Marianna

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Mi svegliano ogni mattina le urla sguaiate delle signore nel palazzo, che entrano dai fori della zanzariera e cadono proprio qui, sopra la mia testa. Oggi sono più lontane del solito, riesco a percepire a malapena qualche vocabolo -maritm, problem, ngap, munnezz-. Gli argomenti sono sempre gli stessi, sono anni che abito qui, ci sono nata e ci sono tornata, ma i discorsi non sono mai cambiati. Cambiano le donne, quelle che urlavano i nomi delle figlie da sopra i balconi sono state sostituite dalle figlie stesse. Mariarca, Nunziatina, Carmela. Appena sveglia mi trascino sul muro bianco per chiudere la finestra, ma le urla continuano ad entrare, ovattate, come se fossi nel bagno di un locale troppo piccolo, in una festa troppo piena in cui mi ci hanno portata a forza. Non mi piace mai quello che sento. Mi affido alle mura, le bacio quando c’è la tempesta o quando c’è troppo sole. Seguo con le mani le pareti della casa e mi fiondo in corridoio, cercando di evitare tutte le scatole e tutti gli oggetti sparsi sul pavimento. Tutti i libri in tedesco che non ho avuto il coraggio di lasciare lì, a Berlino. Le vecchie foto dolci e stanche, come quella di mia nonna allo specchio, lo stesso specchio in cui mi sbircio e mi accarezzo in silenzio, cercando lei fra i miei zigomi alti, il mio naso a patata, la mia bocca piena. Trovandola alla fine, sempre, fra le nostre stesse lentiggini. Cammino per un po’ schiacciando vecchie cose, incastrandomi poi su una sedia. Ripenso -ma quanto tempo è che non vedo il cielo, ma quanto tempo è che non mi sciolgo sui granelli di sabbia, ma quanto tempo è che non mi vesto per sembrare bella, se non a me stessaFissa e immobile guardo la luce entrare dagli infissi del balcone. Forse oggi è una bella giornata, ma questo non lo saprò mai. Oggi, come ogni mattina, alle dieci in punto bussa alla porta l’uomo delle pulizie, di cui non ho mai conosciuto il volto. Non si fa mai vedere,lui è come me. Lascia il secchio per l’acqua davanti alla porta, vuoto. Dondolo un po’ quando mi alzo, sempre con la paura che sia qualcun altro. Quando guardo dallo spioncino e non c’è nessuno i miei denti si scoprono dolcemente. Prendo la chiave,


la giro quattro volte e apro, apro velocemente, mi guardo intorno e se non sento passi, e se le voci sono abbastanza lontane da non capirne il senso allungo la mano e trascino dentro il secchio vuoto. Lo lascio nella doccia a riempire, mi siedo davanti a lui e ascolto il rumore dell’acqua cadere nella bacinella blu. E conto i secondi, e aspetto, e guardo la linea dell’acqua alzarsi lentamente. Devo chiudere il rubinetto nel momento giusto,l’acqua deve essere quasi all’orlo ma mai troppa da uscire, e il secchio non deve mai essere troppo pesante. Lo faccio per lui, solo per lui.Affondo le dita per vedere se è tiepida. Decido che va bene così. Alzo il secchio carico di tutte le mie attenzioni e lo ripongo fuori alla porta esattamente dove l’ho trovato, guardando attentamente che nessuno mi veda. Chiudo la porta e già sento i passi salire su per le scale, mi lascio cadere a terra e appoggio il viso sul pavimento,cercando di spiare da sotto la porta. Mi faccio accarezzare dallo spiffero del vento mentre lo sento camminare sul pianerottolo, alzare il secchio e di nuovo andare via. Mi alzo e strisciando sui muri di nuovo mi allontano, sperando che anche domani lui scelga me.



Assunta correva fra le spighe facendo volare Maria e Sofia al di sopra dei campi, con le calze macchiate di fango, impegnata a raggiungere il prima possibile il fiume. Senza mai guardare a terra, immaginando di essere in mare e di nuotare con le sirene, fare le capriole fra le alghe e ascoltare le voci ovattate dei pesci. Il cielo in cui si era tuffata quel giorno era piccolo e agitato e le nuvole sembravano mani di giganti che rubavano gli uccelli. Assunta inciampò. Riuscì a ripararsi il viso con le mani. Quando si rese conto della caduta notò che aveva i palmi sporchi di sangue ed erba. Pianse un po’ per pulirsi e quando si rialzò cercò dietro di lei cosa l’avesse fatta cadere. Una pietra enorme, pensò, una carcassa di animale. Quando la vide la sua espressione cambiò completamente, le si avvicinò sorridendo e senza pensarci due volte la alzò da terra. Era pesantissima, era la testa di bambola più pesante che avesse mai visto. Grande più della sua, con la pelle morbida e i capelli umidi. Pensò di dover correre a casa a lavarla. Era tutta sporca e sembrava spaventata. Doveva curarla e lavarle tutti i capelli, le avrebbe fatto le trecce e sarebbe diventata la sua favorita. Raccolse le altre due bambole e le infilò nelle tasche del vestito. Cominciò a correre, adesso più lentamente di prima, tenendo stretta con entrambe le braccia la nuova amica. Arrivata davanti casa si nascose dietro un albero. Mamma e papà non erano mai contenti quando portava a casa qualcosa che aveva trovato nei campi. Una volta fu picchiata dal padre per la ruota di una piccola bici, un’altra volta per una scarpa trovata nel fiume. Ora non avrebbe fatto lo stesso errore, non avrebbe rischiato di perdere la sua testa. Si affacciò da dietro la corteccia e vide che i genitori erano nella terra a lavorare, fece


una corsa e nello slancio fece cadere Maria. Assunta si girò ma la testa era troppo pesante, doveva portarla dentro e lavarla prima che i genitori tornassero per il pranzo. Corse in casa, salì le scale e si chiuse in bagno. Appoggiò la testa nella vasca e notò che le sue mani e il suo vestito erano ancora sporchi di sangue, pensò che dovevano essere i graffi della caduta. Sorrise e accarezzò i capelli della testa dolcemente. Aprì il rubinetto e la spostò sotto il getto. La lavava dolcemente e le infilava le dita persino nei fori del naso e delle orecchie. Le aprì le labbra e notò che aveva dei denti piccolissimi e gialli, come mais. Spostò la testa di modo che l’acqua potesse entrare direttamente nella bocca, fuoriuscendo da sotto la gola. Una volta lavata la avvolse nell’asciugamano e proteggendola sotto il vestito la portò in camera sua. Assunta giocò con la testa tutta la notte, di nascosto. L’aveva truccata e pettinata, le sue trecce erano molto più belle di quelle di Sofia e l’espressione del suo viso non sembrava più spaventata. La chiamò Susy, come lei, perchè credeva le somigliasse. Per i peli, la pelle, le labbra. Sentiva che loro due erano fatte dello stesso materiale. Per giorni Assunta riuscì a nascondere la piccola Susy sotto i vestiti nell’armadio. Appena le luci in cucina si spegnevano, cautamente lei la estraeva e la scartava come fosse un pacco regalo. Ci giocava finquando non era stanca. La pettinava e le raccontava storie, bevevano il latte insieme, e prima di andare a dormire le baciava teneramente la fronte. Dopo una settimana dal loro primo incontro Assunta ,come ogni sera, prese la sua testa di bambola da sotto i vestiti, ma quella volta notò che nell’armadio c’era un’aria strana. Annusò i panni e sentì che puzzavano. Si accorse che era colpa di Susy. La portò subito in bagno e cominciò a lavarla. Quella notte non ci giocò e la rimise al suo posto. Nei giorni seguenti Assunta non giocò più con la piccola Susy, ogni volta che apriva l’armadio sentiva un odore nauseante e lo richiudeva sempre sperando che la volta dopo non ci fosse più. Per evitare che la madre potesse accorgersi della presenza della testa, di giorno in giorno aumen-


tava la mole di asciugamani che la potreggevano per non far fuoriuscire la puzza. Una notte però Assunta si svegliò per l’odore soffocante che si respirava nella camera. Sapeva che era Susy, e decise che quella notte l’avrebbe lavata al meglio che poteva. La prese ancora fasciata dalle decine di asciugamani, corse in bagno trattenendo il respiro, la poggiò sul lavello liberandola a poco a poco dalle pezze che la imprigionavano. Assunta ,con le lacrime agli occhi, vide che Susy era cambiata. La sua pelle liscia era diventata cartapesta nera e su tutto il suo viso erano spuntati dei piccoli esserini bianchi che le si muovevano nelle orbite e nella bocca. Le sue labbra erano quasi del tutto scomparse e i suoi denti ora sembravano come usciti fuori dalle gengive. Terrorizzata Assunta la lasciò cadere nella vasca, aprì l’acqua e svuotò su Susy un intero flacone di sapone. Si mise a lavarla sperando che tutti quei vermi sparissero e che potesse tornare ad essere la testa di bambola che aveva trovato quel giorno in campagna. Piangendo la strofinò sempre più forte, fino a sentire le ossa del cranio sotto le dita e i pezzi di pelle cadere nella vasca.



“SIJ NA’ ZOCCL!” le urlò Simone lanciandole un posacenere trovatosi per caso fra le sue mani. Le cicche volarono per tutta la stanza e la cenere si posò violentemente sul tappeto, sulle coperte e sui capelli neri di Maria. A poco a poco da quei capelli di cenere fuoriuscì il sangue sempre più denso che le inondò il viso. Non era la prima volta che Simone le urlava addosso e che quel corpo enorme e virile si dimenasse freneticamente girando per la stanza sbraitando offese e bestemmie. Lei non aveva mai avuto paura, perchè qualsiasi cosa dicesse, dopo poco spariva senza lasciare traccia. Un breve momento di pausa, e Simone riprendeva i movimenti soliti, la sua andatura dolce e distesa. Come se tutto ciò che era successo tre minuti prima fosse solo una crisi epilettica. Lei aveva imparato a non ascoltare quando succedeva. A convincersi che parlava una lingua sconosciuta, ad imporsi di non capire niente. Vedeva solo le vene della sua fronte ingrossarsi e le estremità delle dita diventare rosse e bollenti. Maria lo guardava come si guardano i film horror, spaventata ma con la sicurezza che fosse tutto finto. A debita distanza dallo schermo, con la testa dietro un cuscino. Ciò che faceva scattare Simone era sempre incomprensibile. Maria non riusciva mai a capire dove fosse il punto di rottura. Una volta le urlò addosso per un’ora perchè lei si rifiutava di guardare un film con lui, un’altra perchè aveva fatto tardi nell’arrivare a casa per via del traffico. Un’altra ancora fu causata da un cerotto di Winnie the Pooh che portava sul dito. La bellezza dei primi mesi si era trasformata pian piano in una tortura. Una discesa lenta e graduale verso un’inferno fatto di piatti rotti, di schiaffi, di offese. E Maria non riusciva a percepirne la gravità, il declino, non capiva dove finiva l’amore e iniziava l’ossessione. Ma quel giorno lì del 28 Dicembre 2013 fu la prima volta che il film horror ruppe lo schermo della tv e la toccò davvero, e le spaccò la testa con un posacenere pieno di cicche di due giorni. Con la furia di chi


desiderava farlo da tanto tempo ma si era sempre fermato sulla soglia. Maria non ebbe tempo di piangere, le sembrava già di farlo, ma quando le lacrime rosse le si poggiarono in gola capì cosa Simone aveva fatto. Spaventata, si sfiorò la testa e sentì un fosso, proprio sopra l’orecchio destro. Ebbe la sensazione di essersi toccata il cervello, di avere la parte più importante del suo corpo proprio sotto le dita. Lo guardò e si accorse per la prima volta che gli occhi di Simone erano iniettati di sangue. Il verde delle iridi era nascosto dalla grandezza e la quantità infinita di tutti i capillari scoppiati nelle sue orbite. Di colpo Simone era diventato la bestia nera che sognava spesso da piccola, e in cui il padre fingeva di trasformarsi quando lei e suo fratello erano bambini. Maria urlò, di un urlo disperato, che racchiudeva un anno di film che non voleva vedere, giochi a cui non voleva giocare, vestiti che era obbligata a non mettere. Maria corse alla porta d’ingresso. Vedendola scappare le si catapultò addosso, tirandole i capelli per trascinarla dentro. Lei oppose resistenza, era una lotta per la sopravvivenza. Si spinse in avanti ed aprì la porta che già aveva sporcato di sangue. Simone la raggiunse da dietro e si calmò di colpo. Come sempre, la sua crisi finì, quel fantasma lo abbandonò di nuovo. Allora la prese dolcemente per la vita, la implorò di perdonarlo piangendo. La baciò sul collo mentre lei era tutta un nervo e provava ad uscirne tirando ogni muscolo verso il mondo esterno. Ancora più dolcemente la strinse fino a stropicciarle i fianchi. Lei spingeva con tutta la sua forza in direzione contraria, sentiva la parte più esterna del corpo già lontana. Il suo naso era quasi fuori la porta e già riusciva a respirare l’aria del palazzo: che se fino a quel momento odiava per la puzza di cibo costante, ora l’amava. Era il profumo della sua vita senza Simone, il sapore della cucina della madre, della sua casa calda e ora lontana cinquanta kilomentri da lì. Voleva scappare da lui, buttarsi nella tromba delle scale e eruttare il suo sangue in strada. Simone continuava a stringerla. Cominciò a morderle il collo cercando di indebolirla. La sentiva già lontana, i suoi fianchi sarebbero corsi via da lui e che non l’avrebbe rivista più. Non doveva succedere, sapeva che sarebbe impazzito. Continuò a morderla fino a sentire il sangue in bocca. Lei urlò, si dimenò ancora più forte, strinse ancora di più le mani avvinghiate allo stipite della porta. Sentì le unghie che entravano nel legno e il sangue scivolare fra le schegge. Dalla forza Maria sentiva le sue carni stracciarsi, i muscoli stirarsi e allungarsi fino a perderli. Ma a lei del suo corpo non importava più, Simone se l’era già preso e c’aveva fatto tutto quello che voleva, fino a romperlo. Con uno scatto improvviso gettò la testa all’indietro colpendo la fronte ampia di Simone. Lui cominciò


ad urlare dal dolore e allentò la morsa. Maria approfittò del momento per lanciarsi in avanti e scappare via. La forza che aveva esercitato per tenersi alla porta la catapultò verso la ringhiera del pianerottolo. Il suo corpo era già per metà affacciato nel vuoto. Le sue mani cercarono un punto d’appoggio. Simone ancora stordito sentì un tonfo secco riecheggiare nell’androne del palazzo. Si avvicinò lentamente alla balaustra, ma quando si affacciò capì che Maria era riuscita a scappare.


“A vuò frnì e’ magnà?” Ogni volta che glielo chiedevano sul volto di Filomena si dipingeva un’espressione di fastidio. “Ma che vuò?”, replicava rifiondando la testa nel piatto. Filomena era grossa, aveva lunghi capelli neri tenuti su in una coda di cavallo. Filomena era tanto grassa da avere difficoltà a camminare. La mole di carne aveva finito col nasconderne tutti i legamenti, tanto da farla sembrare un pezzo unico, una buatta. Filomena a’ buatta, la chiamavano tutti. Filomena aveva tre sorelle, tutte magre come la madre. Lei, invece, aveva preso dal padre, un uomo enorme, con pochi capelli e sempre con una diana rossa in bocca, che tornava a casa solo per svuotare il borsello pieno di spicci guadagnati col suo lavoro abusivo. Filomena mangiava a tutte le ore del giorno, anche quando non aveva fame. Era sempre seduta sul divano del salotto, che ormai aveva preso la forma del suo culo. Lì guardava la televisione e spesso rideva di gusto a bocca aperta facendosi cadere addosso i resti di cibo. Anche quel giorno Filomena era sul divano, affondando tra le briciole che cadevano con lei nella fossa. Divorava con foga una fetta di torta al cioccolato guardando Uomini&Donne. “Ma guard a chillo guard!,” “Gesù, ma lassl a stu strunz”, “Ma vir a’ stà zoccl!” urlava sputando saliva marrone e facendosi colare il cioccolato sulla maglia. All’improvviso il televisore si spense, insieme agli altri elettrodomestici in casa. “Mannagg a maronn” si disse fra sé, “comm’s’ appicc’ stù coso?!”. Prese il telecomando cercando di riaccendere il televisore senza riuscirci, e alzando lo sguardo verso lo schermo spento vide un ombra. Pian piano cominciò a distinguerla, una figura enorme, grassa e pesante. Restò immobile a fissarla. Era il mostro più grande che avesse mai visto. Una palla di lardo senza forma, un ammasso di carne che grondava sudore, con tre pieghe profonde nella pancia, un pezzo


unico dall’aspetto disumano, se non fosse stato per la testa. Notò sulla bocca la macchia di cioccolato e tutto lo sputo e il sudore in cui si sentiva affogare. Una bestia sbudria e inzevata. Filomena rimase a fissare il riflesso con la speranza di aver solo cambiato canale. Dopo un po’ si alzò a fatica dal divano facendo leva su entrambe le braccia. Camminò verso la cucina strisciando i piedi, arrivò alla dispensa e aprì l’anta di fronte a sé. Afferrò una buatta di vetro piena di fagioli, ma al primo sguardo le fece schifo. Scagliò con violenza la buatta a terra rompendola in mille pezzi. Si piegò piano, prese il pezzo più grande e, avvicinatolo al polso, spinse con forza. All’improvviso sentì il televisore riaccendersi e chiamarla da lontano. Si fermò prima che uscisse il sangue dalla carne. Guardò il vetro spaccato e i fagioli sparsi sul pavimento. Si accovacciò e cominciò a raccoglierli uno a uno.



“Mamma, ma come lo devo chiamare, signore o signora?” “Non lo chiamare, a mammá” Mi chiamavo Giuseppe Esposito, ero un ragazzo non particolarmente bello, grosso e con le mani rovinate dal lavoro. A undici anni mio padre mi portò per la prima volta con lui al porto di Pozzuoli. L’odore del mare mi bagnò le narici, si insediò nella testa e non riuscii mai più a dimenticarlo. Ero l’unico figlio maschio della famiglia e cominciai a lavorare presto. Ogni mattina alle cinque io e mio padre prendevamo il pesce a mani nude, lo caricavamo nel furgoncino bianco e con le dita ancora viscide mio padre guidava verso il rione. Il rione era un quadrato, diviso in tanti altri quadrati più piccoli. Ogni cancello era formato da sei grossi palazzi, grigi e rovinati. Dietro le mura dei condomini tutti si conoscevano, non esisteva una sola persona che non sapesse il mio nome. Al centro di ogni parco si trovava uno spazio in cui i bambini del cancello si riunivano per giocare. Il quarantanove era il parco dove le bambine passavano il tempo a truccarsi e pettinarsi i capelli. Quando arrivavamo nel quarantanove mio padre cominciava ad urlare le stesse frasi che ripeteva ogni mattina per far affacciare le signore. “PESCE FRESCO!” “VERIT COMM’E’ BELL!”. Io restavo nel furgone a fissare il gruppo di piccole donne, finchè mio padre non mi chiamava ordinandomi di portare il pesce a qualche cliente. Mentre mi avvicinavo al “panaro” che aveva fatto scendere la signora, sentivo le bimbe che litigavano per decidere chi truccare quel giorno. “Mo tocc’ a’ ‘mme! “ “No Giusy tu l’è fatt’ l’ata ‘vota!” Sostituivo i soldi con il pesce e tiravo la corda. “Grazij giuvinò!” urlava la signora dal terzo piano facendo salire lentamente il panaro, adesso piu pesante. Tornavo nel furgone e mentre mio padre guidava per spostarsi in un altro cancello io mi allontanavo sempre di più da tutte quelle trecce.


Qualche anno più tardi mio padre decise che ero diventato abbastanza grande per guidare il carretto, mentre lui cominciò ad occuparsi della consegna porta a porta. Il primo giorno in cui andai a lavoro senza mio padre entrai nel quarantanove. Urlai le sue solite frasi, le signore di affacciarono, acalarono i panari. Mentre con le braccia scoperte caricavo le buste di plastica piene di alici, il mio sudore si mischiava con l’acqua del mare. Riempii tutti i cesti, feci quello che dovevo fare e mentre tornavo al carretto sentìì le voci delle bambine che continuavano a giocare. Le guardai, cominciai ad avvicinarmi. Mi indicavano e ridevano. “E mò chisto che vò?!” disse una di loro sfoderando i denti, incastrati fra due lembi di carne di un colore troppo forte. Arrivai davanti a loro, sudato e troppo serio. Notai che tutte loro avevano le unghie dipinte di rosso. “Me vulite trucca pur a me?” Scoppiarono in una risata sguaiata. “Che vuò fà tu?!” disse la ragazza più bruna. “Agg itt, m’ vulite truccà pur’ a me?” “Ma stai pariann?” “No, voglij pruvà” La ragazza più bruna sorrise. Margherita, fu lei a truccarmi la prima volta. Fu lei a prestarmi il primo vestito, a riempirmi il petto coi calzini di spugna, a stringermi le mutande. Da casa sua rubai il mio primo paio di scarpe col tacco. Quei tacchi li indossai più volte, soprattutto di notte. La mattina vendevo il pesce, la sera lo prendevo. Una sera, mentre aspettavo un cliente su via Gianturco, vidi avvicinarsi un furgoncino bianco che si fermò di colpo davanti a me. Ne uscì quell’uomo grosso e vecchio che conoscevo bene, con indosso la cannottiera ancora bagnata. Me lo trovai di fronte ma non mossi un muscolo. Mi buttò a terra e cominciò a picchiarmi urlando il mio nome. Mentre mi prendeva a calci nello stomaco si fermò, mi guardò i piedi e mi strappò via la scarpa col tacco, la strinse forte fra le mani e me la ficcò in testa. L’ultima cosa che vidi furono i suoi scarponi rovinati dal sale secco sulla gomma, che mi ricordarono il mare. Entro col carretto nel quarantanove, come faccio ogni mattina. Com-


incio ad urlare le solite frasi, come faceva papĂ . Si affacciano le stesse signore di sempre e riempio i loro panieri. Ritiro i soldi e metto apposto le casse vuote. Mi sistemo i capelli con le forcine, mi tolgo i guanti e mi pulisco le mani con il panno facendo attenzione a non rovinare le unghie. Con le mani asciutte mi sfioro il viso per controllare che il trucco non si sia sciolto per il caldo. Poso il grembiule fra le cascette e mi sistemo il reggiseno. Si avvicina una bimba con sua mamma, la donna mi chiede mezzo chilo di merluzzo, mi rimetto i guanti e la bambina mi chiede se deve chiamarmi signore o signora. La madre abbassandosi le bisbiglia qualcosa che non riesco a sentire. “Chiamami Peppe, piccerèâ€?



Si addormentava spesso sulla sedia, di solito guardando la tv. Iniziava chiudendo gli occhi e abbassando pian piano la testa, dondolava un po’ e la rialzava di scatto, per poi farla ricadere di nuovo. Le sue labbra invece restavano vigili e brontolavano producendo suoni strani, facendola sembrare sempre sveglia, solo un po’ arrabbiata. Passava le giornate nella sua casa a via Macedonio Meloni, dov’era nata, dove aveva cresciuto i suoi figli, dove suo marito Luigi era morto per cancro ai polmoni. La casa era piena di quadri che aveva dipinto in vita Gigi, che di giorno faceva il salumiere e la notte dipingeva. Il quadro preferito di Giuseppina era quello del pescatore, perché in qualche modo gli ricordava lui e ogni volta che gli passava davanti sembrava seguirla con lo sguardo. In casa, oltre a lei, l’unica presenza che si avvertiva era quella del piccolo Renato, che giocava nei corridoi ma non entrava in nessuna stanza. Renato aveva quattro anni e le sue foto erano dappertutto, in cucina, nel salone, nella teca votiva in camera da letto. Ogni giorno Giuseppina preparava da mangiare per il bambino, ma tutto quello che cucinava avanzava. Puliva la casa, lavava i panni e li metteva ad asciugare. Il telefono suonava tutto il giorno ma lei a malapena lo sentiva, e quando si avvicinava alla cornetta premeva sempre il tasto sbagliato. Renato le faceva sempre un sacco di domande e lei rispondeva come poteva, ma spesso si limitava a sorridergli e a riprendere ciò che aveva interrotto poco prima. La sera si stendeva sul letto a fianco a Renato che già dormiva, appoggiava i bracciali sulla culunnella vicino al letto e accendeva la televisione su Canale 5. Piano piano si assopiva tenendo la mano sulla fronte del piccolo, e nella stanza la televisione rimaneva accesa ad illuminare le lenzuola. Dalla finestra aperta entrava un po’ di vento che le sfiorava i piedi scoperti e faceva vibrare la teca di vetro in cui era custodita la statua della madonna. Durante una notte Giuseppina si svegliò all’improvviso, aveva cominciato a piovere e si sentiva i piedi bagnati. Si girò


verso la finestra e non vide Renato, ma una figura molto più grossa, il corpo di una ragazza che lei non conosceva. Sbarrò gli occhi e cominciò ad urlare, ma non ebbe le forze per alzarsi. Io mi svegliai di colpo, spaventata. “Nonna ma cr’è?”. Mi guardò con i suoi piccoli occhi confusi, la bocca semiaperta e le mani tremanti. “Nonna, ma che tien?” Il pendolo nel salone cominciò a suonare l’ora. Nonna aveva ancora gli occhi sbarrati e lucidi, ma non sembrava guardare me. Le sfiorai il viso per rassicurarla, ma non ebbe alcuna reazione. “Oh, nonna!” le intimai ancora. Si girò piano verso di me, e questa volta mi fissò dritto negli occhi. “Ma tu chi sì?”




Scritto e illustrato da Ferraglia Giugno 2019 Bologna RAPTUS


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