SPECIALI: CARNAGE | VENEZIA
OLMI | VAN SANT | REFN | SORRENTINO | SEGRE | ALMODテ天AR
CINEFORUM 558 CINEFORUM
SPECIALE
David Cronenberg
A DANGEROUS
METHOD Cineforum Anno 51 N. 8 Ottobre 1 竄ャ 8,00
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EDITORIALE
LE PARTI DEL DISCORSO Strapotere veneziano su questo numero. Oltre al rendiconto sulla Mostra, con le pagelle stilate dai suoi esigenti collaboratori e la selezione dei film che – dopo aver passato il vaglio della discussione redazionale – si sono meritato lo spazio adeguato sulle sue pagine, «Cineforum» offre un’apertura importante con due speciali riservati a A Dangerous Method e Carnage. Due film che non sono passati in laguna senza lasciare segno. Al centro di valutazioni disorientate e talvolta disorientanti il primo, capace di aggiudicarsi giudizi anche agli antipodi fra loro, spartiti fra quelli che lo ritengono una magistrale incursione cronenberghiana in un universo solo apparentemente estraneo, ritagliato ed esplorato con strumenti e prospettive del tutto coerenti al rigore e alla crudeltà di chi ha firmato capolavori come Inseparabili o Crash o A History of Violence. Scegliendo di dedicargli speciale e copertina «Cineforum» dichiara apertamente a quale dei due schieramenti ha deciso di appartenere. Decisamente più in grado di catalizzare consensi quasi unanimi, invece, il film di Polanski: nel quale il Nostro fa mostra ancora una volta di straordinaria maestria registica. Dopo essersi imposto di misurarsi con un testo di cui non vuole in alcun modo rin-
negare la derivazione teatrale, e di muoversi dentro lo spazio delimitato di poche stanze e dei pochi metri di corridoio che collegano la porta d’ingresso all’ascensore, Polanski trasforma diabolicamente gli elementi di costrizione e di oggettiva limitazione in altrettanti propulsori con cui esaltare le sue qualità di metteur en scène e i punti fermi della sua visione del genere umano. Al di là delle evidenti differenze, i punti di contatto tra i due film sono tutt’altro che inesistenti. Una lettura attenta dei contributi agli speciali non potrà che confermare questa constatazione; azzardando un po’ provocatoriamente, vorremmo addirittura proporne una visione consecutiva (come suggerimento, ma senza obbligo: prima Cronenberg, poi Polanski) come dittico sul processo di denudamento psichico che la pratica del discorso conduce con sé quando portata alle sue estreme conseguenze (che non sono mai disgiunte dal precipitare parallelo delle azioni, sia quelle di cui si crede di avere il controllo sia quelle cui non si può che sottostare). Ci si sposta all’Italia, nello specifico del contesto storico problematico, e in Italia. (cinema italiano), con i due film di Ermanno Olmi e Andrea Segre. Intreccio di genti, di approcci, di domande, di paure, di dubbi. La parola, l’uso del linguaggio e dei linguaggi, il discorso diventano anche qui chiavi di volta nuova.
ADRIANO PICCARDI
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SPECIALE CARBAGE
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Ottobre 2012
CINEFORUM SOMMARIO EDITORIALE Adriano Piccardi/Le parti del discorso SPECIALE CARNAGE Anton Giulio Mancino/Figure della violenza Roberto Chiesi/Il rituale degenerato Giampiero Frasca/Lo stereotipo e il fuoricampo Luca Malavasi/Parole, parole, parole 15 SPECIALE A DANGEROUS METHOD A History of Power Del disciogliere corpi in parole Se non fosse di Cronenberg... Quella è la porta I FILM Il villaggio di cartone di Ermanno Olmi L’amore che resta di Gus Van Sant Drive di Nicolas Winding Refn This Must Be the Place di Paolo Sorrentino Io sono Li di Andrea Segre La pelle che abito di Pedro Almodóvar Tomboy Blood Story L’alba del pianeta delle scimmie Il debito Niente da dichiarare? 45
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SPECIALE VENEZIA L’Olimpo e l’Es 51 Il meglio delle varie sezioni 54 Le “pagelle” di «Cineforum» 71 Film in concorso 74 Orizzonti 77 Controcampo italiano 81 Le giornate degli autori 82 Settimana della critica 83
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FESTIVAL Umberto Rossi/27° Festroia a Setubal
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LE LUNE DEL CINEMA a cura di Nuccio Lodato
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LIBRI a cura di Ermanno Comuzio
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CINEFORUM rivista mensile di cultura cinematografica anno 51 n. 8 Ottobre 2011 Edita dalla Federazione Italiana Cineforum Direttore responsabile: Adriano Piccardi adriano@cineforum.it Comitato di redazione: Chiara Borroni, Gianluigi Bozza (direttore editoriale), Roberto Chiesi, Bruno Fornara, Luca Malavasi, Emanuela Martini, Angelo Signorelli, Fabrizio Tassi Segreteria di redazione: Chiara Boffelli, Arturo Invernici, Daniela Vincenzi Collaboratori: Sergio Arecco, Elisa Baldini, Alberto Barbera, Marco Bertolino, Francesca Betteni-Barnes D., Pietro Bianchi, Pier Maria Bocchi, Paola Brunetta, Francesco Cattaneo, Carlo Chatrian, Andrea Chimento, Davide Ferrario, Andrea Frambrosi, Giampiero Frasca, Leonardo Gandini, Cristina Gastaldi, Federico Gironi, Giuseppe Imperatore, Lorenzo Leone, Fabrizio Liberti, Nuccio Lodato, Pierpaolo Loffreda, Alessandra Mallamo, Anton Giulio Mancino, Giacomo Manzoli, Michele Marangi, Alberto Morsiani, Umberto Mosca, Lorenzo Pellizzari, Alberto Pezzotta, Tina Porcelli, Piergiorgio Rauzi, Nicola Rossello, Lorenzo Rossi, Alberto Soncini, Antonio Termenini, Dario Tomasi, Paolo Vecchi, Alberto Zanetti.
IN COPERTINA A Dangerous Method di David Cronenberg
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Progetto grafico e impaginazione: Filippo Umena & Claudio Graziani Amministrazione: Cristina Lilli, Sergio Zampogna Redazione e amministrazione: Via Pignolo, 123 IT-24121 Bergamo tel. 035.36.13.61 fax 035.34.12.55 e-mail: info@cineforum.it http://www. cineforum.it Abbonamento annuale (10 numeri): Italia: 60,00 Euro Estero: 80,00 Euro Extra Europa via aerea: 95,00 Euro Versamenti sul c.c.p. n. 11231248 intestato a Federazione Italiana Cineforum, via Pignolo, 123 24121 Bergamo e-mail: abbonamenti@cineforum.it spedizione in abbonamento postale DL 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB Bergamo stampato presso la Stamperia Stefanoni Roma via dell’Agro, 10 Distribuzione in libreria: Joo Distribuzione via F. Argelati 35 20143 Milano tel. 028375671 fax 0258112324 e-mail: lujoo@tiscalinet.it Iscritto nel registro del Tribunale di Venezia al n. 307 del 25-5-1961 associato all’USPI Unione Stampa Periodica Italiana
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SPECIALE
Roman Polanski
CARNAGE FIGURE DELLA VIOLENZA Anton Giulio Mancino
Anda voluptatur aliciminus. Ma olum ratem liandip santius as rem ut min eaturehenis min pore sae liqui ra diti ommodipsam debit pa nonsequi bla del idite liqui ra diti ommodipsam debit pa nonsequi bla del idit
Sgombriamo subito il campo da ovvie considerazioni sul rapporto tra il film e la commedia originale, considerazioni riguardanti – si sa – la bravura degli interpreti, la qualità imprecisata delle inquadrature e del montaggio. Cose così insomma, utili nella loro puntuale genericità a evitare semmai di ammettere l’inammissibile: la stretta, legittima dipendenza della trasposizione cinematografica dal contenuto verbale e dalle indicazioni di scena già presenti nell’originale. Una dipendenza che da sola basta ad azzerare l’intero prontuario di luoghi comuni, frutto blandamente consapevole di una mancanza cronica di specifici argomenti alternativi. Del resto la scelta fin troppo ragionevole di scrivere la sceneggiatura di Carnage non da solo, ma a quattro mani con Yasmina Reza, comporta la ferma intenzione di Roman Polanski di non ostentare la propria ingombrante presenza a spese del testo di partenza, che non gli appartiene se non come lettore o come spettatore. Ecco perché avrebbe preferito ritagliare nel film, per sé, un coerente, allusivo e consequenziale ruolo ai limiti dell’invisibilità, consimile a quelli hitchockiani di un tempo efficaci ai fini dell’enunciazione del discorso da parte dell’autore: quello dell’anonimo inquilino allarmato dalle voci e dal crescendo violen-
to dei vicini che sta investendo a fasi alterne anche il pianerottolo. Non dimentichiamo che Le locataire (cioè “l’inquilino” o “l’affittuario”) era l’austero titolo originale di L’inquilino del terzo piano (1976), ove in via del tutto eccezionale Polanski si eraconcesso il perverso privilegio di esserne protagonista. DIFFERENZA E RIPETIZIONE In parole povere, Polanski non intende strafare. Toglie un po’ qua, aggiunge un po’ là. Da un lato rimane il rispetto della scrittura teatrale, il puro piacere del testo altrui, che non può essere messo in discussione. Dall’altro, è possibile cogliere già del titolo cinematografico, semplicemente Carnage, un ridimensionamento in senso ateo rispetto a quel Le dieu du carnage di stanza in teatro. Per primo ci tiene all’efficacia, a monte, della commedia. Non sente il bisogno di trasformarne l’impianto, di tradirlo vistosamente pur di dimostrare a tutti di esserci, anche perché è esattamente questo il punto: lui (quasi) non c’è. Non potrebbe. Non negli Stati Uniti almeno, dove ha voluto che fosse trasferita l’azione cinematografica. Mettiamola così: da buon ex “affittuario” di una scena domestica, talmente pericolosa e intrisa, già a teatro, di quel potenziale violento da fare al caso suo, la ritiene meritevole di una secon-
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SPECIALE da occasione, al cinema, spostandola senza troppo però traslitterare il dispositivo. Il passaggio dalla Francia agli Stati Uniti, da Parigi a New York, nasce dal bisogno di evidenziare uno spazio recitativo e – come vedremo – “figurale” a lui nella realtà interdetto, inaccessibile. L’assenza dell’autore cinematografico costituisce una premessa giuridica, prima ancora che una scelta artistica o una questione teorica. In una simile condizione, coercitiva, penale, assume ben altro significato e valore l’esercizio del dissimulare l’aggressività e simulare la cortesia dei personaggi o meglio “figure”, così come quella di ricreare, ricostruire ambienti e situazioni altrove. Rivisitare solo nominalmente e artificiosamente l’America, dopo averne colto e rese emblematiche le profonde storture strutturali, sociali e antropologiche in Rosemary’s Baby (id., 1968) e Chinatown (id., 1974), diventa una specie di rivincita. Forse una provocazione che si riflette nei due spazi aperti newyorkesi del parco sulla riva del fiume, inequivocabili sotto il profilo geografico, attraverso cui il film deroga
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al prototipo teatrale. Il che vuol dire – per Polanski, s’intende – innanzitutto rendere non più verosimili gli interni riproposti fedelmente sullo schermo, l’appartamento e il pianerottolo, ma almeno parzialmente veri, contestualizzandoli, vale a dire collocandoli in esterni reali. L’ex sventurato, schivo vicino di casa di L’inquilino del terzo piano, sapendo di dover fare i conti con la scena concreta, materiale americana, prende le mosse da una scena teatrale che lo avrebbe altrimenti trattenuto in Europa. Marcare le distanze esteriori non avrebbe aggiunto a questo punto molto a un film la cui radicalità differenziale e l’autonomia di pensiero non si traducono sicuramente, e banalmente, in un intervento esibito, massiccio, fastidioso sul copione o sullo spettacolo giustamente preesistenti e autosufficienti. È piuttosto l’impressione di una ripetizione conclamata a far brillare un intervento effettivo, autentico, compiuto con la dovuta discrezione, in punta di piedi o di macchina da presa: spiando di fatto la commedia da dietro la porta,
“Comportarsi bene non serve a niente, è stupido essere onesti. Ci si indebolisce, si abbassa la guardia…”
la porta della (sua) camera semichiusa e soggetta a proibizione. La discrezione di Polanski si traduce perciò nel restarsene in disparte, quasi esclusivamente. In disparte dietro la macchina da presa, lontano dagli Stati Uniti senza rinunciare a guardare attraverso il suo personale spioncino critico, il mirino, l’obiettivo della macchina cinema, la mitologia, la storia e l’ideologia di una nazione cresciuta con gli scheletri nell’armadio. Le cui pulsioni violente occasionalmente si manifestano in un circoscritto spazio domestico insidioso, teatro ineccepibile in cui si consuma l’incontro/ scontro tra media borghesia benpensante e alta borghesia rampante, esemplificano su scala ridotta lo spirito puritano e ipocrita la nazione che lo ha incriminato. Di differenze quindi si tratta, non di divergenze tra il testo teatrale e il film. Differenze o – se si vuole – diverse prese di posizione, che restano tuttavia il frutto di decisioni condivise dalla coppia PolanskiReza, sceneggiatori alla pari. La trama, le situazioni e le singole battute quasi sempre coincidono, devono coincidere qua-
si sempre. A eccezione cioè di quei casi, concordati, in cui è la nuova ambientazione a richiedere modifiche. Attenzione però: alcune di sicuro sono necessarie, altre meno o comunque non indispensabili, né automaticamente consequenziali. Come dire che se c’è da cambiare qualcosa, per le ragioni di cui sopra, ragioni sottili e polemiche, in una cornice in cui è importante lasciare intatta l’impressione della riproduzione testuale, è bene che ne valga rigorosamente la pena, che si proceda con estrema cautela e cognizione di causa. Il progetto non deve essere snaturato, semmai deve avvantaggiarsi delle circostanze, fare di necessità virtù. Risultare in definitiva arricchito da variazioni più o meno inevitabili, sapientemente marginali, che comprendono i parchi pubblici dove si consuma l’incidente violento tra i ragazzi (in campo nel film, fuori scena nella pièce), i cognomi dei due nuclei familiari (Cowan e Longstreet anziché Houllié e Reille), i nomi propri dei personaggi (Zachary anziché Ferdinand, Nancy anziché Annette, Penelope anziché Véronique, mentre
CARNAGE Roman Polanski TITOLO ORIGINALE: id. REGIA: Roman Polanski. SCENEGGIATURA: Roman Polanski, Yasmina Reza. FOTOGRAFIA: Pawel Edelman. MONTAGGIO: Hervé de Luze. MUSICA: Alexandre Desplat. SCENOGRAFIA: Dean Tavoularis. COSTUMI: Milena Canonero. INTERPRETI: Jodie Foster (Penelope Longstreet), Kate Winslet (Nancy Cowan), Christoph Waltz (Alan Cowan), Elvis Polanski (Zachary),Tanya Lopert (la voce della madre di Michael), PRODUZIONE: Saïd Ben Saïd, Oliver Berben, Martin Moszkovicz per SBS Productions/Constantin Film Produktion/SPI Poland. DISTRIBUZIONE: Medusa. DURATA: 79’. ORIGINE: Francia/Germania/Polonia/Spagna, 2011.
In un parco newyorkese un ragazzo, Zachary, ferisce il compagno di scuola, Ethan. I genitori della “vittima” decidono così di incontrare quelli del “carnefice” per stabilire assieme come comportarsi. Questi ultimi vengono accolti con grande cordialità. Tutti e quattro ostentano inizialmente una grande, reciproca disponibilità che progressivamente, però, lascia trasparire differenze sociali e culturali insormontabili. Alan, padre di Zachary, spregiudicato avvocato di rango, è quasi sempre al cellulare poiché impegnato nella strategia difensiva di una losca multinazionale farmaceutica, mentre sua moglie Nancy, dietro la cui facciata contrita serpeggia un persistente bisogno di giustificare l’azione violenta del figlio, è sempre più insofferente del disinteresse dell’uomo verso l’accaduto. A sua volta Penelope, la madre di Ethan, appassionata d’arte, fiera progressista e in procinto di scrivere un libro sul Darfur, nasconde con un atteggiamento politicamente corretto la ferma volontà morale di redarguire sia la condotta di Zachary che quella dei suoi genitori, mentre suo marito Michael, cui viene rimproverato di aver abbandonato per strada il criceto di casa, si sforza di mostrarsi
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ti: non solo i due padri belluini, Michael/ Michel e Alan/Alain, ma anche una delle due madri, la molto abbiente Nancy/Annette che ha un rapporto con la cultura e l’arte di mera compiacenza, competizione e copertura («Lei è un’appassionata di pittura. [...] Anch’io adoro Bacon. [...] Crudeltà e splendore»), non diversamente da Penelope/Véronique, che pure ci crede o ci campa («Di pittura, Di fotografia. È un po’ il mio mestiere. [...] Ah, sì Bacon. [...] Caos. Equilibrio»).
“Comportarsi bene non serve a niente, è stupido essere onesti. Ci si indebolisce, si abbassa la guardia…”
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quelli di Michael e Alan sono semplici adattamenti anglofoni dei corrispondenti francesi Michel e Alain). Viene invece conservato tale e quale quello di Ethan, perché intoccabile: comporta un richiamo prontamente esplicitato nel film alla nazione americana filtrato dall’emblema leggendario dell’eroe violento, virile e paradigmatico John Wayne, che va ad associarsi al cavaliere medievale Ivanhoe. Ethan, in omaggio all’implacabile protagonista del fordiano Sentieri selvaggi (The Searchers, 1956), assegnato con ogni probabilità da uno solo dei genitori, il maschio Michael/Michel che non sopporta né le buone maniere né le propensioni intellettuali della moglie, è però un nome che poco si addice al figlio ferito nello scontro fisico. E che forse calzerebbe meglio al coetaneo Zachary/Ferdinand, il quale ha saputo colpire per primo, e duramente, reagendo all’inaccettabile esclusione dal gruppo, secondo il classico schema wayniano. Sta di fatto che sulla figura e sull’ammirazione del protagonista di The Searchers convergono un po’ tutti gli adul-
BACON INCONTRA DIKENS Ma la vera chiave di volta del discorso differenziale del film è il recupero inaspettato delle funzioni del telefonino di Alan, veicolo insopportabile dell’ingiusto sistema legale: questo squillo finale sorprende e inibisce tutti, interrompe la spirale degenerativa di quelle coppie mai fisse (Alan-Nancy contro Penelope-Michael, ma anche Alan-Michael contro NancyPenelope, senza contare i conflitti interni tra Alan e Nancy o tra Penelope e Michael, ripresi dalla commedia originale). Soprattutto serve a dar ragione, a rendere (in)giustizia al peggiore dei quattro personaggi, Alan, coerente almeno con una concezione negativa del mondo, dell’uomo, della famiglia. Quindi anche del figlio, che potrebbe difendere – da avvocato – per ragioni d’ufficio, come fa con la multinazionale incriminata, pur considerandolo un soggetto irrimediabilmente pericoloso. Alan, secondo Polanski, diventa il vero eroe mostruoso che spicca, per grado di pericolosità sociale e intellettuale, all’interno di un gruppo composto da due tribù minate da tensioni sotterranee, poiché almeno crede davvero al Male assoluto, divino, metafisico. Costui se non altro dà ragionevolmente conto dei mali del mondo intero, al di là delle pareti domestiche occasionali. Lontano dalle quali, lontano cioè da qualsiasi conformazione razionale di facciata o d’arredamento, la riconciliazione dei ragazzi o l’incolumità e la libertà del criceto imprevedibilmente possono avvenire o fortunatamente avere maggiori possibilità. Polanski però rifiuta ogni intercessione divina. Per lui infatti dio, ogni dio, si è estinto da tempo, dalla Seconda guerra mondiale, compreso quello che opera sul
fronte malefico, l’eventuale “dio del massacro” del titolo alla commedia, cui si è sostituito il puro “massacro” del titolo del film. In una cornice o quadro d’insieme, che rimanda a una mise en abîme incessante, reiterata, modulare con una specifica connotazione pittorica, in cui i ragazzi-figli all’esterno crescono mentre gli adulti genitori all’interno regrediscono senza via di uscita come nel buñueliano L’angelo sterminatore (El Ángel exterminador, 1962), tutto appare tragicomicamente semplificato. Complice, in questa dimensione nietzschiana, nel bene e ancora più nel male, o al di là dell’uno e dell’altro, l’eterno ritorno che ricongiunge ma non assimila (se non nella forma) la sequenza iniziale a quella finale. E nel contempo consente ad Alan di recuperare l’arma infernale vedendo trionfare la sua demistificata ma schietta teologia, dopo aver assunto in corso d’opera una superiorità di fatto, un’antipatia non mascherata che ispira perciò simpatia. Privilegio che in fondo gli spetta in quell’articolato sistema (a)sociale di opposizioni che il film attribuisce non già a persone, forse nemmeno a personaggi di tipo tradizionale, bensì a “figure” di chiara provenienza pittorica, baconiana, cui Polanski è ricorso seguendo e sviluppando l’accenno contenuto nel testo teatrale della Reza. Puntando quindi a esacerbare una chiave non naturalistica ma freddamente “figurale” (nell’accezione che assegna al termine Gilles Deleuze nel suo celebre studio su Francis Bacon, Logica della sensazione), vale a dire in opposizione alla prassi figurativa classica. Sono dunque “figure” quelle di Carnage, sempre perimetrate dalle inquadrature cinematografiche. O da pareti pronte a rinchiuderle, isolarle, sottrarle in quanto “figure” all’impressione di realtà umana. Lasciando che a disumanizzarle ulteriormente e a riprodurre l’effetto prismatico di una violenza molteplice e pluridimensionale contribuiscano di volta in volta campi e controcampi, veicolati inoltre da ogni cornice quadrangolare presente nell’appartamento-contenitore. Cornici di specchi, quadri, fotografie, immagini e oggetti vari iscrivono queste perfette “figure” di una violenza interna, fisiologica, visiva, agita, subita, dichiarata, che abbruttisce e nel contempo libera le fisionomie, gli abiti, le azioni, i linguaggi, le idee.
Go clabus, turo, ununtius; etisquis restor iae modie ad consus virit gratem orei popossus bondum dem istuus C.
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Contiamole. Quante sono le “figure” mutuate dall’autore di Carnage dall’originale teatrale, e riconsiderate con maggiore cognizione di causa attraverso Bacon e Deleuze? Quattro in tutto, come gli spigoli degli oggetti sparsi ovunque. O delle rappresentazioni e delle riproduzioni incorniciate che diventano persino l’oggetto del disquisire, del contendere, contribuendo senza attenuanti generiche allo scambio o all’accrescimento incrociato del potenziale violento di un’intera società su scala globale (che nel Darfur di oggi fa rivivere la Shoah del secolo scorso recepita senza provvidenza in Il pianista [The Pianist, 2002]). Esattamente come nei dipinti di Bacon. Specialmente nei trittici, uno dei quali viene progressivamente scoperto nel film
(il cui manifesto pubblicitario moltiplica e ricolora in orizzontale per tre, con un richiamo al più americano Andy Warhol, ciascuna dei quattro ritratti disposti in verticale). A prima vista si direbbe Three Studies of Lucian Freud della fine degli anni Sessanta. Degno contrappunto dell’Ebenezer Scrooge interpretato nella recita scolastica da Zachary (Scrooge/Zachary contro Wayne/Ethan: colui che alla fine viene perdonato contro colui che alla fine perdonerà). Un riferimento dickensiano, ottocentesco ma in realtà sempre contemporaneo. Che specialmente all’autore del più recente, analogamente fedele Oliver Twist (id., 2005) cinematografico sembra voler dire – e far dire – molto. Più che all’autrice del pur indispensabile Le dieu du carnage dove infatti non era stato previsto.
IL RITUALE DEGENERATO Roberto Chiesi
Roman Polanski chiude spesso in trappola i suoi personaggi. Fin dal cortometraggio giovanile, realizzato per la Scuola di Cinema di Lódz, Morderstwo (Omicidio, 1956) dove un uomo, addormentato nel suo piccolo appartamento, viene pugnalato al cuore da uno sconosciuto introdottosi silenziosamente, a Il coltello nell’acqua (Nódz w wodzie, 1962), dove due uomini e una donna condividevano, in un crescendo di rivalità, lo spazio angusto di una barca a vela, per proseguire con l’appartamento londinese dei delitti e della follia di Carol in Repulsion (id., 1965), con il castello isolato di Cul-desac (id., 1966), con un altro castello, ma popolato dai vampiri, in Per favore non mordermi sul collo (The Fearless Vampire Killers, 1967), all’appartamento newyorchese dove la protagonista di Rosemary’s Baby (id., 1968) è assediata da un clima di congiura demoniaca. Anche la commedia Che? (1972) è chiusa in una villa sulla costa amalfitana e l’appartamento affittato da Trelkovsky in L’inquilino del terzo piano (Le locataire, 1976)
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reca anch’esso, come quello di Rosemary, i segni di un passato sinistro. Poi l’elenco potrebbe continuare con la nave da crociera di Luna di fiele (Bitter Moon, 1992), dove arriva all’epilogo il gioco sadomasochista fra Oscar e Mimì, e soprattutto con la casa dove Paulina tortura il suo antico seviziatore Miranda in La morte e la fanciulla (Death and the Maiden, 1994). Più recentemente, una delle sequenze più belle di Il pianista (The Pianist, 2002) vede Szpilman nascosto in un appartamento a Varsavia durante l’insurrezione del ghetto e il Ghost Writer di L’uomo nell’ombra (The Ghost Writer , 2010) scopre durante la sua reclusione dorata nel rifugio insulare della East Coast che il suo predecessore non era morto in modo casuale. Una linea ricorrente nei film huis-clos di Polanski è quindi la cupa, premonitoria eredità che aleggia in uno spazio abitato (come appunto accade in Rosemary’s Baby, L’inquilino del terzo piano e L’uomo nell’ombra): crimini e suicidi avvenuti in un altro tempo stringono in un’analoga maledizione il passato fuori campo
Go clabus, turo, ununtius; etisquis restor iae modie ad consus virit gratem orei popossus bon-
e il presente della storia che l’autore sta raccontando. Ma in Carnage, non c’è nessun segno inquietante, nessun alone sovrannaturale, nessun destino che si ripete, nessun risvolto romanzesco e tantomeno ombre demoniache che aleggiano. A rendere terribile il nuovo film di Polanski è proprio la normalità prosaica in cui è calato: due coppie borghesi, un appartamento a New York, elementi uniti giusto dalla relativa anomalia di una sgradevole circostanza: il figlio della coppia costituita dall’avvocato Cowan e dalla moglie ha colpito violentemente il volto del figlio dei Longstreet, che l’aveva apostrofato, e gli ha rotto due denti, sfigurandolo ma in modo non irreversibile. I genitori dell’aggressore Zachary sono due individui assolutamente normali della buona borghesia newyorchese (Alan Cowan è uno stimato avvocato, Nancy un broker finanziario) e i due genitori della vittima ancora di più: Michael Longstreeet è un rappresentante di articoli domestici e la moglie Penelope una delle tante attiviste sociali e politiche, con velleità di studiosa del mondo africano. L’incontro fra le due coppie è un rituale che inizia obbedendo a determinate regole – la ricerca di una conciliazione, di parole condivise, le buone maniere dell’ospitalità – ma che progressivamente degenera in un’altra forma di rito: una lotta all’ultimo sangue dell’umiliazione e mortificazione reciproca, ma senza sangue. Il solo liquido che viene versato è il vomito, che, volendo, potremmo considerare un sostituto grottesco di quello ematico. Fuoriesce dallo stomaco di Miss Cowan ma colpisce tutti direttamente (i pantaloni di mister Cowan) o indirettamente (il tavolino del salotto dei Longstreet e gli adorati libri d’arte di Penelope). L’episodio avvenuto nel parco è l’anomalia che innesca una corrente progressiva di tensioni reciproche, destinate a diventare sempre più aspre e violente. Anche le due coppie di Carnage sono imprigionate nella trappola di Polanski (via la pièce di Reza). La dimensione della trappola, nel cinema del regista polacco, è caratterizzata dalla sospensione del tempo e dalla claustrofobia dello spazio che non consente vie d’uscita, anche quando non è circoscritto a un appartamento (si pensi alla NewYork di Ro-
semary’s Baby, dove la protagonista non riesce a trovare un rifugio sicuro e viene rimandata alla trappola di partenza). Il tempo della trappola è un eterno presente dove incombe ossessivamente il passato, ossia gli eventi, minuscoli e grandi delle esistenze dei quattro “topi” di Carnage (mentre in Rosemary’s Baby il passato incombente era rappresentato dalla tradizione paterna demoniaca del buon vicino Castevet). La trappola, nel cinema di Polanski, è soprattutto la dimensione dove i personaggi sono sottomessi a un implacabile processo di denudamento: delle loro debolezze, delle loro frustrazioni, delle loro passioni. Lo spazio chiuso diviene un tavolo asettico dove la rabbia, la meschinità, la ferocia che i quattro topi liberano forsennatamente fra di loro, corrisponde alla fisionomia profonda della loro natura, della loro storia. È un gioco al massacro di parole e azioni che si fermano prima dell’irreversibile, del punto di non ritorno. Infatti in Carnage non accade mai nulla di irreparabile: nessuno uccide o nemmeno ferisce qualcun altro. Le aggressioni reciproche rimangono apparentemente nei limiti della legittimità, ma in realtà ognuno cerca di ferire l’altro in profondità e quando non bastano le parole, sono gli oggetti a essere colpiti. Oggetti che, come il telefono di Cowan, hanno assunto un’importanza così essenziale nella sua esistenza che, una volta messo fuori uso, l’avvocato si accascia come un burattino cui avessero reciso i fili. È significativo che nessuno dei quattro topi si ribelli alla trappola, che ognuno accetti di giocare il proprio ruolo fino in fondo, aggredendo moralmente il prossimo e subendone gli assalti. Finiscono per accettare quel gioco al massacro con la stessa, diabolica naturalezza con cui Rosemary, alla fine del film del 1968, finiva per consolarsi di avere partorito un figlio del demonio perché, almeno, il bambino
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SPECIALE
David Cronenberg
A DANGEROUS
METHOD A HISTORY OF POWER Massimo Caruso
Anda voluptatur aliciminus. Ma olum ratem liandip santius as rem ut min eaturehenis min pore sae liqui ra diti ommodipsam debit pa nonsequi bla del idite liqui ra diti ommodipsam debit pa nonsequi bla del idit
Prendiamo l’incipit di A Dangerous Method, con la carrozza a doppio tiro che porta Sabina Spielrein nella clinica di Zurigo. È un prologo che si offre con risonanze nette, furiosamente strattonato nel segno opposto della velocità e della costrizione: la carrozza che corre come priva di freni, tirata da due neri cavalli che sembrano quasi imbizzarriti, al suo interno Sabina Spielrein si dimena nello spazio angusto dell’abitacolo, trattenuta a stento dal padre che la accompagna. Ad abbandonarsi all’istinto, si recupererebbe – neanche tanto incongruamente – la memoria del Dracula (id., 1931) di Tod Browning, con la carrozza che trasporta Renfield sospinta a tutta velocità verso il castello del conte: stessa corsa frenetica, stesso panico del passeggero che guarda fuori, stessa tensione verso una meta che ha il destino (ig)noto del controllo e della possessione. Non che si voglia alludere a uno Jung vampirizzante, ma a ben pensarci quello cui andiamo incontro è pur sempre un melodramma scritto su un gioco di dominio inconscio, su volontà recise nell’abbandono reciproco tra Maestri e Discepoli, su paure, resistenze e pestilenze da portare a ignari popoli... (1). Ma tant’è, ciò che conta è che, in un film come A Dangerous Method, tarato semanticamente sul tempo quieto e lungo dell’ascolto e del
controllo, sulla logica del disquisire e del narrarsi, questa è l’unica scena che Cronenberg scrive nel segno della furia fisica reale (2), del movimento estremo, sospingendola sulla traiettoria di una velocità che sembra voler liberare pulsioni opposte di fuga e contenimento, come a smaterializzare la realtà della situazione nella sua visione inconscia. Del resto, è anche vero che a lavorare di testa su questo stesso incipit si finisce invece dalle parti di Platone e del suo mito del carro e dell’auriga, che nel Fedro spingeva il duplice tiro del cavallo nero dell’istinto e del cavallo bianco dei sentimenti nella sua corsa guidata dalle redini della ragione... Potremmo allora riflettere sulla scelta cronenberghiana di dotare il carro della Spielrein di un tiro duplicemente nero (3), forse a raddoppiare la forza delle pulsioni, a dare maggiore potenza al vettore istintuale che muove la storia, vestendo piuttosto del bianco dei sentimenti la passeggera, Sabina, che si dimena all’interno del carro e da lì cerca di opporre la sua forza al contenimento esercitato dal padre e dai servi. D’altro canto, seguendo sempre questa suggestione per così dire “platonica”, si finirebbe giusto nel sogno raccontato da Jung, in cui un grosso cavallo nero lotta contro cinghie e contenzioni varie, dando modo all’interpretazione di Freud
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SPECIALE di porre il suo giovane collega di fronte all’evidenza della sua inibizione sessuale e di consegnarlo indirettamente (e direttamente, per il tramite del suo “emissario” Otto Gross...) alla passione per Sabine... Il fatto è che A Dangerous Method è un’opera che tanto appare ordinata, ai limiti della vulgata psicoanalitica, sulla carta della sceneggiatura di Christopher Hampton (4), quanto si rivela complessa e articolata nella prassi della regia cronenberghiana, tutta giocata sulla definizione di una geometria mutante delle relazioni tra le figure in campo, che si pongono in un rapporto di forza reciproco a partire da una condizione di effettiva debolezza, dove l’autorevolezza di ognuna è sovvertita di volta in volta proprio dalla natura inconscia del gioco di potere in atto. L’intero film è concepito da Cronenberg come un processo di aggiustamento progressivo delle posizioni reciproche tra i personaggi, che parte dalla posizione canonica della seduta psicoanalitica, settata da Jung per Sabine al loro primo incontro, e finisce nel suo esatto contrario configurato nell’incontro
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finale tra i due, passando per una serie di fasi intermedie che il regista stigmatizza con un attento lavoro sui punti di vista della mdp e sull’incidenza angolare delle inquadrature. Lavoro che, del resto, Cronenberg riproduce perfettamente per ognuno dei lati della triangolazione tra Freud, Jung e la Spielrein, elaborando quel netto senso di evidenza prospettica della figura rispetto allo sfondo che caratterizza il film, quel rilievo dinamico dei corpi esposti drammaticamente nei loro profili, in un gioco plastico delle relazioni e delle disfunzioni, delle azioni e delle reazioni, che non cessa mai di interrogare un’opera che, in fin dei conti, si esalta proprio nella nettezza dei contorni. Cronenberg, del resto, è determinato a inscrivere il suo film nel versante conscio dei personaggi, cogliendoli solo nella loro dimensione plastica, materica, piena, lasciando fuori tutto ciò che non appartiene alla concretezza del tempo reale contrapposta alla cronologia interiore degli eventi e degli atti cui si fa riferimento: nessuno stacco onirico, non una fuga prospetti-
“Comportarsi bene non serve a niente, è stupido essere onesti. Ci si indebolisce, si abbassa la guardia…”
ca nella soggettività, nemmeno quando i personaggi si concedono a memorie, narrazioni, vagheggiamenti: come dire l’esatto opposto di Spider (id., 2002), la cui cattiva lezione il regista sembra aver ben appreso. La relazione tra la presenza e l’assenza alla concretezza del proprio tempo è, del resto, una questione che Cronenberg sottolinea più volte: la prima cosa che Jung fornisce a Sabina, introducendo il suo metodo, è la scansione dei loro incontri (un’ora al giorno quasi tutti i giorni) e, poco più avanti, il disappunto per l’obbligo militare cui il medico deve attendere è motivato proprio come perdita di tempo sia da Sabina che da Jung. È sul timing delle risposte della moglie Emma, che Jung lavora assieme a Sabine, mentre a Freud tocca riportare Jung alla concretezza del tempo una prima volta a pranzo (quando, discorrendo e riempiendosi il piatto spropositatamente, mostra di essere assente a se stesso) e una seconda volta al termine del loro primo incontro (quando gli fa notare che stanno parlando da tredici ore). Il che, se da un lato è perfettamente coerente con la
contrapposizione tra Freud e Jung, che sarà giocata proprio sull’asse concretezza/ astrazione, dall’altro si traduce nell’insistenza del film sul tema dell’attraversamento, che è da intendersi come territorio vago, terreno della scoperta e della rivelazione, alternativa rischiosa alla concretezza chiusa e circoscritta del tempo e dello spazio (5). È lungo la traversata atlantica che si palesa il primo contrasto tra Freud e Jung, così come è veleggiando sul lago con Jung che Freud gli parla delle voci sulla sua relazione con Sabine. Del resto l’acqua, con la sua fluidità che scorre, sfugge, rende “bagnati” (6), è elemento che, nello scenario solido e immutabile, di pietra, offerto da Vienna e Zurigo, con le loro case, gli arredi e tutto il resto, configura per i personaggi una instabilità intollerabile: l’incubo storicamente premonitore da cui alla fine è perseguitato Jung si configura proprio come una grande ondata che travolge l’Europa, e del resto il lago sul quale Cronenberg insiste a mostrare Jung in cerca di pace è uno spazio che chiude e circoscrive l’acqua, contenendone e annul-
A DANGEROUS METHOD David Cronenberg TITOLO ORIGINALE: id. REGIA: Roman Polanski. SCENEGGIATURA: Roman Polanski, Yasmina Reza. FOTOGRAFIA: Pawel Edelman. MONTAGGIO: Hervé de Luze. MUSICA: Alexandre Desplat. SCENOGRAFIA: Dean Tavoularis. COSTUMI: Milena Canonero. INTERPRETI: Jodie Foster (Penelope Longstreet), Kate Winslet (Nancy Cowan), Christoph Waltz (Alan Cowan), Elvis Polanski (Zachary),Tanya Lopert (la voce della madre di Michael), PRODUZIONE: Saïd Ben Saïd, Oliver Berben, Martin Moszkovicz per SBS Productions/Constantin Film Produktion/SPI Poland. DISTRIBUZIONE: Medusa. DURATA: 79’. ORIGINE: Francia/Germania/Polonia/Spagna, 2011.
In un parco newyorkese un ragazzo, Zachary, ferisce il compagno di scuola, Ethan. I genitori della “vittima” decidono così di incontrare quelli del “carnefice” per stabilire assieme come comportarsi. Questi ultimi vengono accolti con grande cordialità. Tutti e quattro ostentano inizialmente una grande, reciproca disponibilità che progressivamente, però, lascia trasparire differenze sociali e culturali insormontabili. Alan, padre di Zachary, spregiudicato avvocato di rango, è quasi sempre al cellulare poiché impegnato nella strategia difensiva di una losca multinazionale farmaceutica, mentre sua moglie Nancy, dietro la cui facciata contrita serpeggia un persistente bisogno di giustificare l’azione violenta del figlio, è sempre più insofferente del disinteresse dell’uomo verso l’accaduto. A sua volta Penelope, la madre di Ethan, appassionata d’arte, fiera progressista e in procinto di scrivere un libro sul Darfur, nasconde con un atteggiamento politicamente corretto la ferma volontà morale di redarguire sia la condotta di Zachary che quella dei suoi genitori, mentre suo marito Michael, cui viene rimproverato di aver abbandonato per strada il criceto di casa, si sforza di mostrarsi
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SPECIALE
landone l’imprevedibilità. D’altronde questo è un film che sull’umore delle lacrime (di Sabine) si apre e si chiude, confermando l’idea che A Dangerous Method offre, in fin dei conti, un perfetto quadro da mélo, con innamoramenti, tradimenti, addii, affrancamenti, fughe, mogli gelose, padri che ripudiano, reputazioni a rischio... Roba che altrove gronderebbe di lacrime, ma che Cronenberg ovviamente asciuga in una dinamica metafisica, tutta teorica e astratta, fatta di pulsioni esposte al ludibrio della ragione, di zone intime dell’essere passate allo scandaglio freddo e preciso della scienza. Dove, se lacrime scorrono, lo fanno solo dagli occhi (e dal corpo preso dal fremito della jouissance sessuale) (7) di Sabine, la quale è in fin dei conti il vero cardine emotivo dell’intera struttura del dramma in atto. Per il resto tutto è asciutto, trattenuto nella relazione logica di un film che tratta la solita straor-
dinaria materia cronenberghiana, fatta di figure borderline, di mutazioni in atto, di strati di coscienza che si rivelano improvvisi e occupano la scena con prepotenza, spostando il baricentro dalla dottrina della nuova carne, professata e profetizzata da Cronenberg, alla radice storica di una determinazione mutante dello spirito, che scandaglia se stesso e scopre passioni, pulsioni, forme difformi con lo stupore attonito appartenuto in precedenza a Seth Brundle (La mosca [The Fly, 1986]), ai gemelli Mantle (Inseparabili [dead Ringers, 1988]), a René Gallimard (M. Butterfly [id., 1993]), a James Ballard (Crash [id.,1996])...
DEL DISCIOGLIERE CORPI IN PAROLE: LA FILOSOFIA FUTURA DI DAVID CRONENBERG Roberto Chiesi Inanellate una dopo l’altra intorno al tema della contaminazione tra corpo e tecnologia mediale, tra patologico e creativo, tra uno e due, tutte le opere di Cronenberg indagano una nuova fondazione della soggettività di fronte al crollo delle categorie classiche della rappresentazione. La sua ricerca è da sempre essenzialmente filosofica e anche in quest’ultimo impressionante film il regista riesce a universalizzare in immagine l’occasione di un incontro, non solo quello tra Freud, Jung e la Spielrein, ma anche quello, non nuovo in verità, che egli stesso fa con la psicoanalisi. La disciplina psicoanalitica presa nel travaglio della sua nascita è approfondita ora come dispositivo di linguaggio, in cui si sviluppa un’idea del sesso che è contemporaneamente atto di vita e comunicazione di morte. Con un potente effetto speciale, Cronenberg crea una sinestesia che mostra le parole e ode le immagini, esattamente come la macchina che disegna le scosse dell’animo durante il test delle associazioni libere cui Jung sottopone la giovane moglie.
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L’effetto è dissimulato perfettamente nelle forme nette ed eleganti della messa in immagine, in esse si coagulano i significati più liquidi creando uno spessore e una pressione da cui si vede bene come il desiderio, prima ricacciato nella bestialità, s’innervi adesso di tutto ciò che la cultura borghese aveva accurata mente tenuto lontano. Ogni particolare visivo della storia contribuisce a mostrare l’atto essenziale e rivoluzionario, in senso politico, della scoperta freudiana, cioè quello di convocare intorno all’erotismo il vecchio ordine del potere disciplinante. Freud-Mortensen è l’immagine di questa consapevolezza: con la sua intransigenza sorniona, la continua insistenza sul concetto di legge presa come principio della sessualità, la necessaria alleanza stretta con il razionale e lo sforzo di fondazione scientifica, rivelato anche in quel suo circondarsi di reperti e libri; più numerosi a ogni nuova entrata in scena, i tanti oggetti di un sapere e di un potere arcaico sono inscindibili dalla teoria psicoanalitica quanto la sua pratica effettiva. L’ironia e la potenza
Go clabus, turo, ununtius; etisquis restor iae modie ad consus virit gratem orei popossus bondum dem istuus C.
”Uptat et, offic tectatisci voluptium est, quaepe minvell animetur? Um, con cum cuptatatentAtur? Sum se que nimolupta dolore, consequist, nus.
che emanano dalla figura di Freud provengono dall’intreccio che egli intravede tra i meccanismi di controllo della vita sociale, che su quel sapere si reggono, e le leggi che strutturano la sessualità dell’individuo. Allo stesso modo, finanche nei loro amplessi Jung e Sabina riproducono quelle relazioni. Nel crollo del limite tra l’interno e l’esterno dei corpi, tra legge razionale e animalità del sesso, i pionieri della scienza psicoanalitica mettono a nudo l’immenso proliferare della tensione che attraversa le relazioni tra esseri umani, non al di sotto o al di sopra, ma fusa a quei meccanismi sociali. Essa non è nel fango o nella pelle, ma nel cappotto, nella mussola delle camicette, nei servizi da tè, nel mogano laccato della barca di Jung, dove i corpi si accovacciano come in una scena di Crash (id., 1996) tra le lamiere di un’auto, e ancora – ma non c’è poi tanta differenza – è nel sapere, nella religione, nella teoria e più ancora, nel linguaggio. Infinita proliferazione che si manifesta in escrescenze patologiche, in isterie, in lapsus e osses-
sioni, in tutto ciò, insomma, che la nuova scienza elegge come suo oggetto d’indagine: la malattia psichica. Tuttavia non è questo il verso da cui il regista affronta l’argomento; piuttosto che insistere sugli aspetti della patologia e della devianza, rovescia la questione, come si rovescia un guanto, e guarda la trama dall’altra parte. Così l’urlo iniziale di Sabina, il suono inarticolato nel linguaggio, diviene l’attacco del film e il punto esatto da cui egli afferra la vicenda e la capovolge per mostrare un’altra storia, altra rispetto a quella che alcuni si aspettavano da lui. Ma ogni immagine, come un tessuto, ha un dritto e un rovescio, due parti tra loro inseparabili e al contempo separate e diverse, e Cronenberg, con fare da chirurgo, rovescia e sceglie il lato che con più potenza mostra l’intreccio indissolubile dei significati. Non c’è da credere a chi sostiene che l’autore, resosi conto di aver toccato un terreno troppo incerto, si sia tirato indietro e abbia colmato i vuoti dell’immagine con la sovrabbondanza di parole giustificative. Oltre all’evidente in-
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SPECIALE ”Minimped magnis dolorios anda il iniae. Omnisquiatem lam sandictio eatur, cus, Ma sum faceati berfernati voloruntum entium cum eumquia dipiendi temqui doloreh enimpere pa derum
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sostenibilità di questa tesi, non è chi non veda la piccolezza di certe interpretazioni che non colgono ancora come il cinema si accresca e si riproduca proprio nella sua relazione con il linguaggio verbale. L’apporto estetico e concettuale più importante di A Dangerous Method si situa proprio lì, dove alcuni hanno segnalato una sorta di debolezza formale senza capire che tutto il film ruota intorno ai rapporti tra il sessuale e il teorico. È la stessa psicoanalisi a istituire, infatti, una relazione tra il sesso e il linguaggio, e facendolo vede che tra corpo e parole si crea una dimensione trascendente, nella quale l’individuo, consegnandosi alla sovranità terribile di uno strumento che spossessa, sperimenta e anticipa la sua mortalità. È anche per questo motivo che nessuno dei tre protagonisti, seppur da angolazioni diverse, sottovaluta l’importanza del religioso; Freud per primo, perlomeno da un punto di vista strategico, capisce che le questioni sono profondamente intrecciate. Ecco perché, da un lato, insiste sul mantenere il silenzio circa questo punto
in ambito teorico con Jung prima e con Sabina poi e, dall’altro, persevera sulla necessità di un erede “cristiano”, consapevole del pregiudizio antisemita che pervadeva l’Europa. Il rapporto fra i tre si colloca su questi cardini: sessuale, teorico e religioso, dove quest’ultimo non è il mistico, come erroneamente intende Jung, ma è insieme dimensione politica e consapevolezza della morte. In quanto tale il religioso è simbolo politico del simbolo linguistico, l’ombra sdegnosa di un sovrano fantasma, come quella che qualche tempo fa illudeva da dietro una tenda, in un altro film che parla di psicoanalisi, dove il corpo vivo e reticente di un papa rifiutava di incarnare il corpo morto e vuotamente simbolico della sua sovranità. La stessa riluttanza incatena il corpo di Sabina nell’atto di formulare le parole. Nei suoni gutturali e nelle consonanti che la Knightley pronuncia con dolore, la carne inizia a farsi verbo, a trasferirsi nella finitudine estranea della frase. L’urlo disperato dell’inizio sta ancora al di là, la trama attesa è subito negata nell’apparire fiero e sereno di Jung, capovolgendosi in lettera. Dalle parole articolate a stento come fossero sporgenze del sé, il film evolve verso quelle chiare e fluide dei ragionamenti ininterrotti, passa all’inchiostro sulla carta, per chiudersi sul silenzio imperdonabile ma necessario in cui sono ricacciate dai tre protagonisti le cose più terribili (ovvero il legame tra sessuale, teorico e religioso). Col succedersi delle immagini si vede sempre più nitidamente che l’essere umano, non più faber, diviene mediale, si costruisce nel suo dirsi, e intanto si perde, poiché la psicoanalisi non avvia la liberazione dell’istinto sessuale né tutto quello che descrive con disinvolte spiegazioni il dottor Gross. Anche questa sorta di alter ego infedele, che appare all’improvviso e altretWtanto velocemente scompare nella vita di Jung, non è altro che la materializzazione di un dialogo interiore negato e poi estroflesso, sempre in un atto di parola. Nella pratica psicoanalitica, infatti, più che liberarsi, il corpo desiderante finisce espropriato nel discorso. Sessualità e linguaggio, desiderio e morte, parlando Sabina fa esperienza della sua finitezza; non è il linguaggio a divenire
erotico, così come non sono erotizzate le forme del film, è piuttosto l’esperienza corporea a diventare un elemento linguistico e mediatico, tramite e messaggio di un nulla del desiderio e del sé, Sabina nel proferirsi diviene trasparente e Jung, vedendo attraverso di lei, se ne innamora. Se appartiene a questa donna l’idea di una tendenza all’autodistruzione che si accompagna all’unione sessuale, ciò non è dovuto alle sue pulsioni masochistiche quanto al suo percorso di analisi. Ella sperimenta per prima che le parole non sono più il luogo in cui ci si esprime, quanto il luogo in cui ci si espone. Appartiene al fondo del cinema di Cronenberg l’essenza del mostrare, ciò a cui i suoi protagonisti sono sempre esposti è la loro morte e la mostruosità sta appunto nel violento mostrarsi di questo evento. Il corpo senza carne della voce ostenta nitidamente che siamo destinati al linguaggio, la più complessa e pericolosa delle tecnologie. Al pari delle automobili di Crash, l’involucro della parola permette l’incontro con l’altro solo a patto di una promessa di dissoluzione. La talking cure è esattamente una peste, quella del witz freudiano all’ingresso negli Stati Uniti, ovvero la malattia che scopre la morte; non cura ma ferita, la parola diventa strumento ottico che mostra perché dissolve la dimensione individuale. Nella scena iniziale, mentre tenta di dire ciò che la turba, Sabina improvvisamente trasale e si ferma per un secondo, Jung le chiede se fosse sopraggiunto alla sua mente qualcosa, un pensiero, o: «Un’immagine?». Lei annuisce e la mandibola contratta nello spasimo inizia a proferire la visione, guardando nel (suo/ nostro) vuoto. Si allarga lo squarcio del linguaggio già una volta aperto dalle “mascelle feroci della vergine” (1), la Sfinge, che statuaria e bianca come Sabina si vede per intero alla fine presso i giardini di Vienna; era apparsa prima, a mezzo busto, non conosciuta ma smisurata accanto a Jung e Freud.
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I FILM
TITOLO ORIGINALE: id. REGIA : Nicolas Winding Refn. SOGGETTO: dal romanzo omonimo di James Sallis. SCENEGGIATURA: Hossein Amini. FOTOGRAFIA: Newton Thomas Sigel. MONTAGGIO: Matthew Newman. MUSICA: Cliff Martinez. SCENOGRAFIA: Beth Mickle. COSTUMI: Erin Benach. INTERPRETI: Ryan Gosling (Driver), Carey Mulligan (Irene) Bryan Cranston (Shannon), Albert Brooks (Bernie Rose) Oscar Isaac (Standard), Christina Hendricks (Blanche), Ron Perlman (Nino), Kaden Leos (Benicio), Jeff Wolf (Tan Suit) James Biberi (Chris “Cook”), Russ Tamblyn (Doc), Joe Bucaro III (Chauffeur), Tiara Parker (Cindy). Produzione: Michael Litvak John Palermo, Marc Platt, Gigi Pritzker, Adam Siegel, Frank Capra III Garrick Dion per FilmDistrict/OddLot Entertainment/Bold Films/Marc Platt Productions-Motel Movies. DISTRIBUZIONE: 01. Durata: 100’. ORIGINE: USA, 2011.
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DRIVE
Nicolas Winding
TRASFIGURAZIONE DI GENERE Giacomo Calzoni Forse il vero problema di Nicolas Winding Refn si riduce a uno, e uno soltanto. Nicolas Winding Refn è un regista che piace, quindi chiunque può sentirsi in diritto di ridurlo a mito per cinefili. Oppure, ancora peggio, a fenomeno da festival, a uno di quei nomi che ricorrono maggiormente nei forum e nelle riviste di settore, di quelle lette e scritte solamente da chi frequenta Cannes, Venezia o Torino, da chi scarica i film dal torrent perché solo così puoi entrare a far parte di un’élite. Refn è il mito dell’appassionato che non guarda (più) i film in sala, perché li ha già visti mesi o anni prima sullo schermo del pc: quindi, è il nemico da combattere, l’incarnazione del Male su celluloide, il cineasta “cool” che si attira le antipatie dei (re)censori esattamente come qualche anno fa toccava a un Miike Takashi o a un Park Chan-wook. Poco importa quindi soffermarsi sul valore reale o presunto delle sue pellicole, e poco importa anche che l’invisibilità forzata alla quale è stato sottoposto finora dalla distribuzione italiana abbia reso inevitabile una certa fruizione del suo cinema: chi ha già deciso che Nicolas Winding Refn non deve piacere, continuerà a non farselo piacere. Al contrario, ma con lo stesso oltranzismo, chi già lo considera alla stregua di un novello Kubrick, avrà trovato un nuovo termine di paragone per tutto il cinema a venire. Scatenando in questo modo un processo tanto di demonizzazione quanto di beatificazione, e generando schiere di fanatismi che con il cinema e con i film hanno sempre meno a che fare. In un
panorama critico che tende sempre più al manicheismo e alla presa di posizione radicale, diventa quindi difficile e quasi imbarazzante scegliere di porsi in una posizione intermedia nei confronti di un film o di un autore, chiunque esso sia. Nel caso specifico di un Refn, l’impressione è quella trovarsi comunque dinanzi a uno sguardo in continua mutazione che, film dopo film, faticosamente comincia a guadagnarsi di diritto un proprio posto nel mondo: infatti Drive arriva oggi a sancire una sorta di giro di boa per la vita e la carriera del regista danese, che già nel 2003 aveva tentato di emigrare in suolo statunitense con il controverso Fear X. Se allora il risultato fu quello di tornarsene nella vecchia Europa con la coda tra le gambe e un milione di dollari di perdite, oggi il rientro di Refn in America assume il sapore della rivincita. Dopo Fear X, la progressiva riappropriazione di quella credibilità così drasticamente perduta è passata attraverso il ritorno al film d’esordio (l’ottimo Pusher), trasformato in trilogia. E ancora, con i celeberrimi Bronson e Valhalla Rising, certamente i paradigmi più teorici della sua filmografia: insomma, si può dire che da Pusher II in poi il percorso di Refn sia stato un incessante rincorrere se stesso e la vita, con il risultato che ora ha potuto finalmente esportare Oltreoceano il proprio sguardo, più forte e più consapevole del proprio status. E lo fa con un film dichiaratamente su commissione, dove per la prima volta nella sua carriera non è autore anche della sceneggiatura: fortemente voluto da Ryan
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I FILM 26
Gosling, il regista prende in mano le redini di un progetto inizialmente rivolto a Neil Marshall per mettere in scena la sua personale decostruzione del genere noir, in un cinemascope pastoso e colorato che guarda in maniera commossa e commovente alla cultura pop degli anni Ottanta. Drive è il film nel quale convergono tutte le tensioni del suo cinema, trasfigurate però in altro. È il film nel quale più o meno tutti, detrattori e sostenitori, hanno visto agitarsi il fantasma di Driver l’imprendibile di Walter Hill, senza dimenticare ovviamente William Friedkin e Michael Mann. Ma quello delle citazioni si riduce subito a giochino cinefilo piuttosto sterile, al quale Refn non sembra minimamente interessato: se è vero che il suo film trasuda fino all’inverosimile tutto il cinema che ha visto, assimilato e amato, lo fa come gesto d’a-
more inconsueto e purissimo, come atto di condivisione nei confronti dello spettatore. Dopodiché, è subito pronto per spiccare il volo e andare diritto per la sua strada. Non a caso infatti liquida velocemente gli stilemi del genere nei primi dieci minuti, una straordinaria sequenza di silenzi e tensione che parrebbe indirizzare Drive verso territori che invece, alla fine, non verranno affatto presi in considerazione. Refn inserisce alla perfezione l’universo del suo film entro parametri che tutti conosciamo fin troppo bene: la strada, la rapina, il bottino, i tradimenti. La morte. O ancora, le enormi carreggiate di Los Angeles illuminate di arancione e viste perpendicolarmente dall’alto, che sembrano provenire direttamente da Collateral. Ma il suo non è un cinema che si pone cannibalicamente nei confronti di quello di un passato più o meno
recente: piuttosto, lo utilizza come specchio per illuminarne il controcampo.Tutto è giocato entro i confini di un’atmosfera sospesa e inquietante, quasi irreale, che in Drive diventa il set vero e proprio: scegliendo di adattare il proprio sguardo a un progetto non suo, Refn infatti non rinuncia a collaborare attivamente ai dettagli del copione di Hossein Amini, attuando scelte precise che possono rendere bene le idee che più gli stanno a cuore. Un esempio valido in tal senso è la scelta di mostrare l’attività di stuntmen del protagonista, impegnato di giorno nei set di film d’azione: caratteristica presente nel romanzo di James Sallis, ma assente nella prima stesura della sceneggiatura. Infatti, in Drive il cinema è una presenza costante e invisibile, un’ombra che sembra fare capolino continuamente a ogni angolo di strada, a ogni gesto,
a ogni sguardo. Non a caso lo stesso villain interpretato da Albert Brooks racconta della sua attività di produttore di pellicole erotiche e d’azione negli anni Ottanta («Ai critici piacevano i miei film, ci trovavano un tocco europeo. Per me invece erano solo merda»), come a sottolineare un riferimento onnipresente e asfissiante che anche lo score elettronico di Cliff Martinez amplifica a dismisura. Ma è un universo dal quale Drive sembra distaccarsi sempre più, lavorando tanto di sottrazione quanto di astrazione. Se il protagonista senza nome è il classico luogo comune del genere (da Clint Eastwood al già citato Driver), tutte le coordinate sembrano puntare verso la direzione opposta rispetto a quella che ci si aspetterebbe. Tutto il film è un progressivo azzeramento e annullamen-
to del protagonista rispetto all’intreccio noir che gli viene costruito intorno; e questo processo di smaterializzazione trova la sua genesi nell’unico motore narrativo che sembra interessare davvero a Refn: l’amore. In Drive assistiamo alla metamorfosi da personaggio a ruolo, e poi ancora più a fondo, da maschera a ombra, una semplice proiezione sul selciato. Per morire (e forse rinascere) sulle note della canzone che aveva accompagnato le sequenze con la bella e dolce vicina di casa: un amore che non andrà mai oltre una tenera stretta di mano, perché il ritorno a casa del marito ex galeotto scatenerà – non volutamente, ma inevitabilmente – un vortice di violenza e autodistruzione incontro al quale l’eroe andrà incontro con la consapevolezza di non poter agire altrimenti, spinto
da quell’etica del sacrificio impostagli dal ruolo (e, ancora di più, dal sentimento). La prevedibilità del copione diventa quindi funzionale al regista per riflettere sulle forme del genere, ma soprattutto per evaderne: sembra rispettare le regole imposte dal gioco, ma in realtà le aggira (o meglio, le ignora) con abilità, riducendo al minimo le sequenze di car-chase e concentrandosi sul vuoto, sulla sospensione dei corpi e dei luoghi (il corridoio che separa le due abitazioni, le spogliarelliste inanimate dentro lo strip club, la maschera di lattice come ultima trasformazione); pure le tanto conclamate sequenze di violenza sembrano rarefatte e istantanee, e comunque lontanissime dalle follie deflagranti a cui eravamo abituati dai tempi di Pusher e Bleeder (dal quale
“Comportarsi bene non serve a niente, è stupido essere onesti. Ci si indebolisce, si abbassa la guardia…”
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I FILM
TITOLO ORIGINALE: id. REGIA : Nicolas Winding Refn. SOGGETTO: dal romanzo omonimo di James Sallis. SCENEGGIATURA: Hossein Amini. FOTOGRAFIA: Newton Thomas Sigel. MONTAGGIO: Matthew Newman. MUSICA: Cliff Martinez. SCENOGRAFIA: Beth Mickle. COSTUMI: Erin Benach. INTERPRETI: Ryan Gosling (Driver), Carey Mulligan (Irene) Bryan Cranston (Shannon), Albert Brooks (Bernie Rose) Oscar Isaac (Standard), Christina Hendricks (Blanche), Ron Perlman (Nino), Kaden Leos (Benicio), Jeff Wolf (Tan Suit) James Biberi (Chris “Cook”), Russ Tamblyn (Doc), Joe Bucaro III (Chauffeur), Tiara Parker (Cindy). PRODUZIONE: Michael Litvak, John Palermo, Marc Platt, Gigi Pritzker, Adam Siegel, Frank Capra III Garrick Dion per FilmDistrict/OddLot Entertainment/Bold Films/Marc Platt Productions-Motel Movies. DISTRIBUZIONE: 01. Durata: 100’. ORIGINE: USA, 2011.
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THE MUST BE
THE PLACE Paolo Sorrentino
LA DERIVA DEL DIVO Anton Giulio Mancino Sono due le scuole di pensiero critico italiane su This Must Be the Place, titolo scelto da Paolo Sorrentino per potersi riflettere direttamente, in continuazione e in maniera ossessiva, nell’omonima celebre canzone dei Talking Heads contenuta nell’album Speaking in Tongues del 1983, e chiave di volta, quindi, dichiarata del film. La prima scuola lo liquida come un film inutilmente magniloquente, la seconda di contro ne magnifica la magniloquenza e lo stile ostentato. In entrambe i casi ci troviamo di fronte a un meccanismo di motivazioni antitetiche e irriducibili che di sicuro non aiutano granché a capire, salvo ribadire incompatibili “relazioni d’oggetto” che non occorre neanche più psicanalizzare. Perché non consentono di addentrarsi, al di là dei giudizi lapidari e assertivi, nei meandri di quel fisiologico e storico bisogno di vuoto e di azzeramento non solo di Sorrentino ma di numerosi autori italiani di varia levatura ed età, apprezzati o incompresi, non fa differenza, da decenni, sospinti a un certo punto del proprio percorso – quindi non certo all’improvviso o per caso – a cercare altrove, lontano in perfetti non-luoghi codificati comunque dal cinema e dall’immaginario collettivo, debitamente colonizzato, lo spazio ideale per rappresentazioni molto pretestuose e presuntuose. Rappresentazioni caratterizzate da un sovraccarico di senso e di enunciazione massima, nonché ingombrante di un sedicente “io” d’autore, tradotto in una presenza maniacale della macchina da presa come filtro onnipresente della vi-
sione. Rappresentazioni perciò dislocate, distanziate, esportate dovunque sia possibile adombrare quel nulla assoluto per smarrirsi soggettivamente e rimandare agli spettatori scenari suggestivi e stranianti. Non stiamo prospettando qui una terza via prudente, una via di compromesso, di mediazione tra gli strenui detrattori e gli altrettanto strenui sostenitori di Sorrentino in generale e di questo specifico, controverso film in particolare. Non servirebbe, né importerebbe più di tanto. Sappiamo, al di là di ogni ragionevole dubbio, che attraverso This Must Be the Place si finisce per fare i conti complessivamente con l’autore da sempre sopra le righe di Il Divo, giunto ora a un punto di non ritorno della sua filmografia, che impone necessariamente un bilancio retrospettivo, se non addirittura una rilettura à rebours. Sappiamo anche che il prezzo che deve pagare un autore-divo in Italia, e forse non soltanto in Italia, quando va in trasferta per cercare fuori dai confini nazionali consenso e mercato, è quello della ripicca in casa, del rimprovero nei confronti di una disubbidienza, del regolamento di conti conseguente a una mancata sanzione o autorizzazione. Né possiamo però far finta di non sapere che le celebrazioni di segno opposto sono molto rischiose, funzionano come riconoscimenti generici che sottintendono un consenso incondizionato alle leggi della domanda e dell’offerta, dell’industria internazionale del cinema, che converge sempre su Hollywood (così come ameri-
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I FILM 30
cane sono spesso e volentieri le emblematiche derive dei protagonisti), e durano appena il tempo di un’illusione. Se l’autore poi non resta o resiste nel mercato, non mantiene gli standard produttivi così incautamente ammirati con l’alibi dello stile, non continua cioè a tenere in vita questa immagine di sé al di sopra della media comune, ecco che l’impianto celebrativo si sfalda, si disperde, cerca giustificazioni improbabili, si dissolve in attesa di nuovi campioni, nuove occasioni vincenti, nuovi pretesti. Non si può far finta di non accorgersi che This Must Be the Place appare a oggi il primo autentico passo falso di Sorrentino, il quale ha costruito interamente questo percorso ora puramente audiovisivo, irrazionale, insensato, ora incomprensibilmente narrativo, razionale, sensato, oscillando da un registro prevalente
all’altro in cerca di un riparo provvisorio dalle palesi inadempienze su tutti e due i fronti. Quando cioè il film non vuole completamente abbandonarsi alla visionarietà e alla sonorità, racconta; quando teme invece di risultare troppo esplicito, lineare, logico, deborda nelle immagini, nella musica, mostrando i muscoli, abbarbicandosi allo stile. Se spiega troppo, anche per accontentare il pubblico di ogni dove, si fa d’un tratto inspiegabile, quanto basta per poi ritornare a spiegare, a scandire i passaggi e le motivazioni. Insomma ogni qual volta eccede, non lo fa mai abbastanza e fino in fondo, piuttosto preferisce compensare con un eccesso di segno opposto, contravvenendo alla direzione fin lì seguita. Forse riuscendo solo nell’impresa di rendere impraticabili i due percorsi, quello lineare e quello espressivo. E sconten-
tando le due fazioni agguerrite di cui sopra, pronte in trincea ad attaccare o difendere. Tutto questo nel film si vede e, soprattutto, si sente abbastanza. L’autore probabilmente lo sa, ha cercato di ottenere un simile effetto discordante, perpetuo, senza riuscire a gestirlo, controllarlo, offrirgli uno sbocco interessante come in ogni suo film, da L’uomo in più a Il Divo. Per intenderci, difficilmente This Must Be the Place potrà trovare attenuanti provocatoriamente esteriori che col tempo hanno persino favorito la ricezione equilibrata e aperta di film come Zabriskie Point o Paris, Texas, il secondo diretta emanazione del primo (Sam Shepard li scrive entrambi), nella misura in cui Wim Wenders è un allievo in pectore di Michelangelo Antonioni (affiancandolo infine in Al di là delle nuvole). A entrambi Sorrentino espres-
samente rimanda, non soltanto attraverso la struttura del road movie fantasmatico, privo di approdi: dal primo, Zabriskie Point (ma i debiti riguarderebbero, a rigore logico e filologico, anche il precedente Blow-Up e il successivo Professione reporter), desume o mutua l’immagine della piscina mai riempita e adibita a piccolo spazio per giocare a pelota per esemplificare, già nel titolo, la condizione e l’impatto esistenziale dello spazio disidratato, svuotato, devitalizzato che in Antonioni aveva anche una connotazione precisa, fisica, geografica, al di là della temperie sessantottina necessariamente trasfigurata, portata all’estrema astrazione simbolicoonirica; da Paris, Texas ha preso in prestito, oltre al protagonista Harry Dean Stanton, presentato come l’inventore delle valigie
con le rotelle, l’idea stessa degli itinerari interiori e culturali tipici di Wenders, ovvero colui che detiene il primato assoluto e il brevetto di film concepiti come valigie semoventi, ove il viaggio diviene una condizione permanente, non finalizzata ad alcun approdo: un significante a se stante, un luogo dell’anima, ovviamente dell’autore più che del personaggio. Né va dimenticato l’apporto fondamentale che al film hanno dato i due principali oggetti di culto, due “divi” di copertura, come Sean Penn e David Byrne, utilizzati all’unisono – è il caso di dire – come corpi d’attore, non più portati allo scoperto o confermati nella loro divina, superiore ineffabilità, secondo la strategia adottata in Il Divo, in cui il massimo di visibilità anche dei nessi infe renziali corrispondeva al mini-
mo di intelligibilità probatoria a livello storico-politico. Penn, l’attore-divo che recita la parte di Cheyenne, il musicista dark (per la cronaca, ricalcando Robert Smith, leader dei Cure), prefigura Byrne, il musicistadivo, l’artista poliedrico, quindi anche l’attore di se stesso. Penn, divo alla deriva, come alla deriva va deliberatamente il film di Sorrentino, quando non si aggrappa convenzionalmente alla trama, una trama sicura, collaudata, politicamente corretta anche in materia di Shoah riletta alla luce della “banalità del male”, non può fare a meno di incontrare il suo principale doppio, cioè Byrne, vero centro gravitazionale del progetto. Cosa accade dopo l’esecuzione e rappresentazione della canzone omonima affidata a un pianosequenza che punta a cancellare.
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IN SALA I FILM
TOMBOY Céline Sciamma TITOLO ORIGINALE: id. REGIA E SCENEGGIATURA: Céline Sciamma. FOTOGRAFIA: Crystel Fournier. MONTAGGIO: Julien Lacheray. MUSICA: Para One. SCENOGRAFIA: Thomas Grézaud. INTERPRETI: Zoé Héran (Laure/ Mikaël), Malonn Lévana (Jeanne), Jeanna Disson (Lisa), Sophie Cattani (la madre di Laure), Mathieu Demy (il padre di Laure), Ryan Boubekri (Ryan), Yohan Véro (Vince), Noah Véro (Noah), Cheyenne Lainé (Cheyenne). PRODUZIONE: Bénédicte Couvreur per Hold Up Films & Productions/arte France Cinéma/Lilies Films. DISTRIBUZIONE: Teodora. DURATA: 82’. Origine: Francia, 2011.
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A volte i miracoli accadono. Tomboy è uno di questi e mostra come oggi una “certa tendenza del (giovane) cinema francese” sappia andare a fondo ai turbamenti infantili e adolescenziali con mano leggera ma anche lasciando profondamente il segno. Assieme all’ottimo Les beaux gosses (buttato frettolosamente nelle sale italiane due anni dopo con il titolo Il primo bacio) e 17 filles, prendono forma inquietudini faticosamente trattenute, pulsioni e desideri, una continua ansia, paura e piacere nello scoprire se stessi e gli altri. Altro salto generazionale. Tornano ancora Tous les garçons et les filles de leur âge. Non tanto a livello narrativo ma soprattutto epidermico, con la macchina da presa che sta addosso e non si separa quasi mai dal corpo da inquadrare. Senza alcun tipo di voyerismo ma quasi la ricerca fisica ed emotiva (o anche emozionale) di un contatto. Tomboy è un film pieno di contatti, di rivelazioni sotterranee tra lo sguardo della trentunenne Céline Sciamma e la sua protagonista. Lei si chiama Laure, ha dieci anni e si è appena trasferita con i genitori e la sorella più piccola Jeanne in un nuovo quartiere di Parigi. Per il suo aspetto e il suo look si fa passare per maschio, dicendo di chiamarsi Mikaël, per poter così socializzare più velocemente con gli altri e stringe un legame
particolare con la coetanea Lisa. Innanzitutto colpisce l’approccio quasi neo/ realista nel mostrare le mutazioni della bravissima protagonista Zoé Héran. C’è la finzione, ma non si sente la costruzione. Quasi uno sguardo dall’interno, dove la macchina da presa della regista può essere uno specchio in cui vedersi, riflettersi, luogo di confessioni private tra la protagonista, la Sciamma e lo spettatore, coinvolto nel gioco messo in atto. Non si tratta, però, soltanto di complicità. Quei contatti della macchina da presa con Laure/Mikaël sono insieme degli abbracci, delle zone di rifugio provvisorio, da cui gli altri a tratti (gli adulti soprattutto), pur presenti, sono estromessi. L’inizio del film è, da questo punto di vista, già rivelatore. La protagonista è inquadrata da dietro. Sembra essere da sola. Poi l’inquadratura si allarga e si vede in auto insieme a tutta la famiglia con il padre che la sta facendo guidare. Lì già si vede un film che lavora sui piccoli dettagli, mai marcati, anzi a tratti anche sfuggenti che però diventano significativi nel loro accumulo. Uno tra i principali elementi che entra in gioco è certamente l’identità sessuale. Laure si guarda e cerca Mikaël. Quando esce dalla vasca da bagno e si asciuga, quando allo specchio si guarda il seno. Lo fa certamente attraverso
Anda voluptatur aliciminus. Ma olum ratem liandip santius as rem ut min eaturehenis min pore sae liqui ra diti ommodipsam debit pa nonsequi bla del
l’imitazione nel modo di vestire, di muoversi, di comportarsi come nel gesto di sputare per terra. Lo fa nel cercare di primeggiare nei giochi dei maschi, prevalendo negli scontri fisici, mettendosi in luce più degli altri nella partita di calcio. Lisa lo guarda come un ragazzino che gli piace. Ma il film comunque lascia sempre che questa integrazione non sia definitiva, al contrario fa in modo che nasconda delle zone d’ombra. Non agli occhi degli altri personaggi, ma proprio di chi guarda. Dopo aver segnato durante la partitella (ed essersi messa a torso nudo proprio come gli altri maschi), ha paura di essere guardata e scoperta da un altro bambino mentre sta facendo pipì. Ogni situazione si carica di ambiguità, ogni inquadratura di Tomboy potrebbe far cadere in qualunque istante la situazione creata da Laure/Mikaël. Per questo appaiono ancora più intensi i momenti vicino a Lisa, fatti di sguardi, di seduzioni, di baci appena accennati, di sorrisi tentati che tornano anche nell’inquadratura finale e che mostrano nella Sciamma una maestria invidiabile nel delineare un ritratto privato pieno di passione tra Agnès Varda e gli slanci dell’adolescenza di Truffaut in Gli anni in tasca. Quel sorriso leggerissimo, appena accennato da Laure alla fine, non subito evidente, è come quello di Moretti che beve il bicchier d’acqua
nella chiusura di Caro diario. Un atto finalmente liberatorio, il segno di un gioco ma soprattutto di un piacere (fisico, sensoriale, tutte e due insieme) che può ricominciare stavolta senza maschere. Il tempo dell’attesa, quello in cui comunque si doveva verificare l’inevitabile rivelazione della vera identità sessuale della protagonista è terminato, quasi parallelo alla fine della gravidanza della madre. Inoltre, altro squarcio dirompente del film, Tomboy presenta tracce di inquietudine, proprio a pelle, nel momento in cui a Laure/ Mikaël viene fatto indossare un vestito da donna. Si sentono insieme la sua paura e la sua vergogna quando esce fuori di casa, per la prima volta avverte il peso dello sguardo degli altri. Potrebbe, paradossalmente apparire quasi l’unico momento di inconscio travestitismo.
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IN SALA I FILM
BLOOD STORY Matt Reeves TITOLO ORIGINALE: id. REGIA E SCENEGGIATURA: Céline Sciamma. FOTOGRAFIA: Crystel Fournier. MONTAGGIO: Julien Lacheray. MUSICA: Para One. SCENOGRAFIA: Thomas Grézaud. INTERPRETI: Zoé Héran (Laure/ Mikaël), Malonn Lévana (Jeanne), Jeanna Disson (Lisa), Sophie Cattani (la madre di Laure), Mathieu Demy (il padre di Laure), Ryan Boubekri (Ryan), Yohan Véro (Vince), Noah Véro (Noah), Cheyenne Lainé (Cheyenne). PRODUZIONE: Bénédicte Couvreur per Hold Up Films & Productions/arte France Cinéma/Lilies Films. DISTRIBUZIONE: Teodora. DURATA: 82’. Origine: Francia, 2011.
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Neve. Fiocchi leggeri sfiorano la macchina da presa, che prende aria e inquadra, dall’alto, un’ambulanza che corre all’impazzata, serpeggia attraverso un territorio brullo, quasi selvaggio, disegnando la traettoria dell’orrore. Un uomo si è orribilmente sfigurato, nell’estremo tentativo di cancellare i suoi connotati e la sua identità. Un poliziotto solerte, deciso ad andare in fondo alla questione, non ha pietà delle sue ferite ancora fresche: vuole il suo nome, e quello di chi con lui ha commesso orribili delitti, nella ricerca affannosa di sangue, di una vita che, per essere vissuta, deve essere strappata a morsi. Questo Blood Story (Let Me In, molto più intelligentemente, nel titolo originale) funziona, inutile girarci intorno. La Hammer, storica casa di produzione inglese di film dell’orrore, è resuscitata dopo ben trent’anni dalla sua ultima creatura, Il mistero della signora scomparsa (il remake di La signora scompare di Hitchcock, datato 1979) in tempo per partorire un altro remake. Sì, perchè di remake si tratta: il punto di partenza è Lasciami entrare, il libro di John Ajvide Lindqvist, ritenuto in patria lo Stephen King svedese, e il primo punto di arrivo è stato il bellissimo, e per questo imprescindibile, Lasciami entrare di Tomas Alfredson, uscito
solamente nel 2008. Il film di Alfredson non aveva bisogno di un remake americano per essere ricordato: secco, essenziale, terrificante in modo quasi pacato. Non c’era bisogno di un altro Lasciami entrare, ma a un buon horror, costruito con sapienza, girato con destrezza e senza inganni (se non fosse per l’uso un po’ troppo plastico degli effetti speciali digitali), non si dice mai di no. Il film del regista di Cloverfield gode di tutta una serie di scarti temporali: è ambientato negli anni Ottanta ma sembra un film girato a cavallo tra i Sessanta e i Settanta. Inizia con un flashback che lo rimbalza a metà film, e a metà della vicenda, quando Abby rimane totalmente sola, nella dura prova della sopravvivenza, al suo handicap vampiresco. I personaggi, soprattutto gli adulti, hanno una patina grigia sulla pelle; sono zombie stanchi, appesantiti, che si muovono a passi poco convinti verso soluzioni improbabili: la madre di Owen, manichino senza volto, che cerca nell’alcol la fuga dall’ex marito e da un Dio troppo invadente, il poliziotto che indaga sui sanguinosi delitti, che sembra uscito da una serie tv di detection che nessuno guarda più se non durante la pubblicità del programma preferito, il guardiano, padre, balia stufa di nutrire
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Anda voluptatur aliciminus. Ma olum ratem liandip santius as rem ut min eaturehenis min pore sae liqui ra diti ommodipsam debit pa nonsequi bla del
la bestia, che ascolta la radio da un walkman, appoggiando le spalle curve dal fardello sulla parete fredda di un’altra stanza qualsiasi in un posto abbastanza lontano da quello precedente. A dir la verità nemmeno i due ragazzini protagonisti seguono il normale flusso delle lancette. Adulti poco sviluppati fisicamente, seri e compiti nei loro ruoli, sono innamorati dell’amore e di ogni possibile nuovo linguaggio: l’alfabeto morse, i rompicapo, i baci castissimi, gli abbracci sotto le lenzuola, la violenza necessaria, e quindi implacabile. Owen sa che per sopravvivere bisogna picchiare: si esercita di fronte allo specchio per essere più forte, si abbuffa di dolci per soffocare i suoi troppo buoni sentimenti, stringe i pugni sotto il banco perchè non può uccidere a morsi i suoi compagni di classe che lo vessano continuamente (o almeno non può fino a che non capisce che può, se lo vuole). Quando conosce Abby, e le sue derive disumane, non si stupisce più di tanto: nonostante la telefonata notturna al padre, dopo averla vista assetata di sangue, durante la quale il ragazzo pronuncia la domanda chiave del film: «Papà, esiste il male?», Owen sa che il male esiste, e lo sa bene. Lo prova sulla sua pelle tutti i giorni mentre trascina una vita piatta in un posto troppo
bianco e troppo freddo, che sogna solo di abbandonare prima possibile. La sfrontatezza di Abby nel colpire e uccidere lo scuote: lo indigna nella misura in cui lo affascina, le chiude la porta dietro per poi lasciarla sempre, e ripetutamente, entrare in. In casa, nel suo cuore, nel baule che la porterà, Nosferatu dolcissimo, puro, asessuato e colpevole, da un’altra parte.
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CONCORSI ALPEIS
di Yorgos Lanthimos
L’affetto e il ricordo nell’epoca della loro riproducibilità tecnica, o quanto meno corporea; la morte e l’assenza nell’epoca che non tollera la separazione ma accetta la ripetizione mortifera della vita. Alpeis è un manuale di riflessi condizionati della società contemporanea: il suo difetto è l’elementarità dei comportamenti che mette in scena, la sua forza, la precisione con cui scava oltre la superficie dei rapporti umani nell’era dei social network, per trovare nient’altro che la riproposizione di quella stessa superficie. A suo modo è un film di fantascienza, come già “Non lasciarmi” di Romanek, calato in un contesto realistico e privo di tecnologia, tanto la freddezza seriale della macchina è in realtà introiettata dai personaggi e dal racconto. L’assurdo, nel mondo freddo di Lanthimos, è diventato normalità; l’irrealtà, necessità. Seguendo uno schematismo al quale nessuno sfugge, il film è costruito secondo un meccanismo di sostituzione e ripetizione.
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HIMIZU
SHAME
di Sion Sono
(a.f.) È stato forse il film più spiazzante tra quelli passati nel concorso di Venezia 68. O, per lo meno, quello che ha diviso, irritato, scombussolato di più la platea festivaliera. Sicuramente, al di là delle personali opinioni al riguardo, un film che non lascia indifferenti, che colpisce duro (durissimo), che spiazza per la violenza della messa in scena e di quello che viene messo in scena. Sumida è un ragazzo che sogna di poter avere una vita normale. Dopo la scuola dà una mano nella gestione del noleggio di barche familiare, ma la madre, una mezza pazza, lo lascia solo, per fuggire con l’ultimo dei suoi amanti mentre il padre si fa vivo solo ogni tanto per massacrarlo di botte. Chazawa, compagna di classe di Sumida e innamorata pazzamente di lui, vive in una famiglia borghese ma non meno svalvolata, tanto che la madre ha montato una forca nella cameretta della figlia, nella speranza che questa un giorno o l’altro si impicchi. Tra i due si instaura un rapporto
di Steve McQueen
(s.e.) Dal carcere di Hunger alle aperture solo apparenti di Shame. Lo spazio è ancora opprimente nel cinema del londinese Steve McQueen. Gli interni dell’abitazione ma anche i palazzi sulla strada di New York tolgono l’aria. Michael Fassbender (Coppa Volpi a Venezia come miglior attore) dopo essere stato Bobby Sands nella sorprendente opera prima del regista che ha vinto la Camera d’Or al sessantunesimo Festival di Cannes, è Brandon, un trentenne di successo ma incapace di controllare i suoi istinti sessuali. L’arrivo della sorella minore Sissy nel suo appartamento porta a galla un’instabilità faticosamente trattenuta. Quello di Shame è un cinema che gioca ancora una volta sull’interazione tra figura e ambiente, sulle deformazioni visive, sulle diverse angolazioni in cui viene guardato il protagonista. Dalla scultura, alla fotografia al cinema, l’opera di Steve McQueen sembra comunque avere una coerenza, una continuità nel
DYUT MING GAM
di Johnnie To
(m.c.) Perdere una parte di se stessi: insiste su questo rischio, Johnnie To, parlando di Duo Mingjin (Life Without Principles), e indubbiamente si tratta di una chiave d’accesso privilegiata al suo straordinario cinema, quantmeno sotto il profilo tematico. Il gioco di relazioni tra personaggi si muove sul solito piano inclinato di intrecci e casualità, che tesse per le figure in campo una geometria del reale interconnessa. Solo che questa volta lo sfondo non è offerto dal sottobosco noir, bensì dalla crisi economica globale, ed è significativo che, nonostante questo, il setting del cinema di Johnnie Torimanga immutato, fatto di sovrapposizioni tra cause ed effetti, di derive morali delle azioni, di tradimenti e rapporti di forza. I tre nuclei narrativi su cui si basa il plot sono destinati a confondere i loro esiti nella scena unica finale che, in pieno stile To, materializza graficamente l’impatto tra i punti di forza e di debolezza di tutti i personaggi: un intreccio di varia
HAHITHALFUT
di Eran Kolirin
(a.f.) Batte bandiera israeliana il film Hahithalfut di Eran Kolirin. Oded, un giovane uomo insegnante all’università, un giorno, avendo dimenticato una cartelletta, torna a casa ad un ora inconsueta. Gli sembra così, contemplando la luce dell’appartamento in un’ora silenziosa, di essere entrato in un’altra casa. Osserva gli ambienti e gli oggetti con occhi nuovi, come se li osservasse per la prima volta in vita sua. Questo fatto casuale fa scattare in Oded una sorta di meccanismo di rifiuto dei tempi e degli spazi della sua vita, fino ad allora metodica e ordinatissima, pedante nella quotidiana ripetizione degli stessi gesti, degli stessi tragitti, fors’anche degli stessi pensieri e delle stesse emozioni. Secondo il regista, il protagonista torna il bambino che era e che sa stupirsi di ogni cosa, anche la più banale: il proprio appartamento vuoto, il sotterraneo, il parcheggio, proprio perché il pur impercettibile cambio di prospettiva gli fa vedere tutto con occhi nuovi. Un
4:44 LAST DAY ON EARTH
di Abel Ferrara
(a.ch.) L’apocalisse secondo Abel Ferrara. A poco più di un anno dal sempre molto chiacchierato 21 dicembre 2012, indicato da tante profezie come il giorno in cui il mondo finirà, il regista newyorkese racconta le ultime ore di una coppia in attesa che la vita, loro e dell’intero pianeta, finisca. 4:44 Last Day on Earth si apre su diversi schermi, da quello televisivo al monitor di un computer portatile all’interno dell’appartamento dei due protagonisti, che annunciano come manchino soltanto poche ore alla fine del mondo. Cisco e la sua compagna, la pittrice Skye, riflettono su come trascorrere un giorno il cui domani non esisterà. Dopo aver realizzato diversi documentari come Chelsea on the Rocks e Napoli, Napoli, Napoli, e a quattro anni di distanza dal discusso Go Go Tales, Abel Ferrara torna al cinema di finzione con un lungometraggio che mantiene i suoi suggestivi presupposti soltanto nelle primissime sequenze. Limitata dalla scelta di focalizzarsi su due sole persone, la
UN ÉTÉ BRÛLANT
di Philippe Garrel
(p.l.) È del tutto e in tutto sbagliato, purtroppo, il nuovo film di Philippe Garrel, frutto di una mega-coproduzione europea (fra i generosi finanziatori figura anche il nostro Ministero, altrimenti così attento a somministrare tagli). Sbagliati il soggetto, ben poco credibile o avvincente, e la sceneggiatura, ridondante e colma di vuoti. Superficiale e stucchevole la caratterizzazione dei personaggi, ridotti a puri stereotipi (il bell’artista tormentato, la mangiauomini procace, l’amico complice e ingenuo, la ragazza innocente caduta dalle nuvole, il giovane seduttore intellettuale), e sbagliato soprattutto il cast, in cui primeggia per inespressività e a-sensualità Monica Bellucci, perfino imbarazzante nei suoi tentativi di entrare nella parte. La visione del film garantisce però – e questo è il suo merito, condiviso con un altro fra i peggiori film del concorso, quello di Cristina Comencini – risate a scene (che vorrebbero essere drammatiche) aperte.
POULET AUX PRUNES
di Marjane Satrapi e Vincent Paronnaud
(f.t.) Ci sono registi ruffiani che sanno di esserlo e se la cavano con l’autoironia. Ce ne sono altri, invece, che sono convinti di fare della poesia e di essere talmente bravi, fantasiosi, sinceramente appassionati, da potersi concedere qualsiasi cosa. Poulet aux prunes è figlio di un equivoco banale, quello dell’accumulazione (di immagini amene, gag, ideuzze, voli pindarici, personaggi strambi, suggestioni liriche, trovate patafisiche): l’idea che basti sommare un bel po’ di roba per fare un bel film gustoso, divertente ma anche commovente, esistenziale ma anche politico. A parziale discolpa di Marjane Satrapi e Vincent Paronnaud va il fatto che il loro cinema, per ora, sembra solo un’estensione o una traduzione dell’universo graphic novel. Riuscita, nel caso di Persepolis, per la passione, l’efficacia espressiva, il tono insieme naif ed esemplare. Compiaciuta e perfino un po’ arida, nel caso della traduzione di Poulet aux prunes, storia di un violinista (nella Teheran nel
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ORIZZONTI AMORE CARNE
di Pippo Delbono
(a.m.) Il flash d’apertura sui funerali di Pina Bausch trasfigura direttamente al primissimo piano delle cicatrici nell’occhio di Pippo – cicatrici che sono quelle del dolore del mondo. È il suo periodico esame dell’HIV, il male oscuro per colpa di amore e carne. Gli viene fatto un prelievo, che lui filma nascostamente col suo telefonino. Il verdetto verrà, ma lui sa già tutto. In Delbono, teatro o cinema che sia, la realtà si trasforma direttamente in poesia. Basti riguardarsi il lungo piano sequenza con la madre che, in cucina, parla e parla, ma il figlio le toglie crudelmente l’audio, in cui si intrecciavano ricordi dei tempi passati sempre uguali e prediche sui valori famigliari, e lo sostituisce con proprie considerazioni tra il cinico e il sentimentale sulle madri vili, preoccupate e mediocri, povere e feroci, sul dolore e la gioia. Un momento di pura poesia che scaturisce proprio dal contrasto tra il dato realistico e l’astrazione che Pippo ne compie. Il film prosegue raccordando esplorazioni di luoghi.
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TWO YEARS AT SEA
SAL
di James Franco
(s.e.) Quasi una morte in diretta quella di Sal, coraggiosissimo esperimento dietro la macchina da presa dell’attore James Franco, che stravolge le forme del biopic, destrutturandolo e ricomponendolo in qualcos’altro. Una visione simile a quella del cinema di Gus Van Sant, a cui l’attore statunitense sembra vicinissimo proprio nell’immortalare “il tempo prima della fine”, catturare attimi privati, sospenderli e dilatarli come era avvenuto con Kurt Cobain in Last Days e Harvey Milk in Milk, dove Franco era proprio uno dei protagonisti. Il 12 febbraio 1976 è l’ultimo giorno della vita di Sal Mineo, che era salito alla ribalta a 15 anni accanto a James Dean in Gioventù bruciata con cui ottenne una nomination all’Oscar e poi, subito dopo, aveva ottenuto ruoli importanti anche in Il gigante, Lassù qualcuno mi ama ed Exodus. Nel decennio successivo, però, la sua carriera iniziò ad andare in crisi, perché ormai era spesso identificato con l’immagi-
di Ben Rivers
(a.m.) Henry David Thoreau se ne andò a Walden Pond, «a un miglio da qualsiasi vicino», per trovarvi la propria personale niche e per tracciare una strada di immersione in una Natura purificata che doveva segnare profondamente la psiche americana. Al tempo in cui Thoreau si trasferì nei boschi, l’esperimento collettivo della libertà americana era in pratica già terminato. I vicini già vivevano nell’inerzia. Però non poteva finire il sogno, il desiderio, di una rigenerazione a contatto con la natura. Fu semplicemente per caso, come egli dice, che Thoreau andò a vivere presso Walden Pond il giorno dell’Indipendenza del 1845. Forse è proprio la consapevolezza del fatto di non potere più trovare il senso dell’essere americano nel destino nazionale del suo Paese a rendere Thoreau così profondamente americano. In America, la libertà inizia immediatamente al di là dei confini dell’ordine istituzionale – a un miglio da qualsiasi vicino, nei boschi adiacenti Walden, dove la
PHOTOGRAPHIC MEMORY
di Ross McElwee
(p.c.) Ross McElwee, accademico, documentarista independente legato agli stilemi del cinéma-vérité, emerge in questo suo ennesimo racconto di sé come un padre sorpreso dagli anni che passano. Più o meno da quando la tecnologia lo permette, l’uomo raccoglie reperti video di quanto lo circonda, e soprattutto del figlio, le cui prodezze infantili – riprese con tutto l’affetto paterno del caso – inframmezzano il film a intervalli regolari. Giunto alla sessantina, McElwee tenta di colmare il gap generazionale che lo separa dall’ex pargolo, ora adolescente in piena ribellione, attraverso un vertiginoso cortocircuito mediale. Incapace di arrendersi di fronte al digital divide che lo separa dall’amatissimo soggetto, e – tra le righe – sottilmente sorpreso dal fatto che quest’ultimo non sembri altrettanto interessato a traversare il medesimo baratro, il nostro cineamatore si imbarca in una minuziosa ricerca della propria giovinezza. Parte così per la Francia, sulle orme di un viaggio in Bre-
I’M CAROLYN PARKER
di Jonathan Demme
(c.c.) Come e forse più dell’attentato alle Torri gemelle – di cui proprio quest’anno si ricorda il decennale – la tragedia prodotta dall’uragano Katrina a New Orleans appare l’evento su cui l’America progetta la sua nuova identità. Si trovano infatti più elementi di riconoscimento nella lotta per la ricostruzione dei quartieri inondati dall’acqua che nel crollo di uno dei simboli di Manhattan. Se le vite hanno tutte stesso peso e uguale dignità, a livello di costruzione drammaturgica la battaglia contro l’acqua ha la forza di un favoloso racconto biblico, aggiornato al presente di una società spesso mal gestita. E poi – come hanno colto Jonathan Demme e con lui David Eggars, nel romanzo Zeitoun – la tragedia di Katrina parla di qualcosa che sta davvero al cuore della nazione americana: se l’attentato dell’11 settembre è un colpo al centro economico dell’America, ai suoi uffici, ai suoi lavoratori, l’uragano del 2005 è un destro sferrato direttamente alle case
WOULD YOU HAVE SEX WITH AN ARAB?
di Yolande Zauberman
g.b.) C’è in Israele qualche ebreo/a che desideri o ritenga possibile fare all’amore con un concittadino arabo palestinese, mussulmano o cristiano? E, viceversa, c’è qualche arabo palestinese che desideri o ritenga possibile costruire una relazione sentimentale con un concittadino israeliano? Non sono domande da porsi, come suggerisce indirettamente Eran Kolirin con Hahithalfut (Lo scambio), uno dei più originali fra i titoli in competizione a Venezia 68. Non tanto, o soltanto, perché la risposta sia scontata, ma perché gli uni sembrano non vedere gli altri e viceversa; meglio, li considerano come ombre che si confondono con il non percepibile, astratte presenze-assenze aliene, sulle quali non interrogarsi, da negare come fossero indizi labili di un passato effimero da rimuovere, da ignorare nel presente e quindi privi di ogni possibile riscontro nel futuro. La Zaubermann, che si è formata lavorando con Amos Gitai e che realizzato sia documentari che film a soggetto, nelle
THE INVADER
di Nicolas Provost
(p.l.) Il film ha un avvio di fortissimo impatto evocativo: si apre con l’inquadratura ravvicinata di una vulva glabra (una versione odierna di L’origine del mondo di Courbet), per allargare sulla figura intera di una splendida donna dai tratti e movimenti algidi: quasi un automa perfetto o un alieno. Siamo, lo comprendiamo successivamente, in un campo di nudisti in riva al mare, e dal mare cominciano a giungere degli uomini neri, coperti di stracci, fra i quali spicca il protagonista, Amadou, impegnato nel trasportare con fatica un amico ferito fino alla riva: un viluppo di muscoli e tensione michelangiolesche. Chi scrive trova insopportabile la retorica manichea degli immigrati buoni e mansueti maltrattati in Occidente da razzisti feroci (una visione tanto razzista quanto quella opposta, e comune, purtroppo, a tutti i film italiani proposti quest’anno a Venezia). La mitologia del “buon selvaggio” ha sempre prodotto – crediamo – guai e mistificazioni.
HAIL
di Amiel Courtin-Wilson
(a.m.) Nel 2005, il regista australiano Amiel Courtin-Wilson, molto attivo in campo documentaristico ma anche regista di compagnie di danza e disegnatore, incontra un personaggio davvero particolare, Daniel P. Jones, un individuo appena uscito di galera sul cui percorso di riabilitazione attraverso il teatro lui sta girando un documentario. Wilson si accorge della straordinaria intensità delle performance di Danny sul palcoscenico. Tra i due nasce una intensa collaborazione, un po’ come quella tra Herzog e Bruno S., che infine ha portato a questo film del tutto particolare e fuori dagli schemi. Si può infatti dire che il film “è” Danny, che viene seguito per tutto il tempo in piani ravvicinati e incollati al suo corpo da una macchina da presa in costante movimento e inseguimento. La storia è quella di due marginali, un uomo e una donna coetanei e legatissimi. Mangiano e rubano insieme. Quando però la donna muore a causa della droga, Danny
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LA SETTIMANA DELLA CRITICA LÀ-BAS
LOUISE WIMMER
di Guido Lombardi
(e.mo.) Nella piccola ondata di film sugli immigrati visti a Venezia (Crialese, Olmi, Andrea Segre) il film di Guido Lombardi si segnalava come quello che più cercava di cogliere le dinamiche interne a una comunità, quella nigeriana dell’hinterland campano. Lo spunto era uno dei fatti di cronaca più tristemente significativi degli ultimi anni: la strage di nigeriani perpetrata dalla camorra a Castelvolturno nel 2008. Ma il film non parla di questo, quanto piuttosto di un percorso attraverso le varie articolazioni di un mondo in parte chiuso e in parte “poroso”, specie verso gli strati più bassi della popolazione italiana. Nel film si vedono luoghi e si capisce a cosa servono, come ci si muove in essi, chi parla con chi e perché, e che tutto questo è un mondo articolato, complicato e tutt’altro che a noi estraneo. Quello che piace del film è proprio questo, l’assenza di stereotipi e di visioni monodimensionali, la capacità di rendere una complessità anche visivamente, dimostrando una mano sicura nel far respirare i personaggi nello spazio,e una notevole prossimità agli stati d’animo che li rende credibili senza paternalismo. E volendo si può trovare qui la lezione di stile di Matteo Garrone, non solo l’ultimo Gomorra ma anche i suoi meno rigorosi film degli inizi. L’elemento debole, purtroppo, è invece quello che affligge molto cinema italiano di oggi, una eccessiva concentrazione.
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di Cyril Mennegun
(g.b.) Immagini di un paesaggio di guerra, della guerra prodotta dall’implosione dell’era del capitalismo finanziario globalizzato ormai in corso da tre anni, riguardo la quale si è iniziato da poco a comprenderne le implicazioni e gli sconvolgimenti che produce. Mennegun, con questo suo primo film di finzione, osserva questo paesaggio con sguardi a volta sfuggenti e apparentemente casuali, simili a quelli della nostra esperienza quotidiana, su persone che capita talvolta, ma ripetutamente, di incontrare, spingendoci spesso senza volerlo a interrogarci sulla loro realtà e a fantasticare sulle loro possibili storie di vita. Persone che sempre più numerose e insistenti (non solo ai nostri sguardi) sono profughi e vittime di battaglie perdute (talvolta combattute in totale solitudine) di una guerra che ha travolto e sta sconquassando esistenze personali, assetti sociali e sentimenti di futuro: molti lavori degli ultimi mesi, compresi quelli in programma alla Mostra nelle diverse sezioni, lo testimoniano. Con una modalità espressiva che tende a mantenere labile la distanza tra realtà e finzione Mennegun propone la figura di una donna francese sui cinquant’anni, sfiorita più a causa dell’amarezza e del dolore che della fatica, ancora bella, che vive sulla sua vecchia automobile, che lavora come donna delle pulizie.
TOTEM
di Jessica Krummacher
(p.r.) Opera di diploma alla Hochschule fuer Fernsehen und Film di Monaco di Baviera della giovane regista tedesca Jessica Krummacher, è la storia di Fiona, una collaboratrice domestica e bambinaia di una famiglia borghese della Ruhr piuttosto misteriosa (si dichiara orfana ma poi parla al telefono con la madre dicendole di essere in vacanza). I Bauer,questo il cognome della famiglia, marito e moglie regolarmente sposati, hanno una figlia adolescente che frequenta un ragazzo molto più grande di lei e un bambino piccolo un po’ capriccioso, che affidano in buona parte alle cure di Fiona. L’ambiente familiare decisamente claustrofobico – i contatti con l’esterno sono rari e non rivelano reti relazionali particolarmente significative – poggia su regole e rituali precisi che scandiscono monotonamente le giornate. La loro osservanza viene imposta e ribadita di continuo. Ben presto però sotto questa patina di ordine e disciplina si manifestano le nevrosi e le angosce dei singoli componenti del nucleo familiare e i ruoli e i confini si confondono. La figlia cerca di sfuggire ai controlli, la madre/moglie, che vive male l’arrivo precoce della menopausa, scarica la sua frustrazione e la sua rabbia allevando due bambolotti come fossero veri neonati, il padre/marito, spesso assente per lavoro, rivolge le sue attenzioni a Fiona per la quale rivela un progressivo interesse morboso.
EL LENGUAJE DE LOS MACHETES
EL CAMPO
di Hernán Belón
(p.l.) Opera prima di un quarantenne regista argentino che finora aveva diretto soprattutto documentari. Anche qui si avverte l’impronta documentaristica, soprattutto nell’attenzione riservata agli spazi aperti della campagna (el campo, appunto) che circonda la casa in cui va ad abitare una giovane coppia con una bimba piccola. C’è subito contrasto fra i due: lui, Santiago, ha scelto di vivere lontano dalla città, mentre lei, Elisa, non è così convinta della soluzione adottata. La solitudine imposta come condizione abituale alla donna peggiora la situazione. Il grande spazio all’aperto induce un senso di vuoto, e i “vicini”, che vivono in realtà al di là di un bosco, appaiono come presenze inquietanti. La notte, poi, si popola di rumori e sibili insinuosi. I rapporti fra i due coniugi si deteriorano prima lentamente, poi in modo più pronunciato. Le presenze degli altri sembrano minacciose, la cura della figlia appare per la madre più pesante, l’aria intorno alla famiglia si fa greve. Una situazione che, al cinema, conosciamo già bene. Ci aspetteremmo una svolta narrativa, un colpo di scena destabilizzante, la resa concreta e manifesta di una alterità (esterna o interiore che sia): in fin dei conti le premesse ci sono tutte (almeno per una piccola produzione che si rispetti), e vengono ben scandite nella prima parte del film. Ma qui non succede nulla.
di Kyzza Terrazas
(b.f.) Lui e lei, trentenni. A Città del Messico. Vivono nello scontento, nella rivolta, nel naufragio di ogni speranza politica. Vogliono compiere un atto definitivo. Farsi saltare in aria con dei candelotti di dinamite in un posto pieno di gente. Lui, Ray, una famiglia borghese alle spalle, riprende con la videocamera le proteste sociali. Lei, Ramona, è la cantante di un disastrato gruppo punk che più punk non si può. Vivono con frenesia un amore caotico, disperato e sconvolto. Vivono alla giornata, al momento. Accettano la sfida di stare insieme nel caos, tra alcool e droghe. Si mettono in scena come amanti maledetti quando sanno bene che anche questa, del maledettismo, è una finzione passata di moda. Il regista e il film accettano la sfida. Il linguaggio è spezzato, costantemente segnato da immagini rapide, rubate, frammentate, la storia è ridotta a pezzi e bocconi. La ribellione, lo scontro fisico, amoroso, sociale stanno dentro il modo d’essere del film. Così come il segno del fallimento. È come se, di fronte all’inabissarsi di Ray e Ramona, anche il film volesse autodistruggersi, non lasciarsi nessuna via di fuga e di scampo. Ray viene pestato dai poliziotti durante una manifestazione di contadini armati di machete. Lui e Ramona si trovano a decidere se tornare sui loro passi,fare un figlio, vivere e basta, oppure tentare il tutto per tutto e far saltare il mondo,un minimo pezzo.
STOCKHOLM OSTRA
di Simon Kaijser da Silva
(b.f.) Il regista Simon Kaijser da Silva viene dalle serie televisive, e si sente. Questo è il suo primo lungometraggio. Periferia orientale di Stoccolma. Un mondo tranquillo, normale. Famiglie che vivono come sempre. Storie di coppie. Anna, il marito, la figlia Tove di nove anni. Johan e la moglie. Un giorno Johan investe con la macchina la piccola Tove che muore. Anna, affranta dal dolore, cerca di superare il lutto parlando della bambina, il marito pensa che un altro figlio possa aiutarli ad andare oltre. Johan ha visto Anna al pronto soccorso, vuole entrare nel suo mondo, inizia con lei una relazione. Le loro vite si incrociano, diventano amanti, Anna non sa che Johan è l’uomo che ha investito sua figlia. Dice il regista di aver sempre voluto fare un film «in cui l’amore non fosse la ricompensa dell’eroe, ma il conflitto centrale dell’intera storia, in cui l’amore è una forza che cura, ma anche potenzialmente distruttiva». L’amore per una donna, per un uomo, per una figlia. Da una parte, per Anna, l’elaborazione del lutto; dall’altra, per Johan, un senso di colpa che lui pensa di curare con un’amore impossibile. La domanda è: può una storia d’amore risarcire una perdita, rimediare a un lutto, far ricominciare due esistenze? Anna e Johan nel loro percorso fatto di menzogne, bugie, sbandamenti, una gravidanza, un tentato suicidio.
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LE LUNE DEL CINEMA 1 SETTEMBRE 2011
Muore di tumore osseo a Berlino il 31 agosto a 69 anni Rosel Zech, natavi il 7 luglio 1942. Debuttante in teatro col 1970; nota in Italia particolarmente quale indimenticabile protagonista di Veronika Voss di Rainer Werner Fassbinder (1982).Tra i suoi film importati, però, anche La tenerezza del lupo (Uli Lommel, 1973), Salmonberries – A piedi nudi nella neve (Percy Adlon, 1991) e Anatomy 2 (Stefan Ruzowitzky, 2003). Qualcuno l’avrà ammirata, magari senza riconoscerla, negli abiti austeri dell’affascinante madre superiora di Un ciclone in convento, la disperante ma frequentata serie bavarese in onda da un decennio anche su RaiUno. Erroneo invece l’accreditamento, dettato dalle agenzie, a protagonista di Lola dello stesso Fassbinder: «Il più bel culo dell’Alleanza occidentale» (Tatti Sanguineti, «Panorama» all’epoca) era quello di Barbara Sukowa…
1 SETTEMBRE 2011
Al British Film Institute, personale completa di Ken Loach per il suo settantacinquesimo compleanno. Inaugura l’anteprima mondiale di The Save the Children Fund Film, il documentario commissionato all’autore dall’organizzazione non governativa nel 1969, e poi disconosciuto dalla stessa fino a progettarne la distruzione. Punto di vista poi fortunatamente rientrato, autorizzando, oltre quarant’anni dopo, la pubblicazione del lavoro. Contemporanea l’apertura della mostra sull’archivio personale, che il cineasta ha nel frattempo donato appunto al BFI.
1 SETTEMBRE 2011
Vanessa Redgrave abbandona su due piedi il set del film che sta girando in Inghilterra per raggiungere Dale Farm, nell’Essex, dove si unisce alla difesa, organizzata dagli attivisti di Amnesty International, del più grande campo nomadi della Gran Bretagna, in procinto di essere sgomberato a seguito delle proteste degli abitanti della zona.
2 SETTEMBRE 2011
Gli occupanti del Valle di Roma sbarcano al Lido: viene “espugnato” da ventisei loro rappresentanti, unitamente ai lavoratori dell’audiovisivo dei Magazzini del Sale Docks di Venezia, il vecchio teatro Marinoni, che sorge all’estremità opposta del lungomare rispetto al Palazzo del Cinema: nell’area dell’ex ospedale lidense, che nel 2005 la giunta Cacciari aveva alienato.
4 SETTEMBRE 2011
All’ottava edizione del “Festival della Mente” di Sarzana, Giuseppe Bertolucci ed Emanuele Trevi discutono sul tema “Le parole e le immagini: cinema e letteratura”; Sonia Bergamasco e Fabrizio Gifuni ai leggii per “Attilio Bertolucci e Pier Paolo Pasolini: un’amicizia in versi”.
Rosel Zech 42
P.P. Pasolini
5 SETTEMBRE 2011
All’aereoporto di Teheran, il regista Mojtaba Mirtahmasb, in partenza con moglie e figlio per Venezia, a presentare alla 68a Mostra il suo This Is Not a Film, realizzato con Jafar Panahi, viene bloccato dalla polizia col ritiro del passaporto e il sequestro degli effetti personali. Tutto questo mentre Panahi, notoriamente condannato a sei anni di carcere e a venti di divieto di esercitare la professione di regista e viaggiare all’estero, si trova in Iran il libertà provvisoria in attesa del processo di appello. Seguirà – quindici giorni dopo – l’arresto di sei documentaristi, rei di aver realizzato un documentario ritenuto irriguardoso sulla vita dell’ayatollah Khamenei per l’emittente inglese BBC Persia.
6 SETTEMBRE 2011
Olmi presenta a Venezia Il villaggio di cartone: «Suggerirei a tanti ferventi cattolici, soprattutto a quelli che si dichiarano tali in politica, di ricordarsi di essere prima di tutto cristiani. Stiamo vivendo in un mondo di cartone. È di cartone il potere, lo sono gli uomini di potere, lo è la finta giustizia, la ricchezza, l’economia. Basta un po’ di umidità e il cartone si scioglie, come si sta sciogliendo in questi ultimi tempi tutto ciò che sembrava indistruttibile. Siamo circondati da uomini che si credevano importanti, e invece oggi sappiamo che sono di cartone, destinati a scomparire».
6 SETTEMBRE 2011
RaiUno, trasmettendo il già rammentato Un ciclone in convento, elimina l’episodio Romeo e Romeo, in cui due uomini si uniscono in matrimonio, celebrato dal sindaco, in un convento alla presenza delle suore. La casa produttrice, NDF di Monaco, si dichiara esterrefatta ricordando come in Germania, cinque mesi prima, l’episodio fosse andato integralmente in onda sul canale principale pubblico, con altissimo ascolto e senza rimostranze. Il direttore di rete, Mauro Mazza, difende invece la scelta: «Volevamo evitare una polemica. Avevamo la necessità di togliere una puntata per problemi di spazio editoriale. Dovendo variare le puntate abbiamo deciso di togliere questa in quanto il matrimonio gay avveniva sull’altare di una chiesa cattolica, alla presenza di una suora e di un primo cittadino». Insomma reo confesso. L’obiettivo di evitare polemiche è conseguito immediatamente: la deputata PD Paola Concia, fresca di nozze germaniche con la compagna tedesca, presenta un’interrogazione urgente attraverso la commissione parlamentare di vigilanza RAI, sollecitando la trasmissione dell’episodio in forma integrale, e il portavoce del Gay Center, Fabrizio Marrazzo, chiede le dimissioni di Mazza. Che la cattolicissima Baviera, terra del Papa, stia diventando relativista?
6 SETTEMBRE 2011
Muore a Varsavia a 88 anni Janusz Morgenstern, nato a Tarnopol (allora Polonia, ora Ucraina) il 16 novembre 1922. Di famiglia
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LE LUNE DEL CINEMA
Paulette Dubost
ebraica, allievo della scuola di Lodz e iniziato alla regìa come proprio aiuto dalla generazione dei registi che nel dopoguerra dedicarono i loro primi capolavori all’oppressione nazista e alla shoah, come Wanda Jakubowska (L’ultima tappa, 1948) e Andrzej Wajda (I dannati di Varsavia, 1956; poi Cenere e diamanti, 1958), debutta imponendosi subito all’attenzione internazionale con Arrivederci a domani (1960), che consolidò la popolarità di attore controcorrente di Zbigniew Cybulski, e Ambulans (1962), ancora sui campi di sterminio. Nella ventina di film realizzati successivamente, spiccano Jowita (1967), La leggenda del cavallo bianco (1987) e da ultimo Il male minore (2009). Aveva firmato anche serie tv, tra cui rimarchevoli Il capitano Kloss (1968, con Andrzej Konic), favorendo come produttore l’attività del suo antico maestro Wajda (Korczak, 1990) e di Agniewska Holland (Europa Europa, 1991).
6 SETTEMBRE 2011
Muore a Roma, dov’era nato il 23 gennaio 1922, a 89 anni Francesco – in arte Franco – Potenza. Compositore e musicologo, direttore d’orchestra e studioso di cultura popolare, allievo di Arthur Honegger, ha lavorato ripetutamente, oltre che a una nutrita serie di documentari, anche alle colonne sonore di film: Avventura al motel (Polselli, 1963), E venne un uomo (Olmi, 1965), Il tormento e l’estasi (Carol Reed, id.: a quattro mani con Alex North), L’ultimo pugno di terra (F. Serra, 1966), Trio (Mingozzi, 1967), Fuoco (Gian Vittorio Baldi, 1968), Le salamandre, Dal nostro inviato a Copenhagen e Afrika (Cavallone, 1968, 1970 e 1974). A lui si dovette anche la non dimenticata sonorizzazione dei primi film di Buster Keaton programmati dalla RAI.
7 SETTEMBRE 2011
A Tunisi Habib Bel Hédi, l’esercente del cinema AfricArt assalito dai fondamentalisti (Lune del 26 giugno e dell’11 luglio) ne annuncia la riapertura.
9 SETTEMBRE 2011
A Venezia, Marco Bellocchio riceve dalle mani di Bernardo Bertolucci il Leone d’Oro alla carriera. Precede la cerimonia la proiezione del bel documentario di Pietro Marcello Marco Bellocchio diploma di regìa; lo segue la “prima” di Nel nome del padre (1971), nella nuova versione “abbreviata” in un director’s cut controcorrente. RaiTre si associa intelligentemente ai festeggiamenti, mandando in onda in prima serata Vincere.
10 SETTEMBRE 2011
Muore a Brookhaven (N.Y.) a 88 anni appena compiuti Clifford Parker Robertson III, in arte Cliff Robertson, nato a La Jolla (California) il 9 settembre 1923. Debuttante giovanissimo in teatro e poi sullo schermo con Logan (Picnic, 1955) e Aldrich (Foglie d’autunno, 1956: lo ritroverà con Non è più tempo di eroi, 1970), va al centro dell’attenzione come protagonista di due bellici: Il nudo e il morto (1958, di Raoul Walsh da Nor-
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LE LUNE DEL CINEMA
man Mailer) e PT 109 – Posto di combattimento (1963, di Leslie Martinson, nel quale – caldeggiato dallo stesso presidente – interpreta il ruolo del giovane John Kennedy eroe di guerra, proprio in concomitanza col suo assassinio). Sarà poi diretto, in una ricca filmografia che si arricchisce fino al 2007, tra gli altri da Fuller (La vendetta del gangster, 1961), Schaffner (L’amaro sapore del potere. 1964, dove è l’antagonista senza scrupoli di Henry Fonda alla candidatura presidenziale, come immaginato da Gore Vidal nel suo dramma), Koster (Dominique, 1966), Mankiewicz (Masquerade, 1967), Nelson (I due mondi di Charly, 1968, che gli frutta l’Oscar), Pollack (I tre giorni del Condor, 1975), De Palma (Complesso di colpa, 1976). Smight (La battaglia di Midway, id.), Fosse (Star 80, 1983), Carlino (Class, id.), Carpenter (Fuga da Los Angeles, 1996), Raimi (Spider-Man 1-2-3, 2002-2007). In tv aveva interpretato I giorni del vino e delle rose cinque anni prima del film di Blake Edwards. Democratico convinto, non ha lesinato esposizioni politiche.
11 SETTEMBRE 2011
Muore di cancro a 39 anni a Sidney Andy Whitfield, nato a Amlwich (Galles) il 17 luglio 1972 e trasferitosi in Australia nel 1999. Reso celebre in ottanta paesi dalle tredici puntate tv di Spartacus – Sangue e sabbia in cui interpreta l’eponimo eroe libertario, aveva alle spalle altre serie e un film da protagonista (Gabriel, la furia degli angeli di Shane Abbess, 2007). La sua malattia e scomparsa hanno costretto la produzione prima a temporeggiare con la seconda serie di Spartacus, poi a scritturare come futuro suo protagonista un altro attore, Liam McIntyre.
12 SETTEMBRE 2011
Muore a Callao (Virginia) a 83 anni per complicazione collegabili all’Alzheimer Mary Fickett, nata a Buffalo (N.Y.) il 23 maggio 1928, definita «la regina della soap» per la sua presenza sistematica in alcuni capisaldi del fortunatissimo genere popolare tv. Allieva di Kazan all’Actors’s Studio, debuttante nel cinema con Tormento di un’anima (Randall McDougall,1957), sfonda definitivamente sui piccoli schermi in serie quali Gli intoccabili, Ai confini della notte, La parola alla difesa, Bonanza e Lancer: ma soprattutto dando vita per trent’anni esatti (1970-2000) al personaggio di Ruth Martin in La valle dei pini (All My Children).
15 SETTEMBRE 2011
Muore a 100 anni Otokar Vávra, figura fondamentale del cinema cecoslovacco: nato a Hardec Králové il 28 febbraio 1911 e fondatore della Facoltà di Cinema presso l’Accademia dello Spettacolo di Praga (FAMU). Dai corti sperimentali degli anni Trenta passa in parallelo, nel dopoguerra, alla realizzazione di lungometraggi sempre più impegnativi, spesso profondamente legati ai nodi della storia nazionale (come la trilogia dedicata a Jan Hus, 1952-57) e a sempre maggiori responsabilità organizzative del cinema ceco. Autore eclettico e intelligente recettore di influenze selezionate, prodigo di film denotanti un robusto talento narrativo, è stato
Emma Králové 45
LE LUNE DEL CINEMA
fortemente penalizzato agli occhi di generazioni di spettato92 cineforum 508 Una donna di carattere: Mary Fickett, nel ruolo di Eleanor Roosevelt, assieme a Ralph Bellamy (nella parte del marito Franklin D.), nella produzione teatrale Sunrise at Campobello (1958), di Dore Shary. Zdenek Stepanek nel ruolo eponimo in Jan Hus (1952-1957) di Otokar Vávra. 93 cineforum 508 ri italiani dal fatto che, dopo L’amante mascherata (1940) e La sua notte (1941) più nessuno dei suoi film sia stato immesso – salvo errori od omissioni – nel nostro circuito.
19 SETTEMBRE 2011
Muore a Genova a 61 anni Pepi Morgia, inimitabile lighting designer per eventi e spettacoli. Tra i fondatori del Teatro della Tosse genovese, amico fraterno di Fabrizio De Andrè e curatore di tutti i suoi concerti (come di altri per Elton John, Bowie, i Genesis, o esibizioni di Nureyev o della Fracci). Esequie celebrate da don Gallo a San Benedetto al Porto.
20 SETTEMBRE 2011
Una buona notizia contro tendenza è quella che riguarda il progetto del comune di Venezia di mettere a regime otto schermi cittadini entro 2012. Lo annuncia Roberto Ellero, guida del Circuito Cinema dal 1981 (si ricordano ancora i suoi “Quaderni”, piccole, preziose monografie degli anni Ottanta e Novanta, almeno una sessantina di titoli). Al Giorgione (due sale), all’Astra (due sale), alla Casa del Cinema (che accoglie la videoteca Pasinetti, un archivio di diecimila film) si aggiungerà la riapertura del Rossini, ristrutturato in tre sale, il tutto senza dimenticare l’Arena estiva di Campo San Polo. Un complesso di milleduecento posti a gestione diretta e integrata per una popolazione ormai di soli sessantamila abitanti. [lopedeluna]
21 SETTEMBRE 2011
Muore a 100 anni a Longjumeau (Essonne) Paulette Marie Emma Deplanque, in arte Paulette Dubost, nata a Parigi l’8 ottobre 1910. Figlia di una cantante di operetta, ricalca le orme materne fin da giovanissima. Nel cinema debutta col sonoro: giungerà ad accumulare la partecipazione a ben centosessanta film, tra cui Hotel du Nord (Carné, 1938: Ginette) e La regola del gioco (Renoir, 1939: l’indimenticabile cameriera Lisette; ma con Renoir era già stata comparsa in Nanà, 1926), Il piacere e Lola Montès (Max Ophuls, 1952 e 1955: un’ospite della “casa” Tellier e di nuovo la cameriera Joséphine), Viva Maria! e Milou a maggio (Malle, 1965 e 1990: rispettivamente le signore Diogène e Vieuzac), L’ultimo metro (Truffaut, 1980: Germaine). Oltre a molta tv. Autobiografia: C’est courte la vie! (2007).
22 SETTEMBRE 2011
Rodrigo Cipriani, nominatovi dal ministro Galan, è il nuovo presidente di Cinecittà-Istituto Luce.Tra i consiglieri il produttore Riccardo Tozzi.
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Cliff Robertson
LE LUNE DEL CINEMA
Anita Ekberg
23 SETTEMBRE 2011
Lezione di teatro impartita da Peter Stein sul lavoro dell’attore agli occupanti del Teatro Valle, con la grande, inseparabile Maddalena Crippa, che esemplifica interpretando una delle prime scene della Medea di Euripide.
23 SETTEMBRE 2011
Riprendono l’attività le undici sale romane di Mediaport Cinema (ex gruppo Cecchi Gori). La lunga e aspra vertenza si era venuta ricomponendo dopo l’ultimo violento strappo dell’11 settembre: due giorni di sciopero dei dipendenti a seguito del licenziamento di uno di loro, imputabile, secondo Cub Informazione, a «una vendetta, consumata molto fredda».
25 SETTEMBRE 2011
Muore in ospedale a Monza a 78 anni Sergio Bonelli, nato a Milano il 2 dicembre 1932. Figlio di Gian Luigi (l’inventore di Tex Willer, fissato dall’iniziale matita di Aurelio Galleppini “Galep”) si fa le ossa dalla gavetta nell’azienda di famiglia, alla cui direzione subentra nel 1958. Inventa personalmente, con il nom de plume di Guido Nolitta, Zagor nel 1961 e Mister No nel 1975, e più di recente Ken Parker, Dylan Dog e Nathan Never, cominciando anche, dal 1976, a scrivere di persona le storie di Tex. «Forse il rimpianto più grande è la sfortuna che hanno avuto i suoi personaggi sul grande schermo: da un non memorabile Tex con Giuliano Gemma, ai buffi adattamenti turchi di Zagor fino all’ultimo, nefando, Dylan Dog, di cui rifiutava categoricamente di parlare» (Fornasiero).
25 SETTEMBRE 2011
Il festival di Mannheim-Heidelberg esprime la propria condanna per gli involontari assenti iraniani trattenuti, paragonando il regime di Teheran a quello nazista.
26 SETTEMBRE 2011
Alla Casa del Cinema di Roma, gli aderenti al SNGCI consegnano a Emanuele Crialese il premio Pasinetti assegnatogli alla mostra di Venezia per Terraferma.
29-30 SETTEMBRE 2011
Compiono ottant’anni, a poche ore di distanza l’una dall’altra, Anita Ekberg e Angie Dickinson. Illuminarono gli schermi mondiali a poca distanza di tempo l’una dall’altra, rispettivamente in La dolce vita di Fellini e in Un dollaro d’onore di Hawks.
30 SETTEMBRE 2011
Al Teatro Valle occupato dal 14 giugno, assemblea nazionale – indetta dagli occupanti – di tutti i lavoratori della conoscenza.
contedeluna@alice.it
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I LIBRI I LIBRI Emiliano Morreale
CINEMA D’AUTORE DEGLI ANNI SESSANTA Ed. Il Castoro, Milano 2011 Collana “Italiana-Storie di Cinema
cad.
pp. 175 €15,50
Nuova collana del Castoro: “Italiana-Storie 1955-1970. Partitamente sono trattati sette di Cinema”. I due primi volumi riguardano film: La grande guerra, Tutti a casa, Divorzio i due aspetti più sintomatici del nostro cineall’italiana, La visita, Il sorpasso, Lo scopone ma anni Sessanta, il film di genere e quello scientifico, C’eravamo tanto amati. Nove sono d’autore. Maria Pia Comand, nel riprendere il i film d’autore privilegiati da Emiliano Morretema già molto trattato della commedia, non ale nel suo libro: La dolce vita, L’avventura, Il rifiuta quella denominazione (“all’italiana”) Gattopardo, Accattone, I fidanzati, Prima delche tanti rigettano a priori, ma la discute, e si la rivoluzione, I pugni in tasca, Io la conoscevo chiede perché tale tipo di film abbia avuto da bene, Dillinger è morto. Ma nel discorso genenoi tanto successo se è popolato da gaglioffi e rale si parla anche di De Sica e di Rossellini, e da perdenti.Vi rinviene in pieno la lezione del anche qui il neorealismo c’entra per qualcosa. neorealismo, e in diversi capitoletti (costellati Ma le “somiglianze di famiglia” sono tante. E da fotogrammi piccinini) inquadra il lavoro in fondo anche il cinema d’autore si propone di produttori, registi, sceneggiatori, attori nel come un “genere”; e chi l’ha detto che la noucontesto socio-politico del nostro Paese anni velle vague sia solo francese?
Massimo Consorti
SIGNORI E SIGNORE, CARLO DELLE PIANE Ed. Graf/Testepiene, Napoli 2011 Il naso storto, schiacciato da un colpo di pallone durante una partita di calcetto quando aveva dieci anni, ha fatto di Carlo Delle Piane una caratteristica sfruttata dal cinema da quando lui ne aveva dodici, di anni (Cuore di Duilio Coletti, 1948). E ne ha fatti, di film, da allora, con un deciso cambio di pelle: dalle pel95 cineforum 508 LIBRI 96 cineforum 508 licole di serie Z (così le definisce l’autore di questo libro, credo il primo dedicato all’attore, classe 1936) ai ruoli drammatici per Pupi Avati. Che a tutta prima giudicava i film di questo attore «inguardabili ». Infatti nella prefazione scrive: «Con Carlo abbiamo condiviso un percorso impervio fatto di reciproca crescita professionale, segnato da grandi gioie ma anche
pp. 256 € 22,00
da momenti di inevitabile sconforto». Infanzia, giovinezza, episodi ed episodietti, la scelta di Coletti, quella successiva di De Sica (in Cuore faceva il maestro) che lo impose a Léonide Moguy per Domani è troppo tardi, i rapporti affettuosi con Totò e con Fabrizi (quest’ultimo diventò addirittura una specie di padre adottivo).
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I RIB ILIBRI LI ILIBRI Michel Marie
I GRANDI PERVERSI AL CINEMA Ed. Gremese, Roma 2011 Collana “… al cinema” Nuova collana della Gremese, una editrice che ne inventa sempre una nuova. Questa riguarda il cinema per tematiche: i primi due volumi – di provenienza francese – esplorano come l’amour fou e le perversioni popolino la storia del cinema attraverso testi e immagini. I criteri sono personali, sciolti da logiche cronologiche e didascaliche. C’è da sguazzare, in ambedue i libri, in un vasto pélago. L’amore come passione, per dire del primo, lo trovi a prezzi stracciati; non c’è bisogno di arrivare a L’impero dei sensi per incontrarlo, visto che, «lungi dal limitare l’amore folle a un solo tipo di raffigurazione », si propone «un viaggio vorticoso e mutevole nel cuore di quello che può essere considerato il più ambiguo dei sentimenti». Eros, Thanatos, Philia, Agapé, ci trovi tutto (e
pp. 127 € 18,50
non è detto che la coppia sia sempre quella canonica di sesso diverso), compresi i triangoli, le relazioni impossibili, le perversioni. Ai “grandi perversi” è dedicato l’altro libro. Che non sono necessariamente i “grandi cattivi”. Ci si prefigge qui di «ripercorrere la storia della settima arte partendo dal concetto di voyeurismo dello spettatore e dell’esibizionismo dell’attore, per arrivare ad analizzare le forme di perversione più spettacolari che il cinema abbia potuto offrire al desiderio dei cinèfili».Tutti “guardoni”, insomma, che non si tirano indietro quando sono chiamati a sbirciare le modificazioni patologiche di tendenze fisiologiche, affettive, morali; insomma, dalle depravazioni e dagli istinti malsani. Ed ecco una bella sfilata di pedofili, ninfomani, necrofoli, zoofili, criminali.
Alberto Pesce
CINEMA ITALIANO OTTANTA TRAMONTO DELLE IDEOLOGIE Liberedizioni, Brescia 2010 Decade dopo decade, il cinema italiano è anatomizzato da Alberto Pesce, che si rifà alle sue recensioni vergate per il quotidiano («Giornale di Brescia») cui collabora, recensioni all’uopo rivedute (non levigate). Ed è con pacato orgoglio che l’interessato rivendica circostanze e metodi del lavoro critico d’antan: «Fortunatamente allora, quando il film ne valeva l’impegno, lo si poteva fare in forma distesa, a volte in forma quasi parasaggistica, non certo nelle stitiche schedine-francobollo d’oggigiorno». Quindici/venti recensioni ogni anno, dal 1980 al 1989. Una scelta, evidentemente, ma non sono tutti film di autori consacrati, ci sono an-
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pp. 283 € 24,00
che i Sapore di mare e le Scuole di ladri, per dire, occasioni per parlare dei diversi fatti e misfatti della produzione nostrana. La ricca, densa prolusione racchiude i discorsi singoli in una analisi esemplare dei dieci anni considerati, e già il sottotitolo del volume ce ne dà il tono, improntato a una severità senza sconti. I film, certo, ma anche come, dove, perché: «la struttura della macchina-cinema in stato di precarietà, a cominciare dalla dirigenza politica», la quantità cui non corrisponde la qualità, l’invadenza interessata delle reti, l’evanescente figura del produttore che «diventa appena un coordinatore esecutivo di decisioni adottate
TRA I FILM DEL PROSSIMO NUMERO
FAUST · MELANCHOLIA
Filippo Umena & Claudio Graziani Grafica e Comunicazione Visiva 3 Design per l’editoria 2
Docenti: Stefano Baldassarre A.A. 2012-2013