vibratore, un mega fallo rosaceo che cessò di vibrare definitivamente a giugno durante il nostro ultimo rapporto; segno del destino? Chissà. Non avevo mai usato prima questi strani oggetti. Fu Liza che un giorno mi disse di possederne uno. Lo aveva comprato durante un suo viaggio a Madrid e lo usava per colmare l’assenza del marito. Da quel giorno diventò nostro compagno di giochi. Me lo affidò il giorno in cui si guastò, a condizione che lo facessi aggiustare in qualche sexy shop di Firenze. Durante i lunghi e caldi giorni d’estate, mentre lei era al mare con figlio e marito, vinsi il mio impaccio e per la prima volta entrai in uno di questi negozi. Prima di avvicinarmi al bancone, detti un occhiata in giro. Nello spazio riservato ai dvd c’erano due ragazze che stavano scegliendo il film da gustare in una calda notte di luglio. Ero imbarazzato. Non sapevo come muovermi né come comportarmi. “Posso aiutarti?” mi chiese l’unico commesso del negozio. Era un tipo alto, secchissimo, sulla quarantina, faccia incavata, naso aquilino e lunghi capelli cotonati biondicci che a stento coprivano un principio di calvizie. 58
“No…grazie…anzi sì. Dovrei chiederti una cosa” risposi con voce titubante. “Dimmi” disse il secco. Dal contenitore bianco in cotone, estrassi il vibratore. Mi vergognavo come un ladro e temevo che da un istante all’altro potessero arrivare quelle due ragazze. Detto e fatto. Proprio nell’attimo in cui stavo per formulare la domanda, sbucarono come falchi da dietro l’ultimo scaffale. Ebbi un sussulto, feci un movimento maldestro e il vibratore cascò proprio ai loro piedi. Immediatamente, avvertii partire una vampata di caldo che in pochi attimi avvolse il mio viso. Ero rosso di vergogna! “Prego, prego, fai pure con loro” dissi mentre mi chinavo a raccogliere quell’immenso cazzo di gomma. “Non preoccuparti, fai pure con calma” rispose la tipa più alta. “No, davvero fai tu…non ci sono problemi.” Opportunamente il commesso liquidò le due ragazze e tornò ad ascoltarmi. “Non funziona più. C’è la possibilità di aggiustarlo?” “Non credo. Comunque dovresti andare da un saldatore. Vedi si è staccato questo pezzettino. Io non posso esserti utile.” Cose da fantascienza. Figurarsi se mi sarei mai presentato da un saldatore con quell’aggeggio! Sarebbe stata una scena grottesca e raccapricciante. Uscito dal quel negozio scrissi subito un sms a Liza: “Esperienza bellissima, ma non si può aggiustare”. Dopo pochi istanti arrivò la sua risposta: “Maiale, vuol dire che me ne regalerai uno nuovo”. In quei giorni mi ero appassionato ad un libro di Fabio Volo e proprio quella sera mi capitò di leggere le pagine in cui fa riferimento al wireless vibration bol . Compresi che si trattava di un vibratore comandato a distanza. Credevo anche che si trattasse di una presa di culo e che questo tipo di oggetto non esistesse sul mercato. Rimasi comunque incuriosito e cominciai a viaggiare d’immaginazione. Decisi che se fosse esistito veramente, ne avrei regalato uno a Liza. L’indomani mattina feci il giro dei pochi sexy shop esistenti a Firenze. Non trovai il wirelless vibration bol, ma il secco, con cui avevo creato un rapporto confidenziale, mi disse che avrei potuto trovarlo su internet. Sono le dieci quando scendo dall’autobus e attraverso uno dei passaggi pedonali intorno a Piccadilly Circus. E’ ancora troppo presto per vedere gli stuoli dei turisti accalcarsi ai piedi della figura di Eros, la cui grazia è diventata il simbolo della città. Non ho una meta precisa da raggiungere e non so neanche dove si trovi esattamente Soho, o meglio so dov’è ma non so quale siano le strade più interessanti per il mio shopping. La guida che porto sempre con me, mi ricorda che Soho è famosa fin dal XVII secolo per i piaceri della tavola, della carne e dell’intelletto. Nei suoi primi cento anni di vita fu una delle zone più esclusive di Londra e i suoi residenti sono rimasti famosi per le stravaganti feste che erano soliti organizzare. Oggi Soho è la zona a luci rosse più conosciuta di Londra ed è famosa come sede del quartiere cinese, Chinatown. Nei suoi pub e nei suoi caffè si è sviluppato un fertile movimento di artisti e scrittori. Da Shaftesbury Avenue imbocco Rupert Street. Qualche negozio è già aperto, altri stanno per aprire, in alcuni i commessi stanno facendo le ultime pulizie. Mi fermo in un caffè e mi faccio preparare un caffèlatte caldo che decido di consumare camminando. Mi piace molto andare in giro con il bicchierone in mano e gustarmi quella specie di caffè macchiato con il latte. E’ un’usanza di questi posti e farlo mi fa sentire in armonia con tutto ciò che mi circonda. In questa città mi sento perfettamente a mio agio! Una volta, sull’autobus volli fare il ganzo, scordandomi che appartengo alla categoria degli sfigati. In una mano tenevo il bicchiere e nell’altra il croissant. Un piccolo cane di colore bianco si gettò in mezzo alla strada inducendo l’autista ad una brusca frenata. Il bicchiere volò in aria e il caffè finì sulla mia Lacoste viola. A Soho ci sono molti locali a luci rosse e diversi sexy shop. Faccio visita ad alcuni di questi e mi accorgo che l’offerta è molto più ampia e variegata rispetto a Firenze. Anche i prezzi sono molto vantaggiosi e soprattutto c’è il wireless vibration bol, e non solo. Infatti l’offerta degli oggetti con comando a distanza si completa con il wireless vibration egg e la wireless vibration butterfly . 59
Rimango affascinato da un negozietto in Brewer Street. Al piano strada ha una bella libreria con molte pubblicazioni d’epoca per lo più dedicate al cinema, mentre al piano interrato si sviluppa un sorprendente sexy shop. La mia attenzione viene inizialmente rapita da quei libri che sembrano avere un sapore particolare. Li sfoglio con cura, li guardo ammirato con l’animo di chi pensa di trovarsi in un luogo di culto, in un posto in cui poter trovare pubblicazioni rare e introvabili altrove. Mentre mi aggiro lentamente fra i bassi scaffali di questo intrigante negozietto, noto con curiosità che molti clienti imboccano direttamente le ripide e strette scalette che portano al sexy shop. Qualche minuto prima avevo pensato di trovarmi essenzialmente all’interno di una libreria, e invece al piano interrato scopro con stupore un fornitissimo market di oggetti sexy. La sorpresa più grande è nel vedere, in un angolo del negozio, una commessa di mezza età fornire dimostrazioni pratiche sul funzionamento di alcuni di quei prodotti. Ha un cartellino con il nome appuntato sul petto. Si chiama Vicky, è grassoccia, ha lunghi capelli biondo platino che le incorniciano il volto sul quale si stagliano grandi labbra imbrattate da un rossetto rosso fuoco. Indossa una camicietta bianca sotto la quale s’intravede un seno prorompente, abbinata ad una cortissima minigonna grigio fumo che rende più agevoli le sue spiegazioni e le successive dimostrazioni. Il tacco vertiginoso della scarpa, aiuta a rendere più slanciate le sue gambe che, ridondanti di cellulite, sarebbero oltre modo scarse in altezza e abbondanti in larghezza. In uno dei tanti espositori noto una confezione più grande delle altre, al cui interno intravedo un grande fallo rosastro e una bocca gommosa di colore blu collegata ad una pompetta tipo quelle che si usano per misurare la pressione. Sono molto incuriosito poiché non riesco a capirne il funzionamento. La tentazione di ricorrere alla spiegazione di Vicky è forte, ma la timidezza ha il sopravvento, cosicché decido di studiare con attenzione le informazioni e le fotografie presenti sulla confezione. Appurato che il grande fallo non è altro che un mega vibratore a tre velocità, mi resta da capire cosa sia l’altro aggeggio, ma soprattutto come funzioni. Arrivo alla conclusione che si tratta di un oggetto da sistemare sul clitoride e azionare con la pompetta in combinazione con il vibratore, da cui scaturisce un duplice effetto godurioso. Non sono affatto turbato da chi coltiva sane fantasie erotiche o da chi usa vibratori e quant’altro, ma azionare tutto questo marchingegno mi sembra davvero esagerato. Per quanto sono riuscito a comprendere, la donna dovrebbe posizionare il vibratore all’interno della vagina stringendo in una mano il comando per gestire le tre velocità, quindi sistemare le labbra gommose sul clitoride afferrando nell’altra mano la pompetta per gestire il vorticoso risucchio. Indubbiamente l’effetto dev’essere strabiliante, ma mi chiedo se per usarlo sia necessaria una laurea in ingegneria. Concludo che se fossi una donna vorrei sicuramente provarlo! Mi faccio prendere la mano e decido di fare il pieno. Nella scatola di regali che andrò a comporre, troveranno spazio anche un bellissimo libro in lingua inglese dedicato a James Dean che immagino adagiato sul tappeto del salotto di Liza, un wireless vibration egg con cui sogno di fare i giochi più stravaganti insieme a lei e un nuovo vibratore meno ingombrante del precedente e più adatto ai suoi gusti. Sorrido al pensiero di ciò che faccio per amore e intimamente ammetto che il nostro rapporto è sempre stato un grande luna park, un gioco senza fine, un’emozione continua o più probabilmente una clamorosa, galattica favata. Di una cosa sono certo: in questi tre anni mi sono divertito come un matto e non mi frega niente del giudizio dei perbenisti del cazzo o dei falsi moralisti. Liza ed io ci siamo amati come due animali in calore, ci siamo desiderati in ogni secondo della nostra storia e non abbiamo mai fatto una triste scopata da famiglia, quelle per cui ti sembra di timbrare il cartellino, quelle in cui non c’è un pizzico di fantasia e disinibizione, quelle in cui lui sta sopra, lei fa finta di godere e in due minuti tutto finisce. Il nostro amore è sempre stato una battaglia, una sofferenza, un delirio, una sinfonia, una disperazione, un miscuglio di corpi sudati, un’emozione, una sensazione, una vibrazione, una gioia, una ferita da rimarginare, una conquista, una lacrima, un sorriso, uno schiaffo, una carezza. Sono convinto che, laddove appare il germe dell’amore, tutto è lecito. E’ lecito il tradimento se porta con sé amore, è lecita la disinibizione più estrema se accompagnata dall’amore. Viviamo in un 60
mondo in cui ha creato più scandalo la pipa della Lewinski a Clinton che le guerre ordinate da Bush in mezzo mondo. Un bocchino non ha mai ucciso nessuno, le bombe intelligenti da sempre hanno ucciso centinaia di migliaia di donne e bambini inermi, hanno affamato milioni di persone, hanno acuito le disuguaglianze fra ricchi e poveri. Dov’è finita l’indignazione, la voglia di uscire allo scoperto, di guardare in faccia la merda che c’è in giro, di non nascondere la testa sotto terra. Tempo fa, sul muro di uno squallido sottopassaggio ferroviario, qualcuno scrisse con una vernice spray: “Viva i vibratori abbasso le bombe”. Vorrei incontrare lo sconosciuto imbrattatore di muri per stringergli la mano! E’ mezzogiorno. Mi convinco che è giunta l’ora di mangiare qualcosa. Uscendo dal negozio imbocco Berwick Street e mi imbatto in un piccolissimo mercato. Una ventina di bancherelle disordinate nascondono qualche interessante negozio di dischi usati. E’ bello rituffarsi anche solo per un attimo, nel sapore ormai smarrito del vecchio vinile. Trentatre giri e quarantacinque giri degli anni settanta e dei primi anni ottanta fanno bella mostra di sé e aprono il libro dei miei ricordi, di un tempo che ormai non c’è più, delle feste nei garage e nelle cantine, dei primi baci. Rovistando fra le copertine spesso consumate, mi imbatto nell’LP “No Parlez” di Paul Young e immediatamente mi torna in mente l’estate del millenovecentottantatre trascorsa a Bristol, dove mi recai per perfezionare la lingua inglese. In Inghilterra spopolavano i Duran Duran, Elvis Costello e Paul Young con “Come back and stay”, “Love will tear us apart”, “Wherever i lay my hat”, “Love of the common people”. Ricordo che per me fu una scoperta, poichè non avevo mai ascoltato prima Paul Young. Oggi il progresso tecnologico ha portato i CD, perfetti ma senza anima. Noi siamo cresciuti con i dischi pieni di rigature, abbiamo fatto i conti con puntine talvolta consumate che producevano piccoli e grandi fruscii. La Fiat ha prodotto la nuova Cinquecento, io guidavo una vera Cinquecento, piccola, scomoda, rumorosa, spartana, ma vera. La Fiat Cinquecento di oggi è un’auto per fighetti, prima era un’utilitaria per sfigati. Per tanti ragazzi della mia generazione è stata la prima macchina. Davanti a questi vecchi dischi, scorrono nella mia testa tanti pensieri. Ho la sensazione di essere inadeguato in questo mondo apparentemente tecnologico e perfetto, privo però di sapore, di atmosfera, senza sale, senza pepe. Alla bancarella sistemata davanti al negozio di dischi, compro due banane e una pesca. Alzando lo sguardo mi accorgo che il cielo sopra Soho è diventato grigio e minaccia pioggia. A quest’ora del giorno il Rupert Pub è affollato da una moltitudine di ragazzi che si godono qui la pausa pranzo. Le pareti in legno accolgono decine di foto che ritraggono Rupert Everett. Non è difficile capire che molti di loro sono gay. All’ingresso dei locali a luci rosse, cassiere dalle forme audaci e dallo sguardo ammiccante mi invitano ad assistere allo spettacolino porno o alla proiezione di un film hard. Resisto ad ogni tipo di tentazione e passo oltre alla ricerca di un parco in cui potermi riposare, consumare il mio fruit lunch e preparare il pacco regalo per Liza. Lungo Wardour Street una fila di alberi secolari introduce ad un piccolo prato all’inglese, sul fondo del quale sono disposte ordinatamente alcune comode panchine in legno. Disteso sull’erba ancora umida, un uomo dorme in giacca e cravatta. I rumori tutt’intorno sembrano non disturbarlo. Mi siedo sulla panchina posta accanto all’ingresso della piccola chiesa che si affaccia sul giardino e inizio a mangiare una banana. Dopo pochi minuti, arrivano a farmi compagnia due ragazzi e una ragazza che si accomodano sulla panchina accanto alla mia. Giacca e pantalone grigio, scarpa nera, camicia bianca e cravatta celeste per i due ragazzi; giacchino grigio e gonna grigia appena sotto il ginocchio, camicetta bianca e scarpe nere con leggero tacco per la ragazza. In mano hanno una bottiglietta d’acqua e un vassoietto in plastica da asporto contenente strani cibi. Hanno facce pulite e applombe tipicamente britannico. Consumano il loro pasto all’aria aperta con gesti semplici e composti. In un certo senso, somigliano a quelli che riescono a mangiare fra le poltrone dell’aereo senza fare danni. Io non ci sono mai riuscito e li invidio molto. La ragazza, seduta in mezzo ai due ragazzi, è molto carina. I tre hanno modi educati e ciascuno di loro ha un libro che mi immagino comincerà a leggere appena terminato il pranzo. Willesden Green con le sue miserie e le sue contraddizioni, vista da qui sembra essere un’altra città, un’altra realtà, un’altra storia, ma in definitiva è soltanto l’altra faccia della stessa medaglia. 61
Consumato il mio pasto a base di frutta, apro lo zainetto e prendo il cartone ripiegato. Seguo le indicazioni riportate sul lato interno e come per magia ecco apparire una bellissima scatola in cui andrò a collocare tutti i regali per Liza. Sistemo con cura l’ultimo libro di Fabio Volo, il libro dedicato a James Dean, le babbuccie di lana che ho comprato a Ortisei, il wireless vibration egg, il vibratore tradizionale appena acquistato e il vecchio vibratore che ancora non avevo avuto modo di riconsegnarle. Per ogni regalo ho preparato un bigliettino di accompagnamento cercando di essere molto creativo e simpatico. Ho curato tutto fin nei minimi particolari e il risultato finale mi rende molto orgoglioso. Questo pacco regalo è davvero originale e esprime tutto l’amore che ho per Liza. Sono certo che lo apprezzerà molto, anche se in effetti non so se lei si presenterà all’appuntamento e quindi se potrò consegnarglielo. Mentre faccio gli ultimi ritocchi al fiocco rosso, sento alcune gocce d’acqua bagnare la mia mano; inizia a piovere. Sistemo frettolosamente la scatola dentro una grande busta bianca di plastica e cerco di controllare il panico da pioggia. Non è bello a Londra agitarsi per un po’ di acqua caduta dal cielo, tanto più che l’uomo sdraiato sul prato continua tranquillamente a dormire e i tre ragazzi di fianco a me proseguono a mangiare e parlare amabilmente, fino a quando lei estrae dalla propria borsetta un micro ombrello rosso, sotto al quale i tre si stringono per ripararsi da una pioggia che si fa sempre più insistente. E’ bello vederli sorridere, i due stretti intorno a lei sotto quel piccolo ombrello rosso, su quella panchina in legno, accanto alla chiesetta in Wardour Street, in un grigio pomeriggio londinese. Potrebbe essere l’idea per un quadro! Probabilmente disturbato dalla pioggia, l’uomo sdraiato sul prato d’improvviso si sveglia e dopo essersi guardato intorno con aria stralunata si dilegua velocemente. La sua fuga mi fa capire che forse è giunta l’ora di andare a cercare un riparo. Sento un buco allo stomaco e i brividi pervadono il mio corpo. Penso a lei, penso all’appuntamento che si avvicina, penso che devo incamminarmi verso la Tate Modern. Tremo come quando da bambino l’emozione mi attanagliava prima di ogni partita. Penso che lei verrà, anzi ne sono certo. Lei mi ama, non può dimenticarsi di me, non può lasciarmi, non può privarsi delle emozioni forti che solo noi sappiamo regalarci. La pioggia è insistente, cosicché mi fermo nel primo rientro che trovo lungo la strada. Il mio sguardo si perde nel nulla delle vetrine di fronte, le gocce d’acqua e tutto ciò che mi circonda è sfuocato, solo il pensiero di lei è ben presente nella mia mente, nel mio cuore e nei miei occhi. Quando al centro della strada vedo passare i tre ragazzi ancora stretti sotto l’ombrellino rosso, mi riapproprio in un attimo della realtà circostante e mi rendo conto di essere appoggiato ad un cartello sul quale, in pennarello rosso, c’è scritto “Today new girl”. Mi volto e vedo una stretta e ripida rampa di scale al culmine della quale campeggia una grande freccia rossa. Incuriosito mi avventuro verso il piano superiore. Il vano scala è strettissimo e le porte si affacciano direttamente sugli scalini. Su ogni campanello compare la scritta “ring the bell”, imbellita da un piccolo cuoricino rigorosamente rosso. Girovagando per i vicoli di Soho, mi ero sempre chiesto dove fossero le prostitute. Non avevo mai fatto attenzione a questi piccoli portoncini che nascondono palazzine, in cui si esercita il lavoro più antico del mondo. Il mio dito non resiste al richiamo misterioso di quei campanelli. Dietro ad ogni porta appare sempre un’anziana signora che mi fa accomodare in un mini salottino e mi presenta la ragazza di turno. La tariffa è di venti sterline per una prestazione completa che non deve dilungarsi per più di quindici minuti. In molti casi le tariffe sono esposte con cartelli hand made sopra le porte d’ingresso. In alcune case provo a contrattare il prezzo senza ottenere risposte positive. Appagata la mia curiosità e con il cuore che batte a duemila per un senso di paura che comunque ho provato nell’addentrarmi in quegli strani ambienti, mi ritrovo dopo pochi minuti in Leicester Square. L’orologio mi dice che sono le due. Non ho davvero più niente da fare, se non dirigermi alla Tate Modern. La pioggia ha cessato di cadere e alcuni raggi di sole squarciano le nuvole spazzate dal vento, illuminando i palazzi più alti. Ho ancora un’ora di tempo, quanto basta per godermi una tranquilla passeggiata verso la cattedrale di St.Paul e poi puntare diritto all’appuntamento con Liza. 62
10 Immagini di te Londra è uno di quei posti in cui è impossibile sentirsi esclusi. A Firenze, quando nel fine settimana cammino da solo per le strade del centro, mi sembra di essere un oggetto raro, qualcuno che gli altri guardano con occhi diversi. Qui non è così. Mi sento sempre a mio agio, in qualsiasi situazione e in qualsiasi luogo. Nei pub, piuttosto che nei caffè o nei parchi, ci sono molti giovani che se ne stanno in compagnia esclusivamente del loro computer o di un buon libro. Leggono oppure scrivono sorseggiando una birra, un caffè lungo all’americana o un thè verde. In queste circostanze è facile incontrare e conoscere nuove persone con cui scambiare due chiacchiere parlando del più e del meno. Londra mi piace da impazzire. Mi piace questa atmosfera che mi fa sentire inglobato, integrato, le opportunità che offre, il senso di libertà che mi trasmette. Eppure è una città con mille contraddizioni e quindi la fotografia che ne faccio è soltanto frutto di sensazioni che provo vivendola solo per qualche giorno. Mi piacerebbe abitarci per provarmi in un contesto così diverso rispetto a quello in cui sono cresciuto. Certe volte sogno di acquistare un appartamento in riva al Tamigi, in uno dei tanti palazzi a vetri che sono sorti sulle sue sponde e da cui si può godere lo sky line della city impreziosito dalla torre del Big Ben, dai contorni frastagliati del Parlamento, dalla maestosità della cupola di St.Paul’s e ammirare le navi tagliare in due il Tower Bridge. La Tate Modern è li, davanti ai miei occhi. Mi divide dal luogo dell’appuntamento solo il Millenium Bridge, il nuovo ponte pedonale che collega la City a South Bank. Il Tamigi, colorato di marrone, scorre impetuoso verso il mare, formando mille rivoli e mulinelli schiumosi solcati da frequenti barconi e agili motoscafi, che scorrazzano su e giù lungo il grande fiume carico d’acqua. Mi fermo nel bel mezzo del ponte attratto dalle suggestioni di uno scenario unico. Da qui Londra appare in tutta la sua grandezza. Il forte vento scompiglia i pochi e corti capelli che mi sono rimasti, mentre sopra di me grandi nuvole nere cariche di pioggia corrono velocissime verso altre terre e lasciano il posto a squarci di cielo azzurro. I gabbiani, come punti invisibili, volteggiano fra acqua e aria. Quando si avvicinano con le loro ali spiegate e la testa ben dritta in avanti, sembrano guardarmi negli occhi, prima di virare nell’aria e posarsi con dolcezza sulle chiatte ormeggiate lungo le due rive del fiume. A ovest il panorama è definito e circoscritto, mentre se volgo lo sguardo verso est, in lontananza il Tower Bridge rappresenta solo l’inizio dell’indefinito. Laggiù, oltre gli ultimi grattacieli, c’è il mare preceduto da basse e verdi colline. A est non esiste una linea di confine definita, per cui la mente può spaziare, può immaginare, può ricordare. Posando malinconicamente lo sguardo sull’acqua, vedo passare come in un film le immagini della nostra storia, mentre le lancette dell’orologio divorano freneticamente i minuti che ci separano dal fatidico appuntamento. Forse tu sei già qui, o forse stai arrivando e fra qualche istante mi incrocerai proprio su questo ponte. Forse sei a Firenze e stasera festeggerai il tuo compleanno in compagnia di amici. Sono triste, perché penso che se tu non venissi io non riuscirei a sopportare il peso di questo distacco, ma sono anche speranzoso, perché in fondo sono sicuro che la nostra passione trionferà e questa volta sarà per sempre. Nei miei occhi scorrono le immagini del tuo primo compleanno trascorso insieme a me. Mi aspettasti nell’appartamento in Via degli Alfani. La palazzina era praticamente disabitata. Mi apristi il portone. Avevi cosparso le scale di petali di rose. Seguii quella scia rossa fin quando, girato il muro dell’ultima rampa, apparisti davanti a miei occhi in tutto il tuo splendore. Eri completamente nuda, eccezione fatta per un paio di bellissimi sandali con tacco vertiginoso che esaltavano ulteriormente le forme slanciate del tuo corpo. I capelli neri e lunghissimi ti scivolavano morbidamente lungo la schiena e in parte avvolgevano quei seni dalla forma perfetta. Non capivo se tutto ciò era sogno o realtà. Ti presi fra le braccia e seguendo i petali di rosa ti adagiai sul letto. Ricordo il ticchettio della pioggia che s’infrangeva sul tetto di quella alcova mansardata dove 63
trascorremmo una notte meravigliosa. Conserverò per sempre nella mia mente la fotografia che i miei occhi ti scattarono, nuda, dietro quell’ultima rampa di scale. Ricordo quando insieme facevamo il gioco dei portoni. Giravamo come matti nei vicoli del centro alla ricerca del primo portone aperto. Quando lo trovavamo, ci infilavamo su per il vano scala e ci scopavamo come due animali. Forse eravamo davvero matti l’una dell’altro. Ricordo il giorno in cui ti presentasti ad un nostro appuntamento, avvolta unicamente nel tuo impermeabile bianco. Sotto di esso soltanto il tuo corpo nudo ed uno stivale nero che sfumava proprio sopra il ginocchio. Ricordo il mio imbarazzo nel camminarti accanto per le strade del centro fra la gente. Quella volta pensai che tu avessi superato la misura. Ricordo le brioches integrali al miele con le quali ti presentavi ad ogni nostro incontro mattutino. Ricordo quando, a sorpresa, mi facesti recapitare un meraviglioso mazzo di rose rosse nel mio ufficio di Empoli mentre tu eri in volo per Tampa e quando attraverso Marzia mi facesti arrivare a casa dieci palloncini rossi a forma di cuore che non riuscivamo neanche a fare passare dalle scale. Ricordo le tante serate trascorse insieme al Moyo, in particolare quella in cui ci chiudemmo dentro al bagno delle donne e facemmo l’amore, mentre fuori la gente bussava e aspettava impaziente il proprio turno. Avevi il solito stivale nero sopra al ginocchio con tacco dieci e una gonna smisuratamente corta. Ti appoggiasti sul piano di marmo del lavandino e con le gambe stringesti il mio corpo al tuo. “E adesso come facciamo ad uscire? Mi vergogno.” “Tranquilla. Ricomponiti, dammi la mano e fai finta di niente.” “Mi nino mi vergogno da morire!” “Non preoccuparti. Sei pronta? Tre, due, uno…fuori.” Aprii la porta. All’ingresso della toilette si era creata una nutrita fila di ragazze in attesa di poter entrare in bagno. Rammento i loro sguardi increduli quando ci videro uscire mano nella mano e tu che ridevi come una matta. E quell’altra volta che ci divertimmo a prendere per il culo il barman. Eri appena tornata da Santo Domingo e non avevi intenzione di rivedermi. “Dai ho voglia di divertirmi stasera. Ok non stiamo più insieme, però andiamo a farci due risate come solo noi sappiamo fare. Ti aspetto al Moyo. Facciamo finta di non conoscerci. Ho voglia di imbroccarti e magari facciamo arrapare il tipo che sta al bancone. Quello che tutte le volte ti rompe i coglioni.” “L’idea è interessante però non so se verrò.” “Ti aspetto alle undici. Se non vieni mi divertirò in altro modo.” Quando entrai al Moyo tu ancora non c’eri. Ordinai la mia solita Vodka alla pesca e mi sedetti al tavolo alto proprio davanti al bancone. Passavano i minuti e tu non arrivavi. Poi alle undici e quindici un taxi si fermò proprio davanti all’ingresso del locale. Quando ti vidi scendere il mio cuore ebbe un sussulto. Eri bellissima. Entrasti e ti dirigesti subito dal barman mentre molti uomini ti guardavamo con occhio allupato. Io non ti perdevo di vista neanche per un istante. Fingesti di cadere preda del suo presunto fascino. Mi avvicinai e ti sussurai nell’orecchio: “Posso offrirti una bevuta?”. “No grazie.” Eri bravissima. Non cedevi alle mie avances ed allo stesso tempo facevi l’occhio languido a lui. Recitai un corteggiamento asfissiante e anche un pò volgare. Lui, povero stupido, era imbestialito. “Cosa vuole quel tipo! E’ un vero cafone. Devo sbatterlo fuori dal locale?” ti diceva. Alla fine, come da copione, lo mollasti e andammo a sederci insieme. Dopo qualche minuto cominciammo a baciarci appassionatamente davanti ai suoi occhi. Non ha mai capito che stavamo insieme. Molte volte noi uomini siamo veramente stupidi e quel tipo ne era l’esempio più lampante. Indubbiamente il Moyo è stato il nostro locale, come “Mi fido di te” di Jovanotti la nostra prima canzone.
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Una sera ero seduto sul solito sgabello al tavolo alto, in compagnia di Marco e Toshi. Non sapevano che ti frequentavo. Ti inviai un sms: “Sono al Moyo con Marco e Toshi. Ti aspetto, ma fai finta di non conoscermi, mettiamo in scena un imbrocco.” “Ok vengo, ma non so se mi farò imbroccare da te. Voglio provare nuove esperienze!” “Mi nina non fare la stupida!” “Se sarai bravo ti premierò, altrimenti me ne andrò con un altro.” Walking in my shoes dei Depeche Mode fece da colonna sonora al tuo ingresso nel locale che, come al solito, non passò inosservato. Marco, Toshi ed io eravamo appostati proprio davanti all’entrata. Mi gettasti un lungo sguardo. “Il mondo va proprio all’incontrario. Che avrai di così bello da meritare il suo sguardo!” disse Marco con aria sorpresa. “Cavolo che fica! E’ vero, mi ha proprio guardato. Allora vuol dire che sono bello!” risposi io. “Con questa facciamo la fine di Cannes. Dai beccala” disse Marco sorridendo. Qualche anno prima, al Tantra di Cannes, ci illudemmo di avere imbroccato due strafiche. Una, la più bella, era Ucraina, l’altra Estone. Ci raccontarono un sacco di balle, fra cui quella che commerciavano il caviale e che avevano l’ufficio a Ginevra. In realtà, nelle due serate trascorse in loro compagnia, ci fumammo i risparmi di un anno di duro lavoro fra champagne, bevute varie e tavoli riservati nei migliori locali della Costa Azzurra. Credevamo che si fossero innamorate di noi e invece ci rimase solo la modesta soddisfazione della loro piacevole compagnia, di averci ballato insieme sui tavoli del “La Plage” fra l’ammirazione generale e di averle baciate timidamente sulle guance, il tutto per la modica cifra di un milione e seicento mila lire! Non abbiamo mai saputo la verità, ma quando ci risvegliammo dal sogno, Marco ed io ci immaginammo che le due bionde incassassero delle provvigioni sulle consumazioni e su quanto altro facessero spendere ai bischeri di turno, alla faccia del commercio di caviale. Tornammo a Firenze felici, contenti e con il portafoglio vuoto, proprio come due ingenui sfigati. “Facile così. Vuoi sempre che le imbrocchino gli altri le donne e poi tu le certifichi. No, troppo comodo. Comunque questa volta non ti toccherà niente. Me lo sento, lei è mia!” Mi avvicinai a te una prima volta. Come al solito stavi cinguettando con quel deficiente del barman. Giocavi con lui come fa il gatto con il topo. Un sorrisetto, una parolina dolce, uno sguardo ammiccante e lui ti abbonava qualsiasi bevuta. Con me facevi la sostenuta, tanto che ad un certo punto mi dicesti: “Mi piace Toshi. Verrò al vostro tavolo, solo se viene lui ad invitarmi”. Pur avendo assorbito molto della nostra cultura, Toshi è il tipico giapponese timido e un po’ impacciato con le ragazze. Gli riferii la tua frase, ma si rifiutò di venire da te. Ti dedicò un mezzo sorriso e, con la manina destra che sembrava semi monca, ti regalò un saluto da vero imbranato. Mentre Marco cercava di scuoterlo, te ed io ce la ridevamo sotto i baffi. Eravamo davvero due bravissimi attori, ma soprattutto abbiamo avuto sempre una complicità straordinaria. Finalmente Toshi si alzò, venne da te e ti invitò al nostro tavolo. Il barman rimase per l’ennesima volta con il colpo in canna. Marco, quando vide di non avere possibilità, se ne andò. Toshi s’illuse di poter essere lui il prescelto prima di scortarci fino alla mia macchina, con cui alle due e mezzo di notte ci avviammo in Via degli Alfani nel nostro nido d’amore. Immagini che sfilano veloci sul grande schermo virtuale della mia vita, come una pellicola di un vecchio film in bianco e nero. Scene di un vissuto ormai passato, viste e riviste all’infinito, ma che ogni volta sanno darmi emozione, nostalgia ed oggi anche speranza, perché fra poco tu sarai mia per sempre e questi diventeranno i nostri ricordi. Non puoi non essere qui. Ti sento nell’aria portata dal vento di questo autunno londinese, che spazzerà le nuovole sopra di noi e farà brillare in eterno il sole nei nostri cuori appassionati. Immagini come quella in cui ti vedo chinata in topless con i piedi nudi fra gli scogli dell’ Ile du Levant, mentre stai cercando di raccogliere i ricci, che poi avremmo tentato di mangiare. Quella mattina avevi il sorriso, l’emozione, la gioia di una bambina felice ed innamorata. E’ la mia fotografia preferita. Su quell’isola di nudisti eravamo probabilmente l’unica coppia etero. Ricordo quel vecchino che dalla pineta si precipitò frettolosamente verso di te per dirti che in quel posto era 65
ammesso solo il nudo integrale. Ricordo la sua voce e il gesto risoluto con il quale ti intimò di togliere il bikini. Ricordo il tuo sguardo divertito, la tua grassa risata mentre davanti ai suoi occhi ti sfilavi quel brandello di costume rosso fuoco. E’ buffo e paradossale vedere dei ferventi nudisti con cappellino e occhiale da sole. Che differenza passa fra coprire mele e pisello o coprire testa e occhi? A volte penso di dire delle stronzate, ma questa a pensarci bene non lo è. Mi rivolgo a voi popolo di nudisti incalliti: se veramente lo siete, il vostro corpo deve essere completamente scoperto, altrimenti viene il sospetto che siate esibizionisti o finti naturisti o finti alternativi. Ricordo quella sera che ti feci avere cinque o sei orgasmi sulle poltrone del Cinema Principe mentre la pellicola proiettava “Volver” di Pedro Almodovar con Penelope Cruz. Nel buio squarciato dal fascio di luce che dalla cabina di proiezione si irradiava nella sala, ti reggevi forte ai braccioli della poltrona, mentre sotto il cappotto ripiegato sulle tue gambe, le mie mani penetravano nei tuoi pantaloni aperti. Il tuo viso si contraeva e si rilassava, i denti mordevano le labbra per soffocare in gola gli urli di piacere che avresti voluto lanciare, gli occhi puntavano le due anziane signore sedute al tuo fianco e mi gettavano delle occhiate cariche di desiderio. Al termine della proiezione i tuoi jeans erano bagnatissimi, come quella volta che, presi da un delirio di passione, ci scopammo sullo scooter nel parcheggio davanti al campo di rugby. Credevamo di non essere visti e probabilmente nessuno ci notò, ma anche quella fu una vera follia. Ricordo tutte le volte che mi sei venuta incontro con quella grande cesta di paglia intrecciata in cui collocavi formaggi, salumi, biscottini, pane, dolci e li accompagnavi con dell’ottimo vino o del buon thè a seconda dell’orario in cui ci vedevamo. Ricordo la maestria che avevi nel preparare il pesce crudo, ricordo i nostri sogni e i nostri progetti, ricordo tutte le volte che mi hai lasciato, ricordo tutto l’amore che ti ho dato. Non potevo dartene di più, perché più di quello non esiste. Ricordo le volte che ti ho delusa, ricordo le volte che ti ho rincorsa, riconquistata, riavuta. Ricordo quella volta che sono venuto fino a San Remo con la speranza di vederti anche solo per un secondo. Eri con tuo marito e con tuo figlio e forse non credesti che ero venuto fino lì. Tornai a Firenze distrutto ed umiliato. Ricordo la nostra ultima volta. E’ stato nel tuo letto, era giugno. Io ti facevo l’amore e tu mi scopavi, io ti davo la mia anima, la mia disperazione, il mio amore. Tu mi davi il tuo corpo, soddisfacevi il tuo desiderio, la tua voglia. Io ti dicevo: “Ti amo, ti amo, ti amo mi nina…lo capisci?” e piangevo. Tu mi dicevi: “Scopami, scopami, non ti fermare”. Eppure non voglio crederci. Io sono convinto che tu mi ami ancora e che fra poco lo dimostrerai. Non può esserci niente altro dopo noi due. Manca soltanto un quarto d’ora al nostro appuntamento. Non c’è più spazio per i ricordi, per i pensieri. Oltrepasso il Millenium Bridge e mi ritrovo davanti alla Tate Modern.
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11 Appuntamento a Londra Fin dal medioevo e fino al diciottesimo secolo Southwark era famosa per i piaceri illeciti che sapeva proporre ai suoi frequentatori. Il teatro elisabettiano, dove vennero rappresentati molti spettacoli di Shakespeare, era una delle maggiori attrazioni di questa zona di Londra, posta a sud del Tamigi e quindi fuori dalla giurisdizione della City. Nel diciottesimo e diciannovesimo secolo, lungo le sponde di Southwark si costruirono magazzini, banchine e industrie. Ancora oggi questa è una delle zone più vivaci di Londra, grazie anche all’apertura della Tate Modern, ricavata nell’ex centrale elettrica di Bankside. La ristrutturazione ha portato alla realizzazione di uno spazio dinamico che accoglie una delle più affascinanti collezioni di arte contemporanea. Lo stress, dovuto all’avvicinarsi dell’ora x, provoca grandi tensioni all’interno della mia pancia. Prima di entrare dall’ingresso nord, quello posto davanti al Millenium Bridge, getto per un attimo lo sguardo al cielo e chiedo l’aiuto divino: “Dio mio, Gesù mio, Madonnina mia per favore fate in modo che lei arrivi. Se lei si presenterà, giuro che la sposerò e vivrò per sempre con lei. Non so perché e per come, ma questa donna mi ha stregato. Senza di lei non riesco a vivere, quindi vi prego aiutatemi. Grazie per la vita che mi avete donato e naturalmente non dimenticavi tutti i bambini che muoiono di fame e quelli che muoiono sotto le bombe e fra le macerie di guerre dimenticate. Prima pensate a loro e, se volete, cercate di esaudire anche il mio sogno”. Oggi non c’è moltissima gente all’interno della Tate Modern. Mi dirigo subito verso l’ascensore e insieme a una giovane coppia giapponese salgo fino al settimo ed ultimo piano, dove ci sono il ristorante, il bar ed una terrazza con affaccio sul Tamigi, da cui si gode uno stupendo panorama. Lei ancora non c’è. Il peso di questa lunga attesa sta minando il mio equilibrio nervoso, tanto che le unghie stanno distruggendo la pelle delle mie dita. E’ l’unico sfogo che posso permettermi, considerato che non ho mai fumato e non ho intenzione di iniziare proprio adesso. Sono le tre in punto. La vibrazione del cellulare, muto da ieri sera, mi segnala che ho appena ricevuto un sms. Non ho il coraggio di leggerlo, perché ho il presentimento che sia lei a mandarmelo per comunicarmi che non è venuta. Però potrebbe anche comunicarmi che è in ritardo! Mi impongo di non pensare negativo e mi faccio coraggio. Vado su messaggi ricevuti..Quando sul display appare il nome di Sofia tiro un sospiro di sollievo. “Sei un testone. Hai fatto la cosa sbagliata. Comunque ormai è andata. Ti auguro di realizzare il tuo sogno, anche se in questo momento sono un po’ gelosa. Bacio. Il tuo grillo parlante.” “Sono sull’orlo di una crisi di nervi. Ancora non è arrivata.Tu sei speciale, non devi essere gelosa. Bacio.” Dalla terrazza vedo tutto il Millenium Bridge fino all’ingresso nord della Tate Modern che è proprio sotto di me. Tanta è la disperazione, il desiderio e la speranza di vederla arrivare che la identifico ovunque. E’ solo illusione, perché ogni volta che mi sembra di riconoscerla si materializza poi una donna a me sconosciuta, una delle tante che anima la zona di fronte all’ingresso. Sono quasi le tre e un quarto. La tristezza sta prendendo il sopravvento sulla speranza e anche l’agitazione di qualche istante prima ha lasciato il posto alla malinconia. E’ stata una stupidaggine imbastire questo incontro a Londra, lei me lo aveva detto che non sarebbe venuta e che la nostra passione era finita per davvero. Non ho voluto crederle, come non ho mai creduto che il nostro amore travolgente potesse avere fine. Non lo penso neanche adesso che mi ritrovo solo con il grande pacco regalo sulla terrazza della Tate Modern. Sono ancora convinto che lei mi ama, mi desidera, ma preferisce uccidere la sua passione per motivi di opportunità. Mi sento stupido, inadeguato, frustrato. In fondo ho sempre pensato di non potermi permettere una donna come lei. Troppo diversi i nostri mondi, troppo diverse le nostre esigenze. Che fare adesso? Aspetterò fino alle tre e mezzo poi me ne andrò da questo posto e getterò la scatola con tutti i regali nel Tamigi.
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Eccola, è lei! La riguardo meglio mentre sta scendendo la scalinata del Millenium Bridge. Questa volta non è un illusione. Liza è venuta all’appuntamento. Lo sapevo, lo sapevo, lo sapevo. E’ stupenda come al solito. Ha i capelli ricci, grandi occhiali scuri, impermeabile bianco, foulard fantasia di Gucci, jeans bassi in vita e attillati, stivali alti neri con tacco quattro. Cammina veloce verso l’entrata, verso il nostro amore, mentre il mio cuore batte a mille. Ormai credevo di averla persa e invece eccola qui per sempre con me. “Dio mio, Gesù mio, Madonnina mia grazie, grazie, grazie. Ditemi che non è un sogno.” Mi precipito davanti all’ascensore e aspetto con impazienza l’attimo in cui le porte mobili si schiuderanno e lei comparirà davanti ai miei occhi. I minuti passano senza che nulla accada. Un vortice di interrogativi invadono la mia testa. Ma dov’è finita Liza? Forse non era lei, forse mi sono sbagliato, forse mi sono illuso, forse ho sognato. Fisso in modo ossessivo la spia luminosa posta sopra all’ascensore. Adesso è fermo al primo piano, ora passa al secondo, poi al terzo, al quarto, al quinto, al sesto. “Dai, dai, un altro piano. Maledetto, sali un altro piano!” Sentendomi sussurrare queste parole, una distinta signora si permette di offrirmi il suo aiuto: “Can i help you?”. “No thank’s. Signora sono innamorato, troppo innamorato!” “What? I don’t undestand, sorry.” La guardo e con un sorriso misto ad una smorfia che esprime il mio stato d’animo fra speranza e malinconia, chiudo il gentile siparietto e mi concentro nuovamente sull’ascensore. Un fievole trillo ne annuncia l’arrivo. Finalmente la spia del settimo piano s’illumina. Divorato dall’emozione, con la salivazione ridotta praticamente a zero ed il cuore fuori controllo, faccio tre passi indietro in attesa che l’ascensore sputi fuori tutte le persone che ha portato fin quassù. Dal momento in cui ho creduto di vederla arrivare sono passati diversi minuti, per cui non sono affatto sicuro che lei sia lì dentro. Le porte dell’ascensore cominciano a schiudersi lentamente davanti ai miei occhi catatonici. Non c’è bisogno che siano del tutto aperte per riconoscere il profilo del suo viso. Con lei sull’ascensore non c’è nessun’ altra persona. Il suo portamento da ex modella le dona quel qualcosa di speciale che non ho mai visto in nessuna delle altre donne. Accenno un sorriso mentre lei mi viene incontro con passo sicuro e tranquillo. Il suo volto ha una luce inconsueta, sconosciuta ai miei occhi, una serenità che mai avevo notato in lei. La trovo stranamente diversa rispetto a tanti altri nostri incontri. L’emozione che covavo dentro di me nell’attesa di incontrarla, s’infrange d’improvviso sulla neutralità della sua espressione. Improvvisamente mi sento impacciato, frenato, bloccato, paralizzato. Non è come mi immaginavo e come avrei voluto che fosse stato l’attimo esatto del nostro incontro a Londra. Nel film che mi ero fatto l’avevo vista corrermi incontro con un grande sorriso stampato sulle labbra, gettarmi le braccia al collo e rifilarmi un bacio appassionato, emozionato, infinito. “Ciao Faby” mi dice con tono formale e distaccato. “Ciao mi nina. Auguri!” le rispondo, guardandola per qualche secondo con la speranza che l’imbarazzo si sciolga in un abbraccio. “Grazie. Vedo che ti sei ricordato.” “Come potrei dimenticarmi il giorno del tuo compleanno. Due anni fa mi hai massacrato. Ti chiedo nuovamente scusa per quella mia mancanza. Purtroppo mi capita spesso di dimenticare le date dei compleanni comprese quelle del compleanno di mia madre e di mio padre. Comunque non ci sono scuse. Sono veramente uno stronzo. Andiamo a sederci?” “Non preoccuparti, ormai il danno l’hai già fatto. E’ stata la più grande delusione che mi hai procurato. Andiamo a sederci. Meglio non tornare su questo argomento.” “Hai ragione. Mi nina, possiamo almeno baciarci sulle guance. Mi sembra tutto così strano e surreale. Posso tirarti su gli occhiali? Voglio guardarti negli occhi.” “Ok. Guardami negli occhi.” “Hai gli occhi stanchi e un po’ gonfi. Vieni qua, fatti baciare.” “Hai messo il mio profumo preferito.” “Si sente ancora? E’ da questa mattina che sono a giro. Quando sei arrivata?” 68
“Ieri sera.” “Ci sediamo qui?” “Sì, qui mi piace. Questo posto è davvero molto bello. Non lo conoscevo. Quando studiavo a Londra la Tate Modern ancora non esisteva. E’ bellissimo il panorama che si gode da questo tavolino. Buona scelta. Congratulazioni!” C’è qualcosa di strano nel suo comportamento. Mancano i suoi proverbiali ammiccamenti, le occhiate prolungate, la gestualità con cui tante altre volte aveva scatenato le mie emozioni e liberato la nostra reciproca attrazione. Non riesco ad avvicinarla. Vorrei baciarla, gridarle il mio amore, la mia felicità, ma qualcosa mi frena e mi suggerisce di starmene al mio posto. La guardo in silenzio, mentre lei ammira il panorama di fronte ai nostri occhi. Una volta uscii con una ragazza di cui ero perdutamente innamorato. Era bellissima. Cominciammo a frequentarci con assiduità, ma nonostante che anche io le piacessi, non riuscivamo a fare decollare il rapporto. Lei si era lasciata con un ragazzo poche settimane prima del loro matrimonio e probabilmente non era ancora pronta per tuffarsi in una nuova storia. Quella sera andammo a teatro, poi a mangiare una pizza. Io cercavo di attirare la sua attenzione con gli argomenti più originali, lei continuava a guardare la televisione posta nell’angolo della stanza proprio sopra alla mia testa. Capii che era finita, che non avevo più possibilità di conquistarla. Fu l’ultima volta che uscimmo insieme. Non l’ho più vista. Vedere Liza fissare assorta oltre la vetrata della Tate Modern, mi fa ritornare in mente quella volta con Cinzia. Brutto pensiero, una sorta di presagio frutto probabilmente della mia proverbiale negatività. In definitiva lei è seduta davanti a me, ha accettato il mio invito quando avrebbe potuto tranquillamente starsene a casa. Sono io che devo sbloccarmi, scuotermi, prendere coraggio, acquisire sicurezza, gestire la situazione, infuocare il nostro incontro. Lei è qui perché mi ama, perché vuole vivere per sempre con me. Il mio invito a Londra era chiaro e lei ha risposto presente. “Liza, ti va una birra?” “No, preferisco un thè caldo.” “Bene. Allora vado a prendertelo.” Mentre sono davanti al bancone in attesa del thè, la osservo cercando di non farmi notare. Ha il cellulare in mano, lo tiene basso vicino alle gambe come se non volesse farsi vedere. Sta scrivendo un sms. “Ecco il thè.” “Grazie. Allora passiamo a noi.” “Finalmente! Mi nina sono felicissimo! Scusa il mio impaccio. Quando ti ho vista mi sono bloccato, ma credimi in questo istante si realizza un sogno.” “Tu credi? Non correre.” “Infatti sto volando. Ti ho portato un regalo, anzi sono tanti regali raccolti in questa scatola.” “Non credo di meritarli, te li lascio.” “Stupida, ma cosa stai dicendo? Perché non li vuoi?” “Ascolta Faby, ascoltami bene, devo dirti una cosa.” “Eh no, quando inizi così non sono mai notizie buone. Ti prego non uccidermi di nuovo.” “Faby, per me la nostra storia è finita, appartiene al passato.” “Come finita! E perché sei qua? Ti avevo detto di presentarti a questo appuntamento solo se volevi stare con me per sempre. Ero stato chiaro!” “Non ti arrabbiare, ti prego non voglio discutere. Io non ti amo più. Avrò sempre un bel ricordo di te, sei una buona persona, ma ormai appartieni al passato e questa volta non tornerò più indietro.” “Stronza, sei davvero una stronza! Perché sei venuta fino qui! Hai voluto ferirmi, umiliarmi un’altra volta. Sto male Liza. Tu stai giocando con i miei sentimenti. Dammi un bacio, lo so che mi desideri. Tu stai soffocando il tuo amore per me. Vuoi sfuggirmi per qualche cavolo di motivo che non capisco. Anzi lo capisco, ma non voglio dire cose troppo pesanti. Sei cinica e spietata! Dammi un bacio, ti prego! Sono deluso, incazzato, ma anche molto eccitato perché tu sei mia, altrimenti non saresti qui davanti a me.” 69
“Smettila!” “Smettila? Mi stai prendendo per il culo!” “Calma. Io non ti ho mai presa per il culo…frequento un’altra persona.” “Cosa? Non ci credo!” “Giuro su quanto ho di più caro.” “Incredibile! Tu sei venuta a Londra per darmi questa mazzata? Sei fidanzata, innamorata?” “Si, sono fidanzata ed innamorata. Lui è stupendo! Non mi fa mancare niente ed ogni giorno mi dimostra tutto il suo amore. Quello che non hai saputo fare tu!” “Bene. E quanto tempo è che sei fidanzata?” “Non è una cosa che ti riguarda.” “E allora dimmi perché sei venuta a Londra?” “Lui lavora nell’alta finanza ed è qui per motivi di lavoro. Si ferma per qualche giorno, cosicchè abbiamo approfittato per stare insieme e festeggiare il mio compleanno.” Non so come sia possibile in queste circostanze mantenere la calma e affogare l’istinto. Sarebbe meglio che sfogassi la mia rabbia, che le vomitassi addosso tutto ciò che mi passa per la testa, e invece mi impongo di controllare il comportamento e le parole. Sto soffrendo da impazzire, mi sento un fallito, una persona inutile, inadeguato, mi sembra di essere un uomo piccolo, piccolo. Lei mi ha nuovamente umiliato. Pensare che lui, grazie anche ai suoi soldi, può offrirle ciò che io non potevo, pensarla a letto con lui, pensare altre mille cose che lei adesso fa con lui e non più con me, annebbia la mia vista e mi fa mancare le forze. “Mi nina oggi è il tuo compleanno, quindi ti prego di accettare comunque i miei regali. Li ho pensati con tutto l’amore, la passione e la gioia possibile.” “Faby non mi sembra giusto. Non li accetterò mai. Ti prego, non pensare più a me, non pensare più al passato e da adesso guarda solo al futuro. Stai sicuro, io conserverò sempre un bellissimo ricordo della nostra storia. Tu sei una brava persona e troverai sicuramente la donna giusta per te.” “Liza io voglio te! Sono disperato. Voglio te e solo te. Ti amo come di più non potrei. Voglio sposarti. Lo capisci?” “Mi fai arrabbiare quando parli così. Ho aspettato per due anni queste parole. Adesso è troppo tardi. Non ti amo più. Abbiamo avuto nelle nostre mani le carte giuste, ma tu non hai saputo giocarle bene. Io ho messo sul tavolo tutto quello che avevo, ti ho amato, desiderato, voluto ma tu hai sempre viaggiato con il freno a mano tirato. Non sai quante volte ho pianto perché mi sembrava che non mi amassi abbastanza. Ormai siamo su due strade diverse, i nostri destini si sono divisi. Sono felice, tranquilla, innamorata e credo di avere trovato finalmente l’uomo giusto con cui spero di vivere il resto della mia vita. Tu mi hai insegnato a essere donna, a fare l’amore, a conoscere il mio corpo, a liberarmi di tante inibizioni, ma sei una persona che fugge alle responsabilità. Pensi sempre ai risvolti negativi e non a quelli positivi. Certe volte bisogna buttarsi. Io volevo provarci fino in fondo, anche se probabilmente avremmo sbattuto la testa contro muri invalicabili per la nostra situazione. Adesso è meglio che vada. Abbiamo già parlato tante volte di questa cosa. Non abbiamo più niente di nuovo da dirci. Mi dispiace, io non posso aiutarti, solo il tempo potrà farlo.” “Ho sbagliato tanto con te e ne sono consapevole. Molte volte non ho fatto ciò che avresti desiderato, perché ho sempre messo al primo posto il rispetto per tuo figlio che stava vivendo male l’allontanamento fra te e Antonio, ed il rispetto per te e tuo marito. Mi comporterei esattamente allo stesso modo. Io ti ho amata come mai mi era capitato prima, ma probabilmente non sono riuscito a trasmetterti compiutamente ciò che sentivo dentro di me, però credo di averti aiutato tantissimo e di esserti stato molto vicino in un momento molto difficile della tua vita.” “Un amore va annaffiato tutti i giorni. Tu non l’hai fatto. Non pensarci più. Vai avanti e non guardarti più indietro. Soprattutto non annidare in te false speranze. Tu mi hai perso per sempre e devi capirlo. Pensa al presente e non al passato.”
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“L’amore per te è il mio presente. La ragione mi avrebbe portato da tutt’altra parte e non qui a Londra, ma ciò che provo è una passione completamente irrazionale che travolge qualsiasi forma di ragionevolezza. Vorrei tirarti i capelli e baciarti con forza.” “No Faby, non complicare le cose. Grazie per il thè e per i regali. Fai finta che li abbia presi. Ti saluto.” “Un attimo mi nina, non andartene così. Non vuoi sapere cosa c’è dentro questa scatola?” “Se vuoi dirmelo…..” “C’è un libro di Fabio Volo, un altro libro molto bello su James Dean che avevo pensato per il tuo salotto, le babbucce che a te piacciono tanto e che ho comprato in Val Gardena e vibratori di ogni tipo e specie, compreso quello rotto.” “Sei completamente pazzo!” L’improvviso sorriso e la luce che anima per un istante il suo viso, mi danno il coraggio per avvicinarla e stringerla forte a me. Sento un groppo alla gola che mi impedisce di parlare. Le lacrime iniziano a scendere inesorabili lungo il profilo del mio volto per impastarsi con i capelli di lei fino a bagnarle il collo, mentre le sue braccia avvolgono il mio fragile corpo e danno calore alla mia anima irrequieta e spaesata. “Faby non fare così. Mi fai stare male. Smettila di piangere!” “Vai mi nina. Non preoccuparti. Passerà, tutto passa. Trascorri una bella serata ed un felice compleanno. Ciao.” Non ho la forza di andare sulla terrazza per vederti sfilare un ultima volta sotto di me. Sono troppo affranto, deluso, incazzato, disperato, innamorato per sopportare un ulteriore scossa di emozioni. Non ti ho detto tutto ciò che avevo in corpo, perché avrei dovuto usare parole troppo pesanti e questo nostro incontro si sarebbe trasformato in una rissa. Ho voluto lasciarti in ricordo la mia bontà, la mia sensibilità, i miei sentimenti positivi. L’orgoglio è un qualcosa di sano e legittimo che però va usato con parsimonia e trasformato in energia positiva. Sono convinto che ogni persona sa esattamente quando si comporta da stronzo e quando con gentilezza. In questo caso non c’era bisogno di aggettivare alcuni tuoi atteggiamenti, alcune tue scelte, alcune tue parole. Tu sai meglio di me se sei stata sincera, se sei stata opportunista, se mi hai amato davvero, se hai giocato con i miei sentimenti. Io posso solo presupporlo e quindi ho preferito darti tutto me stesso senza riserve fino in fondo, fino all’ultimo minuto dell’ultimo tempo supplementare, dell’ultima partita che abbiamo giocato, anche perché di fronte a te vengo centrifugato dal tuo maledetto magnetismo. Il pacco che ho tra le mani sembra gridare tutta la mia stupidità. E’ il ricordo sbiadito di un illusione cullata per mesi, di un amore struggente vissuto nella solitudine di lunghe giornate trascorse con la mente rivolta a te, ai tuoi silenzi, alla tua lontananza. Fuori è quasi buio. I lampioni illuminano le panchine lungo il Tamigi. L’aria fredda sferza il mio viso, mentre dietro una grande nuvola vedo affacciarsi una piccola fetta di luna, condizioni queste che contribuiscono ad acuire la mia malinconia. In questi momenti sento sempre il bisogno irrefrenabile di riflettere, di crogiolarmi nel dolore. Vorrei che Sofia fosse qui con me per confidarmi, per parlare con lei, per farmi psicanalizzare. Mi siedo, appoggio il pacco regalo proprio accanto a me, prendo il cellulare e le telefono. “Allora com’è andata?” “Innanzi tutto buonasera. Hai una domanda di riserva da farmi?” “Non è venuta la stronza?” “E’ venuta, si è presentata…” “Allora sarai felice.Quando vi sposate?” “Amore mio ho bisogno di te, sono in crisi nera.” “Cos’è successo? Che cos’è questa voce? Te l’avevo detto che era una cazzata ciò che hai fatto. Racconta, sono qui.” “La stronza è venuta per dirmi che ha un fidanzato e che è venuta a Londra per festeggiare il compleanno in sua compagnia. E’ un tipo con i soldi. Lavora nell’alta finanza ed in questi giorni è qui per lavoro, così ne hanno approfittato.” 71
“E’ più che stronza.E’ una vera bastarda! Non ci posso credere. Le hai sputato in viso?” “No. Lo sai, non fa parte di me.” “Ora basta. Non sopporto più che tu stia male per quella donna. Non lo merita. Lo capisci!” “Sì lo capisco, ma sto male per quello che mi ha detto. Tutte le donne mi dicono la stessa identica cosa.” “Cioè?” “Mi ringraziano perché le ho fatte diventare donna, le ho insegnato a fare l’amore e concludono dicendomi che fuggo dalle responsabilità. Questa è una verità che mi da molta noia! E’ il mio lato immaturo che mi impedisce di affrontare la vita con maggiore audacia. Quando vedo un problema tendo a scappare.” “Innanzi tutto non confondiamo le cose. Lei è una stronza. E’ una donna opportunista come molte ce ne sono ed anche molto egoista. Te lo ha dimostrato quando è tornata fra le braccia del marito e quando lui ha scoperto il vostro rapporto. In quell’occasione poteva uscire allo scoperto e difendere il vostro amore. Invece ha negato tutto, ti ha lasciato solo, ti ha escluso per difendere se stessa. E’ una donna che non si fa scrupoli per arrivare agli obiettivi che si prefigge. Sfrutta i soldi del marito per non fare un cazzo dalla mattina alla sera. Vive sulle sue spalle e ci andrà sicuramente anche a letto di tanto in tanto, giusto per tenerselo buono. Adesso ha trovato l’uomo con i soldi e non se lo lascerà sfuggire. Puoi stare tranquillo.” “Non dire così. Stai dipingendo un mostro! Non posso credere di essermi bevuto il cervello per una donna del genere! No, non condivido niente di ciò che dici.” “Tu hai una forma di dipendenza, come un drogato o un alcolizzato. Sei malato di lei, ma non la ami!” “E’ vero! Ho una forma di dipendenza. La adoro!” “Non dire sciocchezze. Adesso parliamo di te. Perseverare non è da persone intelligenti. Se tutte ti dicono la stessa cosa vuol dire che tu commetti i soliti errori, o quanto meno replichi i soliti comportamenti. Anche con me sei fuggito. Tu non vuoi responsabilità. Cerchi di scansare accuratamente gli ostacoli cercando di prendere strade più facili, strade che al contempo non ti portano dove vorresti arrivare. Hai lasciato la brasiliana perché non volevi affrontare i problemi di una vita che sarebbe stata dura. Stessa cosa con l’ungherese. Hai convissuto con Elga solo perché lei aveva una casa e ciò ti ha consentito di scansare molti problemi. Le donne e le persone in genere vogliono costruire qualcosa. Tu invece non vuoi crescere. Vuoi rimanere un eterno bambino. Alle donne sai regalare spensieratezza, gioia e divertimento. Le fai sentire leggere. Le fai rivivere emozioni sopite in anni di piatti rapporti coniugali. Il giochino però non può funzionare in eterno. C’è bisogno anche e soprattutto di altro. Le donne hanno bisogno di certezze, affidabilità, solidità. Ciò che tu non sai offrire. Per certi versi sei una persona estremamente matura, per altri versi sei totalmente immaturo.” “Amore mio, mi sembra di essere su un binario morto. Mi sento inadeguato. Ho fatto scelte che oggi si rivelano sbagliate. Non parlo solo d’amore. E’ frustrante rendersi conto o avere anche solo il dubbio che un rapporto finisca perché non ci sono solide basi economiche per coltivarlo adeguatamente. Questo pensiero mi fa stare molto male.” “Tu sei un sognatore. La concretezza non fa parte di te. Questo ti porta a vivere lontano dalla realtà.” “Passerà.” “Dove sei?” “Sono su una panchina lungo il Tamigi proprio davanti alla Tate Modern. Non ho molta voglia di andare in hotel. Fortunatamente domani mattina ho l’aereo. L’avevo prenotato per scaramanzia, qualora le cose fossero andate male. Ero sicuro che non mi sarei presentato all’imbarco e che sarei rimasto a Londra con Liza per qualche altro giorno. E invece la scaramanzia non ha funzionato. Alle quattordici sono a Firenze.” “E domani sera usciamo insieme. Andiamo al Garth e ci baciamo come maiali...” “Perfetto! Accetto la proposta. Vodka alla pesca e baci passionali.” 72
“Da amici!” “Certo da amici amanti trombanti. Ti voglio bene. Ci sentiamo domani per fissare. Bacio.” “Abbraccio. A domani e non pensare più a Liza. E’ una stronza e questa idea dell’appuntamento a Londra è stata una vera cavolata.” “Ammetto, avevi ragione tu. Spero di dimenticarla in fretta, ma sarà dura, molto dura. A domani amore mio.” Raccolgo le mie cose e imbocco il Millenium Bridge. Fra le mani ho la scatola regalo con tanto di fiocco rosso e sulle spalle lo zainetto che mi accompagna in ogni viaggio. Mi fermo a metà del ponte, mi appoggio alla ringhiera, guardo il fiume e lascio cadere la scatola. Nonostante il buio la vedo infrangersi sulle acque vorticose che, ignare del valore simbolico e di ciò che rappresenta per me, la travolgono in un batter d’occhio portandola con sé in un posto indefinito. Cerco di seguirne il percorso finchè la vista ed il buio me lo consentono. La vedo apparire e sparire fra le onde della corrente, fino all’attimo in cui quel punto rosso sempre più piccolo scompare definitivamente dai miei occhi e con esso probabilmente il ricordo di Liza. In quella scatola ho racchiuso molto di più che alcuni semplici regali. In quella scatola c’era la nostra storia, la nostra passione, il nostro segreto, la nostra intimità, la nostra disinibizione, il nostro amore, il nostro dolore. Come canta Jovanotti “la vertigine non è paura di cadere ma voglia di volare”, io con te ho sempre volato, anche se sapevo che un giorno sarei caduto. Non avevo paura, ma oggi ti confesso che mi sono fatto molto male e non so se sarò più in grado di volare nuovamente, di andare sopra le nuvole, di guardare il mondo dall’alto con la certezza di averlo in pugno. Sarà il tempo a scrivere l’ultima parola su questa storia, a dirci se è stato vero amore o se era solo passione. Non so se riuscirò a voltare pagina o se continuerò ad aspettarti in eterno, a cullare la speranza, a perpetrare il sogno. L’ultimo cd che mi hai masterizzato era intitolato “I will be waiting”. Perché? Il cielo sopra Londra sputa pioggia a catinelle, ma non ho più voglia di ripararmi. Mi siedo su un muretto di mattoncini rossi lungo il fiume e guardo la potenza inarrestabile della corrente. Desidero fuggire, scappare, abbandonare per sempre questo mondo, farmi travolgere da quella massa di acqua impetuosa e lasciarmi trasportare in un posto diverso. Con la testa fra le mani, ascolto in silenzio la sofferenza del mio cuore e l’urlo di dolore proveniente dal profondo dell’anima, mentre la pioggia battente ubriaca il mio volto e si mescola con le lacrime che escono senza sosta dalla ferita ancora fresca. La quiete del nulla è tutta intorno a me, raccolta in questo attimo di disperazione, in cui non riesco a trovare la forza per liberare l’amore che ho dentro di me. …amore, amore mio questa passione passata come fame ad un leone dopo che ha divorato la sua preda ha abbandonato le ossa agli avvoltoi tu non ricordi ma eravamo noi… (Cade la pioggia – Negramaro) L’amore è ciò per cui vale la pena vivere ed io ho tante persone che mi amano e tante altre a cui devo donare il mio sentimento. Ho promesso a Elga che non l’avrei mai lasciata sola. Per lei devo rialzare la testa e rimettermi in cammino. Guardo il fiume per l’ultima volta, sistemo le cuffiette del mio mp3, mi sparo in vena il cd “La finestra” dei Negramaro e senza più voltarmi indietro cammino dritto solcando la pioggia, lasciandomi bagnare dall’acqua del cielo di Londra, verso un futuro che non sarà più con te, ma con persone che meritano l’amore vero. In questa notte di buio, pioggia e silenzio corro nell’acqua in strade deserte e inanimate alla ricerca del mio domani, alla ricerca di te. Sento riaffiorare il tuo sguardo e il respiro della vita accarezza nuovamente la pelle del mio corpo.
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12 Il capolavoro della nostra vita Il sole caldo di questa splendida giornata estiva sta scomparendo dietro il monte che da sempre protegge la casa in pietra, in cui da molti anni mi rifugio per scappare dalla calura opprimente della città. Quassù, a metà fra campagna e montagna, il tempo sembra essersi fermato. Tutt’intorno il mondo è cambiato, non è più lo stesso di quando ero bambino, ne di quando arrivai qui per la prima volta tantissimi anni fa. Ancora oggi gettando lo sguardo fuori dalla piccola finestra, vedo stagliarsi il campanile della chiesa, attorno al quale, raccolte ed ordinate, si stringono le case in pietra di questo piccolo borgo dell’appennino tosco-emiliano. Adagiato sui fianchi della montagna scorgo il minuscolo cimitero, ove all’ombra del grande castagneto, riposano persone a me care. I campi di grano scivolano dolcemente lungo i pendii di queste strane colline e disegnano, con il loro colore giallo, precise figure geometriche che si staccano dal verde intenso della boscaglia circostante. E’ un paesaggio quieto e soave, in cui il ritmo della vita è dettato dai tempi lenti e oziosi del dolce far nulla. La casa in cui mi trovo a trascorrere queste bellissime ore di riposo è in posizione isolata di fronte al pendio su cui giace il paese. I raggi del sole la illuminano fino a tardi. Il paesaggio, incorniciato dai confini della piccola finestra ricavata fra spesse pietre di fiume, appare come un dipinto dei macchiaioli: caldo, colorato e naturale. E’ accanto al camino ora spento di questa casa che ho terminato di scrivere il mio libro. Nel silenzio della campagna sento i tuoi passi sulla ghiaia avvicinarsi alla casa. “Amore, dove sei?” “Sono qui.” “Mi aiuti a preparare la cena? Fra poco arriva Sofia.” Da tanti anni Sofia si è trasferita in Brianza. Ci sentiamo tutti i giorni e appena possiamo ci vediamo. Ha un compagno che ha saputo darle equilibrio, serenità e tranquillità. Non vivono insieme, ma si vogliono ugualmente molto bene. Ha trascorso qualche giorno a Roma da una sua amica e proprio oggi sta tornando a casa, cosicché ne abbiamo approfittato per incontrarci. Cenerà insieme a noi, poi ci arrangeremo per dormire e domani mattina proseguirà il suo viaggio di rientro. “Ancora a scrivere! Quando finirai codesto libro?” “Ho finito!” “Finalmente! E come finisce la storia?” “Bene finisce, perché oggi sono qui con te.” “Sei troppo complicato e misterioso. Cosa vuoi dire? Non mi hai raccontato praticamente niente del libro. Sono curiosa. Fammi capire qualcosa.” “Ok. Il libro racconta la mia storia con Liza.” “Ma chi? La Cubana? Ricordo.” “Domenicana non Cubana. Lei era di Santo Domingo.” “Non ti alterare. E’ passata una vita, non puoi pretendere che mi ricordi tutto di lei. Continua.” “Ricordi quel periodo che andavo spesso a Londra?” “Sì, ma cosa c’entra? Andavi a trovare Gisele.” “L’ultima volta ci eravamo dati appuntamento con Liza.” “A Londra? Comodo.” “Io l’aspettavo alle tre alla Tate Modern nel giorno del suo compleanno. Se lei avesse accettato il mio invito ci saremmo legati per sempre.” “Stronzo. Ed io che fine facevo?” “Avevo perso la testa. Comunque lei venne per dirmi che aveva un nuovo fidanzato ed era in vacanza a Londra con lui!” “Quindi la tua storia d’amore finisce in lacrime.” 74
“Sì, quella storia finisce a Londra in quel giorno di novembre, ma la vera storia del libro e della mia vita finisce oggi qui con te ed è una bellissima storia d’amore, la più bella che potessi immaginare, desiderare, sognare. Liza è svanita, evaporata. Di lei non mi è rimasto niente. La nostra è stata una storia di passione non d’amore, una stupenda scatola vuota che non abbiamo mai voluto o saputo riempire e oggi di noi due non rimane niente. Solo il ricordo di tante magnifiche scopate. Io le sono stato vicino nei momenti di difficoltà, ma non ricordo un solo attimo, un solo gesto di aiuto da parte sua nei miei confronti. Forse in quel periodo non ne ho avuto bisogno. Lei si è dimostrata una opportunista dal primo all’ultimo istante. Quando le ho concesso la mia amicizia e ho chiesto la sua, la risposta è stata no. Non voleva complicarsi la vita, perché aveva già abbastanza problemi. Io penso che se due persone si sono davvero amate, sanno raccogliere ciò che il passaggio di un amore vero lascia e sanno costruire un nuovo rapporto, basato su sentimenti e valori diversi, un amicizia per l’appunto. Con lei non è successo niente di tutto questo, perché lei non mi ha amato, mi ha soltanto desiderato. Questo dicono i fatti e i fiumi di parole che lei ha speso, sono rimaste sempre e solo parole, frasi scritte su sabbia al vento.” “Fermati. Forse leggendo il libro ne capirò di più. Mi aiuti o no a preparare la cena? Mangiamo in giardino. Fa un po’ fresco, ma si sta veramente bene.” “Un secondo e arrivo. Fammi controllare le email.” “Un altro minuto e poi butto il tuo vecchio computer nel fiume.” “Mi ha scritto Daniela! Il prossimo mese viene a Londra a trovare Gisele e mi chiede se ci incontriamo.” “Perché no. Ma quando torniamo a trovarla in Brasile?” “Non sarebbe male organizzare un viaggetto il prossimo Natale. Che ne pensi?” “Aggiudicato. Natale in Brasile. Sembra il titolo di un film. Adesso basta. Vieni a fare il fuoco.” “Ok! Lo sai che ti voglio tanto bene. Non dimenticarlo mai!” Da buoni figli unici, Elga ed io siamo rimasti soli. Siamo innamorati come lo siamo sempre stati fin dal primo istante in cui ci siamo visti ed anche se per un periodo della nostra vita non siamo stati una coppia, non abbiamo mai smesso di volerci un sacco di bene. Un giorno, sebbene non stessi con Elga, promisi a mia suocera che l’avrei sposata. I suoi occhi si illuminarono. Prima che i nostri genitori ci lasciassero, Elga ed io mantenemmo la promessa e non per farli contenti, ma perché era arrivato il momento che inconsciamente aspettavamo da una vita. Ci siamo sposati quando l’abbiamo veramente desiderato, quando lo abbiamo veramente voluto. A vent’anni non la ritenevamo una cosa necessaria e abbiamo convissuto per oltre dieci anni. Quando camminiamo per strada, spesso lo facciamo mano nella mano e gli sguardi che ci regaliamo sono pieni di tenerezza e di affetto. Avevo giurato a me stesso che mi sarei sempre occupato di Elga che non l’avrei mai lasciata sola con la sua malattia. Abbiamo attraversato insieme tanti momenti duri, lunghi giorni in ospedale, molti attimi di sconforto. Ho cercato di esserle sempre vicino. Qualche volta ci sono riuscito, altre volte probabilmente avrei potuto dare di più. Quando mi mise fuori dalla porta, sentivo di aver tradito il giuramento con me stesso. In quei giorni sembrava tutto finito fra noi. Fu la sensazione di un breve periodo. I nostri sentimenti più profondi riemersero più forti di prima dalle ceneri delle bassezze che la vita talvolta ci porta a commettere. Spesso sono severo con me stesso e quando faccio il consuntivo della mia vita ho la sensazione che avrei potuto essere una persona migliore di quanto non sia stato. Ma il sentimento per Elga da solo basta per farmi dire che ne è valsa la pena vivere questa vita, perché ho avuto la fortuna di conoscere la forma di amore più pura e più alta, quella che non chiede di essere barattata o di esprimersi attraverso il corpo, ma coinvolge unicamente l’anima e raccoglie in essa tutte le energie positive di cui si nutre. La storia con Liza è stata una stupenda scatola vuota, quella con Elga è una scatola vecchia, vissuta, e un po’ consumata, ma stracolma di magnifici regali messi lì, giorno dopo giorno, con gioia, dolore, amore, passione.
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Ho sempre pensato che l’amore sia tutto e non capisco come si possa vivere senza. Ho vissuto tutte le mie storie, tutte le mie avventure pensando di essere profondamente innamorato e ogni volta è stato stupendo, e lo è stato anche quando non ero corrisposto o addirittura la donna che io sognavo non sapeva che avessi un forte debole per lei. Batticuore, sogni, attese, dolci struggimenti hanno accompagnato i momenti più intensi della mia vita, così come le lacrime, di quelle che scorrono sull’anima nuda e indifesa. Ho pensato di aver amato molte donne ed in effetti è stato così. Oggi però ho capito che si può amare in molti modi, che ogni amore ha un suo posto particolare ed una sua profondità, ma soprattutto ho capito che l’amore quello con la A maiuscola arriva, forse, una sola volta nella vita se si ha la fortuna di incrociarlo. Io ho avuto questa fortuna. Insieme abbiamo avuto la sensibilità di riconoscerlo e l’umiltà necessaria per recuperarlo nel momento in cui potevamo perderlo. Ogni volta, come adesso, che vedo Elga curare le rose del suo giardino, che di notte sento sul collo il soffio tenue del suo lento respiro, che vedo un suo sorriso, che poso lo sguardo sulle fotografie scattate insieme a Matteo, il ragazzino brasiliano che prendemmo in affidamento e che oggi è tornato con sua madre, mi emoziono come un bambino e penso che tutto questo è stato il vero, autentico capolavoro della nostra vita. “Trottolo…vieni qua in giardino. Molla quel maledetto computer e porta il sale e il pepe!” E’ lei, mi chiama. Non posso più trattenermi, devo andare a fare il fuoco. Fra poco arriverà Sofia e fra alcune settimane rivedrò Daniela, le altre donne della mia vita.
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