n. 42 - settembre-dicembre 2013
Rivista quadrimestrale di Feniarco
Poste Italiane SpA – Spedizione in Abbonamento Postale – DL 353/2003 (conv. In L. 27/02/04 n. 46) art. 1, comma 1 NE/PN
Federazione Nazionale Italiana Associazioni Regionali Corali
ELENA CAMOLETTO
TRA ETICA ED ESTETICA REQUIEM DI VERDI INTRODUZIONE ALL’ASCOLTO CHORALDISC
DUM CLAMAREM
CORALITÀ NEL RITO MUSICA E LITURGIA
Editoriale Anno XIV n. 42 - settembre-dicembre 2013
Rivista quadrimestrale di Feniarco Federazione Nazionale Italiana Associazioni Regionali Corali
Presidente: Sante Fornasier Direttore responsabile: Sandro Bergamo Comitato di redazione: Efisio Blanc, Walter Marzilli, Giorgio Morandi, Puccio Pucci, Mauro Zuccante Segretario di redazione: Pier Filippo Rendina Hanno collaborato: Enzo Bianchi, Pierangelo Sequeri, Massimo Palombella, Vincenzo De Gregorio, Valentino Miserachs Grau, Pietro Numico, Piero Monti, Michele Lomuto, Ettore Galvani, Rossana Paliaga, Lucia Vinzi, Alessandro Drigo, Lorenzo Donati, Alvaro Vatri, Michele Manganelli, Gian Nicola Vessia, Marco Rossi, Sergio Bianchi, Maristella Dessì
Mentre chiudiamo questo numero di Choraliter (e anche mentre voi lo leggete, se Poste Italiane avrà compiuto in tempi ragionevoli il suo dovere) è in corso Nativitas: centinaia di concerti dei cori italiani di tre regioni, il Friuli Venezia Giulia, il Piemonte e il Lazio, sul tema del Natale. Nata alcuni anni fa nella prima delle tre regioni, l’iniziativa si è estesa quest’anno anche alle altre e contiamo che il benefico contagio si allarghi a tutta Italia. Nativitas mette in rete i concerti che nel periodo natalizio tanti cori usano offrire al loro pubblico: ne coordina la promozione, ne cura l’informazione sulla stampa, trasforma una serie di iniziative spontanee in un grande festival della coralità italiana, accresce la visibilità della nostra presenza. Facendo sistema si cresce, anche nel momento della crisi, e il nostro far coro si conferma ancora una volta esperienza di vita, dove ciò che matura nella musica fortifica persone e comunità, divenendo modello di ciò potrebbe svilupparsi in tutta la comunità civile, quando l’impegno di ciascuno diventasse “corale” con quello degli altri. Avremo a breve anche un’altra occasione, un giorno dedicato alla coralità: il 23 gennaio, trentesimo anniversario di fondazione di Feniarco. Tutti siamo invitati a ricordare questa giornata così importante per il nostro movimento donando un momento di musica. Ecco, donare potrebbe diventare la parola chiave del nostro modo di essere facendo nostri quei versi di Rodari (già ampiamente diffusi grazie a uno dei brani del primo volume di Giro giro canto) dicendo anche noi che all’avara formica preferiamo la cicala, «che il più bel canto non vende, regala». Sandro Bergamo direttore responsabile
Redazione: via Altan 83/4 33078 San Vito al Tagliamento Pn tel. 0434 876724 - fax 0434 877554 info@feniarco.it Progetto grafico e impaginazione: Interattiva, Spilimbergo Pn Stampa: Tipografia Menini, Spilimbergo Pn Associato all’Uspi Unione Stampa Periodica Italiana
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Feniarco liter a r o h C i d one e la redazi o a tutti auguran ovo u n o n n a un felice
n. 42 - settembre-dicembre 2013
Rivista quadrimestrale di Feniarco Federazione Nazionale Italiana Associazioni Regionali Corali
DOSSIER Coralità nel rito 2
LA BELLEZZA DELLA LITURGIA VIA A DIO Enzo Bianchi
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PORTRAIT
CORALITÀ NEL RITO, CORALITÀ DEL RITO Pierangelo Sequeri
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MUSICA, TRADIZIONE E RIFORMA LITURGICA Massimo Palombella
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49 RIGORE NORDICO
INTERVISTA A MARTINA BATIC˘
LE INDICAZIONI DELLA CHIESA POSTCONCILIARE IN MATERIA DI MUSICA SACRA
Rossana Paliaga
Walter Marzilli
23 UN FILO ROSSO LUNGO
MILLECINCQUECENTO ANNI
ATTIVITÀ DELL’ASSOCIAZIONE
Vincenzo De Gregorio
DOSSIER COMPOSITORE Elena Camoletto 25
TRA ETICA ED ESTETICA INTERVISTA A ELENA CAMOLETTO
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Lucia Vinzi
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TRE OMAGGI AI MAESTRI DEL RINASCIMENTO Pietro Numico
ACCADEMIA EUROPEA PER DIRETTORI DI CORO L’ESPERIENZA DI UN CORSISTA Alessandro Drigo
58 IL GRANDE POTENZIALE DI UN GIOVANE FESTIVAL
IL 4º FESTIVAL CORALE NAZIONALE DI SALERNO
Mauro Zuccante
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IN PRINCIPIO LA MOTIVAZIONE ALPE ADRIA CANTAT 2013
Rossana Paliaga
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INVENTARE FUTURO L’ASSEMBLEA FENIARCO AD ALGHERO Alvaro Vatri
64 PÉCS 2013-2015
DALL’ASSEMBLEA GENERALE ECA-EC AL XIX FESTIVAL EUROPA CANTAT
NOVA ET VETERA
Giorgio Morandi
34 LA MESSA DA REQUIEM DI GIUSEPPE VERDI
GENESI E INTRODUZIONE ALL’ASCOLTO
CRONACA
Piero Monti
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CHORALDISC 40 DUM CLAMAREM
Rossana Paliaga
INDICE
DOLORE E SPERANZA NEL CANTO GREGORIANO
Michele Lomuto
“QUATTRO VOLTE POLIFONICO” TRA SORPRESE E NOVITÀ
72 “CHORALIST” TRA TRADIZIONE… E RIVOLUZIONE! Rossana Paliaga
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IN MEMORIAM
RUBRICHE
CANTO POPOLARE
43 I CANTI DELLA RESISTENZA NELLA TRADIZIONE
POPOLARE PIEMONTESE
Ettore Galvani
78 Discografia 80 La vita cantata 82 Mondocoro
LA BELLEZZA DELLA LITURGIA VIA A DIO di Enzo Bianchi
La liturgia è bellezza? La bellezza della liturgia va definita e misurata sulla capacità che essa ha di far apparire l’azione del Signore, di fare spazio al Signore, di insegnare, di fare segno (semaínein) alla presenza efficace di Cristo. Se esiste un’estetica liturgica, questa si fonda su una cristologia dell’ars celebrandi che, attualizzando l’azione del Signore, si riveste di quella bellezza appartenente ontologicamente all’agere Dei! Una liturgia bella non può essere definita – come sovente si pensa – “una bella funzione”, ma deve essere compresa come liturgia munita di quella bellezza che fa apparire la grazia di Dio. Una liturgia munita di bellezza non va a cercare aggiunte, decorazioni, ornamenti, nel canto non ricerca virtuosismi e ostentazioni: essa si manifesta in tutto ciò che noi uomini, che la chiesa sa apprestare ed esprimere con arte attraverso gesti, parole e suoni umani, attraverso le creature. Si tratta di predisporre tutto ciò di cui il Signore ha bisogno per esprimersi; riprendendo il verbo che conclude il prologo del quarto vangelo, exeghésato, si tratta di saper narrare, di fare segno all’azione del Signore risorto presente nell’assemblea che celebra, nel presbitero che presiede la liturgia, nelle diverse azioni, nel canto e nella musica come nello spazio apprestato. Mi si permetta di insistere: la bellezza della liturgia è quella di azioni, di gesti, di suoni umanissimi, reali, strappati alla banalità, alla routine e resi eloquenti, carichi di significato; è la bellezza della materia chiamata, convocata a una trasfigurazione. In tutto questo, il canto partecipa alla voce cosmica della bellezza. La preghiera è anzitutto una lode, un canto che gli uomini elevano a Dio, come un respiro cosmico che pervade tutta la creazione e l’ammanta di bellezza. La liturgia ci chiede di cantare il Sanctus con questa consapevolezza, quando a conclusione del prefazio della preghiera eucaristica IV invita: «fatti voce di ogni creatura esultanti cantiamo…». I credenti non sono voce solo di se stessi e neppure dell’umanità intera ma sono «fatti voce di ogni creatura», cioè voce anche di ogni creatura animata e inanimata, sia essa animale, vegetale o minerale. «L’uomo loghikós – ha scritto Olivier Clément – è il re-sacerdote che raccoglie i lógoi delle cose per offrirli al Lógos e consentire in questo modo l’irradiamento della gloria» (O. Clément, Occhi di fuoco, Bose 1997, p. 44.). Ecco, la bellezza del canto liturgico va oltre la parola (lógos) cantata e attraverso l’armonia dei suoni
LA BELL PRIORE DI BOSE
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esprime i lógoi delle cose. Quando la preghiera è cantata essa è accresciuta di senso fino a raggiungere il suo compimento. Il canto liturgico, infatti, inizia al senso più di quanto non lo esponga. Quale bellezza nella liturgia? Quando si celebra e si vive una liturgia cristiana, occorre ricordare che in essa avviene innanzitutto una convocazione dell’assemblea (qahal, apparentato con il termine qol, voce), di tutto il popolo di Dio, ma anche delle creature che non sono il palco per un teatro, pur rappresentando un contesto dove tutti i convocati si esprimono in un registro. Dunque sono convocati anche la luce, l’acqua, il pane, il vino, l’olio, il fuoco, le creature tutte di cui i credenti devono consapevolmente farsi voce per cantare la santità del Signore vivente e presente. Nella liturgia descritta dall’Apocalisse tutto il cosmo, l’universo, rappresentato dai quattro esseri viventi, è convocato insieme alle creature invisibili e ai santi del cielo (cf. Ap 4,6.8; 5,6.8.14, ecc.). Dunque nella liturgia cristiana entra anche la materia, entrano le creature, entrano i frutti della terra e del lavoro, della cultura dell’uomo, e ciò che l’uomo con le sue mani sa fare: la chiesa edificio, l’altare, i canti, le musiche, le vesti, ecc. La liturgia dice: “Amen”, “Sì” alle cose, ai suoni, alle pietre, ai colori, ai profumi, i quali devono solo essere adeguati alla capacità sacramentale. Certo, l’uomo deve saperli far entrare nella liturgia, non rendendoli sacri, non benedicendoli come se fossero creature da esorcizzare, ma con un’operazione di discernimento sulla loro bellezza. Anche questo fa parte del predisporre tutto all’azione del Signore. A questo proposito servono vigilanza e discernimento: la banalità, la sciatteria, la mancanza di attenzione, di grammatica umana, di qualità, tutto questo minaccia l’azione liturgica quanto un’arte troppo segnata da improvvisazione e sperimentazione, una pretesa bellezza alla quale la liturgia serva come contesto in cui esprimersi. Le creature, le opere d’arte, in breve tutto ciò che è opus hominis deve entrare nella liturgia solo se ha le qualità per essere al suo servizio. Le opere d’arte devono essere in armonia con la fede, con la liturgia e con i bisogni dei fedeli, perché è necessario che i fedeli sappiano leggerle, comprenderle, apprezzarle, sentirle come mistagogiche per la loro partecipazione alla liturgia. Voglio concludere ricordando che la bellezza è escatologica, come l’amore, come la comunione. Nella nostra condizione di pellegrini verso il Regno – e anche la chiesa è in questa condizione, è in via – tendiamo a una pienezza che non ci è data. Nell’oggi, in via, la bellezza sta, come ricerca del reale, accanto alla verità, con la quale non può essere confusa e dalla quale non può essere separata. Bellezza e verità non stanno nell’oggettivazione delle idee – operazione questa sempre penultima – ma si pongono soprattutto come metodo, come ricerca di ciò che precede e che dunque può illuminare il nostro cammino: potremmo parlare di veritatis splendor, di veritatis pulchritudo. La lotta per la verità non può essere disgiunta dalla lotta per la bellezza, e la contemplazione dell’una fa apparire l’altra. Siano dunque per noi come una sorta di viatico alcune parole contenute nel libro del Siracide:
La lotta per la verità non può essere disgiunta dalla lotta per la bellezza.
LEZZA Facciamo l’elogio degli uomini nei quali il Signore ha profuso la sua gloria… homines… in virtute pulchritudinis studium habentes, uomini che hanno studiato, cercato la bellezza (Sir 44,1.6).
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CORALITÀ NEL RITO, CORALITÀ DEL RITO di Pierangelo Sequeri TEOLOGO E COMPOSITORE
L’iniziazione cristiana della musica occidentale L’originaria ospitalità cristiana del musicale anticipa con molti segni l’ingresso della cultura musicale nella sfera delle modalità creative dello spirito umano: a tutti gli effetti. La differenza biblico-cristiana è posta nel momento stesso in cui l’eco della musica originaria della creazione si compone con l’impulso di una spiritualità della parola incoraggiata a farsi essa stessa creativa nel modo della sensibilità, ossia della voce e del suono. Adesso è alla libertà dell’invenzione responsoriale, non più alla necessità della ripetizione immutabile, che il rapporto con l’origine è affidato. L’umano non è semplice replicante, riflesso inerte di Dio: è immagine e somiglianza in azione; interlocutore insomma, predisposto per l’interpretazione e l’invenzione. L’eco del gesto creatore, genera versioni personalizzate della dialettica dell’uno e dell’armonia dei molti. Per meno di questo non c’è storia dell’anima umana, e dunque non c’è storia della creazione di Dio, secondo la sua destinazione. Non potrebbe nascere neppure una storia della musica, all’altezza della sua origine sacra. Una simile storia non può raggiungere la sua altezza, d’altronde, nemmeno come pura storia di un’anima senza voce e senza mondo. Nella cultura cristiana sarà così reinterpretata e riassorbita l’antica pregiudiziale diffidenza dello spiritualismo colto nei confronti della pratica musicale. Il mutamento di segno sarà naturalmente propiziato dal formarsi dell’icona udibile e visibile di una pratica musicale integrata con un esercizio della preghiera e della lode in cui la felicità dello spirito si mostra persuasivamente conciliata con la sensibilità dell’espressione. Il canone liturgico e quello musicale, nel cristianesimo del primo millennio, rimangono sostanzialmente inseparabili, e in certo modo anche indistinguibili. Nell’incubazione di questo stretto legame, la musica prende confidenza con la sua reale possibilità di apprendere e assimilare ogni più piccola piega dello spirito che viene plasmato dalla parola, dal gesto e dalla rappresentazione della presenza divina nel mondo e nell’anima. È qui che impara l’arte di restituire l’evidenza simbolica delle forze spirituali che accompagnano l’umana esperienza del significato di parole, eventi, esperienze, immaginazioni, legami. Prendendo confidenza, prende anche consapevolezza dei suoi mezzi propri.
L’attuale fase di ripensamento è anche, inevitabilmente, una fase di stallo della cultura e della pratica musicale. Rifugiarsi in un passato presuntivamente ideale (non è la stessa cosa che frequentarlo intelligentemente), non è una soluzione. Cercare a tutti i costi un capro espiatorio (non è la stessa cosa che indagare seriamente le cause) è a un capello dalla demagogia sterile, che mortifica i più generosi e disponibili della nuova generazione. In ogni modo, sembra più saggio che ognuno si prenda la responsabilità del suo apporto. Il bene comune incomincia di qui. Per quanto riguarda la cura musicale della pratica religiosa cristiana (una cultura religiosa della musica, intelligente, propositiva, creativa, è certo anche molto altro), individuerei un sintomo e un simbolo, forse incoraggianti. Il sintomo sta nel fatto, indiscutibile, che la cultura musicale del ’900, comprese le forme più innovative e sperimentali della contemporaneità, mantiene un rapporto costante e pressoché universale con il tema e la parola religiosa (anche biblico-cristiana). In tale frequentazione, la musica dà sempre la sensazione di “tornare a casa”, ritrovando la felicità della propria importanza, la coscienza della propria capacità di interloquire col senso e non soltanto di arredare il sentimento. Riacclimatarsi, ecclesialmente e culturalmente, con la potenza musicale di questo “passaggio al sacro” significa incoraggiare l’ipotesi che la caduta del “muro del suono” fra religione e
La musica, prima e più ancora che arte dei suoni, è disciplina dell’ascolto. arte riapra la mente per un nuovo racconto dei legami fra i due mondi. Meno ideologico, più sapiente. Il simbolo, invece, lo andrei a cercare in quella coincidenza fra l’evento rituale della preghiera e la vocalità musicale dell’adorazione, che ha generato l’icona musicale della liturgia cristiana. Ogni volta che la cura comunitaria di quell’originale e indissolubile intreccio è stata seriamente ricostituita presso la coscienza cristiana, ne è scaturito anche un nuovo fervore creativo per il rapporto della musica con il dischiudersi di una nuova epoca. Un nuovo fervore della cura dell’essenziale, nella sua forma più semplice – ascolto e invocazione della Parola – genera vibrazioni benefiche, anche a distanze impensabili. L’intensità
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spirituale insostituibile del momento del silenzio e dell’ascolto, ha bisogno del servizio di una qualità fine della composizione e dell’esecuzione. E d’altro canto, la felicità virtuosistica della libertà creativa non ha bisogno di disprezzare la comunità per volare alto. La fede cristiana nella creazione toglie ogni spazio all’invidia degli dèi per la creatività degli umani. Di più, se ne ricolma di sincero compiacimento. La censura preventiva della musica alta, che argomenta sul filo pretestuoso (e impertinente) della democraticità della partecipazione liturgica, è il rovescio simmetrico dell’indiscriminata censura della coralità popolare, nel nome della (presunta) aristocrazia spirituale di una corporazione concertistica alla quale non importa nulla della religione.
L’invenzione personalista e comunitaria: polifonia Il lavoro di armonizzazione estetico-spirituale della celebrazione comunitaria cristiana – parola, gesto, rappresentazione – è un lavoro delicato. Chiede manualità fine e umiltà servizievole. Il superamento del ritualismo deve andare precisamente nella direzione di una più genuina fascinazione spirituale del rito comunitario, che introduce al mistero della presenza e dell’azione sacra. Diversamente, si riproducono soltanto pratiche supererogatorie dell’evasione e dell’aggregazione: le forze vitali del mistero, lungi dal liberarsi, si disperdono. Lo spirito è quello ancora di nuovo evocato in una recente catechesi di Giovanni Paolo II sulla necessità di «scoprire e vivere costantemente la bellezza della preghiera e della liturgia». Occorre purificare il culto da «sbavature di stile, da forme trasandate di espressione, da musiche e testi sciatti, e poco consoni alla grandezza dell’atto che si celebra»: non solo formule “teologicamente esatte”, ma anche un modo “bello e dignitoso”. Ne segue un invito per la comunità cristiana a un serio esame di coscienza, perché ritorni sempre più nella liturgia anche «la bellezza della musica e del canto».
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L’obiettivo essenziale, che forma il criterio regolativo dell’insieme della preghiera e della celebrazione, rimane pur sempre questo: «La musica più alta… è quella che sale dai nostri cuori. E proprio questa armonia Dio attende di ascoltare nelle nostre liturgie». La musica di un cuore sensibile allo Spirito, che concorre alla bellezza della preghiera comune che si rivolge a Dio, è il principio esteticoregolativo più alto e decisivo. Per la piccola pieve dai mezzi semplici e modesti, come per la grande cattedrale che può ispirare forme alte ed esemplari. C’è da sperare che, lungo questo solco, si possa incominciare con l’elevare anche il livello dei pensieri e delle pratiche che accompagnano l’attenzione per la musica di chiesa. Il canto cristiano fa lievitare affettivamente la spiritualità della parola: ogni invocazione, salmo, antifona, lettura incoraggia alla coltivazione collettiva di un’intima partecipazione al senso del suo testo, che rende assimilabile l’interiorità intelligibile della fede comune. I testi si arricchiscono di ribattiture mnemoniche, di variazioni ermeneutiche, di applicazioni spirituali (tropi, sequenze, narrazioni e rappresentazioni). La musica – se si vuole – è particolarmente abile nel comporre profili alti della sua invenzione e della sua esecuzione artistica, senza perdere il legame con una sfera condivisibile di atti vocali che riflettono l’eco di un’esperienza comune e ne rendono condivisibile la forza presso l’intera comunità. La profonda correlazione fra il registro della musica “di pensiero” (come amava dire il caro amico Mino Bordignon, un vero santo patrono dell’estetica della vocalità, la più alta e la più popolare) e quello della musica “di popolo” non si è mai perso nella tradizione cristiana. Non solo Ambrogio di Milano, con la sua prodigiosa invenzione corale, semplice ed elegante, suscettibile di mille arricchimenti (J.S. Bach è l’enciclopedia di questa fecondità, fino alle vette della raffinatezza e della spiritualità della musica). Nell’alto Medioevo, quando il canto ecclesiastico aveva già raggiunto un suo livello di specializzazione estetica e monastica, artisti di vaglia provvidero alla cura di testi in volgare e forme musicali integrative, per mantenere l’equilibrio complessivo
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delle pratiche liturgiche rivolte all’intera comunità. Esattamente lo stesso fenomeno potremmo osservare, se le storie ce lo raccontassero, lungo tutta la stagione posttridentina della riforma liturgica e pastorale: con le necessarie differenziazioni del livello rituale e l’impiego di tutti i mezzi forniti dalla nuova cultura musicale dell’epoca). Il resto è semplice a priori ideologico (non importa se nostalgico o modernistico, dell’arte colta o dell’arte pop) e ingenua idealità romantica dell’arte totale, che avvolge e risolve il rito sacro nello spettacolo dell’arte (e viceversa). La cultura cristiana, viva e vitale, dei legami spirituali fra musica e preghiera, religione e arte, ha una sua storia immensa. Un giorno dovrà pur essere conosciuta e assimilata.
La musicalità del rito sacro: un nuovo approccio
Dando per acquisiti questi punti, che sono del resto documentati da una storia musicale immensa, per quanto ormai ignorata, provo a indicare un punto di concentrazione del possibile avanzamento della coscienza e della pratica dell’integrazione rituale della musica. Si tratta di un aspetto che l’applicazione della riforma liturgica ha certamente trascurato, al di là di battaglie ideologiche senza cognizione e senza costrutto. Il tema è quello della qualità estetico-simbolica dell’intero atto rituale, ossia del contesto intrinsecamente musicale – che prende distanza dal rito esoterico come anche dall’happening comunitario – della celebrazione del mistero. Il punto potrebbe essere inquadrato da questo assunto programmatico di J.-Y. Hameline, uno dei maggiori esploratori del rapporto fra esperienza rituale della musica ed esperienza musicale del rito: «La nostra attuale convinzione ci porta a pensare che, nell’ambito della liturgia e del culto, non si possono separare, esteticamente e concettualmente, le azioni musicali (vocali e strumentali, corali e orchestrali) dall’insieme dell’ecologia sonora della celebrazione. Prima ancora di considerare il livello specificamente differenziato delle integrazioni operative e funzionali della musica, si tratta di considerare un’istanza più profonda, unitaria e in certo modo “fondativa”. La liturgia, nel suo svolgimento sintattico, nei suoi atti di parola e di non-parola, nelle sue dislocazioni spaziali e nelle sue azioni simboliche, nella diastole e nella sistole del suo fraseggio e
La censura della musica alta, sul filo pretestuoso della partecipazione liturgica, è il rovescio simmetrico della censura della coralità popolare, nel nome dell’aristocrazia spirituale di una corporazione concertistica alla quale non importa nulla della religione.
Di fatto, si possono ridurre a tre i motivi tradizionali che la riflessione assume come base della pertinenza teologica del musicale. Il primo si concentra sul motivo del servizio della parola sacra, per esaltare l’espressività della parola e a propiziarne l’affezione intelligente (la musica non è il suono, è l’intelligenza del suono). Il secondo, si ricollega alla risonanza dell’origine sacra che pervade in qualche modo la vita del mondo, intendendo la musica stessa come memoria e celebrazione dell’armonia dell’opera creatrice di Dio (“I cieli narrano la gloria di Dio”). Un terzo, dà importanza proprio alla insostituibile profondità spirituale dell’esperienza corale della musica (la nascita occidentale della polifonia, che celebra il valore aggiunto della composizione dell’uno e dei molti, è invenzione che riflette l’esperienza cristiana del rapporto fra persona e comunità).
della sua dinamica, può essere a buon diritto considerata come una “musica portante” dell’azione, in cui si intrecciano atti musicali specifici (come la parola e il silenzio). Se questo è vero, mi sembra superficiale farcire la celebrazione liturgica di atti musicali, perché ci sia comunque “un canto”, se il regime musicale dell’insieme è trascurato, difettoso, insignificante» (cfr. J-Y. Hameline, L’accordo rituale. Pratiche e poetiche della liturgia, Glossa, Milano 2011: un testo assolutamente fondamentale, quanto trascurato, per gli stessi “specialisti” della musica sacra).
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in quanto tale. Ma un tale accordo, anche nei suoi livelli più elementari e nelle sue modalità più semplici, deve essere oggetto di cura affettuosa e competente. La coralità della musica sacra mette “in canto” il simbolo risonante dell’assemblea: distribuendosi in momenti di vocalità collettiva, che unifica e coinvolge pulsionalmente la responsorialità di tutti e di ciascuno; e in momenti di vocalità ministeriale, che consente l’ascolto e l’interiorizzazione collettiva dell’evento celebrativo (parole, gesti, rappresentazione). L’armonia dei due momenti restituisce l’intero della qualità spirituale della partecipazione, la rimozione di uno dei due li corrompe entrambi.
Sensibilità musicale e trasformazioni dell’anima
Per lo sviluppo del ruolo integrante della musica nel rito cristiano, è in effetti vitale l’approfondimento del tema – ancora poco frequentato – della intrinseca musicalità del rito stesso. Da questa consapevolezza deve venire un maggiore impegno per una cura pastorale dello stile della celebrazione (ars celebrandi) che si lascia ispirare dai valori tipici del musicale nella dinamica complessiva del rapporto fra parola, gesto e rappresentazione, spazio e tempo. Sarebbe qui da riprendere, con fecondo significato innovativo, la lezione antica secondo la quale la musica, prima e più ancora che arte dei suoni (della loro composizione e della loro esecuzione), è disciplina dell’ascolto, sapienza dei ritmi vitali, cura della forma-parola, meditata suggestione che deriva dall’esplorazione dei sottili e profondi vincoli che intercorrono fra le sequenze temporali e le proporzioni spaziali dei movimenti e dei gesti, nonché fra il regolato flusso dell’interiorità riflessiva e le emozionanti trasgressioni del pathos vissuto. Scienza delle risonanze dell’anima insomma, prima che tecnica dei corpi vibranti. È a questo registro musicale del vissuto, del resto, che la pratica musicale si ispira e si rivolge. La ritualità della musica sacra non è che il modo di mettere in evidenza e di dare forza a questa sua intima natura. Esiste insomma la questione di una “estetica spirituale” della celebrazione e della preghiera, ben più fondamentale e disattesa, rispetto alla quale la questione degli interventi musicali è variabile largamente dipendente. Il giudizio vale sul piano della realizzazione (scelte, esecuzioni, modalità di impiego), ma anche sul piano dell’invenzione e della composizione. Se non esistesse una qualità musicale dell’anima, l’elaborazione musicale del suono non avrebbe l’energia e il pathos che invece possiede. Di qui si apre la possibilità di una regolata sinergia fra il rituale e il musicale in grado di rinforzare e di esaltare la densità simbolica della celebrazione
Facciamo qualche semplice esempio. Non succede nulla di apparentemente irreparabile se un canto dal ritmo totalmente inadatto accompagna la processione dei fedeli che si reca all’altare per l’offerta o per la comunione. Ma la lacerazione della densità simbolica, del legame fra l’avvicinarsi all’altare e l’avvicinarsi al Signore, scritta nei corpi, ne viene stravolta: fino a essere rimossa dall’anima, per non essere mai più ripresa. Rimarrà per sempre uno spostamento funzionale, del quale i suoni coprono la confusione dispersiva e il vuoto simbolico. Con effetti simbolici di lunga durata, destinati a ricadere anche sulle altre parti della celebrazione. Nessun canto sarà in grado di riscattare il disincanto e lo sciupio di senso che in tal modo si producono. Anzi, si imparerà a consumare il canto stesso come un riempitivo di circostanza: che forse “parla” della comunione, ma non ne “accompagna” la musica. Un altro esempio. La combinazione delle preghiere dell’offerta e della raccolta delle elemosine, può far perdere il senso di entrambe, se un canto adatto all’offerta non precede,
L’umano non è semplice replicante, riflesso inerte di Dio: è immagine e somiglianza in azione. o una musica adatta non chiude nel silenzio raccolto, il trambusto dei contenitori che agita l’assemblea. Dove l’abitudine alla volgarità di una pura economia funzionale del tempo e dei segni ha privato questo momento di una qualsiasi importanza simbolica, lasciandogli al più quella didascalica, che senso ha fare questione di quale canto è più adatto? Più in generale, chi può sperare che una lettura non musicale, dall’intonazione stentata o come fosse una lettura privata, della parola biblica possa essere corretta dal canto che precede o che segue? E viceversa, chi può seriamente
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pensare che la prepotenza di una voce solista che sovrasta possa incoraggiare la tensione e la risonanza di un’assemblea musicalmente lasciata al suo destino? La maggior parte di queste devastazioni si depositano nell’inconscio, naturalmente: e quindi appaiono evidenti solo per chi vuole avere occhi per guardarle (e orecchie per ascoltarle!). Ma i loro esiti appaiono poi nelle molte forme di mancanza di incanto – se non di vera e propria dissonanza – che spengono l’abitudine alla tensione e all’intensità della liturgia. Per rimediare a questo spegnimento non servono espedienti di estrosa animazione o forme di eccitazione musicale collettiva. Esse, al contrario, chiudono semplicemente il tempo e lo spazio dell’autentica alleanza fra la liturgia, la musica e la musicalità del rito sacro. Una celebrazione priva di ritmo, di melos, di affetti vitali, di tensione spirituale, ha in se stessa una musica scadente. Nessun canto antico o moderno, nessuna melodia o armonia vocale e strumentale, gliela restituiranno. Noi discutiamo, non senza eccessi di inopportuna sofisticazione, sulla doverosa qualità estetica degli interventi canori e strumentali (dico “interventi” perché semplicemente tali sono, purtroppo, nella stragrande maggioranza dei casi, cioè essenzialmente “toppe”, seppure eventualmente di stoffa pregiata) a proposito di una liturgia troppo spesso totalmente priva di incanto. Ossessionata da preoccupazioni didattiche e parenetiche, tiranneggiata dagli orari del servizio pubblico e afflitta dall’inerzia del dovere da compiere: dove troppo spesso atti di parola, gesti, silenzi, ritmi e forme della voce, tempi dello spirito e cadenze del suono, più che “accadere” “cadono” dentro il contenitorechiesa senza mostrare passo per passo il loro ritmo interiore e la tensione spirituale corrispondente. In un grembo musicale adatto, molti “ospiti” possono essere, se non educati, indotti ad assimilare il clima spirituale e la profondità teologale della partecipazione richiesta dalla preghiera e dal sacramento. Chi può sottovalutare, per fare un solo allusivo esempio finale, l’intensità con la quale si imprimerebbe l’immagine cristiana del legame fra l’uomo e la donna esplorato mediante la parola, se il corso per i fidanzati fosse concluso da una lectio musicalis del Cantico del Cantici elaborata nella forma elegante, semplice e intensa, di una suggestiva Cantata o di un breve Oratorio con il coro e magari l’orchestra? E se poi un motivo, o un corale, fossero adattati e ritrovati nella celebrazione liturgica del proprio matrimonio? Musica e teologia, musica e liturgia, è anche tutto questo. Chi si sente di decidere che si tratta di un argomento teoricamente marginale o di un lusso pastoralmente improponibile? E chi potrà ancora ingenuamente ridurlo alla semplice questione di
decidere “che cosa dobbiamo cantare oggi nella messa?”. La restituzione dell’estetica (musicale) della fede alla lieta consuetudine della sua pratica corrente è un obiettivo culturalmente ed ecclesialmente difficile. Ma ci si può sperare, se l’argomento sarà proposto alla generazione che ora si affaccia al ministero della Chiesa con la persuasione e l’ampiezza che esso realmente merita. La musica è molto più che una tecnica delle emozioni, è una competenza che riguarda il modo in cui un corpo sensibile alle vibrazioni va a toccare gli affetti dell’anima e le risonanze della Parola. E la
Il superamento del ritualismo deve andare precisamente nella direzione di una più genuina fascinazione spirituale del rito comunitario. celebrazione è molto più che un’espressione della fede: è l’atto del suo esercizio riconoscente, che attinge ai punti di unione dell’anima e del corpo – il midollo del nostro essere vivente – esponendoci interamente all’incanto dell’azione di Dio in noi. Perché qualcosa della vibrazione di Lui ci tocchi e ci trasformi, nella parte più sensibile della nostra anima.
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MUSICA, TRADIZIONE E RIFORMA LITURGICA di Massimo Palombella DIRETTORE DELLA CAPPELLA MUSICALE PONTIFICIA
Il lavoro svolto finora in Italia per la realizzazione degli indirizzi indicati dal Concilio Vaticano II in merito alla musica liturgica è stato interessante e anche coraggioso. Ha prodotto numerosi testi e tanta nuova musica. Ha dato vita a molte sperimentazioni e stimolato una buona professionalità congiunta con autentica fede. Non mancano i limiti, insiti nel lavoro stesso di sperimentazione, limiti che diviene importante saper riconoscere e analizzare con intelligenza per evidenziare eventuali influssi ideologici che hanno condotto a determinate scelte e per lasciarsi nuovamente sfidare. In Italia si è accolto e tradotto molta produzione straniera, di diverso valore, e si sono creati canti passe-partout nella viva preoccupazione di far partecipare il popolo di Dio. Sembra normale che in questo sforzo l’attenzione si sia concentrata, talvolta in modo marcato, su alcuni pur importanti particolari. Anche questo fa parte di ogni sano ed entusiasta processo di sperimentazione. Oggi ci troviamo nella felice condizione di poter riflettere, con un certo distacco e con libertà di spirito, su tutto ciò per “armonizzarlo”, sfuggendo alla tentazione di enfatizzare indebitamente determinati aspetti a scapito di altri. Ad esempio, la “partecipazione attiva” dei christifideles laici alla liturgia, se collocata all’interno di una corretta comprensione ecclesiale, non può essere concepita nel senso di
“fare” a ogni costo qualcosa, di cantare comunque tutto, quasi nel senso di un’accezione “sociologica” del partecipare. Anche nello specifico della musica liturgica, dall’appena citato dato ecclesiologico deriva immediatamente la questione testuale e musicale del repertorio canoro del popolo di Dio e il rapporto di questo repertorio con le fonti musicali della Chiesa in ordine alla loro attuale normatività.
MUSICA Actuosa participatio: dalla teologia alla pratica liturgica
Actuosa participatio1 è un’espressione che immediatamente rimanda a un contesto liturgico e sembra essere il “ritornello responsoriale” di una certa pastorale del post-concilio Vaticano II. In forza del giusto “calare la liturgia nella vita” e del renderla accessibile al popolo, si è arrivati implicitamente – disattendendo le preziose linee tracciate dalla Mediator Dei – a far coincidere la partecipazione attiva con quella esterna, con il conseguente appiattimento che proviene dall’imporre lo stesso ritmo di partecipazione “esterna” e le stesse coloriture senza tener presente né la pulsazione liturgica (tempi liturgici, circostanze tipiche, gruppi di fedeli, ecc.), né l’importanza della celebrazione. La liturgia, che è il cuore della Chiesa, nel suo plesso cristallizza storicamente il vivere e il
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credere della Chiesa stessa. Il ritrovare allora in un contesto liturgico l’espressione actuosa participatio significa che questa presuppone un lungo cammino di comprensione ecclesiale. Sulla base di un’attenta analisi storica si può evincere che l’aggettivo actuosa si pone come la connotazione cattolica della partecipatio.2 Partendo infatti da una prospettiva cristocentrica ricuperata dalla teologia contemporanea – dove per definire il modello antropologico cristiano si usa l’espressione “esistenziale cristico”3 – il soprannaturale si definisce non rispetto alla natura ma in relazione a Gesù Cristo. Perciò, mentre il soprannaturale era definito dalla teologia post-tridentina come un elemento affiancato a un altro, nell’attuale prospettiva viene inteso come un tutto che include due dati: l’essere creaturale e l’essere cristico e dove la soppressione del cristico causa l’immediata caduta del creaturale.4 Il rapporto tra la realtà actuosa participatio e la liturgia compromette l’uomo nella sua totalità e cioè la sua ontologia e l’esercizio della sua libertà. Nell’enciclica Mediator Dei Pio XII definisce che la partecipazione esterna congiuntamente a quella interna (cioè la capacità, congiunta all’intenzione, di associare la propria esistenza a quella di Cristo) costituisce, liturgicamente parlando, la “partecipazione attiva” che diviene “perfetta” quando è concomitante alla partecipazione sacramentale.5 Alla partecipazione esterna, si ha diritto e dovere in forza del proprio sacerdozio. Il diritto indica una realtà che appartiene e che non può essere negata, mentre il dovere manifesta l’accezione morale del diritto per cui l’esercizio concreto della partecipazione esterna dovrebbe porsi – all’interno delle reali possibilità del soggetto – come il segno visibile della partecipazione interna. In sostanza, in quanto diritto, la
partecipazione esterna dovrebbe condurre a quella interna e perfetta, in quanto dovere, avrebbe il compito di essere di questa il segno storico. L’actuosa participatio si pone allora come un fatto ontologico che per manifestarsi nell’azione liturgica necessità di due atti autodeteminativi: la partecipazione esterna e interna, e cioè la volontà di esserci congiunta a quella di interagire vitalmente con il Mistero celebrato. Ontologia e libertà entrano dunque nella celebrazione liturgica in feconda sinergia. Il punto di incontro tra la cultura di un popolo (la lex vivendi) e la liturgia (la lex orandi) si pone nel contenuto della partecipazione esterna, la quale “filtra” ciò che della cultura di un popolo diviene patrimonio dell’azione liturgica e può quindi godere dell’appellativo di “sacro” conducendo con la sua bellezza e nobiltà alla partecipazione interna, e realizzando così quella attiva (ed eventualmente quella perfetta). I criteri usati dalla lex orandi per recepire, attraverso il contenuto della partecipazione esterna, i dati della lex vivendi ci sembrano essere il sensus Ecclesiae, la tradizione e la fedeltà alla storia. Infatti il contenuto della partecipazione esterna sarà in grado di essere patrimonio ecclesiale solo se informato di quella ecclesialità che con il suo respiro cattolico lo obbliga a essere vera arte, della tradizione quale locus dove impastarsi di “sacro” (è solo nella armonica collocazione all’interno della tradizione che l’arte è atta a godere dell’appellativo di “sacra”) e di quel continuo e retto rinnovamento che gli permette di essere manifestazione del dialogo tra fede e cultura.6 Solo la fedeltà a queste tre dimensioni permetterà alla partecipazione esterna di condurre a quella interna, realizzando così l’actuosa participatio del popolo di Dio alla liturgia. Sensus Ecclesiae, tradizione e fedeltà alla storia, sono realtà che agiscono dinamicamente mosse dal sensus fidelium del popolo di Dio: in poche parole, la lex orandi rigetta, con il tempo, ciò che non conduce alla partecipazione interna e
Il punto di incontro tra la lex vivendi e la lex orandi si pone nel contenuto della partecipazione esterna. dunque non realizza quella attiva, o meglio, ciò che non è ontologicamente “connaturale” all’uomo. La lex vivendi è il “motore” che muove le altre due leges. Infatti la vitalità creatrice del popolo di Dio, l’esigenza vissuta di una partecipazione concreta alla vita ecclesiale entra, attraverso la partecipazione esterna, nella lex orandi e “spinge” su questa quasi obbligandola a farsi presente in modo vivo e vitale. Ma la lex orandi è ciò che permette alla lex credendi di divenire vivo patrimonio ecclesiale in quanto solo quando la fede arriva a essere celebrata raggiunge il
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Note
popolo. Ciò significa che lo studio e l’impegno circa la lex orandi tocca inevitabilmente la lex credendi obbligandola ad approfondire le istanze e le esigenze concrete di una liturgia che vuole sempre più farsi cibo per il popolo. Comprendiamo quindi che, di fatto, ciò che muove la lex credendi, è – attraverso la lex orandi – la lex vivendi. Quindi vitalità della lex vivendi vorrà dire, in futuro, profondità e progresso della lex credendi e, viceversa, povertà della lex vivendi, significherà “sterilità” della lex credendi.7 La purificazione e il retto orientamento della lex vivendi avviene grazie alla lex orandi attraverso la quale il popolo si nutre nella sua ordinarietà. Per cui di fronte a un popolo povero culturalmente, ciò che lentamente sanerà la lex vivendi sarà appunto l’ordinaria lex orandi che sarà in grado di incidere sulla “povera” lex vivendi perché si avvarrà del patrimonio accumulato e depositato nello scorrere della storia in quel vivo deposito che si chiama tradizione, patrimonio che appartiene alla cattolicità della Chiesa. La prima inculturazione di quella povera lex vivendi si chiamerà allora “promozione culturale” che avverrà nell’entrare in contatto e assimilare il patrimonio ecclesiale e dunque il diventare un po’ ebrei, un po’ greci, un po’ latini… Insomma assumere il meglio di tutte quelle culture nel quale il cristianesimo è fiorito. Questo è essenzialmente il vero processo di inculturazione che è sempre e innanzitutto promozione culturale. Custodire e perfezionare la liturgia è dunque agire nel cuore della Chiesa che trova nella lex orandi il locus dove ricomprendersi e rinnovarsi nella fedeltà all’essere sacramento universale di salvezza.8 Ed è proprio nella Ecclesia, una, santa, cattolica ed apostolica, che ogni uomo può realizzare esplicitamente il suo nativo dato esistenziale esercitando, in forza di una connaturalità ontologica, l’actuosa participatio a quella grande azione liturgica che è la storia la quale, diventando salvifica, anticipa e ci conduce nell’eternità.
Il canto gregoriano e la sua normatività Analizzando gli interventi della Chiesa circa la musica emerge costantemente il correggere gli abusi con la precisa indicazione della centralità e priorità del testo liturgico.9 I frutti artistici di questa indicazione li troviamo nella “polifonia classica” additata esplicitamente come modello,
1. Circa l’origine dell’espressione liturgica Actuosa participatio, cfr. M. PALOMBELLA, Actuosa participatio. Indagine circa la sua comprensione ecclesiale. Apporto al chiarimento dell’interazione tra lex credendi, lex orandi e lex vivendi nei secoli XVI-XVIII = Biblioteca di scienze religiose 179 (Roma 2002), 11-14. 2. Cfr. M. PALOMBELLA, Actuosa participatio. Indagine circa la sua comprensione ecclesiale. Apporto al chiarimento dell’interazione tra lex credendi, lex orandi e lex vivendi nei secoli XVI-XVIII = Biblioteca di scienze religiose 179 (LAS, Roma 2002), 43-139. 3. Rahner parla di «esistenziale soprannaturale» come di una realtà appartenente alla struttura dell’essere umano come esistente, e aggiunge «soprannaturale» per dire che in astratto è possibile essere uomini anche senza essere per il Cristo (K. RAHNER, Corso fondamentale sulla fede. Introduzione al concetto di cristianesimo [Roma, 31978], 174-177). 4. Vanno dunque escluse tanto una concezione estrinsecista del soprannaturale quanto un’idea autonoma della natura: sul piano ontologico e dell’essere concreto dell’uomo non si verificano dualismi ma soltanto distinzioni («La teologia oggi prende di nuovo sul serio il fatto che tutto viene creato in Cristo e per lui, e che l’universo possiede un orientamento interiore, un desiderium naturale verso Cristo, una potentia oboedientialis che significa soltanto, in forma negativa, non contraddittorietà alla grazia, ma ulteriore finalizzazione» (K ASPER W., Fede e storia [Brescia, 1975], 88)). L’essere cristico non coincide con quello creaturale ma lo include come un proprio elemento essenziale e dunque lo deborda. Conseguentemente vivere in modo autentico la propria umanità è continuamente l’andare oltre la propria comprensione del reale entrando esistenzialmente nell’appello di Dio rivolto ad Abramo: «Esci dalla tua terra» (Gn 12,1). Scrive un contemporaneo eremita francese: «Bisognerebbe arrivare a capire ciò che la nostra vocazione di figli di Dio ha di terribile: noi siamo chiamati a una felicità che è al di sopra della nostra natura» (S. BONNET - B. GOULEY, Les ermites [Paris, 1980], 146). 5. Cfr. PIO XII, Mediator Dei, in AAS 39 (1947), 552-564. 6. Ciò per non cadere nella tentazione di fare del continuo archeologismo, credendo che esista una “purezza”, una “inegualiabilità” solo in alcune forme tipiche di precisi momenti storici in quanto, l’assolutizzazione di queste, come la negazione radicale di quanto ci ha preceduto, sottende in fondo una concezione della storia che pone le sue radici nel pensiero di Hegel (cfr. J. MARITAIN, Per una filosofia della storia [Brescia, 1979], 24-36). 7. Cfr. M. PALOMBELLA, Actuosa participatio. Indagine circa la sua comprensione ecclesiale. Apporto al chiarimento dell’interazione tra lex credendi, lex orandi e lex vivendi nei secoli XVI-XVIII = Biblioteca di scienze religiose 179 (Roma 2002), 170-171. 8. Cfr. A.M. TRIACCA, La perennità dell’assioma: «Ecclesia facit Liturgiam et liturgiam facit Ecclesiam». Osmosi tra pensiero dei Padri e preghiera liturgica, in S. FELICI (ed.), Ecclesiologia e catechesi patristica. «Sentirsi Chiesa» = Biblioteca di Scienze religiose 46 (Roma, 1982), 255-294. 9. Per una visione panoramica circa la situazione musicale in relazione alla liturgia prima del Concilio di Trento e degli interventi nello stesso Concilio cfr. F. RAINOLDI, Traditio Canendi. Appunti per una storia dei riti cristiani cantati = A. PISTOIA - A.M. TRIACCA (edd.) Biblioteca Ephemerides Liturgicae Subsidia 106 (CLV - Edizioni Liturgiche, Roma 2000), 329-363; A.P. ERNETTI, Storia del Canto Gregoriano (s.e., s.l., 31990), 174-223. Cfr. anche la travagliata edizione Medicea: Graduale de Tempore iuxta Ritum Sacrosanctae Romanae Ecclesiae. Editio Princes (1614) = M. SODI - A.M. TRIACCA (edd.) Monumenta Studia Instrumenta Liturgica 10 (Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2001) (cfr. l’interessante introduzione di Baroffio, pp. XI-XXXI); Graduale de Sanctis iuxta Ritum Sacrosanctae Romanae Ecclesiae. Editio Princes (16141615) = M. SODI - A.M. TRIACCA (edd.) Monumenta Studia Instrumenta Liturgica 11 (Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2001). 10. PIO X, Tra le sollecitudini, in ASS 36 (1904), 329-339.
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insieme al canto gregoriano, nel 1903 da Pio X nel motu proprio “Tra le sollecitudini”.10 Anche la riforma liturgica del Concilio Vaticano II musicalmente parlando si pone nel solco tracciato dalla tradizione e riteniamo fondamentale per una retta comprensione del segno “suono” all’interno dell’azione liturgica, domandarci il perché di questa costante. La storia del “canto sacro” è storia di testi che si fanno suono, testi sonori che, prima di ogni altra cosa, sono “Parola celebrata”, atto liturgico. Si potrebbe addirittura affermare che la “qualità liturgica” di un testo dipende in gran parte dalla sua forma sonora. La Chiesa, interpellata da questo dato, ha saputo offrire nella sua storia risposte capaci di porre in singolare relazione i testi e la loro componente sonora.11 Le varie tradizioni liturgico-musicali dei primi secoli, confluite in epoca carolingia nel comune repertorio detto poi “gregoriano”, evidenziano in modo chiaro un punto fermo: il suono trova piena dignità nel farsi “veicolo di significato” del testo. Cantare un testo liturgico significa, prima di ogni altra cosa, presentarne un’esegesi. La pronuncia sonora del testo liturgico si presenta come l’occasione, colta dalla Chiesa orante, non tanto per fare della “buona musica”, ma essenzialmente per “spiegare le Scritture” e a esse dar risposta. La Parola può risuonare se viene radicata nel significato che la tradizione esegetica in ambito ecclesiale le ha conferito.12 Infatti, dal momento in cui un testo risuona nel contesto liturgico è immediatamente sottoposto a una operazione stilistico-formale che costituisce un’esegesi dello stesso testo. La costante emergente dagli interventi magisteriali circa la musica ci pare essere, forse in modo non pienamente tematizzato, proprio in relazione a questo processo. Questo “segmento nobile” della tradizione musicale, con tutti i suoi limiti storico-culturali (esattamente come la Parola di Dio), nella sua accezione formale contiene una normatività che è, prima di ogni altra cosa, “teologica”.13 Attraverso le successive “tropature” di natura storicoculturale e gli oculati interventi ecclesiali si è giunti alla maturità della polifonia rinascimentale dove, una volta di più, la forma musicale è in grado di far risuonare il testo liturgico che è inserito ancora in una collocazione centrale, testo sottoposto nuovamente a una operazione stilistico formale che riconosce la sua origine nel canto gregoriano. Il Magistero ha allora implicitamente tutelato il fatto che si dia un professare la nostra fede non solo con un testo ma anche con ciò che è il “farsi suono” del medesimo testo, istanza che tra l’altro ricupera una visione unitaria della realtà dove l’arte, il “bello” non si aggiunge all’esistere (come se ne fosse un ornamento) ma è costitutivo dello stesso esistere. E se siamo onesti e conseguenti non dovrebbe darsi liturgia senza musica esattamente come l’evento Rivelazione non si è esaurito con il solo parlare.
Questo implicito “sentire teologico” si è espresso nel corso della storia con interventi disciplinari, con il costante richiamo a un ritorno alle fonti, alla “purezza del canto gregoriano” nella consapevolezza di una normatività contenuta dallo stesso canto gregoriano, normatività non in ordine a una accezione meramente “formale”, ma allo specifico mandato della Chiesa che, attraverso la tradizione, spiega e attualizza la rivelazione.
Il Concilio Vaticano II e la musica: dalle contestazioni alle prospettive La vicenda della musica sacra all’interno della riforma liturgica del Concilio Vaticano II fu – e ancora in parte è – complessa e travagliata, vicenda nella quale si possono constatare piccolezze e meschinità frutto di comprensioni piccole e settoriali, incapaci di cogliere l’ampiezza dell’arcata di pensiero sottesa dalla riforma liturgica del Concilio Vaticano II. Ancora oggi il mondo musicale “colto” continua – spesso in forma implicita – a definire Paolo VI come il responsabile del disastro culturale circa la musica che si è attuato con il Concilio Vaticano II, papa nemico della polifonia, del canto gregoriano, l’avversario del latino e colui che permise la
In Italia si è accolto e tradotto molta produzione straniera, di diverso valore.
tragica esclusione di questa “nobile” e “sacra” lingua dal culto divino, tradendo l’antichissima tradizione della Chiesa. Paolo VI è così il “demonio”, il nuovo Lutero, l’“eretico”, il “populista”, la causa prima e principale dello sbandamento della Chiesa nella cultura moderna.14 Contemporaneamente un altro schieramento non mancava di accusare Montini di poco coraggio nell’attuare radicali e decise riforme che finalmente disancorassero la Chiesa da stilemi appartenenti a un altro tempo. Bisognava porre fine in materia musicale alla schiavitù del motu proprio di Pio X Tra le sollecitudini (1903) che bloccava le espressioni musicali nel contesto liturgico al solo canto gregoriano e alla sola polifonia a cappella del XVI secolo. Queste due fazioni in continuo contrasto e con posizioni sempre più divergenti e arroccate – situazione per alcuni versi ancora oggi presente e sterilmente fomentata da alcuni degli stessi protagonisti di quel tempo – trovavano in Paolo VI il “capro espiatorio”, colui il quale rovinosamente lasciava cadere ogni tradizione di cultura, e insieme non concedeva quelle giuste aperture che avrebbero reso la Chiesa capace di reale e fecondo dialogo con la modernità.15
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Papa Paolo VI si trovò in un cruciale momento nel quale bisognava raccogliere ed essere attenti alle voci che provenivano da un lungo cammino storico, voci che il Concilio Vaticano II e la conseguente riforma liturgica avrebbe potuto disattendere, deviare, o addirittura candidamente ignorare. L’introduzione della lingua viva nella celebrazione liturgica non fu una questione che spuntò come un “fungo” nel Concilio Vaticano II, ma affondava le sue radici dall’inizio stesso del celebrare ed era una richiesta costante da parte dei pastori per il bene del popolo di Dio.16 Vicende estranee allo stretto celebrare e alla pastorale connessa con questo imposero alla Chiesa nel Concilio di Trento il ribadire l’uso della lingua latina, che non impedì però di affermare il contenuto didattico della liturgia e prescrivere di renderlo noto ai fedeli con dovuti mezzi.17 Attraverso lo storico Movimento Liturgico si operava lentamente un processo di integrazione dove, dalla descrizione della liturgia come l’insieme delle leggi canoniche che regolano il culto, si passò a definire la liturgia come il culto pubblico e ufficiale della Chiesa, includente sia gli elementi di istituzione divina sia quelli di istituzione ecclesiastica, precisando che la liturgia in quanto culto reso a Dio, è il culto di
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11. Cfr. M. PALOMBELLA - F. RAMPI, Nova et vetera, in Armonia di Voci 59/3 (2004), 93-94. 12. Cfr. M. PALOMBELLA, Guardando il futuro, in Armonia di Voci 60/4 (2005), 137. 13. Ad esempio, si consideri l’antifona di ingresso della messa In Cena Domini («Nos autem gloriari oportet in cruce Domini nostri Iesu Christi, in quo est salus, vita et resurrectio nostra, per quem salvati et liberati sumus») e quella della messa della Domenica di Pasqua («Resurrexi, et adhuc tecum sum: posuisti super me manum tuam: mirabilis facta est scientia tua, alleluia»): entrambe sono in IV modo per indicare delicatamente quella assoluta continuità esistente tra la passione, la morte e la risurrezione di Cristo (d’altra parte, la stessa iconografia rappresenta il Signore risorto con i segni della passione). È ancora interessante notare circa la messa dei Defunti che l’Introito (Requiem aeternam dona eis, Domine, et lux perpetua luceat eis) è in VI modo, quel modo che rappresenta in un certo senso il “riposo della modalità”, quel modo sul quale si “appoggia” il tempo Pasquale (cfr. ad esempio l’Antifona di Comunione «Pascha nostrum immolatus est Christus, alleluia, itaque epulemur in azymis sinceratati et veritatis»). E sembra interessante ancora rilevare che il Graduale della Messa dei defunti («Requiem aeternam…») è in II modo, lo stesso del Graduale della Messa della notte di Natale («Tecum principium…») e lo stesso del Graduale della Messa del giorno di Pasqua («Haec dies…») quasi a indicare che l’evento della morte è la normale conclusione di un itinerario cristologico, conclusione avvolta di luce e non di tenebre. 14. È curioso a questo proposito leggere “tra le righe” ASSOCIAZIONE NAZIONALE DI SANTA CECILIA - PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA CULTURA (edd.), La musica sacra nelle Chiese Crisiane. Atti del Convegno internazionale di studi. Roma, 25-27 gennaio 2001 (Bologna 2002), ma ancora più interessante sarebbe il poter riascoltare gli interventi “liberi” fatti nell’aula del Convegno (Aula Nuova del Sinodo, Città del Vaticano). 15. Per esempi di contestazione della Riforma Liturgica cfr. A. BUGNINI, La Riforma Liturgica (1948-1975) (Roma 1997), 72-73; 278-301. Per le difficoltà circa la musica cfr. A. BUGNINI, La Riforma Liturgica (1948-1975) (Roma 1997), 36-37; 853-864. 16. Per una panoramica circa la lingua volgare nell’azione liturgica cfr. E. CATTANEO, Il culto cristiano in occidente. Note storiche (Roma 1992), 160; 171; 191; 207; 282-284. 17. «Etsii missa magnam contineat populi fidelis eruditionem, non tamen expedire visum est patribus, ut vulgari passim lingua celebraretur. Quamobrem, retento ubique cuiusque ecclesiae antiquo at a sancta Romana ecclesia, omnium ecclesiarum matre et magistra, probato ritu, ne oves Christi esuriant, neve parvuli panem petant et non sit, qui frangat eis: mandat sancta synodus pastoribus st singulis curam animarum gerentibus, ut frequenter inter missarum celebrationem vel per se vel per alios, ex his, quae in missa leguntur, aliquod exponant atque inter cetera sanctissimi huius sacrificii mysterium aliquod declarent, diebus praesertim dominicis et festis» (CONCILIO DI TRENTO, Doctrina et canones de sanctissimo missae sacrificio, in CT 8, 961, ll. 24-31). È da notare che la decisione del concilio di mantenere l’uso della lingua latina nella liturgia è da intendere innanzitutto come difesa del dogma di fronte alla posizione luterana che legava l’efficacia del rito sacro all’intelligenza, da parte dei fedeli, delle parole che lo costituiscono. Infatti nel 1523 Lutero pubblicò una traduzione della liturgia del Battesimo: Das Taubüchlein verdeutscht (M. LUTERO, Das Taubüchlein verdeutscht [1523], in WA 12, 38-48) accompagnandola da uno scritto giustificativo dove emerge la nozione specificatamente luterana in materia liturgica. Il Battesimo, afferma Lutero, deve essere amministrato in lingua volgare e ciò non è solo utile ma necessario perché la fede dei padrini e degli altri partecipanti sarà tanto più eccitata quanto più comprenderanno ciò che accade. Appare chiaro che in Lutero la dottrina riassunta nelle parole «ex opere operato» («Si quis dixerit, per ipsa novae legis sacramenta ex opere operato non conferri gratiam, sed solam fidem divinae promissionis ad gratiam consequendam sufficere
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tutto il Corpo Mistico di Cristo, capo e membra. Pio XII con l’enciclica Mystici corporis del 1943, unendo in un quadro teologico ben articolato l’aspetto visibile e societario della Chiesa con quello invisibile e spirituale, preparò il terreno alle idee che ebbero grande sviluppo nella successiva enciclica Mediator Dei (1946) che fece il punto di anni di ricerche e di esperienze in campo liturgico. Essa precisò concetti, corresse sviamenti, denunciò estremismi, disciplinò le varie tendenze, stimolò gli sforzi congiunti di investigazione, di studio e di realizzazioni e mise in rilievo le realtà dello sviluppo delle forme e dei testi liturgici, avviando la fase di rinnovamento della liturgia. Durante il primo decennio del pontificato di Pio XII il Movimento Liturgico focalizzò l’attenzione sull’aspetto pastorale della liturgia, orientato a rendere questa intelligibile a livello del popolo per condurlo a una maggiore consapevolezza di vita cristiana.18 Tra le riforme di particolare rilievo volute da Pio XII vi è l’instaurazione della Veglia Pasquale come vera celebrazione della risurrezione del Signore;19 la riforma della settimana Santa;20 la mitigazione delle leggi sul digiuno eucaristico e l’autorizzazione agli Ordinari del luogo di permettere la celebrazione delle messe vespertine;21 le facilitazioni a parecchi paesi d’Europa e America circa l’uso delle lingue vive nell’amministrazione dei sacramenti;22 la semplificazione delle rubriche;23 le direttive per un adattamento e un rinnovamento della musica sacra;24 le norme della Sacra Congregazione dei Riti sulla musica sacra e sulla liturgia per realizzare nel miglior modo, insieme al decoro delle sacre funzioni, anche la più viva e consapevole partecipazione dei fedeli alla Santa Messa.25
Il movente di queste riforme è da ricercarsi in una profonda ansia di sollecitudine pastorale che mirava a rendere più viva e vitale la liturgia per il popolo, colmando il distacco tra altare e fedeli. Si era attuata la presa di coscienza della necessità di una seria e organica riforma della liturgia. Alla creazione di questa consapevolezza contribuirono in sinergia le direttive della Sede Apostolica, la ricca produzione sulla liturgia, le settimane liturgiche nazionali, le settimane nazionali di liturgia pastorale, i corsi di metodologia e di aggiornamento per i professori di liturgia, le lettere pastorali di parecchi vescovi, l’attività dei centri liturgici nazionali. Una particolare attenzione meritano i congressi liturgici internazionali, che furono punto di incontro degli studiosi di liturgia nei suoi diversi rami e specialità. Tutto il lavoro giunse a coronamento con il Concilio Vaticano II nella costituzione liturgica Sacrosanctum Concilium. Quelli che una volta erano piani audacissimi, si vedono realizzati sotto la suprema autorità della Chiesa; propositi e mete che un lungo cammino di riforma si era prefissato, che l’illuminismo aveva inseguito e che il Movimento Liturgico aveva lentamente e con grande moderazione preparato, divennero realtà di valore decisivo per tutta la Chiesa. Questa fu l’eredità che arrivò a papa Montini, quella di un’idea più completa di liturgia e di come essa, in conformità a questa migliore conoscenza che se ne ha, debba trovare la forma che più le si addice nella cultura attuale. Dal papa dipendeva il trasformare in realtà, attraverso la concreta attuazione delle istanze della Sacrosanctum Concilium, quanto la Chiesa da tempo sentiva e desiderava.
Custodire e perfezionare la liturgia è dunque agire nel cuore della Chiesa.
La musica andava colta all’interno di questa dinamica alla quale purtroppo era estranea la cultura musicale, anche – e soprattutto – quella che operava dentro la Chiesa. Non si trattava di lasciare cose vecchie senza più valore, non si trattava neanche di inventare dal nulla nuove prassi musicali, ma di ricomprendere il tutto all’interno di un’ecclesiologia capace di cogliere il valore, la cultura e la professionalità di una grande tradizione insieme alle inalienabili sfide dell’oggi. Paolo VI apportò un sostanziale contributo alla stesura del travagliato documento Musicam Sacram26 nella preoccupazione di tutelare la fonte musicale della Chiesa e la sua normatività – il gregoriano e la polifonia – ma insieme di realizzare l’apertura alla sfida dell’incarnazione nello specifico cattolico dell’uomo capax Dei. Cultura, lingua viva, “umano”, storia sono allora istanze che doverosamente devono entrare
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nel culto non solo con funzione “didattica” – così come accadde con la vicenda Luterana27 – ma perché costitutivamente legate all’essere stesso della liturgia con il superamento di ogni ideologico “sacro” e “profano”. La contestazione, la levata di scudi da parte del mondo “colto” musicale fu proprio per non aver compreso la grande opportunità che era aperta davanti a loro. La lingua vernacola implicava finalmente il vivo coinvolgimento di coloro che, con gli stilemi propri di una precisa lingua e cultura, potevano finalmente esprimere il sentire religioso di un popolo. I musicisti potevano impiegare la loro professionalità e fantasia, normati da una fonte “liberante” e all’interno di una precisa cultura, e tutto ciò diveniva finalmente parte stessa del celebrare e non solo elemento periferico e secondario. La sfida non fu colta in pienezza e ci siamo così ritrovati – almeno in Italia – le chiese spesso risuonanti di mediocre cultura disancorata dalle fonti e non dialogante con la modernità. E questo principalmente a causa di coloro che – legati a interpretazioni storicistiche del divenire le quali, o applicano lo schema dialettico tesi-antitesi-sintesi o, al contrario, applicano universalmente l’unico paradigma dell’inesorabile progresso a ogni cambiamento – inconsciamente hanno ritenuto il non esistere più “arte” ma solo continua “ripetizione”, o, al contrario, che ogni realizzazione successiva sia da considerarsi necessariamente migliore della precedente per il solo fatto di venire dopo. Si sono codificati così gli atteggiamenti del rimpiangere il passato rifiutando ogni sfida, o del negarlo violentemente nell’illusione che oggi certe cose non servano più. Entrambi gli orientamenti affondano le loro radici in una comune visione della realtà radicalmente incompatibile con il fatto cristiano. Sono quegli stilemi che oggi usiamo chiamare, mutuando delle ormai inadeguate categorie politiche, di “destra” o di “sinistra”, atteggiamenti che di fatto non producono cultura e non costruiscono la storia illudendosi – nel grande inganno nominalista – che lo sterile parlare e protestare cambi la realtà. Per quanto si accusi Paolo VI di non aver tutelato nulla della cultura musicale nella liturgia, esistono però alcuni dati che concretamente dicono l’opposto, e rappresentano ancora oggi un’inalienabile sfida. Nella musica scritta per la Cappella Sistina dal 1956 al 1996 – gli anni nei quali fu maestro di cappella Domenico Bartolucci succedendo a
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anathema sit» [CONCILIO DI TRENTO, Canones de sacramentis in genere, in CT 5, 995, ll. 25-26]) viene a vanificarsi. Si veda a questo proposito H. SCHMIDT, Liturgie et langue vulgaire. Le problème de la langue liturgique chez les premiers Réformateurs et au Concile de Trente = Analecta Gregoriana 53 (Romae 1950), 169-197. 18. Sotto l’impulso della istanza pastorale si fecero sentire più vive le richieste di riforme e l’episcopato incominciò a interessarsi a vasto raggio del Movimento Liturgico. In Italia sorse il Centro di Azione Liturgica (CAL) e in Europa Istituti Liturgici di chiaro indirizzo pastorale. 19. Cfr. SACRA CONGREGAZIONE DEI RITI, De solemni Vigilia Paschali instauranda, in AAS 43 (1951), 128-137; SACRA CONGREGAZIONE DEI RITI, De facultativa celebratione instauratae Vigiliae Paschalis ad triennium prorogata additis ordinationibus et rubricarum variationibus, in AAS 44 (1952), 48-63. 20. Cfr. SACRA CONGREGAZIONE DEI RITI, Liturgicus Hebdomadae Sanctae ordo instauratur, in AAS 47 (1955), 838-857; SACRA CONGREGAZIONE DEI RITI, Ordinationes et declarationes circa ordinem Hebdomadae Sanctae instauratum, in AAS 49 (1957), 91-95. 21. Cfr. PIO XII, De disciplina servanda quoad ieiunium Eucharisticum, in AAS 45 (1953), 15-24; PIO XII, Indulta a Costitutione Apostolica «Christus Dominus» extenduntur, in AAS 49 (1957), 177-178. 22. Cfr. P.M. GERLIER, I rituali bilingui e la pastorale dei sacramenti, in La restaurazione liturgica nell’opera di Pio XII. Atti del primo congresso internazionale di liturgia e pastorale, Assisi-Roma 18-22 settembre 1956 (Genova 1957), 65-76. 23. Cfr. SACRA CONGREGAZIONE DEI RITI, De rubricis ad simpliciorem formam redigendis, in AAS 47 (1955), 218-224. 24. Cfr. SACRA CONGREGAZIONE DEI RITI, De musicae sacrae disciplina, in AAS 48 (1956), 5-25. 25. Cfr. SACRA CONGREGAZIONE DEI RITI, De musica sacra et sacra Liturgia ad mentem litterarum encyclicarum Pii Papae XII «Musicae sacrae disciplina» et «Mediator Dei», in AAS 50 (1958), 630-663. 26. Ricevuto il decimo schema, il papa volle avere una visione chiara dei diversi punti di vista, e pregò i musicisti di collezionare un testo unico con le loro varianti e la giustificazione delle divergenze. Portò con sé a Castelgandolfo per i mesi estivi il duplice schema, del Consilium e dei musicisti, e provò egli stesso a mettere insieme un unico testo, prendendo ora dall’uno ora dall’altro schema il “pezzo” migliore, e annotando le sue riflessioni. A volte mitigava le espressioni con un quantum fieri potest, altre volte spezzava un paragrafo in due, assai spesso picchettava il testo di interrogativi. Ogni volta che nella colonna dei musicisti trovava la parola «omesso», annotava: «perché?», oppure «può rimanere», o «si può omettere». Quando i testi erano identici, scriveva «idem». Il che fa vedere con quanta attenzione avesse letto tutto, perché non di rado le differenze tra i due testi erano impercettibili e, a una lettura svelta, sarebbero sfuggite. Il 21 novembre 1966 mandò il lavoro al Consilium, con preghiera di ricucire il testo secondo le indicazioni segnate a lato. Quel lavoro forzato di collazione dei testi doveva aver messo il papa a contatto profondo con il documento, perché vi accennò nel discorso ai membri del Consilium, il 13 ottobre 1966: «Vi sono questioni di grande rilievo… che richiederanno grande riflessione anche da parte Nostra. Una di queste è quella riguardante la musica sacra, oggetto di tanto interesse, sia da parte dei liturgisti, che da parte dei cultori della musica. È questione meritevole di grande studio, che si prolungherà certamente a mano a mano che l’esperienza pastorale da un lato, il genio musicale dall’altro continueranno il loro dialogo, che Noi auguriamo amichevole e fecondo. L’Istruzione, che deve disciplinare l’accordo fra liturgia e musica, faciliterà la buona intesa e ristabilirà, Noi speriamo, una buona collaborazione fra queste due voci sublimi dello spirito umano, la preghiera e l’arte. Noi teniamo qui a ricordare quanto la Costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium ha stabilito in proposito, in onore sia della liturgia che della musica (n. 39, 44, 112, 114, 115, 116, 120, 121), solo rilevando che il carattere pastorale e comunitario del rinnovamento liturgico, voluto dal
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Concilio, domanda alla musica e al canto sacro di rivedere e di perfezionare i suoi rapporti con lo svolgimento del sacro rito, quale oggi ha da essere, e offre all’una e all’altro l’occasione e l’invito a conseguire nel campo dell’arte e della religione nuovi meriti e nuova gloria: “Musica sacra tanto sanctior erit quanto arctius cum actione liturgica connectetur”» (n. 112). Dopo una nuova revisione, anche stilistica, il dodicesimo schema era presentato al papa il 9 febbraio 1967. Lo si potè pubblicare il 5 marzo 1967, domenica quarta di quaresima, Laetare. Esso fu presentato alla stampa dal segretario del Consilium, affiancato dal P.J. López Calo, che si era distinto negli anni precedenti nella campagna contro la Costituzione sulla musica sacra. Quella conferenza stampa, del 4 marzo, vide altre poco liete scene di contestazione, soprattutto da parte di mons. Virgili, maestro della Cappella Pontificia di S. Giovanni in Laterano, il quale si faceva promotore di un dibattito nella stessa sala stampa della Santa Sede, la sera del 6 marzo, per attaccare il documento appena pubblicato. Gli si affiancarono i principali giornali romani di ispirazione laica, che si scagliarono contro questo nuovo attentato alla tradizione, naturalmente con concetti distorti, che travisavano il senso dell’Istruzione. Fu l’ultimo atto di una serie di amarezze che hanno accompagnato la preparazione del documento, ma che furono il prezzo necessario da pagare per il bene della Chiesa. Infatti l’Istruzione rimane uno dei documenti più validi della Riforma: ha aperto la strada al cammino degli anni successivi, al quale ha dato equilibrate linee direttive, in sintonia con lo spirito della Costituzione e del genuino rinnovamento della liturgia (cfr. A. BUGNINI, La Riforma Liturgica [1948-1975] [Roma 1997], 875-877). 27. Per un approfondimento circa la questione liturgica in Lutero cfr. M. PALOMBELLA, Actuosa Participatio. Indagine circa la sua comprensione ecclesiale. Apporto al chiarimento dell’interazione tra lex credendi, lex orandi e lex vivendi nei secoli XVI-XVII (Roma 2002), 54-71. 28. Cfr. D. BARTOLUCCI, Messe. Alternate al Canto Gregoriano (Edizioni Cappella Sistina, Roma 1992) 67-93. Il dato della richiesta di Paolo VI compare nella prefazione del volume. È interessante constatare come tutte le magnifiche messe scritte dal Maestro vennero alla luce in forza della riforma liturgica e per venire incontro alle istanze dettate dalla medesima. 29. «Omnia habemus in Christo, omnia nobis est Christus. Si vulnus curare desideras, medicus est; si febribus aestuas, fons est; Si gravaris iniquitate, iustitia est; si auxilio índiges, virtus est. Omnia habemus in Christo, omnia nobis est Christus. Si mortem times, vita est; si coelum desideras, via est; si tenebras fugis, lux est; si cibum quaeris, alimentum est. Omnia habemus in Christo, omnia nobis est Christus. Gustate et videte, quoniam suavis est Dominus. Beatus vir qui sperat in eo» (cfr. D. BARTOLUCCI, Quarto Libro dei Mottetti [Edizioni Cappella Sistina, Roma 1987], 88-99). 30. Cfr. D. BARTOLUCCI, Inni (Edizioni Cappella Sistina, Roma, 1993), 138-143. È interessante notare come tutti gli inni presenti nel volume presentano l’alternanza tra schola e assemblea, prassi antica (a questo proposito cfr. GIOVANNI PIERLUIGI DA PALESTRINA, Le messe di Mantova = R. CASIMIRI [ed.], Le opere complete di Giovanni Pierluigi Palestrina, XVIII-XIX [Roma 1954]) ma non tematizzata all’interno di una teologia così come fece la riforma liturgica del Concilio Vaticano II. 31. Cfr. ad esempio: Quinto libro dei Mottetti (1985); Quinto libro delle Messe (1998); Quarto libro dei Mottetti (1987) ecc.
Lorenzo Perosi – troviamo che proprio papa Montini chiese a Bartolucci di comporre una Messa “De Angelis” a 6 voci dove schola e assemblea si alternano, messa che fu eseguita alla celebrazione di apertura della Porta Santa nell’anno giubilare del 1975.28 Nel quarto libro dei mottetti troviamo che l’Omnia Habemus in Christo – mottetto a 8 voci con solista per la ricorrenza di sant’Ambrogio – fu composto su testo proposto dallo stesso papa Paolo VI.29 In ultimo, l’inno Coelestis Urbs Jerusalem fu composto e cantato processionalmente per l’apertura della Porta Santa sempre nell’anno 1975 e presenta l’alternanza tra assemblea e Schola secondo le istanze della riforma liturgica.30 Sebbene il maestro Bartolucci non abbia perso occasione nelle prefazioni alla sua opera omnia31 di accusare la riforma liturgica – e implicitamente papa Montini – di aver privato la Chiesa del grande patrimonio della musica sacra, bisogna onestamente riconoscere che, oggi, le uniche composizioni che continuiamo a cantare del maestro sono proprio quelle composte su richiesta di Paolo VI per ottemperare le istanze della riforma liturgica, composizioni radicate e normate dalla fonte musicale della Chiesa, dove mirabilmente esiste la nozione di “ministerialità”, dove la Schola non è mortificata ma agisce in perfetta sinergia con l’assemblea chiamata a esercitare la propria specifica ministerialità nell’azione liturgica, composizioni oggi da additare come grande esempio di ciò che avrebbe dovuto essere nella sua attuazione musicale la riforma liturgica.
Conclusione La riforma liturgica voluta dal Concilio Vaticano II si pone, anche per la musica, prima di ogni altra cosa come una sfida di cultura. Occorre conoscere le fonti, dialogare con la cultura contemporanea, abbandonare stilemi ideologici che coartano la nostra comprensione della realtà, uscire dal sottile inganno che tutto sia un problema esclusivamente “pastorale” e ritornare a comprendere che l’arte, la musica “dice” la teologia, codifica plasticamente la nostra comprensione del Mistero rivelato. La povertà e banalità dell’arte destinata alla liturgia è il segno evidente della debolezza del nostro pensare la fede.
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LE INDICAZIONI DELLA CHIESA POSTCONCILIARE IN MATERIA DI MUSICA SACRA di Walter Marzilli
L’argomento è molto simile a quello che mi fu affidato per un intervento da fare all’interno del congresso internazionale celebrato nel 2011 in occasione del centenario del Pontificio Istituto di Musica Sacra. Per questo motivo l’elencazione degli articoli relativi ai documenti della chiesa non può che essere la stessa. Però adesso vorrei impostare questo scritto sotto forma di un improbabile e scherzoso dialogo tra un compassato monsignore in abito talare e uno scanzonato rocker romano dei nostri tempi, nemmeno tanto informato sulle cose di chiesa. Il primo cita con fare accademico e tanto di note i documenti e gli articoli, l’altro risponde a modo suo…
M. Vorrei iniziare mettendo subito il dito su ciò che la Chiesa dice su due importanti necessità che sono strettamente collegate con l’essenza della musica sacra: la conservazione del patrimonio della musica sacra e la formazione alla musica sacra stessa. Ma mi stai ad ascoltare? R. Certo, scusa, stavo taggando un amico su FB. Ecco, ho finito… M. Guarda che dovrò citare un sacco di articoli e di leggi. Poi io mi conosco: sono un tipo pignolo, e quando si tratta di musica sacra mi piace fare le cose sul serio, con metodo scientifico… R. Vai tranquillo. Casomai accendo l’ipod…!
1. Il patrimonio della musica sacra M.
Allora posso iniziare. Ascolta bene… SC 112: «La tradizione musicale di tutta la chiesa costituisce un tesoro di inestimabile valore, che eccelle tra le altre espressioni dell’arte, specialmente per il fatto che il canto sacro, unito alle parole, è parte necessaria e integrale della liturgia solenne».1 R. In parole più semplici significa che fate male a toglierlo dalle messe, questo «tesoro di inestimabile valore». Non guardarmi così male…; anche se ho il chiodo, le borchie e i piercing non mi verrebbe mai in mente di buttare la Gioconda negli scantinati del Louvre… Non credere, nonostante il mio aspetto da rockettaro, ho un animo ragionevole… Ma dimmi, cosa vuol dire SC? M. Ma non hai visto che ho specificato le abbreviazioni? Vuol dire “Sacrosanctum Concilium”, ed è il documento più importante della Chiesa negli ultimi cinquant’anni! R. Mah, io ho fatto l’abbonamento alla rivista Rolling Stones e so tutto del Rock! Ma vai avanti…
M. SC 114: «Si conservi e si alimenti con somma cura il patrimonio della musica sacra». R. Hai voglia a citare gli articoli… il nostro rock ha invaso il mondo, caro mio… M. SC 121: «I musicisti, animati da spirito cristiano, sentano di essere chiamati a coltivare la musica sacra e ad accrescere il suo patrimonio». R. Ma che stai a di’? Se nemmeno li pagate, i vostri musicisti… M. MS 52: «Per conservare il patrimonio della musica sacra e per favorire debitamente le nuove forme di canto sacro, si curi molto la formazione e la pratica musicale nei seminari, nei noviziati dei religiosi e delle religiose e negli studentati […], specialmente presso gli Istituti superiori creati a questo scopo».2 R. A me sembra che sono anni e anni che non lo fate più… M. Si dice “siano”, caro mio, siano, e non “sono”. Ci vuole il congiuntivo…
2. La formazione alla musica sacra M. SC
115: «Si curi molto la formazione e la pratica musicale nei seminari, nei noviziati dei religiosi e delle religiose e negli studentati[…]».3 R. Guarda che l’hai appena detto… Stai invecchiando, eh…? M. MS 4b: «Sotto la denominazione di Musica sacra4 si comprende, in questo documento: il canto gregoriano, la polifonia sacra antica e moderna nei suoi diversi generi, la musica sacra per organo e altri strumenti legittimamente ammessi nella liturgia,5 e il canto popolare sacro, cioè liturgico e religioso».
Abbreviazioni AAS: CHIR:
Acta Apostolicae Sedis, 1964, 1967 Chirografo ‘Mosso dal vivo desiderio’, Giovanni Paolo II, 2003 EV: Enchiridion Vaticanum, I, 92; II, 269; II 1013 IGMR: Institutio Generalis Missalis Romani IO: Inter Oecumenici, 1964 M: Monsignore… MS: Instructio Musicam Sacram, 1967 R: Rokkettaro… SC: Sacrosanctum Concilium, Cap. VI, 1963
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R. Lo vedi che ho ragione io a suonare la chitarra e il pop? L’hai detto tu: «…altri strumenti legittimamente ammessi nella liturgia, e il canto popolare…». M. Idem: «Per raggiungere questa formazione si preparino con sollecitudine i maestri destinati all’insegnamento della musica sacra.6 Si raccomanda, inoltre, se sarà opportuno, l’erezione di istituti superiori di musica sacra». R. Esagerato… Noi sì che abbiamo chiamato i maestri! Hai visto in tv Amici, X Factor, The Voice?! M. MS 25: «Ad assicurare più facilmente questa formazione tecnica e spirituale,7 prestino la loro opera le associazioni diocesane, nazionali e internazionali di musica sacra». R. Chiama, chiama a raccolta i tuoi amici… hai paura, eh? M. MS 52: «Si curi molto la formazione e la pratica musicale nei seminari, nei noviziati dei religiosi e delle religiose e negli studentati, […] specialmente presso gli Istituti superiori creati a questo scopo». R. Aho! Ma che fai, lo ridici? Allora è vero che stai invecchiando!?
3. Il canto gregoriano M. SC
116: «La chiesa riconosce il canto gregoriano come proprio della liturgia romana: perciò, nelle azioni liturgiche, a parità di condizioni, gli si riservi il posto principale». R. Bella zio! Ti dico solo che questo… M. MS 50: «Nelle azioni liturgiche in canto celebrate in lingua latina: a) Al canto gregoriano, come canto proprio della liturgia romana, si riservi, a parità di condizioni, il primo posto». R. Ari-Bella zio! M. MS 52: «Si incrementi prima di tutto lo studio e l’uso del canto gregoriano che, per le sue caratteristiche, è una base importante nella educazione alla musica sacra». R. E Carlos Santana dove lo metti? E i Led Zeppelin? M. CHIR 7: «Tra le espressioni musicali che maggiormente rispondono alle qualità richieste dalla nozione di musica
sacra, specie di quella liturgica, un posto particolare occupa il canto gregoriano. Il Concilio Vaticano II lo riconosce come canto proprio della liturgia romana […]. Il canto gregoriano pertanto continua ad essere anche oggi elemento di unità nella liturgia romana». R. Aridaje con questo canto gregoriano. Lo vuoi capire che non se lo fila più nessuno?! M. Idem: «La Chiesa […] tuttora lo propone ai fedeli come suo, considerandolo come il ‘supremo modello della musica sacra’».8 R. Sei il solito esagerato…
4. La composizione M. SC 121: «I musicisti […] compongano melodie che abbiano le caratteristiche della vera musica sacra e che non solo possano essere cantate dalle maggiori ‘scholae cantorum’, ma convengano anche alle ‘scholae’ minori, e favoriscano la partecipazione attiva di tutta l’assemblea dei fedeli».9 R. Quando suono io: allora sì, che la gente risponde…! M. MS 59: «I compositori si accingano alla nuova opera con l’impegno di continuare quella tradizione che ha donato alla chiesa un vero patrimonio per il culto divino. Studino le opere del passato, i loro generi e le loro caratteristiche, ma considerino attentamente anche le nuove leggi e le nuove esigenze della sacra liturgia, cosicché ‘le nuove forme scaturiscano in maniera, per così dire, organica da quelle già esistenti’».10 R. Troppo complicato. Mi sembravano già troppo cervellotici i Pink Floyd… M. MS 60: «Le nuove melodie per i testi in lingua volgare hanno certamente bisogno di un periodo di esperienza per poter raggiungere sufficiente maturità e perfezione. Tuttavia si deve evitare che, anche soltanto a scopo di esperimento, si facciano nelle chiese tentativi disdicevoli alla santità del luogo, alla dignità dell’azione liturgica e alla pietà dei fedeli». R. Mica tirerai di nuovo in ballo quelle vecchie storie di
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quando ti ho preso il microfono e ho chiesto un applauso dopo l’assolo di chitarra!? E quando mi sono messo a firmare autografi alla gente in fila per la comunione!?! M. CHIR 12: «So bene che anche oggi non mancano compositori capaci di offrire […] il loro indispensabile apporto e la loro competente collaborazione per incrementare il patrimonio della musica a servizio di una Liturgia sempre più intensamente vissuta. Ad essi va l’espressione della mia fiducia, unita all’esortazione più cordiale perché pongano ogni impegno nell’accrescere il repertorio di composizioni che siano degne dell’altezza dei misteri celebrati e, al tempo stesso, adatte alla sensibilità odierna». R. Ecco, hai detto bene: la sensibilità moderna. Cioè, la mia!
5. La direzione di coro, il canto, la polifonia M. SC
113: «L’azione liturgica assume una forma più nobile quando i divini uffici sono celebrati solennemente in canto». R. …E lo dici a me?! Domenica ho fatto cantare tutti a suon di “Oooh-oh-oh-oh-oh-oooh-oooh” come allo stadio! M. SC 114: «Si promuovano con impegno le ‘scholae cantorum’ specialmente presso le chiese cattedrali».11 R. Hai ragione, tanti anni fa c’era un complesso che si chiamava proprio così, Schola Cantorum. Erano di Roma, tutti capelloni pure loro. Hanno inciso qualche disco, ma poi sono spariti dalla scena… M. SC 116: «Gli altri generi della musica sacra (oltre al canto gregoriano, n.d.r.), e specialmente la polifonia, non si escludono affatto nella celebrazione degli uffici divini, purché rispondano allo spirito dell’azione liturgica, a norma dell’articolo 30».12 R. E che è quest’articolo 30?! Basta che non proibisce il Rock! M. “Proibisca”, caro fratello, proibisca: ci vuole il congiuntivo anche qui… R. Ma vuoi finirla di correggermi?! Tra noi si parla così! M. Ma l’italiano è l’italiano! R. …e il Rokkettano è il Rokkettano! Tiè! M. “Non ce la farò mai” – pensò il Monsignore, e continuò – CHIR 7: È presente la stessa citazione: «Come già San Pio X, anche il Concilio Vaticano II riconosce che ‘gli altri generi di musica sacra, e specialmente la polifonia, non vanno esclusi affatto dalla celebrazione degli uffici divini’».13 R. Insisti con questa polifonia. Stai a vedere che è colpa mia se è sparita… Ma poi, dimmi un po’: il tuo congiuntivo non ci vorrebbe anche a “vadano”? M. Io cito gli articoli in modo esatto, caro mio… MS 7: «Tuttavia nello scegliere le parti da cantarsi si cominci da quelle che per loro natura sono di maggiore importanza: prima di tutto quelle spettanti al sacerdote e ai ministri». R. Finalmente hai detto una cosa giusta! Ma perché non cantate mai!? M. Fosse per me lo farei. Tanti anni fa cantavo sempre… IGMR
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19 (molto simile al precedente MS 7): «Tuttavia, nella scelta delle parti da cantare, si dia la preferenza a quelle di maggior importanza, e soprattutto a quelle che devono essere cantate dal sacerdote o dai ministri». R. Ci sei ricascato: hai già detto pure questo. Ma perché non prendi qualche pasticca?! Ma che hai capito: di fosforo! M. Ma guarda che gli articoli, anche se sono simili, appartengono a documenti diversi, e si rinforzano l’un l’altro. Non pensare che io sia rimbambito, anche se sono vecchio… R. Dai, non ti offendere; continua. A ogni modo… complimenti per il congiuntivo… M. MS 13: «Hanno un posto particolare, […] per l’ufficio che svolgono, […] i membri della schola cantorum». R. Ariecco la Schola Cantorum. Lo vuoi capire che si sono sciolti nel 1980? M. MS 18: «Tra i fedeli siano istruiti con speciale cura nel canto sacro i membri delle associazioni religiose di laici […]». R. Che è? Un complesso nuovo? M. Idem: «La formazione di tutti i fedeli al canto sia promossa con zelo e pazienza, insieme alla formazione liturgica». R. Io sto a posto: ho fatto il catechismo e pure la prima comunione! M. MS 19: «È degno di particolare attenzione, per il servizio liturgico che svolge, il ‘coro’ o ‘cappella musicale’ o ‘schola cantorum’. In seguito alle norme conciliari riguardanti la riforma liturgica, il suo compito è divenuto di ancor maggiore rilievo e importanza».14 R. “…!” M. MS 19a: «Si abbia e si promuova con cura specialmente nelle grandi cattedrali e altre chiese maggiori, nei seminari e negli studentati religiosi, un coro o una cappella musicale o una ‘schola cantorum’».15 R. “…!?”
La tradizione musicale di tutta la Chiesa costituisce un tesoro di inestimabile valore. M. MS
19b: «È opportuno istituire anche presso le chiese minori identiche ‘scholae’, benché modeste».16 R. Hai visto? Finora sono stato zitto, ma ora te lo dico: magari non sarai rimbambito, ma sei di sicuro ripetitivo! M. MS 20: «Le cappelle musicali già esistenti presso le basiliche, le cattedrali, i monasteri e altre chiese maggiori, e che nel corso dei secoli si sono acquistate grandi meriti, custodendo e sviluppando un patrimonio di inestimabile valore, si conservino […]». R. Giusto: si conservino… ma sottovuoto!! M. IGMR 19: «Nelle celebrazioni si dia quindi grande spazio al canto […]». R. Hai ragione anche qui! E poi ho sentito che anche a voi
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hanno una propria tradizione musicale, specialmente nelle missioni, esige una particolare preparazione da parte dei periti». R. Ecco, lo sapevo, li hai mandati in missione e sono periti! Però un po’ mi dispiace... M. A volte penso che era meglio se accendevi l’ipod… R. Non ho capito. M. Ecco, appunto… Idem: «Coloro che si dedicano a quest’opera devono avere una sufficiente cognizione sia della liturgia e della tradizione musicale della chiesa, sia della lingua, del canto popolare e delle espressioni caratteristiche dei popoli in favore dei quali prestano la loro opera». R. Ah, ma allora cercate un tuttologo! In televisione ce ne sono tanti, chiamate uno di loro! M. CHIR 6 (citando S. Pio X): «Pur concedendosi ad ogni nazione di ammettere nelle composizioni chiesastiche quelle forme particolari che costituiscono in certo modo il carattere specifico della musica loro propria, […] nessuno di altra nazione nell’udirle debba provarne impressione non buona».17 R. Qui ci vorrebbe proprio uno bravo per capirti... piacciono Simon & Garfunkel; ma non sono un po’ fuori moda, zio!? A proposito, ma perché avete cambiato le parole? “Hello darkness, my old friend” non vi piacevano…? M. IGMR 63: «Tra i fedeli esercita un proprio ufficio liturgico la schola cantorum […]». R. Vedo che insisti con la Schola Cantorum. Allora, adesso ti racconto la loro storia: c’era una volta un complesso che si chiamava Schola Cantorum. Le canzoni gliele scriveva Sergio Rendine, il figlio di quello che aveva scritto La Panzé. C’era pure la nipote di Cocciante che cantava, insieme a Aldo Donati. Nel 1975 incisero il primo LP e… M. Lascia stare, basta così, è un’altra cosa… IGMR 67: «Per compiere convenientemente il suo ufficio, il salmista deve essere esperto nell’arte di salmodiare […]». R. Non ho capito: che c’entra il salmista nel suo ufficio? M. Lascia perdere, è troppo complicato da spiegarti… IGMR 274: «La schola cantorum […] svolge un suo particolare ufficio; deve quindi essere agevolato il compimento del suo ministero liturgico […]». R. …E basta con questa storia della Schola Cantorum! L’hai detto pure tu! M. Va bene, basta. Ora ti parlo di altro…
6. La musicologia e l’etnomusicologia M. SC 119: «In alcune regioni, specialmente nelle missioni, si trovano popoli con una propria tradizione musicale, la quale ha grande importanza nella loro vita religiosa e sociale. […] Perciò, nella formazione musicale dei missionari, si procuri diligentemente che, per quanto possibile, essi siano in grado di promuovere la musica tradizionale di quei popoli, tanto nelle scuole, quanto nelle azioni sacre». R. Quando parli così difficile mi metti quasi soggezione… M. MS 61: «L’adattamento della musica sacra nelle regioni che
7. L’organo M. SC 120: «Nella chiesa latina si abbia in grande onore l’organo a canne, strumento musicale tradizionale, il cui suono è in grado di aggiungere notevole splendore alle cerimonie della chiesa, e di elevare potentemente gli animi a Dio e alle cose celesti». R. L’organo a che…!?! Ma che dici?! M. MS 60: riprende e cita esattamente il precedente articolo SC 120. R. Stavolta te lo sei detto da solo che è una ripetizione… Vedi che ho ragione? M. IGMR 63: «Quello che si dice della schola cantorum (il riconoscimento del proprio ufficio liturgico, n.d.r.) vale anche, con gli opportuni adattamenti, per gli altri musicisti, specialmente per l’organista». R. Chissà come sarà contento John Lord… M. E chi è? R. Ma come chi è!? L’organista dei Deep Purple! M. CHIR 14 (parlando di S. Pio X e del suo Motu Proprio): «Tra essi (gli strumenti musicali, n.d.r.) riconosce senza esitazione la prevalenza dell’organo a canne […]». R. Mah, sarà…! A ogni modo io non cambierei il nostro organo Hammond con nessun altro!
8. La formazione liturgica M. SC 114: «Ai musicisti, ai cantori e, in primo luogo ai fanciulli, si dia anche una genuina formazione liturgica». R. “…!” M. MS 18: «La formazione di tutti i fedeli al canto sia promossa con zelo e pazienza, insieme alla formazione liturgica […]».18
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Note
R.
“…?” 24: «Oltre alla formazione musicale, si dia ai membri delle ‘scholae cantorum’ anche un’adeguata formazione liturgica […]». R. “Ummh…” M. CHIR 8: «L’aspetto musicale delle celebrazioni liturgiche […] deve essere affidato ad una bene concertata direzione […] quale significativo frutto di un’adeguata formazione liturgica». R. …Formazione liturgica… formazione liturgica… Ma che è: una nuova squadra di calcio?!? M. MS 67: «È indispensabile che gli organisti e gli altri musicisti, oltre a possedere un’adeguata perizia nell’usare il loro strumento, conoscano e penetrino intimamente lo spirito della sacra liturgia […]». R. Bhè, per essere bravo sono bravo, alla chitarra elettrica; ma per la liturgia bastano il catechismo e la prima comunione? Ora che ci penso, mi sa che ho fatto pure la cresima… M. CHIR 9: «Anche in questo campo (della liturgia, n.d.r.) […] si evidenzia l’urgenza di promuovere una solida formazione sia dei pastori che dei fedeli laici». R. Ma ora che c’entrano il campo e i pastori?! M. Oh, Signore… aiutami tu! M. MS
9. La lingua latina M. MS
47: «A norma della costituzione sulla liturgia (SC) l’uso della lingua latina, salvo diritti particolari, sia conservato nei riti latini». R. Ecco perché quel complesso olandese si chiamava i “Procol Harum”! M. Guarda che si dice Procul, con la U. R. Ah, li conosci pure tu? Che belle canzoni! Homburg, A whiter shade of pale… M. Ma no, procul è un avverbio latino, somarello. A ogni modo erano inglesi, non olandesi! R. Ma come fai a conoscerli? M. Lascia perdere; sono stato giovane anch’io. Idem: «Curino i pastori d’anime che, oltre che in lingua volgare, i fedeli sappiano recitare e cantare insieme, anche in lingua latina, le parti dell’ordinario della messa che spettano ad essi».
1. La frase è stata ripresa integralmente nel Chirografo ‘Mosso dal vivo desiderio’ del Beato Giovanni Paolo II, punto 2, 2003, scritto in occasione del centenario del Motu Proprio di S. Pio X ‘Tra le sollecitudini’ del 1903. Si tratta di un concetto molto ricorrente anche nei documenti precedenti al Concilio Vaticano II. 2. Cfr. SC 115. 3. Espressione ripresa e riaffermata da Giovanni Paolo II, CHIR 9, oltre che nel precedente MS 52. 4. Maiuscolo e corsivo di Musica sacra conformi all’originale. 5. SC 120 così limitava l’immissione degli altri strumenti nella liturgia oltre all’organo: «Altri strumenti, poi, si possono ammettere nel culto divino, a giudizio e con il consenso della competente autorità ecclesiastica territoriale, a norma degli artt. 22 §2, 37 e 40, purché convengano alla dignità del tempio e favoriscano veramente l’edificazione dei fedeli». Gli articoli indicati fanno riferimento ai processi di adattamento delle tradizioni dei vari popoli. 6. Concetto già presente in SC 115. 7. Cfr. MS 24: «Oltre alla formazione musicale, si dia ai membri delle ‘scholae cantorum’ anche un’adeguata formazione liturgica». 8. Virgolette interne conformi all’originale. All’inizio del paragrafo Giovanni Paolo II cita il suo predecessore S. Pio X, Motu Proprio op. cit., punto 3, capoverso secondo. 9. Virgolette interne conformi all’originale. 10. Citazione tratta da SC 23, riguardante le nuove forme liturgiche. Virgolette interne conformi all’originale. 11. Concetto ripreso e riaffermato da Giovanni Paolo II, CHIR 8. 12. Art. 30: «La partecipazione dei fedeli. Per promuovere la partecipazione attiva, si curino le acclamazioni dei fedeli, le risposte, la salmodia, le antifone, i canti nonché le azioni e i gesti e l’atteggiamento del corpo. Si osservi anche, a tempo debito, il sacro silenzio». 13. Virgolette interne conformi all’originale. 14. Anche questo concetto è stato ripreso e riaffermato da Giovanni Paolo II, CHIR 8. Virgolette interne conformi all’originale. 15. Idem. 16. Idem. 17. Giovanni Paolo II cita espressamente un passaggio del citato Motu Proprio di S. Pio X, punto 2, capoverso quarto. 18. Articolo già citato a proposito della direzione di coro e del canto. 19. Segue una lunga serie di rimandi a SC, MS, IO, AAS 1964, 1967, EV I, 92; II, 269; II 1013. 20. Il beato Giovanni Paolo II, con il Motu Proprio ‘Ecclesia Dei’ del 1988, volle inoltre esortare i vescovi a concedere con generosità tale facoltà in favore di tutti i fedeli che ne facessero richiesta.
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R.
E quali sarebbero? Se mi sforzo, qualche parola dell’Ave Maria me la ricordo… 51: «Vedano i pastori di anime se parti del patrimonio di musica sacra, composta nei secoli precedenti per testi in lingua latina, possano usarsi, oltre che nelle celebrazioni in latino, anche nelle celebrazioni fatte in lingua volgare. Niente infatti impedisce che nella medesima celebrazione alcune parti si cantino in un’altra lingua». R. Oh, ecco, bravo! Va bene l’inglese? M. IGMR 19: «E poiché sono sempre più frequenti le riunioni di fedeli di diverse nazionalità, è opportuno che questi fedeli sappiano cantare insieme, in lingua latina, e nelle melodie più facili, almeno le parti dell’ordinario della messa, ma specialmente il simbolo della fede e la preghiera del Signore (Padre nostro) […]».19 R. Eh… qui sono nei guai: mi sa che l’Ave Maria non basta, vero? M. A proposito della lingua latina devo ricordarti che esiste il Motu Proprio di Benedetto XVI Summorum Pontificum del 2007, riguardante l’Usus Antiquior del rito romano, interamente in latino. Tale Motu Proprio è stato idealmente preceduto dallo speciale Indulto del Beato Giovanni Paolo II Quattuor abhinc annos, emanato nel 1984 dalla Sacra Congregazione per il Culto Divino, con il quale il pontefice concedeva la facoltà di riprendere l’uso del Messale Romano promulgato dal Beato Papa Giovanni XXIII.20 R. Senti monsignore, «a proposito della lingua latina devo ricordarti» che ai miei tempi nella scuola media era una materia facoltativa, e io scelsi il corso di musica…!!! Se non mi sbaglio l’hanno pure soppressa da un bel po’ di anni… M. MS
Conclusione breve M. Ma insomma, caro fratello, di tutto quello che ti ho detto non c’è proprio niente che ti convinca? In fondo ti ho parlato sempre di musica! R. Ecco, hai detto bene: mi hai parlato sempre di musica; mi convinceresti di più se invece di parlarne la facessi, un po’ di musica. Anzi, sai cosa facciamo? Ti dirò quello che mi ha convinto solo dopo che mi avrai cantato quella bella melodia che cantavate sempre quando ero bambino, più o meno a metà della messa, e noi stavamo tutti ad ascoltarvi con gli occhi spalancati… M. Ma, veramente… io… non la canto più da tanto tempo… non so se me la ricordo ancora… R. Dai, provaci, altrimenti tutte queste leggi a che servono? Sennò parto io con un altro assolo di chitarra, eh!! M. No, no; va bene, te la canto. Ma tu mi prometti che poi ti rileggerai con calma tutto quello che ti ho detto? R. Ma come, tutta quella roba lì?! M. Certo! Guarda che è importante: là dentro ci sono duemila anni di musica e di storia. R. E va bene, affare fatto. Batti il cinque, zio! …Clap…! (Il vecchio monsignore si schiarisce la voce con un elegante colpetto di tosse, poi comincia a cantare a memoria…) M.
DOSSIER
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UN FILO ROSSO LUNGO MILLECINQUECENTO ANNI di Vincenzo De Gregorio PRESIDE DEL PONTIFICIO ISTITUTO DI MUSICA SACRA
Quanti vogliono seriamente “sapere di musica” non possono eludere la conoscenza, pur minima, del repertorio musicale vocale. Quanti, poi, nell’ambito estremamente specialistico, studiano i “segni” cioè la scrittura della musica – che costituisce il motivo fondamentale per lo sviluppo della musica stessa perché quando si è potuta “scrivere”, è potuta diventare repertorio/storia/musicologia – sanno bene che la semiografia è innanzitutto lo studio del repertorio vocale (di quello strumentale se ne parlerà molto più tardi). Quindici secoli circa di produzione di repertorio vocale (e se scrivessimo millecinquecento anni non farebbe effetto maggiore?) si sono accumulati, nell’Occidente, nella scrittura di canto per la liturgia, su un unico fondamento linguistico, quello del latino. Riflettiamo, perciò, da questa prospettiva, su uno degli aspetti che hanno creato il canto nella Chiesa: la cosiddetta “committenza”. Committenza significa sapere “chi ha voluto un repertorio, perché e per chi”. I primi secoli, quelli della parentela stretta con le radici ebraiche dei testi liturgici che furono a lungo presi solo dalla Scrittura, vedono nella veste di chi ha voluto il canto – il “committente”, appunto – una Chiesa preoccupata di conservare innanzitutto il contenuto della fede; per certi aspetti questo riduceva di molto l’ambito della produzione: pochi testi essenziali e fondamentali. Dal momento in cui i testi cantati sono stati attinti da autori che non fossero solamente quelli dei libri dalla Bibbia, si allarga la produzione musicale perché si arricchisce la quantità dei testi, innanzitutto poetici, da cantare. Non è più la comunità orante che per cantare si appoggia sui testi della Scrittura: è la Chiesa nella persona dei vescovi, degli autorevoli scrittori, poeti, polemisti, apologisti, che fornisce testi e fa committenza per la musica perché essa, la musica, li traduca in “zona lirica” nella liturgia. La Chiesa, esplicitamente o implicitamente ha fatto, dunque, committenza e il motivo è stato sempre quello di esigere il contributo essenziale per la preghiera dato dalla musica che supporta, amplia il significato, amplifica la potenza delle parole e della Parola. Quella “committenza” per chi ha fatto scrivere quelle melodie e quegli intrecci canori? Il permanere del latino come unica lingua liturgica della Chiesa occidentale ha dato, a quest’ultima domanda, una risposta che ha assunto delle varianti su un unico tema: la clericalizzazione della liturgia. Le varianti sono costituite dalle scholae cantorum e dal monachesimo, prima, poi dalle istituzioni “collegiali” dei canonici delle cattedrali, e, infine, dallo straordinario
fenomeno delle cappelle musicali. È per loro che il repertorio del canto è stato elaborato rispondendo di tempo in tempo alle esigenze di novità, di sperimentazione, di utilizzo di nuove tecniche compositive e di nuove abilità nella costruzione degli strumenti musicali e nel loro utilizzo sempre più sofisticato e complesso. Si impone, allora, una considerazione: il canto cristiano è una splendida e irripetuta storia di sviluppo alla quale i cori che oggi cantano rendono omaggio con l’amorevole dedizione di chi custodisce, rendendolo vivo perché lo esegue, un patrimonio di straordinario valore culturale prima ancora che religioso e di fede. Tutto questo esiste perché la Chiesa non ha mai fatto una scelta di linguaggio artistico/musicale/strumentale. Il passaggio dalla monodia liturgica che chiamiamo canto gregoriano, ai primi tentativi di polifonia e al suo superbo sviluppo, fino alla musica strumentale, corale, solistica, delle complesse architetture della musica sacra barocca e classica, ha un nome con tre aggettivi: intelligenza pastorale, liturgica e culturale. È stato un susseguirsi di concatenazioni tutte
Committenza significa sapere “chi ha voluto un repertorio, perché e per chi”. avvenute nella Chiesa che le ha favorite e seguite elaborando una formidabile capacità di accogliere la “storia”. L’apertura allo sviluppo ha favorito l’invenzione di una scrittura musicale con la conseguente possibilità di conservare un repertorio affidato non più alla memoria orale. Da ciò è nata l’esigenza, pertanto, di non ripetere quanto già prodotto e verificabile perché ormai scritto. Questa stessa apertura allo sviluppo ha innescato il bisogno, proprio dei veri musicisti, di utilizzo delle nuove tecniche compositive/musicali e costruttive/strumentali come esigenza insopprimibile del musicista/artista, anche di quello a servizio della Chiesa. Tutto questo seguendo un filo rosso lungo ben millecinquecento anni: il latino dei testi liturgici. Torniamo alle domande iniziali: committenza di chi? per quale scopo? per chi? Nei nostri tempi è cambiato il soggetto committente? In parte sì perché la configurazione pastorale e operativa della Chiesa ha assunto altre sfaccettature proprio nella liturgia. Questo soggetto/committente non parla più la
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stessa lingua, non solo, ma di regione in regione, ha il compito di indicare cosa “pronunciare” quando si canta per la liturgia. Si veda il caso del canto dell’introito come è indicato nell’Ordinamento Generale del Messale Romano, n. 48: si può cantare quanto è indicato dal Graduale Romano in latino/gregoriano, si può leggere il testo in lingua corrente, si può cantare altro testo/canto autorizzato dalla Chiesa locale (Conferenza Episcopale), pertinente al momento (inizio della celebrazione) e al tempo e festività liturgica del giorno. Come si evince, certamente è una committenza che è sempre la Chiesa, ma in diversa posizione di coordinate culturali, e, soprattutto, una committenza che non è “blindata” da una rigida prescrizione delle rubriche liturgiche. Cos’è cambiato, allora, in questi ultimi cinquant’anni, nel panorama della musica per la liturgia? La committenza, si è scritto, è cambiata solo in parte. Sono cambiati gli obiettivi della committenza? Si, profondamente. Nonostante l’auspicio che per secoli si è espresso con il richiedere che “il popolo canti”, fino a quando non è stata introdotta la lingua corrente nella liturgia, non è stato possibile realizzarlo se non in parte marginale. Ma è diventato, nei nostri tempi, ineludibile il rispetto dello scopo principale per il quale si scrive musica per la Chiesa: perché la preghiera sia canto del Popolo di Dio. Per “chi”, infine, la musica della Chiesa? Per se stessa, nelle componenti che il già citato Ordinamento del Messale Romano più volte ricorda essere costitutive: ministri, coro, assemblea, musicisti. La facilità dell’accumulo delle composizioni con i mezzi che oggi sono a disposizione per conservare, archiviare, trasmettere su formati sempre più sofisticati e complessi il repertorio utilizzato nella liturgia, rende da un lato più facile ordinare un “repertorio” di canti per la liturgia. Per altro, però, è molto più difficile oggi creare un repertorio; da qui le diverse soluzioni che a volte sono anche drastiche: eliminazione di tutto il repertorio passato; esecuzione solo del grande repertorio gregoriano/ polifonico, inseguimento delle mode, in particolare quelle più “facili” da realizzare con mezzi più immediati, derivate dalla musica di consumo. In tale contrasto è forte la riflessione di Giacomo Baroffio: «Passato, presente, futuro, sono i tre poli che da sempre autenticano il linguaggio musicale e poetico nella celebrazione. Omettere o limitare anche una sola di queste tre istanze, significa costruire sul vuoto: chi si abbarbica al passato chiudendosi al presente è un archeologo nostalgico senza speranza che non crede nel presente perché fondamentalmente non ha fiducia in se stesso… il passato senza presente è un sogno fantastico. Confortante, forse, ma è un sogno alienante che trascina fuori dalla realtà». Perché continui a vivere l’intelligenza della Chiesa che chiede di comporre e di eseguire, è sempre necessario, però, che questa committenza, vero esercizio di carità teologica e pastorale, sia attenta e culturalmente preparata. Da questo punto di vista la formazione non solo teologica e pastorale ma anche culturale, artistica e musicale, dei presbiteri e dei vari organismi parrocchiali e diocesani (consigli pastorali, movimenti ecclesiali) è una delle grandi sfide che si sta affrontando nella Chiesa dei nostri giorni.
Ciò che è stato non può essere disgiunto da ciò che sarà, in una continua mutua reciprocità fra la tradizione bimillenaria della Chiesa e i frutti dei nuovi studi sulla musica sacra. Per diciassette anni ho presieduto il Pontificio Istituto di Musica Sacra, cercando di mettere in relazione la grande tradizione della Chiesa con le prospettive di un futuro basato sulla consapevolezza, la profondità e l’amore per la musica sacra, ancor più in questo momento storico nel quale sembra affievolirsi la forza e il convincimento a causa di una situazione non facile. In questo senso la Chiesa si può servire del PIMS il quale, a causa dell’adesione al noto processo di Bologna che ha avuto luogo alcuni anni fa durante la mia presidenza, si proietta nel futuro con le solide basi del suo passato e le nuove impostazioni didattiche, recentemente elaborate per aderire sempre di più alle aspettative di una formazione alla musica sacra che guardi anche alle necessità globali del mondo. Dopo cento lunghi anni di storia gloriosa, questo rinnovamento dell’ordine degli studi si è reso necessario, per mantenere l’istituto perfettamente al passo con i tempi. Il momento non è dei migliori, ma se la Chiesa per la sua musica vorrà servirsi di persone professionalmente qualificate, troverà nel PIMS lo strumento che farà crescere tutti: dai gregorianisti ai direttori di coro, dai compositori agli organisti e agli strumentisti, dai musicologi fino ai cantanti. Valentino Miserachs Grau
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TRA ETICA ED ESTETICA
INTERVISTA A ELENA CAMOLETTO a cura di Mauro Zuccante
Elena, una vivace e importante tradizione corale fa da sfondo alla tua formazione artistica e professionale. Sia a livello professionale che amatoriale, nel territorio piemontese, infatti, sono cresciuti eccellenti musicisti e rinomati complessi corali. Il loro prestigio è riconosciuto ben oltre i confini regionali. Ritieni che questa prossimità abbia in qualche modo stimolato e favorito i tuoi inizi nel mondo corale? Sicuramente: ho avuto le mie prime esperienze corali nel coro di voci bianche dell’istituto musicale dove ho iniziato i miei studi di pianoforte; gli incontri che hanno dato una svolta “corale” alla mia vita di musicista sono quelli che ho avuto a partire dall’adolescenza con vari maestri, dalla mia insegnante di pianoforte che invece di farmi ascoltare musica pianistica mi iniziava all’ascolto delle più grandiose opere di Bach, come il Magnificat o l’Oratorio di Natale, a Dario Tabbia, Sergio Pasteris, Gianni Cucci, che in modo significativo hanno dato sostegno e stimolo alla mia crescita. Oltre all’incontro fortunato con i maestri, hanno acceso i miei entusiasmi e la mia curiosità alcune manifestazioni musicali nate negli anni ’70, come il festival Settembre Musica che portava a Torino importanti artisti, compagini corali europee, gruppi vocali di prestigio internazionale con
esecuzioni dei capolavori della musica corale e di allora poco frequentate composizioni contemporanee: tra tutte, ricordo una commovente Passione secondo san Matteo e una mirabile esecuzione di Lux Aeterna di Ligeti; oppure la rassegna Incontri corali che in modo pionieristico cominciava a dar vita a un rinnovamento della coralità piemontese con convegni e dibattiti, ma soprattutto invitando nella piccola città di Alba magnifici cori da tutta Europa, come il Via Nova di Monaco, il St. Jacob di Stoccolma, il Konevetz Quartet e grandi maestri come Kurt Suttner, Peter Erdei, Gary Graden, Giovanni Acciai.
ELENA Nella foto in alto e a pagina 26: il Coro Maghini al Festival Europa Cantat XVIII Torino 2012
Vorrei mettere a fuoco la corrente stilistica – se ce n’è una – in cui ti sei formata e nella quale attualmente ti riconosci. Oltre all’indelebile impronta lasciata dai tuoi insegnanti, quali sono stati i grandi maestri che hanno segnato il tuo apprendistato e il cui ascendente è tutt’ora rintracciabile nelle tue opere? Devo moltissimo al mio maestro di composizione Gilberto Bosco che, oltre a una rigorosa formazione scolastica, oltre all’intransigenza con se stessi, mi ha insegnato a cercare e intuire, non solo nel repertorio contemporaneo ma anche nelle opere dei grandi musicisti del passato, i
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momenti in cui il genio dell’artista imprime alla musica un’impronta di eternità, in cui ci fa intravedere qualcosa che è allo stesso tempo fuori del tempo e attuale. Confesso poi che il mio apprendistato non ha seguito un cammino lineare, ho avuto fasi in cui mi sono allontanata dai consueti iter scolastici e professionali, e ho scelto di rivolgere il mio impegno verso una ricerca di spiritualità e di profonda riflessione interiore, seguendo maestri di discipline diverse, ma anche studiando le opere di alcuni compositori in cui ho avvertito la forte presenza di questa dimensione. Ne cito solo alcuni: Penderecki, Schnittke, Messiaen, Ligeti. Successivamente sono rimasta molto affascinata dal senso delle sonorità di alcuni compositori nordici, come Hillborg. Non so se il loro ascendente si possa rintracciare nelle mie composizioni, ma sicuramente questi musicisti rappresentano gli astri che guidano il mio cammino.
ha per noi comporre musica? Rispondere a bisogni interiori, a sollecitazioni pratiche, a esigenze di mercato, di autoaffermazione, a spinte narcisistiche? Intendo dire che viviamo nell’epoca dell’apparire e del facile successo, questo non aiuta certo l’approfondimento, la riflessione e l’autocritica che a mio avviso sono necessari al sapere musicale. Oggi non tanto nelle scuole di composizione, quanto nel sistema scolastico e culturale in generale si assiste alla consuetudine di mettere tutto sullo stesso piano: tutto è bello, tutto è arte, tutto si può fare. Si è persa la facoltà di attribuire il giusto valore alle cose, quindi anche di discernere ciò che è musicalmente valido da ciò non lo è, con la conseguenza che sul mercato prosperano fenomeni di infimo profilo; si è notevolmente svilito il ruolo dell’insegnamento, della trasmissione del sapere musicale nella formazione del musicista. Oltre a ciò si è persa gradatamente la fiducia nella capacità della musica classica di essere comunicativa e coinvolgente, anche nei confronti dei giovani. Ho usato volutamente e provocatoriamente il termine “musica classica”, visto che la distinzione tra generi è ormai diventato tabù, ma forse è più giusto parlare di musica “forte”, come affermato di recente da un noto filosofo della musica. Perfino le grandi stagioni concertistiche hanno il timore che la musica “colta” non basti a se stessa, devono sempre abbinarla a qualcos’altro. Nel generale imperversare della superficialità va da sé che anche l’insegnamento della composizione ha perso quello slancio ideale e quel rigore estetico e anche etico che lo caratterizzava. Di certo, il tuo mestiere è molto solido. Posso affermarlo in considerazione della mano esperta con cui sai impreziosire
Studiando la grande musica del passato si può entrare in contatto con una dimensione etica ed estetica che trascende il tempo storico.
In una passata chiacchierata ho avuto occasione di approvare una tua osservazione. Nelle attuali scuole di composizione circolano scarsa conoscenza dei linguaggi storici, deficit di esercizio, faciloneria e dilettantismo. Risultato: maldestre durezze nella conduzione delle parti, sconclusionate concatenazioni armoniche, squilibri formali, e così via. Condividi ancora questo pensiero? Se sì, che ragione ti sei fatta di questo degrado? Come ho già accennato, sono sempre stata convinta che studiando la grande musica del passato non solo si impara a mettere “ordine” alle idee musicali, ma si può entrare in contatto con una dimensione etica ed estetica che trascende il tempo storico. Per capire l’atteggiamento dilagante nell’attività compositiva bisogna prima farsi una domanda: che significato
una semplice melodia popolare, arrangiandola per coro. Questione solo di allenamento o c’è dell’altro? Quali competenze necessitano affinché l’arrangiamento acquisti valore artistico, ma nel rispetto del contenuto espressivo dello spunto tematico originario? Ti ringrazio, considero la tua affermazione un bel complimento! Come si evince dalle mie precedenti considerazioni, lo studio tecnico, l’esercizio, l’allenamento sono la base da cui non si può prescindere. Ma è anche necessario entrare in “sintonia” col canto tradizionale, conoscere il contesto in cui si è sviluppato, analizzarlo in tutti i suoi parametri e lasciare agire su di sè le emozioni evocate
COMPOSITORE
dal testo. Nella composizione agisce anche un’importante componente istintiva, legata alla propria sensibilità, all’immaginazione e all’intuizione; una componente che è anche influenzata da tutta la musica che hai ascoltato, che ti porti dentro come bagaglio di possibilità da cui, anche inconsapevolmente, attingi. Accanto alle trascrizioni ed elaborazioni, la tua opera comprende lavori originali di più ampio respiro. Vorresti citare alcune composizioni che ritieni significative ed esemplari della tua sensibilità e percezione estetica? In ordine cronologico, la prima che voglio citare è Geistlich, una composizione per coro a 8 voci sollecitata dal forte impulso ricevuto dal primo stage sulla musica corale contemporanea organizzato da Feniarco e anche legata a una mia ricerca spirituale. Come per molte mie composizioni c’è, alla base dell’ispirazione musicale, un omaggio a un autore al
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quale sono particolarmente legata, in questo caso Robert Schumann. Poi voglio citare Veni creator Spiritus, per 2 cori, soli e gruppo strumentale, una suite di musiche per un concerto spirituale commissionata da un gruppo di cori piemontesi. La suite è costituita da 9 brani legati dal tema dell’omonimo inno gregoriano, ora palese ora nascosto nella trama sonora, su testi che vanno dal Cantico dei Cantici a Shakespeare, da Goethe a Gibran. L’ultimo lavoro che voglio citare è in realtà un trittico ispirato a grandi polifonisti del Rinascimento: Canticum Simeonis, una riflessione su un mottetto di J. Desprez, che riprende, in giochi di echi e riverberi, i motivi tematici originali; Tristis est, per doppio coro, che prende spunto da frammenti estratti da alcuni mottetti di Giovanni Gabrieli; Credo - et incarnatus basato su temi della Missa “in illo tempore” di Claudio Monteverdi.
Elena Camoletto__________ Elena Camoletto ha svolto gli studi musicali a Torino diplomandosi in pianoforte, musica corale e direzione di coro e composizione. Si è perfezionata nella direzione di coro con particolare attenzione al repertorio contemporaneo seguendo diversi corsi e seminari con i maestri G. Graden, P. Erdei e K. Suttner. Ha diretto varie formazioni corali, tra cui il Coro Lorenzo Perosi di Biella, la Corale Polifonica di Sommariva Bosco e l’Ensemble Vocale NovAntiqua, e dal 2007 svolge le mansioni di docente e direttore di coro presso i corsi di formazione corale per cantanti dell’Accademia Musicale Ruggero Maghini, e di maestro assistente presso il Coro Filarmonico Ruggero Maghini; in questa veste ha collaborato alla preparazione del coro in occasione di importanti produzioni dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai e dell’Academia Montis Regalis. Le sue composizioni sono state eseguite nell’ambito di stagioni concertistiche in Italia, Francia e Spagna, Germania, Irlanda, Singapore e Giappone. È stata premiata a diversi concorsi di composizione, tra cui il Concorso nazionale di composizione Castello di Belveglio (1994), al Concorso internazionale di composizione Città di Pavia (1995), al Concorso nazionale di armonizzazione ed elaborazione corale - Aosta (1999), al 6° Concorso Nazionale di armonizzazione ed elaborazione corale dell’Associazione Cori Piemontesi (Biella, 2002), al Concorso internazionale di composizione corale Florilège musical di Tours (Francia, 2004), e segnalata al Concorso internazionale di composizione corale Fondazione Guido d’Arezzo (Arezzo, Italia). Nell’ambito della composizione corale, ha ricevuto numerose commissioni da parte di cori italiani e stranieri ed esecuzioni in vari stage europei sulla musica corale contemporanea. Sue composizioni corali sono
pubblicate da Bosse Verlag, La Cartellina e altre riviste di canto corale; suoi brani hanno avuto incisione discografica a cura de I Piccoli Cantori di Torino e del coro Intonando (Alba). Nel 2011 ha rappresentato l’Italia al progetto internazionale Songbridge con la composizione Arcobaleno, eseguita nel concerto di gala svolto al Teatro Carignano di Torino. Nel 2013 ha curato la ricostruzione delle parti corali della Messa concertata a 8 voci e strumenti di Benedetto Vinaccesi (1666-1719) eseguita al Innsbrucker Festwochen der Alten Musik. Svolge attività come cantante nell’ambito di formazioni professionali quali il Gruppo Vocale Gli Affetti Musicali, l’Ensemble Vocale NovAntiqua, il Coro Filarmonico Ruggero Maghini. Già insegnante presso i conservatori di Palermo, Alessandria e Firenze, è attualmente docente di musica corale e direzione di coro presso il conservatorio di Cuneo; presso lo stesso conservatorio, ove è anche direttrice del coro di voci bianche e dell’ensemble vocale giovanile, ha curato numerosi lavori di ricerca, elaborazione corale, pubblicazione ed esecuzione, tra cui il progetto Medioevo e contemporaneo attorno alle Cantigas de Santa Maria, l’allestimento di Das Zauberwort, opera per voci bianche e pianoforte di J.G. Rheinberger, e l’esecuzione della Messa in La Maggiore op. 126, per coro di voci bianche, flauto, organo e archi dello stesso Rheinberger.
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Vorrei evitare di porti questa domanda, ma il ruolo me lo impone. Perdonami. Nella composizione corale, sei una delle tutt’ora poche compositrici. L’essere donna in questo settore (e – per di più – in un paese avaro di pari opportunità come l’Italia) è una condizione che comporta il peso dello svantaggio e del pregiudizio? In realtà non mi sono mai sentita discriminata in quanto donna nella mia attività di compositrice. Forse la carenza di compositrici nel panorama italiano della musica corale è dovuta ad altri fattori; spesso è proprio la composizione corale a essere “discriminata”, considerata come la parente povera rispetto a quella strumentale o orchestrale. La composizione corale è coltivata maggiormente da chi, oltre a essere compositore, è anche direttore di coro, ed è forse su questo versante che resistono ancora pregiudizi e diffidenze verso le donne. Parliamo dei concorsi di composizione. È innegabile che queste iniziative favoriscano la promozione di giovani compositori, il rinnovamento dei repertori e – perché no? – la distribuzione di propizi premi in denaro. Ma ti chiedo, molto direttamente, se ritieni preferibile ottenere il successo in una competizione, o ricevere la commissione di un lavoro, che verrà poi accuratamente eseguito da un complesso corale di prestigio. Certo, vincere fa piacere a tutti e devo dire che a me è stato sicuramente utile essere stata premiata a qualche concorso, ma in realtà sono sempre stata riluttante a partecipare alle competizioni. Penso che nella musica l’unica gara che abbia senso ingaggiare sia quella contro i propri limiti. D’altra parte scrivere su commissione spesso comporta altri tipi di limitazioni alla propria libertà creativa dovute a esigenze pratiche: devo dire che la sfida lanciata da queste costrizioni mi ha sempre stimolato moltissimo. Credo molto nella dimensione “artigianale” del far musica, e reputo molto istruttivo rapportarsi con la realtà della pratica esecutiva; quando poi capita che le commissioni giungano da cori di alto livello, si può veramente spaziare tra mille possibilità e scrivere diventa veramente divertente.
alcuni bravi cantanti ho fondato un piccolo ensemble vocale con cui ho voluto sperimentare il dialogo tra antico e contemporaneo, mettendo a raffronto, ad esempio, il Gesualdo cromatico con nuove musiche, a lui stesso ispirate, commissionate a giovani compositori. Un giorno mi capitò di dovere, senza preavviso, sostituire il direttore del Coro Maghini in una impegnativa produzione con l’Orchestra sinfonica della RAI: dopo lo shock iniziale, trovandomi improvvisamente di fronte a un coro di quel livello, l’inattesa esperienza di poter affrontare un programma di grande musica sinfonico-corale di Haydn, Schubert, Holst e Britten, è stata esaltante. Da allora il mio impegno nel Coro Maghini è diventato stabile, ho potuto conoscere “dal vivo” un gran numero di partiture del repertorio sinfonico-corale e ho avuto modo di osservare il lavoro di famosi direttori d’orchestra; tuttavia non ho smesso di dedicarmi alla base: da qualche anno seguo e
Lo studio tecnico, l’esercizio, l’allenamento sono la base da cui non si può prescindere.
Tra l’altro, Elena, non trascuri la direzione di coro. Hai al tuo attivo la guida di diversi gruppi corali professionali e amatoriali. Ricopri un ruolo significativo all’interno del prestigioso Coro Maghini di Torino. Parla di questo versante del tuo lavoro. La mia voglia, anzi necessità, di far musica mi ha sempre spinta in diverse direzioni e dall’aspetto esecutivo in realtà non mi sono mai allontanata, fin dai miei esordi al pianoforte. Come molti direttori di coro ho avuto le mie prime esperienze con varie formazioni corali amatoriali, poi ho cominciato ad avere contatti con l’ambiente “professionale” che mi ha dato l’opportunità di affrontare repertori prima impensabili. Con
dirigo un coro di voci bianche e un ensemble vocale giovanile sorti all’interno del conservatorio dove svolgo la mia attività di insegnante; dirigo inoltre il coro dei corsi di perfezionamento corale organizzati dall’Accademia Maghini, perché continuo a credere fortemente nel valore educativo e culturale della coralità. Queste sono attività che mi regalano grandi soddisfazioni. Tra le tue qualità, vanti quella di possedere un’ottima voce. Una dote che ti consente di sostenere anche il ruolo di corista. Una mansione altrettanto strategica nell’azione musicale. Il fatto di poter cogliere il suono del coro ora dall’esterno, ora dall’interno, quanti e quali vantaggi offre alla tua consapevolezza musicale? Trovo molto sorprendente la prima affermazione: “vantare” è la locuzione meno appropriata a descrivere il mio rapporto col canto in particolare e con quello che faccio in generale; in realtà chi mi frequenta sa bene quanto l’insoddisfazione e l’autocritica siano sempre pronte a pungolare il mio amor proprio! Infatti è proprio la scarsa stima nei confronti della mia voce ad avermi spinta in uno studio continuo e approfondito della vocalità e del suono attraverso vari metodi e maestri. L’opportunità di far parte di un coro professionale, di cantare a fianco di belle voci e musicisti intelligenti, oltre ad avermi insegnato molto sul canto, mi ha fornito vantaggi almeno sotto tre punti di vista: 1) quello tecnico - culturale: essere
COMPOSITORE
“dentro” una grande composizione dà la possibilità di coglierne aspetti nascosti e soluzioni compositive, di assaporare il clima culturale di una certa epoca e di un certo ambiente, entrare in sintonia con la sensibilità artistica del compositore; 2) quello della direzione e della composizione: vivere la musica dall’interno di un coro insegna parecchio sul modo di affrontare la direzione, sulla ricerca di soluzioni a problemi esecutivi, sull’atteggiamento etico e psicologico nell’approccio con una collettività; inoltre rende più consapevoli del rapporto tra scrittura e possibilità esecutive, tra idea compositiva e effetto sonoro; 3) quello fenomenologico del suono vocale: l’esperienza come cantante-corista mi ha spinta ad addentrarmi nello studio delle implicazioni fisiologiche, percettive, emotive, psicologiche, spirituali del suono; l’essere consapevole delle grandi potenzialità della voce ha condizionato molto il mio pensiero musicale e ha fornito nuovi spunti alle mie riflessioni attorno alla gestualità.
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corso di studi: nel settore della composizione rivolge il suo campo di azione verso quelle tecniche antiche e moderne specifiche della musica corale, come ad esempio l’armonizzazione e l’elaborazione del canto popolare, e allarga il terreno di esplorazione a tutto il repertorio, dalla monodia alla musica contemporanea; dall’altro versante vuole rinforzare l’aspetto pratico della direzione, con materie che affrontano lo studio della prassi esecutiva, l’educazione dell’orecchio, la direzione di ensemble vocali e strumentali. Insomma, si è cercato di rendere più completa la formazione dei futuri direttori di coro. Dal punto di vista delle prospettive lavorative, invece, il panorama italiano non è molto incoraggiante. Mi spiace dover inserire in questa nostra conversazione una nota negativa, ma ci si rende facilmente conto di quale enorme differenza esista tra le opportunità lavorative esistenti in Italia e quelle offerte nel resto dell’Europa; da noi vengono chiusi teatri e orchestre sinfoniche, si tagliano costantemente i contributi alle attività musicali e alla cultura, si fa di tutto per non inserire la musica tra le materie curricolari delle scuole, mentre basta superare i confini (non importa quali) per trovare piccole cittadine con il loro teatro d’opera, la loro stagione sinfonica, cori sostenuti dalle istituzioni pubbliche o da quelle religiose, insomma una società in cui il direttore di coro ha una sua funzione e un suo ruolo importante. Ciò che consola è che, a dispetto del generale degrado culturale, la coralità italiana sta vivendo un periodo di forte rinascita: se da una parte il livello dei cori è cresciuto anche a seguito dell’influenza positiva che ha avuto il passaggio nel nostro territorio di maestri di prestigio internazionale,
Vivere la musica dall’interno di un coro insegna parecchio sul modo di affrontare la direzione.
Concludiamo questa nostra conversazione con un cenno alla tua consolidata esperienza didattica. In conservatorio svolgi la docenza di musica corale e direzione di coro. Una materia originariamente concepita per formare gli insegnanti del vecchio istituto magistrale (il quale – sia detto – prevedeva in origine che gli studenti approfondissero il canto corale e lo studio di uno strumento musicale). Azzerata ormai del tutto questa disciplina – licei musicali, a parte – quali prospettive si offrono a uno studente che frequenta la tua classe? Distinguiamo tra prospettive di apprendimento e di occupazione lavorativa. Con i nuovi ordinamenti didattici dei conservatorio la mia materia è diventata qualcosa di diverso dal corso originario; il nome che ha adottato, direzione di coro e composizione corale, può già indicare la peculiarità del
dall’altra un flusso inverso ha portato molti giovani direttori italiani a ottenere in istituzioni musicali all’estero la giusta affermazione. Il consiglio che offro sempre ai miei allievi è proprio quello di guardare cosa succede al di là dei nostri confini: il peggio che può succedere è di imparare qualcosa di nuovo…
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COMPOSIZIONI CORALI DI ELENA CAMOLETTO Musica corale sacra Tristis est anima mea, per doppio coro, commissionato e pubblicato da Feniarco Geistlich, per doppio coro Vergine, quante lagrime, per 4 voci, commissionato e eseguito dall’Hesperimenta Vocal Ensemble di Arezzo (dir. L. Donati) Canciòn del alma, per coro misto a 10 voci, commissionato e eseguito dal gruppo vocale Philophonia di Saragoza (dir. M. Castán) Credo - et incarnatus, per 2 e 3 cori, commissionato dal Torino VocalEnsemble (dir. C. Pavese) Canticum Simeonis, per coro misto, pubblicato dalla Fondazione Guido d’Arezzo Veni creator spiritus, concerto spirituale per soli, 2 cori e strumenti Nuit de minuit, per coro femminile, commissionato e pubblicato dall’Arcova Ninna nanna, per coro femminile, premiato al Concorso internazionale di composizione corale Florilège musical di Tours O lux beatissima, per coro femminile Ave Maria, per coro misto, pubblicato da Feniarco nell’Antologia Choraliter 6 Salve Regina, per coro femminile Missa brevis, per coro misto Musica corale profana Ochiba, per coro misto Haiku, per coro misto Protesta, per coro misto Chanson, per coro misto 5 Aforismi per due cori femminili, commissionato da Carlo Pavese ed eseguito in vari stage europei Arcobaleno, per coro di voci bianche, commissionato, eseguito e inciso da Carlo Pavese per il progetto internazionale Songbridge (Torino 2011) Elaborazioni corali di canti popolari e di tradizione I disertori, per coro misto, pubblicato dall’Associazione Cantarstorie, eseguito negli Stati Uniti dall’ensemble Rob Seible Singers (Houston)
Su via pastori, per coro misto, pubblicato dall’Associazione Cantarstorie Casina sola, per coro misto, ha avuto incisione discografica a cura del Coro Sette Torri (dir. G. Cucci) Mariun, per coro misto, premiato al 6° Concorso nazionale di armonizzazione ed elaborazione corale dell’Associazione Cori Piemontesi (Biella, 2002), pubblicato su La Cartellina e inciso dalla Corale Sette Torri (dir. G. Cucci) Spunta ’l sol, per coro misto, premiato al 6° Concorso nazionale di armonizzazione ed elaborazione corale dell’Associazione Cori Piemontesi (Biella, 2002), pubblicato su La Cartellina e inciso dalla Corale Sette Torri (dir. G. Cucci) Se chanto, per coro misto, eseguito a Torino durante il Festival Europa Cantat 2012, pubblicato da Feniarco in Voci & Tradizione Piemonte Sonno fortunato, per coro femminile, pubblicato su La Cartellina e inciso dal Coro Sette Torri (dir. G. Cucci) Quando nell’ombra, per coro misto; elaborazione di un canto tradizionale mariano, pubblicato e inciso dal coro Intonando (dir. F. Biglino) Madre dolcissima, per coro misto; elaborazione di un canto tradizionale mariano, pubblicato e inciso dal coro Intonando (dir. F. Biglino) Volgi lo sguardo, per coro misto; elaborazione di un canto tradizionale mariano, pubblicato e inciso dal coro Intonando (dir. F. Biglino) Tu del Libano, per coro misto e sassofono contralto; elaborazione di un canto tradizionale mariano, pubblicato e inciso dal coro Intonando (dir. F. Biglino) Nome dolcissimo, per coro misto; elaborazione di un canto tradizionale mariano, pubblicato e inciso dal coro Intonando (dir. F. Biglino) Vergin Santa, per coro misto; elaborazione di un canto tradizionale mariano, pubblicato e inciso dal coro Intonando (dir. F. Biglino) Mira il tuo popolo, per coro misto; elaborazione di un canto tradizionale mariano, pubblicato e inciso dal coro Intonando (dir. F. Biglino)
O Santissima, per coro misto; elaborazione di un canto tradizionale mariano, pubblicato e inciso dal coro Intonando e da Bosse Verlag nel volume Chor Aktuell 2. Andrò a vederla un dì, per coro misto; elaborazione di un canto tradizionale mariano, pubblicato e inciso dal coro Intonando (dir. F. Biglino) Veglia ognor su me, per coro misto; elaborazione di un canto tradizionale mariano, pubblicato e inciso dal coro Intonando (dir. F. Biglino) Ave Maria di Lourdes, per coro misto; elaborazione di un canto tradizionale mariano, pubblicato e inciso dal coro Intonando (dir. F. Biglino) Invito alla danza, per voci femminili o bianche, pubblicato su La Cartellina (2000) e inciso dai Piccoli cantori di Torino (dir. G. Guiot) La pastora fedele, per voci femminili o bianche, pubblicato su La Cartellina (2000) e inciso dai Piccoli cantori di Torino (dir. G. Guiot) La pastora e il lupo, per voci femminili o bianche, pubblicato su La Cartellina (2000) e inciso dai Piccoli cantori di Torino (dir. G. Guiot) L’orologio, per voci bianche; pubblicato su La Cartellina (2001) e inciso dai Piccoli cantori di Torino (dir. G. Guiot) Se d’nverno, per voci bianche; pubblicato su La Cartellina (2001) e inciso dai Piccoli cantori di Torino (dir. G. Guiot) Oh dondola, per voci bianche; pubblicato su La Cartellina (2001) e inciso dai Piccoli cantori di Torino (dir. G. Guiot) Mago Merlino, per voci bianche; pubblicato su La Cartellina (2001) e inciso dai Piccoli cantori di Torino (dir. G. Guiot) Nadal, per voci bianche commissionato e inciso dai Piccoli cantori di Torino (1998) (dir. G. Guiot)
Per ulteriori informazioni e per reperire le composizioni inedite, potete contattare l’autrice all’indirizzo e-mail ele.cam@tiscali.it
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TRE OMAGGI AI MAESTRI DEL RINASCIMENTO di Pietro Numico PIANISTA E DIRETTORE DI CORO
Questi tre lavori rientrano in quel tipo di repertorio che per la sua complessità è rivolto a cori di grandi dimensioni e di buon livello tecnico; due di questi sono stati richiesti ed eseguiti da complessi corali italiani di grande prestigio: Canticum Simeonis, segnalato al concorso Guido d’Arezzo, ha avuto esecuzioni da parte del Coro Maghini di Torino (dir. Claudio Chiavazza), del Vocal Ensemble EST, Giappone (dir. Masao Mukai) e del SYC Ensemble Singers di Singapore (dir. Corrado Margutti); Credo - et incarnatus è stato commissionato ed eseguito dal Torino Vocalensemble (dir. Carlo Pavese); Tristis est commissionato da Feniarco per il Coro Giovanile Italiano (dir. Filippo Maria Bressan). Queste composizioni nascono dall’amore profondo per tre grandi polifonisti del Rinascimento che Elena Camoletto ha avuto modo di studiare, eseguire, analizzare nella sua attività di cantante, direttrice e insegnante; base musicale su cui poggiano sono temi, procedimenti contrappuntistici, strutture compositive e sonorità armoniche desunte dai loro mottetti. A differenza di molta altra musica contemporanea in cui il meccanismo della frammentazione melodico/ armonica restituisce alle orecchie dell’ascoltatore un grande disorientamento, nei brani in osservazione è sempre molto chiara la finalità espressiva del risultato sonoro: nulla è scritto per un puro fine estetico o per sfoggio stilistico, la scrittura appare sobria, rigorosa e precisa, al servizio della parola esattamente come lo era nel Cinquecento. Il primo brano che prendo in esame è Canticum Simeonis, per coro a 12 voci, che deriva i suoi motivi dal mottetto Nunc dimittis di Josquin Desprez. Si possono facilmente distinguere gli elementi derivati dall’antico da quelli moderni: tra i caratteri antichi possiamo includere l’impianto modale/tonale prevalentemente diatonico, i motivi-parola tratti da Josquin, i procedimenti imitativi e canonici, la “figura” a due note bianche per la parola «oculi»; tra quelli moderni le sovrapposizioni armoniche, i lunghi pedali, la ritmica delle parti ribattute, l’uso dei suoni armonici, la scrittura vocale con trilli a velocità determinata o libera. Il testo musicato da Josquin è:
Nunc dimittis servum tuum, Domine, secundum verbum tuum in pace: Quia viderunt oculi mei salutare tuum quod parasti ante faciem omnium populorum: Lumen ad revelationem gentium, et gloriam plebis tuae Israel. Gloria Patri et Filio et Spiritui Sancto. Nunc dimittis servum tuum, Domine, secundum verbum tuum in pace.
Ora lascia, o Signore, che il tuo servo vada in pace secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli, luce per illuminare le genti e gloria del tuo popolo, Israele. Gloria al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo Ora lascia, o Signore, che il tuo servo vada in pace secondo la tua parola.
La composizione Canticum Simeonis adotta la stessa struttura testuale, omettendo però il sesto e il settimo versetto. Il brano si può suddividere in quattro grandi sezioni, organizzate in una forma di tipo A-B-C-A, di cui la prima, di circa 45 battute, termina con un “climax” alla parola «pace», una triade di do maggiore cantata nel registro acuto dai soprani divisi a tre parti. Il pezzo inizia con una potente invocazione (Domine) di tutte le voci, che partendo da una quinta vuota (sol-re), si amplifica con la sovrapposizione di altri due accordi adiacenti, quello di la maggiore e quello di fa maggiore, simboli anch’essi del bagaglio armonico della tradizione cinquecentesca; questo procedimento si presenterà nel corso di tutto il brano a diverse altezze (Figura 1).
Gli esempi musicali (Figure) indicati nel testo sono disponibili sul sito www.feniarco.it alla sezione editoria / choraliter
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di quinta sentito all’inizio, che acquista qui il significato di “origine e fine” di ogni cosa.
I frammenti di Josquin, chiaramente riconoscibili fin da subito, sono trattati in canoni ravvicinati che poco a poco si fissano e si ripetono in un vivace gioco di rifrazioni (Figure 2 e 3). Questo procedimento vale anche per il secondo motivo che porta alla conclusione dell’episodio sul luminoso do maggiore di «pace» (Figura 4). L’effetto “ipnotico” che caratterizza la seconda sezione è ottenuto dalla concomitanza di fissità e movimento: a partire dall’intervallo di terza («oculi») i canoni all’unissono sui temi di Josquin danno origine a clusters che ridondano prima su sonorità “frigie” nelle voci femminili (Figura 5) poi su sonorità lidie (sol maggiore con do diesis) in quelle maschili (Figura 6) fino a raggiungere il “cuore” dell’omaggio a Desprez, la citazione letterale del passo «quod parasti», a cui farà seguito una sua parafrasi con sonorità armoniche moderne, vero “centro sacro” della composizione (Figura 7). Un nuovo impulso ritmico fa ripartire il movimento nella terza sezione; l’accavallarsi delle imitazioni e il sovrapporsi delle voci conducono un lungo crescendo a sfociare nello sfavillante culmine della composizione, in coincidenza col verso «Lumen ad revelationem», che con la sua luminosità e la sua vivacità si addice a descrivere musicalmente “la luce che illumina le genti” (Figura 8). Questo sfolgorio “esplode” nell’invocazione «Domine», arricchita dai trilli liberi, che segna l’inizio della sezione finale (Figura 9). Essa si caratterizza come una sorta di ripresa con coda: poco alla volta il movimento si placa e le voci ritornano a cantare in modo soffuso sopra un tranquillo tappeto armonico il motivo iniziale «nunc dimittis». La sonorità si fa evanescente per la rarefazione del tessuto polifonico e la comparsa dei suoni armonici che circolano tra le voci. Una a una queste ultime “abbandonano” il canto e il tessuto polifonico si dissolve fino al silenzio, sottolineando così il senso del distacco dalla vita contenuto nel testo. Il pezzo si chiude con lo stesso intervallo
Anche Credo - et incarnatus adotta gli stessi procedimenti per enfatizzare e riverberare i temi del brano da cui trae ispirazione: il Credo della Missa In illo tempore di Claudio Monteverdi. La composizione, come si desume dal titolo, è divisa in due parti che hanno diversa scrittura e diverso organico corale: Credo è per 2 cori a 6 voci e ha una scrittura prevalentemente contrappuntistica e a cori battenti; et incarnatus è per 3 cori spazializzati a 5 voci, caratterizzato da lunghe fasce sonore su cui si stagliano interventi declamati di singole sezioni; tra l’uno e l’altro troviamo un momento di aleatorietà (mormorato) che consente ai coristi di raggiungere la nuova disposizione. Ecco qualche esempio di come i temi monteverdiani vengano “esasperati” e “fatti impazzire” in una reiterazione frenetica e incantata; l’inizio è identico al Credo di Monteverdi, ma poi… (Figure 10 e 11) Nell’esempio successivo le ripetizioni ossessive si sovrappongono a un accompagnamento accordale delle voci maschili; da questo momento cominciano a insinuarsi nella trama polifonica sonorità decisamente fuori contesto, addirittura vicine a certa musica rock (Figura 12), sonorità che poi diventano ancora più caratteristiche nella intonazione a quinte parallele del tema gregoriano «Credo in unum Deum» (Figura 13). Dopo un momento di apparente staticità e frammentazione del tessuto sonoro, la ripresa prende il via da volate ascendenti che ne presagiscono il disegno melodico (Figura 14). L’effetto complessivo di tutta questa prima parte è quello di giocosità mista a straniamento. La “catabasi” adottata già da Monteverdi per descrivere «descendit de coelis» è qui rafforzata e ampliata dalla scrittura a cori battenti che subito cominciano a sovrapporsi; l’abbandono dei cieli per scendere in terra sembra interpretata con un progressivo rabbuiarsi e intorbidirsi dell’intreccio sonoro, fino a prendere di nuovo forma nella cadenza finale, ripresa identica dal testo originale. Nella seconda parte, Et incarnatus, l’atmosfera si fa più misteriosa e meditativa. I tre cori partono all’unisono ma poi si fermano su diversi accordi, creando di volta in volta diversi aggregati armonici; eccone due esempi significativi (Figure 15 e 16). Sopra questi sfondi sonori singole voci emergono da diverse direzioni (il brano è pensato per una disposizione dei cori attorno al pubblico) con una sorta di declamato che riecheggia alcune parti del testo (Figura 17). Dalla staticità iniziale poco alla volta il movimento si intensifica insieme alla complessità armonica e all’aumento della dinamica fino al climax delle battute 20-23, in corrispondenza delle parole «ex Maria». Da questo punto tutto si placa per tornare nel “grembo” monteverdiano alla cadenza conclusiva.
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La composizione Tristis est è un omaggio a Giovanni Gabrieli; il primo riferimento alla sua musica si può cogliere nella disposizione dell’organico vocale: due cori, il primo sbilanciato verso l’acuto (CCAT), il secondo verso il grave (ATBB), conformemente a una consuetudine tipica della policoralità veneziana. Riporto il testo tratto dai Responsori della Settimana Santa:
Tristis est anima mea usque ad mortem: sustinete hic, et vigilate mecum: nunc videbitis turbam, quae circumdabit me. Vos fugam capietis, et ego vadam immolari pro vobis.
L’anima mia è triste fino alla morte: restate qui e vegliate con me: ora vedrete la folla che mi circonderà. Voi fuggirete ed io andrò ad essere immolato per voi.
In Tristis est il materiale derivato dalla tradizione ha un’utilizzazione diversa rispetto ai due brani visti finora; infatti la composizione adotta non tanto motivi melodici quanto procedimenti contrappuntistici, figure ritmiche, concatenazioni armoniche, frammenti tematici, elementi che vengono deformati in vari modi, dilatandone a dismisura le durate, imprimendo accelerazioni improvvise, corrompendoli con infiltrazioni armoniche o contrappuntistiche dissonanti, sovrapponendoli a frementi oscillazioni o stanchi ondeggiamenti. Tutto ciò conferisce al brano un clima fosco e di potente drammaticità, specie nella sezione centrale. Brevi citazioni tematiche sono tratte da due diversi mottetti di Giovanni Gabrieli: il frammento n. 1 dal mottetto Beata est Virgo Maria (Figura 18), il frammento n. 2 dal mottetto O Domine Jesu Christe (Figura 19) come anche quello successivo, il n. 3 (Figura 20). Possiamo individuare tre sezioni; nella prima, della durata di 53 battute e comprendente il versetto «Tristis est anima mea usque ad mortem», il linguaggio musicale adottato dai due cori è contrastante: il coro grave, che canta alla maniera antica (cita letteralmente il frammento n. 1) anche se in un ritmo molto dilatato, in qualche modo rappresenta la realtà storica; il coro più acuto insinua dissonanze e movimenti oscillatori nella stabile architettura armonica, come qualcosa di evanescente che vuole liberarsi, svincolandosi, dalla materia (Figura 21). Mano a mano che si prosegue, il primo coro si fa più “presente” e invade lo spazio sonoro alla parola «mortem». Da questo punto prende avvio la seconda sezione, della durata di 42 battute e comprendente i due versetti «sustinete hic, et vigilate mecum: nunc videbitis turbam, quae circumdabit me» che è caratterizzata da una maggior concitazione. La scrittura a cori battenti è desunta dal frammento n. 3, ma lo stretto, l’accelerazione ritmica e la progressiva ascesa portano a un punto di massima drammaticità sulle parole «et vigilate mecum»; dopo questo episodio la compattezza sonora si sgretola e la sonorità “collassa”, ricadendo nel grave in serpeggianti vocalizzi (Figura 22). Anche in questo brano compaiono i trilli disordinati, affidati al secondo coro, che con il loro fremito agitano il tranquillo incedere del primo coro che riprende il frammento n. 1 (Figura 23). Nella terza sezione, di nuovo calma, emergono poco alla volta elementi più luminosi e pacificanti. Subito il brano assume un clima espressivo di commossa umanità in corrispondenza delle parole «et ego pro vobis». Nel finale i due cori poco alla volta si dissociano: il secondo affonda nel grave e in ambiti tonali scuri, dissolvendosi in stanche oscillazioni, una sorta di rappresentazione sonora della discesa nella morte; il primo rimane fisso su un chiaro accordo di sol maggiore, insistendo sulle parole «pro vobis», a simboleggiare il perdurare dell’amore divino al di là della morte. Queste composizioni riescono a lasciare intatta l’intensità emotiva e l’unitarietà del rapporto testomusica praticata dai grandi maestri del Rinascimento. Il grande rispetto nel mettere mano ai capolavori contrappuntistici del Cinquecento fa in modo che ci venga restituita in sonorità assolutamente moderne tutta la forza comunicativa dell’originale storico; la sua trasformazione non fa perdere coerenza e intensità ma aggiunge una nuova dimensione espressiva. Il meccanismo del canone e dell’imitazione trasforma il principio fisico dell’eco e della risonanza in quello psichico del sogno e del ricordo, in una sovrapposizione di piani spazio-temporali molto efficace e avvincente.
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LA MESSA DA REQUIEM DI GIUSEPPE VERDI
GENESI E INTRODUZIONE ALL’ASCOLTO
LA MESS REQUIEM di Piero Monti
DIRETTORE DEL CORO DEL TEATRO MASSIMO DI PALERMO E MEMBRO DELLA COMMISSIONE ARTISTICA FENIARCO
«Un gran nome è scomparso dal mondo! Era la riputazione la più estesa, la più popolare dell’epoca nostra, ed era gloria italiana! Quando l’altra che vive ancora non sarà più, cosa ci resterà? I nostri ministri, e le gesta di Lissa e Custoza!».1 Questo che Verdi scrisse il 20 novembre 1868 all’amica Contessa Clara Maffei ci serve per capire la storia della genesi della sua Messa da Requiem: la gloria appena scomparsa era Gioachino Rossini morto a Parigi il 13 novembre, l’altra ancora vivente era Alessandro Manzoni. Quattro giorni dopo, Verdi scrisse al suo editore Ricordi una lettera in cui lanciava una proposta: «Ad onorare la memoria di Rossini vorrei che i più distinti Maestri italiani (Mercadante a capo, e fosse anche per poche battute) componessero una Messa da Requiem da eseguirsi all’anniversario della sua morte… Questa composizione (per quanto ne possano essere
buoni i singoli pezzi) mancherà necessariamente d’unità musicale; ma se difetterà da questo lato, varrà nonostante a dimostrare, come in noi tutti sia grande la venerazione per quell’uomo, di cui tutto il mondo piange ora la perdita».2 Naturalmente questa idea fu accolta entusiasticamente da tutti; la notizia, riportata persino su giornali francesi, inglesi, tedeschi e russi, ricevette l’appoggio del comune e dell’Accademia Filarmonica di Bologna; una commissione appositamente costituita scelse tredici compositori per questa “Messa per Rossini”, compreso ovviamente Verdi a cui fu affidato l’ultimo brano, il responsorio Libera me. Ma se i musicisti compirono nei tempi previsti il loro dovere, coloro che dovevano poi organizzare tutto il resto non furono altrettanto solerti e, avendo fatto partire la “sottoscrizione artistica” solo a ottobre, non fecero in tempo a trovare risorse sufficienti per l’organizzazione della
NOVA ET VETERA
serata e per pagare orchestra, coro e cantanti: la commemorazione saltò con grande amarezza e indignazione di Verdi. Tutto il materiale fu chiuso nei magazzini di Ricordi e là è rimasto fino al 1970 quando fu ritrovato da David Rosen durante i lavori per l’edizione critica della Messa da Requiem di Verdi, mentre la prima esecuzione ebbe luogo nel 1988 con Helmuth Rilling alla testa della Radio-Sinfonieorchester e la Gächinger Kantorei di Stoccarda e il Coro Filarmonico di Praga. Fu fatta anche una registrazione che, per quel che mi risulta, è l’unica (due CD dell’etichetta Hänssler Classic). Devo concordare con ciò che Verdi aveva pronosticato riguardo il valore musicale: forse l’unico motivo di interesse è l’ascolto del brano verdiano. Dopo il fallimento dell’iniziativa per Rossini, Verdi si dedica alla scrittura di Aida che verrà eseguita a Il Cairo nel dicembre ’71 dopodiché, a parte il lavoro di revisione di due opere precedenti, Simon Boccanegra e Don Carlos, passarono 16 anni prima che una nuova opera, Otello, venisse rappresentata. Forse considerava finita la propria carriera? A 58 anni pensava di essere vicino alla morte e si prendeva un tempo per meditare sulla futura fine? Come Rossini (che nei suoi ultimi anni a Parigi aveva scritto Stabat Mater e Petite Messe solennelle) pensava di chiudere la carriera avvicinandosi alla musica sacra, omaggio a una convenzione consolidata tra i compositori d’opera quasi si volesse attribuire alla musica sacra una nobiltà, un grado più elevato nella gerarchia degli stili? Fatto sta che probabilmente l’idea di scrivere un “suo” Requiem lo stuzzicava/tormentava/attirava se dopo qualche anno (e siamo agli inizi dell’83) chiese a Ricordi di restituirgli la partitura del Libera me, cosa peraltro inusuale per Verdi che non provava attaccamento per i propri autografi. E quando il 22 maggio di quell’anno morì Alessandro Manzoni, all’indomani scrisse a Ricordi dichiarando: «Sono profondamente addolorato della morte del nostro Grande! Ma io non verrò domani a Milano ché non avrei cuore d’assistere ai suoi funerali. Verrò fra breve per visitarne la tomba, solo e senza essere visto, e forse (dopo ulteriori riflessioni, e dopo aver pesate le mie forze) per proporre cosa ad onorarne la memoria…».3 La proposta arrivò il 3 giugno: «Io pure vorrei dimostrare quant’affetto e venerazione ho portato e porto a quel Grande che non è più, e che Milano ha tanto degnamente onorato. Vorrei metter in musica una Messa da morto da eseguirsi l’anno venturo per l’anniversario della sua morte. La Messa avrebbe proporzioni piuttosto vaste, ed oltre ad una grande orchestra ed un grande Coro, ci vorrebbero anche (ora non potrei precisarlo) quattro o cinque cantanti principali…».4 L’esecuzione ebbe luogo nella chiesa di San Marco, scelta da Verdi su una rosa di quattro per la sua acustica e per la facilità di disporre coro e orchestra, il 22 maggio 1874, all’interno di una celebrazione che alternava i numeri musicali, diretti dallo stesso compositore, alla celebrazione liturgica di una Messa “secca” (cioè senza consacrazione del pane e del vino). Su due gradinate predisposte per l’occasione sotto la
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cupola furono collocati l’orchestra, a sinistra, e il coro; per ammettere a cantare in chiesa le donne, cosa che per Verdi era di fondamentale importanza, fu chiesta apposita autorizzazione all’arcivescovo, che la concesse a condizione che «fossero nascoste da una grata, da un orlo, o simile».5 Si soddisfecero i dettami vestendole con un vestito intero nero e coprendo il capo con un ampio velo da lutto. La partitura eseguita6 era identica a quella che oggi noi conosciamo eccetto per un episodio, il Liber scriptus, che era una fuga a 4 voci per coro e che invece, dal maggio dell’anno successivo, fu cambiato con quello che oggi sentiamo cantare dal mezzo soprano. Il cambiamento dipese dal fatto che in quella tournée Verdi aveva a disposizione una cantante di alto valore, che era l’unica voce del quartetto di solisti a non avere un assolo, e che non era soddisfatto della riuscita musicale della vecchia versione (cosa su cui concordo pienamente; queste sono le prime battute, il soggetto e il controsoggetto sono poco più che scolastici)
SSA DA EM
La Messa è divisa in sette brani che corrispondono alle varie parti della Messa per i defunti del messale romano di cui mancano il graduale («Requiem aeternam… In memoria aeterna…») e il tratto («Absolve Domine») mentre è presente il Libera me che è parte dell’ufficio della sepoltura. La sequenza Dies irae è internamente divisa molto nettamente in più episodi, collegati fra loro da ponti modulanti. Verdi apostrofò Ricordi, che aveva proposto di inserire in frontespizio l’intestazione dei singoli pezzi, con queste parole: «Voi volete fare della Messa, a quanto parmi, un’Edizione a pezzi come si usa per le opere!!... Non mi par bello sentire quest’odore di Arie, Duetti, Terzetti, Quartetti…».7 Era infatti intenzione del compositore allontanarsi formalmente dallo stile operistico, e anche la semplice richiesta di voler specificate nelle didascalie dei brani le diciture Sanctus, fuga a due cori oppure Libera me, per soprano e Cori e fuga finale rivela la volontà di evidenziare le differenze stilistiche tra la Messa e un’opera teatrale. L’organico orchestrale è composto da ottavino, 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 4 fagotti, 4 corni, 4 trombe, 3 tromboni, oficleide (strumento a fiato della famiglia degli ottoni, il cui nome
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Non sappiamo come Verdi volesse la disposizione: oggi la scelta spetta al direttore d’orchestra e, per mia esperienza personale, in genere quasi tutti scelgono la classica. Contrariamente a come si esegue oggi, senza interruzioni da capo a fondo, Verdi era solito fare un intervallo dopo il Dies irae e se c’erano molti applausi dopo un brano non disdegnava bissarlo.
significa “serpente a chiavi”, derivato dall’antico serpentone, oggi generalmente sostituito dal basso tuba), timpani, gran cassa, archi più altre 4 trombe “in lontananza”. Un tale organico di fiati viene oggi bilanciato da 60 archi (è il numero che generalmente hanno le orchestre sinfoniche, divisi in 16 violini primi, 14 secondi, 12 viole, 10 violoncelli e 8 contrabbassi). Un buon equilibrio con questi 85 suonatori si ottiene con un coro di almeno 100 cantori se la loro impostazione vocale è di tipo lirico (con un’ottantina si può fare ma viene un po’ a soffrirne il doppio coro del Sanctus); con coristi senza questo tipo di impostazione ne servono molti in più (a Londra l’ho eseguita con 240). Non c’è una disposizione ideale del coro, in quanto la classica
T1 T2 B1 B2 S1 S2 A1 A2
Il primo numero della Messa, Requiem e Kyrie, a quattro parti SATB e coro, inizia con un assolo dei violoncelli con sordina appena percettibile, cui rispondono tutti gli archi sempre con sordina mentre il coro bisbiglia sotto voce (sul fiato), prima gli uomini e poi le donne, la parola «Requiem»; il testo «Dona eis Domine» viene cantato da pochi soprani sull’intervallo di seconda discendente, il tema verdiano del dolore, che tante volte ha usato nelle sue opere, mentre le parole «Lux perpetua» sono madrigalisticamente sottolineate dal luminoso passaggio dalla tonalità di la minore a la maggiore. La musica di questo primo episodio è esattamente quella del Requiem aeternam che il soprano solo e il coro cantano a cappella nel Libera me composto sei anni prima per la messa per Rossini. Una cadenza d’inganno ci porta al fa maggiore del Te decet hymnus intonato dal coro a cappella, volutamente imitazione dello stile Palestrina, cui segue la ripresa del Requiem iniziale. Questa forma tripartita A-B-A con la parte centrale contrappuntistica è identica alla struttura del Kyrie della Petite Messe Solennelle di Rossini, sottolineando una volta di più la forte connessione tra questa Messa e la defunta gloria
Speranza, rassegnazione, raggiungimento di una pace interiore?
è funzionale per tutta la composizione ma non per il Sanctus a doppio coro, quella
T1 B1 B2 T2 S1 A1 A2 S2 rende bene spazialmente il doppio coro ma è molto pericolosa poi per l’insieme delle corde di soprani e tenori specialmente nell’altra fuga a 4 voci. Un’altra possibile è
S2 A2 T2 B2 S1 A1 T1 B1 che tiene compatte le sezioni e divisi i due cori, ma in pratica la spazializzazione non è così evidente e l’amalgama tra le quattro corde in tutto il resto della composizione non è ottimale.
italiana. E non posso non ricordare che Verdi si era sempre dedicato assiduamente allo studio della musica antica e che nella lettera che il 4 gennaio 1871 scrisse all’amico Florimo, declinando l’invito a divenire Direttore del Conservatorio di Napoli, suggerisce ai giovani alunni: «Esercitatevi nella Fuga costantemente, tenacemente, fino alla sazietà, fino a che la mano sia diventata franca e forte a piegar la nota al voler vostro. Imparerete così a comporre con sicurezza, a disporre bene le parti ed a modulare senz’affettazione. Studiate Palestrina e pochi altri suoi coetanei. Saltate dopo a Marcello… Torniamo all’antico, sarà un progresso».8 «Due tipi di Messa funebre si sono venuti delineando nella musica dell’Ottocento, da quando, cioè, l’esercizio della composizione religiosa è divenuto oggetto di libera elezione dell’artista anziché obbligo professionale. Uno è il tipo di Requiem che si potrebbe descrivere, in modo approssimativo, come elegiaco e, principalmente, rassegnato: la morte vi è
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sentita senza ribellione, in qualche caso persino come un porto di quiete al quale sarà dolce approdare, una volta finita l’insensata fatica terrena (Brahms, Fauré…)… Tutt’altra la concezione che si potrebbe chiamare latina del Requiem (Berlioz, Cherubini…) scritto ante mortem… Protagonista ne è l’uomo vivo, non il defunto, e il luogo dell’azione ne è questa terra, non l’al di là».9 Se poteva esserci qualche indecisione in quale tipo incasellare quello di Verdi, il primo accordo di sol minore del Dies irae fuga qualsiasi dubbio: il mondo esplode tra tuoni e fulmini e l’uomo urla tutta la sua disperazione per la fine del mondo con scale prima cromaticamente discendenti e poi diatonicamente terzinate (quando insegno questo brano mi chiedo sempre che tipo di voci di contralto doveva esserci all’epoca di Verdi: guardate la partitura alle batt. 5-8, come è possibile sentire gli alti in quel registro raddoppiati dai tenori secondi e con tutta l’orchestra che suona ff? Io, seguendo una tradizione che risale a Toscanini, tengo tutti i soprani sul sol acuto fermo e mando gli alti a cantare la parte cromatica, ottenendo così un risultato sonoro di grande impatto). Pagina di grandi contrasti, dal cataclisma iniziale al terrore appena bisbigliato del Quantus tremor, al giorno del giudizio annunciato in tutto l’universo dagli squilli degli ottoni: per dare a chi ascolta la sensazione di essere realmente coinvolto, di non poter sfuggire alla giustizia divina, con un colpo da
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vero uomo di teatro dispone “in lontananza ed invisibili” 2 trombe a destra e 2 a sinistra che dialogano con le 4 in orchestra accerchiando così il pubblico; quando, oltre a queste, si aggiungono i 3 tromboni, il basso tuba, 4 corni e il timpano sembra di poter toccare con le mani il suono sparso dalla Tuba mirum. Anche in questo caso è necessario raddoppiare i bassi con i tenori e i soprani con gli alti che altrimenti verrebbero travolti da questa valanga di suono. L’episodio, che si chiude seccamente portandoci armonicamente a una relazione di tritono (mi bemolle/la) con una velocissima scala ascendente “tronca” dei legni, ottavino in testa (anche questa tipicamente verdiana, da qualcuno definita una “sferzata”) e con una lunga pausa, lascia l’uditorio sbalordito, quasi l’uscita dei morti dai sepolcri si fosse realmente materializzata di fronte a lui. E nel silenzio che segue, il basso canta appunto, anzi è più corretto dire recita, «Mors stupebit». Ecco ora il brano scritto per il mezzo soprano Waldmann, Liber scriptus, che nella sua solenne ieraticità ci mostra il giudice supremo che apre il libro da cui il mondo sarà giudicato, lasciando nulla di impunito. Notiamo come sulla parola «nil» usi un altro madrigalismo, forse fin troppo scontato, ma comunque assai efficace: una rarefazione della musica, allungamento delle pause fino a un lungo silenzio. Voglio ricordare come Verdi continuamente sottolineasse che «non bisogna cantare questa Messa come si canta un’opera, e quindi i coloriti che possono essere buoni al Teatro, non mi accontenteranno affatto affatto. Dicasi così degli accenti et.et.».10 Guardate l’indicazione che dà al coro quando ripete come un’ossessione durante il canto del mezzo soprano le parole «Dies irae»: pppppp estremamente piano con voce cupa e tristissima (ricorderò sempre che Muti chiese al mio coro del Maggio musicale fiorentino di cantare queste quattro note “tra i denti”…). Dopo la ripresa della seconda parte del Dies irae il coro si siede per lasciare cantare a soprano, alto e tenore Quid sum miser: il canto dei solisti si muove, quasi cantus firmus, sopra una linea melodica di semicrome del primo fagotto che li
«Torniamo all’antico, sarà un progresso». accompagna per tutto il brano, lasciandoli poi soli alle ultime otto battute quando improvvisamente il coro si rialza in piedi sul possente attacco dei bassi Rex tremendea majestatis sommergendo l’ultima nota del soprano. Le prime tre note della melodia cantata per primo dal basso alla nona battuta del brano diventeranno la chiusa dell’episodio, ripetute a imitazione da tutte le sezioni del coro e dai solisti e in progressione ascendente coprendo così un’estensione di quasi
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atmosfera più meditativa e rilassata di quella fino a ora vissuta. Bellissima la parte centrale Hostias et preces tibi che il tenore canta a mezza voce su un tremolo fitto dei violini e viole e su un controcanto dei violoncelli. Il testo «Quam olim Abrahae» è, assecondando la tradizione, in stile imitativo. Il Sanctus è una fuga reale a due cori, il brano più brillante di tutta la Messa; dopo la solenne fanfara introduttiva ecco l’esposizione del tema assai vivace in fa maggiore. Il primo coro lo presenta nella sequenza S, A, T, B, mentre il secondo coro, con la stessa sequenza, canta un contrappunto al tema principale, per cui si può anche definire come doppia fuga; finita l’esposizione del primo coro si invertono le parti, i S2 e A2 cantano rispettivamente la quinta e la sesta esposizione del primo tema mentre le rispettive dell’altro coro contrappuntano col secondo tema, fino qui nel pianissimo. Con la settima esposizione dei T2 inizia una serie di stretti e divertimenti tra i due cori, i primi f sulle parole «Hosanna in excelsis», gli altri pp col tema in tono minore del Benedictus, e il gioco contrappuntistico tra le voci si spegne gradatamente rarefacendo le entrate e la sonorità. Praticamente la fuga si ferma qui e ora inizia un dolcissimo episodio a note lunghe pp tra i due cori: al primo che canta «Pleni sunt coeli et terra» risponde il secondo con «Hosanna», quasi il cielo e la terra dialogassero, contrappuntati da una fioritura di crome degli archi e legni. L’ultimo «Hosanna» accompagnato da un’inondazione di scale cromatiche all’unisono di tutti gli strumenti conclude in maniera pomposamente festosa il brano. tre ottave che ci danno l’idea di un’accorata supplica universale. Nuovamente il coro si siede perché seguono tre episodi solistici, il duetto delle donne Recordare Jesu pie, l’aria del tenore Ingemisco e quella del basso Confutatis maledictis, le cui rispettive tonalità di fa maggiore, mi bemolle maggiore, do diesis minore/mi maggiore sono abilmente collegate da ponti modulanti che danno a tutta la sequenza assoluta continuità e unitarietà; l’ultima cadenza del basso sulle armonie mi minore/si maggiore risolve ingannevolmente su sol minore per la ripresa del Dies irae iniziale che conduce all’ultimo episodio, Lacrymosa, che riunisce nuovamente coro e soli nella perorazione finale. Il bellissimo tema di questa ultima sezione è l’unico caso a me noto di autoplagio verdiano: è infatti stato preso da un duetto con coro maschile del quarto atto di Don Carlos della prima versione parigina, che però fu eliminato dall’opera nel corso delle prove per cui, non essendo mai stato ascoltato, Verdi non ebbe problemi a riciclarlo. La tonalità di si bemolle minore della lamentazione si distende alle ultime battute quando sulle parole «dona eis requiem» diventa maggiore, portando così la sequenza iniziata in sol minore a risolvere sulla sua relativa maggiore. L’offertorio a quattro voci sole inizia con una melodia arpeggiata dei violoncelli in la bemolle maggiore, assai insidiosa anche per le migliori orchestre, che ci porta in una
Dal fa maggiore ff eseguito da circa 200 esecutori si passa alla melodia in do maggiore dell’Agnus Dei cantato dolcissimo senza accompagnamento a distanza di un’ottava dalle due soliste: un tema semplicissimo, arcaicizzante, cui rispondono coro e orchestra, anche loro con la sola linea melodica a ottave, senza armonie, una scelta che trasmette immediatamente il senso di Requiem, di Pacem. Il secondo Agnus ritorna alle soliste che espongono lo stesso tema in modo minore accompagnate da un contrappunto di flauto e clarinetto; la nuova risposta delle masse riporta il tono maggiore e la linea melodica viene armonizzata. Per la terza volta la stessa alternanza tra soliste, accompagnate solo da un contrappunto di tre flauti di difficile esecuzione per l’insieme e l’intonazione, e il coro cui segue la breve coda sulle parole «requiem sempiternam». I tre solisti, ATB, che cantano il brano per la comunione Lux aeterna devono essere assolutamente sicuri nell’intonazione, perché i due episodi a cappella che Verdi scrive loro sono sì brevi ma armonicamente non semplici e costellati di alterazioni, motivo questo per cui spesso si sentono esecuzioni terrificanti in quei punti. La Messa si conclude con il primo brano composto da Verdi, il Libera me scritto anni prima per Rossini. Confrontando le due
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(dal fa diesis grave al do sopracuto) la supplica Libera me Domine de morte aeterna. E l’ateo, miscredente, il materiale uomo Verdi chiude con queste parole la sua messa da morto usando l’accordo di do maggiore; la lunga composizione (in totale quasi un’ora e mezza), iniziata in la minore, termina sulla sua relativa maggiore. Speranza, rassegnazione, raggiungimento di una pace interiore? Chissà… Certo è che, dopo una esecuzione particolarmente intensa musicalmente, mi capita di essere disturbato dagli applausi: forse sarebbe meglio, spentosi l’ultimo accordo pppp morendo, che si restasse in silenzio rispettando quel bisogno di intimità interiore che Verdi ha cercato per sé, e per noi.
versioni si nota che Verdi ha apportato molte variazioni, alcune semplicissime come piccoli cambi di ritmo o di alcune note, altre più evidenti come tutta la prima parte del Dies irae che all’interno del brano viene ripreso per la quarta volta. È affascinante, e anche un po’ commovente, vedere che, come la mano del Maestro con un piccolo tratto perfeziona il compito dell’allievo, anche il sessantunenne compositore si mette in discussione trovando soluzioni più semplici ma artisticamente migliori. Avendo a disposizione per la celebrazione manzoniana un soprano con più facilità negli acuti rispetto a quella che avrebbe dovuto cantare per Rossini, ha trasportato l’episodio in cui lei canta a cappella col coro mezzo tono sopra, da la a sib minore; l’effetto che ne risulta è di così maggiore morbidezza e rotondità che mi chiedo se il motivo sia solamente quello contingente dell’esecutore piuttosto che un ripensamento sul colore risultante. Come già avevo accennato, il brano a cappella nella sua tonalità iniziale è stato utilizzato per iniziare la Messa, e la sensazione che si ha all’ascolto è proprio della chiusura di un percorso, che circolarmente ci riporta all’inizio di tutto. Ma ecco che l’uomo Verdi non si rassegna, si ribella, e scrive ancora una fuga dove fa gridare in tutta l’estensione possibile
Avrei voluto raccontare agli amici di Choraliter qualcosa sugli altri brani corali scritti da Verdi, il Pater noster a 5 voci a cappella e i Quattro pezzi sacri che sono un’Ave Maria a 4 voci a cappella, Stabat Mater con orchestra, Laudi alla Vergine per coro femminile a cappella e Te Deum anche questo con orchestra, brani scritti separatamente nel tempo ma per lunga tradizione generalmente eseguiti insieme in questo ordine, ma mi sono dilungato nel parlare della Messa. Consiglio comunque chi non li conoscesse di ascoltarli, credo che per tanti potrà essere una piacevole scoperta.
Nelle foto: la chiesa di San Marco a Milano
Note 1. A. LUZIO E G. CESARI (a cura di), I Copialettere di Giuseppe Verdi, Milano 1913. 2. C.M. MOSSA, Messa per Rossini, vol. 5 dei Quaderni dell’Istituto di studi verdiani, pag. 57. 3. I Copialettere, CCXLVII, pag. 84. 4. F. ABBIATI, Giuseppe Verdi, 3° vol., pag. 643. 5. Appunto del 20 aprile nel diario di Don Michele Mongeri, proposto della chiesa di San Marco.
6. Chi volesse proseguire la lettura seguendo la musica, può trovare e scaricare la partitura completa, lo spartito canto e piano versione 1874 e quello della definitiva versione 1875 a questo link: http://imslp.org/wiki/Requiem_%28Verdi,_Giuseppe%29 7. Lettera dell’8 aprile a Giulio Ricordi. 8. I Copialettere, CCI, pag. 232-233. 9. M. MILA, L’arte di Verdi, pag. 257. 10. Lettera del 26 aprile a Ricordi.
DUM CLAMAREM
DUM di Michele Lomuto
La guida all’ascolto del disco è disponibile sul sito www.feniarco.it alla sezione editoria / choraliter
Com’è ormai consuetudine, il numero di dicembre di Choraliter offre ai suoi lettori un’interessante proposta discografica, che arricchisce attraverso il suono i contenuti e gli approfondimenti della rivista. Quest’anno abbiamo il piacere di presentare l’ultima incisione del Mediæ Ætatis Sodalicium, coro gregoriano femminile diretto da Nino Albarosa. Un progetto discografico voluto e realizzato da una delle nostre associazioni regionali, l’Usci Friuli Venezia Giulia, in collaborazione con Feniarco, e di imminente pubblicazione sotto l’etichetta discografica Tactus. Per meglio comprendere il contenuto del disco, riportiamo di seguito la presentazione del disco pubblicata nel booklet dell’edizione curata da Tactus, che con l’occasione desideriamo ringraziare per la preziosa collaborazione e disponibilità. A tutti, buon ascolto!
Per corporalia ad incorporalia La bellezza mi commuove, ma mi proietta oltre, non mi lascia permanere in un atteggiamento puramente estetico. Le emozioni si intrecciano a pensieri e a ricordi. Il primo ascolto del Mediæ Ætatis Sodalicium è stato per me illuminante in relazione all’idea che avevo di canto sacro: ancor prima di un ricorso a ragioni storico filologiche, l’esito interpretativo proposto da Nino Albarosa si dimostrava da sé come apertura di infiniti orizzonti di senso. Ricordo che mi tornava alla mente il verso di Alano di Lilla: In hac Verbi copula stupet omnis regula. La resa della ragione mondana al cospetto del mistero dell’incarnazione del Verbo si rappresentava musicalmente. La parola divina si incarnava nel canto. Parola che oggi continua a risuonare nella sua missione kerigmatica anche in una registrazione discografica, sfidando la “perdita dell’aura” provocata dalla riproduzione tecnica dell’opera,
Tempo totale 69'16"
DOLORE E SPERANZA NEL CANTO GREGORIANO
CHORALDISC
sfidando la perdita dell’hic et nunc della sua collocazione spazio temporale. Perdita che inoltre cancella tutti i sensi tranne l’udito, mentre il perfetto unisono aveva già cancellato le tracce dei caratteri individuali. Si fa strada fra i miei pensieri la testimonianza di S. Agostino, la sua commozione all’udire i canti della Chiesa riunita in Milano, ma non posso non confrontarmi con le sue preoccupazioni. «Tamen cum mihi accidit, ut me amplius cantus quam res, quae canitur, moveat, poenaliter me peccare confiteor et tunc mallem non audire cantantem». (Confessiones, X, 33, 50) L’ascolto del Mediæ Ætatis Sodalicium mi porta a interrogarmi: non ho avvertito alcuna preoccupazione di poter essere mosso “più dal canto che dalle parole cantate”, perché non è questo l’esito cui da queste voci potrei essere condotto. Nel mio ascolto il canto è inseparabile dalla parola divina, la musica non è un ornamento estetico isolabile e godibile per sé. Il canto sacro si rivela – per il mio ascolto senza riserve – come pratica orientata a elevarsi al cielo, esperienza che consente all’uomo di passare per corporalia ad incorporalia, dalla realtà sensibile e corporea a quella sovrasensibile, incorporea e spirituale. Radicandosi nei livelli più profondi delle strutture percettive, l’esperienza di ascolto evolve fino ai più alti livelli dell’astrazione, dell’intelligenza logico formale. A condizione, naturalmente, di riuscire a tener vivo l’intreccio dialogico fra il puro piacere dell’ascolto e l’anelito della fides quaerens intellectum. Solo isolando il respiro del corpo dal respiro
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dell’anima che anela a innalzarsi a Dio si lascia spazio alla voluptas che tanto preoccupava S. Agostino, strumento di strategia diabolica, il più pericoloso diabolus in musica. Contrastarlo richiede grande intelligenza interpretativa e grande tecnica: ecco ciò che rende uniche queste straordinarie voci, coordinate dalla profonda musicalità di Nino Albarosa. Qui tecnica vocale e tecnica direttoriale recuperano il senso originario della techne come arte, dis-velamento, produzione del bello come pro-duzione del vero. Non lasciano traccia di strumentalità funzionale perché talmente musicali da essere già musica allo stato nascente. Il respiro del corpo non si presenta come strumento al servizio del canto perché è già respiro dell’anima, respiro musicale. La tecnica così intesa ci rivela musicalmente il desiderio di ascesa dell’anima innamorata di Dio nel modo in cui offre all’ascolto il percorso di liberazione dai turbamenti delle passioni e dagli appetiti del corpo. Se la pratica musicale è comunque nella sua essenza gestione del rapporto tensione-distensione, l’ascolto del Mediæ Ætatis Sodalicium ci permette di vivere l’esperienza di una tensione continua verso l’alto attraverso un’articolazione di frase in cui l’appoggio ritmico e agogico non è mai “pesante”. L’appoggio della tesi è già slancio dell’arsi e il dolore si alleggerisce, così, dal peso della disperazione nell’invocazione di speranza.
DUM CLAMAREM Dolore e speranza nel Canto Gregoriano Mediæ Ætatis Sodalicium - direttore, Nino Albarosa
Registrato presso l’Abbazia di Rosazzo (Manzano, Ud) nel mese di giugno 2012 Registrazione, editing e master Pietro Tagliaferri Printed in Italy for Feniarco ۔2013 © Tactus s.a.s., Bologna 2014
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Hymnus Benedictus es Dominus Introitus Dum clamarem Graduale Iacta cogitatum tuum Alleluia Deus iudex iustus Offertorium Precatus est Moyses Communio Acceptabis Introitus Misericordia Domini Graduale Adiutor in opportunitatibus Alleluia Exsultate Deo Offertorium Iubilate Deo universa terra Communio Unam petii Antiphonae finales [tono semplice e tono ornato] Alma, Redemptoris Mater Ave, regina caelorum Regina caeli, laetare, Alleluia Salve, regina
7’28” 4’34” 3’58” 2’57” 9’39” 2’47” 2’12” 6’16” 2’53” 8’03” 4’17” 3’08” 2’33” 2’32” 4’52”
Feniarco in collaborazione con Arcova e European Choral Association - Europa Cantat presenta
european seminar for
young composers
choral composers today
Il Seminario europeo è una masterclass professionale su composizione e arrangiamento per coro, che ha luogo a Aosta, città dominata da importanti montagne e circondata dalla natura. I partecipanti avranno la possibilità di provare i loro nuovi lavori sul campo, grazie alla presenza di due cori laboratorio. Il corso termina con l’esibizione di alcune nuove opere selezionate dai docenti.
I laboratori Bottega di composizione originale ed elaborazione-arrangiamento docente Vytautas Miškinis (Lituania)
Bottega di arrangiamento vocal pop e jazz docente da confermare
Bottega di composizione per cori di bambini docente Piero Caraba
Bottega di sperimentazione-esecuzione docente Davide Benetti (coro misto) e Luigina Stevenin (coro di voci bianche)
Iscrizioni entro il 30 aprile 2014
AOSTA 20/26 luglio 2014 www.feniarco.it
informazioni Feniarco - Via Altan, 83/4 - 33078 San Vito al Tagliamento (Pn) - Tel. +39 0434 876724 - Fax +39 0434 877554 - info@feniarco.it
CANTO POPOLARE
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I CANTI DELLA RESISTENZA NELLA TRADIZIONE POPOLARE PIEMONTESE ROMANTICISMO RISORGIMENTALE E MODERNIZZAZIONE DEL CONTESTO SOCIALE di Ettore Galvani ETNOMUSICOLOGO, PRESIDENTE ACP PIEMONTE E DIRETTORE DELL’ASSOCIAZIONE CORALE CARIGNANESE
La guerra non ha saputo dare che pochissimi canti di una certa verità e di un certo carattere. A confronto con il repertorio che si è venuto a formare negli anni prima della guerra mondiale, il corpo delle canzoni militari dell’ultimo conflitto è di una esiguità allarmante. Nei casi migliori si è avuto una tardiva e incerta imitazione dei modelli ormai classici e perfettamente assimilati della guerra precedente, ma in un tono tetro e disperato. Le poche pagine vive del canzoniere della guerra trascorsa sono quelle dove il sentimento della morte sovrasta ogni altro sentimento. «È vero che alla guerra mussoliniana» scrive Pasolini «hanno partecipato tutte le masse popolari della nazione: ma senza possibilità di esprimersi, se non nel tono, e quando il tono popolare è accertato, esso sarà sempre caratterizzato da un’aria profondamente triste, funerea. È una guerra dominata dalla “bandiera nera” del lutto, dalla morte inutile. Il terribile, sordo lamento della povera armata Sagapò condotta al massacro nel miserabile fango balcanico».
Nella ricorrenza del settantesimo anniversario della Resistenza Italiana che principiò dopo l’Armistizio dell’8 settembre 1943 e l’avvento, l’anno dopo, delle Repubbliche Partigiane1 delle quali 7 su 17 all’interno del territorio piemontese, nasce l’esigenza, o forse la curiosità, di fare il punto della situazione sotto un profilo puramente etnomusicologico tralasciando volutamente tutte le analisi e trattazioni politico-sociali che sottendono all’argomento. Partendo dall’affermazione di incipit tratta dal volume Canti della Resistenza Italiana2 del 1960 a opera di Roberto Leydi, con il particolare contributo di Pasolini, non si può non introdurre la tematica del valore letterario e musicale delle composizioni dell’epoca e porla a confronto con la tradizione classica narrativa a sfondo epico lirico da cui trae la gran parte della sua ispirazione. Facendo capo all’affermazione precedentemente esposta, nello svolgimento letterario di questo breve intervento, porteremo ad esempio alcuni dei canti della resistenza piemontese e, a ritroso, ripercorreremo il fil rouge della storia riconciliando l’oral history del secondo dopoguerra con le tradizioni epico liriche del territorio.
In questo senso il saggio di introduzione di Cesare Bermani3 agli atti del convegno di studi Canzoni e Resistenza4 è esplicativo. «A proposito del canto partigiano c’è un primo mito da sfatare: che sia stato sufficientemente studiato. Su di esso, infatti, si è fatta poca ricerca sul campo, e i numerosi canzonieri della Resistenza prodotti dalle associazioni partigiane o da gruppi politici, soprattutto della sinistra, ci dicono poco su quanto effettivamente si cantasse in montagna. Nella maggioranza dei casi, infatti, quei canzonieri prima sono stati fatti quadrare con la rivendicazione del valore nazionale e unitario della Resistenza – arma utilizzata dalle sinistre contro gli arresti di partigiani e le discriminazioni anticomuniste del periodo scelbiano5 – e poi con l’ideologia della Resistenza sviluppatasi con il centro-sinistra, che aveva come corollario un’immagine oleografica e aconflittuale della guerra di liberazione. Sicché soltanto pochi canzonieri, tutti pubblicati nella prima fase post resistenziale in cui operava ancora la gioia della liberazione e uno spirito unitario nella differenza degli orientamenti politici, hanno qualche utilità per conoscere che cosa effettivamente si cantasse in alcune formazioni partigiane». A una lettura più attenta dunque degli scritti sull’argomento editi fino al tramonto degli anni Ottanta si evincono eccellenti strategie editoriali con contenuti ricomposti dalle edizioni precedenti senza particolari apporti storico-musicali di rilevanza. Improntati fondamentalmente a rilanciare la lotta sociale del “momento storico presente” sull’empatia generalizzata verso il periodo 1943-45 e confinata in quel “mondo dei sentimenti pubblici” guardato a lungo con sospetto per i tentativi di utilizzare a fini di elaborazione storica i canti e i racconti dei protagonisti, essi cercano di accattivarsi interessi e curiosità attraverso una prosa popolare che non appartiene né come ideologia né come spirito alla tradizione orale della Resistenza. In questo contesto si collocano molte opere editoriali che trattano l’argomento Resistenza nella più ampia accezione del termine superando i termini temporali precedentemente enunciati e spaziando in una antologia di significati e
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argomentazioni molto estesi e il più delle volte, come è normale che succeda, a sfondo socio-politico. Cito ad esempio l’opera Canzoniere della Protesta6 pubblicato tra il 1972 e il 1976 in cinque volumetti nei quali il secondo volume, Canti della Resistenza armata in Italia, pur nella leggerezza della pubblicazione stessa, è inserito in un contesto letterario fuorviante e mescolato a titoli quali Canzoni Comuniste e La linea rossa della canzone. Ritornando sul nostro argomento dei canti resistenziali del periodo del secondo conflitto mondiale troviamo forse la prima pubblicazione in assoluto dei Canti della Resistenza in Piemonte dal titolo Canta Partigiano7. Pubblicato a Cuneo nel 1947 con le sue ridotte dimensioni e le sue 40 pagine riporta, accompagnati alcune volte da un piccola introduzione di collegamento storico con le varie formazioni partigiane del luogo, 30 testi di canzoni rinvenute sul territorio regionale. Una breve e discreta introduzione apre la raccolta in modo semplice, non facinoroso, senza legami e senza vessilli, con una presa di coscienza che quello che era stato fatto andava fatto per un bene superiore al sacrificio del singolo. E in questa semplice retorica si scorge il messaggio di un popolo abituato a lottare per la sua libertà facendo ritornare a viva memoria i luoghi, i volti, i sogni e le aspettative dei militi e dei caduti della Grande Guerra: la nostra Quarta Guerra d’Indipendenza. «Sono questi alcuni canti dei partigiani piemontesi: sono la loro voce, le prime spontanee parole di una lingua nuova per un mondo nuovo. Vi palpita dentro in un canto, in un dolore, in un amore ingenuo e fiero la giovinezza che vuole lottare, che, al di là della rovina e della morte dei singoli, crede nella santa eternità della vita, l’afferma, la conquista e con il sogno dei suoi morti la costruisce. E se qualche volta la forma resiste e ricalcitra – ebbene, al diavolo la forma! Tutta l’anima della guerra partigiana sdegnosa d’indugio si solleva dalla materia dell’onda della musica, e quest’anima dai morti e dai vivi prorompe con questi canti sulle terre e sulle piazze d’Italia». Incredibile quanto il lavoro contenuto in questa piccola pubblicazione abbia indirizzato, contribuito e in un certo qual modo contaminato le successive pubblicazioni degne di nota tra le quali Canti della Resistenza Italiana (op. cit.) nella quale vi sono presenti 27 dei 30 canti presentati nell’opuscolo e la pubblicazione del 19858 dall’omonimo titolo di quella del 1960 ad opera di A. Virgilio Savona e Michele L. Straniero nel quale ve ne sono 22. Prima di addentrarci nell’esplorazione di alcuni dei canti che ci riporteranno agli stadi della canzone epico-lirica dei primi del Novecento ci sembra doveroso esplicitare il lavoro condotto negli ultimi anni nel cercare di fare chiarezza sui canti resistenziali ascritti al periodo.
In varie forme la ricerca etnomusicologica si è orientata allo studio dell’oral history dell’epoca per cercare d’interpretare e dare risalto a una parte importante di quella branca definita come “canti sociali” e verso la quale non sempre si ha la lucidità sociale e soprattutto politica dell’oggettività dei fatti. Settant’anni possono essere tanti ma di fronte a determinati avvenimenti sono solamente un granello di sabbia della
A proposito del canto partigiano c’è un primo mito da sfatare: che sia stato sufficientemente studiato. clepsamia9 della storia ed evoluzione di un popolo. Ci sembra rilevante in questo senso riportare un’affermazione di Roberto Battaglia10 tratta dalla sua Storia della Resistenza italiana del 1953: «[…] esistono i documenti [scritti] della Resistenza da studiare, ma non dobbiamo farci prendere dal feticismo dei documenti. Chi di noi ha scritto quei documenti sa che in essi non vi era tanto la preoccupazione di accertare
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la verità, quanto uno scopo immediato, propagandistico, di lotta, per cui si dicevano talune cose, magari sottolineandole e se ne tacevano altre, non bisogna credere cioè che la storia della Resistenza sia inesplorata perché ancora chiusa negli archivi. Questo non è vero, questo è un errore gravissimo tanto più che poi hanno pensato i tedeschi a sfoltire notevolmente i nostri archivi. Su alcuni periodi della Resistenza, su documenti di intere formazioni, sappiamo poco […] l’unica possibilità reale di scrivere questa storia è appunto di avvicinarsi ai suoi protagonisti autentici, […] su un piano che non sia quello del sociologo distaccato […] ma quello di stabilire una collaborazione direi affettuosa tra chi interpreta e chi risponde. Questo è l’unico metodo…». Affermazioni importanti, viatico di studio e di ricerca, che in una certa forma avvicinano lo studio delle tradizioni orali a una struttura oggettiva della riproposta storica del “momento presente” elevando la veduta da soggettiva a una elaborazione collettiva di condivisione di idee e intenti tipica del canto popolare. Parlando di canto popolare e ritornando al nostro volumetto che ci regala uno spaccato della tradizione orale partigiana piemontese ci soffermiamo su alcuni canti contenuti nella raccolta, partendo dal primo che l’editore cuneese utilizza come apertura della sua piccola antologia, e del quale vi riportiamo introduzioni e parole.
Pietà l’è morta Fu la divisa e il canto della I Divisione Alpina G.L. (Giustizia e Libertà). La canzone riprende e svolge il motivo “alpino” congiungendo idealmente l’alpino morto in Russia col partigiano che combatte nelle valli italiane. Intuizione felice: che veramente i partigiani sono gli eredi e i continuatori della magnifica tradizione di quegli alpini, che su tutti i campi di battaglia han dimostrato di essere fra i primissimi soldati del mondo. Va cantata sull’aria di “Sul ponte di Perati, bandiera nera…”. Lassù sulle montagne Bandiera nera, L’è morto un partigiano nel far la guerra. L’è morto un partigiano nel far la guerra, un altro italiano va sotto terra. Laggiù sotto terra trova un alpino, caduto nella Russia con il Cervino. Ma prima di morire ha ancor pregato, che Dio maledica quell’alleato. Che Dio maledica chi ci ha tradito, lasciandoci sul Don e poi è fuggito. Tedeschi traditori l’alpino è morto, ma un altro combattente oggi è risorto. Combatte il partigiano la sua battaglia, tedeschi e fascisti: Fuori d’Italia. Tedeschi e fascisti: Fuori d’Italia, Gridiamo a tutta forza «Pietà l’è morta!».
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Come si evince dalla piccola presentazione del canto la linea melodica viene mutuata dal canto della Prima Guerra Mondiale Sul ponte di Perati utilizzato dalle truppe alpine della Brigata Julia prima in Russia e in Albania e successivamente sul fiume Vojussa, al confine grecoalbanese, per la campagna italiana di Grecia del 1940-41. Diventato uno dei più celebri canti del movimento paramilitare fu composto dal partigiano Nuto Revelli11 nella primavera del 1944 presso il Vallone dell’Arma a Demonte in provincia di Cuneo. Di impianto narrativo semplice, come del resto il testo originale, si denotano alcune devianze dialettali nella prima e nella seconda strofa con il posizionamento della lettera L davanti al verbo essere coniugato in terza persona singolare dell’indicativo presente.
I Garibaldini delle langhe Sull’aria di “Frontiera di Dalmazia” Noi siamo gli eroici Garibaldini Che nelle Langhe combattiamo Il nostro motto è arrischiare Con viva fede seguitare. Sempre svelti e sempre pronti Sulle strade e sopra i ponti Le imboscate noi tendiamo Al feroce oppressor. Italia, Italia Cosa importa se si muore Il nostro grido è di riscossa Il tedesco scaccerà Italia, Italia Cosa importa se si muore Il nostro grido è di battaglia Per la Patria e Libertà. Per noi fatiche non ci sono E sempre in alto è il nostro grido E la Germania tenta invano La nostra marcia di arrestare. Vessazioni impiccagioni Dai nazisti e dai fascisti A noi non fanno che aumentare Il nostro orgoglio e il nostro ardir. Italia, Italia… (Ripetuta questa volta in modo veloce alla garibaldina) La veste letteraria delle strofe non offre particolari spunti storici su cui argomentare ma l’incipt del ritornello e l’indicazione
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relativa alla melodia da utilizzare per cantarla ci riporta al più famoso canto conosciuto con nome di Valsesia! Valsesia! In realtà sia la melodia che gran parte del testo vengono adottati dalla canzone irredentista Dalmazia! Dalmazia! Cantata prima dagli arditi e dai dannunziani viene successivamente mutuata per diventare l’inno della Divisione San Marco della X MAS e ancora nel 1937-38 inno della GAF, Corpo di Fanteria Alpina di Frontiera. Solamente nel 1943 la composizione originale si trasforma a opera della sensibilità popolare partigiana nel canto conosciuto col titolo di Valsesia! Valsesia! 12 Il canto, dopo una rielaborazione del testo particolarmente evocativo, diventò l’inno della Divisione Valsesia nonché una delle canzoni più conosciute dell’area del Piemonte nordorientale.
Per completare il quadro generale vi citiamo ancora alcuni esempi di trasformazione di canti preesistenti che ci riportano allo stesso schema dei due canti precedenti: La stella del partigiano cantato sulla melodia russa di Katiuscia e oggi meglio conosciuto come Fischia il Vento; Partigian dle Muntagne (Partigiani delle Montagne) cantato sulla melodia della Marcia dei coscritti piemontesi; La veglia del partigiano sull’aria de Il cacciatore nel bosco; Boves sull’aria di Monte Canino; Il Pilone di Moretta sull’aria di Ta Pum… Le trasformazioni letterarie nei canti della Resistenza sono molteplici e si può tranquillamente affermare che facevano parte della tradizione orale della gente nella quale si insinuava, quasi senza rendersene conto, il linguaggio musicale romantico presente in ogni singolo territorio regionale. Gli stili musicali tipici di una popolazione o meglio quelli ripresi dalle tradizioni popolari e militari fino a quel momento fruiti si fondevano dunque in una nuova forma di oralità
Valsesia Quando si tratta di attaccare noi di Moscatelli siamo i primi, tutti s’affacciano a guardare tutti s’affacciano ai balcon. Contro i tedeschi e repubblichini, combatteremo: siam partigiani! Ai nostri morti l’abbiam giurato: Vogliamo vincere o morir! Valsesia! Valsesia! cosa importa se si muore, questo è il grido del valore: Partigiano vincerà!
Le trasformazioni letterarie nei canti della Resistenza sono molteplici. andando a contaminare le strutture letterarie romanticorisorgimentali attualizzandole attraverso la modernizzazione del contesto sociale contingente. Un lavoro di équipe, una rielaborazione condivisa dal popolo per il popolo sulla struttura delle rielaborazioni collettive dei canti epico lirici piemontesi già individuate da Costantino
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Note 1. Alto Monferrato (dal 2 settembre al 2 dicembre): occupa la zona sud di Asti e arriva fino alle Langhe. Ne fanno parte 36 comuni tra cui Canelli e Nizza Monferrato. Alto Tortonese (da settembre a dicembre): con le aree di Torriglia e Varzi costituisce in pratica un solo vasto territorio libero, che include le Valli Borbera, Sisola, l’alta Val Grue e la Val Curone. Langhe (da settembre a metà novembre): si trova a nord-ovest di Mondovì, tra il Tanaro e il Bormida. Dal 10 ottobre al 2 novembre comprende anche la città di Alba. Ossola: è la più conosciuta tra le Repubbliche partigiane e dura dal 10 settembre al 23 ottobre. Data la vicinanza con la Svizzera è seguita con attenzione anche dalla stampa internazionale. La sua storia sarà breve ma ricca di esperienze politico-sociali. Nel suo territorio si trovano 35 comuni con 85.000 abitanti. I centri principali sono Domodossola, Bognanco, Crodo, Pieve Vergante, Villadossola. Val Maira e Val Varaita (da fine giugno al 21 agosto): si trova a nord- ovest di Cuneo. Valli di Lanzo (dal 25 giugno a fine settembre): è a 30 chilometri a nord-ovest di Torino e comprende le valli Ala, Viù e i paesi e le città lungo lo Stura. Valsesia (dall’11 giugno al 10 luglio): comprende tutta l’alta valle fino a Romagnano e Gattinara. 2. Canti della Resistenza Italiana. 1960, Raccolti e annotati da Tito Romano e Giorgio Solza con una introduzione di Roberto Leydi, Milano Collana del Gallo Grande. 3. Cesare Bermani, etnomusicologo. È fra i fondatori dell’Istituto Ernesto De Martino ed è stato tra i primi a utilizzare le narrazioni orali a fini storici e fra i promotori dell’Associazione italiana di storia orale, sezione dell’International Oral History Association. È stato redattore e direttore delle riviste Il nuovo canzoniere italiano, Primo Maggio, Il de Martino, collaboratore de I giorni cantati e attualmente scrive saggi per L’impegno e Musica/Realtà. 4. Canzoni e resistenza. Atti del convegno nazionale di studi a cura di Alberto Lovatto, Istituto per la storia della resistenza e della società contemporanea nel Biellese, nel Vercellese e in Valsesia. 5. Mario Scelba (Caltagirone 1901 - Roma 1991). Uomo politico, organizzatore della gioventù cattolica, aderì fin dall’inizio al Partito popolare di L. Sturzo, di cui fu segretario particolare. Ritiratosi dalla politica durante il fascismo, fu tra i fondatori della Democrazia Cristiana (1942-43). Membro della Consulta nazionale, della Costituente, della Camera dei Deputati (1948-68) e del Senato (1968-1979). Ministro delle Poste (1945-47), tra il 1947 e il 1955 fu quasi ininterrottamente ministro dell’Interno; in questa veste riorganizzò e potenziò le forze di polizia, massicciamente impiegate per fare fronte alle tensioni sociali e politiche di quegli anni. Nuovamente ministro dell’Interno (1960-62), fu contrario alla politica del centrosinistra. Presidente del Consiglio nazionale della DC (1966-69), dal 1969 al 1971 fu presidente del parlamento europeo. Secondo Giuseppe Carlo Marino, docente ordinario dell’Università di Palermo, storico e scrittore, Mario Scelba, divenuto Ministro dell’Interno, diede il via a una politica repressiva antidemocratica verso gli scioperi causando numerose vittime e feriti nel corso della sua funzione pubblica. Sempre secondo il parere di tale studioso, l’avversione
a idee di giustizia sociale di stampo socialcomunista in nome di una priorità di ordine economico portò a violare le libertà costituzionali di opinione e assemblea agli appartenenti alle formazioni sindacali e delle sinistre. 6. Canzoniere della Protesta, Edizioni del Gallo: 1. Canzoniere della protesta (1972); 2. Canti della Resistenza armata in Italia (1972); 3. Canzoni Comuniste (1973); 4. La linea rossa della canzone (1973). Canzoniere della Protesta, Edizioni Bella Ciao: 5. Ivan Della Mea (1976). 7. Canta Partigiano, 1947, Edizioni Panfilo in Cuneo. Tipografia Piemontese, corso Stura 9, 10cm x 15 cm, 40 pagg. 8. Canti della Resistenza Italiana, 1985, A. Virgilio Savona e Michele L. Straniero, Biblioteca Universale Rizzoli. 9. La clepsamia o clessidra a sabbia è uno strumento per la misura del tempo costituito da due recipienti di forma approssimativamente conica collegati tra di loro. 10. Roberto Battaglia (Roma, 17 febbraio 1913 - Roma, 20 febbraio 1963). Accademico, storico e partigiano italiano, Medaglia d’Argento al Valor militare. Storia della Resistenza italiana, I edizione 1953, poi 1964, ristampata fino al 1979, Giulio Einaudi Editore. 11. Benvenuto “Nuto” Revelli (Cuneo, 21 luglio 1919 - Cuneo, 5 febbraio 2004). Scrittore, ufficiale e partigiano italiano. Ufficiale effettivo degli Alpini, durante la seconda guerra mondiale, partecipò alla seconda battaglia difensiva del Don. A partire dal febbraio 1944 prese parte alla Resistenza italiana, guidando le formazioni Giustizia e Libertà nel Cuneese. 12. Di autore anonimo, racconta in prosa popolare le gesta delle Brigate Garibaldi operanti nel settore nord-occidentale dell’Italia durante la lotta di liberazione a opera delle agguerrite formazioni militari guidate da Eraldo Gastone, nome di battaglia “Ciro”, e da Vincenzo Moscatelli, il leggendario comandante “Cino”. 13. Costantino Nigra (Villa Castelnuovo, Torino, 1828 - Rapallo 1907). Diplomatico e filologo. Uomo del Risorgimento italiano, insigne diplomatico e statista, scrittore e poeta, filologo e acuto pensatore, l’opera più importante, Canti popolari del Piemonte, cui dedicò molti anni della sua vita, ricercando e raccogliendo antiche canzoni di cultura popolare, rappresenta senza dubbio una pietra miliare nel campo degli studi antropologici e filologici. 14. Ettore Galvani, Choraliter n. 37, pagg 34-38, L’evoluzione del canto popolare di guerra. Tra trincea e politica di regime. 15. Antonino Buttitta (Bagheria, 27 maggio 1933). È un antropologo, docente e politico italiano. Direttore, fondatore e contributore di numerose collane e riviste, è presidente tra le altre anche del Centro di Studi Filologici e Linguistici Siciliani e della Scuola Internazionale di Scienze Umane. 16. I Canti della Resistenza, pubblicato in Ideologia e Folklore, Flaccovio, Palermo 1971.
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Nigra13 nel 1888 e rioperate dall’attore principale durante la Prima Guerra Mondiale, ultima guerra di trincea.14 Proprio in questo senso si allinea la chiarificatrice precisazione di Antonino Buttitta15 nell’introduzione al suo saggio I canti della Resistenza16: «L’immissione di elementi folklorici nell’ambiente partigiano venne […] favorita dall’assenza di una cultura, così dire, ufficiale; dalla improvvisa carenza, cioè, dei beni culturali di più recente conquista, la quale provocò il ritorno a forme arcaiche di vita […]. Questo ritorno all’antico patrimonio culturale venne provocato anche dal rinnovato manifestarsi di esigenze cui esso precedentemente assolveva. La guerra comporta bisogni nuovi non solo materiali ma anche culturali». Non possiamo negare comunque che il canto resistenziale è stato sottoposto anche a un’altra forma di dipendenza, e non di contaminazione, che albergava nella produzione dei canti di regime, particolarmente intensa a partire dalla metà degli anni ’30 fino al 1943. Molti dei canti della Resistenza nacquero per contrastare l’avanzata spietata di inni guerrafondai e per non far dimenticare le antiche tradizioni orali anch’esse sottoposte alla censura come molte delle attività quotidiane e dei pensieri dell’epoca. Anche se il fascismo della prima ora aveva toni palesi meno cruenti ma più orientati a un’effimera unità nazionale e di intenti ideologici, mai completamente raggiunta, si poteva chiaramente vedere l’intransigenza e la povertà del pensiero culturale che serpeggiavano in essi come ci rammenta Roberto Leydi: «Per completare il discorso un cenno meritano anche i canti fascisti, sia per i loro rapporti con le canzoni militari della guerra ’15-18, sia per certi loro punti di contatto, più o meno esteriori, come si vedrà, con il repertorio della Resistenza. Anche nei canti fascisti il tono popolare è quasi completamente assente e i valori dominanti sono semi colti. A differenza però del repertorio risorgimentale, militare e socialista (o genericamente sociale-rivoluzionario), quello fascista è dominato da una costante dannunziana e non più liberale. La guida è ancora borghese, ma di una borghesia involgarita e depauperata delle sue forze migliori, ridotta a negare, per sopravvivere in un ambiente in evoluzione sociale, le ragioni stesse della sua legittimità e quindi della sua esistenza». Concludo ricollegandomi all’introduzione posta all’inizio di questo breve intervento cercando di riassumere quanto esposto fino a ora. In definitiva i partigiani hanno cantato un po’ di tutto, così come veniva, secondo memoria, esprimendo il gusto e i suggerimenti del momento ma soprattutto secondo quella tradizione secolare che ogni persona porta racchiusa nel suo sapere, nel suo saper fare, nel suo essere quotidiano. Nella complessa e poliedrica produzione dei loro canti, nel mutuare melodie e parole, ci hanno raccontato chiaramente, senza mezze parole, senza nascondersi quanto il partigiano fosse legato alla sua terra e, proprio perché legato a essa, poco avvezzo alla penna e alla musica. Il loro repertorio ci ha tramandato poche canzoni vive e originali, ma nella sua totalità è presente ed è percettibile una vivacità espressiva e un’energia morale che erano ormai assopiti da tempo, tratti distanti sia dalla nostra musica popolare sia da quella patriottica che rivoluzionaria. «Ve qualcosa […] comune a tutti i canti della Resistenza per quanto diversi siano i loro modelli e i loro motivi d’ispirazione: uno slancio giovanile, un impulso generoso, una fiducia nella vita pur riaffermata di fronte alla morte: e la loro freschezza e autenticità tanto più risalta evidente quanto più si pongano a confronto con le canzoni cantate dall’“altra parte” […]» (Roberto Battaglia). Negli anni bisognerà rivalutare il patrimonio tramandatoci guardandolo con obiettività e discernimento, con metodo e analisi per poter cogliere ciò che fino a oggi le emozioni e i ricordi ci hanno impedito di vedere.
Negli anni bisognerà rivalutare il patrimonio tramandatoci guardandolo con obiettività e discernimento.
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RIGORE NORDICO E TEMPERAMENTO MEDITERRANEO INTERVISTA A MARTINA BATIC˘ a cura di Rossana Paliaga
Giovane, ma determinata fin dagli esordi e con le idee ben chiare sugli obiettivi da raggiungere. Martina Batic˘ non ha mai perso tempo, costruendo con studio, costanza e serietà una carriera in rapida ascesa e passando in pochi anni dalle esperienze nei cori amatoriali al settore professionale, senza mai smettere di ricercare e accumulare esperienze di studio e perfezionamento, premi e riconoscimenti importanti, collaborazioni e progetti internazionali. Tra l’organizzazione del programma in abbonamento alla Filarmonica slovena e l’intensa attività di direzione non ha tuttavia perso il contatto con “l’altro lato” del palcoscenico. Cerco di rimanere con i piedi per terra, a contatto con la realtà. Voglio stare dalla parte degli spettatori perché soltanto in questo modo è possibile capire quali siano i loro desideri, le tendenze del momento e poter lavorare in questo senso. C’è anche richiesta di programmi più “commerciali”? Certo, ma qui si impone una scelta precisa. Con il Slovenski komorni zbor scelgo programmi che possano soddisfare un pubblico esigente e competente che decide di acquistare un abbonamento per ascoltare cose che difficilmente potrebbe ascoltare altrove. Quando invece andiamo in tournée cerchiamo sempre di incontrare i gusti del pubblico di riferimento. Esiste soltanto un punto imprescindibile: il senso dell’esistenza di un coro professionale è la possibilità e il dovere di eseguire nel modo migliore ogni genere di repertorio, che si tratti dell’ultima novità in prima esecuzione assoluta o del più semplice arrangiamento di un canto popolare. Lavorando alla Filarmonica capita spesso di poter collaborare con grandi nomi del panorama musicale. Negli ultimi anni hai lavorato con Valerij Gergiev, Heinz Holliger, Kirill Petrenko, recentemente con la celebre cantante Anna Netrebko. Cosa rimane del contatto con personaggi di questo calibro? Si tratta di artisti con talenti fuori dal comune e caratterizzati da un forte carisma. Con la Netrebko ho avuto la possibilità di lavorare per un mese durante una tournée internazionale. Nonostante la perfetta padronanza del mezzo vocale, la sua insegnante di tecnica vocale le è stata accanto per tutta la durata della serie di concerti, a ognuna delle prove quotidiane. Sono rimasta molto colpita da questa disciplina e attenzione costante, che dimostrano quanto la cantante sia rimasta fedele a se stessa, cercando sempre di dare il meglio. Nel corso di undici concerti con lo stesso programma la sua interpretazione è stata sempre un po’ diversa, ma
ogni volta esemplare, significativa, piena di forza interpretativa e di entusiasmo. Anche l’incontro con Gergiev mi è stato di insegnamento; pur dovendo dirigere la Sinfonia dei Mille di Mahler in un’importante occasione ufficiale, ha incontrato orchestra e cantanti soltanto all’ultima, breve prova. Mi sono sempre domandata quanto profonda possa essere la consapevolezza di un artista che confida nel fatto che mille persone saranno capaci di seguire alla perfezione il suo gesto avendolo visto soltanto una volta. Eppure ha funzionato. Da cosa deriva il carisma? È un fatto di esperienza, lavoro, un dono naturale? Penso che il carisma, una sorta di predisposizione a essere dominanti, sia di base qualcosa che appartiene per natura, che sia in qualche modo già scritto nel nostro destino. Tuttavia questo dono non è il solo fattore che rende grande un artista. A ognuno sono dati dei talenti, ma quello che ne fai è soltanto nelle tue mani e senza lavoro e costanza non si arriva lontano. Il talento non serve se non viene sviluppato, coltivato, arricchito, nobilitato con l’esercizio, il perfezionamento, la riflessione. Hai avuto la sensazione fin da piccola di rientrare nel numero di quelli che hanno l’attitudine alla direzione? Assolutamente no! Tuttavia ho avuto fin da bambina il desiderio di dirigere, un pensiero totalmente egoistico perché dirigere mi faceva stare bene. Non si trattava del piacere di
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comandare, anzi, sono rimasta piuttosto delusa dalla realtà quando ho capito che dirigere significa anche essere una sorta di “controllore” con responsabilità precise. Quando è iniziato il tuo percorso professionale? A nove anni mi era già chiaro che volevo diventare direttore di coro. I miei genitori amano la musica corale, entrambi cantavano in vari cori. Il mio percorso musicale è iniziato quando hanno portato a casa un vecchio pianoforte verticale; la mamma mi insegnava a suonare melodie con una mano e io spontaneamente aggiungevo l’accompagnamento. Possiamo dire che anche in seguito non hai mai perso tempo. È stato un percorso regolare, senza soste né ripensamenti. Durante lo studio del pianoforte, mi esercitavo anche suonando l’organo in chiesa. Non ho scelto di proseguire gli studi superiori al liceo musicale di Ljubljana perché volevo acquisire una cultura generale più ampia, quindi ho scelto il liceo classico vescovile, al di fuori del quale ho terminato gli studi di pianoforte e mi sono iscritta alla scuola d’organo. In seguito ho terminato il regolare corso di studi all’Accademia di musica di Ljubljana. E la Germania? Volevo dirigere cori, ma all’epoca non esisteva ancora un corso apposito in Slovenia. Quindi dopo il diploma ho affrontato l’esame di ammissione alla scuola superiore di musica di Monaco, senza sapere nemmeno una parola di tedesco. Ho chiesto a mio cugino che parla tedesco di scrivermi una frase sul bordo di uno spartito, con le indicazioni fonetiche: «Non sono orgogliosa della mia conoscenza del tedesco, ma la musica è un linguaggio internazionale. Per favore, seguitemi!». L’ho letta all’inizio della prova con il coro accademico e ho proseguito in inglese. Ma il momento più difficile è stata l’interrogazione con la commissione di docenti. Il presidente mi si è avvicinato e mi ha sussurrato in inglese: «Gentile signora, è al corrente del fatto che questo esame dovrebbe svolgersi in tedesco?»; e io: «Certo, ma inizierò a studiarlo soltanto se passo l’esame…». Se ci ripenso oggi mi sembra veramente scandaloso, non ho mai risposto a nessuno in questo modo. A ogni modo, ho mantenuto la parola e appena mi hanno ammessa all’istituto, mi sono immediatamente iscritta a un corso intensivo di tedesco.
candidati vengono invitati alle preselezioni in Svezia. Io ho inviato il materiale per le insistenze di alcuni amici, convinta di non essere scelta. Il mio primo incontro con Ericson ha preceduto di poco la notizia di essere stata selezionata per il concorso. Mi ero iscritta infatti a una masterclass diretta da lui. Il Maestro ci osservava e prendeva appunti, parlava pochissimo. Non aveva contatti con gli allievi, a correggere le posizioni e parlare secondo le sue indicazioni era l’assistente Cecilia Rydinger Alin. Due momenti sono stati però memorabili. Il primo è stata l’incursione dei giornalisti durante la mia prova con il coro laboratorio: il giorno dopo hanno pubblicato sul giornale una foto di me che dirigo, sfocata, mentre Ericson in fondo, a fuoco, ascolta la mia esibizione. La conservo ancora oggi. Ma il ricordo più forte è stato il colloquio con lui alla fine della masterclass. Tutti avevano deciso di approfittare di questo “confessionale”, io invece avevo mille dubbi perché avrebbe potuto influire molto sul mio stato d’animo nel caso fossi stata scelta per il concorso. Alla fine però ho deciso di andare. Lui prendeva appunti su fogli A4 che erano pieni di indicazioni per ognuno dei candidati. Quando ho visto il mio foglio mi sono sentita
Il talento non serve se non viene sviluppato, coltivato, arricchito, nobilitato con l’esercizio, il perfezionamento, la riflessione.
Nell’autunno 2006 hai vinto il concorso per giovani direttori Eric Ericson Award che ha rappresentato probabilmente la svolta nella tua attività professionale, come anche l’incontro con questo grande personaggio che ha segnato la tua carriera. Una situazione, un onore particolare, difficile definirlo. A quel concorso, che si svolge con cadenza triennale, ci si può iscrivere inviando curriculum e dvd, sulla base dei quali alcuni
male. Tutto quello che vi si poteva leggere erano tre lettere: S.O.S. Mi sono detta: “prendi i bagagli e ritorna a casa, non è il tuo mestiere”. Anche negli anni successivi non ho mai avuto il coraggio di chiedergli cosa significassero quelle tre lettere. Poco dopo è arrivato l’invito al concorso e poi la vittoria. Subito dopo la consegna del premio, lui e sua moglie mi hanno invitata a prendere un caffè a casa loro. Era un uomo semplice, affettuoso, sensibile. Mi ha detto soltanto: «questo premio lo hai veramente meritato!». Per me era già un premio essere stata scelta per il concorso, tutto il resto era confuso in un vortice di emozioni. Da allora sono stata ospite ogni anno a Stoccolma per dirigere cori e ogni volta sono andata a trovarlo. Da lui ho imparato il valore dell’ascolto. Aveva l’abitudine di registrare ogni prova o concerto per poi analizzarli a casa e programmare il lavoro successivo. Amava il proprio lavoro, in un rapporto simbiotico con la musica corale. Il tuo rapporto con la Scandinavia e il Nord Europa continua con collaborazioni ormai regolari con il Coro da camera della Radio svedese, il Coro da camera Eric Ericson, il coro delle Radio nazionali olandese, danese e bavarese e il
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Vokalensemble Stuttgart. Cosa ha portato l’esperienza scandinava nella coralità internazionale? Certamente i cori scandinavi sono stati maestri in un periodo in cui nel resto dell’Europa non avevamo ancora sviluppato una coralità di tale livello e modernità. Senza dubbio Ericson ha avuto un grande ruolo in questo primato, ma le radici del fenomeno risiedono nella stessa cultura di questi paesi, dove la rete sociale si fonda sulla coralità, scolastica e liturgica. La presenza del canto corale in tutte le fasi della vita e dell’istruzione ha permesso lo sviluppo di cori professionali di altissima qualtà. Le mie esperienze con i cori svedesi sono estremamente positive per la loro apertura mentale che mi permette una grande libertà nell’approccio ai repertori e ai metodi di lavoro, alle diverse mentalità e pratiche esecutive. La novità non li inibisce, anzi, è per loro un grande stimolo che affrontano con entusiasmo. Il miracolo corale svedese è ormai parte della storia e molti cori in ogni parte del mondo ne hanno fatto tesoro. Oggi l’ago della bilancia si è spostato verso la coralità dei Paesi Baltici.
Essere direttore di coro significa avere una buona cultura di base o comunque la necessaria curiosità per poter offrire stimoli ed educare un gruppo di persone che si affidano alle tue competenze. L’ignoranza è sinonimo di mancanza di motivazione anche nella ricerca del repertorio. Sempre più spesso ho l’impressione che molti direttori partecipino ai seminari non perché interessati a metodologia o didattica, ma per accumulare spartiti ed evitare di perdere tempo nelle ricerche. Il secondo motivo di fastidio riguardo al fattore ignoranza è la mancanza di tecnica vocale. Imparare a utilizzare il proprio strumento è la base dell’attività corale. Poi c’è la tecnica del direttore, al quale non deve bastare agitare le braccia davanti al coro, magari senza nemmeno distinguere i tempi. Inoltre molti direttori, oltre a non conoscere il proprio mestiere, sono anche chiusi al confronto e quindi a un possibile miglioramento. Non importa se le cose non vanno sempre bene, alla base deve esserci l’onestà degli intenti. La peggior cosa è ascoltare un buon coro limitato da un cattivo direttore.
Hai avuto l’opportunità di lavorare anche in Italia? Le mie uniche esperienze italiane sono state la direzione del coro di voci bianche Vesela pomlad a Opicina e la più recente collaborazione come docente di atelier al festival Europa Cantat a Torino. È stata una bella esperienza, che mi permette di sottolineare il mio piacere di lavorare con i cori amatoriali che riescono a trasmetterti una grande energia, la semplicità di emozioni autentiche al di là della maggiore o minore perfezione del risultato.
Collabori spesso nelle giurie di concorsi corali internazionali: quale qualità senti sempre di premiare in un coro? È il fattore totalmente irrazionale della “pelle d’oca”. Si tratta di un’opzione che trova sempre la via al di là dei criteri matematici. Quando un’esecuzione mi tocca il cuore, il risultato è raggiunto.
Quale errore o mancanza ti infastidisce di più? Di inaccettabile c’è soltanto l’ignoranza. Viviamo in un’epoca nella quale anche nel più sperduto paese è possibile ottenere informazioni sui più svariati argomenti: attraverso internet, la televisione o la radio. Quindi non sopporto la giustificazione di chi mi dice che è difficile vedere o ascoltare cori, o addirittura chiedere informazioni a qualcuno del ramo.
Martina Batic˘_______ Nata ad Ajdovs˘c˘ina, ha conseguito il diploma presso il dipartimento di pedagogia musicale dell’Accademia di musica di Ljubljana, proseguendo poi gli studi alla Hochschule di Monaco nella classe di Michael Gläser. Nel 2006 ha vinto il primo premio al prestigioso concorso di direzione Eric Ericson a Stoccolma. Per cinque stagioni consecutive direttore stabile del coro dell’Opera di Ljubljana, dal 2009 è direttore artistico del coro della Filarmonica slovena e assistente alla direzione della storica istituzione di Ljubljana per il settore della musica corale, funzione alla quale affianca costantemente l’attività di direttore ospite e a progetto di importanti cori europei, la direzione di corsi di perfezionamento, la collaborazione nelle giurie di concorsi corali internazionali.
IN PRINCIPIO LA MOTIVAZIONE ALPE ADRIA CANTAT 2013
ALPE AD CANTAT di Lucia Vinzi
La settimana Alpe Adria Cantat è un concentrato di vita corale, un tempo dedicato, un luogo deputato; sono cantori e maestri che si coalizzano attorno a un progetto, un repertorio, un direttore. A pensarci bene una situazione non molto diversa da quella che viviamo, in tempi più dilatati, nella normale “vita corale”: prove, concerti da ascoltare, concerti da fare, momenti di svago e divertimento. Un concentrato di coralità appunto, in una settimana intensa da vivere in ogni momento. La formula è quella collaudata in anni di esperienze simili in tutta Europa: atelier su diversi argomenti e periodi della storia della musica, concerti, occasioni di viaggi culturali, momenti comuni di svago. Scandiscono le giornate gli atelier, condotti da direttori con esperienza, preparazione e doti artistiche e umane, capaci di concentrare persone diverse su repertori a volte complessi e di trasformarle, per un tempo limitato, in un coro. La settimana permette una totale concentrazione, una continuità di lavoro, occasioni di
approfondimento e studio, ascolti, incontri. La capacità e l’esperienza dei direttori e la disponibilità dei cantori tutti accolti da un’organizzazione accogliente e eccellente, produce quasi sempre un insieme vincente e risultati apprezzabili. Molto conta il clima che si instaura, il valore e la qualità delle relazioni, che via via, con lo scorrere dei giorni si fanno più strette: ci si conosce, si mettono in comune risorse e competenze e tutto diventa sciolto e naturale. Tre gli atelier attivati nell’edizione 2013 di Alpe Adria Cantat che si è svolta a Lignano dall’1 all’8 settembre e che ha visto quest’anno la partecipazione di circa 200 cantori e maestri, molti stranieri: Luigi Leo ha condotto Musica per cori di bambini, Rainer Held Musica romantica e Rogier JImker l’atelier dedicato al Vocal pop. Molte le occasioni di concerto da seguire sia all’interno del villaggio Getur che in altri luoghi della regione, in un circuito attivato anche grazie alla collaborazione con i cori locali a partire dal concerto di apertura con il coro IMT Vocal Project
ASSOCIAZIONE
di Thiene, coro vincitore del Gran Premio al 47° concorso nazionale Città di Vittorio Veneto. E poi il coro russo di voci bianche Detstvo e il Rauma Musikkskoles Ungdomskor dalla Norvegia, il Coro de Cámara de Mérida dal Venezuela, il coro Sine Tempore di Gonars. Goricizza di Codroipo, Trieste, Sacile hanno poi ospitato tre concerti dei cori presenti a Lignano. Nel proporre occasioni di questo tipo, Feniarco svolge il suo ruolo istituzionale di promozione della cultura corale facilitando e creando contesti e occasioni. Contesti formativi di eccellenza in cui possono essere trasferite tecniche, modalità di studio, atteggiamenti, repertori. Ma soprattutto contesti emozionali forti, momenti ricchi e profondi vissuti attraverso il canto e la musica. Nei processi di apprendimento, la motivazione è essenziale, è la molla da cui si parte; è, se manca, la causa della mancata partenza. Senza una motivazione, sia essa palese, consapevole, evidente o inconscia, l’azione è compromessa. Incontri fortuiti con le forme artistiche provocano spesso cambiamenti, piccoli o grandi, nelle nostre vite perché vengono chiamate in causa le emozioni. Il coro e la musica corale non fanno eccezione. Si inizia quasi per caso spinti da genitori, amici, conoscenti o maestri di qualche tipo. Poi, se scatta quel qualcosa che tocca le nostre corde, si continua. Spesso con delle esigenze crescenti di approfondimento, di ricerca di qualcosa di nuovo e stimolante. Qualcosa che, a volte, il nostro coro non è ancora in grado di offrire, qualcosa che cerchiamo senza sapere bene come definire, un clima, un’atmosfera che abbiamo voglia di “respirare”. Diventa così essenziale, nel nostro percorso di cantori, maestri, appassionati trovare contesti che questo consentano. È di motivazioni e di senso che questo tempo ha bisogno. Di incontrare, prima di tutto, l’arte, la musica e la bellezza.
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DRIA T 2013
Feniarco svolge il suo ruolo istituzionale di promozione della cultura corale facilitando e creando contesti e occasioni forti.
1984>2014 per trent’anni la voce dei cori! Iniziative per il trentennale della Federazione… festeggia anche tu con noi! Come e quando?
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Feniarco Day
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I concerti del trentennale
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Diffondiamo la musica corale!
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La mostra sulla coralita’
Le celebrazioni inizieranno con la giornata dedicata a Feniarco, il Feniarco Day, nel giorno ufficiale della fondazione: giovedì 23 gennaio 2014. In questa occasione, ciascuna Associazione Regionale organizzerà un concerto dal nome “Buon compleanno, Feniarco!”, a cui siete tutti invitati, con tanto di brindisi finale e fotografie che saranno poi pubblicate nell’album dei concerti del trentennale. Anche Feniarco organizzerà un evento e un concerto presso la sua sede istituzionale nel suggestivo Palazzo Altan di San Vito al Tagliamento (Pn). Sarà una giornata di festa per tutti!
Le iniziative per le celebrazioni proseguiranno con l’inserimento degli eventi più significativi di ogni coro nel cartellone del trentennale. Al fine di permetterci un maggior coordinamento degli eventi sul territorio nazionale, sono state predisposte delle linee guida che potrete trovare sul sito www.feniarco.it o richiedere via mail a trentennale@feniarco.it
Uno degli obiettivi importanti della Federazione è da sempre la divulgazione della pratica corale e la diffusione del canto anche in luoghi nuovi e meno convenzionali. Per esempio avete mai cantato in metropolitana, in stazione, nei supermercati, nelle case di riposo, in ristoranti o in un bar? Cercate il luogo più strano e andate a cantarci con il vostro coro: filmate la vostra esibizione “insolita” e inviateci la clip video (o il link se il filmato è stato già caricato su YouTube) all’indirizzo mail trentennale@feniarco.it. I filmati più originali verranno segnalati e pubblicizzati da Feniarco nel sito e sui social network. Le clip dovranno avere la durata massima di 5 minuti e concludersi con la frase “Buon compleanno Feniarco!” scandita da tutto il coro.
Sul canale youtube della Federazione potrete visualizzare e condividere con i vostri amici la mostra sulla coralità realizzata in occasione del Festival Europa Cantat XVIII Torino 2012. Buona visione!
State connessi! Seguiteci sul sito e sui social network per tutte le prossime iniziative. L’anniversario di Feniarco sta arrivando e questo è solo l’inizio!
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ACCADEMIA EUROPEA PER DIRETTORI DI CORO L’ESPERIENZA DI UN CORSISTA di Alessandro Drigo
Quando mi è stato chiesto di mettere giù qualcosa in merito alla mia esperienza come direttore durante l’Accademia di Fano da poco conclusa, ho pensato subito: “questo sì che è un bell’articolo da scrivere!”; in realtà mi sono reso conto durante la stesura che non basterebbero le pagine di questa rivista per descrivere la moltitudine di informazioni, esercizi, consigli e insegnamenti e soprattutto le emozioni che una settimana di corso con Nicole Corti ha saputo dare al sottoscritto. Cercherò quindi di sintetizzare tutto questo nello spazio che mi è consentito… Giunta quest’anno alla settima edizione, l’Accademia Europea per direttori di coro, organizzata da Feniarco in collaborazione con ECA-Europa Cantat e ARCOM - Associazione Regionale Cori Marchigiani, si rivela anno dopo anno un appuntamento di notevole importanza per tutti i direttori di coro, siano essi alle prime armi oppure con una già avviata carriera artistica, che vogliono approfittare dell’opportunità di lavorare un’intera settimana full-immersion con un docente di alto livello, approfondendo le diverse tematiche inerenti la direzione di coro: dall’analisi della composizione oggetto di studio alla tecnica di prova, alla concertazione e alle problematiche vocali. L’affluenza di quest’anno ha contato 15 allievi provenienti, oltre che dall’Italia, un po’ da tutta Europa (Cipro, Croazia, Polonia, Turchia…) a dimostrazione di come tale avvenimento corale sia ormai recepito a livello internazionale. Nell’edizione di quest’anno, svoltasi dall’8 al 15 settembre, il periodo storico-musicale scelto come oggetto di studio si è concentrato quasi esclusivamente sul ’900 francese, a esclusione di qualche digressione verso la musica corale inglese e italiana: una scelta repertoriale molto bella e interessante, che ha permesso a ciascun direttore di approfondire le proprie conoscenze al riguardo nel caso di composizioni già note (un esempio per tutti: Requiem di G. Fauré) oppure di scoprire piacevolmente l’esistenza di autori considerati “minori” ma non per questo meno interessanti e piacevoli (Poèmes Franciscains di Joseph-Ermend Bonnal, quanti conoscevano questo autore prima della settimana di Fano?) e quindi ampliare il personale bagaglio culturale in materia. Così come nell’edizione 2011, anche per quest’anno Nicole Corti è stata confermata docente del corso, così come il coro laboratorio guidato da Lorenzo Donati. L’impatto con un docente di tale levatura è stato subito forte, almeno per il
sottoscritto, sia per quanto riguarda le notevoli doti artisticomusicali sia per la grande capacità didattica che ha dimostrato nei confronti di ogni direttore con il quale ha lavorato: a ogni lezione, man mano che passavano i giorni, anche il più semplice passo musicale diveniva l’occasione per sviscerare una moltitudine di informazioni, concetti e spunti di lavoro per i direttori (ma anche per il coro laboratorio) ai quali è stata data importanza fondamentale (e come poteva essere altrimenti?) per la buona riuscita di un lavoro corale. Dalla gestualità essenziale ma efficace, al dialogo verbale essenziale e mai ridondante, alla ricerca dell’idea musicale dentro se stessi prima che dagli esecutori, tutti i diversi aspetti che fanno parte del lavoro direttoriale sono stati
L’Accademia Europea di Fano si rivela anno dopo anno un appuntamento di notevole importanza per tutti i direttori di coro. trattati con estrema chiarezza ma anche con una semplicità a volte disarmante da una docente che si è rivelata molto più che un’insegnante di direzione corale: partendo dall’educazione all’ascolto infatti, ha portato ciascun corsista a comprendere come il coro possa diventare uno strumento
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nelle mani del direttore al quale permettere di rapportarsi gli altri e con i propri sentimenti, dandone la possibilità di esprimere la propria interiorità attraverso la musica e le emozioni che da essa scaturiscono. Una delle cose più piacevolmente sorprendenti, oltre a tutti gli insegnamenti infusi, è stata il vedere come ciascun partecipante abbia iniziato un percorso assolutamente personale e indipendente dagli altri e, prova dopo prova, giorno dopo giorno, sia riuscito a esprimere quella che è la propria idea, il proprio modo personale di vedere e intendere un brano musicale: a questo processo ciascun direttore è arrivato per gradi, chi aggiungendo nuove nozioni e nuovi concetti al proprio stile e alla propria tecnica, chi invece togliendo qualcosa di proprio per poter aggiungere alti elementi, e in entrambi i casi, come già citato, di fondamentale importanza è stato l’ascolto, sia interiore che esteriore, rapportato all’ambiente circostante e, chiaramente, alle voci del coro. Una delle frasi più ripetute e che probabilmente la maggior parte dei partecipanti all’Accademia ricordano è «non ci può mai essere più suono che ascolto»: con questa definizione è chiaro quanto si sia lavorato in questa direzione, attraverso la ricerca delle sensazioni e dell’energia interiore con le quali ciascun direttore deve lavorare, di concerto con il coro, per poter esprimere attraverso la musica corale quella che è la propria personale idea della composizione, frutto della propria sensibilità musicale ma anche del proprio vissuto e delle proprie esperienze. In questo modo Nicole Corti ha lavorato in un modo assolutamente personale e unico con ciascun direttore, i cui risultati (ovvero: la cui “musica”) si sono percepiti chiaramente man mano che il tempo passava. Ne è scaturito un lavoro assolutamente unico e personale il cui risultato ha permesso, durante le esecuzioni delle varie giornate e in occasione del concerto finale (al quale, purtroppo, per impegni pregressi chi scrive non ha potuto partecipare…) di ascoltare da ciascun direttore un’esecuzione di ogni brano assolutamente personale e mai scontata: magari a volte non condivisibile pienamente ma sicuramente unica e originale in quanto frutto della propria personalità e delle proprie idee musicali: niente di scontato o di “già sentito” insomma, ma, pur nel rispetto della scrittura musicale e delle indicazioni stilistiche che, soprattutto nella musica francese, Nicole Corti ha portato a Fano quale profonda conoscitrice della materia, si sono potute ascoltare alcune tra le più belle pagine musicali del novecento francese, inglese e italiano attraverso le quali ciascun direttore ha espresso la propria idea musicale, oltre che il frutto del personale lavoro durante la settimana di studio. Un plauso e un ringraziamento particolare va sicuramente al coro laboratorio e al suo direttore Lorenzo Donati: la riuscita del corso e la bellezza della musica ascoltata non sarebbe stata tale senza il prezioso contributo che il coro ha saputo dare, partecipando e cantando con impegno ed entusiasmo durante tutte le giornate dell’Accademia, e sapendosi adattare ai diversi direttori che via via si sono succeduti con grande professionalità. Nonostante la notevole mole di lavoro, visto il numero dei brani di studio in programma e la loro difficoltà, il coro e il suo direttore hanno affrontato la settimana con grande entusiasmo e partecipazione, talvolta anche partecipando alle sessioni di studio prettamente dedicate ai direttori (tra i cantori vi erano anche direttori di coro) a dimostrazione di quanto il lavoro effettuato da Nicole Corti sia stato interessante e stimolante per tutti. Alla fine della settimana di studio le informazioni, i consigli e gli insegnamenti ricevuti sono stati molti, moltissimi: credo che ciascun partecipante sia tornato a casa con un bagaglio di esperienza notevole che, una volta sedimentato e metabolizzato, non può che portare a una crescita personale di ogni direttore, dal punto di vista musicale ma non solo. La settima edizione dell’Accademia per direttori di coro di Fano si conclude quindi con un bilancio decisamente positivo, che fa notare ancora una volta come in Europa, ma anche in Italia, la coralità sia viva e in perenne fermento sia dal punto di vista di chi canta che attraverso le nuove figure direttoriali che piano piano stanno emergendo grazie alle loro capacità e competenze, ma anche alla voglia di far bene e migliorarsi continuamente, anche in occasioni di confronto di questo tipo.
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INTERVISTA A NICOLE CORTI a cura di Lorenzo Donati
Cara Nicole, la tua esperienza e fama di formatore per i direttori di coro, è ormai conosciuta a livello internazionale; cosa provi a tornare di tanto in tanto in Italia a lavorare con i giovani aspiranti direttori di coro? Anche il tuo italiano è ottimo! Grazie, la mia famiglia ha origini del Friuli e ho ancora alcuni parenti in quella regione. L’Italia rappresenta una parte importante delle mie radici e sono sempre molto felice di poter tornare a fare musica qui. Sei tornata nel 2013 come docente all’Accademia per direttori di coro di Fano; cosa ti aspettavi, rispetto agli altri corsi che tieni in giro per il mondo? Il livello dei direttori di coro italiani è in continuo miglioramento. Ho avuto modo di conoscerlo anche alla scuola di Arezzo, ma anche nei conservatori di Trento e di Udine. A Fano non ci sono solo studenti italiani, ma anche alcuni provenienti da altre parti d’Europa, questo crea un bello scambio di idee. Quali cose hanno caratterizzato l’Accademia 2013? Il fatto di trovare tutto pronto ha aiutato lo studio e il canto. Il coro laboratorio era bene preparato e con ottime voci, il tuo lavoro è servito a unire questi giovani direttori e cantori provenienti da tante parti diverse. A livello organizzativo lo staff ha preparato tutto molto bene. Ho sentito un fondo di sicurezza che rende tranquillo il lavoro. La città di Fano accoglie ormai da anni l’Accademia con grande attenzione, questa si percepisce? Certamente. Tutte le cose che riguardavano il nostro lavoro erano ben organizzate, anche la chiesa dove si teneva il corso era molto buona e c’erano delle persone che la tenevano pulita. Abbiamo lavorato su repertorio con pianoforte e anche lo strumento e il pianista hanno reso possibile una buona concentrazione. Il tempo era molto bello, abbiamo fatto tante passeggiate; una situazione ottima, era tutto molto piacevole. Nel 2013 insieme all’Accademia si svolgevano i festeggiamenti per i 40 anni del festival Incontro Polifonico città di Fano, una sinergia che ha reso possibile a tutti di ascoltare ottima musica corale. Cosa ne pensi? Anche il festival è stato un momento importante. Certo per gli studenti avere ogni sera un concerto forse era un po’ faticoso, perché studiavano tutto il giorno, ma meglio avere questa bella opportunità. I concerti erano vari e di ottima qualità, anche questo ha reso possibile creare una bella attenzione per la musica. Passiamo a domande più tecniche: cosa si riesce a dare in una settimana a dei giovani direttori, che possa essere per loro motivo di riflessione e di crescita? La cosa che abbiamo cercato di imparare in questa settimana è
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stato che il direttore ha bisogno dei coristi. Sembra una cosa semplice da dire, ma non lo è. Abbiamo studiato per imparare a lavorare per aiutare a cantare i coristi sempre meglio. Questo è un messaggio pedagogico molto importante, il nostro lavoro è aiutare a cantare sempre meglio. Come possiamo aiutare i nostri coristi a cantare meglio? Nel nostro lavoro l’autorità viene data dalla conoscenza, non imporre ma proporre, il direttore deve proporre qualcosa di interessante che crei attenzione e porti un messaggio, ma per fare questo c’è bisogno di una grande preparazione. Quindi dobbiamo studiare, prepararci, per riuscire a proporre un’idea musicale forte? Sì. La preparazione di base permette la forma e se hai una buona preparazione la fase dell’interpretazione sarà libera. Libera e tranquilla. Oltre alla conoscenza della partitura su che cosa hai posto la tua attenzione? Per me il senso di umiltà e la serietà del lavoro sono due importanti elementi della nostra attività. Essere umili non significa essere deboli ed essere seri nel lavoro non significa non essere divertenti. Se noi siamo umili e seri i nostri cantori sentiranno questa energia e cercheranno anche loro di lavorare bene. Durante il corso hai spesso ripetuto la frase «Sapere, saper fare, saper essere»? Questa coscienza non è sempre presente e invece dobbiamo riflettere quanto sia importante, perché spesso durante la prova si parla troppo e invece è importante sapere e poi fare qualcosa con questo sapere e poi riuscire a essere questo sapere. Hai parlato molto del costruire, in prova e nel percorso con il proprio coro. Quali sono i segreti per riuscire a realizzare questi obiettivi? Non dobbiamo mai dire «No questo non va bene», dobbiamo dire «questo si deve fare così». In questa settimana gli studenti e i coristi hanno cercato di costruire nella positività. Ai direttori ho detto che non ci sono problemi, per i direttori ci devono essere solo soluzioni. Cosa rimane a Nicole Corti dopo questa esperienza? Il senso del costruire, lentamente, con umiltà e anche con orgoglio. Per un didatta e per un direttore di coro è importante sapere che il proprio percorso e il proprio tempo serve per aiutare qualcun altro a continuare questa costruzione. Costruire una coscienza comune nella semplicità e nel bello. Quando tornerai in Italia a insegnare? Nell’agosto 2014 a Roma terrò una masterclass durante il Convegno Internazionale dell’Associazione Willems. Sarà una masterclass speciale, perché avrò il mio coro di professionisti, come coro laboratorio. Sarà un’occasione per i direttori italiani che potranno lavorare con una prospettiva musicale professionale su un repertorio italiano e francese.
IL GRANDE POTENZIALE DI UN GIOVANE FESTIVAL
IL 4º FESTIVAL CORALE NAZIONALE DI SALERNO di Rossana Paliaga
Ci sono posti e situazioni dove anche l’Italia della crisi e delle incertezze può riscoprire, almeno per alcuni giorni, il piacere spensierato ma importante di entusiasmarsi, condividere il piacere di far musica insieme e magari anche credere, per quanto possa apparire retorico, nel valore della bellezza. Accade facilmente in contesti come quello offerto dal Salerno Festival, organizzato per il quarto anno consecutivo da Feniarco e ARCC - Associazione Regionale Cori Campani. A brevissima distanza dalle rovine di Pompei e dalla Costiera amalfitana, in un Sud da cartolina, l’atmosfera serena del festival permette alla musica di diventare veicolo di scoperte turistiche e culturali nella città, ma anche sul territorio: il castello Doria di Angri, la Badia della Santissima Trinità di Cava de’ Tirreni, il Santuario della Beata Vergine del Rosario a Pompei, il duomo di Vietri sul Mare, il castello del principe longobardo Arechi II a Salerno, e poi ancora Nocera Inferiore, Sant’Arsenio, Vallo della Lucania o Atrani, rifugio del rivoluzionario Masaniello, che accoglie con scorci di paesaggio costiero che sembrano uscire dall’immaginario cinematografico di un’Italia da sogno. Tutti questi luoghi hanno ospitato uno dei concerti della serata che ha diffuso la musica del
festival nella regione. All’interno di un’unica edizione è possibile infatti assistere soltanto a una minima parte dei molti eventi che si svolgono contemporaneamente in siti diversi, quindi l’impressione generale sarà sempre parziale. Tuttavia la cura dedicata dai volontari all’organizzazione di ogni singolo evento, inoltre l’attenzione di autorità e pubblico locale (dimostrazione tangibile dell’importanza che il festival ha acquisito a pochi anni dalla fondazione come evento che ormai appartiene al territorio) alimentano la fondata convinzione che ovunque coristi e spettatori abbiano goduto di un’accoglienza veramente speciale. Dopo il saluto corale alla regione ospitante, la manifestazione si è concentrata nella città di Salerno tra chiese, saloni di rappresentanza, musei e piazze. Usciti dalle sedi dei concerti, i coristi sono partiti alla ricerca degli spazi dedicati alla libera espressione, il cosiddetto “Frijenn Cantann” che, mutuando un modo di dire locale, indica un cibo da strada all’italiana, una specie di “cartoccio di musica fritta al momento” per i passanti desiderosi di uno spuntino corale. Questo è anche un modo per vivere il festival confondendosi tra la gente nelle strade affollate del centro storico, tra il profumo del pesce fritto e delle castagne arrostite, le luci colorate,
SALERN FESTIVA
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l’attenta curiosità dei passanti per le esibizioni corali estemporanee, entrando nelle chiese decorate da mosaici dorati o piastrelle di maiolica per farsi sorprendere da trionfi di marmi policromi o da un dipinto del Solimena, o semplicemente facendosi coinvolgere dalla magia delle Luci d’artista, luminarie natalizie che fanno apparire nelle vie del centro e nei giardini draghi, tappeti volanti o ghirlande di fiori ricavate da bottiglie di plastica colorate, modellate con abilità per trasformarle in decorazioni d’effetto. La pioggia ha costretto gli organizzatori ad annullare l’evento all’aperto in piazza Portanuova che avrebbe riunito in un imponente canto comune tutti i partecipanti: 45 cori da nove regioni per un totale di circa 1200 coristi. Il popolo del festival si è dato così appuntamento direttamente all’Augusteo per la serata di gala che ha coinvolto venti cori in una variopinta maratona corale. Il concerto è stato introdotto dal coinvolgente Musicateneo Percussion Ensemble che ha portato il saluto musicale della città come aveva già fatto il gruppo di danze antiche Il Contrappasso al concerto inaugurale.
NO AL
Il Salerno Festival ha incontrato il territorio con la sua presenza diffusa, i molti momenti informali, la voglia di far entrare il proprio entusiasmo musicale nel quotidiano e con questo spirito ha concluso la serie di eventi con un’appendice della domenica mattina che ha visto alcuni cori impegnati a collaborare con il loro canto nella celebrazione delle sante messe. In un ventaglio così diversificato di situazioni musicali ogni coro è riuscito a trovare la propria dimensione, mentre la condivisione dei concerti con altri gruppi ha stimolato nei coristi e nel pubblico la curiosità del confronto (per il pubblico locale è stato ad esempio un motivo di particolare interesse poter ascoltare cori maschili, “specialità” del Nord, ma una rarità al Sud). I partecipanti hanno affrontato i repertori più vari, esibendosi all’unisono oppure con programmi polifonici, impegnati in brani contemporanei o nella ricerca della veste corale di un brano pop, senza dimenticare il sempre
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apprezzato filone gospel. È stato accolto con interesse anche l’omaggio al bicentenario della nascita di Giuseppe Verdi, anniversario non facile da celebrare per i cori amatoriali a causa di difficoltà e prevalenza di brani operistici, ma che ha rappresentato un invito gradito per le corali di definizione
L’atmosfera serena del festival permette alla musica di diventare veicolo di scoperte turistiche e culturali nella città e sul territorio. “lirica”. Ma a Verdi è stato reso omaggio anche con le parole, nella sede ideale dell’ottocentesco teatro municipale a lui dedicato, grazie a un relatore che assieme alla professionalità ha rivelato anche capacità comunicativa in un convegno che è stato capace di arricchire sia i neofiti che gli esperti. Piero Monti, attualmente direttore del coro del Teatro Massimo di Palermo e membro della Commissione artistica di Feniarco, ha raccontato in un dialogo con Roberto Maggio della vita e delle opere del maestro bussetano, aggiungendo le spezie di interessanti digressioni sui costumi teatrali dell’epoca, su aneddoti e particolari che hanno permesso di delineare un ritratto sfaccettato che aveva come obiettivo la definizione del ruolo del coro nella produzione musicale verdiana, da essenziale portatore di messaggi politici a commento in rapporto a una sempre più evidente priorità del singolo personaggio rispetto alla collettività. Non sono mancate le note di stile: l’amore di Verdi per i polifonisti antichi che si riflette ad esempio nelle idee arcaicizzanti presenti nel monumentale Requiem, che i partecipanti del convegno hanno anche avvicinato concretamente, imparando assieme al relatore alcune battute da interpretare con la solista Maria Teresa Polese e la pianista Maria Scala. Infine non sono mancati i consigli ai cori, ovvero considerare più spesso la letteratura non operistica di Verdi, ovvero le sue opere sacre tra le quali si distinguono le Laudi e il Pater Noster. Questi brani sono spesso utilizzati in sede di concorso per la verifica di capacità tecniche e musicali che un contesto festivaliero non richiede necessariamente di mettere in campo. Anche l’atmosfera festosa di un momento di incontro e divertimento non prescinde però da alcune buone regole di base per poter ottenere il massimo dell’effetto, ovvero una vittoria in termini di soddisfazione reciproca dei coristi e degli spettatori. Un festival nazionale è specchio degli orientamenti attuali, la vetrina che offre un’immagine autentica della normale attività dei cori partecipanti, repertori inclusi. Si può scegliere di guardare passivamente alle immagini riflesse, ma utilizzarle come spunto di riflessione può essere più utile per
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confrontarci anche con qualche interrogativo. C’è chi decide di dedicarsi esclusivamente a un repertorio specifico, ma la maggior parte dei direttori preferisce offrire ai propri coristi una panoramica su stili diversi, considerando capacità e inclinazioni del proprio gruppo. Nelle scelte ci sono tuttavia alcuni grandi assenti che testimoniano di un rapporto ancora in fase di sviluppo tra molti cori italiani e il concetto stesso di musica corale, come anche nella consapevolezza delle esigenze specifiche di ogni singolo genere. Sarebbe ad esempio un valore aggiunto accostarsi a questo grande evento come a un palcoscenico sul quale presentare anche quel repertorio specificamente corale che sta a metà strada tra un brano di Gesualdo e il cantare all’unisono un successo della Pausini, un programma che può essere anche leggero, divertente, ma soprattutto che può rappresentarci per stile, lingua e spirito. Oppure, per quanto possa suonare antico (perché nel nostro paese, per comprensibili motivi storici, si è investito pochissimo in questo settore culturale), riscoprire il grande patrimonio popolare nazionale, quello che ci assomiglia e del quale cogliamo le sfumature, magari in arrangiamenti inconsueti e attuali. Sarebbe un atto normale, importante, non un passo indietro, ma un passo avanti verso una maggiore consapevolezza e fiducia nelle proprie radici, in fondo semplicemente quello che accade di regola nella coralità della maggior parte degli altri paesi europei e soprattutto di quelli che sono per qualità ai vertici. Alcuni cori lo fanno abitualmente e lo hanno dimostrato anche sui palcoscenici salernitani, ma il loro esempio dovrebbe diventare una consapevolezza diffusa, così come una maggiore attenzione per la vocalità il fondamento sicuro sul quale basare anche la propria curiosità e il giusto approccio ai linguaggi musicali di altre culture. Salerno Festival rivela un enorme potenziale di sviluppo non soltanto in quanto può essere al tempo stesso specchio per conoscersi e scuola per crescere, ma perché ha incontrato il prezioso sostegno di persone che ne condividono lo spirito e credono nella manifestazione in tutti i suoi aspetti, infine perché ha assunto per posizione e concetto un’importanza strategica nel tentativo di mettere in comunicazione l’Italia corale.
Un festival nazionale è specchio degli orientamenti attuali, la vetrina che offre un’immagine autentica dell’attività dei cori partecipanti.
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UN FESTIVAL PER UNIRE L’ITALIA CORALE Intervista con il presidente dell’ARCC Vicente Pepe a cura di Rossana Paliaga
«Salerno Festival è diventato un momento imprescindibile dell’attività Feniarco e gode ogni anno dell’accoglienza meravigliosa di una città che attende i coristi anche con le espressioni della coralità campana, forte di un’importante componente giovanile». Così il vicepresidente Feniarco Pierfranco Semeraro ha definito alla serata di gala una manifestazione alla quale l’ARCC garantisce un sostegno forte. Accanto al lavoro quotidiano dei volontari c’è infatti la risposta numerosa e attiva dei cori campani in una rete di collaborazioni ed entusiasmo che abbiamo fatto descrivere al presidente dell’associazione regionale Vicente Pepe. Per noi è importante la condivisione del piacere di cantare con gli altri e questo messaggio è molto recepito e apprezzato nella nostra città e nel territorio in generale. Il canto diventa quindi aggregazione, piacere di conoscere gli altri e incontra l’istintiva disponibilità all’accoglienza che è anche una caratteristica della città. Ai cori provenienti dalle altre regioni italiane il festival offre anche l’opportunità di conoscere la coralità campana. Se consideriamo la vetrina del concerto di apertura che ha dato il benvenuto ai partecipanti, i cori locali hanno evidenziato una spiccata inclinazione verso repertori pop. È l’immagine fedele di una tendenza generale a “navigare” ai margini del classico? Un festival è vissuto comunque con un’emozione, una sensazione diversa e i direttori nel proporre il repertorio adatto riflettono certamente su questa situazione. Non si tratta di un concorso, quindi un brano più accattivante potrebbe essere più giusto, soprattutto nei momenti come il concerto di gala. Nella nostra regione abbiamo una bella tradizione corale e polifonica, di conseguenza molta passione e rispetto per gli autori classici. Tuttavia nel corso di questi ultimi anni molti cori hanno iniziato a studiare, divertendosi molto, il repertorio pop, per cercare di avvicinare sempre più giovani alla musica e grazie anche ai continui scambi con tanti giovani maestri che fanno parte del nostro mondo di Feniarco. Per fare un esempio, nella nostra associazione regionale abbiamo Ciro Caravano, leader dei Neri per caso, gruppo molto conosciuto che ha vinto al festival di Sanremo, quindi portavoce di una musica diversa dai percorsi classici, ma con la quale riesce a coinvolgere con successo i giovani del Coro Pop dell’Università di Salerno. Questo è soltanto un esempio, ma potrei citare ancora molti altri validi maestri che ci propongono repertori simili. Dal mio punto di vista è un modo per percorrere, magari in senso inverso, una strada che ti può portare alla coralità, risalendo dal pop alla polifonia.
Oltre a chi lavora nella coralità, si percepisce un grande entusiasmo collettivo attorno al festival anche da parte di chi accoglie i vari concerti sul territorio. Sono convinto che la musica corale abbia il dovere di proporsi anche al di fuori di quelli che sono gli spazi consueti e canonici, perché accanto ai luoghi “giusti” e per questo meravigliosi, la musica deve a volte ritornare anche nel mondo dove nei secoli è stata sempre di casa, ovvero nelle osterie, negli incontri conviviali, nei luoghi della vita sociale. Partendo da quest’idea proponiamo all’interno del festival i Frijenn Cantann, che invitano a cantare liberamente in coro in luoghi non convenzionali: nell’atrio di un palazzo, in una salumeria storica, nelle case private magari un po’ particolari come la Casa museo Natella, il cui proprietario realizza presepi bellissimi. Abbiamo la fortuna di poter contare sulla disponibilità della Sovrintendenza ad aprire i propri spazi, dove i coristi possono andare a cantare e scoprire al tempo stesso tesori artistici e storici unici. Sono situazioni belle e particolari che utilizzano il canto anche come mezzo per apprezzare meglio altre manifestazioni artistiche. Le corali che partecipano al festival trovano sempre l’opportunità di conoscere la storia e la cultura di questo luogo. Nella cultura e nella tradizione della regione Campania c’è anche la grande tradizione del canto solista, della canzone italiana nella sua forma più conosciuta e apprezzata in tutto il mondo. Quanto questo importante retaggio ha influito su una consapevolezza più tarda dell’essenza e della pratica della musica corale? Nella nostra nazione esiste una vera e propria dicotomia tra le esperienze corali delle regioni del centro nord e del sud. Da noi è stato preponderante l’aspetto solistico del canto, la canzone napoletana, quindi è stato più difficile iniziare a lavorare sul fronte della polifonia e “convincersi” che anche questo aspetto dell’espressione vocale è bellissimo. Nella coralità entrano in gioco altri fattori fondamentali: condividere un’esperienza, una passione, crescere, formarsi, ascoltarsi, ascoltare. È inoltre vero che i festival come questo aiutano a far diminuire le distanze, anche culturali. Lungo i 1300 chilometri del nostro paese si incontrano storia e tradizioni diverse, ma la musica corale ci aiuta a condividere queste esperienze. Stiamo imparando molto e ci auguriamo di poter dare un segno importante, come regione e come Sud in generale, alla musica corale italiana.
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INVENTARE FUTURO L’ASSEMBLEA FENIARCO AD ALGHERO di Alvaro Vatri
C’è un’espressione ricorrente negli interventi del presidente Sante Fornasier, nelle diverse sedi: «inventare futuro». Inventare nel senso etimologico della parola, cioè scoprire, portare alla luce, trovare qualcosa che già esiste allo stato di potenzialità ma che aspetta solo di essere svelata e valorizzata. Cosa significa per noi, cosa deve fare la coralità amatoriale e chi la rappresenta? Significa fare in modo che le grandi potenzialità dell’associazionismo corale, nelle sue varie espressioni (dai singoli cori alle federazioni internazionali), in termini di valori, di capacità di mobilitazione e promozione, in termini di rilevanza sociale e civile, emergano, diventino consapevoli, condivise e consolidate per essere energia di progresso e base di confronto con le altre realtà e le istituzioni. Ebbene, se dovessimo dare una cifra all’assemblea nazionale di Feniarco che si è riunita, per la prima volta in Sardegna, ad Alghero, munificamente ospitati dalla FERSACO, il 12 e 13 ottobre scorsi, questa sarebbe proprio “inventare futuro”. In questa direzione, infatti, vanno alcune delle decisioni prese dall’assemblea, che ha ragionato sulle strategie e le iniziative più efficaci per dare base solida sul piano “interno” alla rilevante posizione di Feniarco in ambito internazionale, conclamata dal successo del Festival Europa Cantat XVIII Torino 2012 e dall’attuale ruolo che i nostri rappresentanti esercitano nella leadership della associazione europea. Ma andiamo con ordine. Anche in questa occasione i lavori assembleari sono stati organizzati in modo da concentrare l’analisi e la discussione
del sempre nutrito ordine del giorno nella giornata di sabato e dedicare la mattinata della domenica a una libera e “polifonica” riflessione su un tema comune. Per questa occasione è stato scelto “Fare coro ai tempi della crisi”. Una tematica viva che ha suscitato un ricco ventaglio di esperienze che ci ha convinto a formalizzare questo momento dei lavori in un vero e proprio “convegno” con conseguente redazione di un documento di sintesi da mettere poi a disposizione. Ecco dunque una prima, interessante e innovativa “invenzione” che arricchisce in modo organico l’ormai rilevante patrimonio di idee e pensiero prodotto in tutti questi anni. E si comincia subito: infatti Franco Colussi e Salvatore Panzanaro si sono impegnati a stendere una relazione su quanto trattato ad Alghero. Tornando alla sessione di sabato, almeno due elementi fanno intravedere una prospettiva interessante ed efficace per il futuro: l’importanza, condivisa con convinzione, del “fare rete”, del “fare sistema”, da realizzare progressivamente, ma costantemente, attraverso iniziative comuni quali la realizzazione di un cartellone unico per il Natale, denominato Nativitas, che riporti tutti i concerti del periodo natalizio organizzati in tutte le regioni (si partirà con una sperimentazione nel 2014, ma intanto alcune associazioni regionali adotteranno la denominazione comune già quest’anno). Un altro progetto denso di sviluppi è quello di un Festival delle Alpi (di rete), per ora allo stato di proposta da approfondire e verificare e per la quale sarà costituito un gruppo di lavoro delle regioni interessate (Liguria, Piemonte, Valle d’Aosta, Lombardia, Veneto, Trentino, Alto Adige, Friuli Venezia Giulia), e che, in un secondo tempo, potrebbe essere esteso anche alle altre nazioni alpine (Francia, Svizzera,
Un clima di lavoro straordinario in cui “inventare futuro” è stato molto più che uno slogan. Austria, Slovenia). Sono progetti e iniziative importanti non solo dal punto di vista dei contenuti, ma anche dei metodi di lavoro e dei processi produttivi. Un secondo elemento che proietta efficacemente in avanti le prospettive di Feniarco è la disponibilità offerta dalle regioni a
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contribuire, in relazione al numero degli associati, alla pubblicazione di alcuni volumi (Giro Giro Canto 5 e Teenc@nta 2) da tempo pronti e attesi dagli operatori. Nella stessa direzione va l’impegno a sostenere e promuovere la rivista Choraliter portandola tra i cori e tra i cantori da cui sicuramente ritornerebbe un aiuto concreto tramite la sottoscrizione di abbonamenti. Non è impossibile arrivare ad almeno 2-3000 abbonamenti, ma è necessario un impegno da parte di tutti. Altri importanti argomenti trattati sono stati: le celebrazioni per il trentennale della federazione, per il quale è stato allestito il logo, fissato il Feniarco Day (23 gennaio) e sono previste due celebrazioni ufficiali, la prima inaugurale a San Vito, il 23 gennaio, e la seconda conclusiva a Roma in ottobre, più altre iniziative che sono in fase di approfondimento. Poi il Coro Giovanile Italiano per il quale, nella attuale compagine, è stata approvata la partecipazione al Concorso di Tours, alla fine di maggio, come conclusione di un ciclo brillante che ha dato grandi soddisfazioni alla coralità italiana. Per il futuro è stato deciso che la nuova compagine sarà affidata a due direttori, un italiano e uno straniero, un uomo e una donna, e sono stati confermati Roberta Paraninfo e Ragnar Rasmussen (NO). È previsto già un primo appuntamento, nell’agosto 2014, a Roma nell’ambito del Congresso Willems. Anche l’altra compagine giovanile nazionale, il Coro Accademia Feniarco, continuerà la sua attività sotto la direzione di Alessandro Cadario e nel frattempo si studieranno soluzioni per il futuro. Sul fronte dei festival si prevede per Salerno Festival una proiezione internazionale e una rimodulazione cronologica, mentre per Veneto Canta sarà incrementata la collaborazione. Per la circolazione delle esperienze e delle conoscenze tra gli organismi delle singole associazioni regionali è stata ribadita
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l’importanza del Convegno Nazionale delle Commissioni Artistiche (probabilmente in giugno, ospitato dall’ASAC) e dell’incontro dei comitati di redazione delle riviste regionali, che con ogni probabilità si terrà a Bologna. Sul piano internazionale, infine, Feniarco favorirà la presenza e la partecipazione di due o tre cori di voci bianche e giovanili italiani a Europa Cantat Junior 2014, che si svolgerà a Bergen (Norvegia) dal 30 luglio al 6 agosto, così come sarà necessaria (e si vedrà come favorire) una significativa presenza di cori italiani al Festival Europa Cantat Pécs 2015 (24 luglio-2 agosto), in cui si può pensare alla presenza di “Casa Feniarco” quale punto di snodo e di valorizzazione della nostra coralità, in tutte le sue componenti, in quella vetrina internazionale.
L’assemblea ha ragionato sulle strategie e le iniziative più efficaci per dare base solida alla rilevante posizione di Feniarco in ambito internazionale. Gli splendidi tramonti sul Golfo di Alghero che rendevano ancor più suggestivo il profilo “da neonato” del Capo Caccia, la splendida ospitalità della FERSACO e del presidente Luigi Polano, la bella serata musicale con il Coro Polifonico Città di Olbia, l’Associazione Musicale G. Rossini di Sassari, il Complesso Vocale di Nuoro e i Cantori della Resurrezione di Porto Torres, hanno creato un clima di lavoro straordinario in cui “inventare futuro” è stato molto più che uno slogan, o una parola d’ordine: è stato un entusiasmante stimolo, una sfida foriera di gratificanti soddisfazioni.
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PÉCS 2013-2015 DALL’ASSEMBLEA GENERALE ECA-EC AL XIX FESTIVAL EUROPA CANTAT di Giorgio Morandi
Mi viene da pensare e presentare Pécs come la città del viaggio. Dal punto di vista fisico-geografico, da Milano dista poco meno di 900 chilometri in auto, ma i chilometri diventano 1100 se si sceglie la combinazione aereo più treno poiché l’aeroporto è a Budapest (ma non viene poi così male l’occasione di visitare anche la capitale!). Dal punto di vista linguistico-toponomastico, il viaggio parte almeno da Sopianae, va a Quinque Ecclesiae – quindi in italiano (ora desueto) Cinquechiese e in tedesco Fünfkirchen – e arriva a Pécs, nome preso durante i 150 anni di dominazione turca e derivato dalla parola turca be che significa “cinque”. Anche dal punto di vista storico è un bel viaggio: Pécs (più di 10.000 abitanti ai tempi dei romani e quasi 160.000 abitanti oggi) è tra le città più antiche dell’Ungheria essendo stata luogo di insediamento già in epoca preistorica. Celti e Illiri l’abitarono prima che i Romani ne facessero la capitale della Pannonia Valeria e cedessero poi il passo a Barbari, Unni, Avari e Slavi, prima che all’impero Carolingio, agli Ungheresi che arrivarono verso il 900 e quindi all’Impero Ottomano che vi si instaurò per più di 650 anni. E gli ultimi 90 anni… sono storia moderna e ben conosciuta. Dal punto di vista economico, altri viaggi, a cominciare da quello del famoso scrittore ottomano Evliya Çelebi (1611-1684) che visitò Pécs e la descrisse come una fiorente città mercantile. Ed è ben noto che in epoca moderna la fama di Pécs è basata sulla produzione di birra e ceramica, quest’ultima con la famosa fabbrica Zsolnay. E dal punto di vista culturale e religioso? Il viaggio è altrettanto lungo e interessante. La bella cattedrale che nacque romanica, poi fu “neoclassicizzata” e infine ripulita dagli interventi neoclassici ottocenteschi del Pollack (figlio di Leopoldo Pollack che operò anche a Bergamo e a Milano dove morì nel 1806, non prima di costruire il Palazzo Reale) e riportata all’originale stile romanico come la vediamo oggi. Essa ci dice, con la cattedra vescovile allocata dietro l’altare maggiore, sotto il bellissimo catino absidale, essere Sede Vescovile. Il cristianesimo in questa regione era arrivato (lo dimostra il ben restaurato cimitero paleocristiano di centro città) prima del IV sec. d.C. In campo culturale Pécs è sede (dal 1367) di una delle quattro università più antiche di tutto il Sacro Romano Impero, e ancor oggi gode di una vita universitaria vivace e internazionale. Il già citato nome Zsolnay ci porta all’età contemporanea poiché identifica un grande e moderno quartiere culturale (nato sull’area e sulle strutture della
famosa fabbrica di ceramica) che ospita attività significative di ogni campo dell’arte. Non c’è dubbio che la funzione di Capitale Europea della Cultura svolta da Pécs nel 2010 ha lasciato un forte segno nel campo culturale, ne è prova il completamento dell’informazione con la citazione del grande e stupendo Kodály Center. Arrivando al tema specifico musicale, che ci interessa direttamente in quanto praticanti l’arte della coralità, il viaggio si fa un po’ più breve nel tempo, ma rimane di grande intensità: fondamentale è stata la tappa del 1988 con il Festival Europa Cantat che abbatté il primo muro di separazione con i paesi dell’est; importante sarà dal 24 luglio al 2 agosto del 2015 una nuova moderna edizione del Festival Europa Cantat: “Hung(a)ry for singing”. E nel mezzo, fra le due date, tanti importanti eventi di valore internazionale: Pécs Cantat 2010, Symposium sull’Educazione Musicale, Eurochoir, Assemblea Generale Annuale di ECA-EC… per citare soltanto gli eventi più importanti e più recenti. Ora ci soffermiamo un po’ più a lungo proprio sulla recente assemblea generale di European Choral Association - Europa Cantat che sotto il titolo Inspiring Cooperation through VOICE (“cooperazione che ispira attraverso il progetto VOICE”, ma potremmo anche tradurre “suggerire cooperazione attraverso
“Quale sarà il mondo culturale entro il 2020?” il progetto VOICE”) ha avuto luogo proprio a Pécs dall’8 al 10 novembre 2013. All’importante evento l’Italia è stata ben rappresentata da una non numerosissima ma significativa delegazione formata da Sante Fornasier e Lorenzo Benedet, rispettivamente presidente e segretario di Feniarco, dai maestri Carlo Berlese (presidente di USCI Pordenone) ed Ettore Galvani (presidente di ACP Piemonte) e da Giorgio Morandi (del comitato di redazione di Choraliter). Oltre la delegazione, importantissima presenza italiana naturalmente è stata quella di Carlo Pavese che è vicepresidente di European Choral Association - Europa Cantat e che pertanto, con i colleghi del board, ha svolto grande e importante lavoro per la specifica preparazione dell’assemblea e per la gestione futura dell’associazione.
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Nell’anno delle celebrazioni per il 50° anniversario di fondazione dell’associazione europea dei cori (ricordato anche con una piccola cerimonia augurale – taglio della torta e brindisi con tutti i presenti, tra cui il Dr. Péter Hoppál, presidente della Commissione Cultura di Pécs e membro del Parlamento Ungherese), l’assemblea è stata l’ultimo evento di un programma annuale ricco e molto vario. Ricordiamo che parlando di ECA-EC (European Choral Association - Europa Cantat) la parola “assemblea” è riduttiva, non riuscendo a esprimere in chiarezza e completezza l’insieme di tutte le attività che in tre giorni vengono espletate: - le riunioni degli organi istituzionali portanti dell’associazione: il board, la commissione musicale, la commissione giovanile, il consiglio dei revisori dei conti; - i discorsi ufficiali: quello del presidente di ECA-EC Gábor Móczár che accoglie saluta e ringrazia tutti, relaziona e informa, segue con attenzione lo svolgersi di tutte le attività; quello di Szolt Páva, sindaco della città, quello del direttore del Zsolnay Heritage Management Nonprofit Ltd, István Márta, quello di Aurél Tillai, professore emerito dell’Universitá di Pécs, dirigente del Coro da Camera di Pécs, già direttore artistico del Festival Europa Cantat 1988 da lui ufficialmente ricordato con la lettura della dichiarazione comune che nel 1988 era stata sottoscritta dalla Cittá di Pécs, dal Ministero della Cultura Ungherese e dalla federazione Europa Cantat per esprimere e sottolineare la loro convinzione che il festival serve per l’amicizia fra le nazioni e il canto corale è un mezzo molto importante di pace. E infine il discorso di Péter Hoppál, presidente della Commissione Cultura di Pécs e membro del Parlamento Ungherese; - l’assemblea vera e propria per l’approvazione di bilanci e relazioni finaziarie, la ratifica delle attività annuali realizzate e la programmazione delle attività future; - la conferenza “Quale sarà il mondo culturale entro il 2020?” tenuta da Ferdinand Richard, fondatore dell’A.M.I. - Centro Nazionale per lo Sviluppo della Musica Innovativa nonché dirigente responsabile per il Fondo Internazionale per le Diversità Culturali dell’UNESCO. E ancora: incontri di studio, workshop, concerti, dimostrazione di attività corali in progress…
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E non possiamo dimenticare la grande e importantissima opportunità che l’assemblea ha rappresentato ancora una volta per incontrare persone (singole e rappresentanti di piccole e grandi associazioni corali regionali e nazionali), scambiare opinioni ed esperienze corali musicali e associative, ma anche in generale di… vita vissuta nelle proprie realtà – realtà che ancor oggi talvolta sono molto lontane dalla nostra. Circa 130 musicisti e rappresentanti di associazioni corali di 24 diversi paesi europei (tra questi alcune persone dei paesi dell’Europa centro-orientale che partecipavano per la prima volta e i rappresentanti di Libano e Israele) si sono riuniti per tre giorni e hanno cercato ispirazione nuova, si sono incontrati, hanno parlato e discusso di attività e collaborazioni passate, ma soprattutto di quelle proiettate verso il futuro. Nelle tre ore di assemblea generale formale (che è solo una parte minore, anche se necessaria e importante, della riunione di tre giorni) il board, che era stato eletto un anno fa a Toulouse, ha presentato – sotto il titolo di “Benefici della comunità che canta” – le strategie dell’associazione per i prossimi anni. Cinque i punti essenziali evidenziati: modernizzare ECA-EC, facilitare un approccio paritario tra i membri, investire nella creazione di nuove capacità e di training, dare efficacia alla comunicazione e incrementare la consapevolezza. Tutto il tempo restante è stato impiegato: nella presentazione – nelle sue diverse articolazioni – del progetto VOICE (Vision On Innovation for Choral Music in Europe), il progetto corale globale triennale (2012-2015) finanziato dall’Unione Europea; nell’esposizione di esempi di cooperazione fra i partner di VOICE e di diversi progetti di ricerca pianificati nell’ambito dello stesso progetto; nella considerazione di esempi di collaborazione paritaria tra i membri dell’associazione e di modi efficaci per suggerire la partecipazione a eventi internazionali. Il programma è stato completato da sessioni musicali, concerti e gruppi di lavoro che hanno offerto ai partecipanti la possibilità di discutere possibili progetti futuri di collaborazione. Tutte le attività che vengono raggruppate sotto il titolo generico di “assemblea generale annuale della European Choral Association” – e che è stato proposto per il futuro di chiamare più propriamente “convegno” – sono state ospitate dalla città di Pécs in collaborazione con la Zsolnay Heritage Management LTD (ZSÖK) nelle meravigliose strutture del Quartiere Culturale Zsolnay e del Centro Kodály (costruiti in occasione di Pécs Capitale Europea della Cultura nel 2010) e nella splendida cattedrale di Pécs. Queste strutture e il bel centro storico della città lasciano immaginare concretamente la meravigliosa atmosfera che ci si può aspettare fin d’ora per il Festival Europa Cantat che qui avrà luogo tra il 24 luglio e il 2 agosto del 2015. Il successo del festival mi sembra poi garantito già fin d’ora dalle capacità organizzative e dalla cordiale simpatia espressa dagli amici ungheresi nell’organizzazione di questa tre giorni corale per l’assemblea generale di European Choral Association - Europa Cantat.
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CD CHORALITER Bando di partecipazione
Feniarco intende selezionare registrazioni dotate dei requisiti necessari per essere allegate alla rivista nell’anno 2014. Al presente bando potranno partecipare tutti i cori italiani. Le registrazioni, inedite o edite in tiratura limitata, dovranno essere state realizzate, alla data di scadenza del bando, da non più di 5 anni e dovranno rispondere ai seguenti criteri: > avere carattere unitario, presentandosi come un progetto focalizzato su un tema omogeneo e artisticamente significativo, tale da poter essere oggetto di un dossier della rivista; > essere di qualità sul piano dell’esecuzione, della registrazione e del repertorio proposto; > avere una durata non inferiore ai 50 minuti. Le registrazioni andranno inviate a Feniarco entro il 31 maggio 2014 unitamente a un curriculum del coro e del direttore e una dichiarazione di autenticità dell’esecuzione.
Una commissione d’ascolto costituita dal direttore della rivista e da due componenti della commissione artistica nazionale valuterà le registrazioni pervenute, formulando una graduatoria in base ai predetti criteri. La redazione si riserva la possibilità di utilizzare anche parzialmente le registrazioni pervenute, pubblicando un CD antologico. I costi di realizzazione del master sono a carico dei cori. Feniarco provvederà alla duplicazione, alla stampa dell’eventuale booklet e alla diffusione. Il coro interprete del CD selezionato fornirà inoltre una liberatoria che autorizzi Feniarco alla pubblicazione e diffusione, rinunciando ai diritti che saranno esercitati da Feniarco in quanto editore. Per le registrazioni eventualmente già edite, dovrà essere allegata una liberatoria da parte dell’editore, che autorizzi alla duplicazione e diffusione. Al coro interprete del CD pubblicato saranno riservate 50 copie omaggio della rivista e ulteriori 100 copie del CD.
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“QUATTRO VOLTE POLIFONICO” TRA SORPRESE E NOVITÀ Lo storico concorso tra i grandi eventi dell’estate aretina di Rossana Paliaga
Con un impegno «ben oltre i limiti tradizionali consolidati nelle passate edizioni», come giustamente ribadito dal presidente della Fondazione Guido d’Arezzo Carlo Pedini, lo staff del Polifonico ha dato vita quest’anno a ben quattro manifestazioni: il LXI Concorso polifonico internazionale e il XXX Concorso polifonico nazionale Guido d’Arezzo, il XXVIII Festival corale internazionale di canto popolare e la finalissima del XXV Gran Premio europeo di canto corale. È tangibile il lavoro degli organizzatori per confermare il ruolo che il Polifonico merita per la sua lunga e prestigiosa storia e in quanto competizione italiana di riferimento nel mondo. Eppure sembra sempre che il concorso rimanga alla ricerca, concreta e metaforica, del posto “giusto”. Il direttivo, che continua a perseguire la ripresa sobria ma importante e piena di buoni propositi dell’anno scorso, è stato infatti condizionato non soltanto dai mezzi economici necessari a sostenere un evento competitivo occasionalmente raddoppiato, ma anche da un eccesso di zelo dovuto all’inserimento del concorso all’interno di una serie di eventi turistici e culturali di grande richiamo. Nello stesso fine settimana la città ha proposto infatti la celebre rievocazione della Giostra del Saracino, la rinomata Fiera antiquaria e la biennale d’arte Icastica che ha riempito la città di installazioni d’autore. Nonostante il veicolo pubblicitario “cumulativo” e le iniziative per mettere in dialogo gli eventi, ad esempio con un concerto del coro Vox Cordis creato appositamente per includere l’elemento acustico e musicale all’interno di una delle mostre di arte contemporanea, il concorso ha dovuto
piuttosto cercare una via esclusiva, data anche dalla nuova sede delle selezioni e dei concerti al di fuori dei percorsi più frequentati del centro storico. La chiesa di Sant’Ignazio, sede abituale del concorso, ha ospitato infatti un’installazione di Yoko Ono, mentre il Polifonico ha incontrato spazi e acustica nuovi nella basilica di San Domenico. Adattarsi al nuovo ambiente non è stato difficile, anche perché ha portato i vantaggi di una maggiore ampiezza, una migliore acustica e non da ultimo di una piazza antistante dove incontrarsi e assistere al concerto all’aperto. Sotto il magnifico crocifisso di Cimabue hanno aperto la competizione i cori già laureati, vincitori dei concorsi consorziati di Tours, Varna, Debrecen, Arezzo e Tolosa, impegnati nell’ultima sfida per il Gran Premio Europeo. I MusicaQuantica di Buenos Aires, diretti da Camilo Santostefano, hanno portato dal lungo viaggio la compattezza di un coro unito e appassionato, con il pregio di avere sempre chiaro l’obiettivo musicale al di là di qualche imprecisione di percorso. Gli indonesiani del Batavia Madrigal Singers di Avip Priatna hanno mostrato un suono omogeneo e morbido, ma con perdite di tensione e una pronuncia poco chiara dei testi, mentre manierismo stilistico e un suono grande, ma tagliente non hanno probabilmente favorito il coro ucraino Credo di Bogdan Plish. Nella rosa dei migliori c’era anche il coro accademico Tone Toms˘ic˘, che Sebastjan Vrhovnik ha fatto concorrere scegliendo un programma interessante, proposto ed eseguito
Il concorso internazionale ha vissuto un rilancio con un grande aumento dei partecipanti rispetto all’edizione precedente. con cura minuziosa, che mettesse in luce le diverse capacità del coro, forse un po’ offuscate dalla tensione. Sull’assegnazione del prestigioso trofeo non ci sono stati dubbi per l’evidente, superiore qualità vocale del coro giovanile lettone Kame- r, diretto da Ja- nis Liepins˘. Con un programma contemporaneo perfettamente nelle loro corde, un suono vivo e intenso, e una sensibilità più rivolta al suono che all’espressione, le giovani voci del Baltico hanno conquistato la giuria formata, citando il direttore artistico del
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Polifonico Piero Caraba, da «professionisti che sostengono la coralità amatoriale». Dopo l’apertura eccezionale all’insegna del Grand Prix, la giuria presieduta da Marco Berrini ha inaugurato le regolari giornate di competizione con il concorso nazionale, quest’anno suddiviso nelle categorie di adulti e voci bianche e dedicato alla memoria di Orlando Dipiazza, pioniere della coralità italiana, «uomo schivo che ha lavorato con grande passione», come ha voluto ricordare il presidente di Feniarco Sante Fornasier. A dedicargli un omaggio musicale hanno pensato le Voci bianche del Contrà di Fontanafredda, ensemble armonioso per il quale la direttrice Jessica Lot ha scelto un programma poco vivace in rapporto all’età dei coristi, ma rivolto alla valorizzazione di autori della regione di provenienza del coro e che è valso al gruppo il premio Feniarco. La sezione ha dimostrato in generale una lodevole attenzione al repertorio corale italiano, affrontato in gruppi poco numerosi, ma molto motivati. Il primo premio in questa categoria non è stato assegnato, ma il secondo ex aequo è andato al coro C. Eccher di Cles (diretto da Chiara Biondani), ben preparato ma trattenuto nell’espressione, e al coro Garda Trentino di Riva del Garda con il programma lieve ma non scontato scelto dal direttore Enrico Miaroma. Sono stati soltanto tre anche i partecipanti alla sezione di cori di adulti, numero ridottissimo che però nulla toglie al merito della vittoria del gruppo femminile Bodec˘a nez˘a di San Michele del Carso, arrivato ad Arezzo con un programma e un’esibizione meditati in tutti i dettagli ed eseguiti con precisione e concentrazione, in modo da far risaltare le voci educate e l’eleganza nell’interpretazione dimostrate dalle giovani coriste di Mateja C˘ernic. Il secondo premio non assegnato ha reso ancora più evidente la qualità dell’ottima esibizione su brani di de Victoria, Lajovic e Bonato. Il terzo premio ex aequo è stato assegnato ai Laeti Cantores di Salerno, che con il direttore Roberto Maggio lavorano sull’omogeneità del suono, ma potrebbero osare una maggiore gamma dinamica, e al Coro da Camera Trentino di Giancarlo Comar, tradito da qualche imprecisione vocale e stilistica. Se il concorso nazionale ha dimostrato quanto il Polifonico sia temuto ma al tempo stesso quanto non rischiare possa diventare un’occasione perduta, il concorso internazionale ha vissuto un rilancio con un grande aumento dei partecipanti rispetto all’edizione precedente: undici cori tra i quali ben tre cori italiani (due dei quali hanno partecipato anche al concorso nazionale). All’interno della competizione internazionale non è stato possibile attivare la categoria di voci bianche, ma come novità principale è stato reintrodotto il pezzo d’obbligo: Sub tuum praesidium
È tangibile il lavoro degli organizzatori per confermare il ruolo che il Polifonico merita per la sua lunga e prestigiosa storia.
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RISULTATI 30º CONCORSO POLIFONICO NAZIONALE
di Palestrina per le voci pari, Sospirava il mio core di Gesualdo per le voci miste. Con queste scelte appropriate la direzione del Polifonico ha messo seriamente alla prova i partecipanti, al tempo stesso interpretando la vocazione all’antico che caratterizza il Polifonico. Imperfezioni nei tempi, nella conduzione musicale, nell’interpretazione stilistica hanno penalizzato in linea generale l’approccio allo splendore rinascimentale palestriniano, mentre sono state più convincenti le prove su Gesualdo, che tuttavia è diventato un chiarissimo rilevatore delle capacità espressive e dell’intensità delle interpretazioni che non possono derivare dalla sola impostazione tecnica. Nella sezione a voci pari non è stato assegnato il primo premio, mentre il secondo è andato a un gruppo che si è distinto con la solidità della tradizione ungherese, il coro giovanile Magnificat diretto da Valéria Szebellédi, gruppo dal suono levigatissimo, con maggiore freschezza nel colore che nell’interpretazione, che ha convinto la giuria nel contemporaneo e il pubblico nel popolare. Al terzo posto in questa categoria si è classificato il Vocalia Taldea di Basilio Astulez con le sue scelte di programma rischiose e una vivacità peculiare nelle esecuzioni che deriva da una grande simbiosi con l’approccio del direttore. Il coro, dal profilo molto definito, tanto da risultare a tratti aggressivo, ha vinto il primo premio nella categoria con programma rinascimentale con l’energia (a volte eccedente) che allontana questo gruppo dallo stereotipo dell’ensemble femminile “angelicato”. Non ha fatto breccia invece l’impostazione schematica del gruppo indonesiano Parahyangan Catholic University Choir. I cori italiani non sono riusciti a salire sul podio, ma meritano una lode per l’impegno e il coraggio di mettersi in gioco (senza sfigurare affatto) in un contesto così importante. Hanno partecipato all’impegnativo agone internazionale il Coro da Camera Trentino, che si è distinto con una buona prova nel contemporaneo, le ragazze del coro Bodec˘a nez˘a, molto musicali, mature e sempre capaci di dimostrare la condivisione totale di un obiettivo artistico, infine l’Ensemble La Rose
Sez. 1 - Polifonia 1° premio Gruppo vocale femminile Bodec˘a nez˘a di San Michele del Carso (Go) 2° premio non assegnato 3° premio ex aequo Laeti Cantores di Salerno; Coro da Camera Trentino di Borgo Valsugana (Tn) Premio speciale Feniarco: non assegnato Sez. 2 - Cori di voci bianche o giovanili 1° premio non assegnato 2° premio ex aequo Coro voci bianche C. Eccher di Cles (Tn); Coro voci bianche Garda Trentino di Riva del Garda (Tn) 3° premio Voci bianche del Contrà di Fontanafredda (Pn) Premio speciale Feniarco: Voci bianche del Contrà di Fontanafredda (Pn)
RISULTATI 61º CONCORSO POLIFONICO INTERNAZIONALE Sez. 2 - Cori a voci miste 1° premio Collegium Cantorum Yokohama (Giappone) 2° premio Cantatrix di Dokkum (Paesi Bassi) 3° premio New Dublin Voices di Dublino (Irlanda) Sez. 3 - Gruppi vocali 1° premio New Dublin Voices di Dublino (Irlanda) 2° premio Vocalia Taldea di Bilbao (Spagna) 3° premio Collegium Cantorum Yokoama (Giappone) Sez. 4 - Cori a voci pari 1° premio non assegnato 2° premio Magnificat Youth Choir di Budapest (Ungheria) 3° premio Vocalia Taldea di Bilbao (Spagna) Sez. 6 - Rassegna per periodi storici Premio speciale periodo A Vocalia Taldea di Bilbao (Spagna) Premio speciale periodo B non assegnato Premio speciale periodo C non assegnato Premio speciale periodo D ex aequo Collegium Cantorum Yokohama (Giappone); Magnificat Youth Choir di Budapest (Ungheria) Sez. 7 - Rassegna di libera espressione Premio speciale del pubblico Vocal Ensemble Gregorianum di Varsavia (Polonia) Sez. 8 - Festival corale internazionale di canto popolare Premio speciale del pubblico Magnificat Youth Choir di Budapest (Ungheria) Premi speciali Premio speciale per il miglior direttore: Jose Borgo dell’Ensemble La Rose di Piovene Rocchette (Vi) Gran Premio “Città di Arezzo”: New Dublin Voices di Dublino (Irlanda)
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di Piovene Rocchette che ha avuto la soddisfazione di vedere assegnato il premio speciale per il miglior direttore a Jose Borgo. La competizione dei cori a voci miste è stata aperta da un fuoriclasse come Ko Matsushita con il suo Collegium Cantorum Yokohama, capace come sempre di armonizzare la disciplina e la precisione orientali con un’intensità interpretativa tipicamente europea. Il coro ha vinto il primo premio nella sezione a voci miste e un meritatissimo premio ex aequo con le ragazze ungheresi del Magnificat nel programma contemporaneo. Le aspettative nei confronti della partecipazione del coro dell’Università del Litorale di Capodistria, diretto dall’apprezzato direttore e compositore Ambroz˘ C˘opi, sono state purtroppo deluse dai risultati che non hanno visto il coro rientrare nei primi posti delle classifiche, anche a causa di uno scarso equilibrio del suono d’insieme. Da Dokkum in Olanda è arrivato il coro Cantatrix che si è distinto per l’attenzione ai dettagli di stile sotto la direzione di Geert-Jan van Beijeren; questo pregio gli è valso il secondo premio nella categoria a voci miste, mentre ha un po’ sorpreso il mancato riconoscimento nella categoria dedicata alla musica barocca che costituisce evidentemente una delle specialità di questo gruppo. Nella categoria per periodi storici non è stato assegnato nemmeno il premio per il repertorio romantico. Ha avuto un percorso di nicchia il Vocal Ensemble Gregorianum di Varsavia, eptetto di solisti dalle voci ben timbrate e capaci di dare il giusto rilievo al testo nel repertorio rinascimentale, che ha saputo essere spiritoso e accattivante nella rassegna open-air di libera espressione Arezzo Colours (altra novità dell’edizione di quest’anno), dove il suo giocoso piglio pop ha conquistato il pubblico che gli ha assegnato il premio speciale di categoria. Il vincitore assoluto del Gran Premio Città di Arezzo è stato, a sorpresa, il coro irlandese New Dublin Voices con una scalata al traguardo talmente inaspettata e improvvisa, da stupire gli stessi coristi. A differenza di quanto solitamente accade, la giuria ha voluto premiare quel fattore insondabile che è la capacità di emozionare. Forse non è stato il coro più irreprensibilmente preciso e il suo organico non è tale da travolgere l’uditorio con un fortissimo, ma ha avuto la sensibilità di lavorare sulle preziosità vocali, sulla capacità di raccontare una storia con ogni brano, su un suono ben calibrato, sull’affettuosa condivisione di un modo di sentire con il suo direttore Bernie Sherlock. Con un terzo premio nella sezione a voci miste il coro non avrebbe avuto diritto a partecipare alla competizione finale per il Grand Prix, ma proprio nella giornata conclusiva ha avuto uno scatto inatteso nella categoria dei gruppi vocali. La vittoria in questa prova, affrontata probabilmente come “accessoria” a causa della necessaria formazione ridotta, ha garantito al coro la partecipazione alla finalissima, a confronto con il volume sonoro del Vocalia Taldea, la perfezione del Magnificat e l’eleganza quasi intellettuale del Yokohama, portandolo rapidamente al vertice della classifica con la conquista del diritto a partecipare alla prossima finale europea per il Grand Prix che Debrecen ha fissato nel mese di marzo. La vittoria è andata a un coro misto, ma il concorso ha visto quest’anno una forte presenza di gruppi femminili e la quota rosa del Polifonico si è espressa anche nel premio speciale consegnato alla cerimonia di chiusura con la Medaglia del Presidente della Repubblica alla carriera assegnata a Bruna Liguori Valenti, «antesignana dell’esperienza corale italiana grazie alla promozione e diffusione di nuove prospettive didattiche». Alla chiusura della manifestazione è stato sottolineato quanto «il Polifonico tenda a rinnovarsi sempre per rimanere vivo e non adagiarsi sugli allori del passato»; non si può che attendere con curiosità le novità dell’edizione 2014, per la quale è già stato preannunciato l’accento sul trentennale di Feniarco, fondata proprio ad Arezzo.
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“CHORALISTI” TRA TRADIZIONE… E RIVOLUZIONE! I 60 ANNI DEL FESTIVAL CHORALIES A VAISON-LA-ROMAINE di Rossana Paliaga
Vaison-la-Romaine è un luogo che ispira: così perfetto nella sua bellezza conservata, restaurata e curata nei minimi dettagli decorativi da sembrare una scenografia teatrale, al tempo stesso così reale nel suo bagaglio storico che lo riconduce, attraverso lo splendore medievale, fino ai fasti della Gallia romana, testimoniata con magnifica concretezza dalle vestigia della colonia di Vasio (da cui prende il nome), del grande teatro antico, del ninfeo, dal ponte romano ancora in uso e che collega le due parti del suggestivo borgo provenzale. Nel cuore della città bassa, in piazza Montfort, è scolpito lungo un rivolo d’acqua il commiato di Adriano, l’imperatore poeta, quel saluto all’Animula vagula blandula consegnato ai contemporanei anche dal romanzo della Yourcenar, veicolo letterario francese per un’eredità romana, in una combinazione che riflette in modo esemplare la doppia anima del retaggio storico e artistico di Vaison. L’incantevole borgo della Vaucluse va fiero di una caratteristica ulteriore, ben nota ai francesi ma che agli occhi dei turisti appare con evidenza accanto alle altre attrazioni una volta ogni tre anni. Vaison è infatti una città dove la musica corale è di casa con i 60 anni di tradizione di un festival tanto importante, da meritare anche l’intitolazione di una delle arterie del paese: le Choralies. Dalla sua fondazione nel dopoguerra, la macromanifestazione non ha mai cambiato sede, radicandosi nella storia di questo paese come un motivo d’orgoglio, condiviso a livello nazionale. Le prime pagine e gli ampi spazi nei media locali sono uno specchio fedele degli effetti di una lunga tradizione; le Choralies non sono il ritrovo della “tribù”
corale che periodicamente colonizza un sito, ma sono diventate parte integrante del tessuto culturale della regione. Nelle strade dei borghi e delle città provenziali parla dell’evento anche chi non vi partecipa e magari non è direttamente interessato e questa è la prova più autentica del ruolo che la manifestazione ha assunto nel territorio. Alle Choralies prendono parte in media oltre 4000 persone, quindi nel periodo del festival la popolazione di Vaison letteralmente raddoppia e gli abitanti accolgono con reale piacere l’invasione di volontari e coristi che riempiono le strutture turistiche e si accampano con tende e camper in un paesaggio di grande suggestione. I coristi sanno di essere ospiti graditi della “città europea della coralità”, la cui vocazione si esprime anche con iniziative istituzionali che coinvolgono la municipalità, in primo luogo la ricerca di una convenzione con Namur e Pécs, città che condividono una particolare attenzione per il canto corale. Amatissimo dai francesi e ben frequentato dai francofoni, l’evento è pronto per il passo ulteriore, ovvero una più ampia apertura internazionale che porti il mondo a dialogare coralmente con l’anima storicamente e profondamente francese di questo festival. Quest’anno ha soffiato su Vaison, insieme al Mistral, anche un vento di novità; l’hanno percepito chiaramente i frequentatori abituali delle Choralies, ai quali non è dispiaciuto cogliere questa voglia di aggiornamento. Portavoce del cambiamento è stato Jacques Barbier, impegnato per la prima volta nella direzione del festival da
La Vaison delle Choralies è un luogo dove cantare, ma soprattutto dove ascoltare. quando ha assunto la presidenza di À Coeur Joie France. Affiancato dal direttore artistico Jean-Claude Wilkens e dal coordinatore tecnico Olivier Blanchoz, ha ribadito più volte la parola d’ordine, “apertura”, da applicare ai programmi, alle idee, all’energia dei giovani: «Occorre fare una rivoluzione in testa, portare nuova linfa a una mentalità che negli anni è invecchiata e sono i giovani che devono condurre le danze. Abbiamo voluto Michael Gohl per la prima volta a Vaison per proporre un canto comune divertente, che parlasse più lingue
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e abbracciasse più culture. Nei programmi ci siamo aperti al jazz e alla musica leggera. La definizione originaria di “movimento” va sostituita con “associazione”, per rendere l’idea di un luogo di incontro, aperto alla conoscenza reciproca. Guardo infatti alla musica come a un mezzo per vivere meglio e condividere il presente». La Vaison delle Choralies è un luogo dove cantare, ma soprattutto dove ascoltare, con atelier tematici la mattina, i pomeriggi costellati di concerti, il canto comune e infine i grandi concerti serali al teatro antico (il modello è quello di Europa Cantat), con l’organizzazione interamente gestita e concentrata su una sola associazione nazionale: À Coeur Joie. L’esperienza pluridecennale si riflette nello staff, serenamente a proprio agio nonostante le dimensioni imponenti della manifestazione, ma anche nei fedelissimi partecipanti. Quasi tutti, a qualsiasi età, possono vantare infatti una lunga frequentazione della manifestazione: ci sono coristi che non si sono persi un’edizione, ma anche giovani per i quali è stato naturale continuare una tradizione alla quale li avevano introdotti i genitori. Nell’aria è tangibile la gioia dell’incontro con vecchi e nuovi amici, la voglia di conoscere persone e repertori, un desiderio che le Choralies hanno esaudito con almeno undici concerti pomeridiani al giorno in sei siti, alcuni dei quali di grande rilevanza storica e artistica (la suggestiva cattedrale romanica, la cappella di Saint Quenin nell’antica necropoli romana, la chiesa quattrocentesca della città alta), seguiti dal canto comune e dai grandi concerti nell’imponente teatro risalente al I secolo, ma anche, per una serata, da concerti sul territorio regionale. Nei nove giorni di festival (1-9 agosto) i “choralisti” hanno scelto i più disparati percorsi tematici di atelier a diversi livelli di difficoltà e di diversa durata. L’esperienza negli atelier è
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stata l’occasione per partecipare all’esecuzione di grandi composizioni, magari con solisti e orchestra (ad esempio la Krönungs messe di Mozart o i Carmina burana di Orff), oppure cimentarsi in programmi inconsueti. Oltre alla propria esibizione di fine atelier, i partecipanti hanno potuto scegliere tra una grande varietà di concerti pomeridiani di gruppi ospiti provenienti in gran parte dalla Francia, ma anche da Stati Uniti, Ungheria, Belgio, Svizzera, Spagna, Indonesia, Brasile, Russia, Canada, Gabon e Congo (il rapporto con i paesi africani deriva dai legami creati e coltivati da À Coeur Joie International). Accanto ai classici programmi storici, i concerti hanno proposto anche repertori fantasiosi e rarità, tra i quali la Misa tango di Palmieri, il Requiem alla memoria di Maria Antonietta, il dovuto omaggio a Britten e Poulenc, la particolarità della tradizione gitana provenzale, i progetti d’autore, il genere barbershop, la musica di César Geoffray (indimenticato fondatore di À Coeur Joie) con una raccolta di inni usciti per la prima volta dalle mura del monastero per il quale sono stati scritti, senza dimenticare infine l’apprezzato filone swing e pop, arricchito da una nota cantautoriale francese. Il programma del festival ha offerto tutti i presupposti per un’immersione totale nelle sfaccettature del mondo corale, con partecipanti sempre pronti alla scoperta e all’ascolto e che ogni sera hanno atteso il tramonto imparando canti svedesi, giocosi canoni, cullandosi su La Mer di Trenet, ballando su una celebre filastrocca bretone, cimentandosi in classici dei secoli passati o gospel assieme all’effervescente Gohl, affiancato da numerosi direttori ospiti e da qualche sorpresa come la visita graditissima della popolare attrice e comica Mimie Mathy e della cantautrice Alice Dona. Che la musica sia una passione imprescindibile lo ha
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confermato anche l’incontro inaspettato con un ex corista del Coro Giovanile Italiano che dopo essersi trasferito in Francia ha trovato immediatamente il modo di inserirsi in diversi gruppi e cori amatoriali e professionali e che all’interno delle Choralies si è esibito con il coro parigino Wesley, ma anche con il Choeur National des Jeunes che, assieme al Choeur Suisse des Jeunes (entrambi cori giovanili nazionali), è stato protagonista di uno dei concerti serali con un grande omaggio a Johannes Brahms sotto la direzione di Frieder Bernius. I concerti serali hanno raccontato molto della natura e degli obiettivi delle Choralies: l’apertura con il concerto del gruppo ucraino Oreya, ben noto ai frequentatori di concorsi internazionali, il misto di jazz e musica brasiliana della serata con Gold Company e Terra Brasilis, il sapore internazionale e i colori del concerto di quattro cori da tre continenti, il preludio sinfonico dell’orchestra di Cluj all’esibizione dei cori riuniti di À Coeur
Joie per rendere omaggio all’eleganza e alla sensibilità di Poulenc con le immagini poetiche e musicali di Sécheresses su testi di Edward James. Ma i concerti hanno voluto parlare soprattutto di giovani, con un concerto affidato interamente ai cori giovanili nazionali di Francia e Svizzera, insieme all’energia dei Leioa Kantika dai Paesi baschi spagnoli, questi ultimi protagonisti anche di un bel progetto di collaborazione internazionale realizzato con l’ottimo coro giovanile La Cigale de Lyon e con i coristi di uno degli atelier che insieme hanno dato vita al concerto finale, un’esplosione di energia ed entusiasmo sostenuta dalle percussioni del gruppo Percussions Claviers di Lione. Coreografici, ironici, divertenti, espressivi, i ragazzi diretti da tre direttori altrettanto adrenalinici come Anne-Marie Cabut, Maria Guinard e Basilio Astulez, hanno entusiasmato la folla del teatro antico, ma soprattutto hanno vissuto un’esperienza umana e artistica che non resterà senza conseguenze, grazie all’intelligenza degli organizzatori che hanno voluto far lavorare fianco a fianco (in questo come negli altri progetti delle Choralies dedicati ai cori giovanili) giovani di paesi confinanti per i quali non sarà poi così difficile pensare di continuare a collaborare. Le Choralies 2013 hanno dimostrato così di essere una grande
Le Choralies sono diventate parte integrante del tessuto culturale della regione. e festosa tradizione rinnovata nei contenuti, un festival dall’anima francese, ma con la voglia di guardare sempre di più anche oltre i propri confini e che crede nei giovani che devono portare avanti e coltivare la cultura della coralità.
E VIVA ITALIA! Tra i direttori e i partecipanti di questa edizione non c’erano italiani, ma all’Italia è stato dedicato un approfondimento nell’atelier “E Viva Italia!”, un percorso attraverso i colori del Bel paese nelle espressioni di compositori italiani e nell’ispirazione di autori stranieri. La direzione è stata affidata a un giovane, ma già affermato direttore francese il cui cognome tradisce esplicitamente l’origine: Clément Esposito. Frequentatore fin da bambino delle Choralies, amatissimo dai corsisti, ha cercato di trasmettere ai partecipanti lo spirito italiano e la musicalità di una lingua che ha imparato in famiglia: «Ho scelto brani profani di carattere festoso, danzante, accostati a un’immagine più austera della musica religiosa. Lo spirito italiano passa attraverso l’arte di Banchieri, Nanino e Rossini, del “veneziano” di adozione Willaert, e si riflette nella musica di Lasso, de Victoria, e infine, con un salto temporale, Lauridsen, ma in un brano che riprende un poema del rinascimento italiano». Cosa affascina dell’Italia? «L’immagine che l’Italia esporta è sempre quella che riguarda il suo lato caloroso, il buonumore, l’allegria, l’espressione diretta dei sentimenti ed è quello che all’estero si ricerca, quello che più attira del carattere italiano». Lo confermano i partecipanti all’atelier, che dichiarano di essere stati conquistati da brani «pieni di energia e colore», ma anche dal fascino della polifonia rinascimentale, o della stessa lingua, della quale hanno voluto imparare al meglio la pronuncia, «perché nell’italiano sono le parole stesse a cantare».
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IN MEMORIAM Orlando Dipiazza (1929-2013) Veniva da lontano, Orlando Dipiazza. Nato nel decennio successivo alla fine della Grande Guerra, ha vissuto la giovinezza in un ambiente (il goriziano), in cui persisteva l’impronta culturale austro-ungarica. E la musica, in particolare, aveva ancora una notevole rilevanza nella vita sociale. L’organista assunto “a stipendio”; il parroco che radunava i ragazzini, per far loro conoscere le opere liriche radiotrasmesse dai grandi teatri; il maestro elementare che sapeva suonare uno strumento; i pomeriggi musicali nei salotti dei benestanti, in cui capitava di ascoltare Nikita Magaloff al pianoforte. E poi Trieste; i giardini di Trieste, dove tutte le sere si esibiva in concerto la banda. Orlando Dipiazza ha studiato presso il conservatorio di Trieste. Una scuola fatta da personaggi che definiva “inavvicinabili”. Grandi musicisti, la cui sapienza andava ben oltre le necessità del magistero. «Per insegnare bene – diceva – devi sapere il triplo del bisogno degli studenti». La sua scelta di optare per il ruolo di docente nella scuola media va letta nel segno di questa rispettosa consapevolezza. Un ammirevole messaggio di etica professionale. Una lezione che punta il dito contro le facili, opportunistiche e inconsistenti carriere odierne. Lo sguardo, ma soprattutto l’orecchio di Orlando puntavano lontano… e in alto. I riferimenti: il canto gregoriano e i grandi compositori della tradizione, i polifonisti dell’epoca rinascimentale, in primis, i classici e certuni – accuratamente selezionati – moderni. Il mezzo: il contrappunto, disciplina musicale sobria e severa, uno stile compositivo trasferitosi anche in uno stile di vita. La lunga esistenza gli ha permesso di assistere alla nascita e al tramonto delle avanguardie del secondo dopoguerra: «Quelli che si ricordano sono i nomi di quei pochi che hanno ispirato i cambiamenti. Poi sono venuti gli epigoni, gli emulatori. Nella musica corale di oggi abbondano – in particolare nel nord Europa – le goffe imitazioni». Ma non stimava granché nemmeno quei pochi “padri rivoluzionari”: «A Mestre, prima di raggiungere la sede dell’ASAC, si attraversava un quartiere, le cui vie erano intitolate ai musicisti veneziani. Una di queste era via Luigi Nono, una stradina, lunga circa una ventina di metri, in fondo… chiusa!». Additava alle avanguardie la “colpa” di avere svilito il rapporto del canto con la parola. Testi (spesso “pretesti”) spezzettati, sbriciolati nel significato, sminuiti a puro effetto sonoro. Detestava quei lavori dove i gloria, gli eleison e gli osanna diventano spunto di artifici vocali gratuiti e monotoni. «Un po’ come Mozart (sic!)… che potresti cambiare le parole e
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non cambia la sostanza, mentre con Beethoven si stravolge il dramma». Orlando mal tollerava ogni forma di banalizzazione. Grave, a suo dire, quella che ha “inquinato” la musica sacra negli ultimi cinquant’anni. Imperdonabile la responsabilità della Chiesa cattolica, che ha affidato a uno stuolo di dilettanti la cura della musica liturgica. «Un mulo, a cui avevo insegnato un po’ di pianoforte, una volta messo piede in chiesa, si è cimentato con l’invenzione di melodie sacre: testo e musica, tutto compreso. Mia figlia, tornata a casa dopo aver ascoltato quelle canzonette, mi ha detto: Hai creato un “mostro”!». Delle sue opere – corali e non – ho detto e scritto volentieri a più riprese. Ora si suonino e si cantino. Ero bocia quando ho conosciuto di persona Orlando Dipiazza. Un incontro casuale, lungo una via di Trento, prima di una cerimonia di premiazione. Laconico il suo primo saluto: «Poche ciacole, che già oggi dovremo sopportarne in abbondanza. Quello che resta è la musica». Mauro Zuccante
Domenico Bartolucci (1917-2013) 1956 - 1997 sono due date che segnano il magistero del card. Domenico Bartolucci alla Cappella Musicale Pontificia (Sistina): per più di quaranta anni il maestro toscano ha ricoperto il ruolo musicale più importante della Chiesa Cattolica. In realtà, la sua personalità musicale va al di là di questi confini temporali e dagli anni Trenta del ’900 arriva fino alla sua morte spaziando in quasi tutti generi musicali, soprattutto nell’ambito della musica sacra. O Sacrum Convivium, Crux Fidelis sono solo due titoli a cui corrispondono due dei brani tra i più suggestivi e famosi di una smisurata produzione musicale fatta di messe, mottetti, salmi, cantate, oratori, madrigali, sonate, fughe ecc. Chi ha avuto la fortuna di averli ascoltati o meglio ancora, cantati, non può che rimanere conquistato dalla bellezza di una musica che racchiude in sé tradizione e innovazione, in cui la sostanza del canto gregoriano e della polifonia classica sono riplasmate in una sapientissima quanto originale modernità. Questa è l’opera del card. Domenico Bartolucci, l’opera di un vero musicista che ha dedicato tutta la sua vita alla musica sacra. Ricordo ancora quando quasi venticinque anni fa l’ho incontrato per la prima volta: ero tra una cinquantina di alunni che aspettavano nell’aula magna del Pontificio Istituto di Musica Sacra il suo arrivo quasi nel tremore, quando in realtà si è presentato a noi un semplice sacerdote, che attraverso suoi ricordi e aneddoti, ma soprattutto con il suo insegnamento, ha messo tutti a proprio agio e ha iniziato una delle cose a lui più care, insegnare e dirigere la polifonia
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5x classica. Domenico Bartolucci compositore, direttore, insegnante, in più di ottanta anni di attività ininterrotta ha plasmato centinaia di allievi o cantori, e tutti coloro che a vario titolo lo hanno incontrato sul loro cammino, o hanno avuto il privilegio di far musica con lui, certamente sono rimasti colpiti dalla statura del musicista e del sacerdote. Se l’apparenza lo mostrava in tutta la sua severità e la sua fama lo presentava come un uomo intransigente, in realtà posso testimoniare in prima persona che questo prima di tutto era rivolto a se stesso e all’atto pratico invece si dimostrava spesso molto comprensivo. Aveva un’idea della musica e della liturgia talmente alta che ogni compromesso era per lui inconcepibile; ecco quindi che pretendeva da tutti massimo rispetto e dedizione assoluta al proprio lavoro, voleva vedere e parlare con persone dedite alla musica, non importa a quale livello, purché fossero musicisti nel senso più vero del termine; quante volte mi avrà ripetuto questa frase: «ragazzo mio, la musica la deve studiare chi la sa!». Con chi lo frequentava più da vicino, pur nel rispetto profondo dei ruoli, era molto aperto ed era una miniera di informazioni su tutto ciò che concerne la musica sacra e le vicende delle Cappelle Musicali Romane. Compositore fine, il cui intento è stato quello di porgere il testo nella maniera più appropriata e concepire la musica come una solida architettura; direttore dai mille gesti ancora una volta con l’intento di mettere in risalto il testo, a volte con un solo sguardo riusciva a ottenere il suono cercato; insegnante esigente nella speranza di creare una coscienza musicale critica negli allievi; infaticabile, sempre impegnato nel suo lavoro, fino all’ultimo lo si poteva trovare al pianoforte, a sistemare la sua musica. Ora, mi piace pensarlo in quel convito che la sua fede e la sua genialità musicale ha descritto con tanta dolcezza, lassù, insieme al coro degli angeli; e per tutti noi che lo abbiamo conosciuto, è stato e rimarrà sempre il “Maestro” con la M maiuscola al quale non possiamo che rivolgere una preghiera unita a un sincero “grazie”! Michele Manganelli
Luciano Migliavacca (1919-2013) «Noi non sappiamo quale sortiremo domani, oscuro o lieto…». Questo l’incipit poetico di una lirica di Eugenio Montale messa in musica da Luciano Migliavacca e questa è la domanda che ci poniamo guardando all’opera musicale del maestro milanese, interrogandoci su quale sarà l’evolversi storico della Cappella Musicale del Duomo di Milano e quanto tempo ci vorrà per rivedere una figura di maestro di cappella di così rilevante impatto estetico e musicologico.
Luciano Migliavacca pare collegarsi, al suo ingresso quale maestro di cappella del Duomo di Milano avvenuto nell’ottobre 1957, alla figura di Franchino Gaffurio (1451-1522), icona e modello di riferimento perenne per chi si troverà a indossare i panni di direttore dell’istituzione musicale ambrosiana. Migliavacca, innanzitutto compositore, irrora di sana modernità il ruolo di conductor musicale con un’attività di poeta e liturgista, di storico della musica, di trascrittore delle perle musicale dell’archivio quale cultore della memoria di musicisti che lo hanno preceduto, di redattore di testi di didattica musicale sacra, di direttore di riviste musicali impegnate nella battaglia a difesa della musica liturgica. Tutto ciò non limita, comunque, il primo compito del maestro di cappella: è la funzione del comporre che qualifica il suo compito e che trasversalmente irrora tutta la sua opera. Il mottetto, ovvero dell’origine della scrittura. A ben vedere questa è la forma musicale che invade buona parte dell’opera di mons. Migliavacca. Rispetto al catalogo musicale delle composizioni dei maestri del Duomo di Milano si potrà leggere la sostanziale differenza che corre tra la mottettistica di don Luciano e gli storici precedenti exempla musicae. Le messe, ovvero della modernità. È rivivere poeticamente l’Ordinario, da parte del compositore milanese, il luogo eletto per tracciare ancora più marcatamente le differenze nel rileggere il testo della messa, il luogo per presentare un’alternativa estetica a una musica sacra che, a ridosso del Concilio Vaticano II, vedeva complessivamente spegnersi lo slancio di inizio ’900 dettato da un ristretto gruppo di musicisti di formazione o ascendenza perosiana, usciti dal conservatorio di Milano e ferratissimi nel trattare la pagina liturgica. Il trascrittore, ovvero l’oscura fatica. Ci piace qui ricordare, seppur con mano leggera e con brevi cenni, l’attività dell’artista impegnato nell’area più strettamente musicologica, ma nella quale il tocco del musicista sa restituire “prodotti” di alto profilo. Il quotidiano, o della semplicità. Come dimenticare gli oltre venti anni delle riunioni editoriali di Polyphonia in casa Carrara. Il passare rapido delle partiture, il giudizio che era chiarissimo già nel suo sguardo: poche o nulle le parole per declinare una scelta o negarne la pubblicazione. In occasione dell’80° compleanno di don Luciano si apre una serie di splendidi momenti di vita condivisi in prima persona da chi scrive. L’incontro ideale era una cena casalinga: una semplice benedizione, un risotto, un buon assaggio di vino rosso, ma soprattutto musica da ascoltare. Tutto all’insegna della sobrietà del giudizio o, addirittura, di un silenzio che era ancora più significativo e espressivo di tante parole. Don Luciano era un uomo minimalista. Minuto nel suo modo di essere, essenziale nel suo modo di vivere come vero sacerdote. Gian Nicola Vessia e Marco Rossi
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Coro SAT 2013
۔2013 Azzurra Music srl - © Fondazione Coro della sat - TBP11618 Dal 1997 a oggi il Coro SAT ha dedicato la propria produzione discografica alla riedizione del repertorio “storico”. Sotto forma di singole monografie, sono via via usciti gli album dedicati ai cosiddetti “quattro evangelisti”, cioè ai quattro musicisti che, più di altri, hanno dato corpo al repertorio della celebre compagine trentina: Arturo Benedetti-Michelangeli (1997), Antonio Pedrotti (1999), Renato Dionisi (2003) e Luigi Pigarelli (2005). S’intenda che questi prodotti non contengono ristampe (o ri-masterizzazioni) di passate esecuzioni, ma nuove interpretazioni “firmate” da Mauro Pedrotti, succeduto allo zio Silvio, alla guida del coro. Mancavano al completamento della rilettura integrale del repertorio-SAT i lavori di un reparto di compositori di “seconda linea” che, negli anni, hanno realizzato un cospicuo pacchetto di brani per il coro. Sono finiti quindi nella tracklist del nuovo CD Coro SAT 2013 i nomi di Bruno Bettinelli, Giorgio Federico Ghedini, Luciano Chailly, Andrea Mascagni, Renato Lunelli, Teo Usuelli e Aladar Janes. Nomi di assoluta notorietà artistica, soprattutto i primi quattro. Musicisti che han voluto misurarsi con il canto alpino, conquistati dal modus canendi della SAT. Ascoltiamo il disco. Se non fosse per quella chiusura “in gloria”, la parafrasi di G.F. Ghedini del canto risorgimentale Son morti per la patria si evolve in un tono espressivo fiero e commovente. Arie (oggi si direbbe “rimpianti”) da vecchio Impero spirano in Quando saremo giunti. Un motivo che B. Bettinelli trascrive con mano esperta. Un classico O ninine. Una vilota furlana bitematica, armonizzata da A. Mascagni nel rispetto del modello stilistico SAT. Bi-ritmico, invece, l’impianto di Se la Marieta è picola. Eccentrica sperimentazione di R. Lunelli, ma «ben proporzionà», come sembrano confermare le parole in chiusura del testo. Una hit dei cori alpini la “sacrilega” Montagnes Valdôtaines, rivoltata in modo minore da T. Usuelli per la colonna sonora del film ITALIA K2 (1955), di cui il Coro della SAT fu, all’epoca, valido interprete. Queste alcune delle 21 canzoni contenute nel CD. Ma non vorrei tralasciare un’annotazione per la spumeggiante Che cos’è?. Un arrangiamento del tradizionale contrasto più conosciuto come Giovanottina che vieni alla fonte, opera di “zio Silvio” (Pedrotti, s’intenda!), che, una tantum, ha voluto cimentarsi con l’arte della scrittura musicale, facendo leva sulle competenze acquisite negli anni trascorsi alla direzione del coro trentino. Benvenuta questa nuova realizzazione del Coro SAT. Un coro che, come si recita nelle note di presentazione, debutta «rinnovato quasi per intero, più brillante, più duttile, più aperto agli esperimenti, più consapevole delle proprie capacità tecniche ed interpretative».
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Conforta, quindi, constatare che il Coro SAT, «saldo come il Monte Sion», preserva e tutela con successo la tradizione del suo stile corale, nonostante gli evidenti segnali di invecchiamento generazionale che, in generale, gravano sui cori alpini. Un invecchiamento che fa temere la fine di una stagione corale. Ma il Coro SAT, fondato nel 1926, fra un paio d’anni celebrerà il Novantesimo, e poi… chissà?! Mauro Zuccante
Giovanni Legrenzi: Testamentum; Missa Lauretana quinque vocibus Oficina Musicum, dir. Riccardo Favero Dynamic CDS 710 (2012) Di recente pubblicazione è la registrazione Dynamic CDS 710 (2012) di Oficina Musicum, l’ensemble strumentale e vocale vicentino fondato e diretto da Riccardo Favero e specializzato in musica barocca e classica. In collaborazione con istituzioni, storici e musicologi l’ensemble si sta occupando in particolare della diffusione della musica del compositore e organista barocco (e bergamasco, Clusone/Bg 1626) Giovanni Legrenzi (morto a Venezia nel 1690), incidendo – oltre al qui citato Testamentum – i CD dal titolo Concerti musicali per uso di Chiesa, Op. 1, Messa e Vespro e anche Il Sedecea. Attraverso l’incisione Testamentum gli ascoltatori hanno ricevuto un regalo: una bella esecuzione che incarna il pathos del momento artistico Barocco. L’incisione, del 2012, rappresenta una ben studiata offerta di musica del tardo barocco italiano o, meglio ancora, della Basilica di Loreto. Le composizioni di Legrenzi contengono elementi drammatici indicativi della sua attività nella scena operistica veneziana, e gli guadagnano la reputazione di sviluppatore dello stile barocco italiano. Legrenzi, compositore poco famoso, meriterebbe un maggior riconoscimento. Prima della sua nomina a vice-maestro (nel 1682) e poi Maestro di Cappella di San Marco a Venezia (nel 1685) aveva già lavorato a Bergamo e a Venezia. A parte la produzione di musica sacra, Legrenzi fu uno dei maggiori compositori d’opera italiani avendone composte ben diciannove.
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In Testamentum l’attenzione è incentrata sulla Missa Lauretana quinque vocibus (del 1689), ma Favero, direttore con un debole per la ricerca del suono originale attraverso strumenti dell’epoca o loro ricostruzioni artigianali, ricostruisce la Missa Properium quale sarebbe stato possibile ascoltare nella cappella del Legrenzi stesso. Utilizzando questa messa di Legrenzi come modello, Favero inserisce nel CD sia opere del compositore bergamasco, sia musiche di fonti strettamente collegate con la Basilica di Loreto. I tre canti mariani Congratulamini Filia Sion, Alma Redemptoris Mater e Hodie Collaetantur Coeli sono di Legrenzi mentre l’introito Terribilis est locus, il graduale Unam Petii a Domino e l’Alleluia col versetto sono presi da Proprium in Festo Translationis Almae Domus Lauretanae. In questo CD Favero e la sua Oficina Musicum riescono a ottenere un’esecuzione che incarna la passione retorica della partitura entro i dettami della prassi esecutiva. Il risultato è una registrazione impeccabile contenente attributi stilistici sia di stile antico sia di stile moderno. Degno di particolare nota è il piccolo gruppo di strumentisti che suona con precisione e fluidità ritmica. È bello e davvero incoraggiante sapere che musicisti come Favero e la sua Oficina Musicum continuano a esplorare l’ancor poco conosciuto ma culturalmente molto significativo Barocco italiano. Giorgio Morandi
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LA VITA CANTATA Rubrica dedicata al canto di ispirazione popolare a cura di Puccio Pucci
Una tesi di laurea sul canto di ispirazione popolare Sabato 2 marzo 2013, presso il conservatorio di Como, Manuel Rigamonti ha conseguito la laurea di secondo livello in musica corale e direzione di coro. Il fatto assume un certo rilievo, non solo perché segna la conclusione di un percorso di studi, ma perché, probabilmente, siamo in presenza di una delle prime tesi sul canto di ispirazione popolare. Il titolo della tesi è So dove nasce la voglia di cantare (citazione di un canto di Bepi De Marzi), analisi dell’evoluzione del linguaggio musicale nel canto corale di ispirazione popolare. Relatore è Sergio Bianchi, docente di teoria e analisi, ma anche direttore di coro. Manuel Rigamonti, diplomato in pianoforte, composizione, musica corale e direzione di coro, è musicista a “tutto tondo” (è anche direttore d’orchestra). I titoli di studio evidenziano la serietà e la completezza della sua formazione ed è quindi importante che si sia avvicinato a un mondo considerato poco allettante per chi proviene da studi accademici. È interessante scorrere i titoli dei capitoli che compongono il lavoro: 1. Musica popolare e musica corale ad ispirazione popolare 2. Il coro della S.A.T. e Arturo Benedetti Michelangeli 3. Il canzoniere del Monte Cauriol 4. La “nuova coralità”, il Simposio di Cortina del 1970 5. Le storie raccontate da Bepi De Marzi 6. Il mondo corale di Gianni Malatesta 7. Paolo Bon e l’arcaico 8. Le nuove vie del canto corale ad ispirazione popolare 9. Conclusione Un excursus ampio e dettagliato in cui di volta emergono le differenze di ispirazione, le caratteristiche dei destinatari e le peculiarità dei compositori. La scelta di iniziare dal coro della S.A.T. non è solo il doveroso omaggio a una compagine che ha “tracciato una via” nel panorama corale italiano ma è soprattutto il segno della meraviglia di fronte alla scoperta che un grandissimo pianista come Benedetti Michelangeli si sia dedicato alla composizione per un coro di dilettanti (inteso nel senso più alto e nobile del termine). Il lavoro si rivela un utile supporto per tutti coloro che desiderassero avvicinarsi a tale repertorio, perché, pur nella ristrettezza dello spazio, di ogni autore si è messo in luce il tratto caratteristico inserendo esempi musicali analizzati e spiegati, che ci permettono di capire in modo semplice, ma non superficiale, i diversi pensieri compositivi. Il linguaggio, in alcuni momenti, è necessariamente tecnico ma è accessibile a tutti coloro che abbiano dimestichezza con il mondo musicale. Si nota infine un interesse che va oltre la pura ricerca e rivela la scoperta di un mondo in grado di dischiudere tesori di grande valore a chi si avvicina con amore e umiltà. La speranza è che altri studenti seguano le orme di Manuel Rigamonti, contribuendo a elevare la qualità delle direzioni e delle interpretazioni. Sergio Bianchi
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E se pensassimo di partecipare attivamente all’organizzazione sociale del paese? Così dice l’art. 3 della Costituzione Italiana e così sostengono gli operatori dell’Accademia Europea d’Arte Le Muse di Casale Monferrato. L’esperienza musicale, in quanto esperienza sensoriale, ben si sposa al territorio che dalle vigne estrae musica per il palato, il vino del Basso Monferrato. E come si partecipa alla vendemmia? Si raccoglie l’uva, si pigia e insieme si respira aria di festa, così l’esperienza diventa appartenenza senza pregiudizi, insieme per rinnovare la memoria di una terra. Su questa idea di educazione alla musica si inseriscono i progetti dell’Accademia. Della storia cantiamo la memoria e Cantare a scuola In collaborazione con la Sezione ANA di Casale Monferrato e con il Comune di Occimiano, entrambi i progetti coinvolgono i giovani del territorio per farli partecipare a un’esperienza democratica attraverso il linguaggio e la pratica della musica corale. Il territorio racconta di storie di alpini, solidali, capaci di sacrificio, coraggiosi gioiosi e capaci di condividere ogni esperienza e con un repertorio vocale che racconta questi valori e partecipando ai laboratori scolastici che formano anche i docenti della scuola primaria, i giovani cittadini potranno attraverso il canto, divulgare un patrimonio prezioso alla storia del nostro Paese. Accompagnati nel percorso da docenti di certificata professionalità, insegnanti e alunni si troveranno coinvolti in un percorso corale strutturato, che contribuirà concretamente anche alla riscoperta dei canti della nostra tradizione. Il progetto Della storia cantiamo la memoria, che è stato premiato, proprio in questi giorni, dalla presidente della Camera dei Deputati, Laura Boldrini, segno tangibile della sensibilità rivolta ai linguaggi del popolo, si articola in diverse fasi ed eventi: per prima cosa un concorso creativo che si intitola Cantiamo la democrazia, riservato alla scuola primaria e secondaria di primo grado. Il tema di questa seconda edizione è quello sopra citato, “l’articolo 3 della Costituzione Italiana”, descrivibile con linguaggi verbali e non verbali, utilizzando disegni, foto, racconti e poesie o forme multimediali. A questo già ricco programma si aggiunge la Rassegna di cori scolastici che si svolgerà sabato 5 e domenica 6 aprile 2014 ed è riservato alla scuola primaria e secondaria di primo grado.
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Ai cori scolastici che parteciperanno sarà fornita una dispensa di materiale didattico suggerito dall’Accademia, ma verrà anche data la libertà di scelta, con la sola richiesta di attinenza tematica. E, per chiudere il progetto scolastico che abbraccerà un intero anno di lavoro, l’Accademia Le Muse propone il Concorso nazionale di composizione ed elaborazione corale “Dante e Battista”. L’obbiettivo di questo concorso è di unire e trasmettere la tradizione alpina alle nuove generazioni. Le composizioni e le elaborazioni saranno per coro di voci bianche e cori giovanili. Il concorso è aperto a compositori di ogni età e nazionalità e le partiture, selezionate dalla giuria, saranno eseguite in concerto durante la Seconda rassegna internazionale cori di voci bianche e giovanili che si svolgerà il 31 maggio 2014 a Casale Monferrato (Al). Un progetto complesso e articolato che vuole promuovere la diffusione e la valorizzazione della musica a tutti i livelli: dal percorso didattico, formando insegnanti e coinvolgendo con la pratica corale gli allievi delle scuole, all’ambito professionale con il concorso rivolto a musicisti compositori e la rassegna di cori giovanili affermati. Tutto questo unito alla salvaguardia e riscoperta, per le nuove generazioni, di un importante patrimonio storico-musicale da non dimenticare. I lavori di composizione o elaborazione corale per il concorso “Dante e Battista” dovranno essere inviati entro e non oltre il 18 febbraio 2014. Tutte le informazioni sul sito: www.accademialemuse.com/progetti.php La responsabile didattica del progetto, Patrizia Barberis, e la presidente Ima Ganora vi attendono in Accademia per ulteriori informazioni. Accademia Europea d’Arte Le Muse sede operativa: Palazzo Vitta - via Trevigi 12 15033 Casale Monferrato info@accademialemuse.com Maristella Dessì
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MONDOCORO a cura di Giorgio Morandi
Il volume del canto mi innamora: come vorrei io invadere la terra con i miei carmi e che tremasse tutta sotto la poesia della canzone. Io semino parole, sono accorta seminatrice delle magre zolle e pur qualcuno si alza ad ascoltarmi, uno che il canto l’ha nel cuore chiuso e che per tratti a me svolge la spola della sua gaudente fantasia. (Alda Merini) Il nostro mondo: il canto che innamora!… tanti cori, tante canzoni… tante canzoni, quanta poesia! Quante persone che il canto l’hanno nel cuore! Sarebbe presunzione perfino il solo parlare di parafrasi della poetessa Alda Merini, né lo vuole essere. È… così… soltanto un pezzo di catena ritrovata per strada, alcuni anelli ferrosi che saldamente ancora si intrecciano risuonando, quasi ritmando a canzone i colpi di incudine/martello del lavoratore che diede loro forma, pensiero che riporta e riassume in modo perfino eccessivamente stringato il mondo corale che viviamo e che siamo. Leggerete i versi della poetessa milanese e questo Mondocoro quando – ormai al termine del primo quadrimestre di grande attività – i bimbi del Natale che abbiamo cantato e del Nuovo Anno appena accolto si avviano a diventare grandi, ricchi di nuove esperienze, di musica dolce, forte o a volte persino drammatica, che narra la nostra vita, che la accompagna verso un futuro migliore – lo speriamo tutti, non ne possiamo più, vero? – un futuro intenso, non facile ma sereno, lo stesso che in nobile lingua bergamasca Mondocoro augura ai suoi lettori: «Nedal e fì de l’an i è dù bambì ’n de cüna. Ch’i pòrte ’l prim la Pas, l’óter Furtüna» (Natale e fine dell’anno son due bimbi nella culla. Che portino il primo la Pace, l’altro la Fortuna).
Lo studio della musica religiosa in un contesto educativo è una parte vitale di una educazione musicale completa In questo numero di Choraliter è previsto il dossier su La musica nella liturgia e quindi mi aspetto che ne leggeremo “di cotte e di crude”, comunque a sufficienza per farci un’idea dello stato dell’arte (come s’usa dire) di questo ambito che solo apparentemente sembra non essere di nostra competenza. Qual è infatti il coro italiano che non ha mai reso più intenso e solenne un servizio liturgico o paraliturgico? Mondocoro non vuole certo raddoppiare o appesantire questo argomento, ma suggerire un tema di discussione completamente diverso e particolare. La riflessione che qui viene proposta, comunque, con la “musica sacra” ha certamente qualcosa a che fare e vedere. Da qualche tempo capita sempre più spesso di leggere che alcuni studenti non vogliono cantare “musica sacra” a scuola e nulla gliene importa delle ragioni e
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motivazioni del loro educatore/insegnante/direttore di coro. Per la verità questo avviene più all’estero che in Italia (ma in Italia la musica nelle scuole c’è? Da quanto tempo? E soprattutto come? Ma questo è un altro problema). La situazione citata, ormai, è comunque attuale o può esserlo di giorno in giorno anche in Italia – in alcune zone in modo particolare – da quando la scuola ha cominciato a ospitare un considerevole numero di studenti che proviene dal di fuori della tradizione cristiana occidentale. È cronaca recente (avvio del nuovo anno scolastico) quella delle classi con alta presenza di studenti di cultura non rigidamente italiana e/o occidentale! L’argomento degli studenti che non vogliono cantare canti religiosi a scuola, nei mesi scorsi è stato oggetto di specifico dibattito, per esempio, nel newsgroup o forum ChoralNet dove numerosi “addetti ai lavori” si sono sentiti coinvolti e hanno espresso pareri, suggerimenti, esempi di operatività: «La mia programmazione di “pezzi sacri” è motivata da ragioni educativo-musicali… Esponendo le mie ragioni lo dico ai miei dirigenti scolastici… e poi ai genitori e agli studenti. Fornisco anche note esplicative al pubblico dei concerti che così si rende conto del mio ragionare… sono aperto a qualsiasi discussione, ma fino a ora non ho mai dovuto annullare una mia programmazione». Sull’argomento c’è chi ricorda che i programmi di formazione prevedono «musica nel senso più ampio del termine, comprendendo esplicitamente la musica sacra, la cui scelta è fatta esclusivamente a scopo educativo-musicale senza intento alcuno di promuovere o denigrare particolari punti di vista». Non è assolutamente concepibile – sostiene qualcuno – l’idea che una persona coinvolta nella musica corale possa evitare di confrontarsi con la musica sacra di qualsiasi tradizione e periodo. Sarebbe come sostenere che lo studio della matematica è significativo e completo senza lo studio dell’algebra o della geometria; sarebbe come voler studiare storia ignorando la Guerra Civile o studiare scienze politiche senza considerare le diverse forme di governo. «Inoltre gli studenti non devono imporre la loro visione dell’universo; essi vanno a scuola per imparare come agire di fronte alle diverse visioni dell’universo che esiste già, prima di loro». NAfME è la sigla che identifica l’importante associazione statunitense National Association for Music Education (Associazione Nazionale per l’Educazione Musicale) che sull’argomento dice la sua. Alla domanda «La musica su testo sacro ha posto nella scuola?», NAfME risponde che «lo studio e l’esecuzione della musica religiosa in un contesto educativo è una parte vitale e appropriata di una educazione musicale completa. L’omissione della musica sacra dai programmi scolastici sarebbe una esperienza educativa incompleta». La scuola non può cancellare dai programmi tutti i materiali che possono turbare una sensibilità religiosa. Lo studio della storia dell’arte, per esempio, sarebbe incompleto e inconcepibile senza riferimento alla Cappella Sistina o al David di Michelangelo, e lo studio dell’architettura richiede per forza di cose un esame delle cattedrali rinascimentali. Allo stesso modo, «uno studio completo della
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musica ha l’obbligo di acquisire familiarità anche con la musica corale su testi religiosi, tanto più che è un dato storico di fatto, e ben documentato dalla storia della musica, che c’è più musica sacra che musica profana perché, specialmente nella cultura occidentale, la Chiesa fu fruitrice e patrona principale della musica. …E più si va a ritroso nella storia, più questo è confermato». «Certo» aggiunge un altro insegnante di musica «si possono trovare pezzi corali su testo non sacro scritti da Byrd, Tallis, e Bach, ma sono relativamente poco conosciuti e non sono generalmente considerati tra le più grandi opere di questi compositori. Perché dovrei spendere tempo prezioso di classe/prove per insegnare ai miei studenti della musica oscura, evitando altre opere che dagli storici della musica sono considerate le più grandi del loro genere?». Senza dilungarci troppo e farne un trattato (proprio della sezione “dossier” di Choraliter) riteniamo che non sia fuori luogo fare un’ultima riflessione sul ruolo del compositore di musica sacra, in questo senso: siamo certi che Händel con il suo Messiah intendeva fare un grande trattato evangelistico e teologico? Io non sono esperto e non ho fatto ricerche, ma il dubbio mi viene: il Messiah è davvero uscito spontaneamente dalla personale esperienza di cristiano dell’autore? E non dimentichiamo che innanzitutto era un lavoro commissionato, come spesso è stato – e ancora è – il caso della grande musica sacra.
Eccesso di musica nei riti religiosi Un modo diverso di vedere i cori in chiesa… una provocazione? Forse! Ma c’è comunque anche chi la vede così! «Questo è qualcosa che avrei voluto dire da molto tempo. Spero che sia utile per ispirare qualche riflessione sull’argomento. Ciò che ogni luogo di culto o ogni autorità preposta deve fare, è decidere come vuole promuovere la Parola di Dio, come vuole onorare Dio. L’esperienza porta a pensare che la musica durante i riti religiosi sia diventata una malsana ossessione. È certamente bello ascoltare grande musica di alta qualità, ma se questo è lo scopo di coloro che vanno in chiesa, allora questi possono anche comperarsi il biglietto per un bel concerto. Sta diffondendosi sempre più una cultura per la quale è l’esecutore che attira l’attenzione su di sé e non l’ascoltatore che la offre umilmente dopo aver accolto contenuti attentamente considerati. Dopo tutto la vita non è un musical. Ci sono molte persone di culto che vengono da ogni parte del mondo e che, sia per la chiesa frequentata, sia per le scuole a indirizzo musicale e le borse di studio musicali di cui hanno goduto, sono stati formati professionalmente nella musica. Sanno suonare cinque strumenti diversi affrontando qualsiasi cosa, da Mozart a Rihanna al John Cage di 4,33 e sono generosi nel condividere tutto ciò con la propria chiesa o la chiesa che li ospita. Accade anche con alcuni cori.
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Saranno anche poetici per quanto riguarda il significato profondo radicato nella loro esibizione, ma a che scopo tutto questo? La loro autopromozione stile X-factor non serve a nulla al fine di aiutare i fedeli in ciò che veramente conta. Non sarebbe più desiderabile una comunità di fedeli in cui la musica non svolge alcun ruolo? Una comunità attiva nel fare cose che realmente beneficiano le comunità, come il volontariato in centri per persone senza casa, l’aiuto ai tossicodipendenti, il volontariato con gli ammalati e nelle case per persone bisognose… Non cori più grandi e più bravi! Non sarebbe bello e più giusto mantenere il lusso di essere pedanti in musica ed essere capaci di intonare un suono perfetto durante il proprio tempo libero e non quando si va in chiesa?».
Premi, riconoscimenti e medaglie Riceviamo in redazione e segnaliamo con piacere alcuni risultati conseguiti da cori italiani nel mondo. Alla 27ª edizione del concorso corale internazionale Praga Cantat (31 ottobre - 3 novembre 2013), quattro cori italiani si sono distinti con i seguenti risultati: Gruppo vocale Laeti Cantores di Cagliari, fascia d’oro nella categoria Cori Misti e nella categoria Repertorio Popolare, e premio speciale per l’interpretazione del brano romantico; Coro Calicanto di Salerno, fascia d’oro nella categoria Repertorio Popolare; Coro Monte Calisio di Martignano (Tn), fascia d’argento nella categoria Cori Maschili; Coro Santanna di Tortolì (Og), fascia d’argento nella categoria Repertorio Popolare. Presenza italiana anche al concorso corale internazionale di Derry (Irlanda del Nord), svoltosi dal 24 al 27 ottobre 2013, con il terzo premio aggiudicato dal coro Polifonico di Ruda (Ud), exequo con il coro Polifonica (Bielorussia).
Educazione musicale in Italia: ma chi l’ha detto che è importante? Che l’educazione musicale in tutti i livelli scolastici – iniziando dalla scuola primaria per via delle connessioni con la crescita di un futuro cittadino più consapevole, attento e creativo – sia importante, è stato ribadito da una delegazione del Forum Nazionale per l’Educazione Musicale composta dal coordinatore Checco Galtieri, da Giovanni Piazza (co-promotore dell’iniziativa) e da Annalisa Spadolini, funzionario della Direzione Generale per il personale del MIUR. Giovedì 10 ottobre alle ore 15 questa delegazione ha incontrato il Ministro dell’Istruzione Maria Chiara Carrozza. Alla signora Ministro sono state presentate le tre richieste dell’appello sostenute dalle oltre undicimila firme raccolte e da un drappello di sostenitori illustri: 1) l’inserimento organico nel primo ciclo d’istruzione di un insegnante specializzato in didattica della musica in ogni scuola come promotore e coordinato-
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re delle attività musicali; 2) l’inserimento organico nella scuola secondaria di secondo grado di docenti di materie musicali al fine di garantire un’adeguata presenza della musica, della sua cultura e della sua storia nella formazione degli studenti; 3) il sostegno alle attività formative musicali, e in generale artistiche, anche attraverso deduzioni fiscali come già avviene per le attività sportive (su questo punto il Ministro ha illustrato le difficoltà frapposte dalla Ragioneria dello Stato […E ti pareva che potessero non esserci difficoltà prima ancora di finire la proposta! ndr]). In precedenza al Ministro era stato presentato il Forum stesso e i suoi scopi, sottolineandone la forza numerica (si parla di una utenza di circa 150.000 unità) e la forza qualitativa insita nella sua composizione: un luogo di incontro tra il Terzo Settore e docenti di conservatorio, università e scuola pubblica; il tavolo di discussione tra cori e scuole di musica, associazioni disciplinari e metodologiche con l’apporto di centri studi, l’approssimarsi del grande mondo corale, delle bande musicali e quant’altro. Considerato il ruolo di supplenza alle Istituzioni Statali che singoli insegnanti e il mondo dell’associazionismo in generale hanno svolto in questi trenta anni, è stata portata all’attenzione del Ministro la necessità che questo ruolo sia superato attraverso una collaborazione più ampia con l’istituzione pubblica. La delegazione ha inoltre illustrato le possibilità e le opportunità che il protocollo di intesa (al quale il Ministro è sembrato fare particolare attenzione) stipulato in primavera fra il Forum e il MIUR DGPER può produrre. Infine è stato sottolineato il lavoro congiunto di tutto il Forum ed è stato richiesto che almeno un rappresentante del Forum stesso sia inserito nei vari gruppi di lavoro e tavoli che – al Ministero – prendono le decisioni concrete e pratiche. Il Ministro ha seguito con crescente interesse la presentazione e ha mostrato la massima disponibilità in particolare sull’ultima richiesta, ringraziando il Forum per quanto tutti facciamo per la musica in Italia. Anche Mondocoro augura buon lavoro al Ministro e lo ringrazia per quanto farà per aiutare la nostra società, ma soprattutto per la società del futuro cui la sua opera deve essere mirata con decisione, concretezza e precisione.
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Cantore in autodifesa Non potermi fregiare tra gli amici cantori della bella altisonante etichetta (quante volte pure vuota e poco onesta!) “Io so leggere la musica”, di primo acchito come cantore mi fa sentire in imbarazzo e un po’ limitato, facendomi pensare soprattutto “Quanta musica mi sfugge!”. Ma razionalmente poi mi riprendo. Infatti per quanto riguarda i “cantori non-abili-lettori di partitura” e i “cantori non-lettori di partitura ma entusiasti”, c’è una vecchia battuta che si raccontata sia nei circoli musicali jazz che in quelli folk: «Tu sai leggere la musica?». «Non abbastanza per rovinare il mio modo di suonare». Nessuno dubita che saper leggere la musica sia una competenza preziosa, certo, ma probabilmente non è indispensabile. Infatti, se consideriamo tutti i lettori di Mondocoro o tutti i cantori italiani o addirittura le tradizioni musicali di tutto il mondo, quanti sono coloro che sanno leggere una partitura? Sono probabilmente una piccola minoranza. Se soltanto costoro cantassero avremmo un mondo… silenzioso (e quanto noioso?!). Non leggiamo le note, è vero, ma il momento di tirare il naso fuori dal libro poi arriva. È allora sì che si ascolta la musica, che si può riprodurre ciò che veramente si sente nel profondo dell’anima, e si canta, si canta tanto, si canta tanto che… si balla. O no?!
Evento corale dell’anno 2014 Eric Whitacre vincitore del prestigioso Grammy Award è stato selezionato per dirigere, nel 2014, il coro Choir of Thousands sui gradini del Campidoglio a Washington. Il Kennedy Center, l’operatore turistico Classical Movements e l’associazione corale Chorus America con orgoglio hanno dato questa notizia (non importa se il Campidoglio è chiuso al pubblico per mancanza di fondi per la sua gestione! Questo è un problema di Mr Obama!). L’evento corale Voices of Our Nation Star Spangled Salute avrà luogo il 14 giugno 2014 e sarà il gran finale di una settimana di celebrazione della musica corale organizzata dal Centro Kennedy in collaborazione con Corus America. Migliaia di voci da tutti gli States si riuniranno nella loro capitale Washington per presentare Voices of our Nation: Celebrating the Choral Tradition. Questo evento rappresenterà la celebrazione della tradizione corale nel Giorno della Bandiera e del 200° anniversario della Star Spangled Banner, l’inno nazionale Usa (vedi “nota storica” a piè articolo). A causa della natura di questo significativo evento, e considerando che per le risposte di conferma potrebbero essere necessari alcuni giorni, tutti i cori e i singoli cantori sono invitati a completare e a presentare on-line, al più presto, la domanda di partecipazione, anche se le domande singole saranno prese in considerazione in un secondo momento. Per questo evento Flag Day nella capitale degli Stati Uniti, il progetto prevede 2.000 cantori e 50 cori provenienti da tutto il paese; prevede anche la partecipazione di migliaia di persone che potranno esplorare Washington DC e prolungare il viaggio onde poter visitare le altre eccezionali città della East Coast! È risaputo che molti cori italiani coglierebbero volentieri l’occasione per far visita allo “zio d’America”, ma mentre per questo evento è ammessa la partecipazione anche dei singoli residenti negli Stati Uniti d’America, non sono, invece, ammessi a parteciparvi i cantori stranieri e nemmeno i gruppi internazionali. Nota storica: Le parole di The Star-Spangled Banner (“la bandiera adorna di stelle”) sono quelle del poema The Defence of Fort McHenry scritto nel 1814 da Francis Scott Key, un avvocato e poeta dilettante trentacinquenne. Il testo, diventato poi un canto patriottico sulla musica di To Anacreon in Heaven (canzone popolare di John Stafford Smith, inno di un club amatoriale di musicisti nella Londra del
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1700) venne adottato come inno nazionale dal Congresso degli Stati Uniti il 3 marzo 1931, anche se già da tempo ne era stato riconosciuto l’uso ufficiale da parte sia della Marina degli USA (nel 1889) sia dalla Casa Bianca (nel 1912).
Canti in un coro? Si capisce al volo! Tutti sappiamo che c’è qualcosa di speciale nell’essere cantore di coro. Chorus America (vedi nota) ha svolto un’indagine dalla quale risulta inequivocabilmente che i cantori sono tendenzialmente cittadini migliori e che danno contributi positivi alla propria comunità più delle persone che non cantano in un coro. Inoltre, ci sono altre qualità che distinguono i membri di un coro facendoli un po’ più… unici. Con un po’ di creatività e con l’aiuto dei seguaci in Facebook, Chorus America ha definito ben 11 elementi che possono indicare la probabile qualifica di “corista” di una persona: 1. Quando il tuo amico ha un raffreddore, lo eviti come la peste. 2. Ti ritrovi a cantare e armonizzare con la radio. 3. Difendi fino alla morte il fatto che la tua parte vocale è la migliore di tutte. 4. Hai memorizzato il Coro Alleluia e lo canti anche nel sonno. 5. «Non posso, ho le prove» diventa una scusa frequente, e con questa sei a posto. 6. Quando il direttore artistico annuncia che il tuo pezzo preferito è parte del repertorio per il prossimo concerto, ti senti come se festeggiassi in una volta sola il tuo compleanno e tutte le altre feste importanti. 7. Non ti viene da nominare nemmeno uno dei brani che canti abitualmente, ma sai tutti i movimenti del Requiem di Brahms. 8. Quando vedi un bel paio di scarpe comode, nere… in vendita… hai una strana reazione. 9. Sai che uno è… (Eric Whitacre)… e perché egli è una rockstar. 10. Non hai bisogno di noleggiare una divisa, ne possiedi una personale. 11. Quando qualcuno ti definisce “testa da corista”, con orgoglio lo accetti come un complimento. Mondocoro sollecita una collaborazione dai suoi lettori: secondo voi, quale altro segno inequivocabile è stato tralasciato? Scrivetelo a g.morandi@sogngieri.it! Nota: Negli Usa, Chorus America è la principale organizzazione nazionale per la difesa e la promozione della coralità in ogni suo aspetto. Si dedica alla ricerca sul mondo corale, fornendo dati che definiscono il carattere, la portata e l’impatto della partecipazione corale sui cantori e le loro comunità. Chorus America dà voce al campo corale globale, collabora con colleghi di altre arti nelle iniziative fondamentali di difesa e promozione, e fornisce gli strumenti per rendere evidente che la musica corale merita un supporto convinto da parte della società. Maggiori dettagli e tutto quello che volete sapere sulla musica corale e sui cori cercateli navigando in www.chorusamerica.org.
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Musica Rinascimentale: una guida pratica per il direttore di coro Renaissance music for the choral Conductor: A Practical Guide, di Robert J. Summer (Lanham, MD; Scarecrow Press, 2013). Nella prefazione al libro l’autore stesso R.J.Summer dice che al giorno d’oggi si esegue meno musica rinascimentale che nel passato e si augura che il suo libro incoraggi i direttori di coro a programmare più spesso questo genere di repertorio. Il libro è davvero una guida pratica. Basandosi sull’esperienza e gli studi di vari esperti musicologi, Summer presenta una guida molto utile per l’avvicinamento alla musica del Rinascimento. Egli comincia contestualizzando brevemente la musica, fornendo interessanti dettagli storici in modo molto piacevole. Tutta l’informazione è fornita in misura essenziale, senza appesantire il lettore con inutili complicazioni. E comunque, per chiunque desiderasse maggiori dettagli, l’autore fornisce abbondanti riferimenti a molte risorse a cui poter accedere a proprio piacere. Ogni capitolo è riservato a un argomento che viene sviluppato completamente con esempi chiari e con suggerimenti per l’ascolto. Analizzando a mo’ di esempio alcuni dei capitoli, osserviamo che il capitolo 5, Cercare una buona edizione (Finding a good edition), è molto utile. R.J. Summer dà indicazioni pratiche per la scelta di una edizione musicale valida: davvero le informazioni sono ottime per un direttore di coro all’inizio della sua esperienza. Allo stesso modo il capitolo 6, Realizzare la partitura (Making the Score): l’autore dedica due sottocapitoli a come fare le prove e come dirigere la partitura e offre molti suggerimenti pratici per il primo insegnamento. Tutti conosciamo il famoso Sicut Cervus di Palestrina. Ebbene, il capitolo 9 è interamente dedicato a questo brano, riportando ampie citazioni da Paul Salamunovich che esprime il suo pensiero e la sua esperienza circa il tono appropriato, il colore, il fraseggio per non dire delle indicazioni circa lo studio della partitura e la sua direzione. L’uso degli strumenti nella musica vocale rinascimentale è il titolo del capitolo 10. Veramente intrigante. Andando oltre l’ormai noto concetto che la musica di questo periodo offre possibilità di esecuzioni diverse sia ai cantori che agli strumentisti, R.J.Summer suggerisce i modi in cui gli strumenti di oggi possono essere usati per cogliere lo spirito e il carattere del suono degli strumenti d’epoca. Le brevi presentazioni dei grandi compositori Josquin, Di Lasso, Palestrina, Hassler, Byrd e Monteverdi, nel capitolo 11, sono molto utili. Per il direttore di coro interessato alle musiche di questi autori è fornita una informazione biografica e musicale ben bilanciata. Il capitolo 12, che s’intitola Presenting a madrigal dinner (vedi nota), è completo di ampi suggerimenti per tutti gli aspetti di una simile impresa, compresi gli aspetti musicali, la messa in scena e la programmazione. Per i gruppi che amano arricchire l’evento con la danza c’è un eccellente sottocapitolo sulle forme di danza nel periodo rinascimentale.
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Nella prefazione del libro il famoso direttore Dale Warland dice che un simile libro l’avrebbe apprezzato molto quand’era neolaureato e all’inizio della sua attività musicale in campo corale. Quello di R.J. Summer è certamente un libro da consigliare agli studenti che vogliono intraprendere la professione di direttore di coro. R.J. Summer è generoso e meticoloso nel fornire risorse informative. La discografia e la bibliografia indicate sono dettagliate e complete. Lo scopo dell’autore è quello di dare assistenza ai direttori di coro nel prendere – a riguardo della musica rinascimentale – decisioni intelligenti e nel demistificare talvolta questa musica. Cosa che gli riesce molto bene. Musica Rinascimentale è un libro che vale la pena di leggere ed è consigliabile ai direttori di coro che lavorano con cori della scuola, dell’università, della comunità, della parrocchia. Nota: Madrigal Dinner (Cena del madrigale) o anche Madrigal Feast (Festa del madrigale) è una tipica forma americana di intrattenimento serale impostato su cena, recitazione, canto e danza. È solitamente organizzata durante la stagione natalizia nelle scuole e presso le parrocchie. La parte teatrale – di solito del genere commedia – si sviluppa tra una portata e l’altra del pranzo, mentre un concerto corale conclude la serata.
Associazioni corali internazionali: una alla volta Euro Arab Youth Music Center Basandosi sulla convinzione che l’accesso alla musica sia un diritto umano fondamentale e un fattore che contribuisce allo sviluppo sostenibile dei giovani e delle comunità locali, Jeunesse Musicale International ( JMI), il movimento culturale Epilogi di Limassol (Cipro) e l’Accademia Araba della Musica (Lega degli Stati Arabi) si sono uniti per fondare un organismo istituzionalizzato che faciliti un’ulteriore e maggiore cooperazione tra i propri membri e con le altre organizzazioni giovanili e musicali della regione: Euro Arab Youth Music Center (Centro Euro Arabo per la Musica ai Giovani). Avviato a Limassol (Cipro) nel settembre 2012 alla presenza delle più importanti organizzazioni musicali arabe ed europee, l’Euro Arab Youth Music Center è una organizzazione non-governativa e non-profit che procura ai giovani europei e a quelli arabi uguali opportunità di sviluppo, crea consapevolezza e scambio di conoscenze, facilitando, attraverso la musica, la cooperazione, la comprensione e il rispetto reciproci. Nell’area mediterranea quest’associazione mira a incrementare la collaborazione tra i principali interessati nel campo giovanile e nella musica e, quindi, fa sì che un maggior numero di giovani dei paesi europei e dei paesi arabi possano partecipare a dei programmi musicali interessanti e possano essi stessi creare programmi musicali di alto valore educativo e sociale. Una recente attività di questa giovane “associazione per i giovani” è stata l’organizzazione, lo scorso mese di settembre 2013, del secondo incontro dei cori giovanili intitolato Choral Crossroads 2013 avente per tema Singing the Bridges. Choral Crossroads è un progetto che per quattro giorni ha visto raggruppati, in cinque cori, più di 200 cantori europei e arabi. Essi hanno sperimentato il canto corale come strumento di responsabilizzazione dei giovani, di costruzione della pace e di cooperazione euro-mediterranea. Il progetto/evento si è concretizzato in concerti, workshop e conferenze che hanno focalizzato il lavoro giovanile, il dialogo interculturale e interreligioso e il canto come strumento per la costruzione della pace e la mobilità dei giovani artisti.
in collaborazione con
Di fronte al mare, vicino alla meravigliosa Venezia e alla suggestiva Trieste, questa settimana internazionale di canto corale, che giunge nel 2014 alla sua sedicesima edizione, ospiterà 6 atelier e 3 discovery atelier (della durata di un pomeriggio), aperti a cori, direttori, singoli cantori e amanti della musica! Ogni sera ci saranno dei concerti, introdotti da un open singing, e tutti i partecipanti sono invitati a unirsi a questa magica atmosfera e vivere la musica. Alla fine della settimana, ogni atelier si esibirà in un concerto finale.
international singing week •ATELIER 1 Classical is young voci bianche e corso per direttori
Docente Denis Monte (IT)
•ATELIER 2 Rinascimento italiano Docente Walter Testolin (IT)
•ATELIER 3 African roots: singing spirituals and gospel Docente André J. Thomas (US)
•ATELIER 4 Discovering a Romantic repertoire: Mendelssohn and Schubert Lieder Docente da confermare
ALPE ADRIA CANTAT 2014
Lignano Sabbiadoro
•ATELIER 5 Dop, ba duba dop… get into the groove! Docente Kjetil Aamann (NO)
24 »31 agosto
•ATELIER 6 A taste of world sounds Docente Silvana Noschese (IT)
informazioni Feniarco Via Altan, 83/4 - 33078 San Vito al Tagliamento (Pn) Tel. +39 0434 876724 - Fax +39 0434 877554 - info@feniarco.it
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con il sostegno di Regione Friuli Venezia Giulia Ministero per i Beni e le Attività Culturali Fondazione CRUP
Iscrizioni entro il 31 maggio 2014
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Festival organizzato da
Associazione Cori della Toscana
i d l a v i t s fe a r e v a m i r p o d n a t n a c a r t n o c la scuola si in
2014
e m r e T i n i t a c e Toscana Mont
internazionale
festival per cori scolastici 3•5 aprile
scuole elementari e scuole medie con il patrocinio di Ministero per i Beni e le Attività Culturali Regione Toscana Provincia di Pistoia Comune di Montecatini Terme
9•12 aprile
scuole superiori
Festival associato a
iscrizioni entro il 31 gennaio 2014
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