il lavoro agro-alimentare periodico della Fai Cisl
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AGROALIMENTARE E MEZZOGIORNO
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LE MOLTE VIE DELLA PARTECIPAZIONE (Italia-Germania a confronto)
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MARIO ROMANI: LA VERA FORZA DEL SINDACATO È quella CONTRATTUALE
N. 1/4 - GENNAIO/APRILE 2013
L’EMERGENZA LAVORO RICOMPATTA IL FRONTE SINDACALE
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Sommario
Fai Proposte periodico del lavoro agroalimentare n. 1/4 - gennaio/aprile 2013
Editoriale
di Augusto Cianfoni 4
IN PRIMO PIANO
• Le molte vie della partecipazione di Giovanni Graziani 6 • Agro-alimentare e Mezzogiorno: potenzialità, problemi, prospettive di Giovanni Galizzi 8 • Crescere al Sud, partecipando e controllando di Sergio Zoppi 10
SINDACATO
• Misuriamo la rappresentanza, partendo dall’associazione di Stefano Faiotto 13
PAC E PCP
• Pac, prosegue il processo di riforma di Rodolfo Ricci 15 • Verso la Pac 2014-2020: sviluppo o rendita per l’agroalimentare? di Gabriele Canali 17 • Settore pesca: la riforma della Pcp di Silvano Giangiacomi 19
FORMAZIONE
• I campi scuola: vita in comunità e arte del sindacato di Aldo Carera 22 • Una Formazione che è nel Dna della Fai di Rando Devole e Giampiero Bianchi 24
CONTRATTAZIONE
• Bonifica una trattativa infinita di S.F. 27 • Le prospettive della contrattazione di Domenico Massaro 29
CAE
• Cae: un quadriennio di iniziative di Roberto Vicentini 32
FORESTAZIONE
• Montagna e Forestazione innovative opportunità per lo sviluppo di Claudio Risso 34
PREVIDENZA
• Previdenza pubblica e complementare: un mix da promuovere e sostenere di Fabrizio Scatà 36
MERCATO DEL LAVORO
• Brevi note sulla Riforma del Mercato del lavoro di Anna Montanari 38
FONDI SANITARI
• Sostegno alla maternità e paternità (Fasa) di Claudio Pinto 40
PERSONE
• In memoria di Mario Garimberti di Roberto Vicentini 42
FISBA-FAT FONDAZIONE
• Leggere l’Italia in un giorno di Vincenzo Conso 43
AGRICOLTURA
• Imprese e non imprese di Carlo Galuppi 47
RECENSIONI
• a cura di Giampiero Bianchi 49
AGENDA EUROPA
• I lavoratori distaccati: una sfida europea a cura di E. Bonaldo e R. Devole 53
INSERTO
• Il futuro della forestazione produttiva di Albino Gorini 45
IL PROGRESSO SOCIALE - Finalità della competitività sostenibile Francia-Italia: due accordi interconfederali a confronto Chiuso in redazione il 16 maggio 2013 editore Fai Cisl | direttore responsabile Augusto Cianfoni | redazione Claudio Biffi, Loredana Leone | fotocomposizione e ricerca iconografica Antonella Di Girolamo | redazione e amministrazione via Tevere, 20 - 00198 Roma - tel. 06.8456921 - e-mail: faiproposte@tin.it | progetto grafico Gutenberg snc | registrazione Tribunale di Roma n. 119 del 10.3.2002 | per le fotografie di cui, nonostante le ricerche eseguite, non è stato possibile rintracciare gli aventi diritto, l’editore si dichiara disponibile ad adempiere ai propri doveri.
Editoriale
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Il dovere della coesione Da questo Congresso aderiamo all’appello del Paese per una solidarietà generosa dei singoli e di ogni rappresentanza politica e associativa verso il bene comune Augusto Cianfoni
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ulla grave condizione dell’Italia il sindacalismo confederale ritrova la voglia di camminare insieme. Finita la concertazione per insufficiente cultura democratica dei Partiti e dei Governi e per mancanza di un innovativo disegno di sviluppo per il Paese, ma anche per alcune velleitarie proposizioni che in essa vollero affermarsi, ridotto a pochi episodi il dialogo sociale, Cisl, Cgil e Uil hanno dovuto guardarsi in faccia nel pantano di questa crisi epocale. Si dice che sotto i bombardamenti non sia prudente né saggio rimirare il tramonto con le mani in tasca. Non lo è neppure voltare le spalle alla realtà. Sarebbe come se, di fronte alla straripante domanda di tutela di milioni di lavoratori, coinvolti in processi di ristrutturazione, di delocalizzazioni e di precarizzazione del loro lavoro, davanti a famiglie ridotte al di sotto della soglia di sopravvivenza, a giovani umiliati da troppe promesse non mantenute e dalla mancanza assoluta di prospettive, si volesse continuare a ballare la danza delle ideologie che la storia ha ridotto in cenere.
La ritrovata unità di intenti, sancita il 30 Aprile dagli Esecutivi nazionali all’Auditorium dell’Inail di Roma reca in sé un messaggio tanto più forte quanto atteso. Anche la contestazione esibita da un ex dirigente della Fiom per quella che egli ha urlato essere una “mancanza di democrazia” nell’ordine dei lavori è insieme segno di un disagio per presunte scorciatoie nell’indurre a fioritura la ritrovata unitarietà e indice – allo stesso tempo – di persistenti doglie di un parto che si rifiuta di nascere in un mondo che alcuni, antagonisti a prescindere, vorrebbero alieno. Questa ritrovata comunanza di intenti, che noi apprezziamo, ma che non chiamiamo unità per una naturale, antica ritrosia a vestire di solenni paramenti Messe feriali, è comunque una nuova e preziosa condizione per rispondere nel migliore dei modi alla responsabilità a cui ancora una volta ci chiama il Paese. Della nostra predisposizione a rispondere a questo bisogno recita bene il manifesto di questo Congresso che è la sintesi dei tanti celebrati nei Territori. Ripartire dal lavoro “Imprese & Sinda-
Editoriale cato” in una comune declinazione dei doveri e dei diritti. Come dal 1946 al 1970 e poi negli anni del terrorismo e quando sapemmo rinunciare alla scala mobile accettando la sfida della contrattazione, così come quando aderimmo all’insegnamento di Ezio Tarantelli e arrivammo all’accordo del 1993 e dopo 16 anni di delusioni riguardo alla contrattazione articolata, sentimmo il bisogno di ridarci degli affidamenti a favore di relazioni sindacali più impegnative. Tante tappe di responsabile generosità, ma anche tornanti lungo i quali abbiamo subìto i frequenti strappi della tormentata Cgil e le troppe frustrazioni per le diffuse infedeltà di molte Organizzazioni di imprese a quello spirito di condivisione che si diceva ispirasse quei protocolli o accordi confederali. Venti anni di follia vissuti dal Paese in ogni ambito politico, istituzionale, economico, ne hanno talmente indebolito la struttura che oggi risulta sempre più difficile tirarlo fuori dalla palude perché dovunque tu voglia tirare rischi di smembrarne gli arti. Ma ciò che è difficile non può essere impossibile. Il tempo e i problemi sono talmente straordinari che serve da parte di ogni componente della società compiere atti eccezionali. Ogni rappresentanza di interessi, politica o sindacale, deve mettere al primo posto della propria azione una convinta pedagogia per i propri associati affinché possano considerare investimenti l’esercizio dei doveri di cittadinanza. Non possiamo più permetterci di pensare che i sacrifici debbano farli sempre gli altri né che i cosiddetti “diritti quesiti” diventino il calcare di una
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indebita difesa della corporazione. Ciò vale, quasi in via prioritaria, per quelle grigie ed esangui adunanze dei cosiddetti servitori dello Stato che invece di servirlo ne abusano, spesso in forme che travalicano i confini della rettitudine. Quanto alla classe imprenditoriale, essa oggi è chiamata a dare un valore culturale al rischio di impresa isolando quella diffusa, pseudo imprenditorialità che squilibra la concorrenza e distrae i guadagni dagli investimenti verso le rendite. Dunque un insieme di virtù civili che sembrano alla portata di mano e invece rappresentano conquiste così ardue che si possono perseguire soltanto se in tutti scatta l’orgoglio di ricostruire la casa comune. È la prospettiva obbligata di quel Patto che viene per l’ennesima volta evocato come cultura e metodo per far ripartire il Paese. Si potrebbe dire che il sigillo di questo tempo non siano i diritti, ma i doveri: una ineludibile pena del contrappasso dopo troppi anni in cui l’ha fatta da padrone l’economia del particolare guicciardiniano che, detto in termini meno togati, significa egoismo dei singoli e delle consorterie. Il sogno di Innocenzo III che vede Francesco reggere sulle spalle la Chiesa è l’immagine emblematica di questo tempo in cui – credenti o laici – dobbiamo mettere mano con generosità alla ricostruzione di tutto ciò che è stato distrutto. Volenti o nolenti dobbiamo ripartire dalla generosità di un solidarismo autentico, redento dalle tante finzioni con cui abbiamo pensato per troppi anni di gabbare gli altri mentre allargavamo il baratro davanti a noi.
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IN PRIMO PIANO
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Le molte vie della partecipazione Italia - Germania: due modelli a confronto Giovanni Graziani
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a Costituzione italiana afferma il diritto dei lavoratori di partecipare alla gestione delle imprese (come prevede l’articolo 46); quella tedesca no. Eppure è in Germania che si sono sviluppate le forme partecipative considerate all’avanguardia nel mondo occidentale, mentre in Italia esperienze di questo tipo sono praticamente assenti. Come è stato possibile? 1. L’articolo 46 della Costituzione italiana ha come precedente l’esperienza dei consigli di gestione. Creati già dalla “repubblica di Salò” (che voleva essere una “repubblica sociale”), poi istituiti dal decreto del Comitato di Liberazione Nazionale dell’Alta Italia, i consigli di gestione rappresentavano uno strumento con il quale rappresentanti degli operai affiancavano nella direzione delle imprese imprenditori spesso squalificati dalla collaborazione col fascismo. Il radicamento dei consigli nella guerra di Liberazione, soprattutto nelle componenti di sinistra, rappresentò il loro elemento di forza nella fase iniziale, ma fu motivo di declino pochi anni dopo. Se negli anni della Costituente, un periodo che inizialmente vedeva ancora la collaborazione di governo fra tutti i partiti antifascisti, il loro riconoscimento faceva parte del patto fondativo della Repubblica (ed anche i cattolici potevano leggervi uno strumento di realizzazione di istanze di giustizia sociale), pochi anni dopo, con i governi centristi e la rottura con le sinistre, i consigli di gestione vanno fuori corso. Finito su di un binario morto il discorso della partecipazione come attuazione legislativa dell’artico-
lo 46 della Costituzione (come accade, in modo diverso ma con gli stessi effetti, per gli articoli 39 e 40), toccherà alla contrattazione collettiva cercare di sperimentare ed allargare gli spazi di partecipazione dei lavoratori alla vita delle imprese. Un percorso non facile né lineare, che soffrirà di impostazioni ideologiche ostili, da parte padronale come da parte operaia, ma che contribuirà, soprattutto attraverso la conquista della contrattazione aziendale, ad una certa democratizzazione dei rapporti nelle imprese. 2. In Germania, la partecipazione ha tutta un’altra storia. Il lascito del nazismo era del tutto ostile all’idea di partecipazione (l’impresa è considerata una comunità governata in base al Führerprinzip, al pari dello Stato), né si sviluppano forme di resistenza operaia paragonabili a quelle delle fabbriche italiane del nord. Sono le autorità militari di occupazione britanniche, alla cui amministrazione sono affidate alcune delle zone più importanti per la strategica industria carbosiderurgica, a volere l’esperimento della partecipazione dei lavoratori alla gestione come condizione per riprendere un’attività economica che voleva dire permettere alla Germania di rimettersi in piedi sul piano economico. Un passaggio visto con sospetto a Londra, dove sono andati al governo i laburisti e dove non ci si dimentica dell’appoggio dato dall’industria pesante tedesca all’affermazione di Hitler. Per questo, nonostante le diffidenze degli americani verso una scelta di sapore socialisteggiante, le autorità britanniche scelgono la via, di
IN PRIMO PIANO sapore della partecipazione dei lavoratori nell’industria carbosiderurgica anche come contrappeso democratico in un ambiente impregnato di tradizioni dell’autoritarismo tedesco. Dopo la costituzione della Repubblica federale tedesca, la difesa di questa forma di partecipazione sarà oggetto, all’inizio degli anni ’50, dello scontro fra il Dgb ed il Governo federale, guidato da Konrad Adenauer. Per il cancelliere democristiano, che ha messo la Germania sulla strada di un liberalismo temperato (che poi sarà sviluppato ed assumerà il nome di “economia sociale di mercato”), la gestione operaia è vista come un elemento improprio; ma a sua difesa si alza il Dgb, il cui programma è imperniato sulla costruzione della “democrazia economica”. Di fronte alla minaccia di Hans Böckler, presidente del Dgb, di paralizzare l’economia tedesca con lo sciopero generale, Adenauer cede. In questo modo, attraverso un conflitto di grande intensità, la Germania ha costruito quello che oggi è considerato un modello equilibrato, in cui sono superate le vecchie divisioni fra fautori della democrazia economica e quelli dell’economia sociale di mercato. Tanto da far dire ad Angela Merkel, che la Mitbestimmung (ossia quella forma di partecipazione che consiste nella codecisione) è parte integrante della Soziale Marktwirtschaft, cioè del modello di economia di mercato strutturata dal riconoscimento dell’elemento della socialità come propria parte integrante che è la caratteristica del modello Germania. Tuttavia, non bisogna esagerare la portata quantitativa dell’esperienza della Mitbestimmung; la partecipazione alla gestione delle imprese, in base alla legge del 1976, riguarda essenzialmente i grandi gruppi, ed in generale le sociatà con più di 2.000 dipendenti, dove viene istituito un consiglio di sorveglianza di composizione quasi paritetica (la parte imprenditoriale ha una leggera prevalenza).
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3. Più diffusa è l’esperienza del consiglio di impresa, o Betriebsrat, che, a differenza del consiglio di sorveglianza, esprime una forma di partecipazione non alla gestione dell’impresa, ma solo alle decisioni dell’imprenditore in quanto datore di lavoro. Qui la legge tedesca ha una tradizione antecedente al nazismo, quella dei consigli che furono soppressi nel 1933 e di nuovo istituiti già nel dopoguerra. Si calcola, secondo i dati della fondazione Hans Böckler riferiti al 2010, che il 45% degli occupati nelle imprese private della Germania occidentale ed il 38% in quella orientale abbiamo una rappresentanza di questo tipo, i cui poteri vanno dalla semplice informazione, alla consultazione fino in alcuni casi alla codecisione, in particolare in materia di organizzazione del lavoro. La loro natura è sostanzialmente affine a quella delle vecchie commissioni interne in Italia: organismi di rappresentanza non sindacale nei luoghi di lavoro, eletti da tutti i lavoratori, con funzioni di garanzia dei diritti derivanti dalle leggi e dai contratti collettivi. Ma mentre in Italia la stagione delle commissioni interne è stata chiusa alla fine degli anni ’60, quando era il concetto di partecipazione in quanto tale ad essere oggetto di contestazione, in Germania il ruolo del Betriebsrat si è consolidato come strumento di partecipazione alle decisioni del datore di lavoro che incidono sulla sfera di libertà del lavoratore. Infatti, mentre da noi abbiamo emanato lo “statuto dei lavoratori”, cioè una legge che guarda all’azienda come una comunità politica dove il potere del sovrano, il datore di lavoro, è limitato dalla garanzia dei diritti dei lavoratori, perchè tali restano i lavoratori, in Germania la legge sul Betriebsrat si chiama “legge sullo statuto dell’azienda”. La quale azienda è vista come una comunità politica dove le decisioni sovrane devono essere prese con la partecipazione dei rappresentanti dei lavoratori.
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IN PRIMO PIANO
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Agro-alimentare e Mezzogiorno: potenzialità, problemi, prospettive Giovanni Galizzi
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ono numerosi e di indubbia importanza i pregi dell’agro-alimentare del nostro Mezzogiorno. Grazie all’eccellenza della qualità delle sue produzioni esso gode di un vantaggio competitivo di determinante rilievo. Negli ultimi anni è sensibilmente aumentato il numero delle sue imprese che grazie alla creazione di valore mediante l’introduzione di nuovi prodotti, il miglioramento di quelli esistenti e l’adozione di idonee politiche di marca, si sono affermate stabilmente sui mercati internazionali. La produzione agro-alimentare rappresenta inoltre un settore decisivo dell’economia della regione ed è allo stesso tempo un soggetto fondamentale della gestione e della protezione dell’ambiente e del paesaggio. Ciò nonostante, questo agro-alimentare è ancora assai lontano dall’esprimere le sue ampie potenzialità. Anzi, il necessario processo di trasformazione
del suo sistema produttivo procede con ritardi insostenibili rispetto a quanto avviene in altre regioni del nostro Paese e in altri paesi. È così sempre più difficile competere sui suoi tradizionali mercati d’esportazione e sullo stesso mercato interno e, allo stesso tempo, approfittare dell’apertura dei nuovi e potenzialmente importanti mercati di sbocco delle proprie produzioni derivante dalla crescita della classe media nei paesi emergenti e in tanti altri paesi in via di sviluppo. Diventa inoltre sempre più difficile sostenere la crescente competizione derivante dallo sviluppo in tanti paesi dell’Africa sub-Sahariana, oltre che nei paesi dell’Africa del Nord, della produzione agro-alimentare da parte di industrie alimentari, di grandi società di commercializzazione e di catene della grande distribuzione che coordinano la produzione di decine di migliaia di piccoli agricoltori mediante
IN PRIMO PIANO contratti di coltivazione. Se non vuole sprecare il prezioso vantaggio competitivo offerto dal pregio e dall’unicità delle proprie produzioni, l’agro-alimentare del Mezzogiorno deve accelerare con tutta rapidità il processo di trasformazione del suo sistema di produzione e di commercializzazione per adeguarlo alla nuova realtà del mercato internazionale e, conseguentemente, dello stesso mercato interno. Si tratta di un processo che impegna in modo diretto e congiunto l’industria alimentare, i produttori agricoli, l’amministrazione centrale e le amministrazioni regionali. Per l’industria alimentare questa trasformazione implica, oltre allo sviluppo dell’innovazione di prodotto e delle politiche di marca, la presa d’atto del ruolo ormai determinante giocato nel processo competitivo da una corretta gestione della supply chain, ossia dall’impegno a produrre i servizi di mercato che sono di interesse per gli acquirenti dei propri prodotti; in particolare, l’impegno a favorire la trasmissione lungo la catena dell’offerta di tutte le informazioni utili per minimizzare i rischi e massimizzare la trasparenza. L’esperienza dimostra che la competizione da parte dei paesi a basso costo del lavoro è tanto meno efficace quanto più le imprese sono coordinate verticalmente. La complessità dei problemi connessi all’esportazione suggerisce inoltre alle piccole e medie imprese l’esigenza di dare vita a forme di aggregazione, a consorzi ad esempio, atte a facilitare la creazione di reti di vendita stabili all’estero. L’esportazione esige operazioni che sono particolarmente sensibili alle economie di scala, di modo che essa tende ad essere prerogativa delle imprese di maggiore dimensione. Agli agricoltori il nuovo contesto competitivo chiede in modo pressante l’impegno ad operare congiuntamente sul mercato mediante forme di aggregazione, dalle associazioni di produttori
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vere e non di “carta” alle società cooperative, più consone alle diverse realtà. L’associazionismo di mercato, oltre ad essere il solo strumento capace di conferire agli agricoltori un effettivo potere contrattuale, costituisce oggi un determinante fattore di razionalizzazione della catena dell’offerta. All’amministrazione centrale e alle amministrazioni regionali la competizione internazionale impone infine, tra l’altro, il compito indilazionabile di risolvere le note criticità relative alle infrastrutture e all’efficienza complessiva del nostro ciclo logistico specie per quanto concerne le problematiche relative alle infrastrutture ferroviarie, ai diversi aspetti di inefficienza dei porti e degli aeroporti, alla complessità delle procedure doganali. Il ciclo logistico nazionale è infatti, soprattutto nel Mezzogiorno, particolarmente frammentato rispetto ai sistemi integrati degli altri paesi con i quali si deve competere. E questo accade mentre a livello mondiale la logistica tende ormai ad essere un settore sempre più strategico nel promuovere l’aumento della produttività, la crescita dell’occupazione, la formazione del prodotto interno lordo.
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IN PRIMO PIANO
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Crescere al Sud, partecipando e controllando Sergio Zoppi
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ei mesi scorsi, ventuno associazioni e fondazioni che si richiamano al Mezzogiorno d’Italia hanno sottoscritto un lungo e ben strutturato documento – la cui prima stesura è uscita dallo Svimez – per aprire la strada a nuove politiche che consentano al Sud di riprendere una crescita da tempo interrotta. I nove capitoli analizzano la situazione attuale per soffermarsi sulle scelte da compiere: cinque anni di crisi, come uscirne; l’asimmetria Nord-Sud; l’impatto recessivo delle manovre per mettere in sicurezza i conti pubblici; la redistribuzione, la crescita e lo sviluppo governando i mercati; le emergenze: servizi sociali, lavoro, desertificazione industriale; un programma di sviluppo per il Sud quale condizione per la ripresa della crescita dell’Italia; classi dirigenti e governance; i drivers, motori dello sviluppo (attraverso la riqualificazione urbana, l’efficienza energetica
e le aree interne; la logistica e il Mediterraneo e le infrastrutture; l’energia). Un’agenda vera, nel recupero di una visione di sistema, nella quale il tema dello sviluppo diventi la chiave di volta che permetta al sistema Italia di riprendere con vigore il cammino verso mete qualitativamente e quantitativamente apprezzabili. Il documento, chiaro e realistico, ha inteso dunque mettere in evidenza il ruolo strategico del Mezzogiorno per sciogliere i nodi di un declino che è anche nazionale. Nel testo, promosso dall’associazione a lungo guidata con mano sicura da Pasquale Saraceno, viene affermato con decisione che è un imperdonabile errore pensare “per parti”, territoriali e settoriali, lo sviluppo, contrapponendo il “fronte del Nord” al “fronte del Sud”. Viene poi evidenziato il tema della sostenibilità sociale e richiamato l’impegno ineludibile dello Stato centrale a garantire la condizioni di contesto e di generale coerenza delle politiche ai fini del riequilibrio territoriale. Si afferma, subito dopo, che, al fianco delle azioni immediate, occorre mettere in campo un «progetto di lungo periodo finalizzato alla prospettiva di risanamento, di crescita e modifica coerente delle strutture del sistema: un sistema che accanto a una rinnovata attenzione a settori ad alta potenzialità, quali l’agroalimentare e il turismo, veda confermata la strategicità e centralità dell’industria manifatturiera, che resta l’architrave del sistema economico». Non mancano i richiami alla valorizzazione delle innovazioni tecnologiche, alla riqualificazione delle aree urbane, promuovendo l’efficienza energetica,
IN PRIMO PIANO rinnovando l’edilizia, con la capacità di attrezzare a diversi livelli le reti logistiche, agendo al contempo per la messa in valore di un patrimonio di beni culturali di enorme rilevanza; unitamente alla messa in campo di una vasta opera di difesa dell’ambiente e del territorio, incrementando inoltre filiere agro-alimentari di qualità e perseguendo una prospettiva di leadership italiana nel processo d’integrazione europea. Finalmente si è tutti d’accordo, tra i sottoscrittori del documento, nel riconoscere quanto freni la crescita la debolezza delle pubbliche amministrazioni regionali e locali. «Nel Mezzogiorno è assai inferiore la qualità dei beni pubblici essenziali, come giustizia, sanità, istruzione, trasporti, lavori pubblici, servizi locali, con ricadute rilevanti sulle condizioni di vita dei cittadini e sul funzionamento dell’economia». Si evidenzia che i “nuovi contenuti del divario”, non solo quindi quelli strettamente economici, svelano che per il cittadino meridionale sono a rischio diritti fondamentali, non esercitando i quali cedono le condizioni di legalità, premessa indispensabile per avviare processi di responsabile autogoverno, anticamera obbligata di uno sviluppo duraturo. Ove perdurino queste condizioni, vengono meno le condizioni per l’affermarsi di una classe dirigente all’altezza dei compiti da affrontare mentre – sottolinea il documento – è necessaria «una governance multilivello, nell’ambito di una cooperazione istituzionale basata su uno stretto coordinamento tra tutti i livelli di governo, in grado di intervenire e garantire efficacia anche nella fase di progettazione e di realizzazione». Le scelte che il documento indica «aprono alla prospettiva di un’economia sostenibile e competitiva, e rappresentano un elemento catalizzatore della catena di connessioni, tutte da costruire, ricerca-innovazione-produ-
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zione, capace di consolidare il ruolo delle imprese, di rilanciare una capacità di attrazione che si è spenta da anni e di coinvolgere la funzione del sistema universitario e di ricerca, e il patrimonio ambientale e culturale del Mezzogiorno». Così da offrire nuove opportunità al tessuto produttivo, frenare l’emorragia del capitale umano più qualificato, consentendo pure di attrarre risorse preziose per alimentare le trasformazioni necessarie. Si insiste nel mettere in evidenza che le città sono oggi i veri motori di crescita, laddove nel Sud esse evidenziano – a partire dalle maggiori – fenomeni di progressivo degrado, perché c’è una diversità negativa, rispetto alle aree avanzate del Paese, di efficienza amministrativa. «Intervenire sulla città esistente, agendo nel campo della riqualificazione edilizia ed urbanistica, è non solo coerente con gli andamenti del mercato immobiliare, che vedono in drastico calo la domanda di edifici di nuova costruzione, ma anche con gli specifici obiettivi di salvaguardare il capitale naturale del Paese, riassunti nell’imperativo di rallentare il “consu-
Fondi sanitari Persone Fisba-Fat Fondazione Agricoltura Recensioni Agenda Europa
IN PRIMO PIANO mo del suolo”». Da qui l’urgenza e la rilevanza di favorire la green economy, dal campo energetico a quello dei servizi ambientali e, al tempo stesso, realizzare (sarà occasione di nuova occupazione per giovani, uomini e donne) una vasta opera di difesa del patrimonio culturale e ambientale, a partire dalle aree interne. Di grande rilievo poi si presenta, nel campo della logistica, l’obiettivo dell’esportazione via mare di produzioni d’eccellenza. Il documento si sofferma su altre scelte ed esigenze di vitale importanza: tra queste, irrinunciabile, la possibilità di poter contare su risorse finanziarie aggiuntive, ben finalizzate e costantemente verificate nel loro dispiegare gli effetti positivi attesi. Tenendo però ben presente, è questa la chiave di lettura dell’importante testo, che il divario tra Nord e Sud ha oggi “nuovi contenuti” i quali (viene giustamente ripetuto) non sono, contrariamente a quanto affermato fino a poco tempo fa, solo strettamente economici ma, in larga misura, civili, culturali, organizzativi. Pagine – quelle qui – parzialmente riassunte che dovrebbero diventare occasione di immediata lettura, di riflessione e di dibattito all’interno del sin-
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dacato dei lavoratori che si richiama a Giulio Pastore, ricercando il dialogo con tutti, a partire dal coloro che si sono assunti la paternità del testo. La Cisl può fare di più, nella consapevolezza della vitale importanza che nei processi di sviluppo rivestono le amministrazioni comunali (e ovviamente quelle regionali) mentre la loro debolezza frena le azioni da svolgere che pure risultano necessarie. Certamente occorrono le nuove risorse finanziarie, ma queste, una volta ottenute, vanno fatte fruttare. Gran parte della responsabilità e del merito ricade sui comuni, sulla loro capacità di programmare, progettare, operare. Perché allora non creare, comune per comune, degli agili osservatori permanenti in grado di seguire i dibattiti dei consigli comunali, leggere le delibere delle giunta, inviare motivati stimoli ad agire, monitorare le iniziative intraprese, stimolare le università degli studi a nuove alleanze, interloquire con le organizzazioni imprenditoriali, premere attraverso i mezzi d’informazione e la rete informatica, chiamando a operare, all’interno degli stessi osservatori, i cittadini anche quelli non iscritti al sindacato? Agire dal basso (dove risiede l’avvenire) è la necessità del momento, nella certezza che nella vita istituzionale e nelle relazioni tra cittadini deve essere immessa “qualità” la quale si fonda su un alto contenuto di relazione (si pensi alla scuola come ai servizi locali), facendo leva su un rapporto fiduciario tra utente e soggetto attuatore: il modo giusto per contribuire a innalzare il livello di legalità. Iniziando in questo 2013, anno nel quale, a mezzo secolo dalla morte, verrà ricordato Umberto Zanotti-Bianco, un apostolo senza macchia, vissuto sempre al limite della povertà, che ha dedicato l’intera sua vita allo sviluppo di un Mezzogiorno fondato sulla scuola, sul lavoro, sull’impresa, sulla cultura.
SINDACATO
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Misuriamo la rappresentanza, partendo dall’associazione Direttivi Unitari Cgil, Cisl e Uil Stefano Faiotto
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hi ha diritto a sedere al Tavolo di trattativa per il rinnovo di un Contratto di lavoro? Oppure quando la firma di un rinnovo di un accordo ha valore e diventa così vincolo per le Parti? Un tema, quello della rappresentanza, che attraversa da moltissimo tempo le dinamiche dell’azione contrattuale nel nostro Paese, almeno sin dalla sua costituzione repubblicana e quindi dalla sua applicazione costituzionale. Nei giorni scorsi le Confederazioni Cgil, Cisl e Uil, hanno siglato una prima intesa sulla materia. Una sorta di scaletta unitaria sui punti condivisi della rappresentanza, utile ad aprire un confronto con la Confindustria e con le altre Centrali Sindacali del mondo delle imprese, per definire regole nuove sulla contrattazione nazionale e decentrata, sulla elezione delle rappresentanze sindacali e sulla validazione degli accordi sottoscritti. C’è innanzitutto una positività che va subito evidenziata, la capacità delle tre Confederazioni di raggiungere un punto comune su questa materia, poiché la delicatezza del tema e la sua difficoltà applicativa nella prassi quotidiana ha creato, in questi anni, non pochi problemi di relazione fra i sindacati e fra gli stessi e le imprese. Basti pensare a ciò che è successo, e sta ancora accadendo, nel settore metalmeccanico ed in particolare in Fiat, ma che possiamo registrare anche in tante altre categorie, non ultima la nostra del settore
alimentare, portando Fai, Flai e Uila a rivedere, solo due anni fa, le regole di elezione in materia di Rsu nel settore industriale. L’intesa unitaria conferma i contenuti di un precedente accordo già condiviso nel 2008 in materia di rappresentanza e di contrattazione, prevedendo nel binomio iscritti-Rsu il punto di riferimento su cui misurare la base di calcolo per la rappresentanza di una Organizzazione sindacale ed indicando nel 5% la soglia di entrata per poter sedere al Tavolo di trattativa di un Contratto nazionale. Questa materia è già di per se molto delicata poiché ogni soluzione che si intenda assumere, indica quale idea di sindacato noi abbiamo. In particolare la nostra attenzione va rivolta alla natura stessa del sindacato; pensiamo alla nostra insistenza sulla “natura associativa” che costituisce, da sempre, la visione della Cisl, rispetto alla attenzione che, viceversa, altre realtà possono dedicare alle dinamiche più generaliste ed assembleari. La nostra sensibilità associativa infatti identifica il consenso nella capacità di relazionarsi con l’insieme dei lavoratori e di vedere, nel gesto dell’adesione al sindacato, l’elemento di consenso e di rappresentanza al contrario di chi, invece, ha una visione più elettoralistica in cui è l’esercizio del voto generalizzato che legittima l’azione del sindacato; in questo senso la soluzione intravista, di un mix fra iscrizione e Rsu, cerca di
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SINDACATO creare un equilibrio fra queste due diverse visioni di rappresentanza. Lo stesso tema della misurazione pone di per sè elementi di difficoltà e di complessità; pensiamo alle caratteristiche che la nostra Federazione ha, così come altre categorie, di rappresentare realtà produttive e lavorative molto diverse fra loro dentro gli stessi settori contrattuali e nelle loro varie titolarità. Andiamo ad esempio dalle dinamiche rappresentative all’interno della grande impresa industriale, con singoli siti produttivi che hanno anche più di 4.000 dipendenti, a realtà agricole o della panificazione, piuttosto che dell’artigianato, che hanno uno o due dipendenti per realtà e una numerosità di imprese molto importanti presenti sul territorio. Appare subito chiaro che le dinamiche legate alla rappresentanza non possono essere “cucite” su di una unica misura di impresa, ma devono poter essere realisticamente associate alle specificità che ogni realtà contrattuale rappresenta. In tal senso ci appare utile aver colto nella intesa Confederale un’attenzione allo spazio che conseguentemente va lasciato ad ogni singolo settore contrattuale e quindi alle Parti contrattuali settoriali, di definire modalità e contenuti specifici attraverso cui regolare la materia. Per questo, sul campo della presenza sindacale in un settore contrattuale, per noi della Fai, vanno considerati gli elementi che possono collegare la rappresentanza al dato
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associativo, alla presenza nelle aziende e sul territorio, ma anche alla tutela che l’Organizzazione realizza nell’assistenza al lavoratore stesso, ad esempio attraverso la bilateralità. Poiché è l’insieme di queste dimensioni dell’azione di tutela sindacale che dà la misura del rapporto concreto fra l’Organizzazione sindacale ed i lavoratori che al sindacato si rivolgono per vedere applicate le norme contrattuali. Così come un’attenzione particolare andrà rivolta al tema del rapporto fra l’Organizzazione e la Rappresentanza sindacale aziendale. Le dinamiche di elezione dei delegati ci vedono sempre in prima fila nella gestione dei percorsi elettorali delle Rsu con il massimo di attenzione e di efficacia in termini di consenso. Possiamo tranquillamente dire che, come Fai, siamo soddisfatti del consenso che riceve la nostra Federazione nelle varie fasi di rinnovo delle rappresentanze, con risultati che vanno spesso anche oltre le nostre aspettative, ma questo non ci esime dal mettere in evidenza la necessità di trovare forme che garantiscano il rapporto fra il delegato e la sua associazione, fra l’azione dello stesso e la responsabilità che il suo sindacato rappresenta. Da qui il valore della Sas (Sezione aziendale sindacale), come presenza organizzativa della Cisl, che affianca e sostiene il delegato Rsu; così come il valore che hanno gli Rsa, quali rappresentanti della Fai nelle realtà contrattuali dove questa forma di rappresentanza è ancora fortemente presente. Se la natura associativa, per la Cisl, rappresenta ancora un cardine dell’azione sindacale, allora dobbiamo saper trovare ed incentivare quelle forme che sappiano, con intelligenza, coniugare il dato del consenso generale rispetto al valore ed al riconoscimento che l’iscritto deve poter scorgere, anche dentro le regole che ci daremo con le nostre controparti in materia di rappresentanza e di contrattazione.
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Pac, prosegue il processo di riforma Partiranno a breve i trialoghi fra le tre istituzioni europee che dovranno approvare le nuove misure per il periodo 2014-2020
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Rodolfo Ricci
iamo entrati in una fase cruciale del processo di riforma della Pac. Il nuovo piano poliennale 2014-2020 sarebbe dovuto entrare in vigore dal primo gennaio 2014, ma vari contrattempi – il più rilevante dei quali è stato la bocciatura del bilancio da parte del Parlamento europeo – hanno provocato uno slittamento al primo gennaio 2015. In ogni caso è già partito, all’inizio di aprile, il confronto fra il Parlamento europeo, la Commissione e il Consiglio per definire il testo definitivo della nuova Politica agricola comune. Una trattativa molto articolata. Con la riforma della Pac, che dovrebbe essere definita entro giugno, “ci giochiamo moltissimo, non solo in termini di risorse finanziarie: sono più di sei miliardi all’anno che confluiscono nel nostro Paese, di cui quattro miliardi di aiuti diretti e due miliardi per lo sviluppo rurale”, sostiene Paolo De Castro, presidente della Commissione agricoltura del Parlamento europeo, che ha voluto fotografare la posizione dell’Italia, in occasione di una tavola rotonda organizzata dalla Regione Puglia nella sede di Bruxelles. Secondo De Castro quelle della nuova Pac sono risorse importanti specie per il Mezzogiorno, perchè significano dare sostegno alle imprese, al lavoro,
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Forestazione
riuscire a mettere in moto un sistema agroalimentare che in questo momento di crisi è l’unico settore che sta vedendo aumentare il fatturato, le esportazioni e l’occupazione. Per questo il Parlamento europeo nei negoziati in corso con il Consiglio Ue e la Commissione europea difende le sue risorse, con l’obiettivo di una Pac che guardi alle imprese e a come renderle più forti e competitive sul mercato. Al lavoro dell’Europarlamento si aggiunge “il lavoro della regione Puglia che coordina le regioni italiane, da cui sono nati importanti emendamenti”, ha precisato il presidente della Commissione agricoltura dell’Europarlamento. “Grazie al Parlamento europeo e alle regioni avremo una Pac più vicina alle imprese e meno rischiosa rispetto alle proposte della Commissione: penso all’olivicoltura, alla convergenza interna, al rischio delle colture permanenti”. Partendo da un inquadramento economico generale, va detto che le risorse destinate dall’Unione europea alle politiche agricole verranno notevolmente ridimensionate: nel quadro finanziario pluriennale 2014-2020 infatti, alla voce 2 “Crescita sostenibile: risorse naturali”, il differenziale rispetto al precedente settennio è di -9,1%, ovvero 38,2 miliardi di euro in meno, ed è
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l’unico dato negativo del programma. Entrando nel merito di quanto prevede la nuova Pac, possiamo vedere che ruota intorno a quattro pilastri principali: i pagamenti diretti agli agricoltori, l’Organizzazione comune di mercato unica, lo sviluppo rurale e il Regolamento orizzontale che disciplina il finanziamento, la gestione e il monitoraggio della Pac stessa. Per quanto riguarda i pagamenti diretti, la linea generale prevede un allineamento nelle quote di ciascun paese membro e ha l’obiettivo di uniformare i pagamenti entro il 2019. L’Italia, che oggi riceve somme superiori rispetto a quelle della media Ue, dovrà quindi aspettarsi una diminuzione degli aiuti finanziari. Nello specifico, cambierà anche il modo di ripartire gli aiuti ai produttori: dal regime di pagamento unico si passerà a un sistema articolato su quattro voci. Per prima cosa, un pagamento di base, che sarà erogato a tutti gli aventi diritto. Poi un pagamento “verde” – il cosiddetto greening – che consisterà in un importo addizionale per chi adotterà pratiche ecologiche, vale a dire diversificazione tramite rotazione di almeno tre colture diverse, mantenimento dei prati stabili e permanenti, la riduzione dell’uso di prodotti chimici, la destinazione di una parte dei propri terreni a scopi ecologici, la tutela floro-faunistica e così via. I produttori biologici rientreranno di diritto fra i beneficiari del greening. La terza voce sarà quella dei giovani agricoltori, ovvero gli under 40, ai quali però è riservata una porzione abbastanza esigua del budget destinato ai pagamenti diretti. Infine, si cercherà di sostenere attraverso una misura d’aiuto specifica anche i piccoli agricoltori. Esistono inoltre due parametri aggiuntivi che possono dare accesso ad aiuti economici diretti, cioè l’ubicazione dell’azienda in aree svantaggiate ed eventuali situazioni di mercato particolarmente difficoltose. Un
veloce esame delle proposte sul piatto, rivela che competitività e crescita economica prevalgono sulla reale volontà di imporre una svolta sostenibile. Il secondo pilastro, l’Organizzazione comune dei mercati (Ocm) unica, serve a uniformare dal punto di vista giuridico ed economico il mercato interno, l’intervento sui mercati del pubblico e del privato, gli scambi con i paesi terzi, misure anticrisi straordinarie e le regole della concorrenza. Tuttavia, molti osservatori ritengono che l’Ocm riformata non si discosti molto da quella prevista sin dal 2007 col Regolamento 1234. Va però sottolineato l’impegno che si ravvisa nel ridurre i passaggi di filiera e nel rivalutare il ruolo e il potere contrattuale dei produttori. Il terzo pilastro è quello relativo allo sviluppo rurale. Dagli attuali quattro assi si passerà a sei priorità, ovvero trasferimento di conoscenze e innovazione, competitività, organizzazione delle filiera alimentari e gestione dei rischi, tutela degli ecosistemi legati al mondo agricolo, ottimizzazione dell’impiego delle risorse e riduzione delle emissioni, occupazione e sviluppo nelle regioni rurali. Infine il quarto pilastro, il Regolamento orizzontale, ha lo scopo di monitorare l’applicazione delle misure previste dalla Pac, in particolare quelle relative alla condizionalità, agli interventi sul mercato e ai pagamenti diretti. Resta il dato di fondo: scorporando il vecchio sistema del pagamento unico degli aiuti diretti, si sarebbe potuto eliminare, attraverso un processo graduale per non creare troppi scompensi, il pagamento di base, utilizzando come primo criterio quello del greening e facendo in modo che l’agricoltura sostenibile e biologica diventasse conveniente non solo dal punto di vista ambientale ma anche da quello economico. Ma i tempi ora sono maturi per questa svolta “ecologica”. Almeno così sembra.
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Verso la Pac 2014-2020: sviluppo o rendita per l’agroalimentare? Alcuni spunti per una riflessione tra Pac, sviluppo e lavoro. Di fronte alle contraddizioni tra intenzioni e prospettive circa il lavoro, il Sindacato deve agire con decisione in Europa e nel Paese.
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Gabriele Canali
opo le proposte della Commissione del 2011, dopo gli accordi sul bilancio dell’Ue del Consiglio Europeo, dopo le proposte del Parlamento Europeo che ha valutato e votato oltre 7000 emendamenti alle proposte iniziali, dopo un pre-accordo in sede di Consiglio dei Ministri dell’Agricoltura, l’Ue a 27 è entrata nella fase del “trilogo”, il confronto istituzionale “a tre” tra Commissione, Parlamento e Consiglio, che porterà, presumibilmente entro l’estate, all’approvazione della Pac per il periodo 2014-2020. Purtroppo i segnali relativi alla “nuova” Pac non possono essere giudicati in modo ottimistico, soprattutto dal punto di vista del lavoro, e del lavoro dipendente in agricoltura. Uno dei pochi aspetti positivi riguarda la questione più temuta, quella delle risorse che complessivamente saranno messe a disposizione per questa politica nell’ambito di un bilancio Ue decisamente ridotto. Infatti, nonostante qualche taglio, in buona misura inevitabile, l’accordo di febbraio 2013 nell’ambito del Consiglio europeo ha visto l’Italia ottenere maggiori risorse per il secondo pilastro, quello delle politiche per lo sviluppo rurale, rispetto alle proposte iniziali. Grazie a questo “recupero”, reso possibile da una recuperata reputazione internazionale del nostro Paese, l’Italia non perderà risorse importanti proprio nella parte di Pac che risulta più importante, sia in quanto vera e propria politica agricola, che per gli effetti occupazionali: lo sviluppo rurale, appunto. Ma circa il 75% delle risorse complessive della Pac
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saranno ancora destinate al primo pilastro, quello del regime di pagamento unico; un “pilastro” certamente importante, quindi, in termini di risorse redistribuite, ma assai più discutibile per la sua razionalità ed efficacia. Vale la pena di ricordare, infatti, che i titoli che danno accesso alle risorse, sono stati quantificati sulla base delle coltivazioni effettuate in periodi storici del passato, ormai sempre più lontani e non è ancora chiaro se, con la nuova proposta, questi verranno sostanzialmente modificati. Si deve anche ricordare che tale sostegno non è più connesso direttamente con nessuna attività produttiva specifica (disaccoppiamento), se non con il rispetto delle norme minime della condizionalità. Inoltre, un dato certo relativo al primo pilastro è che diventerà assai più complesso anziché semplice; infatti l’aiuto ad ettaro verrà scomposto, in un numero variabile tra 5 e 7 componenti diverse, a seconda delle scelte che usciranno dal “trilogo”: una componente di base, il greening, un aiuto integrativo per i giovani che si insediano per la prima volta (per un massimo di 5 anni), un possibile componente integrativo per le aree soggette a vincoli naturali, una componente riservata alle imprese di dimensione al di sotto di una certa soglia dimensionale (si discute di una soglia tra i 30 ed i 50 ettari), una componente accoppiata, una quota destinata ad un sistema semplificato per piccole imprese (indicativamente sotto i 3 ettari). Se questa è semplificazione! La complessità di applicazione del primo pilastro rischia
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poi di unirsi a soluzioni poco chiare circa la regionalizzazione degli aiuti. Certamente è importante, per il nostro Paese che ha scelto fino ad ora di non regionalizzare i pagamenti ad ettari, la possibilità di gestire questo passaggio con gradualità nel giro di alcuni anni. Ma il punto di arrivo dovrebbe essere chiaro: una regionalizzazione completa, anche se con riferimento alle “regioni” (siano esse quelle amministrative o meno) identificate dai singoli Stati membri. Tuttavia nelle proposte ora in discussione non è più chiaro se si arriverà ad una tale scelta. Con la regionalizzazione, a regime si avrebbero aiuti ad ettaro uguali per tutto il territorio omogeneo delle “regioni” considerate e questo elemento metterebbe chiaramente tutti i beneficiari nelle stesse condizioni competitive, senza favorire alcuni solo sulla base di produzioni realizzate forse anche più di un decennio prima, o sfavorire altri per analoghe ragioni. Nel caso non si raggiunga, quindi, una completa regionalizzazione nemmeno a livello delle regioni omogenee che il nostro Paese potrebbe autonomamente identificare, saranno soddisfatti i beneficiari che manterranno posizioni che non si possono che definire di rendita, maturate nel passato. Ma anche queste rendite sono nemiche dello sviluppo. Vi saranno ancora aziende, infatti, che potranno più o meno sopravvivere, solo grazie agli aiuti, senza completare quel necessario passaggio verso l’imprenditorialità che solo può creare le condizioni per favorire lo sviluppo e il lavoro. E anche le misure accoppiate, giudicate importanti da molti, possono essere un’arma a doppio taglio se serviranno, come già è stato nel recente passato ed è tuttora (si pensi all’articolo 69 delle riforma Fischler, ora art. 68 dopo l’Health check), solo a mantenere rendite legate al passato piuttosto che stimolare lo sviluppo verso un sistema agroalimentare economicamente sostenibile e competitivo del futuro. Da queste politiche, quindi, non ci si può attendere granché in termini di sviluppo e di ricadute occupazionali durature. Peraltro, l’unico esplicito riferimento al ruolo del lavoro dipendente previsto nelle proposte della Commissione nel meccanismo del “Capping”, sembra destinato a scomparire. In questo caso, come si ricor-
derà, nella proposta della Commissione era prevista la possibilità di evitare i tagli del pagamento unico aziendale nelle grandi aziende, “scaricando” i costi per il lavoro dipendente. Tale meccanismo, per quanto limitato alle aziende che avevano diritti per importi superiori a 150.000 euro, avrebbe introdotto finalmente un legame chiaro tra lavoro dipendente e aiuti integrativi al reddito aziendale. Ma questo legame, appunto, sembra saltato nelle trattative. E ciò non è positivo. Dal dibattito e dalla probabile riforma emergono tuttavia anche alcuni segnali positivi. Come detto, il più importante riguarda le politiche per lo sviluppo rurale che vengono sostanzialmente mantenute nel loro impianto, migliorate in termini di flessibilità di programmazione e semplificazione, in qualche misura anche innovate utilmente. In particolare, un aspetto importante riguarda il possibile sostegno a forme di organizzazione a rete tra imprese delle filiere agroalimentari, di cooperazione e collaborazione sia orizzontale che verticale. Questi sono i nuovi strumenti che potranno essere utili per rafforzare sensibilmente la competitività dell’agroalimentare del nostro Paese. Come pure, nell’ambito della Ocm unica, sono da sottolineare gli sforzi fatti per ridare centralità alle organizzazioni di produttori (OP) e agli organismi interprofessionali (OI), altri strumenti importanti, se ben utilizzati dagli operatori, per crescere nella competitività di filiera. Se si ricorda il gran parlare che si è fatto della centralità del lavoro nella nuova Pac, nelle fasi preliminari alla elaborazione delle proposte e della posizione italiana sulla Pac, si rischia di dover concludere che tutto ciò fosse decisamente strumentale. Di quella centralità non sembra restare quasi più nulla. La Pac sembra tornare ad essere, specie nel suo importantissimo primo pilastro, una brutta redistribuzione di rendite, che rischia di essere avulsa, se non addirittura contraria, agli obiettivi di crescita e di sviluppo che devono interessare al Paese e ai lavoratori. Per questo è necessario un sindacato dei lavoratori agroalimentari sempre più forte ed autorevole, dal livello locale a quello comunitario, un sindacato orientato allo sviluppo secondo le migliori tradizioni Cisl.
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Settore pesca: la riforma della Pcp Un 2013 impegnativo per i negoziati a livello comunitario
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Editoriale In primo piano Sindacato
Silvano Giangiacomi
l 2013 sarà per il settore della pesca l’anno delle grandi riforme a livello comunitario. Il 6 febbraio scorso, infatti, il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione legislativa sul progetto di regolamento della Commissione europea relativo alla riforma della Politica comune della pesca (Pcp). Spetta ora al Consiglio agricoltura e pesca dell’Unione prendere posizione sugli emendamenti votati dal Parlamento. La Presidenza irlandese di turno del Consiglio ha già fatto sapere che intende chiudere la procedura legislativa ordinaria, introdotta nel 2010 con il Trattato sul funzionamento dell’Unione, prima della conclusione, a fine giugno, del proprio semestre. Se non interverranno cambiamenti di programma, la nuova Pcp entrerà in vigore a partire dal 1° gennaio 2014. In questo quadro negoziale, l’obiettivo che si pone per l’Italia è quello di consolidare e, se possibile, migliorare i risultati conseguiti nel cosiddetto “approccio generale” deliberato dal Consiglio nel corso della sessione del giugno 2012. In quell’occasione, come aveva sottolineato il ministro pro-tempore delle Politiche agricole, alimentari e forestali, Mario Catania, sono stati messi alcuni punti fermi di assoluto rilievo ai fini di un riconoscimento effettivo della specificità sociale ed economica che caratterizza la pesca nel Mar Mediterraneo, nell’ambito di una rafforzata tutela a lungo termine degli stock e dell’ecosistema marino. Il “fermo biologico” annuale è stato definitivamente classificato come misura tecnica idonea alla protezione delle risorse ittiche. È un riconoscimento di
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grande importanza, se si considera che sino a pochi anni or sono il “fermo biologico” veniva considerato dalla Commissione europea alla stregua di un aiuto di Stato contrario alla normativa comunitaria. Inoltre, la classificazione come misura tecnica del “fermo biologico” permetterà, certamente, un miglioramento dello stato degli stock in quanto potrà considerarsi una misura “ordinaria” di gestione delle risorse alieutiche e, contestualmente, sosterrà finanziariamente la flotta nei periodi di necessaria sospensione dell’attività di cattura. L’obbligo di sbarco di tutte le catture (il cosiddetto divieto dei rigetti in mare), secondo il Consiglio, dovrà riguardare, in modo progressivo e con una soglia minima di tolleranza, solo le specie per le quali è già fissata una taglia minima di cattura nell’ambito del regolamento relativo alle misure tecniche e di gestione per la pesca nel Mar Mediterraneo (regolamento n. 1967/2006 del Consiglio Ue). Anche il criterio della resa massima sostenibile (Msy), si applicherà in modo progressivo nel Mediterraneo in relazione alla disponibilità di dati scientifici approfonditi ed aggiornati. Il Consiglio ha inoltre dato il proprio sostegno alla proposta avanzata dalla Commissione europea per lo sviluppo sostenibile dell’acquacoltura, anche per consentire la creazione di nuovi posti di lavoro. Da sottolineare, infine, che è stato ribadito il principio secondo il quale la sostenibilità dell’attività di cattura deve essere inquadrata sotto tre profili di pari rilevanza: protezione a lungo termine dell’eco-sistema marino; tutela
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dell’occupazione ed efficienza delle imprese. L’applicazione della nuova Pcp dovrà poggiare, sotto l’aspetto finanziario, sul nuovo Fondo europeo per gli affari marittimi e la pesca (Feamp), che dovrebbe essere operativo dal 1° gennaio 2014 sino alla fine del 2020. Il calendario dei lavori prevede per il prossimo mese di giugno, la prima pronuncia del Parlamento europeo. Per-
tanto, la procedura legislativa dovrebbe concludersi nella parte finale dell’anno in corso. Da parte sua, il Consiglio agricoltura e pesca della Ue ha già fissato alcuni orientamenti di fondo nel corso della sessione che sì è svolta nell’ottobre 2012. In quell’occasione, è stata convenuto di accordare agli Stati membri la facoltà di destinare al finanziamento degli incentivi per il fermo temporaneo, per il fermo definitivo e per l’ammodernamento delle imbarcazioni (che comprende anche la sostituzione dei motori) un ammontare di risorse sino ad un massimo del 15 per cento della dotazione globale a livello nazionale. In particolare, il sostegno pubblico alla “rottamazione” – che la Commissione proponeva di eliminare dal 1° gennaio 2014, resterà in vigore sino alla fine del 2017, con la possibilità di rendicontare le spese sino alle fine dei due anni successivi. Il Consiglio ha anche messo l’accento sulla necessità di favorire l’accesso e la permanenza nel settore di giovani pescatori, e di sostenere con misure mirate la vitalità socio-economica delle
PAC E PCP comunità costiere che risultano più dipendenti dall’attività di pesca. I giovani e le comunità costiere sono due punti su cui il Consiglio ha “acceso” i riflettori, anche su sollecitazione da parte sindacale, consapevole che una “politica di sviluppo integrata” delle comunità costiere (pesca, turismo, cultura, tipicità, artigianato, ecc.) possa permettere una sicura “attrattiva” per i giovani e, contestualmente, renderebbe più competitivo e più sicuro il lavoro del pescatore, manterrebbe gli stessi livelli occupazionali, incentiverebbe il ricambio generazionale e ne beneficerebbe l’intera collettività, sia in termini ambientali che produttivi. Tuttavia, non è stata ancora fissata la dotazione finanziaria del Feamp (la Commissione europea ha proposto uno stanziamento complessivo di 6,5 miliardi euro per il periodo 20142020); né stabilita la ripartizione delle risorse tra gli Stati membri. Comunque, la delegazione governativa italiana ha già evidenziato che non potrà essere accettata una revisione al ribasso della “chiave di ripartizione” (circa il 10 per cento sul totale) utilizzata per il Fondo europeo della pesca (Fep) in scadenza. Per il periodo 2007-2013, i fondi comunitari assegnati al settore ittico italiano sono ammontati a 424 milioni di euro, a cui si è aggiunto il co-
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finanziamento nazionale obbligatorio di pari importo. Risorse finanziarie Ue invariate, fermo pesca (temporaneo e definitivo), ammodernamenti della flotta (anche per i motori), flessibilità temporale per lo sbarco di tutte le catture (divieto dei rigetti in mare), la resa massima sostenibile (Msy), sono i punti ancora in discussione e sui cui le delegazioni istituzionali e delle parti sociali sono impegnate in un difficile negoziato al fine di individuare soluzioni condivise ed efficaci per permettere un vero rilancio del settore pesca in tutta Europa ed in particolare nell’area del Mediterraneo. In questo contesto, come Fai Cisl, attraverso l’Etf (European transport workers’ federation), abbiamo continuato a sostenere le ragioni del lavoro. Di un lavoro qualificato, sicuro e ben remunerato. Come pure, come sindacato abbiamo sostenuto a tutti i livelli, la necessaria attenzione verso il mantenimento dei livelli occupazionali affinché l’eventuale perdita di posti di lavoro diretti nella attività di pesca siano compensanti con politiche di “diversificazione” produttiva (acquacoltura, ittiturismo, pesca turismo, filiera, attività connesse, ecc…) e con una maggiore competitività delle imprese di pesca.
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FORMAZIONE
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I campi scuola: vita in comunità e arte del sindacato Aldo Carera
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arebbe per lo meno ingenuo pensare che la formula e i contenuti di un campo scuola siano fissi e codificati. In fase di progettazione di un nuovo campo scuola Fai vale forse la pena ricordare i caratteri dei primi campi confederali. Non tutto è sepolto sotto la polvere del tempo anche se di decenni ne sono passati molti. Che fosse una soluzione didattica efficace fu subito chiaro sin dal 30 agosto 1954 quando si conclusero i tre turni (di 10 giorni ciascuno) del primo campo confederale tenutosi a Rabbi, in una valle trentina quasi fuori dal mondo, ancor oggi ai margini dei grandi circuiti turistici. La denominazione «campo» non era per nulla casuale dato che si trattava di un accampamento ispirato alla logistica di stampo militare: vita di tenda e convivialità molto spartane, cucina da campo con relative contestazioni (quel primo anno contò le rivolte del «fegato alla veneziana» e delle «pere proiettile»). Ogni tenda era l’ambiente ristretto in cui – come diceva un titolo di «Conquiste del lavoro» – ci si conosceva meglio; ogni tenda nominava il
capo tenda («con compiti di rappresentanza e di decisione»); l’insieme dei capi tenda formava la Commissione interna cui erano demandate le decisioni inerenti la vita del campo. Nell’arco dei dieci giorni si alternava un giorno di studio e un giorno di gite e attività varie. Coe-rentemente con l’impostazione militare erano ammessi solo maschi: il primo campo femminile sarebbe stato organizzato nel luglio 1963 a Postiglione (Salerno); il primo campo misto nel 1968. Aprendo il campo del 1955 in Valgardena, Pastore ne aveva chiarito l’intento: «fondare il sindacato nuovo sulla piena consapevolezza dei lavoratori». Il che implicava un obiettivo didattico alquanto impegnativo dato che la consapevolezza si struttura agendo su più piani ben espressi dai tre ordini di contenuti che caratterizzarono quei primi campi. Nell’ordine: contenuti relazionali (conoscenza reciproca, scambio di esperienze); contenuti personali (presa di coscienza dei problemi, verifica della scelta del sindacato, assunzione di responsabilità); contenuti sindacali (agganciare la concreta realtà dei giovani, valorizzare la contrattazione). Porre i corsisti in primo piano in termini di consapevolezza personale e relazionale era un grande investimento di fiducia, fondato sul rispetto e sull’umiltà, doti non sempre presenti nei formatori: la scelta del sindacato, per essere espressione libera e convinta, non è un presupposto codificato e codificabile, ma è parte di un percorso di consapevolezza che ha bisogno di maturare nel tempo e di essere costantemente rafforzato e
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ribadito dal sentirsi parte di un destino comune. Un suggerimento prezioso da tenere presente soprattutto oggi quando un’idea statica e predefinita di associazione, secondo i caratteri di stabilità così ben evidenziati dai coniugi Webb nell’Inghilterra di fine Ottocento, si deve quotidianamente confrontare con un’instabilità del lavoro che rende improbabile ogni predefinita stabilizzazione associativa che non sia costruita, in termini di consapevolezza, «prima» dell’atto associativo. Sono le convinzioni che stabilizzano la tessera e la rendono un’amichevole presenza per l’intera vita. La premessa è la maturazione personale coltivata mettendo davanti a tutto la persona, con la sua dignità individuale e, accanto alla persona, il sindacato come comunità. Sta all’operatore di base e alla formazione di base diffusa proporre i tratti identitari a chi si accosta più o meno casualmente e si iscrive senza consapevolezza che l’atto associativo è per l’emancipazione personale non solo per le utilità materiali. Nei primi campi questa maturazione venne declinata su tre tematiche: l’accostamento alla contrattazione, presentata come fondamento della vita sindacale e studiata considerando casi concreti; le tecniche organizzative nella loro funzionalità alla tutela del lavoratore, vale a dire centrando l’attenzione sulla presenza nei luoghi di lavoro; infine,
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le politiche sindacali. Il forte coinvolgimento personale, confermato dal segno indelebile lasciato nella memoria dei partecipanti, faceva del campo scuola non il luogo in cui si imparava «il mestiere» del sindacato. Le competenze tecniche (un tempo si diceva le «arti meccaniche») richiedono altre ambientazioni e altre forme didattiche di apprendimento. Al campo ci si accostava all’«arte» del fare sindacato, cioè a un’esperienza collettiva che si conforma alla dignità dell’uomo libero che esprime la propria creatività uscendo dall’individualismo imperante nella società contemporanea per assumere identità e responsabilità collettive. Era un primo passo di un percorso culturale, premessa a un’azione di rappresentanza che richiede ingegno nelle relazioni umane e abilità in quella tecnica sociale del tutto particolare che si chiama fare sindacato. Solo così il delegato e il sindacalista venivano messi in grado di comporre il loro capolavoro: realizzare se stessi dando rappresentanza ai lavoratori a partire dall’ascolto e dalla fiducia reciproca. Solo nelle foto quei campi scuola sembravano un’oasi tra prati e boschi. Quel lavoro sui giovani lavoratori e sui giovani delegati guardava al mondo perché aveva come obiettivo la crescita delle persone per metterle in condizione di orientare consapevolmente la propria vita. Una meta propria di tutta la formazione sindacale capace di pensarsi nella prospettiva della formazione permanente degli adulti. Un accostamento formativo che non si esaurisce nell’esperienza del sindacato in quanto, avendo nel sindacato e nel lavoro il suo punto di gravità, incrocia le storie personali e, associandole, le orienta verso responsabilità civili di ordine generale e realizza un compito educativo che in prima istanza si realizza gestendo il contratto. Intervenendo al primo consiglio generale della Cisl nel giugno 1950, Mario Romani aveva difeso l’autonomia associativa contro chi sosteneva il raf-
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FORMAZIONE
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forzamento del controllo pubblico sul sindacato. La sua linea era molto chiara: la vera forza del sindacato è la forza contrattuale. Dalla sala a chi obiettò: «cosa stiamo a fare? Gli educatori?», Romani rispose: «Sì, è proprio questo il compito principale; se mancate questo (se non siete cioè educatori), mancate in tutto». Tale intendimento educativo ha avuto tra i più convinti interpreti in Silvio Costantini, il professore che per venticinque anni è stato il pensiero vivo della scuola nazionale della Fisba prima e della Fai poi. Come direttore del Centro studi di Firenze egli ha seguito di persona tutti i turni del campo scuola confederale del 1963 a Ortisei e ne ha fatto un bilancio con la lucidità di pensiero e con la passione umana
che lo contraddistingueva. Le sue valutazioni di allora valgono oggi più che mai per il campo scuola che la Fai sta organizzando per i prossimi mesi: il campo scuola «è una felice esperienza» perché consente ai giovani di vivere «un momento di entusiasmo per l’ideale associativo e contemporaneamente è un momento di riflessione su ciò che il sindacato è e ciò che il sindacato vuole». Entusiasmo e riflessione – proseguiva Costantini – costituiscono «la solida premessa per gli impegni più vari, soprattutto sul posto di lavoro, dove si richiede entusiasmo e sacrificio… ma il campo esprime anche autentiche “vocazioni” sindacali» in quei giovani che possono portare «nuove energie per la Cisl di domani».
Una Formazione che è nel Dna della Fai Rando Devole e Giampiero Bianchi*
N
ei quattro anni appena trascorsi è proseguita l’attività della nostra Scuola nazionale di formazione, articolata secondo i tre grandi percorsi educativi che, per la Fai, sono oggi indispensabili al sindacato: a) una buona e diffusa formazione di base, destinata ai nostri iscritti più coinvolti oltre che ai delegati e quadri di base nelle imprese e nei piccoli comuni rurali o nei recapiti; b) un’attività di formazione e selezione della nuova dirigenza della Federazione, giovani ma non solo, articolata su più piani e per differenti competenze; c) un aggiornamento e una formazione permanente per la dirigenza in carica, con seminari e con corsi specialistici, differenziando anche qui le iniziative
tra territoriali, regionali e nazionali. I numeri, per la verità, sono stati buoni (molti i corsi nazionali, alcuni veramente innovativi ed importanti e tante e di qualità le attività formative periferiche diffuse, minore forse l’impegno nei territori), più significativi però i contenuti, sviluppati secondo due fondamentali linee-guida. Da una parte si è cercato un continuo aggiornamento dei temi (economici, giuridici, storici, statistici) relativi al lavoro sindacale, fatto in stretto collegamento con Centri universitari e Istituti di ricerca, nell’obiettivo di avere un costante adeguamento della nostra azione sindacale ad una realtà in continua evoluzione: lavoro, impresa, società, settori economici, sistema politico e istituzionale. Dall’altra si è tentata una continua rilettura e verifica della nostra cultura ed esperienza Fai, per tradurla in linee-guida pratiche (contrattuali, previdenziali,
FORMAZIONE organizzative) coerenti però con i valori fondativi della Cisl e insieme adatti alle caratteristiche odierne del mondo agricolo, del sistema agroalimentare e della società tutta. La formazione nella storia Fai Una tale formazione nasce, come si sa, da una storia: è stata la formazione infatti, in sintonia con la politica dei quadri e con la politica organizzativa e sindacale della Fai a costruire negli anni passati la nuova Federazione, unica fra le categorie Cisl ad avere oltre il 95% dei suoi quadri e dirigenti tra gli ex allievi dei suoi corsi annuali. Nata infatti nel 1997 a Lignano la Fai decise da subito di investire molto in Formazione, valorizzando le passate esperienze della tradizione industriale (Fulpia poi Fat) e di quella agricola e dei servizi (Fisba), ma dando anche vita ad una nuova, grande mobilitazione sotto l’esperta e rigorosa guida del professor Silvio Costantini1: obiettivo dichiarato aiutare la Dirigenza a costruire “sul campo” un nuovo sindacalismo Cisl agro-alimentare-ambientale. E così, per oltre un quindicennio, la Formazione è stata per riconoscimento unanime una vera e propria palestra di partecipazione e di conoscenza reciproca, ma soprattutto di crescita personale e professionale dei quadri e dirigenti Fai. Centinaia di delegati ogni anno hanno partecipato ai corsi di base a Roma (ciascuno di 4 giorni pieni), altrettanti ai simili corsi specialistici (Industria alimentare, Bonifica, Lavoro femminile…); e così è successo nei corsi semestrali per operatori e dirigenti; come pure ci sono stati almeno 2 grandi Seminari l’anno di aggiornamento e di studio per la Dirigenza nazionale oltre quelli organizzati a livello regionale o interregionale (es: Regioni del Nord, del Centro e del Sud), senza parlare della vasta e ramificata esperienza di corsi territoriali e
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interterritoriali di base realizzati in autonomia dalle Federazioni ma in stretto coordinamento con la Scuola nazionale2. Scuola, vale la pena ricordarlo, che dispone a sostegno di tale attività di una Biblioteca, di un Centro di documentazione, di un Archivio storico e di riviste e pubblicazioni specializzate. Corsi nazionali: la formazione per la nuova dirigenza e per la dirigenza in carica Se questa è stata la storia, la cronaca dell’ultimo quadriennio 2009-12, pur con gli opportuni adattamenti e qualche incertezza, è proseguita come si è detto nello stesso solco. Ne ricordiamo le attività principali: a) corsi per esperti-relatori, tra l’autunno-inverno 2009 e l’autunno 2010, che hanno coinvolto a più riprese oltre 80 dirigenti e operatori Fai di tutta Italia nell’obiettivo, duplice, di un loro aggiornamento su temi sindacali e della costruzione di una rete di dirigenti sindacali, nei territori, capace di progettare e realizzare corsi di base; b) corso nazionale a Roma del settore Bonifica, ripetuto due volte tra febbraio e marzo 2011 per l’alto numero di iscritti, che ha coinvolto oltre 70 nostri delegati e quadri; c) corso nazionale per dirigenti-contrattualisti con 36 partecipanti e 3 uditori di tutta Italia, articolato in moduli monografici, svolto dal luglio 2011 al giugno 2012, con discussione finale al Cnel degli elaborati personali; d) viaggi di studio, settimanali, in paesi europei, di dirigenti regionali, territoriali ed operatori Fai con decine di partecipanti, per conoscere e approfondire i diversi sistemi produttivi e di relazioni industriali; e) corsi nazionali di formazione “professionale” Foragri che, pur in un contesto di aggiornamento tecnicosindacale, hanno coinvolto in moduli
1. Leggi A. Macchia, Un’Idea di sindacato. Antologia di scritti di Silvio Costantini per una buona formazione sindacale, Agrilavoro, Roma 2009 2. La documentazione dettagliata è in: Fai-Cisl, Otto anni di formazione sindacale (1997-2005). La scuola nazionale di formazione, a cura di A. Carera, Agrilavoro Roma 2005; Id, Quattro anni di formazione sindacale (2005-2008), a cura della Scuola nazionale di formazione, Agrilavoro, Roma 2008
Sommario Editoriale In primo piano Sindacato Pac e Pcp Formazione Contrattazione Cae Forestazione Previdenza Mercato del lavoro Fondi sanitari Persone Fisba-Fat Fondazione Agricoltura Recensioni Agenda Europa
FORMAZIONE residenziali monografici di più giornate, nostri dirigenti e quadri; f) corso nazionale annuale, in presenza e a distanza, della nostra Fisba-Fat Fondazione e dall’Università telematica Marconi, per membri dei C.d.A. degli enti bilaterali; g) seminari interregionali sulla soria e le prospettive della Politica agricola comune (Pac), analizzando gli obbiettivi e le prospettive alla luce della nuova riforma, nonchè le sfide dell’azione sindacale nell’ambito comunitario; h) corsi di formazione sui Cae (Comitati aziendali europei), il recepimento della direttiva europea, il ruolo dentro l’azione sindacale ecc...; il tema è stato ripreso nelle attività di formazione internazionale svoltesi nell’ambito dei progetti europei, promossi dalla Fai, oppure in partenariato con altri Paesi che, tra l’altro, hanno trattato ulteriori tematiche: dalla contrattazione collettiva nel quadro della Pac, alla responsabilità sociale nei grandi gruppi alimentari, dal dialogo sociale europeo alla prevenzione degli infortuni in agricoltura. A queste attività nazionali si sono affiancati numerosi corsi regionali e interregionali, territoriali e interregionali, per la dirigenza e per delegati, progettati e organizzati assieme, in spirito di sana sussidiarietà, dalle Federazioni regionali e territoriali e dalla Scuola nazionale: mettendo in comune relatori, libri, materiale didattico, sinergie organizzative e risorse, ecc. In particolare non possiamo non ricordare la produzione da parte della Scuola di video didattici utilizzati con succeso nei corsi di base di primo accostamento su: Storia del sindacato, Rappresentanza sindacale, Contrattazione, Partecipazione e Sviluppo rurale; oltre a tanti video di testimonianze dei vecchi sindacalisti Fisba e Fulpia che grande successo hanno riscosso tra i più giovani. Gli esempi positivi sono stati tanti e se ne possono citare solo alcuni: dai Corsi per delegati in Lombardia, Veneto o
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Friuli a quelli interterritoriali in Emilia e Lazio, ai seminari per la produttività in Campania, per la contrattazione in Sicilia o per la forestazione in Calabria; tentandone una prima sintesi emerge grande positività per tematiche e metodo (molto legati all’attività sindacale) e per i numeri (centinaia i partecipanti complessivi) mente qualche criticità viene rilevata nella difformità dei comportamenti, in alcune aree deludenti rispetto al grande investimento formativo nazionale sulle figure degli “esperti-formatori”. La formazione di base è però un terreno che non può essere abbandonato. Un rinnovato impegno Imparare dalle criticità può essere infatti un buon punto di partenza per il futuro, anche per un’esperienza di consolidato successo come la formazione Fai. Di qui la decisione della Segreteria nazionale di dar vita, dal prossimo settembre a due iniziative qualificanti: un grande Campo scuola nazionale per oltre 100 giovani delegati e operatori Fai di tutta Italia, dal 21 al 28 settembre prossimi ad Abano Terme (PD) e un Corso Nazionale annuale per la nuova dirigenza. Le due iniziative vanno infatti – secondo le consolidate tradizioni di eccellenza e di rigore della nostra formazione – verso le due direzioni più importanti: la formazione di base (il Camposcuola) e le iniziative per la dirigenza (il Corso Lungo). I due “pedali della bicicletta” li chiamava Silvio Costantini, senza i quali non c’è vera formazione sindacale. Ad essi poi seguiranno i Corsi nazionali specialistici di settore (Bonifica, Consorzi agrari, Pesca, Forestazione, Impiegati, Industria…) così richiesti oggi dalla moderna realtà dei “lavori” agro-alimentariambientali; né andranno dimenticati gli altri livelli di attività. L’agenda dunque è già piena di impegni: starà a noi tutti, assieme, riuscire a tradurli in pratica nel migliore dei modi. *Responsabile della Scuola Nazionale di Formazione Fai “Silvio Costantini”
CONTRATTAZIONE
Fai Proposte | n. 1/4 - 2013 · pagina 27
Sommario Editoriale In primo piano Sindacato Pac e Pcp Formazione Contrattazione Cae Forestazione
Bonifica una trattativa infinita
I
l contratto del settore bonifica, scaduto da oramai più di 15 mesi, non trova una sua positiva conclusione e le ultime fasi della trattativa hanno segnato un ulteriore arresto che certamente non porta nulla di buono, non solo per la mancata risposta che da molto tempo i lavoratori del settore si attendono con il riconoscimento della giusta compensazione retributiva che il contratto nazionale assolve attraverso gli aumenti salariali; ma rende ancora più pastoso ed astioso quel clima di relazioni sindacali che in questi ultimi anni, aimè dobbiamo registrare, non riesce più ad essere così lineare come si potrebbe sperare e come, nel tempo, si era riusciti a costruire partendo da una comune visione positiva del ruolo e della presenza dei Consorzi di Bonifica nel Paese. La storia è molto semplice e parte da una considerazione del percorso fatto nel 2012, con un tavolo contrattuale che sin dal primo incontro ha registrato la volontà dello Snebi (sindacato dei Consorzi) di rigettare la piattaforma
presentata per il rinnovo contrattuale. Posizione, la sua, molto forte che è stata accompagnata da una controproposta di accedere ad un “anno sabbatico” di validità contrattuale per poi avviare una trattativa di rinnovo. Il tutto motivato da una situazione generale del Paese – e specifica dei Consorzi – di difficoltà economica e di bilancio che li ha resi incapaci a sostenere un rinnovo contrattuale. Come sindacati, sin da subito, abbiamo prospettato una disponibilità a trattare tenendo conto delle difficoltà esistenti ma assolutamente indisponibili ad annullare un anno di vigenza contrattuale. Questa situazione si è protratta fino a metà del 2012 ed ha inoltre visto uno sciopero e una manifestazione nazionale davanti alla sede dello Snebi di Roma nel mese di luglio. In quella occasione, come Federazioni sindacali, abbiamo registrato, assieme ai lavoratori presenti, una oggettiva difficoltà determinata dalla normativa sulla regolazione del diritto di sciopero nel nostro settore ed il conseguen-
Previdenza Mercato del lavoro Fondi sanitari Persone Fisba-Fat Fondazione Agricoltura Recensioni Agenda Europa
CONTRATTAZIONE te impegno ad arrivare alla disdetta dell’accordo stesso, teso a ridefinire i termini della regolazione dello sciopero nei singoli Consorzi. La ripresa post feriale ha registrato una riapertura del Tavolo, dove la controparte non solo ha riconfermato il vuoto contrattuale per il 2012 ma ha proposto un rinnovo per i successivi tre anni (2013/2015) solo della parte economica per un valore del 5% di aumento. Tutto ciò per i lavoratori corrispondeva ad un anno di vuoto contrattuale, senza una discussione della parte normativa e con una proposta per 4 anni (2012/15) complessivamente del 5%. Ne ha seguito una nuova rottura del tavolo contrattuale e l’avvio di una fase di mobilitazione, regolata a livello regionale, attraverso un lavoro di informazione con assemblee consorziali, con attivi regionali e presidi davanti le Prefetture ed altri luoghi istituzionali sensibili alle competenze della bonifica ma, soprattutto, si è proceduto alla disdetta dell’accordo sulla regolazione del diritto di sciopero, che scadrà nel mese di giugno di quest’anno. Ad una tale decisione ha risposto la Commissione di Garanzia la quale, nel prendere atto della nostra disdetta, ha invitato le Parti ad avviare un Tavolo di trattativa per la modifica dell’accordo esistente. La Commissione stessa ha precisato che, nelle more della trattativa, rimanevano in essere le norme ora concordate. Con queste novità si è riaperto il Tavolo per la terza volta e, nel tentativo condiviso di trovare una via d’uscita onorevole ed accettabile da entrambe le Parti, si rendeva necessario trovare una soluzione non ordinaria ma capace di superare la lunga fase di stallo. Il confronto ha permesso l’individuazione di una possibile soluzione ma, ad un passo dalla conclusione stessa, una incomprensione sostanziale ha di nuovo riacutizzato le differenze. In buona sostanza si era raggiunta
Fai Proposte | n. 1/4 - 2013 · pagina 28
una possibile soluzione con validità triennale (2012/14) ed una copertura economica da metà del 2012 alla metà del 2014 del 6%. Ma al momento della firma lo Snebi ha precisato che ciò significava aver superato anche la questione del diritto di sciopero, con la conseguenza che la norma esistente non sarebbe più stata cambiata sino al 2017. Ne è conseguita l’ennesima frenata e l’ulteriore blocco al rinnovo. Ora crediamo, come Cisl e come delegazione tutta, che di fatto si sia arrivati alla conclusione della vertenza e che serva la capacità, da parte dello Snebi nazionale, di permettere la firma del rinnovo anche se in forma non ordinaria, ma questo deve avvenire permettendo alle Parti di poter discutere delle norme sul diritto di sciopero senza arrivare al 2017. I lavoratori della bonifica hanno il diritto ad un contratto, e soprattutto ad una tutela retributiva, cosa ancora più importante in questo difficile momento; ma devono poter anche avere la dignità di definire regole giuste sulla propria libertà. Per questo servirà, al Tavolo negoziale, una ulteriore capacità di mediazione e di proposte utili a raggiungere un rinnovo, di fatto già “intravvisto”, accettabile per entrambe le Parti negoziali. Affinché ciò si realizzi è inoltre necessario il sostegno della intera categoria alla nostra azione contrattuale. S.F.
CONTRATTAZIONE
Fai Proposte | n. 1/4 - 2013 · pagina 29
Le prospettive della contrattazione
Sommario Editoriale In primo piano
Domenico Massaro* Sindacato
L’
Italia ha molte potenzialità di specializzazione e di sviluppo nel settore agroalimentare. Non si contano da Nord a Sud le aree che potrebbero dare forma a veri e propri distretti produttivi, in particolare al Sud, capaci di promuovere e sostenere una crescita economica e sociale. L’incapacità di far emergere le energie, le caratteristiche e gli elementi distintivi, soprattutto quelli esprimibili dal “capitale umano”, costituisce molto spesso un freno allo sviluppo dell’economia in questi territori. Una rete di presenze costituita per realizzare ampie sinergie tra i soggetti in campo, imprese, associazioni professionali, istituzioni, università, sindacati..., potrebbe far emergere intorno al territorio quella spinta propulsiva capace di azionare uno sviluppo duraturo ed integrato con le potenzialità appunto del territorio. La distintività locale è quell’insieme di qualità e di caratteristiche che rendono un luogo “unico”. Non si tratta necessariamente di cose belle o rare, cose spettacolari o speciali, si tratta piuttosto di caratteristiche che rendono un luogo diverso da un altro, su cui molto influisce la relazione che esiste tra i cittadini ed il territorio, il senso di appartenenza e di familiarità verso la propria terra. I fattori che compongono la distintività del territorio sono di natura culturale, ambientale, paesaggistica e socio-economica. Infatti il mosaico di caratteristiche che rende un luogo unico, può essere determinato da testimonianze o pre-esistenze storiche ed archeologiche, da usi e tradizioni, da una
DISTRETTI AGRICOLI Settore
Provincia
Agricoltura
Pac e Pcp
Export 2010 (milioni €)
% su totale export
2.523
47,8
Formazione Contrattazione
Ortofrutta del barese
BA
549,4
10,4
Mele dell'Alto Adige
BZ
512,7
9,7
FO,FE,RA
479,3
9,1
Nocciola e frutta piemontese
CN
279,3
53
Florovivaistico Lucca e Pistoia
PT
210,1
4
Florovivaistico Ponente ligure
SV,IM
160,9
3
Pomodoro di Pachino
RG,SR
114,7
2,2
Ortofrutta di Catania
CT
104,1
2
Fisba-Fat Fondazione
Mele del Trentino
TN
66,7
1,3
Agricoltura
Ortofrutta del foggiano
FG
45,3
0,9
Recensioni
Ortofrutta romagnola
Cae Forestazione Previdenza
particolare lavorazione, da una tipica produzione. La distintività locale è un concetto relativamente nuovo, che va esplorato ed approfondito al fine di rendere il territorio competitivo all’interno di un mercato globale sempre più aggressivo. La globalizzazione può piacere o meno, ma è un processo inarrestabile ed irreversibile con cui fare i conti nel prossimo futuro. L’Italia ha ottime carte da giocare per penetrare i mercati internazionali, anche oltreoceano, se saprà valorizzare i tratti distintivi delle sue produzioni, in larga parte di nicchia, attraverso una strategia integrata di sistema che porti alla formazione di un grande distretto produttivo basato sul Made in Italy.
Mercato del lavoro Fondi sanitari Persone
Agenda Europa
CONTRATTAZIONE
Fai Proposte | n. 1/4 - 2013 · pagina 30
DISTRETTI INDUSTRIA ALIMENTARE Settore
Provincia
INDUSTRIE ALIMENTARI
% addetti Export 2011 % su totale settore (milioni €) export
addetti
unità locali
74.835
8.712
100
5.549
33,2
Dolci di Alba e Cuneo
CN
7.834
748
10,5
864,1
12,1
Conserve di Nocera
SA
4.634
224
6,2
821,1
29
Salumi del modenese
MO
4.087
207
5,5
530,6
19,7
Alimentare di Parma
PR
5.614
373
7,5
499,9
7
Dolci e pasta veronesi
VR
5.934
621
7,9
302
4,2
Caffè e pasta napoletana
NA
6.655
2.259
8,9
274,7
3,9
Caffè, confetterie, cioccolato torinese
TO
3.642
340
4,9
268,5
6,3
Salumi di Parma
PR
4.882
540
6,5
252,8
9,4
Carni di Verona
VR
4.210
72
5,6
230,5
8,5
Lattiero-caseario Reggio Emilia
RE
1.029
109
1,4
218,7
9,2
Olio di Lucca
LU
264
21
0,4
193,7
11,5
Olio di Firenze
FI
106
21
0,1
165,2
9,8
CE, NA
4.093
508
5,5
164,9
6,9
Lattiero-caseario Parmense
PR
2.938
355
3,9
154,6
6,5
Olio umbro
PG
407
79
0,5
154
9,1
Olio e pasta del barese
BA
6.096
1.543
8,1
149,8
3,3
Salumi di Reggio Emilia
RE
1.864
104
2,5
125,1
4,6
Pasta di Fara
CH
2.058
443
2,8
112,6
1,6
Lattiero-caseario del sassarese
SS
7.549
62
10,1
43,5
1,8
Prosciutto San Daniele
UD
939
83
1,3
14.136
1.204
100
3.495,30
60,2
CN, AT, AL
3.277
272
23,2
1 079,00
18,6
VR
1.940
108
13,7
731,8
12,6
FI, SI
1.681
82
11,9
450,4
7,9
Prosecco Conegliano/Valdobbiadene
TV
1.964
178
13,9
350,1
6
Vini rossi e bollicine di Trento
TN
1.131
92
8
324,1
5,6
Vini bianchi di Bolzano
BZ
735
52
5,2
157,7
2,7
Vini di Franciacorta
BS
713
54
5
120,9
2,1
CH, PE
658
99
4,7
100,7
1,7
Vini e liquori della Sicilia occidentale
AG, TP, PA
1.371
206
9,7
95,6
1,6
Vini del Friuli
TS, GO, UD
666
61
4,7
77,1
1,3
88.971
9.916
2,0*
9.044
40,1
Mozzarella di bufala campana
Industria delle bevande Vini Langhe Roero Monferrato Vini del veronese Vini del Chianti
Vini Montepulciano d'Abruzzo
Industria alimentare e bevande
0,8
Autore dello studio e delle tabelle: Caterina Riontino, “Mappatura e performance delle aree italiane ad alta specializzazione agro-alimentare” - www.agriregionieuropa.it - Giugno 2012
CONTRATTAZIONE Il comparto agroalimentare italiano appare particolarmente frammentato e diviso e conseguentemente poco incline a recepire un cambiamento nella direzione di cui sopra, forse anche a causa dei troppi vincoli e di relazioni farraginose che andrebbero rivisitati in un contesto più armonico e costruttivo. La contrattazione di secondo livello territoriale, concepita sui presupposti di cui sopra, potrebbe rappresentare il collante indispensabile per realizzare uno sviluppo sistemico utile per le imprese del territorio e per il mondo del lavoro in tutte le sue componenti. Nel corso delle mie esperienze trascorse nel settore alimentare ho avuto modo di osservare da vicino le dinamiche di contrattazione in occasione dei vari rinnovi di contratto. Ho riscontrato di norma una bassa disponibilità della parti negoziali, talvolta delle vere e proprie resistenze, in particolare da parte delle associazioni professionali, a costruire relazioni utili per incentivare la contrattazione di prossimità al territorio. Probabilmente ritenendo che lo strumento della contrattazione territoriale possa imbrigliare le imprese e quindi ostacolarne con varie rigidità lo sviluppo. Il quadro normativo di riferimento costruito negli ultimi anni consente a mio parere di cogliere molti elementi necessari per realizzare sinergie a tutto campo per il rafforzamento del sistema produttivo e per costruire linee di sviluppo economico e sociale dei territori in cui le imprese operano. Si pensi alle politiche di filiera che ricomprendono la ricerca e l’innovazione, la qualità, la sicurezza, la sostenibilità ambientale, il risparmio energetico, la formazione continua per le competenze necessarie e cosi via. Sono tutti elementi di un mosaico virtuoso che possono far nascere opportunità di sviluppo reale sul territorio. Abbiamo territori del nostro paese che hanno saputo costruire, anche nel no-
Fai Proposte | n. 1/4 - 2013 · pagina 31
stro settore, eccellenze produttive fortemente integrate con il territorio, attraverso un approccio sistemico ed una cultura di sviluppo armonico. In questi territori, prevalentemente nell’area nord-est, si è andata formando una cultura imperniata sulla valorizzazione e sulla specializzazione delle produzioni ma, soprattutto, sulla capacità di realizzare sinergie tra i soggetti in campo e valorizzando il patrimonio umano del territorio. La contrattazione territoriale in queste realtà territoriali ha giocato e gioca tutt’ora un ruolo fondamentale. Alla base ci deve essere la consapevolezza che la partecipazione attiva di tutte le forze in campo, ciascuna nelle prerogative del proprio ruolo, costituisce il vero collante su cui costruire un sistema di relazioni finalizzato allo sviluppo. L’Impresa che si riconosce con una strategia di sviluppo che valorizzi le potenzialità del territorio con tutte le sue componenti, a partire dalla componente risorsa umana, può trarre grandi vantaggi per rafforzare la sua competitività sui mercati, anche alla luce dei processi di globalizzazione che richiedono sempre di più capacità distintive Made in Italy. La contrattazione di prossimità al territorio rappresenta una leva da non trascurare per la crescita e per le sfide dei prossimi anni. Essa può portare benefici per rendere le imprese più competitive e creare condizioni che spingano i territori verso una cultura dell’innovazione e non del dumping sociale. L’abbandono di una visione miope, ancora presente nel nostro settore, ed il coraggio di intraprendere percorsi di relazione più aperti ed innovativi contribuirebbero a sostenere lo sviluppo di molte imprese e di molti settori con grandi potenzialità di sviluppo. *già H.R. Manager Parmalat Group, Comitato Scientifico Fisba Fat Fondazione
Sommario Editoriale In primo piano Sindacato Pac e Pcp Formazione Contrattazione Cae Forestazione Previdenza Mercato del lavoro Fondi sanitari Persone Fisba-Fat Fondazione Agricoltura Recensioni Agenda Europa
CAE
Fai Proposte | n. 1/4 - 2013 · pagina 32
Cae: un quadriennio di iniziative Roberto Vicentini
È
tempo di Congressi e, quindi, di riflettere sugli accadimenti e sulle cose fatte o non fatte nel quadriennio passato. Noi proviamo a riflettere su un settore relativamente nuovo dell’attività sindacale: la sua proiezione transnazionale attraverso lo strumento organizzativo dei Comitati aziendali europei (Cae). Un quadriennio interessante, sotto questo aspetto, scandito dalla nuova direttiva Cae n. 38/2009, dall’Avviso Comune sottoscritto nel 2010 dalle Parti sociali, dal Decreto 113/2012 che recepisce nella legislazione italiana la Direttiva tenuto conto dell’Avviso Comune, da un ciclo di moduli formativi per delegati Cae, dalla costituzione di un Coordinamento nazionale permanente dei ventiquattro delegati Cae della Fai. L’internazionalizzazione dell’economia, e particolarmente della industria, con il conseguente insediamento in Europa di società multinazionali, ha indotto il sindacato europeo a darsi nuovi
modelli di rappresentanza a livello di società. Così, negli anni ’90, sono nati i Comitati aziendali europei: una sorta di Rsu transnazionali ma con diritti ancora limitati all’informazione ed alla consultazione. Oltre ottocento Cae già costituiti in tutti i settori di attività nei ventisette Paesi Ue, con il coinvolgimento di oltre diciottomila delegati, danno il segno della dimensione del fenomeno. Nel sistema dell’industria alimentare italiano sono presenti trenta multinazionali che hanno i requisiti per costituire i Cae (1000 dipendenti di cui più di 150 in almeno due Paesi Ue) di cui venticinque hanno già costituito il Comitato ed altri si accingono a farlo. La Fai, con i suoi ventiquattro delegati, è pressoché presente in tutti. La vecchia Direttiva Ue n. 45/94 che ha costituito i Cae, per quanto meritevole, con il tempo ha mostrato i suoi limiti. È maturata così l’esigenza di una sua revisione, concretizzatasi con la
CAE nuova Direttiva 38/2009. Una più puntuale definizione del concetto di informazione e consultazione, precisandone obiettivi, tempi e strumenti; una ridefinizione del perimetro di multinazionale europea; la revisione dei criteri di composizione dei Cae e delle loro attività; la riformulazione del capitolo formazione con rimando a intese sui contenuti in sede di Comitato ristretto; il riconoscimento non più indiretto, ma esplicito, del ruolo del sindacato nei Cae; un meglio precisato dovere di riservatezza dei dati sensibili a cui debbono attenersi i delegati. Queste, in sintesi, le novità salienti introdotte dalla nuova Direttiva. Ma, com’è noto, le Direttive Ue per essere operative hanno bisogno di essere recepite nella legislazione nazionale dei singoli Paesi. Una operazione che in Italia è stata preceduta nel 2010 dalla sottoscrizione di un “avviso comune” da parte delle OO.SS. e della Confindustria e presentato al Governo perché ne prendesse atto. Questo “avviso” non si è limitato a sottolineare gli aspetti innovativi della Direttiva 38/09, ma li ha rafforzati e, talvolta, ampliati come nel caso del Comitato di Conciliazione per eventuali controversie fra Azienda e Cae, non presente nelle due direttive europee. Un sindacato partecipativo, che considera il conflitto come ultimo strumento per conseguire gli obiettivi che si è dato, non può che gioire nel vedere tradotto in legge il principio di conciliare prima di confliggere. Bisogna dare atto al Governo ed al Parlamento di aver recepito quasi integralmente, sia pure in ritardo, i contenuti dell’Avviso comune, attraverso il Decreto 113/2012 che ha chiuso, dal punto di vista normativo, un quadriennio intenso con continui rimandi fra legislazione europea e nazionale e fra questa e gli accordi sindacali. La Fai, proprio perché presente in 23 Cae, ha prestato la massima attenzione
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alla transnazionalità delle aziende che operano in Italia partendo dalla formazione dei suoi delegati. L’esperienza ha insegnato che i delegati, abili nella contrattazione del proprio sito produttivo, incontrano qualche difficoltà, non solo linguistica, quando si tratta di affrontare problematiche aziendali che travalicano i confini nazionali. Da qui l’idea di un progetto formativo, articolato su tre moduli, cofinanziato dall’Ue e con la collaborazione tecnica di Sindnova, sviluppato nell’arco temporale dell’ultimo triennio. I delegati hanno così potuto affrontare i temi giuridici legati alle Direttive Ue ed ai decreti nazionali di recepimento, ma anche temi pratici legati ai processi di ristrutturazioni, delocalizzazioni e dismissioni sempre più presenti nelle società multinazionali. La pubblicazione di un volumetto (redatto in collaborazione con Sindnova ed edito da Agrilavoro) contenente un manuale pratico per gestire le riunioni dei Cae, il quadro legale di riferimento ed una tabella sinottica del raffronto tra la Direttiva 38/09 ed il Decreto di recepimento nazionale 113/2012, farà da supporto all’attività ed alla futura formazione dei delegati. Un’esperienza formativa, quella Fai, che ha riscosso grande successo fra i partecipanti e che indurrà la Federazione a ripetere l’esperienza nel prossimo triennio, anche per preparare i giovani per il turnover dei delegati. Per dare continuità al progetto formativo, la Segreteria nazionale ha deciso di costituire un Coordinamento nazionale dei delegati Cae che sarà lo strumento organizzativo per accrescere la reciproca conoscenza e lo scambio di esperienze. Come si vede, un quadriennio segnato dalla consapevolezza che la sempre più stringente integrazione europea chiede al sindacato un adeguamento delle politiche e della organizzazione per farvi fronte.
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FORESTAZIONE
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Montagna e Forestazione innovative opportunità per lo sviluppo Il bilancio di quattro anni di lavoro Claudio Risso
C
i sono due date che hanno segnato e scandito tutti i processi che hanno attraversato il settore forestale negli ultimi anni. La prima il 2 Maggio 2007 con l’uscita del libro “La Casta” che seguiva il Ddl delega, preparato dai Ministri Amato e Lanzillotta, per l’attuazione dell’articolo 117 della Costituzione (Codice delle Autonomie), la seconda il 31 maggio 2010 con l’emanazione del D.L. 78 poi coordinato con la L. 122 del 31 Luglio 2010. La prima data ha dato l’avvio al processo di cancellazione della fondamentale esperienza delle Comunità Montane, la seconda ha rilanciato un dibattito mai sopito nel nostro paese circa l’applicabilità di un contratto di diritto privato ai lavoratori forestali. Le tappe del nostro lavoro di questi anni sono state mirate ad orientare il processo di revisione del modello di governance del sistema delle autonomie locali (tutt’ora in corso) e alla valorizzazione della multifunzionalità del sistema montagna-foresta. Sul fronte relazioni a valorizzare una forte interlocuzione con l’Uncem, che ha consentito il rinnovo del Ccnl idraulico forestale concluso a dicembre 2010, in piena campagna anti Comunità Montana con la rivendicazione da parte di ambienti governativi dell’applicazione del DL 78/2010, la cui firma rappresenta la nostra ancora per argomentare l’esigibilità del diritto al rinnovo dello stesso scaduto a dicembre 2012. Nel convegno unitario del 9 luglio 2012 sono state registrate significative convergenze con il Mipaaf e con i rappresentanti dei Ministeri dell’Ambiente e della Coesione
Territoriale sull’ipotesi di promuovere la montagna e la forestazione come volano per un nuovo modello di sviluppo e realizzare una nuova e coerente governance per la forestazione e per la manutenzione del territorio. Per la filiera montagna - foresta - legno - ambiente si conferma indispensabile ricercare soluzioni strutturali di sistema per tutte le emergenze che periodicamente si ripetono in ogni Regione invertendo la pratica totalizzante del “pronto soccorso” a favore di una lungimirante politica programmatoria degli investimenti. Questa pressione esercitata sulle istituzioni non è stata vana, infatti il Governo con l’art. 19 della spending review, che istituisce Unioni di Comuni e Unioni montane (che assorbiranno le funzioni e le competenze delle Comunità Montane comprese quindi quelle relative, laddove già li avevano in capo, alla gestione dei lavoratori forestali) ha costruito l’elemento sul quale basare la programmazione e la gestione associata delle funzioni. Si sono stabiliti di fatto due concetti di fondo, il primo che ogni Comune non può su certi temi organizzare autonomamente il suo sviluppo, il secondo che fare sviluppo nelle aree montane è diverso che farlo in quelle urbane. Un altro risultato molto importante è stata la costituzione del Tavolo Istituzionale partecipato, oltre che da Fai, Flai e Uila, dal Ministro delle Politiche Agricole di concerto con i Ministri dell’Ambiente e della Coesione Territoriale e con il Coordinamento delle Regioni, per dare un nuovo orizzonte
FORESTAZIONE al settore forestale e renderlo produttivo attraverso il recupero di vaste aree dissestate e degradate del territorio e la messa a valore dell’immenso patrimonio boschivo. Durante le prime tre riunioni del Tavolo si è provveduto a delineare un percorso orientato in tre direzioni: definire prime linee di indirizzo essenzialmente concentrate sulla necessità di aggiornare e valorizzare il Pqsf (Piano quadro per il settore forestale) e la sua strategia tesa a coinvolgere e integrare le competenze dei poteri centrali e locali con il coordinamento e l’impiego dell’insieme delle risorse a partire da quelle che si renderanno disponibili dalla programmazione comunitaria 2014/2020. In tale chiave va considerata l’opportunità di collegare tale Piano agli altri interventi di programmazione (dai Psr a quelli inerenti la tutela dell’ambiente, Fondi ex Fas, ecc.) da finalizzare alla valorizzazione del territorio come fattore strategico di crescita e di sviluppo, alla piena efficienza bioecologica dei boschi italiani e alla gestione forestale sostenibile. Individuare e superare le criticità annidate nella complessa e articolata normativa vigente per dare un orizzonte unitario al settore, allo scopo di assicurare, nel rispetto delle prerogative e dei poteri regionali, un livello di coordinamento indispensabile tra gli interlocutori in tema di forestazione, nell’attuazione delle disposizioni comunitarie, sovranazionali e nazionali. In tale prospettiva, la scelta unanime del Tavolo di indicare la necessità di una legge quadro in grado di prefigurare e mettere a sistema una governance per il settore, tende proprio a superare, in una logica di coordinamento e di integrazione, le differenti competenze sulle stesse materie. Va difatti ricordato in proposito che l’eccessiva concorrenza tra le diverse amministrazioni e lo scoordinamento normativo hanno ingenerato e continuano a ingenerare sprechi e gestioni fallimentari delle risorse, spesso
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assegnate a soggetti improvvisati che hanno poco a che fare con la gestione corretta dei boschi e della forestazione sia in chiave produttiva sia come tutela di un “bene comune” essenziale. Questo per tentare di superare l’esasperato principio federalista, declinato nel nuovo Titolo V della Costituzione, che ha dato vita ad un dannoso vertenzialismo istituzionale che – specie riguardo ai temi dell’ambiente – deve essere riequilibrato per assicurare un efficiente concorso tra la programmazione (Europa e Stato) e la pianificazione delle opere (Regioni ed Enti locali). Dare un rinnovato slancio alla contrattazione collettiva, proponendo l’Anci – Associazione di Comuni – come soggetto titolato a rappresentare la parte pubblica nella contrattazione collettiva di primo e secondo livello, riconoscendo in tal modo l’applicazione del contratto di natura privatistica al settore forestale gestito dalla pubblica amministrazione mettendo fine al contenzioso esistente in molte regioni. Il caso della Sardegna, pur non isolato, si presenta come il più grave per l’evidente mistificazione di norme di legge che regolano gli ambiti e il confine tra il Diritto privato e il Diritto pubblico. Contemporaneamente alle riforme strutturali del sistema occorre non dimenticare la grave condizione vissuta dagli operai forestali in Campania, Sicilia, Calabria e Basilicata, tutte derivanti da decenni di assistenzialismo e da una spesa pubblica spesso ordinata al consenso elettorale. In queste Regioni è necessario rendere disponibili tutte le risorse possibili (regionali, nazionali, comunitarie) per far fronte a queste improcrastinabili esigenze e per incominciare a programmare gli interventi per il 2014. Continueremo a spronare il nuovo Governo e le Regioni, affinché si attivino per superare le emergenze tramite il reperimento delle risorse finanziarie, da individuare nell’insieme degli interventi di programmazione previsti.
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PREVIDENZA
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Previdenza pubblica e complementare: un mix da promuovere e sostenere Fabrizio Scatà
L
a previdenza pubblica negli ultimi anni è stata oggetto – dai diversi Governi che si sono susseguiti – di plurime riforme tese a raggiungere una sostenibilità economica attraverso un nuovo equilibrio tra le entrate derivanti da contribuzione e le risorse necessarie a titolo di prestazioni pensionistiche e per garantire un’efficiente sistema di sicurezza previdenziale alle future generazioni. L’ultima riforma delle pensioni, c.d. riforma Fornero (L.214/11), è il frutto di un impegno politico assunto dal Governo Berlusconi e mantenuto dal successivo Governo Monti nei confronti dell’Unione Europea volto unicamente al risanamento dei conti pubblici del Paese. Riforma quest’ultima che sconta anche in negativo il mancato con-
fronto con le Parti Sociali, motivo per cui saremo, come sindacato, vigili ad evitare ulteriori interventi unilaterali in materia aventi soltanto lo scopo di fare cassa. La legge 214/11 nel ridefinire l’impianto normativo di riferimento prevede: per tutti i lavoratori a decorrere dal 1° gennaio 2012 il calcolo contributivo delle pensioni con il sistema pro-rata; per le donne lavoratrici dei settori privato ed autonomo l’innalzamento dei requisiti anagrafici per l’accesso alla pensione di vecchiaia prevedendo l’equiparazione dell’età di pensionamento delle stesse a quella degli uomini (66 anni nel 2018 e 67 nel 2021); l’abolizione delle finestre di uscita e le quote previste nelle precedenti legislazioni; la conferma del requisito minimo di anzianità contributiva (20 anni); la rivisitazione dei coefficienti di trasformazione per il calcolo delle pensioni; il pensionamento flessibile da 62 a 70 anni; per tutti i lavoratori autonomi il graduale aumento delle aliquote contributive al 22% entro il 2018; per tutti gli uomini del settore pubblico e privato (autonomi-dipendenti), dal 1° gennaio 2012, il conseguimento della pensione a 66 anni di età; la sostituzione della pensione di anzianità con quella anticipata innalzando i requisiti anagrafici e contributivi e disponendo una penalità dell’1% e del 2% in caso
PREVIDENZA di pensionamento anticipato prima dei 62 anni. Una norma certamente iniqua ed ingiusta, necessitante di immediate modifiche da definire attraverso il confronto tra Governo e Parti Sociali che auspichiamo possa iniziare in tempi brevi. Per la Fai e la Cisl sarà necessario revisionare in un modo più equo i coefficienti di trasformazione utilizzati per il calcolo della pensione, superare il problema degli esodati (ad oggi salvaguardati 130.000 su 350.000 censiti dall’Inps), modificare la Legge sui lavori usuranti (Legge 67/2011) inserendo alcune tipologie lavorative di alcuni settori tra cui quello agroalimentare, rimuovere il blocco della rivalutazione annuale delle pensioni, definire un sistema flessibile per l’accesso alla pensione (incentivi-disincentivi), eliminare le penalità dell’1% e del 2% previste per il pensionamento anticipato prima dei 62 anni, superare il problema delle ricongiunzioni onerose e favorire l’adesione obbligatoria alla previdenza complementare. Dall’attuale impianto legislativo vigente, è palese che le future pensioni avranno importi inferiori a quelle liquidate nei precedenti anni. In tale contesto la previdenza complementare assumerà un ruolo sempre più importante per cui sarà indispensabile che le Parti Sociali del settore agroalimentare attivino, da subito, una maggiore azione promozionale a sostegno del secondo pilastro della previdenza italiana tra i lavoratori. Puntare sulla previdenza complementare significherà, per questi lavoratori, recuperare quell’ulteriore marginalità economica non garantita dal sistema pubblico e assicurarsi, nel combinato disposto dei sistemi previdenziali esistenti (pubblico-privato), un adeguato reddito pensionistico. Le attuali forme pensionistiche comple-
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mentari si dividono in alcune tipologie: • fondi pensione negoziali (chiusi) che prevedono anche il contributo del datore di lavoro, derivanti dalla contrattazione collettiva (nazionale, di settore o aziendale); • fondi pensioni aperti – istituiti dalle banche, imprese di assicurazione, società di gestione del risparmio (Sgr) e società di intermediazione mobiliare (Sim); • piani individuali pensionistici (Pip) – istituiti dalle compagnie di assicurazione –; • fondi preesistenti già istituiti ante emanazione del D.lgs.124/93 (prima norma regolatrice in materia). Il bilancio 2012 della previdenza complementare presentato dalla Covip (Commissione di vigilanza sui fondi pensione) fa registrare un incremento delle adesioni rispetto al 2011 pari al 6% per un totale di 5.866 milioni di iscritti. L’anno 2012 è stato altresì caratterizzato da una leggera flessione dei Fondi pensione negoziali e da un incremento degli iscritti ai Fondi pensione aperti. I Fondi pensione derivanti dalla contrattazione collettiva del settore agroalimentare (Alifond, Agrifondo, Filcoop e Fondapi) nell’anno 2012 hanno, in alcuni casi, consolidato le adesioni ed in altri accresciuto moderatamente il numero degli iscritti. Purtroppo lo sviluppo della previdenza complementare (Legge 252/2005), negli ultimi anni, ha subìto una battuta di arresto a causa degli effetti della crisi finanziaria, ma anche per una difficoltà riscontrata dalle Parti Sociali sul versante informativo nei settori della piccola e media impresa; ragione per cui le fonti istitutive dei Fondi pensione negoziali dovranno programmare un’attività promozionale costante a sostegno della previdenza complementare in tutti i luoghi di lavoro per garantire, ai futuri pensionati, un reddito adeguato alle proprie necessità.
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MERCATO DEL LAVORO
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Brevi note sulla Riforma del Mercato del lavoro Anna Montanari*
“R
ealizzare un mercato del lavoro inclusivo e dinamico, in grado di contribuire alla creazione di occupazione, in quantità e qualità, alla crescita sociale ed economica e alla riduzione permanente del tasso di disoccupazione”. Questo è l’obiettivo dichiarato dalla legge n. 92 di riforma del mercato del lavoro (c.d. Riforma Fornero) entrata in vigore nel luglio dello scorso anno. La legge, frutto di una non facile gestazione e di un intenso dialogo con le parti sociali, si presenta come un testo corposo e tecnicamente complesso, che interviene per lo più su precedenti testi normativi, rendendo non facile l’operazione di comprensione e razionalizzazione. Nel suo insieme l’intervento in questione si concretizza in una autentica riforma del diritto del lavoro, comparabile alla riforma c.d. Biagi del 2003 con la differenza che la riforma Fornero presenta significative novità non solo sul versante del rapporto individuale di lavoro, ma anche sul versante previdenziale (basti rammentare l’intervento sulle aliquote contributive dei co.co.co). Il fine del legislatore del 2012 è chiaro: procedere ad un ripensamento complessivo dell’ordinamento lavoristico in una prospettiva di crescita, mediando le contrapposte esigenze di tutela delle condizioni di lavoro dei dipendenti e di incremento delle dinamicità organizzative e gestionali necessarie alle imprese. Per comporre tale contrasto l’esecutivo opta per una soluzione compromissoria realizzata mediante un mix tra contenimento della flessibilità “in entrata”, ossia di quella relativa ai tempi ed ai modi di utilizzazione del lavoratore, e ampliamento della flessi-
bilità “in uscita”, cioè un allentamento dei vincoli nella disciplina dei licenziamenti. Soffermandosi sul testo della legge n. 92/2012 sembra però che la “stretta” sulla flessibilità in entrata (sulle tipologie contrattuali per intendersi) sia alquanto modesta. Sotto l’aspetto quantitativo, infatti, l’unico ad essere stato abolito è il contratto di inserimento (previsto nel d. lgs. 276/2003 in sostituzione del contratto di formazione e lavoro ed esteso anche a soggetti svantaggiati). Sotto il profilo qualitativo, invece, è stata ritoccata la disciplina del contratto a termine con l’introduzione di un costo aggiuntivo per la sua stipulazione, con l’aumento del periodo di intervallo minimo tra un rapporto e l’altro e con la previsione del cumulo dei periodi di lavoro a termine con le somministrazioni a tempo determinato per il raggiungimento del periodo massimo di trentasei mesi (ma è stata poi prevista la libertà di stipulazione del primo contratto senza causale). Per quanto riguarda l’apprendistato, è stato introdotto l’obbligo di durata minima del contratto (fissata in sei mesi ad eccezione delle attività stagionali) e il (ben più rilevante) condizionamento nell’assunzione di nuovi apprendisti alla conferma in servizio di una percentuale minima dei precedenti. Nel lavoro parasubordinato a progetto è stato accentuato il rigore della definizione di progetto e sono state rafforzate le presunzioni di lavoro subordinato; nel lavoro autonomo con partita iva sono stati isolati alcuni parametri che, se riscontrati, fanno presumere la sussistenza di un rapporto di lavoro parasubordinato; infine nell’associazione in partecipazione è stata fissato un nu-
MERCATO DEL LAVORO mero massimo di associati ed una presunzione di lavoro subordinato. In una prospettiva di riequilibrio generale, la maggiore rigidità introdotta nelle forme contrattuali è andata a bilanciare la discussa e confusa apertura verso la flessibilità in uscita, realizzatasi attraverso una attenuazione delle tutele in materia di licenziamento ingiustificato. Quest’ultima scelta – che ha comportato una rivisitazione dell’art. 18 Stat. Lav. – può considerarsi la parte più significativa della riforma in quanto, dopo numerosi dibattiti e manovre fallite, si è giunti infine a scalfire la monolitica applicazione della tutela reale quale unica sanzione nell’ipotesi di illegittimità del licenziamento individuale effettuato in unità produttive che superano i limiti occupazionali stabiliti dallo Statuto dei lavoratori. La legge Fornero, si noti bene, non tocca le ragioni giustificatrici del recesso datoriale (giusta causa e giustificato motivo soggettivo od oggettivo), ma interviene sulle conseguenze del licenziamento non legittimo, “scompattando” la precedente tutela dell’art. 18 in quattro regimi, graduati secondo intensità diverse (due tutele reintegratorie-indennitarie e due risarcitorie), tali da lasciare alla giurisprudenza ampi margini di intervento. Non meno significativa della prima è la seconda parte della riforma riservata al nuovo assetto delle tutele in caso di sospensione del rapporto di lavoro e di disoccupazione. Qui l’intento del legislatore di «rendere efficiente, coerente ed equo l’assetto degli ammortizzatori sociali e delle politiche attive in una prospettiva di universalizzazione e di rafforzamento dell’occupabilità delle persone» è stato perseguito attraverso l’adozione di una serie di misure riconducibili a tre direttrici di riforma: la razionalizzazione delle norme dirette alla tutela del reddito in caso di sospensione o riduzione dell’attività lavorativa (in particolare si è consolidata l’estensione legale dell’intervento
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di integrazione salariale straordinaria ad alcuni ambiti produttivi oltre il settore industriale); il potenziamento del meccanismo dei Fondi di solidarietà bilaterali istituiti dalla contrattazione collettiva per il sostegno al reddito dei prestatori addetti a settori non coperti da Cig/Cigs e, infine, il ripensamento delle tutele economiche per il lavoratore il cui rapporto si sia risolto. Sotto quest’ultimo profilo, la soluzione accolta, tesa all’armonizzazione degli attuali istituti di disoccupazione ordinaria e di mobilità, è stata la creazione di uno strumento unico denominato Assicurazione sociale per l’impiego (Aspi). Infine non possono passare sotto silenzio due profili di grande rilievo, spesso non adeguatamente messi in evidenza: l’uno è il riconoscimento dell’ampio spazio che il legislatore assegna alla contrattazione collettiva – specie nell’ambito della flessibilità “in entrata” – in ragione di quella adattabilità, oggi certamente imprescindibile, che essa possiede. L’altro è l’apertura, attesa da molto tempo nel sistema di relazioni industriali, verso una revisione dei modelli di informazione, consultazione e partecipazione dei lavoratori, in linea con le suggestioni provenienti dal contesto europeo. La legge n. 92 contiene, infatti, una delega al Governo per l’emanazione di decreti legislativi finalizzati a favorire forme di coinvolgimento dei lavoratori nell’impresa, attivate attraverso la stipulazione di un contratto collettivo aziendale, nel rispetto di una serie di principi e criteri direttivi. Questo potrebbe essere, in prospettiva e se adeguatamente realizzato, lo strumento più incisivo messo a disposizione dal legislatore per allontanarsi dalla crisi, se, come taluni sostengono, il maggior coinvolgimento (anche economico) dei prestatori potrà acconsentire ad un miglioramento dei livelli di produttività del lavoro. *Ricercatore in Diritto del lavoro nell’Università di Bologna
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FONDI SANITARI
Fai Proposte | n. 1/4 - 2013 · pagina 40
Sostegno alla maternità e paternità (Fondo Assistenza Sanitaria Alimentare) Claudio Pinto
E
vitando di illustrare, in quanto materia già oggetto di diverse circolari e materiale divulgativo, il funzionamento del Fondo per il sostegno alla maternità e paternità per i dipendenti dell’Industria alimentare, in attuazione dell’art. 1-bis del Contratto collettivo nazionale di lavoro (Ccnl) 27 ottobre 2012 per l’Industria alimentare, e dell’Accordo attuativo di Settore del 22.1.2013, riteniamo opportuno sottolinearne la forte innovazione e modernità, attraverso un rapido confronto con la pregressa disciplina dei congedi riconosciuti a sostegno della maternità e della paternità. Prendiamo le mosse dall’analisi dell’evoluzione delle politiche sociali europee e sul ruolo che, in tale ambito, hanno svolto e continuano a svolgere gli attori sociali. L’interazione tra le diverse fonti del diritto comunitario del lavoro, così come ridisegnate a Maastricht e rafforzate ad Amsterdam, con la definitiva integrazione nel corpus del Trattato Ce delle disposizioni dell’Accordo sulla politica sociale, ha infatti, promosso in via ufficiale l’autonomia collettiva dei partner sociali ed ha assicurato a questi ultimi la possibilità di giocare un ruolo di rilievo nello scenario politico ed istituzionale europeo. Vanno poi ricordate le diverse tappe che hanno portato all’emanazione della direttiva 96/34/Ce che ha disciplinato le diverse tipologie di congedi creando per la prima volta, a livello europeo, un rivoluzionario impianto normativo in grado di garantire e diversificare le misure di sostegno alla maternità ed alla paternità. È negli anni Novanta che comincia ad apparire il termine “conciliazione” nei documenti ufficiali europei e tale circostanza può essere sicuramente considerata il sinto-
mo terminologico di un cambiamento culturale che affonda le radici nella necessità di consentire nuove modalità di organizzazione tra i tempi dedicati al lavoro di cura, svolto prevalentemente dalle donne all’interno della famiglia, ed il lavoro retribuito, ancora a prevalente partecipazione maschile. La necessità di adeguare gli strumenti normativi alla mutata realtà sociale è nata dalla convergenza di due fattori principali: da un lato le trasformazioni delle strategie di vita e delle identità delle donne e degli uomini, soprattutto giovani e, dall’altro, i mutamenti del mercato del lavoro. In Italia la disciplina legislativa che da sempre è stata considerata tecnicamente molto avanzata ed ha sempre avuto come oggetto principale la tutela della maternità, è stata modificata dalla L. 8 Marzo 2000 n. 53 che, senza riferimenti espliciti alla Direttiva 96/34/CE, ha introdotto nel panorama giuridico italiano, le Disposizioni per il sostegno della maternità e della paternità, per il diritto alla cura ed alla formazione e per il coordinamento dei tempi delle città; tale legge è stata poi integralmente riportata (ed in parte modificata) nel D.Lgs. n. 151 del 26 marzo 2001 Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità. Gli istituti a tutela della maternità e della paternità, o più correttamente della genitorialità, anche alla luce delle recentissime novità introdotte dalla Finanziaria del 2008 (Legge 24 Dicembre 2007, n. 244, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 300 del 28 dicembre 2007), non solo non hanno più l’originario collegamento con la maternità biologica, ma non hanno nemmeno più come funzione esclusiva la protezione della salute
FONDI SANITARI della donna ed il soddisfacimento delle esigenze puramente fisiologiche del minore; tali strumenti sono invece diretti ad appagare i bisogni affettivi e relazionali del bambino al fine di realizzare il pieno sviluppo della sua personalità. La situazione giuridicamente tutelata dal nostro ordinamento, infatti, non è più l’evento fisico del parto, ma la maternità nel suo complesso, comprensiva, ovviamente, del periodo del puerperio; tale tutela, inizialmente disposta esclusivamente a favore delle lavoratrici subordinate, attraverso un percorso cominciato negli anni Ottanta e conclusosi con la disciplina contenuta nel Capo XI e XII del Testo Unico 151/2001 – poi integrato e modificato con il D.Lgs. del 23 aprile 2003 n. 115 e poi con la L. n. 15 ottobre 2003 n. 289 Modifiche all’art. 70 del testo unico di cui al D.Lgs. n.151/2001 in materia di indennità di maternità per le libere professioniste – è stata estesa anche alle lavoratrici autonome ed alle libere professioniste, anche se con criteri e con regole del tutto diverse in ragione delle caratteristiche proprie del lavoro autonomo rispetto a quello subordinato. Nonostante le recenti scelte legislative e le numerose pronunce della Corte Costituzionale che si sono succedute a partire dagli anni Ottanta ciò che emerge, in modo incontrovertibile, è che l’intero impianto normativo e giurisprudenziale dell’ordinamento italiano continua ad essere permeato da una ontologica propensione verso la maternità. L’apporto materno nei lavori di cura del minore continua ad essere considerato essenziale, mentre il ruolo svolto dal padre risulta marginale ed, in ogni caso, la maggior parte delle volte, esclusivamente funzionale all’inserimento o al reinserimento della donna nel mercato del lavoro. Sicuramente nell’analisi dei fattori che compongono tale problematica gioca un ruolo fondamentale il substrato culturale – tipico dell’Italia e di molti paesi mediterranei – nei quali è ancora forte la concezione di una famiglia fortemente gerarchizzata ed in cui i ruoli sono nettamente separati: l’area del cosiddetto lavoro produttivo ed economicamente
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valutabile è riservata agli uomini, l’area del lavoro di cura e della responsabilità della custodia dei figli, degli anziani e di persone con bisogni particolari è ambito prettamente femminile. È però altresì innegabile che, grazie al superamento del meccanismo della estensione al padre di segmenti di disciplina scritta per la madre e grazie all’attribuzione di un diritto originario al congedo parentale, una nuova figura di padre-lavoratore stia emergendo, provocando un cambiamento nel nostro ordinamento giuridico. E in questo senso il Fondo Fasa per il sostegno alla maternità e paternità per i dipendenti dell’Industria alimentare ha fatto fare alla materia dei giganteschi passi avanti. Tutto ciò è frutto della sensibilità delle Parti sociali che hanno saputo cogliere e concretizzare che, negli ultimi anni, in Italia, a fronte di segnali di un cambiamento culturale, il ruolo del padre è, almeno formalmente, apparso rafforzato, il padre-lavoratore è divenuto titolare di un diritto autonomo (non derivato dal quello della madre) al congedo di paternità ed a quello parentale e si è assistito ad una armonizzazione della disciplina relativa dei congedi (maternità, paternità, parentale) anche nei casi di adozione-affidamento. Eppure permane uno scarsissimo ricorso all’istituto del congedo parentale da parte degli uomini, motivato principalmente da fattori economici: in Italia, infatti, nella maggior parte delle famiglie, è il reddito maschile quello più elevato e, di conseguenza, si preferisce “sacrificare” il reddito della madre lavoratrice, tale circostanza appare confermata anche dalla disciplina del settore pubblico laddove, essendo previste condizioni più favorevoli, il numero dei padri che usufruiscono dei congedi parentali è, seppur in misura minima, superiore rispetto al settore privato. E anche in questo caso il Fondo per il sostegno alla maternità e paternità per i dipendenti dell’Industria alimentare è fortemente innovativo, in quanto ispirato a principi, per una volta tanto all’inverso, di parità di genere.
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PERSONE
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In memoria di Mario Garimberti Roberto Vicentini
Q
uando un dirigente sindacale se ne va porta via con sè un bagaglio di esperienza, di relazioni, di professionalità, di cultura sindacale. La Fai nazionale ha in programma E Mario Garimberti ha una commemorazione ufficiale di interpretato al meglio Mario Garimberti in una data che quella cultura della Cisl verrà concordata con la famiglia. fatta di solidarietà, di attenzione ai più deboli, di rifiuto della contrapposizione preconcetta, di contrattazione al meglio delle condizioni dei lavoratori lasciandoci in eredità l’esempio di una lunga militanza sindacale. Mario era un autodidatta, si era fatto da solo studiando ed imparando giorno dopo giorno. Originario di Poviglio di Reggio Emilia, incontra la Cisl quando è giovanissimo operaio di un salumificio della provincia di Parma. Nei primi anni ‘60 è già un quadro sindacale impegnato nella Federazione dei lavoratori dell’industria alimentare (Fulpia) fino a diventarne, nel 1975, Segretario generale sostituendo Eraldo Crea passato alla Segreteria confederale. Rigoroso nei principi ma flessibile nella loro applicazione, seppe gestire con lungimiranza e gradualità la costituzione della Fat mettendo insieme i lavoratori dell’industria alimentare con uno spezzone del pubblico impiego rappresentato dai lavoratori dei Monopoli di Stato. Una operazione oggettivamente difficile per la diversa cultura, natura e contrattazione delle due categorie, ma che lui condusse in porto con un’accorta regia, ponendo, di fatto, le condizioni per il successivo accorpamento tra Fat e Fisba e la nascita dell’attuale Fai. Ricordiamo Mario come persona di
grande passione e particolarmente dotata nell’attività della contrattazione. Si deve anche al suo impegno una grande conquista sindacale dell’epoca: l’unificazione dei diciannove contratti allora in vigore in un unico Contratto nazionale dell’Industria alimentare. Nel 1983, conclusa l’esperienza Fat, viene inviato da Pierre Carniti all’Unione sindacale di Verona di cui diventa presto Segretario generale, carica che concluderà il suo esaltante percorso sindacale. Gavino Deruda: con lui scompare un caro amico di vecchia data In chiusura del giornale abbiamo appreso, con grande dolore, della morte improvvisa dell’amico Gavino Deruda. Nato ad Ittiri (SS) nel 1941, già dirigente del Sindacato nazionale dei tecnici agricoli della Cisl (Fnita) prima e Segretario nazionale della Federazione dei salariati e braccianti agricoli (Fisba) poi. Lottò con passione per l’affermazione dei diritti ed il riconoscimento delle tutele delle lavoratrici e dei lavoratori impiegati in agricoltura. Commosso il ricordo del Segretario generale della Fai Cisl Augusto Cianfoni: “la serietà, l’impegno, l’autorevolezza con la quale sapeva seguire grandi vertenze sindacali, così come singoli casi prospettati dagli iscritti, sono stati il carattere distintivo del suo stile di fare sindacato. Il suo spirito di servizio alle persone lo portò a collaborare con altre strutture della Cisl. Mai affidato all’improvvisazione, fu protagonista e testimone della storia politica sindacale e sociale dell’epoca, guadagnandosi la gratitudine di coloro per i quali si era impegnato e dell’intera Confederazione”. Sul prossimo numero gli dedicheremo un ricordo.
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Leggere l’Italia in un giorno Secondo seminario di studi sulla realtà politico-economica e socio-culturale dell’Italia Vincenzo Conso
Sommario Editoriale In primo piano Sindacato Pac e Pcp
N
ei giorni 27 e 28 febbraio 2013, presso l’Hotel Massimo d’Azeglio, in Roma, si è svolto il 2° Seminario “Leggere l’Italia”, a cura della Fisba Fat Fondazione. A partire dalla lettura dei maggiori Rapporti sul Paese, predisposti da prestigiosi Centri di ricerca, ha offerto un’interessante quadro della situazione del Paese stesso, nei suoi risvolti sociali, politici, economici. Il prof. Giuseppe De Rita, Presidente del Censis, presentando il Rapporto Censis 2012, ha ricordato che esso evidenzia come la crisi abbia imposto l’assoluta centralità del problema della sopravvivenza, alimentata dalle preoccupazioni della classe di governo, dalle drammatizzazioni dei media, dalle inquietudini popolari; dalla paura di non farcela. Emerge, dunque, un Paese che ha vissuto un anno pervaso da pericoli e sacrifici, con un vertice impegnato ad allineare il sistema al rigore perseguito nelle sedi del potere europeo e milioni di persone che hanno sopravvissuto alla crisi, con la convinzione di dover cambiare. Tra i consigli del relatore: difendere la restanza, riposizionarsi, diversificare e riconvertire la nostra azione. Mons. Giancarlo Perego, Direttore della Fondazione Migrantes ha illustrato invece l’annuale Rapporto Italiani nel mondo che, insieme al Dossier Immigrazione, ci da un’idea della situazione dei migranti. I due Rapporti evidenziano infatti che la mobilità è fondamentale per superare la crisi, ponendo il problema di come far incontrare le diversità con la salvaguardia dell’identità del patrimonio culturale e spirituale del nostro Paese. Negli ultimi tempi sta diminuendo l’immigrazione; ciò però pone diversi problemi perché comunque il nostro Paese ha bisogno di questi lavoratori. Si tratta allora di saper gestire il fenomeno per evitare che ci siano ingressi illegali e quindi perdita, per l’Italia, del valore aggiunto che l’immigrazione può portare. I dati definitivi del 6° censimento generale dell’agri-coltura – illustrati dal prof. Corrado Barberis, Presidente dell’Insor – presentano un ampio quadro conoscitivo dell’agricoltura italiana e della sua evoluzione rispetto ai precedenti censimenti. In particolare, emerge che, negli ultimi dieci anni, abbiamo perso un milione di aziende, con conseguente assottigliamento del numero degli addetti. È rimasta invece invariata la concentrazione della produzione agricola. Cambiamenti strutturali sono avvenuti anche negli allevamenti di bestiame, dove oggi, ogni azienda, ha una media di 40-50 capi. Un fenomeno nuovo è quello dell’agriturismo, con le sue 19.000 aziende, di cui solo un quarto si trovano al Sud. La Relazione sui livelli e la qualità dei servizi delle pubbliche amministrazioni per il 2012, è stata presentata dal Dott. Manin Carabba, Consigliere del Cnel, che ha evidenziato come, dopo le premesse metodologiche e le prime esplorazioni e sperimentazioni del 2011, avvia la costituzione del Sistema federato sulle performance
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delle pubbliche amministrazioni, gestito dallo stesso Cnel insieme all’Istat. Il Rapporto apre, con doverosa cautela, la strada ad alcune considerazioni, critiche e suggerimenti costruttivi che potranno essere perfezionate e sviluppate dal Cnel nei termini propri di “Osservazioni e proposte” e/o proposte di legge, in conformità con la configurazione costituzionale delle proprie attribuzioni. Il Rapporto Cnel sul mercato del lavoro è stato invece presentato dal Consigliere Edoardo Patriarca. L’Italia è entrata in recessione nella seconda metà del 2011, mentre incombe sul Paese il rischio di un lento processo di deindustrializzazione con ricadute gravi sul potenziale produttivo di lungo periodo. Le difficoltà dell’economia italiana si ripercuotono sull’andamento della domanda di lavoro. Dopo la stabilizzazione del 2011, il numero degli occupati torna a scendere, mentre cresce l’offerta di lavoro, riconducibile anche al forte deterioramento dei bilanci familiari, per effetto del quale, membri della famiglia che prima non lavoravano, cercano ora di integrare un reddito insufficiente. Un’offerta però non assorbibile dal mercato del lavoro, soprattutto nelle regioni del Mezzogiorno. Relatore, sul recente Rapporto Eurispes sulla situazione politico-sociale del Paese, è stato il Dott. Marco Ricceri, Segretario generale Eurispes. Emerge come il Paese sia completamente ripiegato sul suo presente, affidandosi al giorno per giorno, con risposte parziali spesso improvvisate, con misure utili al massimo a tamponare qualche falla. All’inizio del 2013, c’è la convinzione che la situazione economica è peggiorata negli ultimi 12 mesi e forse peggiorerà ancora. Per sbloccare il Paese occorre una nuova ingegneria di produzione della ricchezza che faccia leva sulle imprese più dinamiche, su misure fiscali di favore e ridisegni le direttrici di allocazione della spesa pubblica. Il Rapporto della Fondazione Sussidiarietà sulle eccedenze alimentari è stato presentato dalla prof.ssa Paola Garrone, del Politecnico di Milano, coautrice dello stesso Rapporto che mette in evidenza che sono necessari significativi approfondimenti e revisione dei modelli e dei metodi, al fine di ottenere informazioni robuste sull’eccedenza e sullo spreco alimentare. I motivi della generazione dell’eccedenza alimentare possono essere diversi e deve essere gestita al di fuori degli usuali canali commerciali e di consumo domestico. Infine, il Vice Presidente della Fisba Fat Fondazione, Gianni Pastrello, ha presentato il Rapporto sul sistema agroalimentare, che ha evidenziato come esso attiva oltre il 10% dell’intera ricchezza nazionale. I punti di forza del nostro sistema Agroalimentare sono i prodotti tipici e quelli della cosiddetta dieta “mediterranea”: l’Italia è l’unico paese al mondo che può contare su un patrimonio di 4.671 specialità tradizionali alimentari che, negli ultimi anni, hanno visto un crescente interesse di consumatori, imprese istituzioni verso i prodotti tipici agroalimentari.
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Il futuro della forestazione produttiva Nuove prospettive di collaborazione fra Italia ed Albania per un nuovo modello di sviluppo solidale Albino Gorini*
N
ella terra delle aquile nei giorni scorsi si è tenuto un Convegno sul tema “Coltivare la bellezza, la bontà, la salute, lo sviluppo. Il futuro della forestazione produttiva”. Il 7 maggio a Tirana, in Albania, presso l’Hotel Tirana International, promosso dalla Fisba Fat Fondazione (rappresentata dal suo Presidente e dal Segretario amministrativo Vincenzo Conso) e dalla Fai Cisl (rappresentata dal Segretario generale Augusto Cianfoni e dai Segretari nazionali Claudio Risso e Rando Devole). Una iniziativa che nasce da lontano, che si inscrive dentro una esperienza di collaborazione e cooperazione avviata alcuni anni fa. Una iniziativa che vuole rafforzare questo rapporto, approfondendo le vocazioni di settore che Albania e Italia hanno in comune e ponendolo in un progetto più ampio, aperto ad una dimensione euromediterranea che coinvolga altri Paesi sui temi legati alla forestazione. Tematiche che sono ormai di grandissima attualità, in Italia ed in Europa, alla ricerca di nuovi piani di sviluppo per valorizzare al massimo la multifunzionalità dei boschi. La stessa “Strategia albanese per lo sviluppo del settore forestale e dei pascoli” ribadisce che “i boschi e i pascoli costituiscono una eredità di grande valore” per l’Albania e per tutta la Regione. Questa eredità “va tutelata e gestita affinché renda possibile un grande sviluppo economico nel futuro, contribuendo all’abbassamento della povertà, senza distruggere gli equilibri biologici naturali”. In questo quadro acquista particolare rilevanza il confronto della realtà albanese con quella europea, e particolarmente italiana, collocando le loro esperienze in un contesto più ampio. L’occasione del Convegno è stata offerta dalla presentazione del libro “Geshtneja. Nje mike e harruar (Il Castagno. L’amico dimenticato)”, di Caush Elezaj. Il castagno, infatti, ha una storia radicata: per esempio, quando nasceva un figlio si piantava un castagno, pianta forte, generosa, produttiva. Si tratta allora di mettere in rete il Castagno, simbolo della forestazione produttiva, considerando che generalmente i boschi costituiscono una risorsa incalcolabile, i cui benefici passano anche dall’economia, dall’estetica, dalla natura, dal territorio. Per tutto questo la società si deve rendere consapevole e si deve curare dei boschi, a cominciare proprio dai castagni che ci danno dei frutti molto appetitosi. Al Convegno ha portato il saluto e la solidarietà del Governo albanese il Vice Ministro dell’Ambiente, delle Foreste e della Gestione delle Acque, Sajmir Hoxha che ha ricordato l’importanza della forestazione e la sua multifunzionalità e il ruolo centrale del castagno nell’economia albanese. Per il Vice Ministro, il libro del prof. Elezaj è un gioiello nelle pubblicazioni oggi esistenti sul tema in Albania. Per questo, il Ministero si impegnerà al massimo per la sua promozione e diffusione, sottolineando anche la disponibilità a rafforzare e strutturare meglio la cooperazione verso i temi oggetto del dibattito. Al Convegno sono anche intervenuti il Rappresentante dell’Ufficio Cooperazione
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dell’Ambasciata italiana a Tirana, Pietro Parisella – che ha sottolineato come quello della forestazione è un settore fondamentale per lo sviluppo sostenibile dell’Albania, presentando anche alcuni progetti finanziati nel settore dal Governo italiano – e il Coordinatore dell’Ufficio nazionale del Programma del Fao, Zef Gjeta, che ha presentato alcuni progetti allo studio per lo sviluppo della forestazione e del Castagno che, come diceva Amartya Sen, è considerato l’ulivo delle zone montane. Nel corso dei lavori è intervenuto anche un imprenditore impegnato nella trasformazione della castagna, Ramiz Tabala, che ha illustrato l’investimento di oltre 3.5 milioni di Euro, per la costruzione di uno stabilimento e la produzione dei castagneti da valorizzare nella trasformazione. Al dibattito non è mancato il contributo del Sindacato albanese nella persona di Maksim Mabelli, Presidente del SPBSH, che ha ringraziato la Fai per il sostegno avuto negli anni scorsi e per la collaborazione che si potrà sviluppare in futuro, per il sostegno ai lavoratori albanesi. Da parte sua, l’autore del libro, il Prof. Caush Elezaj,ha sottolineato il valore delle foreste nella vita quotidiana albanese, sostenendo la necessità di reinventare il modello di sviluppo, nella consapevolezza che tute le persone beneficiano del ruolo salutare delle foreste. L’Albania, infatti, è purificata dal “polmone verde” rappresentato dalle foreste. La politica forestale avrebbe bisogno di un maggior coordinamento fra i troppi enti che si occupano oggi di montagna. Infine, il Segretario generale della Fai, Augusto Cianfoni, ha offerto il suo contributo al dibattito evidenziando la positività di una politica forestale volta allo sviluppo della multifunzionalità, cominciando dalla funzione ambientale per la difesa del suolo, dei bacini idrici, della salvaguardia del territorio, la tutela della natura, della biodiversità e del paesaggio. Ma anche reddito e occupazione, attraverso la dimensione produttiva. Una nuova politica forestale è volta alla valorizzazione dei principi di sussidiarietà e solidarietà, per un nuovo modello di sviluppo che ponga al centro la persona. Un Convegno, dunque, che apre nuove prospettive di sviluppo e di collaborazione fra Italia e Albania, per concretizzare nuove forme di collaborazione e di solidarietà di cui le due delegazioni hanno avuto modo di discuterne anche in un cordiale incontro, nella mattinata dell’otto maggio, con il Ministro del turismo, della cultura, della gioventù e dello sport, Visar Zhiti, che ha mostrato particolare interesse allo sviluppo di progetti futuri. *Presidente della Fisba-Fat Fondazione
AGRICOLTURA
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Imprese e non imprese Agricoltura e non solo - lavoro comunque
Sommario Editoriale In primo piano
Carlo Galuppi
D
i sicuro interesse il convegno del 18 aprile scorso, presso l’Aula Magna dell’Istat a Roma, sul tema “L’agricoltura che cambia. Una lettura dei dati del Censimento”. Quali soggetti economici operano oggi in agricoltura? Come si differenziano per obiettivi e condizioni di esercizio dell’attività? Domande e risposte di assoluta attualità quando si stanno per definire le misure e gli interventi della nuova Pac 2014 - 2020 e c’è quindi la necessità di tararli rispetto alle esigenze reali di un mondo che esista nella realtà e non sia una mera invenzione della burocrazia più o meno asservita alle “ideologie dominanti” o dipendente dai, cosiddetti, ma reali, poteri forti. Si è sentito parlare spesso negli ultimi tempi di produttività, mercato, imprese attive, ma sono queste le sole realtà della nostra agricoltura? La nuova Pac deve avere come obiettivo, magari incondizionato, le imprese o invece lo sviluppo integrato di un territorio da riattivare in ogni sua possibilità, per rimettere in produzione l’intero sistema produttivo rurale? Il Presidente dell’Istat Enrico Giovannini (già ministro del lavoro), aprendo i lavori del convegno è stato molto chiaro ed inequivocabile, dal sesto censimento generale dell’agricoltura è emerso un settore che non è solo agricoltura, ma è anche territorio, ambiente, ruralità, benessere ecosostenibile. Questa semplice considerazione evidenzia quali sono i veri soggetti dello sviluppo a cui dovrebbero rivolgersi gli interventi della nuova PAC, nell’interesse dell’Italia e dell’Europa tutta e non solo di chi pensa di avere delle investiture privilegiate, speciali e quindi
Sindacato
essere unico destinatario delle provvidenze. Unico destinatario, per altro, quasi sempre incapace di utilizzare e saper valorizzare al meglio gli interventi previsti. Se diamo uno sguardo agli scorsi anni e cerchiamo di misurare gli effetti dei passati periodi di programmazione sull’agricoltura in Italia, rileviamo al massimo, per esempio, che i nostri territori montani sono del tutto abbandonati, che il lavoro agricolo è sempre stato quasi del tutto escluso da ogni intervento, che molte delle aziende che hanno avuto consistenti somme a fondo perduto a sostegno dei loro progetti, continuano, forse, ad essere al di fuori di qualsiasi logica di rispetto dei propri dipendenti. Capire l’agricoltura per calibrare gli interventi, con la consapevolezza che il settore oltre gli interessi aziendali e d’impresa raggiunge e deve sempre di più raggiungere obiettivi di interesse comune, molto spesso ben più remunerativi dei meri interessi d’impresa. Utili in questo senso tutti gli interventi che si sono succeduti nel convegno. Il primo del Prof. Franco Sotte dell’Università Politecnica delle Marche, che ha presentato un lavoro realizzato con Andrea Arzeni dell’Inea: “Imprese e non imprese nell’agricoltura Italiana - Una analisi sui dati del censimento dell’Agricoltura 2010”. Assumendo come caratteri qualificanti per la definizione di impresa: la dimensione economica, l’impegno professionale, la proiezione al mercato, la proiezione verso le politiche agricole, l’assunzione del rischio, l’efficienza, la strategia e la qualificazione professionale, devono essere definite aziende agricole, non imprese, quelle rivolte
Pac e Pcp Formazione Contrattazione Cae Forestazione Previdenza Mercato del lavoro Fondi sanitari Persone Fisba-Fat Fondazione Agricoltura Recensioni Agenda Europa
AGRICOLTURA
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esclusivamente e comunque in prevalenza alla produzione per l’autoconsumo, che operano solo occasionalmente sul mercato, di scarsa dimensione economica, affidate per la coltivazione ad imprese vicine o a contoterzisti, a carattere hobbistico-ricreativo. Come si può facilmente verificare dalla tabella, su circa un milione e 620 mila aziende agricole censite, solo 310 mila o al massimo 410 mila possono considerarsi propriamente impresa, mentre 590 mila sono di esclusivo o prevalente autoconsumo e 495 mila presentano una dimensione economica di scarso valore. Tutte comunque hanno una loro dimensione economica, tutte producono ricchezza, anche se a diversi livelli e di diversa tipologia, economica per l’azienda o di interesse comune per il territorio. Ma possono essere abbandonate a loro stesse tutte le aziende appena contigue con il mercato o per il solo autoconsumo? Una risposta inequivocabile discende dalla semplice considerazione della ricchezza comunque prodotta, dell’enorme valore dell’indotto in termini economici e di lavoro. Le aziende agricole in Italia in base alla dimensione economica (2010) ITALIA
Aziende
Sau
Giornate lavoro gg (000) %
Dimensione economica totale
Gruppo di aziende
n. (000)
%
ha (000) %
Non imprese di solo autoconsumo
437
26,9
404
3,1
23.341
9,3
824
1,7
Non imprese di autoconsumo preval.
154
9,5
433
3,4
13.199
5,3
560
1,1
Non imprese con attività comm.le
495
30,6
35.183 14,0
1.848
3,7
Aziende intermedie disattivate
77
4,7
528
4,1
7.179
2,9
1.064
2,2
Aziende interm. imprese potenziali
103
6,4
684
5,3
22.003
8,8
1.502
3,0
45
2,8
1.247
9,7
6.287
2,5
2.731
5,5
Imprese piccole
226
13,9
3.523 27,4
77.605 30,9 10.389 21,0
Imprese grandi
84
5,2
4.656 36,2
66.009 26,3 30.542 61,8
Az. imprese tot. o parz. disattivate
TOTALE
1.621
1.382 10,7
100 12.856
min ¤
100 250.806 100 49.460
%
100
Fonte: elaborazione di A. Arzeni e F. Sotte su dati del 6° Censimento Generale dell’Agricoltura
La risposta indiscutibile deve arrivare dalla considerazione del ruolo che queste migliaia di attività hanno per il benessere degli addetti e per la tutela del territorio e, anche, per il grande valore sociale che assumono. Molto spesso, non sono ancora considerate d’impresa, le attività, purtroppo ancora molto limitate e disorganiche, che investono il territorio montano, quello che dovrebbe essere invece un sistema produttivo da rilanciare in modo deciso, per la stessa salvaguardia delle future generazioni. Diverse le realtà ma tutte importanti, fatte di imprese, di aziende e di tanti lavoratori, autonomi e dipendenti, che troppo spesso, soprattutto quest’ultimi, paiono scomparire dietro le parole d’ordine di quella “economia finanziaria” che sta portando alla rovina il nostro pianeta. Forse è ora di rovesciare i parametri e ridare al lavoro e al lavoro dipendente il valore di parametro base di ogni investimento, con la consapevolezza che è utile allo sviluppo chi lavora e non chi specula sul lavoro degli altri. Molti dei nostri territori hanno perso di attrattività, il nostro Paese ha perso di attrattività, ed i motivi sono tanti, ma forse uno dei fondamentali è l’abbandono in cui vivono molte aree, troppo facilmente lasciate a se stesse perché “improduttive”. Una cieca imprenditoria egoista, pur di avere tutto per sé, sembrerebbe contenta di vivere “nel deserto”, sperando magari che chi è legato veramente al suo territorio non lo vorrà mai far degradare oltre certi limiti e nonostante tutto. La fotografia emersa dall’ultimo censimento agricolo evidenzia la complessità e la varietà del settore, che ne sono punti di debolezza, ma che se seriamente interpretati ne possono diventare consistenti punti di forza. Una agricoltura, quella italiana, fatta di eccellenze, di imprese, non imprese, aziende familiari, aziende hobbistiche che, insieme, possono e devono mantenere ricchezza ed occupazione.
RECENSIONI
a cura di Giampiero Bianchi
Fai Proposte | n. 1/4 - 2013 · pagina 49
Due strumenti di lavoro per contrattazione e Cae
Sommario Editoriale In primo piano
N
ella borsa del terzo Congresso Nazionale della FAI i delegati troveranno, fra l’altro, due pubblicazioni, curate dalla Segreteria Nazionale, diverse fra loro per contenuti ma ugualmente utili per l’attività di un dirigente sindacale. La prima coglie gli aspetti ricorrenti ed innovativi dall’ultima stagione contrattuale di secondo livello dell’industria alimentare italiana. La seconda travalica i confini di categoria e nazionali traguardando l’attività sindacale nel contesto europeo attraverso l’esperienza dei Comitati Aziendali Europei (Cae). Due pubblicazioni che sono allo stesso tempo strumenti di lavoro e di formazione e che meritano di essere presentate. La stagione contrattuale di secondo livello, sviluppatasi negli anni 2011-2012, ha interessato un numero stimato di circa quaranta aziende o gruppi. Di esse ne sono state prese in considerazione venti, ritenute un campione significativo, con l’obiettivo di mettere in evidenza gli istituti contrattuali consolidati e, più ancora, quelli innovativi. Si inizia con le relazioni industriali, capitolo solitamente considerato prosa e dai più letto distrattamente ma che in realtà contiene le regole senza le quali non sarebbe possibile un ordinato confronto fra le parti. Il riconoscimento del ruolo delle Rsa, delle Rsu e dei Coordinamenti con le loro agibilità; la definizione dei tempi e dei modi dell’informazione, della consultazione e della contrattazione sono temi che inseriscono nel più ampio contesto del Ccnl elementi di specificità aziendale. La formazione professionale, permanente o episodica, intesa come arricchimento delle capacità lavorative, con possibili ed auspicabili effetti sugli inquadramenti, è largamente presente nel panorama contrattuale preso in esame. Segno evidente di una accresciuta consapevolezza del suo valore nel contesto dell’economia aziendale. Un istituto se non del tutto innovativo ma, comunque, fortemente propositivo è quello del welfare aziendale. Cioè quella serie di interventi (dai buono libri, alle convenzioni con asili o con istituti per anziani, ai permessi retribuiti per assistenza a figli e parenti portatori di handicap) che interessano la sfera privata del lavoratore/cittadino. Un istituto tanto più significativo in un momento in cui lo Stato sembra incapace di garantire prestazioni basilari per una corretta convivenza civile. L’Istituto della “Salute e sicurezza” ha registrato una apprezzabile impennata di interesse nel contesto della contrattazione decentrata. Non solo come tutela dell’integrità fisica del lavoratore ma anche come tutela dell’ambiente che circonda il sito produttivo. Il concetto dello “impatto ambientale” è largamente diffuso negli accordi presi in considerazione. Il salto di qualità sta nell’avere estesa la tutela della salute e sicurezza a tutti i lavoratori che operano all’interno di un sito produttivo, a prescindere dal loro rapporto con l’azienda (appalti, interinali, collaboratori ecc.). Una tutela a cui le Rsu, e soprattutto l’Rls, sono chiamate a vigilare con maggiore attenzione se è vero che la percentuale degli infortuni fra queste tipologie di lavoro è maggiore rispetto ai lavoratori diretti. Il salario variabile, nelle sue diverse denominazioni, ma quasi sempre identificato nel premio per obiettivi (Ppo), rappresenta il cuore della contrattazione di secondo livello perché è ad esso che è affidato il compito di portare in busta paga una
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RECENSIONI
a cura di Giampiero Bianchi
Fai Proposte | n. 1/4 - 2013 · pagina 50
parte, sia pur minima, della redditività aziendale. Il concetto che portò alla sua istituzione con l’accordo interconfederale del ’93 era ed è semplice: se un’azienda fa reddito, lo deve certamente al capitale investito e alla capacità dell’imprenditore di rischiare in proprio, ma lo deve anche, e soprattutto, al fattore lavoro. Ecco perché è legittimo che una quota, da contrattare, vada anche al lavoratore. Tra le aziende prese in considerazione tutte evidenziano un loro originale modo di quantificare il salario variabile, ma tutte puntano a misurare due elementi; la redditività della società nel suo insieme e la produttività di singoli siti non disgiunta dal livello di qualità del prodotto finito. Il salario variabile, favorito da una fiscalità di vantaggio, nella stagione contrattuale conclusa, oscilla fra € 1.500 e € 2.400 ma con punte che toccano € 3.000. Una buona base di partenza per la prossima stagione contrattuale. Lo scopo della pubblicazione è proprio questo: fornire ai futuri negoziatori una visione di insieme degli istituti contrattuali più significativi che faccia da supporto prima alla stesura delle piattaforme e poi alla contrattazione. Dalla contrattazione nazionale ad una visione europea delle problematiche dell’industria alimentare e più specificatamente delle multinazionali che vi operano. Il secondo volumetto, inserito nella borsa congressuale, è un utile strumento di lavoro per i delegati dei Comitati Aziendali Europei e non solo. Realizzato con la collaborazione tecnica di Sindnova, si prefigge di dare una base legislativa e operativa a quanti operano in questo settore relativamente nuovo dell’attività sindacale. In Italia nel settore dell’industria alimentare sono presenti più di trenta multinazionali di cui ventiquattro hanno costituito il Cae, ed oltre si accingono a farlo. Un’attività significativa, ed in espansione, che merita attenzione da parte del sindacato. Da qui l’esigenza di dare ai delegati uno strumento di formazione ma anche di attività pratica. L’opuscolo si apre con una presentazione politica del Segretario Generale Augusto Cianfoni e con una prefazione di Claudio Stanzani, Direttore di Sindnova, che coglie gli aspetti legislativi e pratici dei Cae. Interessante l’inserto “Come rendere le vostre riunioni più efficaci” elaborato da Etui (Ente di formazione europeo) che, illustrato con divertenti vignette, dà suggerimenti operativi ai delegati Cae. Ma il cuore della pubblicazione è il quadro sinottico che mette a confronto, articolo per articolo, la nuova Direttiva dei Cae (2009/38) con il Decreto (n. 113/2012) di recepimento nella legislazione italiana. Si ha così una visione d’insieme della base legislativa che regola la costituzione, la funzionalità, i diritti dei Cae che, com’è noto, ad oggi sono limitati alla informazione e consultazione. È certamente riduttivo per i delegati Cae non avere a disposizione lo strumento della contrattazione, ma non è da sottovalutare il diritto ad essere correttamente e tempestivamente informati delle strategie delle multinazionali che talvolta travalicano gli stessi confini europei e, soprattutto, il diritto ad esprimere un parere sugli atti più significativi delle società transazionali. In tempi di ristrutturazione e delocalizzazioni è un diritto non solo da esercitare ma da rafforzare. La decisione di costituire un Coordinamento permanente fra i ventiquattro delegati Cae della Fai perché possano scambiarsi reciproche esperienze e la volontà della Segreteria Nazionale di proseguire nel progetto formativo specifico, già avviato in collaborazione con l’Effat e cofinanziato dall’Ue, è il segno dell’attenzione della Federazione verso una struttura organizzativa che proietta l’attività dei delegati sindacali oltre i confini nazionali. Roberto Vicentini
RECENSIONI
a cura di Giampiero Bianchi
Q
Fai Proposte | n. 1/4 - 2013 · pagina 51
uesto libro su Gramsci e Turati, che appare oggi nella sua seconda edizione, ha provocato proteste e polemiche come non accadeva da anni. L’A., leggendo testi originari dei due uomini politici – in particolare testi rivolti ai giovani – mette a fuoco le due anime inconciliabili della sinistra italiana: Filippo Turati, fondatore del socialismo riformista italiano da una parte, Antonio Gramsci, padre nobile del comunismo italiano. E subito opposti e alternativi appaiono non solo i due approcci alla lotta politica, ma la stessa concezione di sé, dei propri avversari, dell’idea di Partito e di classe operaia, degli strumenti e delle vie per arrivare ad una società socialista e senza classi. Difficile è farne una sintesi ma gli elementi del contrasto sono chiari: Gramsci, finché almeno fu libero di esprimersi fuori dalla prigione, elaborò e diffuse un modello pedagogico basato sulla denigrazione, A. Orsini, Gramsci e Turati. l’insulto, l’intolleranza verso l’avversario… e l’esalLe due sinistre, Rubettino, tazione dell’unica verità possibile, quella del Partito Soveria Mannelli (CZ), 2012 della classe operaia: ”chi è fuori del partito – scrive(seconda edizione) va – è in malafede (…) è un porco (…) uno straccio mestruato (…) può e deve essere sempre insultato e denigrato (…) perché il partito è la sola luce, la sola autorità morale e fuori di esso ci sono le tenebre”. Espressioni tra l’altro, osserva l’A., non rivolte ai fascisti ma ai riformisti, ai popolari, ai democratici moderati. Insomma, Gramsci propugnava un modello politico in cui l’avversario andava anzitutto distrutto nell’immagine e poi, se possibile, nel fisico. La stessa teoria gramsciana dell’egemonia del resto, conclude, non nasceva certo da una qualche condanna della violenza rivoluzionaria (mai pronunciata da Gramsci in tutta la sua vita) ma dall’analisi della particolare situazione italiana dopo la vittoria del fascismo: un paese in cui la borghesia, secondo Gramsci, non sarebbe mai stata sconfitta da un attacco frontale e nel quale, per arrivare alla dittatura del partito unico, l’unica arma efficace per ridurre al silenzio gli avversari era la cultura. Ovvio corollario di tutte queste concezioni l’esaltazione della realtà sovietica: Lenin, la dittatura, la violenza rivoluzionaria erano le uniche vie per edificare il Socialismo. All’opposto va collocato, secondo l’A., la figura di Turati, fondatore e a lungo segretario generale del PSI, definito da Togliatti nel necrologio del 1926 “un uomo spregevole”. Per lui infatti il Socialismo coincideva con la non-violenza: i veri socialisti – scriveva ai giovani socialisti – dovevano saper respingere ogni violenza sotto il profilo etico-politico; pilastro di tutto il pensiero socialista doveva essere il “diritto all’eresia” e, fondamento della libertà, poteva essere solo il pluralismo; i socialisti – avvertiva – non potevano mai essere i soli detentori della Verità assoluta e si poteva imparare anche dagli avversari; di qui la condanna dell’ortodossia ideologica e la sua costante cautela nell’imporre la disciplina di partito… che non doveva mai schiacciare, ripeteva, la libertà individuale dei socialisti. La semplice analisi comparata dei testi, conclude l’A., mai tentata finora da alcuno, è spietata nell’evidenziare quelle differenze che, ai contemporanei, dovevano apparire ovvie, scontate e che per noi, oggi, sono invece fonte di sorpresa e scandalo. Di qui le polemiche e gli attacchi al libro cui l’A. risponde nella prefazione a questa seconda edizione: alcuni infatti gli hanno fatto osservare che Gramsci è stato amorevole con i figli (e con questo, si chiede?) che ha a lungo vissuto in galera (idem?), che è famoso e conosciuto all’estero come grande pensatore (idem?), che la sua via, alla conquista del potere, è tutta culturale (giusto), e che, comunque, viveva in un contesto
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RECENSIONI
a cura di Giampiero Bianchi
Fai Proposte | n. 1/4 - 2013 · pagina 52
violento che lo spingeva a posizioni estreme. A queste obiezioni l’A. risponde osservando che in fondo, nessuna di esse è, in alcun modo, contraria alle sue conclusioni, ma paradossalmente le rafforza. Quello che divideva Turati da Gramsci – conclude – entrambi figli della stessa epoca ed entrambi sinceri socialisti era solo, unicamente, l’ideologia comunista e ciò che ne conseguiva: dal giudizio sull’Urss all’idea di persona. Si torna quindi così, anche per Gramsci, allo stesso punto critico del giudizio storico sugli altri dirigenti comunisti italiani, da Di Vittorio a Togliatti fino a Berlinguer: la centralità per loro del giudizio sull’esperienza sovietica, l’irrisolta contraddizione tra l’idea di Partito e quella di libertà della persona, vero spartiacque per tutta la sinistra italiana e internazionale; e viene a noi contemporanei da chiederci, secondo un noto metodo storico detto controfattuale, cosa sarebbe oggi la sinistra Italiana (Cgil acompresa) se in quegli anni cruciali avesse vinto Filippo Turati e non Gramsci e Togliatti.
“U
n vero democratico, un cristiano, un fervente attivista… ma soprattutto una persona dai grandi valori umani e morali”: questo il ritratto che emerge da una delle tante testimonianze raccolte, con cura e gratitudine, dall’Autore su Danilo Bruni. Aretino, militante di azione cattolica, lavoratore delle Poste, sindacalista libero e fondatore della Cisl, storico Segretario nazionale del Sindacato italiano dei lavoratori postelegrafonici (Silp Cisl), due volte senatore (DC) della Repubblica italiana e poi, negli ultimi anni, presidente dell’Isfol (Istituto per lo Sviluppo della Formazione dei Lavoratori) e dell’Unasco (Unione dei coltivatori Olivicoli). Tante le facce che emergono da queste pagine, su di una vita complessa e ricca di esperienze, descritta nel libro attraverso le testimonianze e i ricordi di amici, familiari, collaboratori, colleghi, avversari. Una vita vissuta però in profonda, unitaPierluigi Lozzi, Danilo Bruni. ria coerenza con i propri valori che fanno emergeL’uomo, il sindacalista, il pore dalle pagine il ritratto a tutto tondo di un “uomo litico, a cura della Famiglia del ‘900: onesto e schietto, genuino e istintivo, riBruni, Calosci, Cortona (AR), flessivo ed impulsivo insieme” che ha dedicato la 2012, pp. 298 propria vita, da sindacalista prima e da politico poi “all’azione e alla lotta per la giustizia e l’equità e insieme per lo sviluppo della società”. È questo il filo di un libro sì di immagini e testimonianze ma che va oltre una pur significativa antologia di episodi, ricordi e sentimenti e che offre, proprio attraverso queste, uno spaccato interessante e per certi aspetti inedito, di storia sindacale italiana e di storia Cisl in particolare; a sua volta parte non irrilevante, lo si nota spesso nello scorrere le pagine, di una più grande storia della società italiana dal dopoguerra ad oggi. Il tutto – ricorda nella bella Prefazione Giuseppe De Rita che lo ha conosciuto e gli è stato amico – visto con gli occhi e vissuto attraverso le esperienze e i valori di un sindacalista Cisl particolarmente legato, per tutta la vita, ai valori e agli ideali di Giulio Pastore e del “Sindacato Nuovo”: nel difficile Dopoguerra, negli anni ’50-’60 dello sviluppo e delle vittorie Cisl, nei difficili anni ’70 dello sbandamento ideologico e dell’estremismo anche sindacale (da lui sempre combattuto in nome degli ideali di Giulio Pastore) e infine negli anni ’80-’90 della nuova ripresa economica ma nella difficile globalizzazione; in un settore sindacale, quello dei postali, poco conosciuto da studiosi e mass media. Un bel libro, quindi, di ricordi ma non solo.
AGENDA EUROPA
a cura di E. Bonaldo e R. Devole
Fai Proposte | n. 1/4 - 2013 · pagina 53
I lavoratori distaccati: una sfida europea
È
da tempo che l’azione sindacale della Fai ha posto al centro dell’attenzione europea la questione dei cosiddetti “lavoratori distaccati”, che rischiano di essere discriminati da un sistema che favorisce il dumping sociale. Già nel 2010 si sono svolti una serie di incontri sulla questione lavoratori distaccati nel settore agroalimentare, tra cui quello svolto a Roma con i rappresentanti dell’Effat, con l’obiettivo di capire meglio questo fenomeno nuovo ed in continua evoluzione. Si è riscontrato che in precedenza i lavoratori immigrati che cercavano lavoro in un Paese della allora Comunità europea, venivano assunti direttamente dai datori di lavoro del Paese di arrivo. Con il nuovo sistema dei distacchi, invece, che non interessa solo il settore agricolo, un datore di lavoro di un Paese europeo può distaccare un suo dipendente a svolgere temporaneamente la sua attività lavorativa in un altro Paese. Insieme all’Effat si è posto l’obiettivo di elaborare valide proposte da presentare alla Commissione europea per la revisione delle direttive e per la ricerca di migliori condizioni e tutele per i lavoratori in distacco. È stato sottolineato in varie occasioni come questa novità possa diventare terreno fertile per il mondo dell’illegalità, specie in agricoltura, dove si intrecciano fenomeni negativi quali il lavoro nero e il caporalato; con il rischio che i lavoratori distaccati grazie a sedicenti aziende (specie di Paesi neoeuropei) possano invitare le nostre imprese agricole ad usufruire dei lavoratori distaccati, applicando loro i Contratti collettivi di lavoro e le Leggi Sociali del Paese di provenienza, eludendo in tal modo contratti e Leggi sociali vigenti in Italia. Da ricordare, inoltre, la conferenza Effat a Berlino (febbraio 2011) sul tema “Difendere i diritti dei lavoratori distaccati nel settore agricoltura in europea”, a cui la Fai ha partecipato insieme ad altri 50 rappresentanti dei sindacati del settore; in tale occasione condannate le misere condizioni di vita dei lavoratori distaccati, la mancanza di garanzie offerte dalla Direttiva europea e la scarsa attuazione delle sue disposizioni. Alla conferenza, inoltre, si è evinto che in molti Stati membri dell’Ue e in diversi settori, esisteva da tempo la preoccupazione in merito al sempre maggior ricorso, da parte delle Aziende, al lavoro distaccato, tipologia di contratto, questo, che determina discriminazioni tra lavoratori, abusi, salari inferiori, mancata protezione sociale e scarsa sicurezza sul lavoro. In realtà, le intenzioni della direttiva sul distacco dei lavoratori, emessa nel 1996, erano altre: si volevano garantire condizioni di lavoro eque e non discriminatorie per i lavoratori distaccati in un altro Paese. Ma le buone intenzioni, in seguito, si sono perse nella reale applicazione della Direttiva a causa delle varie proposte di attuazione. Le proposte, infatti, vanno in realtà in direzione opposta, chiedendo maggiori flessibilità nel distaccare i lavoratori all’estero senza controlli di garanzia. Uno dei settori che potrebbe subire ripercussioni negative è sicuramente quello agroalimentare. Per questo motivo la Fai Cisl ha partecipato con una sua delegazione, tra migliaia di lavoratori provenienti da tutta Europa, alla manifestazione che si è svolta a Bruxelles il 23 gennaio 2013, contro il dumping sociale e le precarie condizioni di vita dei lavoratori distaccati. Il corteo dei manifestanti della Ces-Etuc (European Trade Union Confederation) e delle Federazioni europee di categoria, incluse l’Effat (European Federation of Food, Agriculture and Tourism Trade Unions) e l’Etf (European Transport Workers’ Federation), a cui la Fai è affiliata, si è riunito inizialmente presso gli uffici della Ces per proseguire poi nelle vie principali della città e raggiungere la sede della Commissione Europea. Al centro della manifestazione i diritti dei lavoratori, a cominciare dai “lavoratori distaccati”, che rischiano di essere discriminati dalla Direttiva europea di attuazione
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AGENDA EUROPA
a cura di E. Bonaldo e R. Devole
Fai Proposte | n. 1/4 - 2013 · pagina 54
sul distacco dei lavoratori. La Fai Cisl, insieme ai Sindacati europei, hanno chiesto efficaci misure contro le pratiche di dumping sociale e di concorrenza sleale, nonché una migliore tutela dei lavoratori impiegati nei settori di nostra rappresentanza. I Sindacati presenti alla manifestazione hanno chiesto alla Commissione Europea di agire anche sul versante delle condizioni di lavoro, della protezione sociale, promovendo misure adeguate sulla salute e sicurezza, e attivando ispezioni e sanzioni efficaci contro le aziende che non rispettano le norma legislative e contrattuali. Durante i vari interventi, è stato proposto che la futura Direttiva europea contenga misure concrete contro il caporalato, il lavoro nero, l’elusione contributiva. I Sindacati europei hanno ricordato alle Istituzioni europee che le aziende che utilizzano tale manodopera innescano un meccanismo al ribasso, a danno non solo dei lavoratori, ma anche delle imprese virtuose. La competizione tra imprese è importante, ma deve essere una competizione basata su principi di lealtà, nel rispetto delle normative vigenti, di cui fanno parte anche i diritti dei lavoratori. Il rispetto delle regole deve essere alla base dell’Europa sociale. Alla fine di marzo 2013, l’Effat ha lanciato un forte allarme, invitando tutti i Sindacati affiliati di contattare le istituzioni dei vari Paesi per informarli che la Direttiva di Attuazione rischia di diventare una Direttiva Bolkestein, proprio perché l’Europa sembra volere imporre la “deregolamentazione”, la “competizione” e la “flessibilità” nell’interesse delle imprese ed a spese dei lavoratori. La proposta di Direttiva di Attuazione è un atto legislativo europeo che era stato concepito per risolvere le varie forme di abuso, di circonvenzione delle regole e di comportamenti disonesti sulla pelle dei lavoratori temporaneamente distaccati in un paese straniero. Invece, si sta cercando di inserire altri principi, tra cui quello del paese di origine nel mercato, e di proporre dibattiti fuorvianti sull’aumento o la diminuzione dei lavoratori distaccati, tra i paesi dell’Est e quelli dell’Ovest europeo; sulla legittimità degli ispettorati del lavoro nazionali; ecc. In realtà, tutti i lavoratori hanno diritto a condizioni dignitose di lavoro quando sono temporaneamente impiegati in un paese straniero, indipendentemente dal loro paese di origine, mentre le attività degli ispettorati del lavoro vanno rafforzate sul territorio. Nel frattempo la Fai Cisl lavora a livello contrattuale, quindi in maniera concreta ed efficace, affinché le prassi sbagliate dell’utilizzo dei lavoratori distaccati vengano bloccate e gestite contrattualmente, disinnescano a monte il rischio di ledere innanzitutto i loro diritti, ma anche per evitare condizioni di dumping sociale. Per la Fai Cisl è quindi indispensabile che l’azione sindacale si impegni a garantire condizioni simili, sia economiche che sociali, per tutti coloro che prestano la propria attività lavorativa in Italia indipendentemente dal Paese di origine. Occorre inoltre un forte impegno da parte di tutti Sindacati italiani ed europei per presentare, tramite l’Effat, alla Commissione europea, valide proposte per la regolamentazione del fenomeno dei lavoratori distaccati in ambito internazionale, a tutela del lavoro e nel rispetto della legalità e della persona.
5° CONGRESSO NAZIONALE Perugia 27-31 Maggio 2013 Sala Congressi FIGC-LND Comitato Regionale Umbria Strada di Prepo, 1
Lunedì 27 maggio
Mercoledì 29 maggio
Giovedì 30 maggio
Pomeriggio: arrivi e sistemazione in Hotel
Sala Congressi della F.I.G.C.
Sala Congressi della F.I.G.C.
Sala Congressi della F.I.G.C.
ore 9.30 Ripresa del dibattito
ore 9.30 Ripresa del dibattito
ore 16.00 Distribuzione del materiale
ore 12.00 Presentazione liste
ore 17.00 Apertura del 5° Congresso nazionale della Fai Cisl - Elezione della Presidenza - Elezione delle Commissioni - Approvazione del Regolamento congressuale
ore 12.30 Pranzo nel proprio Hotel
ore 12.30 Intervento del Segretario Generale Cisl Raffaele Bonanni
Relazione dei Segretari nazionali sulle deleghe dei settori
ore 20.30 Cena nel proprio Hotel
Martedì 28 maggio Sala Congressi della F.I.G.C.
ore 9.30 Relazione del Segretario Generale Fai a nome della Segreteria ore 11.00 Saluto degli ospiti ore 13.30 Pranzo nel proprio Hotel ore 15.30 Relazione del Collegio dei Sindaci
Sala dei Notari - Palazzo dei Priori Piazza IV Novembre
ore 15.00 Tavola Rotonda “La funzione difensiva e di promozione economica e sociale della contrattazione“ Le separatezze di un tempo oggi si muovono verso nuove condivisioni: bilateralità e sussidiarietà Introduce Stefano Faiotto, Segretario nazionale Fai Cisl Intervengono Dr. Gabriele Cardia, Responsabile Politiche contrattuali Federalimentare Dr. Riccardo Giovani, Responsabile politiche contrattuali Confartigianato Dr. Edvino Jerian, Presidente onorario Federpanificatori Dr. Romano Magrini, Responsabile politiche contrattuali Coldiretti Coordina Dr. Giovanni Graziani, Docente Scuola Formazione Sindacale Fai nazionale
ore 20.30 Cena nel proprio Hotel
a seguire Tavola Rotonda “Il lavoro tra regole e mercato” Prospettive del Mercato del Lavoro in Italia dopo la Legge 92/2012
Centro Congressi Hotel Giò Via R. D’Andreotto, 19
Introduce Fabrizio Scatà, Segretario nazionale Fai Cisl
- Proiezione filmato sulla Fai Cisl - Presentazione del nuovo sito nazionale
Intervergono Dr. Roberto Caponi, Responsabile politiche contrattuali Confagricoltura Dr. Luigi Giannini, Direttore generale Federpesca Dr.ssa Claudia Merlino, Responsabile politiche contrattuali CIA Dr.ssa Sabina Valentini, Responsabile politiche contrattuali Confcooperative
Apertura del dibattito sulla Relazione del Segretario Generale
Coordina Prof.ssa Anna Montanari, Docente di Diritto del Lavoro presso l’Università di Bologna
ore 20.30 Cena nel proprio Hotel
ore 13.30 Pranzo presso Hotel Giò ore 15.30 Ripresa dei lavori Centro Congressi Hotel Giò Conclusioni del Segretario Generale Fai Cisl Augusto Cianfoni Approvazione della mozione congressuale Inizio votazioni
ore 20.00 Cena presso Hotel Giò
Venerdì 31 maggio Centro Congressi Hotel Giò
ore 10.00 Proclamazione degli eletti ore 11.00 Convocazione del Consiglio Generale Ordine del giorno: - Elezione del Segretario generale - Elezione della Segreteria - Elezione del Comitato esecutivo - Elezione del Presidente del Collegio dei Sindaci - Elezione del Presidente del Collegio dei Probiviri - Elezione dei componenti designati nel Consiglio generale Cisl ore 12.30 Pranzo nel proprio Hotel Pomeriggio: Partenze
Segreteria organizzativa via Tevere, 20 - 00198 Roma tel. +39 06.845691 fax +39 06.8840652 fai.segreteriagenerale@cisl.it www.fai.cisl.it