Poiesis n°1 la Nostalgia
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Un progetto culturale per promuovere la poesia, e promuoverci come autori. La rivista è infatti scritta da poeti, o aspiranti tali.
Nasce da un’idea di Chiara Migliucci (sui social: chiaramigliu). L’idea di base è quella di una rivista sulla poesia per poeti, ma che serva anche ad avvicinare alla poesia persone che non la scrivono, ma che magari, la leggono con piacere.
In greco antico questa parola significa ovviamente poesia. Ma significa anche “creazione”, “fabbricare”. E la poesia è proprio questo, fabbricare dal nulla dell’arte, mentre nel caso della pittura, della scultura, si parte da materiali tangibili per creare qualcosa di altrettanto tangibile. Mentre per la poesia non è così, gli strumenti siamo noi, e il prodotto finale è qualcosa che appartiene solo alla nostra interiorità. La poesia è quindi un fare, un produrre, solo con la forza del pensiero, e questa rivista vuole questo, creare, produrre arte, solo con la forza del pensiero. Ma non vogliamo neanche che passi il messaggio che la poesia sia aleatoria, perché la poesia è concreta, è intorno a noi, basta saperla trovare. Inoltre, mi piace il collegamento che si può fare tra il greco e la sua lingua sorella: il latino. Infatti, una parola da prendere in considerazione in questa lingua antica è Felix. Questo vocabolo significa appunto felice; può essere utilizzata come aggettivo per definire le persone, ma anche degli oggetti, in particolare gli alberi. Avete capito bene, un albero può essere felice, ma in che senso? un albero felice è un albero che da molto frutto, quindi che crea, che produce frutto. Quindi mi piace associare poesia con qualche forma di felicità, data da quella che è la nostra creazione
Di Poesia a tutto tondo. Di tecnicismi per gli appassionati, di interviste agli emergenti, come anche di pubblicità alle poesie ritenute più meritevoli, con anche analisi del testo di poesie note e non. Ma si tratterà, come una rivista che si rispetti, di attualità poetica, di relazioni con altre forme d’arte, e come si sposa il mondo moderno con la poesia.
Insomma, questo è un progetto davvero ambizioso, a cosa ambiamo? A creare, a produrre, fare con la sola forza del pensiero
Che stile adotterà Poiesis?
Non si tratterà del solito giornale “formale”, ma in quanto poeti, crediamo che il miglior metodo di comunicare qualcosa, sia quello di far emozionare chi legge. Non adotteremo quindi il classico stile giornalistico, di tipo informale, e freddo, ci sarà prima di tutto, il pensiero di chi scrive, ma non espresso in maniera subdola tale da imporre il proprio punto di vista. Adotteremo l’inusuale “io penso, io dico, io credo” che ai prof del liceo proprio non piaceva. Perché noi crediamo profondamente che la scrittura, come la poesia, sia sempre il punto di vista di chi la scrive, ma ciò, non è sempre ovvio. E questo deve essere chiaro, perché il lettore deve essere cosciente che quello espresso è il mio pensiero, e non un concetto universalmente valido. Solo così il lettore può farsi una propria idea. Inoltre, questa, pensiamo, sia anche una forma di rispetto per il lettore, in quanto, lo si invita, nel momento in cui non è d’accordo con l’autore a prendere le distanze, e a dire la propria.
Cosa avrà di diverso questa edizione?
Dalla seconda edizione del numero abbiamo deciso di inserire un “tema” ricorrente in tutta la raccolta, ed ampliare i nostri orizzonti, non solo poesia! Ma anche cultura e racconti.
“Ma cosa avete contro la nostalgia? È l'unico svago che resta a chi è diffidente verso il futuro.”
Dal film “la grande bellezza”
Nostalgia. Parola complicata. Deriva dal greco, significa letteralmente “ritorno al dolore”. Ma io non sono pienamente d’accordo con questa definizione. Perché credo che si possa tornare indietro a tanti tipi di momenti, belli o brutti. Ma la sensazione che ci rimanda l’essere tornati indietro è spesso negativa. Anche secondo Eugenio Borgna esistono tanti tipi di nostalgia, “Ci sono nostalgie dolorose e scarnificanti, nostalgie che fanno vivere e nostalgie che fanno morire, nostalgie che si nutrono di gioia e di tristezza, nostalgie che non si cancellano nel corso del tempo e nostalgie labili ed effimere.”
In un articolo a “la repubblica” dichiara addirittura che questa sensazione, in realtà sia capace di guarire dal futuro. “Senza la nostalgia del nostro passato la vita rischia di essere un susseguirsi di avvenimenti, l'uno staccato dall'altro, una circolarità continua deve legare passato, presente e futuro secondo la splendida intuizione di Sant'Agostino La nostalgia va coltivata in noi come fragile pianticella perché, a differenza della memoria, offre e mette a disposizione progetti aperti verso il futuro e verso la speranza, perché è in quel passato che ritroviamo gli slanci di un tempo. Nostalgia come esperienza del passato e la speranza sono in fondo collegate: la speranza non è altro che memoria del futuro” Insomma, è come se “tornare indietro” ci permettesse di riavvolgere il nastro e rivivere ciò che ci è già capitato. E allora se possiamo tornare indietro unendo malinconia e memoria ne risulta la nostalgia magari. Ma come dicevo prima, non credo che la nostalgia sia per forza un sentire malinconico. Allora mi viene in mente che, magari, quando torniamo indietro possiamo “salvare dei ricordi”. Ossia, possiamo scegliere di rivivere certi momenti e non altri. Oppure se siamo abbastanza forti, mi piace dire che i ricordi sono come Pompei. Vi spiego cosa intendo.
Quando si passa per questa splendida cittadina romana, lo si fa con curiosità, si passa attraverso macerie che non sono nostre, e le si ammira, notandone i dettagli. Quando invece camminiamo (ossia ripercorriamo la strada dei ricordi) per le nostre macerie, non riusciamo a non tornare indietro senza dolore, senza nostalgia. Ecco. Io vorrei tanto riuscire a passare tra le macerie di ciò che è stato, senza provare dolore, vorrei che i ricordi fossero come Pompei. Forse Eugenio Borgna intendeva questo quando ci dice che la nostalgia è “una scialuppa di salvataggio”, forse se riuscissimo a passare per Pompei e rivedere solo il bello dei ricordi di ciò che è stato senza viverne il dolore, allora ci potremmo salvare dal dolore. E la nostalgia sarebbe semplicemente un “ritorno alla strada della memoria”. Sono anche sicura che a Borgna piacerebbe molto Pompei.
Vorrei tu fossi Pompei
La bellezza di ciò che per te non fu. Vagare tra macerie che crei In una tragedia mai assoluta
Ammira rovine che non sono tue Fallo con meravigliosa apatia Non porteranno malinconia
Ascolta la mia apostrofe:
Vorrei tu fossi come lei Senza l'incombere della catastrofe
Vivrei con libertà la vita Tornerei indietro a mio piacimento Senza indossar maschere
Sarei consapevole di ogni momento
Tra i ricordi
Come si viaggia Tra le macerie
Vorrei tu fossi Come lei
Vorrei tu fossi Pompei.
Mentre scrivo quest’articolo siamo in una sera di giugno. Non c’è ancora il caldo atroce di agosto. Ma arrivano le prime sentinelle della nostalgia. Già, perché a me, questo caldo, ancor più se accompagnato da quel venticello tiepido tipico del mese più caldo fra tutti, mette tanta nostalgia. Allora mi interrogo, cos’è esattamente la nostalgia, perché qualcosa riconosciuto come universalmente piacevole mi trasmette tutto ciò? e mi rendo conto che non so darle un volto. Non so dare una definizione, eppure ci saprei scrivere una poesia. Allora comincio a pesare che il bello dell’arte sia che menti creative differenti arrivano dove non arriva un’altra arte. Si ha una complementarità di idee, di ragionamenti, di schizzi. Mi spiego meglio: io, che scrivo poesie, non saprei dare un volto alla nostalgia. Non riuscirei a catturarla con gli occhi, per poi stamparla su carta, non saprei dipingerla su un murales, nè tantomeno suonarla. Ma saprei arrivare a qualcuno a ritmo di sillabe, definite da una metrica precisa. Riuscirei a costruire delle immagini, delle figure retoriche, attraverso cui, voi che leggete potete vedere come sento io. Insomma, saprei scrivere di questa sensazione. Eppure, non mi basta, vorrei vederla, toccarla con mano. “tornare al dolore”, e ritornare qui, nel presente, con qualcosa di tangibile fra le mani. Perché se almeno devo andar a trovare il mio vecchio amico “dolore”, allora voglio un ricordo di lui, che posso vedere e toccare. Voglio che il vuoto che mi lasciano nel cuore le sere di agosto abbia una tangenza, una sostanza. Perché è solo quando vedi effettivamente il male negli occhi, che puoi comprenderlo, e se lo hai compreso puoi fregarlo, e allora, solo in fine, sorpassarlo. Mi fa sorridere, però, che ci siano persone come Luca, che invece la nostalgia la vedono eccome. La vedono come un ragazzo seduto al muretto a sentire la sua musica dalle cuffiette, ad osservare un panorama tra i più belli al mondo (chissà cosa trasmettesse al ragazzo effettivamente, ma non importa, importa solo ciò che cattura l’occhi di Luca e quindi la macchina, sua appendice). Mi fa sorridere il fatto che mi abbia detto “ho disegnato la foto che sto cercando, e andrò in giro per Napoli a cercare quella definitiva immagine”. Lui ha visto fisicamente la nostalgia, e poi l’ha cercata, l’ha intrappolata su una pellicola, e poi l’ha inviata a me, che ricordo, la nostalgia la so solo scrivere. Allora ho scritto, ho scritto la nostalgia che Luca vede ma non sa scrivere:
Ora tra i colori riconosco solo il blu
Ma tra le verniciature Vedo tante Sfumature
Chi ha detto La nostalgia Pone il tetto Ad una casa Di malinconia buia?
Chi ha detto Che non si può vivere Nel passato
Eppure, io, Ricordo di me Tanti colori.
Ah. Ultima cosa che mi fa sorridere: Luca vede la nostalgia in un panorama che trasmette notoriamente allegria e leggerezza, io sento la nostalgia ad agosto, allora forse l’arte serve anche a questo, a farci “sentire” come sente l’altro. Ad insegnarci che forse della nostalgia non si può dare una definizione: Nostalgia è sia agosto, che il golfo di Napoli visto da un ragazzo qualsiasi in compagnia della sua musica.
Ogni giorno un uomo sedeva di fronte al mare, scegliendo di dimenticare per quel frangente di tempo la sua vita, e ricordando il suo vissuto. Cosa aveva il mare che il suo presente non aveva? Aveva una sola cosa, ma potentissima: la speranza di ritornare. Il presente di quest'uomo si chiamava Calipso, il suo passato si chiamava Penelope e lui, l'uomo, era Ulisse. Il tema della nostalgia nell'Odissea è un tema centrale: ciò che muove il protagonista letteralmente, è quel senso di tristezza che lo porta ad essere lontano dal suo passato. Ma più di tutto, ciò che rappresenta tangibilmente questa nostalgia di Ulisse, è il suo sguardo, che non possiamo vedere, verso il nulla, o verso il tutto: il mare. Quel l'Oceano da attraversare è tutto per lui: vale ogni battaglia, ogni ostacolo. Lui, per la sua Penelope attraverserebbe anche il mare più impetuoso. Ma a cosa sta rinunciando Odisseo per il mare: sta dicendo di no al dono più prezioso di tutti, offertogli dalla bellissima Calipso, l'immortalità.
« Lo so bene anche io che Penelope a vederla è inferiore a te per beltà e statura: lei infatti è mortale, e tu immortale e senza vecchiaia. Ma anche così desidero e voglio ogni giorno giungere a casa e vedere il dì del ritorno » (Odissea libro V).
Ma ora facciamo un salto al di là del mare, lì, ci troveremo Penelope. Anch'ella prova lo stesso senso di nostalgia del protagonista del capolavoro omerico? Il mio pensiero è: sì. Cosa la porta a disfare ogni notte quella tela che ha tessuto il giorno? Secondo me proprio la nostalgia.
Si tratta quindi di una nostalgia con due direzionalità: ma è una nostalgia non vinta, ma di due persone che continuano a viaggiare, Ulisse viaggia fisicamente, Penelope viaggia con la speranza. Viaggiano senza arrendersi per arrivare al loro amore. Viaggiano con la mente e con il corpo, al di là del mare.
Quando la notte è a svanire poco prima di primavera e di rado qualcuno passa Su Parigi s'addensa un oscuro colore di pianto
In un canto di ponte contemplo l'illimitato silenzio di una ragazza tenue Le nostre malattie si fondono E come portati via si rimane.
Nostalgia, Giuseppe Ungaretti.
"Si rimane portati via" Questo il verso che più mi ha colpito della poesia di Giuseppe Ungaretti. Sì, perché la nostalgia ci porta via dal presente, verso altre mete, verso altre sfere temporali, future o passate, o anche verso altri luoghi, perché questo sentire può essere legato anche ai luoghi, ad una città, come Parigi o anche Roma. La gente ti ha deluso?» si chiede a Geppy Gambardella ne "la grande bellezza" «No, io sono stato deludente» risponde lui convinto di sé. Perché Geppy è stato deludente? Perché a mio parere lui più di tutti soffre la nostalgia, avverte la nostalgia come qualcosa di negativo. Egli, infatti ha rinunciato al suo essere, alla sua sensibilità per una vita fatta di luci artificiali e mondanità. Di mediocrità a cui la sensibilità umana non potrà mai ambire. Ma c'è qualcun altro che avverte la nostalgia in questo capolavoro di Paolo Sorrentino, ed è Romano. Lui, la nostalgia la vive in modo differente, come abbiamo già detto, la vive come l'unico appiglio per non dimenticare il passato, momento in cui è stato bene. Allora per me risulta ancora una volta, che la nostalgia, può essere qualcosa di meravigliosamente positivo per l'uomo. Ma ci sono luoghi che non aiutano la nostra nostalgia, come una città come la Roma fatta di luci artificiali e mondanità in cui Romano proprio non si ambienta, ed ecco allora che "Roma lo ha deluso", che in altre parole, per me, significa che la mancanza di nostalgia in una società in cui si cerca con ossessione in " Qui ed ora", perdendo anche il senso di quest'ultimo pensiero, per un nostalgico, un sensibile, è corrosivo per l'anima. Ed ecco allora, che per due persone che appaiono così differenti "le malattie si fondono". PS. A dirla tutta non trovo che queste siano malattie, ma la parte migliore di Romano e Geppy.
La nostalgia di Emily Brönte.
autore: Francesca Signorino
Avete mai ascoltato il vento del Nord? Dovreste.
Egli sibila impetuoso e struggente nell’attesa di essere ascoltato, rivendicando la sua presenza nella natura inquieta e mutevole: uomini, donne e bambini , corrono al riparo dal preludio di questa tempesta: vi è chi la maledice, chi ne è spaventato.
Emily no, lei no.
Lei brama quel vento impaziente, porge l’orecchio nell’ascolto delle sue storie provenienti da terre lontane, dalle sue terre, dalla sua amata Brughiera e mai dimenticata, prestando ascolto al suo amico fedele che l’aiuta a non soccombere nella malinconica nostalgia.
Ma è davvero un sentimento negativo, la nostalgia?
“In parte”! Ci risponderebbe Emily Brönte, autrice straordinaria dell’opera Wuthering Heights, tradotto Cime Tempestose. La nostalgia la rese un’autentica prigioniera dei propri ricordi, ma non tutti i sentimenti nascono per portar tristezza nei cuori, alcuni poi, mutano le persone trasformando una debole mente in uno Spirito forte. Cosa sarebbe stato della Brönte se avesse vissuto una vita come le altre e non si fosse isolata nel suo “locus amoenus”, il suo luogo ideale? Avrebbe vissuto la vita reale come un burattino nelle mani di una società perbenista, ove le donne erano relegate ad un’immagine di automa consenziente. E lo spirito? Il suo spirito, cosi vivido, passionale,burrascoso non poteva rimanere quieto, tacito come l’acqua che scorre cheta, la sua manifesta mancanza si racchiude in questo capolavoro.
Il protagonista della sua opera è la Nostalgia personificata nella brughiera di Wuthering Heights, i personaggi ruotano attorno a questa figura, vivono nel ricordo dei tempi passati: Heathcliff nel ricordo di Catherine, quest’ultima della sua infanzia, il tutto svoltosi alla Tempestosa.
A differenza dei suoi personaggi che sono vinti dai loro stessi sentimenti, Emily Brönte non tradisce sè stessa e ritorna là, vinta dal proprio cuore,tra i suoi splendidi paesaggi, la sua natura è mutata, ed è impetuosa come il vento del Nord. Ascotatelo, qualora soffi, non rinnegatevi i piaceri del passato. I ricordi ci accompagneranno per tutta la vita, che essia siano dolorosi o meno, a volte ci sembrerà di non poter vivere e di non saper vivere, di non saper essere al mondo, che questo non ci appartiene.Trasformate questo dolore, ritornate nei luoghi che non ritrovate, prendetevi il tempo di fare cio’ che amate, ricreate il ricordo, sorridete alla Nostalgia come ad una vecchia amica e cercate sentimenti nuovi, freschi, appena nati, trasformate la mancanza di un qualcosa in una nuova luce pronta a splendere.
rivolgo alle colline la nostra uguale preghiera
Alle colline ventose della terra e al mare blu del cielo
Non chiedo nient’altro quaggiù
Che il mio cuore e la libertà…
Emily BrontëPer Justin Vernon quello del 2006 non fu un inverno qualunque. Stava per terminare un anno complicato; appassionato di musica, aveva visto il suo gruppo sciogliersi e concludersi la relazione sentimentale con una ragazza.
Vernon non la prende bene; decide di ritirarsi nel capanno di suo padre, nei freddi boschi del Wisconsin. Le prime settimane le passa sostanzialmente cacciando e mangiando, ma poi qualcosa in lui scatta; era giunto il momento di affrontare i suoi ricordi, il suo passato E il solo modo che conosce per fare questo passa attraverso la musica.
Justin tira fuori dal bagagliaio dell’auto due chitarre e un registratore, mentre all’interno del capanno rispolvera la vecchia batteria di suo fratello, lasciata lì in un angolo. Non ha bisogno di altro.
In un paio di mesi di isolamento, scrive e registra le nove canzoni che andranno a comporre “For Emma, forever ago”. Sotto il nome del nuovo progetto Bon Iver (una storpiatura dal francese per dire “buon inverno”) il disco verrà pubblicato senza nessuna modifica, per non scalfire in alcun modo l’atmosfera sofferta catturata nel bosco Curiosamente Emma non è il nome dell’ultima fidanzata; Emma era la sua ragazza molti anni prima, quella che frequentava ai tempi del college. Justin guarda al passato con nostalgia, lo prende per mano e soprattutto prende per mano sé stesso. Difficile trovare un altro album cantato con la stessa intensità; quelle canzoni sono la sua vita, i ricordi brillano come dolori ancora vivi. Raccontandoli e cantandoli, Justin tenta di cauterizzare le ferite.
La sua scrittura viene da luoghi molto profondi all’interno dell’animo ed è per questo che ancora oggi, ogni ascolto di “For Emma, forever ago” è un colpo allo stomaco. La traccia conclusiva non è un lieto fine, perché la vita molto raramente ce ne riserva Semplicemente quelle ferite sono diventate cicatrici, e finalmente si può proseguire nel cammino. “Questo non è il suono di un uomo nuovo o una friabile consapevolezza è il suono di uno sblocco, per lasciarti andare e il tuo amore sarà al sicuro con me.” (versi tradotti da “re:stacks”)
L'autunno tempera le matite, è pronto a spargere i suoi doni, le totalità dei suoi colori.
Non è malinconico il canto del bosco, è un calare profondo nella grotta più buia dell'inconscio.
Il sole si veste di nubi, il caldo si piega al vento agitato, l'aria rinfresca la pelle di pioggia suadente
Nostalgia del passato, fiorisce l'autunno, adorna il capo di foglie cangianti, porta il cuore ad aspettare
Ho sognato parole perfette con cui raccontarmi, cornici in cui proferire acquerelli di parole tra gli sguardi, tra le pieghe delle mani strette negli anni parole; Dipingono, fuggono non mi lasciano il tempo di mostrarmi, che mi piegano all’inganno della retorica e alla bugia necessaria a difendermi. Ho sognato di essere muta nuda, stupenda senza dirti nulla e tu, non più giudice né approfittatore della mia autodeterminazione di spogliarmi completamente, delle parole davanti a te.
nel calore d'un maglione.
E guardo il cielo e quell'azzurro pastello mi spacca le iridi verdissime ogni volta che mi viene da pensarti.
Perché lo so che tu esisti...
E ci sei in tutti i miei attimi
In tutto quello che passa e mi sfiora leggero come quel vento che certi giorni odio ma oggi stranamente adoro.
Mi piace perché mi parla di te
È come se insieme a lui ci fossi anche tu con tutti quei tuoi innumerevoli particolari stravaganti che mi hanno fatto capire che sei così diverso e forse irraggiungibile a volte.
Tu mi ricordi il vento Soprattutto quando mi scompiglia i capelli, i battiti e la vita che vivo lontana da te...
Tu che hai il mare che fa con te quello che il cielo fa con me E non te l'ho mai detto di quanto mi piace chiamarle vibrazioni alchemiche dove dentro ci vedo io e te felici.
Nel buio, vedo i tuoi occhi posarsi su di me.
Nel silenzio, sento la tua voce chiamarmi.
Se ti sfioro, percepisco la tua anima.
Ti vedo e non ti vedo, ti sento e non ti sento, ti tocco e non ti tocco.
Sospesi in quello spazio in cui tutto è possibile.
I ricordi, pesantissime lapidi sparse lungo il deserto dell'ego.
Periranno le foglie, un tempo verdi e vivaci diverranno lo spettro di loro stesse.
Ho nostalgia delle tue rose bianche che prendevi a notte fonda, svuotavi le tue tasche solo per rendermi donna. Il cuscino adesso odora di vuoto, richiusa come un fiore di loto ricordo i petali che spargevi sul letto formando il mio nome, con il dovuto rispetto. La tua innocenza era bellezza la più innocua delle debolezze ne ho ancora il profumo sulle dita, mentre tu l'hai pagata con la vita. Angelo bianco la tua percezione sorveglia il fianco su cui mi addormento, per farmi sfuggire dal tormento. Un mazzo di rose bianche ora riposa sulla tua tomba, così che la loro eternità ti raggiunga come il volo di una colomba
Sento parlare di serie proprio quelle che ami tu e mi tornano in mente le tue parole quelle che mi facevano ridere e che ora portano nostalgia. Sento parlare di amicizia e mi giro ma non ci sei ti tengo dentro come portafoglio usato ormai vuoto, diventato ricordo.
Vorrei vivere il dolore come lo vive una farfalla.
Così poco tempo per volare per amare non c’è spazio per il male.
E se il volo dura un giorno quanto vale ogni secondo. (Yuri Ferrante)
Ho visto nuovi orizzonti, albe di sangue. Ho visto la paura e il furore delle battaglie. Ho visto la morte, e l’irriducibile speranza negli occhi di un infante. Ho visto una madre perdere un figlio in un istante.
Ho attraversato deserti, montagne di sabbia sferzate dal vento, ho provato compassione per un affaticato cammello. Ho contemplato templi, piramidi e musei. Ho ammirato la gloria delle antiche civiltà. Ho mangiato, riso, pregato e ringraziato santi e dei che non avrei mai immaginato.
Ho visto l’arida terra, la culla della vita. Ho visto Madre Natura e la sua bellezza infinita. Ho visto la preda e il predatore, la cruda legge dell’eterno vincitore.
Sotto al sole cocente ho marciato per giorni alla ricerca di me stesso o dell’intera umanità, che si è persa o si nasconde dietro un alto muro di indifferenza e falsa carità. L’ho trovata in un luogo remoto, in un anziano sciamano, in una giovane donna, in un bambino affamato. Ho visto bianchi sorrisi, colori nuovi e piedi nudi. Ho visto l’umiltà di dare senza chiedere qualcosa in cambio. Ho danzato tra le fiamme di un falò, fratello del mondo e figlio di un milione di astri. Ho visto le mie lacrime cadere sopra a un timido germoglio, gli insetti cibarsi di carogne e i più deboli abbandonarci Ho detto addio senza mai lasciare, proseguendo la mia marcia, continuando a cercare Ho salutato montagne, guadato torrenti, odiato zanzare e temuto serpenti Ho corso, saltato, ho sofferto la fatica e mi sono riposato, sotto a un grande albero verde, sotto la volta celeste. Sono fuggito per non divenire pasto, ho lottato per la mia vita senza mai dire basta.
Ho smarrito la via, e poi l’ho ritrovata. Ho raggiunto la mano dell’uomo nella natura incontaminata. Ho visitato città. Ho creduto al cambiamento, a un futuro più equo, all’opportunità di plasmare il proprio fato.
Ho vissuto il degrado, evitato i fucili. Ho visto la guerra tra i civili, in nome di Dio o di un nuovo leader, in nome del cambiamento e della morte. Ho trovato l’omertà per una falsa promessa.
Ho rabbrividito dinanzi agli insidiosi tentacoli del capitalismo, che infesta questi luoghi illudendo, sbeffeggiando, prendendosi gioco della povertà, assoluta e vera regina. Ho visto fast food, bevande gassate, palloni sgonfi e suole consumate. Ho visto i nomi dei grandi atleti sulle schiene impolverate.
Ho proseguito il mio viaggio, il cuore in tempesta. Il caos e il dubbio dentro la mia testa. Ho percorso strade dimenticate, accettato passaggi da sconosciuti su vecchie vetture. Nuove metropoli ho scorto all’orizzonte, palazzi, aeroporti, piscine. Ho incontrato italiani, inglesi, arabi e americani. Ho cenato su ampie terrazze con audaci imprenditori e avvenenti ragazze.
Ho goduto della mano dell’uomo, la stessa contro cui ho mosso accusa. Mi sono contraddetto, ho avuto rimorso, ma sono un essere umano e con le mie idee sarò sempre in contrasto.
Ho giaciuto tra setose lenzuola, oziato intere giornate. Ho bevuto Long Island fino a star male. Saune, massaggi e discoteche, ho inebriato i miei sensi, offuscato la mia coscienza. Ho assaggiato mille corpi. Uomini, donne, bianchi, neri e color del caramello. Ho fatto l’amore con il mondo e raggiunto l’orgasmo più intenso.
Ho stretto amicizie, mi sono invaghito. Ho appreso conoscenze, culture e tradizioni. Ho aperto la mia mente a nuove emozioni. Ho detto addio ancora una volta, lasciando un bacio, regalando un pensiero e stringendo molte mani. Nuove strade ho percorso, col mio ricco bagaglio di impressioni, e le mie gambe ho trascinato verso altre destinazioni.
Ho visto l’oceano. Ho visto l’oceano e mi sono prostrato dinanzi ai suoi flutti impetuosi. Dall’alto di imponenti scogliere mi sono arreso alla sua vastità, alla caparbietà della natura che ci sfida e ci ricorda che siamo solo di passaggio, ospiti indesiderati nella sua maestosa dimora. Mi sono arreso alla sua fierezza.
Ho affidato la mia sorte alle sue acque. Ho assistito alla sua collera e mi sono lasciato cullare dalle onde nelle notti più miti. Mi ha offerto albe, tramonti e chiarori di luna e io ho gioito di quella fortuna.
Ma navigando per leghe e scrutando le coste lontane, un forte senso di malinconia mi ha sopraffatto, e un lembo della mia anima ho sentito lacerarsi. Una parte di me è rimasta in quella terra.
Ho intrapreso questo viaggio senza alcuna certezza, motivato dal giovanile ardore e dalla voglia di scoperta. Ho accantonato le paure, le indecisioni e i pregiudizi. Ho fatto i conti con me stesso e con i miei vizi
Ho trovato una casa laddove non esisteva tetto, diviso il pane e condiviso un letto Ho trovato indigenza e carestia, sfarzo e allegria, avventura e nostalgia Ho trovato me stesso e ho capito di non aver capito nulla. Io ho trovato l’Africa e ora la porto con me.
Ho raccolto una margherita dai petali bianchi - perché Dio, come mai dovrebbe avere i petali una margherita? L’ho messa tra le pagine di un libro d’esame, uno di quelli che so che non farò, quelli che poi si trovano i riassunti online. Mi siedo su una panchina. Fa caldo.
Ci sono tante persone intorno a me, tutte radunate in gruppi folti e sorridenti. Io non sono in nessuno di questi. E come potrei esserlo?
Come potrebbe la margherita avere petali diversi dai bianchi? Forse stracciata, messa a forza in un libro, forse così. Quel libro che sa che non verrà aperto mai.
Ma non è colpa mia, lo so. Non è colpa mia se in quei gruppi ridenti nessuno vuole che io ci stia.
Da quando sono bambina sto sempre seduta da sola: una volta era perché i capelli erano troppo corti e sembravo un maschio, un’altra perché avevo il raffreddore e mi colava muco dal naso. Facevo schifo, lo sapevo, ma ne ero consapevole: non avrebbe forse migliorato le cose, l’essere consapevole?
Così come alle medie faceva schifo l’apparecchio ai denti, e facevano schifo pure i miei denti dopo averlo tolto, ma nel sensazionalismo catastrofico urlavo sempre a tutti che quello era un problema, che non ci potevo fare niente, che dovevano smetterla di essere tutti cattivi con me. Mi aveva detto questo l’insegnante, e mia madre, e la psicologa: che tutti erano cattivi con me.
E questa era la mia catastrofe. Amavo la catastrofe, la veneravo. La sentivo scorrere tra le vene intrecciate sui nervi, fluiva, si sovrapponeva ai giorni che cambiavano i vestiti rendendomi più alta, più magra, più bella… ed era tutto grazie alla catastrofe. Lo raccontavo ai miei amici. Loro ne ridevano perché erano cattivi. Aspettavano che voltassi le spalle per fare facce strane; erano poi i presenti a dirmelo. E puntualmente mi innamoravo di loro, ogni volta affidavo le mie dita a quei celebri “presenti”, senza immaginare che l’avrebbero fatto con tutti, che il male non si sradica con un sorriso gentile, che non avevano tradito gli altri per me perché semplicemente avrebbero tradito chiunque. Anche me. E lo fecero, eccome se lo fecero. Ci stavo pure male, perché nelle loro storie io ero tutta sbagliata, e mi sentivo di nuovo in quel taglio di capelli corto, nel muco che cola dal naso per cui non posso farci niente, e non potevo farci niente nemmeno allora.
Una ragazza mi si avvicina. “Che bella margherita che hai colto, vuoi farci ‘m’ama non m’ama’?”
È bella, molto. Ha i capelli corti come la me delle elementari ma li porta bene, su di lei hanno senso. Ha gli occhiali da sole e una borsa di tela. Sta da sola pure lei e mi sorride. Io no.
“Vai via”, le intimo, perché so che è cattiva. Perché lo sono tutti.
E mentre la guardo allontanarsi con l’aria un po’ confusa, metto la margherita tra i capelli e per l’ennesima volta non ho nessuno a cui mostrarlo. Per l’ennesima volta, so che non è colpa mia.
Come potrebbe una margherita non avere i petali bianchi?