Lankavatara sutra

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IL

LA˙ KÅVATÅRA SÛTRA Traduzione e commento di

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Come un’immagine in uno specchio, un riflesso nell’acqua, un’ombra sul muro, un’eco nella valle... Per il Buddha il mondo che crediamo reale è solo una percezione della nostra mente. In questo s∑tra ci insegna a raggiungere la quiete interiore liberandoci da tutte le immagini che la mente proietta.

Ubaldini Editore - Roma



Civiltà dell’Oriente


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Titolo originale dell’opera T HE L AN K AVATAR A S UT RA

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Traduzione di L $*$+ A ,-!.($

© 2012, Red Pine (Bill Porter) © 2013, Casa Editrice Astrolabio - Ubaldini Editore, Roma www.astrolabio-ubaldini.com


IL

LA ˙ K ÅVAT Å RA SÛTRA Traduzione e commento di

Red Pine

Ubaldini Editore-Roma



Prefazione del traduttore Lo zen fa risalire le sue origini al giorno in cui, intorno al 400 a. C., il Buddha sollevò un fiore e il monaco Kå!yapa sorrise. Da allora questo insegnamento, il più semplice eppure il più profondo mai impartito, è stato tramandato da una generazione all’altra. Per lo meno tale è la storia apparsa la prima volta mille anni dopo, ma in Cina, non in India. Evidentemente lo zen era troppo semplice per farsi notare nella sua terra d’origine, dove passò inosservato. Soltanto nove secoli dopo, quando un monaco di nome Bodhidharma lo portò nel Regno di Mezzo, lo zen trovò infine il suo asilo. Questo ‘barbaro barbuto’, che divenne il primo patriarca zen della Cina, lasciò poche tracce storiche in più del sorriso di Kå!yapa: appare in una breve nota biografica del suo discepolo, T’an-lin (506-574), e in una biografia più ampia di Tao-hsüan (596-667) nel suo Hsukaosengchuan. Ma l’evento che interessa tanto gli storici quanto gli agiografi accadde nel 534, o intorno a quella data, quando Bodhidharma scelse Huik’o come proprio successore e gli consegnò una copia del La¥kåvatåra s∑tra. Bodhidharma gli disse che tutto quello che doveva sapere era in quel libro, e da allora lo zen e il La¥kå furono legati tra loro, seppure già non lo erano in India. Il titolo del libro che conteneva tutto quello che Hui-k’o aveva bisogno di sapere è una combinazione delle parole sanscrite La¥kå e avatåra. Per i commentatori cinesi, la¥kå significa ‘irraggiungibile’. Forse è così, ma non so su cosa si basino per affermarlo. L’unica definizione che ho trovato dice che la parola si riferisce all’isola che oggi chiamiamo ‡r¤ La¥kå o alla sua città principale. Forse il nome deriva dalle radici lankh o lang, che significano rispettivamente ‘andare a’ e ‘andare oltre’. Se questo fosse vero, si tratterebbe di un posto ‘raggiungibile’. E secondo le cronache buddhiste lo fu davvero, perché il Buddha si recò tre volte a La¥kå, in una di tali occasioni proprio per trasmettere l’insegnamento del s∑tra. Le cronache, comunque, sono state redatte alcuni secoli dopo le visite del Buddha. La prima apparizione documentata del buddhismo nell’isola risale a circa centocinquanta anni dopo il nirvå∫a del Buddha, quando Mahinda, figlio del re A!oka, diffuse il Dharma tra gli abitanti dell’isola (intorno al 250 a. C.). Avatåra, nella seconda parte del titolo, significa ‘posarsi’ o ‘discendere’ e di solito viene usato in riferimento all’apparizione di una divinità in terra, da cui il termine avatår. Si potrebbe quindi tradurre il titolo con Apparizione a La¥kå, in riferimento alla presunta visita del Buddha nell’isola. Poiché il s∑tra apparve per la prima volta in Cina sotto forma di testo sanscrito all’inizio del quinto secolo, fu probabilmente redatto in India nell’arco di dieci o venti anni intorno alla metà del secolo precedente. I primi due monaci


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a portare copie sanscrite in Cina provenivano da quella che era allora nota come India centrale (il bacino idrografico del Gange in Uttar Pradesh), e quindi questo è il suo probabile luogo d’origine. Inoltre, diversamente da altri s∑tra mahåyåna, scritti nel sanscrito ibrido buddhista, il La¥kåvatåra era scritto in sanscrito classico, la lingua dei brahmani e della corte. E alla metà del quarto secolo la corte si trovava nella città dell’India centrale di Patna, sulle rive del Gange. Era la corte di Samudragupta il Grande (r. 335-375). Samudragupta era un hindu devoto, ma rispettava anche le altre tradizioni religiose e una volta permise al re Meghavarna, sovrano di La¥kå, di costruire un monastero buddhista a Bodh Gayå, il luogo dove il Buddha raggiunse l’illuminazione. Forse è stato questo evento a ispirare il nostro autore ad ambientare il testo nell’isola, e forse ha composto la sua opera con la speranza che arrivasse alle orecchie o sotto gli occhi di questo cakravartin, o monarca universale, come spesso usava definirsi Samudragupta. L’autore del La¥kå si riferisce diverse volte al sovrano che, oltre a distinguersi per valore militare, era anche un abile musicista, e la descrizione dettagliata dei modi melodici all’inizio del primo capitolo del s∑tra deve essere stata scritta pensando a qualcuno in particolare. Un’altra possibilità circa il luogo d’origine del s∑tra potrebbe essere proprio l’isola di La¥kå o le immediate vicinanze sulla terraferma indiana. Anche se negli ultimi mille anni vi ha dominato la forma di buddhismo theravåda, nel periodo precedente è stata la roccaforte della scuola yogåcåra. E il s∑tra è chiaramente rivolto a un pubblico che ben conosce i concetti formativi di questa scuola di buddhismo. Ma il carattere distintivo del La¥kå è che, trascendendo gli insegnamenti del primo Yogåcåra, indica al lettore la sua stessa mente. Puntare dritto alla mente era ed è ancora la caratteristica della scuola zen. E l’uomo che portò lo zen in Cina viveva poco a nord di La¥kå, vicino al porto di Kanchipuram. Certo, gli studiosi per lo più dubitano che lo zen sia mai esistito in India, e di conseguenza vedono in Bodhidharma un’invenzione degli agiografi cinesi. Sostengono che lo zen abbia avuto origine in Cina, dove è apparso nel sesto e settimo secolo, e dove si è poi inventato un’origine indiana e la figura di Bodhidharma per darsi una legittimità storica. Questo argomento ha dato vita a molti dibattiti, a cui non ho nulla di positivo da aggiungere, salvo una domanda: se lo zen è nato in Cina, da dove arriva questo testo? Se mai vi è stato un s∑tra che esprimesse l’insegnamento basilare dello zen, è questo. È instancabile nella sua insistenza sul primato della realizzazione personale e a tale riguardo è diverso da tutti gli altri insegnamenti attribuiti al Buddha. Il precedente traduttore del La¥kåvatåra, D. T. Suzuki, dice così: “Il motivo per cui Bodhidharma ha consegnato questo s∑tra a Hui-k’o sostenendo che racchiudeva l’essenza del buddhismo zen va ricercato in questo: il ritornello costante del La¥kåvatåra è l’importanza assoluta della percezione interiore (pratyåtmagati) o dell’autorealizzazione (svasiddhånta)” (Studies in the La¥kåvatåra S∑tra, p. 102). E questo è indubbiamente il ritornello costante del s∑tra. Ma non parla solo di zen; è fermamente radicato anche in quello che diventerà noto in seguito


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come buddhismo yogåcåra. Si concentra inoltre sul sentiero del bodhisattva, che domina tuttora il buddhismo mahåyåna. E questo ben lontano dai tradizionali scenari dei discorsi mahåyåna, nella distante isola di La¥kå, dove il s∑tra inizia con il Buddha che istruisce nel Dharma uno dei re serpenti dell’antica India. Quando il Buddha riappare dal regno acquatico del re serpente, Råva∫a, sovrano di La¥kå, lo invita nella vicina capitale sperando di ascoltare un discorso simile. Il Buddha acconsente e istruisce il re sulla natura illusoria di ciò che i buddhisti chiamano i dharma, tutte le cose che crediamo reali, siano esse tangibili, intangibili o soltanto immaginate. Dopo il capitolo introduttivo, nell’assemblea dei bodhisattva prende la parola Mahåmati e martella il Buddha di domande, alle quali il Buddha risponde dicendogli che i termini stessi in cui le domande sono poste sono proiezioni della sua immaginazione e di quella degli altri bodhisattva e pertanto equivalgono a castelli in aria. Cioè, nello spirito del testo, un’affermazione sui castelli in aria diventa un’affermazione sui non castelli in aria. Mentre il S∑tra del diamante insegna il distacco dai dharma, e il S∑tra del cuore predica la loro vacuità, il La¥kåvatåra insegna la non proiezione dei dharma: se fin dall’inizio non li proiettassimo come esistenti o non esistenti, non vi sarebbe in seguito alcun dharma da considerare vuoto o da cui distaccarsi. Il Buddha dice a Mahåmati: “Poiché le diverse proiezioni della loro mente appaiono alle persone come oggetti, le persone si attaccano all’esistenza delle proprie proiezioni”. Come possono liberarsi da tali attaccamenti? Il Buddha prosegue: “Comprendendo che le proprie proiezioni non sono altro che mente. Così potranno veramente trasformare il proprio corpo e la propria mente e vedere infine chiaramente tutti gli stadi e i regni di autoconsapevolezza dei tathågata e trascendere i concetti e le proiezioni in merito ai cinque dharma e alle modalità della realtà” (secondo capitolo, sezione / ) $* ). Dopo aver proclamato la natura illusoria delle proiezioni, comprese le categorie yogåcåra dei cinque dharma e delle tre modalità della realtà, il Buddha indica a Mahåmati la loro origine, ovvero la coscienza stessa. Prosegue spiegando come opera la coscienza e come la liberazione consista nel comprendere che la coscienza è un’invenzione autoprodotta, un’ennesima illusione, e come i bodhisattva trasformino la loro coscienza nel tathågata-garbha (il grembo da cui nascono i buddha), che è privo di proiezioni. Non tutti sono preparati ad ascoltare un simile insegnamento. Mahåmati continua a porre domande e il Buddha risponde puntualmente, ma sempre in maniera tale da riportare il discepolo ai due insegnamenti che permeano il s∑tra: il ‘niente altro che la mente’ dello Yogåcåra e l’‘autorealizzazione’ dello zen. Mentre il Buddha conduce Mahåmati attraverso le categorie concettuali del buddhismo mahåyåna e di altri sentieri spirituali, gli spiega che anch’esse sono creazioni della mente e che per raggiungere la terra dei buddha è necessario trascendere tutti gli scenari illusori, compreso quello del tathågata-garbha. Riassumendo il processo con cui i praticanti seguono tale insegnamento, il Buddha dice: “Chi comprende che la forza d’abitudine delle proiezioni dal passato sen-


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za inizio è la causa dei tre regni, e comprende che lo stadio del tathågata è privo di proiezioni o di altre formazioni, raggiunge la realizzazione personale della conoscenza di buddha e il naturale dominio sulla propria mente” (secondo capitolo, sezione *$ $ $ ). Il s∑tra intreccia così le due trame dello Yogåcåra e dello zen, insieme a concetti tipici del Mahåyåna, come quello del sé privo di sé del tathågata-garbha, per circa trecento pagine, la maggior parte in prosa e con riassunti occasionali in versi. È stato a lungo riverito come uno dei sei testi sacri del buddhismo yogåcåra, ma è anche la scrittura su cui facevano affidamento i primi maestri zen cinesi per l’insegnamento. Se esso sia o no la creazione di maestri zen indiani è un punto controverso, poiché né il La¥kå né lo zen sono documentati storicamente prima della loro comparsa in Cina nel quinto secolo. Il s∑tra apparve per primo. Giunse nel bagaglio del monaco Dharmakßema, originario dell’India centrale, che arrivò nell’oasi di Tunhuang lungo la via delle seta nel 414, o un anno o due prima, e imparò velocemente il cinese, qui o in qualche altra oasi in cui fece tappa durante il viaggio verso la Cina. Poco dopo essersi stabilito a Tunhuang, iniziò a lavorare su una traduzione del Nirvå∫a s∑tra e presto si fece una reputazione di buon traduttore. Oltre che per le doti linguistiche, era noto per le sue capacità nel campo della profezia e della magia. E quando Tunhuang fu conquistata dal vicino regno dei Liang Settentrionali nel 420, Dharmakßema fu invitato dal re a servire come consigliere e a continuare il lavoro di traduzione nella capitale di Kutsang (oggi Wuwei) dei Liang Settentrionali, a circa ottocento chilometri a sud-est dell’oasi. La magia e la profezia erano le principali ragioni per cui i potenti finanziavano le traduzioni dei s∑tra: i poteri magici associati ai s∑tra e ai mantra avevano applicazioni militari. Nei successivi dodici anni Dharmakßema si distinse come consigliere e come traduttore. Quando la fama del monaco si diffuse, il sovrano degli Wei Settentrionali lo invitò nella propria capitale di Pingcheng (oggi Tatung). Sebbene Pingcheng si trovasse a milletrecento chilometri a est, separata da grandi deserti, la sopravvivenza dei Liang Settentrionali dipendeva dalle buone relazioni con il vicino tanto più grande e potente, e il sovrano non aveva altra scelta che soddisfare la richiesta. Comunque, il patrono di Dharmakßema temeva che il suo monaco consigliere potesse rivelare segreti di stato o usare i poteri magici contro di lui, e poco dopo la sua partenza da Kutsang lo fece uccidere. Se è certo che il monaco venne assassinato nel 433, secondo un’altra versione fu ucciso non mentre viaggiava verso est, diretto alla capitale degli Wei Settentrionali, ma mentre viaggiava verso ovest, per raggiungere il regno di Khotan sulla via della seta, in cerca di una copia più completa del Nirvå∫a s∑tra. Il re dei Liang Settentrionali, venuto a sapere che il suo consigliere aveva segretamente trasmesso pratiche sessuali a componenti dell’harem reale, si adirò tanto che lo fece uccidere. Naturalmente questa versione gioca a favore del sovrano dei Liang Settentrionali, e fu probabilmente inventata per giustificare il suo tradimento. Ma non funzionò, perché presto gli Wei Settentrionali misero fine ai Liang Settentrionali. Comunque siano andate le cose, tra i testi


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lasciati da Dharmakßema c’era la prima traduzione conosciuta del La¥kåvatåra. La traduzione era ancora esistente più di duecento anni dopo, come attesta un catalogo del Canone buddhista compilato da Tao-hsüan nel 664, ma non figura più nel catalogo successivo redatto nel 730. E se ne sono perse le tracce. I s∑tra spesso avevano tale sorte, specialmente quelli che, come il La¥kåvatåra, richiedevano un maestro che ne svelasse il significato. Venivano tradotti per ordine dei sovrani o su richiesta di ricchi patroni, e una volta completate le traduzioni, se ne facevano copie che venivano distribuite nei maggiori monasteri buddhisti del paese. Ma spesso andavano a finire, non letti, nelle biblioteche dei monasteri. Questo fu il destino di centinaia di s∑tra tradotti all’epoca. Un traduttore era fortunato se metà dei suoi testi venivano usati veramente dai praticanti, o per lo meno mantenuti in circolazione. A Dharmakßema andò meglio che alla maggior parte dei traduttori: più della metà dei lavori a lui attribuiti, una ventina, sono sopravvissuti. La seconda traduzione del La¥kåvatåra fu più fortunata. Fu opera di Gu∫a-


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bhadra, un altro monaco originario dell’India centrale, che a differenza di Dharmakßema viaggiò per mare. Nel 435, due anni dopo l’assassinio di Dharmakßema, Gu∫abhadra arrivò al porto meridionale di Nanhai (Kuangchou), dove sembra fosse atteso. Appena giunse in Cina fu invitato dal sovrano del regno dei Liu Sung nella capitale Chienkang (Nanchino). E raggiunta Chienkang, Gu∫abhadra visse nella città o nei suoi dintorni per i successivi trent’anni, circondato, si dice, da settecento assistenti. Una delle sue residenze fu il monastero Chihuan a Tanyang, dove completò la traduzione del La¥kåvatåra nel 443. Al momento della sua morte nel 468, venivano attribuite a Gu∫abhadra cinquanta traduzioni oltre al La¥kåvatåra, tra cui il Saædhinirmocana s∑tra, il testo più antico a noi noto del buddhismo yogåcåra. Grazie all’importanza del s∑tra da lui tradotto, duecento anni dopo la scuola settentrionale dello zen attribuì a Gu∫abhadra il merito di aver portato lo zen in Cina, anche se non sappiamo se abbia mai tenuto discorsi sul La¥kåvatåra o sia stato esperto di zen. Così a metà del quinto secolo in Cina erano disponibili due traduzioni, ma ancora non ci sono prove che il s∑tra fosse insegnato o studiato e non abbiamo traccia dello zen fino alla comparsa di un altro monaco. Il suo nome era Bodhidharma. Proveniva dall’India meridionale e anche lui arrivò per mare. Non sappiamo esattamente quando, ma la biografia di Tao-hsüan dice che giunse a Nanhai prima del 479. Una volta in Cina, anche lui si diresse a nord, ma tenne un profilo tanto basso che non sappiamo nulla della sua vita, a parte qualche riferimento agiografico aggiunto secoli dopo, fin quando non lo ritroviamo in una grotta vicino al monastero di Shaolin. Forse lungo la strada si recò a Chienkang, dove venne a conoscenza della traduzione di Gu∫abhadra del La¥kåvatåra, magari riuscendo a conoscere il traduttore di persona. Ma, a prescindere dai suoi pellegrinaggi, si stabilì infine sulla montagna sacra di Sungshan, a circa sessantacinque chilometri a sud-est di Loyang. La grotta dove si dice abbia meditato per nove anni è ancora lì, sul monte alle spalle di Shaolin. Secondo la tradizione, è qui che Bodhidharma trasmise a Hui-k’o l’insegnamento dello zen e una copia della traduzione del La¥kåvatåra di Gu∫abhadra. È curioso che proprio a Loyang, e circa nella stessa epoca, fu fatta una terza traduzione del La¥kåvatåra. Da quando gli Wei Settentrionali avevano spostato la capitale da Pingcheng a Loyang nel 494, questa era diventata il più grande centro urbano della Cina settentrionale, con mezzo milione di abitanti, e vi risiedevano migliaia di monaci stranieri. Tra questi c’era un monaco proveniente dall’India settentrionale chiamato Bodhiruci, giunto nel 508 seguendo la via della seta. Bodhiruci lavorava come traduttore presso il monastero di Yungning e fu lì che completò nel 513 la sua versione del La¥kåvatåra. Un resoconto dei templi buddhisti di Loyang pubblicato nel 547 da Yang Hsuan-chih riporta che un monaco indiano di nome Dharma (presumibilmente Bodhidharma) diceva di non aver mai visto nulla altrettanto imponente della pagoda alta più di novanta metri di questo tempio, costruita nel 516 e rasa al suolo dal fuoco nel 534.


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Anche se Dharma e Bodhidharma non fossero la stessa persona, sarebbe strano se durante questi anni i due monaci non si fossero conosciuti. Si dice che Bodhiruci e Bodhidharma siano morti a Loyang a distanza di uno o due anni (rispettivamente nel 534 circa e nel 536), durante il caos che accompagnò la divisione degli Wei Settentrionali nei due stati degli Wei Occidentali e Orientali. Alcuni resoconti sostengono addirittura che Bodhidharma morì a causa del veleno somministratogli dai discepoli di Bodhiruci invidiosi. Anche se molto probabilmente Bodhidharma conosceva la traduzione del La¥kå di Bodhiruci (e forse quella di Dharmakßema), è chiaro che preferiva, come i primi patriarchi zen, la versione di Gu∫abhadra. Questo è il testo che consegnò al suo successore Hui-k’o, che lo trasmise a sua volta a Seng-ts’an, e così via. Quindi l’insegnamento dello zen e l’uso della traduzione di Gu∫abhadra del La¥kåvatåra nella sua trasmissione ebbero entrambi inizio nell’area di Loyang nella prima metà del sesto secolo. Ma Bodhidharma e Hui-k’o non furono gli unici a usare il La¥kå. Tra i cinquecento monaci le cui biografie sono raccolte nel Hsukaosengchuan di Tao-hsuan, quasi una decina scrissero commenti o tennero lezioni sul La¥kå nella seconda metà del sesto secolo o nella prima metà del settimo. Anche se nessuno di questi antichi commenti è giunto sino a noi, la menzione della loro esistenza conferma l’importanza del La¥kå tra alcuni praticanti. E vorrei insistere su ‘alcuni praticanti’. Il La¥kå non è un testo che si presta a una lettura superficiale. La comprensione del suo insegnamento richiede un maestro, o un karma eccezionalmente buono. E un maestro o un karma simili sono sempre stati rari. In alcuni periodi il La¥kå ha raggiunto un certo grado di popolarità, ma non è stato mai un testo con un grande pubblico: ricco di fama sì, ma non ricco di lettori. Nella prima metà del settimo secolo assistiamo anche a una transizione nell’uso del La¥kå da parte dei primi maestri zen. Bodhidharma ebbe un piccolo gruppo di discepoli, come pure il secondo patriarca Hui-k’o e il terzo patriarca Seng-ts’an. Il quarto patriarca Tao-hsin (m. 651) ebbe invece più di cinquecento discepoli, e il quinto patriarca Hung-jen (m. 675) oltre mille. La fondazione dei primi monasteri zen in Cina fu la causa di questo improvvisa fioritura. Fino al settimo secolo la trasmissione dello zen era basata su un rapporto personale tra il maestro e un piccolo gruppo di discepoli. Non sorprende quindi che lo zen rimase a lungo una tradizione nascosta. In questo scenario un testo come il La¥kåvatåra poteva dare il meglio di sé. Ma con l’istituzione di comunità su grande scala, i maestri zen cercarono qualcosa di più adatto a un pubblico ampio con diversi gradi di comprensione. Trovarono nel S∑tra del diamante il loro testo. Questo fu il s∑tra che il quinto patriarca trasmise a un analfabeta che aveva l’incarico di pestare il riso nella cucina del monastero (così ci è stato tramandato), che divenne il sesto patriarca nel 672. Paradossalmente la trasmissione ebbe come sfondo il La¥kåvatåra: il patriarcato e la futura direzione dello zen furono decisi dopo che Shen-hsiu e Hui-neng, i due pretendenti al ruolo di successore del quinto patriarca, ebbero scritto i loro versi sul muro del monastero che doveva essere decorato con alcune scene


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tratte dal La¥kå. I lettori interessati potranno trovare la storia dell’evento, inventato o no, narrata in dettaglio all’inizio del S∑tra della piattaforma. Anche se il S∑tra del diamante rimpiazzò il La¥kåvatåra nel rendere l’insegnamento dello zen accessibile a un pubblico più vasto, il La¥kåvatåra continuò ad attrarre coloro che apprezzavano la sfida e la ricompensa offerte da un testo più difficile, come ad esempio Shen-hsiu, il perdente nella competizione poetica che fece di Hui-neng il sesto patriarca. Shen-hsiu fu un grande ammiratore del La¥kå, tanto che chiese di essere sepolto sotto una collinetta a cui aveva dato il nome di Monte La¥kå, dove il suo corpo riposa dal 706, anno della sua morte. E non fu il solo a essere interessato al s∑tra. Nel 698 l’imperatrice Wu Tse-t’ien chiese a un monaco originario del regno di Khotan di fare una nuova traduzione del La¥kå a lei accessibile. Il monaco, di nome ‡ikßånanda, preparò una prima stesura. Ma quando l’ebbe terminata chiese e ottenne il permesso di tornare in patria, e il compito di rivedere la traduzione toccò a Mi-t’uo-shan, un monaco del regno di Tokhara, con l’assistenza dei monaci cinesi Fu-li e Fa-tsang. La traduzione fu terminata nel 704 e poco dopo Fa-tsang scrisse un commento sul s∑tra. Anche se è solo un riassunto che occupa appena otto pagine nel canone Taishø (volume 39), questo commento contiene alcune informazioni interessanti. Per esempio, Fa-tsang dice che lui e i suoi collaboratori avevano cinque copie sanscrite su cui lavorare. Inoltre osserva che nel regno di Khotan, da cui proveniva ‡ikßånanda, si diceva esistessero versioni molto più estese del La¥kåvatåra, una di oltre centomila e un’altra di trentaseimila stanze, in confronto alla versione di poco più di mille stanze da lui tradotta. Certo, simili affermazioni sono state fatte su altri s∑tra, di cui non sono mai state ritrovate versioni tanto epiche. Ma anche se questo è solo il resoconto di una fantasia, suggerisce che il La¥kå era tanto stimato, in India o lungo la via della seta, da essere copiato più volte e fatto circolare, e infine da essere incluso in quel pantheon di scritture troppo meravigliose per occhi umani, ma non per l’umana immaginazione. Un saggio scritto nel 708 da un monaco di nome Ching-chüeh con il titolo Leng-ch’ieh-shih-tz’u-chi (“Raccolta dei maestri del La¥kå”) rappresenta un altro elemento interessante. Elenca i primi patriarchi zen iniziando da Gu∫abhadra, seguito da Bodhidharma, Hui-k’o, Seng-Ts’an, Tao-hsin, Hungjen e poi Shen-hsiu e altri discepoli di Hung-jen al posto di Hui-neng. Era il lignaggio di quella che divenne nota come la scuola settentrionale dello zen, che non riconobbe la scelta di Hui-neng come sesto patriarca, al posto di Shenhsiu. Pur se il resoconto di Ching-chüeh, discepolo di Shen-hsiu, è in un certo senso di parte, è degno di nota che il saggio onori Gu∫abhadra come il fondatore dell’insegnamento zen in Cina grazie alla sua traduzione del La¥kå. Anche la tradizione dei commenti riflette questa considerazione per Gu∫abhadra. Scrivendo sul La¥kåvatåra, tutti i commentatori si sono basati invariabilmente sulla sua versione del testo, malgrado il cinese più accessibile della traduzione di ‡ikßånanda. Purtroppo nessun commento antico ci è giunto, a parte qualche citazione riportata in commenti più recenti. Fanno


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eccezione tre pagine attribuite (a torto, secondo la maggior parte degli studiosi) ad Åryadeva, che criticano le dottrine h¤nayåna del La¥kå, un riassunto di otto pagine di Fa-tsang e alcune parti di un commento più lungo, opera di un contemporaneo di Fa-tsang originario del Khotan. I commenti giunti a noi intatti risalgono a quasi seicento anni dopo. Oggi abbiamo la fortuna di poter scegliere tra più di venti commenti, che però si basano tutti sulla traduzione di Gu∫abhadra. Come ho accennato, il La¥kåvatåra può sembrare inaccessibile e certamente la traduzione di Gu∫abhadra non è invitante. In una prefazione di Su Tung-p’o scritta nel 1085 per una nuova edizione della traduzione di Gu∫abhadra, il più famoso poeta cinese dei suoi tempi disse: “Il significato del La¥kåvatåra è così sottile e ingannevole e il suo linguaggio così scarno e antiquato che il lettore spesso non è in grado di leggerlo, e ancor meno di cogliere il significato che sta oltre le parole o di arrivare, oltre il significato, al suo cuore”. Quel che lo rende così difficile alla lettura è che Gu∫abhadra, pur traducendo il testo in cinese, temeva evidentemente di poterne falsare il significato e spesso decise di mantenere l’ordine delle parole sanscrito, rendendo così quei passi quasi incomprensibili. Eppure questa è la versione su cui si basano tutti i commenti, ed è quella che ho scelto di tradurre. Non sono sicuro di come i traduttori precedenti siano arrivati a comprendere il testo; senza dubbio hanno fatto come me, cioè hanno messo a confronto la traduzione di Gu∫abhadra con quelle di Bodhiruci e di ‡ikßånanda e, se possibile, con il testo sanscrito. Quando Suzuki tradusse il La¥kåvatåra in inglese, ottanta anni fa, decise di fare l’esatto contrario, basandosi sulla recensione del testo sanscrito messa a punto da Bunyi∑ Nanjio nel 1923. In quanto recensione, era un miscuglio tratto da una mezza dozzina di copie risalenti tutt’al più al diciottesimo e diciannovesimo secolo, con centinaia di errori. Si direbbe quasi che tali copie non fossero destinate alla lettura, ma fossero state fatte per acquisire meriti e fossero basate a loro volta su copie simili. Suzuki era consapevole della natura problematica della recensione sanscrita di Nanjio, ma era convinto che l’avrebbe portato più vicino all’originale. E quando non riusciva a capire il sanscrito si aiutava con il cinese di ‡ikßånanda, meno spesso con la versione di Bodhiruci e quasi mai con quella di Gu∫abhadra. Purtroppo il testo sanscrito oggi a nostra disposizione non è migliore. Nel 1963 lo studioso indiano P. L. Vaidya preparò una seconda recensione, che si discostava solo marginalmente da quella di Nanjio, se non altro perché si basava sulle stesse copie difettose. Più recentemente lo studioso giapponese Gishin Tokiwa ha presentato un testo sanscrito del tutto nuovo, ma non si tratta di una nuova recensione né si basa su copie in sanscrito appena scoperte, bensì è il risultato della ritraduzione del testo cinese di Gu∫abhadra in sanscrito. Vorrei ricordare che esistono anche due traduzioni tibetane. Una di esse si deve a Chos-grub, intorno al 840 d. C., ma anche questa è una traduzione del testo cinese di Gu∫abhadra. La seconda, di data e autore incerti, si basa a quanto mi è stato detto essenzialmente sullo stesso testo sanscrito che abbiamo oggi.


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Nel decidere quale testo usare per la mia traduzione, non avevo davvero alcuna scelta. Non conosco affatto il tibetano, e la mia conoscenza del sanscrito è appena sufficiente per consultare i dizionari e seguire le traduzioni di altri. Forse avrei potuto scopiazzare Suzuki e cercare di migliorare il suo lavoro, ma non ci vedevo nessun vantaggio, e sicuramente nessuno stimolo. Così mi sono rivolto al cinese; sentendomi un po’ come Riccioli d’oro, sono arrivato alla conclusione che la traduzione di Bodhiruci era troppo piena di glosse e digressioni, e quella di ‡ikßånanda, malgrado fosse più o meno leggibile, soffriva di eccessive semplificazioni. Ho quindi ritenuto che la traduzione di Gu∫abhadra, pur con la sua sintassi insolita, era l’Orso che faceva al caso mio. Anche se trovare il senso del s∑tra è stato impegnativo, con mia grande sorpresa è diventato chiaro dopo aver scoperto i due fili che lo tengono insieme. Fondamentalmente l’insegnamento del La¥kåvatåra è simile all’approccio usato dai maestri zen successivi, che offrivano al discepolo una tazza di tè e gli chiedevano di assaggiarlo. La tazza di tè è qui l’insegnamento del Buddha che fa risalire l’universo della nostra consapevolezza, fisica o metafisica, alla mente. Questa è la tazza di tè nella quale viene servito il s∑tra. Il Buddha esprime questo insegnamento descrivendo il mondo che crediamo reale come sva-citta-d®#ya-måtra: ‘nient’altro che le percezioni della nostra stessa mente’. Con questo non intende dire che la mente vede o che qualcosa è visto dalla mente, perché qualsiasi soggetto o oggetto non sarebbe altro che un’ulteriore proiezione della mente. Vuol dire semplicemente che qualsiasi cosa vediamo, pensiamo o sentiamo è la nostra stessa mente, e questa, ovviamente, è una tautologia. & è uguale ad & . Ma quale insegnamento buddhista d’altronde non è una tautologia? Dopo averci messo in mano questa tazza di tè, il Buddha ci chiede di assaggiarlo, di sperimentare la tautologia di persona. Per questo ricorre all’espressione pratyåtma gati: ‘autorealizzazione personale/interiore’, oppure definisce tale realizzazione sva-pratyåtma årya-jñåna: ‘autorealizzazione della conoscenza di buddha’. Suzuki non manca di notare l’importanza di questo insegnamento, ripetuto più volte con queste o simili parole, e dice: “Il La¥kåvatåra è giunto alla comprensione che l’intera vita buddhista non consiste unicamente nel percepire la verità, ma nel viverla e farne esperienza” (Studies in the La¥kåvatåra S∑tra, p. 105). Naturalmente il La¥kå non si limita a queste due frasi, ma se le tenete a mente non sarete distratti dalle attrazioni della casa da tè del Buddha. Scritto in un linguaggio che sarebbe in seguito diventato specifico della scuola buddhista yogåcåra, il La¥kå presenta una visione del modo di operare della mente e del sentiero dell’illuminazione, ma usa tali strumenti solo per catturare la nostra attenzione. Non sono l’insegnamento. Pensate al La¥kåvatåra come a un tè zen dentro una tazza yogåcåra. Il buddhismo si occupa della sofferenza, il risultato inevitabile del desiderio. Ma il problema è il sé, che è la causa del desiderio, causa a sua volta della sofferenza. Nei secoli successivi al nirvå∫a del Buddha l’insegnamento si polarizzò


Prefazione del traduttore 17

su un trio di concetti concepiti per concentrare l’attenzione al fine di rendere evidente l’inesistenza del sé, e ottenere così la liberazione dalla sofferenza. Tali concetti includono i cinque skandha (forma, sensazione, percezione, memoria e coscienza), i dodici åyatana (i sei poteri e i sei domini dei sensi), e i diciotto dhåtu (gli åyatana più le sei forme di coscienza). Sono tre immagini di una cosa sola: la nostra mente. Sono semplicemente modi differenti di scomporre un dato momento di consapevolezza in matrici gestibili, per dimostrare a chi voglia addentrarvisi che esse racchiudono l’universo della nostra consapevolezza, nel suo aspetto interiore ed esteriore, e tuttavia non contengono nessun sé. Questa è la loro funzione: dimostrare ai praticanti che non esiste nessun sé. Anche se questi tre schemi affrontano il problema del sé, non aiutano a comprendere come nasce l’attaccamento al sé e come si passa dall’attaccamento al distacco e quindi alla liberazione. Per questo vennero aggiunti altri tre schemi, i quali svolgono nel La¥kåvatåra un ruolo molto maggiore dei precedenti: i cinque dharma, le tre modalità della realtà e le otto forme di coscienza. I cinque dharma scompongono il mondo in nome, apparenza, proiezione, retta conoscenza e quiddità; le tre modalità della realtà lo suddividono in realtà immaginata, realtà dipendente e realtà perfezionata; le otto forme di coscienza comprendono le cinque forme di coscienza sensoriale, la coscienza concettuale, la volontà o coscienza dell’io e un’ottava forma, nota come coscienza deposito, dove sono conservati i semi dei nostri pensieri, parole e azioni precedenti e dove essi spuntano e crescono. Come i tre concetti precedenti, anche questi intendono spiegare la consapevolezza senza dover introdurre un sé. Ma hanno anche il vantaggio di fornire una prospettiva su come sono nati i mondi dell’autoillusione e dell’autoliberazione, su come opera l’illuminazione, su come passiamo dalla proiezione di nome e apparenza alla retta conoscenza della quiddità, e da una realtà immaginata a una realtà perfezionata, su come possiamo trasformare l’ottuplice coscienza in buddhità. Tali schemi furono molto probabilmente sviluppati in modo indipendente da diversi gruppi di praticanti, ma divennero infine i marchi distintivi del buddhismo yogåcåra, con la sua insistenza sul riportare tutto alla mente, tutto a quella tazza di tè. Il La¥kåvatåra si muove entro l’universo del discorso yogåcåra, e allo stesso tempo ci mette in mano quella tazza di tè, ma poi lascia tutti gli schemi da parte per spingerci a gustare il tè in prima persona. Il Buddha dice a Mahåmati di lasciar andare tutti i concetti, lasciar andare i cinque dharma, lasciar andare le tre modalità della realtà, lasciar andare le otto forme di coscienza, lasciar andare il tathågata-garbha, lasciar andare tutto. Nel La¥kåvatåra il Buddha ci consiglia di bere quella tazza di tè e non preoccuparsi di inserire l’esperienza in qualche preconcetta matrice della mente. Naturalmente non si beve il tè della mente nel vuoto dello spazio, e neppure in un luogo affollato. Quindi il Buddha dà il consiglio antico: “Se i bodhisattva vogliono comprendere il regno della proiezione nel quale ciò che afferra e ciò che viene afferrato non sono altro che percezioni della loro stessa mente, do-


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vrebbero evitare i rapporti sociali e il sonno e coltivare la disciplina della presenza mentale nei tre periodi della notte” (secondo capitolo, sezione ) ). Tazza di tè o no, nessuno ha detto che sarebbe stato facile. Non era facile quando il s∑tra è stato scritto, e non lo è diventato oggi. Il mondo moderno è pieno di distrazioni. Perché meditare, quando si può guardare la (* , giocare con un videogame o navigare sul web? Sedersi semplicemente con una tazza di tè può essere molto difficile. La prima volta che sentii parlare del La¥kå fu negli anni Settanta, quando vivevo nel monastero di Haiming tra le colline a sud di Taipei. L’abate parlava del La¥kå come se fosse il santo Graal dello zen. Si chiamava Wu-ming e, oltre a guidare l’associazione buddhista di Taiwan, era a capo del lignaggio zen Linchi (Rinzai) dell’isola. Presi sul serio la sua opinione sull’importanza del La¥kå, e in una delle mie visite settimanali in città comprai una copia della traduzione di Gu∫abhadra. Il s∑tra si rivelò impenetrabile. Così un’altra volta comprai una copia della traduzione in inglese di Suzuki. Pensavo che leggendo fianco a fianco l’inglese e il cinese non avrei avuto problemi a capire il testo. Mi sbagliavo. Nessuna delle due lingue era di grande aiuto. Lasciai perdere e mi rivolsi ad altre cose: gli scritti di Han-shan (Montagna fredda), Shih-wu (Casa di pietra), e Bodhidharma e l’eredità della tradizione degli eremiti cinesi. Nei trentacinque anni successivi ogni tanto pensavo di provare ad affrontare di nuovo il La¥kå, ma ho preso l’abitudine di tradurre i testi buddhisti allo scopo di comprenderli, come la mia pratica personale del Dharma, e non ero convinto che il La¥kå fosse un testo adatto. Poi dieci anni fa, durante una visita al Sanmin Shuchu, la mia libreria favorita di Taipei, mi sono imbattuto in un libro (tratto dallo Hsü Tsang Ching, primo volume, pp. 445-681) che metteva a confronto tutte e tre le traduzioni in cinese del La¥kå paragrafo per paragrafo. Era proprio il tipo di incoraggiamento di cui avevo bisogno. Con tutte e tre le versioni cinesi sotto gli occhi, ho fatto la cosa più naturale: ho preparato una traduzione scegliendo una riga da un testo e una riga dall’altro. Il risultato però non era affatto soddisfacente. Buttavo giù le parole sulla pagina, ma ancora non ne comprendevo il significato. Mentre decidevo come procedere, mi si presentò l’occasione di lavorare sul S∑tra del cuore. Fu un bel sollievo, come correre a piedi nudi dopo aver indossato scarponi militari. Eppure, finito il S∑tra del cuore, ripresi a lavorare sul La¥kå, questa volta basando la traduzione su quella di ‡ikßånanda, il cui cinese era di più facile comprensione. Ma prima di andare troppo avanti, fui salvato di nuovo, stavolta dal S∑tra della piattaforma. Anche questa fu una scelta facile e, finito il S∑tra della piattaforma, non ebbi difficoltà a trovare qualcos’altro su cui lavorare. Stavo evitando il La¥kå. Poi, un giorno di primavera del 2009, mentre discutevo con Jack Shoemaker, editore di questo libro, sui possibili progetti, il combinarsi del mio bisogno pressante di un anticipo e del suo desiderio di pubblicare una traduzione del La¥kåvatåra ci portò a stipulare un contratto per realizzare il libro in due anni. Mi chiedo quanti altri libri sono nati da una simile concomitanza. Non pochi,


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credo. E così qualche mese più tardi, durante il mio successivo viaggio a Taiwan, mi sono rifornito di una serie di commenti cinesi e ho iniziato il compito quella stessa estate. Da allora ho lavorato sulla traduzione con poche interruzioni e sono giunto ad amare veramente il La¥kå. Mi piace persino la traduzione di Gu∫abhadra. Una volta che mi sono abituato alla sua sintassi, gran parte di essa non è poi così difficile. ‘Gran parte’ però non vuol dire tutto. A volte mi sembrava di trovarmi davanti un muro. Sarei un ingrato se non riconoscessi il mio debito verso coloro che mi hanno permesso di capire quel che credevo incomprensibile. Se non fosse per il lavoro pionieristico di D. T. Suzuki, non solo la traduzione del testo ma anche i suoi Studies in the La¥kåvatåra S∑tra e Index to the La¥kåvatåra S∑tra, dubito che avrei mai intrapreso l’opera. Questi tre libri sono stati di enorme aiuto. Sono in debito anche verso i monaci i cui commenti mi hanno illuminato tanto sul significato che sulla lezione del testo: i monaci della dinastia Ming T’ung-jun, Tseng-Feng-yi e Te-ch’ing e i monaci del ventesimo secolo T’ai-hsu e Yin-shun. Senza il loro aiuto mi sarei perso. Oltre a tradurre il testo del s∑tra, ho aggiunto riassunti, commenti e note, molti dovuti ai commenti dei monaci su cui mi sono basato. Inoltre ho indicato le frasi o versi in cui ho preferito le traduzioni di Bodhiruci o di ‡ikßånanda a quella di Gu∫abhadra. Anche se ho già esposto le mie ragioni per non usare il testo sanscrito, nelle note ho riportato di frequente il sanscrito traslitterato dei termini chiave, per dare modo al lettore di esplorare per proprio conto una più ampia gamma di significati. Infine la traduzione e il commento hanno tratto incommensurabili benefici dalla generosità di due studiosi di buddhismo tra i più rinomati, Dan Lusthaus e Paul Harrison, che hanno tralasciato il proprio lavoro per leggere da cima a fondo le prime bozze. Hanno suggerito molte correzioni e migliorie, e il mio debito verso di loro è talmente grande che dovrò attendere qualche vita futura per ripagarlo. Prima di lasciare al lettore il frutto del mio lavoro, vorrei osservare che ho deciso di non includere la raccolta di versi aggiunta al La¥kåvatåra in un qualche momento tra la traduzione di Gu∫abhadra (443), che ne è priva, e quella di Bodhiruci (513), dove è presente. È intitolata Sagåthakam (“Antologia di versi”) da Nanjio e comprende 884 stanze di quattro versi, 208 circa delle quali appaiono anche nel corpo principale del La¥kå. È impossibile dire se un’opera abbia preso in prestito dall’altra o se condividano un’origine comune. In ogni caso, alla lettura sembra che il Sagåthakam sia una selezione intesa ad accompagnare l’insegnamento orale. E in mancanza di tale insegnamento o di spiegazioni sul contesto delle poesie, ho deciso di rinunciare alla sfida che la loro traduzione avrebbe comportato. Tuttavia, la raccolta comprende qualche poesia degna di nota, e fortunatamente è stata tradotta per intero nel lavoro di Suzuki. Per quanto riguarda il mio lavoro sul La¥kå, pensavo che non sarei mai arrivato al punto di scrivere una prefazione. Devo ammettere che sono contento


20 Prefazione del traduttore

di lasciarlo ai posteri. E naturalmente vorrei aver fatto di meglio. Ma ricordo quel che mi disse Nan Huai-chin cinque anni fa, nella sua casa di Shanghai, durante una cena durata cinque ore. Il laico zen novantenne raccontò che, da giovane, aveva chiesto al vecchio maestro Xu-yun (Nuvola vuota) perché continuasse a restaurare monasteri zen senza mai completare l’opera. Xu-yun gli diede uno schiaffo sulla nuca e disse: “Che saccente! Se li completassi, cosa avrebbe da fare la prossima generazione?”. Per conto mio, ho lasciato un mucchio di lavoro a quelli che verranno; intanto, penso sia arrivato il momento per quella tazza di tè. R ! " P $%! primo aprile, 2011 Port Townsend, Washington

%+(& Anche se non abbiamo copie antiche del testo sanscrito del s∑tra, le copie esistenti suddividono il testo in dieci capitoli; il decimo capitolo consiste in una raccolta di gåthå alla quale Bunyi∑ Nanjio ha dato il titolo di Sagåthakam (“Antologia di versi”). La stessa suddivisione in dieci capitoli è stata applicata da ‡ikßånanda ma non da Bodhiruci, che ha diviso la sua traduzione in diciotto capitoli, né da Gu∫abhadra che, saltando il primo capitolo, le Dhåran¤ e il Sagåthåkam, ha optato per quattro parti, ognuna col titolo “Il cuore dell’insegnamento del Buddha”. L’ulteriore suddivisione in sezioni è opera dei successivi commentatori, ed esistono alcune varianti. Piuttosto che introdurre un nuovo criterio di suddivisione del testo e per facilitare il confronto ho seguito la divisione in sezioni di Suzuki, che si è basato su quella del monaco giapponese Kokan Shiren (1278-1346). Ho però raggruppato i capitoli dal quarto all’ottavo in un unico capitolo e, a differenza di Suzuki, ho numerato le stanze per sezione invece che per capitolo.


Indice .

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pag.

1. La richiesta di re Råva∫a 2. Le domande di Mahåmati 3. Altre domande . . . 4. Domande finali . . . Il mantra del La¥kåvatåra .

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Glossario . Bibliografia

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Prefazione del traduttore

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IL LA˙KÅVATÅRA SÛTRA Traduzione e commento di R  P  Il La¥kåvatåra s∑tra ha antichi legami con lo zen, che risalgono al giorno in cui Bodhidharma ne consegnò una copia al suo discepolo Hui-k’o, dicendogli che conteneva tutto quel che aveva bisogno di sapere. Così l’‘insegnamento al di là delle parole’ trovò la sua scrittura, che godette nel tempo di una fortuna continua. Venerato come il ‘santo Graal’ dello zen, il s∑tra abbraccia tutte le dottrine principali del buddhismo mahåyåna riassumendole in due insegnamenti: primo, tutto ciò che percepiamo come reale non è altro che una percezione della nostra mente e, secondo, tale comprensione deve essere raggiunta e sperimentata di persona, non può essere comunicata a parole. I maestri zen cinesi alludevano a questi due insegnamenti con le espressioni ‘prendi una tazza di tè’ e ‘assapora il tè’. Il s∑tra ha come scenario l’isola di La¥kå, dove il Buddha viene invitato a insegnare a palazzo dal re serpente Råva∫a. Mahåmati, un bodhisattva del suo seguito, a beneficio di tutti i presenti pone al Buddha centootto domande che coprono tutti gli argomenti allora dibattuti nei centri accademici buddhisti. Il Buddha risponde alle domande e conclude con un’ampia dissertazione sulla necessità di astenersi dal consumo di carne. Come altri s∑tra mahåyåna, quale ad esempio il S∑tra del loto, l’insegnamento viene esposto in prosa e poi ripetuto in versi. La versione di Red Pine si basa sulla traduzione dal sanscrito di cui facevano uso Bodhidharma e tutti i maestri zen ci-

nesi, redatta da Gu¥abhadra a Tanyang nel 443 d. C., e sui commentari cinesi al s∑tra. Red Pine correda il testo di un ampio apparato di note che, oltre a illustrare il contesto filosofico indiano e le dottrine induiste e non confutate dal Buddha, riportano le differenze tra le varie versioni sanscrite e cinesi che ci sono pervenute, e spiegano le metafore a cui ricorre il Buddha nel suo insegnamento. * * * R  P  , pseudonimo di Bill Porter, è nato a Los Angeles nel 1943. Laureato in antropologia, si è poi dedicato allo studio della lingua cinese, vivendo a Taiwan, Hong Kong e in Cina per oltre vent’anni. Rinomato traduttore di testi buddhisti e taoisti cinesi, in prosa e in poesia, vive a Port Townsend, Washington. Tra le sue opere ricordiamo Zen Baggage: A Pilgrinage to China, La via al cielo e L’insegnamento zen di Bodhidharma, questi ultimi pubblicati presso questo editore.

€ 23,00


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