VALENZA E LA MONTAGNA. Seconda parte. di Giorgio Manfredi. Avevo terminato la prima parte di “Valenza e la montagna” (Valénsa ’d’na vòta numero 25 dicembre 2010) con l’impegno di proseguire con il ricordo dei protagonisti ed il racconto delle loro storie. Voglio iniziare con Sandro Picchiotti (1930-2004) e mi accorgo subito che Sandro stesso è “una storia”. Mi prende il timore di non rendere bene la trama di tante vicende e fatti vissuti. Sandro ci ha accompagnati con intuizioni e fantasie che lasciavano senza fiato e sapeva trasmettere un’allegria che scompaginava la Famiglia Picchiotti normalità senza emozioni in cui spesso si ci trovava. Sandro Picchiotti, iscritto al CAI dal 1965 e socio della Sezione di Valenza quando si è costituita nel 1976, ha sempre avuto un grande amore per l’alpinismo. Nella sua vita la montagna è entrata presto, nei primi anni del campeggio “Don La tessera CAI di Sandro Picchiotti. Pietro”. Fu subito, sin dal 1947, un leader ed un trascinatore. Si adoperò ad organizzare escursioni, cercando mete ardite e impegnative della Valtournenche, dove era nato il campeggio “Don Pietro”. Si voleva puntare al superamento del limite dei 4000 arrivando alle grandi cime valdostane con i loro superbi ghiacciai. Fu tra i primi a guidare un gruppo che salì sul Breithorn 4165 mt., una bella cima che, a est del Cervino, apre lo spettacolare gruppo del Monte Rosa. Sul Breithorn salirono, a partire dalla fine degli anni 40, molti giovani come a compiere, con questa ascensione quasi tutta su ghiacciaio, il loro battesimo dei 4000. Negli anni 1954, 1955 e 1956 si guardò oltre con mete ancora più impegnative ed a quote superiori, sempre nel fantastico gruppo del Rosa: Castore 4221 mt., Lyskamm 128
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4481 mt., Zumstein 4563 mt., Punta Gnifetti con la Capanna Margherita 4554 mt., e la stessa punta Dufour 4633 mt. La guida Marcello Carrel, grande esponente dell’alpinismo del Cervino, amico e sostenitore delle attività alpinistiche del campeggio, coordinò e guidò queste importanti ascensioni e Sandro Picchiotti, presente in tutte queste salite, contribuì alla buona riuscita delle imprese facendo spesso il capo cordata insieme alle guide. La salita alla nord della punta Dufour del Monte Rosa con i suoi 4634 Gruppo amici di Don Pietro e Don Luigi
1955: da sinistra Don Luigi Frascarolo; Giorgio Manfredi; Sandro Picchiotti; Giorgio Re; Gian Piero Marchese verso la punta Dufour del Monte Rosa.
mt., seconda cima più alta in Europa dopo il monte Bianco, rappresentò per lui e per il campeggio un impegno importante e significativo. Tutto venne organizzato con la guida Marcello Carrel e con il portatore (aspirante guida) Silvano Meynet che guidarono il gruppo composto da don Luigi Frascarolo, Sandro Picchiotti, Giorgio Re, Giorgio Manfredi e Giampiero Marchese. Quest’ultimo si trovò in difficoltà quando l’altitudine crebbe, superando i quattromila. Si trattò di un vero e proprio “mal di montagna” che causò qualche inconveniente pur non impedendo di ultimare l’impresa. La guida Marcello Carrel risolse i problemi 129
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tecnici nella progressione della salita, ma fu proprio grazie a Sandro Picchiotti che Marchese, che stava procedendo come un automa e che era legato in cordata vicino a lui, poté continuare. Sandro aveva per tutti un soprannome che usava disinvoltamente con vena ironica. Giampiero Marchese era appellato “Cheisot” e in questo modo Sandro lo sollecitava e lo spronava: si sentiva la sua voce che impartiva continuamente ordini con indicazioni rapide e precise mentre l’ascensione procedeva. “Cheisot qui il piede, là l’appiglio per la mano destra, subito dopo l’altro piede sullo spuntone a sinistra”... e così avanti e si saGruppo amici di Don Pietro e Don Luigi
1954: da sinistra: Sandro Picchiotti; Francesco Bajardi; Giorgio Re; Don Luigi Martinengo; l’aspirante guida Silvano Meynet sulla cima del Lyskamm.
liva. In questa non semplice occasione si affermò il ruolo di “trascinatore” di Sandro con la sua forza morale fisica ed il coraggio che rendevano attuabile quello che sembrava impossibile. Il sorriso che Marchese ritrovò scendendo dopo la Capanna Gnifetti, sotto i quattromila, fu il miglior riconoscimento della straordinaria impresa che Sandro aveva realizzato. L’anno prima, nel luglio 1954, sempre con la guida Marcello Carrel e il portatore Silvano Meynet, con Sandro Picchiotti, erano saliti al Castore don Luigi Frascarolo, don Luigi Martinengo, Francesco Bajardi, Beppe Bissone, Giorgio Manfredi, Beppe Mortarini, Pinuccio Picchiotti, Giorgio Re e Liliana Villasco. Dopo il pernottamento al rifugio Quintino Sella il giorno successivo, Francesco Bajardi, 130
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don Luigi Martinengo, Sandro Picchiotti e Giorgio Re, con le stesse guide scalarono il Lyskamm occidentale. Il gruppo si ricompose al rifugio ed insieme discesero tutti a Gressoney. Salirono alla punta Dufour, sempre dal versante nord e alla punta Zumstein, questa volta nel 1955, Francesco Bajardi, Oscar Amelotti, Beppe Bissone, Flavio Gastaldello con le guide Marcello e Alberto Carrel. Fu un periodo entusiasmante di importanti ascensioni Gruppo amici di Don Pietro e Don Luigi per i giovani valenzani che, insieme a tanti altri continuarono a vivere la passione per la montagna, allargando sempre più questo amore contagioso e affascinante. Un’altra dimostrazione della forza di Sandro era avvenuta quando, insieme a don Pietro, si decise nell’estate del 1949 di salire con un gruppo numeroso alla Gran Sommetta per celebrarvi la messa. Questa cima di 3166 mt. non presenta eccessive difficoltà di salita, ma l’altarino per la messa era contenuto in una pesante valigia che Sandro Picchiotti volle portare in vetta. Oltre 1954: da sinistra: Pinuccio Picchiotti; Beppe Bissone; allo zaino sulle spalle si Francesco Bajardi al rifugio Quintino Sella sul Rosa. legò con una robusta corda la valigia sul davanti, proseguendo sul ripido pendio di pietroni e sfasciumi, sollecitando i compagni di scalata a procedere. Tutto andò per il meglio e la messa venne celebrata in vetta. Qualche anno dopo guidò un’escursione alla capanna Margherita con il fratello Pinuccio ed altri due amici. Dormirono alla Capanna Gnifetti e poi salirono in cordata alla Margherita a 4551 mt. Al ritorno, durante una sosta sul ghiacciaio, 131
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Sandro si accorse di aver dimenticato le scarpe da ginnastica che normalmente vengono usate per entrare al rifugio: non volle sentir ragioni per evitare il recupero. Effettivamente non sarebbe valsa la pena di risalire per riprendere un paio di scarpe da ginnastica usate, ma invitò i tre compagni a proseguire la discesa mentre lui fece di corsa la risalita del ghiacciaio per poi tornare con loro. Così avvenne: lo videro comparire mentre correva, prima di Gressoney, dove giunsero tutti e quattro insieme... comprese le scarpe da ginnastica. La corsa in montagna fu la sua passione ed un’attività alpinistica alla quale si dedicò per anni. E’ questa una specialità sportiva molto impegnativa che richiede una preparazione fisica accurata, tenendo conto delle continue alterazioni di altitudine e di uno sforzo fisico e respiratorio che viene concentrato in poco tempo. Curava la preparazione con allenamenti quotidiani partendo molto presto velocemente di corsa al mattino da Issime, in Val d’Aosta, dove abitava la moglie Renée e dove risiedeva spesso nel periodo estivo, salendo e poi ridiscendendo su gradoni alti circa un metro verso la cappella di San Grato. Fra le molte gare di corsa in montagna, nel periodo anni 60/70 si ricordano le traversate del Col Dondeuil fra la valle di Gressoney e la Val d’Ayas e la Piedicavallo-Colle della Mologna-Gaby fra le valli biellesi e la valle di Gressoney. Più volte partecipò alla Torino-Saint Vincent, una super maratona di 100 km che collega il capoluogo piemontese con la “porta” delle montagne della Valle d’Aosta. Nell’edizione del 1979 su 1200 partecipanti Sandro si lasciò alle spalle più di 1000 concorrenti, portando a termine la gara in 12 ore dalle otto del mattino alle otto di sera e piazzandosi al 104° posto. Sandro Picchiotti continuò a svolgere un’intensa attività di ascensioni guidando cordate e portando su molte cime della Valle d’Aosta le nuove generazioni che si susseguirono al campeggio “Don Pietro”. Fino agli anni ’80, con la guida Marcello Stevenin della valle di Gressoney, effettuò importanti ascensioni fra le quali il Monte Bianco, il Cervino, la Dent d’Hèrens, la Tour Ronde, il Dente del Gigante, i due Lyskamm, la sud del Castore, il Polluce e molte altre. Marcello Stevenin così lo ricorda: “Sono stato per parecchi anni la sua guida alpina e insieme abbiamo fatto tante belle salite. Sandro Picchiotti più che un cliente è stato un caro compagno di cui mi potevo fidare: una persona che non è facile dimenticare. Posso dire che era un uomo straordinario per la sua grande passione, avvinto dalle emozioni che la 132
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montagna sa dare. Aveva uno stile tutto particolare nell’ arrampicata, sembrava spesso che i piedi non tenessero o si staccassero dalla roccia per il modo veloce col quale li posava, poi invece procedeva e saliva, quasi volando. Era così concentrato, forte e deciso che trovava sempre un appoggio per la progressione in salita, anche in tratti ripidissimi. In discesa sembrava un camoscio e Dal volume “Mal di montagna” di Enrico Camanni qualche volta dovevo richiamarlo per frenare la sua esuberanza. In alcune occasioni portò in cordata con noi un suo amico, Enzo Rho di Bergamo, che invece era molto più calmo e ancor più faceva apparire Sandro con la sua forza e decisione. Ricordo che nell’ascensione al Monte Bianco, partimmo da Chamonix con l’intenzione di raggiungere il rifugio Gouter per il pernottamento prima della salita alla vetta. È previsto in questo caso l’utilizzo del trenino che da Saint Gervais les Bains porta a quota 2372 mt. del Nido d’Aquila. Il trenino tardava ad arrivare e lui ci fece decidere, zaini in spalla, di fare di corsa il percorso sui binari sino al Nido d’Aquila e poi sino al Gouter a 3817 mt. Disse che poteva servire per un buon allenamento! Andare in montagna con Sandro era per me una grande soddisfazione e mi faceva condividere bei momenti di allegria e di gioia”. Piero Rosmino. Voglio ora parlare di Piero Rosmino (n. 1935), socio CAI dal 1976, una persona curiosa e disponibile per tutti: sempre pronto a consumare scarponi su per sentieri e biciclette su e giù per le nostre colline ed oltre, ma anche a partecipare a serate gastronomiche con gli amici alpini. I fine settimana, che il tempo sia bello o brutto per lui è tempo di gita: nessuno lo può fermare. Piero é medico di se stesso e non ci si ricorda di averlo visto con il raffreddore, la tosse 133
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o un altro malanno. Bravo disegnatore ed orafo non disdegna mai frasi poetiche semplici e cariche di ironia. Racconta Gastone Michielon: “Molti anni fa, agli inizi degli anni 60, durante un’attraversata di più giorni in Valpelline con Carlo Meregaglia, Mario Ivaldi, Carla Gallini e me, dopo molte ore di cammino ci trovammo sotto il Colle de Gastone Michielon Valcournera, tra la valle di St. Barthelemy e la Valpelline sopra Prarayer. L’obbiettivo era di scendere al lago di Place Moulin, ma era già molto tardi (eravamo circa a 3000 mt.) e decidemmo di bivaccare in una baita semi diroccata che ripulimmo. La notte era fonda, il paese più vicino a non meno di 8/10 ore di cammino, il silenzio assoluto ... Sentimmo un rumore in lontananza, sicuramente un aereo. Piero, rannicchiato nel pagliericcio di fortuna disse: “Toh... ’na moto!...”. Scoppiammo a ridere: una moto a 3000 mt., in una valle sperduta! Iniziai a frequentarlo già da 1969: Piero Rosmino suona l’armonica a Cheneil dopo ragazzino quando i miei un’escursione con Carluccio Meregaglia. genitori mi mandarono al campeggio “Don Pietro” nel periodo estivo. Rosmino mi insegnò a camminare in montagna. L’osservavo accarezzare i sentieri, leggero e sicuro, io sempre dietro. Facevamo tutti a gara per camminargli alle spalle. Insegnò a molti di noi a riconoscere le montagne che ci circondavano, per ognuna il suo nome: Roisette, Becca D’Aran, Sigari di Bobba, Gran Tournalin, Gran Sometta, Grandes Mourailles, Jumeaux, Dent D’Hèrens. Ripeteva di continuo il nome delle cime che in parte 134
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aveva salito. Imparammo da lui a trovare sorgenti di acqua scavando nel terreno ed a contenere la sete succhiando un sasso del torrente.. , ad attraversare i ruscelli riconoscendo i sassi stabili e non scivolosi ed anche ad intuire le variazioni del tempo. Al campeggio in pochi volevano dormire nella sua stanza: si addormentava presto e si svegliava all’alba. I giovanissimi avevano altri ritmi! Col tempo però anche altri amici appassionati di escursioni in montagna si adattarono a riposare con lui nella camera a 4 posti. Era effettivamente insofferente e quando si rientrava tardi sbottava sempre: “UĂ che adm mat n-na l’è dĂźra!â€?. Piero Rosmino era stato svezzato in un collegio dove restò sino alla chiamata alle armi. Entrò negli alpini e dopo alcuni anni fu congedato con il grado di sergente. Si trasferĂŹ a Valenza per fare l’orafo. La montagna fu per lui un vero amore. Ha ragione lo scrittore alpinista Enrico Camanni che nel suo libro “Mal di montagnaâ€? (CDA & Vivalda editore) gli dedica un bel profilo: “Di solito iniziava il resoconto con l’escursione del giorno, perchĂŠ non c’era giorno che Rosmino non andasse a camminare. Ci andava con il sole e con la neve, per lui non faceva differenza. Se c’era il sole diceva - Che bel sole -, se nevicava diceva - Che bella nevicata -. L’importante era andare, un po’ per assecondare la vacanza e un po’ per riempire il vuoto di una vita da scapolo: Rosmino viveva di poesia (la poesia della natura), ma i suoi racconti erano ingenui, scarni. - Oggi a Champlève ho visto le tracce della lepre; forse era un cane - le pelli di foca facevano lo zoccolo. La neve era gesso sopra la Madonna della Salette, che fatica salire con lo zoccolo - fino a Cheneil non c’era vento, ho sudato anche un po’, ma sulla cresta del Molar si volava via -. Al secondo bicchierino si sfilava il maglione e restava in maniche di camicia. Allora potevi provocarlo tranquillamente: - Senti, Rosmino, e se domani andassimo a fare il Ventina con le pelli? - Il Ventina? Ma sĂŹ, di lĂŹ scendono in pochi perchĂŠ c’è la neve fresca. I cannibali sono tutti dall’altra parte - Cannibali? - certo, non conoscete il Cannibale lanciato? Era la sua definizione preferita, il massimo slancio provocatorio della sua mente gentile. Indicava ogni genere di sciatore che usasse gli impianti di risalita e le piste battute, specialmente a Cervinia, la patria del “cannibalismoâ€?. In senso piĂš lato, abbracciava quell’ antropologia urbana che aveva profanato i valori della montagna riducendola a stadio, Disneyland, parco giochi. Rosmino non era bigotto nĂŠ moralista, ma difendeva uno stile di vita consono alla propria semplicitĂ . Soprattutto cercava compagni, e sapeva adattarsi. Tollerava i miei amici can135
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nibali che talvolta ci seguivano con le racchette da neve o con gli sci, e tollerava anche le (rare) donne del gruppo, aspettandole incoraggiandole, rispettandole. Non gli ho mai sentito pronunciare una parola maschilista, secondo la logica tipica degli uomini soli e di certi ambienti montanari. Era candido anche in questo. La montagna è anche stata crudele con lui. Quando decise di fare la Cresta Albertini alla Dent d‘Hèrens con la guida più forte dell’epoca, Camillotto Pellissier, nulla lasciava presagire il dramma. Durante la scalata Camillotto cadde e morì: lui scese da solo giù dalla parete dopo aver depositato il corpo su una cengia. Non parlò mai a nessuno di quella esperienza, salvo minimi particolari. Spesso durante le innumerevoli gite lo si vedeva irrigidirsi quando sentiva cadere dei sassi o quando sentiva sferragliare i ramponi sulle rocce. Si turbava tantissimo, poi si calmava e ritornava il Rosmino di sempre. Continua Gastone Michielon, che gli fu molto vicino nei giorni della tragedia: “Su questo argomento, anche in tempi recenti, ho avuto discussioni con alcune guide del Cervino che, ancora oggi, sollevano qualche ombra sull’accaduto. Ho spiegato loro come si sono svolti i fatti. Era una mattina del 6 agosto 1966 ed era l’ultimo giorno di campeggio, poi c’era il cambio del turno. Eravamo tutti sul piazzale di Perrerès quando è arrivato il Maggiolino verde di Camillotto. Piero Rosmino era già pronto, andò incontro alla guida alpina. Alcuni di noi sapevano dei programmi alpinistici di Piero, anche io che dormivo nella sua stanza. Un giorno prima, Mariolino Vaccario e Francesco Bajardi, i vecchi del campeggio, avevano allestito una catasta di legna sul “Pietrone” che avrebbe dovuto essere acceso per segnalare che tutto andava bene e così dovevano fare Camillotto e Rosmino arrivati al bivacco Albertini per dormire. Dopo i soliti convenevoli Piero caricò la sua attrezzatura sulla macchina della guida e mi chiese di accompagnarli sino a Cervinia. Accettai, avevo alcune ore a disposizione prima della partenza del pullman. Arrivammo a Cervinia, parcheggiarono l’auto e, scaricati gli zaini, si incamminarono verso l’attacco. Li accompagnai per un breve tratto fino alla palestra delle guide, salutai e ritornai indietro. In pullman arrivai nel tardo pomeriggio a Valenza; mi venne incontro mio padre e mi disse che era successa una disgrazia: Piero era morto in un incidente in montagna. Lo tranquillizzai dicendo che non era possibile, ero stato con lui e la guida sino a poche ore prima. Arrivò poi la notizia che era morta la guida, ma Piero era vivo. Purtroppo, appena dopo, fu confermato: la guida 136
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Camillotto Pellissier era precipitata morendo ma Piero Rosmino era vivo. Passarono anni prima che qualcosa trapelasse da Piero, mai nessuno di noi si azzardò a chiedergli notizie. A volte qualcosa raccontava e come un mosaico ricostruimmo il fatto. Piero raccontò che quel mattino arrivarono all’attacco della via e Camillotto, davanti, salì in arrampicata sulla parete, quindi i due procedettero in sintonia per un po’. Arrivarono ad un punto di sosta, Camillotto salì per una mezza lunghezza di corda, Piero operò una sicurezza passando la corda a cavallo di uno spuntone sopra di lui. Quasi subito sentì uno sferragliare come dei ramponi che grattano la roccia, alzò lo sguardo e vide la guida con il viso verso il vuoto! Un attimo e precipitò sulle rocce sottostanti passando a fianco di Piero. La sicurezza trattenne il corpo che penzolò nel vuoto per un tempo imprecisato. Chiamò la guida in continuazione. Le mani facevano male, il pericolo che anche lui seguisse la sorte di Camillotto era evidente. Sotto di loro, c’era una cengia-terrazzino ad un paio di metri. Diventava buio, la guida non rispondeva e nessuno nelle vicinanze: le sue grida venivano vanificate. A quel punto provvide ad adagiare sulla larga cengia il corpo della guida che non dava nessun segno di vita. Da quel momento Piero non ricorda più nulla. Sapremo poi che alcune guide avevano intuito l’accaduto ed erano corse verso l’attacco della via, incontrando Rosmino che, sceso da solo su difficoltà non indifferenti, corse verso di loro completamente impazzito”. Questo è il racconto di una persona che è stata molto vicino a Rosmino in quei giorni e che ha vissuto la tragica vicenda, a commento della quale aggiungo ancora alcune righe di Enrico Camanni tratte dal libro già citato: “A distanza di vent’anni il solitario minimalismo montanaro di Rosmino mi sembrava una risposta assai più onesta di tante infedeltà, tradimenti, nequizie che la vita ci butta addosso provocando la nostra pazienza. Se la felicità consiste nel restare se stessi, allora Rosmino ci era riuscito. E se la vita è un mistero, allora lui aveva vissuto”. Nella prima parte di questa rievocazione ho già ricordato la figura di Gian Piero Accatino (1934-2003), nel ruolo da lui svolto per la fondazione, nel 1974, della Sezione CAI di Valenza di cui fu il primo presidente, restando in carica sino al 1993. In questa seconda puntata intendo invece richiamare la sua abilità grafica nel creare opere in bianco e nero sul mondo alpino. Sono “Storie brevi in punta di penna” come le chiama il periodico di arte, cultura, informazione e turismo “Pagine della Valle d’Aosta” n. 4, giugno 1996, dal quale cito la presentazione 137
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Da: “Pagine della Valle d’Aosta”.
Gian Piero Accatino.
pubblicata con alcune opere significative e divertenti: “Gian Piero Accatino si interessa a tutte le vicende che riguardano la montagna e il suo mondo da quando, ancora bambino, ha visto per la prima volta le montagne della Valle d’Aosta che, anno dopo anno, ha sempre frequentato, anche a livello alpinistico. Amici di Courmayeur e Valenza, sua città natale, lo hanno convinto a presentarsi al giudizio del pubblico in mostre personali. Tra le più recenti, nel 1994 a Courmayeur presso la Maison Fleur con una personale dal titolo evocativo “Oh, les belles Da: “Pagine della Valle d’Aosta”.
Marcia Gran Paradiso: il ritardatario. Un disegno di Gian Piero Accatino. 138
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Da: “Pagine della Valle d’Aosta”.
Dice di passare alla cassa prima della consumazione. Disegno di Gian Piero Accatino.
montagnes!”, e nel 1995 a Cogne presso l’Atelier d’Arts et Métiers con un’altra personale intitolata “La grand’Eyvia racconta”. Sempre a Cogne ha partecipato ad una collettiva alla quale erano presenti artisti valdostani come Ouvrier, Balan, Tecco ed altri. Profondamente legato all’ambiente ed alla cultura alpina, continua a scrivere le sue “Storie brevi” in punta di penna sul suo blocco degli schizzi. A volte lieve come un acquerello di Samivel, a volte ruvido e aspro come un graffio di Forattini, miscela in sé il sogno bambino della primavera che rinasce, il rimpianto del sole che tramonta, la nostalgia delle nebbie autunnali. Dalla sua opera più recente, abbiamo tratto alcune tavole nelle quali il lettore attento troverà moltitudini di parole che cercano prepotentemente di uscire allo scoperto. Ad ognuno di noi dar loro vita; ad ognuno di noi ritrovare le proprie neiges d’antant!”. Ho già parlato di Pier Luigi Bianchi (n. 1949) che fu nel 1974 uno dei fondatori del CAI di Valenza e dirigente della sezione per molti anni svolgendo un’attività alpinistica importante e continuativa nel tempo. Voglio ora narrare la sua interessante esperienza sulle Alte Vie Dolomitiche realizzata alla fine degli anni 70. Con “l’Alta Via” viene proposta una nuova formula di turismo alpino: essa è dedicata a quella vasta categoria di appassionati della natura alpina che non intendono esaurire i loro interessi nelle due attività estreme, cioè, da un lato le 139
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semplici escursioni estese sino ai passi o rifugi accessibili per rotabili o altri mezzi meccanici, dall’altro l’arrampicamento su itinerari molto difficili e impegnativi. Le alte vie estive specie sul terreno dolomitico che presenta tutte le attrattive di alta montagna a quote relativamente moderate e senza pericoli obbiettivi dei grandi ghiacciai, offrono, a buoni escursionisti alpini, la possibilità di itinerari organici e di ampio respiro, alcuni celebri e molto frequentati, altri più selvaggi e meno conosciuti, ma non per questo meno affascinanti. Si tratta, in sostanza, di itinerari che collegano una catena di rifugi, con percorsi più o meno lunghi e faticosi, ma sempre senza forti difficoltà, almeno per escursionisti esperti. In parte si tratta di percorsi da sempre noti e praticati. In alcuni casi, però per mezzo del tracciamento e segnalazione di nuovi sentieri e dell’ attrezzamento di tratti scabrosi, è stato possibile rendere agevole l’attraversamento di zone, prima considerate impervie. Se, dunque, nessun tratto di “Alta Via” costituisce, di per sé, una novità assoluta, l’intero percorso, con le nuove condizioni di percorribilità e le nuove basi di appoggio, offre realmente nuove possibiIl lago Coldai, Alta Via n. 1 delle Dolomiti. lità di interesse. Attualmente sono otto le alte vie delle Dolomiti, mentre Pier Luigi Bianchi percorse interamente le quattro che erano attive negli anni 70. Pier così si racconta: “Cominciai ovviamente dall’ alta via numero uno che parte dal lago di Braies in Val Pusteria e arriva sino a Belluno: eravamo in due in quel fine luglio del 1977. Con me Ivo Pagliano buon camminatore e grande amante della montagna. Partimmo, ciascuno con il proprio zaino al mattino presto in treno da Valenza sino a Milano Porta Genova, quindi in metropolitana alla Stazione Centrale. Da qui con il treno della 140
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linea Milano - Bolzano fino a Fortezza e poi su quella della Val Pusteria arrivando a Villabassa in serata. Dormimmo in una “Zimmer” con prima colazione e all’alba del giorno dopo prendemmo il pulmino di linea che da Villabassa porta al lago di Braies. Qui calzammo gli scarponi che tenevamo appesi allo zaino durante il viaggio riponendo i sandali che sarebbero poi serviti agli ingressi dei rifugi: iniziammo quindi l’escursione”. A questo punto è opportuno segnalare l’importanza dello zaino, fondamentale compagno di viaggio che deve contenere tutto quanto serve nei giorni delle escursioni che, quasi sempre come nel caso di queste, superano la settimana, cercando di limitare il peso compatibilmente con le necessità. I due affrontarono l’itinerario dell’alta via numero uno perché ideato per primo e, comunque, destinato a restare uno dei più classici, se non il più classico, in quanto attraversa il
Le altimetrie della Alta Via n. 1 delle Dolomiti.
cuore delle Dolomiti nella loro parte centrale, da nord a sud e viceversa, dalla Pusteria in provincia di Bolzano alle soglie della pianura veneta, passando per le Dolomiti di Braies, di Cortina D’Ampezzo, dello Zoldano, dell’Agordino e di Belluno. Si tratta di un’enorme varietà di ambienti naturali e anche umani che trasforma il percorso in un’esperienza ricchissima. Continua Pier: “Siamo partiti dall’incantevole lago di Braies percorrendo per buoni sentieri, il romantico ambiente del Fanes, raggiungendo le maestose Tofane nella superba conca di Cortina, sfiorando le caratteristiche architetture rocciose delle Cinque Torri, del Nuvolau, della Croda da Lago. Abbiamo poi superato dall’ alto la bella Val di Zoldo, attraversando la regale mole del monte Pelmo (El Caregon de Dio). L’attraversamento del gruppo del Civetta, la cui cima è stata scalata quest’anno da 4 amici del CAI di Valenza, ci ha fatto gustare le visioni più grandiose ed impressionanti di tutte le Dolomiti. A seguire le Moiazze dove abbiamo incontrato un mondo alpestre più solitario ma affascinante per poi superare il Tamer, la Schiara e raggiungere 141
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Belluno. Durante il percorso abbiamo approfittato di alcune varianti e utilizzato cinque vie Ferrate che hanno dato all’esperienza ulteriore emozione e ancor maggior fascino. Abbiamo pernottato in ordine di cammino nei rifugi Pederù, Lagazuoi, Nuvolau, Città di Fiume, Venezia, Coldai, Vazzoler, Carestiato, Sommariva al Pramperet, Furio Bianchet, 7° Alpini”. Si tratta di rifugi quasi tutti del Cai che forniscono una buona accoglienza e una professionale assistenza con tutte le informazioni più aggiornate sui sentieri. Affrontando questi percorsi con un cammino quotidiano sempre lungo per molti giorni si possono Marco Lenti
Luglio 2011. Da sinistra: Riccardo Cassola; Alessandro Marica; Pascal Pintore; Marco Lenti sulla cima del Civetta, con salita su ferrata degli Alleghesi e discesa su ferrata Tissi.
incontrare imprevisti, sia sul piano fisico che meteorologico, tali da creare problemi rispetto al programma. Ai due capitò questa seconda ipotesi “il 30 Luglio arrivammo al rifugio Lagazuoi 2752 mt.: la sera prima pioveva e al mattino dopo ci svegliammo sotto una forte nevicata che ci bloccò in rifugio due giorni. Quel mattino salì in funivia al rifugio il grande alpinista Lino Lacedelli con parecchia altra gente che venne con lui per festeggiare l’anniversario della prima ascensione al K2. Lui e Achille Compagnoni, con l’aiuto di Walter Bonatti, lo conquistarono il 31 Luglio 1954. Grazie alla neve abbiamo avuto l’emozione di con142
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dividere la partecipazione di un giorno di festa insieme a uno straordinario esponente dell’alpinismo. Concludemmo il percorso dell’alta via 1 in dodici giorni camminando 6/7 ore al giorno. Effettuammo il viaggio di ritorno in treno partendo da Belluno e arrivando a Valenza dove abbiamo finalmente lasciato lo zaino”. Pier Luigi Bianchi percorse poi nel luglio 1978, ancora insieme a Ivo Pagliano, l’ Alta Via Dolomitica n. 2, con l’itinerario da Bressanone a Feltre, toccando le province di Bolzano, Trento e Belluno attraverso 8 gruppi dolomitici fra i quali le Odle, il Sella, Il Piz Boè, la Marmolada, le Pale di San Martino e le vette Feltrine. Questa lunga escursione si è sviluppata mantenendosi in media a quote fra 2000 e 3000 mt., rasentando una serie di grandi cime oltre i 3000, superando una trentina fra passi e forcelle e pernottando in rifugi alpini. Nell’estate 1979 Pier Luigi Bianchi proseguì da solo il completamento delle altre due alte vie (la 3 e la 4) esistenti in quegli anni. L’Alta via 3 lo vide percorrere l’itinerario da Sesto in Pusteria a Longarone, incontrando il Picco Vallandro, il Monte Piana, il Cristallo, il Sorapis, il Monte Rite, il Bosconero, montagne in parte famose in parte ancora poco note, con grandi varietà alpestri ora pastorali ed ora selvagge. Impiegò 7 giorni ma, non perdendo tempo, raggiunse in treno da Longarone la località di San Candido al confine con l’Austria da dove l’alta via numero 4 inizia per svilupparsi sino a Pieve di Cadore con un percorso molto interessante, sia per la bellezza dei monti che per la loro importanza storica. Presi nel senso del percorso alcuni tratti (Rondoi, Baranci, Cadini, Sorapis) sono ancora non molto frequentati e fanno ritrovare un genere di montagna primitiva ed autentica. Anche quest’alta via impegnò Pier per 7 giorni. Nei mesi estivi di 3 anni (19771978-1979) Bianchi percorse quindi completamente le 4 alte vie dolomitiche esistenti allora, con un dislivello generale (salita e discesa) di 58.000 mt. ed uno sviluppo complessivo di 700 km. Soprattutto acquisì un’esperienza fantastica, colma di sensazioni magiche che la montagna sa dare nei tanti modi in cui può essere veramente gustata. Nino Bergamino (1931), socio CAI dal 1960, un altro fra i fondatori nel 1974 della Sezione CAI di Valenza, ha intrapreso un’importante esperienza alpinistica soprattutto legata al Monte Bianco, creando intensi rapporti con Courmayeur e in particolare con la “Società Guide Alpine Courmayeur 1850”, seconda solo a quella di Chamonix per anzianità nel mondo. Nino, per le molte imprese alpinistiche da lui realizzate e per il contributo da lui dato al mondo alpino di Courmayeur, 143
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è stato riconosciuto “Guida Onoraria”. Le Guide Onorarie facenti parte dell’Associazione di Courmayeur vengono così definite: “Sono prestigiose persone che hanno aiutato il mondo delle Guide Alpine, della montagna, del Soccorso Alpino, a crescere negli anni e a raggiungere i livelli di conoscenza e di professionalità che oggi le Guide Alpine possono vantare.” Così commenta il Presidente della Società Guide di Courmayeur Arrigo Gallizio: “Nino Bergamino si è guadagnato la carica di Guida Onoraria sul campo. La passione e l’amore per il Monte Bianco che Nino ha Nino Bergamino
15 agosto 1978. Nino Bergamino, quarto da sinistra in basso, alla festa delle guide di Courmayeur.
ancora vivo nel suo cuore è l’esempio di che cosa le nostre Guide Alpine riescono a trasmettere in persone che sono attratte dal fascino magico che la nostra Montagna per eccellenza, sa catturare con i suoi verticali versanti, con le sue romantiche albe e tramonti sempre diversi, sempre nuovi in ogni occasione sia d’inverno che d’estate. Nino ha vissuto l’era dell’alpinismo che si confronta ad armi pari con la montagna ed ha avuto la grande fortuna di avere come Guide, poi come veri amici, persone nate e forgiate sul territorio. Le sue imprese sono descritte con sentimento genuino da Mario Mochet che ripercorre quegli 144
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anni storici ed il periodo della sua formazione di Guida Alpina di Courmayeur di cui è fiero. La nostra Società, la più antica d’Italia, la seconda del Pianeta, è onorata di annoverare nel proprio sodalizio persone come Nino Bergamino, che oggi come allora, è costantemente attento alla vita attiva della Società e delle nostre Guide, del loro lavoro fatto con etica, temperanza, prudenza, sulle Montagne valdostane e del Mondo ripercorrendo le sue indimenticabili salite memore dei sentimenti ed emozioni che con loro ha vissuto”. Prosegue quindi la Guida Alpina Mario Mochet: “Nino Bergamino ha scoperto Courmayeur e la Archivio CAI Valenza
Luglio 2010. Da stnistra: Alfredo Dovis; Barbara Repnic; Stefano Sisto; Giuseppe Stafforini; Piero Amisano, ferrata e cima Averau gruppo “Cinque Torri” Dolomiti Ampezzane.
montagna negli anni 70 ospite della famiglia Grivel amici della moglie, ed è stato Walter Grivel ad accompagnarlo nelle prime escursioni, Traversata della Vallée Blanche, Aguille d’Entrèves, Petit Mont Blanc, Aguille des Glacier, Tour Ronde. Chi meglio di un Grivel poteva fargli scoprire il monte Bianco. In seguito Nino voleva ampliare le sue salite su altri massicci con gite di più giorni e Walter, preso dagli impegni della Ditta Grivel, non poteva più accompagnarlo. Così, come si dice in gergo delle guide, mi ha passato il cliente, ed è nato il nostro rapporto di Guida - cliente e di amicizia. Seguendo le indicazioni del famoso 145
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libro di Gaston Rebbufat, “Le cento più belle salite del Monte Bianco”, io giovane Aspirante Guida alle prime armi e Nino insieme siamo riusciti a scoprire itinerari che allora non erano molto frequentati dalle Guide di Courmayeur, Couliour de la table de Roc, Tour Noir, Aguille des Chardonnet, Traversata dei Domes des Miages, e tante altre salite classiche. Come Aspirante Guida non potevo accompagnare i clienti su salite oltre una certa difficoltà e Nino allora fece alcune escursioni con i fratelli Alessio ed Attilio Ollier. Poi, diventato Guida, salimmo tante Famiglia Guerci
Luglio 1986: Davide Guerci con la sua prima guida Giuseppe Petigax di Courmayeur sul Dente del Gigante.
montagne con suo cognato Elvio Lombardi grande appassionato di montagna, Attilio Ollier, e Renzino Cosson. Vorrei citare forse la più bella salita fatta insieme, la via Chabod Grivel alla Nord della Aguille Blanche con la salita al Bianco fatta con due amici guide, Luca Argentero e Dario Brocherel. In quella occasione abbiamo volutamente passato una notte con bivacco al Colle di Peuterey, forse il posto più bello e carico di storia di tutto il Monte Bianco. In seguito il rapporto professionale e di amicizia si è ampliato tramite il CAI di Valenza e i suoi corsi di alpinismo dove, in tanti anni, ho 146
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potuto conoscere e apprezzare la disponibilitĂ e la capacitĂ di chi mi aiutava ad accompagnare e insegnare agli iscritti nei vari corsi. In particolare cito, per la grande passione e il forte impegno, i soci del CAI di Valenza Pier Luigi Bianchi, Enzo Francescato, Gastone Michielon, Claudio (Clib) Quagliotto, Luigi Tenconi, Gian Paolo Zulato e con loro tanti altri che hanno con me condiviso molte affascinanti avventure. Il mio pensiero va con piacere a Gian Piero Accatino con i suoi splendidi disegni pieni di humor che non mancavano mai durante i compleanni Gruppo amici di Don Pietro e Don Luigi
Il Coro Cervino al Teatro Sociale con le guide: Camillotto Pelissier; Ettore Bich; Luigi Carrell (Carrellino).
dei miei due figli Sylvie e Nicolas. Desidero infine ricordare con affetto Davide Guerci, giovane alpinista di punta del CAI valenzano che ha tenuto un continuativo rapporto con le guide di Courmayeur, realizzando tante eccezionali imprese in tutto il gruppo del Bianco e oltre, sino al giorno della sua scomparsa, il 22 agosto 2000, precipitando sulla parete dei Titani in Val Ferret mentre era impegnato a preparare una grande ascensione, il Pilastro Centrale del Monte Bianco. Anch’io, come gli Amici valenzani che a lui hanno dedicato la loro nuova e bella sede, mi unisco partecipe nella memoria di questo giovane ed entusiasta al147
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pinista, con un sentito riconoscimento ed un caro augurio al CAI valenzano per i suoi futuri impegni.” Pescando fra i mille ricordi che si affollano nel lungo percorso del rapporto fra i valenzani e la montagna voglio raccontare un evento che non si riferisce direttamente ad ascensioni alpine anche se richiama i monti. A crearlo è stato un gruppo di giovani, frequentatori della montagna, che hanno tratto linfa e ispirazione dal mondo alpino riproponendone la musica ed il canto popolare. Nel 1951 nacque a Valenza una formazione corale, a 4 voci maschili, che per alcuni anni ha svolto una attività continuativa con concerDa: “Whymper, Carrel & Company” ti in varie località del Piemonte. Il repertorio faceva riferimento al Coro della SAT e ai tanti altri cori che erano impegnati a esaltare i canti di montagna, il filone dei canti degli alpini e la canzone popolare delle varie regioni italiane. Si utilizzarono le armonizzazioni di musicisti specializzati fra i quali Bepi De Marzi, Renato Dionisi, Antonio Pedrotti, Luigi Pigarelli, Giovanni Veneri, ma anche Arturo Benedetti 1959: Marica Porta sulla cima del Cervino. Michelangeli, il grande pianista che curò la trascrizione di alcuni fra i più famosi canti di montagna. Il Coro venne chiamato “Coro Cervino” e non poteva essere diversamente per il forte legame che Valenza ha sempre avuto con la “Gran Becca”. I circa 30 giovani che formavano il Coro si davano appuntamento in una sala dell’Oratorio di Viale Vicenza per le prove. Va in particolare ricordato il concerto tenutosi nel 1955 al Teatro Sociale di Valenza con un gran pubblico ed alla presenza delle Guide Alpine di Valtournenche Luigi Carrel (Carrellino), Camillotto Pellissier e Ettore Bich. L’organico del Coro era così composto: Ampelio Amadori, Oscar Amelotti, Francesco Bajardi, Germano Baldini, Giuseppe Biscaldi, 148
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Franco Cassola, Nino Castellani, Giovanni Cavalli, Elia Gastaldello, Nino Ghidetti, Carluccio Manfredi, Giorgio Manfredi, Severino Masteghin, Giancarlo Molina, Pinuccio Picchiotti, Luigino Ponzano, Giulio Ponzone, Giorgio Re, Franco Stanchi, Mino Stanchi, Gigi Staurino, Paolo Staurino e Nino Verità. Il “Coro Cervino” canFamiglia Demartini tava e intanto parecchi valenzani sul Cervino salivano affrontando la dura e impegnativa scalata per arrivare sulla cima. Ho cercato di comporre un elenco, scusandomi se ho dimenticato qualcuno: Oscar Amelotti, Ivano Arzani, Francesco Bajardi, Beppe Bissone, Riccardo Cassola, Luigi e Gemma Cerino, Giovanni Ceva, Marco e Paola Demartini, don Luigi Frascarolo, Luigi Illario, Renato Ivaldi, Piero Lenti, Luigi e Carluccio Meregaglia, don Giacomo Pasero, Sandro e Pinuccio Picchiotti, Marica Porta, Piero Rosmino, Mario Paola e Marco Demartini sulla cima del Cervino tra le guide Luigi Herin e Jean Bich nel 1983. Scaglione, Giovanni Scarfato, Gigi Staurino, Mariolino Vaccario. La “Editions l’Eubage” di Aosta ha pubblicato un libro con tante foto di alpinisti in vetta alla “Gran Becca”, fra questi alcuni valenzani accompagnati dalla loro Guida. Faccio seguire alcune immagini, mentre sullo sfondo mi par di sentire il canto di “Montagnes valdotaines, vous êtes mes amours” e mi batte il cuore… Come avrete notato da questo racconto e come appare in entrambe le 149
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parti di “Valenza e la montagna”, quella di Francesco Bajardi (n. 1933), iscritto al Cai dal 1960, è stata una presenza importante e significativa nella storia dell’alpinismo valenzano e, con lui, quella della moglie Triestina (n. 1938), socio Cai dal 1960, che lo ha accompagnato in tante imprese e della figlia Maria (n. 1970), socio Cai dal 1988. Faccio parlare di Francesco, ancora Gastone Michielon, portavoce di una generazione più giovane che lo ha frequentato: “Sicuramente da noi giovani alpinisti del Campeggio “Don Pietro”, parlo del periodo degli anni 60/70 , Francesco Bajardi era visto come la persona più autorevole, quello a cui stare appresso sia nelle serate canore del dopocena sia per ascoltarne le avventure e le impressioni. Andare in montagna con lui significava essere considerato uno “bravo”; chiunque di noi avrebbe fatto di tutto per legarsi alla sua corda. Non era una guida ma per noi non cambiava nulla: lui era il più forte di tutti, quello che ti dava sicurezza sempre. Piero Rosmino ne era innamorato, con Francesco sarebbe andato ovunque e sinceramente anche molti di noi giovani. Quando programmava una salita e si combinavano le possibili cordate, tutti noi speravamo in una convocazione che non sempre arrivava. Invidiavamo i fortunati e speravamo, in cuor nostro, che ci ripensasse così da chiamare noi. Fu lui, alla fine degli anni ’60, avevo allora poco meno di 17 anni, a gratificarmi della sua fiducia, affidandomi la guida di una cordata nella traversata del Furggen. Arrivati al Plateau Rosa, mi si avvicinò e mi diede il capo di una corda. Ne feci subito il nodo-guida che serviva per fissarlo alla cintola e gli restituii la corda. Si mise a ridere e mi disse - no, è tua! Sarai tu il capo-cordata con lei... - mi voltai e vidi Gianna Bonelli che conoscevo bene essendo amica dei miei famigliari. Andò tutto bene, solo sull’ultimo passaggio detto della Madonnina, ebbi alcune difficoltà: non riuscivo a salire e nemmeno a scendere... bella grana! Francesco si sporse dal pietrone e, con calma, mi spiegò i movimenti che dovevo compiere. In un attimo, senza aiuto materiale, salii e feci salire Gianna che, probabilmente spaventata, si sentì male. Risero tutti e scendemmo a Cervinia. Con Francesco, nella seconda metà degli anni ’70 scalammo la Cresta del Mont Rouge che parte dall’intaglio del Monte Seriola (colle della finestra di Cignana) e con una lunga galoppata tra difficoltà varie sino al 3° grado, arriva sulla spalla e poi sulla vetta. Discendemmo poi dal 150
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ghiacciaio di Volfrede sino a Perrères; con noi erano Gigi Stefanutto, Luciano Bajardi e Paolo Zulato. Francesco ne intuì l’itinerario senza mai sbagliare percorso, nonostante non ci fossero indicazioni, in un ambiente severo che nessuno conosceva. La più bella è stata senz’altro la salita del Gran Paradiso: Carlo Meregaglia ed io avevamo messo in apprensione don Luigi che allora guidava il campeggio e che non volle più consentirci di compiere salite troppo impegnative da soli: allora noi pregammo Francesco affinché intercedesse e ci lasciasFamiglia Bajardi se liberi…ma nulla da fare! La nostra intenzione era quella di raggiungere il Gran Paradiso, mai salito da nessuno di noi! Don Luigi accettò di lasciarci andare a condizione che ci fosse anche Francesco. Fu un invito a nozze: in tre ore eravamo pronti a partire Francesco, Carlo, io e Matteo Bongiorno. Raggiungemmo il rifugio Vittorio Emanuele e pernottammo senza chiudere un occhio: la mattina fummo tra i primi a partire, sbagliammo strada e ci dirigemmo verso il Ciarforon. Sotto di noi Triestina Bianchi in Bajardi con la figlia Maria sulla una serie lunghissima di ferrata al bivacco Borelli nel 2000. lumini in processione saliva in altra direzione. Capimmo e senza pensarci sopra ci precipitammo verso il basso sciando sui nevai. Arrivammo quasi al rifugio e ci mettemmo in coda. Salimmo molto veloci e iniziammo la bellissima salita. Arrivammo in vetta tra i primi: due foto e poi giù al rifugio. Dopo molti anni i ricordi non sono assolutamente affievoliti e sono rimasti intatti in coloro che, con Francesco, hanno condiviso tante avventure. 151
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Ed ora la figlia Maria, presidente della Sezione CAI di Valenza dal 1999 al 2008, che ha svolto un’attività alpinistica di grande livello. Fra le principali ascensioni alpinistiche cito la Nord del Gran Paradiso, molte vie nel Gruppo del Bianco fra le quali Pilier Rouge de la Blatiere, la Via Bonatti - Tabou alla Chandelle, la Nord e la Via Normale Tour Ronde, il Monte Bianco dal Maudit e la Via degli Svizzeri-Grand Capucin. Quest’ultima impegnativa scalata venne effettuata nel 2004 con la guida Giovanni Bassanini. Maria Bajardi così la racconta: “Sono circa le 7,45 Archivio CAI Valenza
Luglio 2010. Da sinistra: Valeria Piccinelli; Mario Boschi; Barbara Repnic; Giovanni Sisto sulla Scala Minighel - Ferrata Tofana Rozes di Cortina.
quando io e la guida Giovanni Bassanini scendiamo velocemente da Punta Helbronner. Risaliamo quasi di corsa il pendio e giungiamo in prossimità del canale. Ramponi, piccozza, casco e corda. Ci leghiamo: dapprima il canale e poi la crepacciata terminale. I primi tiri sono su rocce mobili. Sopra di noi ci sono altre cordate che fanno cadere dei sassi. Le superiamo e attacchiamo ai piedi del diedro. Salgo sempre con il fiato in gola. Alle 12 raggiungiamo la vetta. La vista è a 360°. La cima del Bianco è lì, spicca a poca distanza l’Aiguille du Midi e tutto il Cirque Maudit. Siamo al centro di una immensità di ghiaccio e di 152
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rocce. La parete è rossastra. Iniziamo le doppie. Non finiscono mai: alcune sono a strapiombo nel vuoto (che paura!). Alla penultima doppia la corda s’impiglia e la perdiamo. Giò impreca perché è la quarta corda che perde in un mese. Arriviamo alla terrazza dove avevamo lasciato gli zaini. Ci infiliamo gli scarponi e scendiamo sul ghiacciaio. La salita del Flambeaux è faticosa. Alle 14,30 siamo al Rifugio Torino. Finalmente il Grand Capucin è fatto!”. Qualche anno prima Maria affrontò con la mamma Triestina la salita al Dome du Gouter sul Bianco con una esperienza avventurosa che ci descrive: “Estate 2000, siamo ad agosto, in montagna le giornate sono stupende. Ci troviamo a La Salle. Le previsioni meteo sono positive, così decido di fare una gita con mamma Triestina. Si parte. Lasciamo l’auto a Courmayeur e con la navetta raggiungiamo il fondovalle della Val Veny. Scarponi ai piedi, zaini pesanti sulle spalle, saliamo verso il rifugio Gonella. La pietraia del Miage è interminabile. Il percorso è poco segnalato, ci sono alcuni bolli gialli ed omini di pietre. Giunte in fondo alla pietraia attraversiamo il ghiacciaio, superiamo la crepacciata terminale e risaliamo la via attrezzata che ci conduce al rifugio Gonella a poco più di 3000 mt. Pernottiamo al rifugio: a mezzanotte sveglia e colazione. Ci prepariamo con scarponi, ramponi, piccozza, frontale, ci leghiamo e ci incamminiamo sulla normale italiana che sale al Monte Bianco. Il nostro obiettivo è salire sulla vetta del Dome du Gouter e scendere all’omonimo rifugio. Il ghiacciaio che sale dal Gonella è uno dei più tormentati. All’alba ci troviamo sulla cresta del Piton des Italiens. In tarda mattinata raggiungiamo la sommità del Dome du Gouter a 4306 mt. Il panorama è stupendo e vediamo le cordate che dalla Capanna Vallot risalgono la cresta del Monte Bianco. Cominciamo a scendere seguendo un tracciato ben evidente. Presto mi accorgo di non essere scesa sul versante giusto ma su quello del rifugio del Grand Mulets. Siamo scese troppo per risalire, dopo un attimo di sconforto decidiamo di proseguire. Il ghiacciaio è spaventoso talmente pieno di crepacci enormi che siamo costrette ad aggirare ed, a volte, a saltare. Finalmente vediamo il rifugio ma non riusciamo a salire perché si trova in cima ad un torrione roccioso e siamo troppo stanche per arrampicarci. Scendiamo allora attraverso un tratto difficile e privo di traccia dove, per fortuna, riesco a trovare l’unico passaggio in mezzo ai crepacci che ci porta sul sentiero immerso nella pineta. Proseguiamo per il sentiero: sta arrivando il buio ed abbiamo terminato l’acqua. Quando ormai non c’è più luce sbuchiamo all’uscita del tunnel 153
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del Monte Bianco. Qui chiediamo un passaggio in auto ad un francese che gentilmente, ci accompagna a Les Huches alla casa per ferie “Don Bosco” dove possiamo fare una doccia, cenare e riposarci. Il giorno dopo ci svegliamo in piena forma, felici e rientriamo in Italia con la funivia e gli ovetti attraverso la Valleé Blanche.” Due anni dopo, però, Maria e mamma Triestina riescono nell’impresa, senza avvalersi della guida, e solo grazie alla loro esperienza e preparazione: “Il tanto atteso mese di agosto è soArchivio CAI Valenza praggiunto all’insegna del maltempo. In programma c’è l’ascensione al Monte Bianco. Occorre ancora un po’ di allenamento, soprattutto per la mamma, sessantaquattrenne, non più in giovane età. Prendiamo la funivia da Les Houches alle 7,30 del mattino per Bellevue. Poi proseguiamo con il trenino a cremagliera fino a Nid D’Aigle. Zaino sulle spalle, si incomincia a salire verso il Rifugio del Gouter (mt. 3817) che raggiungiamo dopo 7 ore di dura salita su neve e roccia. Alle 2 la sveglia e alle tre di notte sotto le stelle ca31 luglio 2011: inaugurazione della palestra di rocdenti, muoviamo i primi cia dedicata a Davide Guerci a Courmayeur. passi sul ghiacciaio del Gouter. Sulla cresta dei Bosses il vento forte che solleva la neve e la quota rendono l’ascesa lenta e faticosa. Alle 10,10 siamo in vetta a 4810 metri. La gioia è davvero grande”. La famiglia Bajardi ha rappresentato un punto di riferimento per generazioni di alpinisti e di amanti della montagna. Insieme a tanti altri, anche qui citati, è stata una realtà attenta a trasmettere esperienze, ad 154
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incitare, a fungere da stimolo importante: se il CAI di Valenza è cresciuto e si è affermato, lo si deve anche alla loro presenza e al loro concreto impegno. Il CAI d’altra parte, nella nostra realtà locale costituisce da molti anni e in particolare dal 1974, quando la sezione di Valenza è diventata autonoma, un luogo di amicizia e collaborazione fra generazioni diverse, tutte mosse dall’amore per la montagna e per i valori della natura. Questo sentimento è ben rappresentato dalle parole dell’attuale presidente Fausto Capra:”La nostra sezione CAI rappresenta un fatto concreto, una realtà storica e la storia non è fatta soltanto di accadimenti ma è fatta dagli uomini. Tutti quelli appena ricordati hanno fatto la storia del nostro sodalizio, non per nulla la Sezione è stata dedicata a Davide Guerci, un giovane amante della montagna che proprio la montagna ha voluto rapirci precocemente. E’ attraverso questi uomini che il CAI di Valenza è diventato un “faro” culturale, umano, di pratica all’escursionismo, di conoscenza e rispetto dell’ambiente alpino ma anche del nostro territorio. E’ nostro dovere “passare il testimone” alle giovani generazioni, arricchendolo di quei sentimenti e di quei valori incorrotti che abbiamo ereditato”. Al termine di questa seconda parte mi auguro di essere riuscito con questo scritto a trasmettere ai lettori il significato di una passione, quella di tanti valenzani per la montagna, che non è solo cimento per intraprendere pur significative imprese che mettono alla prova chi le affronta, ma che si manifesta soprattutto come amore, legame e poesia per i luoghi e per la natura. Come ricerca individuale di uno spazio da condividere con altri compagni di avventura che diventa dimensione dello spirito ed avvicinamento al mistero ed al fascino della Creazione. Il silenzio, il raccoglimento, la fatica e lo stesso camminare ci propongono un’idea dell’alpinismo come elevazione della mente e dell’anima, non solo come raggiungimento di obiettivi fisici o materiali. Questo messaggio, in un modo bello e naturale, si è trasmesso fra le generazioni che, idealmente, si sono susseguite, prima educando ed insegnando poi cooperando ed accompagnando. Tutto è avvenuto e avviene in un luogo che, secondo me, sa ancora trasmettere valori ed emozioni vere in una società dispersiva e chiassosa che ha tanto bisogno di recuperare il senso profondo ed autentico di sé stessa.
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