Osservatorio: didattica educazione | Ricognizione sulla didattica del design

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Osservatorio: didattica educazione Ricognizione sulla didattica del design percorsi storici e riflessioni critiche

Filippo Taveri relatore Luciano Perondi Isia Urbino 2011-12





Osservatorio: didattica educazione Ricognizione sulla didattica del design percorsi storici e riflessioni critiche

Isia Urbino Diploma accademico di 2° livello in Comunicazione, design ed editoria Filippo Taveri – matricola 077 relatore Luciano Perondi Anno accademico 2011-12



Indice Abstract

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Introduzione Avviare una ricerca sull’educazione

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Capitolo primo Sulle scuole di progettazione in Italia

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1 · Introduzione al capitolo 2 · Arti applicate all’industria e formazione professionale 2.1 · Istruzione dopo l’unificazione italiana 2.2 · Ingegneria e architettura 2.3 · Musei artistici industriali, formazione professionale 2.4 · Riforma Gentile 2.5 · Riordino dell’istruzione artistica 3 · Disegno industriale, da istruzione secondaria a superiore 3.1 · Corsi superiori di disegno industriale 3.2 · Il corso di Venezia 3.3 · Il corso di Firenze 3.4 · Il corso di Roma 3.5 · La scuola di Urbino 3.6 · Riforme degli anni sessanta, dibattito anni settanta 3.7 · Fondazione degli Isia, Dams di Bologna 4 · Insegnamento del design nelle università 4.1 · Contesto universitario degli anni ottanta 4.2 · Grafica come design 4.3 · Nuovo assetto universitario negli anni novanta 4.4 · Discipline del progetto nell’ambito universitario 4.5 · Processo di Bologna, Spazio europeo dell’istruzione superiore 4.6 · Riforma dell’istruzione superiore in Italia 4.7 · Comparto alta formazione artistica e musicale 5 · Panorama attuale dell’educazione al design 5.1 · Corsi universitari 5.2 · Comparto AFAM

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Capitolo secondo Sull’insegnamento: temi generali ed esigenze contemporanee

indice

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1 · Premessa al capitolo 2 · Definizioni preliminari 2.1 · Istruzione, formazione, educazione 2.2 · Scuola, studio 3 · Complessità contemporanea, attualità della scuola 3.1 · Edgar Morin, il pensiero complesso 3.2 · Sistemi aperti e organizzazione 3.3 · Dalla modernità funzionale alla contemporaneità liquida 3.4 · Validità delle conoscenze acquisite a scuola 3.5 · Influenze esterne, distribuzione del tempo nella scuola 4 · Conoscenze e competenze 4.1 · Definire le competenze 4.2 · Da un altro punto di vista 5 · Connessione tra le discipline 5.1 · Competenze cognitive e trasversali 5.2 · Crisi delle materie scientifiche 5.3 · Promozione della cultura scientifica e tecnologica 6 · Didattica esperienziale 6.1 · John Dewey, educazione progressiva 6.2 · Definire il laboratorio 7 · Conclusione al capitolo

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Capitolo terzo Sull’insegnamento del design

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1 · Definire il campo 1.1 · Design e disegno industriale 1.2 · Grafica e comunicazione visiva 1.3 · Considerazioni finali 2 · Formare il designer 2.1 · Proposte di percorsi formativi

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3 · Fondazione disciplinare, insegnamenti fondamentali 3.1 · Modelli pedagogici, propedeutica e basic design 3.2 · Origine dell’espressività soggettiva 3.3 · Formazione di base, il modello di Ulm 3.4 · Superamento dei due modelli d’insegnamento 4 · Rapporto con l’esterno, didattica per progetti 4.1 · L’esperienza di Bolzano 4.2 · Rapporto scuola-produzione 5. Dimensione culturale, profilo intellettuale 5.1 · Anticipazioni in Italia 5.2 · Dibattito americano: forza politica e sociale, autorialità 5.3 · Desktop publishing, designer come produttore

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Capitolo quarto Sulla formazione degli insegnanti

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1 · Introduzione al capitolo 2 · Docenza in ambito universitario 2.1 · Riforma Gelmini, organizzazione delle università 2.2 · Stato giuridico di professori e ricercatori universitari 2.3 · Reclutamento dei professori e dei ricercatori 2.4 · Situazione precaria del comparto AFAM 3 · Casi studio 3.1 · Piano Insegnare scienze sperimentali, premesse 3.2 · Avvio dei lavori e formazione dei tutor 3.3 · Modello del Presidio territoriale 3.4 · Piano M@t.abel, e-learning integrato 4 · Ipotesi conclusive

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Conclusioni Per un osservatorio stabile sulla didattica e l’educazione

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Bibliografia

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indice

Normativa di riferimento

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Appendice uno Intervista a Daniela Piscitelli

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Appendice due Conversazione con Giovanni Lussu

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Abstract La ricerca confluita nelle pagine di questa tesi prende avvio dall’ipotesi che i percorsi didattici dedicati alla formazione dei progettisti siano attualmente affetti da una certa condizione di chiusura, sia rispetto ad altri ambiti disciplinari sia in rapporto al contesto in cui sono situati. La tesi mira, pertanto, a verificare tale presupposto analizzando sia le caratteristiche degli scenari contemporanei che l’attuale assetto della formazione nel campo del design. Per consentire un adeguato livello di approfondimento, il campo è stato limitato alla sola situazione italiana. L’analisi parte dalla ricostruzione del percorso storico che ha condotto all’attuale panorama di corsi e scuole di progettazione, con lo scopo comprenderne meglio le caratteristiche e l’origine dei punti critici su cui si intende intervenire. Risulta necessario, per affrontare i problemi interni, allargare l’orizzonte della disciplina, volgendo lo sguardo a riflessioni più generali sulla pedagogia e la didattica scolastica e universitaria. Le considerazioni prodotte in tale ambito sono messe in relazione alle caratteristiche proprie della design – pur constatandone la difficoltà di definizione – e del suo insegnamento. Infine si è individuata nella formazione degli insegnanti una zona d’intervento per lo sviluppo di progetti che tengano conto dei risultati, ancora parziali, di questa tesi. In tutto il percorso l’enfasi è posta sull’osservazione, quale momento analitico che precede ogni seria attività di progettazione, da cui scaturiscono riflessioni critiche e proposte.



Introduzione Avviare una ricerca sull’educazione



avviare una ricerca sull’educazione

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Due quesiti hanno ispirato la ricerca presentata nei capitoli di questa tesi, e ne hanno definito, in un certo senso, l’orientamento. Ci si è chiesti se un progettista di comunicazione sia in grado, con gli strumenti intellettuali e materiali a sua disposizione, di superare i tradizionali confini disciplinari, legati a una attività professionale ormai sempre meno delimitata e sempre più inclusiva. Parallelamente si è considerata la possibilità di ripensare l’idea stessa di scuola e di insegnamento, oltre che il modo in cui si produce, trasmette e condivide il sapere. Queste due ambiziose missioni sono tra loro connesse e reciprocamente interagenti: per mettere il progettista in condizioni di operare ad alti livelli di complessità si ritiene necessaria una riforma dei percorsi educativi destinati a tale figura; per avviare un processo di rinnovamento dei sistemi d’istruzione sembra opportuno coinvolgere – accanto ad esperti – figure che abbiano le competenze per gestire flussi di lavoro e progettare sistemi con un numero elevato di variabili. Alcune valutazioni preliminari mi hanno spinto ad intraprendere una ricerca sull’educazione. Il sistema d’istruzione, allo stato attuale, non sembra essere in grado di fornire una preparazione adeguata alla complessità contemporanea. La pianificazione didattica, inoltre, risulta facilmente soggetta a obsolescenza: esiste un irriducibile scarto tra il momento di elaborazione delle riforme e il tempo necessario alla loro applicazione. Scarto che si registra, oltretutto, nelle differenze d’interpretazione e nelle modalità di attuazione, anche in rapporto agli specifici contesti. A ciò si aggiunge l’evidente difficoltà di fare previsioni a lungo termine. Permane, di conseguenza, un costante sfasamento tra il sistema d’istruzione formale e la realtà, ovvero il contesto culturale, sociale, politico ed economico in cui esso opera. Tuttavia, non si pretende di difendere o ipotizzare un modello formativo valido unicamente per il futuro – di per sé insondabile e imprevedibile – e quindi orientato alla formazione professionale, quanto piuttosto si aspira a ripristinare il ruolo dell’università quale polo di dialogo per la società-cultura. Il campo d’azione particolare della ricerca e delle ipotesi progettuali a cui si tende è il design – inteso nell’accezione più ampia di attività progettuale orientata all’interpretazione e soluzione di problemi complessi – e la que-


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stione della formazione dei designer. La scelta di focalizzare l’attenzione su questo ambito è stata condizionata da alcune specificità della disciplina, oltre che dal fatto di svolgere tale ricerca nell’ambito di un corso di progettazione. Il design è, infatti, una disciplina relativamente giovane, per la quale non esiste ancora, almeno in Italia, un percorso educativo univoco e formalizzato. Ciò, pur generando lacune o incoerenze nell’offerta formativa, non è detto che costituisca di per sé un limite o uno svantaggio per la formazione del designer. Inoltre, il design, si caratterizza come area dai confini sfumati, in cui confluiscono indirizzi disciplinari anche molto diversi tra loro, ma che tuttavia condividono alcune strutture fondamentali. Per questa serie di ragioni, proprio nell’ambito della formazione al design, si aprono zone d’intervento molto stimolanti per l’elaborazione di progetti orientati non solo al rinnovamento della didattica del settore, ma anche al contesto più ampio dell’istruzione superiore. Dunque, con lo scopo di fornire alle ipotesi progettuali una base concettuale meno vaga possibile, oltre che per comprendere con chiarezza le problematiche connesse all’ambito di riferimento, si è scelto di ripercorrere, in prima istanza, le tappe fondamentali della storia della formazione al design in Italia, per poi passare ad uno studio del dibattito e delle caratteristiche dell’insegnamento del design, in rapporto ad alcune più generali riflessioni relative all’istruzione scolastica e universitaria. Le considerazioni scaturite da tale confronto hanno condotto, infine, a proporre un ambito di progettazione per portare avanti e finalizzare i risultati di questa ricerca.




Capitolo primo Sulle scuole di progettazione in Italia



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1 · Introduzione al capitolo L’intento di questo primo capitolo è quello di ripercorrere alcune fondamentali tappe nella storia della formazione al design in Italia, dai primordi – caratterizzati dalla necessità di innalzamento della qualità “artistica” dei prodotti industriali, quindi di qualificazione professionale degli operai – fino all’assetto attuale – che vede l’insegnamento del design inserito nel contesto dell’istruzione superiore. Si segue, in sostanza, quel processo che ha visto l’affermarsi della figura del progettista e del disegno industriale come disciplina autonoma, da cui consegue la presa di coscienza del bisogno di una formazione adeguata del progettista. Parallelamente si assiste al graduale avvicinamento del progetto grafico e di comunicazione alle dinamiche della produzione seriale, che ha determinato l’accorpamento – talvolta una certa confusione – dei percorsi formativi relativi a diverse aree della progettazione. L’esigenza di trattare insieme, in questo capitolo, entrambi gli ambiti del design di prodotto e del design grafico è data dal fatto di non poter parlare di un percorso formativo relativo a un settore senza richiamare necessariamente anche l’altro: entrambi si sono sviluppati nello stesso bacino culturale, quello della decorazione, prima, e della progettazione, poi. Peraltro, le due discipline, del disegno industriale e del progetto grafico, pur trattando di cose distinte, non possono continuare a vivere attualmente in compartimenti stagni. Si è scelto come ambito di riferimento quello italiano, intendendo volutamente non approfondire le esperienze straniere per via della scarsa influenza1 che queste hanno avuto sulla didattica italiana, come modelli formativi, anche se ampiamente analizzate e discusse, soprattutto in Italia. Questo excursus, che offre una panoramica sull’evoluzione della situazione italiana a livello d’istruzione scolastica e superiore, serve a situarsi in un percorso che ha condotto allo stato attuale, con tutte le peculiarità e le problematiche che ancora si riscontrano nel panorama italiano della formazione al design. 1.  Si veda, a tal proposito, l’intervista a Daniela Piscitelli, presentata in appendice uno.


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2 · Arti applicate all’industria e formazione professionale Il problema della formazione alla progettazione ha interessato sostanzialmente tutto il XX secolo. Nonostante sia difficile, in una trattazione simile, ricostruire una precisa e dettagliata datazione, il fenomeno della nascita di scuole d’arti e mestieri o di arte applicata all’industria – per molti versi all’origine delle attuali scuole di design – può collocarsi, per gran parte dei paesi europei, intorno alla metà dell’Ottocento. La Great Exhibition del 1851 aveva fornito un sufficiente e deludente catalogo delle qualità estetiche dei prodotti industriali, e la reazione degli intellettuali e artisti inglesi ascrivibili al movimento Arts and Crafts è ben nota e documentata in molte storie del design. La riscoperta delle epoche prerinascimentali, l’esaltazione del medioevo come età mitica e incorrotta, la predilezione del gotico, la difesa del lavoro artigianale contro lo scadimento di qualità dovuto ai sistemi produttivi meccanico-industriali – aspetti che connotavano il movimento inglese – ebbero un’enorme risonanza in tutta Europa: ancora nel 1918, in Germania, i Consigli di lavoro per l’arte (Arbeitsrat für Kunst) proponevano un piano globale di riforma dell’insegnamento delle arti e delle arti applicate – che sarebbe stato poi alla base del programma di fondazione del Bauhaus2 del 1919 – in cui era ampiamente sostenuta l’importanza del lavoro artigianale e la rifondazione dell’intera società sulla qualità di questo lavoro, orientamento chiaramente influenzato anche dal tardo romanticismo e dall’espressionismo autoctoni3. 2.1 · Istruzione dopo l’unificazione italiana Per quanto riguarda la situazione dell’istruzione in Italia, non potendo ricostruire il mosaico di scuole che c’era prima del 1861, il primo punto fermo che si può fissare è la cosiddetta legge Casati4 del 1859, il regio decreto legislativo 2.  La Staatliches Bauhaus di Weimar nasceva, nell’aprile del 1919, dalla fusione dell’Istituto superiore di belle arti e della Scuola d’arte applicata del Granducato di Sassonia, a cui si aggiungeva una sezione di architettura. 3.  In rapporto a questi eventi Francesco Dal Co commenta: « In altri termini Nietzsche viene mescolato a Morris ». F. Dal Co, Prefazione all’edizione italiana, in H.M. Wingler, Il Bauhaus, Feltrinelli, Milano 1972. 4.  Si tratta del Regio decreto legislativo n. 3725, del 13 novembre 1859, sul Riordinamento dell’Istruzione pubblica. La legge prende il nome dal Ministro della Pubblica istruzione, Gabrio Casati, e faceva seguito alle leggi Bon Compagni del 1848 e Lanza del 1857. Al Ministero dell’A-


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del Regno di Sardegna entrato in vigore nel 1860 e poi esteso – subito dopo l’unificazione – a tutta l’Italia. La legge, rimasta in vigore con alcune modifiche fino alla riforma Gentile del 1923, definì organicamente l’intero ordinamento scolastico – dal grado elementare fino all’istruzione superiore universitaria – connotando profondamente il sistema italiano dell’istruzione. I numerosi articoli (trecentottanta), ordinati in cinque titoli, contenevano minuziose disposizioni relative agli ordini e gradi di istruzione, alle materie d’insegnamento, ai programmi, al personale didattico e all’apparato amministrativo, ispirandosi principalmente al modello prussiano nell’impianto fortemente gerarchico e centralizzato. L’obiettivo era quello di uniformare il sistema scolastico in modo da affiancare e, gradualmente, sostituire il monopolio dell’istruzione ancora detenuto dalla Chiesa. La legge consentiva, tuttavia, l’esistenza di scuole aperte e gestite da parte di privati, ma riservava alla scuola pubblica il rilascio di diplomi e licenze il cui riconoscimento era esteso a tutto il territorio nazionale. Tra i contenuti della norma, alcuni disposti rilevanti: –– tutta la riforma è orientata a una concezione elitaria dell’educazione; –– viene riservata maggiore attenzione all’istruzione secondaria e superiore (universitaria) a discapito della scuola elementare, trascurando soprattutto la formazione e il reclutamento degli insegnanti elementari (la Scuola normale, preposta a questo compito, era di grado post-elementare); –– istituzione di due nuove facoltà universitarie, Facoltà di Lettere e filosofia e Facoltà di Scienze matematiche, fisiche e naturali, che si affiancavano a quelle di Teologia (soppressa nel 1873), Medicina e Giurisprudenza; –– netta separazione, al grado secondario, tra istruzione umanistica e tecnica. L’iter educativo prevedeva due cicli biennali di scuola elementare, di cui solo il primo obbligatorio5, al termine dei quali bisognava già scegliere se intraprendere l’istruzione secondaria. Questa poteva essere di orientamento classico, a carico dello stato e ripartita in un quinquennio di ginnasio e tre anni di liceo, il solo che consentiva l’accesso all’università; oppure di oriengricoltura e commercio era stata demandata, invece, la gestione della formazione professionale. 5.  Questo vincolo, tuttavia, non fu severamente rispettato. Solo con la legge Coppino del 1877 si ebbe un effettivo aumento della frequenza scolastica: essa prevedeva sanzioni – soltanto nominate dalla precedente legge – per chi disattendesse l’obbligo scolastico, portato fino ai nove anni di età.


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tamento tecnico, articolata in tre anni di scuola tecnica, gratuita e a carico dei comuni, e tre anni di istituto tecnico, a carico dello stato, volta a formare la classe dei lavoratori. La legge dava inoltre la possibilità di apportare modifiche, con Regio decreto, agli ordinamenti dell’istruzione tecnica, data la natura stessa di questo tipo di formazione e per agevolare i ceti ai quali era destinata (art. 308)6. Grazie a questa previsione, in tempi successivi, furono introdotti specifici indirizzi per la scuola tecnica, e sezioni per l’istituto tecnico, di cui soltanto quella fisico-matematica consentiva l’accesso alla facoltà di scienze matematiche fisiche e naturali. 2.2 · Ingegneria e architettura La legge istituiva anche una scuola per ingegneri per ognuno dei capoluoghi di regione del Regno di Sardegna: una Regia Scuola di Applicazione per gli Ingegneri, annessa alla Facoltà di Scienze fisiche e matematiche dell’Università di Torino, che soppiantava il Regio Istituto Tecnico della città (artt. 53 e 309)7; e un Regio Istituto Tecnico nella città di Milano, eretto a spese dello stato, a cui veniva annessa una scuola di applicazione per ingegneri civili (art. 310)8.

6.  RDL 3725/1859, art. 308: « Le eccezioni che per l’indole propria della istruzione tecnica e pel maggior vantaggio delle classi cui è destinata, sarà opportuno o necessario di fare agli ordinamenti per cui il presente si riferisce alle disposizioni del precitato titolo III, saranno determinate con Regio Decreto ». 7.  RDL 3725/1859, art. 53: « Alla Facoltà di Scienze Fisiche e Matematiche dell’Università di Torino sarà annessa una Scuola d’applicazione in surrogazione all’attuale Regio Istituto tecnico, in cui si daranno i seguenti Insegnamenti: 1. Meccanica applicata alle macchine ed Idraulica pratica; 2. Macchine a vapore e ferrovie; 3. Costruzioni civili, idrauliche e stradali; 4. Geodesia pratica; 5. Disegno di macchine; 6. Architettura; 7. Mineralogia e Chimica docimastica; 8. Agraria ed Economia rurale. Inoltre alla Facoltà anzidetta in Torino e Pavia saranno annesse Cattedre di Analisi, e Geometria superiore, di Fisica-matematica, e di Meccanica superiore »; RDL 3725/1859, art. 309: « Il R. Istituto tecnico di Torino sarà convertito in scuola di applicazione per gli Ingegneri come all’art. 53, presso la quale rimarrà la scuola speciale per i misuratori od agrimensori istituita col R. Decreto 8 ottobre 1857 ». 8.  RDL 3725/1859, art. 310: « In Milano a spese dello Stato verrà eretto un R. Istituto tecnico superiore cui sarà unita una scuola d’applicazione per gli Ingegneri civili la cui indole e composizione sarà determinata con apposito R. Decreto. A questo istituto verrà pure annessa una scuola per i misuratori analoga a quella di Torino. Simili scuole pei misuratori verranno con spedali decreti istituite in altre città dello Stato ».


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Le singole facoltà avrebbero dovuto regolare i programmi e la durata di corsi (art. 55)9. Ai corsi delle due scuole si accedeva dopo aver frequentato due anni nella facoltà di scienze matematiche, fisiche e naturali, ma dal 1875 anche il biennio iniziale sarebbe rientrato nelle competenze delle scuole, estendendo inoltre gli studi a materie di cultura generale quali economia, politica, letteratura, disegno. Poco dopo le due scuole, sul modello francese e tedesco, assunsero la denominazione – ufficializzata soltanto nel corso del Novecento10 – di Politecnico, rimanendo gli unici due politecnici italiani fino al 1990, quando le facoltà di Ingegneria (attiva dall’anno accademico 1947-48) e di Architettura (appena fondata) dell’Università di Bari furono spostate in una nuova sede dando vita al Politecnico di Bari. Nell’istituto di Milano, già nel 1865, vennero avviati i primi corsi della Scuola di applicazione per gli architetti civili; la sezione, costituita da Camillo Boito, comprendeva tre anni di insegnamenti tecnico-scientifici e di corsi di storia dell’architettura e stili, i primi attivati nella sede del Politecnico, i secondi presso l’Accademia di Brera. Soltanto nel 1933-34 le due facoltà vennero distinte con l’attivazione della Facoltà di Architettura, di cui è fautore e primo preside Gaetano Moretti. Il rapporto con l’industria caratterizzava in maniera diversa i due politecnici: quello di Milano aveva attivato da subito collaborazioni con l’industria, e l’appoggio finanziario rappresentava una condizione indispensabile per il funzionamento dei laboratori del corso di ingegneria meccanica e per il finanziamento di borse di studio o corsi integrativi; quello di Torino assunse un’impostazione troppo teorica per le industrie locali che preferirono continuare a fare ricerche e sperimentazioni in proprio. In generale le industrie avevano sempre lamentato la preparazione degli ingegneri usciti dalle scuole italiane, considerandoli tecnici generici distanti dalle esigenze concrete della produzione. Per questo si erano formate apposite scuole diffuse in tutto il Regno per la specializzazione, che altrimenti si conseguiva con l’esercizio della professione.

9.  RDL 3725/1859, art. 55: « La durata, l’ordine e la misura, secondo i quali questi insegnamenti dovranno esser dati, verranno determinati nei regolamenti che in esecuzione della presente legge saranno fatti per ciascuna Facoltà ». 10.  Con la legge dell’8 luglio 1906, n. 321, viene ufficialmente istituito il Regio Politecnico di Torino; con il Regio Decreto del 29 luglio 1937, n. 1451, l’istituto di Milano cambia denominazione in Regio Politecnico di Milano


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Dopo la prima guerra mondiale e parallelamente al rinforzo dei corsi di architettura e arti applicate, si ebbe una significativa evoluzione dei corsi di ingegneria: il disegno perse di importanza, non rientrando più nelle personali competenze dell’ingegnere, e allo stesso tempo le tecniche di rappresentazione utilizzate in questi corsi si orientarono sempre più al disegno tecnico attuale, basato su codici visivi e simboli definiti. La costituzione dei due Politecnici di Milano e Torino fornì il modello per la creazione di altre scuole di ingegneria e architettura11 nel resto del Regno, completamente nuove oppure originate da preesistenti corsi all’interno di istituti e facoltà12 delle maggiori città italiane. Particolarmente rilevanti furono la Scuola di ingegneri di Palermo e quella per gli ingegneri di Napoli. In quest’ultima, dal 1876, si distinsero corsi per ingegneri e per architetti non legati, però, all’Istituto di belle arti. Soltanto nel 1930 venne istituita a Napoli la Scuola superiore di architettura, ed entrambe le scuole furono successivamente inserite nell’università come facoltà distinte. A Roma la Scuola per gli ingegneri restò annessa alla facoltà di scienze fisiche e matematiche, mentre nel 1920 fu fondata la Regia Scuola superiore di architettura dell’università La Sapienza, poi trasformata in facoltà nel 1935. Nel 1926 fu, invece, istituita La scuola superiore di architettura di Venezia13, che presto – sotto la direzione di Cirilli – si orientò verso una mentalità più legata all’accademia di belle arti. Soltanto il successivo ricambio dei docenti permise di modificare questa tendenza, reso possibile dalla nuova direzione di Giuseppe Samonà, il quale dal 1938 chiamò a insegnare a Venezia una serie di importanti architetti e urbanisti italiani. Al 1931 risale, infine, l’inaugurazione della Regia scuola di architettura di Firenze, che già prima di quella data aveva attivato i suoi corsi. Altre scuole di ingegneria sorsero nel resto d’Italia con caratteristiche derivanti dall’economia locale delle città in cui furono costituite (ad esempio a Bologna, Padova, Genova).

11.  Resta controversa la collocazione degli insegnamenti di architettura rispetto alle scuole di ingegneria: le regie scuole di architettura rientravano infatti – come si vede più avanti nel paragrafo 2.5 – nelle competenze dell’istruzione artistica. 12.  Si trattava di corsi specifici per ingegneri o architetti attivati principalmente nelle facoltà di matematica. 13.  È la scuola che ha dato vita al famoso Istituto universitario di architettura di Venezia, oggi Università IUAV di Venezia.


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2.3 · Musei artistici industriali, formazione professionale Parallelamente all’istruzione ufficiale, dai primi decenni dell’Ottocento, si andarono costituendo, su iniziativa spontanea di privati, associazioni e liberi cittadini, scuole per formare giovani da occupare nelle industrie, le quali richiedevano una migliore conoscenza degli strumenti e delle tecniche di lavorazione. Queste scuole, distribuite sul territorio italiano con varie denominazioni14, erano orientate all’attività pratica ed erano fornite di laboratori e officine. Esse restarono, anche dopo l’introduzione del nuovo sistema di istruzione della legge Casati, il percorso di studi preferito dai ceti popolari e dalla piccola borghesia, interessati ad una preparazione immediatamente collegata all’impiego. Per quanto riguarda le scuole di arte applicata15, nell’Italia post-unificazione la situazione era di estrema chiusura e preoccupante scarsità di materiale didattico e strumentazioni. Il modello di insegnamento impartito era quello basato sulla copia dal vero di mobili, oggetti ed elementi decorativi, puntando ad una rapida capacità di esecuzione. Contro l’eclettismo dei repertori figurativi del passato, gli intellettuali italiani promotori16 del rinnovamento artistico-architettonico e dell’istruzione artistica difendevano l’immaginazione – da stimolare con un gran numero di riferimenti e modelli, per lo più tratti dal mondo naturale – e un approccio generale più intuitivo e spontaneo. Gli stessi intellettuali, inoltre, proponevano di modernizzare le scuole di arti applicate dotandole di un museo industriale con cui avviare scambi e prestiti di oggetti, come avveniva nelle principali capitali europee. Il modello di riferimento era quello del South Kensington Museum17 di Londra, che su indicazione di Gottfried Semper aveva da subito avviato un’opera di promozione dell’educazione artistica. Il museo aveva aperto la propria collezione alle varie maestranze ed era stato annesso nel 1853 alla Scuola di 14.  Tra le varie tipologie: scuola d’arti e mestieri, di disegno applicato, operaia, per le arti decorative e industriali. 15.  Situazione riportata da Manolo De Giorgi, Le scuole, sezione 1860-1918, in V. Gregotti (a cura di), Il disegno del prodotto industriale, Electa, Milano 1982. 16.  Tra questi è doveroso fare riferimento ai contributi di Camillo Boito e di Alfredo Melani, quest’ultimo insegnante nel 1882 e successivamente direttore della Scuola superiore di arte applicata all’industria di Milano annessa al Castello Sforzesco. 17.  Si tratta dell’originario Museum of Manufacturers, fondato nel 1852 come diretto risultato della Great Exhibition, e che diede poi vita all’attuale Victora and Albert Museum.


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design (Government School of Design) fondata nel 1837 presso Somerset House, e da allora nota come South Kensington School18. Alcune scuole si dotarono, così, di un museo di arte industriale. Esso svolgeva un ruolo complementare alla lezioni e alle officine, con lo scopo di rendere visibili agli studenti-operai i prototipi e modelli. Tra i più importanti sicuramente il Regio Museo Industriale di Torino, fondato nel 1862 su iniziativa di Giuseppe Devincenzi, il più vicino al modello londinese. Un altro importante museo artistico industriale era quello di Napoli, fondato nel 1879 da Riccardo Filangieri, a cui era annessa una scuola superiore e officine in cui eseguire i modelli. Quella di Napoli era, in Italia, una delle più importanti scuole che prevedeva un ciclo completo di museo, scuole, officine. Il museo artistico industriale di Roma, aperto nel 1874 per iniziativa di alcuni privati (in particolare il principe Baldassarre Odescalchi e l’orafo Augusto Castellani), era connotato da un indirizzo più tradizionale e classicista. Dal punto di vista della disciplina di legge, la normativa Casati, non s’era incaricata dell’ordinamento di tutta l’area della formazione professionale, affidandola alla gestione del Ministro dell’Agricoltura, Industria e Commercio. Di conseguenza, in risposta alla crescente industrializzazione del paese e alla necessità di qualificazione professionale e culturale dei lavoratori, non più in grado di essere formati soltanto all’interno delle fabbriche e officine, fu attuato un riordino dell’istruzione19 tecnica e della formazione professionale, rispettivamente ad opera del Ministero dell’Istruzione e del Ministero dell’Agricoltura. Quest’ultimo tentativo, in particolare, non sortì un’adeguata risposta, fallendo le proposte fatte in Parlamento. Complessivamente il panorama dell’istruzione professionale del Regno si presentava in questo modo20: –– scuole d’arti e mestieri, che si occupavano della formazione professionale di base degli operai – giovani e adulti – ai quali erano impartiti un gran numero di insegnamenti;

18.  Soltanto nel 1896 la scuola assunse l’attuale denominazione di Royal College of Art, attualmente una delle più importanti scuole di arte e design di livello post-universitario. 19.  Con il Regio Decreto del 21 giugno 1885, n. 3413, si prolungava di un anno l’istituto tecnico, suddividendolo in tre ramificazioni: 1. fisico-matematica; 2. agrimensura; 3. commercio e ragioneria. La sezione industriale era invece facoltativa, a seconda dei bisogni del territorio. 20.  G. Ricuperati, Scuola, in F. Levi, U. Levra, N. Tranfaglia, Storia d’Italia, La Nuova Italia, Firenze, 1978.


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–– scuole superiori d’arte applicate all’industria, alcune delle quali dotate di un annesso museo d’arte industriale, come quelle di Venezia, Firenze, Milano, Napoli, Roma, Palermo; –– scuole speciali, ovvero delle scuole di arti e mestieri con precisi indirizzi strettamente connessi ai settori manifatturieri del luogo; –– e scuole femminili. Le scuole di arti e mestieri, in particolare, prevedevano un percorso che dall’addestramento nell’uso degli arnesi passava agli esercizi di modellaggio, per arrivare poi ad eseguire vari pezzi – nell’ultimo anno – a partire dal disegno. Esaltavano dunque il lavoro manuale come preparatorio e fondante nel rapporto tra scuola e officina, approccio che gli studenti delle scuole superiori d’arte applicata contestavano per la limitazione di responsabilità personali. Solo più tardi, con una serie di circolari, si provvedette al riordino delle scuole professionali esistenti, stabilendo infine – nel 1907, con apposita legge – tre categorie: scuole industriali, scuole artistiche industriali, e scuole professionali femminili. 2.4 · Riforma Gentile La seconda riforma decisiva per l’ordinamento dell’istruzione italiana fu quella varata durante il fascismo, nel 1923, elaborata dall’allora Ministro dell’Istruzione, il filosofo Giovanni Gentile21, con il contributo del pedagogista Giuseppe Lombardo Radice. Nonostante i successivi e ripetuti interventi22 – favoriti dalle dimissioni di Gentile nel 1924 – per allineare la riforma, troppo elitaria, all’orientamento del regime, essa rimase in vigore addirittura dopo la nascita della Repubblica italiana, almeno fino alla legge23 n. 1859 del 1962, di fondamentale rilevanza per aver stabilito l’unificazione della scuola media inferiore24. 21.  Con il nome di riforma Gentile si fa riferimento a un gruppo di Regi Decreti Legislativi approvati nel corso del 1923: 31 dicembre 1922, n. 1679; 16 luglio 1923, n. 1753; 6 maggio 1923, n. 1054; 30 settembre 1923, n. 2102; 1 ottobre 1923, n. 2185; oltre ai successivi decreti che regolamentano materie specifiche quali, ad esempio, l’istruzione tecnica o l’istruzione artistica. 22.  L’ultimo di questi “ritocchi” fu la proposta per una ristrutturazione completa del sistema di istruzione – “La carta della scuola” del 1939 – rimasta soltanto un progetto mai attuato a causa dell’imminente inizio della guerra. 23.  Si veda il paragrafo 3.6 di questo capitolo. 24.  Una proposta per l’istituzione di una scuola media unificata era già stata avanzata nell’anno


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Nel frattempo, prima del 1923, alcuni cambiamenti erano stati apportati nel sistema dell’istruzione senza sconvolgerne tuttavia l’impianto generale, che la nuova riforma sostanzialmente confermava. Prima della riforma Gentile, ad esempio, era stato innalzato l’obbligo scolastico prima ai nove e poi ai dodici anni di età; furono stabiliti finanziamenti per la costruzione di scuole e il controllo diretto del grado elementare da parte dello Stato; la crescente richiesta di formazione oltre la scuola dell’obbligo aveva portato alla fondazione di molte più scuole e istituti del previsto; furono aperti nuovi indirizzi, come il liceo moderno all’interno del liceo classico, e diverse tipologie d’indirizzo e specializzazione degli istituti tecnici; furono consentiti gli accessi ad alcuni corsi universitari anche ai diplomati di istituti tecnici. I regi decreti gentiliani, in continuità con la legge Casati, ribadivano il forte centralismo ministeriale ed esasperavano la separazione tra l’educazione classica, fondata sullo studio delle discipline filosofico-umanistiche, e quella scientifica. La prima avrebbe dovuto contribuire alla formazione delle classi dirigenti ed era, pertanto, notevolmente privilegiata rispetto alla seconda, a cui era dedicato minore spazio e rilevanza all’interno del sistema. Al di sotto di entrambi gli orientamenti era relegata l’istruzione tecnica e professionale25, destinata alla formazione delle classi operaie. Tra le novità introdotte dalla riforma, sono di particolare rilievo: –– l’innalzamento dell’obbligo scolastico fino ai quattordici anni di età; –– l’unificazione del grado di scuola elementare in un unico ciclo di cinque anni; –– l’istituzione del grado preparatorio della scuola materna – non obbligatorio – della durata di tre anni; –– la soppressione delle scuole tecniche in favore della scuola complementare; –– l’introduzione, al grado di istruzione secondaria, del liceo scientifico, dell’istituto magistrale per la formazione degli insegnanti elementari e della scuola complementare; –– il riordino complessivo dell’istruzione artistica; dell’approvazione della riforma Gentile. Nel 1923, Vito Volterra – appena nominato presidente dell’Accademia dei Lincei – aveva istituito una commissione per esaminare la riforma: tra le varie indicazioni della commissione c’era quella di rimandare l’importante scelta della prosecuzione degli studi a una età più matura, istituendo una base unica di scuola media inferiore, della durata di tre o quattro anni. 25.  L’istruzione professionale era ancora gestita dal Ministero dell’Agricoltura, industria e commercio, trasformato, sotto il regime fascista, in Ministero dell’Economia nazionale.


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–– l’istituzione dell’insegnamento obbligatorio della religione cattolica alle elementari (poi esteso anche ai licei, con i Patti Lateranensi); –– l’incremento del numero di esami previsti per il passaggio da un grado all’altro dell’istruzione. Se ne deduce che il percorso educativo diventava più articolato e in parallelo anche più selettivo: nel corso del ciclo di scuola elementare – obbligatorio e uniformato – bisognava sostenere un esame al termine della terza e uno al termine della quarta classe. Al termine del ciclo, superato l’esame di ammissione, si poteva accedere a quattro opzioni principali di istruzione secondaria, tre delle quali consentivano di proseguire gli studi oltre l’obbligo scolastico26: –– il ginnasio: diviso in ginnasio inferiore, di tre anni, e ginnasio superiore, di due anni, dove il passaggio era regolato da esame di licenza; a conclusione del ginnasio un ulteriore esame di licenza consentiva l’accesso al liceo – successivamente denominato classico – della durata di tre anni; il liceo a sua volta era l’unico che consentiva di accedere a tutte le facoltà universitari, previo superamento dell’esame di fine corso; –– l’istituto magistrale: diviso in magistrale inferiore, di quattro anni, e magistrale superiore, di tre anni, con il passaggio regolato da esame di licenza; –– istituto tecnico: diviso in tecnico inferiore, di quattro anni, e tecnico superiore, di altri quattro anni con diverse sezioni e denominazioni corrispondenti, al termine dei quali era consentito l’accesso alle facoltà di Agraria, Economia e commercio, Scienze statistiche; –– la quarta opzione prevedeva per coloro i quali avessero dovuto continuare ad attendere l’obbligo scolastico: un corso integrativo, ovvero un prolungamento di tre anni della scuola elementare; oppure la frequenza, senza esame di ammissione, di scuole complementari – eredità delle precedenti scuole tecniche della legge Casati – poi diventate Scuole di avviamento professionale, che non davano diritto al proseguimento degli 26.  RD 6 maggio 1923, n.1054, in materia di Ordinamento della istruzione media e dei convitti nazionali. Nell’art. 1 si legge: « Gli istituti medi di istruzione sono di primo e di secondo grado. Sono di primo grado: la scuola complementare, il ginnasio, il corso inferiore dell’istituto tecnico, il corso inferiore dell’istituto magistrale; sono di secondo grado: il liceo, il corso superiore dell’istituto tecnico, il corso superiore dell’istituto magistrale, il liceo scientifico, il liceo femminile ».


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studi; queste erano divise in indirizzi che a loro volta potevano avviare specializzazioni professionali nei vari rami. Al nuovo liceo scientifico, invece, si accedeva, con esame di ammissione, dopo aver frequentato per quattro anni una delle tre scuole secondarie inferiori che consentivano il proseguimento degli studi – ginnasio inferiore, istituto magistrale inferiore o istituto tecnico inferiore. Questo percorso si sostituiva alla preesistente sezione fisico-matematica del vecchio istituto tecnico e consentiva l’accesso a tutte le facoltà tranne quelle di Lettere e filosofia e Giurisprudenza. Si fa notare, tuttavia, che per la mancata corrispondenza con una scuola media inferiore, per la cospicua presenza di materie umanistiche rispetto a quelle propriamente scientifiche27 e per i limitati sbocchi universitari e professionali, fino alla già citata legge del 1962, il liceo scientifico non registrò mai un alto numero di iscrizioni. Questi dati valgono a dimostrare l’attenzione riservata all’educazione umanistica rispetto a quella scientifica. 2.5 · Riordino dell’istruzione artistica Un ruolo a parte riveste, rispetto al resto delle riforme, il Regio Decreto del 31 dicembre 1923, n. 3123, che istituiva l’ordinamento dell’istruzione artistica28. Esso stabiliva un assetto che si è ripercosso in maniera determinante sull’intera vicenda dell’istruzione nel campo del design e della grafica e comunicazione visiva29. Il decreto stabiliva innanzi tutto la diretta dipendenza di « tutti gli istituti ed enti che hanno il fine di promuovere l’arte e l’istruzione artistica »30 dal Ministero della Pubblica istruzione (art. 1), con la diretta conseguenza che gli istituti di formazione superiore (Accademie di belle arti, Istituti superiori per le industrie artistiche, oltre che i Conservatori e le Accademie di danza e arte drammatica) hanno continuato a dover fare capo 27.  Nell’art. 62 del RD 1054/1923 si legge: « Nel liceo scientifico si insegnano: lettere italiane e latine; storia, filosofia ed economia politica; matematica e fisica; scienze naturali, chimica e geografia; una lingua e letteratura straniera; disegno ». Tuttavia è opportuno consultare le tabelle relative alle le ore di insegnamento per comprendere quanto sbilanciato fosse il peso di italiano, latino, storia e filosofia rispetto alle altre materie. 28.  Altre materie relative all’istruzione artistica erano regolate con Regio Decreto Legislativo del 7 gennaio 1926, n. 214, Disposizioni concernenti l’ordinamento dell’istruzione artistica; convertito nella Legge del 25 giugno 1926, n. 1262. 29.  Si veda la terza sezione, in particolare i paragrafi 3.1 e 3.7, di questo capitolo. 30.  RD 3123/1923, art. 1.


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allo stesso Ministero anche dopo l’istituzione del Ministero dell’Università e della ricerca scientifica e tecnologica31. Da questo ne deriva che tuttora la gestione dell’istruzione artistica superiore è affidata ad un comparto specifico – quello dell’Alta formazione artistica, musicale e coreutica (AFAM) istituito nel 1999 – del Ministero dell’Istruzione università e ricerca. Il decreto del 1923 regolamentava la suddivisione dell’istruzione artistica in: –– scuole ed istituti d’arte e istituti superiori per le industrie artistiche, che fornivano, a diverso grado, la preparazione nell’ambito della produzione artistica e arte applicata (artt. 4-5); –– licei artistici, della durata di quattro anni, e accademie di belle arti32 a cui i primi erano annessi, che impartivano « l’insegnamento dell’arte, indipendentemente dalle sue applicazioni alle industrie »33; scuole superiori di architettura, col fine di « fornire la preparazione artistica e la cultura scientifica necessaria per la professione di architetto »34; –– conservatori di musica e scuole di recitazione. La scuola d’arte corrispondeva al corso inferiore dell’istituto d’arte (livello medio inferiore), si incentrava sul lavoro esecutivo nelle officine, e vi si accedeva dopo aver terminato gli studi di scuola elementare, rappresentando dunque uno sbocco ulteriore rispetto a quelli elencati nel paragrafo precedente. L’istituto d’arte corrispondeva al corso superiore e rilasciava il titolo di maestro d’arte. Vi si impartivano materie diverse e specifiche, insegnamenti di cultura generale e si praticava il lavoro nelle officine. Esso poteva essere istituito soltanto dove vi fosse già stata una scuola d’arte, e le due strutture avrebbero dovuto condividere gli stessi locali. Entrambe « hanno il fine di

31.  Il governo Fanfani IV (1962-63), aveva istituito l’incarico – senza portafoglio – di Ministro per il Coordinamento delle iniziative per la ricerca scientifica e tecnologica, ricoperto da Guido Corbellini. Soltanto con il governo De Mita tale incarico venne convertito in Ministero vero e proprio, con la legge del 9 maggio 1989, n.168. Si veda più avanti il paragrafo 4.3 di questo capitolo. 32.  Nella legge vengono specificate quelle di Bologna, Firenze, Milano, Napoli, Palermo, Roma, Torino e Venezia. 33.  RD 3123/1923, art.13. 34.  RD 3123/1923, art. 32.


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addestrare al lavoro e alla produzione artistica, a seconda delle tradizioni, delle industrie e delle materie prime della regione »35. L’accesso all’istituto d’arte – così come al liceo artistico – non era vincolato a uno specifico percorso di studi precedente: erano infatti ammessi gli alunni che avessero frequentato, superando la prova finale, una qualunque scuola media di primo grado (art. 65). Successivamente gli alunni diplomati presso il liceo artistico e l’istituto d’arte erano ammessi alle accademie di belle arti. Alle scuole superiori di architettura, invece, poteva accedere solo chi avesse conseguito la maturità classica e scientifica, dopo un esame di ammissione relativo alle materie artistiche. Con l’art. 10 – di cui si riporta il testo integrale – venivano date disposizioni per l’apertura di Istituti superiori per le industrie artistiche (ISIA), ai quali poteva accedere chi avesse prima frequentato l’istituto d’arte36: Con il concorso degli enti locali il Ministro della pubblica istruzione potrà promuovere l’istituzione di istituti superiori per le industrie artistiche col fine di raccogliere ed integrare gli insegnamenti e le esercitazioni relative alle tecniche delle varie arti, alle nozioni pratiche e teoriche necessarie per il buon andamento di una industria, alle cognizioni di cultura generale indispensabili per assumere funzioni tecniche direttive in un’industria artistica. A tali istituti saranno ammessi per concorso, in numero da stabilirsi, alunni licenziati dall’istituto d’arte. Lo Stato può assumere a suo carico la metà della spesa occorrente per l’istituzione e il mantenimento di questi istituti.

Infine, ogni istituzione del settore artistico avrebbe dovuto dotarsi di un proprio statuto che ne determinasse, il carattere individuale, l’ordinamento amministrativo, didattico e disciplinare, e che stabilisse il numero degli anni di studio e il numero delle cattedre ed officine.

3 · Disegno industriale, da istruzione secondaria a superiore L’avvento della guerra aveva congelato le varie proposte legislative di modifica alla riforma Gentile, ancora in vigore. Dopo il conflitto la situazione in Italia per quel che riguarda la formazione al design rimase pressoché la stessa, almeno fino alla metà degli anni cinquanta. I principali progettisti italiani si erano formati nelle scuole e facoltà di architettura, in cui i corsi di 35.  RD 3123/1923, art. 4. 36.  RD 3123/1923, art. 10.


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decorazione e arredamento d’interni sopperivano alle carenze di istruzione superiore al design. La parte complementare di questo scenario era costituita ancora dal settore dell’istruzione artistica e dalle numerose scuole professionali. Molti progettisti, tuttavia, avevano imparato il mestiere da autodidatti, in particolare nel settore della grafica. Le nuove esigenze innescate dalla ricostruzione successiva al conflitto dettero un impulso notevole al disegno industriale italiano, facendo progressivamente crescere la consapevolezza circa la figura e il ruolo del designer. Luigi Spadolini, alla metà degli anni sessanta, commentava questo entusiastico fenomeno affermando che dal 1947 in poi « in Italia è sembrato che l’industrial-design potesse essere una specie di panacea universale capace di risolvere gli infiniti problemi inerenti a tutte le questioni dibattute negli anni cinquanta »37. Di conseguenza si cominciò a parlare della formazione dei designer in nuovi e autonomi percorsi educativi istituzionali. Una serie di eventi coincidenti e varie occasioni d’incontro intorno alla metà degli anni cinquanta dimostrano un certo fermento riguardo al tema. Giulio Carlo Argan, nel 1952, in occasione del Convegno degli Istituti di istruzione artistica pose la questione della riforma di queste scuole, nel senso dell’introduzione del disegno finalizzato alla produzione in serie di oggetti come tema d’insegnamento. La decima Triennale di Milano del 1954 promosse il primo Congresso di Industrial design, in cui nuovamente emerse la posizione di Argan contrapposta a quella degli ambienti americani: la prima tendeva a fornire una definizione allargata di design, come attività capace di risolvere qualsiasi operazione progettuale; la seconda considerava il design come una forza operativa che si attua nel momento in cui la società lo richieda – con tendenze verso il re-design e lo styling. Una posizione intermedia era quella del British Council che puntava alla definizione di uno standard di produzione qualitativamente costante, riconducendo il design a un servizio sociale per il paese. Sempre nel 1954 uscivano i primi due numeri di “Stile industria”, la rivista fondata da Alberto Rosselli. Nello stesso anno veniva istituito il premio Compasso d’oro. Nel 1956 fu fondata l’ADI che nell’art. 3 del suo primo statuto esponeva, tra gli obiettivi e gli scopi perseguiti dall’associazione, quello di « favorire la costituzione di scuole di disegno industriale in Italia »38. Nel 1955 37.  F. Menna (a cura di), Inchiesta sull’insegnamento del disegno industriale, in “Marcatré” n.16-17-18, luglio-settembre 1965. 38.  Riportato da Giampiero Bosoni, Le scuole di design, sezione 1946-1980, in Gregotti, op. cit.


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l’Aiap39 si distaccava dalla componente dei tecnici pubblicitari di cui faceva parte – l’Atap, fondata dieci anni prima. Nel 1954 Nino di Salvatore fondava a Novara la scuola Centro studi arteindustria, che nel 1970, cambiando sede e denominazione, è diventata Scuola politecnica del design, nella quale hanno insegnato nel corso degli anni i maggiori progettisti italiani e tutt’oggi attiva come centro di alta formazione per le discipline del design e della comunicazione visiva. Essa si poneva, di fatto, come la prima scuola privata specializzata nel settore. Pierluigi Spadolini, dopo la Triennale e il Congresso di Milano del 1954, a Firenze convinse i suoi colleghi a inserire l’industrial design come insegnamento della Facoltà di architettura. La cattedra di Decorazione diventava Disegno Industriale, affidata a Leonardo Ricci che aveva lo stesso Spadolini come assistente. Venne contestualmente anche avanzata al Ministero dell’Istruzione una richiesta per inserire l’insegnamento del disegno industriale nei programmi delle facoltà di architettura. Dopo ben due anni il Ministero approvò ufficialmente il nuovo insegnamento assegnando, però, l’infelice denominazione di Progettazione artistica per l’industria al corso che venne istituito nel 1958 come disciplina complementare nel curriculum di studi della facoltà di architettura. Dallo stesso anno, e fino al 1969, Roberto Mango tenne i primi corsi sul rapporto tra design e ambiente presso la facoltà di architettura dell’università di Napoli. Inoltre, dagli anni cinquanta la questione dell’insegnamento e, più in generale, la complessità didattica del design permeava i corsi di interni e di arredamento delle facoltà di architettura. 3.1 · Corsi superiori di disegno industriale Nel 1958 un gruppo di persone40 si riuniva presso l’Istituto veneto per il lavoro per esaminare le prime proposte per la fondazione di un Corso superiore di disegno industriale interno all’Istituto d’arte di Venezia – ritenuto un ambiente particolarmente adatto al progetto – in modo da dare avvio a un diverso orientamento dell’istruzione artistica italiana. Era l’ultimo di al39.  Acronimo di Associazione Italiana Artisti Pubblicitari. Si veda, in riferimento alla denominazione, il paragrafo 1.2 del capitolo terzo. 40.  Si tratta di intellettuali, professionisti, industriali, docenti e dirigenti scolastici provenienti dall’area della progettazione e dell’istruzione artistica, tra i quali anche Angelo Maria Landi, invitato dalla Direzione generale delle Belle arti, che riportava l’evento in una intervista sulle pagine di “Marcatrè”; Menna, art. cit.


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cuni incontri – anche promossi dall’ADI – che già dal 1956 avevano a lungo dibattuto il tema della formazione del designer. Di conseguenza, nel 1959, il Corso superiore di disegno industriale (CSDI) di Venezia, a carattere sperimentale e della durata di tre anni, venne autorizzato dal Ministero appoggiandosi all’art. 17 del RDL n. 214 del 1926, Disposizioni concernenti l’ordinamento dell’istruzione artistica41. Il corso si presentava come il proseguimento degli studi dell’Istituto statale d’arte della città. Per il fatto di essere il primo vero e proprio corso di design in Italia nel senso attuale del termine, quello di Venezia ebbe una certa risonanza in tutto il paese, riaccendendo il dibattito sul tema e conducendo successivamente all’apertura di simili corsi in altri istituti d’arte. Nello stesso anno di fondazione del corso, l’ADI – a un Convegno sullo sviluppo di Milano – propose di istituire nel capoluogo lombardo una grande scuola di disegno industriale, proprio sull’esempio di quella di Venezia, che si considerava però troppo condizionata dall’ambiente e dalle possibilità locali. Il discorso era tuttavia ancora posto in termini di valore estetico-formale della produzione industriale, che permettesse all’Italia di continuare a competere a livello internazionale, forte dei recenti successi. Il progetto della scuola veniva presentato come « valido ausilio alle iniziative degli industriali lombardi »42, con riferimento a quanto avveniva in Germania, alla Hochschule für Gestaltung di Ulm, dove la scuola copriva il ruolo di progettista collettivo o consulente per l’industria. Queste premesse trovarono seguito in una effettiva proposta per una scuola di industrial design, a cura di un apposito Comitato – di cui faceva parte, tra gli altri, Marco Zanuso – della Fondazione Giuseppe Pagano di Milano. Constatando la quantità e qualità dei problemi, teorici e tecnici, che l’industrial design investe, il comitato affermava la necessità di istituire 41.  Dal testo dell’art. 17: « Il Ministro per la pubblica istruzione ha facoltà di promuovere presso gli istituti di istruzione artistica ogni iniziativa che sia riconosciuta utile all’incremento delle arti e delle industrie ad esse collegate. Al fine anzidetto il Ministro per la pubblica istruzione, accordandosi ove occorra con altri Ministri competenti ed entro i limiti dei fondi stanziati in bilancio, è autorizzato: 1° ad istituire corsi speciali, temporanei o permanenti, facoltativi od obbligatori, per insegnamenti che pur non essendo compresi nei programmi ordinari siano riconosciuti necessari ai fini dell’incremento dell’arte e delle industrie artistiche; […] ». RDL 214/1926, art. 17 42.  AA.VV., Progetto della scuola di Disegno Industriale di Milano 1959, in “Adi Notizie” n. 4, giugno 1974.


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la scuola a livello universitario. Venne anche steso un programma dettagliato, compreso di metodi e materie di insegnamento, che restò soltanto un progetto, mai realizzato. L’esperienza di confronto restava sempre la scuola veneziana, tuttavia risultano particolarmente interessanti alcuni punti generali della proposta, le costanti di insegnamento valide per quasi tutte le materie: –– il carattere della scuola sarebbe dovuto essere essenzialmente metodologico, non nozionistico: alla procedura empirica, per cui da esperienze operative l’allievo forma un metodo astratto dal contesto, si opponeva la necessità di una base teoretica, naturalmente legata a una verifica pratica, che consentisse di impostare qualsiasi problema anche quando si presentano nuove variabili; tuttavia, l’impostazione metodologica si supponeva come applicata a ogni tipo di insegnamento e non proposta come materia autonoma, astratta dal contesto; –– si proponeva di trasferire le materie considerate propedeutiche alla fine del percorso di studi, in modo che gli studenti potessero affrontare in modo più maturo e approfondito le discipline più astratte; –– l’insegnamento della matematica e delle scienze esatte doveva considerarsi solo in funzione strumentale, non come costrizione a priori, portando l’attenzione degli allievi sulle questioni tratte dalla realtà: l’aspetto teorico veniva proposto come conseguenza necessaria e naturale del pratico; –– si sceglieva di dare priorità alle discipline con carattere di formazione generale su quelle strettamente specialistiche per permettere agli studenti di essere in grado di apprendere autonomamente anche dopo il completamento degli studi, rispondendo al mutare delle condizioni e delle tecniche; –– gli esami non avrebbero dovuto essere relativi a singoli corsi ma a gruppi di materie affini43, alleggerendo così il numero delle prove, che in questo caso sarebbero risultate anche più complete e approfondite. Il fermento culturale intorno al Corso superiore di disegno industriale di Venezia è confermato dal fatto che proprio in questa città, nell’estate del 1961, 43.  L’idea venne ripresa dallo stesso Zanuso, nel dibattito del 1968 sull’insegnamento del disegno industriale riportato nelle pagine di “Marcatrè”; F. Menna (a cura di), Problemi delle scuole di disegno industriale, conversazione con Spadolini, Dorfles, Maldonado, Zanuso, Calò, Franchetti, in “Marcatrè”, n.41-42, maggio-giugno 1968.


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si tenne il congresso mondiale dell’ICSID44, primo, grande evento45 voluto e promosso da Renzo Camerino, presidente del Consiglio di amministrazione del corso di Venezia partito l’anno precedente. Al congresso fu presente anche Tomás Maldonado, allora professore e membro del collegio direttivo della HfG di Ulm, il quale in quell’occasione condivise la definizione di disegno industriale46 che aveva egli stesso formulato. In quegli anni la scuola di Ulm rappresentava certamente una delle esperienze didattiche più innovative in corso e – inevitabilmente filtrata dall’ottica italiana – veniva presa come riferimento per la costituzione delle nostre scuole di design. Essa era percepita come « modello ottimale nella ideologia socialmente impegnata, nelle metodologie didattiche, nell’assetto dei piani di studio, nella interdisciplinarietà, con una sua fisionomia di intransigenza morale nel disegno del prodotto »47. 3.2 · Il corso di Venezia L’esperienza veneziana del CSDI non ebbe mai vita facile, sin dai suoi primi mesi. Le cause di questo disagio furono molteplici, ma tutte riconducibili principalmente alla dipendenza della scuola dall’Istituto statale d’arte. Il corso prese avvio con i suoi primi trenta iscritti dall’anno accademico 1960-61. Nel depliant che lo pubblicizzava, il disegnatore industriale era presentato come una delle professioni nuove e di maggior prestigio e successo, e agli studenti si promettevano prospettive di lavoro nella libera professione oppure all’interno delle industrie italiane e internazionali. Di fatto, Venezia non costituiva un polo industriale in grado di assorbire i designers usciti dalla scuola né vantava professionisti o docenti specializzati. Per questo il direttore del CSDI, l’architetto Romano, cercò di impostare la scuola ad un livello molto elevato e un carattere internazionale, con una larga autonomia nella definizione dei programmi e nella scelta dei docenti48. 44.  Acronimo di International Council of Societies of Industrial Design. 45.  Tema e titolo dell’evento era “La professione dell’Industrial designer”. 46.  Si veda, per un approfondimento sulla vicenda, il paragrafo 1.1 del capitolo terzo. 47.  Enzo Frateili, La pedagogia del design in Italia, in “Design e dintorni”, periodico a cura dell’Isia di Firenze, n.1, dicembre 1993; citato in Design: cultura e istruzione, catalogo della mostra al MART di Rovereto, 1995. 48.  Nel primo statuto della scuola l’art. 11 stabiliva che « possono essere chiamati, ad impartire gli insegnamenti fondamentali: a) docenti universitari di ruolo o incaricati; b) artisti o professionisti venuti in chiara fama di singolare perizia nella loro arte. Gli insegnamenti complementari possono essere affidati a persone che, pur non rientrando nelle categorie di cui al comma pre-


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Ma già alla fine del primo anno accademico lo stesso direttore riferì di « un avvio dimesso e pieno di difficoltà »49 e denunciò la carenza di spazi, aule, attrezzature – compresi laboratori, biblioteche o uffici – riservati all’attività didattica del corso. Pertanto l’esperimento del CSDI partiva già connotato da problemi strutturali e organizzativi piuttosto importanti. Questa situazione di precarietà comportò l’abbandono del corso da parte di alcuni studenti e le dimissioni di alcuni docenti, conducendo all’astensione degli studenti dagli esami alla fine del 1962, per il repentino cambio di gran parte del corpo docente deciso dal Consiglio di amministrazione. Tuttavia, uno degli equivoci – o passi falsi, a seconda del punto di vista – che causò maggiore attrito fra gli studenti e gli organi direttivi fu il livello universitario solo nominale della scuola. I titoli richiesti per l’ammissione50 e la dicitura di “corso superiore” avevano fatto sperare agli iscritti di poter ottenere alla fine del percorso di studi un titolo di livello accademico. Alla fine dei tre anni, invece, agli studenti era rilasciato soltanto un attestato di frequenza, e neppure un diploma, come invece era stabilito nello statuto della scuola e annunciato sul depliant che la illustrava. Alle ufficiali richieste di chiarimenti da parte dei primi studenti licenziati dal CSDI di Venezia (1963) circa il livello di istruzione impartita nello stesso corso il Ministero rispose ridimensionando gli obiettivi stessi delle attività scolastiche: esse erano state intese esclusivamente come possibilità per i diplomati degli istituti d’arte e dei licei artistici di perfezionare l’esperienza artistica e professionale acquisita negli stessi51; e quindi ogni interpretazione che considerasse il CSDI di livello universitario era da ritenersi senza fondamento. La situazione esplose nell’anno accademico 1963-64, arrivando fino allo sciopero definitivo per un tempo indeterminato dell’anno successivo. La causa principale era nel mancato rispetto delle decisioni prese in sede di commissione paritetica di insegnanti e allievi con potere deliberante. Adcedente, siano provviste tuttavia della necessaria capacità d’esperienza »; F. Menna, Constatazione della realtà. La mala storia di Venezia, in “Marcatrè”, n. 11-12-13, febbraio 1965. Tra i più importanti docenti della suola di Venezia vi erano Scarpa, Zannier, Rogers, Ciribini, Peressutti. 49.  F. Menna, Constatazione della realtà. La mala storia di Venezia, in “Marcatrè”, n. 11-1213, febbraio 1965. 50.  Era richiesta la licenza di una delle scuole che abilitavano all’ammissione nelle facoltà universitarie. 51.  Si ricorda che il diploma rilasciato dagli istituti d’arte e dai licei artistici non consentiva ancora, in quegli anni, l’iscrizione alle facoltà universitarie; e il disegno industriale o le materie affini erano ancora del tutto estranei agli ambienti delle accademie di belle arti.


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dirittura la stessa costituzione di questa, fortemente richiesta dagli studenti benché non prevista dagli statuti provvisori della scuola, fu più volte avversata e rimandata. Tra le altre cose, gli studenti chiedevano strumenti didattici e attrezzature tecniche adeguate, un generale coordinamento dei corsi, un rapporto effettivo con l’esterno – industria e professionisti – e l’istituzione di un quarto anno, un’esigenza già riconosciuta nel primo anno52 di attività della scuola. La scuola di Venezia, in definitiva, risentì fortemente dell’impostazione iniziale, data sia a questo che agli altri CSDI, che non aveva previsto la costituzione di un istituto moderno, di alto livello universitario e professionale, ma aveva relegato il problema della formazione dei disegnatori industriali all’ambito della formazione artistica, intesa nell’accezione di arte applicata. Per di più, nel caso di Venezia, tra i vari insegnamenti non riuscì a crearsi un effettivo rapporto di relazione, il collegio dei docenti restò un organismo poco omogeneo, privo di coordinazione e collaborazione tra le personalità che lo costituivano. 3.3 · Il corso di Firenze Il secondo ad essere istituito fu il Corso superiore di disegno industriale di Firenze, a partire dal 1962, per diretto interessamento di Angelo Maria Landi, direttore dell’istituto d’arte a cui il corso fu annesso. Rispetto alla scuola di Venezia, quella fiorentina non trovò in questo legame grossi inconvenienti o limitazioni; anzi, quest’ultima si caratterizzò come un’esperienza diametralmente opposta alla prima. Ciò dipese, oltre che dalla presenza di una struttura didattica più articolata caratterizzata da adeguata fornitura di laboratori, sicuramente anche da una diversa impostazione che soprattutto Pier Luigi Spadolini conferì all’intero CSDI. Benché fosse ufficialmente incaricato soltanto dell’insegnamento di progettistica, in realtà Spadolini ricopriva il ruolo di coordinatore di tutti gli insegnamenti, il che gli permetteva ampio margine di libertà anche nell’impostazione dei corsi, con il diretto appoggio del direttore Landi.

52.  Tre le ipotesi avanzate dalla commissione paritetica per l’eventuale costituzione del quarto anno: 1. un vero e proprio anno curricolare; 2. presenza nella scuola degli studenti del quarto anno in forma semi-ufficiale per approfondire i rapporti con l’industria; 3. un centro di ricerca autonomo, con funzioni di supporto alla scuola e di mediazione con l’esterno.


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Altro fatto importante, ancora sulla scorta dell’esperienza veneziana, fu la presenza cospicua e crescente di momenti d’incontro tra docenti e studenti – su questioni relative allo studio e alla progettazione – e il carattere collegiale degli orientamenti e delle decisioni prese all’interno della scuola. I problemi, prevalentemente di natura amministrativa, non raggiunsero mai un’entità tale da causare la rottura avvenuta a Venezia. Il personale era amministrato direttamente dall’istituto d’arte mentre le spese per il mantenimento del corso venivano coperte per una parte col contributo degli enti locali, per un’altra dallo Stato. L’organizzazione interna prevedeva: –– un comitato di coordinamento, composto dal presidente del Consiglio di amministrazione, un docente, dal direttore dell’Istituto, dal docente coordinatore Spadolini, e da tutti i docenti universitari; aveva il valore di consiglio dei professori e decideva su materie, programmi e orari; –– un direttore, a salvaguardia della continuità didattica e disciplinare e cura dei rapporti ufficiali con l’esterno; –– un gruppo di docenti esterni, per lo più universitari, che garantivano l’impostazione superiore degli studi e delle esercitazioni; –– alcuni insegnanti interni dell’istituto d’arte, dotati di particolari attitudini o titoli nel settore. Nella didattica si poneva il problema di una pedagogia basata sul progetto contrapposta a una fondata sulla metodologia storica, ma tale presunto conflitto fu risolto ponendo l’accento sulla coordinazione – che era mancata a Venezia – facendo dialogare sempre più gli insegnamenti53, fino a renderli in qualche modo integrati, soprattutto per quanto riguarda materie come estetica o storia del disegno industriale in rapporto alla progettazione. Il disegno (esercitazioni grafiche e disegno operativo) restava una componente strumentale della progettazione mentre ampio spazio e valore venne dedicato, presso la scuola, alla modellistica (l’elaborazione di modelli, non funzionanti, gradualmente realizzati coi vari materiali). In generale, il corso si orientava a una metodologia aperta, non rigida, continuamente sperimentale, che permettesse una costante aderenza ai problemi della società nella loro

53.  Questo dato testimonia il dialogo esistente tra gli stessi docenti; tra i più importanti vi erano Pierluigi Spadolini, Giovanni Klaus König, Leonardo Benevolo, Vittorio Franchetti Pardo.


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evoluzione. Senza cristallizzarsi in programmi didattici fissi, gli insegnamenti puntavano a fornire agli studenti esperimenti di livello metodologico. Spadolini era tra coloro che optavano per un ridimensionamento della considerazione e della portata del design, che, nonostante la sua validità soprattutto nel contesto di quegli anni, non poteva essere ritenuto in grado di risolvere qualsiasi problema54; tuttavia restava fermamente convinto della funzione pedagogica del disegno industriale. Egli riconosceva all’interno dell’industrial design diversi rami di attività per cui bisognava fornire una specifica preparazione55. Per cui la scuola di Firenze, nel corso della sua esistenza, da un design degli oggetti d’uso quotidiano e del mobile di produzione largamente seriale – « quel particolare tipo di design che crea ancora l’equivoco dei rapporti tra design e artigianato »56 – si orientò sempre più verso un design a fini sociali, verso un tipo di “progettazione impegnata” di oggetti d’uso collettivo, arrivando a permettere agli studenti di seguire il progetto di attrezzature sanitarie e trasporti pubblici, in collaborazione con enti e aziende. Così Spadolini, nel 1968, sintetizzò questo orientamento57: Il design di fronte alle richieste dell’industria, nell’ambito dei bisogni ’indotti’, deve contrapporre una sua presa di coscienza delle vere possibilità della produzione diretta a quella serie di bisogni reali dell’uomo che sono più facilmente individuabili a livello di collettività che a livello del singolo.

3.4 · Il corso di Roma L’ultimo ad essere fondato, nel 1965, con l’intervento di Argan e ad opera di Aldo Calò, direttore dell’istituto d’arte a cui era annesso, fu il Corso superiore di disegno industriale di Roma. La sede in cui fu collocato il corso era la stessa che l’istituto d’arte condivideva con l’istituto tecnico industriale “Galileo Galilei”: un edificio progettato per accogliere il Regio istituto nazionale di istruzione professionale, un modello di scuola-fabbrica provvista di capannoni, officine e laboratori, in cui fu anche trasferito il Museo artistico industriale di Roma prima della 54.  Si veda, di contro, la posizione di Argan, citata all’inizio della terza sezione di questo capitolo. 55.  Ad esempio, il ramo della prefabbricazione edilizia e quello dell’oggetto d’uso. 56.  P. Spadolini intervistato da F. Menna; in Menna, Inchiesta sull’insegnamento del disegno industriale, cit. 57.  Intervento di P. Spadolini, in Menna, Problemi delle scuole di disegno industriale, cit.


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definitiva chiusura. Tra il corso superiore e l’istituto d’arte si percepivano rapporti di reciproca diffidenza e ostilità – rispettivamente visti l’uno come “scuola d’élite” e l’altro come istituzione ormai superata – mitigati dalla figura del direttore Calò, che aveva lasciato al Corso di disegno industriale una certa autonomia didattica e di sperimentazione. La scuola nasceva in una collocazione particolare – anche se non nuova per una scuola di disegno industriale – di estraneità dai centri produttivi Il contesto culturale romano, benché vivace e ben disposto nei confronti dell’iniziativa, era caratterizzato da una quasi totale assenza di industrie. Lo stesso Calò individuava in questo un vantaggio per la scuola, che evitava così le dirette interferenze del settore produttivo ed era portata, piuttosto, ad allacciare rapporti esclusivamente in condizioni di reciproca autonomia. Un altro vantaggio era riconosciuto nel carattere sperimentale che la scuola avrebbe dovuto mantenere per evitare l’immobilità, sviluppando metodi didattici e pedagogici sempre nuovi, in linea con il rapido sviluppo della società: una scuola che essendo estranea all’ambito universitario si configurò come « anti-accademica ed anti-cattedratica »58. Inoltre, il contesto culturale degli anni sessanta era ancora povero sul piano editoriale di strumenti di informazione, studio e riflessione sulla disciplina, soprattutto in lingua italiana. Peraltro, la nozione stessa di disegno industriale, la sua natura, i suoi confini e il suo ambito d’azione non erano chiaramente determinati neppure per gli stessi docenti. Il carattere sperimentale e piuttosto autonomo rispetto alla centralità ministeriale unito alla relativa indeterminatezza della didattica permisero di affermare presto una un clima democratico e di collaborazione nei rapporti tra studenti, docenti e apparato burocratico – con un certo anticipo rispetto allo spirito del 1968 e con notevole distanza dalla scuola di Venezia. Tale clima si concretizzò in assemblee di studenti e docenti organizzate dall’anno accademico 1966-67 per discutere le linee didattiche e culturali del corso. In una di queste assemblee fu addirittura proposta da un gruppo di studenti, e subito accolta da Calò, l’istituzione di un corso in comunicazioni visive59, che assumesse il carattere di corso autonomo accanto a quello di disegno industriale. Dall’anno accademico seguente la sezione – diretta dal pittore Achille Perilli – fu effettivamente attivata e la scuola di Roma cambiò deno58.  Intervento di A. Calò, in Menna, Problemi delle scuole di disegno industriale, cit. 59.  L’indicazione veniva da Achille Perilli, che suggeriva di sostituire con questo corso quello di styling che gli era stato assegnato.


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minazione in Corso superiore di disegno industriale e comunicazioni visive (CSDICV). Altre proposte più “rivoluzionarie” – quale, ad esempio, l’abolizione di voti ed esami – non ebbero seguito in provvedimenti concreti. Inizialmente Argan svolse per l’Istituto di Roma lo stesso ruolo che Spadolini aveva svolto per Firenze, designando il primo gruppo di docenti – tra cui alcuni esponenti del Gruppo Uno da lui sostenuto. Lo stesso Argan fu docente di storia dell’arte e del disegno industriale, poi sostituito da Filiberto Menna. Altri insegnanti di un certo rilievo furono Perilli, Maurizio Sacripanti, e, provenienti dalla HfG di Ulm, Andries van Onck, Paola Mazzetti, Rodolfo Bonetto e Giovanni Anceschi. Inoltre la scuola organizzò numerose conferenze e seminari ai quali parteciparono personaggi italiani della levatura di Umberto Eco, Munari, Provinciali e Steiner, oltre ad altri esponenti – docenti ed ex studenti – della scuola di Ulm, tra cui Maldonado, Martin Kramper e Pio Manzù, a conferma del legame, non soltanto ideale, che la scuola di Roma ebbe con quell’esperienza. Il collegamento con la scuola tedesca si mantenne soprattutto sul piano metodologico: la pratica progettuale veniva svolta con una linea che privilegiava la metodologia e il lavoro di gruppo, e che in alcuni casi tendeva – come a Ulm – alla metodolatria60. Racconta Gianni Trozzi61 che fu proprio van Onck ad introdurre nel corso il PERT62: si trattava di un procedimento basato sulla rappresentazione grafica dell’iter progettuale, in modo da considerarne criticità, tempi, compiti specifici; un programma che ebbe molto successo e che molto spesso fu considerato tanto importante da diventare esso stesso un progetto in sé. In generale – sempre in analogia con il modello di Ulm – la scuola si orientò al progetto non di singoli oggetti ma di sistemi di oggetti, e fu caratterizzata da un certo impegno politico e ideologico di molti docenti e studenti. Tuttavia gli estremismi di fiducia positivista-razionalista della HfG di Ulm furono tenuti distanti dal corso romano, che invece contemplava anche un approccio atropologico-sociale al disegno industriale e le componenti inconsce, irrazionali o intuitive del processo progettuale.

60.  Si veda, a tal proposito, l’approfondimento sulla Hochschule für Gestaltung di Ulm nel paragrafo 3.3 del capitolo terzo. 61.  G. Trozzi, Quelli di via Conte Verde. Per una storia del Corso superiore di disegno industriale e comunicazioni visive di Roma, in “Progetto Grafico” n.1, luglio 2003. 62.  Acronimo di Program Evaluation and Review Technique.


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3.5 · La scuola di Urbino Una storia a parte ebbe invece il Corso superiore di arti grafiche (CSAG) di Urbino, istituito, come i precedenti, all’interno del locale istituto d’arte nel 1962. Francesco Carnevali, arrivato nel 1925 a insegnare a Urbino presso l’istituto d’arte63, dal 1942 ne assunse la direzione. Si trattava all’epoca di una scuola ancora molto legata alle tecniche grafiche e di editoria tradizionali quali incisione, legatoria, composizione. Carnevali fu, però, in grado di intuire l’esigenza di rinnovamento in senso moderno della scuola, nella quale istituì dagli anni cinquanta i laboratori di disegno animato, fotografia e grafica editoriale. Per la stessa ragione, prima di ultimare il suo mandato, chiese al Ministero la possibilità di aprire un corso superiore come quelli che si andavano attivando presso gli altri istituti d’arte, dedicato all’editoria. Con la collaborazione di Enrico Gianni (ingegnere cartotecnico) promosse così la nascita del Corso superiore di arti grafiche di Urbino, chiamando i due grafici Albe Steiner e Giancarlo Illiprandi, già attivi presso la Scuola del libro di Milano64, a impostare i programmi didattici e gli orientamenti del corso. Steiner, che presso il CSAG ricoprì il ruolo di insegnante di arte del libro e storia dell’arte grafica, prima di accettare l’incarico di Urbino aveva rifiutato una simile proposta proveniente dal CSDI di Venezia: gli era stato chiesto di tenere un corso di pubblicità, ma non accettò perché riteneva che questa non avesse nulla a che fare col disegno industriale. Ben diverso era dal suo punto di vista il caso di Urbino, invece, in cui esisteva già un istituto di tradizione secolare spinto verso il desiderio di rinnovarsi nell’ambito dell’attività editoriale di grande serie. Il primo direttore della scuola fu l’incisore Pietro Sanchini, ma è al coordinamento, all’impostazione culturale – in definitiva alla personalità – di Steiner che si deve la fama della scuola, l’unico importante centro di formazione di progettisti grafici dell’epoca, oltre la già citata scuola di Milano. Egli impostò il corso superiore garantendo ampio spazio allo studio della storia, al disegno dei caratteri e soprattutto a un impegno etico e civile del grafico, mettendo in secondo piano l’aspetto estetico-formale rispetto al contenuto

63.  Proprio in quell’anno (1925) l’istituto acquisiva la specifica denominazione di Istituto d’arte per la illustrazione e la decorazione del libro, comunemente noto come “Scuola del Libro”. 64.  Facente parte dei corsi della Società Umanitaria.


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della comunicazione: un metodo educativo che era un tutt’uno con il suo approccio professionale. Risultato più o meno diretto di questo orientamento è quella che lo stesso Steiner chiama « grafica di utilità pubblica »65, di cui il maggiore esempio è il progetto del 1970 di immagine coordinata per il Comune di Urbino, elaborato proprio dagli studenti del Corso superiore con la supervisione di Steiner. Un lungo lavoro che si concretizzò in un sistema estremamente organico e completo di immagine istituzionale e relazionale: il progetto prevedeva dai manifesti agli stampati istituzionali, agli orari degli autobus, alla segnaletica stradale e così via, e fu in gran parte applicato dall’amministrazione comunale almeno nel periodo subito successivo alla progettazione. Dal 1971, tuttavia, Steiner non insegnò più a Urbino e al suo posto subentrò Michele Provinciali. I corsi superiori delle quattro città italiane66 furono, in generale, delle esperienze che rispondevano al tentativo di innestare il discorso della scuola di disegno industriale sulla questione del più ampio rinnovamento dell’istruzione artistica. Restano, come tali, molto rilevanti e intense, tuttavia relativamente brevi, con una vita media che non andò mai oltre i dieci anni. Nel 1970, infatti, il Ministero della pubblica istruzione comunicò che a partire da ottobre dello stesso anno i corsi superiori annessi agli istituti d’arte di Venezia, Firenze e Roma non avrebbero potuto più accettare iscrizioni al primo anno di corso67. Questa brusca chiusura ad esaurimento aveva una duplice motivazione: da un lato la promessa per un progetto di riforma di queste scuole con lo scopo di portarle a livello universitario; dall’altro la mancata collaborazione economica degli enti locali. Nel frattempo erano sopraggiunti gli anni delle contestazioni studentesche – il cosiddetto sessantotto – a cui neppure i CSDI furono estranei, ed erano state varate nel corso degli anni sessanta alcune importanti riforme che trasformarono radicalmente il sistema dell’istruzione italiano.

65.  A. Steiner, Il mestiere di grafico, Einaudi, Torino 1978. 66.  Se ne devono aggiungere altri due, attivati a Parma e Faenza, tuttavia meno rilevanti nel panorama della formazione al design per il fatto di essere rimasti strettamente legati alla produzione locale: quello di Faenza, ad esempio, era stato istituito nel 1961 come Corso superiore di disegno industriale e tecnologia ceramica, presso l’Istituto d’arte per la ceramica della città. 67.  La disposizione ministeriale non toccò né il corso di Urbino, che proseguì la sua attività venendo direttamente trasformato in Isia dall’anno accademico 1974-75, né quello di Faenza che fu trasformato in Isia molto più tardi, nel 1979-80.


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3.6 · Riforme degli anni sessanta, dibattito anni settanta La prima significativa riforma dell’assetto dell’istruzione italiana fu la legge del 31 dicembre 1962, n. 1859, che prevedeva l’istituzione della scuola media statale unificata e il suo ordinamento68. Già la precedente riforma Bottai del 1940 – l’unico intervento approvato tra quelli della “Carta della scuola” promossa dal regime – aveva unificato il ginnasio inferiore, istituto magistrale inferiore e istituto tecnico inferiore, ovvero i primi tre anni delle sole scuole che consentivano il proseguimento degli studi. La nuova riforma, oltre a formalizzare il rispetto dell’obbligo scolastico fino ai 14 anni, consentì, al termine del periodo d’istruzione obbligatoria, di accedere con il diploma di scuola media a qualsiasi tipo di scuola secondaria superiore. Con la soppressione dei vari indirizzi di scuola media inferiore, la scelta del percorso di studi veniva, quindi, posticipata di tre anni rispetto al termine delle scuole elementari. L’eccezione restava per i corsi inferiori delle scuole e istituti d’arte e dei conservatori che, pur trasformati in scuole medie, conservavano la loro dipendenza dalle strutture di cui facevano parte e prevedevano un’integrazione del piano di studi con materie specializzate specifiche e caratterizzanti (art. 16). Sette anni più tardi, nel 1969, fu varata la legge n. 910 per la liberalizzazione degli accessi universitari69, formulata sulla scia del clima di protesta della seconda metà degli anni sessanta culminato nelle contestazioni studentesche del sessantotto. L’art. 1, di quella che si può considerare la prima grande riforma universitaria del secondo dopoguerra, sancisce che chiunque sia in possesso di un diploma di scuola secondaria superiore può iscriversi a qualunque facoltà universitaria70. Decade in tal modo la sostanziale diffe68.  Il testo dell’art. 1: « In attuazione dell’Art. 34 della Costituzione, l’istruzione obbligatoria successiva a quella elementare è impartita gratuitamente nella scuola media, che ha la durata di tre anni ed è scuola secondaria di primo grado. La scuola media concorre a promuovere la formazione dell’uomo e del cittadino secondo i principi sanciti dalla Costituzione e favorisce l’orientamento dei giovani ai fini della scelta dell’attività successiva ». Legge 1859/62, art. 1. 69.  Legge dell’11 dicembre 1969, n. 910, Provvedimenti urgenti per l’Università. 70.  Dal testo dell’art. 1: « Fino all’attuazione della riforma universitaria possono iscriversi a qualsiasi corso di laurea: a) i diplomati degli istituti di istruzione secondaria di secondo grado di durata quinquennale, ivi compresi i licei linguistici riconosciuti per legge, e coloro che abbiano superato i corsi integrativi previsti dalla legge che ne autorizza la sperimentazione negli istituti professionali; b) i diplomati degli istituti magistrali e dei licei artistici (nota: di durata quadriennale) che abbiano frequentato, con esito positivo, un corso annuale integrativo, da


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renziazione tra licei e istituti professionali, e il vincolo che permetteva solo a chi avesse frequentato il liceo classico o scientifico, l’istituto magistrale o l’istituto tecnico di proseguire il percorso di studi all’università conformemente all’indirizzo secondario scelto. Nel giro di un decennio, le novità introdotte con le due riforme richiamate riuscirono ad allargare notevolmente la porzione di popolazione italiana che poteva usufruire dell’istruzione scolastica e avere accesso all’università. Alla legge 910/69, in particolare, si ritiene di poter attribuire il cambiamento maggiormente significativo dell’università italiana. Successivamente, durante gli anni settanta furono promossi alcuni dibattiti, momenti di incontro, ed elaborati una serie di documenti, con la precisa volontà di dare fisionomia a strutture didattiche che però non trovarono immediata finalizzazione. Parallelamente, sia per via della crisi e conseguente chiusura dei corsi superiori di disegno industriale, sia per la crescente richiesta di preparazione a quelle che venivano viste come nuove professioni, si ebbe un incremento notevole di scuole e corsi privati dedicati alle discipline del progetto, concentrati soprattutto nell’Italia del nord. Nel 1970, durante la settimana del design71 (16-24 maggio), fu indetto dall’ADI un convegno internazionale di studi sul design, con il quale l’associazione si proponeva « di dibattere il problema dell’insegnamento del design e di discutere le prospettive disciplinari, nell’intento di far partecipare la tematica della formazione del designer al dibattito generale intorno alle funzioni e al significato del servizio universitario ». Le tesi principali del dibattito vertevano, dunque, sull’inserimento del disegno industriale all’interno delle università. In particolare si distinse la posizione di Maldonado, già espressa anche in altre sedi, il quale proponeva una più ampia e diversa nozione di università organizzata in dipartimenti, che fossero strutturati per problemi anziché per discipline o gruppi di discipline. Nel caso delle materie di progettazione egli delineava la possibilità della costituzione di un dipartimento di design ambientale che si occupasse dei problemi relativi all’ambiente fisico in cui l’uomo vive e opera. Posizione che trovava riscontro anche nell’intervento di Giuseppe Ciribini, il quale constatava il organizzarsi dai provveditorati agli studi, in ogni provincia, sotto la responsabilità didattica e scientifica delle università, sulla base di disposizioni che verranno impartite dal Ministro per la pubblica istruzione. […] ». Legge 910/69, art. 1. 71.  Il convegno, patrocinato dall’ICSID, si svolse il 23 e 24 maggio presso il Museo della scienza e della tecnica di Milano.


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superamento dell’idea di insegnamenti separati, autonomi e fini a se stessi, avanzando l’ipotesi di una pratica interdisciplinare capace di rendere evidente, nel momento dell’azione, la necessaria connessione tra le discipline. Nonostante queste premesse, circa l’inclusione del disegno industriale nelle università italiane prevalse la posizione contraria di Calò72, motivata dal fatto che l’estraneità dall’ambiente accademico dei corsi di disegno industriale avesse rappresentato una effettiva risorsa per queste scuole e garantito una più stretta connessione tra scuola e società. Fu infatti lo stesso Calò a proporre al Ministero, in concomitanza della chiusura dei corsi superiori annessi agli istituti d’arte il progetto degli Isia – appoggiandosi al RD del 31 dicembre 1923, n. 3123, che li prevedeva – ovvero scuole autonome sia dal punto di vista finanziario che organizzativo, per ciò che concerneva gli organi di governo e amministrativi. La struttura che egli ipotizzò aveva già in sé, in linea di massima, le caratteristiche che serebbero state, poi, quelle peculiari delle future scuole: massima flessibilità dell’ordinamento didattico a garanzia della sperimentazione quale connotato istitutivo, due principali organi di gestione della scuola, Consiglio di amministrazione e Collegio dei professori, che includessero oltre agli studenti anche noti professionisti del settore, e la previsione di quattro anni di corso di studi. 3.7 · Fondazione degli Isia, Dams di Bologna Nel 1972 il Ministro della Pubblica Istruzione Oscar Luigi Scalfaro incaricò il direttore dell’Istituto d’arte di Roma, Aldo Calò, già docente e direttore del CSDI di Roma, di avviare in via sperimentale un Istituto Superiore per le Industrie Artistiche (ISIA), con una lettera che ne regolava il funzionamento. Nel 1973 con una nota ministeriale73 venne ufficialmente inaugurato l’Isia di Roma, il primo in Italia, fondato da Argan e diretto ancora una volta da Calò. Non più quindi un corso legato a un istituto d’arte ma una istituzione autonoma, regolata da un proprio Comitato direttivo. I corsi, di durata quadriennale, ricevettero anche il riconoscimento dall’Ufficio europeo del BEDA74 come Scuole di formazione per progettisti nelle articolate aree del Design, nella fascia alti studi accademici con riconoscimento internazionale.

72.  Questo suo punto di vista era già maturato durante gli anni di direzione del CSDI di Roma. 73.  Nota Ministeriale n. 3700/73, Decreto Ministeriale del 25 gennaio 1979. 74.  Acronimo di The Bureau of European Design Association.


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Successivamente, dall’anno accademico 1974-75 iniziava le sua attività anche l’Isia di Urbino75. L’Isia di Firenze fu istituito, invece, nell’anno successivo76. E infine, soltanto nel 1979-80 vide la nascita anche l’ultimo Isia a Faenza77. La trasformazione dei decreti di istituzione e regolamentazione degli istituti superiori per le industrie artistiche in legge si ebbe soltanto nel 1993 – con la legge n. 318, del 12 agosto 1993 – per decisione della Corte dei Conti che, nel 1992, aveva ritenuto l’attivazione dei quattro Isia attuata praeter legem. La legge del 1993 confermò, tuttavia, soltanto un dato di fatto e cioè l’esistenza delle scuole attivate dai precedenti decreti. Quel vuoto legislativo, protrattosi in realtà ben oltre il 1993, permise, negli anni, di organizzare, con ampi margini di libertà, l’attività didattica e, in un certo senso, anche le strutture amministrative e il loro funzionamento. Questo ha permesso di attualizzare di volta in volta gli obiettivi formativi degli Isia, che restavano istituite in via sperimentale. Per più di un ventennio i quattro istituti superiori sono rimasti le uniche scuole di design – disegno industriale, grafica e comunicazione visiva – in Italia, a livello istituzionale. Ognuno dei quattro Isia sì è evoluto, nel corso del tempo, in maniera piuttosto indipendente rispetto agli altri, con le proprie vicende storiche e caratteristiche peculiari, dipendenti dagli orientamenti didattici che di volta in volta sono stati impressi dai docenti che vi si sono avvicendati. Tuttavia, fino alla riforma dell’istruzione superiore della fine degli anni novanta78, le quattro scuole hanno conservato un impianto comune – in qualche modo ereditato dai precedenti corsi superiori – che le distingueva dal resto delle istituzioni di livello universitario e dalle scuole dedicate alla formazione dei progettisti. In sintesi: –– l’organo di governo delle scuole, nominato dal Ministero, era costituito da un Comitato scientifico didattico, composto da docenti universitari e professionisti di chiara fama, col compito di pianificare le strategie didattiche e nominare i docenti; –– il Collegio dei docenti affiancava il comitato con soli poteri consultivi; 75.  Istituito con Decreto Ministeriale del 10 ottobre 1974, Decreto Ministeriale del 1 settembre 1975. 76.  Con Decreto Ministeriale del 15 settembre 1975. 77.  Istituito con Decreto Ministeriale del 25 gennaio 1979. 78.  Si vedano più avanti i paragrafi 4.6 e 4.7 di questo capitolo.


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–– l’intero corpo docente, scelto dal comitato scientifico didattico, era assunto con contratti annuali di prestazione d’opera intellettuale; –– annualmente, il comitato scientifico didattico proponeva al Ministero il piano di studi per l’anno accademico successivo, dopo aver esaminato l’esito delle attività dell’anno precedente; –– le scuole erano rette da un coordinatore, garante delle direttive ministeriali ed esecutore delle delibere del comitato; –– l’insegnamento era fortemente connotato dalla presenza di laboratori e orientato alla realtà produttiva. Pertanto, tutte le decisioni dovevano essere vincolate esclusivamente ai pareri obbligatori del comitato scientifico didattico, e una tale struttura decretava una certa precarietà del corpo docente, dando la possibilità di cambiare troppo facilmente tutto l’impianto didattico, e quindi l’orientamento educativo della scuola, con tutte le conseguenze – sia positive sia negative – che questo comportava. Infine, vale la pena segnalare l’esperienza del Dams79 dell’Università di Bologna. Fondato alla fine degli anni settanta con padrini di eccellenza quali, tra gli altri, Umberto Eco, Renato Barilli, Benedetto Marzullo, Adelio Ferrero, si può ancora oggi considerare il primo esperimento in ambito accademico di insegnamento di materie legate alle arti e allo spettacolo. Significativo è che tra i primi docenti chiamati a insegnare ci fosse Maldonado, come professore ordinario di progettazione ambientale dal 1976 al 1984, già attivo in Italia grazie a progetti di collaborazione con aziende quali Olivetti e La Rinascente, e da poco reduce dall’esperienza di docente e rettore della Scuola di Ulm. Giovanni Anceschi, presso lo stesso corso, fu chiamato a insegnare dal 1975 al 1987,come docente di sistemi grafici e teoria delle forme. Come egli stesso riporta80 a proposito dei rapporti tra Ulm e l’Italia: C’è stato un momento in cui presso il DAMS dell’Università di Bologna, con Maldonando alla cattedra di progettazione ambientale, Martin Krampen a quella di comunicazioni di massa, il ventilato arrivo di Gui Bonsiepe a disegno industriale, e io stesso a sistemi grafici, con l’appoggio di “fiancheggiatori” come Omar Calabrese per l’area semiotica, Attilio Marcolli per l’area basic, e con Pierluigi Cervellati, Giorgio Muratore e Vittorio Savi per l’area architettonico-urbanistica, o altri come Marco Mondadori, 79.  Per esteso: Corso di laurea in discipline delle arti, della musica e dello spettacolo. 80.  G. Anceschi, P.G. Tanca, Ulm e l’Italia, in il contributo della scuola di Ulm, “Rassegna” n. 19, numero monografico, settembre 1984.


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Marco Santambrogio e Salvatore Veca per l’area logico-matematica-filosofica si è avuta una sezione di progettazione che avrebbe potuto proporre una versione aggiornata del modello ulmese. Ma le prudenze dell’Accademia italiana sono sconfinate e l’ipotesi restò tale.

Inizialmente, nell’ambito degli Istituti – precedenti al sistema dipartimentale costituito nel 1980 in via sperimentale81 – il corso era grossomodo organizzato in tre sezioni: una ad orientamento teorico, incentrata sulla semiotica e sulla filosofia delle comunicazioni, facente capo a Eco; una seconda relativa allo spettacolo, ad orientamento teorico e di pratica spettacolare; e una terza ad orientamento specificamente progettuale, che faceva capo a Maldonado. Il Dams non mirava, tuttavia, a formare dei veri e propri professionisti – tecnici della comunicazione e operatori pragmatici – ma restava pur sempre orientato alla teoria, alla semiotica essendo del resto un corso di laurea della facoltà di lettere e filosofia. La figura professionale di riferimento poteva al massimo essere quella di esperto di comunicazioni visive e anche le esercitazioni pratiche avevano più la funzione di strumenti didattici con valore conoscitivo, mettendo in grado gli studenti di comprendere i complessi funzionamenti dei processi progettuali e ideativi della grafica piuttosto che fornire le competenze necessarie alla professione. Oggi la classe delle lauree in discipline delle arti figurative, della musica, dello spettacolo e della moda, eredità del vecchio indirizzo Dams, ha infatti un taglio più storico-critico e teorico, mantenendo poco in comune con le premesse descritte da Anceschi.

4 · Insegnamento del design nelle università 4.1 · Contesto universitario degli anni ottanta L’11 luglio del 1980 viene emanato Il Decreto del Presidente della Repubblica n. 382, Riordinamento della docenza universitaria, relativa fascia di formazione nonché sperimentazione organizzativa e didattica.

81.  Si fa riferimento al DPR 11 luglio 1980, n. 382, Riordinamento della docenza universitaria, relativa fascia di formazione nonché sperimentazione organizzativa e didattica; in particolare al Titolo III, Sperimentazione organizzativa e didattica. Per approfondire si veda più avanti il paragrafo 4.1 di questo capitolo.


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Nel titolo primo, l’art. 1 istituiva la ripartizione tra docenti straordinari e ordinari e docenti associati, con diverse funzioni ma stessa libertà didattica e di ricerca; stabiliva la possibilità di chiamare professori a contratto per cooperare alle attività di docenza; e istituiva il ruolo dei ricercatori universitari, a cui non potevano però essere conferiti incarichi di insegnamento. L’art. 32, in particolare, stabilisce i loro compiti82: I ricercatori universitari contribuiscono allo sviluppo della ricerca scientifica universitaria e assolvono a compiti didattici integrativi dei corsi di insegnamento ufficiali. Tra tali compiti sono comprese le esercitazioni, la collaborazione con gli studenti nelle ricerche attinenti alle tesi di laurea e la partecipazione alla sperimentazione di nuove modalità di insegnamento ed alle connesse attività tutoriali.

Ai professori nominati ordinari e ai ricercatori universitari veniva richiesto di presentare, al consiglio di facoltà, una relazione sul proprio operato scientifico, rispettivamente ogni due e ogni tre anni. Con gli articoli raccolti sotto il titolo quarto, lo stesso decreto concedeva alle università di avviare la sperimentazione organizzativa e didattica « intesa come individuazione e verifica di nuove modalità di espletamento dell’attività di ricerca e di insegnamento »83. In particolare l’art. 83 permetteva di avviare la costituzione di dipartimenti – gli stessi cui si accennava più sopra e che esistono ancora oggi –, ovvero di strutture organizzative interne agli atenei, dotate di autonomia amministrativa e finanziaria, che raccoglievano, come è previsto tuttora, settori di ricerca e insegnamenti affini, « omogenei per fini o per metodo »84. La loro funzione è di promozione, coordinamento e verifica dell’attività di ricerca, nonché di supporto all’attività didattica. Il decreto consente anche di costituire dipartimenti interuniversità, e centri di ricerca interuniversitari quali strumenti di collaborazione scientifica tra docenti di università diverse, comprese quelle straniere. Inoltre l’art. 92 si indirizzava ai docenti concedendo loro la possibilità di sperimentare nuove attività didattiche « rivolte a rendere più proficuo l’insegnamento »85 in relazione sia ai dipartimenti sia, soprattutto, alle « connessioni con istituzioni ed enti culturali, scientifici ed economici pubblici

82.  DPR 382/1980, art. 32. 83.  DPR 382/1980, art. 81. 84.  DPR 382/1980, art. 83. 85.  DPR 382/1980, art. 92.


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o privati »86 dell’area geografica in cui l’università ha sede. Veniva, infine, lasciato ampio margine alla sperimentazione di modalità di studio e di frequenza, per agevolare la preparazione degli studenti. Per quanto riguarda specificatamente l’area della progettazione, la situazione rimaneva, tuttavia, la stessa a parte la comparsa a singhiozzi di nuovi insegnamenti pur sempre inseriti nel contesto delle facoltà di architettura. Ad esempio, nel 1982, con il nuovo ordinamento delle facoltà di architettura, veniva introdotta tra le materie opzionali, la disciplina di Strumenti e tecniche di comunicazione visiva, un titolo controverso per una materia che principalmente riproponeva agli studenti le problematiche dei processi percettivi e della comunicazione visiva, già affrontate con diverso approfondimento nei corsi dell’area della rappresentazione. La facoltà di architettura del Politecnico di Milano fu la prima ad avviare, nel 1984, in forma sperimentale, l’indirizzo di laurea in disegno industriale e arredamento. Addirittura il venticinque per cento degli iscritti, su un totale di oltre diecimila, scelse in quell’anno il nuovo indirizzo87. L’offerta didattica da parte dei docenti appartenenti all’area disegno industriale era però insufficiente per il numero di iscritti. All’interno dell’indirizzo, in cui si distinguevano quattro corsi, si riscontrava una certa mancanza di strutture e spazi adeguati, di denaro e laboratori. Si poneva il problema di trovare una linea di insegnamento né professionalizzante né specialistico, dovendosi adattare alla didattica tendenzialmente fondativa e generalizzante delle facoltà universitarie. La formula adottata metteva l’accento sulla metodologia e sull’analisi della complessità del processo progettuale, piuttosto che sul design come disciplina o mestiere. Operativamente quello che si stava attuando era un insegnamento per progetti “a breve termine”, anche con la collaborazione delle aziende, che principalmente assistevano agli studenti nella realizzazione di modelli o organizzavano visite nei loro stabilimenti. Dal 1984 lo stesso Maldonado era presente al Politecnico di Milano in qualità di professore ordinario di progettazione ambientale, e fu proprio lui a favorire più tardi – insieme ad un gruppo di docenti di cui faceva parte anche Giovanni Anceschi – la fondazione di un vero e proprio corso di laurea in disegno industriale, premessa per la successiva Facoltà del design (dal 2000).

86. Ibidem. 87.  Dati tratti da F. Trabucco, Esperienze didattiche e progettuali nel corso di disegno industriale, in N. Sinopoli (a cura di), Design italiano: quale scuola?, Franco Angeli, Milano 1990.


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Nell’ambito della comunicazione visiva e progettazione grafica oltre agli sporadici insegnamenti citati – svolti nelle facoltà di Milano (Politecnico) e di Bologna (Dams) tenuti peraltro dagli stessi docenti – non esistevano altri percorsi istituzionali se non quello offerto dall’Isia di Urbino. Per il resto, è sufficiente a dare un’idea della situazione italiana il testo di Luisa Steiner88 che presenta un’indagine, promossa nel 1982 dalla rivista “Linea Grafica”, su Le scuole di grafica in Italia: Basta leggere gli elenchi sulle “pagine gialle” delle varie città italiane per trovarsi di fronte a una quantità incredibile di istituti o scuole che offrono diplomi di ogni genere, ordine e grado, per rendersi conto dell’assurdità e della poca serietà di questo settore che troppo spesso approfitta delle necessità del mercato che ha bisogno dei così detti “persuasori occulti”, promettendo titoli e qualifiche che nella pratica non sono che pezzi di carta senza alcun valore reale.

Pochissime infatti sono le scuole di grafica serie, in grado di portare gli allievi ad un buon livello di preparazione; eppure, come si è detto, sulla carta gli istituti sono molti, anzi moltissimi. Si trattava della moltitudine di corsi privati attivati in Italia già dagli anni sessanta e settanta, principalmente a livello di istruzione secondaria o di formazione professionale. L’assenza di un ordinamento istituzionale generale veniva considerato la questione principalmente responsabile della strutturazione di queste scuole private in corsi « senza dei veri e propri parametri comuni »89: Si opera così un enorme spreco di energie prima perché si studia male, poi perché i primi anni di lavoro si devono impiegare necessariamente per colmare tutte le lacune che la scuola ha dato o lasciato, quando non sia addirittura necessario ripartire da zero ricostruendo dalla base ogni cosa.

Sicuramente però questo scenario esprimeva anche un crescente interesse per il settore, confermato anche da un’attenzione più generale al progetto grafico e di comunicazione, che ha investito gli ambienti professionali e intellettuali per tutto l’arco del decennio.

88.  L. Steiner, Le scuole di grafica in Italia, in Speciale scuole, “Linea Grafica”, n. 3, 1982. 89.  Ibidem.


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4.2 · Grafica come design Una serie di eventi come pubblicazioni, mostre o momenti di confronto susseguitisi nel corso degli anni ottanta, aveva portato professionisti e teorici a riflettere sul tema della grafica e guardare retrospettivamente alla storia del mestiere, tracciandone il percorso e le prospettive future e tentando anche una sorta di fondamento disciplinare (anche a fronte delle evoluzioni tecniche-tecnologiche della fine del decennio). Una ragionata e ampia lista di questi eventi per così dire “coincidenti” è riportata da Gelsomino d’Ambrosio e Pino Grimaldi – insegnanti presso l’Isia di Urbino in quegli anni – sulle pagine della rivista “Grafica”90. Tra i più importanti: nel 1980 veniva pubblicato il saggio La scrittura tra ideologia e rappresentazione di Antonio Petrucci (contenuto nella Storia dell’arte italiana, Einaudi 1980), che apre gli orizzonti disciplinari ad epoche precedenti la rivoluzione industriale, a Napoli si promuoveva una manifestazione su “La comunicazione grafica delle organizzazioni e delle istituzioni democratiche” a cui parteciparono anche Massimo Dolcini, Menna, Provinciali e Lica Steiner; nel 1981 si teneva un incontro presso la Scuola umanitaria (Milano) a margine della mostra “Il progetto grafico, venti interventi nel nostro quotidiano” organizzato da Illiprandi, Alberto Marangoni, Anty Pansera, Roberto Sambonet; nello stesso anno usciva Monogrammi e Figure di Anceschi; il numero 6 della rivista “Rassegna” (aprile 1981) dedica un inserto monografico – con testi di Maldonado, Anceschi, Calabrese, Franco Fortini e altri – alla definizione del campo della grafica italiana; nel 1983 veniva pubblicato il n. 70 di “Ottagono” sul design microambientale, con un testo di Anceschi sul basic design; nello stesso anno usciva su “Op. cit.” l’articolo E se Gutenberg fosse un designer? di D’Ambrosio, Grimaldi e Lenza discusso poi in un incontro a Napoli con altri designer e storici; l’INARCH a Roma ospitava un incontro organizzato da Giovanni Lussu dal titolo “Grafica e Ambiente”; nel 1984 allo Iuav si teneva un convegno in preparazione della Biennale di Cattolica (evento singolo che si terrà nello stesso anno ma senza continuità); nel 1985 usciva il primo numero di “Grafica”, rivista semestrale di teoria, storia e metodologia, e viene organizzata una serie di incontri e manifestazioni per presentarla; veniva inaugurata una mostra sul lavoro di Massimo Dolcini; la Triennale di Milano bandiva 90.  G. D’ambrosio, P. Grimaldi, Docere Movere Delectare, sulla didattica della progettazione grafica, in “Grafica”, n.13-14, autunno 1994.


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un concorso per il progetto del proprio marchio; nel 1986 un numero della rivista “Alfabeta” veniva interamente dedicato al graphic design; nel 1988 a Bologna si teneva l’importante mostra “Disegnare il libro. Grafica editoriale in Italia dal 1945 ad oggi”; in tutto il decennio erano, inoltre, ricorrenti gli incontri organizzati da Franco Balan ad Aosta e in altre sedi sul tema della grafica di pubblica utilità; infine nel 1989 viene elaborata la “Carta del progetto grafico” da un gruppo di progettisti tra cui Anceschi, Lussu, Marangoni e Illiprandi e Giovanni Baule. Oltre a una generale presa di coscienza della storia della disciplina e del ruolo del progettista, in diverse pubblicazioni veniva promossa l’idea che la grafica appartenesse, per diverse ragioni, alla sfera del design, il che è forse uno degli aspetti insieme più controversi e interessanti del dibattito. Ad esempio, nel saggio di D’Ambrosio, Grimaldi e Lenza91 si discuteva non soltanto del rapporto tra la stampa – la sua origine e il suo sviluppo – e le dinamiche di progettazione e produzione industriale, ma si individuava addirittura nei primordi dell’editoria, con un’operazione fortemente analitica, il germe della contrapposizione – tutta moderna e contemporanea – tra grafica e pubblicità, ovvero tra un tipo di comunicazione orientata al trasferimento e rappresentazione di contenuto o di informazione e un’altra che mira invece alla presentazione. Due anni più tardi Renato De Fusco dedicava il primo capitolo92 della sua Storia del design all’invenzione e diffusione della stampa nel XV-XVI secolo. Nel rintracciare i precedenti della storia che si apprestava a esporre, pur essendo possibile risalire ad antiche produzioni di oggetti in serie e a manifatture organizzate già secondo la moderna divisione del lavoro, benché fosse d’altra parte diffusa l’opinione per la quale non si ritenesse possibile parlare di disegno industriale prima dell’avvento della rivoluzione industriale93, egli sosteneva che il settore della stampa avesse anticipato di oltre tre secoli quella rivoluzione e potesse, per molte ragioni, considerarsi un’attività nel pieno dominio del design. L’idea era già di Dorfles che nel 1972, in merito alla stampa, scriveva94: 91.  G. D’Ambrosio, P. Grimaldi, C. Lenza, E se Gutenberg fosse un designer?, in “Op. cit.”, n. 58, settembre 1983. 92.  Titolo del capitolo: La stampa come design; R. De Fusco, Storia del design, Laterza, Bari 1985 93.  Si veda il paragrafo 1.2 del capitolo terzo. 94.  G. Dorfles, Introduzione al disegno industriale, Einaudi, Torino 1972; citato da De Fusco, op. cit.


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La stampa ha costituito l’atto di nascita dell’industria, dal momento che la meccanizzazione dell’arte di scrivere è stata probabilmente la prima riduzione di un lavoro in termini meccanici. […] la stampa comportò una rivoluzione nella concezione stessa della produzione. Con la stampa appare la nozione di moltiplicazione per mezzo di serie identiche di uno stesso oggetto uniforme e ripetibile. Il foglio stampato prodotto in innumerevoli esemplari e l’invenzione di una macchina utensile la cui mano dell’uomo è assente hanno effettivamente trasformato l’idea stessa di produzione.

De Fusco proseguiva dimostrando che la stampa fosse anch’essa riducibile al suo ben noto paradigma di progetto, produzione, vendita e consumo, che egli rintracciava e con il quale analizzava le varie esperienze di design nel corso della storia. Non mancava di sottolineare inoltre quanto la stampa e il mercato del libro siano profondamente simili all’industria e al mercato in generale, ovvero una impresa grossolanamente economica, fortemente legata ai capitali, anche quando li si considera come prodotti della cultura umanistica. Nell’analisi del fattore progetto compariva, infine, la grafica e le confusioni che sono a questo connesse. Ovvero considerando il disegno del carattere e l’impaginato come il nucleo della componente progettuale dell’oggetto libro e della stampa, operazioni tipicamente progettuali in quanto fissate totalmente prima del processo produttivo, la composizione veniva quindi a coincidere con il design nel campo della stampa, e la grafica poteva addirittura considerarsi « come la prima forma storica di disegno industriale »95. Questa serie di riflessioni avevano contribuito a promuovere e consolidare l’idea che la grafica e la comunicazione visiva rientrassero nel dominio del design di prodotto, inaugurando quella persistente dipendenza dell’uno dall’altro. Una cosa, del resto, tutta italiana, se si considera la tradizione di area inglese o olandese sul piano della grafica e tipografia; e che nei paesi anglofoni la parola design è tuttora un vocabolo di uso corrente non limitato esclusivamente all’ambito di quello che è invece il progetto per l’industria96.

95.  F. Barbieri, Grafica e arte del libro, in Enciclopedia Universale dell’Arte, Istituto per la collaborazione culturale, Venezia-Roma 1958; citato da De Fusco, op. cit. 96.  In Italia la realtà produttiva in cui si è innestato il concetto di design è per molti aspetti strettamente legata alla produzione industriale; la grafica italiana ha risentito molto di questo aspetto. Del resto, nell’economia italiana ha da sempre prevalso l’industria leggera e la produzione di artefatti soggetti a styling, aspetto che ha alterato la percezione del concetto di design in Italia. Si veda anche, a proposito della questione terminologica, la conversazione con Giovanni Lussu, riportata nell’appendice due.


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L’equivoco, in questo caso, sta nell’aver sovrapposto quella che può di fatto essere considerata una industria97 ante litteram all’universo articolato e complesso della comunicazione. Come se l’editoria, il disegno dei caratteri, la progettazione dei libri coprissero tutto quello che può definirsi comunicazione visiva, o sistemi di rappresentazione. Una prospettiva decisamente prodotto-centrica che rischia di orientare le scuole verso la formazione meramente professionale; oppure di collocare impropriamente il progetto di comunicazione all’interno dell’area del disegno industriale. A ben vedere la comunicazione ha a che fare più coi contenuti – organizzazione di informazioni complesse, ma anche linguistica e processi comunicativi – che con gli oggetti (supporti), o con la produzione industriale, a meno che non si parli, effettivamente, di industria editoriale o di industria delle immagini (pubblicità). In questo contesto, se da un lato l’Isia di Urbino si era principalmente dedicata – da subito e per tradizione – alla progettazione editoriale, tutte le altre scuole, istituti e corsi privati, dall’altro, offrivano un tipo di istruzione orientata alla persuasione, all’immagine pubblicitaria. Tanto che negli ambienti non specialistici i due termini di grafica e pubblicità sono a lungo stati considerati assolutamente equivalenti e interscambiabili. Lo stesso spirito con cui la grafica è stata accolta e inserita nei curricula delle scuole secondarie (istituti d’arte e licei artistici)98. 4.3 · Nuovo assetto universitario negli anni novanta Sul finire degli anni ottanta, con la legge del 9 maggio 1989, n. 168, venne finalmente istituito il Ministero dell’università e della ricerca scientifica e tecnologica, « con il compito di promuovere […] la ricerca scientifica e tecnologica, nonché lo sviluppo delle università e degli istituti di istruzione superiore di grado universitario »99. Già prima, dal 1962, era stato designato un Ministro per il coordinamento delle iniziative per la ricerca scientifica e tecnologica100, ma con poteri limi97.  Ci si riferisce alla stampa a caratteri mobili e al circuito delle tipografie: nient’altro che un procedimento tecnico di meccanizzazione della scrittura, successivamente sviluppato per produrre serialmente, in generale, artefatti bidimensionali. 98.  M. Zennaro, Grafica, pubblicità e scuola, in “Punti critici”, n. 4, febbraio 2001. 99.  Legge 168/89, art. 1, comma 1. 100.  Si veda la nota n. 30 di questo capitolo.


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tati. Al nuovo ministero furono trasferite principalmente tutte le funzioni in materia di istruzione universitaria. Tra i suoi compiti quello di redigere un piano di sviluppo dell’università e un rapporto sullo stato dell’istruzione universitaria (entrambi triennali), promuovere e sostenere finanziariamente la ricerca nelle università, approvare programmi degli enti di ricerca, assicurare uno sviluppo equilibrato delle sedi universitarie italiane, coordinare le attività per la partecipazione a programmi di istruzione universitaria e ricerca scientifica e tecnologica comunitari e internazionali. La legge regolava inoltre, con l’art. 4, il coordinamento dell’istruzione universitaria con gli altri gradi di istruzione, che avveniva a livello di intese e collaborazioni tra i due ministeri preposti all’istruzione scolastica e all’istruzione universitaria. In particolare il Ministero della pubblica istruzione (MPI) si affidava al Ministero dell’università e della ricerca scientifica e tecnologica (MURST) per l’attuazione, in collaborazione con università e istituti di ricerca, di iniziative d’aggiornamento e specializzazione del personale docente, direttivo e ispettivo di ogni grado scolastico (gli oneri restavano a carico del primo), e per la revisione dei programmi della scuola secondaria superiore, col fine di adeguarli al proseguimento degli studi in ambito universitario. Dall’altro lato il MURST si interfacciava con il MPI per i problemi inerenti alla formazione « di coloro che seguono corsi di studio universitari che prevedono sbocchi nell’insegnamento nelle scuole di ogni ordine e grado »101, promuovendo e sostenendo anche finanziariamente le iniziative universitarie rivolte « alla preparazione all’insegnamento, allo sviluppo della ricerca ed alla sperimentazione di metodologie e tecnologie didattiche nelle scuole »102. In generale veniva favorito l’interscambio culturale tra università e scuola. La legge del 1989 era importante anche in quanto stabiliva e descriveva, con l’art. 6, l’autonomia delle università. Il primo comma dichiarava infatti che « le università sono dotate di personalità giuridica e, in attuazione dell’articolo 33 della Costituzione, hanno autonomia didattica, scientifica, organizzativa, finanziaria e contabile; esse si danno ordinamenti autonomi con propri statuti e regolamenti »103. A questa legge sono seguite le leggi di attuazione dei principi di autonomia delle università, sia didattica che finanziaria. Si tratta della legge n. 341 del 19 novembre 1990, che stabiliva la riforma degli ordinamenti didattici universitari e regolava l’autonomia 101.  Legge 168/89, art. 4, comma 3. 102.  Legge 168/89, art. 4, comma 4. 103.  Legge 168/89, art. 6, comma 1.


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didattica degli atenei; mentre l’art. 5 della legge n. 537 del 24 dicembre 1993 regolava l’autonomia finanziaria delle università. Con la legge del 1990 venivano stabiliti, in particolare, i nuovi titoli rilasciati dalle università: –– diploma universitario (DU), con « una durata non inferiore a due anni e non superiore a tre, […] ed ha il fine di fornire agli studenti adeguata conoscenza di metodi e contenuti culturali e scientifici orientata al conseguimento del livello formativo richiesto da specifiche aree professionali »104; –– diploma di laurea (DL), che « ha una durata non inferiore a quattro anni e non superiore a sei ed ha il fine di fornire agli studenti adeguate conoscenze di metodi e contenuti culturali, scientifici e professionali di livello superiore »105; –– diploma di specializzazione (DS), il quale « si consegue, successivamente alla laurea, al termine di un corso di studi di durata non inferiore a due anni finalizzato alla formazione di specialisti in settori professionali determinati, presso le scuole di specializzazione »106; –– dottorato di ricerca (DR), regolato da specifiche disposizioni di legge. I decreti successivamente adottati per l’ordinamento didattico dei vari diplomi, secondo l’art. 9, sarebbero dovuti essere funzionali a evitare le ripetizioni o sovrapposizioni di corsi e insegnamenti nella determinazione delle facoltà, realizzando una riconversione degli insegnamenti « secondo criteri di omogeneità disciplinare, tenendo conto dei mutamenti sopravvenuti nelle aree scientifiche e professionali »107. Inoltre l’art. 14 stabiliva l’istituzione dei settori scientifico-disciplinari che raggruppano gli insegnamenti « in base a criteri di omogeneità scientifica e didattica »108, descritti e modificati con successivi decreti ministeriali. Con l’art. 6 della legge, invece, venivano date disposizioni per l’istituzione all’interno delle università di corsi di orientamento per gli studenti delle scuole secondarie che intendono iscriversi all’università, corsi di aggiornamento per il personale tecnico e amministrativo, e « attività formative autogestite dagli studenti nei settori della cultura e degli scambi culturali, 104.  Legge 341/90, art. 2, comma 1. 105.  Legge 341/90, art. 3, comma 1. 106.  Legge 341/90, art. 4, comma 1. 107.  Legge 341/90, art. 9, comma 2, lettera b. 108.  Legge 341/90, art. 14, comma 1.


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dello sport, del tempo libero »109, da prevedere negli statuti universitari. Limitatamente, invece, alle proprie risorse finanziarie gli atenei potevano attivare anche corsi di preparazione per esami di Stato abilitanti, corsi esterni come « quelli per l’aggiornamento culturale degli adulti, nonché quelli per la formazione permanente, ricorrente e per i lavoratori »110, oltre che corsi di perfezionamento e aggiornamento professionale. Per la realizzazione di tali corsi le università potevano avvalersi altresì della collaborazione di soggetti pubblici e privati, stabilendo anche convenzioni o consorzi (art. 8). L’autonomia didattica delle università era garantita dal regolamento didattico di ateneo (art. 11), deliberato dal senato accademico, su proposta delle strutture didattiche, e inviato al Ministero dell’università e della ricerca scientifica e tecnologica per l’approvazione. Il regolamento doveva disciplinare sia l’ordinamento dei corsi (disposti dall’art. 1), sia le attività formative e i corsi esterni (descritti dall’art. 6). La legge, infine, consentiva anche ai ricercatori universitari confermati di svolgere attività didattica in tutti i corsi previsti dalla legge, di far parte delle commissioni di esame e di essere relatori di tesi (art. 12), diversamente da quanto espresso dalla legge precedente111 che li istituiva. 4.4 · Discipline del progetto nell’ambito universitario Per quanto riguarda l’insegnamento del design a livello d’istruzione superiore, gli anni novanta rappresentano un importante punto di svolta in quanto segnano il riconoscimento dell’autonomia (relativa) delle discipline del progetto – il disegno industriale, prima delle altre – e la loro definitiva inclusione in ambito universitario. Alla fine degli anni ottanta veniva organizzato presso l’Istituto universitario di architettura di Venezia (IUAV) un ciclo di seminari, curato da Nicola Sinopoli, le cui intenzioni erano così espresse112: [si intendeva] valutare fino a che punto le discipline del design avessero un loro statuto ormai consolidato ed una loro identità didattica nei diversi luoghi nei quali in Italia vengono insegnate e fino a che punto i diversi prodotti delle diverse scuole operanti

109.  Legge 341/90, art. 6, comma 1, lettera c. 110.  Legge 340/90, art. 6, comma 2, lettera b. 111.  Legge 11 luglio 1980, n. 382. 112. Sinopoli, op. cit.


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potessero dimostrare una loro maturità ed una loro autonomia nel quadro complessivo dei ’prodotti’ delle scuole di architettura.

La scelta della sede per il confronto tra le realtà esistenti in Italia e l’elaborazione di riflessioni sulla questione non era casuale: quella di Venezia era la sola scuola di architettura italiana che fino ad allora non aveva mai attivato un insegnamento di disegno industriale113. Il fatto che le facoltà di architettura tendessero a coincidere con l’indirizzo di progettazione architettonica era visto, dallo stesso curatore, come un appiattimento delle potenzialità formative di queste facoltà. Il quesito intorno a cui ruotavano i seminari veneziani era: « ha senso o no la presenza del design in una scuola di architettura, e se sì, a quali condizioni? ». Le risposte, molto diverse e complesse, presentavano uno scenario variegato di scuole, corsi e orientamenti, spesso anche in aperto contrasto tra loro. Tuttavia, la tesi del curatore era che nelle facoltà di architettura fosse allora assente il riferimento alla cultura industriale con cui prima o poi esse si sarebbero trovate a fare i conti, senza escludere che questo avrebbe potuto configurarsi come un rapporto critico. Per questo l’insegnamento del design avrebbe dovuto essere, secondo Sinopoli, necessariamente presente nelle scuole di architettura, per permettere il loro sviluppo: l’apporto del disegno industriale assumeva dunque i tratti di una “condizione di sopravvivenza” per queste scuole. Le ragioni stavano nel fatto che troppo spesso il progetto di architettura si sollevasse dalle responsabilità costruttive limitandosi al disegno e non alla gestione di un processo anche produttivo, che invece nel caso del progetto del prodotto industriale resta una parte integrante. Le fasi di verifica di efficacia e riscontro ultimo del progetto – produzione e distribuzione – fondamentali nel caso del prodotto industriale, erano spesso trascurate o assenti nel progetto di architettura. Il disegno industriale, oltre al vantaggio di riportare a una certa aderenza con la realtà produttiva e quindi sociale, con l’obiettivo di superare l’autoreferenzialità dei corsi di architettura, sarebbe servito a differenziare i percorsi di apprendimento all’interno dell’offerta didattica nel campo della progettazione. La proposta era dunque quella di un potenziamento dell’area del design nell’insegnamento dell’architettura, senza trasferirne tout-court la mentalità propria del processo di produzione industriale.

113.  Nonostante fosse stata scelta come sede in cui sperimentare il primo Corso superiore di disegno industriale, interno però all’Istituto d’arte. Si vedano i paragrafi 3.1 e 3.2 di questo capitolo.


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Maldonado, tra gli invitati a partecipare al seminario, ammoniva però a non usare l’insegnamento del design per modificare un apparato – quello delle scuole di architettura – che avrebbe avuto bisogno di ristrutturazioni interne e di un reale confronto con la complessità del reale. Egli individuava tre orientamenti prevalenti nell’insegnamento del disegno industriale, emersi dai vari incontri promossi dall’ICSID cui aveva preso parte: –– costituzione di facoltà o corsi di laurea autonomi; –– inclusione di una sezione o dipartimento dedicato all’interno di organismi pedagogici già esistenti (facoltà di architettura, ingegneria, accademie di belle arti); –– trasformazione delle vecchie scuole di arti applicate, a livello superiore, in vere e proprie scuole di disegno industriale. In Italia si era promossa, fino ad allora, la creazione di indirizzi e corsi di disegno industriale in alcune facoltà di architettura, senza però modificare in nulla l’assetto complessivo del piano di studi di queste facoltà, ovvero senza introdurre quelle discipline tecnico-scientifiche, teoriche e metodologiche imprescindibili per una formazione seria dei designer. Un’iniziativa molto modesta – secondo Maldonado – frenata negli sforzi dei suoi promotori dal conservatorismo burocratico ministeriale, dalla resistenza delle corporazioni professionali e da irrazionali gelosie disciplinari. Al merito di aver istituito cattedre in disegno industriale nell’ordinamento universitario italiano corrispondeva il demerito di averlo fatto spesso soltanto cambiando il nome alle vecchie discipline di arredamento. Agli studenti di architettura che si iscrivevano a questo indirizzo veniva, infatti, fornita la possibilità di scegliere tra discipline facoltative presenti nel piano di studi, considerate utili a un architetto che voleva specializzarsi in disegno industriale. Queste iniziative non andavano oltre « una immagine soltanto allegorica di una volontà di riforma »114: il disegno industriale era considerato ancora quale “ruota di scorta” delle facoltà di architettura, per nascondere la profonda crisi in cui esse versavano – a cavallo tra anni ottanta e novanta – riguardante il ruolo e la funzione sociale dell’architetto. Di lì a poco venivano attivati i primi corsi di laurea in design in ambito accademico. Il primo vero e proprio Corso di diploma di laurea in Disegno 114.  T. Maldonado, Come insegnare quale design, in Sinopoli, op. cit.


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industriale115 nasceva nel 1993 a Milano, presso il Politecnico, fortemente promosso, tra gli altri, da Maldonado e Anceschi. Successivamente, nel 1994, veniva istituito un Diploma universitario in disegno industriale, presso la Facoltà di architettura dell’università “La Sapienza” di Roma, diventato diploma di laurea tre anni più tardi (nel 1997). Nel 1995 era la volta dello Iuav di Venezia che istituiva i corsi in Industrial design, Moda e Visual design. L’ultimo, nel decennio, ad essere attivato è stato il Corso di diploma di laurea in disegno industriale a Napoli, nel 1997. Nel corso degli anni novanta il dibattito sulla formazione del designer proseguì in una serie di conferenze e momenti di dialogo, recensiti anche sui bollettini delle associazioni professionali ADI e Aiap. Ad esempio, sul numero 4-5 di “Notizie Aiap”, del settembre 1996, si esponeva su alcuni degli incontri avvenuti in diversi ambiti, sul tema della formazione. L’incontro del 26 febbraio 1996 presso il Politecnico di Milano116 aveva messo in luce l’esigenza di organizzazione della disciplina e quindi di omogeneizzazione dei diversi curricula di studio allora esistenti. La dicitura di disegno industriale assumeva la funzione di “ombrello” sotto cui riconoscere un insieme di discipline – tra le altre la comunicazione visiva – distinte ma contigue, nonostante essa connotasse sempre più soltanto il design di prodotto. Un aspetto, però, era molto poco chiaro: ovvero quali fossero i confini di questa vasta area; cosa caratterizzasse e collegasse, di fatto, le discipline che venivano di volta in volta accolte sotto la denominazione di disegno industriale. Non molto diverse sono le considerazioni che si potevano trarre dal resoconto dell’incontro avvenuto presso il Centro di formazione professionale Riccardo Bauer di Milano tra professionisti, insegnanti e studenti, per discutere circa le implicazioni della tecnologia informatica sul mondo della comunicazione e della formazione. Quello che ne scaturiva era la dissoluzione della tradizionale figura professionale del grafico, trasformato in un « progettista di comunicazioni globali e trasversali rispetto alle tecniche, un regista chiamato ad organizzare i flussi ed i contenuti della comunicazione, individuandone le modalità e delegando la realizzazione a figure

115.  Il corso, tuttavia, era ancora incluso nella Facoltà di architettura del Politecnico. 116.  Secondo incontro sul coordinamento universitario per l’area delle discipline di disegno industriale; recensito da O. Grimaldi, Un incontro sul disegno industriale al Politecnico di Milano, in “Notizie Aiap”, n. 4-5, settembre 1996.


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tecnico operative con diverse caratteristiche di specializzazione »117. Una definizione molto simile a quella che si dava del progettista nella Carta del progetto grafico118. Anche in questo caso ne risultava una moltitudine di figure professionali – e quindi di percorsi formativi di riferimento – raccolte tutte sotto l’egida di una disciplina: in questo caso, la comunicazione visiva. Si tendeva ancora a considerare il problema dal punto di vista del riconoscimento sociale e culturale della disciplina e del ruolo del progettista – con un atteggiamento a tratti piuttosto corporativista: in questo sforzo si era puntato prioritariamente all’inclusione in ambito accademico, anche tenendo insieme insegnamenti distinti – come a Milano o allo Iuav – senza un progetto globale di più ampio respiro e a lungo termine; magari un sistema integrato che dall’istruzione di base potesse proseguire sino all’educazione universitaria oppure che includesse materie provenienti da aree del sapere più distanti, in modo da interpretare la complessità degli scenari del periodo. Anche nella sfera della formazione dei progettisti, nel comparto della formazione artistica, qualcosa si stava muovendo negli anni novanta: esistevano diverse proposte di legge per il riordino della formazione artistica e, come già ricordato, è solo nel 1993 che viene ufficializzata l’esistenza degli Isia. La proposta di legge n. 1111, presentata il 3 agosto 1994 dalla commissione parlamentare “cultura e istruzione” presieduta da Vittorio Sgarbi, proponeva la riforma delle accademie di belle arti, delle accademie di danza e di arte drammatica, degli istituti superiori per le industrie artistiche e dei conservatori di musica. Punto prioritario e centrale della proposta era il passaggio delle accademie, istituti superiori e conservatori dal Ministero della Pubblica istruzione a quello dell’Università e della ricerca scientifica e tecnologica, sganciandoli definitivamente dal sistema secondario superiore d’istruzione. Lo stesso primo articolo che stabiliva questo trasferimento di competenza, includeva anche l’inglobamento degli Isia nelle accademie di belle arti. Tale operazione, benché logisticamente non impossibile119, era culturalmente piuttosto discutibile. Si tentava ancora una volta una riforma dell’istruzione artistica grazie all’apporto delle discipline della progettazione, centrali invece per 117.  A. Soi, Un incontro informale sul tema della formazione per la comunicazione visiva, in “Notizie Aiap”, n. 4-5, settembre 1996. 118.  Per approfondire si veda il paragrafo 1.2 del capitolo terzo. 119.  Tre su quattro delle attuali Isia – Urbino, Firenze e Roma, esclusa Faenza – erano e sono situate in città in cui è presente anche l’accademia di belle arti.


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quelle scuole che avevano ormai una tradizione più che ventennale. Branzaglia sottolineava che « all’interno delle Accademie esistono dagli anni settanta diversi insegnamenti, pur nelle diverse interpretazioni da parte dei docenti, attinenti al campo della progettazione visiva […]. In questo senso l’inserimento dell’Isia potrebbe diventare un rafforzamento nelle discipline legate all’area del design »120. Bastava a consolidare questa idea il fatto che molti grafici avessero frequentato le accademie italiane e che alcuni progettisti italiani vi avessero insegnato (ad esempio Bruno Munari, Silvio Coppola, Mario Cresci). Tuttavia, tale proposta di legge – come altre elaborate in quegli anni – non fu approvata, essendo sopraggiunte nel frattempo, poco più tardi, le indicazioni europee per le quali si avviava un profondo riordino complessivo dell’istruzione superiore italiana, in cui tuttavia erano state messe in pratica molte delle indicazioni per l’equiparazione, contenute nella proposta di legge. 4.5 · Processo di Bologna, Spazio europeo dell’istruzione superiore Nei giorni 18 e 19 giugno del 1999, trentuno ministri dell’istruzione di ventinove paesi europei si incontravano a Bologna per sottoscrivere un documento – noto come “Dichiarazione di Bologna” – con il quale si impegnavano a portare a termine, nel giro di un decennio, un processo di riforma internazionale dei sistemi di istruzione superiore, il cosiddetto “processo di Bologna”, col fine di realizzare lo Spazio Europeo dell’Istruzione Superiore (European Higher Education Area), ufficialmente sottoscritto durante al Conferenza interministeriale tenutasi tra Budapest e Vienna nel decennale del processo (marzo 2010). L’incontro di Bologna era stato preceduto da due incontri preparatori. Durante il primo – la Conferenza diplomatica di Lisbona, dell’11 aprile 1997 – era stata approvata la Convenzione sul riconoscimento dei titoli di studio relativi all’insegnamento superiore nella regione Europa (anche “convenzione di Lisbona”), elaborata dal Consiglio d’Europa e dall’Unesco. Venivano attivate delle modalità per il riconoscimento dei titoli di studio tra gli Stati che avevano sottoscritto la Convenzione. Tra i più importanti: il riconoscimento dei titoli per l’accesso all’università, il riconoscimento dei periodi di studio effettuati all’estero, e il riconoscimento dei titoli accademici finali. 120.  Carlo Branzaglia, Formazione. Verso una riforma delle Accademie di belle arti, in “Notizie Aiap”, n. 2, novembre 1994.


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Il secondo era stato l’incontro dei ministri dell’istruzione di Francia, Regno Unito, Germania e Italia121, avvenuto a Parigi nel 1998. Il risultato veniva esplicitato nella cosiddetta “dichiarazione della Sorbona” dal titolo L’armonizzazione dell’architettura dei sistemi di istruzione superiore in Europa, siglata il 25 maggio 1998. La motivazione ispiratrice era la promozione di una “Europa della conoscenza”, in cui fossero consolidate le dimensioni intellettuali, culturali, sociali e tecniche del continente, individuando nelle università il protagonista di questo processo. La dichiarazione, mettendo in evidenza i grandi cambiamenti nel campo dell’istruzione, e della condizioni di lavoro, nasceva per promuovere la formazione e l’istruzione lungo tutto l’arco della vita e lo sviluppo di un quadro di insegnamento e apprendimento che rafforzasse la mobilità degli studenti e una stretta cooperazione tra i paesi. Per realizzare questi obiettivi i ministri proposero un sistema in due cicli universitari principali – di primo e secondo livello – equiparabili in ambito internazionale, incentivando l’utilizzazione dei semestri e dei crediti122 per garantire agli studenti la possibilità di proseguire la propria formazione ovunque in Europa e incoraggiarli a trascorrere almeno un semestre in una università fuori dal proprio paese. La Dichiarazione di Bologna dal titolo Lo spazio europeo dell’istruzione superiore, ribadiva, quindi, e ampliava le affermazioni delle precedenti dichiarazioni (di Lisbona e della Sorbona). Veniva affermata la centralità delle dimensioni intellettuali, culturali, sociali, scientifiche e tecnologiche per la costruzione europea, riconoscendo l’Europa della conoscenza « come insostituibile fattore di crescita sociale ed umana e come elemento indispensabile per consolidare ed arricchire la cittadinanza europea»123 . A partire dalle indicazioni della Dichiarazione di Bologna molti paesi avviavano un processo di riforma del proprio sistema di istruzione superiore. A fondamento dello Spazio europeo dell’istruzione superiore doveva restare l’indipendenza e l’autonomia delle università. per garantire il costate adeguamento dell’istruzione superiore e della ricerca alle esigenze della società.

121.  All’incontro partecipò l’allora Ministro della pubblica istruzione Luigi Berlinguer. 122.  Il sistema proposto fu quello dell’European Credit Transfer and Accumulation System (ECTS), sistema di crediti universitari sviluppato a partire dal 1989 nel Programma di mobilità europeo Erasmus, basato sul carico di lavoro e sui risultati di apprendimento. 123.  Lo spazio europeo dell’istruzione superiore, Dichiarazione congiunta dei Ministri europei dell’istruzione superiore, intervenuti al Convegno di Bologna il 19 giugno 1999; consultato sul sito del Ministero (www.miur.it).


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Per la promozione internazionale dell’istruzione superiore e la realizzazione dello Spazio europeo dell’istruzione superiore, la Dichiarazione individuava una serie di misure concrete: –– l’adozione di un sistema fondato su due cicli, di primo e secondo livello, con il necessario completamento del primo ciclo di durata triennale per avere accesso al secondo; più un terzo ciclo sul modello del dottorato attivo in molti paesi; –– il consolidamento del sistema di crediti, acquisibili anche in contesi diversi, compresi quelli di formazione continua e permanente, come strumento per una più ampia e diffusa mobilità studentesca; –– l’abbattimento degli ostacoli per favorire la libera circolazione degli studenti, dei docenti, dei ricercatori e del personale tecnico amministrativo; –– il riconoscimento dei periodi di studio, ricerca e tirocinio svolti in contesto europeo; –– la valutazione della qualità per definire criteri e metodologie comparabili. I ministri, infine, con la Dichiarazione, si impegnavano a portare a termine il processo entro il 2010 e fissavano un appuntamento biennale per valutare gli sviluppi del processo avviato e le nuove iniziative da intraprendere. 4.6 · Riforma dell’istruzione superiore in Italia In Italia la riforma che accoglie le indicazioni del Processo di Bologna è la cosiddetta riforma Zecchino del 1999, che prende il nome dal Ministro dell’università e della ricerca scientifica e tecnologica. A questa corrisponde sul piano dell’istruzione scolastica un altro importante riordino conosciuto come riforma Berlinguer124, dal nome del Ministro della Pubblica istruzione, attuate sempre tra la fine degli anni novanta e i primi anni duemila. La riforma Zecchino rappresenta forse il più importante riordino dell’istruzione superiore italiana dalla legge del 1969. Con questo nome ci si riferisce in particolare al primo di una serie di decreti, il Decreto Ministeriale n. 509 del 3 novembre 1999, che sostanzialmente accoglie le indicazioni europee e le applica al sistema italiano. Innanzitutto l’art. 3 dà avvio alla famosa formula del “3+2”: ovvero stabilisce che i titoli di primo e secondo livello rilasciati dalle università italiane 124.  Per un approfondimento si veda la quarta sezione del capitolo secondo.


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sono la laurea (L) e la laurea specialistica (LS). Inoltre le università rilasciano diplomi di specializzazione (DS) e dottorati di ricerca (DR), previsti già dal precedente assetto. Nello specifico il corso di laurea « ha l’obiettivo di assicurare allo studente un’adeguata padronanza di metodi e contenuti scientifici generali, nonché l’acquisizione di specifiche conoscenze professionali »125, mentre il corso di laurea specialistica « ha l’obiettivo di fornire allo studente una formazione di livello avanzato per l’esercizio di attività di elevata qualificazione in ambiti specifici »126; infine « il corso di specializzazione ha l’obiettivo di fornire allo studente conoscenze e abilità per funzioni richieste nell’esercizio di particolari attività professionali »127; i corsi di dottorato, invece, sono disciplinati da altre leggi. Oltre alle attività128 elencate nell’art. 6 della legge del 1990, « le università possono attivare, disciplinandoli nei regolamenti didattici di ateneo, corsi di perfezionamento scientifico e di alta formazione permanente e ricorrente, successivi al conseguimento della laurea o della laurea specialistica, alla conclusione dei quali sono rilasciati i master universitari di primo e di secondo livello »129. Tutti i titoli possono comunque essere rilasciati dalle università congiuntamente ad altri atenei. Con la nuova legge, per accedere ai corsi di laurea bisogna essere in possesso di un diploma di scuola secondaria superiore; per essere ammessi ad un corso di laurea specialistica o a un diploma di specializzazione occorre essere in possesso della laurea; per frequentare un corso di dottorato di ricerca bisogna invece essere in possesso della laurea specialistica. Per le ammissioni ai vari corsi sono inoltre accettati titoli di studio corrispondenti conseguiti all’estero e riconosciuti idonei (art. 6). L’art. 4 introduce, invece, un’altra importante innovazione: le classi di corsi di studio. Ovvero si tratta di raggruppamenti dei corsi di studio dello stesso livello che condividono medesimi obiettivi formativi, determinati da successivi decreti ministeriali130, e che assicurano l’identico valore legale di titoli conseguiti al termine di corsi di studio appartenenti alla stessa classe. Il sistema dei crediti è invece introdotto dall’art. 5, che fa corrispondere al credito formativo universitario (CFU) venticinque ore di lavoro per stu125.  DM 509/99, art. 3, comma 4. 126.  DM 509/99, art. 3, comma 5. 127.  DM 509/99, art. 3, comma 6. 128.  Si veda il paragrafo 4.3 di questo capitolo. 129.  DM 509/99, art. 3, comma 8. 130.  Il primo di questi decreti è il Decreto Ministeriale del 4 agosto 2000.


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dente, di cui una frazione non inferiore alla metà deve essere riservata allo studio personale o ad altre attività formative di tipo individuale. I crediti si acquisiscono con il superamento dell’esame – o verifica – finale, e in totale la quantità media di lavoro per anno è quantificata in un numero di sessanta crediti. Il comma 7 specifica inoltre che « le università possono riconoscere come crediti formativi universitari, secondo criteri predeterminati, le conoscenze e abilità professionali certificate […], nonché altre conoscenze e abilità maturate in attività formative di livello post-secondario alla cui progettazione e realizzazione l’università abbia concorso »131. Per conseguire la laurea di primo livello lo studente deve aver acquisito centottanta crediti, per conseguire invece la laurea specialistica sono necessari centoventi crediti (complessivamente un totale di trecento CFU tenendo conto di quelli precedentemente acquisiti); per conseguire il master universitario bisogna invece acquisire altri sessanta crediti (art. 7). Di conseguenza la durata “normale” dei corsi di laurea è di tre anni, mentre quella dei corsi di laurea specialistica è di due anni oltre la laurea (art. 8). Infine, l’autonomia didattica degli atenei è garantita, per legge, dai regolamenti didattici di ateneo e dai regolamenti didattici dei corsi di studio di cui si dà disposizioni negli artt. 11 e 12. La sperimentazione della riforma parte, così, nell’anno accademico 200001 limitatamente ad alcuni corsi in alcune università italiane, tra cui il Politecnico di Milano e l’Università degli Studi di Padova, mentre a partire dall’anno accademico successivo è applicata in quasi tutte le università italiane. Nel frattempo, dal 2001, i due ministeri della pubblica istruzione e dell’università vengono accorpati nel Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca (MIUR). Con il decreto n. 270 del 22 ottobre 2004, a firma del ministro Moratti, vengono apportate modifiche al precedente decreto 509/99, consistenti nella soppressione della laurea specialistica, modifica in laurea magistrale, e nella ridefinizione delle classi delle lauree. Nell’ambito della formazione al design si assiste a una crescita notevole di corsi e facoltà dedicati al design. Nel 2000 nasce la prima Facoltà di Design italiana, presso il Politecnico di Milano. Nello stesso anno vengono attivati corsi di laurea di primo e secondo livello132 presso la Facoltà di architettura 131.  DM 509/99, art. 5, comma 7. 132.  Corsi di primo livello in disegno industriale, in arredamento e architettura d’interni e in grafica e progettazione multimediale; corsi di secondo livello in disegno industriale e comunicazione visiva e in scenografia, allestimento e architettura d’interni.


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dell’Università “La Sapienza” di Roma. Sempre dal 2000 anche l’Università di Genova e il Politecnico di Torino attivano corsi di laurea in disegno industriale. Nel 2001 lo Iuav, non più Istituto universitario, diventa Università degli studi Iuav di Venezia e fonda tre facoltà tra cui quella di Design e arti. Nel 2002 disegno industriale viene attivato anche presso la facoltà di architettura dell’Università di Palermo, e a Bolzano viene fondata la Facoltà di Design e arti. Nel 2003 viene attivato il corso triennale in Disegno industriale al Politecnico di Bari e nel 2004 vengono attivati un corso di laurea in Disegno industriale e ambientale e un corso di laurea specialistica in Disegno industriale e comunicazione visiva presso l’Università di Camerino. 4.7 · Comparto alta formazione artistica e musicale Un’innovazione significativa nel riordino dell’istruzione superiore del 1999 è quella di aver abbracciato anche il settore della formazione artistica, attivando un profondo processo di riforma, oggi non ancora completamente concluso. Si sono applicate anche in questo caso le indicazioni del Processo di Bologna. La legge n. 508 del 21 dicembre 1999, definita dai successivi regolamenti, dà ufficialmente avvio alla Riforma delle Accademie di belle arti, dell’Accademia nazionale di danza, dell’Accademia nazionale di arte drammatica, degli Istituti superiori per le industrie artistiche (Isia), dei Conservatori di musica e degli Istituti musicali pareggiati133. Con l’art. 2 della legge le competenze del settore dell’istruzione artistica, musicale e coreutica passano finalmente al Ministero dell’università e della ricerca scientifica e tecnologica. Nello stesso articolo è stabilito, inoltre, che le istituzioni oggetto della riforma « rilasciano specifici diplomi accademici di primo e secondo livello, nonché di perfezionamento, di specializzazione e di formazione alla ricerca in campo artistico e musicale »134. La equipollenza tra i titoli di studio e quelli universitari sono però rimandate all’emanazione di decreto del Presidente del Consiglio. L’art. 3, infine, stabilisce la costituzione del Consiglio nazionale per l’alta formazione artistica e musicale (CNAM) – l’equivalente del Consiglio universitario nazionale – con il compito di fornire pareri e formulare proposte su diverse questioni tra cui i regolamenti didattici, il reclutamento dei docenti, e la programmazione dell’offerta formativa. 133.  Titolo della legge 508/99, nonché finalità espresse dall’art. 1. 134.  Legge 508/99, art. 2, comma 5.


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Il primo regolamento in attuazione della legge è il Decreto del Presidente della Repubblica del 28 febbraio 2003, n. 132, che stabilisce i criteri per l’adozione di statuti e per l’autonomia regolamentare e organizzativa. Le istituzioni di alta formazione artistica, musicale e coreutica, si dotano di statuti (art. 2) che disciplinano principalmente: –– l’istituzione, l’organizzazione, il funzionamento delle strutture amministrative, didattiche, di ricerca e di servizio; –– lo svolgimento dell’attività didattica e di ricerca, e della correlata attività di produzione; –– le modalità e i criteri di valutazione dei risultati didattici e scientifici; –– le modalità e le procedure per le intese e le convenzioni finalizzate ad incentivare sinergie con altri enti e organismi pubblici e privati, anche stranieri; –– la rappresentanza degli studenti negli organi di governo. I regolamenti che le istituzioni elaborano, invece, sono di due tipi: un regolamento didattico che disciplina l’ordinamento dei corsi di formazione, i relativi obiettivi e l’articolazione di tutte le attività formative; e regolamenti vari che disciplinano le modalità di esercizio dell’autonomia amministrativa, finanziaria e contabile (art. 3) . Vengono poi stabiliti, dall’art. 4, una serie di organi e ruoli necessari al funzionamento delle istituzioni, che sono: –– il presidente, rappresentante legale dell’istituzione, il quale convoca e presiede il consiglio di amministrazione, ed è designato dal consiglio accademico su una terna di nomi proposti dal ministro (art. 5); –– il direttore, responsabile dell’andamento didattico, scientifico ed artistico dell’istituzione, eletto dai docenti dell’istituzione tra alcuni docenti, anche di altre istituzioni, che abbiano particolari requisiti di professionalità (art. 6); –– il consiglio di amministrazione, composto da: presidente, direttore, un docente scelto dal consiglio accademico, uno studente scelto dalla consulta degli studenti, un esperto di amministrazione nominato dal ministro e può essere integrato da un massimo di due altri componenti designati da quegli enti o fondazioni pubblici e privati che eventualmente


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contribuiscono al finanziamento dell’istituzione (art. 7); il consiglio di amministrazione « stabilisce gli obiettivi ed i programmi della gestione amministrativa e promuove le iniziative volte a potenziare le dotazioni finanziarie dell’istituzione »135; il consiglio accademico, composto da un numero dispari di componenti, fino ad un massimo di tredici, comprende il direttore, docenti dell’istituzione eletti dal corpo docenti, due studenti scelti dalla consulta; esso determina l’indirizzo e la programmazione delle attività didattiche, scientifiche, artistiche e di ricerca, tenendo conto delle disponibilità di bilancio, delibera il regolamento didattico ed il regolamento degli studenti, sentita la consulta, ed esercita le competenze relative al reclutamento; il collegio del revisori; il nucleo di valutazione, col compito di valutare i risultati dell’attività didattica e scientifica e del funzionamento complessivo dell’istituzione, redigendo una relazione annuale (art. 10); il collegio dei professori, composto dal direttore, che lo presiede, e da tutti i docenti in servizio presso l’istituzione, con funzione di supporto al consiglio accademico (art. 11); la consulta degli studenti, composta da un numero di studenti proporzionale al numero di iscritti (da un minimo di tre a un massimo di undici), che esprime pareri, indirizza richieste e formula proposte al consiglio accademico ed al consiglio di amministrazione con particolare riferimento all’organizzazione didattica e dei servizi per gli studenti (art. 12).

Infine, per la stesura dello statuto, del regolamento didattico e del regolamento di amministrazione, finanza e contabilità, possono essere costituiti appositi organismi composti da membri della stessa istituzione e da esperti esterni. Un altro importante regolamento è contenuto nel Decreto del Presidente della Repubblica dell’8 luglio 2005, n. 212, che definisce gli ordinamenti didattici delle istituzioni di alta formazione artistica, musicale e coreutica. I titoli di studio rilasciati, definiti dall’art. 3, sono: –– il diploma accademico di primo livello, il cui corso « ha l’obiettivo di assicurare un’adeguata padronanza di metodi e tecniche artistiche, nonché l’acquisizione di specifiche competenze disciplinari e professionali »136; 135.  DPR 132/2003, art. 7, comma 6. 136.  DPR 212/2005, art. 3, comma 3.


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–– il diploma accademico di secondo livello, il cui corso « ha l’obiettivo di fornire allo studente una formazione di livello avanzato per la piena padronanza di metodi e tecniche artistiche e per l’acquisizione di competenze professionali elevate »137; –– il diploma accademico di specializzazione, il cui corso « ha l’obiettivo di fornire allo studente competenze professionali elevate in ambiti specifici »138; –– il diploma accademico di formazione alla ricerca, equiparato al dottorato di ricerca universitario, il cui corso « ha l’obiettivo di fornire le competenze necessarie per la programmazione e la realizzazione di attività di ricerca di alta qualificazione »139; –– il diploma di perfezionamento o master, il cui corso « risponde ad esigenze culturali di approfondimento in determinati settori di studio o ad esigenze di aggiornamento o di riqualificazione professionale e di educazione permanente »140. Per essere ammessi al corso di diploma accademico di primo livello è necessario un diploma di scuola secondaria superiore; per accedere invece al corso di diploma accademico di secondo livello o al corso di specializzazione bisogna essere in possesso di una laurea o diploma accademico di primo livello; per essere ammessi ad un corso di formazione alla ricerca occorre il diploma accademico di secondo livello o la laurea magistrale, mentre per il master o corso di perfezionamento, a seconda del livello, l’Istituzione richiede i titoli di primo o secondo livello. Il numero di posti disponibili per i vari corsi sono programmati dall’Istituzione in base al rapporto tra studenti e docenti e alla dotazione di strutture ed infrastrutture adeguate (art. 7). Le istituzioni possono inoltre stipulare convenzioni con soggetti pubblici o privati, al fine di svolgere attività di produzione nel loro campo disciplinare, possono attivare attività finalizzate alla formazione permanente e ricorrente e all’educazione degli adulti, limitatamente alle proprie risorse finanziarie, disciplinate col regolamento didattico (art. 4). Con l’art. 6 viene attivato il sistema dei crediti formativi accademici (CFA), con le stesse caratteristiche di quello universitario, sia per quanto 137.  DPR 212/2005, art. 3, comma 4. 138.  DPR 212/2005, art. 3, comma 5. 139.  DPR 212/2005, art. 3, comma 6. 140.  DPR 212/2005, art. 3, comma 7.


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riguarda il valore del singolo credito sia per il numero di crediti necessari per il conseguimento dei titoli. Si specifica però che deve essere riservato, sull’impegno complessivo a cui il credito corrisponde, il trenta per cento alle lezioni teoriche, il cinquanta per cento alle attività teorico-pratiche e il cento per cento alle attività di laboratorio. Il nuovo ordinamento degli istituti di alta formazione artistica, musicale e coreutica ricalca, dunque, la struttura delle università, rendendo in qualche modo equiparabili e compatibili i due sistemi. Tuttavia, soltanto di recente è stata stabilita l’effettiva equipollenza dei titoli accademici e universitari, definita dai commi 102-107 dell’art. 1 della legge di stabilità per il 2013, approvata dal Presidente del Consiglio Mario Monti141. In particolare i diplomi accademici di primo livello sono diventati equivalenti alle lauree della classe L-3 in Discipline delle arti figurative, della musica, dello spettacolo e della moda; mentre i diplomi accademici di secondo livello equivalgono alle lauree magistrali nelle classi LM-12 in Design per i diplomi rilasciati dagli Istituti superiori per le industrie artistiche e dalle Accademie di belle arti (scuola di Progettazione artistica per l’impresa), LM-45 in Musicologia e beni musicali per i diplomi rilasciati dai Conservatori di musica, dall’Accademia nazionale di danza e dagli Istituti musicali pareggiati, LM-65 in Scienze dello spettacolo e produzione multimediale per i diplomi rilasciati dall’Accademia nazionale di arte drammatica e dalle Accademie di belle arti (scuole di Scenografia e di Nuove tecnologie dell’arte), LM-89 in Storia dell’arte per i diplomi rilasciati dalle Accademie di belle arti (restanti scuole).

5 · Panorama attuale dell’educazione al design I temi discussi nelle varie occasioni di dibattito, dal secondo dopoguerra in poi, e i problemi, per i quali si suggerivano di volta in volta non sempre nuove soluzioni, sono vivi ancora oggi nel panorama piuttosto selvaggio e incoerente delle scuole di progettazione. Basta guardare alla situazione attuale per rivedere ancora aperte alcune questioni: la comprensione del design nell’istruzione artistica, la frammentazione in indirizzi specialistici, il rapporto di dipendenza del design dall’architettura, o della grafica dal disegno industriale. 141.  Legge del 24 dicembre 2012, n. 228.


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Dopo una fase di espansione che ha caratterizzato gli anni duemila, si assiste attualmente a una contrazione dell’offerta formativa istituzionale in design: molti indirizzi sono stati soppressi – trasformati in corsi a esaurimento – e altri sono stati ristrutturati operando accorpamenti secondo le vigenti disposizioni di legge142. Di seguito si presenta un elenco dei corsi dedicati alla progettazione attivi nelle università italiane, presso le accademie di belle arti e gli Isia. Si è ritenuto di escludere le scuole private, dato l’elevato numero di queste e la difficoltà nell’individuare criteri che autorizzassero l’inclusione in questo elenco di alcune rispetto ad altre. 5.1 · Corsi universitari L’elenco che segue è compilato in base alle classi delle lauree definite dal decreto 270/2004. I settori scientifico disciplinari caratterizzanti per i corsi di disegno industriale sono ICAR/13 (disegno industriale) ICAR/17 (disegno), significativamente inclusi nel settore di Ingegneria civile e Architettura (ICAR). Politecnico di Bari – www.poliba.it Facoltà di Architettura –– Corso di laurea in disegno industriale Libera Università di Bolzano – www.unibz.it Facoltà di Design e arti –– Corso di laurea in design e arti Università degli studi di Brescia – www.unibs.it Facoltà di Ingegneria –– Corso di laurea in Disegno industriale (disattivato) Università di Camerino – www.unicam.it Facoltà di Architettura –– Corso di laurea in disegno industriale e ambientale –– Corso di laurea magistrale in design Università degli studi di Ferrara – www.unife.it 142.  Si veda il paragrafo 2.1 del capitolo quarto.


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interfacoltà: Facoltà di Architettura e di Ingegneria –– Corso di laurea in Design del prodotto industriale Università degli studi di Firenze – www.unifi.it Facoltà di Architettura –– Corso di laurea in disegno industriale – sede di Calenzano interfacoltà: Facoltà di Architettura e di Lettere e filosofia –– Corso di laurea in cultura e progettazione della moda – sede di Scandicci Università degli studi di Genova – www.unige.it Facoltà di Architettura –– Corso di laurea in disegno industriale –– Corso di laurea magistrale in design del prodotto e dell’evento –– Corso di laurea magistrale in design navale e nautico collaborazione: Facoltà di Architettura, di Ingegneria e Politecnico di Milano Politecnico di Milano – www.polimi.it Facoltà del Design –– Corso di laurea in design degli interni –– Corso di laurea in design della comunicazione –– Corso di laurea in design della moda –– Corso di laurea in design del prodotto industriale – sede di Como –– Corso di laurea magistrale in design degli interni (Interior Design) –– Corso di laurea magistrale in product service systems design –– Corso di laurea magistrale in design della comunicazione (Communication Design) –– Corso di laurea magistrale in design per il sistema moda (Design for the Fashion System) –– Corso di laurea magistrale in design & engineering –– Corso di laurea magistrale in design del prodotto per l’innovazione (Product Design for Innovation) Seconda Università degli studi di Napoli – www.unina2.it Facoltà di Architettura –– Corso di laurea in design e comunicazione –– Corso di laurea in design per la moda –– Corso di laurea magistrale in design per l’innovazione


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Università degli studi di Palermo – www.unipa.it Facoltà di Architettura –– Corso di laurea in disegno industriale Università degli studi di Roma “La Sapienza” – www.uniroma1.it Facoltà di Architettura –– Corso di laurea in disegno industriale –– Corso di laurea magistrale in design del prodotto interfacoltà: Prima Facoltà di Architettura e di Scienze della comunicazione –– Corso di laurea in design, comunicazione visiva e multimediale Politecnico di Torino – www.polito.it I Facoltà di Architettura –– Corso di laurea in design e comunicazione visiva –– Corso di laurea in progetto grafico e virtuale –– Corso di laurea magistrale in ecodesign Università Iuav di Venezia – www.iuav.it Facoltà di Design e arti –– Corso di laurea in disegno industriale – sede di Treviso –– Corso di laurea magistrale in design design del prodotto (disegno industriale del prodotto) design della comunicazione (comunicazioni visive e multimediali) design della moda (design e teorie della moda) –– Corso di laurea magistrale in design – sede di San Marino 5.2 · Comparto AFAM Accademia di belle arti di Bologna – www.ababo.it Dipartimento di Progettazione e arti applicate Scuola di Progettazione artistica per l’impresa –– Corso di diploma accademico di 1° livello in Design grafico –– Corso di diploma accademico di 1° livello in Design del prodotto –– Corso di diploma accademico di 1° livello in Fashion design –– Corso di diploma accademico di 2° livello in Illustrazione per l’editoria –– Corso di diploma accademico di 2° livello in Fashion design Accademia di belle arti di Catania – www.accademiadicatania.it Dipartimento di Arti visive


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–– Corso di diploma accademico di 1° livello in Graphic Design (percorso in Comunicazione d’impresa / percorso in Editoria) –– Corso di diploma accademico di 2° livello in Graphic Design (percorso in Comunicazione d’impresa / percorso in Editoria) –– Corso di diploma accademico di 2° livello in Progettazione artistica per l’impresa Accademia di belle arti di Frosinone – www.accademiabellearti.fr.it Dipartimento di Progettazione e arti applicate –– Corso di diploma accademico di 1° livello in Graphic Design –– Corso di diploma accademico di 1° livello in Fashion Design –– Corso di diploma accademico di 2° livello in Graphic Design –– Corso di diploma accademico di 2° livello in Fashion Design Accademia di belle arti di Macerata – www.abamc.it Dipartimento di Progettazione e arti applicate Scuola di Progettazione artistica per l’impresa –– Corso di diploma accademico di 1° livello in Design (indirizzi Grafica / Fashion / Light) Dipartimento di Progettazione e arti applicate Scuola di Progettazione artistica per l’impresa –– Corso di diploma accademico di 2° livello in Graphic Design –– Corso di diploma accademico di 2° livello in Fashion Design –– Corso di diploma accademico di 2° livello in Imaging Design (indirizzi Light design / Fotografia) Accademia di belle arti di Milano “Brera” – www.accademiadibrera.milano.it Dipartimento di Progettazione e arti applicate Scuola di Progettazione artistica per l’impresa –– Corso di diploma accademico di 1° livello in Progettazione artistica per l’impresa –– Corso di diploma accademico di 2° livello in Product design –– Corso di diploma accademico di 2° livello in Progettazione artistica per l’impresa (indirizzo Fashion design) Accademia di belle arti di Palermo – www.accademiadipalermo.it Dipartimento di Progettazione e arti applicate Scuola di Progettazione artistica per l’impresa


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–– Corso di diploma accademico di 1° livello in Design grafico –– Corso di diploma accademico di 1° livello in Progettazione della moda Dipartimento di Progettazione e arti applicate Scuola di Nuove tecnologie per l’arte –– Corso di diploma accademico di 2° livello in Graphic design – Comunicazione d’impresa Dipartimento di Progettazione e arti applicate Scuola di Progettazione artistica per l’impresa –– Corso di diploma accademico di 2° livello in Progettazione della moda Accademia di belle arti di Roma – www.accademiabelleartiroma.it Dipartimento di Progettazione e arti applicate Scuola di Progettazione artistica per l’impresa –– Corso di diploma accademico di 1° livello in Grafica editoriale –– Corso di diploma accademico di 1° livello in Culture e tecnologie della moda Dipartimento di Progettazione e arti applicate Scuola di Progettazione artistica per l’impresa –– Corso di diploma accademico di 2° livello in Grafica e fotografia –– Corso di diploma accademico di 1° livello in Culture e tecnologie della moda (indirizzo Fashion design) Accademia di belle arti di Torino – www.accademialbertina.torino.it Dipartimento di Progettazione e arti applicate Scuola di Progettazione artistica per l’impresa –– Corso di diploma accademico di 1° livello in Progettazione artistica per l’impresa Dipartimento di Progettazione e arti applicate Scuola di Progettazione artistica per l’impresa –– Corso di diploma accademico di 2° livello in Progettazione artistica per l’impresa Accademia di belle arti di Urbino – www.accademiadiurbino.it –– Corso di diploma accademico di 2° livello in Visual e Motion Design Accademia di belle arti di Venezia – www.accademiavenezia.it Dipartimento di Progettazione e arti applicate Scuola di Nuove tecnologie dell’arte


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–– Corso di diploma accademico di 1° livello in Progettazione grafica e comunicazione visiva Dipartimento di Progettazione e arti applicate Scuola di Nuove tecnologie per l’arte –– Corso di diploma accademico di 2° livello in Arti visive e discipline dello spettacolo (indirizzo Progettazione grafica e comunicazione visiva) Isia Faenza – www.isiafaenza.it –– Corso di diploma accademico di 1° livello in Disegno industriale e progettazione con materiali ceramici e avanzati –– Corso di diploma accademico di 2° livello in Design del prodotto e progettazione con materiali avanzati –– Corso di diploma accademico di 2° livello in Design della comunicazione Isia Design Firenze – www.isiadesign.fi.it –– Corso di diploma accademico di 1° livello in Design –– Corso di diploma accademico di 2° livello in Product design –– Corso di diploma accademico di 2° livello in Communication design Isia Roma Design – www.isiaroma.it –– Corso di diploma accademico di 1° livello in Disegno industriale –– Corso di diploma accademico di 2° livello in Design dei sistemi Isia Urbino – www.isiaurbino.net –– Corso di diploma accademico di 1° livello in Progettazione grafica e comunicazione visiva –– Corso di diploma accademico di 2° livello in Comunicazione, design ed editoria –– Corso di diploma accademico di 2° livello in Grafica delle immagini, (indirizzi Fotografia dei beni culturali / Illustrazione)



Capitolo secondo Sull’insegnamento: temi generali ed esigenze contemporanee



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1 · Premessa al capitolo Dopo aver seguito l’evoluzione storica delle scuole di progettazione in Italia, per ipotizzare un loro sviluppo che tenda a risolverne i problemi interni, occorre raccogliere e confrontare una pluralità di punti di vista. Tuttavia, se si resta soltanto all’interno del campo della progettazione si insiste su una visione parziale che restituisce un quadro necessariamente incompleto. Pertanto questo capitolo ha lo scopo di porsi all’esterno dell’area relativamente circoscritta del design e fornire un contesto, un orizzonte più ampio. Le definizioni e le opinioni raccolte in questo capitolo, al di là di quelle di carattere generale, sono per lo più prese a prestito dalla sfera dell’istruzione primaria e secondaria – quel lungo periodo a cui, almeno nell’uso comune, si riferisce ancora la parola scuola – principalmente per due ragioni. La prima è che molte delle considerazioni elaborate per quel particolare periodo educativo sembrano valide anche per i livelli d’istruzione superiore – universitario e postuniversitario – non diversamente da come, viceversa, i progressi e le riflessioni prodotte nell’ambito della formazione continua e permanente possono influenzare la didattica scolastica nel suo complesso. La seconda è che a un livello avanzato di dibattito e riflessione teorica sulla scuola non corrisponde un’altrettanto strutturata consapevolezza sulla pedagogia e sulla didattica universitarie, in cui, al momento, la l’istruzione alla progettazione è inserita. I temi scelti sono chiaramente quelli che possono trovare riscontro anche nell’area della progettazione, le cui peculiarità saranno trattate nel prossimo capitolo. Questo quadro generale, che per forza di cose non potrà che risultare limitato e poco approfondito, va pertanto visto come base per proseguire l’analisi dell’educazione nel campo del design, sulla scorta degli spunti di riflessione affiorati.

2 · Definizioni preliminari La terminologia relativa alla pedagogia e alla strutturazione didattica subisce continuamente trasformazioni semantiche, a causa dell’uso che di essa si fa


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sia nel linguaggio comune sia negli ambienti dell’istruzione, tra i docenti e gli esperti. La letteratura di settore, peraltro, non aiuta a portare chiarezza, considerato che molti autori propongono personali varianti di alcuni concetti – coniando, in alcuni casi, anche nuove espressioni – al fine di rendere solide le proprie teorie. Diventa necessario quindi fare alcune distinzioni terminologiche che consentano di avere più chiaro in mente a cosa ci si riferisce quando si fa uso di alcune parole ricorrenti, diventate nell’accezione quotidiana sinonimi, a volte percepite come perfettamente equivalenti, spesso anche volontariamente confuse a seconda dei contesti, anche esplicitando i presupposti teorici e ideologici che i vari termini-concetti sottendono. 2.1 · Istruzione, formazione, educazione Tullio De Mauro, in un’intervista per il quotidiano “l’Unità”1, prova a definire, pur ammettendo il limite di non essere un pedagogista, i termini di istruzione, formazione ed educazione, mettendoli in relazione al loro inserimento nel contesto attuale della scuola e accennando a ciò che sarebbe da preferire. Egli definisce l’istruzione come un tipo di apprendimento formale2 di tecniche più o meno codificate; la formazione, invece, come un insegnamento finalizzato allo svolgimento di un’attività ulteriore rispetto al momento in cui essa avviene; e infine l’educazione come quell’insieme di “cose importanti” – quali progettare o collaborare – che si apprendono indirettamente, sia in contesti formali che informali, ovvero che vengono comunicate e apprese nella pratica dell’insegnamento, al di là dell’oggetto dell’insegnamento. Quest’ultima è la missione più delicata e importante per l’insegnante, ma anche per questo il terreno più difficile da gestire, il più sfuggente. De Mauro sottolinea, inoltre, quanto nella scuola contemporanea ci si preoccupi di formalizzare ciò che fa parte di contesti di apprendimento in1.  B. Sebaste, Imparare con lentezza, intervista a Tullio De Mauro, su “L’Unità”, 4 ottobre 2004. 2.  Con l’aggettivo formale ci si riferisce all’educazione che avviene all’interno di istituzioni dedicate all’istruzione e alla formazione, in tempi più o meno definiti, e che rilascia una attestazione o una qualifica finale; con l’espressione non-formale ci si riferisce all’attività educativa organizzata al di fuori del sistema formale (ad esempio all’interno di associazioni o sul luogo di lavoro), rivolta a categorie definite e che non rilascia titoli qualificanti; con l’aggettivo informale ci si riferisce al processo educativo non legato a tempi o luoghi specifici, nel quale l’individuo acquisisce, anche in modo inconsapevole o non intenzionale, conoscenze, abilità, valori dall’esperienza quotidiana e dalle influenze circostanti.


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formale3, di quanto cioè si spinga l’istruzione – di conseguenza influenzando l’educazione generale dei ragazzi – sul versante della formazione; e citando l’art. 3 della Costituzione richiama le scuole e gli insegnanti all’esigenza di educare i giovani, prioritariamente, ad essere cittadini. È il caso, però, di soffermarsi ancora su due termini-concetti in particolare. Provando ad estendere e forzare le definizioni appena citate si potrebbe notare che formazione – parola utilizzata diffusamente ormai in tutti i settori culturali, anche all’interno della scuola – conserva una stretta connessione con l’idea del corso professionale. Ciò nonostante, a seconda dell’interpretazione etimologica e della declinazione semantica, il termine suggerirebbe anche il concetto di costruzione: un percorso educativo dinamico, non apriori, fisso o pre-stabilito, ma sottoposto anche a cambiamenti e ritmi imprevedibili, e per il quale è necessario l’intervento attivo di chi impara, che condivide con l’insegnante le responsabilità dell’apprendimento. Resta in ogni caso difficile da far morire il rapporto con l’azione del “dar forma”4, la quale rischia di orientare la didattica non all’educazione di personalità autonome, ma alla formazione di specifiche competenze necessarie all’ingresso nel mondo del lavoro. Una visione della scuola – e dell’istruzione in generale – utilitaristica, considerando soprattutto il fatto che il termine formazione è quello più usato in ambito universitario e nel campo dell’educazione degli adulti, appunto coloro che sono più vicini alla professione: il piano culturale, da questo punto di vista, sembra sempre più trascurato e trascurabile. Nella stessa intervista De Mauro riporta l’episodio di una delegazione di ricercatori di matematica a cui il Ministro dell’Istruzione ha chiesto: « Ma in fondo, che cosa produce un istituto di alta matematica? »5. L’etimologia stessa di educazione6, invece, carica di un’importante responsabilità l’educatore il cui compito – sempre stando all’etimologia del termine – dovrebbe essere quello di aiutare il giovane a esprimere autonomamente la propria intelligenza e a coltivare le proprie attitudini, contemporaneamente allontanando quelle più dannose. L’educatore ha dunque una 3.  Nell’intervista De Mauro fa l’esempio dell’introduzione dell’educazione stradale o sessuale tra gli insegnamenti scolastici. 4.  È il primo significato del verbo “formare”, che facilmente conduce all’idea di manipolazione. 5. Sebaste, art.cit. 6.  Il verbo “educare”, da cui “educazione”, deriva dal latino ex-ducere, che siginifica propriamente: portare fuori, condurre fuori.


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fondamentale funzione di guida, anche se questo spingerebbe a pensare che ogni falla nell’educando possa essere grossolanamente ricondotta alla cattiva conduzione del primo. In definitiva, l’educazione si caratterizza come un processo, più lungo, ampio e complessivo dell’istruzione o della formazione, e comprende una serie di aspetti riferiti alla persona in generale, non solo alla quantità di nozioni o abilità che egli è in grado di apprendere, ma anche alla sua capacità di ragionamento, di comprensione del mondo e di relazione con gli altri. Edgar Morin, a sua volta, propone una personale e schematica definizione dei tre termini di educazione, formazione e insegnamento, coniando anche l’espressione di insegnamento educativo7. Egli considera l’educazione come “parola forte” sotto la quale vengono raccolti tutti i mezzi per assicurare la formazione e lo sviluppo dell’essere umano nella sua completezza. Rivela le connotazioni di lavorazione e conformazione implicite nella formazione, e che indicano come da questa prospettiva venga trascurata l’autentica missione della didattica: quella di incoraggiare l’auto-didattica, favorendo lo sviluppo dell’autonomia della persona. L’insegnamento, infine, è definito – con riferimento alla metafora dell’imbuto e al concetto di “travaso” – come azione e arte del trasmettere conoscenze all’allievo che sia disposto a comprenderle e assimilarle. In tal senso egli assume il ruolo decisamente più passivo di ricevente, al di là di quanto sia sensibilie all’apprendimento. Morin, allora, a questo tipo d’insegnamento restrittivo ed esclusivamente cognitivo ne sostituisce un altro che chiama insegnamento educativo, il quale può essere descritto come la missione di trasmettere non un puro corpus di conoscenze, ma « una cultura che permetta di comprendere la nostra condizione e di aiutarci a vivere », ovvero sviluppare una « maniera di pensare in modo aperto e libero »8. Con queste parole egli si riferisce alle sue idee più generali di riforma dell’insegnamento e del pensiero, affrontate più avanti. 2.2 · Scuola, studio Nonostante i due termini siano generalmente più chiari e distinti, la loro ricostruzione etimologica – suggerita da un’intervista a Carmelo Bene9 – ri7.  E. Morin, La testa ben fatta. Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero, Raffaello Cortina Editore, Milano 2000. 8.  Ibidem. 9.  Intervento di C. Bene nel programma televisivo “Il laureato, viaggio ai confini delle facoltà”,


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sulta interessante perché rintraccia in essi le due azioni distinte di insegnare e apprendere, e può aiutare a riflettere sulla giusta collocazione di questi due aspetti all’interno del processo educativo. Il verbo studiare, da cui studio e studente, deriva dal latino studère che si può tradurre con desiderare10. Scuola equivale invece a congrega, confraternita, è il luogo del riposo, in cui ci si va a rilassare (e non si studia); deriva dal greco scholè, che si traduce anche come ozio, agio, palestra, da cui il verbo scholazo11. Ma la parola greca indica anche « riposo da fatica corporea, il quale dà opportunità di ricreazione mentale o di studio »12. Quindi lo studente è colui che desidera sapere e la scuola si identifica meglio come luogo nel quale si insegna, per metonimia con il corpo insegnanti. Pertanto, come provocatoriamente Bene fa notare, si potrebbe dire che lo studio (il desiderare) non ha nulla a che vedere con la scuola. L’insegnamento e l’apprendimento diventano così, secondo questa analisi, due movimenti separati che avverrebbero in tempi e luoghi diversi. Opinione ancora valida se si assume la consapevolezza che attualmente la scuola è sempre meno il luogo dove si apprende e sempre più il luogo capace di dare significato a quanto si è appreso altrove. Il giudizio di Bene si indirizza soprattutto alle università13 affermando che non si può andare là dove si insegna per apprendere. Questo trova riscontro oggi, a seguito delle riforme14 che hanno radicalmente ristrutturato l’impianto universitario, nelle affini riflessioni di Carlo Galli15: L’Università non è più l’unico centro di elaborazione della cultura scientifica (in senso lato), e, soprattutto, questa è solo un fattore fra i tanti delle dinamiche sociali; non ne è né il motore, né la legittimazione; e non è neppure il luogo in cui la realtà pratica viene conosciuta e portata ad autocoscienza. Di ciò non si sente, semplicemente, il bisogno; forse perché la complessità della nostra esistenza associata è tale che non si può nemmeno pensare di comprenderla in un’unica istituzione – per quanto artico-

condotto da Piero Chiambretti con Enzo Jannacci, Raitre, seconda edizione 1995-96. 10.  Propriamente: applicarsi, aspirare, tendere a qualcosa, cercare. 11.  Si traduce come: riposarsi, avere tempo di occuparsi di qualcosa per divertimento. 12.  Definizione di “scuola” tratta da Ottorino Pianigiani, Vocabolario Etimologico della Lingua Italiana, digitalizzazione disponibile sul sito internet www.etimo.it. 13.  Egli si riferisce, in particolare, alle facoltà umanistiche e fa eccezione, invece, per altre quali ingegneria o medicina. 14.  Si fa riferimento sia alla riforma Zecchino-Berlinguer, di cui si è già parlato nel paragrafo 4.6 del capitolo precedente, sia alla riforma Gelmini, affrontata più avanti, nel capitolo quarto. 15.  C. Galli, Noi travet nell’università svuotata, su “La Repubblica”, 20 luglio 2010.


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lata – come l’Università. A cui si affiancano, soppiantandola, televisioni e giornali e le altre agenzie del comunicare, alle quali si affida la formazione – inevitabilmente labile e mutevole – dell’idea che una società ha di sé, nel bene e nel male. All’Università, immersa in questo contesto, le riforme recenti hanno chiesto molto meno di quanto pretendesse l’età delle borghesie nazionali: di essere non un “tempio del sapere” (che, certo, era spesso stato ridotto a un bordello) ma un “servizio sociale” di trasmissione di relativamente poche competenze a giovani che scuole sempre meno selettive hanno reso sempre meno colti e meno adatti allo studio (secondo l’accezione tradizionale di cultura e di studio, s’intende) […].

In altre parole sia la scuola che l’università italiane oggi sembrano aver perso ogni prestigio sul piano sociale e riconoscimento su quello culturale. Si può ammettere il fallimento del sistema di istruzione complessivo per come è stato strutturato e adattato ai cambiementi del contesto. Forse non rimane che tentare di condurre lo studio in strutture comunitarie di scambio e collaborazione, ovvero riformulare profondamente l’idea di scuola e università – in generale dell’istruzione – in modo che esse riescano a consentire, agevolare e stimolare il desiderio di conoscenza, la produzione di sapere e la ricerca, tenendo a mente la missione di miglioramento della condizione umana. Non è da escludere che qualcosa già accada, oggi, in questa direzione. Manca senza dubbio la consapevolezza a livello politico e di gestione delle risorse: senza investimenti in progetti e in formazione le ipotesi di sviluppo del sistema dell’istruzione rimangono tali. Sforzandosi, però, di comprendere la situazione attuale si potrà considerare meglio quali siano le proposte valide per rivitalizzare il ruolo stesso dell’educazione formale lungo l’esistenza dell’individuo.

3 · Complessità contemporanea, attualità della scuola La perdita di credibilità del sistema d’istruzione è il risultato di un fenomeno affine e più generale: lo scollamento dalla realtà delle istituzioni preposte all’educazione, nucleo critico che ha ispirato questa tesi. La società e le sue esigenze si sono evolute molto più rapidamente della macchina culturale, che non è riuscita ad adattarsi simultaneamente ai rapidi cambiamenti degli scenari contemporanei. Lo scarto che si verifica tra la progettazione della didattica e l’applicazione in ambito scolastico e universitario conduce alla rapida obsolescenza del sistema, che perdendo di attualità non viene percepito più come utile o vantaggioso. È una questione di metodi e approcci. La conoscenza non smette di per sé di essere utile o


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interessante, ma cambia la percezione che si ha di essa in base al valore che si attribuisce alle istituzioni che tradizionalmente sono deputate a depositarla e svilupparla. Si dovrebbe, pertanto, tendere a una struttura in grado di riconoscere le trasformazioni della società, cosciente del contesto effettivo e della sua rapidità di mutamento, e capace di reagire di conseguenza. 3.1 · Edgar Morin, il pensiero complesso I passaggi che hanno condotto alla perdita di credibilità del sistema di istruzione sono ben descritti nel pensiero di Morin, il quale invoca con toni profetici e affascinanti una riforma del pensiero parallela a quella dell’istruzione, nonostante permanga una « impossibilità logica che produce un doppio blocco: per riformare l’insegnamento bisogna riformare le menti, ma per riformare le menti bisogna riformare l’insegnamento »16. Vale la pena approfondire. Morin sostiene che nel corso dei secoli, in particolare durante il Novecento, si sia creato un divario incolmabile tra le discipline che hanno perso, così, qualsiasi capacità di comunicare tra loro e, di conseguenza, di comprendere la realtà, i fenomeni e le dinamiche del mondo e dell’uomo per loro natura complessi. Prima di tutto egli distingue la razionalità dalla razionalizzazione17: la prima, vista come un dialogo incessante tra la nostra mente – che tende a creare strutture logiche – e il mondo, non pretende di esaurire in un sistema ordinato la complessità del reale; la seconda invece assomiglia a un delirio patologico che pretende di racchiudere e spiegare la realtà in un sistema lineare e coerente: tutto ciò che non rientra in quel sistema viene omesso, scartato, non visto. È necessario, pertanto, sviluppare una razionalità autocritica in grado di dialogare col mondo e comprenderne la complessità oltre che gli aspetti di irrazionalità. Tuttavia la complessità, concetto cardine nel pensiero di Morin, non sostituisce o elimina la semplicità, ma la ricomprende in una relazione di antagonismo e complementarietà, e lo stesso sforzo di spiegarla in termini semplici comporterebbe ancora una volta riduzioni e mutilazioni.

16. Morin, La testa ben fatta, cit. 17.  E. Morin, Introduzione al pensiero complesso, Sperling & Kupfer Editori, Milano 1993.


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Il filosofo francese sottolinea che il pensiero complesso non aspira alla completezza, ma alla conoscenza multidimensionale. Ovvero a comprendere la correlazione tra i fenomeni, pur ammettendo l’impossibilità di una conoscenza totale: la complessità si fonda infatti sull’equilibrio tra causalità, ordine, disordine, organizzazione, sulla convivenza delle contraddizioni e la complementarietà delle contrapposizioni. Alla visione armonica, ordinata del reale se ne sostituisce una che lega insieme ordine e disordine. L’organizzazione stessa del sapere, delle nostre conoscenze, va rivista alla luce di queste considerazioni: la razionalizzazione ha condotto a considerare i campi del sapere come separati, e il più delle volte non comunicanti. Si è spinti a pensare che le categorie create dall’università corrispondano effettivamente all’organizzazione del reale, che siano anzi realtà indipendenti. La nostra attuale Università forma in tutto il mondo una proporzione troppo grande di specialisti di discipline predeterminate, dunque artificialmente circoscritte, mentre una gran parte delle attività sociali, come lo sviluppo della scienza, richiede uomini capaci di un angolo visuale molto più largo e nello stesso tempo di una messa a fuoco in profondità dei problemi, e richiede nuovi progressi che superino i confini storici delle discipline.18

L’origine del “paradigma di semplificazione” – fondato sui principi di disgiunzione, riduzione e astrazione – è da rintracciare nella separazione che Cartesio19 fa tra res cogitans e res extensa: sono vere solo le “idee chiare e distinte”, il pensiero disgiuntivo stesso20. Questo processo si è aggravato nel corso del XX secolo, e le conseguenze più dannose risiedono nell’iperspecializzazione, nella tendenza a isolare gli oggetti dall’ambiente, con conseguente incapacità di concepire il legame tra osservatore e cosa osservata, la disintegrazione degli esseri in unità quantificabili e misurabili e l’ambizione a scoprire l’ordine perfetto dietro la complessità. La mitologia che ha animato, ad esempio, i progressi della fisica è quella che le assegna la missione di svelare la semplicità nascosta dietro l’apparente molteplicità e disordine dei 18.  André Lichnerowicz (matematico francese di origine polacca, 1915-1998), citato in epigrafe da Morin, La testa ben fatta, cit. 19.  Ovviamente la formulazione paradigmatica a cui giunge Cartesio, è il prodotto di uno sviluppo culturale, storico, a lui precedente, di cui il paradigma rappresenta la legittimazione e la sistemazione ultima; così anche il modello di complessità individuato da Morin non nasce con lui, ma verrà dall’insieme di concezioni, prospettive, scoperte, riflessioni che si combineranno e aggiungeranno. 20. Morin, Introduzione al pensiero complesso, cit.


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fenomeni naturali. Ma proprio nella fisica si è manifestata la complessità sia su scala micro che macro fisica21. La semplicità sembra essere, dunque, solo un momento, un passaggio da un estremo all’altro. Si scopre che il cosmo non è una macchina perfetta, ma un processo in continua disintegrazione e organizzazione: ordine e disordine, da sempre considerate componenti antagoniste, cooperano all’organizzazione dell’universo. Questo è un tipico caso di idea complessa e in questa rete di idee la mente umana sente il bisogno di mettere ordine. Le operazioni che permettono l’intelligibilità devono riuscire, però, a non offuscare la correlazione complessa dei fenomeni. Il paradigma di semplificazione ha tuttavia portato – come più volte ribadisce Morin – a un consistente avanzamento delle conoscenze scientifiche e riflessioni filosofiche con una crescita esponenziale di scoperte e ricerche: è la fase di analisi dei problemi complessi, che permette di approfondirne capillarmente le diverse componenti22. Adesso si prevede una nuova fase in cui le informazioni parziali vanno ricomposte, guidate dalla consapevolezza della complessità, per accedere alla comprensione del reale. Il paradigma di distinzione-congiunzione proposto da Morin, che consente di distinguere senza disgiungere, associare senza identificare, dovrebbe diventare il modo in cui la mente umana considera il mondo, non il principio rivelatore: la complessità, infatti, contempla la presenza del caso, dell’errore e dichiara l’ineliminabilità di zone inaccessibili o inspiegabili nei fenomeni del reale. 3.2 · Sistemi aperti e organizzazione Sul pensiero di Morin grande influenza ha esercitato la teoria dei sistemi23, elaborata dal biologo austriaco Ludwig von Bertalanffy nel corso degli anni Cinquanta, la quale ha il merito di: –– aver posto al centro della teoria non delle unità discrete elementari ma una totalità che non è la semplice somma delle parti costitutive; 21.  Si vedano ad esempio gli studi sul comportamento delle radiazioni e della materia o le ipotesi sulla formazione dell’universo. 22.  Morin descrive la nostra visione delle cose come governata da principi di separazione (distinzione / disgiunzione), unione (identificazione / associazione), gerarchizzazione e centralizzazione. 23.  Descritta in Morin, Introduzione al pensiero complesso, cit.


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–– aver considerato la nozione stessa di sistema non come reale o formale, ma ambigua; –– aver previsto una relazione interdisciplinare tra le scienze; –– aver proposto la nozione di “sistema aperto”, la cui organizzazione, autonomia e la stessa esistenza sono garantite da un’enorme quantità di scambi con l’esterno (flussi generati da squilibri); il paradosso è che le strutture rimangono inalterate nonostante i propri costituenti siano continuamente rinnovati. L’intelligibilità del sistema, pertanto, non deve essere ricercata soltanto all’interno del sistema stesso, ma anche nella relazione con l’ambiente circostante; non un rapporto di semplice dipendenza, ma costitutivo del sistema. L’ambiente, rispetto al sistema, resta allo stesso tempo intimo ed estraneo, ne fa parte pur restandone esterno. Quest’ultima nozione è quella che ritengo di maggiore interesse e ricca di spunti. Il concepire la realtà come strutturata in sistemi chiusi ha favorito una visione del mondo classificatoria, analitica, riduzionista, ha portato a cercare solo rapporti di causalità lineare, minando la comunicazione fra i saperi. La considerazione dell’apertura dei sistemi, invece, spinge a intuire quanto sia indispensabile per il loro stesso funzionamento l’apporto di componenti esterne al sistema, e quindi enfatizza i concetti di scambio e collaborazione. Questa interpretazione aiuta a spiegare come le discipline si siano sempre più reciprocamente allontanate e rende evidente la necessità di una connessione più forte tra i saperi, spingendo alla risoluzione di problemi più ampi. Provando ora a immaginare la scuola e l’università come sistemi specificamente aperti, posto che abbiano tutte le caratteristiche per essere considerati tali, o addirittura come sistemi viventi che tendono all’auto-organizzazione – poiché gli elementi che ne regolano l’esistenza e il funzionamento sono gli stessi esseri umani che le compongono – è possibile dedurre che l’organizzazione di questi sistemi sia fortemente correlata all’ambiente. Il sistema dell’istruzione sarà tanto più autonomo quanto più intensi saranno gli scambi con l’esterno: l’ambiente svolge infatti nei sistemi aperti un ruolo di co-organizzazione. Il paragone non è azzardato se si considera che anche l’autonomia umana, del resto, è “complessa” nello stesso senso: essa “dipende”24 da condizioni 24.  Qui intervengono i concetti di riflessività e ricorsività: la società agisce sull’uomo e lo condiziona così come anche l’uomo agisce nella società e la condiziona. Proseguendo il paragone:


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culturali e sociali – quali il linguaggio, l’educazione e una cultura tale che permetta di fare scelte autonome – oltre che da un cervello che dipende a sua volta da un programma genetico. Peraltro, nel caso di sistemi con un alto grado di auto-organizzazione si genera una certa coscienza di sé. Ed è proprio questo l’aspetto di cui è carente attualmente sia il sistema scolastico sia quello universitario: una chiara idea del proprio ruolo all’interno della società. La coscienza di sé, in questo caso, si tradurrebbe in una riflessione sull’educazione e la didattica che parte dai docenti e dagli studenti stessi. Una tale capacità – auto-riflessiva – permetterebbe una consapevolezza maggiore non solo delle emergenze, ma anche l’elaborazione di possibili soluzioni. Bisognerebbe, ad ogni modo, prevedere dei momenti in cui svolgere tali riflessioni, incorporandole negli spazi e nei tempi di funzionamento del sistema stesso. 3.3 · Dalla modernità funzionale alla contemporaneità liquida In rapporto all’idea di pensiero complesso, è interessante anche leggere la contrapposizione tra le categorie della modernità e gli atteggiamenti contemporanei che propone Daniela Piscitelli nel suo intervento al convegno su Maria Montessori25 (Chiaravalle, 26-27 ottobre 2007), ispirate in parte alla nozione di “liquidità” di Zygmunt Bauman. Il pensiero modernista, che ha dominato le vicende culturali e politiche del secolo scorso, era sorto sui miti della funzionalità, della velocità, dell’efficienza, dell’ordine, della precisione. Era un pensiero guidato dall’utopia di una società giusta e democratica. Quel modello ha ormai rivelato le sue illusioni: a queste categorie della certezza, oggi, si sono sostituite quelle più sfuggenti dell’opacità, della lentezza, della discontinuità, della variabilità. Piscitelli individua una serie di categorie della modernità per le quali propone l’equivalente contemporaneo. Le affinità con il pensiero complesso sono evidenti26. L’oggetto esatto, perfetto, trasparente e auto-esplicante il sistema dell’istruzione è soggetto ai cambiamenti sociali economici e politici, li incorpora come ambiente con cui scambia informazioni; ma allo stesso tempo dovrebbe svolgere un’azione nel contesto in cui è situata. Assumere un ruolo attivo nel dialogo con la società-cultura. 25.  D. Piscitelli, Paracelso e le rose, il design per la pedagogia oltre la modernità, nella sezione a cura di P. Grimaldi e R. Manzotti, Maria Montessori. Un design per la pedagogia, in “Progetto grafico”, n. 14-15, giugno 2009. 26.  Pur riferendosi al design, Piscitelli inserisce il proprio contributo nel contesto più ampio dei cambiamenti culturali e sociali.


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dell’industria moderna non è più l’isolato protagonista nella molteplicità di immagini, idee, simboli, valori della società dell’informazione, sempre più orientata a soddisfare il desiderio di “personalizzazione”: si propongono oggetti aperti a una fruizione non del tutto determinata. L’errore che veniva visto come disfunzione della macchina puntuale ed esatta può essere riammesso come opportunità che apre squarci su nuovi ambiti di ricerca: « quelli che sembravano essere i residui non scientifici delle scienze umane – l’incertezza, il disordine, la contraddizione, la pluralità, la complicazione – fanno oggi parte a pieno titolo della problematica di fondo della conoscenza ». La concezione del tempo, visto come il binario rettilineo dell’evoluzione e del progresso, ha portato a « privilegiare nelle procedure di apprendimento quei sistemi che tendono ad avere uno sviluppo lineare »27, che seguano il principio di causa-effetto; la linea del tempo e dei rapporti causali si è aggrovigliata alla dimensione dello spazio, infittita nell’idea di trama, di un tessuto discontinuo e percorribile in più direzioni e su più livelli. A questo si affianca la rete in cui la vera qualità è nella relazione. Queste riflessioni, oltre a fornire un’ulteriore prospettiva da cui osservare e leggere la contemporaneità, mettono in luce il carattere inclusivo che dovrebbero avere le strutture del sapere (le università prima ancora delle scuole): dovrebbero cioè permettere di riconoscere, includere e studiare, ma prima di tutto ammettere, le caratteristiche di complessità, casualità, indeterminazione che oggi si rintracciano nei fenomeni del mondo. Ciò porta con sé conseguenze che vanno dall’autonomia degli studenti alle pratiche collaborative, fino alla rivalutazione dell’errore come fonte di conoscenza. 3.4 · Validità delle conoscenze acquisite a scuola In rapporto agli scenari contemporanei appena tracciati è opportuno dare uno sguardo, più da vicino, alla validità del sistema d’istruzione italiano in termini di preparazione degli allievi. Le indagini promosse dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE)28, a livello internazionale, sull’istruzione degli adolescenti prossimi alla conclusione 27.  F. La Rocca, Il tempo opaco degli oggetti. Forme evolutive del design contemporaneo, Franco Angeli, Milano 2006; citato in Piscitelli, art. cit. 28.  Si tratta del Programma per la valutazione internazionale dell’allievo, meglio noto con l’acronimo PISA (Programme for International Student Assessment), indagine effettuata con periodicità triennale a partire dal 2000.


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dell’obbligo scolastico, posizionano gli studenti italiani al di sotto della media dei paesi partecipanti. Il pedagogista Benedetto Vertecchi, a partire da questi dati, affronta la situazione della scuola italiana in rapporto a quella degli altri paesi, evidenziando il disallineamento tra le cose che si imparano nei contesti di educazione formale e quelle che servono lungo tutto l’arco della vita. Propone un’analisi delle cause che hanno portato all’attuale assetto e alla comparsa di alcuni fenomeni, diffusi anche a livello internazionale, quali l’analfabetismo di ritorno e la dispersione scolastica. Nonostante egli si riferisca alla scuola secondaria, il suo punto di vista risulta interessante ai fini di questa ricerca perché ricco di spunti che possono sicuramente valere anche nell’ambito dell’istruzione superiore, ma anche perché gli stili cognitivi e i metodi di studio che i ragazzi sviluppano durante l’educazione scolastica sono l’eredità che portano con sé all’università e oltre. Vertecchi espone29 quali siano state le esigenze e le diverse dinamiche che hanno portato alla progressiva scolarizzazione in Europa nel corso dei secoli, le ragioni dei ritardi italiani e i motivi per cui oggi le istituzioni scolastiche abbiano perso la loro validità e necessitino di una rifondazione teorico-culturale nonché strutturale. Il processo di scolarizzazione nel nostro continente si è svolto in due grandi fasi: la prima ha riguardato i paesi nordeuropei, la seconda gran parte degli altri. Nei paesi di tradizione luterana l’apprendimento della lettura serviva a soddisfare l’esigenza immateriale d’interpretazione dei testi sacri. Nel resto d’Europa, invece, le ragioni per cui si è resa necessaria la nascita di sistemi di istruzione erano utilitaristiche, legate allo sviluppo industriale – più recente – e alla trasformazione dei sistemi economici: doveva contribuire ad accelerare la modernizzazione della società. L’Italia ha però sofferto le conseguenze di uno sviluppo incompiuto avviando i processi di scolarizzazione con diversi decenni di ritardo rispetto a paesi come Francia, Germania e Gran Bretagna. Si calcola che dall’unità d’Italia alla prima Guerra Mondiale la percentuale di popolazione alfabetizzata è cresciuta dal 5 al 50%. La riforma Gentile del 1922 ha in parte frenato questo processo destinando l’istruzione scolastica alle fasce di popolazione con caratteristiche più fa-

29.  B. Vertecchi, Che tutti leggano, ogni giorno, intervento al “Festival della creatività e dell’innovazione” di Firenze, maggio 2005 (www.nuovoeutile.it).


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vorevoli30, ma non è riuscita nonostante ciò a contenere la scolarizzazione come aveva previsto. Il sistema scolastico ha avuto una considerevole crescita, paragonabile a quella avvenuta da tempo negli altri paesi, soltanto durante gli anni sessanta.31 Per effetto di questo ritardo rispetto al resto dei paesi europei, oggi la popolazione più anziana, come si può prevedere, ha bassissimi livelli di istruzione; e nonostante le fasce più giovani abbiano usufruito di un periodo considerevole di educazione formale, sono proprio queste le più soggetta alla regressione delle competenze simboliche subito successiva al periodo scolastico. Si registra un alto tasso di perdita di conoscenze simboliche – literacy e numeracy – oggi tendenzialmente maggiore nei ragazzi tra i 16 e i 25 anni rispetto alle fasce di età intermedie, intorno ai 40 anni. A ciò si aggiungono cambiamenti profondi nei comportamenti collettivi, che implicano un diverso uso delle competenze di base. Con queste parole Vertecchi32 sintetizza le cause dei fenomeni in atto, dei quali bisogna prendere coscienza per stabilire quali conseguenze ne derivino per la scuola: Oggi imparare a leggere, scrivere e far di conto non significa più iniziare un percorso di progresso culturale e sociale come nel passato, quando la stessa idea di progresso ha trascinato lo sviluppo scolastico e ha fatto accettare scuole anche peggiori di quella che abbiamo noi oggi, molto più povere. Agli inizi del Novecento una classe di scuola elementare in Italia era composta mediamente da cinquanta bambini e, se si esaminava la disponibilità di risorse fisiche per l’educazione, il quadro era terrificante. Eppure quella scuola era desiderabile. Ed era desiderata a tal punto da compensare i limiti dell’offerta. Oggi le cose sono cambiate: quasi la totalità della popolazione è coinvolta nell’educazione scolastica, la qualità dell’offerta prevale sulla intensità della domanda. Ma la desiderabilità sociale dell’istruzione che ha caratterizzato le fasi espansive dei sistemi scolastici ha anche prodotto un effetto negativo: quello di considerare il processo irreversibile e far credere che la condizione faticosamente acquisita lo fosse per sempre. Certo, oggi tutta la popolazione è alfabeta (in Francia la domanda “sai leggere, sai scrivere?” è stata cancellata dal censimento nel 1949), ma ciò non vuol dire che sia anche in grado di capire. Perché per capire, occorre passare da una capacità solo tecnica (il possesso del codice) a una capacità di comprensione e di operare con i simboli acquisiti.

30.  Per approfondire si veda la sezione seconda del capitolo primo. 31.  Si veda l’effetto delle leggi n. 1859 del 1962 e n. 910 del 1969, citate nella terza sezione del capitolo primo 32. Vertecchi, Che tutti leggano, cit.


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La conseguenza più evidente è, pertanto, un’attenuazione dell’immagine classica della scuola, come luogo in cui si consegue l’alfabetismo. Occorre dunque ripristinare « la convergenza fra l’idea di scuola e quella di progresso »33. Inoltre, osservando le stime sul progressivo allungamento della vita nei paesi industrializzati, Vertecchi illustra come sia fondamentale non associare la formazione dei primi venti anni a un profilo professionale: non si può prevedere cosa accadrà nei restanti sessant’anni della vita di un individuo, un tempo troppo lungo per ipotizzare quello che servirebbe imparare. Per di più, gran parte di ciò che si apprende a scuola – soprattutto quegli insegnamenti che si presentano come acquisizione di informazioni – si dimentica in un arco di tempo abbastanza breve. È una dimenticanza funzionale: impariamo molte più cose di quelle che effettivamente ricordiamo perché servono a incrementare repertori interpretativi che poi useremo in diversi modi nel corso della vita. Dimentichiamo il contesto in cui certi elementi sono stati acquisiti ma conserviamo la capacità di utilizzare successivamente quegli elementi in altri contesti.34

Bisogna allora chiedersi quali siano le competenze che restano e come conciliare elementi permanenti con altri più legati a periodi brevi e transitori. Le competenze di cui si sente meno il bisogno nell’immediato sono quelle che diventano più utili a lungo termine – competenze linguistiche, matematiche o di problem solving – poiché « si tratta di capacità di adattamento, che trasformano i profili delle popolazioni in funzione dei cambiamenti e delle innovazioni che si verificano nel quadro sociale »35. Questa sembra essere la premessa logica della necessità sia di un’educazione costante degli adulti, sia di una didattica fondata sullo sviluppo di competenze, in particolar modo simboliche e di base, unico stabile patrimonio del periodo di istruzione formale. 3.5 · Influenze esterne, distribuzione del tempo nella scuola Riguardo ai preoccupanti dati italiani relativi a livello di alfabetizzazione matematico-scientifica e comprensione di un testo scritto, a cui si è accen33.  B. Vertecchi, Per una riorganizzazione dell’offerta formativa, in E. Bertonelli e G. Rodano (a cura di), Il laboratorio della riforma. Autonomia, competenze e curricoli, Le Monnier 1999. 34. Vertecchi, Che tutti leggano, cit. 35.  Ibidem.


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nato, Vertecchi36 individua anche altre cause, più strettamente connesse con il modello scolastico italiano. Egli sostiene che la colpa non sia da imputare ai docenti e ai metodi d’insegnamento. Ciò che più influenza la formazione, infatti, è l’ambiente culturale in cui i ragazzi vivono, ovvero tutto ciò che accade fuori dalla scuola, e in primo luogo l’ambiente familiare, inadeguato a soddisfare l’esigenza di conoscenze. Ciò accade perché, rispetto agli altri Paesi europei, da noi viene riproposto un modello ottocentesco di “servizio scolastico” in cui l’orario di funzionamento della scuola coincide con l’orario delle lezioni. Se in Francia o in Finlandia a una riduzione delle ore di lezione corrisponde un tempo più lungo di apertura delle strutture, in Italia l’orario delle lezioni – sempre più contratto37 – assorbe tutto il tempo a disposizione degli studenti. Questi perdono, così, ogni occasione di sfruttare l’ambiente e le strutture a disposizione, come laboratori e biblioteche, per fare esperienze e attività extra-didattiche, ovvero per « tradurre una conoscenza solo verbale in comportamenti »38. Un ambiente “protetto” e attrezzato che sopperisca all’inadeguata organizzazione della vita dei ragazzi, molto più condizionati dal contesto esterno che dalla scuola, solitamente affetto da povertà di linguaggio e prevalenza di richiami suggestivi su quelli razionali e culturali. Attualmente il tempo trascorso a scuola, per molti studenti, risulta noioso. Nella scuola non si hanno le possibilità di vivificare attraverso l’esperienza quanto appreso in classe. Tale perdita di interesse da parte dei ragazzi causa un ovvio scollamento della scuola dalla società, che non è in grado di riconoscerle un’adeguata legittimità. Di fatto comporta una crescente perdita di qualità dell’istruzione, e una svalutazione degli insegnanti e dei titoli di studio, nonché delle conoscenze acquisite e competenze sviluppate. La distanza tra insegnamento e desiderio di apprendere è ancora più chiara alla luce di queste considerazioni. Estendendo, invece, il tempo di funzionamento delle strutture scolastiche – non limitato solo a quello delle lezioni – nell’educazione dei giovani confluirebbero più aspetti della vita stessa. Il complesso del sistema educativo dovrebbe prendersi cura non solo degli aspetti della formazione di base e 36.  B. Vertecchi, Altro che Finlandia, così la scuola torna ai modelli del 1800, su “L’Unità”, 5 febbraio 2010. 37.  Tale riduzione delle ore di lezione si ispira evidentemente ai modelli europei più avanzati, ma ne interpreta solo una parte. 38. Vertecchi, Altro che Finlandia, cit.


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nozionistica ma anche di quelli culturali, sociali e relazionali, quali la formazione di coscienza critica, di relazioni reciproche, di capacità di scelta. Non ci aspetta che ciò accada grazie all’intervento dei fondi stanziati per la scuola a livello centrale. Per questo Vertecchi propone di chiedere agli enti locali e al mondo sociale di partecipare alla realizzazione dell’apertura completa delle scuole. Non bisogna dimenticare, inoltre, di preservare anche il “tempo libero” dei ragazzi: ampliare la possibilità di utilizzo degli spazi e dei mezzi di cui la scuola o l’università dispongono non significa occupare nuovamente tutto il tempo a disposizione degli studenti – disperdendone le energie – con ulteriori corsi, seminari, attività semi-obbligatorie. Si dovrebbero prevedere, piuttosto, ampi margini di libertà (e di errore), quindi di autonomia e responsabilità. È necessaria, tuttavia, un’attenta riflessione sulla qualificazione del tempo libero e sulla modalità di introduzione di fattori di disordine e elasticità, necessari all’inventiva e all’innovazione, senza che questi ultimi conducano alla dispersione e disaggregazione. Ciò comporterebbe una sostituzione di programmi rigidi con lo sviluppo di strategie che prevedono indeterminazione, possibilità di variazione e risposte immediate a situazioni impreviste39.

4 · Conoscenze e competenze Alla fine degli anni novanta, con la riforma Berlinguer40, vengono introdotti, oltre a sostanziali ristrutturazioni nel sistema italiano d’istruzione scolastica, anche una serie di concetti e terminologie che il dibattito sulla scuola aveva elaborato e continua ancora adesso a discutere. La riforma si proponeva di realizzare il passaggio da un tipo di apprendimento nozionistico a un modello di scuola che all’acquisizione di conoscenze affianchi lo sviluppo di competenze. Tuttavia, a distanza di oltre dieci anni dall’entrata in vigore della legge, si discute ancora la legittimità di una didattica per competenze, ci si chiede quanto l’individuazione della distinzione di 39.  Le considerazioni e gli spunti raccolti in quest'ultimo paragrafo sono affini e complementari al discorso sulla didattica esperienziale, per il quale si rimanda alla sesta sezione di questo capitolo. 40.  Essa comprende tutta la serie di decreti ministeriali e regolamenti emanati tra la fine degli anni novanta e il 2000, anno di approvazione della Legge n. 30 del 10 febbraio 2000, in materia di Riordino dei cicli di istruzione.


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conoscenze e competenze costituisca un effettivo passo in avanti – o piuttosto uno indietro sulla strada della separazione o schematizzazione eccessiva – e si continua a fornire interpretazioni dei due concetti e del rapporto che li lega. Questo vivo dibattito dà l’idea di quanto i presupposti teorici della riforma siano tuttora in corso di applicazione e verifica, in qualche modo sperimentali. Le definizioni sono ancora aperte e, per forza di cose, non completamente, pienamente acquisite. Ciononostante, le riflessioni prodotte in tale ambito vanno ben oltre il caso di applicazione della scuola: riguardano l’intero percorso educativo dell’individuo dall’infanzia all’età adulta, e possono essere messe in relazione alle caratteristiche dell’istruzione superiore universitaria. 4.1 · Definire le competenze Il concetto di competenza applicata alla didattica, alla luce del quale molte nazioni stanno riorganizzando il proprio sistema scolastico e i relativi sistemi di valutazione, è stato formulato nel corso del dibattito sulla scuola degli anni novanta. Gli esperti e i pedagogisti non convengono ancora su una definizione univoca di competenza, e non mancano neppure aperte critiche al modello di scuola fondato sulle competenze che si è andato delineando nel corso degli ultimi dieci-venti anni. Di seguito sono riportati alcuni tentativi di definizione – elaborati nell’ambito della riforma sull’autonomia scolastica – cercando di comprenderne la validità oltre il contesto scolastico. La legge n. 59 del 15 marzo 199741 e il successivo regolamento del 199942 hanno avviato il famoso processo di autonomia delle istituzioni scolastiche, in vigore dall’anno scolastico 2000-01, un’autonomia che non fosse più soltanto organizzativa, ma funzionale. Si trattava di disporre la capacità di adattamento della scuola alle trasformazioni del paese, alle esigenze della società e dei singoli, con norme che contenessero diversi elementi di flessibilità. Il regolamento, con le parole di Livia Barberio Corsetti43, ha guidato anche la transizione dalla cultura del sapere alla cultura della competenza: 41.  Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica Amministrazione e per la semplificazione amministrativa; in particolare, l’art. 21 prevede l’autonomia e riorganizzazione dell’intero sistema formativo. 42.  Decreto del Presidente della Repubblica n. 275, 8 marzo 1999, Regolamento recante norme in materia di autonomia delle istituzioni scolastiche. 43.  L. Barberio Corsetti, Il regolamento dell’autonomia, prove di nuovo diritto, in BertonelliRodano, op. cit.


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la prima, fondata sulla vastità dei contenuti appresi, caratterizza l’apprendimento come “avere”; la seconda non elimina il sapere ma lo inserisce in un apprendimento concepito come crescita complessiva dell’essere. Roberto Maragliano44 descrive, invece, questo momento come il passaggio dalla logica gerarchica e centralista del castello a quella orizzontale della rete, presupposto per la realizzazione dell’autonomia delle istituzioni. Tale passaggio si è compiuto sostituendo ai vecchi programmi didattici ministeriali, diventati sempre più enciclopedici e ambigui, quindi interpretabili, le cosiddette “tavole delle competenze”, che avrebbero dovuto essere estremamente chiare ed essenziali, ma restare aperte abbastanza da consentire non interpretazioni ma “scelte” da parte delle scuole. Provvedimenti come questo miravano a dotare le scuole di un ampio margine di responsabilità, che permettesse loro di intraprendere un dialogo con il mondo circostante, riconoscendo l’intervento nel processo formativo dei ragazzi di altre forme – e sedi – di elaborazione e trasmissione dei saperi. Il documento45 di base, datato marzo 1998, elaborato dalla commissione incaricata dal Ministero della Pubblica Istruzione di definire i saperi irrinunciabili per il complesso della formazione scolastica, poneva le premesse per una una definizione abbastanza ampia di competenza. In esso si legge: Compito fondamentale della scuola è garantire a chi la frequenta: – lo sviluppo di tutte le sue potenzialità e la capacità di orientarsi nel mondo in cui vive (sia esso l’ambiente di più diretto riferimento, o lo spazio sempre più esteso della comunicazione e dell’interscambio), al fine di raggiungere un equilibrio attivo e dinamico con esso; – l’assimilazione e lo sviluppo della capacità di comprendere, costruire, criticare argomentazioni e discorsi, per dare significato alle proprie esperienze e anche difendersi da messaggi talvolta truccati in termini di verità e di valore.

Le competenze, a cui si fa riferimento in varie parti delle norme e regolamenti succitati, sanciscono – nelle parole di Elena Bartonelli – un nuovo sistema formativo, fondato sulla « capitalizzazione delle varie esperienze di 44.  R. Maragliano, Consapevolezza dei saperi e filosofia della reticolarità, in Bertonelli-Rodano, op. cit. 45.  R. Maragliano, C. Pontecorvo, G. Reale, L. Ribolzi, S. Tagliagambe, M. Vegetti, I contenuti essenziali per la formazione di base, consultato sul sito internet dell’Indire (www.bdp.it). La commissione, composta dagli autori, ha lavorato nei primi mesi (gennaio-maggio) del 1997; il documento prodotto è stato presentato e discusso nell’incontro del 20 marzo 1998, promosso dal Ministero e dall’Accademia dei Lincei.


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istruzione, educazione e formazione di cui ciascuno riesce a fruire durante la propria esistenza di studio e di lavoro »46. La messa a punto di questo sistema servirebbe a garantire il raccordo tra sistemi diversi per la circolazione dei titoli in Europa. 47Ad ogni modo, l’uso del termine “capitalizzazione” mette molto a disagio: sembra manifestarsi la tensione a un legame sempre più stretto con il mondo del lavoro, orientando la didattica ad un sapere subito “spendibile” – altra parola intrisa di connotazioni utilitaristiche e commerciali48 – in contrasto con le indicazioni di Vertecchi a proposito della necessità di sviluppare competenze a lungo termine. Tuttavia, Bertonelli, sostiene che proprio la diffusione capillare in tutto il sistema scolastico di una prassi didattica per competenze avrebbe l’effetto di allontanare questa nozione dall’area della formazione professionale. Quello che si vuole assicurare è un diritto all’apprendimento dei ragazzi, oltre il diritto allo studio: ovvero impegnarsi a cogliere le vocazioni, le potenzialità oltre che le difficoltà dei singoli. La didattica per competenze garantirebbe la possibilità di “personalizzare” il percorso formativo di ognuno in base ai propri ritmi e modalità di apprendimento. Obiettivo implicito in questa rinnovato rapporto tra insegnamento e apprendimento è l’abbassamento della dispersione scolastica. Si tenta di sostituire al criterio della selezione – che connotava la scuola nell’impostazione della riforma Gentile – un sistema fondato sull’orientamento: ciò implica necessariamente una riformulazione del ruolo dell’insegnante, con particolare attenzione alla sua funzione di guida, per cui è richiesta una forte preparazione pedagogica e metodologica. Con queste parole, infine, prova a chiarire cosa siano le competenze49: Ciò che ci si deve attendere dal processo formativo è quel sapere critico in grado di sostanziare l’intelligenza duttile e la learning ability richieste dalla complessità della “società conoscitiva” contemporanea. Dovremmo dire allora che quei traguardi non sono le conoscenze, bensì la loro utilizzazione teorica e pratica in un contesto storico. E cos’altro è la competenza se non proprio questa capacità di utilizzare e di padroneggiare una conoscenza fino a

46.  E. Bertonelli, Il padroneggiamento delle conoscenze, in Bertonelli-Rodano, op. cit. 47.  A tal proposito si vedano gli orientamenti individuati nella Dichiarazione di Bologna e la successiva riforma universitaria, descritti nella quarta sezione del capitolo primo. 48.  Nei testi normativi della riforma in questione si fa largo uso anche del termine formazione in riferimento al periodo scolastico; nella seconda sezione di questo capitolo sono già state esposte alcune riflessioni sulle connotazioni del termine. 49. Bertonelli, art. cit.


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farne anche il punto d’origine e di generazione di una spirale virtuosa di altre conoscenze e competenze? Ma se questa è una possibile definizione di competenza ne discende che tale definizione è valida per ogni segmento formativo e per ogni ambito disciplinare […]. È valida insomma per la scuola come per la formazione professionale, per l’università come per le esperienze di lavoro. Ogni acquisizione teorica ha difatti implicazioni pratiche e ogni abilità pratica ha un riscontro teorico.

Questa sorta di definizione di competenza – come capacità di utilizzare e padroneggiare conoscenze acquisite – mostra le caratteristiche di flessibilità della nozione, su cui possono convergere i diversi livelli d’istruzione. Tale convergenza non deve però trascurare, appiattendole, le peculiarità di ciascuno stadio: il modo in cui si costruiscono stili cognitivi, i metodi di studio e di accesso al sapere che caratterizzano le varie fasce di età. È necessario, a questo punto, distinguere alcune fondamentali tipologie di competenze per riuscire a individuarle e distribuirle opportunamente nell’articolazione didattica dei vari livelli di istruzione. Nicola Serio ne individua quattro gruppi principali50: – Competenze strumentali (le strumentalità di base, le “tecniche dell’alfabetizzazione”, delle discipline: come ad esempio le regole dell’aritmetica, della lingua, ecc.). – Competenze “come strutture formative della conoscenza” (capacità di concettualizzare, categorizzare, di fare un uso personale, riflessivo, applicativo a situazioni diverse e sempre nuove delle proprie conoscenze). – Competenze trasversali (saper collegare in senso “reticolare” le conoscenze apprese: problema delle competenze interdisciplinari). – Competenze valoriali (assumere orientamenti fondamentali in ordine alle scelte di vita: ad esempio, conquista della “identità” e della “autonomia”, come prevedono gli orientamenti della scuola materna del 1991).

Si tratta, come si vede, di competenze diverse: alcune, come quelle strumentali riguardano solo un segmento del percorso d’istruzione, altre costituiscono le finalità dell’azione educativa che va dall’infanzia fino all’età adulta. Questo implica che quelle competenze che riguardano tutto l’arco della vita – come ad esempio quelle trasversali – non debbano essere rimodellate sulle caratteristiche di ciascun ciclo d’istruzione. Le competenze, secondo questa classificazione, possono essere considerate il presupposto per la definizione di una didattica inter- e trans-disciplinare. La determinazione delle competenze trasversali, in particolare, porta a servirsi delle conoscenze in modo diverso, senza tuttavia eliminarle, ridurle 50.  N. Serio, Una didattica orientata alle competenze, in Bertonelli-Rodano, op. cit.


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o declassarle: si tratta di individuare « negli statuti, nei linguaggi e negli oggetti delle discipline quei nuclei fondanti, quelle categorie costitutive, quei momenti più incisivamente formativi in grado di favorire la costruzione di quel sapere critico, di quella intelligenza duttile che hanno proprio nella trasversalità la loro ineliminabile cifra costitutiva »51. La necessità di un approccio multidisciplinare è messa in luce anche nello documento del 1998 prima citato. A proposito del rapporto tra curricolo e materie di studio, la commissione prefigura in questi termini l’evoluzione del sistema d’istruzione52: Il traguardo finale sarà un insegnamento-apprendimento organizzato per temi, alla cui elaborazione concorrano diversi settori culturali, e in cui l’analisi dei contenuti specifici sia accompagnata ed arricchita da aspetti storico-epistemologici e tecnico-applicativi, in modo da dare una chiara percezione di quanto sia oggi essenziale per la risoluzione di problemi complessi un approccio multidisciplinare integrato.

In conclusione, si può notare che, se da una parte i vantaggi della didattica per competenze sono largamente enfatizzati, dall’altra la definizione stessa di competenza resta abbastanza sfuggente e dai contorni troppo vaghi: sembra piuttosto affidata all’intuizione e all’interpretazione dei singoli contributi. 4.2 · Da un altro punto di vista Giorgio Israel è tra coloro che critica l’influenza che il pensiero di Morin e il costruttivismo pedagogico hanno avuto sulla scuola italiana. Soprattutto della didattica fondata sulle competenze – che a quei modelli chiaramente si ispira – mette in evidenza i rischi e le derive: ovvero l’aver oscurato il valore delle conoscenze in favore di una nozione imprecisa e indefinibile di competenza, considerata l’unico obiettivo dell’istruzione scolastica. Egli insiste sul fatto che sia necessario continuare a sviluppare la capacità di comprensione ed elaborazione « sul materiale vivo e concreto della conoscenza »53, non sulla trasmissione di astratti precetti di metodologia pura. Gli aspetti della conoscenza e del ragionamento sono e devono restare strettamente legati, senza sbilanciare l’istruzione su nessuno dei due fronti:

51. Bertonelli, art. cit. 52.  Maragliano et al., I contenuti essenziali per la formazione di base, cit. 53.  G. Israel, Il disastro del successo formativo garantito, su “Il Messaggero”, 28 agosto 2009.


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da un lato si cadrebbe nel nozionismo che con la riforma dell’autonomia s’intende superare, dall’altro nella vacua metodologia. Non è possibile distinguere, tanto meno contrapporre, i tre aspetti di conoscenza, competenza e abilità, così come individuati nella terminologia delle riforme scolastiche: Il problema è che il fatale trittico non è solo inutile, ma conduce a risultati disastrosi perché codifica una separazione a tre livelli; come se esistessero situazioni accettabili in cui uno possiede conoscenze ma non sa farne uso, oppure sa farne uso ma si blocca di fronte a un problema. È una distinzione che svilisce l’idea di conoscenza che è sempre stata pensata come inclusiva dei tre aspetti (giustamente mai distinti) e da valutare complessivamente. Distinguendo si introduce l’idea assurda che l’acquisizione assolutamente passiva di concetti sia una forma di conoscenza.54

Israel sostiene che la pretesa di riformare la scuola – impresa, a suo avviso, guidata da tecnocrati, esperti di pedagogia e didattica – abbia portato con sé la demolizione del sistema delle conoscenze e delle discipline (l’apprendere) sostituite soltanto da tecniche di apprendimento (l’apprendere come si apprende). Egli riconosce, tuttavia, l’esigenza di un’istruzione che si adegui ai tempi e che consenta di saper applicare ciò che si apprende, ma richiama contemporaneamente alla necessità di non disperdere, in questo tentativo, il patrimonio delle conoscenze. Le sue considerazioni sono utili da tenere a mente per evitare di ideologizzare le teorie finora prese in esame, valutandone da più punti di vista le conseguenze: non è da escludere, infatti, che nel corso del tempo e in sede di applicazione la nozione di competenza sia stata malinterpretata e, di conseguenza, la sua introduzione massiva nella strutturazione della didattica abbia fatto regredire alcuni aspetti dell’istruzione – ad esempio, sia la quantità di conoscenze acquisite dagli studenti che il loro valore percepito. Un altro aspetto controverso, messo in luce da Israel, è quello della valutazione delle competenze, difficilmente quantificabili e misurabili55: Una grandezza per essere misurabile deve ammettere un’unità di misura definibile in termini oggettivi e indipendente dall’introduzione di variabili ausiliarie. Ciò non esclude che una “qualità” possa essere suscettibile di valutazioni quantitative, le quali tuttavia non sono misure ma semplici stime. Ciò è possibile a condizione di essere 54.  G. Israel, La scuola delle « competenze » demenziali, su “Il Giornale”, 15 novembre 2009. 55.  G. Israel, Un dibattito sulle competenze a scuola, su “Scuola Democratica”, n. 2 (nuova serie), giugno 2011.


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consapevoli che una siffatta trattazione quantitativa non soltanto non è una misurazione esatta ma è intrisa di fattori soggettivi. Nella fattispecie essi sono rappresentati dai test che sono lo strumento principe di queste valutazioni quantitative. I test sono preparati da persone che hanno opinioni soggettive – spesso assai opinabili e divergenti tra loro – sui criteri di valutazione delle competenze.

Si potrebbe contestare questo passaggio considerando che neppure le conoscenze siano “cose” quantificabili, impilabili e misurabili. Bisogna però osservare che, dalla sua prospettiva, non esiste nell’articolato processo di apprendimento un’effettiva separazione tra conoscenze, competenze e abilità, né queste sono composte da entità discrete. Inoltre nessuna valutazione dell’apprendimento può di fatto essere oggettiva: essa riguarda entità la cui definizione precisa è impossibile, peraltro soggette a variabilità sociale e storica. Ancora sulle competenze adottate quale parametro di valutazione, Israel commenta56: Il vero punto di forza della didattica delle competenze sta nell’esigenza di determinare modalità di valutazione delle capacità lavorative delle persone che valgano per tutta l’area europea. Allo scopo le culture nazionali rappresentano un intralcio. Le competenze chiave enunciate dal Parlamento Europeo corrispondono a quella esigenza e inevitabilmente indirizzano verso un approccio anticulturale in cui […] tutto lo spazio è riservato a capacità meramente tecnico-operative. […] Chi ha a cuore il futuro di questi sistemi dovrebbe battersi per ricomporre rapidamente l’artificiosa dicotomia tra conoscenze e competenze e difendere una visione della formazione che non si pieghi a esigenze esclusivamente tecnocratiche e di mercato del lavoro.

A conclusione di questo approfondimento sul rapporto tra conoscenze e competenze si potrebbe constatare che il merito del dibattito non sia tanto quello di aver introdotto o distinto le due nozioni, quanto quello di aver portato l’attenzione sul tema, mettendo in discussione consolidate pratiche di apprendimento mnemonico e nozionistico ed enfatizzando la necessità di sviluppare, parallelamente all’acquisizione di conoscenze, la capacità di metterle in relazione, di far dialogare i saperi, e di costruire autonomamente i propri percorsi di apprendimento.

56.  Ibidem.


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5 · Connessione tra le discipline Un pensiero ormai largamente condiviso è quello che considera come condizione necessaria all’avanzamento delle conoscenze umane il superamento dei confini disciplinari. È soprattutto la contaminazione dei linguaggi, lo scambio di metodi, teorie e tecniche a consentire “incidenti” di frontiera che aprono zone d’intervento inattese, presupposto per nuove scoperte e progressi nella ricerca. La separazione disciplinare è, tuttavia, un fenomeno relativamente recente. L’articolazione del sapere in discipline distinte ha risposto unicamente a esigenze di tipo organizzativo e utilitaristico: essa è stata istituita con la nascita, nel XIX secolo, dell’università moderna, e si è sviluppata nel corso del secolo successivo. Si è già visto con Morin come il paradigma di semplificazione che ha portato a circoscrivere il campo d’azione delle discipline abbia parallelamente consentito gli avanzamenti della scienza e della riflessione filosofica. Senza tale limitazione la conoscenza sarebbe di per sé inafferrabile. Dall’altro lato, però, perseguendo tale segregazione disciplinare, si è teso all’iper-specializzazione, fenomeno caratteristico del XX secolo, e alla “cosificazione” dell’oggetto studiato, dimenticando i legami, la solidarietà che questo conserva con altri saperi. Le discipline hanno una loro storia: nascita, istituzionalizzazione, evoluzione e deperimento; e ogni disciplina tende naturalmente all’autonomia, nonostante sia inglobata in un contesto scientifico più vasto: ha un proprio dominio di competenza, propri linguaggi, tecniche e teorie. Le discipline, ovviamente, sono ancora intellettualmente giustificate, ma solo a patto che mantengano una visuale tale da permettere d’individuare le reciproche interconnessioni57: L’indebolimento di una percezione globale conduce all’indebolimento del senso della responsabilità, poiché ciascuno tende a essere responsabile solo del proprio compito specializzato, così come all’indebolimento della solidarietà, poiché ciascuno percepisce solo il legame con la propria città.

Bisogna conservare una certa apertura delle discipline, senza la quale non si riuscirebbe a risolvere le loro intrinseche criticità, impossibili da individuare e conoscere dal di dentro. Del resto, come si è già detto, dal prestito 57. Morin, La testa ben fatta, cit.


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di metodi e competenze delle altre aree del sapere possono venire gli spunti più interessanti per un avanzamento della disciplina stessa e della conoscenza in generale. Infine, secondo le definizioni di Morin58: nell’approccio interdisciplinare lo scambio e la cooperazione tra i saperi specialistici permettono che essi diventino qualcosa di organico; la polidisciplinarità si caratterizza come associazione di discipline in virtù di un progetto o di un oggetto comune; la transdisciplinarità si realizza, invece, quando gli schemi cognitivi riescono ad attraversare le diverse discipline coinvolte nel processo. Quest’ultima è la sola che permette di costruire un pensiero globale. La soluzione organizzativa delle discipline, prodotta in ambito universitario, ha investito anche i livelli d’istruzione scolastica: essa è stata considerata la più idonea all’organizzazione dell’apprendimento. Ma la didattica scolastica, come indicato da Lucio Guasti59, ha delle specificità che non corrispondono alla classificazione della scienza. L’articolazione disciplinare è un aspetto della cultura, un modello di ripartizione che la scienza stessa ha elaborato per la propria autocomprensione, non necessariamente funzionale all’apprendimento – di competenza della scuola. Nell’ambito dell’autonomia scolastica viene allora proposta una riorganizzazione del sapere centrata sull’apprendimento, ovvero sul soggetto che apprende: il modello culturale viene ripensato in modo che risulti adeguato alle domande significative sulla vita, la società, lo sviluppo personale. La prospettiva multidisciplinare diventa, secondo questo orientamento, particolarmente importante per l’istruzione scolastica, il cui scopo dovrebbe essere quello di concorrere all’educazione dei ragazzi, aiutandoli a costruire il proprio profilo culturale e la propria capacità di adattarsi e rispondere ai mutamenti, anziché guidarli verso la specializzazione. La stessa missione di cui dovrebbe essere investita l’università: formare cittadini e non professionisti, senza smarrire la visione globale; puntare ad essere un centro di produzione – oltre che conservazione e riproduzione – del sapere promuovendo la ricerca, rivitalizzata dal dialogo tra le discipline specialistiche. Del resto, le competenze trasversali – ovvero quelle che attengono alla capacità di collegare in senso “reticolare” le conoscenze apprese – sono il tipo di competenza che attraversa tutti i gradi di istruzione. Si acquisiscono, si perfezionano con il tempo e si esercitano lungo tutto l’arco della vita, nel 58.  Ibidem. 59.  L. Guasti, Un curricolo centrato sul significato, in Bertonelli-Rodano, op. cit.


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percorso che va dall’istruzione scolastica fino alla formazione degli adulti, ricorsiva e permanente. 5.1 · Competenze cognitive e trasversali: multi- inter- trans-disciplinarietà Per superare il nozionismo e la pretesa di conoscenza enciclopedica che hanno a lungo caratterizzato l’apprendimento scolastico, Franco Frabboni60 propone un’interazione dialettica tra saperi disciplinari (presenti nei programmi scolastici) e saperi interdisciplinari (riferiti al contesto di vita degli allievi), che vada oltre la loro consueta contrapposizione. La disciplinarità conserva il fondamentale compito di individuare le competenze proprie di ogni materia d’insegnamento. Dunque è opportuno sottoporre le singole discipline a un processo di analisi che individui le competenze di primo livello e quelle di livello superiore. Ciascuna disciplina, infatti, porta con sé – nel proprio “statuto” – tre tipi di competenze: –– competenze monocognitive, che riguardano l’acquisizione delle condotte alfabetiche proprie della disciplina – in termini di conoscenze e linguaggi; –– competenze metacognitive, che permettono di padroneggiare processi logici e metodologici – quali analisi e sintesi, induzione e deduzione, impostazione e risoluzione di problemi; –– competenze fantacognitive, che generano abilità euristiche ed estetiche dell’allievo – relative al saper riorganizzare le conoscenze acquisite al fine di produrre conoscenze nuove. L’insieme delle competenze monocognitive si riferisce all’acquisizione – attraverso la riproduzione e ripetizione – di apprendimenti elementari quali: saper memorizzare e riconoscere un contenuto acquisito, conoscere ed essere in grado di usare termini, simboli, date e concetti, compiere operazioni elementari e riuscire a ordinare e classificare secondo criteri noti. Per quando riguarda il repertorio delle competenze metacognitive: la padronanza logica permette all’allievo di osservare e comprendere il mondo, di conservare le informazioni accumulate – a livello di apprendimento elementare – integrandole con altre preesistenti; la padronanza metodologica mette a disposizione dell’allievo vari metodi d’approccio ai saperi, da applicare nell’identificazione 60.  F. Frabboni, Disciplinarità e trasversalità: sapere, comprendere, inventare, in BertonelliRodano, op. cit.


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e risoluzione dei problemi. Il livello più alto di competenze cognitive riguarda la capacità sia di ragionare che di inventare, ovvero di attivare processi mentali convergenti e divergenti: la convergenza è alla base del capacità di analisi-sintesi e del metodo razionale – nel dominio delle competenze metacognitive; la divergenza consente di trovare più soluzioni a uno stesso problema, adottare soluzioni originali, elaborare idee e materiali – alla base della fantasia e della creatività. Secondo l’impianto tassonomico descritto da Frabboni, le capacità cognitive intermedie insieme a quelle di livello superiore costituiscono il nucleo stabile e permanente dell’apprendimento, diversamente da quelle elementari, più instabili e a breve raggio. Questo schema di competenze cognitive integra le definizioni di competenza proposte nella sezione precedente di questo capitolo. Soprattutto fornisce la base per comprendere meglio a quali livelli e in che modo avvenga lo scambio, l’intersezione tra le varie discipline. Ai tre stadi di competenze cognitive si affiancano, infatti, le competenze trasversali che permettono di connettere tra loro i saperi acquisiti in contesti disciplinari diversi. Frabboni distingue queste competenze, a loro volta, in tre tipi di trasversalità: –– trasversalità come multidisciplinarietà, la modalità didattica più diffusa nella scuola, che si realizza quando un tema relativo a una disciplina riceve l’apporto monocognitivo da altre materie affini, e lo scambio avviene, pertanto, solo in termini di conoscenze e linguaggi; –– trasversalità come interdisciplinarietà, che si realizza quando un tema disciplinare o un oggetto di ricerca ricevono l’apporto sia monocognitivo che metacognitivo da altre materie, più e meno affini, in termini di linguaggi, contenuti, logiche e approcci metodologici; –– trasversalità come transdisciplinarietà, difficilmente applicabile agli argomenti disciplinari, che si realizza quando un oggetto di ricerca, prevalentemente extra curricolare, riceve l’apporto dell’intero sistema di un’altra disciplina, a livello di competenze mono- meta- e fantacognitive. La trasversalità multidisciplinare conserva, dunque, una connotazione paratattica, accostando i saperi con un debole grado di correlazione. L’interdisciplinarietà ha il vantaggio di sviluppare le capacità di imparare a ragionare e inventare, attivando un fitto scambio di relazioni tra le discipline. La transdisciplinarietà si colloca, invece, fuori dal contesto della didattica scolastica: il suo terreno d’azione è quella zona di confine, quello spazio interstiziale


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nel quale « la coordinazione delle discipline originarie acquista il carattere di nuova disciplina »61. 5.2 · Crisi delle materie scientifiche Ammettere che la generica connessione tra le varie aree del sapere sia un fattore necessario per l’avanzamento delle ricerche, della cultura e della conoscenza umana non è sufficiente a superare l’attuale segregazione disciplinare. Occorre, infatti, mettere in luce quali siano le carenze strutturali – quindi le priorità – del sistema d’istruzione, per intervenire direttamente sulle attuali emergenze: è necessario individuare nel panorama dei saperi quali siano quelli più marginalizzati e trascurati, con particolare riferimento alla situazione del nostro paese. In Italia, come già sottolineato, la riforma Gentile62 aveva nettamente privilegiato gli studi filosofici-umanistici rispetto a quelli matematici e tecnico-scientifici. Questa caratteristica del nostro sistema d’istruzione – diffusa a tutti i livelli, da quello scolastico a quello universitario – ha manifestato i suoi effetti in questi ultimi decenni, conducendo a una generale svalutazione delle materie scientifiche63. Carlo Bernardini, partendo da questa tendenza, mette in evidenza l’attuale propensione degli studenti per quelle che egli chiama scienze “neoumanistiche”, forme di cultura ibride nate da una sorta di realtà “artificiale”64: si tratta di discipline quali l’informatica, le scienze della comunicazione, la robotica, la sistemistica. Sia l’entusiasmo dei giovani che l’ostilità dei più anziani nei confronti di queste nuove aree disciplinari vanno considerate come atteggiamenti eccessivi, da ridimensionare alla luce di altre considerazioni. Bisogna, infatti, riflettere sul valore intrinseco delle scienze e della ricerca di base65: […] le attività culturali tradizionali (formazione classica e ricerca di base) hanno assunto una collocazione laterale, direi quasi esotica, nella quale è difficile prendere coscienza 61.  Ibidem. 62.  Per approfondire si veda la sezione seconda del capitolo primo. 63.  Si tratta di discipline quali matematica, fisica, chimica e biologia, spesso identificate come scienze “pure”. 64.  Carlo Bernardini, Integrare scienze “dure” e scienze umane, sul portale “nuovo e utile” (www.nuovoeutile.it). 65.  Ibidem.


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vuoi della funzione, che intrinsecamente hanno, di fertilizzante della qualità culturale generale, (peraltro poco richiesta dal pubblico) vuoi del fatto che le scienze pure sono la matrice remota, e quindi al di là dell’orizzonte individuale, di ogni innovazione.

Infine, per ricomporre la frattura tra la cultura scientifica e quella umanistica, Bernardini propone di “umanizzare” le scienze, integrando nella didattica corrente di queste discipline la storia delle loro idee. Una proposta che, per quanto interessante, lascia qualche perplessità: posta in questi termini, si caratterizza come una soluzione a breve termine per risolvere il problema del disinteresse manifestato dagli studenti nei confronti delle materie scientifiche, un modo per « riguadagnare […] un certo numero di anime disorientate »66. L’urgente necessità di una rivalutazione della cultura scientifica in Italia è stata riconosciuta anche a livello centrale, dal Ministero, che dalla metà degli anni duemila ha promosso una serie di iniziative, indirizzate ai livelli di istruzione scolastica, volte a migliorare l’apprendimento delle scienze e incentivare le iscrizioni alle facoltà scientifiche. Un’indagine preliminare67, datata aprile 2004, aveva messo in luce la crisi delle “vocazioni scientifiche”, che si manifestava in una diminuzione delle iscrizioni a percorsi universitari a contenuto scientifico. Da tempo alcune discipline – quali la fisica e la matematica – non erano più percepite come significative per lo sviluppo economico del paese, mentre si tendeva a preferire discipline a carattere applicativo che hanno un riscontro lavorativo più immediato. Tale considerazione era in controtendenza rispetto ai dati che invece indicavano « una buona performance delle lauree di carattere scientifico sul mercato del lavoro e un generale buon livello di soddisfazione da parte dei laureati in materie scientifiche che lavorano »68. Il sistema scolastico, d’altro canto, tendeva a non motivare adeguatamente i giovani rispetto all’apprendimento delle materie scientifiche. L’indagine sottolineava, infatti, quanto « l’idea di una scienza difficile, universalistica e

66.  Ibidem. 67.  L’indagine dal titolo “La crisi delle vocazioni scientifiche e le sue motivazioni”, commissionata dalla Conferenza Nazionale dei Presidi di Scienza, è stata condotta da Observa – Scienza e Società, sotto la supervisione di Massimiano Bucchi (Università di Trento) e Federico Neresini (Università di Padova) e con la collaborazione di Valeria Arzenton e Andrea Lorenzet, e pubblicata nel mese di aprile 2004; reperibile nell’archivio online dell’area istruzione del Miur. 68.  Ibidem.


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a-contestuale »69 tenesse lontani gli studenti dallo studio di queste materie e proponeva, in contrasto, un’idea di scienza capace di essere compresa anche nelle sue componenti storiche e sociali70. Una successiva indagine71 del 2006 raccoglieva le opinioni degli studenti di scuola secondaria superiore sui corsi di laurea in Chimica, Fisica e Matematica. In generale, i risultati dell’indagine dimostravano una perplessità diffusa tra gli studenti circa le prospettive d’impiego offerte dalla frequenza dei corsi universitari in discipline scientifiche: la loro curiosità relativa a questi corsi risultava, del resto, molto più spostata sul versante delle possibilità lavorative che su quello dell’organizzazione didattica. Gli studenti esprimevano, inoltre, il desiderio di un approccio pratico nell’insegnamento delle materie scientifiche, e la curiosità per una conoscenza diretta delle attività di ricerca. Si registrava, ad ogni modo, una bassa propensione per l’iscrizione ai corsi di laurea scientifici, nonostante l’indagine avesse preso in esame proprio gli studenti più interessati a queste materie. Nel complesso, l’indagine ha evidenziato la necessità di uno « sforzo congiunto di scuola ed università per aumentare le attività di laboratorio durante gli studi superiori e offrire agli studenti la possibilità di effettuare degli stage per avvicinarli al mondo della ricerca scientifica »72, considerato l’aspetto più attraente dei corsi di laurea scientifici. I progetti che il Ministero nel frattempo si impegnava a promuovere e avviare puntavano a dare una risposta operativa alle esigenze individuate da queste prime indagini. 5.3 · Promozione della cultura scientifica e tecnologica La prima delle iniziative ministeriali a cui si è fatto riferimento è il Progetto Lauree Scientifiche, nato nel 2004 dalla collaborazione tra il Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca, la Conferenza Nazionale dei Presidi 69.  Ibidem. 70.  Si può notare l’affinità con le opinioni e le proposte di Carlo Bernardini sopra esposte. 71. L’indagine è stata svolta sulla base di un questionario distribuito agli studenti partecipanti all’edizione del 2006 dei Giochi della Fisica, dei Giochi della Chimica e delle Olimpiadi di Matematica. Sono state raccolte le opinioni di un campione di oltre 4.000 studenti delle scuole superiori, riguardanti i corsi di laurea oggetto del Progetto Lauree Scientifiche (chimica, fisica, matematica). 72.  U. Segre, Opinioni degli studenti di scuola superiore sui corsi di laurea scientifici, sintesi dell’indagine, su “La chimica e l’industria”, n. 9, novembre 2006; reperibile nell’archivio online dell’area istruzione del Miur


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di Scienze e Tecnologie e Confindustria. L’obiettivo iniziale del progetto era quello di incrementare il numero d’iscritti ai corsi di laurea in Chimica, Fisica, Matematica e Scienza dei materiali, svolgendo azioni di orientamento rivolte agli studenti delle scuole secondarie superiori. Le attività, concentrate nel quinquennio 2005-2009, hanno coinvolto circa 3000 scuole e 4000 docenti delle scuole superiori, oltre a 1800 docenti universitari. La principale innovazione rispetto ai tradizionali programmi di orientamento pre-universitario risiede nella realizzazione di azioni pensate come parte integrante e strutturale dell’insegnamento delle discipline scientifiche, con ricadute sull’apprendimento stesso delle scienze. Esse consistevano in attività di laboratorio curricolari ed extra curricolari, dedicate agli studenti degli ultimi tre anni, col fine di migliorare la conoscenza e la percezione delle discipline scientifiche nella scuola. Il lavoro congiunto tra scuole e università per la progettazione, realizzazione e valutazione di questi laboratori, mirava inoltre ad avviare un processo di crescita professionale dei docenti di materie scientifiche in servizio nelle scuole secondarie. Il Progetto si impegnava, infine, a incentivare le attività di stage e tirocinio presso le università, i gruppi e gli enti di ricerca, sia pubblici che privati. Nei cinque anni di attività del Progetto si è registrato un sostanziale incremento73 delle immatricolazioni ai corsi di laurea di riferimento. Questi risultati, benché non siano unicamente riconducibili agli effetti del Progetto Lauree Scientifiche, hanno spinto il Ministero a rilanciare nel 2009 l’iniziativa, trasformandola in Piano nazionale per le Lauree Scientifiche (2010-2012), per sottolineare la necessità di passare dallo stato di sperimentazione iniziale ad un sistema che raccogliesse le pratiche migliori del precedente progetto e sperimentasse nuove azioni. Nel 2006 sono partiti anche due piani nazionali di formazione continua dei docenti della scuola primaria, secondaria di primo grado e del primo biennio del secondo grado74: si tratta del Piano Insegnare Scienze Sperimentali, rivolto agli insegnanti di scienze, e del Piano M@t.abel, rivolto agli insegnanti di matematica, per i quali il Progetto Lauree Scientifiche 73.  Si è registrato: +70% per la classe di Scienze Matematiche (L-35); +14% per la classe di Scienze e Tecnologie Fisiche (L-30); +33% per la classe di Scienze e Tecnologie Chimiche (L -27). Dati riportati sul sito ufficiale del Progetto (www.progettolaureescientifiche.eu) 74.  Per una loro approfondita analisi si veda la terza sezione del capitolo quarto, dedicata specificamente a questi due casi studio.


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rappresenta il naturale completamento nell’ultimo triennio della scuola secondaria superiore. Nel 2010, infine, è stato costituito75 un Comitato per lo sviluppo della cultura scientifica e tecnologica, eredità di un precedente Gruppo di lavoro, istituito con decreto interministeriale76 del 4 agosto 2006, con medesime finalità e simile composizione. Il Comitato – a cui è affiancato un nucleo operativo – nasce con l’intento di definire azioni per la diffusione della cultura scientifica e tecnologica, proporre progetti rivolti alla scuola e all’università, in particolare orientati alla formazione dei docenti e al sostegno della loro attività professionale, e suggerire soluzioni metodologiche e didattiche per un miglioramento dei percorsi formativi delle discipline scientifiche.

6 · Didattica esperienziale La necessità di un rapporto dialettico tra conoscenza teorica e applicazione pratica, di un equilibrio di teoria e prassi, all’interno dei percorsi educativi e formativi sembra ormai una nozione acquisita, benché non completamente riscontrabile nella didattica scolastica o nei piani di studio universitari. Con le parole di Lucio Guasti77, si può rilevare che: […] la sola conoscenza non consente di raggiungere una reale comprensione dei fatti, dei concetti, delle idee; occorre accentuare il rapporto con la realtà, con l’applicazione, con la prova empirica; è necessario attuare una nuova connessione tra informazioni e apprendimento, mediata dalla visione applicativa degli oggetti considerati. […] Si apprende con maggiore efficacia se l’informazione attraversa in modi diversi tutta la struttura del soggetto che è composita e non soltanto focalizzata sulla dimensione intellettuale.

Occorre, pertanto, soffermarsi ad approfondire gli aspetti più interessanti dell’approccio esperienziale all’apprendimento, che ha origine nel pensiero del pedagogista americano John Dewey.

75.  Decreto Ministeriale n. 54, del 30 giugno 2010. 76.  Siglato dal Ministro dell’università e della ricerca, dal Ministro della pubblica istruzione, dal Ministro per le riforme e le innovazioni nella pubblica amministrazione e dal Ministro per i beni e le attività culturali. 77. Guasti, art. cit.


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6.1 · John Dewey, educazione progressiva La riforma dell’autonomia scolastica – a cui si fa riferimento in più parti di questo capitolo – è per molti aspetti debitrice del pensiero di John Dewey, che in Italia ha trovato terreno fertile e sempre più larga diffusione nella seconda metà del Novecento78. Le idee del pedagogista e filosofo americano hanno avuto un’ampia risonanza in ambito europeo, anche al di fuori degli ambienti scolastici, a diversi livelli di istruzione e in molteplici contesti formativi. Uno degli aspetti su cui principalmente si fonda la corrente progressiva che fa capo a Dewey è il valore dell’esperienza nei processi di apprendimento, e in definitiva nei rapporti tra uomo e ambiente. Alcune caratteristiche di questo approccio sembrano essere tuttora valide. Risulta opportuno, per questa serie di ragioni, approfondire e verificare l’attualità del modello pedagogico esperienziale. L’educazione tradizionale si caratterizza – secondo Dewey – per essere essenzialmente fondata sulla trasmissione di conoscenze, abilità e norme comportamentali elaborate nel passato. Secondo questo modello, gli insegnanti sono considerati il tramite del processo per il quale il sapere del passato viene comunicato – attraverso libri e manuali che lo rappresentano – agli alunni; i quali soltanto in questo modo vengono in contatto con il materiale della conoscenza. Tale imposizione dall’alto e dal di fuori impedisce la partecipazione attiva degli alunni a ciò che viene insegnato, non corrispondendo alle loro effettive capacità di apprendere e comportarsi. La materia d’insegnamento resta estranea alle trasformazioni a cui la società è costantemente sottoposta. La nuova educazione progressiva mira a cambiare radicalmente questa impostazione, non soltanto opponendosi ad essa, ma rimettendo al centro del processo educativo l’allievo, la sua individualità e la sua libera attività. L’apprendimento, in questo caso, è fondato sull’esperienza anziché sulla trasmissione dei testi. Le abilità e le tecniche, non più isolate dal contesto, sono viste come mezzi per ottenere fini che corrispondono a esigenze vitali. Un’impostazione di questo tipo corrisponde – come si può constatare – all’esigenza di orientare l’educazione verso le possibilità del presente anziché strutturarla come preparazione per un futuro remoto e indefinito.79 Un 78.  Ciò accadeva proprio mentre negli Stati Uniti l’impostazione pedagogica di Dewey subiva critiche e perdeva il consenso che aveva ricevuto negli anni venti-trenta. 79.  Questo è l’aspetto che va forse più profondamente rivisto del pensiero di Dewey: tale orien-


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modello educativo, dunque, in linea con l’indirizzo filosofico americano del pragmatismo di cui Dewey, del resto, era uno tra i maggiori esponenti. Al di là di questi principi astratti Dewey sostiene che, per evitarne il dogmatismo quanto una applicazione negativa, sia necessaria una esatta idea di esperienza. Benché ogni autentica educazione abbia origine nell’esperienza, non tutte le esperienze sono di per sé educative, ma solo quelle che permettono e favoriscono esperienze ulteriori, più ricche, con un effetto a lungo raggio. Tutto dipende dalla loro qualità. Neanche la scuola tradizionale è priva di esperienze ma esse sono in gran parte cattive, perché: –– l’apprendimento è considerato slegato dalla vita e dalle situazioni, rendendolo perciò noioso; –– sono fondate su un addestramento automatico che inibisce le capacità di giudicare e agire consapevolmente; –– sono sconnesse tra loro anche quando singolarmente interessanti. Si deve allora puntare alla costruzione di un « continuum sperimentale » poiché « ogni esperienza riceve qualcosa da quelle che l’hanno preceduta e modifica in qualche modo la qualità di quelle che seguiranno »80. Questa continuità dell’esperienza genera abitudini che si trasformano in comportamenti attraverso i quali l’uomo interagisce col mondo. Come si vede, l’enfasi è sul processo, sullo svolgimento della crescita. Compito dell’educazione – quindi degli educatori – è dunque quello di guidare le esperienze indirizzandole verso oggetti validi e positivi. Incarico tutt’altro che facile per l’educatore chiamato a partecipare attivamente, con la duplice funzione di comprendere le caratteristiche individuali81 e riconoscere la direzione verso cui tendono le esperienze degli alunni, anche influenzate dalle condizioni circostanti82, di cui egli deve pertanto avere adeguata conoscenza. È questo un chiaro richiamo, per i docenti, ad avvicinarsi alla vita dei ragazzi e contemporaneamente estendere il proprio dominio di conoscenze: nelle situazioni che l’individuo si trova ad affrontare interagiscono, infatti, entrambe le condizioni interne e tamento tende a coincidere con un tipo di formazione indirizzata alla professione. Si confronti questo punto con le riflessioni di Vertecchi, riportate nel paragrafo 3.4 di questo capitolo. 80.  J. Dewey, Esperienza e educazione, La Nuova Italia, 1938. 81.  Sono le condizioni interne quali impulsi, bisogni, inclinazioni, sentimenti. 82.  Sono le condizioni esterne e oggettive che vanno dai libri, agli altri, alla storia, alla società e l’economia


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oggettive. Continuità e interazione sono allora i cardini dell’esperienza educativa. Nel processo di interazione un aspetto particolarmente innovativo è il fatto che il materiale educativo (condizioni oggettive) si adatta ai bisogni e le attitudini degli allievi (condizioni interne), così come anche gli individui si adattano al materiale fornito. Un altro nucleo fondante dell’educazione progressiva è l’idea della comunità di individui che partecipa attivamente e collettivamente all’impresa educativa e ne condivide in egual misura la responsabilità. L’insegnante diventa parte integrante di questo gruppo guidandone le interazioni e comunicazioni interne, anziché esercitare il suo controllo dall’esterno. L’educazione si configura pertanto come un processo sociale. È evidente soprattutto in questo passaggio la matrice democratica del pensiero di Dewey. Le attività, che coinvolgono l’intero gruppo, diventano progetti comuni ai quali ogni individuo porta il suo contributo. Esse dovranno essere attentamente – non rigidamente – studiate e pianificate, in maniera flessibile abbastanza da prevedere margini di libertà sufficientemente elastici, spazi per il “libero gioco” del pensiero indipendente e contributi delle esperienze individuali, evitando di lasciare la didattica in balìa dell’improvvisazione. A tal proposito Dewey sottolinea il rapporto tra la libertà intellettuale – potere di giudicare, scegliere, progettare – e la libertà di movimento. Nella scuola tradizionale gli alunni sono obbligati a rispettare il silenzio e l’immobilità, un modello di passiva ricezione fondato sull’ascolto, che esclude il carattere sociale dell’educazione. La libertà d’azione, invece, influenza positivamente l’apprendimento e permette all’insegnante di conoscere gli individui. Il fine verso cui l’educazione deve tendere è l’autocontrollo, il dominio di sé, in generale l’autodeterminazione. Per quanto riguarda la missione complessiva dell’educazione, nei modelli tradizionali si tende a preparare gli studenti alla maturità, si apprendono abilità e conoscenze che serviranno soltanto più tardi. Il futuro, che deve comunque essere tenuto presente ad ogni stadio dell’educazione, nell’impostazione di Dewey si configura come un futuro prossimo, non remoto. Acquisire nozioni che poi si dimenticano vuol dire che esse sono state apprese in compartimenti separati dall’esperienza, e come tali non servono alla vita attuale: si considerano solo i dati particolari in quel momento e non le attitudini sviluppate che contano e rimangono nel futuro. Un individuo deve trarre dalle esperienze tutto quello che esse possono offrire nel presente, non considerarle come preparazione alla vita futura. L’educazione deve tuttavia


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disporre « le condizioni per un genere di esperienza presente che abbia un effetto favorevole sul futuro »83. Un punto delicato, questo, che può facilmente condurre a una visione dell’educazione come utilitaristica, strumentale e professionalizzante. Se, infatti, resta valida la considerazione di favorire il valore presente delle esperienze educative, per mettere i giovani in condizione di dialogare con il mondo circostante, meno condivisibile sembra la tensione al futuro prossimo, all’immediata possibilità di applicare le abilità e le competenze maturate nel periodo di educazione formale84. Infine, circa il contributo delle conoscenze, Dewey non nega l’opportunità di conoscere il passato, la validità delle nozioni ereditate. Tuttavia, specifica che queste dovrebbero costituire un mezzo, non il fine, dell’educazione, uno strumento per giudicare e agire nel presente e nel futuro. Si ripresentano anche in questo punto le inclinazioni verso una visione strumentale del processo di insegnamento-apprendimento. 6.2 · Definire il laboratorio Il modello della scuola progressista costituisce la base per un tipo di didattica che includa il momento laboratoriale – dell’esperimento e dell’applicazione – come tassello fondamentale nei processi di apprendimento. Il laboratorio stesso sembra la sintesi dei punti cardine sopra illustrati. Vale la pena soffermarsi a definire più precisamente cosa sia il laboratorio e quali siano le sue caratteristiche. Si tratta di un dispositivo che agisce a livello organizzativo, pedagogico e didattico85: In sede organizzativa, il laboratorio propone un nuovo modello degli spazi scolastici. In ambito pedagogico dilata le dinamiche della socializzazione con un respiro ben più ampio di quello che possono fruire nell’aula-madre. Infine, in sede didattica favorisce un insegnamento “altro”, basato sulla ricerca, anziché sulla lezione frontale.

83. Dewey, op. cit. 84.  Questo ricorda da vicino il concetto di “spendibilità” dei titoli di studio, e la preoccupazione circa l’ingresso nel mondo del lavoro, piuttosto che riguardo la costruzione a lungo termine di un profilo culturale stabile e lo sviluppo di autonomia critica e decisionale (l’autodeterminazione di cui parla lo stesso Dewey). 85.  M. Baldacci, Il laboratorio come strategia didattica, in Nando Filograsso e Roberto Travaglini (a cura di), Dewey e l’educazione della mente, Franco Angeli, 2004.


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In estrema sintesi, « il laboratorio è uno spazio attrezzato in cui si svolge un’attività centrata su un certo oggetto culturale »86. È quindi sulle categorie della spazialità, attività e oggettualità che esso si fonda. Nella spazialità tuttavia non rientra soltanto lo spazio fisico, diverso dall’aula in cui si svolgono le lezioni frontali. Può essere considerato laboratorio qualsiasi situazione didattica che preveda un tipo di apprendimento attivo – basato sull’imparare facendo – al di là del luogo in cui questo avvenga. Pertanto ci si potrà riferire anche a una spazialità di situazione nel caso in cui il laboratorio utilizzi spazi destinati ad altro: in questo caso conta l’atteggiamento mentale, l’intenzionalità didattica. Sono entrambe condizioni astratte in quanto, nella prassi, « lo spazio materiale, senza l’atteggiamento mentale è vano; ma l’atteggiamento senza condizioni materiali adeguate rischia di risultare impotente ».87 Il laboratorio può definirsi, allora, anche come la sintesi di questi due aspetti: spazialità materiale e atteggiamento mentale. Per altri versi la stessa disposizione degli spazi – relazioni spaziali tra le cose e tra le persone, oggetto di studio della prossemica – può determinare l’atteggiamento mentale dell’attività, essere il segnale che permetta all’alunno di entrare nella situazione laboratoriale. Per quanto riguarda l’oggettualità del laboratorio, ad un primo livello logico, essa si esplica nella tematica particolare su cui è incentrata l’attività; ad un livello più profondo quello che si apprende non sono più singoli contenuti ma abiti mentali, ovvero si acquisiscono modi di funzionamento cognitivi costanti, che caratterizzano a lungo termine la persona. Su questo, ovviamente, agisce soprattutto il modo in cui l’oggetto del laboratorio viene trattato, cioè l’attività pratica che viene proposta. In questo punto esiste una certa affinità con i due livelli (tipi logici) di protoapprendimento e deuteroapprendimento teorizzati da Gregory Bateson88: il primo riguarda le forme più elementari di apprendimento; il secondo, in particolare, consiste nell’apprendere il contesto dell’apprendimento di livello logico inferiore, ovvero nello sviluppo della capacità di imparare a imparare. Così « quando si fanno esperienze in laboratorio non si impara solo qualcosa sui singoli contenuti » ma « si apprende anche il contesto laboratoriale basato

86.  Ibidem. 87.  Ibidem. 88.  G. Bateson,Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano 1977.


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sull’atteggiamento investigativo-riflessivo, sulla propensione a porsi problemi e ad affrontarli attivamente in maniera riflessiva »89. Ci si chiede quale debba essere il contesto che favorisce l’apertura mentale, la flessibilità, la profondità di investigazione. Nella prospettiva democratica di Dewey si tratta di un contesto in cui trova spazio il dubbio e la curiosità, contro l’obbedienza a dogmi e certezze date. Uno spazio del confronto tra opinioni diverse e della verifica, della prova diretta – applicativa – che prevale sul giudizio dell’autorità. La cultura si fonda, infatti, su qualcosa che tutti possono verificare in comune, su interpretazioni e conclusioni maturate in modo intersoggettivo.

7 · Conclusione al capitolo In conclusione, sulla scorta delle argomentazioni esposte in questo capitolo, si possono trarre alcune considerazioni utili all’impostazione della didattica anche a livello universitario, con particolare riguardo per l’area del design. La complessità degli scenari contemporanei impone la necessità di percorsi educativi e didattici che permettano di comprenderne le caratteristiche e le articolate dinamiche, per rispondere alla loro rapidità di evoluzione e imprevedibilità. Pertanto, si dovrebbe impostare un modello d’istruzione scolastica e universitaria che preveda il superamento della chiusura disciplinare, in favore di un fitto scambio di contenuti, tecniche e metodi propri delle attuali discipline, sia all’interno dello stesso corso di studi, sia stimolando la creazione di reti di collaborazione tra facoltà e scuole differenti. In questo senso si rivelerebbero interessanti spazi per la ricerca a livello di istruzione superiore. In particolare, nel caso del sistema italiano, caratterizzato da una preponderanza di discipline filosofico-umanistiche, si dovrebbe puntare a un potenziamento della base scientifica dell’istruzione esteso a tutti i livelli e gradi: lo sviluppo di una mente elastica e scientifica permetterebbe allo studente di essere capace di assimilare e riflettere criticamente anche su questioni non strettamente legate all’ambito scientifico. Non legare, inoltre, l’educazione alla costruzione di profili professionali – data l’accelerazione nelle trasformazioni della realtà contemporanea – quanto piuttosto orientarla allo sviluppo di profili culturali duraturi: 89. Baldacci, op. cit.


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formare la mente in modo che sia capace di adattarsi ai problemi e sappia trovare metodi per risolverli, piuttosto che limitarsi al passaggio di nozioni che lo studente accumula, ma non sa poi rielaborare e utilizzare di fronte a necessità reali. Una forte base di conoscenze e capacità di ragionamento e critica, dunque, che permetta allo studente, futuro cittadino e professionista, di continuare ad acquisire sapere, rielaborandolo e utilizzandolo con una progressiva autonomia. Ciò, tuttavia, è possibile se si sviluppano competenze a lungo termine, parallele all’acquisizione di conoscenze, trasferite attraverso una didattica che comprenda il momento applicativo come strutturale e indispensabile al legame con la realtà – di nuovo per evitare la chiusura disciplinare accademica. È opportuno mettere in relazione queste considerazioni con il panorama dell’istruzione nel campo della progettazione, le cui peculiarità sono affrontate nel capitolo successivo.




Capitolo terzo Sull’insegnamento del design



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1 · Definire il campo Nell’affrontare la questione dell’educazione nell’area del design non si può prescindere dalla determinazione del campo, senza tuttavia pretendere di tracciarne confini netti o elevare barriere – il che sarebbe del tutto contrario alle tesi esposte nel precedente capitolo. Si cerca di riflettere su cosa sia il design, ovvero su cosa possa rientrare sotto questa denominazione e cosa, invece, andrebbe definito diversamente e in che modo. Pur affidandosi a definizioni – presentate in ordine tendenzialmente cronologico – più e meno note o condivise, elaborate nel corso dello scorso secolo da storici, teorici e progettisti, si riscontra una moltitudine di punti di vista tale da rendere ancora più vaga, incerta e confusa la definizione a cui si cerca di arrivare. Sono riportate in questa sezione una serie di tentativi di messa a fuoco, provando anche a mettere in relazione tra loro le varie definizioni proposte e valutarne la validità in rapporto sia al contesto contemporaneo che al tema centrale di questa tesi. Si continuano a considerare – in questa sezione come in tutto il resto del capitolo – entrambe le due grandi branche del design di prodotto e del progetto di comunicazione e grafico, chiedendosi anche se ci siano aspetti condivisi tra le due aree disciplinari. Peraltro, è particolarmente difficile operare una distinzione chiara tra le posizioni di coloro che ammettono (e difendono) e coloro che escludono (o non considerano) l’inclusione della grafica e del progetto di comunicazione nell’ambito delle discipline del design. Non è più così infrequente né sconosciuta, inoltre, l’opinione che proprio la grafica non si possa neppure considerare una disciplina. Importante sottolineare, infine, che nei vari scritti per riferirsi al design – sia nel caso del design di prodotto che della grafica – vengono usati dai diversi autori una moltitudine di denominazioni, per alcuni versi simili, per altri molto distanti sia lessicalmente che concettualmente, le quali dimostrano l’indeterminatezza – e spesso la confusione – che contraddistingue questo ambito. Si è scelto, invece, di non addentrarsi nella definizione dei rapporti tra design e artigianato, design e architettura, design e arte, o tra grafica, comunicazione e pubblicità: il dibattito è interessante e ricco di spunti di


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riflessione anche per gli argomenti di questa tesi; ma non costituendone il centro, tali temi sono chiamati in causa soltanto ove necessario. 1.1 · Design e disegno industriale Gillo Dorfles nella sua Introduzione al disegno industriale (1972), consapevole di quanto ogni definizione possa risultare parziale, preferisce lasciare che il lettore se ne crei una seguendo le tappe del percorso storico da lui indicato. Ma vale la chiara precisazione che fa subito dopo a delimitare nettamente il campo di azione1: Sarebbe erroneo, innanzitutto, ritenere che il disegno industriale sia un settore esistito da sempre: quello cioè dell’oggetto utilitario. […] Una delle prime condizioni necessarie per considerare un elemento come rientrante nel settore che ci accingiamo ad esaminare è che esso sia prodotto attraverso mezzi industriali e meccanici, ossia mediante l’intervento – non solo fortuito, occasionale o parziale – ma esclusivo della macchina.

Più avanti ribadisce ancora la stretta correlazione temporale fra nascita della disciplina e meccanizzazione dei processi produttivi, collocando quindi ogni fase storica precedente in una pratica di artigianato manuale, solo parzialmente assistito da strumenti meccanici. Sempre nell’ambito delle definizioni, cercando di chiarire quale relazione intercorra tra disegno industriale e arte, Dorfles accenna a come, parallelamente alla nascita della nuova estetica funzionale degli oggetti prodotti industrialmente, l’Arte programmata introducesse nell’arte la produzione meccanica di opere in serie, ribadendo ancora una volta la profonda ambiguità dei confini fra questi ambiti. L’uso che Dorfles fa dell’espressione disegno industriale è successivamente finito col coincidere con la parola inglese design2, ma resta di fatto lessicalmente incoerente se riferito a oggetti, processi o metodi che non siano in qualche modo concernenti l’industria. Questo finisce col limitare di molto sia l’età che il campo d’azione della disciplina, eppure Dorfles non esclude che essa possa essere considerata una materia d’insegnamento, vista anche 1.  G. Dorfles, Introduzione al disegno industriale. Linguaggio e storia della produzione in serie, edizione rivista e ampliata, Einaudi, Torino 1972; prima edizione per Cappelli Editore, Bologna 1963. 2.  Il primo significato del vocabolo inglese design corrisponde in italiano a “progetto”; da cui il verbo to design traducibile propriamente come “progettare”.


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crescente presenza del disegno industriale nello scenario economico-sociale di allora. Anche a proposito dell’annosa questione che riguarda l’inclusione del graphic design nell’ambito del disegno industriale, Dorfles ne restringe il campo di competenza entro i rigidi confini della sua prospettiva tassonomica iniziale, limitandola perciò ai soli progetti connessi alle imprese e alle attività industriali o commerciali3. Da questa definizione “stretta” di grafica sono esclusi – dallo stesso autore – tutti quei disegni, decorazioni, motivi ornamentali che rivestono gli oggetti, ma non vengono neppure menzionati i prodotti del panorama editoriale, né la grafica per i servizi – ad esempio, la segnaletica o la modulistica – non connesse con l’attività commerciale. Resta in dubbio, pertanto, la collocazione di tutte quelle rappresentazioni grafiche “progettate” non per l’industria. Lo stesso Dorfles, ancora, cita Arthur Becvar per mettere la sua definizione di disegno industriale in relazione a quella di design, considerato quale attività di progettazione più ampia, che « consiste nel pensare al problema non nel considerare la soluzione »4, concentrandosi quindi sull’impostazione stessa del problema. Gui Bonsiepe (1975) per chiarire i concetti di disegno industriale e di disegnatore industriale si attiene all’analisi comparativa di diverse proposte di definizione, che si inseriscono nel « faticoso percorso della ricerca di un’identità e di una legittimazione dell’attività progettuale »5 ed esprimono altrettanti orientamenti interpretativi del ruolo e degli scopi di tale attività. Egli comincia riportando la definizione preliminare (working definition) della professione, espressa dall’ICSID nel 1957, anno della sua fondazione, e più volte modificata: Un disegnatore industriale è una persona che si qualifica per la sua formazione, la sua conoscenza tecnica, la sua esperienza e la sua sensibilità visiva, in grado di determinare i materiali, la struttura, i meccanismi, la forma, il trattamento delle superfici e la veste (decorazione) di prodotti fabbricati in serie tramite procedimenti industriali. Secondo le circostanze, il disegnatore industriale può occuparsi di uno o di tutti questi aspetti. Egli può inoltre occuparsi dei problemi di imballaggio, di pubblicità,

3.  Il marchio di fabbrica, il logotipo, l’immagine coordinata sono gli esempi citati da Dorfles, op. cit. 4.  A. Becvar, The designer’s answer, in “Design Forecast”, n. 1; citato da Dorfles, op.cit. 5.  G. Bonsiepe, Teoria e pratica del disegno industriale. Elementi per una manualistica critica, Feltrinelli, Milano 1975.


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di esposizione e di marketing, qualora la soluzione di questi problemi, oltre ad una conoscenza tecnica e ad una esperienza tecnica, richieda anche una capacità di valutazione (appreciation) visiva.

Si può notare come i limiti del disegno industriale siano individuati, come in Dorfles, dal processo produttivo in serie, tuttavia meno rigidamente e chiaramente. Infatti l’area di influenza del disegnatore industriale nei confronti degli aspetti del prodotto industriale viene definita in maniera troppo ampia: difficilmente, per esempio, egli potrebbe determinare la struttura di prodotti ad alto contenuto ingegneristico. Tale definizione presenta, inoltre, una certa confusione quando si passa a campi affini ma più problematici, come ad esempio la grafica. Mancano, infine, riferimenti all’ambiente, ai bisogni della società, all’innovazione e l’estetica non è esplicitamente trattata. Nel 1969 l’ICSID sostituisce questa definizione provvisoria con quella di “disegno industriale” presentata da Maldonado nel 1961 al Congresso internazionale di Venezia6: Il disegno industriale è un’attività progettuale che consiste nel determinare le proprietà formali degli oggetti prodotti industrialmente. Per proprietà formali non si devono intendere solo le caratteristiche esteriori, ma soprattutto le relazioni funzionali e strutturali che fanno di un oggetto un’unità coerente sia dal punto di vista del produttore che dell’utente. [Il disegno industriale si estende ad abbracciare tutti gli aspetti dell’ambiente umano, che sono condizionati dalla produzione industriale.]7

Maldonado precisa che tali proprietà formali derivano sempre dall’integrazione di diversi fattori di tipo funzionale, culturale, tecnologico o economico: corrispondono di fatto all’organizzazione interna dell’oggetto e non riguardano direttamente l’aspetto esteriore8. Ne consegue che la definizione di Maldonado andrebbe di volta in volta adattata a fattori quali il contesto socio-economico, alla sua struttura tecnologica, alla complessità del prodotto e al legame con la tradizione artigianale. In riferimento al prodotto, soprattutto l’aggettivo coerente richiama al legame con l’ambiente, implicando la

6.  Episodio già citato nel paragrafo 3.1 del capitolo primo. 7.  Il periodo isolato tra parentesi quadre non compare in Bonsiepe, ma si ritrova sul sito internet dell’ICSID, nella sezione “history” (www.icsid.org); traduzione a cura dell’autore. Bonsiepe riporta, invece, la versione più estesa del manoscritto di Maldonado, il quale prosegue con la definizione delle “proprietà formali” cui qui si fa cenno. 8.  In questo senso Maldonado muove un’implicita critica alla tendenza americana dello styling, che sposta la questione della progettazione sul disegno del rivestimento superficiale


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legittimazione sociale degli oggetti – frutto dell’attività di progettazione – che ne entrano a far parte. La necessità di collocare l’attività del disegnatore industriale già nelle prime fasi di sviluppo dei prodotti, a livello di progettazione della struttura, oltre che in gruppi di lavoro, trova in Bonsiepe un forte sostenitore. Pur affermando una sostanziale differenza del designer rispetto al ruolo dell’ingegnere, le due attività progettuali del disegno industriale e della costruzione meccanica vanno condotte – per Bonsiepe – parallelamente e senza rapporti di subordinazione. È interessante guardare anche alle definizioni “negative” che etichettano il design come attività di decorazione. Buckminster Fuller9 accusa il disegnatore industriale di ignoranza tecnologica, della mancanza di una solida capacità professionale che si sforza di mascherare con effetti visivi. Questa visione, anche se focalizzata sulla deriva americana dello styling, mette in luce la questione dell’intervento10 del designer nella produzione materiale, spesso considerato marginale o secondario. Quanto più il disegnatore industriale viene estromesso dai processi produttivi tanto più sembra esaltare la propria soggettività, per compensare la debolezza del suo intervento. Tuttavia, secondo quanto afferma Bonsiepe, il designer si andava ormai allontanando da questa visione che lo considerava alla stregua di un « creatore di varianti formali per i beni di consumo »11. La definizione del 1961, riportata da Bonsiepe, viene approfondita dallo stesso Maldonado nella voce disegno industriale dell’Enciclopedia del Novecento Treccani12 (1977), ritenuta ancora oggi una delle definizioni più complete. Maldonado sottolinea l’incompletezza di una definizione di disegno industriale riferita unicamente alla progettazione di oggetti fabbricati in serie, la quale rischia di confondere le attività distinte del designer e dell’ingegnere. Tuttavia, viene esclusa qualsiasi vicinanza semantica del disegno industriale all’artigianato e all’arte applicata. Approfondendo questo aspetto, Maldona9.  Punto di vista riportato da Bonsiepe, op. cit. 10.  In realtà, oggi, non è ancora possibile affermare che questo atteggiamento sia completamente estinto; soprattutto se si considera, ad esempio, l’insistenza su termini quali “creatività” o “originalità” intesi quali principali valori dell’attività del designer. 11. Bonsiepe, op. cit. 12.  T. Maldonado, Disegno industriale, in Enciclopedia del Novecento, Treccani, 1977. Il saggio è poi confluito in T. Maldonado, Disegno industriale: un riesame, Feltrinelli, Milano 1991; successivamente riadattato per l’edizione del 2008.


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do mette in luce le caratteristiche di integrità e coesione interna dell’attività artigianale, rispetto alle logiche della produzione industriale: se infatti l’artigianato nelle società preindustriali incorporava per sua natura la fase produttiva in quella progettuale, il disegno industriale rimane, invece, più un’istanza progettuale che, tramite lo sviluppo di appositi modelli, concorre a finalizzare il processo lavorativo. Ideazione ed esecuzione diventano quasi « due diverse forze produttive chiamate a svolgere due funzioni diverse »13. Le degenerazioni dell’era capitalistica hanno ulteriormente esasperato la distanza tra progetto e lavoro, scomponendo quest’ultimo in elementi minimi e snaturati, sempre più lontani dal momento ideativo. Nel saggio, Maldonado riprende e chiarisce le posizioni espresse nel 1961 riguardo le proprietà formali degli oggetti e il processo costitutivo di tali proprietà, alla base dell’attività progettuale14: […] progettare la forma significa coordinare, integrare e articolare tutti quei fattori che, in un modo o nell’altro, partecipano al processo costitutivo della forma del prodotto. E precisamente si allude ai fattori funzionali, simbolici o culturali relativi all’uso, fruizione e consumo individuale o sociale del prodotto, quanto ai fattori tecnico- economici, tecnico-costruttivi, tecnico-sistemici, tecnico-produttivi e tecnico-distributivi, relativi alla sua produzione.

Pertanto, il disegno industriale si configura come un’attività non-autonoma, strettamente connessa, invece, al tempo in cui si realizza. Le scelte, solo all’apparenza libere, in realtà vengono prese nel contesto di un sistema di priorità rigidamente prestabilite. Da questo la necessità di adeguare la definizione di disegno industriale ai contesti particolari in cui si svolge l’attività, il cui compito resta quello di « mediare dialetticamente tra bisogni e oggetti, tra produzione e consumo »15. Per quanto riguarda le declinazioni disciplinari della progettazione, Renato De Fusco16 (1985) – modellando le sue riflessioni sul pensiero di Maldonado – si oppone alla visione unitaria e totalizzante, espressione dell’utopia razionalista, e al mito dell’industria come entità astratta e monolitica così come concepita nel XIX e XX secolo: oltre che sbagliata, per il fatto di includere cose molto diverse – quali l’urbanistica e il progetto degli oggetti – ed 13.  Ibidem. 14.  Ibidem. 15.  Ibidem. 16.  R. De Fusco, La grafica è design, in “Grafica”, n. 0, febbraio 1985.


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escluderne arbitrariamente altre come la grafica, tale visione si è rivelata pura ideologia. In definitiva il campo del design non può accogliere oggetti, prodotti, servizi così diversi tra loro per il solo fatto di essere « progettati, prodotti industrialmente e talvolta (ma evidentemente non sempre) con una intenzione estetica »17. Si evidenzia, pertanto, il profondo divario manifestatosi tra i vari settori del design, i quali presentano ognuno un proprio specifico modo di progettare, sistemi di fabbricazione, reti di distribuzione e così via. Prendendo a prestito le parole di Maldonado, chiarisce18: In realtà, ciò che esiste veramente sono le industrie. È per questo motivo che non esiste un solo industrial design, ma ve ne sono parecchi molto diversi l’uno dall’altro. La concezione monistica di industrial design dovrà essere sostituita da una concezione pluralistica.

D’altra parte, un’orientamento eccessivamente specialistico, in cui rischia di incappare il punto di vista appena espresso, non permetterebbe d’individuare i tratti comuni, le costanti che permettono ancora di parlare di design per tutte le sue ramificazioni. Dunque, più che rifarsi a delle definizioni più o meno in linea con queste prospettive tassonomiche, è utile rintracciare una « fenomenologia del design, una sua maniera di manifestarsi »19, un denominatore comune a tutti i settori produttivi. Per questo De Fusco elabora il paradigma di progetto, produzione, vendita e consumo: quattro momenti continuamente interagenti che rendono l’esperienza del design un processo unitario. Il paradigma resta, tuttavia, una schematizzazione di processi ben più articolati, utilizzata soprattutto per comodità espositiva. Nicola Sinopoli, nell’ambito del dibattito circa l’inclusione del disegno industriale tra gli insegnamenti delle facoltà di architettura20 (1990), rispetto alla questione del ruolo del design, della sua funzione sociale, in definitiva della sua utilità nei contesti economico-produttivi contemporanei, afferma21: Il design tende a porre un problema di progetto in modo molto semplice dal momento che si applica a un prodotto che il più delle volte è programmaticamente “inutile”: non c’è assolutamente bisogno di un nuovo mattone, né un letto, o un tavolo, perché di mattoni, di letti e di tavoli ce ne sono di più di quelli che servono. L’interlocutore 17.  Ibidem. 18.  T. Maldonado, Avanguardia e razionalità, Torino, 1974, citato da De Fusco, art. cit. 19.  De Fusco, art. cit. 20.  Per approfondire si veda il paragrafo 4.4 del capitolo primo. 21.  N. Sinopoli (a cura di), Design italiano: quale scuola?, Franco Angeli, Milano 1990.


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di un problema di design è un mercato (o un suo segmento, o una sua simulazione molto vicina al reale) ben definito nelle sue caratteristiche, che formula una domanda alla quale, bene o male, è possibile rispondere solo una volta che questa domanda sia stata ben capita. Alla fine […] chi ha eseguito materialmente il progetto non oserebbe mai affermare che il nuovo mattone, il nuovo letto o il nuovo tavolo possono cambiare la storia del mondo.

La questione viene ridotta a un problema di scala, che minimizza in qualche modo le responsabilità implicita nell’attività di design. Da questa prospettiva non si considera i fattori di innovazione e ricerca che dovrebbero connotarla. Il disegno industriale è visto come complementare alla progettazione architettonica, e funzionale a fornire alternative didattiche e di approccio a questa disciplina. Il design si appiattisce, così, alla sola elaborazione ed esercizio di metodologie progettuali, e soltanto legate ai prodotti industriali. Per Andrea Branzi22 (1990), l’accezione di industrial design inteso come produzione seriale di oggetti nasce di fatto da un errore storico. Tale concetto, profondamente radicato nell’immaginario collettivo, ha origine nella confusione tra quale sia il fine e quale, invece, il mezzo del design. Da qui s’innescherebbe – come alcune definizione già viste hanno sottolineato – una forte opposizione del design contro tutto quello che non può essere industrializzato. Il design diventa così promotore dell’industrializzazione più spinta e accelerata. Ma esso è per Branzi niente più che uno strumento, mai un fine: Se mancano i grandi teoremi civili e politici, le grandi strategie mentali e culturali, il design diventa una professione tra le più scontate e, oggi, forse anche tra le più secondarie, proprio perché l’industria ha in gran parte risolto tutti i problemi riguardanti la riproducibilità di serie degli oggetti.

Dunque resta ancora in dubbio se la riproducibilità seriale sia effettivamente un buon parametro per definire la disciplina. La componente progettuale si potrebbe considerare, infatti, parte integrante di ogni opera umana; parimenti i processi comunicativi preesistono ovviamente all’industria e le rappresentazioni grafiche, alla base del progetto grafico e di comunicazione, sono da considerarsi patrimonio della specie umana23. Si rende evidente, ancora una volta, la difficoltà di focalizzare una descrizione univoca e accurata. 22.  A. Branzi, L’oggetto della metropoli: la Domus Academy come strumento di ricerca, in Sinopoli, op. cit. 23.  Si veda, a tal proposito, la conversazione con Giovanni Lussu, che ispira queste considerazioni, presentata in appendice due.


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A conclusione di questo lungo paragrafo si prova, dunque, a mettere a confronto le definizioni e gli argomenti espressi dai vari autori citati con l’attuale definizione ufficiale di design fornita dall’ICSID: Scopo: Il design è una attività creativa il cui scopo è di stabilire le sfaccettate qualità di oggetti, processi, servizi e dei loro sistemi negli interi cicli di vita. Perciò, il design è il fattore centrale dell’innovativa umanizzazione delle tecnologie e il fattore cruciale dello scambio culturale ed economico. Compito: Il design cerca di scoprire e valutare le relazioni strutturali, organizzative, funzionali, espressive ed economiche, con il compito di: – migliorare la sostenibilità globale e la protezione ambientale (etica globale) – fornire benefici e libertà all’intera comunità umana, individuale e collettiva – indirizzarsi a utenti finali, produttori e protagonisti del mercato (etica sociale) – supportare la diversità culturale contro la globalizzazione mondiale (etica culturale) – fornire prodotti, servizi e sistemi, quelle forme che sono espressive di (semiologia) e coerenti con (estetica) la loro propria complessità Il design si occupa di prodotti, servizi e sistemi concepiti con strumenti, organizzazioni e logiche introdotte dall’industrializzazione – non solo quando prodotte con processi seriali. L’aggettivo “industriale” affiancato a design dev’essere relazionato al termine industria sia nel suo significato di settore produttivo sia nel suo antico significato di “attività operosa”. Dunque, il design è una attività che include un ampio spettro di professioni in ciascuna delle quali intervengono prodotti, servizi, grafica, interni e architettura. Insieme, queste attività dovrebbero migliorare ulteriormente – in coro con altre professioni correlate – il valore della vita. Pertanto, il termine designer si riferisce a un individuo che pratica una professione intellettuale, e non semplicemente un mestiere o un servizio per le imprese.

Questa definizione, più ampia e articolata, pare abbracciare più sfaccettature e risolvere alcune questioni sollevate dalle precedenti. Ad esempio, si amplia il significato di industriale, estendendolo ad ogni attività produttiva, anche se non legata a processi seriali. Cambia anche la visione del ruolo del designer, che progressivamente si discosta dalla figura dell’ingegnere per avvicinarsi a quella del mediatore, dell’ intellettuale, che si impegna a migliorare la qualità della vita rendendo le tecnologie più accessibili e facendosi tutore di valori etici.


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1.2 · Grafica e comunicazione visiva Nell’invenzione della stampa a caratteri mobili, ad opera di Gutenberg, diversi storici rintracciano il punto di svolta che ha portato alla nascita del design. Questo dato non solo costringe a una revisione della tradizionale periodizzazione ma legittima anche l’inclusione della grafica nel dominio del design. Secondo l’analisi di De Fusco (1985), è proprio il settore della tipografia a racchiudere in sé le principali caratteristiche – compresa addirittura l’intenzionalità estetica – che saranno poi distintive della progettazione industriale propriamente detta. De Fusco individua due ragioni per cui molti studiosi rifiutano di includere la grafica nel novero del design. La prima è una questione di datazione, la seconda di fisicità. Egli, innanzi tutto, smentisce che il design sia nato con la rivoluzione industriale della metà del Settecento, ribadendo quanto tale teoria sia soprattutto fondata su un’ideologia capitalista. Ciò, tuttavia, non deve far pensare che la stampa sia « un frutto prematuro della civiltà industriale, quanto piuttosto che questa nella sua globalità va[da] cronologicamente anticipata »24, almeno al Rinascimento, epoca in cui hanno avuto origine il sistema bancario, le industrie manifatturiere e i principi della divisione del lavoro. Il secondo equivoco si basa sulla considerazione che il dominio dell’industrial design sia costituito esclusivamente da oggetti tridimensionali con specifiche caratteristiche tipologiche, morfologiche, materiali, al di là della scala dimensionale25. Questo può essere smentito su più fronti, uno fra tutti quello della miniaturizzazione, e cioè della perdita di consistenza fisica apprezzabile delle componenti di oggetti ad alto contenuto tecnologico, indicata da Dorfles. Ammettere che la grafica rientri nel dominio del design non è sufficiente, tuttavia, a darne una definizione. Gelsomino D’Ambrosio, Pino Grimaldi e Cettina Lenza, in apertura del numero 0 della rivista “Grafica” tentano tale operazione26 (1985). Per i tre autori, definire il termine grafica significa rilanciare il dibattito su di un’identità disciplinare controversa e ancora priva 24.  De Fusco, art. cit. 25.  In queste considerazioni, si sente l’eco del famoso slogan di Ernesto Nathan Rogers “dal cucchiaio alla città”. 26.  G. D’Ambrosio, P. Grimaldi, C. Lenza, Sulla definizione di grafica, in “Grafica”, n. 0, febbraio 1985.


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di un adeguato sostegno teorico. La nozione di grafica resta legata al settore della stampa, in quanto procedimento tecnico di riproduzione, mantenendo così affinità con l’industria. Tuttavia in questo caso – rispetto al punto di vista di De Fusco con cui quello dei tre autori ha diversi punti di contatto – la grafica viene annessa, per certi versi, anche al campo dei messaggi visivi. Gli autori fanno prima un lungo excursus etimologico e comparativo sul termine grafica e le sue declinazioni aggettivali, che va dalla sua origine greca, all’uso latino, al passaggio nel linguaggio scientifico in francese e nel senso metaforico in inglese, con particolare attenzione agli usi comuni nella lingua italiana e alla fortuna di alcune espressioni, quale quella di “arti grafiche”27. Alla fine di questo lungo percorso che attraversa aree semantiche discordanti e discipline molto diverse, approdano all’idea che sembra accomunare tutte le definizioni raccolte, quella di rappresentazione, ovvero di meccanismo esplicativo fondato sull’analogia28: Come ogni attività comunicativa (visiva o meno) anche quella grafica si basa su codici, che regolano la produzione e la ricezione dell’immagine-messaggio. Dall’oggetto, fenomeno, meccanismo, ecc. alla sua rappresentazione grafica interviene sempre il filtro di una selezione e pertinentizzazione nelle forme di una riduzione specifica.

Questa definizione è in rapporto con quella di disegno, il quale descrive un oggetto compiendo un’operazione fortemente selettiva. Laddove non è descrizione dell’oggetto (rappresentazione convenzionale), il prodotto grafico è ri-produzione, rinuncia all’azione di filtro per farsi trasferimento meccanico: in questo punto si parla più chiaramente di moltiplicazione, di processo di « sostituzione a catena »29, e tale rapporto tra rappresentazione (analogica) e riproduzione (identica) spiega il passaggio dalla figurazione alla stampa. Astraendo ulteriormente, ciò che sopravvive come tratto distintivo è la « generica connotazione visiva »30 all’interno del vasto campo del comunicare.

27.  Secondo più giudizi etimologici, l’uso del termine grafica nel lessico attuale sarebbe frutto di un prestito linguistico: deriverebbe dall’aggettivo grafico, sul modello del tedesco Graphik, sostantivo femminile nato dalla combinazione dei termini greci graphikè tékne, indicante l’arte di scrivere, disegnare, dipingere. 28.  D’Ambrosio, Grimaldi, Lenza, art. cit. 29.  Ibidem. 30.  Ibidem.


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Giovanni Anceschi, nel tracciare le origini e le caratteristiche della disciplina31 (1991), si chiede provocatoriamente a cosa si debba riferire precisamente la storia che si accinge a ricostruire. Pertanto, preliminarmente, tenta di fare una mappatura schematica – in quanto tale dichiaratamente inesaustiva – del panorama della comunicazione visiva. Lo scopo è quello di provare a mettere ordine e avviare un serio dibattito sul design della comunicazione. Anceschi riconosce che la fondazione disciplinare, « l’identificazione di un ambito di autonomia e specificità »32, nonostante l’intenzionalità “definitiva” dell’operazione, è mai un atto istitutivo che si compie una volta per tutte, ma un processo che si svolge nel tempo, fatto di elaborazioni e aggiustamenti. Dunque, procede al vaglio della terminologia utilizzata nel corso degli anni per identificare la figura del grafico, dell’operatore di quella che è anzitutto una pratica, prima ancora che una disciplina. Egli prova a definire gli oggetti o le tappe della storia su cui la fondazione disciplinare dovrebbe basarsi, ipotizzando, ad esempio, una storia delle innovazioni tecniche e tecnologiche, oppure una delle figure autoriali. Constatando la parzialità di ognuno dei criteri selettivi proposti, tenta allora di definire una mappa dello stato dell’arte, che aiuti ad individuare anche le zone di confine in cui la comunicazione visiva e la grafica si confondono con altri ambiti di progettazione, settori e fasi produttive. Si tratta principalmente di uno schema molto articolato degli artefatti e sistemi comunicativi di competenza del progettista, che porta Anceschi a individuare il cuore della disciplina nel metodo, nell’area in cui « si sviluppano gli approcci concettuali e tecnici, le sequenze procedurali »33: in questo senso a fasi divergenti di raccolta dati e di produzione di soluzioni possibili (apertura verso l’esterno) si succedono fasi convergenti di analisi valutativa e decisione selettiva (concentrazione verso l’interno). Anceschi nota che proprio nell’area del metodo i vari ambiti di cui si compone lo spettro del design della comunicazione tendono a entrare in rapporto ad altre discipline – molto distanti dalle confinanti “sorelle” dell’architettura, scenografia o urbanistica – sia di taglio analitico o impostazione logico-matematica, per quanto riguarda gli aspetti procedurali del progetto, sia afferenti alle aree della percettologia,

31.  G. Anceschi, Grafica, visual design, comunicazioni visive, in AA.VV., Storia del disegno industriale, vol III: 1919-1990. Il dominio del design, Electa, Milano 1991. 32.  Ibidem. 33.  Ibidem.


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semiotica, sociologia e antropologia, per quanto riguarda il destinatario della comunicazione. Anceschi, infine, in linea con le riflessioni degli autori prima presentati, segnala l’indicativa assenza del design della comunicazione nella collezione del Museo della Triennale, nonostante già dagli anni ottanta « la riflessione teorica aveva prodotto la nozione di artefatto comunicativo che omologa gli strumenti e le merci comunicative e ogni tipo di veicolo informativo agli oggetti d’uso, cui nessuno negherebbe lo statuto di oggetti del design »34. In Italia le comunicazioni visive, secondo Anceschi, sono ancora affrontate come relazionate alla produzione artistica, e pertanto incluse nelle facoltà universitarie a indirizzo umanistico e artistico: una prospettiva limitante che risente della storica quanto ormai superata gerarchia tra arti pure e applicate. Non possono assicurare un valido percorso formativo neppure le facoltà di scienze della comunicazione che, attente ad analizzare i processi della comunicazione, dimenticano la componente design all’interno degli artefatti comunicativi, e raramente includono la storia del progetto grafico e di comunicazione visiva. Nel 1989 viene redatta la Carta del progetto grafico35, promossa dall’Aiap, che definisce la disciplina e il ruolo del progettista di comunicazione attraverso una vera e propria “costituzione”, redatta in forma di articoli. Il documento esordisce con l’attestazione, nel primo articolo, dell’onnipresenza e della diffusione capillare della comunicazione, e dunque della grafica, nel mondo contemporaneo: essa però è minata da « inquietanti fenomeni di inquinamento visivo e di saturazione comunicativa »36, che manifestano quindi l’urgenza di una guida. Nel terzo articolo, la grafica viene collocata dentro al più ampio sistema della « progettualità orientata alle necessità dell’uomo »37, assieme a urbanistica, architettura, disegno industriale con i quali oltretutto intrattiene un rapporto di costante interazione. Secondo i redattori, negli anni novanta la 34.  G. Anceschi, Comunicazioni visive: circostanze preliminari, in “Archivi e imprese”, n. 14, dicembre 1996; riedizione parziale dell’introduzione al saggio G. Anceschi, Grafica, visual design, comunicazioni visive, cit. 35.  G. Anceschi, G. Baule, G. D’Ambrosio, P. Grimaldi, G. Illiprandi, G. Lussu, A. Marangoni, G. Torri, Carta del progetto grafico. Tesi per un dibattito sul progetto di comunicazione, in “Notizie Aiap”, n. 2 (supplemento), novembre 2004. Il documento è stato elaborato dal comitato di redazione durante la Preassemblea nazionale Aiap del 24 giugno 1989, tenutasi ad Aosta. 36.  Ibidem. 37.  Ibidem.


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grafica ha assunto – dopo l’architettura negli anni trenta, e il design negli anni sessanta – il ruolo di disciplina principe, che coordina e dirige la cultura del progetto. Seppur composta di orientamenti anche molto diversi, la grafica viene indicata – nel quinto articolo – come disciplina unitaria e coesa, con un bagaglio progettuale comune a fotografi, designer, illustratori, autori. Queste diverse ramificazioni dimostrano come, mano a mano che il mestiere si specializza, il ruolo del grafico diventi sempre più registico, e che, a prescindere dalla competenze specifiche richieste, l’approccio conservi in tutti i casi dei « connotati comuni nella maniera di strutturare i problemi e di risolverli »38. L’Aiap non manca di sottolineare l’emergenza nel problema della formazione e della didattica e registra nell’Italia dell’epoca « un grande vuoto istituzionale »39, non esistendo ancora nessuna vera e propria facoltà di comunicazione visiva. Nuove responsabilità del grafico diventano un’altissima qualità del progetto grafico e la centralità degli utenti, nei confronti dei quali egli diviene “responsabile”. Risulta evidente che la grafica viene interpretata, dal punto di vista dell’associazione, come un fattore chiave non solo all’interno del più vasto mondo della progettazione ma nella società stessa. Lo stesso assetto del documento suona altisonante e a tratti corporativista, invocando la buona e bella grafica come entità salvifica contro gli scempi e le brutture, nel nome di utenti indifesi e spauriti. Giorgio Bucciarelli (2001) s’interroga, in particolare, sui confini e sul funzionamento della comunicazione visiva, precisando la sostanziale differenza tra le varie forme di « trasmissione delle informazioni per i quali la ricezione avviene attraverso il senso della vista »40. Sulla base di quest’analisi, egli restringe il dominio della comunicazione visiva a quel tipo di comunicazioni volontarie, in cui esiste un’urgenza comunicativa circoscrivibile a un preciso messaggio: sono pertanto escluse quelle involontarie, che comunicano semplicemente se stesse, quelle artistiche, non decodificabili secondo una modalità univoca, e le forme scritte per l’alto grado di convenzionalità del codice. L’ambito di interessi è dunque quello nel quale l’informazione trasmessa dipende dalla qualità dei segnali visivi utilizzati, quindi dalle modalità della comunicazione, ma naturalmente è l’atteggiamento mentale con cui ci si accosta ad un qualsiasi atto 38.  Ibidem. 39.  Ibidem. 40.  G. Bucciarelli, Architettura e comunicazione, in “Notizie Aiap”, n.11 , ottobre 2001.


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informativo che consente di ascriverlo o meno al campo della comunicazione visiva, rimanendo comunque problematiche le distinzioni categoriche.41

Dunque, per Bucciarelli, la comunicazione grafica è ascrivibile solo a forme consapevoli e univocamente interpretabili, pur sostenendo che è essenzialmente “l’atteggiamento mentale” di chi fruisce il messaggio a stabilire la natura di questa comunicazione. Resta inoltre controversa la sua esclusione della scrittura dalle forme di comunicazione visiva, poiché per quanto i codici della scrittura possano essere altamente convenzionali, essi costituiscono una parte importante e sostanziale del progetto grafico e di comunicazione. In occasione dell’uscita del primo numero (2003) di “Progetto Grafico” – la nuova versione della rivista dell’Aiap – Giovanni Anceschi redige, su richiesta della stessa rivista, una definizione breve dell’espressione che dà il titolo alla testata42: Progetto grafico (ingl. graphic design): In quanto progetto si tratta di un’attività tecnica e intellettuale finalizzata al raggiungimento di un obiettivo (e non di art pour l’art). Ciò che viene progettato è l’insieme degli artefatti comunicativi. Il progettista grafico disegna sia le merci comunicative, come ad es. i prodotti del design editoriale, sia i sistemi grafici, siano essi di natura notazionale (ad es. diagrammi e codifiche), sia di natura scrittoria (font e icone), sia raffigurativa (immagini generative e immagini di ripresa). Le immagini possono comprendere cioè da un lato le figure del disegno, dell’illustrazione e del cinema di animazione e dall’altro quelle di tipo fotografico, cinematografico e immersivo. In altre parole il progetto grafico detiene la responsabilità della configurazione (cioè dell’attribuzione di una struttura, di una forma e delle relative qualità estetiche) a tutti i sistemi e a tutti i messaggi che materializzano (anche in modo eidomatico) l’insieme dei rapporti che intercorrono fra gli attori sociali. Che si tratti di persone o di identità artificiali (in altre parole dell’immagine di enti, aziende o istituzioni) oppure si tratti di una qualunque delle forme assunte dai supporti per il trasferimento di saperi e di informazioni da un attore all’altro, e cioè del cosiddetto knowledge diffusion and sharing, in ogni caso il progettista grafico è – o dovrebbe essere – coinvolto. L’universale diffusione dei media e degli ipermedia audiovisivi e interattivi, che sono caratterizzati dall’irrompere determinante della temporalità nella fruizione, ha prodotto, peraltro, un radicale ripensamento in termini registici (e non più meramente compositivi) dell’intera attività. Sono diventate centrali, ad es., da un lato le questioni di natura pianificatoria e strategica e dall’altro le problematiche coreografiche del design dell’interazione.

41.  Ibidem. 42.  G. Anceschi, Progetto grafico, in “Progetto grafico”, n. 1, luglio 2003.


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Aspetti da sottilineare di questa definizione sono, in prima istanza, la finalità (obiettivo) che differenzia il progetto grafico dall’arte (autoreferenziale). In secondo luogo la vastità dell’area di oggetti e sistemi a cui si applica la definizione, che vanno dall’editoria, ai diagrammi, ai caratteri tipografici, alla ripresa cinematografica. In questa materia vasta e magmatica – come già sottolineato nella Carta del progetto grafico – oggi il progettista, tradizionalmente chiamato a dare struttura e forma ai messaggi e ai sistemi che intervengono nei rapporti tra attori sociali quali persone, aziende e istituzioni, tende quasi naturalmente ad assumere il ruolo di regista, di coordinatore dell’attività comunicativa. Mauro Zennaro, nel 2005, riprendendo gli argomenti della Carta del progetto grafico, esprime esplicitamente le sue perplessità sul documento, considerato effettivamente desueto, nonostante abbia “solo” quindici anni. Tra le tante innovazioni e fattori che hanno radicalmente modificato il contesto in cui il progettista opera, il principale è sicuramente la diffusione dei personal computer e di internet, che hanno dato avvio alla cosiddetta era del desktop publishing43: Che ci piaccia o meno, chiunque oggi può fare un marchio, redigere e stampare una newsletter, progettare e gestire un sito web. Dalla rete si pescano qualunque testo e immagine, nonché software per riutilizzarli. Possiamo anche deprecare il fatto che ormai cani e porci facciano il nostro mestiere, ma tanto lo fanno lo stesso e noi non possiamo farci niente.

Giovanni Lussu, nel saggio scritto per la voce design della comunicazione dell’Enciclopedia del XXI secolo (2010), partendo dall’individuazione dell’origine della disciplina nella prima associazione storica di designer, offre nell’introduzione un’articolata definizione che vale la pena di leggere44: Le attività progettuali connesse alla comunicazione, in particolare alla comunicazione visiva, si diversificano e si ridefiniscono in relazione alle innovazioni tecnologiche, agli sviluppi produttivi e alle riorganizzazioni sociali. È opportuno quindi circoscrivere, per quanto possibile, le implicazioni dell’espressione design della comunicazione. Essa è inscindibile dall’esistenza di una specifica categoria di operatori che in tale ambito si riconoscono e in quanto tali vengono riconosciuti dall’ambiente in cui sono attivi: l’associazione professionale europea di gran lunga più rappresentativa, la Chartered society of designers, è stata fondata a Londra nel 1930 come Society of industrial ar43.  M. Zennaro, Bisogna insegnare la grafica?, in “Progetto Grafico”, n. 6, giugno 2005. 44.  G. Lussu, Design della comunicazione, Enciclopedia italiana XXI secolo, Treccani, 2010.


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tists, e solo nel 1960 ha preso il nome di Society of industrial artists and designers, per assumere l’attuale denominazione nel 1986. Nel termine design, infatti, continuano a coesistere gli apporti di molteplici tradizioni: da un lato, quelle di natura più artistica, dall’idea vittoriana e poi europea delle arti applicate, attraverso le avanguardie del Novecento che più si sono poste obiettivi di tipo utilitaristico; dall’altro, quelle di natura più spiccatamente tecnica e scientifica. […] L’epoca in cui viviamo, l’epoca della globalizzazione, sembra inoltre caratterizzata non tanto da stili e metodologie riconoscibili e tassonomizzabili, quanto dalla compresenza di approcci molteplici in mutevoli rapporti tra loro. Appare quindi illusorio dare del design una definizione univoca, pur sottolineando che nella seconda metà del Novecento in Italia l’espressione è stata associata più alla progettazione di prodotti d’uso che alla comunicazione visiva. Assumeremo in questo saggio che, nella terminologia italiana e negli assetti didattici e istituzionali, per design della comunicazione s’intende oggi (rispetto al termine più generico grafica, il cui significato tende ormai più verso l’ambito espressivo) la progettazione di artefatti comunicativi, in particolare di tipo visivo, svolta da operatori specializzati in presenza di precisi vincoli produttivi e con obiettivi più nettamente tesi agli aspetti di tipo funzionale, legati alla risoluzione di specifici problemi posti da determinate committenze, pubbliche o private.

Lussu non manca di sottolineare come nel termine coesistano storicamente pulsioni di natura diversa, come il concetto di arte applicata da un lato, e le tendenze funzionaliste dall’altro; non solo, nel mondo contemporaneo tali pulsioni sembrano proliferare, generando metodologie sempre più diverse e varie. Egli limita però il campo del design della comunicazione alla produzione di artefatti su commissione sviluppati in un ambiente controllato e finalizzati al problem-solving, tendendo ad abbandonare la denominazione di grafica per via delle sue implicazioni espressive, che si potrebbero mettere in relazione all’autorialità e al soggettivismo di molte produzioni in questo ambito. È utile guardare rapidamente alle tappe della denominazione che l’Aiap ha adottato dalla sua fondazione ad oggi: all’interno della Federazione italiana pubblicità (FIP), nasce nel 1945 come Associazione dei tecnici e artisti pubblicitari (Atap); dal 1955 la componente degli artisti pubblicitari si distacca da quella dei tecnici, riunendosi nell’Associazione italiana degli artisti pubblicitari (Aiap). L’associazione, tentando una continua definizione del campo professionale che intende rappresentare, continua a modificare la propria denominazione associata all’acronimo che resta invariato: diventa dapprima Associazione italiana creativi comunicazione visiva; poi, riferndo la denominazione alla pratica disciplinare piuttosto che alla professione, passa ad essere Associazione italiana progettazione comunicazione visiva;


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infine giunge all’attuale denominazione di Associazione italiana design della comunicazione visiva. Lussu a proposito delle denominazioni adottate commenta45: Fino a qualche tempo fa, almeno da noi, il “design della comunicazione” poteva intendersi in modo un po’ diverso dalla semplice “grafica”: l’uno un pizzico più hard e progettuale e l’altra tendente all’espressivo e al decorativo. Ma nel 2012 l’Aiap […] è approdata ad “Associazione italiana design della comunicazione visiva”, impadronendosi del termine “design” e rottamando “progetto di comunicazione”. Ci sono due possibili letture dell’evento: a) tutta l’Aiap è diventata più hard; b) tutto il design è diventato più decorativo.

Facendo un paragone, per avere una idea di quanta confusione e incertezza permanga nella denominazione e definizione di tutto quello che può chiamarsi comunicazione visiva, si pensi all’ADI, l’associazione che riunisce « progettisti, imprese, ricercatori, insegnanti, critici, giornalisti intorno ai temi del design »46, la quale dall’anno della sua fondazione (1956) è sempre – ragionevolmente – rimasta “Associazione per il disegno industriale”. Queste evidenti difficoltà nella definizione della disciplina, del suo campo d’azione, nonché del ruolo e dei compiti dei professionisti che operano nel settore della grafica e comunicazione visiva, non sono una peculiarità italiana. La situazione a livello internazionale è del tutto simile, connotata dalla stessa indeterminatezza e inafferrabilità. Ance l’Icograda, nata nel 1963 come International Council of Graphic Design Associations, ha successivamente cambiato denominazione arrivando a quella attuale di International Council of Communication Design. Inoltre, le definizioni ufficiali di design della comunicazione e della professione di riferimento proposte dall’associazione sono tutt’altro che definitive: in generale esse riflettono il globale slittamento del progetto di comunicazione da produzione di un artefatto a processo strategico che consente la comunicazione in un formato visivo. Di seguito la traduzione delle definizioni di design e designer della comunicazione47: 45.  G. Lussu, Miele dalla rupe: considerazioni di un grafico indolente, in “Progetto grafico”, n. 20, estate 2012. 46.  Descrizione dell’ADI, dal sito internet dell’associazione (www.adi-design.org). 47.  Definizione elaborata nel 1984 e ratificata alla ventiduesima Assemblea generale dell’Icograda, 26 ottobre 2007; reperibile sul sito internet dell’associazione (www.icograda.org); traduzione a cura dell’autore.


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Design della comunicazione: È una attività intellettuale, tecnica e creativa che riguarda non soltanto la produzione di immagini ma anche l’analisi, organizzazione e metodi di presentazione di soluzioni visive a problemi di comunicazione. Designer della comunicazione: È colui che ha la sensibilità, la competenza ed esperienza e/o la formazione professionale per creare progetti o immagini riproducibili su qualsiasi mezzo di comunicazione visiva, e che si occupi di grafica, illustrazione, tipografia, calligrafia, packaging (design della superficie per il packaging), o il progetto di patterns, libri, pubblicità o materiale promozionale, progettazione per trasmissioni, interattivo o ambientale, o qualsiasi altra forma di comunicazione visiva.

Infine l’Icograda, constatando che in tutto il mondo la professione e la disciplina sono definite in modo diverso, invita i membri e simpatizzanti a presentare ulteriori definizioni. Più interessante delle definizioni sottoscritte – ancora poche, ma soprattutto discutibili su molti aspetti, obsolete o quanto meno incomplete – è il fatto che l’Icograda rispetto all’ICSID48 lasci aperte le definizioni, rendendosi conto della compresenza di termini diversi nei vari paesi, fortemente dipendenti da radici storiche o tradizione culturale. Ad ogni modo la definizione ufficiale di “design della comunicazione” appare molto legata al concetto di immagine, parametro troppo sfuggente e ampio per definire una disciplina. Anche il lungo elenco delle competenze del designer sembra ancora parziale e tutto incentrato sul principio della produzione di immagini, applicabili poi, come ovvio, a qualsiasi supporto. La totale assenza di tentativi d’indentificare un filo conduttore ma piuttosto di ridurre tutto ad una sfilata di applicazioni segnala, in un’associazione di professionisti, una chiara intenzione di creare identificazione in quanti più membri possibili piuttosto che delineare un campo e le modalità d’azione della categoria. Queste considerazioni possono essere messe in relazione a quanto afferma Katherine McCoy. In un suo saggio49 del 1990 (più volte riedito), McCoy si chiede se il graphic design sia effettivamente una professione. Quello che emerge con maggiore evidenza è che il campo non esisteva neppure all’inizio del XX secolo, e tuttora non esiste una nomenclatura appropriata o sufficien48.  Entrambe le associazioni sono membre della International Design Alliance. 49.  K. McCoy, Education in an Adolescent Profession, in S. Heller (a cura di), The Education of a graphic Designer, Allworth Press, New York, 2005. Già presente in J. Frascara (a cura di), Graphic Design: World Views, ICOGRADA, Kodansha, Tokyo, 1990.


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temente condivisa. L’abbondanza di termini inglesi50 riferiti a questa pratica progettuale è simile a quella che si riscontra in ogni lingua. McCoy, tuttavia, insiste su un fatto interessante51: Gli stessi graphic designer non sono gli unici ad avere difficoltà nella definizione del loro ruolo. La posizione professionale del graphic design non è per nulla universalmente riconosciuta. Per esempio, il Servizio di immigrazione e il Dipartimento del lavoro degli Stati Uniti restano incerti sul fatto che il graphic design sia una professione, benché essi riconoscano chiaramente la posizione professionale di altri campi della progettazione, inclusi architettura e disegno industriale.

Tale condizione giuridica precaria – a cui Gunnar Swanson fa corrispondere la condizione di eccezionalità ed emarginazione dei corsi di design all’interno degli atenei americani52 – trova riscontro anche in alcune tendenze corporativiste interne alle associazioni professionali italiane: a più riprese si rivendica il riconoscimento della professione, si avanzano richieste per l’istituzione di ordini o addirittura di albi professionali. Pretese che mettono in luce una certa assenza di identità professionale o disciplinare, e un malcelato timore nei confronti dell’accessibilità sempre maggiore agli strumenti e tecniche propri della professione. 1.3 · Considerazioni finali I dati che emergono alla fine di questo lungo excursus sono essenzialmente ancora incompleti e discordanti. Emerge, ad ogni modo, una sorta di dualità nelle posizioni: da una parte sembrano esserci i processi produttivi che portano a parlare di disegno industriale, progetto per l’industria e grafica come disegno industriale; dall’altra, invece, il progetto, l’attività e il metodo della progettazione, che restano più vicini ai concetti di rappresentazione, sintesi visiva e gestione e organizzazione delle informazioni. Permangono alcune implicazioni connesse alla realtà produttiva, difficili da omettere: come l’avvento dell’industria abbia profondamente trasformato l’attività ideativa introducendo una serie di vincoli propri della produzione 50.  L’elenco fornito dall’autrice comprende: graphic designers, graphic artists, commercial artists, visual communicators, communication designers, layout men, paste-up artists 51. McCoy, Education in an Adolescent Profession, cit. (traduzione a cura dell’autore). 52.  G. Swanson, The illegal alien, discorso alla conferenza “Reinventing Design Education in the University” tenutasi a Perth (Australia), dicembre 2000.


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in serie, quali, ad esempio, la ripetibilità e la standardizzazione; come dallo sviluppo economico e dalla trasformazione dei processi industriali sia derivata la diffusa consapevolezza della componente progettuale nella produzione di beni di consumo; e come, infine, l’aspetto della progettazione si sia cristallizzato in una pratica professionale attraente, che ha fatto avvertire la necessità di percorsi formativi ad hoc. Venendo al problema della didattica, occorre specificare che le definizioni proposte non definiscono automaticamente quale debba essere la formazione del designer. Se l’industria, il progetto degli oggetti e degli artefatti comunicativi, così come le rappresentazioni esistono, ciò non vuol dire che a essi debba corrispondere un percorso formativo univoco, né tantomeno che per ogni compito o professione relativi a questo ambito debba esser previsto un percorso educativo distinto e specializzato. Una formazione generale – intesa, però, non come commistione di tutte le specializzazioni possibili, quanto piuttosto come una base forte di conoscenze e competenze declinabile per ognuna – potrebbe risolvere la pretesa di questa corrispondenza scuola-professione53, e insegnare a porre, considerare, interpretare problemi e scenari, senza assumere le caratteristiche di formazione professionale. Del resto, così come non aveva più senso per Dorfles54 (1972) una divisione del disegno industriale – e quindi della formazione al design – per materiali di produzione, non sembra avere più senso, oggi, la divisione tra i rami del design in base all’oggetto della progettazione – “le industrie” di cui parla Maldonado. Sempre più sfumati sono i confini tra le competenze e risulta, pertanto, piuttosto forzato smembrare un progetto complesso secondo il criterio della tecnica produttiva o della metodologia progettuale di ognuna delle parti che lo compongono. Questo permette tuttavia di continuare a fare delle distinzioni nell’area vasta e inclusiva del design, ma cambiando i criteri: si dovrebbe trattare di distinzioni che tengano conto di altri fattori, quali la destinazione finale, le componenti di ricerca e la rilevanza sociale dell’attività progettuale.

53.  Si veda sulla questione anche la conversazione con Giovanni Lussu, presentata in appendice, che ha decisamente contribuito a ispirare queste riflessioni. 54. Dorfles, op. cit.


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2 · Formare il designer Dorfles definisce il designer sia come il progettista dell’oggetto da produrre ma anche come il « pianificatore della stessa vicenda produttiva »55, e riferendosi all’azione del designer nella progettazione afferma56: […] uno dei suoi primi obiettivi sarà quello di raggruppare sinteticamente i dati ricavati dalle informazioni avute dai diversi ricercatori […] così da poterne trarre le conclusioni che gli permettano di individuare il tipo di prodotto da progettare. Ecco perché sarà impossibile che un designer possieda le nozioni tecniche e scientifiche sufficienti a permettergli la progettazione di qualsivoglia prodotto, anche se si sarà specializzato in un determinato ramo dell’industria. Mentre sarà certamente ammissibile che – valendosi delle informazioni avute dai tecnici e dagli esperti – possa progettare oggetti di cui possa anche non penetrare compiutamente i requisiti scientifici.

Questa definizione solleva in qualche modo il progettista dal peso delle nozioni ingegneristiche, pur tenendolo altrettanto o ben più lontano dall’orientamento creativista, che vede nel designer una sorta di sorgente per “trovate” originali. Anche a proposito della formazione del designer, infatti, considera prioritaria l’educazione globale, la preparazione integrata in diverse aree del sapere rispetto alle conoscenze esecutive. Il designer, già nella definizione di Dorfles, si caratterizza dunque come un coordinatore delle varie competenze e risorse che concorrono alla produzione di oggetti fabbricati industrialmente. Una posizione che, come si è già evidenziato, trova corrispondenza anche nell’area del progetto di comunicazione visiva. La frammentazione delle discipline e delle relative competenze in segmenti sempre più specialistici porta a considerare l’esigenza di una figura che sappia creare i ponti, le relazioni tra tali competenze e domini di conoscenza. Tutto il capitolo, di fatto, ruota attorno alla definizione del ruolo del designer. Ritornando agli argomenti principali di questa tesi, dal punto di vista della formazione, ci si chiede quali siano, a questo punto, le competenze proprie di questa figura ibrida appena delineata, quale il grado di approfondimento relativamente alle conoscenze prettamente tecniche, e in che misura l’attività di questo tipo di designer si caratterizzi come intellettuale, critica, di ricerca. 55.  Ibidem. 56.  Ibidem.


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Ad ogni modello pedagogico, del resto, si può far corrispondere una diversa visione di cosa sia il designer, di quale ruolo rivesta nella società in quanto soggetto dinamico, piuttosto che un’idea di design astratta e sfuggente, tendenzialmente inutile da definire, come tutte le discordanti definizioni fin qui proposte hanno dimostrato. 2.1 · Proposte di percorsi formativi In occasione della chiusura del Corso superiore di disegno industriale e comunicazioni visive di Roma (1970), Anceschi prova a definire un’idea di didattica del design57, sulla scorta sia della personale esperienza di Ulm che dell’insegnamento presso la scuola di Roma. Egli elenca una serie di strumenti che uno studente si aspetta di avere dalla scuola. Benché gli strumenti non siano le uniche cose di cui il designer debba disporre, questi dovranno essere concettuali e metodologici, più che tecnici. Anche l’orientamento e l’intenzionalità sono ritenuti determinanti per l’intervento del designer in un determinato contesto, in particolare quello di un ambiente complesso, condizionato da dinamiche socio-economiche opposte e compresenti. Dunque ogni intervento del futuro designer dovrà essere caratterizzato da: consapevolezza, che lo metta in condizioni di analizzare, prevedere e intervenire sulle conseguenze del suo operare, possedendo strumenti approfonditi di analisi culturale e sociale; efficienza, nel senso del possesso di conoscenze scientifiche e tecnologiche avanzate, legate a padronanza metodologica; innovazione, per modificare strutture preesistenti e fornire alternative sostanziali. Dorfles, nel 1972, lamentando la « quasi assoluta carenza d’impostazione didattica » italiana, sia in confronto a un alto livello di progettazione industriale che rispetto al contesto europeo e americano, si cimenta nella definizione delle materie di studio, un “programma-tipo” per una scuola di design di livello universitario, articolata in quattro o cinque anni di corso. È utile notare che Dorfles, in questo caso, utilizzi il termine design per estenderlo alle varie ramificazioni che un percorso formativo di progettazione dovrebbe includere o prevedere, così come accadeva nelle scuole estere dell’epoca. Tuttavia resta la categorica delimitazione del design ai metodi e processi industriali, considerando addirittura d’intralcio ad un buon sistema 57.  G. Anceschi, Relazione pedagogica per l’anno accademico 1969/70, in “Rassegna dell’istruzione artistica”, numero speciale dedicato all’attività del CSDICV di Roma, luglio-dicembre 1972.


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didattico l’innesto delle scuole di design su preesistenti scuole di artigianato o arte applicata, dovuto all’origine stessa della disciplina. Particolarmente interessante, nell’impostazione complessiva che egli propone, l’apertura a discipline non specialistiche, ovvero non direttamente legate alla progettazione industriale. Il modello dichiarato è quello della scuola di Ulm58: [Essa] tendeva a dare un particolare sviluppo, oltre che all’aspetto tecnico-scientifico del disegno e alle sue applicazioni pratiche, anche alla basi teoretiche dello stesso e alla ricerca nel campo della comunicazione visuale e della comunicazione scritta. Inserendo così lo studio del design nel più vasto settore delle discipline sociali, statistiche e linguistiche che hanno e avranno sempre maggior peso nella nostra civiltà.

La lista degli insegnamenti proposta è lunga e comprende un primo gruppo di materie complementari, variabili a seconda delle carenze nella preparazione precedente dello studente59; e un secondo gruppo di materie fondamentali, ovvero quelle specialistiche relative all’area della progettazione, gran parte delle quali d’impostazione analitico-scientifica. Del tutto secondario è, invece, lo studio delle tecniche e dei processi produttivi – che potrà essere approfondito « direttamente con la partecipazione ad un ciclo lavorativo di fabbrica con risultati molto più veloci e pratici »60 – mentre l’enfasi è tutta sull’impostazione globale dello studente, in quanto Dorfles, giustamente, ritiene che « non si possa assolutamente concepire uno studio del disegno industriale che sia avulso da una globale educazione dell’individuo e da una preparazione tecnica, sociale, scientifica, artistica, davvero integrata »61. Si nota dunque quanto sia ritenuta importante la compresenza di insegnamenti provenienti da aree disciplinari lontane fra loro, un modello multidisciplinare per fornire una preparazione che non sia unicamente professionale ma un’educazione articolata, che riguardi diversi aspetti della vita dell’individuo, prospettiva ancora valida se si considerano le considerazioni a cui si è giunti nel precedente capitolo.

58.  Ibidem. 59.  Tra le materie proposte da Dorfles: storia dell’arte, psicologia, matematica, fisica, chimica, elementi di architettura. 60. Dorfles, op. cit. 61.  Ibidem.


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Rivolgendosi al contesto contemporaneo, benché l’interesse nella formazione alla progettazione e l’espansione dell’offerta didattica che prendevano avvio agli inizi degli anni ottanta siano ora in contrazione, secondo Anceschi, oggi come allora « la richiesta di formazione in questo settore è pressante »62, poiché l’industria culturale, dell’informazione e della comunicazione continua ad avere – come si diceva anche nella Carta del progetto grafico – un ruolo traente. Di designer c’è continuo e sempre maggiore bisogno. Nel 1983, però, Anceschi si chiedeva – e la domanda sembra ancora oggi drammaticamente attuale – se il vero “business” nella formazione al design fosse la prospettiva professionale futura o l’insegnamento stesso. Quasi a indicare come trainante nell’espansione dell’offerta formativa il fattore “moda”, senza considerare invece le effettive possibilità di inserimento della figura del designer nel contesto socio-economico. Al di là di questo, il fatto inconfutabile è che oggi la figura del progettista è profondamente cambiata, soprattutto per due fattori. In particolare, per quanto riguarda il grafico, l’evento sconvolgente è l’irrompere della temporalità nel progetto: « si disegnano meno artefatti e più eventi , e anche gli artefatti sono sempre più gli attrezzi di scena per lo svolgimento degli eventi »63. Un fatto, questo, chiaramente connesso con l’avanzare dei media elettronici in cui la comunicazione ha la possibilità di subire continue metamorfosi. Il grafico tradizionale è quindi chiamato a misurarsi con il fattore tempo e pertanto a diventare progettista di sequenze, atmosfere, processi e trasformazioni: in questo senso la figura del progettista assume le caratteristiche di regista che « plasma il processo comunicazionale »64. Il secondo fattore è legato alla nozione di scala, che sembra decadere al cospetto dei nuovi media: è il caso dei siti web o dell’interaction design, difficilmente categorizzabili secondo questo parametro. Quella di scala è una tipica nozione della tradizione architettonica, la quale considerava le diverse aree del progetto sottoposte al suo dominio secondo una struttura gerarchica: ritorna l’idea rinascimentale della diva architectura di cui parla-

62.  G. Anceschi, Design di base e fondamenta del design, ne “Il verri”, n. 43, giugno 2010; riedizione rivista e ampliata dell’articolo, già in “Ottagono”, n. 70, settembre 1983. 63.  G. Anceschi, Oltre la grafica (intervista), in G. Camuffo, M. Dalla Mura, Graphic design worlds, catalogo della mostra tenutasi presso la Triennale di Milano dal 26 gennaio al 27 marzo 2011, Electa, Milano 2011. 64.  Ibidem.


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va Leon Battista Alberti, ma anche quella più recente di opera d’arte totale (Gesamkunstwerk) coordinata dal progetto di architettura. Nel corso del XX secolo si è andata affermando una certa separazione e relativa autonomia delle discipline del progetto. Oggi questa diversificazione, con l’ingresso della temporalità e con la caduta della nozione di scala, tende a sfumarsi generando uno “sfondamento” dei confini e dei limiti disciplinari. Questi fenomeni sono l’altra faccia dell’atteggiamento postmoderno di erosione dei saperi e delle certezze precedenti, al quale Anceschi reagisce introducendo il concetto di baricentro. Esso risponde alla grande richiesta di fondamenti, e quindi a una esigenza di propedeuticità. I modelli rizomatici e liquidi del pensiero debole sono più che altro utili a capire e descrivere i comportamenti contemporanei. Si avverte, invece, una forte necessità d’individuare ciò che di stabile e costante permane di una disciplina – ovvero il baricentro disciplinare – da cui si possono poi propagare “onde” che arrivano a interferire e intrecciarsi con gli altri saperi. Questo modello si presenta allora come una mediazione o un superamento, anzi, della separazione modernista e dell’informalità postmoderna. Gli educatori soprattutto devono avere il coraggio di prendere posizione – pur restando aperti alle trasformazioni – e riconoscere e affermare con forza « le cose costanti, le “spine dorsali”, le gerarchie conoscitive e le dipendenze concettuali »65. Il sistema educativo potrebbe allora trarre un grosso contributo alla sua trasformazione dal modello dei baricentri, mettendo in relazione procedure pedagogiche specialistiche e fondative con momenti interdisciplinari e transdisciplinari. È l’idea delle università tematiche, contenuta già nel pensiero ultimo di Maldonado66, che si organizzano e operano per questioni globali, non per discipline. Una visione del genere sarebbe tesa a immergere inoltre la ricerca – e sperimentazione – accademica nel contesto reale.

3 · Fondazione disciplinare, insegnamenti fondamentali Una delle questioni principali relative alla formazione del designer è quella che riguarda gli insegnamenti propedeutici. Nei corsi e nelle scuole che si 65.  Ibidem. 66.  Si veda l’idea dell’organizzazione universitaria per dipartimenti e la proposta di corsi di design ambientale, cui si fa cenno nel paragrafo 3.6 del capitolo primo.


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sono occupati fino a oggi della formazione dei progettisti si sono alternati differenti approcci d’insegnamento, che in qualche modo hanno sempre stabilito un rapporto di continuità o rottura rispetto ai modelli didattici sviluppati nelle prime importanti scuole di design, parallelamente alla nascita della disciplina. 3.1 · Modelli pedagogici, propedeutica e basic design Quello che illustra Anceschi – nell’articolo sul design di base già citato – è un percorso che prende le mosse dal momento di avvio, di fondazione disciplinare, un momento che più che storico si caratterizza appunto come « mitico/genetico/originario »67. Ne è conferma il fatto che oggi esistono contemporaneamente molte possibilità: « Il nostro presente è la compresenza – diciamo così – astorica della quasi totalità dei modelli operativi e dei sistemi produttivi, appunto: arte artigianato, industria, design, styling, marketing, moda, pubblicità »68. La sua analisi ci aiuta, dunque, a distinguere e comprendere modelli pedagogici ricorrenti nella didattica del design, le loro origini e implicazioni. Il primo momento è quello della bottega medievale, un modello di apprendimento pragmatista, di learning by doing, in cui il maestro è il centro, è l’esempio. È assente ogni propedeutica e il lavoro si apprende imitando il maestro per quanto possibile. Già a questo stadio tendono a distinguersi due atteggiamenti pedagogici. Uno di stampo orientale, in cui il discente è naturalmente trasportato verso l’apprendimento e si allenerà per il raggiungimento del risultato (training): compito del maestro è quello di predisporre le condizioni, liberare la strada; l’uomo è concepito come un fascio di potenzialità da sviluppare con esercizio e metodo. L’altro atteggiamento è quello occidentale che considera il docente come depositario e fonte del sapere da distribuire agli allievi, i quali, debolmente motivati, devono essere stimolati all’apprendimento; l’uomo in questo caso è un vaso vuoto da riempire di conoscenze e nozioni. È famosa la metafora dell’imbuto, del travaso. Il sapere così diventa facilmente trascrivibile in elementi e regole da seguire. Tra le due concezioni cambia anche il rapporto con le attrezzature: sufficienti all’esercizio di abilità, nel primo, o predominanti fino a sostituirsi all’azione, nel secondo. 67. Anceschi, Design di base, cit. 68.  Ibidem.


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In questo modo, progressivamente, il momento dell’ideazione si sgancia dall’esecuzione. Viene messo a punto un percorso di apprendimento per gradi, che contiene logicamente anche fasi propedeutiche: si tratta di un processo prettamente deduttivo che da idee generali passa attraverso le tecniche alla conferma delle cose imparate. Un primo esempio è quello della trattatistica pittorica rinascimentale. Il basic design69 nasce chiaramente come un insegnamento propedeutico. Tuttavia ha delle caratteristiche singolari: contiene sia la componente dell’esercizio (training/orientale) sia quella di trasmissione del sapere (analitica). Le radici vitalistico-espressive che hanno ispirato l’elaborazione del corso di base70 all’interno del Bauhaus, da cui il basic design ha origine, sono approfondite nel paragrafo successivo. Quello che Anceschi segnala è che, nonostante il corso di base tendesse alla stimolazione e liberazione delle forze creative, « anche nel caso di figure di insegnanti non certo connotate in un senso razionalistico, l’impatto con la didattica e l’incontro con gli allievi in carne ed ossa, spinge alla produzione di proto-teorie »71, un sapere oggettivo legato alla costruzione di fondamenti disciplinari. Ciò vale per Wassilij Kandinskij e Paul Klee72, così come per Johannes Itten, giunti nel corso dell’insegnamento all’elaborazione di teorie e trattati73. Nella versione di László Moholy-Nagy, invece, il corso propedeutico si orientava più verso la sperimentazione e la tecnologia: veniva in qualche modo superata la tensione tra saper fare e sapere trasmissibile. In sintesi, dal punto di vista di Anceschi, il basic design è la disciplina in grado di connettere insegnamento e conoscenza, pedagogia ed epistemologia. Ovvero durante le esercitazioni dei corsi di base, contemporaneamente si subisce un training e si produce una conoscenza. 69.  L’espressione non è altro che un riadattamento del tedesco Grundkurs/Grundlehre (corso/ insegnamento di base), elaborato in contesto americano, dove alcuni dei professori del Bauhaus si sono trasferiti in seguito alla chiusura della scuola. 70.  Si fa riferimento sia al Vorkurs traducibile come corso propedeutico, sia al Grundkurs che si può rendere come corso di base o fondamentale. 71. Anceschi, Design di base, cit. 72.  Ai due artisti non era affidato il cosiddetto Vorkurs – tenuto da Itten solo fino al 1922, poi passato a Moholy-Nagy – ma i corsi d’insegnamento artistico generale (pittura) che insieme al corso propedeutico costituivano la formazione di base prima dei laboratori divisi per sezioni. 73.  Punto, linea, superficie di Kandinskij è stato pubblicato nel 1926, il Quaderno di schizzi pedagogici di Klee è del 1925, mentre Arte del Colore di Itten è stato pubblicato più tardi nel 1961 (titoli delle traduzioni italiane).


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Un caso a parte è il basic design sviluppato da Josef Albers – maturato in particolare nel periodo alla direzione del Dipartimento di design dell’Università di Yale –, il quale in sostanza propone un’integrazione tra i due poli di training e fondazione: la disciplina che emerge dalla ricerca deve essere adeguata agli orizzonti della percezione piuttosto che simulare la scientificità istituzionale. In altre parole, il criterio di giudizio e validazione dei risultati non è oggettivo né soggettivo ma intersoggettivo: nell’ambito della percezione è vero quello che risulta vero per la comunità di senso degli studenti, ovvero una verità dialogica. Nella versione di Ulm del corso di base, con la riforma didattica messa in moto da Maldonado, dall’inserimento di elementi tratti da discipline più e meno affini alla progettazione, si passa gradualmente a un basic specializzato, articolato disciplinarmente, e che – altra caratteristica importante – da ricerca libera para-artistica diventa perseguimento di un preciso risultato o effetto: « un problem solving circoscritto alle questioni della configurazione, che si concentra su una sola variabile o un solo obiettivo »74. Sono adesso i contributi scientifici ad assumere il ruolo propedeutico e omogeneizzante. In questa tendenza è contenuto il successivo passaggio. Lo spostamento verso il processo progettuale, l’esigenza di aderire alle modalità della prassi, attiva il rovesciamento: la ricerca pura e generale del basic diventa una ramificazione, un supporto al progetto. Si ripercorre la strada che le conoscenze hanno affrontato nel formarsi, dal particolare al generale. L’insegnamento per progetti praticato in molte università e corsi di design è un tipico caso, secondo Anceschi, di approccio anti-basic, che attribuendo alla ricerca una posizione subalterna ne mette a rischio l’autonomia. In Italia, per via della carenza strutturale delle università75, la formula del basic design non ha mai propriamente informato i corsi e le scuole di progettazione. I casi isolati – quali, ad esempio, l’esperienza dello stesso Anceschi all’Isia di Roma negli anni sessanta, e in tempi più recenti allo Iuav di Venezia – sono stati compensati dalle sperimentazioni dell’arte programmata, che si sono caratterizzate come una sorta di basic design “senza insegnamento”: esperienze che hanno visto tra i loro protagonisti non solo artisti, ma anche designer quali Anceschi e Munari.

74. Anceschi, Design di base, cit. 75.  Si vedano le ultime sezioni del capitolo primo, che ricostruiscono la vicenda dell’inclusione delle discipline del progetto nelle università italiane.


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3.2 · Origine dell’espressività soggettiva È interessante, a questo punto, guardare all’analisi che Maldonando conduce in un articolo del 1978, in cui approfondisce alcuni aspetti del percorso precedentemente tracciato76. Nonostante Maldonado parli in termini di formazione artistica, la sua ricostruzione è utile a comprendere l’origine delle tracce di creativismo, soggettivismo e artisticità ancora presenti nella formazione dei progettisti e di riflesso nell’impostazione delle scuole che si occupano dell’educazione al design. Si sono già seguite – nel capitolo primo – le tappe storiche fondamentali che hanno determinato il progressivo allontanamento degli attuali corsi di design dalla formazione artistica tradizionale. Tuttavia, si può ancora notare quanto questo legame non sia del tutto superato: è sufficiente riscontrare che, almeno in Italia, le Isia, scuole di progettazione, contengono già nel loro nome il riferimento all’arte e che una parte della formazione in questa disciplina è tuttora affidata alle accademie di belle arti. Riflettendo sul significato della formazione artistica, il suo ruolo e il venir meno dalla legittimazione storica, Maldonado chiede di sostituire al vecchio dibattito sulla “morte dell’arte” un’indagine sulla funzione che la pratica artistica, sia nella sua componente educativa che creativa, svolge o non svolge nel contesto sociale77. Mutuando il modello di Thomas S. Kuhn della distinzione tra scienza normale e scienza straordinaria per adattarlo al campo dell’arte, egli individua due orientamenti storicamente presenti: un’arte “normale” che opera con canoni, norme, paradigmi altamente istituzionalizzati, e un’altra arte “straordinaria” che si rivolta contro i paradigmi vigenti proponendo nuovi modelli al processo creativo, mettendo in atto rivoluzioni artistiche. Nel passato è l’arte normale ad aver coperto il ruolo principale nella formazione artistica: le accademie non sono mai stati luoghi d’innovazione, quanto piuttosto le istituzioni capaci di tramutare le innovazioni precedenti – del passato – in paradigmi socialmente accettati e fruibili. Questa situazione è completamente cambiata da quando le avanguardie artistiche del Novecento hanno contribuito a frantumare quel corpo di regole dell’arte normale, impedendo la ricomposizione di qualsiasi nuovo 76.  T. Maldonado, Arte, educazione, scienza. Verso una nuova creatività progettuale, in Bauhaus, Vchutemas, Ulm, “Casabella”, n. 435, numero monografico, 1978. 77.  Il particolare contesto a cui fa riferimento Maldonado è quello tardo-capitalista.


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sistema. Maldonado si chiede, dunque, cosa siano diventate da allora le accademie, i luoghi della formazione artistica. Il risultato di questo processo è una instabilità del “sistema artistico” tale da tornare stabile. Decaduto il confronto dialettico tra accademia e innovazione, accade che tutto sia arte normale oppure tutto arte straordinaria: in un caso o nell’altro le accademie non sono all’altezza di gestire nessuna delle due situazioni. È questo il cuore della loro crisi, e della crisi della formazione artistica generale. Successivamente, la formazione artistica ha teso principalmente al potenziamento delle capacità creative tramite esercitazioni che utilizzavano gli elementi propri della pratica artistica. A fondamento di questo tipo di istruzione artistica sta l’idea che la creatività passi esclusivamente per l’espressività, che anzi « creatività non sia altro che espressività »78. Le origini di questa impostazione sono ben argomentate da Maldonado e in generale sono da rintracciare nel proto-romanticismo tedesco. È lì che la scienza è stata rifiutata come fonte di conoscenza rispetto all’arte che permette un contatto non-intellettuale, immediato, con la realtà; contatto che avviene, in particolar modo, liberando tutto il potenziale espressivo del corpo. Su questa stessa visione nasce il movimento della Arbeitschule (scuola del lavoro) nella prima decade del XX secolo, in cui l’anti-intellettualismo viene portato alle estreme conseguenze: si impara facendo, non leggendo. Questi orientamenti, insieme al movimento di formazione artistica di Hildebrandt, all’attivismo pedagogico di Montessori e al progressismo di Dewey, hanno fortemente influito sull’impostazione didattica del Bauhaus, in particolare sul corso fondamentale79: […] lo studente deve dare via libera alle sue forze espressive e creative tramite la prassi manuale e artistica, […] deve acquisire una conoscenza non esclusivamente intellettuale, ma anche emozionale, non attraverso i libri80, ma tramite il lavoro. Educazione tramite l’Arte, l’Azione, il Lavoro. Queste sono le costanti che si possono trarre dal pensiero pedagogico dei maestri del Bauhaus.

78. Maldonado, Arte, educazione, scienza, cit. 79.  T. Maldonado, Sulle radici della didattica del Bauhaus, 1958; articolo citato da Maldonado, Arte, educazione, scienza, cit. 80.  Si consideri che il Bauhaus non era fornito di una biblioteca; quella di Ulm, invece, era stata il motivo della folgorazione che Enzo Frateili subì quando nel 1959 fu in visita alla scuola: « Avevo messo piede nella biblioteca della Scuola e vi avevo trovato una tale Terra Promessa di fonti insospettate, direi di un grande retroterra culturale »; E. Frateili, L’incantesimo del Kuhberg, in Il contributo della scuola di Ulm, “Rassegna”, n. 19, numero monografico, settembre 1984.


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Del resto, come sottolinea Francesco Dal Co, «più che la fine di un’epoca il Bauhaus rappresenta l’istituzionalizzazione di un sogno romantico dalle lunghe radici»81, e all’origine del programma di fondazione della scuola – come già accennato nel capitolo primo – c’era una precisa intenzione di recupero dell’attività artigianale come preservazione dell’autonomia dell’arte dalla meccanizzazione della produzione industriale. La severa critica di Maldonado – condivisa dai principali protagonisti di Ulm – si rivolge, dunque, a questa impostazione attivistico-espressionista di una parte della didattica del Bauhaus che « privilegiando gli aspetti meramente motori, emotivi, intuitivi lasciava gli individui assolutamente sprovvisti degli strumenti razionali con cui analizzare, valutare e infine reagire all’ordinamento societario borghese »82. Quello che propone allora è un tipo di creatività non più intesa come espressività individuale, ma come pratica razionale, « creatività come progettualità »83. 3.3 · Formazione di base, il modello di Ulm Questa serie di critiche è alla base dell’impostazione didattica che la Hochschule für Gestaltung di Ulm sviluppa già prima dell’arrivo di Maldonado, e poi assume definitivamente quando nel 1956 – appena tre anni dopo l’inizio delle attività della scuola (1953) e un anno dopo la sua inaugurazione ufficiale (ottobre 1955) – lo stesso Maldonado subentra a Max Bill nella direzione della scuola84. Se Bill – come nelle intenzioni dei fondatori – aveva in mente di proseguire l’opera del Bauhaus85, improntata alla costruzione del progettista-artista investito del compito di « combattere il brutto con l’aiuto del bello, del buono, del pratico »86, Maldonado, già dal suo arrivo, richiama alla necessità di « ridefinire i termini della nuova cultura »87 ponendo l’accento sull’individua81.  F. Dal Co, Prefazione all’edizione italiana, in H.M. Wingler, Il Bauhaus, Feltrinelli, 1972. 82. Maldonado, Arte, educazione, scienza, cit. 83.  Ibidem. 84.  In corrispondenza del cambio di direzione si verifica anche il passaggio dal rettorato al sistema del collegio direttivo. 85.  Nel primo anno di funzionamento della scuola di Ulm i docenti erano tutti provenienti dal Bauhaus, ad eccezione di Otl Aicher. 86.  M. Bill, Prima relazione come direttore della scuola, 1952; citato da M. Bistolfi, La HfG di Ulm: speranze, sviluppo e crisi, in “Rassegna”, n. 19, settembre 1984. 87. Bistolfi, art. cit.


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zione della finalità sociale della creatività che la scuola intende raggiungere. L’ obiettivo esplicito è la formazione di un nuovo tipo di progettisti, i quali « devono possedere le conoscenze specifiche tecnologiche e scientifiche necessarie alla collaborazione con l’industria moderna. Nello stesso tempo essi devono tenere conto delle conseguenze culturali e sociali del loro lavoro »88. Capisaldi della nuova impostazione sono, dunque: una componente fondamentale di conoscenze scientifiche e tecniche – che prima erano per lo più complementari agli studi artistici e figurativi –, l’enfasi sui metodi razionali e una forte consapevolezza sul ruolo sociale e culturale del progettista. A questo si aggiunge la volontà di collegare la didattica alla produzione, proponendo progetti alle industrie o accogliendo le loro richieste, anche con lo scopo di coprire in parte i costi della scuola. In questo cambiamento di rotta verso le discipline scientifiche89 sta il vero apporto innovativo della scuola alla fondazione disciplinare e all’insegnamento del design, nonché alla costruzione di una nuova figura di progettista. Ma va considerato anche il contesto in cui la scuola nasce e opera, profondamente diverso rispetto all’antecedente ideale del Bauhaus: la Germania divisa del secondo dopoguerra, impegnata, almeno nelle premesse iniziali, in una grande opera di rifondazione culturale e ricostruzione democratica del paese. La HfG aveva intuito in anticipo la necessità del contributo delle materie scientifiche alla formazione del designer, avvertita dal resto del paese solo nel periodo delle contestazioni studentesche, proprio quando la scuola entrava nella fase critica che ha portato alla sua chiusura nel 1968. Il corso di base è il terreno su cui maggiormente si apprezza questo passaggio d’impostazione. Come spesso nota Anceschi, il corso di base (anche preparatorio o propedeutico), che si era chiamato Vorkurs al Bauhaus – affidato prima a Itten, poi a Moholy-Nagy, infine ad Albers – e Grundkurs o Grundlehre a Ulm, in seguito tradotto come Basic design nei paesi anglo88.  T. Maldonado, primo numero della rivista “ulm”, ottobre 1958; citato da Bistolfi, art. cit. 89.  Nell’analisi di Martin Kramper, si calcola che l’insegnamento scientifico copriva in media un quarto del curriculum, nonostante la percentuale variasse a seconda delle fasi di vita della scuola e a seconda delle sezioni interne. Interessante è notare che l’influsso esercitato dalle materie scientifiche “tecnocratiche” (metodi di matematizzazione) fosse minore dell’apporto di quelle socio-scientifiche (come scienze delle comunicazioni, sociologia, psicologia), a differenza di quanto solitamente si crede. Si tratta, comunque, di un’analisi quantitativa che, come avverte Maldonado, trascura quella serie di sentimenti e temperamenti che hanno svolto – e comunque sempre svolgono – un ruolo fondamentale nella storia della HfG. M. Kramper, Il contributo dell’insegnamento scientifico alla HfG, in “Rassegna”, n. 19, settembre 1984.


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sassoni, riveste un’importanza decisiva nell’educazione al design90. Esso segna, infatti, il punto di svolta nella definizione disciplinare, a livello sia pedagogico sia gnoseologico. Tuttavia, esistono alcune differenze fondamentali, come già accennato, tra il corso propedeutico del Bauhaus e l’insegnamento di base di Ulm. Il primo, comune a tutti i vari indirizzi, aveva il fine di azzerare ogni pregiudizio formativo, creare un’area espressiva omogenea, orientandosi all’esercizio fisico del polso e alla liberazione del gesto, nella versione di Itten, oppure alla sperimentazione libera e alla ricerca formale nella versione di Moholy-Nagy. Il secondo, dopo una prima fase di riproposizione del modello bauhausiano, nell’anno accademico 1957-58 subisce una profonda revisione che modifica radicalmente l’assetto organizzativo dell’insegnamento: –– il corso viene articolato in una serie di materie: metodologia visiva, lavori di laboratorio, metodi di rappresentazione, metodologia della progettazione, sociologia, teoria della percezione, storia della cultura del XX secolo, corsi integrativi di completamento delle conoscenze di base dello studente, quali matematica, fisica, chimica; –– viene progressivamente abbandonato l’approccio della sperimentazione libera, di matrice artistica, per passare a una formulazione più precisa degli elementi, delle regole e dell’obiettivo delle varie esercitazioni proposte; –– gradualmente il corso preparatorio comune si orienta a una sempre maggiore specializzazione fino alla formazione di più corsi fondamentali – uno per ogni indirizzo didattico – differenziati secondo le esigenze di ciascuna sezione, cosa che avverrà definitivamente nel 1962, con l’entrata in vigore del nuovo regolamento e con la direzione di Otl Aicher. Alla base di questa svolta – anche chiamata “riforma Maldonado”, nonostante coinvolgesse un entourage più ampio – c’è la considerazione che l’approccio didattico attivistico-espressionista fosse più adatto a livelli d’istruzione inferiore: i modelli di riferimento, infatti, erano stati elaborati nel contesto della formazione in età pre-scolare e scolare. Alla visione dello studente come “principiante” se ne sostituisce una di studente già maturo, adulto, che frequenta appunto un istituto d’istruzione superiore.

90.  Con design, in questo caso, non si fa riferimento all’attività a cui corrisponde una pratica professionale, ma al design come disciplina o materia d’insegnamento.


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Certo tale impostazione, pur rigorosa nelle sue premesse, non era esente da critiche e contrasti interni. La reazione al modello del learning by doing e il neopositivismo imperante rischiavano di condurre a un tipo di insegnamento accademico e all’adorazione del metodo. In ragione di ciò, all’interno della scuola si potrebbero distinguere, in termini molto riduttivi, due approcci tendenziali: i “pratici”, ovvero docenti che considerano come valido contributo alla formazione dei disegnatori industriali le esperienze di attività professionale al di fuori della scuola, con la tendenza a porre il designer al servizio dell’industria; i “metodologi puri”, invece, fondano la didattica sull’acquisizione di metodi per la progettazione, convinti dell’onnipotenza della metodologia91. Questi orientamenti – tuttavia non così nettamente contrapposti – sono mediati da docenti che assumono una posizione intermedia, riconoscendo egual valore didattico all’esperienza professionale quanto all’utilizzo di metodi scientifici nella progettazione, e in definitiva denunciano contemporaneamente un professionalismo senza coscienza critica e un uso indiscriminato dei metodi. Maldonado e Bonsiepe, inoltre, richiamano il designer a tener costantemente presente la componente umana e i suoi aspetti di imprevedibilità. L’esigenza, secondo Maldonado, era quella di fondare teoricamente l’attività pratica, rivalutando la verbalità nelle pratiche del design e superando la reazione all’università sfociata nell’espressionismo pedagogico; una formula orientata ad assimilare gli aspetti positivi delle esperienze precedenti, correggendone gli errori e le tendenze negative. 3.4 · Superamento dei due modelli d’insegnamento Un’analisi più recente mette in relazione i modelli didattici rapidamente e parzialmente presentati. Alain Findeli92 individua, osservando i precedenti storici, tre aspetti tuttora alla base dell’educazione al design: arte, scienza e tecnologia. Queste tre componenti compaiono già nel manifesto originale del 1919 con cui Gropius inaugura il Bauhaus di Weimar, ma hanno di volta in volta assunto un peso differente all’interno delle scuole e programmi di progettazione. 91. Bistolfi, art. cit. 92.  Alain Findeli, Rethinking Design Education for the 21st Century: Theoretical, Methodological, and Ethical Discussion, in “Design Issues”, n. 17, inverno 2001.


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Secondo Findeli, attualmente, è universalmente riconosciuta la necessità di includere i tre aspetti di arte, scienza e tecnologia nella pianificazione dei curricula in design. Ciò su cui, invece, si concentrano i vari disaccordi riguarda principalmente due aspetti: quale debba essere il peso di ognuno dei tre aspetti, e quale la loro rispettiva funzione, il modo cioè in cui dovrebbero essere articolati all’interno di un piano di studi. Ancor più critica e discordante è la considerazione dell’obiettivo generale dell’educazione e della pratica del design. Findeli sottolinea quanto su questa visione generale si fondi la coerenza di un qualsiasi piano di studi, al di là delle strategie didattiche adottate. Seguendo lo sviluppo storico della disciplina Findeli rintraccia due paradigmi ricorrenti nel design thinking: arte applicata e scienza applicata. Il primo è quello più antico, che discende dalla tradizione delle arti decorative e che vede la genesi del disegno industriale nelle pratiche dell’artigianato e dell’arte. Già la didattica del Bauhaus sposta lievemente questo paradigma, in quanto la componente artistica si tinge di una coloritura scientifica e il design comincia a configurarsi come teoria artistica (estetica) applicata alla pratica. La scienza applicata ricalca pressoché la stessa struttura, in cui le discipline teoriche basilari confluiscono nella pratica. Permane una sorta di collegamento deduttivo implicito in questo modello, che si definisce come un passaggio naturale dalla scienza alla tecnologia, ovvero dalla teoria alla pratica. A Ulm, dove il design tende ad essere considerato una scienza – umana e sociale – applicata, tale passaggio si rende più esplicito. Solo recentemente l’idea che la tecnologia sia solo scienza applicata è stata messa in discussione da storici e filosofi. Alcuni modelli contemporanei infatti sostengono che la storia della tecnologia abbia seguito un’epistemologia autonoma, relativamente indipendente dallo sviluppo scientifico. Invece di parlare di scienza applicata, Findeli suggerisce i termini di scienza coinvolta o incorporata. Un modello così definito permetterebbe di immettere dall’interno la ricerca e l’attitudine scientifiche nel campo progettuale e pratico, e non semplicemente di “applicare” questi aspetti o quelli artistici alla progettazione. In questo modo la scienza viene modificata dalla pratica e viceversa. Nella metodologia tradizionale, il designer individua un problema per cui immagina e descrive una soluzione: il design, in questo senso, si caratterizza semplicemente come ciò che connette questi due momenti. Una nuova struttura logica del processo di progettazione dovrebbe considerare, invece dei tradizionali poli di problema e soluzione, due diversi stati del sistema, del


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quale il designer e l’utente diventano parte integrante. «Il compito del designer è comprendere la morfologia dinamica del sistema, la sua “intelligenza”. Non è possibile agire su un sistema, ma soltanto all’interno di un sistema, […] incoraggiandolo o scoraggiandolo a proseguire nella sua direzione»93. Infine, la produzione di oggetti materiali non è il solo modo per passare da uno stato all’altro del sistema, ma soprattutto, l’assetto conseguente all’azione progettuale non è da considerare come la soluzione finale, quanto piuttosto una fase soltanto transitoria in un processo dinamico.

4 · Rapporto con l’esterno, didattica per progetti L’apprendimento per progetti è il modello pedagogico nell’area del design che più o meno apertamente si contrappone all’idea di insegnamenti propedeutici – le “fondamenta” di cui parla Anceschi. Lucius Burckhardt, sociologo ed economista svizzero, già docente ospite presso la HfG di Ulm nel 1959, dopo varie esperienze didattiche in Svizzera e Germania, fonda nel 1992-93 a Weimar la Facoltà di design (Fakultät Gestaltung) della Hochschule für Architektur und Bauwesen – oggi BauhausUniversität Weimar – impostandola secondo il modello della didattica per progetti. L’idea era già stata elaborata intorno agli anni sessanta in aperto contrasto con le contemporanee scuole di design e rispetto all’eredità bauhausiana del corso fondamentale e dell’insegnamento propedeutico, riproposto e trasformato, come abbiamo visto, nella scuola di Ulm. Nel discorso di congedo (1994) dalla direzione della facoltà da lui fondata sintetizza così94: Non dimentichiamo l’insegnamento: gli studenti devono poter commettere degli errori. Sbagliando si impara. Per questo nelle scuole si devono assegnare compiti che prevedono anche la possibilità dell’errore. Non compiti tratti dai manuali che tutti sanno risolvere, oppure progetti che l’assistente del professore ha esaminato in precedenza per essere sicuro che funzionino. Non servono progetti senza contenuto che ambiscono ad antiquate idee di perfezione. È questo il motivo per cui, nella nostra nuova facoltà di design e arte, non abbiamo ripreso il corso propedeutico del Bauhaus. Non

93.  Ibidem. 94.  L. Burckhardt, Predica, discorso di chiusura dell’attività,Weimar, 1994; in H. Höger (a cura di), Design education, Editrice Abitare Segesta, Milano 2006.


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ci interessa un insegnamento di carattere gerarchico […]. Nella nostra scuola si può anche non sapere ma nonostante ciò fare.

Si nota nelle parole di Burckhardt una critica diretta alle conseguenze di una formalismo e di una purezza logica portate all’estremo, un’atteggiamento diffuso negli anni sessanta su cui si concentra tutta la sua riflessione. Tale mentalità sollevava i tecnici-ingegneri ma anche i designer che abbracciavano questa pratica da qualsiasi responsabilità sull’esito in nome della perfezione ineccepibile della metodologia seguita. Il pensiero sottinteso a questa provocatoria affermazione è l’impossibilità di ricomporre i cocci rotti della conoscenza, l’inesistenza, cioè, di una conoscenza generale, piena e assoluta, che ci faccia sopportare l’idea dei nostri limiti conoscitivi. La conoscenza è fatta di frammenti che non combaciano, che non sono riconducibili ad una unità. Ma le nostre menti, aggrappate all’idea di un ordine, di un percorso sistematico di tutte le cose, si sono illuse di vedere sicurezze laddove non ce ne sono. Posizione, questa, fortemente debitrice della nozione di pensiero debole elaborata da Gianni Vattimo. Le parole di Annemarie Burckhardt – moglie di Lucius – mettono in luce distintamente le conseguenze pedagogiche e didattiche di questo pensiero95: Alcune delle idee fondamentali di Lucius Burckhardt sull’insegnamento erano: l’insegnamento moderno non mira più alla conoscenza in senso generico, ma alla trattazione e alla risoluzione di problemi concreti. Studenti e insegnanti affrontano insieme le questioni irrisolte. L’obiettivo dell’insegnamento non è quindi il mero incremento del sapere, ma la capacità di agire. Gli studenti devono imparare a prendere delle decisioni, nonostante abbiano a disposizione informazioni imperfette e incerte.

4.1 · L’esperienza di Bolzano Quello dell’università di Weimar non è un esperimento isolato e la sua eredità è stata attualmente accolta in alcune scuole tedesche e direttamente confluita in Italia – a Bolzano – tramite Kuno Prey che, allora insegnante di product design a Weimar presso la facoltà fondata da Burckhardt, viene chiamato nel 2002 dalla Libera Università di Bolzano per fondare e dare avvio alla nuova Facoltà di Design e Arti. Il modello importato e riadattato al contesto italiano è dunque quello della didattica del design basata sullo studio per progetti: si tratta di dare 95.  A. Burckhardt, L’insegnamento per progetti come parte del pensiero pedagogico di Lucius Burckhardt, in Höger, Design education, cit.


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agli studenti la possibilità di lavorare attivamente su progetti più e meno complessi, compresi rapporti con committenze esterne, in team che prevedono anche l’apporto di altre discipline e di studenti di altre facoltà96. Kuno Prey – preside della facoltà di Bolzano – in una intervista a cura di Hans Höger racconta così questo passaggio97: Per nove anni a Weimar, ho potuto sperimentare e ottimizzare insieme ai miei colleghi una didattica interdisciplinare basata sullo studio per progetti integrato da un’ampia parte teorica. Questa interessantissima esperienza è stata il punto di partenza per impostare anche il modello di studio a Bolzano. Chiaramente ho cercato di perfezionarlo tenendo conto delle peculiarità locali e ho dovuto inserirlo – non senza una sorta di shock culturale – nel complesso di regole e vincoli del sistema universitario italiano. […] Non è stata affatto un’impresa facile inserire all’interno di questa realtà la quasi assenza di gerarchie e l’apertura, definite a Weimar dall’allora presidente del comitato ordinatore Lucius Burckhardt.

L’insegnamento-studio per progetti richiede infatti un alto grado di interdisciplinarietà: molte materie sono coinvolte in ogni singolo progetto e il sistema italiano organizzato per cattedre di insegnamento tende ad ostacolare questo scambio. Questo modello, peraltro, non pone limiti burocratici al lavoro di gruppo dei vari docenti: dovrebbero poter collaborare insieme ordinari, a contratto, associati, ricercatori. Alcuni aspetti sono particolarmente interessanti nel modello di Bolzano. I temi progettuali proposti agli studenti non si articolano per oggetti98 ma per temi aperti , per i quali non esistono soluzioni aspettate o preconcette: a una ricerca che rischierebbe di essere puramente formale si sostituisce una riflessione più ampia sul tema proposto. In tal modo ci si aspetta di stimolare la ricerca e la sperimentazione, allenare il pensiero trasversale e mettere in discussione le conoscenze date per certe. Prey riconosce, del resto, che il designer deve essere in grado di affrontare temi complessi e questioni di carattere socio-politico, ben più importanti dell’aspetto strettamente formale con cui spesso si identifica l’attività di progettazione:

96.  Come descrive Höger: « Invece di percorrere la tortuosa strada delle fondamenta più o meno enciclopediche prima di giungere finalmente all’elaborazione di un progetto vero e proprio, gli studenti affrontano fin dal principio dei loro studi concrete tematiche progettuali »; H. Höger (a cura di), Design research, Abitare Segesta, 2008. 97.  K. Prey, Struttura e obiettivi della Facoltà di Design e Arti di Bolzano, in Höger, Design education, cit. 98.  Nell’esempio che fa Prey, si propone come tema progettuale “il bere” e non “il bicchiere”.


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Dal mio punto di vista la ricerca nel campo del design deve muoversi in due direzioni: se da una parte deve mantenere stretti contatti con la realtà, dall’altra ha anche il compito di metterla in discussione e immaginarsi nuove basi su cui formulare scenari futuri.

In questa struttura didattica non sono previste specializzazioni, campi di applicazione particolari, o ramificazioni disciplinari; viene piuttosto esaltata una generica cultura del progetto, e non esistono neppure le tradizionali classi: nei gruppi di lavoro, costituiti di venti persone circa, collaborano studenti iscritti ai vari anni di corso, in una struttura paritetica non-gerarchica. L’attenzione generale della scuola resta comunque rivolta all’acquisizione di competenze professionali, prevedendo anche punti di contatto con il mondo della produzione. È chiaro, dunque, sia nella didattica per progetti che nell’abolizione delle classi divise per anno, il ribaltamento della nozione di propedeuticità. Tuttavia, nell’organizzazione del piano di studi è previsto il cosiddetto Warm-up, un periodo di formazione per progetti brevi introduttivi ai problemi di design, da seguire obbligatoriamente nel primo semestre, che somiglia molto, almeno concettualmente e nella sua funzione, agli storici corsi di base. Anche il fatto che ai progetti da svolgere durante i semestri siano affiancati corsi teorici, i cui contenuti sono connessi ai temi progettuali, e officine, laboratori tradizionali di supporto alle sperimentazioni degli studenti, sembra ricalcare per molti versi il modello pedagogico del Bauhaus, nonostante le dichiarate premesse di estraneità rispetto a quell’esperienza. Infine, a proposito del rapporto tra ricerca e applicazione nella didattica per progetti, è interessante il punto di vista espresso da Axel Kufus99: Applicazione e ricerca, a mio avviso, non sono in contrasto tra loro, anzi. Li vedo in stretta relazione e sinergia – nel senso, ad esempio, di ricerca applicata su nuove tecniche di produzione, nuovi materiali, nuovi metodi di indagine progettuale o anche nuovi comportamenti umani. Sono tutti settori estremamente importanti per lo sviluppo della cultura del progetto. La rilevanza, poi, nasce solo dalla verifica dell’esperimento nella prassi.

4.2 · Rapporto scuola-produzione La conseguenza degli approcci basti sulla didattica per progetti sembra indurre a un rapporto troppo stretto con le aziende, con il mondo del lavoro, 99.  Axel Kufus, Sviluppare partiture per progetti collettivi, in Höger, Design Education, cit.


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in un’ottica fortemente professionalizzante che pare quasi dettata da una interpretazione esasperata dell’idea di competenza. L’insegnamento strutturato sulla attività pratica, progettuale e operativa, non è un fatto completamente nuovo: come già descritto con Anceschi si tratta del modello della bottega, chiaramente rivisto e corretto, sul quale si basavano le Kunstgewerbeschule (scuole di arti e mestieri) della metà del XIX secolo e le nostre Scuole superiori di arte applicata all’industria di fine-inizio secolo. Modello di formazione tecnica e professionale che, praticato negli istituti d’arte e negli istituti professionali per l’industria e l’artigianato, ha in qualche modo influenzato il panorama della formazione al design in italia, in particolare la strutturazione dei Corsi superiori di disegno industriale, poi trasformati in Isia dal 1974. Risulta opportuno, a questo punto, dedicare uno sguardo a come si collocano in tale contesto le esperienza italiane. Nella presentazione degli Isia di Roma e Firenze, nel 1990, Nicola Sinopoli100 dichiara tali scuole come autosufficienti per la formazione di progettisti di oggetti per la produzione industriale e artistica. Come tali esse postulano una concezione della didattica e della progettazione diversa sia dalle facoltà di architettura sia dalle accademie di belle arti. La partecipazione alle mostre, concorsi, riviste, il misurarsi, insomma, con la realtà esterna viene incoraggiato perché stimola gli studenti, superando la progettazione fine a se stessa rinchiusa nel rapporto docente-studente. Dunque, il legame scuola-industria risulta essere tenuto in particolare considerazione, in un rapporto che non è di subordinazione, ma piuttosto una possibilità di verifica dei propri progetti per gli studenti avvicinandosi alle « ai problemi del fruitore e alle logiche dell’industria e del mercato »101, onde evitare di rinchiudersi in modelli o istanze autorappresentative. Questa dichiarazione ritrae l’Isia come un tipo di istituzione professionale. È interessante come venga avvertita l’esigenza di una nuova didattica, diversa sia da quella delle accademie che da quella architettonica. Ma restano alcune perplessità su un così desiderato legame con l’industria. Come emerge infatti dal bilancio102 fatto dal responsabile formazione dell’ICSID, il rapporto con le aziende, in base alle collaborazione attivate tra 100. Sinopoli, op. cit. 101.  Ibidem. 102.  D. Gallico (a cura di), Design in-formazione. Rapporto sulla formazione al design in Italia, Franco Angeli, Milano 2007.


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ICSID e università, porta più vantaggi al mondo della produzione che agli studenti. Tutti i punti elencati sembrano favorire l’azienda, la produzione e l’inquadramento professionale e molto meno l’aspetto di ricerca e approfondimento autonomo dello studente. Gian Franco Gasparini, docente dell’Isia di Firenze, sostiene che nelle scuole di design si crede che si insegni a progettare oggetti ma in realtà il processo della progettazione viene simulato. Tale processo risulta in realtà piuttosto faticoso, e perciò indica come miglior oggetto della progettazione altre cose come, ad esempio, la divulgazione di ricerche. Egli sostiene che le scuole di design abbiano da sempre rifiutato i rapporto con le industrie, dotandosi perciò di laboratori interni per fare al massimo modelli, « che sono addirittura ridicoli se confrontati alla normale attrezzatura industriale »103. Queste considerazioni spingono a preferire collaborazioni e convenzioni con imprese e industrie per sostenere ricerche dichiaratamente non finalizzate alla produzione. La direzione era però sensibilmente diversa se solo si guarda a qualche decennio prima: nel 1968, in pieno clima di contestazione studentesca, anche nei confronti del sistema industriale, Spadolini – professore del CSDI che darà vita all’Isia – sostiene che « il design di fronte alle richieste dell’industria, nell’ambito dei bisogni “indotti”, deve contrapporre una sua presa di coscienza delle vere possibilità della produzione diretta a quella serie di bisogni reali dell’uomo »104. Calò, apprezzando i vantaggi dell’ubicazione eccentrica del CSDICV di Roma rispetto alle zone di grande sviluppo industriale105, mette in guardia dal rischio di una interpretazione distorta della problematica industriale. Per evitare qualsiasi condizionamento dell’orientamento didattico106: […] l’industria va vista soltanto come punto di riferimento e i contatti che di volta in volta si prenderanno con essa dovranno essere ricercati in condizioni di reciproca autonomia a meno che non si voglia avvilire la natura della scuola di design abbassandola al rango di istituto professionale.

103.  G.F. Gasparini, Big design, in Sinopoli, op. cit. 104.  F. Menna (a cura di), Problemi delle scuole di disegno industriale, conversazione con Spadolini, Dorfles, Maldonado, Zanuso, Calò, Franchetti, in “Marcatrè”, n. 41-42, maggio-giugno 1968. 105.  Si veda anche il paragrafo 3.4 del capitolo primo. 106. Menna, art. cit.


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5. Dimensione culturale, profilo intellettuale Già verso la fine degli anni sessanta, si sviluppano tendenze, atteggiamenti di critica e opposizione – che si acutizzeranno nel corso dei decenni successivi – al funzionalismo implicito nel design degli anni cinquanta e sessanta, ma soprattutto al formalismo del movimento moderno, in particolare al minimalismo. Il radical design italiano e le tendenze post-modern criticano alcuni presupposti e miti del Modernismo – uno fra tutti, la fiducia nella tecnologia e innovazione – e la replica diffusa degli stilemi formali – geometrizzazione e forme pure. Proprio in rapporto a tale critica vengono riscoperti e rilanciati modelli basati su valori di unicità e singolarità quali l’artigianato come pratica di design, il progettista come figura autoriale ed eccentrica. 5.1 · Anticipazioni in Italia In una inchiesta-questionario107 del 1987 ad alcuni docenti dell’Isia di Urbino, tra cui anche noti grafici e designer, vengono poste due domande con lo scopo di avviare un dibattito costruttivo sulla professione del grafico e possibili percorsi didattici. In particolare si chiede: –– quali sono i problemi che un grafico si trova ad affrontare negli anni ottanta, sia nello specifico del suo lavoro che nel rapporto con la committenza; quali mutamenti hanno portato nella professione i nuovi strumenti della comunicazione, la messa in discussione di sistemi collaudati, la diffusione della “grafica in movimento” e della “supergrafica” (archigrafie), e una maggiore consapevolezza dell’utente; –– quali cambiamenti sarebbero auspicabili nella strutturazione di un corso superiore (da notare la fatica con cui ancora si parla di facoltà e corsi universitari di design) di progettazione grafica; quali materie andrebbero cancellate, modificate o sostituite e quali sarebbero le metodologie di approccio ai nuovi temi di analisi e studio. È ancora un po’ presto per centrare il dibattito su personal computer e desktop publishing, soprattutto in Italia, ma è chiaro che questa inchiesta fiuti 107.  Anty Pansera (a cura di), Due domande e alcune risposte, “Quadernisia”, n. 1, anno accademico 1988-89.


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già le dinamiche di mutamento in atto. Le risposte dei docenti intervistati, peraltro, sono oltre che ricche di spunti, già consapevoli degli scenari che si prospettano. Soprattutto si nota una certa affinità con alcune posizioni del dibattito maturato successivamente negli Stati Uniti, tra gli anni novanta e i duemila, e che tuttora conserva la sua forte eco. È interessante guardare da vicino alcuni dei contributi, a cui, tuttavia, è il caso di anteporre l’ammonimento di Michele Provinciali sulla validità dei pareri raccolti. Se infatti si vuole intraprendere un processo di ristrutturazione della scuola, di qualsiasi scuola, è sicuramente opportuno raccogliere una pluralità di giudizi; ma a chi bisogna chiedere tali giudizi? come ottenere questa pluralità? Se si chiede il parere solo a grafici o critici specialisti si ottiene una visione ancora parziale, un quadro incompleto e probabilmente distorto. Per capire e risolvere i problemi di un qualsiasi sistema e nel contempo prevenirne lo sviluppo occorre “uscire” da esso. Pertanto Provinciali propone di aprire la riflessione al contributo di uomini e professionisti che sappiano cogliere il divenire della nostra civiltà – storici, sociologi, antropologi, studiosi di geografia, economia, demografia, linguistica – affiancando, nella scuola (Isia nel caso specifico), ai docenti gruppi di specialisti di scienze umane. In questo modo si attiverebbe un dibatto veramente plurale, e sarebbe offerta una visione delle società a venire. Massimo Dolcini sottolinea anzitutto la necessità – già incontrata in sede di definizione del campo e nel pensiero di Anceschi in particolare – di non considerare più soltanto la grafica, settore ristretto e particolare, escludendo il più ampio e inclusivo terreno della comunicazione (dimensione dialogica). Il progettista viene chiamato a risolvere problemi di comunicazione e non più a produrre artefatti comunicativi. Allora si pone al grafico una doppia scelta: specializzarsi in un ambito molto ristretto oppure appropriarsi delle tecniche comunicative finora a lui (e al mondo professionale) estranee. La scuola deve allora evolversi fornendo allo studente esperienze che gli insegnino a gestire anche gli altri “mestieri della comunicazione”. È necessario dunque introdurre nuovi elementi di conoscenza – nel senso della comunicazione – poiché « non è possibile formare un grafico parlando solo di grafica »108. Il dubbio che permane riguarda le tecniche comunicative, le conoscenze particolari cui fa riferimento Dolcini, che sembra estendano il dominio della grafica su un terreno piuttosto spinoso e controverso: egli parla infatti 108.  Risposta di M. Dolcini, in Pansera, art. cit.


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di marketing operativo, copywriting, pubbliche relazioni, analisi e pianificazione mezzi di comunicazione, che suonano un po’ troppo vicine ad un tipo di comunicazione pubblicitaria e commerciale. Peraltro una simile appropriazione disciplinare, a distanza di tempo, sembra limitata: si considera pur sempre una porzione che, per quanto larga, resta piuttosto chiusa su se stessa. Tale prospettiva non tiene conto degli apporti strutturali, metodologici delle altre discipline, ma è tesa principalmente a formare un professionista più completo e competitivo. Corrado Gavinelli definisce una sorta di paradigma della progettazione e formazione alla progettazione, frutto di alcune costanti della realtà e dell’agire umano: il mutamento, l’espansione e l’adeguamento. Effettivamente valido in moltissimi ambiti, questo paradigma distingue la preparazione e l’approccio (attitudine) del designer su tre livelli di pari importanza: « guardare al passato, ma giudicare (ciò che è stato e quanto avviene) e prendere provvedimenti di conseguenza (guardare al futuro); in tre parole: storia, critica, trasformazione (conoscenza, riflessione, progetto) »109. L’accento è sull’equilibrio delle componenti (egli non indica una gerarchia), sulla ricerca storica e sulla riflessione critica. Questo non esaurisce, chiaramente, l’attività del designer – chiamato pur sempre a progettare – ma la sostanzia con una sostanziale base culturale e intellettuale: in questo senso « l’inizio dell’agire si trova nel comprendere la realtà e il suo divenire »110. Giancarlo Illiprandi è quello che, più degli altri, guarda oltre il futuro prossimo prospettato nei quesiti. Egli sostiene che la scuola (riferendosi in particolare all’Isia di Urbino, costretta in una condizione di isolamento anche geografico, e alle scuole in generale) debba riuscire a proiettarsi verso l’esterno, elaborando al suo interno tematiche fondamentali che vadano oltre le questioni individuate. « La scuola del futuro dovrà cessare di produrre designer, richiesti dalla committenza, sotto forma di robot o di braccio estetico dell’industria »111 e per fare questo deve sapersi qualificare sul piano culturale. Un modello che tende alla formazione di intellettuali prima che di esecutori. Avanza addirittura proposte concrete: la scuola dovrà « tradurre la propria qualificazione in prodotti tangibili (siano questi pubblicazioni, manuali didattici, dispense, audiovisivi) disponibili ad altri Istituti di inse-

109.  Risposta di C. Gavinelli, in Pansera, art. cit. 110.  Ibidem. 111.  Risposta di G. Illiprandi, in Pansera, art. cit.


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gnamento, all’industria, alle associazioni di categoria, alla amministrazione statale, alla stampa specializzata »112. Pertanto un dialogo con l’esterno per nulla concepito come rapporto con le imprese e la formazione professionale (rapporto peraltro ben accolto e auspicato soprattuto all’interno degli Isia); ma come apertura verso il panorama internazionale, verso temi di interesse globale, e verso il dialogo con altri poli culturali di ricerca e attività intellettuale. La scuola collabora, allora, alla produzione non di artefatti ma di ricerca, di sapere, di conoscenza: « solo così di potrà parlare di una strutturazione capace di sopportare l’impatto di un futuro che è già in corsa »113. Infine Gelsomino D’Ambrosio e Pino Grimaldi, constatando il crescente interesse, negli anni ottanta in Italia, attorno al tema della comunicazione visiva con la promozione di mostre, convegni e cataloghi denunciano, pressoché in linea con gli altri pareri, una quasi assenza di approfondimento teorico, storico e metodologico, e una certa resistenza dei professionisti riguardo la “formalizzazione concettuale” sul proprio lavoro114: Ma, è questo il punto, fino a quando i grafici non vorranno affrontare la fatica di una pausa di riflessione sul proprio lavoro e fino a quando non saremo in tanti a farlo, la grafica come disciplina progettuale sarà sempre un’esperienza marginale nell’universo della comunicazione. Fino a quando i grafici preferiranno solo mostrare il prodotto finito piuttosto che il processo e la “scrittura”, la crescita culturale complessiva sarà lenta e difficile.

La scuola si deve pertanto impegnare in un « rafforzamento della dimensione culturale, nel senso più ampio del termine, una sorta di integrazione delle separatezze oggi esistenti tra la tecnica e la teoria; nello sviluppare una capacità di ricerca, oggi troppo spesso affidata alla simulazione ». La strategia proposta prevede un più stretto e intenso rapporto col libro – oggetto da conoscere, possedere, usare – e il recupero della cultura storica e teorica del type design, oltre che indagare spazi più distanti dell’universo comunicativo. Riassumendo gli argomenti affini e ricorrenti affiorati nei vari contributi, il futuro di scuole e corsi di grafica è indicato nell’attenzione al metodo, alla scrittura, alla riflessione critica, all’approfondimento teorico, alla conoscenza della storia (le parole e temi ricorrenti nelle risposte). 112.  Ibidem. 113.  Ibidem. 114.  Risposta di G. D’Ambrosio, P. Grimaldi, in Pansera, art. cit.


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Nella relazione conclusiva, Anty Pansera non nasconde un certo timore nei confronti dei mezzi tecnologici, del loro facile utilizzo e della “successione infinita di un universo visivo insignificante e meramente invasivo” che producono, il cui uso non responsabile condurrebbe alla perdita del patrimonio di riflessioni, di manualità coltivate a fini espressivi, di conoscenze tecniche professionali tradizionali. Atteggiamento, questo, vagamente nostalgico e corporativista, che delle tecnologie non considera allo stesso tempo le potenzialità e i vantaggi oltre le criticità. Ad ogni modo, ella ribadisce la necessità di costruire un metodo solido e una base culturale che permangano e vadano oltre l’uso dei mezzi, delle tecniche aggiornate rapidamente. Un punto di vista complessivo che si pone in stretta vicinanza alle posizioni del dibattito sviluppato a partire dagli inizi degli anni novanta soprattutto negli Stati Uniti. 5.2 · Dibattito americano: forza politica e sociale, autorialità L’avvento delle nuove tecnologie e del desktop publishing negli anni novanta, assieme alle altre dinamiche messe prima in luce, getta un’ombra sulla figura del designer che vive un momento di crisi e disorientamento. Da questo insorge l’esigenza di legittimare la propria esistenza rispetto all’accesso diffuso – facilitato dal computer e dal software – agli strumenti che erano propri della pratica professionale. Lorraine Wild, nel 1998, indica la tecnologia quale fonte della crisi d’identità del designer. Erano anche gli anni in cui i nuovi media esplosero, portando con sé la minaccia dell’estinzione del designer, o la sua irrilevanza115: I designer coinvolti in progetti sui nuovi media spesso si ritrovavano in produzioni di squadra basate sul paradigma dell’industria dell’intrattenimento, dove il ruolo autoriale era affidato al direttore creativo, ai produttori, forse agli sceneggiatori ma di solito non alle persone che creano la parte visiva del prodotto.

Wild suggerisce il modo di « salvare la progettazione grafica di fronte il colosso della tecnologia e le esigenze del mercato »116. Visione individuale e l’invenzione sono in cima alla sua lista come modi per porre rimedio ai mali della professione.

115.  L. Wild, The Macrame of Resistance, in “Emigre”, n. 47, 1998. 116.  Ibidem.


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Un tempo i designer possedevano le chiavi del regno della creatività, si erudivano nei loro linguaggi e codici privati e parlavano un linguaggio esoterico, conosciuto solo dai tipografi e dagli stampatori; adesso hanno l’inglorioso onore di vedere le loro abilità tecniche automatizzate e vendute come software nei negozi di tecnologia. L’era del desktop publishing spinge la pratica del design a ripensare se stessa. Nel suo saggio, Wild mise in discussione due possibili direzione nella didattica del progetto. La prima è quella più brutalmente realistica, in cui il design viene considerato come il braccio visivo del marketing e perciò gli studenti devono essere istruiti ad asservire le logiche capitalistiche del consumo. In quest’ottica contano di più conoscenze di marketing e business più che raffinatezze arcane quali l’uso della tipografia e dello spazio bianco. L’altra più intraprendente direzione deriva da una concezione di “grafica-come-antropologia” sviluppata da Michael and Katherine McCoy che promuove il designer come interprete di contesti, seppur in un’accezione più politica e sociale. Pensare al design in termini di esperienza del pubblico lo avvicina alle modalità d’indagine dell’antropologia. Dunque, per Wild marketing ed etnologia potrebbero essere le possibili prospettive di una didattica e pratica del design future. Resta comunque il rischio che nella foga di diventare qualcos’altro ed ampliare il proprio approccio ad altre discipline, il proprio ruolo venga tralasciato o considerato marginale e tutto questo materiale non venga poi ben comunicato agli utenti. Un altro caposaldo sul tema è il saggio Designer as author117 di Michael Rock in cui si analizza la tendenza del designer a focalizzarsi sulla propria autorialità di progettista. Il designer nel ruolo di autore, dunque, si libera dal vincolo della committenza, per produrre artefatti che esprimano la sua personale visione. Oppure crea un proprio “stile” , unico ed inimitabile. Questa spinta verso direzioni più liberamente espressive e personali però presente anche delle contraddizioni: apparentemente, infatti, un tale approccio manifesta una apertura a più possibilità interpretative, coinvolgendo gli utenti nella creazione di senso. Questo però non accade realmente: ponendosi l’autore al centro, egli di fatto restringe l’interpretazione alla sua sola personale.

117.  M. Rock, The Designer as Author, in “Eye”, n. 20, primavera 1996.


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L’autore (designer autore), come origine, autorità e definitivo possessore del lavoro si protegge dal libero volere del lettore. La figura dell’autore riconferma la tradizionale idea del genio creatore.118

5.3 · Desktop publishing, designer come produttore A cinque anni di distanza dal saggio di Wild, Ellen Lupton119 rilegge la rivoluzione sociale del desktop publishing in chiave positiva. Gli stessi strumenti digitali che hanno scacciato il designer dal suo piedistallo, ora lo rendono un produttore, in quanto egli possiede nelle sue mani i mezzi di produzione. Già Benjamin previde il passaggio dell’autore letterario al ruolo di produttore, una volta che il possesso della macchina da scrivere gli avrebbe consentito di gestire tutti gli aspetti della sua produzione intellettuale; così Lupton parla di appropriazione dei mezzi di produzione come strumento per diventare produttore ma anche autore, grazie al rapporto diretto coi mezzi, e in virtù della sua formazione culturale. Anche Lussu, a tal proposito, scrive120: Il computer non fa che moltiplicare questa tendenza, non solo del tutto legittima ma senz’altro auspicabile: è evidente che, nel caso ne abbia la possibilità e gli strumenti, chi ha un’esigenza di comunicazione può ormai risolverla in modo appropriato ed economico. In definitiva è questa la ragion d’essere del computer da tavolo e il motivo della sua diffusione: il fatto di fornire a qualunque generico operatore un’estensione delle proprie potenzialità. Per quel che riguarda la realizzazione di artefatti comunicativi, il computer consente di gestire in proprio, fino all’utilizzazione di una stampante da ufficio, processi che in precedenza erano delegati, a pagamento, alla competenza di personale tecnico specializzato che ora rischia di apparire parassitario. I professionisti del design, come qualunque altra categoria professionale, esprimono spinte corporative di autoperpetuazione: hanno di fronte a sé la sfida di riuscire a superarle. Il ruolo richiesto è quello di intellettuali tecnici, provvisti di solide basi che li mettano in grado di interagire efficacemente all’interno di gruppi di lavoro interdisciplinari.

Tutte queste riflessioni conducono a mettere in profonda discussione il ruolo dei designer oggi e portano ad interrogarsi se tale professione abbia ancora

118.  Ibidem. 119.  E. Lupton, The Designer as a Producer, in Heller, op. cit. 120. Lussu, Design della comunicazione, cit.


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importanza. Interessante è il punto di vista di Gunnar Swanson121 che s’interroga su quale sia il futuro della grafica in questo scenario. Innanzitutto egli constata che il design sembra strettamente vincolato a finalità professionali: senza l’aspettativa del lavoro, infatti, esso non sembra avere senso. La formazione professionale è ormai soggetta a rapidissima obsolescenza, diventa datata già mentre si sta completando il percorso. Visti i ritmi frenetici del mondo contemporaneo, è un dato di fatto che in quindici anni le professioni attuali tenderanno a estinguersi ed è imprevedibile quali saranno le prossime: se pure esisteranno i grafici fra 15 anni sicuramente non saranno quello che sono ora. Egli s’interroga dunque sulle possibilità che lo studio del design possa diventare d’interesse generale e andare oltre lo sbocco lavorativo. Il design è al crocevia intellettuale tra antropologia e comunicazione, arte e marketing, psicologia cognitiva e affari: una tale posizione lo renderebbe papabile perché diventi una scienza umanistica nel prossimo futuro. Ma resta cruciale la questione della reciprocità: probabilmente uno studente di design trarrebbe beneficio dallo studio dell’antropologia, ma lo stesso Swanson si chiede se uno studente di antropologia possa trarre beneficio dallo studio della grafica. I designer sono quindi più spesso accostati alla formazione artistica, anche se il misto di studio e pratica di molti designer non può rientrare in questo campo così ristretto. La soluzione per la legittimazione accademica potrebbe essere l’istituzione di nuovi dottorati di ricerca: ma cosa accadrebbe allora al misto di studio e pratica con cui si sono formati molti dei designer attuali? Gli studenti verrebbero formati come ricercatori piuttosto che come professionisti. La scolarizzazione nel design sembra una cosa sana, ma bisogna comunque verificarne l’effetto a lungo termine. Persiste ancora, poi, all’interno del professorato di design anche una tendenza anti-intellettuale: è lo zoccolo duro di chi è convinto che il grafico produca cose, non teoria e che pochi studi accademici abbiano effettivamente un’utilità diretta per il design. Il design ha difficoltà a inserirsi nell’istruzione accademica, i designer e gli studenti non si sentono integrati nel panorama delle università: ancora si dibatte sul considerare il design una vera e propria disciplina; di conseguenza i designer stessi non sono in grado di trattarla come tale. 121.  G. Swanson, Is design important?, in “AIGA Journal of Graphic Design”, vol. 13, n. 1, 1995.


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Come sottolinea William Drentell, i designer parlano di creare un corpo di lavori, raramente di acquisire un corpo di conoscenze; orgogliosi di essere dei creativi, raramente si identificano come pensatori; troppo spesso i designer sono chiamati solamente a curare l’aspetto esteriore, la componente estetica degli oggetti anziché contribuire all’evoluzione e articolazione delle idee. Jessica Helfand denuncia che dagli studenti americani di design non ci si aspetta che studino realmente scienza o matematica, storia o antropologia, economia, teoria musicale o letteratura o addirittura che sappiano scrivere. La grafica ha riguardato a lungo, in larga parte, l’elaborazione di forme: certo resta un fattore importante e che va insegnato. Ma il design deve essere considerato anche in base ad altri parametri, quali contenuto, usabilità, funzionalità, utenza e ricerca ben individuati, ed arricchito dal confronto con altre discipline. Sicuramente gli studenti di design trarrebbere beneficio da conoscenze generali (antropologia, economia, storia, letteratura, matematica, sociologia). La scrittura deve essere parte integrante del curriculum e non un supplemento: gli studenti devono scrivere di più, siano brief, proposte di tesi per libri, titoli, slogan, battute. Bisogna insegnare, secondo Helfand, a raccogliere informazioni e fare ricerca: i designer non devono necessariamente diventare esperti su tutti gli argomenti rilevanti ma essere capaci di cercare e raccogliere la conoscenza necessaria per il lavoro. Questo punto di vista, tuttavia, pone l'accento su un rapporto utilitaristico con la scrittura, funzionale al linguaggio della professione, alla presentazione e all’efficienza lessicale, e trascura le potenzialità di maturazione in un rapporto più maturo e consapevole con la scrittura e la produzione intellettuale.



Capitolo quarto Sulla formazione degli insegnanti



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1 · Introduzione al capitolo Le argomentazioni sviluppate finora, nei capitoli precedenti, portano a riflettere sull’opportunità di un’approfondita revisione del sistema universitario di formazione al design. Per avviare un tale processo è necessario individuare una zona d’intervento circoscritta da cui partire. L’obiettivo di questo capitolo conclusivo è appunto quello di segnalare un ambito progettuale prioritario e preminente e fornire i materiali di partenza per lo sviluppo di un progetto organico e operativo. Attualmente, la formazione dei docenti universitari non prevede un vero e proprio percorso formativo dedicato e specifico. È proprio sulla preparazione degli insegnanti, invece, che si fonda la qualità di un corso di studi, e in generale del sistema d’istruzione. Per queste ragioni si suggerisce la formazione dei docenti universitari come campo d’azione per lo sviluppo di futuri progetti. Una possibilità di miglioramento risiede nel dotare i docenti universitari di una buona preparazione pedagogica e didattica, portandoli a sviluppare metodi e strumenti innovativi di insegnamento, che rispondano alle attuali esigenze e stimolino la partecipazione e il coinvolgimento degli studenti. Nell’ambito del design tale esigenza è tanto più forte se si considera che molti dei componenti del corpo docente sono professionisti “prestati” alla didattica, costretti ad improvvisare i propri metodi d’insegnamento. Tuttavia, poiché la formazione dei docenti universitari è tuttora largamente affidata all’auto-formazione, è sicuramente interessante e utile guardare ad alcuni modelli elaborati per la formazione degli insegnanti in ambito scolastico per sviluppare progetti simili in ambito accademico declinati in base alle specificità dell’istruzione superiore. In questo capitolo, dunque, nella prima parte si analizza la situazione attuale della formazione dei docenti, dando uno sguardo alla normativa vigente riguardante il loro reclutamento1; nella seconda parte, vengono presentati un paio di progetti innovativi di formazione continua rivolti agli insegnanti 1.  Nel caso del comparto AFAM, non è stata ancora approvata la proposta per il regolamento attuativo in materia di reclutamento dei docenti, previsto dalla legge n. 508 del 1999.


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di scuola secondaria, da osservare quali modelli declinabili anche ad altri livelli d’istruzione, in particolare nel campo della formazione al design.

2 · Docenza in ambito universitario Per riuscire a comprendere in che direzione sia impostato il percorso che porta alla docenza universitaria è fondamentale fare riferimento alle normative ministeriali che attualmente regolamentano il reclutamento dei professori e dei ricercatori universitari. La legislazione in materia prevede una serie di valutazioni preliminari e in itinere su cui si fonda la selezione dei docenti universitari, con lo scopo di garantire una loro adeguata preparazione. Tuttavia tale sistema di reclutamento impone che la formazione degli aspiranti docenti si svolga principalmente – e quasi esclusivamente – all’interno dell’università, seguendo un preciso cursus honorum che non tiene conto dell’apporto di esperienze esterne né della necessità di una preparazione pedagogico-didattica degli insegnanti. 2.1 · Riforma Gelmini, organizzazione delle università Come accennato nel capitolo primo2, la legge n. 382 del 1980 definiva i ruoli accademici3 dell’università italiana e le norme per il reclutamento di professori e ricercatori. Tali ruoli e norme hanno subìto nel corso degli anni diverse modifiche. L’ultima normativa di riferimento in materia, attualmente in vigore, è la legge n. 240 del 30 dicembre 20104 elaborata nell’ambito delle riforme promosse dal Ministro Mariastella Gelmini, entrata in vigore il 29 gennaio 2011 e successivamente aggiornata e modificata da alcuni decreti. Per quanto riguarda l’organizzazione complessiva delle università, il comma 1 dell’art. 2 definisce gli organi di governo dell’ateneo. Tra questi, il senato accademico – composto dal rettore, da una rappresentanza degli 2.  Per approfondire si veda il paragrafo 4.1 del capitolo primo. 3.  In sintesi: professore ordinario, professore straordinario (in attesa della nomina ad ordinario), professore associato, professore a contratto e ricercatore universitario. 4.  Il titolo della legge: Norme in materia di organizzazione delle università, di personale accademico e reclutamento, nonché delega al Governo per incentivare la qualità e l’efficienza del sistema universitario


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studenti e da una dei docenti di ruolo rappresentativa delle diverse aree scientifico-disciplinari dell’ateneo – ha la funzione di «  formulare proposte e pareri obbligatori in materia di didattica, di ricerca e di servizi agli studenti  »5, oltre che di attivare, modificare o sopprimere corsi, sedi, dipartimenti o altre strutture, e approvare i vari regolamenti. Il consiglio di amministrazione ha invece competenze di «  indirizzo strategico, di approvazione della programmazione finanziaria annuale e triennale e del personale, nonché di vigilanza sulla sostenibilità finanziaria delle attività  »6. Inoltre, nel secondo comma viene data disposizione per la costituzione in ciascun ateneo di una commissione paritetica docenti-studenti – una sorta di organismo di autovalutazione – che svolga «  attività di monitoraggio dell’offerta formativa e della qualità della didattica nonché dell’attività di servizio agli studenti da parte dei professori e dei ricercatori  »7, oltre a individuare gli indicatori per le valutazioni dei loro risultati e formulare pareri sull’attivazione e soppressione di corsi di studio. Nello stesso punto viene richiesta alle sedi universitarie una semplificazione dell’articolazione interna (art. 2, comma 2, lettera a), e ai dipartimenti, oltre che essere affidate le tradizionali funzioni relative alla ricerca scientifica, vengono trasferite anche quelle relative alle attività didattiche e formative, prima di competenza delle facoltà (art. 2, comma 2, lettera b). Su di un simile principio di razionalizzazione dell’offerta formativa, l’art. 3 propone, «  al fine di migliorare la qualità, l’efficienza e l’efficacia dell’attività didattica, di ricerca e gestionale, di razionalizzare la distribuzione delle sedi universitarie e di ottimizzare l’utilizzazione delle strutture e delle risorse  »8, la federazione e la fusione di due o più atenei, anche limitatamente ad alcuni settori di attività. In linea generale, dunque, la riforma s’ispira a principi di miglioramento dell’efficienza e della qualità del sistema universitario e delle varie sedi. 2.2 · Stato giuridico di professori e ricercatori universitari Attualmente sono previsti, in base alla stessa legge 240/2010, i ruoli accademici di professore ordinario (I fascia), di professore associato (II fascia), e di ricercatore (a tempo determinato), mentre i ricercatori a tempo in5.  Legge 240/2010, art. 2, comma 1, lettera e. 6.  Legge 240/2010, art. 2, comma 1, lettera h. 7.  Legge 240/2010, art. 2, comma 2, lettera g. 8.  Legge 240/2010, art. 3, comma 1.


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determinato diventano un ruolo ad esaurimento9. Ai ricercatori a tempo indeterminato che abbiano svolto almeno tre anni d’insegnamento – oltre che ai tecnici laureati con le stesse caratteristiche e ai professori incaricati stabilizzati – possono essere affidati corsi e moduli, per cui è attribuito loro il titolo – solo nominale – di professore aggregato per l’anno accademico in cui svolgono tali corsi (art. 6, comma 4). Inoltre, come previsto anche dalle precedenti disposizioni in materia, le università possono stipulare contratti annuali – a titolo gratuito o oneroso – per attività di insegnamento10, rinnovabili annualmente per un periodo di massimo cinque anni; con l’obiettivo «  di avvalersi della collaborazione di esperti di alta qualificazione in possesso di un significativo curriculum scientifico o professionale  »11. Viene abolito il periodo di straordinariato e di conferma rispettivamente per i professori di prima e di seconda fascia (art. 8, comma 3, lettera a). La normativa prevede che i professori e i ricercatori possano svolgere la loro attività in un regime alternativo di tempo pieno o tempo definito. L’art. 6 della legge disciplina e definisce le caratteristiche dei due tipi d’impiego: la quantificazione in termini di tempo del totale delle attività di ricerca, studio e insegnamento – con i connessi compiti preparatori di verifica e organizzazione – è di 1500 ore annue per i professori e ricercatori a tempo pieno, e di 750 ore annue per chi usufruisce del regime a tempo determinato (art. 6, comma 1). La scelta dell’uno o dell’altro regime è a discrezione del professore o ricercatore, che lo richiede al momento in cui prende servizio (art. 6, comma 6). Del tempo complessivo di impiego annuo, un minimo di ore deve necessariamente essere riservato a compiti didattici (attività di insegnamento) e di servizio agli studenti, compresi orientamento, tutorato e verifica dell’apprendimento. I professori e i ricercatori di ruolo devono riservare a tali attività non meno di 350 ore in regime di tempo pieno, mentre per chi svolge attività in regime di tempo definito tale ammontare scende a non meno di 250 ore per i professori e non meno di 200 per i ricercatori (art. 6, commi 2-3).

9.  La riforma Gelmini abolisce di fatto la figura del ricercatore a tempo indeterminato: le università non possono più prevedere contratti a tempo indeterminato per i ricercatori; sopravvivono soltanto quelli stipulati prima dell’approvazione della legge. 10.  Si tratta del ruolo dei cosiddetti “professori a contratto”, prima denominati professori incaricati. 11.  Legge 240/2010, art. 23, comma 1.


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Viene ribadita l’incompatibilità del ruolo di professore e ricercatore con l’esercizio dell’industria e del commercio, ma è data la possibilità di costituire società con caratteristiche di spin off o start up universitari. Invece, l’esercizio di attività di libero professionista o di lavoro autonomo è possibile solo per i docenti a tempo definito, i quali possono svolgere anche attività didattica e di ricerca all’estero, presso altre università o enti. Il regime a tempo definito, tuttavia, impedisce ai docenti di ricoprire cariche accademiche. I professori e ricercatori a tempo pieno hanno la possibilità di svolgere attività di valutazione, lezioni e seminari occasionali, attività di collaborazione e divulgazione scientifica e culturale, attività pubblicistiche ed editoriali anche con retribuzione, oppure funzioni didattiche e di ricerca o compiti istituzionali e gestionali presso enti pubblici e privati senza scopo di lucro. È inoltre consentito loro di svolgere attività didattica e di ricerca presso un altro ateneo, sulla base di convenzioni finalizzate a obiettivi comuni. Tutte queste attività – sia che si tratti di regime a tempo pieno sia a tempo definito – non devono determinare conflitti d’interesse rispetto all’ateneo di appartenenza o impedire ai professori e ricercatori lo svolgimento delle attività loro affidate. Infine, tutti i professori e i ricercatori sono tenuti a presentare ogni tre anni una relazione sulle attività didattiche, di ricerca e gestionali svolte, insieme alla richiesta di attribuzione dello scatto di stipendio12. Una questione piuttosto controversa viene sollevata nel contesto del trattamento economico dei professori e ricercatori, e in particolare per quanto riguarda il “Fondo per la premialità”, istituito dall’art. 9, nel quale si specifica che «  le università possono prevedere, con appositi regolamenti, compensi aggiuntivi per il personale docente e tecnico amministrativo che contribuisce all’acquisizione di commesse conto terzi ovvero di finanziamenti privati, nei limiti delle risorse del Fondo non derivanti da finanziamenti pubblici  »13. In altre parole vengono premiati i docenti più abili a intessere pubbliche relazioni e procacciare fondi per il funzionamento dell’università, con tutte le implicazioni che una visione di questo tipo comporta per il ruolo dell’insegnante e la sua autonomia.

12.  La progressione dello scatto stipendiale è stata trasformata da biennale a triennale (art. 8 comma 1, lettera a). 13.  Legge 240/2010, art. 9.


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2.3 · Reclutamento dei professori e dei ricercatori La legge 240/2010 introduce, in particolare, modificazioni alle modalità di reclutamento del corpo docente, trasformando soprattutto la figura del ricercatore ora incaricato soltanto a tempo determinato: in questo modo tale ruolo assume la caratteristica di passaggio obbligato nel corso dell’iter accademico per diventare professore associato, quindi ordinario. Il Ministero – sentito il CUN – definisce preliminarmente i settori concorsuali, raggruppati in macrosettori e articolati in settori scientifico-disciplinari, secondo i quali sono raggruppati i docenti in base alla loro disciplina d’insegnamento (art. 15, comma 1). Con l’art. 16 viene istituita l’abilitazione scientifica nazionale, una sorta di sistema di valutazione per il reclutamento dei professori universitari. Tale abilitazione «  attesta la qualificazione scientifica che costituisce requisito necessario per l’accesso alla prima e alla seconda fascia dei professori  »14, prevedendo requisiti distinti per i due ruoli accademici di professore e ricercatore, e ha validità quadriennale. Per ciascun settore concorsuale viene istituita una commissione valutativa, rinnovata ogni due anni. Essa è composta da quattro commissari sorteggiati all’interno di una lista di professori ordinari (una per ogni settore concorsuale), più un commissario sorteggiato all’interno di una lista di studiosi ed esperti curata dall’ANVUR15. I commissari non possono far parte contemporaneamente di più di una commissione di abilitazione, e dopo il mandato è loro impedito, per tre anni, di assumere nuovamente l’incarico (art. 16, comma 3, lettere f-l). Tale commissione si occupa delle procedure per l’attribuzione dell’abilitazione scientifica nazionale, che dovrebbero essere indette ogni anno. La commissione ha, pertanto, il compito di effettuare una valutazione analitica dei titoli e delle pubblicazioni scientifiche – non meno di dodici – presentate dai candidati aspiranti docenti, pervenendo a un giudizio motivato che decreta il conseguimento dell’abilitazione, espresso sulla base di criteri e parametri differenziati a seconda delle funzioni e dell’area disciplinare. Il conseguimento dell’abilitazione scientifica nazionale ha valore come titolo di idoneità soltanto per la procedura di chiamata dei professori e nel 14.  Legge 240/2010, art. 16, comma 1. 15.  Acronimo di Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca, ente pubblico vigilato dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca.


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passaggio dei ricercatori a tempo determinato al ruolo di professore associato, mentre viene valutato solo come titolo preferenziale nel caso dell’assegnazione di contratti di insegnamento (professori a contratto). Infine, chi non riuscisse a conseguire l’abilitazione scientifica non potrebbe partecipare, durante il biennio successivo, alle procedure di attribuzione della stessa abilitazione o per l’abilitazione alle funzioni superiori. Gli atenei dovrebbero programmare con cadenza triennale, secondo le disponibilità del loro bilancio, i procedimenti per la chiamata dei professori e per l’attribuzione di contratti ai ricercatori. Le spese derivanti dall’assunzione di professori e ricercatori può anche essere completamente a carico di soggetti pubblici e privati con i quali l’ateneo abbia prima stipulato delle convenzioni. L’art. 18 è quello che disciplina il procedimento di chiamata dei professori. Le università sono tenute a pubblicare – sulla Gazzetta Ufficiale e sui siti internet dell’ateneo, del Ministero e dell’Unione europea – informazioni riguardanti il settore concorsuale, le funzioni, i diritti e doveri e il trattamento economico relativi agli incarichi richiesti. Sono ammessi al procedimento sia studiosi in possesso dell’abilitazione nazionale per il settore concorsuale e le funzioni specificate o che insegnano stabilmente in università estere, sia professori già in servizio. Per l’attribuzione degli incarichi vengono valutate le pubblicazioni scientifiche, il curriculum e l’attività didattica degli studiosi. L’art. 24 , invece, si occupa dei ricercatori, assunti dalle università con «  contratti di lavoro subordinato a tempo determinato  »16 per lo svolgimento di attività di ricerca, di didattica – anche integrativa – e di servizio agli studenti. I destinatari sono scelti dalle università con procedure pubbliche che prevedono gli stessi criteri di trasparenza già citati per la chiamata dei professori. L’aspetto nuovo è che sono ammessi a tali procedure di assegnazione soltanto coloro che abbiano prima frequentato un dottorato di ricerca – e quindi conseguito il titolo corrispondente – o che siano in possesso del diploma di specializzazione medica17. Con la precedente normativa, invece, si diventava ricercatore a seguito di una valutazione comparativa bandita dalle facoltà. Ora gli aspiranti ricercatori vengono valutati preliminarmente sulla scorta del titolo, della tesi di dottorato, del curriculum e della produzione scientifica, 16.  Legge 240/2010, art. 24, comma 1. 17.  Sono chiaramente esclusi dalle procedure i professori di prima e seconda fascia e i ricercatori a tempo indeterminato ancora in servizio.


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secondo criteri e parametri individuati con decreto ministeriale. Successivamente, i candidati risultati più meritevoli sono ammessi alla discussione pubblica dei titoli e delle pubblicazioni a cui viene attribuito un punteggio. Un’ulteriore novità sta nella tipologia di contratti che l’ateneo stipula per il ruolo di ricercatore. Essi sono di due tipi, entrambi a tempo determinato: –– contratti di durata triennale, stipulati con regime di tempo pieno o di tempo definito, prorogabili soltanto una volta per due anni, avendo prima valutato le attività didattiche e di ricerca svolte; –– contratti di durata triennale non rinnovabili, stipulati esclusivamente con regime di tempo pieno, riservati a coloro che hanno usufruito del primo tipo di contratto, di assegni di ricerca per almeno tre anni (anche non consecutivi), o di borse post-dottorato. I ricercatori titolari del secondo tipo di contratto, che abbiano prima conseguito l’abilitazione scientifica nazionale, possono essere inquadrati come professori associati, avendo ottenuto valutazione positiva per la chiamata in ruolo, e pur sempre nell’ambito delle risorse disponibili per la programmazione. Tuttavia i contratti di ricercatore non danno direttamente diritto all’accesso ai ruoli universitari. Infine, come già accennato, le università possono stipulare contratti d’insegnamento della durata di un anno accademico, sia con esperti di alta qualificazione che con «  soggetti in possesso di adeguati requisiti scientifici e professionali  »18 (questi ultimi soltanto a titolo oneroso). Oltre a questi l’università può chiamare a insegnare «  docenti, studiosi o professionisti stranieri di chiara fama  »19, la cui retribuzione è stabilita confrontando quella per simili incarichi in altre università europee. Per l’attribuzione di tali contratti sono considerati titoli preferenziali quello di dottore di ricerca, il possesso della specializzazione medica, o di titoli equivalenti conseguiti all’estero. Viene dunque effettuata una valutazione comparativa la cui procedura è disciplinata con i regolamenti d’ateneo. Tuttavia questo tipo di contratti non permette di accedere direttamente ai ruoli universitari. Osservandolo nel complesso, quello appena esposto si configura come un iter strettamente vincolato all’ambito accademico, e che – essendo basato unicamente su una valutazione scientifica – non contempla la necessità di 18.  Legge 240/2010, art. 23, comma 1. 19.  Ibidem.


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una preparazione pedagogica e didattica di coloro ai quali è affidato nelle università tutto il carico dell’insegnamento e dell’assistenza agli studenti. Del resto, le scuole di dottorato, la cui frequenza è ormai praticamente obbligatoria per chi desideri intraprendere il percorso per diventare insegnante universitario, potrebbero prevedere moduli di preparazione pedagogica o sperimentazioni didattiche orientate alla formazione dei futuri docenti. Situazione abbastanza paradossale se si considera che proprio alle università è affidata una parte integrante della formazione degli insegnanti scolastici. Infatti, i Tirocini formativi attivi (TFA)20, che dall’anno accademico 2011-12 hanno sostituito le vecchie Scuole di specializzazione all’insegnamento secondario (SSIS) di durata biennale, sono corsi di livello post-universitario, di durata annuale, organizzati e svolti all’interno delle università, abilitanti all’insegnamento nella scuola secondaria di primo e secondo grado. Ciò fa supporre che esistano, all’interno delle università, quanto meno i presupposti per l’attivazione di corsi rivolti alla formazione dei docenti universitari. 2.4 · Situazione precaria del comparto AFAM Per quanto riguarda il comparto dell’alta formazione artistica, musicale e coreutica21, non sono ancora stati emanati i regolamenti che disciplinano il reclutamento del personale docente, previsti dall’art. 2 della legge n. 508 del 199922. In questa situazione di vuoto legislativo le accademie, gli Isia e i conservatori possono stipulare soltanto contratti a tempo determinato, ponendo così l’intero sistema in una condizione di “precarietà”. Finora le varie istituzioni hanno garantito la copertura degli insegnamenti e il funzionamento amministrativo con bandi pubblici oppure con chiamata diretta. Gli incarichi di docenza vengono affidati sulla base di specifiche graduatorie nazionali, istituite con l’art. 2 bis della legge del 4 giugno 2004, n. 143, riservate ai docenti precari che abbiano prestato servizio per 360 giorni nelle accademie e 20.  Il tirocinio formativo attivo è istituito e disciplinato dall’art. 10 del Decreto Ministeriale n. 249 del 10 settembre 2010. 21.  Si ricorda che del comparto AFAM fanno parte i quattro Isia, dedicati all’insegnamento della progettazione, e le Accademie di belle arti che hanno attivato ormai da anni corsi di design e comunicazione visiva. 22.  Per un approfondimento sulla legge si veda il paragrafo 4.6 del capitolo primo.


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nei conservatori; oppure sulla base di graduatorie interne d’istituto, elaborate ogni tre anni. Tuttavia tale situazione impedisce una programmazione pluriennale dei corsi di studio del comparto AFAM. Uno schema23 per il Decreto del Presidente della Repubblica in materia di reclutamento dei docenti è stato già elaborato e rivisto tra il 2008 e il 2009, e presentato ai sindacati nel febbraio 2009, ma si tratta soltanto di una bozza per la quale i tempi di approvazione sono ancora molto incerti. In generale, come i precedenti regolamenti in conformità della legge 508/99, anche questo mira ad allineare le istituzioni del comparto AFAM al sistema universitario, favorendo un livello di integrazione e cooperazione sempre più elevato. In particolare, il secondo capo della bozza di decreto riguarda il reclutamento del personale di sistema, ovvero gli insegnanti e il personale tecnico amministrativo, specificando anche i requisiti di eleggibilità per i direttori (artt. 9-14). Stando a quanto affermato nell’art. 9 della bozza, ogni due anni dovrebbero essere bandite dal Ministero delle procedure di valutazione, per ciascun settore artistico-disciplinare, finalizzate a ottenere l’idoneità nazionale all’insegnamento nei corsi delle istituzioni AFAM, valida per cinque anni. Possono partecipare a tali procedure coloro che siano in possesso di diploma accademico o di laurea. Invece, i docenti già incaricati, che abbiano svolto almeno un biennio consecutivo d’insegnamento nelle istituzioni, acquisiscono automaticamente l’idoneità. La valutazione dovrà tener conto delle «  competenze, artistiche, scientifiche e professionali del candidato, acquisite attraverso qualificate esperienze  »24, col fine di verificare l’originalità della ricerca e della produzione, le competenze disciplinari e metodologiche, l’aderenza dell’attività professionale al settore disciplinare oggetto del bando, la continuità della produzione artistica, scientifica e progettuale anche in relazione all’evoluzione dei linguaggi. Sarebbero valutate, specificatamente, le attività di ricerca e produzione artistica, scientifica e progettuale svolte presso soggetti pubblici e privati e le attività didattiche, svolte anche all’estero. La commissione che si occuperebbe della valutazione di idoneità, costituita con provvedimento ministeriale, dovrà essere composta «  da tre docenti 23.  Titolo della bozza: Regolamento recante le procedure, i tempi e le modalità per la programmazione, il riequilibrio e lo sviluppo del sistema dell’alta formazione artistica musicale e coreutica, nonché per il reclutamento del personale docente e del personale amministrativo e tecnico. 24.  Schema di DPR, art. 9, comma 1.


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estratti a sorte da una lista di quindici nominativi predisposta dal CNAM25, e da due esperti nominati dal Ministro, anche stranieri  »26, ognuno dei quali non può far parte della commissione per due volte consecutive. Successivamente, per il conferimento di incarichi d’insegnamento presso le istituzioni AFAM, l’art. 11 stabilisce che coloro che abbiano ottenuto l’idoneità siano sottoposti a procedure di valutazione comparativa, distinte per settore artistico-disciplinare e relative al profilo professionale richiesto, indette dal direttore dell’istituzione con bando pubblico. Le commissioni giudicatrici, in questo caso, sarebbero costituite da tre componenti, di cui almeno due provenienti da un’altra istituzione, scelti tra i docenti del sistema AFAM titolari delle discipline oggetto della valutazione comparativa, escluso il direttore dell’istituzione che la indice. La stessa commissione sarebbe incaricata di determinare i criteri e le procedure per la valutazione dei candidati, resi pubblici prima dell’inizio dei lavori. Il giudizio finale, espresso sulla base del curriculum e di una prova didattica relativa al profilo professionale richiesto, determinerebbe l’assegnazione del contratto. Per quanto riguarda, invece, le tipologie di incarichi d’insegnamento, l’art. 10 della bozza di decreto prevede innanzi tutto l’inquadramento – con contratto a tempo indeterminato – nei settori artistico-disciplinari dei docenti già in ruolo, i quali restano pertanto titolari dell’insegnamento. In secondo luogo si tenta di salvaguardare il sistema attuale di copertura degli insegnamenti, che prevede il ricorso alle graduatorie nazionali ad esaurimento27 per l’attribuzione di incarichi rinnovabili, di durata non superiore ai cinque anni. Viene inoltre proposta la stabilizzazione di tale personale docente, trasformando il rapporto di lavoro in contratto a tempo indeterminato dopo aver maturato tre anni di insegnamento nella disciplina. Al di là dell’esaurimento delle graduatorie, i nuovi incarichi dovrebbero essere attribuiti a coloro che siano in possesso dell’idoneità nazionale, con contratti di durata non superiore a cinque anni e rinnovabili, chiaramente a seguito di riscontro positivo in sede di valutazione comparativa. Il finanziamento di tali contratti può anche essere a carico di soggetti pubblici o privati, con cui le istituzioni abbiano stipulato convenzioni. 25.  Acronimo di Consiglio nazionale per l’alta formazione artistica e musicale, corrispettivo per il comparto AFAM del Consiglio universitario nazionale (CUN). 26.  Schema di DPR, art. 9, comma 4. 27.  Si ricorda che finora sono state costituite (con la Legge 143/2004) soltanto per le accademie di belle arti e per i conservatori di musica.


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Inoltre, sarebbe concesso alle istituzioni del comparto AFAM di assegnare incarichi d’insegnamento – sempre con contratti quinquennali rinnovabili – a «  studiosi italiani o stranieri che abbiano acquisito una riconosciuta qualificazione artistica e professionale  »28, oppure di stipulare, per attività formative integrative, contratti a tempo determinato rinnovabili, di durata non superiore ai tre anni, con artisti e professionisti che abbiano una qualificazione adeguata alle funzioni da svolgere (art. 10, comma 5). Nello schema di decreto viene specificato il caso dell’accademia nazionale di arte drammatica e degli Isia, che «  in relazione a peculiari e documentate necessità didattiche correlate agli obiettivi formativi dei corsi […] possono attribuire incarichi di insegnamento relativi a specifici moduli didattici a professionisti ed esperti di riconosciuta esperienza e competenza, nei limiti autorizzati annualmente dal Ministero  »29. Infine, in base alla valutazione delle attività svolte dal punto di vista della didattica, della produzione artistica e del profilo professionale, gli istituti potrebbero proporre al Ministero di trasformare il rapporto di lavoro dei docenti che abbiano svolto almeno tre anni d’insegnamento in contratti a tempo indeterminato, previa autorizzazione del Ministero dell’economia e delle finanze. Come si vede, si tratta di un iter che ricalca in alcuni punti – in particolare nel caso del sistema dell’idoneità e della valutazione comparativa – quello previsto per il reclutamento nei ruoli accademici universitari. Tuttavia esso conserva un certo grado di flessibilità, che permetta di porsi in continuità con le tradizionali peculiarità insite nel sistema dell’alta formazione artistica e musicale. Non sono infatti fornite precise indicazioni sul percorso da seguire – come invece accade nel caso delle università – per diventare docente. Inoltre, così come non sono fissati percorsi di studio preferenziali per l’attribuzione degli incarichi, anche nel caso del comparto AFAM non si fa cenno alla preparazione pedagogica e didattica degli aspiranti docenti, mentre si fa spesso riferimento alla produzione artistica o all’attività professionale come criteri di valutazione. Si vede, in questo punto, nell’impostazione così come nei termini utilizzati, quanto il settore della formazione artistica, in cui rientra anche una grossa parte di corsi dedicati alla progettazione, sia ancora legato all’idea della formazione professionale30. 28.  Schema di DPR, art. 10, comma 4. 29.  Schema di DPR, art. 10, comma 6. 30.  Si veda l’origine dei corsi di design nelle scuole di arti e mestieri, di arte applicata all’in-


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3 · Casi studio Come affermato nell’introduzione al capitolo, si rende necessario, a questo punto, guardare a modelli di riferimento per lo sviluppo di progetti rivolti alla formazione iniziale, continua e permanente degli insegnanti universitari, con un’attenzione specifica per i docenti operanti nell’area del design. Il miglioramento della preparazione e della formazione degli insegnanti ha chiaramente ricadute sul miglioramento complessivo dell’istruzione e dell’educazione degli stessi studenti. Tali obiettivi di miglioramento si sono tradotti, in ambito scolastico, nell’ideazione, sviluppo e programmazione di progetti innovativi di formazione continua e permanente dei docenti, che vanno oltre il tradizionale modello del corso di aggiornamento. Quelli presi in esame in questa sezione mirano, in particolare, a un cambiamento duraturo nella didattica delle scienze sperimentali e della matematica. 3.1 · Piano Insegnare scienze sperimentali, premesse Nell’ambito delle politiche di promozione e potenziamento della cultura scientifica e tecnologica nella scuola italiana31, il Piano insegnare scienze sperimentali è uno dei progetti indirizzati alla preparazione dei docenti delle scuole secondarie, che dall’analisi risulta essere particolarmente innovativo e applicabile anche ad altri ambiti formativi. Il Piano nasce ufficialmente il 7 novembre 2005, con la stipula di un protocollo d’intesa, di durata triennale, tra il Dipartimeno per l’istruzione del Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca e le tre associazioni professionali che avevano lanciato l’iniziativa, a cui si aggiunsero due importanti musei scientifici italiani: si tratta dell’Associazione per l’insegnamento della fisica (AIF), dell’Associazione nazionale insegnanti di scienze naturali (ANISN), e della Divisione di didattica della Società chimica italiana (DD/ SCI), in collaborazione con il Museo nazionale della scienza e della tecnologia “Leonardo da Vinci” di Milano e la Città della scienza di Napoli. L’obiettivo del protocollo era quello di creare un’alleanza strategica tra l’amministrazione, le associazioni disciplinari e i musei, per coinvolgere il sistema scolastico italiano in un processo di cambiamento duraturo ed efficace nella didattica delle scienze sperimentali. I due musei di Milano e di dustria e negli istituti d’arte, ampiamente trattata nel capitolo primo, sezione seconda e terza. 31.  Si veda, per una panoramica sull’argomento, il paragrafo 5.3 del capitolo secondo.


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Napoli, tra l’altro, promuovevano già da tempo attività di sperimentazione didattica, coinvolgendo studenti e insegnanti in attività laboratoriali e sviluppando pratiche innovative sul rapporto tra educazione formale e informale, nell’ambito di progetti nazionali ed europei. Il protocollo è, tuttavia, solo il punto d’arrivo di un processo iniziato diversi anni prima, frutto del confronto e della volontà di collaborazione delle tre associazioni. Nel 2001, a Bologna, il presidente della DD/SCI organizzò un primo incontro per confrontarsi con i presidenti dell’AIF e dell’ANISN. Ne scaturì una precisa volontà di unire le esperienze maturate dalle singole associazioni nell’ambito del rinnovamento della didattica delle discipline scientifico-sperimentali per le scuole elementari e medie. Dopo alcuni importanti incontri, documenti prodotti nell’ambito del lavoro comune e anche la stipula di un’intesa con l’Ufficio scolastico regionale della Lombardia, un primo concreto tentativo si ha nel 2002, quando le tre associazioni presentano un progetto – intitolato La scienza a scuola. Didattica e strumenti di lavoro per le Scienze – per la creazione di un portale al servizio dei docenti di scienze sperimentali di tutte le scuole. Il finanziamento richiesto al Ministero non fu concesso. Il progetto originario venne allora rimaneggiato, in modo da definire sempre meglio la proposta, in particolare sulla base delle indicazioni provenienti dalle occasioni d’incontro nazionali e dalle esperienze delle scuole estive rivolte ai docenti, organizzate dalle stesse associazioni. In questo modo i tre presidenti di allora descrivono gli avanzamenti nell’elaborazione del progetto32: Lo sviluppo più importante consisteva nella presa di coscienza della sostanziale insufficienza, quasi inutilità, di ogni intervento di supporto limitato alla sola rete telematica che non fosse opportunamente sostenuto da una robusta assistenza in presenza: attività che solo la rete di persone costituita dai soci delle associazioni disciplinari poteva svolgere. In pratica si era definita meglio la situazione in cui si trovavano molti colleghi insegnanti che lavoravano in assoluta solitudine senza possibilità di confronto, senza avere riscontri della correttezza del proprio lavoro […].

È così che ha origine il concetto di “presidio didattico”, un luogo fisico in cui svolgere le attività formative rivolte ai docenti di scienze, accompagnati da colleghi esperti che forniscano un’assistenza continua tra pari, in presenza oltre che in rete. Quest’idea fondamentale è alla base del Piano Insegnare 32.  Rosarina Carpignano, Riccardo Govoni, Vincenzo Terreni, La nascita di un piano, in “Annali della Pubblica Istruzione”, n. 5-6, 2009 / n. 1, 2010, Le Monnier


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Scienze Sperimentali che, dopo alcuni incontri tra i presidenti delle associazioni e il Ministero, fu finalmente messo a punto nell’estate del 2005, avviato con il protocollo d’intesa già citato e pianificato per diventare operativo dall’anno scolastico 2006-07. 3.2 · Avvio dei lavori e formazione dei tutor La missione dell’intesa tra il Ministero, le associazioni e i musei è quella di « promuovere, realizzare e monitorare iniziative di formazione in servizio sostenute da laboratori di ricerca-azione finalizzati al miglioramento dell’insegnamento-apprendimento in ambito scientifico, con particolare riguardo al rinnovamento delle metodologie didattiche »33. Il Piano si rivolge specificamente ai docenti in servizio della scuola primaria, della scuola secondaria di primo grado e del primo biennio della scuola secondaria di secondo grado, a cui sono affidati gli insegnamenti delle scienze sperimentali34. Il protocollo d’intesa ha previsto da subito la costituzione di strutture per lo sviluppo e il governo del Piano: –– un Gruppo di pilotaggio nazionale, del quale fanno parte le rappresentanze istituzionali delle parti contraenti e una rappresentanza degli Uffici scolastici regionali interessati all’attuazione del programma; –– un Comitato scientifico, composto da esperti dei diversi ambiti disciplinari – molti dei quali provenienti dall’ambito universitario – quale supporto per la realizzazione delle iniziative previste dall’intesa. Entrambi gli organismi hanno il compito di elaborare i contenuti, i temi e i percorsi formativi verticali da proporre alle scuole del primo e del secondo ciclo. Inoltre definiscono le caratteristiche logistiche e strumentali oltre che le risorse umane necessarie alla realizzazione delle attività di formazione, pianificando anche la distribuzione dei presìdi territoriali a livello regionale o provinciale. Il Gruppo di pilotaggio ha la funzione, tra le altre, di redigere una relazione al termine di ogni ciclo di iniziative, che dia conto della progressiva attuazione del Piano.

33.  Dal testo del protocollo d’intesa, firmato dalle parti il 7 novembre 2005, a Roma; reperibile sul sito internet delle associazioni e del Ministero. 34.  Si tratta delle materie quali chimica, fisica, biologia, scienze naturali, scienze della terra.


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Il Comitato Scientifico, nel seminario che si è svolto nel mese di gennaio 2006, aveva individuato e descritto gli obiettivi, i soggetti coinvolti, le strutture operative, aveva tracciato il quadro di lavoro ed evidenziato i punti di forza del Piano ISS. La fase operativa successiva ha previsto la richiesta di adesione al Piano agli Uffici scolastici regionali, i quali si impegnavano a costituire un Gruppo di pilotaggio regionale che assumesse la gestione delle attività a livello locale, e a stipulare protocolli d’intesa regionali con le associazioni disciplinari e con altri soggetti operanti nell’ambito della cultura scientifica. Sono stati successivamente emanati bandi per la selezione dei docenti e delle scuole candidate ad ospitare il presidio territoriale e finanziare lo sviluppo del Piano a livello regionale. Dall’anno scolastico 2006-2007 il Piano è diventato operativo a livello regionale, con l’individuazione dei docenti a cui rivolgere la formazione iniziale (tutor): sono state valutate dagli Uffici scolastici regionali, sulla base di curriculum e di colloqui, le esperienze professionali di coloro che avevano risposto all’autocandidatura. Tra novembre e dicembre 2006 sono stati organizzati quattro seminari nazionali – due presso il Museo “Leonardo da Vinci” di Milano e due presso la Città della scienza di Napoli – con lo scopo di formare i tutor, figure chiave da cui dipendeva l’attivazione stessa del Piano. Il Comitato scientifico, che organizzava i seminari, ha messo a disposizione il materiale didattico, raccolto ed elaborato nel seminario di gennaio. Tra le premesse c’era quella di evitare un tipo di formazione basato su proposte specifiche da ripresentare nella scuola. Pertanto, sono stati individuati quattro temi esplicitamente non disciplinari35, abbastanza ampi per lasciare margini di libertà nella scelta dei contenuti specifici da affrontare successivamente nelle classi e per facilitare un effettivo confronto tra gli insegnanti dei vari livelli e gradi di istruzione. Con l’obiettivo di enfatizzare una formazione trasversale multidisciplinare, sottesa alle stesse aree tematiche, gli insegnanti che partecipavano ai seminari si sono dovuti confrontare con uno dei temi meno prossimi alle proprie competenze disciplinari. Il lavoro era stato organizzato in gruppi omogenei di insegnanti – guidati da due formatori36 – ai quali erano riservati ambienti laboratoriali, attrezzati con materiali di facile reperibilità, in modo da agevolare la riproduzione degli esperimenti nei contesti locali. Alla base 35.  I quattro temi fanno riferimento, ad ogni modo, a un’area disciplinare predominante: Trasformazioni; Leggere l’ambiente; Luce, colore e visione; Terra e Universo. 36.  Un “conduttore” con funzione di guida anche in rapporto ai temi, e un “discussant” col compito di fornire una visione critica del lavoro di gruppo


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del modello d’insegnamento proposto c’era, infatti, la sperimentazione come momento fondamentale dell’educazione scientifica, sia rivolta agli adulti che ai ragazzi. Sulla scorta di tali esperienze i gruppi elaboravano ipotesi per ulteriori attività da applicare poi all’interno delle classi. Un’altra componente del Piano ISS, la cui esigenza era affiorata già nel momento finale di confronto-discussione dei seminari, è quella dell’accompagnamento e monitoraggio costante del lavoro nei presìdi e in generale dell’iniziativa. Per questo scopo, oltre a momenti di confronto in presenza, è stato attivato un ambiente di collaborazione on-line curato dall’Indire37 (una sezione dedicata all’interno del portale PuntoEdu – Apprendimenti di base), che diventava così lo strumento di collegamento per tutti gli attori del Piano, in cui si analizzano, discutono e confrontano le pratiche didattiche sperimentate, per poi migliorarle o riprogettarle. L’idea era quella di continuare a far crescere i tutor in un ambiente di apprendimento virtuale dove studiosi e ricercatori del Comitato scientifico interagissero con loro: lo spazio on-line è stato creato per individuare nuove strategie didattiche e mettere a punto nuovi materiali di formazione da utilizzare per lo sviluppo professionale dei docenti. Nei seminari iniziali di Milano e Napoli sono stati formati in totale 283 docenti tutor, distribuiti in 88 presìdi, appartenenti ai tre gradi di scuola a cui era rivolto il Piano. Per la realizzazione dei seminari, invece, sono stati coinvolti circa 50 docenti, che hanno avuto il compito di condurre i lavori (coordinatori e discussants). Ad ottobre del 2007 è partita la formazione di altri 109 insegnanti (tutor) delle regioni che non avevano partecipato alla prima fase, distribuiti in 35 presìdi, con un modello rielaborato sulla base degli esiti delle prime esperienze e della fase di monitoraggio38. 37.  Dal sito internet ufficiale (www.indire.it): « L’Indire è l’Istituto Nazionale di Documentazione, Innovazione e Ricerca Educativa, il più antico istituto di ricerca del Ministero dell’Istruzione. Fin dalla sua istituzione accompagna l’evoluzione del sistema scolastico italiano investendo in formazione e innovazione e sostenendo i processi di miglioramento della scuola. L’ente, con l’Invalsi e il corpo ispettivo del Miur, è parte del sistema di nazionale di valutazione in materia di istruzione e formazione. L’Istituto vanta una consolidata esperienza nell’utilizzo delle nuove tecnologie per la formazione in servizio del personale docente, amministrativo, tecnico e ausiliario e dei dirigenti scolastici e si pone come punto di riferimento per la ricerca educativa ». L’ente, nato nel 1925 con una “Mostra didattica nazionale”, ha più volte cambiato denominazione nel corso degli anni; dal 2012 è stata ripristinato l’Indire con la denominazione stabilita dalla sua riforma del 2001. 38.  Dati riportati in Irene Gatti, Piano ISS, in “Annali della Pubblica Istruzione”, n. 1, 2007, Le Monnier


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3.3 · Modello del Presidio territoriale I docenti tutor diventano dunque le figure di riferimento, le risorse professionali stabili, all’interno del presidio territoriale, per la formazione continua degli insegnanti ai vari gradi di istruzione. Ad ogni presidio, che solitamente ha sede presso un istituto scolastico, fanno capo le reti di scuole della regione o della provincia, e in ciascuno di essi opera un’équipe costituita, di norma, da tre tutor. Questi, con la collaborazione del Gruppo di pilotaggio regionale e degli Uffici scolastici regionali, si occupano di progettare e attivare le attività di formazione e ricerca-azione, rivolte all’insegnamento delle discipline scientifiche, con modalità diversificate in base alle esigenze del territorio e alle risorse disponibili, tuttavia sempre incentrate sulla formazione in presenza – nei presìdi e nelle scuole – come momento di esemplificazione, di sperimentazione delle strategie didattiche suggerite. Il presidio territoriale rappresenta il nodo di una rete che raccoglie e coinvolge l’insieme delle strutture e competenze disponibili a livello locale: fornisce il supporto fisico e organizzativo per la costituzione di comunità di pratiche, ma può contare anche sul supporto e l’appoggio delle università, dei centri polifunzionali di servizio, dei musei scientifici e parchi, che nel frattempo si sono aggiunti ai soggetti coinvolti dal Piano. In definitiva, uno degli aspetti più interessanti di questo modello formativo è l’alto livello di collaborazione tra pari: esso permette di superare, da un lato, la tipica autoreferenzialità del processo di insegnamento, e dall’altro, il modello tradizionale del corso di aggiornamento in cui i partecipanti reinterpretano personalmente e isolatamente quanto comunicato dagli esperti. I docenti, in questo caso, sono invece portati a riflettere sul proprio metodo didattico e a svilupparne di nuovi, in rapporto al contributo sia degli altri docenti che delle altre discipline. I risultati positivi raggiunti da alcuni docenti non restano così circoscritti alla dimensione locale scolastica, o peggio all’ambiente classe in cui sono stati elaborati, ma vengono messi in condivisione: le pratiche didattiche innovative, sperimentate e confrontate nel contesto del lavoro in gruppo, si consolidano e possono diventare strategie da applicare, ripetere e migliorare durante l’azione educativa. 3.4 · Piano M@t.abel, e-learning integrato Come per il caso precedentemente descritto, anche questa iniziativa mira a colmare le lacune del nostro sistema educativo e della preparazione degli


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studenti italiani in rapporto alle discipline scientifiche e matematiche. In particolare, partendo dai dati delle indagini nazionali e internazionali che riscontrano nei ragazzi delle scuole subito successive a quella primaria le maggiori difficoltà nell’apprendimento della matematica, il Piano M@t.abel si rivolge ai docenti di questa disciplina che operano nella scuola secondaria di primo grado e nel primo biennio del secondo grado. L’obiettivo finale è quello di migliorare la preparazione matematica degli allievi, per contrastare il manifestarsi ai livelli di istruzione superiore di carenze nell’uso di tali competenze di base. Il Piano M@t.abel è promosso da due associazioni disciplinari – la Commissione italiana per l’insegnamento della matematica che fa capo all’Unione Matematica italiana (UMI/CIIM) e la Società italiana di statistica (SIS) – con il concorso del Ministero dell’Istruzione e degli Uffici scolastici regionali. Questo progetto di formazione continua dei docenti di matematica presenta diversi punti di contatto con il Piano ISS, ma anche una fondamentale differenza nell’uso degli spazi e dei mezzi a disposizione. Anche in questo caso il Piano è sostenuto da presìdi territoriali - a cui fanno riferimento reti di scuole - all’interno dei quali operano insegnanti esperti sia sul versante dei contenuti che su quello delle attività formative, con funzione di tutor. La differenza consiste nell’importanza rivestita dallo spazio on-line, che si appoggia sempre alla piattaforma Apprendimenti di base dell’Indire, considerato come una vera e propria classe virtuale in cui si svolge gran parte della formazione dei docenti. A livello nazionale il piano è coordinato dal Comitato tecnico scientifico che ha il compito di elaborare il piano di formazione, curarne l’attuazione e monitorarne i risultati. Gli Uffici scolastici regionali si occupano invece dell’organizzazione e realizzazione dei corsi a livello locale. I docenti tutor sono selezionati in rapporto al numero di scuole presenti sul territorio e sulla base delle loro competenze disciplinari (matematiche), dell’esperienza nell’uso di tecnologie informatiche e della capacità di coordinazione di gruppi di lavoro. Il Piano è partito nell’autunno del 2005 con la progettazione a cura del Comitato scientifico. Nei mesi successivi sono stati rielaborati e immessi sulla piattaforma on-line i materiali didattici. Essi si basano su un lavoro – La matematica per il cittadino – realizzato tra il 2000 e il 2005 dall’UMI, nell’ambito di un protocollo d’intesa stipulato già nel 1993 con il Ministero della Pubblica Istruzione ed esteso nel 1999 alla SIS. Si tratta di un progetto per l’insegnamento della matematica (dai 6 ai 19 anni), comprendente esempi


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di attività da svolgere in classe e di elementi per le prove di verifica. Per le attività di formazione del Piano i contenuti sono raccolti intorno a quattro nuclei fondamentali di contenuti39, che si ripresentano lungo il percorso scolastico di riferimento. Per dare avvio al progetto, tra marzo e dicembre del 2006 sono stati individuati e formati 118 docenti tutor, distribuiti in 108 scuole scelte come presìdi territoriali, e dal mese di febbraio del 2007 è partita la fase pilota rivolta a circa 1300 insegnanti di matematica, con una media di 12 corsisti per tutor, conclusasi nel maggio dello stesso anno40. La formazione dei docenti è dunque articolata in incontri in presenza e attività in rete, con una netta prevalenza di queste ultime sul tempo complessivo. I primi tre incontri del gruppo con il proprio tutor di riferimento servono principalmente a presentare il piano, illustrare il materiale e familiarizzare con l’ambiente e-learning, e viene analizzata e discussa anche una delle attività specifiche da realizzare in classe. A parte un ultimo incontro conclusivo sulla valutazione delle esperienze, il resto della formazione è svolta nell’ambiente-classe virtuale, in cui è possibile approfondire lo studio dei materiali e pianificare, condividere e discutere il programma delle sperimentazioni. Quest’ultime, strutturate come attività da svolgere direttamente in classe coi ragazzi, costituiscono l’altra parte fondamentale del piano. Il tutor assume la funzione di moderatore del gruppo: guida i docenti nella realizzazione delle attività, risponde all’insorgere di problemi di natura concettuale, tecnica o metodologica e raccoglie le osservazioni dei docenti. Proprio nell’integrazione dei due momenti – quello di formazione e confronto on-line e quello di applicazione in classe – risiede l’innovazione del progetto: da un lato è possibile sperimentare quasi immediatamente i materiali condivisi nel corso, dall’altro, con la stessa tempestività, si possono apportare modifiche e correzioni alla stessa sperimentazione, grazie ai vari livelli e tipologie di interazione permessi dal portale41. Questo modello di e-learning, stimolando la riflessione simultanea su quanto si sta facendo in classe e sulle proposte didattiche dei docenti, permette di superare sia l’isolamento dell’attività dell’insegnante sia la tipica struttura in due tempi 39.  I quattro nuclei individuati sono: numeri; geometria; relazioni e funzioni; dati e previsioni. 40.  Dati riportati in Ferdinando Antonello, Lucia Ciarrapico, Giovanni Margiotta, La formazione dei docenti di matematica: il Piano M@t.abel, in “Annali della pubblica istruzione”, n.1, 2007. 41.  I docenti hanno la possibilità di dialogare tra loro e con i tutor in relazione ai problemi didattici e tecnici che di volta in volta si presentano in sede di sperimentazione.


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del corso di aggiornamento, in cui si forniscono prima i materiali e modelli teorici e solo in seguito si procede all’applicazione pratica. Infine, anche il Piano M@t.abel prevede la fase finale di monitoraggio delle attività, a cura del Comitato scientifico, che raccoglie le relazioni dei tutor e dei coordinatori regionali, e valuta in base a queste la qualità e l’efficacia formativa del piano. Attualmente, sia il Piano ISS che il Piano M@t.abel hanno trovato continuità nei due Programmi operativi nazionali (PON) “Educazione scientifica” e “Matematica”, che proseguono il percorso di formazione continua dei docenti per il miglioramento della preparazione degli studenti nelle discipline scientifiche e matematiche.

4 · Ipotesi conclusive Volendo riassumere le caratteristiche più innovative dei casi studio presentati nella sezione precedente esse possono individuarsi nello scambio, in termini di contenuti e metodi disciplinari, tra colleghi provenienti da ambiti diversi ma affini, e nell’auto-formazione e formazione reciproca, orientate a una preparazione pedagogica e allo sviluppo di strategie didattiche. In generale, l’idea della comunità d’insegnanti, specializzati in diverse discipline, che collaborano per auto-formarsi all’insegnamento, visti anche i risultati positivi e il consenso riscontrato in ambito scolastico, sembra essere un valido modello di riferimento per progettare percorsi di formazione – sia iniziale che in itinere – dedicati ai docenti universitari. In particolare, in riferimento alla situazione attuale – analizzata nella prima sezione di questo capitolo – riguardante le caratteristiche e i titoli richiesti per il reclutamento dei docenti universitari, e considerando svantaggi e carenze che tale sistema comporta, sembra opportuno assicurare una preparazione pedagogica e didattica agli aspiranti insegnanti. Pertanto, nella progettazione di un percorso formativo dedicato ai docenti universitari, ispirato al modello della comunità di pratiche, dovrebbe essere prevista come costante la presenza di esperti – docenti o tutor – provenienti dall’area di scienze dell’educazione e della formazione, specializzati nella formazione degli adulti, permanente e ricorrente. Nel caso specifico dei corsi di design, in base alle esigenze riscontrate nei capitoli precedenti, risulta necessario fornire una formazione ampia e articolata ai docenti che operano in tale contesto. Pertanto, ipotizzando il


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progetto di corsi di formazione a loro dedicati, dovrebbero essere chiamati a collaborare docenti, studiosi e professionisti provenienti da aree disciplinari anche molto distanti fra loro, e soprattutto rispetto al dominio di competenza del design. L’incontro tra gli aspiranti docenti di design e quelli provenienti da altri ambiti disciplinari può portare alla condivisione di reciproche esperienze e al confronto tra approcci metodologici specialistici. Questi apporti sono fondamentali per l’elaborazione di modelli, metodi e strategie educative interdisciplinari e transdisciplinari, orientate al rinnovamento e miglioramento dell’educazione complessiva degli studenti, futuri designer. In definitiva, i vantaggi per la formazione degli insegnanti, che il modello della comunità di pratiche di livello inter- e transdisciplinare presuppone, possono riassumersi in alcuni punti fondamentali. I futuri docenti, contemporaneamente: –– imparano a insegnare, costruendo e sviluppando i propri metodi d’insegnamento che hanno ricadute dirette sulla formazione degli studenti; –– imparano a gestire le dinamiche di gruppo e le attività laboratoriali; –– mettono a punto e sperimentano approcci o strumenti didattici utili quale supporto alla didattica universitaria; –– estendono il proprio orizzonte di conoscenze, competenze e metodi, nel confronto con docenti ed esperti provenienti da altre aree disciplinari ed esperienze. Inoltre si potrebbe considerare, come parte integrante del modello da sviluppare, uno spazio di collaborazione on-line, che svolga la funzione di supporto simultaneo alle attività di gruppo, o strumenti di collaborazione per dare la possibilità di gestire in maniera più flessibile la formazione e il confronto di pratiche innovative sperimentate. Una considerazione finale, affatto secondaria, riguarda la possibilità di produrre ricerca nel contesto dei percorsi formativi ipotizzati. I progetti dedicati alla formazione di docenti e ricercatori, infatti, non dovrebbero essere unicamente orientati allo sviluppo di modelli didattici sempre più performanti ed efficienti, enfatizzando metodologie e dinamiche relazionali. È invece interessante che questi momenti formativi diventino anche l’occasione per promuovere l’avanzamento delle conoscenze in un determinato ambito, in relazione anche ad aree disciplinari tra loro meno affini, prevedendo spazi e tempi per progetti di ricerca, divulgazione scientifica e riflessione critica.


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Ad ogni modo, eventuali progetti di formazione dei docenti dell’area del design dovrebbe tener conto delle risorse economiche, strutturali e strumentali effettivamente a disposizione degli atenei e delle istituzioni d’istruzione superiore; delle peculiarità del territorio in cui si decide di intervenire, arricchito dal confronto e dal dialogo con il contesto nazionale e internazionale; delle discipline a cui estendere il dominio d’interesse in accordo, soprattutto, alle esigenze affiorate dalle argomentazioni esposte in questa tesi.



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Al termine di questa ricerca, si può arrivare a sostenere che i corsi di design e le scuole di progettazione abbiano esaurito, in un certo senso, la loro portata innovativa, almeno per come sono oggi strutturati, e per gli insegnamenti che la maggior parte dei piani formativi propone. La disciplina stessa, chiusa in se stessa, nonostante il riconoscimento dell’opportunità di estendere il proprio dominio di conoscenze e competenze, e i tentativi fatti in tal senso, risulta frammentata in ramificazioni specialistiche legate a strumenti, tecniche e settori produttivi che tendono a implicare una corrispondenza univoca con attività e ruoli professionali, peraltro, in rapida trasformazione. Si conferma la necessità di un’operazione di ridefinizione della disciplina, del ruolo del designer e, di conseguenza, dei percorsi formativi che vi si riferiscono. Nei capitoli di questa tesi è stata più volte evidenziata l’esigenze di un’istruzione che metta gli studenti in condizione di operare scelte autonome e consapevoli. Tale missione educativa non si rivolge, chiaramente, soltanto agli studenti delle scuole di progettazione; tuttavia, li riguarda particolarmente poiché pone l’accento sulla responsabilità implicita nelle attività di progettazione. Si pone la necessità di sviluppare ed esercitare una serie di competenze trasversali, progettuali, relazionali, fondate su un’ampia e stabile base di conoscenze da acquisire e accrescere lungo tutto l’arco della vita, o almeno ben oltre il periodo normalmente dedicato all’educazione formale. Provando a fare previsioni a lungo termine, si delineano due auspicabili prospettive nell’evoluzione dell’insegnamento del design: –– estendere l’insegnamento del design ai diversi livelli d’istruzione, considerando che sia i processi di rappresentazione e sintesi visiva (alla base del progetto di comunicazione), sia la capacità di progettazione possano essere appresi sin dall’infanzia, al pari della scrittura e della lettura, e declinati ai vari stadi di sviluppo dell’individuo; –– estendere l’area di competenza del designer, il suo orizzonte culturale e di ricerca, spingendo a una profonda revisione di questo ruolo a partire dai termini che lo descrivono.


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Nel percorso storico delle scuole di progettazione, tracciato lungo il capitolo primo, si è riscontrato come le esperienze più riuscite siano state quelle fondate su d’un intenso scambio, sul costante confronto tra docenti e studenti, circa le questioni relative non solo alla disciplina ma anche alla didattica, alla conduzione stessa dei corsi e all’organizzazione interna della scuola. Questo aspetto, unito alle possibilità – rilevate nella normativa attualmente in vigore per le università – per l’attivazione di commissioni paritetiche di docenti e studenti hanno ispirato l’idea dell’osservatorio, che dà il titolo alla tesi. Si propone dunque, in queste conclusioni, la costituzione di un osservatorio stabile per la riflessione sui temi della didattica e dell’educazione; quest’ultima da intendere – come si è sottolineato in diversi punti della ricerca – come percorso di formazione complessiva e ininterrotta dell’individuo, che conduca, in definitiva, all’auto-formazione. L’osservatorio, da istituire in più sedi d’istruzione superiore anche in via sperimentale, sarebbe una sorta di organo consultivo interno, autogestito dagli studenti in cooperazione con i docenti dell’istituzione, ai quali si aggiungono di volta in volta esperti o ricercatori esterni chiamati a collaborare. Lo scopo sarebbe quello, da un lato, di avanzare proposte, promuovere iniziative ed eventi, e sviluppare progetti volti a migliorare lo svolgimento della didattica; dall’altro, di riservare spazi di autonomia che responsabilizzino gli studenti, facciano percepire sia l’ambiente della scuola che le sue finalità come “bene comune”. Nel contesto dell’osservatorio, potrebbero essere individuate tematiche specifiche da approfondire in gruppi di discussione: i gruppi si occupano dello studio analitico dei vari aspetti di un ambito circoscritto, relativo a un argomento di particolare interesse, raccogliendo materiali, producendo ricerche e condividendo poi i risultati con le altre componenti dell’osservatorio, col fine ultimo di pervenire all’elaborazione di proposte concrete da sperimentare all’interno della stessa istituzione. La piena fiducia nell’interesse degli studenti circa la propria formazione, nonché la convinzione che dalla discussione collegiale e dall’attività di gruppo possano derivare valide proposte per il superamento delle problematiche relative all’insegnamento del design, si fondano su esperienza diretta. In tutte le occasioni in cui mi è stato possibile o sia semplicemente capitato di discutere con amici e colleghi dei temi più ampi e generali dell’educazione e specifici della didattica ho riscontrato sempre una viva volontà di condivisione, anche partecipando a un acceso confronto di pareri. Un grado di


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coinvolgimento così alto, da aver in parte ispirato l’idea dell’osservatorio, e sicuramente influenzato il mio orientamento su alcune specifiche questioni. Infine, ammettendo la difficoltà di tenere insieme una materia così vasta e complessa, oltre che il limite di un lavoro svolto singolarmente, la tesi si pone – a questo stadio – come materiale ancora relativamente “grezzo” e incompleto, come base dalla quale partire per produrre ulteriori ricerche, o definire e sperimentare progetti di intervento. Si invita chiunque sia sensibile all’argomento e fiducioso nelle possibilità di evoluzione dell’attuale sistema di istruzione a consultare, completare o estendere le opinioni e i dati raccolti, per svilupparli – si spera – nella direzione delle considerazioni conclusive prodotte.



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Appendice uno Intervista a Daniela Piscitelli

A cura di Filippo Taveri e Roberto Arista – 6 giugno 2012



INTERVISTA A DANIELA PISCITELLI

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Esiste una continuità, o anche solo un’eredità, tra le esperienze delle scuole di design centro-europee e la formazione del design della comunicazione in Italia? Nessuna. Non esiste alcun rapporto di continuità, né di comparazione tra le scuole europee e quelle italiane. Da quel che conosco per esperienza più o meno diretta, a livello europeo esistono scuole di design estremamente consolidate sia sul piano della didattica sia su quello della ricerca. Hanno iter formativi strettamente propedeutici che dedicano grande attenzione al consolidamento delle materie fondamentali nel triennio iniziale, a cui segue un biennio specialistico decisamente sperimentale, su linee di frontiera molto avanzate. È il caso, per esempio, dell’Olanda, della Germania e dell’Inghilterra, si veda lo stesso Royal College of Art. Mentre noi, in Italia, siamo ancora fermi alla capacità di immaginare un piano di studi propedeutico, quindi che abbia degli insegnamenti di base consolidati. L’unica esperienza poco più solida è quella di Milano, semplicemente perché lì vi è l’unico vero e proprio Corso di Laurea in Design della comunicazione su territorio italiano, mentre negli altri atenei, ancora non esistono dei corsi dedicati alla comunicazione visiva. Se manca lo stesso corso non è possibile strutturare dei piani di studio dotati di coerenza tra i vari anni: ci sono molti casi, per esempio, in cui si hanno nel primo anno una serie di materie propedeutiche, nel secondo nulla che riguardi il progetto di comunicazione e poi improvvisamente, al terzo anno, multimedia; ma dal basic design del primo anno al design multimediale del terzo non esiste alcun filo conduttore. Pertanto, ribadisco, non può esistere un termine di paragone tra la formazione in Italia e quello che avviene all’estero. Puntando lo sguardo alle scuole storiche di design – quali la Bauhaus tedesca e la Hochschule für Gestaltung di Ulm, che possiamo dire abbiano segnato la nascita della nostra disciplina e delle sue specializzazioni – come sono confluite queste esperienze nella definizione dei programmi delle attuali scuole di design italiane? Ritiene ancora valido, oggi, riferirsi a quei modelli quasi archetipici?


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Non sono confluite affatto. Tutto quello che deriva dall’esperienza di Ulm lo si deve a Giovanni Anceschi, che ha importato, prima a Milano e poi a Venezia, il basic design. Di conseguenza tutto quello che, in Italia, riguarda la pedagogia del design della comunicazione lo si deve a lui. Devo ammettere che a Venezia Anceschi ha fatto un lavoro straordinario, avendo costituito il Dottorato di ricerca in Scienze del design che permette di creare una linea di continuità tra la laurea triennale, la magistrale e il dottorato di ricerca, proprio su questi temi. Ma è ancora l’unico filo di collegamento con la cosiddetta Scuola di Ulm e in generale le esperienze delle scuole storiche di design. Alle quali, tuttavia, ritengo ancora opportuno riferirsi. Ed in particolare all’idea – che poi è propria del basic design – della produzione di quelli che potremmo chiamare eserciziari. Anceschi ha inoltre istituito, nel corso del suo insegnamento, quello che lui stesso ha definito New basic design, ovvero una metodologia nell’approccio al progetto applicabile anche a contesti che usano strumenti, tecniche e tecnologie completamente differenti. È stato pubblicato, peraltro, un interessante volume de “Il Verri”1 curato dallo stesso Anceschi, in cui vengono riportate le diverse esperienze del New basic design sviluppate a Venezia. Viene spesso detto, quasi fosse un luogo comune, che il design è una disciplina a cavallo tra le discipline, in cui confluiscono saperi molto diversi. Come si possono tenere insieme, in un percorso formativo, tutte le diverse discipline di cui il designer nella sua attività si serve? Come si realizza questo tipo di multidisciplinarietà? Mi vengono in mente i modelli delle scuole americane. Quando sono stata a New York, nel 1990, non capivo – perché ero troppo giovane – per quale motivo al primo anno fossero insegnate materie come letteratura, sociologia… Di fatto l’ho capito soltanto trent’anni dopo: progettare è sempre un atto di consapevolezza, la capacità di strutturare un racconto, attraverso diversi linguaggi. A ciò, dunque, serve una formazione umanistica; senza omettere, chiaramente, la componente scientifica. Bisogna pertanto riuscire a inserire – so bene quanto sia difficile – nel proprio percorso formativo, e ancor più nella propria forma mentale, la curiosità rispetto a tutte le discipline. D’altra parte è la nostra stessa disciplina che lo richiede: noi, voi sarete chiamati a lavorare negli ambiti più disparati. È necessaria un’attitudine mentale, una 1.  New basic, “Il verri”, n. 43, giugno 2010


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certa curiosità ad affrontare diversi argomenti. Ritengo che noi, più di altri professionisti, dovremmo avere questa tipo di versatilità rispetto ai saperi, in generale. Molto più di un architetto, molto più di un designer di prodotto. Proprio perché l’ambito della comunicazione è trasversale a qualsiasi cosa. Spesso si tratta di ambiti apparentemente così lontani tra loro da avere l’obbligo, come progettisti della comunicazione, di essere permeabili. Questo argomento sembra riallacciarsi anche alla questione della ricerca all’interno del mondo della progettazione. Spesso, nell’ambito del design, la ricerca viene condotta con superficialità, senza gli strumenti metodologici della ricerca scientifica, ben più rigorosa e codificata nel corso dei secoli. Pertanto è necessario, a suo avviso, formulare una nostra grammatica, sviluppare una nostra autonoma dimensione di ricerca? Verso cosa dovrebbero orientarsi le facoltà, anche nella prospettiva della definizione di proprie Scuole di Dottorato? Potrei riferirmi alla mia esperienza. Io insegno sia nel corso del triennio che della specialistica in design, presso la Seconda Università degli Studi di Napoli, sede di Aversa, e, fin dal primo anno, cerco di insegnare agli studenti a fare una seria ricerca bibliografica. Una ricerca che, insomma, vada oltre i primi dieci risultati di Google. Le prime pagine dei risultati di un motore di ricerca su internet equivalgono, rapportandole alla mia generazione, al primo scaffale di una qualsiasi biblioteca. E questo non è “fare una ricerca”. Fare ricerca significa andare oltre il primo gruppo di titoli a disposizione, per riuscire a trovare magari quell’ultimo regesto che nessuno ha mai letto. Su internet è la stessa cosa. Non cambia nulla tra sistema analogico e digitale. Quello che bisogna imparare ad acquisire è questa palestra – perché di ciò si tratta – nel ricercare e nello scrivere. Infatti io chiedo sempre ai miei studenti di affiancare al loro progetto una relazione scritta, e la prima cosa che vado a fare è proprio cancellare le parole d’uso comune, le parole banali. Lo stesso vale anche nella progettazione di immagini coordinate, brochure, house organs: a loro è affidata la stesura dei testi, che, anche in questo caso, non devono contenere le parole d’uso corrente, ormai completamente prive di significato. Ora, tornando alla vostra domanda, non c’è una risposta che io possa dare. Si tratta proprio di una pratica, una metodologia da instillare negli studenti, così come, per esempio, nell’insegnamento della progettazione di


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un carattere tipografico. Che è del resto il tratto distintivo, secondo me, dei progettisti della comunicazione. Sembra tuttavia impensabile riuscire a tenere nello stesso corso di studi materie molto diverse, distanti tra loro, quanto meno avere per ognuna un sufficiente grado di approfondimento. Questo non è vero. E anche in questo caso posso riportare quella che è stata la mia esperienza. Per cinque anni ho frequentato i corsi della facoltà di Architettura e contemporaneamente anche l’Istituto Europeo di Design, perché allora non ero affatto a conoscenza dell’Isia di Urbino e in Italia non esistevano altre scuole di comunicazione visiva. In seguito ho affrontato un’esperienza negli Stati Uniti. Tuttavia quando frequentavo la facoltà di Architettura di Napoli – che ancora ringrazio per avermi conferito una struttura mentale che tuttora non scorgo nei Corsi di Laurea in Disegno industriale – si studiava progettazione leggendo “Alfabeta”, che è una rivista culturale che si occupa di filosofia, di letteratura. Perché allora andavo a leggere riviste come questa? La curiosità era innescata dagli stessi progettisti, i grandi maestri che parlavano di argomenti quali la crisi della cultura occidentale. Ma non ero la sola, era il contesto della facoltà di Architettura che frequentavo che consentiva, quasi richiedeva, questo tipo di letture. È la progettazione in generale, e il design della comunicazione in particolare, ad avere nei propri cromosomi una natura critica rispetto alle forme del mondo, alle forme dell’abitare. Che non si risolve semplicemente attraverso una sapiente progettazione formale. Per questo allora ritengo ancora importante leggere gli scritti di un biologo evoluzionista quale Gregory Bateson piuttosto che conoscere perfettamente la biografia di Albe Steiner – che conserva un suo indiscutibile valore, ma per altre motivazioni. Lei ha parlato, nella sua conferenza, della questione dei docenti che sono anche professionisti, citando il caso dello Iuav, ma anche del Politecnico di Milano. Fino a che punto, in che misura lei ritiene sia giusto affidare l’insegnamento a designer professionisti? Quali sono i vantaggi di questa scelta? La questione è molto complessa. Anzitutto io credo non sia possibile insegnare progettazione se non si è prima progettisti. E questo lo si può riscontrare già all’interno delle nostre facoltà: è abbastanza evidente che i giovani docenti che sono il frutto di questi primi corsi di laurea – laureati in Disegno


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industriale che hanno magari svolto un dottorato di ricerca restando integrati all’interno della sfera accademica – abbiano qualche lacuna, qualche sostanziale differenza rispetto proprio all’apporto che invece un professionista riesce a fornire alla didattica. Molti, come nel caso delle scuole americane, pensano che si debba dare la possibilità ai designer di praticare la professione all’interno e con le stesse università, attraverso gli spin off, per esempio, oggi molto utilizzati. Io, però, in merito ho forti dubbi dal punto di vista deontologico, etico; perché un’università che realizza un protocollo d’intesa con una struttura aziendale e si impegna nella realizzazione di progetti concreti, di fatto, entra in competizione, in concorrenza coi professionisti che invece operano sul mercato. Per questo mantengo delle resistenze nell’avviare progetti di questo tipo. Diverso è se si tratta di commesse pubbliche, che richiedono un elevato livello di approfondimento e ricerca. Se invece parliamo di commesse private non credo che il legame con l’università possa funzionare. Non sono d’accordo. Su questo si innesta un’altra questione: quella del rapporto delle università con le aziende. Alcune facoltà auspicano o ipotizzano rapporti con il mercato. Altre preferiscono tenere i progetti su un piano più astratto, teorico, dedicando più tempo ed energie alla ricerca. Lei cosa ne pensa? Il problema è che oggi le università non hanno più fondi. Per cui attivare una convenzione con un’impresa significa comunque riuscire ad attivare delle economie. Ora, però, è opportuno fare una distinzione: è molto diverso parlare di ricerca applicata oppure di una commessa vera e propria, le due cose devono essere separate. Si potrebbe al massimo parlare di progetti reali, ma auto-commissionati o semplicemente non commissionati da soggetti privati. Perché quello che poi altrimenti si verifica in ambienti troppo chiusi è un certo scollamento, un isolamento dell’ambiente accademico dal resto del mondo. Manca in quei casi il confronto con l’ambiente esterno, una sorta di osmosi con quello che accade fuori dalla scuola, e che non è necessariamente coinvolto nelle logiche del mercato. Quindi potremmo dire che, per coprire l’esigenza di progetti reali, verifiche sul campo che coinvolgano stakeholders e utenti reali non fittizi, le università dovrebbero piuttosto allacciare rapporti con interlocutori pubblici che non con imprenditori privati. Oppure grandi enti che però richiedano una grande componente di ricerca. È solo in questo modo che si riesce a


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creare la differenza. Per me, essendo sia ricercatrice all’interno dell’Università che Presidente di un’associazione di professionisti è più facile avere una visione di entrambe le parti. E ritengo che una separazione, insomma, debba continuare ad esserci. Parlando sempre di rapporti della università con l’ambiente esterno, in che misura e in che modo le esperienze autonome degli studenti – quali progetti e ricerche autonome o auto-commissionate – devono e possono confluire nel percorso di studi individuale o, più in generale, nell’ambiente accademico? Bene, secondo me, non esiste una regola. Esiste, invece, il buon senso. Farò alcuni esempi. Brave New Alps2 è un collettivo di ricerca che ha preso le mosse dall’aspettativa personale dei due fondatori3, aprendo di fatto uno squarcio in quello che è il filone dell’autoproduzione e dell’attivazione di processi legati alla produzione di design. Oppure, nel mio corso, mi è capitato di seguire delle tesi, originate da specifiche richieste, che mettevano in relazione la musica con il design della comunicazione. Tuttavia queste tesi sono poi sfociate in due progetti per non udenti. Per cui non esistono delle strade consigliate, ogni proposta richiede un suo percorso specifico. Ho sempre un approccio molto aperto rispetto agli studenti e le loro proposte, che in alcuni casi sembrano piuttosto azzardate e inopportune, ma altre, invece, suggeriscono scenari, contengono intuizioni, sensibilità che è giusto ascoltare e assecondare. Nel caso dei cosiddetti “crediti liberi” o “a scelta”, che gli studenti sono chiamati a colmare con la frequenza a seminari, corsi, laboratori, attività integrative di vario genere, si tratta di un approccio completamente diverso. Siamo ancora ad un modello inserito in un contesto di stampo gerarchico. Ed in questo modello allo studente vengono consegnati, per esempio, tre crediti in cui è “libero” di fare quello che vuole: la riserva degli indiani! Ma quando nell’Icograda Design Education Manifesto si legge dell’evoluzione « da progetti generati dai docenti ad una maggiore partecipazione alla definizione dei problemi da parte degli studenti »4, siamo di fronte a un radicale cambiamento di struttura didattica. Non può più esistere il docente che fa la lezione ex cathedra; piuttosto è necessario orientarsi verso una struttura 2.  Per approfondire si veda il sito internet del collettivo (www.brave-new-alps.com). 3.  Bianca Elzenbaumer e Fabio Franz. 4.  Reperibile sul sito internet dell’Icograda (www.icograda.org/education/manifesto.htm).


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laboratoriale – che è cosa ben differente – in cui ognuno porta il proprio contributo. È il modello a dover cambiare. Una cosa che si nota in molti lavori di gruppo – largamente previsti nei nostri corsi – è la difficoltà degli studenti a lavorare in gruppo. E i lavori di gruppo di solito sembrano livellare verso il basso. Diversi professori, inoltre, ammettono di assegnare lavori di gruppo per velocizzare le revisioni, avendo quantitativamente meno progetti da supervisionare. Ma non c’è una gestione vera e propria del lavoro in gruppo. Non credo che tendano a livellarsi verso il basso. Ritengo che il lavoro di gruppo sia qualcosa di necessario in qualsiasi piano di studi. Alcuni docenti lamentano il fatto di non riuscire, nei lavori di gruppo, a distinguere quale sia il contributo di ognuno degli studenti/componenti. Ma anche in questo caso è una questione di struttura, dipende, in sostanza, dalla capacità che ha il docente-coordinatore di gestire il gruppo. La mia esperienza, per esempio, dice il contrario. Nei miei corsi ho l’abitudine, quando supervisiono lavori di gruppo, di assegnare il ruolo di “bastian contrario” a rotazione, cioè la persona che ha il compito programmatico di mettere in crisi l’intero progetto, perché solo in tal modo si riesce ad acquisire una capacità critica nei confronti del proprio lavoro, si impara a scorgere difetti, incoerenze, lacune, facendo così infine salire il livello complessivo del progetto. Si tratta pertanto di responsabilizzare i componenti del gruppo, assegnando ad ognuno un preciso compito, che peraltro cambia a rotazione. Non è difficile, così facendo, neppure individuare e valutare le qualità dei singoli membri. E ciò che più di altro conta è l’abituare gli studenti a lavorare in maniera interdisciplinare. È altamente improbabile che il progettista, domani, continui a lavorare da solo, nel proprio studio, secondo il modello dell’autore. È il mercato che non richiederà più quel tipo di progettista, o quantomeno molto raramente. Il fatto poi che all’interno di team di lavoro multidisciplinare spicchi la personalità di un leader è cosa ben diversa. La gestione delle relazioni, dei conflitti all’interno di un gruppo di lavoro resta, tuttavia, una delle questioni più complesse. E anche per questo il lavoro in gruppo è molto più faticoso del lavoro svolto singolarmente, se gestito in un certo modo, e di conseguenza non è affatto vero che sia semplicemente un modo per velocizzare le revisioni dei progetti degli studenti. Come al solito non esiste un modello buono e uno cattivo; esiste la gestione di un tale modello che può essere buona o cattiva. Di contro posso riportare l’esperienza che ho avuto a Roma, quest’anno, in cui sono stata chiamata a insegnare in un corso del primo anno, e in quel caso ero vincolata a far svolgere agli studenti progetti singoli: posso


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garantire che il livello si è rivelato completamente diverso, sicuramente più basso. Potrei infine, addirittura, fare l’esempio di un’esperienza di tesi: ho seguito quest’anno cinque ragazze che hanno lavorato insieme, ma su cinque argomenti differenti, quindi ognuna con un proprio argomento. Il livello – posso assicurarvi – è salito moltissimo. Perché in un contesto collettivo è chiaramente favorito il confronto, circolano agevolmente suggerimenti, suggestioni ed anche critiche. C’è un libro di Domenico De Masi5 nel quale egli ha svolto una ricerca sui gruppi creativi di inizio secolo e ne ha individuati dieci. Benché alla controversa parola creatività io preferirei sostituire innovazione, nella sua analisi, che spazia dal Circolo matematico di via Panisperna a Roma, alla Stazione zoologica Anton Dohrn di Napoli alla Wiener Werkstaette di Vienna, De Masi dimostra come sia proprio la multidisciplinarietà dei saperi a generare creatività – ovvero a creare innovazione – sostenendo, infine, che la creatività non è mai singola ma collettiva. Questo fa pensare un po’ alla natura di Urbino, perché l’Isia rappresenta per la maggior parte di noi una pausa rispetto al contesto di provenienza, dando la possibilità di catapultarsi in una dimensione che favorisce molto la concentrazione. Ma si tratta pur sempre di una realtà chiusa su se stessa. Spesso non basta il background pregresso di ognuno, sembrano piuttosto necessarie conoscenze, competenze sviluppate in altri contesti e ambiti disciplinari. Però, in questo contesto chiuso, avete la possibilità di confrontarvi a vicenda. È come stare in una piazza in cui confluisce una moltitudine di persone diverse. Certo sarebbe interessante essere contaminati da virus: Zygmunt Bauman, Richard Sennett, un musicista… insomma degli stimoli che vengano dall’esterno. Il programma di scambio Erasmus era nato proprio su questa idea. Di fatto poi l’applicazione è stata fallimentare: spesso gli studenti sembrano molto più interessati ad ottenere facilmente quei crediti di cui hanno bisogno e andar via. Invece il programma Erasmus era stato progettato come un modello intelligente perché mirava proprio a creare questa interrelazione tra facoltà europee differenti. E, come spesso avviene, una cosa sono i modelli elaborati e altra cosa si rivela la gestione pratica di quei modelli. 5.  D. De Masi, La fantasia e la concretezza. Creatività individuale e di gruppo, Rizzoli, 2003.


INTERVISTA A DANIELA PISCITELLI

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Devo inoltre dire che noi italiani siamo peraltro particolarmente bravi nel non farli funzionare. Possiamo concludere proponendo questo interrogativo: alcune peculiarità delle scuole e dei corsi di design (al di là delle varie specializzazioni) – ad esempio lavoro di gruppo, didattica laboratoriale – possono essere prese come riferimento per lo sviluppo di modelli e metodi da declinare in altri ambiti disciplinari, per altre facoltà? Magari! Il problema è che non ne abbiamo. Insomma, in Italia non ci sono le facoltà, non ci sono i corsi, come possiamo immaginare addirittura dei modelli? Le facoltà o i corsi che esistono oggi sono nient’altro che il frutto di casualità. Soltanto lo Iuav di Venezia o il Politecnico di Milano hanno lavorato da anni per questo. Per il resto c’è poco. Come si fa allora a sviluppare un modello su una realtà che è ancora troppo giovane e troppo frammentata? Le grandi scuole, quali per esempio il Royal College of Art di Londra oppure il MIT di Boston, sono riusciti a istituire dei modelli oggi esportabili in tutto il mondo perché sedimentati nel corso del tempo. A noi resta ancora tutto un lavoro da fare. Per dirne alcune: perché la storia del progetto grafico in molti corsi di laurea non si insegna? Perché il basic design si insegna solo a Venezia? In questo senso molte delle scelte fatte sono soltanto dovute ad una serie di casi o circostanze, o meglio alla capacità di un singolo docente e alla sua responsabilità rispetto all’introduzione di alcune materie, metodi, modelli didattici, e così via. È per questo che allora Pieracini6 invita voi studenti a proseguire il dibattito e confermare la vostra presenza in ambito accademico. Le uniche due personalità che fossero in grado di fare qualcosa del genere, a mio parere, erano Anceschi – che in parte a Venezia lo ha fatto, avviando una scuola che bene o male funziona, pur essendo ormai in pensione – e Lussu, che però, per una serie di valide ragioni ha scelto di rinunciare. Io penso, inoltre, che uno degli errori commessi sia stato quello di aver frammentato l’offerta formativa in design e design della comunicazione in una serie di piccoli corsi senza troppo seguito e di dubbia qualità. Probabilmente sarebbe stato meglio lavorare alla costituzione di quattro grandi scuole di design, omogeneamente distribuite sul suolo italiano, in cui far confluire le poche docenze strutturate, in modo da incanalare le energie, provando a far crescere delle realtà solide e importanti. 6.  Attuale direttore dell’Isia di Urbino.



Appendice due Conversazione con Giovanni Lussu

A cura di Filippo Taveri – 29 novembre e 17 dicembre 2012



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In base alla traccia fornita per una conversazione sulla formazione dei progettisti, Giovanni Lussu ha argomentato toccando – il più delle volte riformulandone le premesse – i vari temi proposti e altri, più lontani, che aiutassero a chiarire il suo punto di vista. Quella che segue è la ricostruzione, sicuramente infedele e filtrata da chi scrive, di un paio di conversazioni avute tra Urbino e Roma nei mesi di novembre e dicembre 2012, qui presentate come un lungo discorso impersonale. Premessa Anzitutto, è fondamentale fare una premessa che suonerà scomoda o antipatica. Perché, nell’affrontare la questione dell’educazione al design e alla grafica, si intrecciano una serie di argomenti e livelli diversi, per cui è necessario rivedere molti dei presupposti che vengono dati per scontati. Una posizione che tende ad essere molto radicale: in sostanza, la tradizione del design, come si è configurata nel Novecento, non sembra abbia fatto grandi passi in avanti. La comunicazione visiva, tuttavia, resta ancora un fatto importante: è un modo per guardare e comprendere le cose e conserva un grosso potere evolutivo. Ha di fatto segnato l’esistenza dell’homo sapiens. A ben vedere la storia dell’umanità è segnata da operazioni di notazione e scrittura continue, pertanto le rappresentazioni grafiche in senso lato1 sono da considerare patrimonio della specie umana. Si potrebbe far partire questa storia già nel Paleolitico superiore, epoca in cui la scrittura ha avuto una straordinaria esplosione – e da allora sembra non ci siano state altre enormi rivoluzioni nella storia della scrittura – non solo per le note pitture murali di Lascaux o Altamira, ma per una quantità enorme di materiale non prettamente a scopo sacrale ma notazionale: ad esempio mappe, computazioni, liste e così via. Ma si può facilmente notare che, tuttavia, non esistesse un designer per questo. E così è stato per millenni fino a che non è comparsa, nel Novecento, questa categoria professionale (i designer) che si è arrogantemente imposta, con poche cose interessanti, con pochi esempi densi di valore conoscitivo: unico caso progettuale davvero 1.  Ovvero nel senso della radice nel verbo greco grapho, propriamente: scrivo, incido.


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valido è forse quello di Otto Neurath e dell’elaborazione dell’Isotype, un autentico servizio di informazione, che permettesse ai cittadini di conoscere in modo efficiente ciò che accade. Un parere sull’attuale assetto della formazione al design in Italia Tracciando invece la storia della formazione al design in Italia, non si può delineare una causa univoca, non si può ovviamente individuare un unico motore dell’attuale situazione, ma c’è tutta una serie di equivoci ed eventi che si sovrappongono. Pertanto bisogna prima di tutto chiarire alcune questioni. Ad esempio, l’idea di questa scatola unica2 del “design” all’interno della quale si possa far rientrare sia il product design sia il design della comunicazione – oltre che tutte le altre specie e sottospecie – è nient’altro che un enorme equivoco storico. Il che non sarebbe soltanto concettualmente errato, ma soprattutto non corrispondente a quanto accade in realtà. E anche analizzando i percorsi di questi diversi ambiti – tanto più se considerati come discipline– molte volte si operano forzature concettuali di fatto inesistenti. Una cosa, del resto, esclusivamente italiana, poiché in inglese la parola design continua ad essere un sostantivo e verbo di uso comune: design vuol dire progettare, impostare, e questo in tutti gli ambiti della vita. Non è diventata, insomma, questa cosa imprecisata di cui si parla solo in Italia. In area anglosassone e americana la tradizione grafica – che affonda le proprie solide radici nel disegno dei caratteri – è sempre stata ben distinta dal design di prodotto. Un fondamentale errore è stato, dunque, quello di aver considerato la grafica come versione minore dell’industrial o product design – in Italia sotto l’insegna di “disegno industriale”– accentuandone la funzione ancillare. Per altri versi nelle scuole ha continuato a prevalere la linea “artistoide”, tanto che Gillo Dorfles, ne Le oscillazioni del gusto, può ben parlare di «  pinacoteca minore  »3 in riferimento ai prodotti della grafica, denunciandone la derivazione dalle avanguardie del Novecento, e mettendo quindi in luce l’autorialità e l’artisticità proprie di molta grafica italiana4. 2.  Enzo Mari per descrivere la confusione che regna intorno alla parola design usa l’interessante espressione di parola-valigia (E. Mari, F. Alfano Miglietti, La valigia senza manico. Arte, design e karaoke, Bollati e Boringhieri, Torino 2004). 3.  G. Dorfles, Le oscillazioni del gusto, Lerici editori, 1958. 4.  Nel suo articolo Miele dalla rupe: considerazioni di un grafico indolente, apparso su “Progetto grafico” n.20, estate 2012, Giovanni Lussu scrive inoltre: «  Mentre il design di prodotto produce merci, e quindi influisce sulla bilancia commerciale e attira attenzioni e investimenti, quello di


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Sui rapporti con le scuole storiche di design Il Bauhaus, che viene spesso indicato come imprescindibile esempio di scuola di design, era semplicemente una tra le tante scuole attive nella Germania di quegli anni. Per esempio Paul Renner, che ha disegnato l’unico vero carattere tipografico associabile al movimento moderno, insegnava grafica e tipografia presso la Kunstschule di Francoforte, era tra i membri del Deutscher Werkbund, prima di diventare direttore della Graphische Berufschule, la celebre scuola di arti grafiche di Monaco. Colui che è invece, in assoluto, il personaggio fondativo della grafica moderna, Jan Tschichold, era stato chiamato dallo stesso Renner a insegnare nella scuola di Monaco di cui era direttore. In altre parole, entrambi avevano svolto un percorso autonomo nella tradizione tipografica e insegnavano in scuole, all’epoca validissime, che non avevano nulla a che fare col Bauhaus, troppo spesso considerato così fortemente influente sul movimento moderno razionalista, e di conseguenza sulla grafica modernista. A ben vedere, la scuola era tutt’altro che impostata su principi razionali. Basta considerare che uno dei docenti più famosi, Kandinskij, era teosofo e pittore astratto difensore dello “spirituale nell’arte”, ovvero niente di più irrazionale. Perfino Klee aveva una cultura complessivamente provinciale e tutte le pretese metodologiche che gli si attribuiscono sono più che altro costruite a posteriori; i suoi lavori, per quanto raffinati e artisticamente interessanti, non sono altro che il frutto di una poetica del tutto personale. In particolar modo, la scuola non aveva affatto consapevolezza del progetto di comunicazione, né sufficiente conoscenza e padronanza della tipografia. Il Bauhaus all’inizio, così come alla fine della sua vicenda, non ha prodotto altro che grafica commerciale, pubblicitaria, senza alcun orizzonte conoscitivo più denso. Nella scuola, ad esempio, non si conosceva nulla dell’Isotype, che cominciava a diffondersi già nel ’19; l’idea delle rappresentazioni grafiche a fini conoscitivi era totalmente sconosciuta: da questo punto di vista, il Bauhaus era la retroguardia. Il laboratorio di tipografia, comunicazione non può che essere visto come secondario; a meno che non riesca ad acquisire grande prestigio sociale e culturale. Non ci si arriva né con la “creatività” né con il corporativismo, né tantomeno con l’autorialità, che gli investimenti li convoglia soltanto sugli autori stessi  ». Sullo stesso rapporto di dipendenza Daniela Piscitelli, con un gioco di parole più volte utilizzato (anche a Urbino durante il suo intervento Design della comunicazione e Università: stato dell’arte durante la giornata di studio La formazione del grafico, 30 novembre 2012), invita a soffermarsi sulla differenza tra design della comunicazione e comunicazione del design.


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inoltre, elaborava cose che trascuravano (soprattutto per ignoranza) una serie di conoscenze della tradizione percettologica e si basavano, invece, sulla presunzione di efficienza intrinseca al razionalismo: ne risultano caratteri protervi, sperimentazioni tipografiche frutto di pure astrazioni e ideologie (geometrizzazione e semplificazione totalizzanti). Il tratto negativo di quella esperienza resta quindi una cattiva didattica fondata su arroganza e ignoranza. Lo stesso vale per la scuola svizzera che negli anni Sessanta fa dell’uso dell’Helvetica – un carattere tipografico che altro non è che l’interpretazione di caratteri commerciali inglesi di inizio Ottocento ridisegnati con tratto costante sulla base del Caslon – la bandiera di una presunta modernità. Perfino Max Bill, studente al Bauhaus di Dessau prima di essere co-fondatore e primo rettore della Hochschule für Gestaltung di Ulm, era di fatto un artista e il razionalismo grafico che promuoveva derivava da scelte puramente estetiche e stilistiche, non da vere priorità di efficienza o sintesi comunicativa: una pretesa di funzionalismo. In sostanza la risonanza del Bauhaus è soltanto un polverone attorno a un’esperienza poi non così rilevante per la storia del design e della grafica, sollevato da un gruppo di professori e professionisti (per lo più pittori e architetti) emigrati in America dopo la diaspora. La scuola, nel periodo della sua esistenza aveva soprattutto uno stringente bisogno di fondi (ben note sono le difficoltà economiche in cui continuamente versava) e da ciò deriva pertanto la necessità di autopromuoversi volta ad attirare l’opinione pubblica e i vari interessi economici. Sulla vicenda delle scuole di design italiane Tornando allo stato dei corsi in cui si insegna il progetto di comunicazione, il più grave errore commesso nel nostro paese, oltre a quelli prima accennati, è stato sicuramente quello di averli inseriti all’interno delle Facoltà di architettura dei vari atenei italiani. Benché nella grafica italiana ci siano stati anche altri percorsi degni di nota. È il caso di Albe Steiner che, negli anni in cui operava in Italia, ha cercato una via totalmente diversa: nonostante lui fosse profondamente legato alla tradizione del Bauhaus5 le 5.  Steiner era particolarmente legato ad Hannes Mayer, architetto militante comunista e ultimo direttore del Bauhaus, con il quale nel 1964 collabora partecipando in Messico alla campagna di alfabetizzazione e al Taller de Grafica Popular (con il gruppo di Diego Rivera, Alfaro Siquieros, Leopoldo Mendez e altri).


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sue esperienze didattiche – dall’Umanitaria di Milano alla Scuola del libro di Urbino – avevano un taglio differente, anche rispetto al resto delle scuole di disegno industriale e istituti professionalizzanti che sorgevano in Italia. Ma questi costituiscono tuttora un’eccezione nel panorama della cosiddetta offerta formativa attuale, affidata da un lato ai Corsi di laurea in disegno industriale – inglobati nelle Facoltà di architettura – e dall’altro alle Accademie di belle arti e agli Isia, ovvero le istituzioni storicamente e tradizionalmente preposte all’educazione artistica. Lo stesso Giovanni Lussu ha in qualche modo avuto una piccola parte di responsabilità nella costituzione dei corsi universitari. Negli anni novanta, per il rapporto di amicizia che adesso come allora li lega, aveva suggerito a Tonino Paris, fondatore nel 1994 e formalmente presidente del Diploma universitario, poi Corso di Laurea, in Disegno industriale all’Università degli studi di Roma “La Sapienza”, il quale faceva allora parte del CUN6, di inserire la grafica come disciplina all’interno delle Facoltà di architettura. L’insegnamento della grafica comparì dunque nell’elenco delle discipline previsto dal nuovo ordinamento delle Facoltà di architettura, entrato in vigore dall’anno accademico 1993-94. Al Politecnico di Milano, contemporaneamente, veniva attivato nello stesso anno il primo Corso di Laurea in Disegno industriale, all’interno del quale Lussu insieme a Giovanni Baule erano i primi docenti di grafica. Quello che è accaduto in seguito è che questa materia – la grafica – è diventata oggetto dell’interesse di un raggruppamento molto forte, corporativo, di docenti direttamente legati ad alcuni personaggi prestigiosi del mondo dell’architettura, e determinati nel perseguire scelte operate a proprio beneficio. La grafica è stata interpretata come una delle discipline riferite all’ambito di “disegno e rappresentazione”, che nella tradizione di architettura è la prospettiva – quindi a cavallo della geometria descrittiva e del disegno dal vero – travisandone completamente i propositi iniziali. I corsi di grafica sorti poi in giro per l’Italia sono stati monopolizzati da questo indirizzo che nulla aveva a che fare con il design della comunicazione né con la grafica intesa in senso tradizionale.

6.  Acronimo di Consiglio Universitario Nazionale, ovvero l’organo consultivo che raccoglie i rappresentanti delle varie università col compito di formulare pareri e proposte al Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca per le materie che attengono la pianificazione e lo sviluppo dell’offerta delle stesse università.


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È stato Giovanni Anceschi, all’epoca strettamente legato a Maldonado, il quale nei primi anni del Corso di laurea al Politecnico di Milano era la figura più prestigiosa, che divincolandosi tra i meandri delle denominazioni disciplinari è riuscito a riappropriarsi in qualche modo dell’area della comunicazione visiva, sviluppando un nucleo disciplinare che sfuggisse alla prepotente egemonia della progettazione architettonica. Nel corso del tempo sono poi intervenute altre dinamiche per le quali Anceschi è stato emarginato – e alla fine del tutto estromesso – e Maldonado ha cominciato a uscire di scena. Questa sommaria ricostruzione è chiaramente una semplificazione di vicende complesse, non lineari e non per forza logicamente correlate. Ad ogni modo la scelta di affidare la gestione di questi corsi e più in generale dell’insegnamento del progetto di comunicazione a chi ha una formazione principalmente di architetto è stata e continua ad essere un evidente errore. In generale, una componente importante in queste vicende – provando a dare un giudizio realistico – è da attribuire alla meschinità che caratterizza l’ambito del design. La grande stagione del design italiano degli anni Sessanta e Settanta era molto legata allo sviluppo industriale, alla grande opera di ripresa economica italiana; il che ha permesso di dar vita a una serie di cose straordinariamente eccezionali: si pensi, per esempio, al caso della Olivetti. Ma la maggior parte dei grandi designer – professionisti che lavoravano molto con un ritorno economico anche consistente – aveva un orizzonte politico e culturale piuttosto limitato, erano cioè privi di una formazione che li spingesse a porsi concretamente il problema dell’educazione. Caso isolato ed eccezionale è, ancora una volta, quello di Steiner – comunista impegnato e in quanto tale fedele allo statuto del Partito orientato alla costruzione di progresso attraverso l’impegno nel proprio lavoro – il quale, diversamente dai suoi colleghi, ha sempre cercato di portare avanti la sua opera di divulgatore, di didatta al servizio degli altri. Altri personaggi, pur connotati da una forte ideologia, non sono invece riusciti a tradurre in prospettive concrete i propri slanci teorici. C’è infine il fatto che in Italia, ovviamente per quello che riguarda specificamente il progetto di comunicazione, fosse largamente egemone la linea tedesco-svizzera. Egemonia favorita se non generata da tutta quella serie di grafici svizzeri che sono passati per Milano e in particolare per lo Studio Boggeri: per citarne alcuni Xanti Schawinsky, Max Huber, Walter Ballmer, Bruno Monguzzi. Hans Neuburg – tra i fondatori della rivista “Neue Grafik” – ha lavorato a Milano per diversi anni.


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Sul ruolo del designer nella società A proposito della contrapposizione tra il design come attività artigianale da un lato e dall’altro come attività intellettuale di cui si parla bisogna ammettere che essa è del tutto inesistente. Nel senso che non ha alcun riscontro effettivo il secondo di questi due approcci che ci si sforza di intravedere, ovvero il designer visto come “interprete e intellettuale che interviene attivamente nella società”. In Italia, se questo può essere minimamente vero per gli architetti, esiste tuttavia un’incolmabile distanza tra il prestigio di cui questi godono – spesso neanche meritatamente – e quello a cui, invece, i designer ancora aspirano. Quando poi gli architetti vengono chiamati a esprimersi sulle dinamiche politiche, culturali, sociali e via discorrendo, non sembra abbiano nulla di interessante o innovativo da aggiungere. Ma soprattutto: quand’è che il designer si fa interprete e intellettuale? Davvero questo non accade. Se scendiamo poi all’ambito del progetto di comunicazione la rilevanza sociale del progettista è ancora minore. Un qualsiasi teorico della grafica può liberamente e strenuamente esprimere le sue teorie, ma resta di fatto inascoltato, il suo discorso è del tutto autoreferenziale: non va chiaramente oltre le cerchie chiuse e ristrette degli altri designer. Particolarmente illuminanti per questo argomento sono gli scritti di Richard Sennett – sociologo americano – che hanno avuto anche da noi una larga diffusione. Soprattutto il saggio L’uomo artigiano (edito da Feltrinelli), terzo volume di una trilogia che riflette sulle prospettiva della vita sociale, sulla ricerca delle varie forme di collaborazione e di scambio. Qui egli dà una chiara definizione di artigiano: l’artigiano è colui che ha col proprio lavoro un rapporto totale, pieno, complessivo, è colui che nel lavoro mette tutte la propria persona, le proprie aspirazioni e speranze. L’uomo di cui parla non è dunque solo l’artigiano in senso tradizionale – che comunque, ovviamente, conserva questo tipo di rapporto col proprio lavoro – ma può esserlo il programmatore così come, in questo senso, lo è anche il ricercatore che svolge esperimenti in laboratorio se lo fa con un alto grado di coinvolgimento. Pare, ad esempio, che Enrico Fermi fosse estremamente rigoroso nel preparare la strumentazione da laboratorio per gli esperimenti scientifici. Si può affermare che Fermi fosse dunque un grande artigiano, in quanto per lui questi aspetti considerati banali rappresentano la componente implicita della ricerca teorica.


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Questa sembra essere una prospettiva estremamente interessante, oltre che giusta da perseguire, dalla quale non ha senso la contrapposizione tra intellettuale e uomo di fatica: la novità è che il vero intellettuale è l’artigiano. In generale sono da evitare le posizioni che pendono solo da una parte. La dimostrazione è nel fatto che, a ben vedere, se ci si rifà a una vecchia idea di lavoro manuale nel campo del design non si fa altro che pura decorazione. Sulle prospettive future per l’educazione al design Per quanto riguarda il futuro delle scuole, la strada del rafforzamento della base scientifica resta l’unica direzione da percorrere per garantire la sopravvivenza delle stesse. La faccenda della comunicazione è interessante solo se contribuisce all’allargamento delle conoscenze e, di conseguenza, al miglioramento della condizione umana. Non ha senso continuare a confinarla al packaging, alla decorazione degli involucri, alla cosmesi. Tanto meno in questo periodo storico di crisi in cui, come in tutte le fasi di decrescita, le cose futili sono quelle di cui chiaramente si sente meno il bisogno e che più facilmente tendono a scomparire. Nei corsi di design – ma vale un po’ per tutti i gradi d’istruzione – si dovrebbero fornire strumenti che incrementino la consapevolezza del cittadino: introdurre la divulgazione scientifica, approfondire le conoscenze in questo ambito, sviluppare ricerca, senza dimenticare di coltivare il buon senso. L’importanza di una base scientifica forte, rispetto alla linea “artistoide” prevalsa in Italia, si rende evidente passando in rassegna alcuni dei personaggi più noti della nostra cultura: sono molto comuni i casi di matematici e scienziati che, nel corso della propria vita, si sono dedicati anche all’arte, alla poesia o alla musica spesso con ottimi risultati; molto più raro, invece, è che accada il contrario. Per quello che riguarda la grafica, gli scienziati e i matematici hanno effettivamente tutte le capacità per progettare anche libri da soli7. Per confermare lo stato di avanzamento degli ambienti di ricerca scientifica rispetto a quelli del design basta guardare a molti dei risultati di rappresentazione 7.  Si consideri il TeX (attualmente lo standard per tutte le pubblicazioni scientifiche), programma di composizione tipografica espressamente progettato da Donald Knuth nel 1978 per consentire a chiunque di produrre libri di buona qualità con uno sforzo relativamente basso, in grado di gestire, oltre alla formattazione di testo corrente, formule matematiche, tavole, tabelle, che appaiano allo stesso modo su qualsiasi computer.


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o sintesi grafica prodotti da matematici senza alcun contributo di designer: Worldmapper, ad esempio, interamente progettato da matematici e statistici, non sarebbe mai potuto essere neppure ideato da grafici o designer. Insomma è più comodo, oltre che realistico, che gli scienziati, così come gli scrittori, imparino a farsi le cose da soli (acquisendo le basi della composizione tipografica) piuttosto che i grafici si documentino sul contenuto delle informazioni che sono chiamati a organizzare. Qual è, del resto, la base “dura” su cui si fonda la grafica? Il vuoto lasciato da questo interrogativo spinge a non poterla considerare neppure una disciplina, almeno per come si è configurata finora. Di fatto si tratta della capacità di organizzare contenuti in maniera chiara e corretta nel rispetto di qualche semplice nozione di tipografia, capacità che come è ovvio dovrebbe essere insegnata ed esercitata sin dall’infanzia. Inoltre, con la diffusione sempre più ampia del computer, ovvero da quando gli strumenti su cui si è appiattito il progetto di comunicazione sono alla portata di tutti, chiunque lo voglia è perfettamente in grado di fare da sé quello di cui ha bisogno (che prima faceva il grafico). Di conseguenza chi sentirebbe più il bisogno di questi corsi? Per liberarsi dunque dalle pastoie dei software, per superarne i vincoli si rende è necessario agire sulla programmazione (tutti oggi dovrebbero essere in grado di programmare). E per fare questo è logico che chiunque debba avere una minima base di conoscenze matematiche. L’Isia di Urbino avrebbe oggi le potenzialità per andare avanti soltanto continuando ad orientarsi verso una didattica sintetica: bisognerebbe riuscire a creare un percorso unitario, inclusivo, in cui si intreccino molteplici competenze, comprese quelle di ambito scientifico. La stessa esistenza di scuole come questa ha senso solo se esse riescono ad occuparsi delle cose davvero importanti. Inoltre sono da evitare tutti i tipi di simulazione o di “prova sul campo”, in quanto rappresenterebbero solo alcuni degli innumerevoli casi possibili che si incontrano nella pratica professionale, fuori dalla scuola: è insensato costruire su queste singolarità un intero percorso didattico. È necessario invece fare nel periodo della formazione tutto quello che non si potrebbe fare altrove o in seguito; l’ambiente accademico dovrebbe garantire questo. E se per un verso tutti i corsi (anche quelli teorici) dovrebbero essere svolti in chiave progettuale, limitando quanto più possibile la lezione frontale, per un’altro non siamo ancora in grado di prescindere dallo studio che passa per i testi, il libro è tuttora il veicolo privilegiato dell’apprendimento.


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In sintesi, basterebbe da un lato lasciare liberi i bambini di sviluppare le proprie innate capacità sinsemiche e di rappresentazione8; dall’altro inserire un corso semestrale di grafica nelle facoltà scientifiche per liberarsi in un paio di generazioni dei progettisti grafici e di una serie di bisogni indotti. A tal proposito vale la pena citare l’esperienza di Lussu al Master in editoria di Bologna, fondato e diretto da Umberto Eco, nel quale, finché è esistito (circa una decina d’anni), ha tenuto il corso di grafica editoriale. Il master biennale era suddiviso in tre semestri di lezioni frontali e un semestre di stage in casa editrice. Contando una decina di corsi per semestre, di trenta ore ciascuno, i tre semestri di lezioni prevedevano una durata complessiva di novecento ore. Il corso di grafica editoriale era l’unico applicativo: si sfidavano gli studenti, che inizialmente non avevano alcuna nozione di grafica o tipografia, a produrre un elaborato. A parte una giornata di introduzione a QuarkXPress9 per il resto veniva soltanto posto loro il problema: realizzare un libretto di minimo quarantotto pagine, in un formato stabilito, da produrre in tre copie cucite a filo refe. Gli studenti dovevano occuparsi di tutti gli aspetti, dalla scelta del testo alla traduzione all’impaginato fino alla carta. Quello che si nota è che alla fine del corso la qualità dei libri prodotti permetterebbe di ottenere facilmente la lode all’esame di laurea del Politecnico di Milano. Facendo una rapida proporzione tra i corsi universitari quinquennali, che si aggirano intorno alle tremila ore, e il corso di grafica editoriale del master di Bologna si può stabilire un rapporto di uno a cento, vale a dire che basta un centesimo di quello che si fa nei corsi universitari di comunicazione visiva per ottenere risultati forse addirittura migliori. È chiaro che si trattasse di ragazzi strutturati, spinti da una forte motivazione – la selezione degli iscritti era molto severa – e che con i libri aveva una certa familiarità. Era sufficiente lanciare loro degli stimoli perché seguissero autonomamente il percorso tracciato e apprendessero con rapidità.

8.  Sarebbe anche il caso di rivedere il processo di apprendimento della scrittura: liberare i segni dalla tirannia dell’alfabeto, per sfuggire alla funzione della scrittura come pura trascrizione del linguaggio verbale, magari prima imparando a tracciare segni e poi i suoni ad essi associati. 9.  Applicazione di dektop publishing, la cui prima versione è stata rilasciata nel 1987.






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