Il carattere domestico dello spazio urbano | Progetto di riqualificazione per Largo XVII Agosto

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Federica Bonaccorsi

IL CARATTERE DOMESTICO DELLO SPAZIO URBANO Progetto di riqualificazione per Largo XVII Agosto a Catania



IL CARATTERE DOMESTICO DELLO SPAZIO URBANO Progetto di riqualificazione per Largo XVII Agosto a Catania

Tesi di laurea in Architettura A.A. 2016/2017 Relatore Prof. Vittorio Fiore Laureanda Federica Bonaccorsi

UniversitĂ degli studi di Catania SDS di Architettura di Siracusa


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INDICE Introduzione Capitolo 1 SCENOGRAFIA & TEATRO URBANO 1.1. La performance nello spazio urbano: dalle architetture per la scena all’architettura della scena 1.2. Dal privato al pubblico: il teatro come mezzo di rappresentazione di una nuova società 1.3. La scenografia architettonica Capitolo 2 ARTE NELLO SPAZIO URBANO 2.1. L’arte partecipativa: gli anni ’70 2.2. Da “politica” a pratica del luogo: dagli anni ’90 a oggi Capitolo 3 IL PROGETTO DELLO SPAZIO URBANO: CITTÀ A MISURA D’UOMO 3.1. Spazi personali 3.2. Lo spazio flessibile: «manipolabilità» e «reversibilità» 3.3. Il «modernismo ludico» 3.4. Approfondimento: la poetica di Francesco Venezia Capitolo 4 INQUADRAMENTO PROGETTO 4.1. Le tracce del quartiere Civita dal XV al XX secolo 4.2. La Civita e Largo XVII Agosto oggi 4.3. Analisi urbana Capitolo 5 PROGETTO 5.1. Genesi 5.2. Strategia Schede Fonti bibliografiche & Sitografia


INTRODUZIONE «I luoghi, segnati dalla presenza dell’uomo attraverso il lungo cammino della storia, sono importanti, espressivi, degni di essere conosciuti, capiti, rispettati, sia per i loro valori di natura sia per i loro valori di cultura. [...] I valori si condensano o si esprimono anche attraverso la personalità, potremmo dire l’anima, lo spirito dei luoghi: questo, delicatissimo, da conoscere, da custodire, da alimentare, da valorizzare, tenacemente, incessantemente»1.

La mia ricerca, originariamente, parte dall’intenzione di riappropriarsi di una porzione dimenticata della mia città, il cui uso attuale, quello di un parcheggio occasionale, ne sminuisce valore e significato. Così mi sono avvicinata a Largo XVII Agosto, un nascosto squarcio nel vecchio quartiere della Civita, con l’intenzione di riqualificarlo nella sua funzione e significato, ancor prima che nella morfologia, per portare alla luce la sua storia e identità. Per fare questo, ho studiato la connessione e il rapporto che c’è tra l’architettura e diverse discipline creative, studiando modi diversi di progettare o modificare lo spazio pubblico: il teatro urbano, l’arte “pubblica” - o meglio dire nello spazio urbano - e alcuni progetti urbanistici veri e propri. Ciò che accomuna questi tre modus operandi, e i casi da me analizzati, è l’intenzione comune di produrre «uno spazio pubblico in cui gli individui attivano le proprie capacità per l’azione e la riflessione collettiva» 2. 6

Lo spazio pubblico infatti, quale il Largo in questione, si identifica come luogo di produzione e manifestazione della coscienza civica e sociale di una città, e non è preesistente perché spazio e comunità diventano tali, solo attraverso un processo. Questo processo però può essere di vario genere: si può manifestare attraverso un progetto architettonico o urbanistico, attraverso una installazione o un’opera d’arte site specific, attraverso una performance teatrale. Ognuno di questi strumenti è valido al fine di creare qualità urbana, perché essa è data da fattori diversi e integrati, quali l’abitare, le infrastrutture, l’ambiente, lo sviluppo economico e culturale della città ma anche da condizioni visuali, percettive, fisiche, sensoriali e relazionali nello spazio specifico. Per raggiungere questo scopo, le competenze e l’attività dell’architetto, dello scenografo, dell’artista e dell’urbanista possono compenetrarsi, riconoscendo che anche pratiche che agiscono con metodi non convenzionali, possono raggiungere l’obiettivo fissato.


È importante innanzi tutto cercare di dare una definizione dello spazio pubblico, che possa essere comune alle diverse pratiche analizzate. Partendo da un approccio morfologico, possiamo dire che lo spazio pubblico è costituito essenzialmente da spazi aperti o da spazi chiusi “di proprietà pubblica”, accessibili a tutti, e dedicati ad alcune funzioni collettive: passarvi il tempo libero, assistere ad uno spettacolo teatrale o sportivo, passeggiare, come ad esempio piazze, parchi, viali, strade, stazioni o anche teatri comunali, stadi civici, musei. La letteratura filosofica e urbanistica, a partire dall’immagine dell’agorà greca, ha generalmente deputato questi luoghi come spazi per eccellenza della cittadinanza, del dialogo, dell’incontro. Ma ciascun luogo è dotato anche di un carattere distintivo, quasi una “personalità” che lo rende unico e riconoscibile, distinguendolo rispetto agli altri: «personality suggests the unique: places, like human beings, acquire unique signatures in the course of time» 3. Se la personalità̀ umana è considerabile come una fusione tra disposizione naturale e tratti acquisiti, la personalità̀ di un luogo sarà̀ invece un insieme composito di dotazione naturale e modifiche modulate dal succedersi delle generazioni di esseri umani 4. Largo XVII Agosto dimostra, in questo senso, un carattere “domestico”, che esprime una contraddizione nella definizione stessa, essendo allo stesso tempo uno spazio pubblico. Ma questo carattere deriva dal modo in cui gli abitanti vivono lo spazio ovvero “sulla soglia”, tipico dei quartieri popolari, il quale denota un forte senso di appartenenza al luogo inteso come prolungamento della propria casa. Stare sulla soglia è sintomo di due comportamenti tipici dell’abitante del quartiere: manifestare curiosità ed esercitare il controllo del proprio spazio.

Dario Lo Presti, Quartiere Civita. La citta’ nascosta, reportage fotografico

È quindi con questa varietà che dobbiamo pensare ai fenomeni di trasformazione dello spazio pubblico, di qualsiasi genere essi siano, perché la sua unicità̀ andrebbe conservata anche nel momento in cui subentra il cambiamento. Per comprendere questi fenomeni dobbiamo capire quali soggetti sono coinvolti e quali esclusi, quali idee e bisogni guidano queste iniziative e quali conseguenze producono.

1. Cfr. L. Pagani, Il valore dei luoghi, in R. Ferlinghetti (a cura di), “Per una cultura dei luoghi”, 2007 2. Cfr. Giulio Moini, Teoria critica della partecipazione, Franco Angeli, Milano, 2012 3. Cfr. Y. Tuan, Space and place: humanistic perspective, in S. Gale e G. Olsson (a cura di), “Philosophy in geography”, 1979 4. Ivi

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Bertold Brecht, Sul teatro d’ogni giorno, 1952

1. SCENOGRAFIA & TEATRO URBANO

Nella pagina accanto: Giorgio de Chirico, Piazza d’Italia, olio su tela, 1913

«Voi artisti che fate del teatro in grandi edifici, sotto soli di luce artificiale di fronte alla folla silenziosa, ricercate ogni tanto anche il teatro che si svolge sulla strada. Il teatro di ogni giorno, dai mille aspetti, senza gloria, ma anche assai vivace, terrestre, il teatro che si alimenta dalla convivenza degli uomini, che si svolge sulla strada».


Se l’architettura si occupa principalmente di come l’individuo può usare lo spazio e di come si muove al suo interno, la scenografia è invece maggiormente interessata alla percezione dello spazio: la percezione di un luogo da parte dell’osservatore/spettatore non è mai coincidente con la fruizione dello stesso. Ma nella realizzazione dell’azione teatrale all’interno del tessuto urbano, anche se percezione e uso non possono coincidere, almeno possono accordarsi, in modo da far diventare l’architettura uno strumento di comunicazione, mantenendone la sua valenza funzionale, ma assumendo chiarezza e dignità maggiore. In questa commistione tra teatro, architettura e città, il palcoscenico in senso lato (inteso come lo spazio per la scena piuttosto che una struttura definita) può diventare spazio di riflessione sull’evoluzione storica di un luogo, in cui memoria architettonica, tradizione e avanguardia si incontrano a favore del pubblico, perché nel teatro accade il reciproco di quello che di solito avviene nella città: è la memoria e la capacità di astrazione delle forme dello spettatore che gli permettono il riconoscimento di luoghi e di suggestioni. Questo avviene perché nel teatro il concetto e la percezione dello spazio ha un duplice significato: da una parte c’è lo spazio fisico, luogo dell’azione teatrale dedicato agli attori, dall’altra lo spazio rappresentato ovvero il luogo mentale evocato dalla rappresentazione. Esso non è un elemento preesistente alla performance ma esiste solo attraverso la percezione dello spettatore, si determina a posteriori grazie alla coazione e coesistenza degli spettatori e del luogo, risultante dalle caratteristiche fisiche del luogo e dell’azione che prende vita in esso.

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Questo meccanismo, traslato nell’ambito urbano, può quindi essere usato per permettere al pubblico di venire a conoscenza di una drammaticità di un luogo, che può creare essa stessa drammaturgia e di associare a quello spazio, una determinata “immagine” che resta in mente allo spettatore/osservatore/fruitore. Attraverso l’introduzione di elementi quali luci, performer, oggetti e installazioni, il teatro diviene uno strumento di descrizione e misura dello spazio urbano per l’uomo, obbligandolo a porre l’attenzione ad elementi urbani che sicuramente, con la semplice fruizione non avrebbe individuato, svelando cosi la potenzialità e il carattere identitario di quel luogo o porzione di città. Lo spazio urbano risulta quindi recuperato nel momento in cui viene riattivata la memoria di quel luogo, la collettività se ne riappropria e i flussi vengono ridistribuiti. [VEDI SCHEDA N.3]


1.1 La performance nello spazio urbano: dalle architetture per la scena all’architettura della scena

Lo spazio urbano è il luogo delle relazioni collettive, della socialità pubblica ma anche contenitore stabile, supporto funzionale alle nostre vite private. La città è l’elemento oggettivo, che fa da sfondo alle nostre attività, viene attraversata, distrutta o ricostruita, reinventata ma più spesso viene ignorata. Ci capita di camminare attraverso le strade e gli isolati senza coscienza, occupati solo di raggiungere la destinazione, evitando gli oggetti che ci ostacolano, automobili e persone, mentre il paesaggio urbano ci scivola addosso, sempre uguale ai nostri occhi e quindi inutile, privo di stimolo o interesse. Questo è quello che sicuramente accade alla maggioranza delle persone, quando passa per Largo XVII Agosto, sia quando lo usano per parcheggiare le auto sia quando lo attraversano per raggiungere un altro punto della città. [VEDI SCHEDA N.2] Si può dire che la città stessa è il teatro della collettività, perché ospita e deforma i comportamenti dei suoi abitanti.

«Luoghi urbani reali, spazi misurabili dall’insieme delle persone in attesa e da chi assiste, senza confine, con una full immersion in un innovativo binomio spazio-tempo condiviso ma che esplora una forma di teatro naturale dove prevale la dimensione antropologica e rituale, dove il pubblico non è sempre spettatore, ma componente essenziale della performance, sviluppata a partire dagli aspetti del sociale»1.

Immagine dalla performance, Petru, di M.P. Ottieri, dal progetto L’Attesa, prodotto da Napoli Teatro Festival Italia 2010

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Fin dalle sue prime manifestazioni, dal teatro greco fino al Seicento, dall’Ottocento fino alle esperienze contemporanee, il teatro ha palesatola sua funzione sociale, utilizzando spesso ambienti caratterizzati da una forte connotazione sociale e religiosa, dove l’aspetto tecnico poteva essere anche secondario rispetto alla più importante scelta del luogo. Chiaramente in ogni periodo storico, il teatro sperimenta diverse soluzioni rappresentative, prediligendo luoghi e soluzioni differenti, insieme all’evoluzione del significato e dell’organizzazione dello spazio scenico. Ma in generale si può dire che la performance, intesa come esperienza che prevede un’azione fisica del soggetto, non finalizzata necessariamente alla produzione di un’opera o di un oggetto, sia ben adattabile allo spazio urbano e può servire all’uomo a farne esperienza. Nel teatro greco, esso stesso considerato sacro, la simbiosi tra azione scenica e spettatore era totale, evidenziata dalla stessa disposizione della gente a semicerchio intorno al luogo della rappresentazione. Per quanto fisicamente attori e spettatori fossero ben separati, nella netta distinzione tra skené - che ospitava e occultava l’attore- e théatron – parola con cui si intende il pubblico in generale - ciò che fondava un rapporto stretto era la partecipazione intensamente emotiva, per cui la comunità si apriva alla catarsi ovvero alla purgazione delle emozioni attraverso i sentimenti suscitati dalla narrazione. Il rapporto tra edificio teatrale e dimensione urbana consisteva nella trasposizione dell’articolata struttura politica e spaziale della città stessa nel teatro, perchè la skené rimandava alla tipologia architettonica del palazzo illustre, l’orchestra occupata dal coro che interroga l’attore richiamava l’agorà e il théatron era l’emblema dei cittadini stessi che costituivano la polis. 12

Teatro di Delfi nel Santuario di Apollo. Il primo teatro in pietra fu costruito nel IV secolo a.C. e sicuramente più volte restaurato. La forma attuale del teatro, con la cavea e l’orchestra lastricate in pietra, è il risultato del restauro voluto fra il 160 e il 159 a.C. da Eumene II di Pergamo.

Nel teatro romano, lo spettacolo perse la sua sacralità e si diffuse il genere della commedia. Ma accanto a ciò, le testimonianze vascolari dell’epoca ci restituiscono anche situazioni di “teatro di strada”: strutture elementari come piccoli palchi di legno trasportabili e pochi elementi scenici, ad esempio un oggetto utile per la rappresentazione, ci suggeriscono un narrare itinerante, scisso totalmente dalla dimensione sacra e calato nella quotidianità. O anche le rappresentazioni private nei cortili dei palazzi patrizi, dove le logge delle corti venivano usate per disporre il pubblico su doppia altezza, preludendo la sistemazione sui palchi nel “teatro all’italiana” e in cui lo spazio scenico era organizzato sempre in modo diverso.


Anonimo, Mansiones, illustrazione medievale

Nel corso del Medioevo, lo spettacolo teatrale era variegato, da una parte i drammi liturgici e le processioni di carattere religioso, dall’altra rappresentazioni laiche in lingua volgare, e si manifestava in diverse forme: i Mummer’s Plays, i drammi liturgici, i misteri, i cicli delle corporazioni, le moralità, i tornei, i masques. Ciò che li accomuna, è che tutti rientravano nella dimensione del festum e in nessuno di essi c’era una netta separazione tra attori e spettatori. Ma la più grande innovazione introdotta, fu una nuova idea di spazio scenico: fondato sulla simultaneità della visione e sull’azione nel suo sviluppo nel tempo, la scena era frammentata in diversi luoghi d’azione cioè “luoghi deputati”, (o anche denominati sedes, loci, domus, mansiones) che costringevano lo spettatore a un nuovo rapporto con lo spazio scenico, non più assoluto, ma relativo, costringendolo a spostarsi. Questa costruzione dello spettacolo, fortemente simbolica, nacque prima all’interno della chiesa,

Pieter Brueghel il Vecchio, La Festa dei Folli, incisione, databile intorno al 1570

per poi spostarsi all’esterno, sul sagrato e poi nella città, per le strade e nelle piazze. Lo spettacolo, invase lo spazio urbano e lo ridisegnò e tutta la città si trasformò in spazio scenico: palchi percorribili e frazionabili e case, piazza ed elementi mobili, con una forte connotazione di festa e gioco, che nel corso del XV secolo diventerà sempre più spettacolare e scenograficamente ricco. Ma è il “gesto” ad assumere una nuova importanza: produttore di senso, diventò necessario per la comprensione da parte dell’osservatore, il quale era ormai partecipe di un rito collettivo. Danza e canto, si mischiavano alla parola per raffigurare e rappresentare storie e sentimenti religiosi. Ed è quindi da questa fase storica, più che in altre, che si può riprendere il modus operandi di mettere in scena accadimenti in spazi urbani e invasi architettonici come cortili, seppur riadattandolo alla contemporaneità e alle esigenze del luogo attuali. 13


interno del Teatro Massimo Vincenzo Bellini, Catania

Più tardi, nella cultura tardo-barocca, si sviluppa l’idea e l’interpretazione della città essa stessa come scena all’interno di un disegno urbano che inserisce elementi di trasformazione della visione quali facciate “in movimento”, punti di fuga di percorsi anche solo visivi, successioni di piani visuali che dilatano lo spazio pubblico. L’architetto Juvarra, ad esempio, fondendo la sua attività con quella di scenografo teatrale, progettò che edifici possono apparire come “personaggi” o attori sulla scena della vita urbana. Nell’Ottocento l’edificio-teatro installò un nuovo rapporto con la morfologia urbana, con i suoi caratteri di monumentalità e isolamento dal tessuto, divenendo sfondo di una piazza ben riconoscibile, fulcro per nuovi isolati impostati su assi stradali. Il teatro è un edificio pubblico che deve avere un carattere architettonico proprio, ben distinguibile ed è di per sé un edificio urbano: è una grande piazza coperta, dove si affacciano 14

ordini e palchi, in cui si riconosce e riunisce una porzione della società ottocentesca, divenendo “luogo di cementazione sociale”. La scena, era quasi sempre mimetica, e attraverso diversi espedienti scenotecnici, pitture, fondali prospettici, proponeva una rappresentazione della realtà. Nel XX secolo, lo spazio teatrale mutò immagine ed essenza, sia attraverso la crescente “riduzione” dei testi sia per la tendenza della rappresentazione ad assumere ruolo di installazione, con contaminazioni provenienti da tutte le arti visive. Verrà superata la concezione di “luogo attrezzato per vedere spettacoli”, ponendo lo spettatore sempre in nuovi condizioni percettive, di fruizione, partecipazione e coinvolgimento. Adolphe Appia realizzò una rivoluzione scenica, introducendo il concetto di praticabilità, rivedendo i principi di illuminazione e scenografia, portando a grandi cambiamenti anche dell’edificio teatrale.


Eurhythmics, Istituto Jacques Dalcroze, Hellerau, 1912, scenografia di Adolphe Appia

Lo scopo è abbandonare il principio della verosimiglianza di azione e scena e dell’illusione per instaurare una “adesione intima e profonda” con lo spettatore. . Lo spazio scenico venne profondamente mutato nella sua essenza: si passa dalla scenografia all’ “architettura scenica”, dove attori e pubblico sono in contatto tra loro e l’azione può avvenire in ogni punto della sala. Se prima lo spazio visivo era illusionisticamente riempito da spezzati e fondali dipinti disposti in un’area più o meno vuota, l’introduzione di volumi, oggetti e di elementi desunti dal reale costruito, implicava invece un progetto scenografico complesso, in cui il bozzetto non si riduce più a indicazioni. Elementi quali il tréteau nu, la pedana, il praticabile diventano strumenti utilizzati non per la mimesi o la ricostruzione fedele dei luoghi, ma per produrre suggestioni emotive legate ai significati del testo teatrale. Non è più lo spazio a essere creato dal dramma ma al contrario è il dramma in

qualche modo generato a partire dallo spazio. Ecco perché il passo successivo ovvero uscire dal teatro, per realizzare spettacoli e performance negli spazi urbani risulta naturale e consequenziale: perché la scenografia prima di tutto è una disciplina di composizione nello spazio e con lo spazio, qualsiasi esso sia. E come in architettura, è il corpo che attribuisce allo spazio un significato specifico, e quindi anche lo spazio scenico grazie all’attore è spazio abitato. Inoltre le caratteristiche di rapidità ed effimero, tipiche dello spettacolo teatrale, si coniugano facilmente con la necessita di fruire velocemente concetti e messaggi al pubblico, potendo considerare cosi architettura e scenografia un fatto serio e sociale.

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1.2 Dal privato al pubblico: il teatro come mezzo di rappresentazione Paolo Grassi, sulle pagine di Sipario, 1946

di una nuova società

Alla fine degli anni ’50 Allan Kaprow con gli Happenings, dà origine alla matrice di tutti i fenomeni che nel decennio successivo sarebbero confluiti nell’Arte Comportamentale. Il suo è un gruppo teatrale che realizza azioni performative, derivanti dalla tradizione futurista e dadaista, caratterizzate da elementi appartenenti a diversi settori artistici (pittura, scultura, danza, musica) e avente come scopo principale il diretto coinvolgimento del pubblico spesso occasionale, installandosi in luoghi aperti, metropolitani, o dismessi, dalle piazze cittadine alle fabbriche abbandonate. A partire dagli anni ‘60 nasce e si sviluppa la Performance Art, la quale riunisce tutte quelle esperienze artistiche che legano diverse discipline espressive come il teatro, la danza, la musica e il video e si basa sul principio di “azione”, annullando la tradizionale divisione tra pubblico e artista, tra pubblico e privato. Da registi come Mejerchol’d – dove il quadro scenico è rotto per permettere agli attori di invadere la platea – si 16

«Il teatro, per sua intrinseca sostanza, è fra le arti la più idonea a parlare direttamente al cuore e alla sensibilità della collettività” e che per questo andrebbe considerato “come un servizio pubblico, alla stregua della metropolitana o dei vigili del fuoco».

Le cocu magnifique,1922 scene di Ljubov’ Popova e regia di Mejerchol’d


passa a uno spazio teatrale tutto destinato agli attori, quando Grotowski sistemerà il pubblico in spazi ricavati, precari e casuali, operando un crescente smontaggio degli elementi scenici e un processo di de-verbalizzazione. Se negli anni ’50 il teatro cambia il rapporto opera/scena, negli anni ’70 si tenta di cambiare il rapporto scena/pubblico e il genius loci diventa parte fondamentale del progetto scenografico. Alla fine del decennio, in America, il Performance Group, sulla base delle teorie di Richard Schechner, porta il teatro per strada, nelle cantine, nei depositi: lo spettacolo può essere fatto di e con qualunque cosa e anche il luogo può essere non convenzionale perché ciò che si osserva è la realtà quotidiana. Tra gli assiomi del regista R. Schechenr, fondatore del TDR e teorico del teatro enviromentale, ricordiamo: il fatto teatrale è un insieme di fatti interagenti; tutto lo spazio è dedicato alla rappresentazione, tutto lo spazio è dedicato al pubblico; l’evento teatrale può avere luogo sia in uno spazio totalmente trasformato sia in uno spazio lasciato come si trova. Famoso lo spettacolo Dionysus in ’69 (New York, 1969), nel quale vengono praticate le sue teorie: si tratta di uno spettacolo all’interno di un garage in Woonster Street a New York, dove gli spettatori trovano posto su impalcature lignee a più livelli o sul pavimento, spesso in piedi o seduti in posti di fortuna, intorno a uno spazio nel quale gli attori si muovono e recitano, fondendosi con il pubblico. Il plot dello spettacolo, viene ogni sera scardinato, discusso e trasformato, con l’aiuto dello spettatore che decide le sorti del personaggio liberamente.

Apocalypsis cum figuris, Biennale di Venezia, 1975 regia di Jerzy Grotowski

Dionysus in ‘69, New York, 1969

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Antigone, Living Theatre, 1970

L’Arte Performativa ha riunito negli anni molti gruppi ma con un punto in comune basilare: l’uso del tempo reale e dello spazio concreto, come tempo e spazio dell’arte, in cui la vita coincide con l’opera e la cui durata è quella della costruzione/fruizione. Il più efficace tra i gruppi teatrali attivi tra gli anni ’60 e ’70 fu, però, sicuramente il Living Theatre, compagnia teatrale sperimentale americana, fondata da Julian Beck nel 1947. Lo spazio scenico è ridotto in “spazio dell’azione”, in cui gli attori e il pubblico si fondono, i confini si annullano e la condivisone del tempo diviene un fattore fondamentale per forme teatrali che tendono sempre di più all’installazione, al “qui e ora”. Gli spettatori sono posti in posizioni inusuali, non più frontali rispetto allo spettacolo e alla scena: viene ribaltata la visione unica della prospettiva preferendo piuttosto un allestimento in cui il pubblico è libero di trovare, a seconda della propria posizione, l’angolo prospettico più interessante. 18

Numerosi saranno gli esempi e gli spettacoli basati su questi principi che scelgono luoghi urbani reali, spazi misurabili dall’insieme di persone che assistono, senza confini. Si può parlare quasi della riscoperta di un “teatro naturale” dove prevale la dimensione antropologica e quasi rituale della performance, essa stessa sviluppata a partire da aspetti del sociale, in cui il pubblico non è semplice spettatore ma componente essenziale. Rispetto a queste tendenze, una figura chiave è quella di Peter Brook, regista teatrale e cinematografico, il quale insieme alla sua compagnia teatrale mette in scena spettacoli in luoghi sempre diversi, spesso abbandonati, dove venivano praticati tre tipi di interventi: invenzione e adattamento dello spettacolo agli spazi ritrovati; trasformazione di grandi edifici dismessi in spazi teatrali, che dopo lo spettacolo continuavano a vivere come teatri; utilizzo di spazi aperti. Lo scopo del lavoro di Brook, è di portare alla luce l’invisibile che si nasconde nei luoghi e nelle


città, lavorando su ciò che appare come banale e quotidiano. Tra i suoi spettacoli ricordiamo in particolare Mahabharata (1984), messo in scena in diversi luoghi prima delle cave abbandonate di Avignone, tra cui alla Darsena di Zurigo, dove la conclusione dello spettacolo avveniva con l’apertura della darsena all’alba, in modo da fare entrare i primi raggi di luce sulla scena. Nelle cave invece, il luogo fu preparato per ospitare la messa in scena, attraverso movimenti di terra. Successivamente lo spettacolo fu allestito in un gasometro abbandonato a Copenaghen, che successivamente venne trasformato in uno spazio per il teatro.

[

Tempo dopo, sarà Luciano Damiani con lo spettacolo Teatro di Documenti (Roma, 1988), a ricavare dalle grotte seicentesche sotto il Monte Testaccio a Roma, una serie si sale comunicanti con corridoi e passaggi, gallerie e gradoni, dove luce e suoni si mischiano, restituendo coinvolgimento e contemporaneità di azione oppure Giorgio Barberio Corsetti, che con Dioniso nato due volte (Siracusa, Ortigia Festival 5, 2006), porta lo spettacolo nell’Orecchio di Dioniso alla Latomie, facendo recitare gli attori sospesi sulle pareti verticali della roccia della cava, restituendo al pubblico un’inedita vista dello spettacolo.

«Posso scegliere uno spazio vuoto qualsiasi e decidere che è un palcoscenico spoglio. Un uomo lo attraversa e un altro lo osserva: è sufficiente a dare inizio ad un’azione teatrale» Peter Brook, Lo spazio vuoto, 1998

spettacolo al Théâtre Des Bouffes du Nord, Parigi È possibile riconoscere il concetto di “non scena” e scenografia orizzontale di P. Brook

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foto dell’interno delle grotte seicentesche del Monte Testaccio a Roma dove si è svolto Teatro dei Documenti

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Luca Ronconi, Inventare l’opera, 1946

1.3 La scenografia architettonica

A partire dalla seconda meta del ‘900, gli architetti ritornano ad occuparsi di teatro e la scenografia diventa campo di sperimentazioni: le scene non si limitano più ad essere illusione mimetica dello spazio ma si fondano su una progettazione complessa che dipende dall’architettura, dagli spazi e a volte anche dall’analisi urbanistica. Gli architetti/scenografi, modificando il rapporto tra spazio e società che sta alla base della teatralità, avvicinano il teatro alla realtà urbana/ architettonica, arrivando alla completa libertà delle messe in scena, già auspicata da Appia. Non si tratta più di creare una immagine verosimile della realtà ma di riprendere dalle forme e dai tipi conosciuti, elementi riconducibili alla narrazione drammatica ed astrarle fino a ricavare temi e concetti che possono riempire l’immaginario dello spettatore. La scena è intesa come spazio da costruire piuttosto che come quadro da dipingere, e la stessa progettazione scenografica ha gli stessi metodi di quella architettonica. Tutto questo è testimoniato dalla ricerca attuata 20

«Nel momento in cui le opere non si scrivono più e la scenografia di repertorio non esiste più, il problema dello spazio in cui si svolgono, e quindi il rapporto tra personaggio e scenografia, va determinato volta per volta».

da tutti i grandi maestri della scenografia del XX secolo, quali: Svoboda, Damiani, Hermann e dagli architetti “prestati” alla scenografia quali Gae Aulenti, Aldo Rossi, Mario Botta, Hans Hollein, Renzo Piano, Santiago Calatrava, Zaha Hadid, Jean Nouvel, per citarne alcuni. In quegli anni, l’intera città diventa protagonista cosciente sia della messa in scena dei processi sociali e della vita quotidiana, sia delle azioni drammaturgiche. Quando lo spazio scenico prende vita in luoghi preesistenti, l’architettura di questi luoghi non necessariamente “teatrali” interagisce con lo spettacolo-performance offrendo spunti, appigli per l’attore, non è più un semplice sfondo ma interagisce e si integra con l’azione e i corpi, raggiungendo esiti e configurazioni sempre differenti, coinvolgendo ed esaltando le caratteristiche e le qualità di quell’ambiente. Quel luogo, sia esso abbandonato o un vuoto, testimoniante di qualche memoria, crea una relazione con l’evento teatrale, per cui ogni spettacolo si appropria e si fonde con esso, rendendo


l’evento unico e irripetibile. [VEDI SCHEDA N.1] Gae Aulenti è stata tra i primi architetti ad occuparsi di ricerche spaziali in ambito teatrale, collaborando per molti anni con il regista Luca Ronconi. Dalla loro unione artistica nasce il Laboratorio Teatrale di Prato: guidato dal gruppo S(pazio) diretto da Aulenti, ha riunito dal ’76 al ’79 professionisti del teatro e della ricerca linguistica come Luca Ronconi, Dacia Maraini, Umberto Eco, dando luogo a interessanti esiti teatrali con particolare attenzione alla questione del territorio e alle realtà socio culturali in esso insediate. Dopo aver scelto la città di Prato e averne studiato il territorio, vennero individuati quattro spazi non teatrali per sperimentarvi quattro testi, indagando il tema della comunicazione teatrale a scala urbana: Il segno della croce, Calderon di P. Pasolini, La Torre di H. von Hoffmansthal, La vita è sogno di Calderón de la Barca. In particolare, ne Il segno della croce, progettato da Umberto Eco con le scene di Gae Aulenti, lo scopo era svolgere un’azione di recupero sociale dei luoghi: lo spazio teatrale coincide con quello urbano nel quale gli spettatori-cittadini transitano, per riappropriarsi degli ambienti periferici attraversando diversi spazi della città, ovvero scalinate, piazze, ecc. La sovrapposizione tra architettura temporanea e paesaggio genera una realtà urbana ideale ma caratteristica del luogo prescelto, che porta attraverso l’azione teatrale a una riflessione sociale per quel contesto specifico. Lo stesso Luca Ronconi, non è nuovo a messe in scene in spazi urbani. Nel 1969, alla regia dell’Orlando Furioso (Spoleto, 1969) coadiuvato dalla riduzione testuale di Sanguineti, mette in scena uno spettacolo rivoluzionario, rompendo le convenzioni teatrali dell’epoca: adottando una struttura drammaturgica labirintica e un montaggio

Le Baccanti di Euripide, Istituto Magnolfi, Prato, 1977 traduzione di E. Sanguineti, regia di L. Ronconi, scenografia di G. Aulenti che propone un allestimento scenico in forma di percorso

Calderón di P.P. Pasolini, Taetro Metastasio, Prato, 1978 regia di L. Ronconi, scenografia di G. Aulenti

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Bozzetto di Umberto Bertacca della scena dell’ Orlando furioso di L. Ronconi, 1969

mirato al duplice coinvolgimento e spaesamento dello spettatore, costruisce una composizione volutamente popolare, che ricorda le rappresentazioni medievali o le feste barocche. Scelto un testo drammatico che potesse risultare familiare o riconoscibile dallo spettatore, ne frantuma l’unità in una costellazione di quadri visivi autonomi: lo spazio scenico è costruito come un ambiente complesso nel quale operano simultaneamente diversi percorsi narrativi, costringendo lo spettatore ad una selezione e ad una visione quasi inevitabilmente parziale dell’opera. L’azione è dappertutto: uno spazio rettangolare delimitato da due palcoscenici speculari con scenari dipinti sui due lati corti e da due americane con proiettori sui due lati lunghi. Nel mezzo si trovavano: carrelli- piattaforme mobili, gabbie di legno, mostri e cavalli in lamiera, elementi componibili in continuo movimento e perenne rimodulazione nello spazio, manovrati a vista dai tecnici e dagli attori, che si mischiavano con il pubblico. «La scena invade lo spazio degli spettatori, frammentandosi in mezzo a loro»2. 22

Lucia di Lammermoor, Ravenna, 1986 allestimento scenografico di A. Rossi

Un altro architetto ad occuparsi di teatro fu Aldo Rossi, le cui opere architettoniche e scenografiche sono legate da un filo: l’interesse per l’evoluzione urbana. Egli definisce la città, nel suo libro L’architettura della città, «scena fissa delle azioni dell’uomo», creando un parallelo tra palcoscenico e contesto urbano, allestimento scenico e architettura, sono l’uno il mezzo dell’altra. Ad esempio, in Lucia di Lammermoor (Rocca Bracaleone, Ravenna, 1986) la scena nasce dall’incontro tra architettura reale e architettura scenica: le mura vere della Rocca fungono da cortina tra due spazi comunicanti, attraverso un sistema di accessi e aperture che ricordano la tradizione classica e individuano il vuoto triangolare dellospazio scenico che è contemporaneamente interno ed esterno. Dietro di esse, si innalzano edifici fittizi i cui profili sono parzialmente visibili, che con guglie, tetti spioventi e piccole finestre che richiamano lo skyline di una città gotica, evocando l’atmosfera della Scozia del XVII sec. La scenografia di questo spettacolo gli da, così, modo di indagare il tema della piazza come costante tipologica dell’evoluzione urbana.


L’attuale tendenza del teatro contemporaneo si basa soprattutto sull’azione dell’attore e sul suo movimento, anche in spazi privi di riferimenti concreti: «il luogo del teatro non preesiste all’opera, ne è creato; lo spazio scenico è movimento drammatico, non illustrazione del dramma. Il problema dello spazio non è cioè come e dove mettere gli spettatori, o come creare lo sfondo della rappresentazione; lo spazio del teatro è pensato in prima istanza come luogo del movimento»3. A dimostrazione di questo concetto possiamo citare le ricerche in campo teatrale, del regista e visual artist Fabrizio Crisafulli e in particolar modo il suo Teatro dei luoghi: secondo cui, un sito esistente non deve essere assunto come semplice “scenografia” per uno spettacolo, ma come elemento di relazione, in cui le azioni teatrali non sono solo ambientate, ma creano esse stesse il luogo e il luogo crea le azioni. Questo perché ciascun luogo ha una propria identità e delle memorie, per cui può diventare matrice dello spettacolo, durante il quale il corpo dell’attore produce delle variazioni spaziali, che rimangono impresse nello spazio anche dopo che la performance è finita. Molti di questi lavori, a metà tra installazione e performance, si rivolgono a un pubblico la cui partecipazione e relazione è soprattutto emotiva e psicologica, perché lavorano sull’immaginario dello spettatore usando luci, suoni e immagini, come elementi propulsori e non secondari o aggiunti. È la trasmissione del messaggio e non più la qualità formale a interessare, permettendo la diffusione di valori e significati variabili, ovvero, viene sottolineata l’essenza comunicativa dello spazio scenico e non più tradizionalmente quella costruttiva.

Fotogramma dal film di scena de Il pudore bene in vista, , 1991 regia di F. Crisafulli

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«il teatro possa farsi dappertutto nella città, sopra qualsiasi sfondo, perché il primo teatro è lo sfondo della vita associata, ossia l’immagine stessa della città» perché «la scenografia è già nel luogo stesso».

L. Zorzi, Intorno allo spazio scenico veneziano, in M. Brunsatin (a cura di), “Venezia e lo spazio scenico”, Venezia 1979

1. Cfr. V. Fiore, a proposito del site-specific, in Tecnologie della finzione. L’effimero e la città, Palermo, 2011 2. Cfr. F. Cruciani, Lo spazio del teatro, Roma-Bari, 2003 3. Ivi

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2. ARTE NELLO SPAZIO URBANO Negli ultimi 10 anni abbiamo assistito sempre più, a una maggiore attenzione da parte dei media e delle amministrazioni pubbliche verso l’arte, utilizzata come strumento culturale di riqualificazione del territorio. Il museo esce dai suoi confini spaziali, per ragioni di marketing, di ampliamento dell’audience, per rendere partecipe la cittadinanza locale nelle sue attività e il rapporto con il territorio diventa così effettivo, attraverso l’organizzazione di mostre all’aperto ma soprattutto con la realizzazione di opere site specific negli spazi urbani.

Nella pagina accanto: collettivo artistico SBAGLIATO, poster iperrealista attaccato nelle vie di Roma con lo scopo di interagire con il tessuto urbano, 2011


2.1 L’arte partecipativa : gli anni ‘70 Le prime esperienze di arte nello spazio urbano vanno rintracciate a partire dal ’68 e poi per tutti gli anni ’70, nate dalla crisi sociale e urbana e dai conflitti politici di quel periodo. Negli anni sessanta in Italia, infatti, il boom economico aveva portato a profonde e repentine modificazioni della società e della vita come lo spopolamento di vaste aree del paese e la migrazione verso le città più grandi, che in assenza di una politica di gestione dello sviluppo urbano e territoriale, avevano lasciato campo libero alla speculazione edilizia e a una crescita urbana disordinata. Fu così che le città italiane divennero il luogo del conflitto sociale: sia nelle periferie, cresciute senza infrastrutture e poco vivibili, sia nei centri storici, dove la terziarizzazione e il risanamento immobiliare stavano espellendo i ceti popolari. Sulle basi di questa condizione sociale e storica, gli artisti decisero di scendere per strada e calarsi nel sociale, facendosi strumento per dare voce al malessere e ai problemi del periodo, per attivare forme di azione e partecipazione, nella possibilità di far accedere liberamente alla produzione e diffusione di cultura. Nei gruppi attivi in quegli anni l’azione politica e quella culturale erano spesso congiunte e manifestavano il desiderio di partecipare direttamente alla produzione culturale, abolendo la separazione tra artista e spettatore, tra produzione e consumo, tra arte e politica. [VEDI SCHEDA N.4] Molti degli artisti attivi in Italia manifestarono anche una particolare attenzione all’aspetto comportamentale e antropologico dell’esperienza, perché secondo loro, era decisiva nella definizione della morfologia urbana. 26

UFO, urboeffimero n.3, Firenze febbraio 1968

Ad esempio, il progetto Urboeffimeri (Franco Mazzucchelli, Milano, 1968) trasformava oggetti di consumo in gonfiabili in PVC cresciuti a dismisura, collocandoli senza preavviso in maniera incongrua nella città, in diversi scenari urbani, mettendoli a disposizione della gente, lasciando che se ne appropriassero o che venissero distrutti dal tempo. L’artista documentava e registrava nel frattempo i movimenti e le azioni di appropriazione e modificazione degli oggetti, anche intervistando i passanti. Le forme di questi gonfiabili, effimere presenze contro l’immutabilità delle architetture che li circondavano, venivano progettate in rapporto alla conformazione dello spazio che li ospitava e diventavano motori di happenings, le cui regole del gioco erano definite dagli stessi utenti.


Ugo La Pietra, I Gradi di libertà,

Un altro esempio è fornito dall’attività di Ugo La Pietra (già attivo durante l’esperienza di Campo Urbano), anche lui interessato alla variazione introdotta da un elemento estraneo al sistema urbano. In I Gradi di Libertà (Milano-Baggio, 1969-1972), esplorò a piedi la periferia milanese alla ricerca di tracce informali, segni dissonanti rispetto al contesto, recuperate nelle città. Raggruppate in diverse famiglie (manipolazioni, itinerari preferenziali, recupero, reinvenzione, desiderio di possesso), li registrò e li raccolse in delle tavole attraverso fotografie, fotomontaggi, disegni, annotazioni e grafici. I cammini disegnati nel verde dalle persone, gli orti spontanei, i materiali riciclati, le costruzioni improvvisate e le architetture nascoste nei vuoti urbani, erano tutti testimonianza dell’appropriazione creativa

dello spazio da parte degli abitanti, di una comunicazione spontanea ovvero di autoproduzione spaziale. Lo scopo di questo “approccio antropologico” era mostrare le stratificazioni culturali radicate nel paesaggio e nelle città, nelle forme abitative popolari, nelle strade, in modo da ritrovare la memoria collettiva, popolare e materiale di un luogo. Questo genere di esperienze si avvicinarono anche all’architettura radicale italiana e alle sue teorie. I gruppi nati in seno alla Facoltà di Architettura di Firenze nel 1966-67 (Superstudio, Archizoom, UFO), sfiduciosi del Movimento Moderno e consapevoli della crisi delle città, trasformarono l’architettura stessa in situazione e comportamento, avvicinandosi spesso alle arti visive. Secondo queste teorie, l’individuo doveva divenire produttore del proprio ambiente e per fare ciò, l’aspetto performativo era fondamentale per un «libero progettarsi dell’uomo» 1. Questi assunti divennero espliciti nel loro design, non funzionalista, ma spesso giocoso inserito nell’abitazione privata considerata luogo dell’elaborazione creativa dell’individuo. Riccardo Dalisi - architetto, designer e artista - costituisce uno snodo fondamentale per lo stesso tema e per le esperienze partecipative italiane, il quale superò la forma effimera dell’happening avviando una progettazione fondata sul rapporto diretto con uno specifico strato sociale, rivolgendosi a luoghi e utenze concretamente degradati e non all’intera cittadinanza. Il caso esemplare è l’animazione che portò dal 1971 al 1975 nel quartiere Traiano di Napoli, dove vi trasferì gli studenti del suo corso universitario di Composizione architettonica, per lavorare e confrontarsi con i bambini sottoproletari. 27


Riccardo Dalisi, animazione del rione Traiano di Napoli 1971-75

Traiano era il più grande quartiere napoletano di periferia, caratterizzato dall’edilizia popolare e privo di infrastrutture. Dalisi, avviò un’esperienza creativa con quei bambini, molti dei quali non andavano a scuola, attraverso il disegno, l’invenzione di oggetti, manufatti e strutture tridimensionali e spaziali, utilizzando tecniche e materiali poveri, che spesso venivano già usati dai bambini nei loro giochi, per poi anche venderne alcune. Lo scopo era liberare la creatività dei bambini, per garantire il loro diritto alla città e «di dare a tutti il modo di esprimere graficamente e spazialmente di contribuire alla formazione del proprio spazio» 2. Questa architettura d’animazione scaturisce dalle sue riflessioni sull’importanza e il valore della discontinuità e dell’imprevedibilità delle varianti contro la visione funzionalista e rigida dello spazio urbano: «diverso sarebbe stato il disegno del quartiere e dei tipi edilizi se i progettisti, fossero andati a vivere parte della propria esistenza tra gente simile agli attuali abitanti del Traiano» 3. 28

Questa esperienza fu l’occasione per studiare dal vivo le connessioni tra spazio architettonico e società e verificare la validità delle tecniche di intervento ma anche per porre la questione urbanistica sotto la luce socioeconomica e politica, dando nuova importanza alla microeconomia del quartiere. Un altro tema frequentemente affrontato in quegli anni dagli artisti, perché era vivo il dibattito anche in campo urbanistico e architettonico, fu il centro storico e le modalità con cui intervenirvi. Gli interventi svolti ad esempio dal Gruppo Salerno 75 nel centro storico di Gubbio, inserendosi nelle politiche di risanamento intraprese dal comune, avevano come scopo la partecipazione della gente attraverso la mediazione di un segno. Gessificare (Gubbio, 1975), consisteva nella produzione in loco di calchi in gesso di particolari architettonici, per poi poggiarli accanto agli originali per strada e nel registrare suoni e voci, compiendo un gesto di riappropriazione del


luogo e di svelamento delle stratificazioni della città storica. Oppure in Identific-azione (Antonio Davide, Gubbio, 1976), elementi del vissuto entravano nella città: immagini d’interni domestici furono proiettate sulle facciate delle case del centro storico, per focalizzare l’attenzione sulla vita quotidiana contro il consumo turistico della parte popolare della città. Il dibattito nazionale e internazionale sull’arte nello spazio urbano tra gli anni 60 e 70 affronta anche il tema della scultura e il passaggio dalle drop sculptures (opere realizzate in studio e poi spostate negli spazi urbani, di cui ne rimanevano indifferenti) alla site specificity (sculture pensate e realizzate per un luogo specifico, che dialogavano con la dimensione culturale e storica urbana). Si diffusero così in tutta Italia mostre di sculture nelle città e in particolar modo nei loro centri storici, dove il segno plastico permetteva di inserire modernità nello spazio storico, senza fare del passato un museo e di rivelare significati, memorie e nodi strutturali, rilanciando il tessuto urbano nell’aspetto processuale e performativo dell’arte. Spesso le sculture erano anche traumatiche, destabilizzanti e critiche, passando da segni plastici educativi a segni trasformativi: il segno costruisce la città. La manifestazione Volterra 73 fu un’alternativa sia alle mostre di sculture in città sia agli happening: le sculture sparse in vari punti della città, furono affiancate da affissioni murali, installazioni, una rassegna di film d’artista, indagini sociologiche. Tra le varie installazioni, ricordiamo i Costruttivi trasformabili di Nicola Carrino, elementi modulari modificabili siti in una piazza del centro storico della città, permettevano di essere composti e scomposti in vari modi, suggerendo una spazialità non data una volta per tutte e da una

abitudine visiva e d’uso degli spazi che poteva essere cambiata da chi voleva attuare delle trasformazioni. La scultura diveniva in questo modo dispositivo per generare atti trasformativi dello spazio urbano, perché «l’arte agisce attraverso il luogo nel contesto sociale e politico» 4.

Gessificare, Gubbio 1975

Nicola Carrino con i suoi Costruttivi trasformabili, sculture modulari in acciaio , 1969

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2.2 Da “politica” a pratica del luogo: dagli anni ’90 a oggi Negli anni novanta le esperienze artistiche perdono il loro carattere politico che avevano avuto negli anni precedenti e si diffuse il termine di “arte relazionale”: «un’opera d’arte relazionale è interessante quando accetta/apre una dimensione problematica» 5. Lo scopo infatti era individuare aspetti dei comportamenti, le scelte e le abitudini apparentemente insignificanti delle persone attraverso metodi relazionali, cioè con la partecipazione del pubblico fruitore alla costruzione o alla definizione dell’opera di cui fruisce. L’artista relazionale, abbandonando la produzione di oggetti tipicamente estetici, si adopera per creare dispositivi in grado di attivare la creatività del fruitore trasformando l’oggetto d’arte in un luogo di dialogo, confronto e, appunto, di relazione in cui perde importanza l’opera finale e assume centralità il processo, la scoperta dell’altro, l’incontro. In molti dei lavori del decennio la definizione della soggettività si unisce ad elementi del vissuto quotidiano, esperienziali, in modo da connettere la propria storia con quella altrui in una dimensione plurale e socializzante. La città diventa il luogo di questa possibile socialità, di cui si cerca di stimolare un uso ludico e la strada diventa pubblica quando avviene lo scambio. Molti dei gruppi attivi in quegli anni nacquero all’interno delle facoltà di Architettura: Stalker, Città svelata, Cliostraat, gli A12, per citarne alcuni. Compiendo camminate, esplorazioni, azioni urbane, dichiararono la limitatezza degli strumenti disciplinari ordinari e usarono pratiche diverse per lasciare non segni tangibili ma esperienze, riconnettendo luoghi e persone. 30

Insieme a queste tendenze, a patire dagli anni ’80 in poi, le politiche culturali urbane in Europa spostarono il loro obiettivo dalla partecipazione popolare allo sviluppo economico. Il tema della rigenerazione urbana fu connesso ai propositi della crescita economica e del rinnovamento urbanistico, in cui la cultura poteva diventare una risorsa strategica per lo sviluppo della città, per attivare investimenti e turismo. Napoli e Torino, furono le prime città italiane che negli anni novanta intrapresero numerose iniziative d’arte pubblica correlate al disegno urbano, insieme a politiche di riqualificazione del patrimonio storico e degli spazi urbani: piazze pedonalizzate, spazi ed edifici restaurati, rassegne (come ad esempio Luci d’artista, a Torino nel 1997). Ma fu Torino che più riuscì a crearsi l’immagine di città della creatività contemporanea, grazie alla sua visione strategica, la diversificazione della progettualità e la capacità di fare le attività artistiche e culturali a sistema. Con il programma “Nuovi Committenti” (2001-2008), promosso dalla Fondazione Olivetti e seguito dal gruppo a.titolo, si unirono le energie degli artisti da una parte e dell’amministrazione pubblica insieme ai privati e ai cittadini dall’altra, nella procedura di produzione d’arte. Con questo sistema, la partecipazione degli abitanti si esercita, non solo alla fine ma anche a monte nel definire i contenuti del progetto artistico, riconoscendo la loro competenza rispetto a quel luogo specifico: il curatore diventa mediatore e il cittadino committente. Da questo esempio in poi, le fondazioni private iniziarono a svolgere in Italia un ruolo importante per la creazione di iniziative rivolte allo spazio urbano, come nel caso di Arte all’arte, rassegna svolta a Volterra e organizzata dall’Associazione Arte Continua a partire dal 1996 fino ad oggi. [VEDI SCHEDA N.5]


Millo, uno dei murales del progetto Habitat, Torino

Più recentemente, all’interno dei programmi di rigenerazione urbana un’altra forma di arte sta acquisendo un ruolo sempre più attivo: la street art. Riconosciuta come vera e propria forma d’arte solo recentemente e risultato della cultura underground, sulla scia delle principali città europee quali Londra o Berlino, oggi acquisisce una maggiore eco anche sul territorio italiano. Essa si presenta come un forte strumento di comunicazione, consentendo una trasmissione diretta tra l’artista e la città, ovvero tra quest’ultima e il cittadino. È anche grazie a questa pratica che le periferie, luoghi apparentemente dimenticati e abbandonati al proprio destino, iniziano a rivivere, a inviare messaggi e raccontare storie, le loro storie.

Ecco che la street art, per via della sua forte impronta artistica e comunicativa, ha iniziato ad essere introdotta all’interno di programmi di rigenerazione urbana da parte delle amministrazioni locali in molte città italiane. Tra gli innumerevoli casi ormai in Italia, ricordiamo il progetto B.ART- Arte in Barriera (quartiere Barriera di Milano, Torino), promosso dal Comitato Urban Barriera e il comune di Torino: bando internazionale di arte pubblica volto a dare vita ad interventi artistici su 13 facciate cieche di edifici pubblici, con lo scopo di aumentare la qualità urbana e l’attrattività ambientale. Vincitore del bando è stato il poggetto Habitat, dell’artista pugliese Millo (famoso a livello internazionale), il quale si concentra sul rapporto tra lo spazio e 31


alcuni interventi del colletivo SBAGLIATO a Roma

l’individuo. Come affermato nel sito ufficiale di B-Art, l’artista si è occupato di «disegnare sulle pareti delle facciate per creare un habitat che possa permettere a ciascun osservatore di sentirsi parte di quel mondo. Lo spettatore “abita” una serie di immagini in cui il soggetto principale delle opere, perennemente fuori scala all’interno dell’ambiente circostante, tenta di stabilire con esso relazioni differenti. L’essere fuori scala è infatti metafora del nostro habitat e di come luoghi da noi abitati negli anni si siano trasformati e siano ormai, paradossalmente, non più a nostra misura» 6. Questa forma d’arte, dunque, non “abbellisce” semplicisticamente la città ma riesce a instaurare un rapporto con l’ambiente circostante che ne costituisce il riferimento, attirando l’attenzione dei passanti su forme e condizioni di porzioni del tessuto urbano, spesso degradate, veicolando un messaggio. Un altro esempio, dai forti connotati architettonici ed estetici, è l’attività svolta dal collettivo romano SBAGLIATO, che si basa sulla ri-conte 32

stualizzazione e mimetizzazione visiva di alcuni elementi architettonici trasposti in un nuovo tessuto urbano, realizzata attaccando poster fotografici iperrealisti, come un trompe l’oeil contemporaneo. Che sia una finestra, una porta, un qualsiasi elemento architettonico, qualcosa di insolito e di sbagliato, appunto, sarà caratterizzato dal fatto che non si può attraversare, toccare o verificarne la coerenza materiale, perché, non è tridimensionale. Lo scopo è quello di interagire col tessuto urbano attraverso l’illusione e la sorpresa, evocando le possibili reazioni ed istinti che scaturiscono dallo stravolgimento delle leggi della prospettiva, della visione e quindi dal contatto con il vuoto. Inserendo immagini già presenti nel tessuto urbano, come elementi architettonici, ’osservatore può anche non accorgersi della nuova presenza su un muro che vede tutti i giorni. Nel caso in cui il fruitore colga l’inganno potrebbe innescarsi in lui una successione di stati di animo contrastanti e una serie di domande sempre più approfondite su cosa comporta la


scelta di aprire un vuoto prima impensabile. Come gli stessi autori hanno dichiarato: «In passato ci è stato detto che realizziamo degli effetti speciali non digitali ma analogici [..]. Sicuramente ci sono dei punti di contatto, in particolare nell’approccio così teatrale nei confronti dell’architettura, dove tutti gli elementi sono scenograficamente studiati nel dettaglio» 7. I festival di street art si stanno succedendo anno dopo anno, e sono arrivati anche nella città di Catania come dimostrano i progetti Street Art Silos - otto artisti di fama internazionale, reinterpretano i miti siciliani per riqualificare la zona del porto di Catania - e lo stesso ReWallution,

avvenuto proprio nella Civita su alcune facciate cieche degli edifici prospicienti Largo XVII Agosto. [VEDI SCHEDA N.6] In conclusione, anche se l’attenzione verso questi strumenti di riqualificazione urbana è cresciuta nel corso della storia, essa purtroppo non è ancora coerente o continua, perché troppo dipendente dalla volontà dell’assessore di turno e priva di riferimenti legislativi o di un supporto politico. Inoltre, spesso è difficile che un committente accetti l’incognita del risultato, in quanto sono processi dalla temporalità lunga, i cui risultati non sono sempre percepibili nell’immediato, essendo la crescita culturale difficile da misurare, anche se efficace più di altri metodi.

Street Art Silos, Catania

1. Cfr. Germano Celant, Arte povera + azioni povere, 1968 2. Cfr. Riccardo Dalisi, Architettura d’animazione, Editore Carucci, 1975 3. Cfr. Riccardo Dalisi, L’usucapione infantile negli scheletri urbani, in “Casabella n.373”, gennaio 19734. 4. Cfr. Nicola Carrino, Forma e luogo, in “Il luogo della forma”, catalogo della mostra, Verona 1981

5. Cfr. Cesare Pietroiusti, Conversazione, in a.titolo (a cura di), “Proposte XVII – LabOratorio 3.Situazioni”, Torino 2002 6. www.arteinbarriera.com 7. Cfr. dall’intervista con SBAGLIATO, in www.artwort.com/2016/10/17/arte/street-art/dellillusione-e-della-vertigine-intervista-a-sbagliato

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3. IL PROGETTO DELLO SPAZIO URBANO: CITTA’ A MISURA D’UOMO

Nella pagina accanto: bambini vicino all’impronta del Modulor di Le Corbusier, Nantes, Francia.


Il progetto prettamente urbanistico, costituisce uno degli strumenti più convenzionali per agire nella città. Ma in questa sede, non si vuole analizzare in generale l’approccio urbanistico e i suoi strumenti, ma uno in particolare che vede l’uomo al centro del progetto. Città e personalità non sono mai stati termini associati volentieri, perché storicamente fin dall’antichità classica, lo spazio urbano è sempre stato considerato la sede della collettività e di un corpo sociale riconosciuto. Ma accanto alla natura collettiva, la città, è sede di un altro ideale: la personalità individuale. La città moderna, infatti, non nasce come un semplice aggregato di edifici ma come una serie di principi, politiche e azioni che regolano il suo sviluppo nella totalità e di cui l’individuo è il principale attore. Ma è a partire dalla seconda metà del XIX secolo che la prospettiva della dimensione umana nel progetto urbano, si fa sempre più fisica e corporea. Sarà Camillo Sitte (nel suo libro L’arte di costruire la città, Vienna, 1889) a notare come la maggior parte delle piazze italiane, dall’epoca romana fino a quelle medievali e rinascimentali, siano accomunate da tracce e impronte che strutturano lo spazio aperto, testimonianza del ruolo che il soggetto svolge nella costruzione della città reale. Uno spazio pubblico dunque fatto a dimensione non solo della collettività, ma anche di una moltitudine di corpi individuali che lo modellano con le loro azioni quotidiane, i loro rituali sociali e le loro abitudini personali. Dovremo però aspettare il 1951 e l’VIII CIAM (Congresso Internazionale dell’Architettura Moderna), dedicato al “cuore della città”, affinché la concezione della scala umana entri a far parte del dibattito internazionale delle discipline architettoniche e urbanistiche. 36

Da questo momento in poi si diffonde, tra molti progettisti, l’intenzione di individuare la relazione tra lo spazio fisico e le necessità socio-psicologiche dell’uomo, in modo da consentire all’architettura di rispondere alle reali necessità di chi abita in quel luogo, consentendogli la possibilità personale di intervenire direttamente nella conformazione del proprio spazio. Il concetto alla base di queste ricerche è la raggiunta consapevolezza che la realtà urbana risulta dalla confluenza di elementi tangibili elementi materiali strutturati, gli edifici e gli spazi pubblici, elementi di accumulazione sociale - e intangibili - attività e flussi umani. Ogni luogo è, infatti, definito dalle proprie caratteristiche di identità, storia, cultura e relazione che lo definiscono quale luogo antropizzato e come riflesso storico dell’evoluzione degli elementi intangibili. In questo senso, lo spazio pubblico assume il ruolo di strumento di espressione dei valori civici che sono a fondamento della città, del tipo di vita che vi si conduce o che vi viene stimolata. Spesso il raggiungimento di questa condizione non dipende dalla forma o dal disegno dello spazio: luoghi che sembrano architettonicamente “inadeguati” possono comunque risultare emblematici e simbolici per la città, perché l’identità di un luogo non ha niente a che vedere con la sua dimensione. Il luogo è un’entità psichica e ideologica, che viene definito dall’esperienza personale, dall’elaborazione di pensieri, immagini e suoni filtrati dalla memoria, di chi lo fruisce. Gli elementi tangibili e intangibili, le informazioni materiali e immateriali, che è possibile registrare nel contesto possono essere, dunque, il punto di partenza per il progetto dello spazio pubblico urbano, assumendo la “realtà ampliata” come strategia per il suo recupero.


Il progetto non dovrebbe solo guardare alla risoluzione di problemi estetici, formali e compositivi, ma soprattutto al comfort, che oltre alle esigenze degli utenti si basa anche sulla loro percezione multi-sensoriale, al fine di generare scambi tra forme, spazi, eventi, soggetti e contesti. L’obiettivo finale è recuperare l’architettura del sentire piuttosto che l’architettura del vedere, per garantire la qualità dello spazio pubblico urbano.

3.1 Spazi personali La ricerca sulla dimensione personale degli spazi aperti urbani inizia dalla metà degli anni Cinquanta, durante il quale nel campo dell’urbanistica, dell’architettura e del design, come alternativa alle tendenze progettuali dell’epoca, si iniziano a cercare soluzioni tecnologiche e spaziali “intermedie”, ovvero basate sulla possibilità da parte della gente di manipolarne gli elementi, per riscoprire un comune senso sociale e umano. Era stato già Henri Lefebvre a sottolineare come nell’epoca contemporanea si fosse compromesso il senso di appartenenza tra la città e i suoi abitanti: sottraendo ai cittadini il controllo diretto e la partecipazione alla produzione del proprio ambiente, la città perde il suo senso civico. Nel 1951 Walter Gropius propone di tornare a una «scala umana», interessandosi agli effetti psicologici del rapporto tra la dimensione fisica del corpo e lo spazio: è da questo momento in poi che l’architettura urbana cercherà di conciliare la forma dello spazio pubblico con l’esperienza concreta di chi lo vive. Negli anni Sessanta, così, esplode il concetto di spazio personale all’interno dell’ambito urbano e si arriva a una più consapevole progettazione degli spazi collettivi, grazie anche al supporto delle ricerche coeve in psicologia ambientale e geografia urbana, culminate nel 1960 con la pubblicazione di The Image of the City, di Kevin Lynch – che affronta gli effetti psicologici e percettivi della forma dello spazio urbano. Negli studi di architettura di quegli anni, la ricerca progettuale sugli spazi aperti urbani si sposta sullo studio di elementi flessibili e adattabili per l’uomo: vengono pensati “ambienti sensibili”, cioè in grado di 37


Gioggia, Italia. “Traffic-free living street |Looking for a place in the Rotterdam, Olanda. “Traffic-free living street |Looking for a place in shade” the sun” immagini tratte dal libro di H. Hertzberger, Lessons for student in Architecture, 1991

rendere massima la possibilità di scelta dei suoi utenti, inserendo nel processo progettuale stesso la possibilità di personalizzare lo spazio, sia da parte dell’individuo che della collettività. L’architetto olandese H. Hertzberger parlerà, a riguardo, di «spazio abitabile fra le cose» 1. La sua analisi parte dallo studio di comportamenti spaziali insiti nelle più semplici pratiche quotidiane di ognuno di noi, che il progettista deve saper stimolare, definendo una forma spaziale invitante per l’utente, in grado di accogliere il gesto dell’uomo che intende prendersi cura di quello spazio. Solo in questo modo, è possibile sperare di suscitare l’affezione e l’interesse che il luogo ha bisogno per sopravvivere. In un’altra delle sue lezioni agli studenti di architettura (Bari, 1996), parlerà anche di teatro negli spazi della città: mostrando la foto di una tipica piazza italiana, di cui descrive le relazioni tra spazi pubblici e privati e i movimenti degli attori che animano la scena, dimostra come il “grado zero” del teatro, basato semplicemente sulla relazione tra movimento, spazio e corpo, può trasformare 38

gli spazi pubblici diventando uno strumento per costruire gli spazi urbani. Attraverso gli uomini, attori e spettatori, e i loro corpi, gesti e posture, ogni elemento architettonico e urbano si anima e trova un suo ruolo, che va oltre quello per cui è stato originariamente costruito. Sembra esserci una regia invisibile, che si manifesta nella naturale organizzazione fisica dello spazio aperto, in cui l’architettura, svolge il ruolo di scena fissa, che ospita la vita degli uomini. Queste riflessioni sono la base per un approccio progettuale che considera il corpo e il suo movimento, un elemento centrale. Il corpo, infatti, non solo si muove spesso con modalità di cui non si è coscienti ma ne ha anche bisogno, non solo dal punto di vista anatomico ma soprattutto cognitivo: attraverso l’azione del corpo emergono le strutture cognitive che permettono all’uomo di interagire con il mondo fisico, ovvero l’apprendimento coincide con l’azione. L’uomo con il suo corpo, quindi, abita lo spazio nel momento in cui lo organizza, definisce e trasforma, come in un progetto continuo.


3.2 Lo spazio flessibile: «manipolabilità» e «reversibilità»2

Zion & Breen, Paley Park, New York 1967, sezione di progetto

Alla fine degli anni Ottanta, l’antropologo e urbanista Franco La Cecla, nei suoi studi sulla società contemporanea, sottolinea che «il nostro spazio è sempre meno nostro», perché con il progressivo processo di funzionalizzazione che il Movimento Moderno ha diffuso, è diventato sempre più difficile intervenire, modificare e trasformare il proprio ambiente, togliendo agli individui la loro facoltà di abitare 3. Per contrastare questa tendenza e individuare spazi pubblici che permettono la costruzione dello spazio da parte dei suoi utenti, si ricorre al concetto della flessibilità, che si traduce in «manipolabilità» e «reversibilità», introdotto nel campo del progetto urbano grazie a Lynch. Nel 1981, nella sua teoria della forma urbana, afferma che bisogna lasciare un certo margine di controllo ai fruitori di un ambiente urbano, sia in fase di progettazione che di gestione, per garantire che risulti adattabile nel tempo. Queste teorie trovano conferma in alcuni progetti in America, ancora prima degli anni ’80, come quello di Paley Park di New York.

Progettato dallo studio di paesaggisti Zion & Breen e costruito nel 1967, il piccolissimo parco (400 m2 circa) è in realtà una piazza pavimentata in porfido – a richiamo della consistenza naturale del terreno - rettangolare, sorta al posto di un edificio demolito, che si presenta come una piccola stanza a cielo aperto, chiusa su tre lati dai grattacieli e aperta sulla strada sul lato restante. Arretrata e rialzata rispetto al piano stradale, vi si accede tramite una scalinata ed è racchiusa ai lati da muri ciechi ricoperti di edera, mentre quello di fondo opposto alla strada è coperto interamente da una cascata d’acqua. L’attrezzatura consiste in una serie di elementi mobili e leggeri, sedie e tavolini, che possono essere liberamente spostati dai visitatori a seconda delle loro esigenze, che siano in cerca di ombra, quiete o compagnia, i quali sono anche protetti dalla chioma degli alberi a interasse sfalsato che ricoprono la superficie della piazza. Ciò che rende il progetto esemplare, è che la stessa struttura spaziale è progettata per valorizzare la possibilità dell’intervento personale, come se fosse una scena costruita solo 39


Paley Park, New York

in vista del movimento dei suoi attori: lo spazio non è solo attrezzato da elementi mobili, ma viene progettato in funzione della loro mobilità, intesa sia come possibilità d’uso sia come qualità estetica. Questa mobilità, quindi, permette all’utente un atto minimo ma fondamentale di appropriazione spaziale, che consiste nell’affermazione simbolica della propria individualità e nell’adeguamento funzionale alle proprie condizioni. Affinché queste strategie progettuali si diffondano anche in Europa, si devono però aspettare gli anni Novanta, come testimonia il progetto per la riqualificazione della piazza del teatro a Rotterdam. [VEDI SCHEDA N.7] A partire da questo momento in poi si diffondono forme mediate di progettazione partecipata e di gestione condivisa dello spazio, basate sul principio di parcellizzazione dello spazio pubblico, in cui controllo personale e apertura sociale si fondono insieme in un unico progetto inclusivo. 40

Assistiamo al proliferarsi di progetti che cerano di riqualificare i “vuoti” della città consolidata, attraverso laboratori di autocostruzione, in cui gruppi di architetti e collettivi urbani si limitano a definire un assetto spaziale di massima, all’interno del quale ognuno può apportare i cambiamenti che vuole. [VEDI SCHEDA N.8] Ne è un esempio il progetto Place au Changement (Saint – Etienne, 2011): una piazza pubblica temporanea ricavata in un angolo di isolato vuoto e abbandonato di cui è già prevista la riedificazione, per cui il Collectif Etc. pensa a una destinazione transitoria che possa dare senso a questo spazio residuale e degradato. Il progetto simula il processo di costruzione di un nuovo edificio, rappresentando sul terreno un immaginario piano terra, attraverso sezioni di muri perimetrali e tramezzi, in modo che gli abitanti possono avere un’idea dell’impatto che una nuova fabbrica avrebbe all’interno del lotto. Per un mese intero, sono stati, quindi, aperti al pubblico diversi labo-


Colletctif Etc., Place au Changement, Saint - Etienne, 2011

ratori urbani - di falegnameria, per costruire l’arredo, di progettazione per definire l’allestimento in relazione all’ambiente circostante, di paesaggio e giardinaggio, per creare un giardino comune – mentre il collettivo si limitava a fornire strumenti, attrezzi, consigli, in modo da affidare l’intero lavoro di progettazione e costruzione a chi partecipava. Un altro intervento di rigenerazione urbana da menzionare, dello stesso stampo ma su una scala più ampia, è quello realizzato da un gruppo di architetti, artisti e rappresentanti locali a Bucarest nel 2010, lungo una delle maggiori arterie della città, Calea Mosilor, i cui spazi pubblici risultavano privi di ogni qualificazione formale e funzionale, a causa dell’interruzione dei progetti di pianificazione urbanistica avviati nell’89. Il progetto consiste in un leggerissimo intervento di arredo urbano, basato soprattutto sull’uso del colore, diviso in quattro progetti diversi (A passage between two worlds, A place for the community, Please do step the grass, Urban Living room)

ognuno in una zona diversa, caratterizzati tutti dall’uso di elementi recuperati o riciclati dagli abitanti e dalla volontà di creare micro-luoghi nel tessuto urbano, per incoraggiare pratiche diverse di appropriazione personale dello spazio urbano da parte dei suoi abitanti, che permettono un maggiore scambio interpersonale. Ciò che tutti questi progetti dimostrano è come la possibilità che gli abitanti hanno di controllare i propri spazi, non si basi esclusivamente sull’opportunità di variare materialmente il loro assetto, ma anche sull’interpretabilità personale del modo di abitare questi spazi, che si manifesta in pratiche differenti, a dimostrazione del fatto che il nostro corpo non solo costruisce, ma anche capisce e si adatta alla natura di un certo spazio. Per «adattabilità», quindi, «non si intende la capacità di un edificio di vedere cambiato il proprio assetto spaziale, ma quella di prestarsi a diversi usi da parte di utenti differenti, indipendentemente dalla propria reale flessibilità fisica» 4. 41


3.3 Il «modernismo ludico» 5 L’importanza data al corpo, nelle pratiche progettuali analizzate, si fonda sulla convinzione che è proprio attraverso il corpo che l’individuo realizza la prima comprensione dello spazio, di tipo esclusivamente relativa, su cui poi si basano i successivi apprendimenti superiori. Lo spazio, così, è originato dalle stesse capacità motorie e percettive del soggetto, che lo struttura e organizza a partire dalla propria corporeità. Il corpo svolge quindi il ruolo di strumento cognitivo, permettendo una concezione spaziale elementare e assolutamente personale. A partire da questa considerazione, si sviluppa a partire dagli anni Sessanta un altro approccio nella definizione dello spazio pubblico, basato sull’articolazione di elementi polivalenti, che renda lo spazio pubblico fruibile negli usi più diversi ma che soprattutto coinvolgano il fruitore per esprimere la sua creatività. Il parco giochi, ovvero il principio del playground, diventa modello operativo e riferimento tipologico nella progettazione degli spazi pubblici, con lo scopo di trasformare la partecipazione in gioco disimpegnato. Antesignano di questa concezione è Aldo van Eyck, il quale definisce «città interiorizzata», uno spazio urbano «personale» e variabile, eppure inscritto in una configurazione architettonica definita e stabile 6. Compito dell’architettura sarebbe, per lui, «la creazione di interni sia fuori che dentro. Perché l’esterno è ciò che viene prima dell’ambiente umano; […]», dove per interno non si intende soltanto uno spazio confinato da muri, ma l’ambito in cui lo spazio si fa luogo. E se l’interpretazione e la comprensione spaziale è un processo 42

Aldo van Eyck, uno dei Playground, Amsterdam , 1947

generato solo dall’uomo, l’architettura ha il dovere di accogliere ma anche di sollecitare il maggior numero di interpretazioni possibili, attraverso una conformazione adatta e una giusta misura. [VEDI SCHEDA N.9] Questo approccio continua anche nel corso degli anni Ottanta, con i primi interventi di arte pubblica contemporanea, con i quali autori come R. Serra, D. Bruen e V. Acconci, dimostrano che ribaltando l’esperienza sedimentata che gli abitanti hanno di un luogo, si possa portarli a interrogarsi sulla natura di quello spazio, che vivono quotidianamente e a interpretarlo in maniera nuova e personale. La città, infatti, è costituita da articolazioni urbane a cui l’uomo spesso sostituisce salti, collegamenti, scorciatoie, sovra-scrivendo alle scelte dell’architetto e dell’urbanista le proprie consuetudini generando un paesaggio urbano diverso. Ad esempio, l’uomo tende ad addolcire una curva ad angolo retto sostituendola con un percorso curvo per una questione di comodità, o in altri casi, sedimentando abitudini e percorsi che creano motivi sempre nuovi sulla trama metropolitana esistente.


Richard Serra, Tilted Arc, 1981 Foley Federal Plaza, New York

Nel 1979, Richard Serra in un progetto di arte pubblica per riqualificare una piazza di Manhattan (lo spazio aperto di fronte al Jacob Jarvis Federal Building), realizza una piastra di acciaio ossidato ricurva, lunga circa quaranta metri e alta quattro, tagliando in diagonale lo spazio, enorme e quasi sempre deserto, della piazza. Egli, però, fa qualcosa di più che abbellire semplicemente la piazza: l’opera ha il compito di interagire con chi di solito attraversa la piazza senza accorgersi di quello che c’è attorno, costringendolo a reagire in qualche modo e a prendere una posizione nei confronti di un ambiente che vive quotidianamente e spesso inconsciamente. La forma curva di questo elemento, dovrebbe accompagnare e accogliere il movimento delle persone, costruendo nuovi punti di vista, prospettive inaspettate e occasioni di incontro o di stasi. La “violenza” di questo intervento, che costringe a cambiare i percorsi quotidiani e che cambia l’aspetto e la struttura di un luogo ormai divenuto familiare, consiste nel dimostrare come un gesto minimale ha comunque la forza di sovvertire l’esperienza sedimentata, che le persone hanno di un luogo, attraverso una sorta di spaesamento o di “deriva” obbligata.

E come dirà Vito Acconci a proposito dei lavori site-specific, l’arte non può sostituire l’architettura alla costruzione della città ma «deve sovrapporsi a ciò che già esiste […] cioè eseguire operazioni su ambienti già costruiti» 7, rendendoli pienamente fruibili per stimolare il pubblico a vivere lo spazio in modo attivo e partecipe, vincendo le proprie abitudini consolidate. In conclusione, le esperienze trattate ci dimostrano che la qualità di uno spazio pubblico, non dipende spesso dalla sua forma o dalla composizione geometrica, quanto dalla sua articolazione in ambiti e oggetti che possono essere riconosciuti, occupati e modificati personalmente, cioè “abitati’ in modo diretto, non solo come corpo sociale ma anche come singolo individuo. Lo spazio urbano deve, quindi, svilupparsi attorno al gesto di chi lo abita: i movimenti, i percorsi e le azioni personali di chi usa lo spazio, possono e devono fare parte del suo progetto, che è così capace di restituire una scala umana all’ambiente che ci circonda. E tutto ciò avviene tramite il corpo e con il modo in cui la città, invece di assoggettarlo a un ordine spaziale predefinito, accoglie e valorizza invece la sua presenza, la sua azione e la sua capacità performativa. 43


La poetica di Francesco Venezia, il suo modo di intendere l’architettura e i suoi progetti, sono stati di fondamentale ispirazione e guida per la formulazione del mio progetto. Al fine di comprendere il suo insegnamento, ho preferito riportare un’intervista che ho letto di recente, realizzata da Francesco Felice Buonfantino nel 1994, e in cui l’architetto tocca alcuni dei temi che più appartengono alla sua sperimentazione progettuale. Intervista a Francesco Venezia: la complessità delle stratificazioni 8 F. B. Nei suoi primi lavori a Lauro si nota una grande attenzione al contesto, la nuova sistemazione della piazza, le case da Lei realizzate dialogano con la preesistenza, sentono il genius loci ... F. V. Molto spesso, ad una prima lettura del sito nel quale il nostro progetto andrà ad inserirsi, non traspare la complessità delle trasformazioni e delle stratificazioni che esso ha sedimentato. Comunque penso non si parta mai dall’idea di armonia fra il nostro progetto ed il sito che lo deve ospitare. Il progetto ha sempre una propria autonomia. Naturalmente tutto il lavoro di adattamento dell’idea iniziale alle condizioni del sito determina talvolta quella piacevole sensazione di non riuscire a distinguere dove il nostro intervento cominci. Mi sembra che questo sia accaduto anche per la piazza di Lauro. Credo che un’opera felicemente riuscita è un’opera che non ci lascia immaginare quel sito priva di essa. Questo è quasi un miracolo, perché inizialmente il sito non prevede la nostra opera. Il cantiere che realizza il 44

Francesco Venezia

3.4 Approfondimento: la poetica di Francesco Venezia

«Un edificio incompiuto o parzialmente rovinato si trasforma in giardino, per gioco diverso della luce e delle ombre determinato dall’assenza del tetto».

progetto infligge una ferita; quando tutto è finito, se il progetto è stato concepito bene e realizzato bene, quasi non leggiamo i confini fra ciò che abbiamo fatto e ciò che è preesistente. F. B. diverso è il caso del suo progetto per il museo a Gibellina nuova (le Case di Lorenzo), dove Lei si è trovato a lavorare in un contesto non antropizzato nel quale doveva inserire alcuni frammenti di un edificio della Gibellina terremotata. F. V. nelle discussioni preliminari alla formulazione dell’incarico mi si chiese di trovare un modo di tenere in piedi questa facciata, quasi di prospettare una soluzione di tipo tecnico... F. B. invece Lei ha realizzato una struttura di supporto che si fa anch’essa carico delle valenze di memoria che inizialmente erano solo affidate alla facciata strappata della città terremotata. F. V. quando mi fu chiesto di realizzare quel progetto ero interessato ad una particolare forma di architettura a cui bene potevo attingere per la


F. Venezia, Museo di Gibellina Nuova (Palazzo di Lorenzo), schizzo, Gibellina, 1987

realizzazione della struttura che ospitasse la facciata “spoliata” dalle Case di Lorenzo. Ritengo infatti che i progetti che si realizzano felicemente sono quei progetti il cui incarico viene conferito quando una determinata idea è giunta a maturazione. E spesso questa idea prescinde completamente dall’incarico stesso e dal sito nel quale si inserirà il progetto. Si potrebbe dire che più che un buon rapporto con il contesto, bisogna avere un buon rapporto con la propria testa, bisognerebbe arrivare all’incarico con qualcosa nella testa. Nel momento in cui viene dato l’incarico la forza dell’idea diventa un “interlocutore” della situazione specifica. Più forte è l’idea, più forte è il rapporto che si stabilisce fra la propria idea e le esigenze del sito nel quale inserire il progetto. Ritengo che questo sia molto più interessante del conflitto -molto fiacco- che si stabilisce nella mente del progettista quando arriva in un posto e comincia a pensare cosa sia adeguato e corretto realizzare in quel posto. Quando mi hanno chiesto di progettare la struttura per le case di Lorenzo stavo riflettendo su alcune fabbriche del manierismo italiano, mi riferisco soprattutto alla sequenza di cortili di Villa Giulia a Roma o al cortile della Cavallerizza a Mantova. Venuta Gibellina sono scattate una serie di risposte....

F. B. Una costante che si può rilevare all’interno dei suoi progetti mi pare sia la volontà di recuperare alla materia la memoria dell’uso che le è consono, della regola d’arte che si è oramai persa. Nelle case di Lorenzo ogni parete, ogni dettaglio racconta di questo sforzo. Potremmo dire che parte del suo lavoro voglia assumere quasi una dimensione didattica. F. V. Nella costruzione delle Case di Lorenzo, per quello che concerne i materiali, è rimasto conforme al progetto iniziale solo la soluzione per la parete che accoglie il frammento della vecchia facciata, sulle altre facce del cortile interno forse c’è questa volontà di ricerca. Penso, in questo senso, al progetto di Alvar Aalto per la sua casa di vacanza di a Muraatsalo dove organizza le tre pareti del cortile aperto come un momento di riflessione sull’uso del mattone, quasi ci fosse la volontà di realizzare un piccolo museo sulle tecniche di utilizzo del mattone. A Gibellina non c’è una forzatura in questa direzione, anche se è vero che c’è, su ciascuno dei muri, una sorta di messa a punto della tecnica da utilizzare.

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F. Venezia, Museo di Gibellina Nuova (Palazzo di Lorenzo), Gibellina, 1987

F. B. Mi pare che si possa dire che questa messa a punto sia anche finalizzata ad una riflessione sulla materia che tenga conto della capacità di “invecchiare” della materia stessa. Come se ci fosse una volontà precisa di fare in modo che Le sue architetture vivano oltre la transitorietà e la caducità professate da Marinetti e dal movimento moderno. F. V. Probabilmente quello che dice è vero. L’attenzione posta nella realizzazione del museo di Gibellina è legata anche al trauma subito vivendo lo scempio che, negli anni, ha subito la piazza di Lauro. In quel caso, anche per l’esiguità del finanziamento, si sono dovuti utilizzare materiali di spessore ridotto che non hanno saputo resistere agli oltraggi degli uomini. A Gibellina viceversa mi sono deciso ad utilizzare un sistema di materiali, di spessori, di tecniche di montaggio, tali da garantire una notevole capacità di resistenza e di invecchiamento. Riflettendo sul fatto che, col tempo, gli agenti atmosferici avrebbero giocato a favore dell’opera stessa. Tornando a Gibellina ad una distanza di una decina di anni ho 46

constatato con piacere che l’opera aveva saputo invecchiare. Le pietre della rampa di accesso, ad esempio, avevano, senza danneggiarsi, assunto colorazioni diverse a seconda dell’esposizione al sole ed alle acque meteoriche. Tutti questi fattori danno all’opera quella certa componente “patetica”, che l’opera appena completata non ha. Un manufatto appena completato è come se non avesse sofferto, è come un neonato con una bella pelle. Se si vuole fare un parallelo è come per l’uomo: un manufatto molto giovane non ha “somatizzato” le esperienze che ha vissuto. Molto spesso sono infatti più interessanti i volti degli uomini che anno vissuto molto piuttosto che quello di giovani privi di esperienze. F. B. questo mi pare sia vero soprattutto quando c’è un progetto di manutenzione, di conservazione ... F.V. Normalmente l’acqua, il sole, le intemperie, il calore possono agire positivamente o possono scardinare un edificio. Il problema è di fare in


modo che non lo scardinino. Questo chiaramente entro certi limiti. Prima o poi infatti tutta l’architettura viene scardinata dalla natura, è meglio non farsi illusioni. Però ci sono edifici che durano mille anni, edifici che durano centocinquanta anni ed edifici che durano tre anni.... F. B. ma gli edifici contemporanei, costruiti in calcestruzzo armato mi pare che siano destinati a durare poche decenni. F.V. Infatti penso che gli edifici contemporanei sono destinati a vivere cinquanta o sessanta anni. Dopo creeranno tanti di quei problemi che sarà necessario abbatterli e ricostruirli. F.B. Tra i compiti che vengono affidati agli architetti c’è anche quello della “cura” degli edifici anziani. Come si deve porre un architetto quando gli viene affidato l’incarico di curare un edificio che ha sedimentato sulle proprie mura tanti anni di storia. Come relazionare il proprio intervento con la storia che quelle mura raccontano. F.V. Questa è una domanda che prevede una presa di posizione globale. Da una parte c’è certamente un problema di manutenzione ordinaria. Garantire per l’edificio quella manutenzione, quella pulizia che garantisca “l’igiene” della fabbrica. Ben altra cosa è levare quella patina che è costituita dalla trasformazione chimica ed organica del materiale. Se noi vediamo una roccia in natura, notiamo che ha una faccia vista che è profondamente diversa dalla faccia “interna” che scopriamo quando rompiamo la roccia. È molto importante concepire il valore estetico della sana azione del tempo sulle pietre, sugli edifici. Il trascorrere del tempo trasforma i materiali, li naturalizza. Cioè li porta a quella condizione della faccia vista della roccia naturale.

F. Venezia, Museo di Gibellina Nuova (Palazzo di Lorenzo), Gibellina, 1987

Se immaginiamo la facciata di una cattedrale gotica appena terminata sappiamo che l’aspetto delle pietre della facciata era la stessa delle pietre “spaccate”. Era la stessa della faccia “interna” della roccia. Ci sono voluti secoli per trasformare la mole della cattedrale nella immagine attuale che possiede tutta la “memoria” del tempo che è trascorso. Le raschiature brutali che sono di moda in questi anni sono semplicemente l’annullamento dell’azione del tempo. Sono l’annullamento di una trasformazione naturale della parte superficiale della pietra. Diverso è il caso del deterioramento prodotto dall’azione dello smog. In questo caso è necessario operare preventivamente per garantire, nei centri storici, un livello di emissioni tali da non attaccare in forma irreversibile le pietre dei monumenti. Ritengo però che la soluzione non sia ricercabile all’interno di proposte che prevedano la chiusura totale dei centri storici, quanto in proposte che garantiscano un flusso sostenibile del traffico. 47


F. B. Spesso, per garantire la sopravvivenza di un edificio storico, si chiede all’architetto di lavorare realizzando un intervento che si caratterizzi sia quale espressione della cultura contemporanea, che per la possibilità di modificare la destinazione d’uso originaria del manufatto. F. V. Se noi guardiamo con attenzione alla storia, alla costituzione ed alla trasformazione dei nostri centri storici, vediamo che dietro ogni edificio che amiamo, c’è stato molto spesso la dolorosa distruzione di un edificio precedente. La distruzione in architettura è feconda quanto la costruzione. Non la distruzione in quanto tale, ma il fatto che la distruzione mettesse in essere una volontà di emulazione che non avrebbe fatto rimpiangere l’atto distruttivo. Questo significava l’assunzione di una grande responsabilità. Immaginiamo la vicenda di San Pietro a Roma. Tento di immaginare che cosa dovesse essere il vecchio San Pietro, che Basilica straordinaria, che coacervo di memorie, di reliquie, di mosaici. Eppure si prese la dolorosa decisione perché c’era il pieno convincimento che la civiltà che distruggeva e ricostruiva poteva esprimere un valore equivalente a ciò che distruggeva, anzi migliore. Possiamo dire che nella maggior parte dei casi finiamo col non rimpiangere troppo quello che è stato distrutto. Adesso che cosa accade. Da tempo si sono creati due settori distinti. Il settore della tutela ed il settore della nuova progettazione. La tutela ha investito l’intero territorio del centro storico, la nuova progettazione ha investito le zone di espansione e le periferie. Non essendoci più contiguità con edifici del passato, essendo caduta la pratica del sostituire è caduto completamente lo spirito di emulazione e le tecniche progettuali conseguenti. Il nostro lavoro si è 48

F. Venezia, R. Collova’, M. Aprile, teatrino all’aperto, pianta piano terra e sezioni, Salemi, 1986

progressivamente impoverito fino a raggiungere minimi insostenibili. In particolare è andata perduta quell’arte di adeguamento degli schemi astratti alle complessità ed alle necessità del sito. Si è persa tutta l’arte del costruire realizzata per deroghe a schemi ideali. Ma c’è di più e c’è di peggio. Frequentemente la superficialità della pratica progettuale nelle zone di periferia si è riversata sulla pratica del restauro degli edifici del Centro Storico. Molte categorie d’opera caldeggiate dalle Soprintendenze per il restauro di monumenti sono le stesse applicate in adroni di condomini e in pizzerie della cintura urbana! Se si guarda alla storia si può rilevare che non esiste palazzo rinascimentale che non abbia deformazioni rispetto ad un impianto ideale. Ma spesso il segreto di questi edifici è costituita proprio da queste deformazioni. E non sono le deformazioni con le quali si lavora oggi in astratto, deformazioni che nessuno richiede. Sono deroghe ad un impianto estremamente rigoroso, commisurato, pretese dalla situazione reale.


F. Venezia, R. Collova’, M. Aprile, teatrino all’aperto, Salemi, 1986

Ogni edificio viene visto come sistema ideale, intoccabile, mentre quella fabbrica è il frutto di una serie di aggiunte, trasformazioni. Ogni grande complesso architettonico del passato è il frutto di una vicenda molto articolata, di cui noi abbiamo perso il sentimento. Per questo non riusciamo nemmeno a riflettere, questo sentimento, nel nostro lavoro progettuale. E paradossalmente fu consentito solo ai grandi speculatori edilizi del dopoguerra, come Ottieri a Napoli, di edificare nei Centri Storici. E quando si è offerta la rara possibilità ad un buon architetto di costruire in un Centro Storico, si era ormai costituita una situazione insopportabile: una Spada di Damocle che fiaccava la forza creativa e compositiva dell’architetto stesso. Io faccio spesso l’esempio di Gardella. Egli ha prodotto delle ottime cose, ma quando alle Zattere gli è stato concesso di fare ciò che era stato tante volte negato, è accaduto che il suo talento non ha dato una risposta adeguata. Un lavoro che potremmo definire modesto soprattutto se

confrontato con le altre sue opere. Ma ritengo che il tutto è appunto dovuto a quella spada di Damocle costituita da decenni di inibizione. Come sono lontani i tempi felici degli interventi di Terragni a Como con la Casa del Fascio ed a Roma con il progetto per il Danteum! Ma è accaduta un’altra cosa particolarmente grave, dovuta appunto alla mancanza di “emulazione” nell’approccio del progettista ai centri storici. Si sono eclissati negli ultimi cinquant’anni i mezzi di produzione di un edificio degno di un centro storico. Il che non significa costruire una fabbrica con i materiali degli edifici contigui, ma costruire con delle qualità insite nella forma e nella natura dei materiali stessi. Quando mi dicono che in un contesto storico bisogna utilizzare materiali nobili, di solito rispondo che è invece opportuno utilizzare i materiali in una forma nobile.

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Dalle sue parole possiamo già ricavare i caratteri fondamentali della sua poetica che sono stati per me punto di riferimento, ma ci sono in particolare dei progetti che voglio analizzare perché affrontano un tema caro all’architetto ovvero quello del recinto, dell’architettura dei vuoti e in cui è possibile osservare anche gli altri tratti peculiari della sua prassi progettuale. I piccoli giardini segreti, progettati a Gibellina tra il 1984 e l 1987, ma anche il teatrino all’aperto a Salemi (progettato insieme a R. Collovà e M. Aprile nel 1986), hanno in comune la propria natura: spazi recintati, giardini murati, architetture introverse che si svelano grazie tagli ed aperture, a volte disposte in fuga, che consentono la vista di oggetti fruibili visivamente ma spesso irraggiungibili 9. Questi progetti, così come tanti altri, dimostrano la sua capacità di rapportarsi con la preesistenza, al fine di recuperare la memoria passata che spesso si traduce nel rimettere nel ciclo culturale attuale, quindi nella nuova struttura, 50

frammenti originali del passato. Entrambi i giardini conservano la memoria e il sentimento dei giardini arabi, normanni e siciliani sottolineando il loro distacco dal contesto nella quale vengono inseriti e identificandosi come delle case scoperchiate, stanze a cielo aperto, che svolgono la funzione di definire e chiudere verso la strada due isolati della Nuova Gibellina, rialzando il piano di calpestio rispetto alla strada. Essi inoltre rivelano altre caratteristiche che appartengono alla sua sperimentazione progettuale: sintesi, essenzialità e continuità. Esse si realizzano rispettivamente: attraverso l’utilizzo di tecniche costruttive e materiali diversi, sia storici che moderni, fino alla sintesi delle forme dove gli elementi si trovano spiazzati rispetto alla loro condizione originaria ma allo stesso tempo si fondono tra essi; riducendo al minimo gli elementi architettonici, secondo la concezione di architettura essenziale tridimensionale; realizzando esterni che non rivelano discontinuità con l’interno, spazi unici racchiusi tra muri.


F. Venezia, particolare del Giardino segreto I, Gibellina , 1987

F. Venezia, scorcio del Giardino segreto II, Gibellina , 1987

Nella pagina accanto: F. Venezia, due scorci del Giardino segreto I, Gibellina , 1987

1. Cfr. Herman Hertzberger, Lezioni di architettura, in “Forum”, 1973 2. Cfr. Kevin Lynch, Progettare la città. La qualità della forma urbana [A theory of good city form, 1981], Etaslibri, Milano, 1990 3. Cfr. Franco La Cecla, Mente locale: per un’antropologia dell’abitare, Roma – Bari, 1993 4. Cfr. Steven Groak, The idea of Building, London, 1992 5. Cfr. Valerio Paolo Mosco, Città e spazio pubblico, in “XXI secolo”, Roma, 2010 6. Cfr. Aldo van Eyck, Writing: the Child, the City and the Artist, Amsterdam, 1962 7. Cfr. Vito Acconci, Lo spazio pubblico in un tempo privato, in “Ammon Barzel”, a cura di, Vito Acconci, Prato, 1991 8. realizzata da Francesco Felice Buonfantino per, “ANAΓKH” Cultura, storia e tecniche della conservazione, n°8, Alinea Editrice, Dic. 1994 9. Cfr. Vittorio Fiore, in Restauro urbano a San Pietro a Patierno. Francesco Venezia, Momenti di architettura contemporanea n.8, Alinea Editrice, Firenze 2000

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Bambino della Civita

4. INQUADRAMENTO PROGETTO

Nella pagina accanto: Federica Bonaccorsi, inquadramento Largo XVII Agosto a Catania, elaborazione grafica

«Tu lo sai come si chiama questa piazza? Civita».


4.1 Le tracce del quartiere Civita dal XV al XX secolo Il quartiere Civita individua, entro i confini della città pre-settecentesca, uno dei luoghi più antichi della città. Analizzando la sua storia e lo sviluppo urbano, ciò che emerge è che ha da sempre avuto un’anima complessa, dal variegato tessuto sociale e quindi anche architettonico. Le principali realtà urbane, nel corso dei secoli, sono state tre: • quartiere popolare: occupato da marinai e artigiani, grazie alla vicinanza alla costa e al porto, riconoscibile nella morfologia di case terranee, case in linea o a ballatoio su cortili comuni chiusi all’esterno sviluppatesi sui tracciati medievali • monumentalità religiosa: numerosi monasteri e conventi, molti distrutti dal terremoto del 1693 • monumentalità aristocratica: abitato da famiglie nobiliari sin dal ‘500 e borghesi dal post-terremoto in poi, nel quartiere sorgono numerosi palazzi patrizi come quello Biscari o il palazzo dell’Arcivescovado (ai quali entrambi fu concesso di costruire sulle mura esistenti) All’alba del Cinquecento, Catania si presentava come una città fortezza ancora cinta dalle antiche fortificazioni normanne, segnate da piccole torri a pianta quadrata, e con la zona della marina che, dicono le fonti, versava in condizioni pessime, spesso impaludata dalle piene dell’Amenano ed esposta a venti e mareggiate. Le mura segnavano il limite dell’espansione spontanea della città ed erano state costruite dall’élite catanese a proprie spese contro il parere del viceré Gonzaga, come simbolo del potere e della 54

Dario Lo Presti, Quartiere Civita. La citta’ nascosta, reportage fotografico La riparazione delle reti da pesca è un’attività ormai rara, ma ancora praticata da qualche abitante del quartiere.

ricchezza della città. La divisione tra la parte occidentale e orientale della città era evidente: a Ovest, intorno alla collina di Montevergine, si sviluppava un tessuto urbano compatto in cui le vie principali circondavano grandi isolati, era la parte più povera della città. Nella zona centro-orientale invece si trovavano le piazze e gli edifici più grandi, con piccoli e medi isolati nella cui parte centrale è quasi sempre presente un cortile, qui si trovano anche i palazzi delle famiglie patrizie ed è in questa zona che si trova la Civita. Dal 1541 iniziarono grandi lavori che cambieranno il volto di Catania, seppure portati avanti lentamente e conclusi soltanto pochi anni prima che la lava del 1669 e il terremoto del 1693 spazzassero nuovamente tutto via. Primo, fondamentale oggetto di restauro, furono le fortificazioni che bisognava adeguare alle nuove tecniche di assedio: il fronte mare, il più esposto agli attacchi, venne totalmente rifatto e protetto da una spessa cortina muraria, rafforzata dai nuovi bastioni, tra cui il Bastione Grande, nella zona dell’attuale piazza


Spannocchi, veduta di Catania , in “Descripciòn de las marinas de todo el Reino de Sicilia”, 1578

dei Martiri, detto anche San Salvatore dal nome della vicina chiesetta. In merito alla Civitas, quartiere nato in prossimità della costa e sviluppatosi dalle mura verso l’interno vicino alla Cattedrale normanna, al 1578 era delimitato da cortine murarie a nord, est e sud, e dai bastioni di S. Giuliano e Grande (est) e di Don Perrucchio (sud). La metamorfosi dell’area e la sua evoluzione è storicamente connessa all’orografia del terreno: il quartiere nacque infatti a ridosso di un’antica escrescenza lavica e grazie al naturale declivio, dove vennero realizzate le mura difensive, assunse una forte identità militare soprattutto sul confine orientale, durata per secoli. Grazie alla vicinanza col mare, si svilupparono presto attività economiche molto vivaci tra cui la più importante quella peschereccia, che conferì alla Civita fin da subito le sembianze di borgo marinaro. A segnalare lo stretto rapporto tra vita economica e religiosa, tipico della cultura del tempo, nel quartiere sorgevano numerose chiese, con la presenza anche di corporazioni religiose, tra cui: il Convento di San Francesco di Paola, costruito dai Francescani; il monastero di San Giuliano, esteso vicino al limite dalle mura con il proprio orto di pertinenza e di cui il bastione

omonimo prende il nome, fatto costruire dalle Benedettine intorno al 1289 sul sito dove oggi sorge la Chiesa di San Gaetano; la chiesetta di SS. Salvatore, presso il Bastione Grande, che sorgeva su un alto scoglio di basalto come un santuario, era sede di un’antica confraternita che negli anni aveva costituito, a beneficio delle classi sociali marinaie, una sorta di cooperativa sociale con finalità religiose, spirituali e assistenziali, con una forte influenza sulle tradizioni e i costumi della Civita, sopravvissuta per secoli e poi demolita nel 1842 per la realizzazione della linea ferrata. Analizzando, inoltre, le rappresentazioni grafiche dell’epoca, sia vedute a volo d’uccello che planimetriche, per quanto non del tutto accurate, si possono trarre informazioni riguardo la tipologia di case costruite: case a schiera, ad un solo piano, disposte sulle strade parallele, spesso organizzate intorno ad ampi cortili comuni di forma quadrata, tipologia ben definita che verrà mantenuta anche nella fase di ricostruzione post-terremoto. Un’altra tipologia ricorrente era quella delle “case-mura”: case cioè costruite a ridosso o sopra le mura, quasi come dei parassiti, che testimoniano la fretta e la scarsità di mezzi in cui nel Medioevo venne cinta la città. 55


Gli interventi precedentemente menzionati sulle mura, si conclusero nel 1620 con la nuova sistemazione della marina, la zona antistante al quartiere, che fu trasformato da luogo malsano e pericoloso in luogo di piacevoli passeggiate, con panchine e palchetti per la musica, attraverso la nuova strada Via Lanaria (attuale Via Dusmet) che fu pavimentata e arricchita da monumentali fontane. La furia della lava nel 1669, distruggerà tutto, cambiando totalmente la morfologia di questa zona.

Giacinto Platania, Etna in eruzione, affresco, 1669

Ignoto , La Catania dal tremuoto del 1693 al 1708

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Dopo il terremoto del 1693, la Civita viene ricostruita principalmente sugli antichi tracciati medievali, tra i confini di via San Francesco (odierna via Vittorio Emanuele) a Nord e delle preesistenti mura spagnole a Sud, da sempre elemento costitutivo della zona e limite fisico per l’espansione della città insieme alla linea di costa. Ma se le strutture fortificate avevano resistito bene alle calamità naturali che alla fine del ‘600 si erano abbattute sulla città, durante il secolo della ricostruzione, il XVIII sec., perderanno il loro valore simbolico, piegandosi a un nuovo modello di sviluppo urbano e verranno sacrificate dall’apertura dei nuovi assi viari o inglobate dalle nuove fabbriche. Il quartiere Civita diventa protagonista in questa fase, grazie alla vicinanza col porto e alla via S. Francesco, che era uno degli assi urbani e commerciali più importanti della città e alla disponibilità di spazi liberi per costruire. Dalle carte che raffigurano l’area, però, si nota come nel corso dei secoli si sia sviluppato in maniera disomogenea e disarticolata, arrivando presto alla saturazione edilizia, a causa anche delle sue caratteristiche morfologiche come la difficile livellazione del terreno, irregolare a causa di un’antica colata lavica.


A partire dai primi anni del Settecento, la ricostruzione della città viene affidata al piano del viceré Giuseppe Lanza duca di Camastra, il quale decide di riconfermare lo stesso sito per la ricostruzione, per diversi motivi: la vicinanza col mare che sosteneva le attività economiche, il limite imposto ad est e ovest dalle lave delle precedenti colate e l’impossibilità di spostarsi a nord, onde evitare la distruzione degli ultimi campi agricoli disponibili. Camastra divise il territorio cittadino in tre zone, ciascuna con un proprio valore d’acquisto, per cui si determinò una spontanea suddivisione sociale e territoriale, dipendente dalle possibilità economiche delle singole famiglie o comunità, le cui meno abbienti restarono confinate in zone ben precise che col passare del tempo divennero quartieri malsani e degradati, che saranno poi al centro delle politiche di risanamento del secondo Ottocento e del Novecento. Tra questi quartieri, c’è proprio la Civita. Un importante elemento di novità per il futuro sviluppo della città fu il nuovo asse urbano principale nord-sud, che interviene in una città storicamente marcata da un orientamento est-ovest, determinando lo spostamento dell’antico centro dalla Civita al punto d’incontro dei due assi. Lungo il nuovo asse, si sarebbe dovuta sviluppare la nuova orditura urbana con costruzioni che seguenti il modello a scacchiera, con il mantenimento di poche testimonianze del vecchio assetto urbano. Ma il rigore geometrico stabilito nel piano, perse la sua efficacia proprio in corrispondenza della Civita: caratterizzata da assi ruotati, da un tessuto urbano disomogeneo e da un terreno irregolare con dislivelli causati da banchi lavici, qui la ricostruzione del quartiere avvenne invece mantenendo gli antichi tracciati medievali. Le vie conosciute oggi, quindi, ad

N. A. Vacca , Catania Urbis Clarissima, 1760

Orlando, Veduta di Catania, 1761

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esclusione dei tre nuovi assi derivanti da sventramenti ottocenteschi (via S. Gaetano, via Porta di Ferro, via Calí) e novecenteschi (via Carnazza Amari), ricalcano le orme di quelle seicentesche: via Anzalone, Bonaiuto, S. Tommaso, S. Lorenzo, Barilai, via del Vecchio Bastione, Vadalà e vico Civita. Il quartiere mantenne quindi da una parte il carattere di quartiere nobile, sull’asse di Via San Francesco, insieme alle nuove dimore dell’emergente classe borghese e dall’altro, a sud nella zona compresa tra l’attuale Via Vittorio Emanuele e Via Dusmet, venne occupata dai ceti meno abbienti e dalla comunità dei pescatori, legata alla vicinanza del molo e dello “Sbarcatore”. Si diffuse anche la consuetudine di costruire a ridosso e sopra le mura spagnole, considerate ormai obsolete, come testimoniano diverse fabbriche anche nella Civita: l’Arcivescovado e il Palazzo dei principi Biscari, realizzati inglobando parte della cortina meridionale e il Convitto Cutelli, il cui cortile realizzato da Francesco Battaglia fu realizzato a ridosso del Bastione di S. Giuliano. Per conoscere la configurazione di Catania nell’Ottocento, un importante riferimento è il “Rilievo della città di Catania” di Sebastiano Ittar (realizzato a titolo di architetto comunale sotto il governo borbonico nel 1806 e incisa su rame a Parigi nel 1832), che fornisce una dettagliata rappresentazione della città prima dell’Unità e degli stravolgimenti urbani della seconda metà dell’Ottocento. Grazie alla legenda a margine, fornisce preziose indicazioni sulle emergenze architettoniche del tempo (monumenti, musei, uffici pubblici, chiese) e informazioni urbanistiche e cronologiche, anche rispetto al quartiere Civita. Di quest’ultimo, particolare attenzione rivolge ad esempio ai resti delle cortine murarie spagnole 58

S. Ittar , Pianta topografica della città di Catania, Parigi, 1832


S. Ittar , particolare dell’area della Civita, in Pianta topografica della città di Catania, Parigi, 1832

Milano Francesco Vallardi Editore , particolare dell’area della Civita, in Atlante Geografico dell’Italia , 1868

cinquecentesche, di cui ne descrive il tracciato e ne indica l’ultima porta resistita negli ultimi tre secoli, la porta di Ferro del 1550. Del quartiere indica, in particolare: i complessi dislivelli orografici; orti e giardini, spesso associati alle emergenze architettoniche quali conventi o chiese (come quelli del Convitto Cutelli o del Convento di S. Francesco e Paola). Inoltre tra le “opere di pubblica educazione e spedali”, si ricava un interessante informazione, perché proprio nella Civita risultava la concentrazione maggiore di teatri: a Sud, nella strada della Marina, il «Teatro di Biscari» e il «Teatro provvisorio, comunale». Quest’ultimo, nato nel 1821 in attesa del “Gran Teatro Municipale”, nell’odierna via Vecchio Bastione, risale all’epoca borbonica, chiuso poi nel 1887, fu riaperto nel 1908 come Teatro Coppola, dedicato alla prosa. Nel 1886, durante la fase di ampliamento e abbellimento della città, verrà inaugurato anche il Teatro Nazionale, sito tra via Scrudato e Piazza Cutelli, e circondato all’epoca da magazzini e palazzi borghesi, che costituisce oggi una delle emergenze storiche del quartiere, lasciato in stato di totale abbandono per decenni, adesso ristrutturato è sede della Moschea della Misericordia. Questo secolo è fondamentale per capire i motivi che sconvolsero gli equilibri del quartiere e conoscerne le sue ferite più grandi, causate da importanti vicende urbane che la riguardarono: la demolizione delle cortine murarie spagnole sulle fronti orientale e settentrionale, compresi i bastioni Grande e di San Giuliano; la sistemazione dell’area portuale e della passeggiata alla Marina; la costruzione del nuovo molo; lo sventramento e la liberazione di alcune parti della città in seguito al contagio del morbo colerico; l’espansione edilizia tra le due guerre avvenuta principalmente per aree puntiformi. 59


Il 1833 si distinguerà nella storia catanese per una devastante epidemia colerica, che porterà il comune e la Commissione di sanità a redigere un piano di risanamento per il quartiere, che densamente popolato e fisicamente a ridosso della costa nonché dell’area portuale, era ritenuto da sempre la culla “secolare” dei morbi locali. L’intento era quello di attuare uno sventramento per aprire nuove strade in direzione nord-sud, che servivano a liberare e “ventilare” il rione, in cui l’aria era malsana e le condizioni igienico sanitarie scarse, e di demolire la moltitudine di case terrane aggregate attorno ai cortili, accresciute nel corso degli anni lungo gli irregolari tracciati di matrice medievale senza una precisa regola, al fine di costruirne nuove. Le nuove strade sarebbero anche servite da collegamento dal Collegio Cutelli fino alla passeggiata della marina e la zona portuale, nella quale il porto e una darsena avrebbero avuto sviluppo dopo il 1842. Ma fin da subito, sorsero numerose difficoltà nello sventramento del rione nonché di buona parte delle mura e delle case addossate, anche perché pochi volevano investire poi nella costruzione

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di quelle nuove. Gli abitanti, sfollati dalle proprie case, vennero fatti alloggiare in baracche lignee provvisorie nelle vicinanze delle case demolite e ai luoghi di lavoro, dato che la maggior parte viveva di pesca. Il tagliarsi delle fabbriche cominciò solo nel 1835 ma in realtà si trattò di una vicenda che occupò almeno sessant’anni, con numerose controversie tra i proprietari e l’amministrazione. Nel 1839 si giunse alla definizione di alcune nuove strade: la via Calì, la via Porta Di Ferro e la via Mangialardo, dirette ortogonalmente verso il porto. Dal 1843-45 in poi gli interessi delle amministrazioni si spostarono verso la costruzione del molo e la sistemazione delle aree portuali, investendo anche su interventi di arredo urbano nella zona della pubblica passeggiata dellaMarina, collegata a piazza dei Martiri. Si perdeva invece interesse nell’area del Teatro Comunale nella Civita a favore della costruzione del futuro Teatro Massimo Bellini, inaugurato nel 1890. Un ennesimo progetto di risanamento del quartiere Civita, a seguito di un nuovo fenomeno colerico, fu affidato all’ing. Mario Di Stefano, ma il piano non venne mai completato.


Nel 1865 iniziava la costruzione del viadotto ferroviario su archi che collegava Catania a Siracusa, compiuto tra il 1866 e il 1869. Il viadotto ferroviario in muratura (per i catanesi vulgo “Archi della Marina”), realizzato a partire dal 1866 a ridosso del litorale, trasformò radicalmente il rapporto tra città e porto: gettando le radici di un waterfront, si decretò il distacco delle relazioni tra il quartiere Civita e la “passeggiata a mare” e del rapporto diretto tra gli abitanti e il mare. Alla scena urbana improntata sulle cortine architettoniche settecentesche venne sostituito un segno più forte, dettato dalla tecnologia dei trasporti: il viaggiatore che a quel tempo arrivava via mare percepiva adesso una città industriale. È in questi decenni, infatti, che la città subendo il flusso sia della borghesia provinciale che portava investimenti e trasformazioni sia degli immigrati espulsi dalla campagna, si trasformò da città commerciale a città industriale, la “Città dello Zolfo”.

La ricchezza privata aumentò ma si formò anche il sottoproletariato urbano, accentuandosi sempre di più la differenza tra quartieri alti e bassi: la Civita era considerato uno dei quartieri detti “dell’ignoranza”, dove abitavano pescatori, facchini e domestici, e la cui condizione igienico sanitaria non era migliorata. L’industria per la raffinazione solfifera venne localizzata proprio in prossimità del porto, per distribuire il materiale proveniente dalle miniere dell’interno dell’isola ed inviare i prodotti finiti via mare o via terra tramite la linea ferrata. Porto e ferrovia erano diventati i motori principali di una crescita economica che, all’antico predomino del grano e della seta, sostituiva lo zolfo. L’industria dello zolfo iniziò poi a declinare nei primi vent’anni del Novecento, complice anche la grande Guerra. Ma quello della ferrovia, denominata ben presto “la cintura di ferro”, fu una problematica discussa per decenni.

Nella pagina accanto: taglio nuove strade nel piano risanamento Distefano 1871 (a sinistra) e catastale 1876 (a destra)

Ignoto, foto di catania e degli “archi della marina, presumibilmente scattata da Palazzo Biscari, 1900

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Riguardo al porto, elemento sicuramente importante nel rapporto col quartiere, a partire dal 1835 fino alla fine del secolo si prolungarono i lavori della costruzione del secondo molo, molto più ampio del precedente. Nei primi decenni del XX secolo divenne una grande struttura di comunicazione e anche nel periodo tra le due guerre, vennero realizzati, nell’ambito delle Opere Pubbliche del Regime, nuovi interventi di ampliamento. La connessione porto-ferrovia, viene inoltre rafforzata dopo l’Unità d’Italia dalla realizzazione della linea ferrata verso nord con la tratta Catania-Messina insieme alla già esistente linea Catania-Siracusa a sud.

Nel 1931 la questione porto-ferrovia fu inserita negli studi per il nuovo Piano Regolatore, durante i quali si crearono diverse fazioni, riguardo la questione del viadotto ferroviario: da un lato chi sosteneva che andava mantenuto, contrariamente ad altri pareri (come quelli di Francesco Fichera, Gustavo Giovanni e Francesco Fusco) che optavano per una liberazione della città verso il mare ed il porto, demolendo il viadotto con gli archi e spostando la ferrovia in una parte più settentrionale della città. Con l’apertura, nel 1951, dell’aeroporto Filippo Eredia (oggi Vincenzo Bellini) in zona Fontanarossa, il porto perdette importanza, la sua rinascita, con il recupero della dogana in spazi ludici e collettivi, è operazione recentissima.

Levy-Nerenstein, Porto di Catania, la porta del Porticello, vicino palazzo Biscari, fu demolita silenziosamente in quegli anni, 1860

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Le incursioni aeree avvenute tra l’aprile e l’agosto del 1943 su Catania, durante le operazioni offensive alleate conclusasi poi con lo sbarco in Sicilia, erano essenzialmente rivolte a “sensibili obiettivi militari” della città, e colpirono pesantemente le aree del porto e della Civita, toccando ampie porzioni della città civile: fu così che nacque il grande vuoto urbano di Largo XVII Agosto, privo di una propria identità ma rappresentativo della storia del quartiere e futuro cuore pulsante della vita sociale del rione. Lo slargo, geograficamente centrale rispetto al vecchio borgo marinaro, nasce a seguito del bombardamento del 17 agosto 1943, verosimilmente in corrispondenza del sito in cui sorgeva il “cortile dell’oliva”: così chiamato per la presenza di un omonimo albero e cancellato poi dalla bomba, è più volte citato nei documenti del catasto nel Fondo Intendenza borbonica (ASCt), in riferimento alla demolizione di case seminterrate o chiusura di cortili interni che sorgevano intorno ad esso, durante le operazioni di pulizia del quartiere avvenute nel 1835. Questo isolato venne colpito insieme al Teatro Comunale, al Convitto Cutelli, al porto, al palazzo della regia Dogana, al piroscafo Partinico, all’ufficio di deposito petrolio e a numerosi vagoni di derrate e materiali. Il bombardamento ha lasciato chiare tracce visibili tutt’oggi: le facciate cieche delle fabbriche e il disegno di un cortile sghembo, più che di una vera e propria piazza, descrivono una conformazione spaziale non progettata, ma frutto di un evento accidentale che ha restituito una nuova configurazione di pieni e vuoti.

Istituto geografico militare, aerofoto bomabardamento su Catania, 1943

Ignoto, foto dello sbarco degli alleati a Catania in Piazza Duomo, 1943

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Il confronto tra le planimetrie catastali di primo impianto (ovvero del 1927 a sinistra) e odierne (2013 a destra) segna il “netto storico” ovvero ovvero la segnatura/censimento delle permanenze, cioè di tutto ciò che è rimasto “catastalmente immutato” a seguito del bombardamento del ‘43. Risulta evidente che l’assetto della piazza e’ stato profondamente mutato, generandosi una nuova configurazione di pieni e vuoti.

A fianco: ignoto, un angolo di Largo XVII agosto, foto storica scattata presumibilmente dopo il bombardamento visto che la fabbrica risulta gia’ isolata nel contesto

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4.2 La Civita e Largo XVII Agosto oggi

F. Bonaccorsi, foto panoramica di Largo XVII Agosto, 2017

Un tempo la Civita era il quartiere più antico di Catania, mitizzato da Nino Martoglio e spesso associato a un concetto di degrado ma anche di autenticità, arrivava fino al mare ed era popolato da pescatori. Oggi si presenta caratterizzato da una chiostra di case settecentesche alternata a una scala di vuoti: case a due e tre piani alternate ad abitazioni ristrutturate e ritinte in contrasto, nei cui vicoli sembrano nascondersi anche i suoi abitanti, i catanesi della Civita, cioè i civitoti, il ceppo più genuino e multiforme della città, molto reticenti e sospettosi, e caratterizzati da una parlata tipica che li rende inconfondibili e remoti. Lo slargo costituisce un nodo fondamentale per il tessuto urbano del quartiere nonché ne rappresenta la sua identità. Esso è infatti l’unica grande piazza presente nell’area, caratterizzata da un tessuto molto fitto ad eccezione delle strade nate come sventramenti, e dunque luogo di forte interazione sociale. Qui i bambini si riuniscono e giocano insieme, mentre gli adulti passeggiano, i vicini di casa vociferano tra loro e i più anziani

siedono di fronte alla soglia di casa chiacchierando. Nonostante dunque le dinamiche relative alla sua nascita, questa piazza è diventata negli anni il cuore pulsante del quartiere e a testimoniarlo è il modo, intenso, in cui gli abitanti vivono questo spazio. Negli anni più recenti però, il quartiere ha subito il mancato interesse da parte dell’amministrazione comunale. Nel 2008 vengono conclusi dei lavori di riqualificazione che hanno riguardato largo XVII Agosto e le strade limitrofe come via Vadalà e via Billotta. I lavori, costati 945 mila euro, consistevano nella totale ripavimentazione dello slargo, nell’installazione di una nuova illuminazione, nel posizionamento di panchine e alberi. Per un periodo di tempo, il degrado e l’incuria lasciarono posto al decoro ma questi sforzi, sia istituzionali che privati, non sono serviti ad una reale presa di coscienza né da parte degli abitanti del quartiere, né da parte dei turisti del fine settimana. 65


I risultati sono stati catastrofici: un albero segato alla base e mai sostituito, sporcizia diffusa e la piazza usata come discarica a cielo aperto, panchine imbrattate e soprattutto un parcheggio abusivo che dal venerdì alla domenica diventa una bolgia infernale. Nonostante l’area sia ZTL (zona traffico limitato), non esistono dissuasori né altri accorgimenti per mantenerla tale e la perenne mancanza dei parcheggi in centro, fa si che la piazza non sia mai sgombera di auto.

Negli ultimi anni, però, abbiamo assistito allo sforzo da parte soprattutto di privati, di rivalutare la piazza attraverso diverse attività culturali e sociali. Nel settembre del 2010 l’associazione Lapis organizza per i suoi vent’anni la manifestazione “ReWALLution”: invita writers e street artists italiani e internazionali, tra cui Bo130, Microbo, Guè, San, a dar vita e colore alle facciate cieche delle fabbriche colpite dal bombardamento rimaste grigie e spoglie. In cinque giorni, l’area si trasforma in un’officina d’arte a cielo aperto, destando la curiosità e l’interesse anche dei suoi abitanti. Si tratta della prima operazione di street art legale sui muri di Catania, seguita poi da altre come quella sui silos del porto. Questi interventi costituiscono un momento di rigenerazione urbana e rinascita estetica efficace, svolta attraverso strumenti non consueti con lo scopo di diffondere un messaggio a un’audience sempre più vasta: migliorare, come gli stessi artisti definiscono, “l’estetica del quotidiano” e quindi la qualità stessa della vita. 66


Nel 2016, un’altra iniziativa culturale coinvolge la piazza: il 25 e il 26 giugno, diventa sfondo per una nuova edizione del POPUPMARKETSICILY, manifestazione che sceglie ogni anno un luogo diverso della città, spesso tra i più degradati, per svolgere un mercatino di oggetti di artigianato, hand made, di riciclo, vintage e di design, accompagnato da musica e attività ludico-creative. Questa edizione viene chiamata #toccaferru, una espressione dialettale che fa riferimento al significato attribuito numero 17 nella smorfia, cioè di sfortuna. Grazie a questo tipo di manifestazioni che quartieri difficili come la Civita e spazi nascosti e abbandonati come Largo XVII Agosto, possono trasformarsi anche se per poco, in luoghi di incontro e scambi sociali, vivi e funzionali, resi interessanti agli occhi dei loro abitanti che possono così riscoprire il valore degli spazi storici della loro città.

Da sinistra verso destra: Ignoto, foto della manifestazione ReWALLution durante i lavori per dipingere le facciate, 2010 F. Bonaccorsi, foto di alcuni murales, 2017

Nella pagina accanto: alcune foto che testimoniano lo stato in cui versa Largo XVII Agosto

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4.3 Analisi urbana edilizia di base

non qualificata qualificata qualificata speciale (palazzetti) parzialmente qualificata edifici vincolati edilizia moderna

non qualificata residenziale moderna non qualificata specialistica moderna edilizia monumentale

monumentale residenziale monumentale specialistica

Il quartiere Civita così come indicato dal P.R.G vigente (approvato con Decreto del Presidente della Regione Siciliana n.166/A del 28.06.1969), fa parte della Zona Omogena A: un’ampia porzione della città storica suddividendola in sottozone denominate “A”, “B”, “A1”. La zona “A” è costituita essenzialmente dalla città ricostruita dopo il terremoto del 1693, con riferimento al rilievo di S. Ittar nel 1832, la zona “B” perimetra prevalentemente l’espansione del secondo ottocento e primo novecento, ad est della via Etnea e la zona “A1” interessa il centro storico di San Giovanni Galermo, quartiere a nord-ovest della città, prima comune autonomo, accorpato a Catania nel 1926. 68

Lo slargo si trova quindi nel cuore del centro storico catanese, uno dei più grandi e meglio conservati d’Italia, dichiarato dall’UNESCO patrimonio dell’umanità tra le “Città Tardo Barocche del Val di Noto”, per la qualità del tessuto urbanistico e del patrimonio edilizio che per loro omogeneità, effetto della contemporanea ricostruzione dopo il terremoto, rappresentano un’eccezionale testimonianza culturale. La zona omogenea “A” individuata dal P.R.G. vigente comprende 580 isolati e circa 6.000 unità edilizie, che possono essere classificate in base a otto categorie di tipologie edilizie previste dalla legge, suddivise nei gruppi edilizia di base, edilizia monumentale ed edilizia moderna, insieme gli edifici vincolati ai sensi D.Lgs n. 42/2004 1.


- edilizia di base qualificata speciale (palazzetti): unità edilizie di base aventi caratteri dimensionali e prospettici che le rendono simili ad un palazzo seppure derivati dalla sommatoria di moduli 122 dell’edilizia di base 9 40 • palazzi residenziali “borghesi” e 83 palazzetti di pregio: lo schema tipico è quello di un piano terra commerciale, più piani a uso residenziale, uno o più corpi scala indipendenti, presenza di cortile interno a cui si accede da un androne d’ingresso, Beni culturali e immobili di notevole interesse pubblico vincolati [“Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio”, D.lgs 22 gennaio 2004 n. 42.] spesso non carrabile. Essi derivano da apposito 9. Palazzo Biscari (o Casa Magnetizia Raddusa) impianto o dalla divisione in epoca storica di un 26. Palazzo e Cappella Bonajuto palazzo unifamiliare precedente. (Il raggruppa29. Palazzo Fulci 40. Palazzo Pignatelli edifici vincolati mento di più edifici di questa tipologia intorno a 64. Casa del Portuale cortili comuni risulta caratteristica dell’impianto 83. Ex Palazzo Esattoria Comunale 92. Palazzo Pedagaggi edifici urbano di cui fa parte Largo XVII Agosto). 122. Chiesa S. Francesco di Paola • palazzi e palazzetti d’affitto: prevalentemente a più elevazioni con uno o Gli edifici direttamente prospicenti lo slargo, e anche la maggior parte di quelli circostanti, sono due appartamenti per piano e caratterizzati tutti classificati come edilizia di base qualificata e da ingresso con androne. Sono derivanti dalla sommatoria ed evoluzione tipologica della casa qualificata speciale, ovvero: terrana, con ampliamenti in senso verticale e/o orizzontale, sino alla configurazione unitaria di - edilizia di base qualificata: unità edilizie con palazzo. Infatti, nel 1800 scomparso il palazzo caratteri dimensionali planimetrici, originari o come sede di una singola famiglia, prevalgono modificati, e permanenza totale di caratteri arpalazzi per appartamenti per famiglie borghesi chitettonici tipici che oltre risiedervi, potevano ricavare redditi • case terrane isolate e/o aggregate: dall’affitto dei piani terra commerciali o di parti tipologia unifamiliare di base, generalmente con residenziali dell’edificio. duplice affaccio uno fronte strada o cortile e edifici di transizione tra storico l’altro su spazio interno scoperto a uso esclusivo, • e moderno: di dimensione intorno ai 5/6 metri. (Il raggruppaedifici residenziali, realizzati tra gli anni ’30 e ’50 mento di più edifici di questa tipologia intorno a del Novecento, caratterizzati da strutture porcortili comuni risulta caratteristica dell’impianto tanti miste, con murature portanti e solai in ferro urbano di cui fa parte Largo XVII Agosto). e laterizio o cemento armato. • case sopraelevate di derivazione terrana 29

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Ignoto, foto di Palazzo Biscari, particolare balcone e decorazioni, 2012

Intorno ad essi si trovano poi numerosi immobili appartenenti all’edilizia monumentale residenziale (palazzi dell’edilizia storica) - ovvero edifici monumentali residenziali del centro storico, anche derivanti da operazioni di demolizione di preesistenti tessuti della città storica, aventi i caratteri monumentali e di qualità architettonica tipici del periodo di esecuzione (tra cui il Palazzo Biscari, il Palazzo e la Cappella Bonajuto, il Palazzo Pignatelli) – e anche alcuni di edilizia monumentale specialistica – ovvero non residenziali, cioè religiosi, civili, militari, produttivi ed altri (come la Chiesa di S. Francesco di Paola, l’ex Palazzo dell’Esattoria Comunale e la Casa del Portuale). Questa categoria comprende edifici storici di grande qualità architettonica e ambientale che si configurano come emergenze di pregio, con peculiarità estetiche ed architettoniche proprie e che costituiscono elementi significativi del tessuto urbano, i cui valori architettonici si riscontrano 70

F. Bonaccorsi, foto della Chiesa S. Francesco di Paola, 2017

sia sotto il profilo tipo-morfologico, che compositivo e che infatti sono in gran parte vincolati ai sensi del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n.42. Davvero pochi invece risultano gli immobili (in totale cinque o sei nell’area esaminata) dell’edilizia residenziale o specialistica moderna non qualificata, ovvero: - edilizia residenziale moderna non qualificata: edifici residenziali sorti a partire dagli anni cinquanta del ventesimo secolo, ex novo ovvero su aree libere, anche attraverso la demolizione di preesistente edilizia - edilizia specialistica moderna non qualificata: edifici a destinazione specialistica sorti a partire dagli anni cinquanta del ventesimo secolo o in sostituzione di edifici preesistenti o ex novo, aventi caratteri di edificato contemporaneo, in prevalenza in cemento armato.


monocellulare

semplice

bicellulare

1 modulo di facciata

bicellulare

1 modulo e mezzo di facciata a piu’ sopraelevazioni

bicellulare

2 moduli di facciata

evoluzione tipologica casa terrana

A partire da questa analisi, definire la morfologia urbana dell’area resta comunque molto difficile, a causa delle vicende edilizie vissute dal quartiere Civita nel tempo, diventato il luogo di abusi edilizi e ripetute manomissioni tipologiche. L’elemento tipologico di base, ancora riconoscibile, rimane però la casa terrana, la cui trasformazione, sopraelevazione e aggregazione ha creato l’assetto urbano dello slargo. La sua evoluzione tipologica, che avviene con ampliamenti in senso sia verticale che orizzontale, passa dal tipo monocellulare semplice a quello bicellulare (a 1 modulo, 1 modulo e mezzo o due moduli di facciata), raggiungendo poi la configurazione unitaria del palazzo residenziale borghese o “palazzetto d’affitto” ottocenteschi, di cui lo slargo è circondato. Essi hanno uno schema tipico che si ripete: edificio a più sopraelevazioni (3/max. 4 piani) con il piano terreno ad uso commerciale o abitativo, piano mezzano e ultime elevazioni ad uso residenziale, con la facciata caratterizzata da fregi, lesene marcapiano e di coronamento e balconi con mensole in pietra. Gli edifici si aggregano spesso intorno a un cortile interno ad uso privato, accessibile dall’ingresso con androne. 71


Il sistema costruttivo più frequente, in uso a partire dagli anni della ricostruzione e mai del tutto abbandonato, è quello tipico degli edifici il cui pian terreno è adibito a botteghe: strutture verticale interna con pilastri a croce collegati da archi in mattino, chiusure orizzontali intermedie con volte a crociera portanti (più precisamente “volte a cielo di carrozza”) e copertura a tetto a falde. Questo sistema rimane simile anche per gli edifici in cui il pan terreno è a destinazione solo abitativa ma con qualche variazione: la struttura verticale interna è costituita da una maglia di muri di 25 cm circa e le chiusure orizzontali intermedie sono volte a padiglione.

La tipologia costruttiva usata nella costruzione degli edifici prospicenti lo slargo (e direttamente osservabile ove le porzioni di intonaco sono andate via) è quella della muratura portante, in tre varianti: - in pietrame informe ovvero a tessitura irregolare: pietrame lavico non sbozzato di varie forme e dimensioni detti “testotti” impugnabili con una mano, disposti senza corsi regolari ma a strati detti “bancate”, misto a minutame (frantumi lavici e laterizi e anche materiali degli edifici distrutti) e malta di calce e ghiaia rossa, per saturare gli interstizi, dallo spessore di 60/120 cm. Questa tecnica risulta in uso nella ricostruzione successiva al sisma del 1693. - in blocchi rozzamente squadrati ovvero a tessitura regolare: pietrame lavico rozzamente squadrato in forma di conci parallelepipedi detti “cannarozzoni”, disposti a corsi orizzontali più o meno regolari, 72

esempio di edificio inserito a schiera seconda metà 800, disegno tratto da “Tipologie edilizie in muratura del comune di Catania”

misto a minutame e malta di calce e ghiaia rossa, dallo spessore di 60/80 cm. Questo è il tipo più frequente, di cui se ne riscontra l’uso nella maggior parte delle fabbriche in esame e in generale negli edifici costruiti fino al 1950. - listata ovvero a tessitura regolare: i blocchi di basalto lavico sono sbozzati in forme rettangolari detti “cannarozzoni da intosta” o “intostoni” e disposti a corsi regolari in alternanza a una listatura orizzontale di mattoni detta “intosta”, il tutto è unito da malta di calce e ghiaia. Lo spessore è di 26/30 cm circa e l’interasse tra due corsi successivi di conci è di 25 cm.


disegni tratti da “Tipologie edilizie in muratura del comune di Catania”, foto di F. Bonaccorsi, confronto tra la tipologia costruttiva a blocchi rozzamente squadrati (sopra) e quella listata (sotto)

Sotto: F. Bonaccorsi, foto edificio dell’angolo sud-ovest della piazza, sono visibili le manomissioni e le alterazioni che la fabbrica ha subito, 2017

Fu soprattutto nel periodo tra le due guerre (1924-1955) che avvenne la costruzione e la trasformazione di molte unità edilizie. Si trattava, nella maggior parte dei casi, di sopraelevazione o aggregazione di edifici a due elevazioni o terranei, di modifiche dei prospetti e di impianti, mentre le nuove costruzioni, per lo più palazzine di tre piani con botteghe al piano terreno, si concentrarono nelle strade che circonderanno il futuro largo XVII Agosto: via Vecchio Bastione, via Graziella, via Porta di Ferro, via Sottile, via Sorrentino, via Calí, via Perrone, via Pescatori e via Barilai. Ma fu poi l’architettura del dopoguerra a creare i contrasti più evidenti: dietro le cortine allineate dei palazzi sui tagli viari ottocenteschi, sorgono oggi manifestazioni edilizie di inferiore qualità, generate dalla crescita spontanea senza una regola edilizia. È per queste ragioni, che possiamo osservare attorno allo slargo, l’accostamento di antiche case terrane, rimaste isolate nel contesto, a palazzine residenziali ottocentesche insieme a quelle degli anni Cinquanta – Settanta, spesso cresciute di diversi piani senza alcun controllo, come l’edificio che chiude l’angolo sud-est dello slargo, sopravvissuto al bombardamento, originariamente in linea, si è sviluppato e ampliato nel tempo fino a diventare una palazzata, subendo rimaneggiamenti aberranti. 73


Un altro elemento caratteristico dell’impianto urbano del quartiere è l’alternanza tra vuoti e pieni, generato a partire dalla tipologia della casa terrana, che evolutasi nel tempo e sommandosi fino a diventare un palazzetto a più sopraelevazioni, si è raggruppata seguendo uno schema aggregativo a doppia schiera intorno a cortili comuni di forma irregolare, ad uso però privato. L’alternanza che si creava tra spazi pubblici e privati, caratteristica dell’area nel Settecento, è però ormai compromessa e non più chiaramente visibile. Le cortine ottocentesche, infatti, realizzate a seguito degli sventramenti del 1881 e 1886, hanno perimetrato gli isolati originari, nascondendo le tipologie edilizie risalenti al settecento o anche prima. Molti dei portoni degli edifici che affacciano sulle strade oggi, in realtà, non aprono su androni condominiali ma su antichi cortili, ronchi, passaggi semi-privati, testimonianze di case in linea e a schiera evolute in palazzine, corpi di fabbrica abusivi, numerosi salti di quota dovuti agli antichi banchi lavici e piazzole ricavate su piani sfalsati a volte inclinati, che purtroppo però sono nascosti alla nostra vista. Anche i rilievi fotografici aerei non possono chiarire del tutto la complessa articolazione della zona, a causa dei dislivelli esistenti e delle diverse altezze degli edifici, i cui piani di riferimento cambiano da una strada all’altra, e della piccola dimensione delle corti interne, spesso neanche visibili perché coperte dalle ombre delle fabbriche adiacenti. Quindi, se pur ancora presenti gli antichi percorsi antecedenti al terremoto, la lenta e continua saturazione degli spazi ha nascosto gli elementi riconoscibili dei tracciati medievali, trasformandoli in spazi privati fagocitati dalle proprietà dei singoli e dalla speculazione edilizia. 74

sistema vuoti/pieni

strade e piazze corti e cortili ad uso privato e/o semi-privato

esempio dello schema aggregativo a doppia schiera su cortili comuni

Google Earth, vista aerea dell’area della Civita e di Largo XVII Agosto, è possibile apprezzare il sistema di vuoti e pieni del tessuto urbano


evoluzione rete stradale e piazze

1832

1876

oggi

strade e piazze primarie strade e piazze secondarie sventramenti tracciato viario medievale pre- terremoto 1693 cinta muraria presunta edifici demoliti [riferimento a piano catastale 1927] cellule degli edifici demoliti

cortile dell’oliva

largo xvii agosto

L’impianto viario dell’area infatti, sia primario – via Vittorio Emanuele e Via Dusmet - che secondario - via Anzalone, Bonaiuto, S. Tommaso, S. Lorenzo, Barilai, via del Vecchio Bastione, Vadala’ e vico Civita - risulta essere pressoché invariato dal 1832 fino ad oggi ad esclusione dei tre nuovi assi derivanti dagli sventramenti del 1876 (via S. Gaetano, via Porta di Ferro, via Cali’) e novecenteschi (via Carnazza Amari), ricalcando le orme di quello seicentesco pre-terremoto. È chiaro che sia il sistema dei vuoti/pieni che la rete stradale e delle piazze di cui sopra, risulta totalmente illeggibile in corrispondenza del Largo XVII Agosto, dove la bomba ha cancellato non solo edifici ma anche l’organizzazione urbana e gli antichi spazi pubblici come il “cortile dell’Oliva”. 75


comportamento utenti

abitanti

passanti

F. Bonaccorsi, foto di ragazzi in piazza, 2017

76

andamento veloce andamento lento punti di raccolta

Quello che però resta ancora visibile e analizzabile, è il comportamento degli utenti che questo tipo di impianto urbano ha generato nel tempo. Gli abitanti del luogo manifestano un duplice modo di abitare: uno privato, che si rivolge verso l’interno sui cortili non accessibili dai passanti ma in comune con le altre cellule e uno “pubblico”, tipico dei quartieri popolari, che si rivolge alla strada e alla piazza, luoghi vissuti come un prolungamento dei propri interni domestici. Questo determina una differenza di comportamento anche rispetto ai passanti, i quali fruiscono la piazza velocemente, per lo più in auto per trovarvi parcheggio o attraversandola per raggiungere altre destinazioni; mentre gli abitanti del luogo, fruiscono la piazza lentamente, come luogo di incontro e per sostarvi o attraversandola per raggiungere luoghi all’esterno.


F. Bonaccorsi, foto panoramica di Largo XVII Agosto, 2017

F. Bonaccorsi, foto ingresso ovest alla piazza, 2017

1. Tale analisi fa parte dello “Studio di dettaglio per l’individuazione delle tipologie edilizie del centro storico” presenti nelle zone denominate omogenee “A” e “B” di P.R.G., predisposto dagli Uffici dell’Urbanistica del Comune di Catania e pubblicato nel giugno 2016, in ottemperanza alla legge regionale 10 luglio 2015 n. 13 - Norme per favorire il recupero del patrimonio edilizio di base dei centri storici. Al fine di definire puntualmente le tipologie edilizie secondo le classificazioni fissate dalla legge, la zona omogenea “A” di Catania è stata oggetto di apposita indagine, che, in primo luogo, ha differenziato l’edificato storico da quello contemporaneo mettendo a confronto le planimetrie catastali postunitarie (1876 - 1927), con i catasti più moderni, individuando così il “netto storico” ovvero la segnatura/censimento delle permanenze, cioè di tutto ciò che è rimasto “catastalmente immutato” dall’inizio del secolo scorso ai giorni nostri. Effettuata questa prima diversificazione, gli immobili, sono stati classificati attraverso: l’analisi delle cartografie storiche, l’analisi dei mappali catastali (storici e aggiornamento 2013 Sistema SISTER), l’analisi delle planimetrie catastali dei piani terra (scala 1:200), quando rinvenibili, l’analisi del rilievo dei prospetti, la verifica diretta sui luoghi, il rilievo fotografico.

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5. PROGETTO


5.1 Genesi La formulazione del progetto nasce innanzitutto a partire da numerose visite al luogo. È stato fondamentale fare esperienza di questo spazio, osservarlo, studiarlo, conoscere le sue abitudini e il suo spirito. In una delle visite, un bambino avvicinandosi mi ha detto “Tu lo sai come si chiama questa piazza? Civita”. L’errata identificazione della piazza con il quartiere stesso, mi ha fatto comprendere l’importanza che questo luogo assume nella vita di tutti i giorni ma anche nel loro immaginario. Da qui nasce la volontà di riconoscerne l’identità e di definirne uno spazio flessibile, che possa essere funzionale per i suoi abitanti ma anche ospitale per gli estranei. Tramite le visite alla piazza ho potuto farne esperienza con tutti i sensi. Non solo l’architettura del luogo è diventata chiara, ma anche le caratteristiche che lo contraddistinguono: come è usato, quali punti, linee e livelli si sviluppano dal suo uso, il traffico automobilistico, i percorsi pedonali, gli eventi che si succedono e i punti di raccolta. Specialmente si nota quello che guida i sensi: il rumore di background, la luce, il vento e la vegetazione presente. Si osserva anche l’intorno dello spazio: la sua topografia, il corso delle strade, l’altezza degli edifici, la densità e il modo di vivere del quartiere. È dopo queste osservazioni che ho deciso quali caratteristiche evidenziare e quali attenuare in modo da dare carattere allo spazio.

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COM’È USATO LO SPAZIO? Ciò che più colpisce attraversando la piazza è la sua dimensione domestica: si conoscono tutti, gli abitanti la occupano, con un modo di viverla tipico dei quartieri popolari che è vivere sulla “soglia”. Questo determina una forte distinzione tra abitante e passante: il primo prova un forte senso di appartenenza al luogo, inteso come prolungamento della propria casa, il secondo si sente un estraneo di passaggio. Le due attività che più si svolgono sono il gioco a pallone tra i bambini del quartiere, che nelle ore pomeridiane occupano un terzo della piazza, e il parcheggio delle automobili, da parte dei passanti che cercano un posto nelle vie trafficate del centro storico ma anche da parte degli abitanti stessi.


& attivita’

parcheggio auto

vivere sulla soglia

comportamenti

gioco in piazza

I punti di raccolta, invece, sono di fronte le proprie abitazioni, dove si è soliti porre delle sedie o dove ci sono delle panchine, installate durante gli ultimi lavori di riqualificazione. Stare sulla soglia è sintomo di due comportamenti tipici dell’abitante del quartiere: la curiosità e il controllo del proprio spazio, esercitati tramite “l’affacciarsi” da porte e finestre per osservare cosa succede in piazza o chi la sta attraversando. Un’altra destinazione d’uso non più direttamente osservabile, ma che ci è testimoniata dalla storia e dalle testimonianze e i ricordi di gente del luogo, è la messa in scena di piccoli spettacoli all’aperto, i cui testimoni ricordano di essere stati portati da piccoli.

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CARATTERISTICHE ARCHITETTONICHE E URBANE Lo spazio risulta “slabbrato”, cioè uno spazio di risultanza, dai confini sghembi, derivati da un evento casuale quale il bombardamento. Per questa ragione, è anche quasi nascosto all’interno dell’isolato e non immediatamente visibile se si passa nelle strade adiacenti. Gli edifici, anche se hanno subito dei grandi traumi, sono per la maggior parte originari, alcuni dei quali ristrutturati, sui quali sono ancora riconoscibili gli elementi architettonici e costruttivi tipici dell’epoca di costruzione: la muratura in pietra lavica, la tipologia e la dimensione delle aperture (1/1.20 m), incluse quelle ad arco usate soprattutto al pian terreno, gli intonaci tradizionali a malta di calce, ottenuti dalla miscela del legante e inerti lavici (cioè l’azolo) dalle tipiche colorazioni giallo ocra o sabbia, grigio chiaro, rosato, terra rossa. Accanto a questi elementi ce ne sono alcuni che possiamo definire di “urbanizzazione secondaria” cioè introdotti dagli abitanti o da soggetti esterni, che sono diventati col tempo elementi

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compositivi dello spazio: i numerosi cavi per stendere il bucato tesi tra i balconi e le finestre degli edifici, l’uso di tendine sulle portefinestre per la protezione dal sole chiamate comunemente “avvolgibili”, l’uso delle “raste” (termine del dialetto siciliano che significa vasi) di fronte la porta d’ingresso delle case a pian terreno in modo da circoscrivere il proprio spazio separandolo dal resto della strada oltre che abbellirlo esteticamente. Sono inoltre riscontrabili sulle facciate degli edifici una serie di abusi e manomissioni, quali: verande in alluminio costruite sugli esistenti balconi su mensole o su nuovi balconi in cemento, unità esterne dei condizionatori, parabole, rimaneggiamenti della fabbrica come sopraelevazioni o tinteggiature delle facciate non consone. Infine, un elemento che ormai contraddistingue da anni la piazza sono i murales realizzati sulle facciate cieche degli edifici colpiti dal bombardamento durante la manifestazione ReWALLution del 2010.


“avvolgibili�

“raste�

cavi biancheria

muratura tradizionale

verande

elementi architettonici e costruttivi tipici

murales

aperture

parabole

fabbrica

intonaci

condizionatori e

rimaneggiamenti

abusi edilizi elementi di urbanizzazione secondaria

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5.2 Strategia «Dall’osservazione, non solo dall’apparenza percettiva del luogo urbano, ma cogliendo i caratteri strutturanti l’immagine, i segni ed i significati che li connotano» 1 nasce la mia idea di progetto. A partire dall’analisi urbana e dall‘individuazione delle regole tipologiche e topologiche che hanno definito questa porzione di tessuto urbano, ho individuato e sovrapposto tre layout, determinando così le linee e le direttrici sulle quali disporre gli elementi, i volumi e le textures del progetto. Al primo layout che è quello esistente e che rappresenta la configurazione attuale della piazza, ho sovrapposto il layout non più visibile cioè quello delle fabbriche demolite dal bombardamento del del’43, sulla base del piano catastale del 1927 che costituisce l’ultimo riferimento certo per conoscere la vecchia conformazione della piazza. Prolungando idealmente da un lato le linee di giacitura degli edifici che circondano lo slargo e dall’altro quelle degli edifici e delle cellule edilizie demoliti, si genera il layout di progetto ovvero una griglia, sulla quale articolare i nuovi elementi che definiscono lo spazio. La genesi del progetto si fonda dunque sul valore della continuità e del dialogo tra nuovo e vecchio, senza ridurre questo rapporto a una mera imitazione o ripetizione del vecchio tracciato ma sfruttandolo con lo scopo di definire uno spazio aperto e dinamico, ma influenzato dalle caratteristiche del luogo in modo che risulti riconoscibile e sia usufruibile in vari modi sia dagli abitanti che dai suoi “ospiti”. Allora, come sostiene F. Venezia, il progetto non deriverà soltanto dall’osservazione del luogo ma dalla rielaborazione di idee preesistenti 84

genesi

layout di progetto

direttrici edifici esistenti direttrici edifici demoliti layout fabbriche demolite

edifici demoliti cellule degli edifici demoliti stato di fatto


al luogo, curando la matericità che è «una condizione dell’ideazione in architettura, attraverso il conflitto continuo tra poche idee che preesistono al luogo e la resistenza che il luogo con le sue caratteristiche oppone a queste idee» 2. E così la conoscenza delle preesistenze e della forma originaria del sito, lo studio della sua storia e dei traumi che l’hanno segnato, diventa il punto di partenza per la progettazione, per «non conoscere per conservare, ma conservare per conoscere» per trasmettere le testimonianze e la memoria di quel luogo, attraverso il nuovo progetto che «parlerà in funzione della nostra cultura» 3 . Al fine di evidenziare e rendere leggibile il carattere principale di Largo XVII Agosto ovvero la sua dimensione domestica nonostante la natura pubblica del sito, gli elementi costituenti il progetto e gli strumenti compositivi usati, traggono ispirazione dal modo in cui gli abitanti stessi vivono lo slargo, risultando “familiari” e ricostruendo l’intimità perduta dello spazio pubblico. A partire dal modo di vivere gli spazi esterni tipico dei quartieri popolari come la Civita che è vivere sulla “soglia”, prolungando la vita privata al di fuori della propria abitazione, nasce l’idea di delimitare aree differenti tramite l’uso di setti murari, ad uso sia pubblico che degli abitanti stessi, da destinare a usi diversi. Vengono così definite le URBAN ROOMS – stanze urbane –, che richiamano l’elemento urbano della corte semi-privata, tipico dell’impianto urbano dell’area, che si basa su uno schema aggregativo attorno a cortili privati ma spesso accessibili anche ai passanti. In queste stanze a cielo aperto, si svolgeranno attività adatte a un luogo pubblico, sull’idea di un’architettura dinamica che non genera solo esiti estetici o formali ma che permette gli scambi tra persone, programmi, forme, spazi ed eventi.

F. Bonaccorsi, ingresso sud alla piazza, fotomontaggio

F. Bonaccorsi, URBAN ROOMS: attivita’ per lo spazio pubblico, schema

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D’

C’

B’

A’

masterplan

E E’

F F’

G G’

H

A

B

C

D

H’

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sezione ff’

Le Play Rooms sono le aree destinate al gioco all’aperto, una più ampia fungerà da campetto da calcio per i bambini e i ragazzi della Civita che si incontrano nei pomeriggi per giocare a pallone i quali potranno utilizzare come riferimenti per le porte gli elementi architettonici che si trovano intorno quali le aperture nei muri o le panche; l’altra più piccola caratterizzata da una sabbiera semplicemente ricavata ribassando di qualche centimetro il livello di calpestio della piazza, è destinata all’installazione di attrezzature per i giochi per bambini di età inferiore. La Garden Room costituisce un’area depressa rispetto al livello della piazza di 42 cm, destinata ad ospitare oltre che alberi e verde, un giardino condiviso – sharing garden – nel quale gli abitanti del luogo possono piantare e curare, per poi essere raccolte e usate dagli stessi, piante officinali, aromatiche e da fiore attraverso attrezzi da giardinaggio messi a disposizione di tutti e conservati nell’adiacente chiosco di legno Kubbu. In questo modo, si attiva la partecipazione diretta degli utenti, che sono coinvolti nella definizione e cura di uno spazio che possono sentire come

proprio, rendendone la manutenzione e il rispetto più semplice da attuare. Inoltre operare questo leggero cambio di livello, risulta affine alla topografia originaria del luogo, una volta caratterizzata da notevoli differenze di quota e da un terreno irregolare, in parte ancora percepibile e soprattutto costituisce un «accorgimento di tipo ottico» che crea un processo di «arricchimento dell’esperienza visuale» 4. Home Theater è invece l’area destinata alla messa in scena di rappresentazioni teatrali e spettacoli all’aperto, definita tramite tre elementi: la gradonata addossata alla facciata cieca di un edificio, da un “palco” semplicemente individuato a terra da una porzione di terreno ricoperta di ghiaia e dal “fondale scenico” segnalato dalla porzione di muro non intonacata ma con la muratura a vista. È in quest’angolo di piazza che può dunque mettersi in atto la pratica del teatro urbano, rendendo lo spazio pubblico un campo di spontanea partecipazione e trasformando la strada in un laboratorio sociale e luogo d’incontro, scena di desideri e preoccupazioni degli abitanti, la traduzione fisica degli attributi e dei valori sociali. 87


I setti murari, costruiti in muratura portante a blocchi rozzamente squadrati ovvero a tessitura regolare nel rispetto delle tradizioni costruttive del sito (alti 4 m e spessi 0,40 m) costituiscono gli elementi più caratteristici del progetto. Essi svolgono diverse funzioni e si caricano di significati simbolici: oltre a definire lo spazio, delimitando le “urban rooms” destinate a molteplici usi, restituiscono in parte visivamente l’assetto pre - bombardamento della piazza, in quanto sorgono sulle giaciture di alcuni degli edifici demoliti e non più visibili. Viene così evocata la spazialità originaria e si rende leggibile la posizione e la morfologia del “Cortile dell’oliva”, individuata anche da una diversa pavimentazione e dalla piantumazione di un ulivo, così come doveva esserci anticamente. I muri stabiliscono così degli esterni e interni simbolici, distinguendo rispettivamente le zone prettamente di passaggio alle zone in cui si svolgono delle attività, distinzione che viene marcata anche dal tipo di finitura delle facce, per le prime intonacate per le seconde con muratura a vista. Le aperture di cui sono dotati, porte e finestre che rispettano nelle proporzioni quelle osservate nelle unità edilizie prospicienti la piazza, permettono il passaggio e la connessione da un ambiente a un altro, tra un fuori e un dentro immaginario, tra ciò che è visibile e ciò che resta nascosto. Un’altra importante funzione svolta è quella di alterare i percorsi abituali compiuti dai passanti e dirottare i flussi, al fine di provocare uno spostamento nella percezione del luogo, proibendo un’attività consolidata nella piazza ovvero il parcheggio delle auto, generando al suo posto nuovi usi. Essi, inoltre, realizzano l’obiettivo di evitare la vista della piazza come evento improvviso, accompagnando il visitatore che vi entra, 88

F. Bonaccorsi, SETTI MURARI: dirottare i flussi, schema

F. Bonaccorsi, setto murario, schizzo

generando la sensazione progressiva dell’addentrarsi contrapposta allo scorrere e al percorrere senza attenzione dei passanti, condizione che si verifica attualmente. Ma i setti murari si ergono anche come simboli a ricordarci che anche oggetti che consideriamo eterni, come le abitazioni in cui viviamo, hanno una durata e subiscono usura, diventando tracce del costruito perduto e di una storia che è necessario non dimenticare.


sezione bb’

F. Bonaccorsi, ingresso nord alla piazza, fotomontaggio

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F. Bonaccorsi, sharing garden area, schizzo

Nel progetto, la vegetazione e il verde assumono un ruolo importante, non solo perché si prevede di aumentarne la presenza dotando la piazza di standard urbanistici più alti ma anche perché la vegetazione viene usata come strumento compositivo dello spazio. Infatti, a partire dall’uso che gli abitanti del luogo fanno delle “raste” ovvero vasi con piante, posti di fronte le abitazioni per definire una zona propria separata dal resto della piazza, nasce l’idea di interrompere la pavimentazione con aiuole in forma di fasce - larghe 0,40 m, come lo spessore dei setti murari - in cui piantumare arbusti aromatici e da fiore, che fungano da delimitatori degli spazi, come i muri, ma costituendo un filtro più leggero rispetto a quest’ultimi. Frapporre questi ostacoli ovvero i setti e la vegetazione - le piante da terra raggiungono altezze di massimo 0,70 m - tra i passanti e porzioni della piazza, significa svolgere un’azione importante che è quella di recintare, che «è l’atto insieme di riconoscimento e appropriazione collettiva di una porzione di terreno o spazio fisico; è l’atto della sua delimitazione e separazione dal resto del mondo-natura» 5. Di fronte la stecca di case terrane che si trovano sulla parte sopraelevata della piazza, si è scelto di creare le stesse aiuole lineari poste a una distanza di 2 m dalle soglie d’ingresso, ma di non piantarvi nessun arbusto per permettere agli abitanti di coltivare piante secondo la propria scelta, rispettando la loro consuetudine di curare 90

personalmente lo spazio davanti al proprio ingresso. La scelta della tipologia di vegetazione da piantumare è ricaduta su quella mediterranea, con la volontà di restare fedeli alla natura e alle caratteristiche del territorio siciliano. Gli alberi nuovi da piantare saranno quindi eucalipti (nell’area dello sharing garden), alberi della canfora, di tiglio e un ulivo, il quale rappresenta visivamente il punto di fuga di molte delle direttrici usate nel layout di progetto. Ovviamente quelli già presenti nello slargo, sono mantenuti e incorporati nel disegno dello slargo, come il grande falso pepe (schinus molle) che viene inglobato nel podio in cemento alto 70 cm, racchiuso tra il muro e l’edificio adiacente, nato come ampliamento di quello già esistente, il quale costituisce una zona più raccolta e sopraelevata rispetto al piano della piazza, dal quale poter godere di una vista privilegiata dell’intorno e dell’ombra del grande albero. Gli arbusti aromatici e da fiore scelti per essere piantati nelle aiuole lineari che delimitano gli spazi e in alcune sedute che fungono anche da fioriere, saranno: cisto, eleagno, grevillea, acacia conosciuta col nome di “gaggia”, lentisco e mirto. Mentre le piante che possono essere piantate e curate dagli abitanti nel giardino condiviso, sono di tipo officinale, aromatico e da fiore come ad esempio l’erica, la lavanda, la menta, il timo, la salvia e il rosmarino.


sezione hh’

Al fine di riqualificare la facciata dell’edificio che chiude l’angolo sud-est della piazza, il quale sopravvissuto al bombardamento, originariamente in linea, si è sviluppato e ampliato nel tempo fino a diventare una palazzata, subendo rimaneggiamenti aberranti visibili, nasce l’idea di una parete verde che da terra si sviluppa per c.a. 4 m fino alla quota dei primi ballatoi dei balconi. La sua struttura, molto semplice, è formata da tondini di ferro (quelli usati per le armature) verniciati in colori vivaci, che costituisce una griglia dove far posizionare spontaneamente vasi di fiori e piante e per ancorare una rete in plastica per far crescere rampicanti. Questo sistema, oltre che riqualificare l’immagine deturpata del sito, mira a includere ancora una volta gli utenti e gli abitanti del luogo nella definizione dello spazio urbano, facendo spiccare il suo carattere “domestico”.

F. Bonaccorsi, sistema della vegetazione, schizzi

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Il progetto prevede inoltre di fornire la piazza con attrezzature utili a migliorare la vivibilità e il comfort di questo spazio tra cui un pergolato costituito da elementi a C formati da travi in acciaio corten di dimensione 0,20x0,15 m e altezza complessiva di 3,80 m, a cui poter agganciare fasce in tessuto, al fine di ombreggiare ma che servono anche ad inquadrare visivamente, come se fossero cornici, porzioni di paesaggio urbano. La proposta include poi l’introduzione di tre tipi di sedute, posizionate in punti strategici, dalle forme e dimensioni differenti ma che combinano gli stessi materiali: calcestruzzo “effetto travertino” per la struttura e un inserto in tavelle di cotto in corrispondenza della seduta. Tutte hanno altezza di 42 cm e forme rettangolari, due tra le tipologie misurano 0,60x2 m e 0,42x1,70 m mentre le

terze si comportano come delle sedute/fioriere in quanto larghe 1.20 m, sono costituite da una parte destinata alla seduta e l’altra alla piantumazione di piante e arbusti, formando uno “schienale” naturale che protegge chi vi è seduto. Quest’ultime, in particolare, posizionate nello sharing garden – lunghe 4 m – oltre che fungere da panchine per quest’area, saturano la differenza di quota tra il piano della piazza e quello del giardino. Tra le attrezzature progettate ci sono anche dei tavolini, il cui ripiano è arricchito da inserti di piastrelle in cotto disposte a formare il disegno di una scacchiera, così da poter essere usati specialmente dai più anziani, i quali costituiscono un’ampia fetta degli utenti della piazza, come passatempo per i lunghi pomeriggi passati in piazza.

F. Bonaccorsi, vista della garden room e in fondo “home” theater, fotomontaggio

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Il passaggio tra le varie aree della piazza è sottolineato dall’uso diversificato del pattern della pavimentazione. La proposta progettuale, infatti, contempla il ripristino di una pavimentazione tradizionale in basole di basalto lavico etneo di diverse pezzature a finitura bocciardata, alternate a basole di forma allungata di listello a finitura levigata. Questi due elementi si compongono in schemi diversi a seconda degli spazi che identificano, seguendo il principio della dilatazione della texture a partire dalle zone prettamente di passaggio dove è più fitta (schema 1-1-1), fino alle “urban rooms” ovvero gli spazi più pubblici dove è più larga (schema 1-6-1), passando per le “zone di transizione” cioè intermediarie tra quest’ultime (schema 1-2-1). Le basole bocciardate disposte a giunti sfalsati secondo orditure che seguono le stesse direttrici del layout di progetto, hanno dimensione 0,25x0,50 e 0,30x0,60 m mentre i listelli a finitura levigata 0,05x1 m. La pavimentazione cambia ancora per identificare e rendere visibile la posizione e la conformazione dell’antico “cortile dell’oliva”, combinando le basole bocciardate di pietra lavica – qui di dimensioni più grandi che variano dai 0,40x60 fino a 0,40x0,80 m – a blocchi perfettamente quadrati 0,40x040m in marmo botticino burattato e fasce di tavelle in cotto, ciascuna delle quali 0,05x0,25 m. Per la parte sopraelevata della piazza, la cui pavimentazione non era stata alterata dai lavori di riqualificazioni del 2008, si è scelto di mantenere i blocchi esistenti di dimensioni 0,40x0,40 m e lavorati a puntillo grosso sulla faccia superiore.

Aree di transizione

pavimentazione

1-2-1 basole: 0,25x0,50 m listelli : 0,05x1 m schema

Aree di passaggio

schema 1-1-1 basole: 0,25x0,50 m listelli : 0,05x1 m

“Urban rooms”

1-6-1 basole: 0,25x0,50 m 0,30x0,60 m listelli : 0,05x1 m schema

“Cortile dell’oliva” mattonelle in marmo botticino burattato 0,40x0,40 m fasce di tavelle in cotto 0,05x0,25 m basole

0,40x0,60 0,40x0,70 0,40x0,80

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In senso orario, da sopra: lavorazione superficiale della basola: bocciardata, a puntillo, levigata.

Il basalto lavico, è stato da sempre impiegato nella tradizione catanese per la costruzione e per la pavimentazione di strade e piazze, specialmente nel periodo della ricostruzione settecentesca post-terremoto, raggiungendo risultati estetici di notevole pregio grazie alle capacità e alla fantasia degli artigiani locali. I monoliti di basalto, dopo l’estrazione sono vengono tagliati con macchine a lame speciali prima in blocchi omogenei e poi in lastre di spessore variabile a seconda dei formati da realizzare. Successivamente, si passa alla lavorazione della superficie che viene trattata tramite diverse lavorazioni per ottenere effetti diversi. Riguardo quelle scelte per il progetto, la bocciardatura è una lavorazione della lastra eseguita con una macchina (la bocciarda, appunto) dotata di speciali punte che picchiettano sulla superficie producendo un effetto a “buccia d’arancia”, antisdrucciolo mentre la levigatura è realizzata tramite dischi abrasivi e getti d’acqua, al fine di eliminare tutte le imperfezioni rendendo la superficie perfettamente liscia e piana, producendo il tipico effetto “a spugnetta”.

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Il progetto di “Kubbu” nasce dalla necessità di costruire una struttura d’appoggio all’attività dello sharing garden, dentro la quale poter conservare gli utensili e strumenti di giardinaggio condivisi ovvero utilizzabili da tutti. Ma segue anche la volontà di essere un elemento caratterizzante e riconoscibile della piazza, punto di riferimento per i suoi utenti. La sua funzione principale viene così incrementata perché’ diventa anche un punto Wi-Fi, un punto per la raccolta differenziata, essendo dotato di cestini esterni per gettare i rifiuti e un piccolo chiosco per le riparazioni delle bici. Il volume, perfettamente quadrato di dimensioni 2,50x2,50x2,50 m e rialzato su piedini di 0,20 m, da cui prende il nome “kubbu” (giocando con la parola cubo pronunciata in dialetto siciliano), si comporta come una scatola e come tale è apribile su tre dei suoi lati, tramite un semplice sistema di cerniere e pistoni. Le aperture, di varie dimensioni su ciascun lato, si aprono a ribalta in posizione orizzontale trasformandosi in delle pensiline o, nel caso del prospetto sud, in una scivola che permette di entrare nel Kubbu. Con la sua forma semplice e solida, subito riconoscibile, il volume ha una natura duplice: può essere totalmente chiuso su tutti i lati, diventando quasi una scultura nella piazza o aperto in varie soluzioni, permettendo gli scambi con l’esterno e le persone. Con lo scopo di creare una struttura col minore impatto ambientale possibile, smontabile e costruibile in loco, la proposta progettuale prevede un telaio in scatolari di acciaio di dimensione 0,07x0,07 m saldati tra loro, rivestito con listelli di legno.


Il pannello di rivestimento è formato da perline massicce trattate e poi verniciate con un primer e due strati di vernice acrilica trasparente, affinché siano protette e possano durare nel tempo. Il profilo è rettangolare a faccia liscia, di larghezza utile 120 mm, e possiede maschiatura anche nella intestatura, permettendo così continuità di posa ed evitando l’ingresso dietro al rivestimento di insetti, polveri e umidità.

pianta kubbu

ovest

est

nord

sud

rivestimento

aggancio maschio-femmina e chiodatura delle perline in legno alla struttura

sezione

struttura

in scatolari di acciaio e aperture con pistoni e cerniere

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96

B

A’

Infine, una parte del progetto insiste sulla riqualificazione edilizia della casa terrana abbandonata che si trova nell’angolo sud-ovest della piazza e che costituisce l’elemento urbano predominante dell’accesso sud alla piazza, per destinarla al nuovo uso di bar/caffetteria. Rimasta probabilmente inalterata rispetto alla sua forma originaria, la fabbrica faceva parte di una stecca di case in linea distrutte dal bombardamento, a cui invece è sopravvissuta rimanendo isolata. L’edificio costituisce un esempio della tipologia edilizia originale, la casa terrana, nella sua prima configurazione ovvero quella monocellulare semplice, la cui trasformazione, sopraelevazione e aggregazione ha poi creato l’assetto urbano dello slargo. Essa infatti presenta tutte le caratteristiche di questa tipologia: il duplice affaccio, uno fronte strada e l’altro su spazio interno scoperto a uso esclusivo, altezza intorno ai 5/6 metri, struttura verticale in muratura portante dallo spessore di 40 cm a tessitura regolare, aperture di dimensioni medie di 1/1.20 m arricchite da fregi e trabeazioni, intonaco tradizionale color giallo sabbia anche se affetto da patologie di degrado. Inoltre, l’area della piazza in cui sorge ci dà un suggerimento su come tutta la zona doveva apparire topograficamente in passato, in quanto la fabbrica insiste su un terreno dalla morfologia complessa caratterizzato da salti di quota in vari punti, dovuti agli antichi banchi lavici, e sulla piazzola inclinata sfalsata rispetto al resto della piazza. Al fine di rendere usufruibile la fabbrica, la proposta progettuale prevede il rifacimento di alcuni elementi.

B’

pianta bar-caffetteria


griglia di colmo antipassaero e bandelle antipioggia coppi siciliani camera di ventilazione guaina impermeabilizzante pannello coibente in fibra di legno listelli di ancoraggio barriera a vapore tavolato

travetti piedino distanziatore e aggancio coppi puntone

monaco

copertura ventilata

particolare tecnologico

La copertura a doppia falda inclinata viene sostituita con un tetto ventilato o “tetto freddo”, il quale migliora notevolmente l’isolamento termico di tutto l’edificio, grazie alla camera di ventilazione a spessore costante che separa nettamente il manto di copertura dallo strato coibente sottostante. La ventilazione, infatti, da una parte sottrae parte di calore evitando che si trasmetti agli strati sottostanti dall’altra espelle al di fuori del tetto il vapore acqueo prodotto nell’abitazione tramite l’attivazione di “moti convettivi ascensionali”, prevenendo in questo modo fenomeni di condensa. Per far sì che si attivi tale meccanismo, l’aria esterna entra nell’intercapedine a livello di gronda ed esce dal colmo tramite un elemento di sfiato. In questo modo in inverno la ventilazione lascia il materiale isolante asciutto, evitando condense, in estate l’aria fresca, che penetra dalla linea di gronda, si riscalda nell’intercapedine e diventa più leggera e fuoriesce dal colmo, sottraendo calore alla struttura.

Altro elemento di cui si prevede il recupero è l’intonaco, il cui stato attuale è caratterizzato da diversi degradi: annerimenti causati dai gas di combustione veicolare, dall’accumulo di emissioni atmosferiche e dalla patina biologica, annerimento da abrasione dovuta alla pioggia acida (ovvero processo di acidificazione ambientale causato dall’azione combinata dei gas di combustione e dell’umidità), i quali rendono illeggibile la sua valenza estetica e il suo colore originario, apparendoci invece di colore grigio scuro. Ma al fine di comprendere la sua alterazione formale, è opportuno soffermarsi sulla sua composizione tradizionale. La malta tradizionale dei nostri intonaci locali è formata da una parte di legante (grassello di calce) e tre parti di inerti (azolo di color grigio scuro): tale composizione ha la funzione di conferire forza strutturale alla malta e la successiva tinteggiatura – che nel caso studio assume gradazioni che vanno dal giallo sabbia o ocra, al terra rossa fino al rosato – eseguita 97


sezione aa’

sezione bb’

anch’essa con calce liquida e pigmenti naturali, oltre a svolgere funzioni decorative ha la finalità di costituire ulteriore protezione verso le aggressioni ambientali. Ma le piogge acide hanno un notevole potere solvente della calce e quindi anche delle tinteggiature, e causano quindi un rafforzamento degli usuali degradi da abrasione, erodendo ancora di più gli strati superficiali e ponendo così in evidenza i sottostanti inerti. La “messa in luce” degli inerti, che di fatto costituisce una forzatura formale sopravvenuta per cause esterne, è inoltre indicativa anche di un progressivo ammaloramento delle malte, dovuto al semplice invecchiamento dell’intonaco. Posto ciò, la proposta progettuale prevede il rifacimento dell’intonaco, appositamente formulato a partire dai residui di cromie preesistenti, al fine di provvedere sia alla manutenzione sia al ripristino dello standard della fabbrica originaria. 98

Per ottenere un buon intonaco di restauro, affinché sia al contempo rappresentativo della funzione storica rivestita dall’edificio, esso dovrebbe contenere nel formulato alcuni elementi quali: malta di calce leggermente colorata con pigmento terroso o con polveri di coccio pesto per il controllo del flash naturale del biancore - accorgimento indispensabile per evitare la sensazione di un intonaco moderno e attualizzato; impiego di pigmenti originali al fine di pervenire alla colorazione originaria; impiego di inerte lavico secondo la tradizione locale anche per conferire alla malta valori lievemente grigi, neutri e freddi; impiego di granulato di coccio pesto per conferire alla malta valori lievemente patinati e caldi, funzionale alla complessiva patinatura antiquaria; lavorazione finale secondo tecniche tradizionali che evidenziano la visibilità del passaggio del “fracasso” 6.


cocciopesto granulare giallo

azolo

fracasso a spugna

Il risultato finale sarà un edificio dalle tonalità moderate, privo di competizione con quelli circostanti e che dialoga in forma discreta con altri fabbricati ancora non restaurati. Inoltre il progetto prevede anche l’installazione di nuovi elementi come gli infissi, ovvero finestre e portefinestre in acciaio corten ma soprattutto un pannello frangisole scorrevole (dalle dimensioni di 2,30x2,40m), che come un portale, ma tassellato a distanza di 30 cm dalla facciata, segnala l’ingresso principale alla caffetteria. Per sfruttare al meglio le differenze di quota su cui insiste l’edificio, ho scelto di rendere accessibile dall’esterno il cortile privato su cui si affaccia, aprendo due varchi e innalzando due scalini che corrono continui lungo il perimetro del cortile, in modo da connettere gli spazi verdi delimitati dal setto murario sulla piazza, al giardino più privato della caffetteria. L’idea è quella di suggestionare la sensazione di “scoperta dei luoghi”, rendendo graduale il passaggio tra le varie zone, segnalato dalla successione di elementi precisi quali il muro, le aperture, gli alberi e i gradoni. L’edificio si ritroverà così circondato da spazi verdi, sia propri come il cortile che gli appartiene già, che della piazza, visto che parte della piazzola inclinata e sfalsata rispetto al piano della piazza, viene convertita in zone di verde sui cui piantare degli alberi, costituendosi così uno spazio unico accessibile da diversi punti.

ossido giallo

grassello di calce

F. Bonaccorsi, foto dello stato attuale dell’intonaco - facciata EST, 2017

malta di calce e ghiaia rossa struttura verticale in muratura portante a blocchi rozzamente squadrati e minutame di frantumi lavici e mattoni intonaco traspirante Imbotto in acciaio corten con funzione di architrave

struttura verticale

frangisole pannello scorrevole portafinestra ad un’anta complanare in acciaio corten

particolare tecnologico

99


Per concludere, ciò a cui mira il progetto è dunque condurre un’azione trasformatrice, in grado di rinnovare la capacità di vedere e percepire lo spazio in chi lo fruisce, riconquistando la città prima di tutto come esperienza antropologica, grazie ad elementi e soluzioni compositive che consentono di evocare suggestioni e vivere condizioni precise, definendo per gli abitanti dei nuovi ambiti per la vita quotidiana. L’obiettivo finale consiste nel riconoscimento e nel rispetto dell’identità del luogo, intesa, secondo l’interpretazione di Kevin Lynch, come significato ovvero «la chiarezza con cui un insediamento può essere percepito e identificato e la facilità con cui i suoi elementi possono essere collegati ad altri eventi o luoghi, in una rappresentazione mentale coerente di tempo e spazio, a sua volta relazionabile a concetti e a valori non spaziali»7. Uno spazio, infatti, si fa luogo solo se «identificato da segni, pratiche e azioni concrete in cui» l’uomo «possa riconoscersi, sperimentare l’appartenenza, individuare dei limiti-confini»8 , ma anche da elementi immateriali e invisibili come la memoria di cui è deposito 9, i valori individuali e collettivi di cui viene caricato. In un luogo pubblico, la sua storia si identifica come memoria collettiva a cui si deve dar voce tramite il progetto, perché essa richiama grandi avvenimenti del passato, ma anche memorie individuali tramandate. È solo così, allora, che si riesce nell’intento di attribuzione soggettiva di valore, di riconoscimento dell’identità̀ del luogo, di valorizzazione della sua importanza e con essa dei suoi abitanti, e dei suoi segni, simboli di qualcosa che oggi è invisibile. Lo scopo è condurre, prima di tutto, un’azione di tipo sociale e culturale, per la quale il rispetto per il luogo nasce dal senso di appartenenza ad esso e viene stimolato attraverso la proposta di attività ludico, creative e culturali. 100

F. Bonaccorsi, foto di un angolo della piazza, 2017

Dario Lo Presti, Quartiere Civita. La citta’ nascosta, reportage fotografico


F. Bonaccorsi, vista dell’area centrale con pergolato, fotomontaggio

1. Cfr. Vittorio Fiore, La manutenzione dell’immagine urbana, Maggioli, Rimini, 1998 2. Cfr. Francesco Venezia, in F. Nuvolari (a cura di), Le piazze. Storia e progetti, Electa, Milano, 1989 3. Cfr. Marco Dezzi Bardeschi, in V. Locatelli (a cura di), Restauro: punto e da capo, Franco Angeli, Milano, 1991 4. Cfr. Francesco Venezia, in F. Nuvolari (a cura di), op. cit. 5. Cfr. Vittorio Gregotti, editoriale, in “Rassegna” n.1, 1979 6. Indicazioni fornite da Vittorio Di Blasi, restauratore presso Soprintendenza di Catania, in Catania città nera. Un particolare aspetto legato all’annerimento degli intonaci dell’edilizia storica, in “Incontri” Anno I, n.4, Luglio/Sett. 2013 7. Cfr. Kevin Lynch, op.cit. 8. Cfr. L. Bonesio, L. Micotti, Paesaggio: l’anima dei luoghi, 2008 9. Cfr. Eugenio Turri ha definito il paesaggio come “deposito di storie”, dei fatti in esso avvenuti, di memorie, in E. Turri, Il paesaggio racconta, «Quaderni dell’Archivio Piacentini» n.4, Marzo, 2000

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SCHEDE scenografia

& teatro urbano

1

Utopia di Aristofane

2

L’Attesa: realtà o finzione?

3

Città Invisibili arte nello spazio urbano

4

Campo urbano - Interventi estetici nella dimensione collettiva urbana

5

Arte all’arte: Arte Architettura Paesaggio

6

Red line district: arte urbana a San Berillo il progetto dello spazio urbano: città a misura d’uomo

7

Schouwburgplein - La piazza del teatro

8

Estonoesunsolar - Interventi effimeri per spazi pubblici di uso transitorio

9

Playgrounds - La città come un parco gioco

Nella pagina accanto: INTERESNI KAZKI, La fuga di Ulisse da Polifemo, per il progetto Street Art Silos, porto di Catania, 2015


Utopia di Aristofane Coordinate Italia, Veneto, Venezia [Biennale Teatro] 1976 Autori Luca Ronconi (regia) Luciano Damiani (scenografia) Dimensione storico-urbana e sociale L’allestimento fu realizzato all’interno degli Ex Cantieri Navali della Giudecca, quartiere di Venezia, in cui abitazioni popolari si mischiavano ad edifici artigianali o industriali e ad aree verdi semi abbandonate. Obiettivi - sensibilizzare il pubblico sul recupero architettonico e sociale di luoghi dismessi all’interno della città - realizzare uno spazio teatrale come luogo dell’azione degli attori e del rapporto con il pubblico, contemporaneamente - prendere riferimenti dall’ambiente circostante: lo spettacolo trova fondamento e ispirazione dal luogo, che viene modificato per le necessità dell’azione drammaturgica. Lo spettacolo prende forma grazie all’architettura di un luogo esistente. - partecipazione collettiva: avendo scelto luoghi per la scena non “deputati” ma all’interno del tessuto urbano, il pubblico non è obbligato a estraniarsi dal contesto circostante ma è coinvolto pienamente nell’azione teatrale

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Scheda 1 - rendere i malesseri della società descritta dall’opera contemporanei e interpretabili da un pubblico attuale Progetto L’opera propone tre luoghi cpme “costanti” della città di Aristofane, ma anche di quella attuale: la strada, la piazza, la casa. In ognuno di questi ambiti è possibile associare un comportamento o un’azione tipico: nella strada, l’azione, la fuga, l’andare, il tornare; nella piazza l’infiltrarsi, il peregrinare; nella casa l‘essere dentro o fuori. Queste considerazioni ritornano nella formulazione dello spettacolo, dove sipari mobili delimitano gli spazi d’azione, il pubblico è disposto su due lati lungo la strada su tre semplici impalcature continue e gli attori-passanti lo accompagnano all’interno di una città ipotetica, in una processione continua sulla strada. La lunga strada (50 metri circa) lungo cui si sviluppa lo spettacolo, è simbolo della città in divenire, percorsa da una processione inesauribile, ripetuta da un popolo di scontenti verso un illusorio progresso, di cui il pubblico ai lati è testimone. Ronconi racconta la storia di una Atene immaginaria, caratterizzata dai malesseri dei nostri giorni, mostrando uno spaccato di vita quotidiana, dove gli attori galleggiano in un mare di oggetti e attrezzi scenici inconsueti, come auto stipate di oggetti e arredate come abitazioni, camion, un aereo.


L’Attesa - Realtà o finzione? Coordinate Italia, Campania, Napoli [Teatro Film Festival Italia] 2010 Autori Mario Fortunato Dimensione storico-urbana e sociale La città di Napoli e i suoi spazi urbani, quelli vissuti e abitati da noi nella nostra vita quotidiana: l’ufficio postale, la banca, il supermercato, una fermata dell’autobus, la banchina del porto. L’opera è rivolta ai passanti, agli abitanti ignari della città, che usano spesso gli spazi urbani senza coscienza, e a cui viene chiesta attenzione e sforzo interpretativo per distiguere la realtà dalla finzione Obiettivi - ambientare l’azione teatrale all’aperto, sfruttando diversi luoghi della città in senso ampio: non solo piazze e cortili, ma qualunque altra ambientazione - dimensione performartiva : i luoghi scelti non sono dei palcoscenici dove si recita nel senso usuale del termine, ma dove accadranno eventi, dialoghi teatrali inaspettati

Scheda 2 - ambiguità e imprevedibilità: far riflettere su come spesso sia difficile interpretare correttamente quello che accade sotto i nostri occhi - interpretare l’ambiente: usare lo spazio urbano, come spazio “trovato” cosi com’ è, con i suoi vincoli fisici e sociali - amplificare la teatralità involontaria della città, per andare in cerca di un nuovo pubblico, ignaro e casuale. Progetto Lo spettacolo nasce da un’idea: intorno a chi, in una fila, aspetta il proprio turno, la realtà appare talvolta come uno spettacolo teatrale, chi è a fianco puo essre un attore o un cittadino che ci mostra involontariamente la sua vita reale. Dieci scrittori italiani si lasciano ispirare dalla vita quotidiana delle città di Napoli e cinque compagnie emergenti trasformano i loro testi in performance teatrali, con le quali abitare la vita quotidiana di dieci luoghi d’attesa della città. Fra i passanti stupiti e queste misteriosi incarnazioni delle memorie, dei fantasmi della loro città si crea uno straniante gioco di specchi, di grande impatto emotivo.

V. Consolo, L’Attesa

M.P. Ottieri, Petru

I. Cotroneo, Assenti

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CittÀ Invisibili Coordinate Italia, Austria, Germania, Danimarca, Inghilterra, Stati Uniti, Svezia, Brasile, Messico 1991-2008 [in corso] Autori Teatro Potlach (organizzatore) in collaborazione con artisti internazionali Dimensione storico-urbana e sociale Il Teatro Potlach, fondato a Fara Sabina (Rieti) nel 1976, da Pino di Buduo e Daniela Regnoli, realizza questo progetto artistico interdisciplinare e multimediale Città Invisibili, “fuori dai teatri” trasformando gli spazi quotidiani di una città, attraverso la scoperta dell’identità culturale di quel luogo, stimolando l’energia creativa dei suoi abitanti. Nel corso delle sue edizioni (che prendono forma come festival della durata di 3 giorni circa) vengono scelte sempre diverse città, in diversi paesi europei e non, rapportandosi con la loro cultura e tradizioni. Obiettivi - scegliere i luoghi della città per strutturare la rappresentazione: chiese, torri, cantine, scuole, piazze,cortili, etc - far riemergere e restituire una città mai vista prima, ma presente nei ricordi dei suoi abitanti in modo da risvegliare in loro un forte senso di appartenenza - partecipazione: gli abitanti, le associazioni e gli artisti locali contribuiscono attivamente alla metamorfosi della loro città - inventare una forma di coesistenza, di vita comunitaria come premessa e condizione del lavoro teatrale - riscoprire, valorizzare e far conoscere attraverso il teatro, gli spazi della città ai suoi stessi abitanti, sviluppando il tema della memoria del luogo, delle sue tracce sepolte, della sua identità

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Scheda 3 - site specific: determinare la drammaturgia stessa dello spettacolo a partire dalla struttura sociale, il paesaggio culturale e naturale, rendendo lo spazio fisico della città il vero palcoscenico della rappresentazione - lavorare sull’essenza del teatro, sulla ricerca dell’attore totale e della composizione drammatica basata sull’azione fisica, oltre i confini dell’idea istituzionale del teatro, nello scambio tra diverse discipline (teatro, circo, danza, performance musicale) attraverso l’esperienza costante del viaggio e del contatto sul campo con le culture performative europee, asiatiche e latinoamericane - riportare alla luce la profonda cultura immateriale dei luoghi

Progetto Il progetto basato sul tema della città e della memoria, si presenta come un’originale ricerca antropologica, storica e culturale realizzata attraverso il teatro. Dopo un’analisi basata sulla ricerca storica e culturale riguardo la città in cui viene ambientato, vengono realizzati nei diversi spazi urbani o naturali, allestimenti scenici, performances musicali, installazioni multimediali, eventi coreografici, ricreazioni di ambienti architettonici. In questo modo la città si trasforma in un cantiere di ricerca, avvalendosi della collaborazione di molti artisti e ricercatori, architetti, scenografi, archeologi, antropologi, nonché di compagnie teatrali e di gruppi musicali, Durante l’evento gli spazi prescelti prendono vita simultaneamente : artisti e spettatori si trasformano in viaggiatori-esploratori divenendo dei veri “archeologi della memoria”.


alcune foto di performances e installazioni dalle diverse edizioni

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Campo urbano - Interventi estetici nella dimensione collettiva urbana Coordinate Italia, Lombardia, Como 21 Settembre 1969 (dal pomeriggio a sera) Autori Luciano Caramel (coordinatore) Artisti (tra cui): Bruno Munari, Ugo La Pietra, Enrico Baj, Gianni Colombo, Gianni Pettena, Dadamaino, Ugo Mulas, Ico Parisi Dimensione storico-urbana La provincia italiana, Como, scelta come “spazio alernativo” lontana dalle grandi città e dai loro elitarismi del potere economico, istituzionale e culturale, mosse in quegli anni dall’interesse degli assessorati locali e dai sindaci di ravvivare luoghi decentrati con intento anche turistico. Le azioni si svolsero tra il centro storico e il lungolago. Dimensione sociale Gli eventi sono rivolti sia agli abitanti della città, sia al passante inavvertito. La manifestazione fu seguita da numerose polemiche e critiche, perchè gli artisti espressero il disagio di sentirsi dei semplici animatori inefficaci, provando un senso di isolamento originato dall’indifferenza da parte degli enti promotori. Obiettivi - portare l’artista a diretto contatto con la collettività del centro urbano, con gli spazi in cui essa quotidianamente vive, con le sue abitudini e necessità: il cittadino come interlocutore e la città come soggetto - instaurare un dialogo con la popolazione, esprimendo valori e significati anche politici, legati al clima sociale, culturale e artistico tipico del’68 - ispirare alternative comportamentali, ribaltamenti percettivi e di pensiero per liberare la gente dalle consuetudini tramite azioni cariche di sollecitazioni e provocazioni - stimolare l’adesione spontanea del pubblico e qualsiasi reazioni gli interventi suscitano 108

Scheda 4

- presentare la varietà e la complessità del problema urbano attraverso proposte differenti e aperte alla discussione ed alla verifica - adottare soluzioni artistiche effimere o “permanenti”, radicali o parziali, eversive o riformistiche talvolta diverse in base alle diverse problematiche

Progetto Gli artisti partecipanti alla manifestazione, sono diversi per età, per direzione di ricerca e per scelte culturali e non è stato chiesto alcun intervento in qualche modo preordinato, esso deve nascere in relazione al luogo. Tra essi, inoltre, accanto a scultori e pittori, vi sono musicisti, architetti, scrittori e anche persone non professionalmente dedite ad attività estetiche. Tra gli interventi memorabili ricordiamo: la performance di Bruno Munari che visualizza l’aria di Piazza Duomo invitando la popolazione a piegare e tagliare pezzi di carta e a lanciarli dalla torre; quella di Gianni Pettena che allestisce delle clothes-line di bucato violando l’immagine di ufficialità della piazza; quella di Dadamaino che gettano dei quadrati di sottile materiale fluorescente nell’acqua del lago. Particolarmente interessante risulta il lavoro di Ugo La Pietra perchè prende di mira la condizione della città in genere e quella di Como in particolare. L’artista costruisce un percorso coperto, un tunnel a sezione triangolare, che occupa una via del centro storico da poco pedonalizzata. Lo scopo è isolare l’individuo dal contesto per fornirgli inconsuete stimolazioni spazio-sensoriali, che egli raggiunge cancellando alla vista di chi lo attraversa la comunicazione commerciale, che era rimasta padrona della città liberata dal traffico ma non dagli interessi privatistici.


E. Baj, E. Besozzi, I. Bonstrat, B. Molli, Segnaletica orizzontale

Campo Urbano, partecipanti e pubblico in piazza, Como, 1969

Dadamaino, Illuminazione fosforescente automotoria sull’acqua

G. Pettena, Laundry

B. Munari, Visualizzazione dell’Aria di Piazza Duomo

U. La Pietra, Allora: copro una strada e ne faccio un’altra trasformo gli spazi originari cambio le condizioni di comportamento

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Arte all’arte - Arte Architettura Paesaggio

Scheda 5

Coordinate Italia, Toscana [Casole d’Elsa, Colle di Val d’Elsa, Montalcino, Poggibonsi, San Gimignano, Siena] 1996-2004 Autori Associazione Arte Continua (organizzatori) Laura Cherubini, Jan Hoet, Giacinto Di Pietrantonio, Angela Vettese, Florian Matzner (alcuni dei curatori nel corso degli anni) Sei artisti diversi ogni anno di fama internazionale, per ciascun comune (dal 1998 in poi tutti di differente nazionalità)

- arricchire il patrimonio visivo collettivo e formulare un linguaggio collettivo, comprensibile da tutti - uscire dai luoghi deputati alla culura e ritornare al territorio vissuto creando una rete di luoghi dilatata nel territorio all’interno della quale rivalutare i piccoli centri o quelle zone che la logica espansiva ha trasformato in immense periferie senza centro.

Dimensione storico-urbana Il terriotorio toscano e la sua duplice anima, che vive nel rapporto tra “campagne” ricche di città d’arte, e “città nuove”, distretti industriali che lambiscono o assediano gli altri, riconosciuti come patrimonio culturale della modernizzazione occidentale.

Progetto Le opere degli artisti nascono dopo una loro permanenza nelle città, perchè gli viene chiesto di venire a vedere e respirare, oltre che individuare, il luogo per il quale concepire e realizzare l’opera come se dovesse abitare lì per sempre (in alcuni casi si tratterà di opere permanenti, a discrezione di artisti e amministrazione) e sono pensate per essere collocate in spazi pubblici. Possono essere sculture, installazioni, oggetti tridimensionali.

Dimensione sociale La globalizzazione ha trasformato profondamente le culture locali e le relazioni tra gli abitanti e tra questi e la città, portando alla nascita di linguaggidiversi e all’incomunicabilità non solo tra ceti e classi sociali, ma tra etnie, gruppi e appartenenze varie. Obiettivi - valorizzare il patrimonio toscano e avvicinare tradizione e sensibilità contemporanea, inserendo opere d’arte contemporanea appositamente pensate e create nel circuito delle eccellenze territoriali - riequilibrare il rapporto di polarità tra la città moderna e quella storica, e tra città e campagna - produrre nuovi legami fra Arte Architettura Paesaggio restituendo all’arte un ruolo centrale nella costruzione delle città e del paesaggio - generare una cooperazione tra gli artisti ospiti e l’artigianato artistico locale 110

J. Diamond, San Gimignano, 1997


Dall’edizione del 1997, due esempi: Jessica Diamond, San Gimignano getta in nero, l’ombra di ciò che non c’è più: una delle decine di torri che sono sparite dal centro storico di San Gimignano. Così parla con e di ciò che è assente, con la speranza della memoria (perché anche senza torre tu cammini sulla sua ombra) e la disperazione per ciò che è perduto (perché l’ombra è rotta, come un bastone che rompe l’illusione ottica quando lo metti nell’acqua). Altrove nella città, in una strada dove non passano i turisti o soltanto per caso, in una linea leggermente incurvata, le sue parole cesellate in rame, si riferiscono a una vecchia pittura nella quale il santo patrono conserva sul suo grembo la città in una vallata leggermente incurvata. Anche qui l’artista sfiora soltanto, quasi invisibilmente, il passato e rianima il presente.

Massimo Cingolani, San Gimignano L’artista cerca di guardare dietro le finestre dimenticat e nascoste. Finestre non del soggiorno o del salotto, ma di stanze vuote e sperdute, verso le quali nessuno guarda e dalle quali nessuno guarda. Egli le sostituisce con vetri dipinti di figure che gesticolano comicamente e che improvvisamente fanno rivivere gli angoli oscuri, in un mare di luce. Come se le finestre comunque, dopo secoli di silenzio, volessero abbandonare i loro segreti dietro i vetri.

J. Diamond, San Gimignano, 1997

M. Cingolani, San Gimignano, 1997

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Red Line District -Arte urbana a San Berillo Coordinate Italia, Sicilia, Catania 2016-work in progress Autori Res Publica Temporanea (collettivo organizzatore) Artisti (tra cui): Giuliana Mannino, Ruce, Luprete, Weeds, NemO’s, GAB_el Dimensione storico-urbana Situato tra la Stazione ferroviaria centrale e il Teatro Massimo Bellini, San Berillo è un rione storico della città, ormai ridotto in stato di abbandono e degrado. Negli anni Cinquanta venne parzialmente distrutto in nome di un piano di risanamento urbanistico volto all’ampliamento della rete stradale e alla realizzazione di nuovi condomìni. L’operazione non fu mai completata, provocando una ferita, non ancora sanata, nel tessuto cittadino. Recentemente il crollo di uno dei tanti palazzi fatiscenti ha portato alla chiusura di alcune vie, rese sempre più vuote e pericolose, consegnate all’illegalità in tutte le sue forme. Anche se la loro posizione centrale le rende più che appetibili: la speculazione su questo territorio di fatto non si è mai arrestata, in vista di una futura gentrificazione. Dimensione sociale La zona nel corso degli anni si è svuotata sempre più dei suoi originari abitanti e si è riempita velocemente di prostitute e extra-comunitari, che non convivono sempre facilmente tra loro. Negli anni Novanta era considerata uno dei più grandi quartieri a luci rosse d’Europa. Obiettivi - utilizzare l’arte urbana per riportare l’attenzione sul quartiere, evidenziandone i problemi - non intaccare l’aspetto degli edifici ma denunciarne la sua condizione, l’inaccessibilità, ovvero il diritto negato alla casa - dare dignità al tessuto sociale che vive nel quartiere 112

Scheda 6

- collaborare e confrontarsi con gli abitanti del quartiere, per elaborare un piano di azione teso a costruire un decoro, inteso non in senso estetico, ma come qualità della vita sociale - denuncia e opposizione: il quartiere è preso di mira da importanti gruppi speculativi della città con l’obiettivo gentrificare l’area

Progetto Quattro street artist siciliani realizzano murales concentrandosi sulle porte di accesso delle case e la scelta non è stata casuale: nel 2000 Umberto Scapagnini, sindaco di Catania a quel tempo, decide di bonificare l’area. Preceduta da un’indagine di polizia, viene organizzata un’imponente retata per sradicare l’organizzazione criminale che gestisce prostitute provenienti soprattutto dalla Colombia e dalla Repubblica Dominicana: di notte gli agenti sfondano le porte, entrano nelle case, prelevano le ragazze e le caricano sui pullman, se straniere verranno poi espulse con un foglio di via. In seguito al blitz, le porte di molte case vengono murateProprio queste porte sono ora il supporto di tutte le opere. “Se le porte saldate o murate verranno riaperte, le opere spariranno con loro”, spiegano i Res Publica Temporanea. Tutti gli interventi vengono fatti in collaborazione e con il permesso e il supporto del Comitato di Quartiere, oltre che con chi questa zona realmente la vive. “Dopo i primi interventi abbiamo chiesto agli abitanti se avessero delle richieste particolari”. C’è chi ha voluto per il proprio ingresso un ritratto di Coco Chanel in riferimento al suo nome d’arte, chi un polpo con chiari riferimenti alla propria sessualità [in catanese puppo indica sia il cefalopode che l’omosessuale, N.d.R.], una geisha che è stata il frutto di una collaborazione di idee per l’utilizzo degli elementi architettonici, mentre una ragazza di origini colombiane ha voluto un Botero, per sentirsi più vicina alla proprie radici.


Res Publica Temporanea, Simil Botero, realizzato per le ragazze colombiane

opera di Ruce

opera di GAB_el

Collettivo FX, Luprete, Murales, dedicato a San Berillo

opera di Giuliana Mannino

opera di Luprete

opera di NemO’s

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Schouwburgplein -La piazza del teatro Coordinate Olanda, Rotterdam 1991-1996 Autori West 8 (Urban design & landscape architecture) Adrian Geuze (fondatore dello studio) Dimensione storico-urbana La piazza è collocata nel centro della città, vicino le rive del fiume Nieuwe Maas e al porto e circondata dal teatro comunale, da un cinema multisala e dalla Concert hall. L’intervento rientra nell’azione di riqualificazione svolta in molte zone della città, avviato a partire dagli anni ‘50 all’interno del processo di ricostruzione post-bellica, a seguito dei bombardamenti tedeschi subiti nel corso della seconda guerra mondiale che aveva lasciato solo tre degli edifici storici originari del centro antico. Ancora oggi la città conserva l’aspetto di un enorme cantiere a cielo aperto, oltre che l’immagine di città industriale ipermoderna Dimensione sociale L’uso della piazza è rivolto a tutti -abitanti del quartiere, passanti, turisti - con lo scopo di stimolarne un uso sempre diverso ma cosciente. I nuovi spazi urbani interagiscono con l’utente ad un punto tale che egli diviene consapevole del suo comportamento, e del fatto che non può continuare ad agire come una macchina.

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Scheda 7

Obiettivi - realizzare un palco pubblico interattivo per eventi e usi temporanei - partecipazione attiva: permettere agli abitanti di determinare diverse configurazioni spaziali, giocando con gli elementi presenti - restituire agli abitanti le loro identità e la loro immaginazione - flessibilità: lo spazio è diviso in diverse zone, differenziati per arredi e pavimentazioni, che suggeriscono diversi usi, accogliendo diversi tipi di fruitori - reinterpretare la piazza tradizionale come un luogo dove il pubblico pu essere partecipe di attività non programmate piuttosto che spettatore passivo - recuperare uno spazio urbano attraverso la di mensione ludica - operare sul concetto della praticabilità del vuoto, per dare una precisa identità - rapportarsi con il contesto circostante e trarre riferimento: per la scelta di materiali e di tutta l’immagine, si è preso spunto dalle grandi strutture che dominamo la città portuale (le monumentali strutture idrauliche per l’illuminazione, di colore rosso rimandno all’immagini delle gru in acciaio che scaricano i containers al porto, e costituiscono l’elemento distintivo della piazza)


Progetto Attraverso un leggero sollevamento della superficie rettangolare che ricopre il parcheggio sotterraneo, che crea un confine distinto tra città e piazza, si realizza un vero e proprio palco interattivo per i cittadini, che possono viverlo sia come attori che come spettatori, per usi diversi. E come in un vero e proprio teatro è la luce, sia naturale che artificiale, a determinare la forma di questi usi. Durante il giorno l’orientamento del sole nelle diverse ore della giornata e delle stagioni, genera composizioni differenti tramite la riflessione degli elementi sul mosaico pavimentale, formando una vera e propria scena. Durante la notte, le quattro antenne idrauliche dotate di riflettori e dipinte di rosso, illuminano la piazza permettendo la nascita di attività spontanee di ogni sorta. Ciascun elemento di questo sistema di illuminazione, infatti, può essere manovrato da una persona sola: azionando il movimento inserendo un gettone, si può illuminare un settore della piazza oppure semplicemente dare una forma temporanea a questa specie di scultura cinetica interattiva. La piazza è inoltre animata dall’uso di materiali ed elementi diversi, leggeri ed economici. La pavimentazione è differenziata: doghe in legno posate a spina di pesce e gomma molto resistente, scelta per trattenere il calore solare; pavimento in resina integrata in un pattern random con foglie d’acero d’argento, che costituisce una bellissima superficie liscia che ha reso la zona popolare per i pattinatori; e un pavimento di metallo perforato che, filtrando la luce dal garage sottostante, anima la vita notturna della piazza. Getti d’acqua vivacizzano ulteriormente la piazza. Una fila di panchine esposte a sud aiuta a delineare il sito, con il loro alto e ampio schienale danno un senso di protezione dalle vie circostanti. Questo intervento, in tutti i suoi aspetti, conduce una riflessione progettuale sullo spazio come luogo del possibile in cui il vuoto è “lo schermo su cui proiettiamo i nostri desideri”. 115


Estonoesunsolar - Interventi effimeri per spazi pubblici di uso transitorio Coordinate Spagna, Saragozza 2004-2010 Autori Patrizia Di Monte, Gravalosdimonte Arquitectos, Ignacio Gravalos Lacambra Dimensione storico-urbana Il luogo dell’intervento è il centro storico di Saragozza, che contava nel suo tessuto numerosi lotti inedificati (“solares”) in stato di abbandono. I siti vennero registrati: si trovavano principalmente nei distretti di San Pablo e nella Magdalena. La collaborazione con l’Associazione municipale Zaragoza Vivienda, ha permesso l’avvio di un programma sperimentale a livello nazionale, che per la prima volta propone di usare quanti piu lotti possibili, sulla base di accordi presi con i proprietari non interessati a costruirci in tempi brevi. Il programma è partito in 14 lotti del centro storico per ampliarsi nel 2010 in tutta la città. Dimensione sociale I sondaggi condotti sui cittadini hanno messo in luce i problemi di queste aree: mancanza di standard urbanistici, disturbo dell’estetica del paesaggio urbano, pessime condizioni sanitarie, alto grado di conflitti sociali. Per combattere tali problemi, i cittadini stessi si fecero promotori di iniziative che chiedevano al comune tramite petizioni di utilizzare i solares come spazi pubblici di uso transitorio. Dopo l’avvio del processo e la realizzazione degli spazi, si scelsero organismi responsabili della gestione posteriore e manutenzione dei nuovi spazi. Obiettivi - riqualificare i vuoti urbani abbandonati della città consolidata, progettando gli spazi come luoghi di partecipazione e scambio - generare attrezzature e spazi utilizzabili nel quartiere in tempi brevi 116

Scheda 8

- avviare un processo di partecipazione civica, con il supporto delle associazioni cittadine esistenti, che inizia gia dalla fase progettuale - invitare a ripensare in modo nuovo gli spazi, stimolando la creatività degli abitanti - proporre una lettura alternativa e flessibile dello spazio urbano, ogni volta differente in base alle caratteristiche del luogo, attraverso strumenti dinamici e temporanei - produrre soluzioni anche “immateriali” che esprimano il carattere provvisorio della sua presenza ma che stabiliscono una dialettica con i dintorni già costruiti attraverso la leggerezza - attivare un piano occupazionale per le persone a rischio di esclusione sociale (110 persone hanno trovato un lavoro)

Progetto I progetti di vario genere - spazi sportivi, pubblici e per l’infanzia, piccoli parchi, orti urbani nascono dopo aver condotto a partire dal 2004, rispetto al lotto e al quartiere, analisi e sondaggi dei servizi esistenti, degli usi predominanti dello spazio e anche analisi socio-economiche sulla popolazione. Dopo sono state raccolte proposte d’intervento da parte di architetti, gruppi e associazioni di residenti. Tra gli interventi: uno è stato fatto riqualificando un’area sulle rive di un fiume, diventando punto di incontro per i bambini, i giovani e gli anziani; un altro, posto tra un centro Alzheimer e un centro per i bambini, si è basato sul tema dei ricordi e della memoria; un’altra azione si è svolta in una zona di confine della città, nel punto di incontro con il paesaggio, attraverso diversi frutteti urbani che si fondono con il paesaggio circostante. Obiettivi raggiunti: 32.000 m² di spazio pubblico transitorio è stato aggiunto alla città.


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Playgrounds - La città come un parco gioco Coordinate Olanda, Amsterdam 1947-1955 Autori Aldo van Eyck Dimensione storico-urbana Immediatamente dopo la seconda guerra mondiale, le città olandesi erano in stato di degrado e distruzione. Le case erano diminuite drasticamente in termini sia quantitativi che qualitativi e le infrastrutture erano disfunzionali. I parchi giochi di Van Eyck, inizialmente costruiti su terreni temporaneamente inutilizzati Il progetto fu un incarico pubblico da parte dell’unità di Pianificazione Urbana di Amsterdam, per rispondere a una condizione di emergenza, che consisteva nella definizione di una serie di parchi gioco di quartiere. Dimensione sociale Nel dopoguerra, in tale contesto urbano devastato, si dovette anche affrontare un picco delle nascite, senza disponibilità di spazio per i bambini, né all’interno né all’esterno della casa. A quel tempo esistevano alcuni campi da gioco in città, ma quasi tutti di natura privata, per pochi fortunati. L’esperimento spaziale di van Eyck ha quindi positivamente segnato l’infanzia di un’intera generazione. Obiettivi - rispondere all’emergenza sociale e saturare parzialmente i vuoti lasciati dai bombardamenti della Seconda guerra mondiale, dotando ogni quartiere di un parco giochi - nuova concezione dello spazio: l’attrezzatura è minimale basata su pochi elementi architettonici di base, per stimolare l’immaginazione degli utenti (i bambini), l’idea che siano in grado di appropriarsi dello spazio grazie alla loro interpretazione, generando un personale “senso di spazio” 118

Scheda 9

- composizione non gerarchica: strutturare uno spazio urbano realmente adattabile, in cui il coinvolgimento personale non è dettato dalle possibilità di cambiamento dell’architettura ma dalla creatività del comportamento umano che le forme stimolano - dalla flessibilità alla polivalenza: generare uno spazio, la cui forma e misura, facendo riferimento al corpo umano e al suo movimento, accoglie e suscita azioni diverse - opporsi alla tendeze funzionaliste che il Movimento Moderno diffondeva in quegli anni, che avevano distrutto la creatività, per tornare a una dimensione umana dell’architettura che favorisca l’attività umana e l’interazione sociale - carattere modulare: gli elementi fondamentali sabbioni, sbarre, pietre da saltare, scivoli e palestre a giungla emisferica - potevano essere composte infinitamente volte in diverse configurazioni, a seconda delle esigenze dell’ambiente locale - spazio “interstiziale”: rapportarsi con l’ambiente urbano circostante crearndo uno spazio che si adatti al luogo esistente, anziché l’approccio tabula rasa del modernismo, in cui i disegni avevano un’autonomia propria, basati su dati astratti e statistiche


Progetto Tra il 1947 e il 1978 Van Eyck disegnò centinaia di parchi gioco, prima come parte del Dipartimento di Urban Design e successivamente (dal 1952) per il comune e dal proprio ufficio. Del totale di 700, solo il 90 sono sopravvisuti nel XXI secolo con il loro layout originale. Il primo parco giochi che servì da prototipo fu il Bertelmanplein. Ciò che caratterizza l’intervento e il suo successo, é la semplicità e il tipo di modulazione degli elementi usati. Relatività nel senso che i collegamenti tra gli elementi erano determinati dalle loro reciproche relazioni piuttosto che da un principio di ordine gerarchico centrale: i parchi gioco disegnati da Van Eyck erano esercizi di composizione non gerarchica.

Egli progettò anche l’attrezzatura, che considerava parte integrante del progetto, tra cui le barre, gli scivoli e la buca per la sabbia, facendoli testare ai suoi figli. Ciascuno di questi elementi, non svolgeva semplicemente la sua funzione ma aveva una valenza psicologica e poteva essere usato attribuendogli molteplici significati. Grazie alle idee e i progetti di A. van Eyck è emerso un nuovo modello per lo sviluppo urbano, che durò nei decenni a venire: “costruire per il quartiere”, che doveva sostituire gli interventi modernisti su larga scala con progetti partecipativi di piccole dimensioni nei quartieri, portando ad un’architettura che poteva essere facilmente modellata nel tessuto esistente del quartiere. “Giocare”, come ha detto una volta Huizinga, “è una questione seria”.

alcune foto dei playgrounds progettati da Van Eyck ad Amsterdam. In particolare, nelle due foto accanto a sinistra: playground realizzato in un sito colpito da una bomba, foto prima&dopo.

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Ringraziamenti Grazie al Prof. V. Fiore, il quale mi ha seguito e consigliato lungo questo percorso. Grazie alla mia famiglia, che mi ha sempre sostenuto e permesso di raggiungere questo traguardo. Grazie a mia nonna, che sono certa sarebbe orgogliosa di me. Grazie a Federico, per la sua pazienza e amore. Per essere stato il mio punto di riferimento e per aver creduto sempre in me, dandomi la forza di andare avanti. Grazie ad Alessandra, per essere stata al mio fianco dall’infanzia fino ad oggi, passando attraverso tanti cambiamenti ma rimanendo sempre insieme, fino a raggiungere i traguardi più importanti. Grazie a Giulia, per avermi offerto i suoi pan di stelle col caffè ed essere poi diventata una compagna di vita. Grazie ai miei coinquilini (effettivi ed acquisiti): Giulia, per essere stata la sorella maggiore dispettosa che non ho mai avuto, Flavia e Ciccio. Grazie a Valentina, per esserci incontrate in un momento speciale che ci ha cambiato e unito per sempre. Grazie a AdM crew per avere condiviso le più belle esperienze in questi anni. A Marta, ai suoi mandarini, le coccole e ai suoi occhi pieni di entusiasmo. A Serena per essere stata una bella amica da scoprire. A Irene per le materie, i caffè freddi e i viaggi fatti insieme. Ad Andrea per le sue passioni artistiche, che mi hanno sempre ispirato. A Simona per le chiacchierate notturne e le energie positive. Grazie a tutti quelli che hanno fatto parte di questi anni universitari e li hanno resi speciali: a Cosimo, per avermi insegnato la prospettiva con i succhi di frutta, a Manfredi per essere stato il mio primo e ultimo compagno di gruppo, a Emanuele per le chiacchiere colte, i documentari architettonici e i consigli culinari. Grazie ai RandaGgi, a Stanca, Gamba, Giorgio e gli altri. Grazie a miei amici di una vita, Flavia, Ciccio, Marco, Luigi, Vito, Mario, per essere stati quasi una famiglia, sulla quale sono felice di poter sempre contare.

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La mia ricerca, originariamente, parte dall’intenzione di riappropriarsi di una porzione dimenticata della mia città, ovvero Largo XVII Agosto, il cui uso attuale, quello di un parcheggio occasionale, ne sminuisce valore e significato. Per fare questo, ho studiato la connessione e il rapporto che c’è tra l’architettura e diverse discipline creative, studiando modi diversi di progettare o modificare lo spazio pubblico: il teatro urbano, l’arte “pubblica” - o meglio dire nello spazio urbano - e alcuni progetti urbanistici veri e propri. Dopo un’attenta analisi storica e urbana del sito, è stato formulato un progetto il cui scopo è condurre un’azione trasformatrice, in grado di rinnovare la capacità di vedere e percepire lo spazio. Il fine ultimo è riconquistare la città prima di tutto come esperienza antropologica, nel rispetto dell’identità del luogo, grazie ad elementi e soluzioni compositive che consentono di evocare suggestioni e vivere condizioni precise, conducendo un’azione di tipo culturale e sociale che stimoli il rispetto e il senso di appartenenza al luogo. Dare voce alla storia del sito, perché essa si identifica come memoria collettiva, richiamando grandi avvenimenti del passato e memorie individuali, storie di vite che si sono incrociate e intrecciate nel luogo, caratterizzandolo talvolta affettivamente, talvolta drammaticamente. È solo così, allora, che si riesce nell’intento di attribuzione soggettiva di valore, di riconoscimento del carattere del luogo, di percezione della sua importanza e dei suoi segni, spesso simboli di qualcosa che oggi è invisibile.


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