Introduzione di Pier Luigi del Viscovo
Ci sono contraddizioni nel quadro che emerge da questa indagine. La maggior parte sono apparenti, in quanto frutto della sintesi e della frammentazione con cui ognuno di noi ha indicato l’evoluzione di un particolare fenomeno da qui al 2020. In altre parole, abbiamo prodotto piuttosto tanti piccoli pezzetti del puzzle, invece che l’intero disegno da spezzettare poi. Ma è innegabile che alcuni punti siano inconciliabili con altri. Di fronte a queste posizioni – una il contrario dell’altra – il primo impulso è di severa critica: un lavoro incompiuto (“mettevi d’accordo su cosa prevedete per il 2020”) nella più benevola delle ammonizioni, ovvero di squalifica complessiva (“il 2020 non potrà essere una macedonia” – sicuro che no? mi permetterei di aggiungere). Raccomando allora una seconda riflessione, più meditata, avendo vissuto dall’interno la formazione di questo scenario. Non tanto per l’impronta lasciata (ogni scarrafone è pur sempre bello a’ mmamma soia), quanto perché lo sforzo speculativo – di ciascuno e del gruppo, nei momenti di confronto – è stato focalizzato su specifici aspetti della società e del marketing. Pertanto, il valore prioritario che consegniamo sta più nei dettagli, nelle specifiche affermazioni su questa o quella evoluzione dei comportamenti e degli equilibri, che non nel quadro d’insieme. Questo è un lavoro che va guardato da vicino, non da lontano: è per i miopi, non per i presbiti. Però le contraddizioni restano. Si possono non vedere, ma ci sono. Già. Resta da vedere se siano il prodotto degli autori ovvero solo un’attenta lettura dei tanti fenomeni che animano una società complessa e sofisticata come la nostra. La mia impressione è che abbiamo osservato bene e abbiamo visto una società in fermento. In cui c'è traccia di tutto e del suo contrario. Non ci facciamo/faremo mancare niente, grazie all’ubiquità consentita dalle tecnologie di informazione e comunicazione. Ritengo questa sia la chiave di lettura di queste previsioni. Quando ci si trova in mezzo al guado - come adesso - è umano sentirsi attratti dalle sponde. Alcuni tirano avanti, confidenti che il nuovo sia meglio. Altri invece spingono per tornare alla base, nell'aspettativa che il passato meglio del presente magari solo perchè lo ricordano o comunque vi erano ormai abituati li saprà accogliere. Intorno, è un fiorire di altre sponde, più o meno seducenti o solo più alla
portata. Siamo nel guado. La società italiana nei prossimi anni si immergerà completamente nel confronto con se stessa e con le altre culture, limitrofe o più distanti. Ci troviamo a un crocevia della storia. Almeno la nostra recente. Le pulsioni sono tante. Frutto dello stress causato dal crollo degli equilibri che si erano formati negli ultimi decenni del secolo scorso. Quando la generazione del baby-boom si era vista consegnare una società opulenta, affluente, dove le sofferenze della guerra e i sacrifici della ricostruzione erano ormai un ricordo conservato dai vecchi, taciuto sempre di più e raccontato sempre di meno. Addirittura avevano dovuto auto-infliggersi la sofferenza, combattendosi negli anni di piombo senza alcun reale bisogno, se non quelli cercati nelle ideologie. Ma anche questo era stato consumato e superato. In economia avevano trovato il modo di lisciare il pelo a tutti, ai sindacati nelle fabbriche e agli altri con mamma P.A., che un posto o una baby pensione non la rifiutava proprio a nessuno. Tanto il genio italico aveva scoperto che i soldi non era poi indispensabile guadagnarli, visto che in ultima analisi si tratta di fogli di carta stampata: e allora dai, sotto con inchiostro e rotative. La conseguente inflazione sarà stata pure un dolore, ma diluito, di quelli che danno assuefazione. Quando poi il dolore è diventato insopportabile, abbiamo smesso di stampare moneta, passando ai bond, solo per sostituire l’inflazione col debito pubblico. Certo, queste pratiche comportavano ogni tanto la necessità, peraltro piacevole per una fetta dell’economia, di svalutare il cambio. Cosa non gradita ai nostri vicini i quali, privi di spirito, la trovavano una forma di concorrenza scorretta. Allora ci provarono con lo SME (sistema monetario europeo), dove pure ottenemmo un buffer di oscillazione del 6%, quando gli altri erano vincolati al 2,25. Ci impegnammo, ma senza neanche pensare di aggiustare il nostro modo di fare società e economia. Infatti nel 1992 ne uscimmo, salvo poi essere ritirati dentro con l’euro. Bisogna accettare che l'Europa è prima di tutto il principale mercato di sbocco dei Paesi membri, siano essi produttori di latte, di meccanica o di turismo. Se ci stai dentro, non puoi fare il furbo
con i prezzi. In pratica, devi adottare la stessa moneta oppure un sistema di cambi fissi o oscillanti entro un buffer limitato. Chi oggi si illude (o tenta di illudere) che tornando a battere moneta potremmo svalutare non dice che gli altri reagirebbero. Come hanno già fatto in passato. A quel punto, non c’era più nulla da fare. In un’economia ormai globale, dentro un mercato europeo senza frontiere né dazi, potevi ancora scegliere come e quanto lavorare (anzi, come e quanto valore produrre alla fine di una giornata di lavoro), ma dovevi accettare che avresti vissuto esattamente a quel livello: sei ciò che produci. Era questa la grande e durissima verità. L'illusione di questi vent’anni è l’idea di stare con gli altri prendendone solo i vantaggi: mutui al 4% (stavano al 15%); petrolio a 74 euro, grazie a un cambio euro/dollaro a 1,35. Idea che poteva nascere solo nella indulgente cultura italica, un misto di perdono, uguaglianza e livellamento al basso che affonda nella nota matrice catto-comunista. Le culture cambiano, nell'incontro con gli altri, si confrontano e si modificano. Questo accade naturalmente quando l'incontro avviene a livello sociale, nelle piazze e nei porti. Cosa che in parte sta certamente avvenendo, nelle piazze virtuali, e pure in quelle reali attraverso i prodotti. Però la fusione più importante - e soprattutto più rapida, nemmeno due decenni - è quella tentata a livello politico/istituzionale: l'allineamento delle politiche di bilancio necessarie per usare una sola moneta, l'euro. È l'unione stabilita dalle rappresentanze politiche. Intendiamoci, non c'è nulla di contestabile nell'atto in sé: è proprio dei sistemi moderni delegare agli organi rappresentativi il compito di stringere accordi e impegnare il Paese in trattati positivi per lo sviluppo. La democrazia diretta funzionava nelle polis greche; oggi nemmeno un condominio puoi gestire senza un esperto, figuriamoci una nazione. Chi sostiene che tutti debbano decidere su tutto non fa che umiliare il livello stesso delle decisioni politiche: perché per una tonsillectomia pretendo un chirurgo specializzato ed esperto, mentre per aderire a un trattato internazionale o per orientare le politiche della scuola penso di poter fare da solo? Chi avesse dubbi, approfondisca cosa sta costando alla California
un uso eccessivo della democrazia diretta. Il punto è che nelle democrazie – e noi lo siamo – la rappresentanza si fonda sul consenso, tanto che i rappresentanti perseguono prioritariamente l'obiettivo di aumentare – o almeno non diminuire – il consenso da cui traggono la loro stessa esistenza in vita. Dunque ogni scelta politica può essere compiuta, a patto che non si scontri con il sentire comune degli elettori. La politica dei giorni nostri, quella che ha adottato i princìpi del marketing, va appunto dove la conducono i sondaggi. In alternativa, ci sarebbe la possibilità di esercitare una forte leadership sugli elettori, per compiere le scelte necessarie senza perdere il consenso, anzi convincendo gli elettori che il cambiamento proposto è giusto. Per guidare, occorre saper comunicare, raccontare una storia: vir bonus, dicendi peritus. Era la definizione dell'uomo politico nella Roma antica. In mancanza, saranno i politici ad essere guidati dal sondaggio della sera prima, stimolato da chi avrà agitato il panno rosso più rosso di tutti davanti agli occhi del popolo bue. Nessuno ha mai avuto finora il coraggio o la maestria di raccontarla, la storia, ai cittadini del Belpaese. Così stiamo scoprendo da soli come adattarci a stare insieme agli altri, portatori di costumi e culture differenti. Dunque, come saremo tra sette anni? Come recepiremo le informazioni e le conoscenze necessarie? Come saranno distribuiti i prodotti e i servizi che acquisteremo? E ancora più alla base, quali bisogni vorremo soddisfare? E quanto saremo disposti a sudare, per procurarceli? Sette anni saranno pure pochi. Non è che una società si stravolga. Eppure c'è la sensazione di non potere né volere sbagliare previsione. Proprio perchè siamo arrivati a un crocevia della storia, dove molte direzioni sono possibili, ma solo una è quella giusta. Nessuno cambia perché lo vuole. Tutti cambiano perché devono. Tutta la storia è un grande adattamento spinto dalla necessità. La nostra necessità attuale è quella di tornare a garantire alla generazione successiva un benessere almeno uguale a quella precedente. È un bisogno che non si era mai manifestato nella storia recente, dove chi è venuto dopo ha avuto sempre più occasioni di chi c’era prima. Ma il
‘900 è stato un secolo tremendo, fatto di vette ma anche di abissi. Per molti l’abisso è stato fatale, ma chi è rimasto è stato poi fregato dalla vetta. La sensazione di essere ormai arrivati. Un benessere senza eguali ha spinto i popoli europei a ritenere che ormai delle due grandi funzioni economiche, la produzione e la distribuzione della ricchezza, non restasse che occuparsi della seconda, giacché la prima era scontata. Errore! Non avrebbe funzionato comunque, ma la globalizzazione ha accelerato la rottura del meccanismo: dobbiamo rimettere al centro lo sviluppo, la crescita della ricchezza. La ricchezza di una nazione è funzione dell'operosità dei suoi cittadini e del modello di funzionamento del sistema, giacché i cittadini possono anche sbattersi dalla mattina alla sera, come molti invero fanno, però se il sistema li impiega non per produrre valore, bensì per svolgere attività inutili o addirittura di ostacolo alla produzione di valore, allora la loro operosità va dispersa. Questo è in buona parte il vero tema della P.A. e della burocrazia in generale. Noi abbiamo un sistema costruito sulla norma prescrittiva, anziché sui controlli. Moltissime azioni sono regolamentate da norme e poi assoggettate a nessun controllo (in pratica o pure in teoria, spesso). Altri sistemi lasciano invece ampie libertà d’azione, salvo poi effettuare controlli severi e rigorosi sul risultato. Comunque non tutti sono d’accordo a rimettersi a lavorare duro. Alcuni hanno pure provato ad adattare la teoria dei vasi comunicanti: se noi siamo ricchi e gli altri sono poveri, ora che siamo nel villaggio globale, i primi cedono qualcosa a vantaggio dei secondi. Rassegniamoci, rilassiamo i muscoli e sentiremo meno male. È anche una buona occasione per ridimensionare questa frenesia dei consumi, che tanti non hanno mai mandato giù, per tornare a una vita francescana. Ma sì, decresciamo e saremo tutti più contenti. Addirittura felici. Incredibile, pur di non alzarci presto, siamo disposti a invertire il corso della storia. Ancora non è chiaro fin dove dovremmo decrescere: a prima dell’elettricità e del motore a scoppio o a prima della stampa? E poi, proseguiremmo tornando indietro o ripartiremmo da lì per venire di nuovo avanti? Magari no, magari l’idea è solo di trovare un punto accettabile nella nostra storia recente e fermarsi lì, in una sorta di grande Dorian Gray sociale, con tanti saluti a Eraclito e alla sua
filosofia del divenire. Ma se fosse così bello decrescere, perché i popoli emergenti desiderano il contrario? Forse la spiegazione la troviamo proprio tornando per un attimo alla teoria dei vasi comunicanti, dicendo che semplicemente la quantità di ricchezza (l’acqua dei vasi) non è data, bensì può aumentare. Le risorse naturali, quelle sì, sono date. Ma l’ingegno umano sta proprio nell’utilizzarle in forme sempre più sofisticate, per moltiplicarne l’impatto positivo sulla qualità della vita. Malthus è stato geniale, ma pur sempre figlio del mondo di due secoli fa, come già Emerson osservò, circa mezzo secolo dopo e guardando dall’altra sponda dell’Atlantico. Certo, ci sono correzioni da fare, di tanto in tanto, e occorre impegnarsi per trovare il modo senza diminuire lo standard di benessere, ampiamente inteso. Invero, è dalla creazione che la ricchezza aumenta. A beneficio proprio dei meno fortunati. Nel 1990 vivevano in estrema povertà – fissata in 1$ al giorno – 1,9 miliardi di persone (pari al 43% della popolazione dei paesi emergenti). Nel 2010 erano 1,2, pari al 21% di una popolazione aumentata, con una soglia passata a 1,25$ al giorno. In altre parole, il vaso dei poveri è aumentato mentre pure quello dei ricchi aumentava. Se ha funzionato, perché non dovrebbe funzionare ancora? Cosa autorizza a ritenere che impoverendosi i ricchi i poveri si arricchirebbero? Perché alcuni cittadini dei paesi agiati vogliono tirare i remi in barca e godersela, anche cedendo qualcosa ai cugini poveri? Per fortuna i poveri non vogliono la nostra ricchezza/elemosina. Vogliono una chance per crearsi la loro. A casa loro, possibilmente. Oppure da noi. Visto che a noi di aggiustare rubinetti e impastare pizze proprio non ci va. Ma attenzione, potremmo ritrovarci nel giro di una generazione a tornare ad aggiustare rubinetti, nelle case di immigrati. “Uno come Obama, un tempo ci avrebbe portato le valigie”, disse Bill Clinton a Ted Kennedy nel 2008, nel vano tentativo di convincerlo a sostenere la nomination di Hillary. Abbiamo scritto come saranno i negozi e gli smartphone nel 2020, ma si legge come saremo noi nel 2020. 16 maggio 2014