Catalogo Federico Lelli - orizzontaleverticale

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ORIZZONTALEVERTICALE installazioni e disegni di

Federico Lelli Villa Vogel, Firenze 30 maggio – 9 Giugno 2013

Mostra e Catalogo a cura di

Antonio Caterino

Testi di Antonio Caterino e Laura Salerno Con un saggio di

Marco Maria Melardi

Federico Lelli pag. 8 e 15 Fotografia di Marcello Fara pag.25 Fotografie di


La scacchiera del mondo (per una geometria della percezione) di Antonio Caterino Marcel Duchamp, uno dei più grandi, se non il più grande artista del Novecento, ad un certo punto, all’apice della sua carriera, rinunciò alla creazione artistica e per dieci anni si limitò solo a giocare a scacchi, arrivando ad un tale livello da essere scelto come capitano della squadra olimpica francese. Gli scacchi non sono solo un gioco. Il complesso e regolato movimento degli elementi che compongono il gioco sul rigoroso piano della scacchiera allude, da tempi immemori, ad una compiuta e sofisticata metafora del mondo: i singoli pezzi, dotati ciascuno di proprie intrinseche caratteristiche personali, sono tutti singoli individui e si muovono sul piano della scacchiera così come noi uomini ci muoviamo sul grande piano del mondo. Il microcosmo del gioco rispecchia il macrocosmo del nostro universo e lo rende forma puramente intellettuale L’uomo, homo erectus, essere verticale per antonomasia, così come verticali sono i singoli pezzi del gioco, vive in uno mondo che alla sua percezione appare essenzialmente orizzontale, così come orizzontale è la scacchiera. Il gioco delle caselle bianche è nere riproduce come pura astrazione geometrica quella che è l’essenza della percezione. La nostra visione del mondo infatti, e di conseguenza la conoscenza che abbiamo di esso, è inevitabilmente vincolata al nostro percepire lo spazio in cui ci muoviamo come un piano determinato dalle direttrici orizzontali della vista e del nostro moto su di esso. La Weltanschauung, questo termine caro alla filosofia e alla storia dell’arte, e che normalmente viene lasciato in tedesco per l’icasticità di racchiudere in una sola parola i significati compositi di ‘visione’, ‘immagine e ‘conoscenza’ del mondo, nasce, in ogni singolo individuo, dall’incrociarsi delle diverse percezioni che ad esso e da esso si irraggiano orizzontalmente, nel punto esatto in cui la sua coscienza, cioè egli

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stesso, si incastra verticalmente nel piano. Così come una croce nasce dall’incontro di due linee, una verticale e l’altra orizzontale, allo stesso modo l’idea di mondo propria di ciascuno nasce laddove si incrociano la percezione, intesa come moto orizzontale dall’Io verso l’esterno, con lo spirito dell’individuo posizionato in verticale sulla scacchiera del suo stesso cosmo. Ma l’individuo, così come i singoli pezzi del gioco sulla scacchiera, non è mai isolato sul piano. Egli accoglie i suoi simili nel relazionarsi con essi nello spazio e la sua intera esistenza è tutta regolata dai rapporti vicendevoli tra sé e gli altri, tra l’uno e i molti, che determinano la creazione di rilievi, ostacoli, strade e percorsi nel piano della percezione, secondo regole che non sono quelle rigorose degli scacchi, ma che in queste ultime, con il loro complesso e stilizzato sistema di valori gerarchici e relazionali trovano il loro specchio squisitamente intellettuale. L’intera esistenza si riduce allora ad un complesso balletto di figure sul piano, ad un gioco di scacchi, sottoposto a regole che dipendo in parte dall’essenza del singolo ed in parte dai rapporti di forza e di valore che questi stabiliscono con i loro simili, ciascuno suo fratello e sembiante, eppure ciascuno diverso dall’altro. Se il mondo è una scacchiera e l’individuo è un pezzo del gioco, allora anche l’opera di Federico Lelli, esposta in questa mostra che si chiama significativamente Orizzontaleverticale, è essa stessa metafora del mondo e dell’individuo. Le sue opere sono esse stesse scacchiere, forme piane che mostrano e trasfigurano il mondo in uno schema razionale, oppure sono pedine del gioco, forme verticali stilizzate che alludono a singole individualità colte ad un tempo nel loro essere sia forme autonome che forme in relazione nello spazio con la molteplicità degli altri. Il mondo di Federico Lelli, sia nell’opera grafica - che è per antonomasia arte piana, estesa sulla superficie bidimensionale del foglio, posto però ambiguamente sulla superficie verticale della parete per essere visto e percepito - sia nelle installazioni - che pur essendo arte dello spazio tridimensionale tendono ad identificarsi col piano su cui insistono – riconduce l’essenza stessa del reale ai suoi minimi termini, il piano e la verticale, e raggiunge la sua apoteosi nel persistente motivo dell’incrocio. Le sue opere incarnano una

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Weltanschauung essenziale, chiara e tuttavia non semplice, perché i suoi ‘pezzi’ si collocano sulla scacchiera del piano, ma con sottili scarti dalla simmetria e dal rigore geometrico, che rivelano come essi, pur nella consapevolezza di essere parte di un tutto organico, vivono al tempo stesso una propria vita individuale che accoglie gli altri e le regole dei rapporti tra simili, ma non riesce tuttavia a ridursi a mera partecipazione alla totalità. Ogni singolo elemento dell’opera di Lelli è parte di un tutto, ma al tempo stesso è individuo a sé stante, capace di dialogare col resto del mondo, ma incapace di annullare il suo Io nell’insieme, che quindi appare come un intenso e pulsante piano cartesiano dove le regole sono enunciate dalla loro stessa violazione. Ogni singola percezione, ogni percezione del singolo, si risolve in un punto che è proprio dell’individuo, posto necessariamente in quello e solo quel punto, determinato inesorabilmente dalla costante dialettica tra la forza dell’essere esso individuo un punto nello spazio e la tensione che nasce autonomamente dal rapportarsi del singolo con i molti che lo circondano, risolvendosi in gioco di forze e di direttrici relazionali che sono le stesse che determinano il nostro posizionarsi tra e con gli altri. La croce rossa che spesso ricorre nell’opera di Lelli è un simbolo, un segno che indica nel modo più semplice e icastico un punto sul piano della percezione e col suo carattere di segno simbolico, modificandolo poiché lo rende palese, rinomina lo spazio. Quest’ultimo, nell’incrocio delle direttrici orizzontali e verticali, che non sono solo quelle geometriche della croce, ma anche quelle del rapporto tra il singolo e il suo spazio, tra Spirito e Materia, cessa di essere solo il mero punto in cui l’individuo si trova casualmente, ma diviene un luogo dello spirito e non più solo dello spazio, un luogo il cui centro è l’individuo non già perché questo si trova immesso in esso, ma perché lo spazio nasce nella presa di coscienza che egli attua del mondo, presa di coscienza il cui nucleo tangibile è il rosso segno della croce attorno a cui tutta la mostra ruota.

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Porphiria di Antonio Caterino Porphiria è un segno. Del segno ha non solo l’elementarità grafica, ma perfino il carattere di non unicità, tant’è che nella produzione di Federico Lelli si scinde in due distinte opere: Porphiria I e Porphiria II. Non il nome, ma solo la numerazione progressiva le identifica e distingue l’una dall’altra, suggerendo da un lato la loro identificabilità e sorellanza, dall’altro la possibilità di una probabile ulteriore Porphiria III, poi una Porphiria IV e così via in una progressione tendente teoricamente all’infinito in cui l’immanenza dell’opera perde, nella possibilità della ripetitività seriale, il suo connotato sacro di presenza unica per assumere invece il valore altrettanto sacro di segno. Segno è parola semanticamente ambigua. Un segno è frutto di un gesto che lo realizza, ma la parola indica sia il semplice risultato materiale del gesto sia il significato implicito nel suo stesso prodursi nello spazio. Un segno per definizione è qualsiasi fatto, manifestazione, fenomeno da cui si possono trarre indizî, deduzioni, conoscenze o ancora un gesto con cui si sostituisce l’espressione verbale per significare o comunicare qualcosa. La riproducibilità del segno, decentrando l’attenzione dall’oggetto significante, sottolinea l’importanza del significato che questo veicola, ma a noi spettatori esso appare unicamente, pur nelle sue diverse possibili varianti, come forma materiale, come significante ossessivamente ripetuto a indicare un significato che è altro da noi come dalla realtà materiale in cui esso è incarnato. Una croce rossa posta al suolo è la forma che assume Porphiria in entrambe le versioni: Porphiria I è una croce tridimensionale, formata dall’aggregarsi di 5 cubi; Porphiria II è composta da nove pannelli di legno dipinto, 4 neri e 5 rossi, disposti sul pavimento secondo uno schema che disegna ancora una volta una croce. Un cuneo si incava profondamente su uno dei bracci di Porphiria I e parallelamente un tetraedro bianco sorge su un lato

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di Porphiria II. E’ un segno nel segno, la cui forma è quella di una freccia, di uno gnomone, di qualcosa che indichi, come l’ago magnetico di una bussola concettuale che punti verso il polo d’attrazione del significato che in questa forma è incarnato, indicato, ma non svelato. Dinanzi a queste croci la domanda che ci si pone è cosa rappresentino, cosa significhino, cosa indichino. Un segno rosso, violentemente emotivo nella purezza assoluta e sanguigna del colore, che si materializza ad indicare ai nostri piedi qualcosa. E ancora all’interno del segno principale un altro segno misterioso, una freccia scavata in negativo o emergente nel bianco immacolato del gesso, che punta inesorabilmente verso il centro della croce sottolineando che il nucleo dell’opera, il suo significato è all’incrocio dei bracci, dove verticale e orizzontale coesistono in un solo punto. L’indimenticabile archeologo protagonista di una fortunata serie di film degli anni ‘80 dinanzi ad una grande croce rossa su un pavimento gridava ‘la x indica il punto dove scavare!’, sebbene poche scene prima avesse dichiarato altrettanto seriamente ‘la x non indica mai il punto dove scavare. La gag è a dir poco geniale nel film, ma suggerisce anche una possibile interpretazione di Porphiria: la croce rossa che noi vediamo indica o non indica ‘dove scavare’? Se partiamo dall’assunto che la croce indica un punto allora non c’è bisogno di scavare. Un punto non ha materialità, non ha dimensioni o spazio, è un’entità geometrica astratta ed incommensurabile, priva di visibilità finché non è il segno che lo rende visibile. Un punto senza segno è solo uno degli infiniti possibili punti, un punto indicato diviene quel punto preciso nello spazio, quello e solo quello: Segno e il Punto indicato da esso coesistono ed è il segno che ‘scava’ il punto, rendendolo visibile alle nostre coscienze in una sorta di epifania sacra in cui in principio era il punto ed il punto è presso il segno ed il segno è il punto. La croce rossa, oggetto semantico semplicissimo nato dall’incrocio di due linee, simbolo geometrico e sacro per antonomasia, carico e caricabile di talmente tanti significati da arrivare per eccesso quasi a non averne nessuno perché troppo denso da adattarsi ad un solo inequivocabile senso, marca quindi lo spazio, dando a quel determinato punto una forma visibile. Il segno è prova dell’esistenza concreta di quel solo ed unico

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punto, posto all’incrocio del bracci della croce, e ne è l’incarnazione, costringendo la nostra attenzione a focalizzarsi su di esso. Qual è il significato del punto? Il punto è il mistero svelato, la verità mistica, il significato. Solo un punto. Cosa significa quel punto e perché proprio quello? Il senso profondo di Porphiria è nella sua ambiguità. Essa è un segno, un puro significante, l’indicatore di uno spazio che senza l’immanenza del segno rosso ‘scavato’ al suolo non sarebbe diverso da un altro. Come diceva una celebre opera di Bruce Nauman il vero artista aiuta il mondo rivelando verità mistiche, ma allora l’opera non è altro che il mezzo con cui queste ultime vengono svelate al mondo. L’opera, il segno è essenzialmente materia, forma, gesto, indicatore di un altrove concettuale . Porphiria è il monumento stesso al gesto significante ed indicatore. Il significante si autogiustifica nel suo essere veicolo di un senso che può anche restare definitivamente incompreso.

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Porphiria II di Laura Salerno Porphiria II, interessante installazione del giovane artista Federico Lelli, una serie di pannelli lignei dipinti, disposti a terra a formare un quadrato, introietta e si appropria di un assunto, assai caro ad alcuni esponenti della corrente minimalista, in particolare Carl Andre, ma il discorso tuttavia è estendibile anche all’operato artistico di Frank Stella, l’assunto dell’oggetto-immagine-forma che si amplifica, serializzandosi, in modo tale da trasformarsi in ambiente-spazio. Di per sé l’installazione è semplice, formalmente ci riporta ad un’austerità linguistica tipica di alcune sperimentazioni degli anni ’60, riattualizzate ed opportunamente veicolate in un contesto in cui la sinestesia, l’orgiastica fusione dei concetti soggiacenti all’opera, si ingarbugliano fino alla creazione di un sapiente unicum spazio-temporale. Il contrasto di cromie, il rosso della croce che violenta il nero che le fa da sfondo, vivacizzandosi a vicenda in un turbinio di sensazioni che destabilizzano, spiazzano l’occhio, la scelta di soluzioni grafiche e formali confinate nei dettami di rigoroso e puro geometrismo, la ripetizione modulare di un quadrato che si serializza fino a diventare pavimento, la spersonalizzazione dell’immagine che è costantemente sé stessa e altro da sé, la delocalizzazione di un centro focale, un nucleo interno dotato di senso che si traspone all’esterno, espandendosi e de-territorializzandosi a tal punto da inglobare lo spazio, lo spettatore, trasformandosi esso stesso in ambiente, vivo e pulsante, tutti questi elementi pongono acute basi per un dialogo fruttuoso e proficuo sull’opera d’arte totale, concetto in parte wagneriano, in parte marinettiano, in cui le sublimi e disparate forme artistiche - pittura, scultura, installazione, grafica - parlano assiduamente tra loro, ed al contempo si contrastano, vivificando strutture concettuali complesse in cui assiomi come sinestesia, ma anche disarmonia, dissonanza, risultano essere imperativi categorici. La serializzazione, la reiterazione modulare, oltre che strategia compositiva, rappresenta, (per utilizzare un concetto tanto caro a Donald Judd e a Frank Stella, un mezzo per comprendere “ciò a cui

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assomiglia il mondo” , non richiamandolo essenzialmente nelle sue forme e parvenze conclamate, bensì creando uno spazio illusionistico incessantemente in contrasto con quello reale. L’opera di Lelli ci narra in tutta la sua espressione tale incessante passaggio: spazio illusionistico/spazio metaforico/ spazio reale. Ed è precisamente in tale reiterata osmosi che si risolvono le contraddizioni dell’immagine che invece non vuole essere necessariamente o quantomeno non solamente, immagine. Quanti geniali artisti, nel corso di un Novecento interamente in preda alle Avanguardie ed alle Neo-Avanguardie, secolo tumultuoso e rivoluzionario, ci hanno raccontato la metafora dell’immagine che rifugge da sé stessa per sublimarsi in un concetto esclusivamente astratto, al di sopra di qualsiasi dissertazione o interpretazione? Il nichilismo dell’immagine che si esteriorizza nell’astrazione pura, l’immagine che si concettualizza in forma e si cristallizza nel sovrasensibile. Kazimir Malevic sosteneva: “le apparenze esteriori della natura non offrono alcun interesse; solo la sensibilità è essenziale. L’oggetto in sé non significa nulla. L’arte perviene all’espressione pura senza rappresentazione” . Federico Lelli, con Porphiria II, ha perseguito uno scopo nobile: è partito dal processo per affermare l’esteriorità/esteriorizzazione del senso. Ha determinato ciò che è l’oggetto a partire dai soli dati fattuali del suo aspetto esterno. Ha perseguito l’ideale di risituare all’esterno l’origine del significato dell’opera, strutturarla non solo, necessariamente, ripartendo dall’interiorità di uno spazio psicologico, ma dalla natura pubblica e convenzionale di quello che è lo spazio culturale, lo spazio in cui si va a ricollocare. Attualmente Porphiria II sosta sotto il portico della villa in cui è mirabilmente esposta, ma può essere riposizionata, ripensata ovunque, in ogni luogo, in ogni spazio. A riconferma di quanto detto v’è la nostra croce fiammante, incuneata da un lato per ospitare come l’ago di una bussola, che non indica più “il punto dove scavare” come vorrebbe l’immaginario di un regista fantasioso quale è Steven Spielberg per bocca di uno dei suoi personaggi più illustri e famosi, o un unico centro, nucleo possibile dotato di senso che crea materialmente l’opera, bensì un crogiolo di centri, luoghi, posizioni, orientamenti possibili.

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Porphiria II non ha gli elementi per essere classificata come work in progress, in quanto opera compiuta, ma possiede di certo quella propensione all’infinito, le infinite possibilità di lettura e collocazione, tipica di alcune sperimentazioni precedenti. Pensiamo alle imponenti tele nere di Frank Stella, o ai monocromi di Ad Reinhardt, che conservano quella continua tensione verso il nulla, l’infinito nulla. Federico Lelli ci ha dimostrato come la scultura possa benissimo non essere arte dello spazio e statica, ma arte del tempo e del movimento, tramite il concetto di decentramento, serializzazione, ripetizione. Il ‘tappeto’ creato da Porphiria II, bidimensionale, deprivato di profondità e spessore, supplisce, come enunciato precedentemente, di una qualsiasi parvenza di centro o interno. L’opera risulta, così, coestensiva al pavimento su cui poggia lo spettatore. Rifugge, respinge lo spazio illusionistico al di fuori di sé, e vi si immerge. L’opera può solo essere aggirata, non attraversata, ciò gli consente un costante dialogo con il riguardante e l’ambiente: Porphiria II è essa stessa ambiente, è pavimento che porziona e ricopre, sottraendolo al calpestio degli spettatori, è portico che invade con la sua strutturata presenza, è museo in cui si espone e viene esposta. Eppure, nonostante l’ aniconismo di tale immagine, la sua ir-rappresentabilità e im-presentabilità di ‘immagine negata’, che nullifica sé stessa a vantaggio della sola forma, quasi una noluntas di apparire, il dualismo tra spazio illusionistico/spazio metaforico e spazio reale, il binomio centro/decentramento, l’ antinomia opaco/trasparente di un’opera che nega il passaggio attraverso, impedisce l’attraversamento relazionale, ma riflette l’ambiente circostante, inglobando il riguardante e l’intero spazio intorno, Porphiria II crea una relazione, non è un semplice simulacro, è un’opera continuamente contraddittoria che però risolve le sue tensioni nel riposizionamento infinito suggerito dal cuneo della bussola. Porphiria II risolve tutti i suoi dilemmi, scioglie i suoi conflitti con il complemento di moto. Da luogo o a luogo non fa differenza. Porphiria II si muove. E si muove, in parte come i pavimenti di Carl Andre o come i cubi neri di Tony Smith, in quel sottile limen, quella soglia che segna l’osmotico incedere dell’immateriale che si fa materiale esso stesso, e decide di essere il protagonista indiscusso dell’intera vicenda,

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un materiale intriso di una sacralità manifesta che si sostanzia in un delicato gioco di rimandi tra il titolo dell’opera, i componenti dell’opera - una croce, dei sassi che richiamano la pietra - e la cromia dell’opera. Porphiria II è lastra tombale, muta, che si ripete all’ennesima potenza, in virtù delle infinite ricollocazioni e ripensamenti che generosa consente, annullando e spersonalizzando, così, l’assunto sostanziale di unicità/sacralità di luogo espositivo dell’opera d’arte, annientando, deprivando, mortificando, di conseguenza, l’aura stessa dell’opera d’arte, dal momento in cui si illimita in altre Porphiria II all’infinito periodico, in barba a Benjamin e alle sue amate concettualizzazioni di sacralità, unicità, irripetibilità; l’opera d’arte è unica, irriproducibile, e unico dovrebbe teoricamente essere il loco in cui viene esposta, ed è precisamente qui il punto nevralgico: nonostante la ripetizione seriale, la ricollocazione infinita, Porphiria II conserverà comunque sempre il suo carattere di unicità, in quanto si approprierà della sacralità dell’ambiente-spazio che andrà a ricreare ed incarnare, ogni singola volta, come se fosse la prima e l’ultima. Quasi scontato, probabilmente, porre in questa sede l’accento sul rimando ad un materiale, il porfido, il cui colore rosso simbolicamente richiama il sangue dei martiri, ed all’utilizzo che di questo materiale se ne faceva nell’antichità, un uso programmaticamente reinserito nella prassi scultorea, funeraria ed ecclesiale, in epoca medievale, in particolare da quei Magistri Doctissimi Romani, i Cosmati delle miriadi di botteghe, custodi di un sapere segreto tramandato di padre in figlio, per cui l’arredo liturgico era sinonimo di maestria, sublime abilità, elevatezza e sapienza. Cosa aggiungere invece sul suo nome, così tanto vicino a Porfirio, quel valente allievo di Plotino, e su quel dogma Uno-Molti di cui sembra esserne specchio, incarnazione e messaggio? L’Uno e i Molti, l’infinito moltiplicarsi, affastellarsi, rincorrersi del quadrato nella pluralità delle sue declinazioni possibili, pensabili, e la sua ricomposizione nell’unità/unicità di un modulo, una forma, un’immagine che contraddittoriamente si dichiara, si svela, si manifesta sempre ma altrettanto, in parallelo, si sconfessa, si annulla, si disperde, si dissemina nella ripetizione seriale. E il richiamo, dignitosamente palese, alla Morte, cosa ci narra, se non l’eterna (anch’essa

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ripetuta e seriale) ciclicità della vita, e del proprio cessare, sua naturale caratteristica? La croce, la pietra, la tomba, il sacro e la volontà imperante di essere Tanathos, di incarnare la pulsione di morte. Porphiria II è sempre intorno a noi, ovunque intorno a noi. Osserviamo e meditiamo.

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171 Individui di Antonio Caterino e Laura Salerno 171 Individui è una serie di diciotto disegni in cui 171 figure sono mostrate ed elencate secondo la più semplice delle progressioni: nel primo foglio una figura, due nel secondo, poi tre, quattro, cinque, fino a diciotto nell’ultimo foglio. Nulla vieta di pensare che sia possibile che la serie non si chiuda qui, che ci sarà prima o poi un diciannovesimo foglio (190 individui) e poi un ventesimo e così via. L’elenco, a differenza del catalogo, è per definizione aperto, e prescinde dall’immanenza dell’oggetto elencato ed elencabile, lasciando aperta la possibilità di una progressione tendente all’infinito, ma una volta che ne hai contati già 171 tutti gli altri individui sono uguali. Ci si sarebbe potuti fermare anche prima. La scelta di arrivare a 171, piuttosto che fermarsi a 45 o continuare fino a 253 o oltre, è dovuta solo all’artista e alle contingenze del suo lavoro e non è questione che possa interessarci. Il nostro problema davanti a questi 171 individui è relativo al loro essere e non al loro possibile divenire. La definizione dell’Enciclopedia di individuo è ‘ogni singolo ente in quanto distinto da altri della stessa specie’, e a tavole enciclopediche fanno pensare i 171 Individui di Federico Lelli, specie verso la fine della serie, laddove le figure si affastellano fino a riempire tutta la pagina, ma questa somiglianza viene contraddetta dagli scarti nell’allineamento delle figure: i singoli individui si relazionano nello spazio del foglio seguendo uno schema rigorosamente cartesiano le cui orizzontali e verticali non riescono però ad imbrigliarli fino in fondo. L’assenza di un ordine rigoroso evidenzia l’incapacità, ma anche, e soprattutto, la non volontà dell’individuo di risolvere la sua unicità nel tutto: l’individuo accoglie i suoi simili, i suoi fratelli, i suoi apocrifi specchi, nel relazionarsi con loro nello spazio secondo un ritmo compositivo quasi vicino al rigore di una presentazione more geometrico, ma, scartandone, rimane unico e autosufficiente nella sua unicità. Una geometria eccentrica regola i rapporti tra le singole figure, così come eccentrica

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è la geometria che le governa in quanto singoli individui. L’organico e il minerale convivono: radici, zanne e artigli si scompongono in sfaccettature che potrebbero essere quelle di cristalli dalla struttura molecolare estremamente complessa; rocce e forme artificiali simili a chiodi o ad obelischi sono fatte di un tessuto cellulare come di pianta o di organismo animale. Forme minerali, vegetali ed animali coesistono nello stesso individuo e così come la loro struttura resta perennemente sospesa tra geometria astratta e proliferazione organica, allo stesso modo anche il loro rapportarsi l’un con l’altro oscilla costantemente tra caos animale e rigore geometrico. Il tema preromantico della simbiosi con la natura, dell’osmosi tra mondo umano e vegetale viene sentito nei disegni di Lelli in maniera decisamente intensa, a tal punto da mescolare fisicamente le due entità. In virtù delle apparenti contraddizioni che pervadono l’intera opera di questo giovane artista i due elementi risultano essere l’uno il completamento, lo specchio dell’altro, una sottile operazione di marca concettuale volta a creare una simbiosi panistica e cosmica, per cui la comunione essenziale e sostanziale di tali matrici incarna la chiave interpretativa per una comprensione profonda di questi raffinati disegni. La distinzione tra umano e vegetale viene eccezionalmente abolita, un concetto opportunamente mutuato dall’operato di un artista sensibile quale era Graham Sutherland, che umanizzava le sue nature fino a trasformarle in un sillogismo i cui termini non erano logicamente consequenziali ma puntualmente riunificati in un unico assunto. La natura diventava umana, talmente viva e pulsante che si poteva sentirla respirare, muoversi, in un’eloquente trama in virtù della quale asserire locuzioni oggettivizzanti come natura umanizzata o umanità naturalistica equivaleva a sostenere la medesima verità; le asperità delle sue concrezioni minerali e vegetali, la ruvidezza di una cromia esasperata ed accesa, una resa volumetrica e formale ingarbugliata e contorta denunciavano la commistione totale degli elementi sopra citati, in una ricerca del dolore e della sofferenza, i quali null’altro erano se non la cassa di risonanza dello stato d’animo annichilito e annientato delle coscienze all’indomani del secondo conflitto mondiale. Anche nei

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171 Individui si crea un simile unicum che nella sua ripetizione progressiva rende con dirompente forza e veridicità un suo messaggio messianico: non v’è natura senza l’ elemento proteiforme dell’essere umano, e non è procrastinabile umanità senza la potenza diversificata della componente naturale. Un contrasto, questo, che ritroviamo nelle sculture viventi di Henry Moore, nel dualismo forma aperta/forma conclusa alla base delle sue opere: l’uomo che si denuda completamente dinanzi all’elemento naturale e vi si fa penetrare, chiarificando un’unione completa, perfetta. Una vibrazione, un tumulto che ritroviamo nelle sue linee morbide, continue, illimitate, in costante dialogo con la durezza del legno, del marmo, del bronzo e la leggerezza dell’aria, il vuoto creato dalle aperture che le volute delle linee, flessuose, mobili, approntavano, nel loro incessante vorticare, nelle sculture che spesso venivano adagiate all’aperto, a fagocitare, avvalorare e valorizzare in maniera esponenziale tale sacra unione, quasi un matrimonio, se vogliamo. Henry Moore amava ispirarsi al corpo umano. Le sue statue rappresentavano corpi primitivi e deformati, spesso dalle lunghe membra innaturalmente distese, ma dinamiche nel gioco dei movimenti. Sovente raffiguravano donne, simbolo di fertilità, o figure supine che sottolineavano come l’uomo appartenesse, fosse parte integrante della natura. Le stesse sembianze di tali figure richiamavano la forma delle rocce, delle radici, dei tronchi nodosi degli alberi, il bordo frastagliato delle piante. Il sentimento della natura, la riunificazione tra minerale, animale, vegetale ed umano in un compendio di assoluta franchezza e freschezza, onestà intellettuale, la ripetizione di una forma che sostanzia concretamente l’essenza, l’assenza di coordinate fisiognomiche e morfologiche riconoscibili, il rigore seriale di un geometrismo insistito, la ricerca di un linearismo esasperato, che formalmente ci riposta a soluzioni grafiche e compositive collocabili nel panorama artistico-culturale anglosassone del dopoguerra. Penso a Sutherland, a Moore, ad alcune audaci sperimentazioni di Bacon: l’arditezza formale e volumetrica e l’accento posto esclusivamente su ciò che appare con evidenza e si disvela, nella sua forma più bruta e grezza, ma che internamente custodisce sinergie profonde e illuminanti, qualificano 171 Individui come opera intensa, ricca di squisiti riferimenti,

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oculato virtuosismo ed intelligente sensibilitĂ .

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Anatomie Cognitive di Marco Maria Melardi Nei fogli di Federico Lelli, le forme grafiche sembrano fermentare, trascorrendo l’una nell’altra. Appaiono brulicando quietamente, come una coltura cellulare in crescita. Particolari di decori architettonici e arborescenze vegetali, lamine mammellute o blister di farmaci e pennini da disegno sono le facce di una sola materia che tassella lo spazio. A ben vedere, l’esperienza percettiva quotidiana consiste in un’intenso bombardamento di segnali di ogni genere che vengono continuamente ordinati, classificati, disposti automaticamente su diversi livelli di attenzione. Il pensiero e la memoria non conoscono interruzione, qualunque sia lo stato di coscienza. Idee, percezioni, forme e quant’altro si voglia categorizzare, si agganciano in continui rimandi, maneggiando disinvoltamente i riferimenti spaziali e temporali per diventare attuale cognizione. È attività continua della mente – pur attraversata da una miriade di frammenti di pensieri e ragionamenti interrotti e spezzati, accensioni di ricordi, percezioni istantanee, di catalogare, riordinare tale diluvio e permettere al soggetto di districarsi in esso, mantenendo la compatta coscienza di una propria identità. Hermann Broch notava che il reportage scrupoloso della realtà grezza di un qualunque istante sarebbe un groviglio virtualmente infinito di informazioni inutilizzabili. C’è dunque qualcosa di inquietante nel viluppo di forme che scaturiscono l’una dall’altra, o soltanto si affiancano in una curiosa promiscuità per occupare lo spazio visuale: esso ci restituisce, fissato in un’immagine, lo stato precognitivo di natura dentro il quale siamo immersi, illuminando come con un flash istantaneo il momento immediatamente precedente all’operazione di riordino. La realtà, come essa è, al di fuori della sua percezione, è un infida massa entro quale si annida di tutto. Essa rimane però fondamentalmente irrappresentabile. Se i primi disegni dell’artista

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assumono l’aspetto di una vasta congerie di particolari, priva di un centro focale, funzionando come allusioni simboliche allo stato precognitivo, l’uniformità grafica del segno contiene in sé l’indizio di un altro dato essenziale. La tramatura del lavorio mentale inarrestabile non ha la linearità geometrica della stoffa eppure ha il suo ordine stretto, altrettanto rigoroso, analogo al modo in cui si organizza il tessuto della materia vivente. Da qui l’aspetto biomorfo, la somiglianza non del tutto generica con delle tavole istologiche ed anatomiche, ed il precisarsi successivamente di forme più centralizzate. Le concrezioni che ricoprono i contorni delle figure ricordano l’anatomia microscopica di una sezione ghiandolare o di un epitelio pavimentoso, mentre le stesse figure possono osservarsi come una tavola macroscopica: allora appare un albero respiratorio, al chiuso del suo torace come evidenzia il fondo scuro, membrane animali, ma anche sezioni di roccia, forme vegetali – un baccello è anche un sacco gastrico – come nell’angolo riposto di una Wünderkammer, forma culturale che Lelli ha ben presente. Tali visioni risultano però sottilmente perturbanti, non tanto in ragione delle allusioni anatomiche, descritte sempre con un garbo inconsueto in altre forme di “arte del corpo” e lontane da ogni compiacimento del disgustoso, quanto perché riportano in primo piano la fatica inavvertita ma continua della tensione tra accumulo e sottrazione che ogni istante si realizza nel processo cognitivo. Questa avviene in modo automatico: quanto resta solitamente invisibile e ignoto ma allo stesso tempo ha un sapore inconfondibilmente familiare e quotidiano, è esattamente ciò che si intende comunemente come perturbante. La vitalità continua della mente, così come il ciclo incessante della materia vivente, erompe dalla documentazione figurativa accumulatoria in diversi momenti della storia – si pensi agli intrecci medievali, al gusto già ricordato per le collezioni di oggetti naturali e curiosi che popolavano studioli e camere della meraviglia. In alcune prove si leggono cellule grafiche sparse, interconnesse tramite una fitta rete di fili sottili, sinapsi nervose o tela di Aracne lungo le quali corre lo sguardo dell’osservatore, che rappresentano il trascorrere senza arresto dell’attività mentale, avanti e indietro tra gli innumerevoli impulsi

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che accendono ora l’una ora l’altra cognizione, conservata in luoghi apparentemente inaccessibili ed invece sempre richiamabili. Si visualizza così una rudimentale ma efficace “arte della memoria” di antica consuetudine, tanto razionale negli intenti quanto composta di complesse concrezioni. Tali forme culturali insinuano infatti, mentre denunciano un intento ordinatorio e classificatorio, sempre un dubbio preoccupante: la possibilità di perdere il controllo di quanto elencato e rappresentato. La rappresentazione assume il carattere di valvola di scarico dell’eccesso percettivo e di elucubrazione, trasformandolo in cognizione e dunque dominandolo, rendendolo utile e non disorientante. Nella percezione quotidiana gli stimoli vengono selezionati, sottratti e depotenziati. Su di essi si stende un velo più o meno coprente ma dalla trama uniforme. Quindi, il gioco grafico dell’artista si raffina quando gli innesti fitti si ritirano sotto una superficie a campitura monocroma, per affiorare da aperture dai contorni curvi e netti Come da ferite chirurgiche, precise e ben cauterizzate, aperte nel velo di Maia della rassicurante realtà, si affaccia una realtà in continua lotta, apparentemente quieta ma senza esclusione di colpi . Panoplia di organi interni, si definiscono alcuni lavori, dove la panoplia è l’affastellarsi di armi impiegate in senso decorativo nelle membrature architettoniche romane, soggetto iconografico di successo anche in seguito, e qui si impiega in senso irridente, poiché l’arma porta sofferenza e dolore, cui inevitabilmente rimanda anche la dettagliata descrizione anatomica in cui si distinguono anse intestinali o acini pancreatici. L’enumerazione ed il raggruppamento per aree grafiche, le forme tassellate che si duplicano sempre ritenendo in sé qualcosa di ciò che la precede e agganciandosi alla simile che la segue, rimandano ad una singolare sintesi tra percezione del caos e desiderio ossessivo di numerarlo, imbrigliarlo: una simile filosofia della natura in tensione, che è poi quella della rinascimentale “grottesca”, si trova nelle immagini, e nella loro composizione, che costituiscono l’opera di Peter Greenaway. La vitalità della natura non è una bellezza serena e ordinata. Nel suo meraviglioso incastro, quelli che chiamiamo malattia e dolore hanno la loro indifferente necessità: è la nostra

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percezione a rilevarli come sofferenza. Dopotutto, però, specialmente di fronte alla semplice constatazione che siamo vincolati a parlare di noi stessi, cos’altro fare se non continuare a farlo, e considerare l’unica arma a nostra disposizione: l’apprendimento. Così, le opere come queste di Federico Lelli sono come segni di circonvoluzioni cerebrali, processo di memoria mostrato in vivo, sulla “cera del cervello” che, in relazione alla tavoletta cerata degli antichi studenti, è da sempre metafora dell’apprendimento. Il lavoro si nutre stilisticamente di suggestioni differenti: collocandosi lungo una serie formale dalle origini remote (di cui esempi sono girali e panoplie), passando per i grilli gotici e gli armadi dipinti ricolmi di ogni genere di oggetto, tiene presenti anche gli esperimenti di ricopertura e tassellazione dello spazio secondo forme organiche e allo stesso tempo geometriche di Maurits Cornelis Escher, ripreso anche nei chiaroscuri, laddove il tratteggio della matita o della penna ricordano gli esiti delle incisioni tormentate di Roland Topor, funzionali alla costruzione della vena inquietante. La morbidezza anfrattuosa, delicata e quasi sensuale nelle sue invaginazioni biomorfe ha del terribile se associata all’anatomia (si pensi a Cronenberg e ai suoi strumenti chirurgici e organici). Non mancano ricordi delle forme molli e architettoniche di Yves Tanguy, ma il giochetto della storia delle forme mostra sempre la corda. Certo, questi testi sono tutti noti all’autore, come le Carceri piranesiane: intrappolarvisi però fa perdere di vista quell’apertura, quel taglio da elettrocauterio sulla superficie della visione che apre le prospettive sul vivo del processo di apprendimento di cui s’è detto.

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