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2 + 2 sul divano. Dialogo introduttivo

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Dean & Martin

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Jerry e Robin. Pensare divertente

2 + 2 sul divano. Dialogo introduttivo

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Roberto Lasagna: “Jerry Lewis fondò ‘La casa della risata’ , per aiutare i bambini e i giovani affetti da traumi e malattie. Una fondazione la cui prima importante iniziativa benefica fu un galà in onore di Robin Williams il 19 giugno 2017. Lewis e Williams dedicarono molto impegno alla beneficienza, ma quando pensiamo a loro ci vengono in mente dei ‘beneffatori della risata’ …

Anton Giulio Mancino: “L’immagine plastica dei ‘benefattori della risata’ è calzante. Mi sembra inoltre una coincidenza perfetta poiché aiuta a spiegare la nostra scelta di dedicare un libro congiunto a Jerry Lewis e Robin Williams, accorciandone le distanze. Non a caso abbiamo scelto di intitolarlo, confidenzialmente, ‘Jerry & Robin’per sottolineare l’approccio comune ad una trattazione non sistematica, ma problematica e appassionata. Cioè dove la passione diventa il punto di partenza per un’analisi che non segue necessariamente l’ordine cronologico ma un filo conduttore esemplificato nel sottotitolo ‘Pensare divertente’ , ricavato da un’affermazione dello stesso Jerry Lewis, di cui si darà conto nel libro, ma che potrebbe a ragion veduta essere estesa a Robin Williams. Sei d’accordo nel definirlo una dichiarazione d’amore scritta a quattro mani? Il discorso ‘amoroso’e il ricorso frequente al concetto di ‘amore’ è del resto centrale per comprendere la strategia comunicativa e la drammaturgia del Jerry Lewis ‘film-maker totale’ (uso il trattino tra ‘film’ e ‘maker’ , in ossequio all’omonimo titolo del suo manuale di regia).

R. L.: “Sono d’accordo. Questo libro è una dichiarazione di amorosa complicità. Non potrebbe essere diversamente quando un lavoro, come il nostro, nasce e si sviluppa spontaneamente. E prende la forma di un racconto, sfaccettato, dentro il cinema, per mano di due protagonisti esemplari, paradigmatici e, allo stesso tempo, eccentrici. Una dichiarazione d’amore per chi ha saputo attraversare decenni di spettacolo, portandosi addosso i lustri e le ferite della propria arte ed è arrivato a interpretare (nel caso di Lewis, anche a dirigere) film nuovi, vette comiche o del pensare intelligente, con l’idea di sperimentare ogni volta qual-

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cosa di nuovo e originale. Una dichiarazione per chi non ha mai nascosto la disarmante predilezione per la maschera del clown, e per il volto fragile che essa sovente cela” .

A. G. M.: “C’è un doppio fondo nelle due maschere, che rende fluido e sfumato il confine tra comicità e malinconia, felicità e tristezza, e che mi sembra ugualmente accomunarle. Tutti e due hanno usato il naso rosso. Robin facendosi interprete della clown-terapia nei panni di PatchAdams, Jerry da sempre portandoselo dietro, addosso. Lo esibisce anche in uno dei suoi ultimi incontri pubblici, al Tribeca Film Festival a New York, rincontrando Martin Scorsese e Robert De Niro il 29 aprile 2013 per l’anniversario di Re per una notte. La maschera del clown, assieme alla polisemia ‘amorosa’ , è una delle linee guida che seguiamo nel nostro percorso.Al nesso stretto tra il clown e l’amore in particolare ho dedicato il quarto capitolo. E il pensiero corre sempre al film che non vedremo mai di Jerry Lewis, The Day The Clown Cried, rimasto incompiuto. Se ne possono recuperare alcune scene on-line. Ma l’insieme non assumerà mai una forma definitiva. Eppure questa edizione frammentaria, fragile, agli antipodi del perfezionismo maniacale di Ragazzo tuttofare, L’idolo delle donne, Il mattatore di Hollywood e Jerry ¾, rende molto bene l’idea del fattore umano inseparabile dalla padronanza assoluta della tecnica da parte di Jerry. Ma parlami un po’di come hai affrontato il ‘tuo’Robin” .

R. L: “Il ‘mio” Robin’ mi ha sempre affascinato per l’incredibile coraggio di essere disarmante, nei piccoli film come in quelli più grandi. In Cadillac man - Mister occasionissima, ambientato in un concessionario d’automobili, ti potresti aspettare la critica all’individuo alienato, al venditore incallito. E invece no: Robin ti avvicina con immediatezza a un mondo di persone che vivono, si confrontano, senza pregiudizi. In Mosca a New York immagineresti forse di ritrovare il prototipo del russo algido e scostante? Il suo Vladimir Ivanoff è invece un uomo desiderante, smanioso di togliersi la maschera che pure indossa per necessità di dialogo e integrazione. Il filo rosso del risveglio emotivo caratterizza un certo periodo del cinema americano post-reaganiano, e Williams è come una luce di contagiosa irriverenza tra le ombre di quegli anni, pronto a darci scossoni con la sua comicità debordante per poi stupirci con l’empatia, con

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una carica di umanità che lo rende, secondo me, un umanista a Hollywood. Si espone con il corpo, con la fisicità che può diventare irruente danza di trasformismo come in Mrs. Doubtfire - Mammo per sempre o dimensione stessa della cura, come ben sa lo psicoterapeuta di Will Hunting - Genio Ribelle. Un corpo che parla, diventa racconto di un’esistenza, in perpetua agitazione per aiutare i figli che hanno bisogno di un padre o per portare sollievo a un individuo che soffre. Un volto che cerca di far sorridere anche con pose stralunate, evidentemente segnato da antiche e costanti preoccupazioni, pronte a ritrovarsi nei moltissimi ruoli portati sullo schermo dall’attore; per il quale il dramma è sempre dietro l’angolo e l’arte della recitazione diventa un’irrinunciabile terapia. Mi ha affascinato la cultura di Robin, spesso insospettabile, non a caso professor Keating nel suo ruolo forse più indimenticabile, quello ne L’ attimo fuggente... ” .

A. M. : “Poni una questione infatti centrale, sul fronte Robin, che vale anche per Jerry. Quella della possibilità di esplorarne la ricchezza espressiva, fisica e comportamentale senza necessariamente distinguere tra opere maggiori o minori. Quando si studiano figure così coerenti, che hanno speso la propria vita e la propria carriera per uno spettacolo che fosse anche una forma di terapia e di auto-terapia, è inevitabile che le gerarchie tra film d’autore e non cadano e si proceda ad una lettura verticale di apporti preziosi presenti anche in film spesso sottostimati. Mi sono posto il problema con un’opera centrale, poco apprezzata, e che invece fa da spartiacque definitivo tra il Jerry Lewis di prima, con Dean Martin, e il Jerry Lewis successivo, di lì a poco senza Dean Martin. Mi riferisco a Il circo a tre piste di Joseph Pevney, che non soltanto diventa il primo film ufficiale in cui vengono a galla le divergenze tra i due soci e amici, ma è proprio per questo una prova generale di tante sperimentazioni future. È qui che prende forma compiuta l’istanza clownesca, la necessità di rimodulare il comico con il sentimentale, a torto giudicato in più occasioni “patetico” . Jerry in questo film altrimenti ‘suo’si scopre più che altrove, corre il rischio di mettere a repentaglio gli standard medi della sua clamorosa popolarità di coppia. Rischia e in parte incorre nell’insuccesso commerciale. Ma dimostra come l’asse Jerry-Dean sia fondamentale, anche dopo che il sodalizio si interrompe, per comprendere l’istanza

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dell’altro. Tutta la poetica e la forte propensione di Jerry a visualizzarla cinematograficamente trova le sue motivazioni di fondo in questo strappo. Il conflitto interiore/esteriore tra solitudine e socialità, l’istanza d’amore duplice, in entrata e in uscita, si spiegano a partire da questa necessaria rottura. Tutto dapprincipio corre verso questo epilogo, che rappresenta un nuovo inizio, fisiologico e fatale. Si coglie tra le righe anche la contrapposizione felliniana tra il Clown Bianco e il comprimario Augusto. Credo, dal canto mio, di aver insistito molto nel ripercorrere le modalità e l’evidenza di questa insofferenza reciproca, che nasce a ben guardare nei film stessi. Esaminare i film, anche nel caso di Jerry, equivale a leggere neanche tanto tra le righe il diario intimo di un’anima divisa in due, donde la preliminare situazione di coppia, Martin & Lewis, poi ricomposta nella statura del ‘film-maker totale’ , non più il ‘personaggio in cerca di autore’o di un ‘partner’(Pardners, non a caso, è il titolo dell’ ultimo film che li vede assieme, in Italia Mezzogiorno di... fifa), ma l’autore di se stesso, a pieno titolo. Spesso attraverso la mediazione geniale di quel grande e irresistibile cineasta che fu Frank Tashlin. Credo di essermi concentrato sui film, nella misura in cui questi restituiscono risposte adeguate alla domanda di fondo: perché si sono separati? Detto altrimenti: come hanno fatto a restare fianco a fianco tutto quel tempo? Il loro legame stretto è stato anche il motivo di un conflitto costante, terminato con il congedo al Copacabana. In tutto ciò sono convinto che la confessione di questa permanente condizione umana in cui il comico spesso e volentieri non si diverte divertendo, angosciato dalla sofferenza altrui e dal proprio bisogno di isolamento, giunga per interposto autore, Scorsese, proprio con Re per una notte ” .

R. L.: “Ci sono incontri davvero significativi, in grado di far emergere aspetti del personaggio rimasti inespressi o latenti sino a quel momento. Come quello con Scorsese per Lewis, o quello con Van Sant per Williams. Incontri in cui gli artisti mettono molto di loro stessi e che arrivano a un punto delle loro carriere in cui qualcosa sembra essersi davvero trasformato. Incontri che preludono a mutazioni in parte già percepite, tanto che, a guardare bene, inquietudini e interrogativi, dell’ uomo e dell’artista, paiono rintracciabili in molti lavori delle rispettive filmografie. Far ridere, così come far riflettere, può diventare un’ossessione e condizio-

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nare gli esiti o la struttura di un film. Nel nostro libro ci siamo interrogati su cosa possa aver favorito Jerry e Robin nel dare forma alle proprie ossessioni per la comicità (e per il dramma) con frequentazioni in grado di favorire discorsi personali. E’stato stimolante il poter valutare di volta in volta le molte scelte artistiche come esiti complessi dettati dalle rispettive maturazioni e da inevitabili ripensamenti: ogni passo un tassello e un tentativo di unicità, per questi due combattenti nella macchina del cinema industriale, che ci paiono oggi sempre di più due spiriti indipendenti. Nella consapevolezza che il racconto in parallelo dei due artisti sarebbe diventato un viaggio tra le domande dell’ uomo contemporaneo pronte a diventare scommesse espressive quando non di senso. Un viaggio tra le trasformazioni del gusto e del costume dal secondo dopoguerra mondiale sino ad oggi, in cui troviamo Jerry e Robin calati in situazioni in cui la comicità è centrale, oppure, dinamica espressiva prossima ad altre sfumature, nei casi più significativi vicina ad uno spirito anarchico o sperimentale. Jerry costruisce i suoi film con abile astrazione, con il controllo a più livelli della scena, mostrando individui sbigottiti al cospetto del suo personaggio in lotta con gli oggetti e con l’ordine del mondo, un po’come lo sono gli spettatori che si divertono attoniti vedendo le personificazioni di questo ragazzo tuttofare, pronto a farsi trino (3 sul divano) o ancora più proteiforme (I sette magnifici Jerry), per sopperire sovente a un disagio che coinvolge la persona che si ama o si vuole proteggere. In questo percorso Jerry trova una strada e uno stile tutti suoi, con ben pochi debiti artistici, presto imitato dalle generazioni a venire. E lo stesso Robin si lancia in una corsa artistica che lo vede senza troppi genitori, senza modelli, diventando anch’egli un esempio unico, come Jerry attraversato dall’ansia di sdoppiarsi e moltiplicarsi (Mrs Doubtfire – Mammo per sempre) per poter essere quell’amato genitore pronto a realizzare i desideri che la realtà non garantisce, o poter librare tra i desideri come un redivivo Peter Pan destinato al pubblico che sta diventando adulto. Tra la baraonda degli oggetti e della modernità, tra le nevrosi curate dalla psicanalisi e cenerentoli insospettabili, Williams e Levis portano nel loro cinema un’altra scena, che può far ridere ma soprattutto pensare. E sono due interpreti che hanno davvero accompagnato la maturazione, la crescita, il viaggio nel tempo di generazioni di spettatori… ” .

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A. M. : “Trovo infine molto significativo che nell’ ultima stagione di entrambi, sebbene i loro congedi abbiano seguito modalità diverse, nel caso di Robin davvero drammatica, vi sia una sorta di nobiltà inversamente proporzionale all’eventuale importanza dei film interpretati. Invecchiando, entrambi, al di là dello scarto generazionale, assumono uno spessore autonomo, che prescinde dai contesti performativi. Jerry è Jerry e Robin è Robin. La loro fama li precede, anche in una sorta di oblio che se possibile ne accresce l’intensità e la grandezza. Sono diventati icone viventi. Jerry al Festival di Cannes nel 2013, alla veneranda età di ottantasette anni, è accolto come una leggenda, indipendentemente dal film che ha interpretato e per il quale è stato invitato, che per la cronaca si intitola Max Rose di Daniel Noah. L’impressione è che siano nati per stare sul palcoscenico e sul piedistallo, eccedendo la norma fisiologicamente. Uno come l’altro, inconfondibili e inarrestabili ‘Kings of Comedy ’ . Di Robin ho un ricordo pressoché equivalente, assai anteriore, di oltre vent’anni, alla Mostra del Cinema di Venezia, dove nel 1987 stava accompagnando Good Morning, Vietnam di Barry Levinson. Aveva i riflettori puntati addosso. Tutti aspettavano soltanto che lui ripetesse con la voce da speaker radiofonico sopra le righe le parole corrispondenti a quel titolo e allo storico personaggio interpretato. Non si discusse poi quasi d’altro, contò solo la sua performance. Lo stesso accade con Jerry a Cannes: con le sue gag, i suoi scherzi, il film passò in sott’ordine. Sta facendo uno spettacolo. Fuori dal set, lontano dal palcoscenico, in qualsiasi circostanza Jerry e Robin fanno e danno spettacolo. Un tipo di spettacolo che da un certo punto in poi diventa compulsivo, vive di vita propria. Uno spettacolo incarnato che non si esaurisce nello spazio dell’incontro pubblico. Sembra che sia necessario arrestarli, spegnerli, disinnescarli. Perché da soli se lasciati fare potrebbero continuare all’infinito, a dispetto dell’età o delle condizioni fisiche contingenti. Questo senso di familiarità, di vicinanza travolgente, magari all’opposto del loro umore nel privato, li rende personaggi con cui stabilire un dialogo inverosimile ma sostenibile. Scrivendo di Jerry, in particolare, ho cercato di trasmettere quest’impressione di vicinanza costante connaturata al tipo di attore, di regista, di showman. Il perfezionismo sul set, cui accennavo, costituisce l’indizio più determinante per accorgersi di come ogni frutto di questo lavoro incessante debba dare la sensazione di essere stato coltivato con

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cura assoluta e amore sconfinato. E torna così la parola più ricorrente e trasversale, ‘amore’ , che assume una valenza mistica. In matematica quando un numero non ha né segno negativo né segno positivo si dice sia ‘in valore assoluto’ . Il ‘ valore assoluto’ di un ‘amore’ variamente declinato da Jerry risulta dalla capacità di trasformarsi, travestirsi, aumentare a più non posso voci, volti, lingue, accenti, personaggi, maschere per farsi accettare o circondare i suoi spettatori dell’energia indispensabile per affrontare un’esistenza altrimenti ingrata. Non è semplice dar conto della vasta produzione letteraria, storico-critica su Jerry. E non volevo, nel cercare di ripercorrerla interamente, cavarmela con un ritratto corretto, circostanziato, documentato. Inizialmente mi sono preparato per questo tipo di incombenza. Quando infine ho raccolto tutte le fonti, i testi, e mi sono dotato della enorme mole di oggetti cartacei, musicali e audiovisivi, compresi i manifesti originali italiani, i dischi con le performance radiofoniche e le canzoni per bambini su incise, ho deciso di disfare tutto, costruire un percorso destrutturato, un sistema di vasi comunicanti non necessariamente lineare. Insomma, come un film di Jerry, decostruendo attentamente - slacciando e riallacciando i fili, come si addice ad un prestatore d’opera maldestro, alla Jerry - il lavoro al quale mi ero a lungo preparato. Onde ottenere infine qualcosa che nell’impianto rimasse conforme alla materia difforme alla quale mi stavo avvicinando. In fondo posso dire di non averci messo mesi o anni ad arrivare ad un simile risultato. Ma tutta una vita. Credo di aver incominciato a mettere insieme i pezzi del puzzle, che non ho voluto qui finire o ricomporre una volta per tutte, dall’infanzia. Da quando ho visto i film di Jerry e Dean, poi di Jerry senza Dean, lungi dal preoccuparmi delle ragioni di quel repentino cambio di marcia. Un’infanzia che guarda l’altra o si osserva, perplessa allo specchio. Perché l’infanzia è a sua volta il tema o, se si preferisce, l’ossessione oltre che la sorgente di tutti i suoi personaggi, indifferenti al tempo, all’età, alle istituzioni, alle convenzioni, alla psicanalisi e alla pedagogia, attraversati da una corrente liberatoria ad alto voltaggio comico-esistenziale. Non saprei cos’altro aggiungere, se non il seguente mio contributo a questo libro a due facce, a quattro mani, su due sovrani della commedia. Quattro capitoli in tutto. Il primo: ‘Dean & Martin’ , che non sono soltanto il nome e il cognome dello storico partner di Jerry. Il secondo: ‘Good Fella’ , che non è il titolo, deprivato appena della ‘s’finale, del ce-

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lebre capolavoro sull’ universo gangsteristico affrontato dal basso dell’autore di Re per una notte, ma in sé lascia intendere anche il senso del primo capitolo. Il terzo: ‘Way Way Out’ , che non è soltanto la riproduzione, senza i puntini di sospensione, del titolo originale dell’italiano Stazione Luna di Gordon Douglas, ma anche quello della canzone omonima, completa quindi dei puntini di sospensione di cui sopra, di Gary Lewis & The Playboys. Per chi non lo sapesse Gary è il figlio di Jerry. Quarto: ‘Everybody loves a clown’ , per cui vale quanto già detto riguardo al capitolo precedente. Inutile ripetersi. Se si sono già lette quelle righe, sono di sicuro superflue queste” .

R. L.: “Vedere e rivedere film di Williams mi ha fatto riscoprire un artista sensibile in grado di conquistare per la forza della sua passione. Tra l’idea iniziale del libro e la stesura dello stesso ho vissuto anche momenti di disorientamento quando non di vero e proprio sconforto, mano a mano che ‘frequentavo’ sempre di più Robin, pensando che egli non era più con noi mentre alcuni dei suoi ultimi film non erano mai usciti nelle sale. Mi è capitato di rivedere il suo cinema attraversando l’entusiasmo per gli esordi e l’ebbrezza che ha accompagnato l’epoca d’oro dei film più acclamati, ma ho interpretato e a mio modo rivissuto le possibili delusioni (così come ho ammirato la tenacia) dell’attore criticato per alcune sue scelte non facili o immediatamente comprensibili specie nell’ ultimo periodo. Lungo tutto il periodo del lavoro sul libro, ero consapevole di trovarmi dinanzi ad una vicenda artistica irripetibile. La sistematicità del metodo di scrittura si è dimostrata allora appiglio a cui mi sono ancorato molto presto, assieme ad un entusiasmo consapevole; è prevalsa infine una sciolta trepidazione corroborata dall’opportunità di scrivere e rimediare a certi luoghi comuni dell’interpretazione critica, specialmente quello che disconosce totalmente una componente (psico)sociologica nello sguardo del cinema, che ignora il ruolo dell’attore all’interno dei complessi equilibri dell’industria dello spettacolo. Ho lottato - uso volutamente questa espressione - per restituire a Williams il proposito dell’irriverenza, così evidente in tanti momenti della sua filmografia, che per qualcuno sembra facile vedere presto addomesticata a seguito del successo e delle scelte personali non condivise. E’infine prevalsa la consapevolezza di saperne abbastanza, per condurre il lavoro di scrittura sino

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in fondo, pur dovendo trattare di oltre sessanta lungometraggi, tanti sono i lavori soltanto per il cinema che Williams ci ha lasciato, alcuni dei quali molto popolari e importanti, fino ad oggi non trattati in un libro dedicato approfonditamente all’arte cinematografica e all’analisi dei suoi film (esistono invece alcuni interessanti volumi sulla vita di Williams). Perché giustamente la fama di Williams, come quella di Lewis, ha subissato l’interprete nella fase finale e un po’in ombra della vita, mentre i film sono continuamente riprogrammati dalle reti di tutto il mondo.Aproposito dei grandi personaggi ci si ricorda sovente dei momenti più celebrativi, dei film più divertenti, degli episodi più popolari che non sono sempre necessariamente anche i loro migliori. Ma come Lewis è ricordato anche per quello che è riconosciuto come un suo capolavoro, Le folli notti del dottor Jerryl, la doppiezza costitutiva dell’attore comico riverbera la sua luce enigmatica sulla vicenda di questi protagonisti della cultura, nel caso di Willliams ribadita dal doppio bisogno di affiancare i ruoli brillanti a quelli drammatici, di incontrare il consenso del pubblico e il riconoscimento critico, di prosciugare l’esuberanza connaturata senza però perdere l’empatia. Un bisogno di smarcarsi avvertito sin dall’esperienza come stand up comedian (peraltro mai abbandonata), trasportata sul set e via via modulata attraverso gli incontri con i molti registi e i confronti, tanti e ripetuti, con gli attori, ciascuno a sua volta ‘modello’di uno stile recitativo o di un’impronta inconfutabile. Williams e Jeff Bridges, Williams e De Niro, Williams e Dustin Hoffman, Williams e Al Pacino. Si potrebbe continuare a lungo. E a ben guardare, con ognuno di questi interpreti Robin l’anti-accademico ha modulato la sua recitazione, raffinandola, perfezionando personaggi che sentiamo immancabilmente ‘suoi’: dal professore fulminato de La leggenda del re pescatore, al medico pieno di dedizione al lavoro di Risvegli (dove esibisce piena misura nel temibile confronto con De Niro), dal Peter Pan adulto e smemorato di Hook, al killer ricercato tra le nebbie della mente in Insomnia (dove, in un film tutto sbilanciato sulla figura del poliziotto interpretato da Pacino, Robin fa la sua ‘maledetta e sporca’ figura). L’arte di esporsi, generosamente, anche attraverso opere meno riuscite o deliziosi film indipendenti assolutamente da rivalutare (Il padre migliore del mondo, Boulevard), dove emerge la coerenza del discorso dell’attore, l’esigenza di svelarsi quale portatore di punti di vista culturalmente aperti, disposti

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