Un giro in macchina 2018

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Pier Luigi del Viscovo con una prefazione di Mario Cianflone

Un giro in macchina

2018

Articoli pubblicati su Il Sole 24 Ore, il Giornale, Guida alla sicurezza, Il Foglio, Lease, Harvard Business Review, Italia Oggi e Trasporto Oggi



Alessandro, Alessia e Francesca



SOMMARIO

PREFAZIONE 11 INTRODUZIONE 13 UN GIRO IN MACCHINA 2018

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AUTO, ECCO QUANTO VALE DAVVERO IL MERCATO ITALIANO 17 LA TOYOTA, IL DIESEL E GLI ALTRI

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BUSINESS MOBILITY: OGGI E DOMANI

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NOLEGGIO A LUNGO TERMINE, DIESEL PULITO: LE FLOTTE AZIENDALI SPINGONO IL MERCATO

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CONNESSI MA NON LO SAPPIAMO

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I PRIVATI SONO ANCORA IL CUORE DEL MERCATO Immatricolazioni sotto la lente.

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ECCO COME LA TECNOLOGIA ALTERA IL VALORE RESIDUO 30 DELL’AUTOMOBILE CRESCE IN ITALIA LA VOGLIA DI AUTO ONLINE 32 Studio Ipsos. Propensione in rialzo per l’e-commerce ma i dealer restano centrali. DIESEL, L’ADDIO È DAVVERO VICINO? PROBABILMENTE NO

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CRUSCOTTO FEBBRAIO

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NOLEGGIO O KM ZERO? LA SCELTA È AMPIA 39 In un mercato ricco di offerte di nolo a lungo termine, di leasing e di vetture autoimmatricolate, conviene valutare con attenzione le opzioni su auto in benefit o da flotta aziendale o per privati. 5


UN GIRO IN MACCHINA 2018 I FURGONI ALLA PROVA DEL BOOM DEL COMMERCIO ELETTRONICO

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I CAMION SOFFRONO LA CONCORRENZA SLEALE

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ARVAL OFFRE SERVIZI AGGIUNTIVI AI DIPENDENTI DEI SUOI CLIENTI

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SUI DIESEL SERVE IL BISTURI, NON L’ACCETTA

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IL MERCATO È TORNATO IN BUONA SALUTE

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L’INGLORIOSO DECLINO DELL’EFFICIENTE DIESEL

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SUV E CROSSOVER SOSTENGONO I MARGINI DELLE CASE

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LE MACCHINE “ALLA SPINA” NON SONO UNA PANACEA

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L’UOMO E LA GUIDA AUTONOMA

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IL SOGNO INFRANTO DI TESLA E UBER I problemi della guida autonoma.

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FORMULA E, ECCO QUANTO PESA IL MARKETING NEL CAMPIONATO DELLE MONOPOSTO ELETTRICHE

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LA CRISI DEL DIESEL IMPATTA SULLE FLOTTE La scelta della motorizzazione a gasolio non è più scontata nei parchi auto delle imprese e nelle vetture date in benefit. Ibrido, elettrico, metano e Gpl diventano opzioni percorribili.

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SUL DIESEL RISTABILIAMO LA VERITÀ

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AUTO E INQUINAMENTO, ECCO I NUMERI VERI 75 Anidrite carbonica e polveri sottili nel mirino dei regolamenti e delle politiche ambientali. IL “LUNGO TERMINE” VERSO IL CAMBIAMENTO La formula Nlt è in costante ascesa e tra le leve del suo sviluppo ci sono le nuove tecnologie digitali per l’interazione con i clienti. 6

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DIESEL IN CRISI, ECCO COME IMPATTA SU CONCESSIONARI E RETI DI VENDITA

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IL NOLEGGIO CRESCE (E I PREZZI SCENDONO)

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IL NOLEGGIO INQUINA MENO DELLA METÀ DELLE ALTRE MACCHINE

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IL NOLEGGIO NEL CUORE DEGLI ITALIANI

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ELOGIO DEL DIESEL DI ULTIMA GENERAZIONE

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PER LE FAMIGLIE UNA SVALUTAZIONE DI ALMENO TRENTA MILIARDI DI EURO

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GUIDA AUTONOMA: SIAMO PRONTI?

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QUELLA FEDELTÀ ALLA MARCA SOLTANTO DICHIARATA Lo studio. Automobilisti e intenzioni di acquisto.

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IL NOLEGGIO A LUNGO TERMINE È ANCORA IN PIENA ACCELERAZIONE Auto aziendali. Il canale fleet conquista anche l’utenza privata e segna nei primi 5 mesi 2018 un rialzo dell’11%. Audi, Alfa Romeo, Nissan e Bmw i brand per i quali le flotte pesano di più.

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GUIDA AUTONOMA, FINO A 50 MILIARDI DI INVESIMENTI (MA L’AUTO ROBOT NON ARRIVERÀ)

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CONSUMATORI DISORIENTATI. ECCO PERCHÉ

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L’AUTO È “FRAGILE”. E CON LEI 37 MILIONI DI CLIENTI

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LA SUA EREDITÀ INDUSTRIALE: NENO VENDITE PIÙ GUADAGNI Jeep e Alfa anziché Panda a km zero. Così le mosse di Marchionne hanno salvato un’azienda in crisi.

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CHI RIMPIANGE LA FIAT DEI BRUTTI TEMPI

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UN GIRO IN MACCHINA 2018 ATTENZIONE, IL MONDO È CAMBIATO

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VI SPIEGO IL BLUFF DELL’ELETTRICO

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CONCESSIONARI AUTO SENZA VENDITORI: ECCO COME CAMBIANO I DEALER NELL’ERA DIGITALE

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LE BUFALE AI TEMPI DEL DIESELGATE: ECCO COME TI COSTRUISCO UNA FAKE NEWS

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AUTO ELETTRICHE, GLI INVESTIMENTI AUMENTANO DI 10 VOLTE Investimenti per 255 miliardi di dollari.

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QUEI DUBBI SULLA GUIDA AUTONOMA

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DIESELGATE, L’IMPATTO ECONOMICO DI UN EVENTO EPOCALE Tre anni dopo.

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SVECCHIARE IL PARCO SI DEVE, MA CON SOSTEGNO E INFORMAZIONE

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LA MOBILITÀ NON È UNA GUERRA PER BANDE

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DA SUPERARE È LA MERA ESPOSIZIONE

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CRUSCOTTO OTTOBRE

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I PRIVATI SCELGONO SEMPRE DI PIÙ IL NOLEGGIO A LUNGO TERMINE Il segmento Nlt. Le società puntano a proposte su misura per professionisti e cittadini. Arval ha attivato un canale dedicato in rete e offre ai clienti il ritiro a domicilio dell’usato.

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IL MERCATO VA GIÙ MA IL NOLEGGIO A LUNGO TERMINE 144 CRESCE DEL 7% I trend. Le immatricolazioni in calo a settembre hanno penalizzato il comparto: da inizio anno gli acquisti delle società sono scesi del 4% ma il Nlt resta in terreno positivo grazie ai privati. 8


PIÙ ASSISTENZA AL DRIVER PER MIGLIORARE IL NOLEGGIO

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L’ABIURA DEL DIESEL MIGLIORA LA QUALITÀ DELL’ARIA? In alcune città Europee, anche in Italia, viene imposto il blocco della circolazione delle automobili a propulsione Diesel. Sarà un provvedimento efficace per abbattere l’inquinamento?

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TAVARES (CEO DI PSA): “LA SVOLTA ELETTRICA È UNA SCELTA EMOTIVA E PIENA DI INCOGNITE”

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L’INCERTEZZA DANNEGGIA LA SOLIDITÀ DEL MERCATO I forti dubbi dei privati sulla tipologia di propulsore creano una frattura tra domanda e offerta.

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IL DECLINO DEL DIESEL NON FA BENE AL CLIMA E NEPPURE ALL’INDUSTRIA La penalizzazione di un motore virtuoso per emissioni di CO2.

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“L’EFFETTO CUBA” SULLE AUTO

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IN UN MONDO TUTTO GREEN 160 La sostenibilità nel trasporto non è solo motori a emissione zero. Bisogna pensare a tutto tondo. L’ECONOMISTA CONTROCORRENTE: “IL FULL ELETTRICA AVVANTAGGIA SOLO I CINESI”

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INFLUENCER, PROFESSIONE “RIPETITORE”

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NELLA MOBILITÀ GREEN CONVIVONO APPROCCI DIVERSI

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GLI INCENTIVI NON BASTANO, SERVONO INFRASTRUTTURE 168 LA SFIDA: VENDERE AUTOVETTURE O ELETTRONICA?

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DIESEL, I DIVIETI BLOCCANO LA SOSTITUZIONE DELLE VETTURE Il mercato. Una ricerca Ipsos - AgitaLab evidenzia che i consumatori italiani sono confusi, poco consapevoli e nell’incertezza rinviano l’acquisto.

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UN GIRO IN MACCHINA 2018 ECOTASSA: IL «NO» DI COSTRUTTORI E CONSUMATORI OK AL BONUS PER ELETTRICHE E IBRIDE PLUG-IN

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LA SOLUZIONE: “USATO FRESCO”

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ECO-BONUS, TUTTI I NUMERI E I COSTI PER FINANZIARE L’OPERAZIONE

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MERCATO AUTO A VALORE 2018

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MERCATO AUTO A VALORE 2018 - NOLEGGIO

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TRIBUTI 189

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PREFAZIONE Forze tettoniche di magnitudine mai vista prima stanno stravolgendo la geografia dell’automobile. Il rischio, concreto, è quello di disgregarne in modo irreversibile la struttura. Quattro anni fa, il dieselgate Volkswagen ha innescato un vero tsunami con il risultato aberrante di demolire la reputazione dei motori diesel e, su questa onda lunga, normative europee sulle emissioni di CO2 hanno avviato una corsa all’elettrificazione forzata che, come più volte evidenziato da analisti e addetti ai lavori, rischia di desertificare i margini delle case. Nei prossimi mesi vedremo se le elettriche a lunga autonomia, anche di taglia compatta, avranno seguito, se la gente sarà davvero disposta a comprare una city-car a pile per 30mila euro, o accetterà gli extra costi di una ibrida ricaricabile o anche di una semplice mild hybrid, che serve a dare una rinfrescata green e poco più. Intanto l’elettrificazione sta facendo un gran favore ai cinesi e questo è un male per l’industria europea che è un asset occupazionale strategico. L’automotive sta correndo una fuga in avanti verso orizzonti incerti, spinta anche da uffici marketing che vivono di fantasie e poco di ingegneria. Basti pensare alla guida autonoma: hanno suonato per anni la grancassa ma di auto robot a fine 2019 non ne abbiamo viste e non ne vedremo nel 2020. E neppure auto volanti. Gli ultimi 12/24 mesi sono stati troppo pieni di esagerazioni e di iper-cavalcate. Ora stiamo per pagare un conto che rischia di essere molto salato. Nelle pagine che seguono il racconto di un’industria al bivio tra evoluzione e disintegrazione. Mario Cianflone Il Sole 24 Ore

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INTRODUZIONE Il tema del diesel appare subito, a gennaio, per commentare la decisione di Toyota di non vendere più auto a gasolio. A prescindere dalle strategie del colosso nipponico, la previsione era che gli altri avrebbero continuato col diesel, perché ottimo propulsore, efficace a tenere basse le emissioni di CO2 e, non meno importante, un’eccellenza competitiva dell’industria europea. Considerazioni frutto della logica, che non tenevano conto di quanto le case automobilistiche avrebbero subìto il movimento di opinione contrario al diesel, alimentato dallo scandalo delle centraline truccate (subdolamente etichettato dieselgate). È stupefacente come anche a un’età non più giovane si possa essere sorpresi dalla numerosità delle vicende umane governate fuori da ogni logica razionale, negli affari economici e sociali forse più che nelle cose personali e affettive. In generale, tanti numeri per contrastare le bufale che aggrediscono non solo il diesel ma l’auto in generale, che si rivela un oggetto culturalmente fragile, molto fragile. Si parla anche delle frontiere che tengono vivo il settore dell’auto (connessa, autonoma, condivisa e elettrica) ciascuna con un grado di sviluppo e di diffusione diverso. Con l’avvertenza che il boccino, come sempre, sta nelle mani degli automobilisti, a cui piace l’innovazione, a patto che vada incontro alle sue esigenze di mobilità. Non contro. Sempre a inizio anno si faceva il punto sulle validità delle statistiche ufficiali, che contano le auto immatricolate senza un cliente (future km0) come vendite a società, facendo risultare in calo i privati (che poi invece le acquistano a km0, appunto) mentre invece crescevano molto più del mercato. Poi la madre di tutte le questioni: l’acquisto delle macchine su 13


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internet. Uno studio Ipsos per AgitaLab chiariva che sì, certo che gli italiani compreranno l’auto online, ma senza per questo rinunciare al rapporto fisico con la concessionaria, che dunque dovrebbe spostare la sua mission dalla vendita a tutto il resto, pre/post vendita. Per gli appassionati del futuro, l’avvertimento che la macchina che guida da sola non basta costruirla, bisogna pure che circoli in un ambiente di mobilità computerizzata, non umana. I due sistemi non convivono e occorre fare delle scelte. Infine, prima che diventasse l’anno di Marchionne (ahimè), i tributi al successo della sua strategia: fare più soldi vendendo meno macchine. Insomma, un anno di auto. Pier Luigi del Viscovo

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AUTO, ECCO QUANTO VALE DAVVERO IL MERCATO ITALIANO

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a domanda di auto nuove espressa dagli Italiani nel corso del 2017 è stata di 1.989.000 unità (fonte Unrae), per un controvalore di 38.561 milioni di euro, al netto degli sconti (fonte Centro Studi Fleet&Mobility), in crescita sul 2016 del 7,5% e del 6,2%, rispettivamente. Così, se in volume è corretto affermare che le vendite siano tornate ai livelli del 2009, in termini di valore siamo ben oltre i 38 miliardi del 2008, con circa 200mila vetture in meno, grazie al fatto che a far leva sulle mode (SUV e crossover) si riesce a spuntare un prezzo più alto. C’è da prevedere che sarà ancor più così quest’anno e i prossimi, visto che nel 2017 questo segmento in Italia ha pesato per il 31% dei volumi, mentre a livello globale Jato Dynamics (un centro studi) stima un 2017 a quota 47% e prevede il sorpasso nei prossimi mesi. Le letture dei volumi e del valore segnano la differenza tra chi ritiene che la salute di un mercato sia data dalle quantità che assorbe e chi invece pensa che costruire e vendere macchine sia un business, che sta in piedi se produce profitti. Se poi a monte c’è il problema di non poter fare a meno di produrre certi volumi, a meno di non ridurre la capacità produttiva, sarebbe opportuno affrontare e risolvere questo problema (che indubbiamente è politico e altrettanto indubbiamente non è facile), piuttosto che forzare i volumi nel mercato. Tornando alle performance dell’anno appena chiuso (ma in sostanza vedendo l’impatto di questi squilibri), la crescita è stata trainata dalle società, che hanno immatricolato 435mila unità (+27,5%) pari a 8.923 milioni (+19,3%), grazie a un ricorso abnorme alle auto-immatricolazioni (demo e km0) che spiega anche il diverso incremento dei volumi rispetto al valore, visto che quelle targhe sono fatte a suon di fortissimi sconti. Il valore medio pa17


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gato per immatricolare queste macchine è stato infatti di 20.538 euro, in flessione del 6,4% sul valore medio registrato lo scorso anno. Questa crescita è anche la causa della performance negativa dei privati (-1,8% in volume e -2,2% in valore, pari a 1.121.000 targhe e 20.986 milioni) poiché come già abbiamo spesso argomentato da queste pagine le km0 restano nella filiera per uno o più mesi e poi vengono vendute ai privati, ma come auto usate. Anche il noleggio ha incrementato gli acquisti, a 433mila unità per un controvalore di 8.652 milioni di euro (+18,2% e +17,4% rispettivamente). La lieve differenza è spiegata dal fatto che il noleggio a breve termine (rent-a-car) ha assorbito ben 174mila vetture (+21%), una quantità abnorme rispetto al fabbisogno, che ha spostato il mix del canale verso le auto di taglia piccola. Anche il RAC è stato usato come canale per forzare le immatricolazioni, col risultato che dopo pochissimi mesi e pochi km anche questi prodotti andavano a far concorrenza alle auto nuove per la domanda dei privati. In conclusione però queste pressioni sui volumi (km0 e RAC) hanno permesso di elevare il mercato alla soglia voluta dei 2 milioni, mentre senza di esse sarebbe stato all’incirca sui livelli dello scorso anno. Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 3 gennaio 2018

Fonte: Centro Studi Fleet&Mobility

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LA TOYOTA, IL DIESEL E GLI ALTRI

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oyota da quest’anno non vende più macchine diesel. La notizia shock suscita due domande: quanto costa questa decisione al costruttore nipponico e se dobbiamo attenderci che altri lo seguano. Sul primo punto, diciamo subito che si tratta di una rinuncia piuttosto facile, se non obbligata in chiave di marketing. Da alcuni anni Toyota aveva staccato il piede dall’acceleratore per il diesel, che un anno fa con meno di 11.000 pezzi pesava per il 15% dei suoi volumi, numeri che nel 2017 sono crollati a poco più di 5.000 unità pari al 6% del totale, in un mercato dove i propulsori diesel coprono il 57% delle vendite. Quante unità potevano essere ipotizzabili per il 2018? Tremila? Niente che non si possa assorbire con la crescita delle motorizzazioni ibride, frutto di una precisa strategia decennale, che adesso sta dando i suoi frutti. Se nel mercato le ibride valgono poco più del 3%, per Toyota pesano quasi venti volte tanto, il 61%. Il gigante giapponese domina con una quota del 77% questo segmento, laddove nel segmento diesel segna uno 0,5%. Concludendo su Toyota, questo era il momento migliore per tentare un “all-in” e puntare tutto sull’ibrido uscendo dal diesel. Non solo compenserà facilmente le poche migliaia di clienti che acquisteranno il diesel da altri costruttori, ma potrà rinforzare la sua immagine di leader nell’ibrido, che è la motorizzazione del futuro prossimo e che nel 2017 ha segnato una crescita del 71%. E gli altri costruttori, che faranno? Continueranno a spingere il diesel, come e più di prima, per tre motivi. Primo. Perché è troppo importante la domanda di motori diesel per potervi rinunciare. Ad esempio, per l’altro importante costruttore giapponese, Nissan, sette macchine ogni dieci sono diesel, e lo stesso vale anche per l’altra casa dell’alleanza, Renault. 19


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Con questi motori ci pagano gli stipendi e gli resta pure qualcosa per sostenere le vetture elettriche. Secondo. Perché il diesel, più efficiente del benzina, emette meno CO2/km, cosa vitale per tentare di stare nei limiti imposti dall’UE per il 2020 ed evitare le multe. Proprio per questo tutti sono concordi, a livello europeo, nel ritenere che la flessione registrata per le vendite di auto diesel nel 2017 dovrebbe attenuarsi quest’anno, dietro la pressione delle case. Terzo (forse). Perché è un’eccellenza europea e come tale andrebbe trattato. Articolo pubblicato su il Giornale, il 10 gennaio 2018

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BUSINESS MOBILITY: OGGI E DOMANI

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l mondo dell’automobile in questi anni è attraversato dal fenomeno CASE, un acronimo che sta per Connected (connessa), Autonomous (autonoma), Shared (condivisa) ed Electric (Elettrica). Si tratta di quattro frontiere di innovazione e cambiamento, che tanti tengono insieme, immaginando che siano tutte collegate fra loro e che insieme interpretino il futuro dell’automobile e della mobilità. Nella realtà le cose non stanno affatto così. Dal punto di vista dell’automobilista, la sua vettura può essere più o meno connessa, senza essere elettrica; può godere di dispositivi più o meno avanzati di assistenza alla guida, senza per questo doverla condividere con altri; un’auto può benissimo essere elettrica o ibrida, pur non essendo autonoma o connessa, tantomeno in condivisione. Trattare tutto insieme forse aiuta a sentirsi proiettati nel futuro, in tutte le sue forme. Tuttavia, non corrisponde alla realtà delle cose, che dipende da fattori concreti e importanti: lo sviluppo della tecnologia e l’adozione da parte dei consumatori. Sono i due fattori che, insieme al ruolo del capitale, determinano i cambiamenti nelle economie di mercato. Sarà allora opportuno analizzare lo status di ciascuna delle quattro frontiere, separatamente. Consapevoli che il futuro prima o poi arriverà, e quelli di noi che ci saranno se ne accorgeranno. Partiamo dall’auto connessa, che è l’evoluzione più avanzata di tutte. Oggi è già una soluzione di massa, visto che riguarda circa 8 milioni di veicoli nel nostro Paese. Però, dobbiamo subito dire che, seppur diffusa, non è ancora una tecnologia popolare, nel senso che gli 8 milioni di automobilisti che guidano un’auto connessa sono sì informati di avere a bordo un dispositivo, ma non lo utilizzano. Come mai? Perché finora si è trattato di scatole nere installate a beneficio delle assicurazioni, per evitare le truffe legate ai sinistri. Le cose stanno cambiando. Da questa primavera tutti i 21


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nuovi modelli devono anche essere equipaggiati con un dispositivo di e-call: l’auto deve essere in grado di inviare da sola una richiesta di soccorso, in caso di incidente. Inoltre, molti costruttori hanno compreso che connettere il driver con l’ambiente esterno non è solo un ulteriore gadget con cui arricchire il veicolo, ma è l’inizio di una nuova concezione dell’automobile, come spazio non isolato, dove non si guida e basta bensì si dialoga, si resta connessi. Funzione oggi assolta già attraverso lo smartphone, che deve aiutare (secondo un’indagine Ipsos per AgitaLab) a muoversi bene, dando informazioni sulla viabilità, sul traffico. Poi, una volta a destinazione, deve aiutare a trovare il parcheggio, che rimane l’altro grande bisogno, soprattutto nei centri urbani. L’interesse degli automobilisti aumenta ancora sulla possibilità che il telefono, integrandosi con la vettura, riesca a essere un mezzo di comunicazione per la diagnosi dell’auto, in modo da sapere esattamente quali interventi sono necessari, e per la sicurezza, oltre che un sistema efficace contro il furto. Tutto questo è già disponibile di serie su alcune vetture e presto lo sarà per tutte o quasi. L’altra frontiera che sta facendo concreti passi avanti è quella dell’assistenza alla guida, che diventa ogni giorno più necessaria, proprio per consentire di sfruttare la connettività del veicolo in sicurezza, senza che la distrazione del conducente provochi incidenti. Secondo alcuni il traguardo di questa tecnologia sarebbe la guida autonoma, ossia auto senza volante che vanno in giro da sole, con o senza a bordo delle persone. La tecnologia presto sarà in grado di mettere sulle strade vetture cosiddette driverless. Ma potranno circolare? In concreto questi mezzi, capaci di orientarsi e di muoversi interagendo con altri sistemi evoluti, saranno in grado di farlo dentro un sistema di mobilità umana, quale quello dei centri urbani? Non trascuriamo che già adesso sulle autostrade l’accesso è vietato ai pedoni e alle biciclette. Così, la domanda con cui ci dovremo confrontare nei prossimi anni è: possono convivere due sistemi di mobilità diversi, uno umano e uno tecnologico? 22


La terza area di innovazione riguarda l’uso. Nelle principali città da anni è disponibile il car sharing. Si tratta di esperimenti molto limitati nel numero, che non riescono a produrre un risultato economico positivo. Magari in futuro, quando e se ci saranno non migliaia ma decine di migliaia di veicoli disponibili, si potrà registrare un cambiamento nelle abitudini dei consumatori, che rinuncerebbero al possesso di un’auto per usare la prima che trovano, alla bisogna. Potrebbe riguardare le seconde e terze macchine del nucleo familiare. Ma succederà davvero? È ancora presto per dirlo. Infine, l’auto elettrica. È stata annunciata come imminente circa dieci anni fa, ma ad oggi le vendite sono ancora al lumicino. È stato un tentativo dell’industria di affermarle, dettato da due ragioni. In Europa, la necessità di abbattere il livello medio delle emissioni di CO2, in modo da rientrare nei limiti imposti dall’Europa e scongiurare le multe. In Cina, per avere disponibili questi prodotti quando il regime vieterà, come ha annunciato, la vendita di vetture con motore termico. Mossa di concorrenza industriale, visto che la tecnologia degli occidentali e dei nippo-coreani sul termico terrebbe all’angolo l’industria domestica per molti decenni ancora. Finora, i consumatori hanno risposto che no, per adesso ancora la scelta è a favore di un propulsore tradizionale, al massimo ibrido. Nei prossimi anni le vendite di vetture solo elettriche cresceranno, ma senza arrivare a quel cambiamento di massa che qualcuno ancora tenta di rappresentare. In conclusione, tante frontiere che tengono vivo il settore dell’auto, ciascuna con un grado di sviluppo e di diffusione diverso. Il boccino, come sempre, sta nelle mani degli automobilisti, a cui piace l’innovazione, a patto che vada incontro alle sue esigenze di mobilità. Non contro. Articolo pubblicato su Lease – il salone del leasing e del noleggio di Assilea, a febbraio 2018 23


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NOLEGGIO A LUNGO TERMINE, DIESEL PULITO: LE FLOTTE AZIENDALI SPINGONO IL MERCATO

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e vendite di auto nel 2017 in Italia hanno sfiorato i due milioni di unità, ritornando al livello pre-crisi.

Siamo fuori dal tunnel o c’è chi “droga” il mercato con le “km zero”? “Siamo fuori dal tunnel – sottolinea Pier Luigi Del Viscovo, direttore scientifico di Fleet&Mobility, centro di analisi dell’Automotive – comunque c’è chi droga il mercato. I volumi delle vendite sono al livello del 2009, ma il valore del mercato (38,6 miliardi di euro) è superiore a quello espresso nel 2008, quando si registrarono 200 mila immatricolazioni più dell’anno appena concluso. La droga è in realtà un terzo prodotto, che ormai da molti anni si affianca ai due classici: auto nuova e auto usata. Non c’è niente di male a offrirlo: Il vero problema è lo stock elevato di vetture nei cortili dei concessionari, sia targato che da targare, ma già pagato”. Gli acquisti veri e significativi di vetture nuove sono stati fatti dalle società del Noleggio a lungo termine (Nlt) e dalle aziende per le proprie flotte. Il tutto favorito dal cosidetto “superammortamento” che ha concesso super-detrazioni fiscali a chi acquistava: che succederà quest’anno con questo bonus non più in vigore? “È vero: il superammortamento ha dato una spinta, ma solo in parte. Il Noleggio a lungo termine è un prodotto che attira sempre più clienti perché offre un servizio completo. Per molti anni le Case hanno cercato di spingere i concessionari a proporlo, ma questi ultimi non ne hanno voluto sapere perché in fondo non si sentono delle imprese di servizio, ma delle società di vendita”. 24


Nelle flotte la presenza di vetture diesel è schiacciante. Come si spiega la scelta di molte Case giapponesi e cinesi di fare a meno dei motori a gasolio? È una crociata contro l’efficienza dei costruttori europei? “Il motore a gasolio è un’eccellenza dell’industria europea. E ha una presenza schiacciante ovunque, non solo nelle flotte. I diesel hanno un problema di polveri sottili, ma la versione Euro6 le contiene. Il Giappone ha scelto da tempo di spingere sull’ibrido e ha progressivamente ridimensionato il diesel. Fino alla scelta di Toyota di non offrirlo più in Italia. Per la Cina il discorso è diverso. Metà del suo mercato è in mano ai costruttori stranieri. Così la reazione è stata di spostare quel mercato verso l’elettrico che è una tecnologia meno complessa e dove tutti partono più o meno dallo stesso livello”. La presenza di auto elettriche nelle flotte è davvero minima. Colpa dei prezzi, della scarsa autonomia o della mancanza di infrastrutture? “L’elettrico è non pervenuto ovunque, non solo nelle flotte. Se dopo circa dieci anni di offerta gli automobilisti non comprano l’elettrico significa che l’equazione non sta in piedi per le ragioni note. Prezzo alto, rete di ricarica ancora inesistente, tempi di ricarica lunghissimi, incertezza sulla manutenzione e buio assoluto sui valori residui. Per non parlare delle batterie usate. Se i costruttori avessero creduto davvero nell’elettrico, avrebbero almeno potuto offrire un valore garantito di riscatto”. Intervista di Roberto Mazzanti a Pier Luigi del Viscovo, pubblicata su QN Motori, il 2 febbraio 2018

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CONNESSI MA NON LO SAPPIAMO

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on siamo mai stati connessi come adesso. Attraverso pochi clic sullo schermo del cellulare, scambiamo informazioni con altre persone e con strutture di dati, che si aggiornano in tempo reale – come il caso di un’auto in car sharing o di un taxi Uber. Anche le nostre macchine sono connesse, sebbene noi che le guidiamo non lo sappiamo. Si stima che siano circa 8 milioni le vetture in circolazione dotate della famosa black box. È la penetrazione di gran lunga più elevata in Europa e fa del nostro Paese un leader nello sviluppo di questi sistemi. Il piccolo particolare è che noi automobilisti «connessi» non sappiamo di esserlo e, da un certo punto di vista, non lo siamo. Sì, perché a essere connessa in realtà è la macchina, non noi. Certo, siamo stati informati e abbiamo acconsentito all’installazione della black box, ma da quel momento ce ne siamo dimenticati. Ma lei ha continuato a scambiare segnali, non sappiamo bene con chi, ma noi eravamo del tutto esclusi dal flusso. La nostra connessione continuava beatamente, attraverso lo smartphone. Ma come mai una cosa del genere? Perché la spinta a installare la «scatola nera» è venuta dalle assicurazioni, interessate a evitare le frodi nei sinistri, nella forma di sconti sui premi. Continuerà a essere così, oppure è prevedibile che presto gli automobilisti saranno coinvolti nel flusso di dati, magari arricchito da qualche informazione di utilità concreta, sul traffico o sui servizi on-the-road? Su questo tema si sono confrontati 16 esperti del settore, in un incontro promosso da AgitaLab, il laboratorio di ricerca di Agenzia Italia (Gruppo Finint), e coordinato dal Centro Studi Fleet&Mobility. Una delle previsioni emerse indica che l’automobilista continuerebbe a usare la sua connessione personale fornita dallo smartphone, ormai insostituibile. Sarebbe l’auto a convergere sul cellulare, integrando magari servizi aggiuntivi. Insomma, l’auto26


mobilista avrebbe già scelto il suo terminale di collegamento con tutti gli altri dispositivi. In realtà, questa storia è ancora tutta da scrivere, con i costruttori che stanno ormai sfornando macchine già equipaggiate di sistemi di connessione autonomi, sull’onda dell’obbligo di rendere disponibile da marzo l’e-call, la chiamata automatica del soccorso in caso di incidente. Staremo a vedere. Il secondo secolo dell’auto è entrato nel vivo. Articolo pubblicato su il Giornale, il 7 febbraio 2018

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I PRIVATI SONO ANCORA IL CUORE DEL MERCATO Immatricolazioni sotto la lente.

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on è vero che i privati stiano acquistando meno macchine nuove rispetto a un anno fa. Le statistiche ufficiali indicano che il 2017 ha visto diminuire questo segmento di clienti di quasi 2 punti percentuali in volume, avendo immatricolato 1.121.085 auto in luogo di 1.142.123 dell’anno precedente. Ma la realtà è ben diversa. Questi clienti sono in assoluto i più importanti per la filiera. Innanzitutto, acquistano ancora 6 auto ogni dieci che entrano nel mercato. Poi, sono quelli con il minor potere contrattuale, che si traduce in uno sforzo inferiore da parte dell’offerta, alias meno sconti e dunque margini migliori. Infine, sono quelli che maggiormente gravitano sulla concessionaria per il post-vendita, almeno nei primi anni, anche qui pagando il giusto. Insomma, se questo segmento cresce o decresce non è un dettaglio, ma il segnale più importante da ricavare dall’analisi delle statistiche. Di conseguenza, se le statistiche non raccontano la verità, è opportuno fare chiarezza, a beneficio di tutti gli operatori seri. Le auto-immatricolazioni ci sono sempre state e sempre ci saranno, perché la filiera ha bisogno di avere un certo numero di vetture su strada, per le prove o come auto di cortesia o semplicemente per spostarsi. In questo decennio, sono state in media 70.000 unità all’anno. Le auto a km0 invece sono apparse all’inizio del secolo, per aggiustare qualche periodo, e da allora hanno sempre avuto una loro quota di mercato, intorno al 6/7%, pari nel decennio a un volume di circa 105.000 unità all’anno. Cosa è successo nel 2017? Le stime sono di circa 109.000 auto-immatricolazioni e 215.000 auto a km0. Per i km0 c’era già stata un’avvisaglia l’anno 28


prima, con circa 147.000 targhe (così da lasciare una giacenza importante). Questa storia finisce con i privati che si comprano le auto a km0, invece di comprarsi un’auto ancora da immatricolare. Spendono molto meno e hanno lo stesso prodotto, anche in pronta consegna. Così, se alle immatricolazioni registrate dai privati (1.121.085) aggiungiamo il surplus di auto-immatricolazioni e km0 (circa 111.000 macchine, targate da società ma nuove a tutti gli effetti), risulta che, per un canale o per l’altro, i privati hanno assorbito nel 2017 la bellezza di 1.232.389 auto nuove, che significa una crescita di quasi l’8% rispetto all’anno precedente. In un anno di sviluppo dell’economia e dei consumi, l’auto non era in controtendenza. Come purtroppo dicono le statistiche ufficiali. Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 10 febbraio 2018

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UN GIRO IN MACCHINA 2018

ECCO COME LA TECNOLOGIA ALTERA IL VALORE RESIDUO DELL’AUTOMOBILE

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ambiamenti nelle scelte dei consumatori e nuove tecnologie di propulsioni pongono delle serie sfide al settore automobilistico, nella sua parte finanziaria – quella che supporta gli acquisti facendosi carico del rischio dei valori residui. È l’allarme lanciato da Moody’s, un’agenzia di rating, nel suo ultimo rapporto “Auto Finance - Global: Changing consumer preference and new technology pose challenges for auto finance”. Il ragionamento degli analisti trae origine da una certa apprensione per la crescita di contratti di finanziamento che spostano il rischio del valore residuo sulle finanziarie del comparto auto. Al momento questi contratti hanno per oggetto un numero sempre crescente di SUV (che negli USA sono arrivati al 64% del mercato). Un raffreddamento dell’economia oppure una risalita del petrolio potrebbero facilmente portare a un calo drastico nella domanda di questi modelli, che oltre a costare qualcosa più di una macchina ordinaria pesano anche di più e dunque assorbono più carburante. Ciò si tradurrebbe in un calo dei prezzi sul mercato dell’usato, che impatterebbe direttamente sui bilanci delle finanziarie, che li hanno iscritti stimando un valore residuo in linea con le quotazioni attuali. In Europa, secondo gli analisti di Moody’s, questo stesso problema prende le forme del diesel, che si trova sotto attacco da parte di molte amministrazioni pubbliche, con l’effetto di allontanare le preferenze dei clienti da questa propulsione. In prospettiva poi il problema potrebbe acuirsi, per la crescita delle vetture elettriche ed elettrificate, previste da Moody’s intorno al 20% verso la metà del prossimo decennio, che porterebbe a un calo di domanda per le propulsioni termiche tradizionali. Diciamo subito che mentre la lettura dello scenario corrisponde, le preoccupazioni appaiono eccessive, perché le finanziarie assumono il 30


rischio del valore residuo su tutte le auto, non solo per i SUV o le diesel. In altre parole, se le quotazioni del diesel dei SUV dovessero scendere per un calo della domanda, questa si sposterebbe su altre vetture, il cui valore salirebbe. D’accordo che su SUV e diesel ci potrebbe essere qualche perdita, ma verrebbe compensata dalle altre macchine. È corretto evidenziare i rischi in un business, ma senza celare le corrispondenti opportunità. Il problema appare comunque sovradimensionato anche per un’altra ragione, piuttosto semplice: le finanziarie, quando assumono un rischio di valore residuo, stimano i trend di domanda e si regolano di conseguenza. Fanno analisi, come Moody’s, che invece ritiene che questi operatori guardino solo alle quotazioni storiche. Abbiamo interpellato in proposito Gregoire Chovè, amministratore delegato di Arval: “Abbiamo già previsto in anticipo, da circa due anni, un calo generalizzato dei valori dell’usato, che sui diesel sarà anche più marcato”. La previsione di Moody’s è che, nonostante i rischi, questi sistemi di acquisizione, che prevedono appunto di sollevare il cliente dal rischio del valore residuo, non diminuiranno nelle offerte, poiché rendono il prodotto accessibile al pubblico. Tuttavia, mentre secondo Moody’s questo accentua la vulnerabilità dell’industria automobilistica di fronte ai cambiamenti tecnologici, il problema sembra sgonfiarsi davanti alle evidenze e in punto di logica. Infatti, una maggiore accessibilità dei prodotti, aiutata dalle offerte moderne con valore residuo, non hanno altro effetto che far entrare nel mercato più clienti di quanti lo farebbero senza tali offerte. Dunque, spingendo in alto la domanda di auto nuove, a vantaggio dei costruttori. Di nuovo e in conclusione, se Moody’s raccomanda di limitare queste offerte perché rischiose, deve anche prevedere una corrispondente diminuzione delle vendite totali, perché il comportamento del consumatore non è una variabile indipendente. Forse non si chiamerà finanza, ma un nome ce l’ha: marketing. Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 16 febbraio 2018 31


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CRESCE IN ITALIA LA VOGLIA DI AUTO ONLINE Studio Ipsos. Propensione in rialzo per l’e-commerce ma i dealer restano centrali.

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on c’è un rifiuto, ma quasi un’aspettativa a poter presto acquistare un’auto sul web, come tanti altri articoli. È quanto emerge da un sondaggio che Ipsos, società di ricerche specializzata anche nel comparto auto, ha condotto per AgitaLab (laboratorio di Agenzia Italia, operatore dei servizi automobilistici del Gruppo Finint), su un campione di 800 automobilisti che hanno acquistato un’auto nuova negli ultimi tre anni. Oltre metà del campione esprime una propensione ad acquistare l’auto online che sta tra il 6 e il 10 (in una scala da 1 a 10). La media si posiziona a un valore di 5,4. Coloro che si dichiarano fortemente orientati (9 e 10) all’acquisto online sono il 13%. Data la portata dell’innovazione, sembra un orientamento di cui tenere assolutamente conto. “Gli italiani sono più propensi ad acquistare l’auto online di quanto probabilmente si riteneva – ha dichiarato Daniele Da Lozzo, CEO di Agenzia Italia - per la comodità di non avere limitazioni di orario o di giorni nell’acquisto, per non essere pressati dal venditore e per l’accesso a condizioni standard per tutti”. Nell’analisi per fasce di età, emerge qualche dato interessante. Quelli tra 35 e 44 anni esprimono la maggiore percentuale (16%) di rispondenti fortemente orientati all’acquisto online (9 e 10), mentre i più giovani sono esattamente in media. Nella fascia 44-55 anni ancora il 12% si dichiara molto propenso all’online, percentuale che scende al 6% tra gli adulti over 55 anni. Altro dato significativo, sempre in riferimento a quelli che si 32


dicono molto decisi ad acquistare online, emerge dall’approfondimento per genere. Mentre il 18% dei maschi si posiziona al top dell’orientamento all’acquisto online (9 e 10), appena l’8% delle femmine occupa la medesima posizione. Indubbiamente, alcune attività come la prova e la visione della vettura restano preferibilmente fisiche in quanto legate all’oggetto. È interessante piuttosto osservare che per tutta l’area della trattativa, sul nuovo come sulla permuta, sul prezzo e sul finanziamento, il rapporto fisico e diretto sia ritenuto da molti più efficace. Dove la dimensione online trova il maggior favore è nelle attività di confronto e per il tracking della consegna. Ma se dovessero acquistarla online, che fine farebbero i concessionari? Questa era e rimane la vera questione, di fronte a un cambio così radicale di modello distributivo – che non riguarda solo il settore auto, vista la diffusa moria di negozi al dettaglio, vittime dell’e-commerce. Fortunatamente, nell’auto l’impatto non dovrebbe essere traumatico. Per l’acquisto online le preferenze per il sito web della casa o della concessionaria quasi si equivalgono, con un lieve favore per quello della casa. Ma ciò non significa affatto che il ruolo della concessionaria sia meno che essenziale. Infatti, nell’ipotesi di acquisto online, la necessità di avere un rapporto diretto e personale con il concessionario di zona pare irrinunciabile, per oltre 9 automobilisti su dieci. Un’ulteriore conferma, semmai ce ne fosse bisogno, del fatto che la vendita online non viene percepita come una migrazione verso un mondo virtuale, ma come un necessario arricchimento del customer journey, che va ad integrare quelle attività fisiche e personali che resterebbero fondamentali. Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 17 febbraio 2018 33


UN GIRO IN MACCHINA 2018

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DIESEL, L’ADDIO È PROBABILMENTE NO

DAVVERO VICINO?

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a decisione di FCA di abbandonare il diesel a far data dal 2022, che segue simili prese di distanza da parte di altri costruttori, già precedentemente annunciate, pone alcuni interrogativi. Primo. Sarà vero? A parte il fatto che si tratta di indiscrezioni non smentite, su cui pare il Gruppo si esprimerà il 1°giugno, da qui al 2022 magari queste scelte potrebbero essere riconsiderate. Dipende. Nella misura in cui dietro un tale annuncio ci sia la strategia industriale di abbandonare i programmi di sviluppo di motori diesel sempre meno inquinanti, una volta staccata la spina non è che poi si possa tornare indietro tanto facilmente. Ma la spina verrà davvero staccata? È lecito chiederselo, visto che questi propulsori continueranno a muovere i mezzi commerciali, anche leggeri. D’altro canto, è innegabile che certi annunci trovino origine anche nelle aspettative di una certa stampa, che guarda molto ai trend di pensiero e meno a quelli industriali e commerciali. Secondo. Come si comporterebbero gli automobilisti? Una parte orienterebbe le proprie scelte di acquisto verso auto a benzina o a propulsione alternativa, principalmente metano e ibride. Questa opzione interesserà soprattutto le auto destinate prevalentemente a uso urbano, con percorrenze limitate. Prevedere che lo facciano tutti è un’astrazione. Una buona parte di automobilisti continuerebbe ad usare le auto diesel a lungo, per varie ragioni, non ultima quella che il motore diesel resta un propulsore ottimo e affidabile – ancorché inquinante, certo. Senza la possibilità di ricambio, si rischierebbe un “effetto Cuba”, con tante auto vecchie che vengono tenute in vita. Meglio sarebbe, per la salute di tutti, consentire un ricambio dei vecchi diesel con quelli attuali, Euro6. Terzo. Aiuterebbe a ridurre il riscaldamento globale? No, anzi lo 35


UN GIRO IN MACCHINA 2018

aumenterebbe. I motori diesel, più efficienti di quelli a benzina, emettono meno anidride carbonica per chilometro (CO2/km). È questa una delle ragioni per cui finora le istituzioni avevano favorito il diesel. Chi prevede che gli automobilisti, non potendo comprare un diesel, ripieghino su un motore elettrico, è ovviamente libero di crederlo. Quarto. Diminuirebbero le emissioni inquinanti? Sì, quelle relative alla combustione del motore, mentre ovviamente quelle prodotte dai freni e dal rotolamento degli pneumatici resterebbero – a meno di procedere al lavaggio delle strade. È opportuno essere precisi sul punto. Un’auto diesel Euro6 emette 0.08 gr/km di ossido di azoto (NOX) contro gli 0,06 di una a benzina: una riduzione del 25%. Ma parliamo di valori infinitesimali. Tutte le attività di combustione, umane e naturali, producono il particolato. Quello riconducibile ai mezzi di trasporto (circa il 27% del totale) è in forte e continua diminuzione. Prima il common rail e poi il filtro anti-particolato l’hanno ridotto di oltre cento volte, quasi azzerandolo. Rispetto ai veicoli obsoleti, gli Euro6 praticamente quasi non ne emettono. Anche le polveri sottili (PM10 e PM2,5) sono ormai quasi interamente assorbite dal filtro, stando entro il limite di 0,005 gr/km. Per avere un senso di misura, basti dire che secondo le rilevazioni dell’Agenzia Europea per l’Ambiente il riscaldamento degli edifici è la prima fonte e produce il triplo delle polveri prodotte dai mezzi di trasporto (passeggeri e merci) – tutti, non quelli Euro6. Quinto. Ci sarebbero alternative? Decisamente sì. Per ottenere le medesime riduzioni subito, senza dover aspettare che il ciclo dei vecchi diesel si esaurisca, sarebbe opportuno stimolarne la rottamazione e agevolare il ricambio. Non si tratta solo di favorire le vendite dei costruttori di nuove macchine, ma anche e soprattutto di aiutare gli automobilisti a passare da un’auto Euro0/1 (benzina o diesel fa poca differenza) a una Euro4/5, infinitamente meno inquinante. Ma non solo. Le istituzioni hanno il dovere di intervenire aumentando i parcheggi cittadini, in modo da ridurre le 36


percorrenze inutili e fluidificare il traffico, aumentando la velocità media in città. Il combinato disposto di queste misure ridurrebbe le emissioni in maniera sensibile. Sesto. Ci sarebbero costi da pagare? Sì, certamente. L’industria dei motori è un’eccellenza tecnologica europea, determinata in buona parte dalla non auto-sufficienza sul fronte degli idrocarburi e dalla spiccata sensibilità ambientale, che hanno spinto a sviluppare propulsori sempre più efficienti e sostenibili. È lecito che centri di potere e portatori di interessi extra-europei la prendano di mira, fa parte del gioco, del risiko industriale. Quello che si fatica a comprendere è il fuoco amico. In conclusione, la faccenda delle emissioni è semplicemente troppo tecnica per poterla lasciare ai venti delle mode e delle ideologie. In questo, somiglia molto alla polemica sui vaccini. Legiferare sull’argomento è necessario e va fatto, ma lasciando entrare solo chi è competente e produce fatti e analisi scientifiche. I vessilliferi dovrebbero aspettare fuori. Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 26 febbraio 2018

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UN GIRO IN MACCHINA 2018

CRUSCOTTO FEBBRAIO

Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 27 ottobre 2018 38


NOLEGGIO O KM ZERO? LA SCELTA È AMPIA In un mercato ricco di offerte di nolo a lungo termine, di leasing e di vetture autoimmatricolate, conviene valutare con attenzione le opzioni su auto in benefit o da flotta aziendale o per privati.

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e flotte (noleggio più società) hanno acquistato nel 2017 automobili per un valore di 17,6 miliardi di euro, al netto degli optional, secondo le prime stime del Centro Studi Fleet&Mobility. Un incremento di circa 3 miliardi rispetto ai 14,8 dell’anno precedente, pari al +18%. Sembrerebbe una crescita esplosiva di questo segmento di clientela. In realtà, questo risultato è stato ottenuto con il contributo sostanziale delle auto-immatricolazioni (vetture demo e km0), aumentate di oltre il 50% rispetto a un già forte 2016. Al netto di queste vetture, che in buona misura andranno ai privati, le auto business hanno comunque registrato un aumento superiore al 7%. Oggi il loro peso sul totale mercato è superiore al 40%. A trainare la domanda è stato soprattutto il noleggio. Ma mentre il noleggio a breve ha acquisto oltre le sue reali necessità, sotto le offerte non rifiutabili delle Case, il noleggio a lungo termine (NLT) ha espresso una domanda proveniente da nuova clientela, attirata sia dalla formula in sé, moderna e innovativa, sia dalla convenienza di canoni che beneficiavano, unici nel mercato, del super-ammortamento. Il leasing pure è cresciuto fino a circa 130.000 contratti (+6%), di cui una metà abbondante a società e privati e il resto a società di noleggio. Un risultato apprezzabile, senza del super-ammortamento. Da quest’anno la misura di agevolazione fiscale del super-ammortamento non c’è più, nemmeno per le auto strumentali (quelle immatricolate a uso noleggio). Ma questa minore competitività non dovrebbe frenare, se non impercettibilmente, la corsa di tanti 39


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nuovi clienti verso il NLT, che anche quest’anno potrebbe crescere a doppia cifra. Questi nuovi clienti, spesso persone fisiche con partita IVA o titolari di piccole società, si affacciano al mercato dell’auto, nelle sue varie forme (acquisto, leasing o noleggio), senza quel potere contrattuale delle aziende e senza le competenze che hanno i buyer di queste, esperti nella valutazione delle varie soluzioni: acquisto, noleggio o leasing che sia. Allora vale la pena di richiamare l’attenzione di questi lettori su alcuni aspetti, che a prima vista possono apparire banali ma non lo sono. Ci sono alcune offerte che, magari particolarmente allettanti, possono portare con sé qualche sorpresina. Parliamo di tutte quelle proposte dove è annunciato un prezzo decisamente competitivo, troppo allettante, con l’obiettivo di attirare il cliente nella trattativa. Una volta ingaggiato, non sempre il cliente ha la competenza necessaria o la lucidità di pretendere di conoscere l’impatto economico di tutti gli aspetti dell’offerta. Per fare un esempio, tante volte si vede pubblicizzata un’auto con un canone mensile, decisamente contenuto. Poi nelle scritte in piccolo viene detto che c’è anche un anticipo da versare, e magari anche una maxi-rata finale. È evidente che il canone, per quanto basso, deve essere sommato agli altri importi. In aggiunta, bisogna guardare alle spese di istruttoria, in genere alcune centinaia di euro, che in qualche caso vengono a galla in una fase avanzata della negoziazione. Infine, l’aspetto forse meno evidente ma più significativo: l’allestimento del veicolo. Il canone pubblicizzato a volte è costruito su un modello base, privo di tanti optional, alcuni decisamente necessari. Aggiungerli comporta ovviamente una lievitazione del prezzo. Tutte queste cose insieme non rappresentano delle trappole, nel senso che nulla viene celato al cliente. Però sono elementi dell’offerta che, se messi sul tavolo all’inizio, possono dare al cliente l’idea precisa dell’impegno economico e dunque raffreddarne l’entusiasmo. Un po’ di fredda lucidità po’ aiutare a chiedere che tutto sia messo in evidenza subito. 40


Un aspetto che invece è più difficile da cogliere e da quantificare è l’addebito che sarà fatto per lo stato d’uso del veicolo. Si tratta di quei piccoli segni di usura che è improbabile non causare alla macchina nel corso di tre o quattro anni di utilizzo. Quante volte l’auto parcheggiata affianco aprirà uno sportello urtando la nostra? Oppure, riusciremo a parcheggiare due/tre volte al giorno, per 1.460 giorni, senza mai strusciare lievemente il cerchione della ruota vicino al marciapiede? O quella volta che nel parcheggio o nel traffico l’auto dietro toccherà leggermente la nostra, lasciando un segno così lieve che una CAI (constatazione amichevole d’incidente – il vecchio CID) sarebbe ridicola? Eppure, per tutti questi accadimenti, tanto lievi quanto connaturati a un uso dell’auto che non sia limitato al salotto di casa (quello riservato alle occasioni speciali), si avrà la sorpresa di un perito che quantifica un danno spesso superiore al migliaio di euro. Però in fondo un mercato pieno di km0 da piazzare offre al cliente un’alternativa allettante per cambiare la propria auto di lavoro, senza necessariamente abboccare a offerte troppo alettanti. Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 27 febbraio 2018

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I FURGONI ALLA PROVA DEL BOOM DEL COMMERCIO ELETTRONICO

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lla fine i furgoni non ce l’hanno fatta a replicare le vendite dell’anno scorso. Pur immatricolando quasi 194mila veicoli, gli autocarri con portata fino a 3,5 tonnellate hanno segnato un arretramento di oltre 3 punti percentuali. È successo tutto nelle ultime settimane (dicembre -19%), ma era già nell’aria e gli operatori sapevano che sarebbe stato impossibile avvicinarsi al dicembre 2016, quando l’incertezza sulla proroga del super-ammortamento aveva spinto tanti clienti a concludere l’acquisto. Invece proprio il super-ammortamento (prorogato) e la Legge Sabatini hanno fornito il carburante alle vendite del 2017, che però ha mostrato anche periodi di stanca, soprattutto nella seconda metà, tanto che i costruttori sono scesi in campo usando la leva delle auto-immatricolazioni (si legge km0 – si stima che a gennaio ci fossero circa 12.000 unità già targate, in attesa di un cliente). Gli incentivi, normalmente una fonte di alterazione degli equilibri, servono in questo caso ad accelerare il ricambio di quei furgoni troppo obsoleti, che costituiscono un vulnus per la sicurezza delle strade e per l’aria che respiriamo. Secondo Michele Crisci, Presidente dell’UNRAE, l’Associazione delle Case Automobilistiche Estere, “la riflessione da fare anche per il comparto dei veicoli commerciali è sul tema del parco circolante, caratterizzato da oltre 1/3 dei veicoli ante Euro3, quindi con più di 17 anni di vita. È necessario che siano intraprese azioni per incidere efficacemente sullo smaltimento dei veicoli vecchi, meno sicuri e più inquinanti (per i quali è auspicabile che provvedimenti e agevolazioni fiscali come il super-ammortamento e la Legge Sabatini, dimostratisi misure efficaci e necessarie, vengano resi strutturali)”. Parliamo di mezzi che hanno percorso centinaia di migliaia di 42


chilometri. A livello nazionale rappresentano il 36% del parco circolante, secondo un’analisi del Centro Studi e Statistiche Unrae su dati ACI. Ma è la classica media del pollo, poiché in ampie zone la situazione è ben peggiore. Se a Firenze il loro peso è del 18% e a Milano del 26%, in città come Napoli, Palermo e Catania sono intorno al 50%. In tutte le regioni del Mezzogiorno la quota di mezzi vecchi ante Euro3 oscilla dal 42% dell’Abruzzo al 53% della Calabria, con Sicilia e Campania appena sotto il 50%. Proprio da qui parte la richiesta dell’Unrae: “Occorre accelerare – prosegue Crisci – la messa in campo di infrastrutture per combustibili alternativi e di ricarica elettrica, nel principio condiviso della neutralità tecnologica che include anche le attuali motorizzazioni Euro6”. Dietro questa domanda di rinnovare il parco circolante, rottamando o comunque espellendo quei vecchi mezzi che inquinano molto, c’è un fenomeno preciso, l’esplosione dell’e-commerce. I trasportatori sanno che sempre più le loro consegne saranno destinate ad abitazioni cittadine, e sempre meno queste zone saranno accessibili a mezzi che abbassano la qualità dell’aria. I costruttori si stanno attrezzando, come ci conferma Luca Bedin, a capo di Volkswagen Veicoli Commerciali: “Guardiamo con attenzione alla domanda di propulsioni alternative, con un’offerta che convince in termini di sostenibilità, ovvero il Caddy TGI a metano”. Però l’e-commerce ha anche un altro impatto sulla filiera distributiva. I grandi operatori delle vendite online infatti stanno entrando a gamba tesa negli equilibri dell’ultimo miglio. Il caso covava da tempo ed è scoppiato sotto Natale, nel periodo in cui esplodono i volumi di merce scambiata. È stato in quei giorni che tanti piccoli operatori si sono sentiti rispondere che i furgoni erano già impegnati per distribuire i pacchi del gigante mondiale dell’e-commerce. Così molte strenne le ha portate la Befana anziché Babbo Natale, mentre tanti prodotti deperibili hanno subito una sorte ancora peggiore. L’e-commerce attualmente pesa ancora solo l’8,5% delle vendite a livello mondiale e il 10% in America. Dunque, in futuro farà sentire ancora di più il suo peso, ma il 43


UN GIRO IN MACCHINA 2018

colpo sarà assorbito certamente meglio, da parte di un sistema che presto dovrà organizzarsi e pianificare, lasciando poco spazio a improvvisazioni ed estemporaneità. Proprio per definire quali misure siano opportune, circa venti aziende stanno iniziando un percorso di ricerca che le vedrà impegnate fino a settembre. Si tratta del programma de La Società del Marketing “È un dettaglio, ma non sparirà”, che si propone di individuare una nuova mission per gli esercizi al dettaglio, tra le prime vittime dell’e-commerce. Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 27 febbraio 2018

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Fonte: Unrae su dati Aci

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I CAMION SOFFRONO LA CONCORRENZA SLEALE

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a domanda di camion risponde agli stimoli che incentivano il rinnovamento, ma potrebbe essere più vivace. Questa la fotografia che emerge dai dati di chiusura 2017. Le vendite sono state leggermente superiori al 2016 che però a sua volta era cresciuto del 56%. A trainare la crescita sono stati i mezzi pesanti, con massa totale a terra uguale o superiore alle 16t, che hanno immatricolato 19.636 unità, quasi il 7% più del 2016, laddove i camion fino a 16t hanno perso il 12%, fermandosi a 4.715 unità. “I dati restituiti dalle stime effettuate dal nostro Centro Studi e Statistiche – commenta Franco Fenoglio, Presidente della Sezione Veicoli Industriali di UNRAE, l’Associazione delle Case Automobilistiche Estere – presentano la situazione non brillante di un mercato che, per quanto con segno positivo, continua a rallentare nonostante le misure adottate in favore degli investimenti”. Sembra una lettura eccessivamente pessimistica, che invece legge dietro i numeri un malessere strutturale del settore: la concorrenza dei trasportatori esteri. “Siamo in presenza – continua Fenoglio – di un’anomalia che dovrebbe far riflettere. Infatti, se è vero che l’economia italiana si sta riprendendo, e tra i vari indicatori di tale ripresa c’è anche l’incremento della domanda di trasporto, sembra lecito domandarsi perché il mercato dei veicoli industriali sia in frenata e, conseguentemente, quali vettori e con quali veicoli rispondano all’incremento della domanda italiana di trasporto, non solo internazionale”. Detto in termini più espliciti, la concorrenza di vettori esteri non sarebbe mai la benvenuta, ovviamente, ma almeno potrebbe essere accettabile, se fosse praticata con mezzi di qualità e autisti di livello equiparabili ai nostri, e soprattutto se il carico fiscale e 46


contributivo delle imprese italiane non fosse sproporzionato nel confronto. Le previsioni per il 2018 sono di una sostanziale stabilità, anche per l’incertezza politica che potrebbe ritardare l’emanazione dei decreti necessari a rendere disponibili i fondi, stanziati nella Legge di Bilancio 2018, a favore degli investimenti nell’autotrasporto. È importante sottolineare che il rinnovamento dei camion è un interesse sociale, per l’inquinamento e per la sicurezza. Ancora Fenoglio ci ricorda che “l’adozione dei più sofisticati dispositivi di sicurezza è stata resa obbligatoria sugli autocarri dal 1° novembre del 2015. Su un parco di 638.500 veicoli industriali circolanti in Italia, quelli immatricolati successivamente a quella data rappresentano il 4,2%. Una percentuale ancora decisamente troppo bassa per garantire un miglioramento sensibile del livello di sicurezza generale”. Dando uno sguardo anche al comparto dei rimorchi, registriamo un 2017 in crescita dell’8,5%, con 16.000 veicoli consegnati, secondo le stime UNRAE. “Il dato 2017 del mercato per i rimorchi e semirimorchi - commenta Sandro Mantella, coordinatore del Gruppo Rimorchi, Semirimorchi e Allestimenti di UNRAE – è positivo anche oltre le aspettative, ma aggiungo una considerazione. Il 70% del parco circolante ha più di dodici anni di età e non è dotato, tra l’altro, dei più moderni dispositivi di sicurezza attiva che sono stati nel frattempo resi obbligatori. Sarebbe necessario definire forme di premialità per le imprese che scelgono di rinnovare il parco, nonché stabilire regole severe per l’importazione di rimorchi e semirimorchi usati dall’estero”. Articolo pubblicato su il Sole 24 Ore, il 27 febbraio 2018

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ARVAL OFFRE SERVIZI AGGIUNTIVI AI DIPENDENTI DEI SUOI CLIENTI

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l senso forte delle innovazioni che arrivano sul mercato prendendo il corpo e la forma di prodotti e servizi. È questa l’impressione che si ricava quando coinvolti in una conferenza internazionale di Arval. Come quella di Parigi del 13 febbraio, dove hanno presentato alcune importanti novità, a coronamento dell’anno appena passato, che il gruppo ha chiuso con oltre 1,1 milioni di veicoli gestiti. “Il 2017 è stato un altro anno di successo e di risultati incoraggianti” ha detto Philippe Bismut, chairman e CEO. “Le novità che introduciamo oggi ci consentono di mettere soluzioni di mobilità sostenibile e facile a disposizione dei dipendenti dei nostri clienti e dei privati in generale”. Arval For Me è una piattaforma digitale che combina i servizi di assistenza post-vendita per l’auto (riparazioni di meccanica e carrozzeria, pneumatici e vetri) insieme a servizi di mobilità, quali il rimorchio del veicolo e la vettura sostitutiva. In altre parole, tutti i servizi reali inclusi nel noleggio, senza necessariamente averne uno, destinati ai dipendenti di Arval e a quelli dei suoi clienti che mantengono la vettura in proprietà. Per quelli che invece volessero passare al noleggio, c’è Arval For Employee, che offre la possibilità di acquisire un’auto a noleggio, a titolo personale e beneficiando di condizioni privilegiate, pagando ad Arval oppure con una trattenuta in busta paga. E quando il dipendente andrà in pensione, potrà tenere l’auto, in noleggio o acquistandola. Arval Car Sharing invece offre la possibilità, ancora ai dipendenti delle aziende clienti, di utilizzare un veicolo riservato per pochi minuti fino a qualche giorno, sia per motivi di lavoro sia per ragioni private, anche durante il week end. Arval Italia, guidata dal CEO Gregoire Chovè, è la subsidiary promotrice del servizio che già nei primi mesi ha raccolto ordini per alcune migliaia di veicoli, 49


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da parte di un numero ancora limitato di aziende. C’è da scommettere che quando tutti i clienti saranno stati coinvolti i numeri saranno decisamente importanti. Tuttavia, il car sharing è un business in perdita. “Ci aspettiamo di guadagnare dal car sharing non come business isolato – spiega Bismut al Sole24Ore – ma come aggiunta a quello esistente. Grazie alle sinergie con i nostri sistemi, potremo gestire meglio la flotta e magari aumentarla, visto che parliamo di una popolazione di clienti circa dieci volte più ampia. Utilizzando la nostra piattaforma digitale, il costo del servizio è marginale”. Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 27 febbraio 2018

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SUI DIESEL SERVE IL BISTURI, NON L’ACCETTA

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osì i comuni tedeschi possono vietare a piacimento la circolazione di veicoli diesel. La sentenza, che ha rigettato il ricorso di due Lander che chiedevano che la materia fosse ritenuta di competenza federale, merita qualche considerazione, con pacatezza ma anche con fermezza. Innanzitutto, mettiamo da parte quell’insopportabile esterofilia, che sdogana senza giudizio qualsiasi cosa facciano all’estero. Che venga dalla terra dei pistoleri o dai celti di qua e di là della Manica, noi abitanti del Bel Paese siamo in grado di valutare e discernere il bene dal male. Una premessa senza la quale sarebbe inutile proseguire. In secondo luogo, pur senza entrare nel merito, si può dire che una sentenza può essere criticabile e censurabile, come gli stessi sistemi giuridici prevedono, con i gradi di giudizio e il bilanciamento dei poteri. Nello specifico, la sentenza riconosce agli enti locali di vietare ciò che norme nazionali e sovranazionali stabiliscono per tutti i cittadini, quando adottano un protocollo di omologazione e stabiliscono precisi limiti alle emissioni, di varia natura. Ma una città deve poter vigilare sulla salubrità del suo ambiente, indubbiamente. La faccenda non è di quelle semplici, da torto e ragione. Insomma, ed eccoci al vero punto, può succedere (anzi è l’unica fattispecie reale) che la norma imponga dei limiti alle nuove macchine, mentre poi la libera circolazione dei veicoli vecchi li oltrepassi, mandando in allarme il termometro cittadino. Non è sbagliato parlare di termometro, perché le emissioni dei veicoli sono come sappiamo in ottima e abbondante compagnia: quelle prodotte dalla combustione dei riscaldamenti. Tornando però alle vituperate automobili, forse è il momento di far emergere il vero punto. Non tutti i veicoli diesel sono responsabili delle stesse emissioni. Come sappiamo (e chi non lo sapeva adesso lo sappia) un Euro6 emette polveri sottili (PM10 e 2,5) circa 28 volte meno di un Euro0 o 1. Che in pratica significa che basta 51


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fermare un’auto vecchia per consentire a 28 nuove di circolare. Allora, quando si legifera ponendo il limite delle Euro6 per le auto vendute, perché viene invece lasciata piena libertà a quelle molto obsolete? Perché il legislatore non trova il modo (e forse il coraggio) di intervenire limitando la circolazione di chi inquina davvero? Magari, se non vietandola tout court, stabilendo un certo limite di km/anno. Non sarebbe né difficile né costoso con le moderne tecnologie, e neppure con le vecchie. Certo, dovrebbe poi rendere più accessibile l’acquisto di un usato recente o di un’auto nuova. La salute è un bene collettivo, non gratis. La materia in gioco non è tanto quella delle flotte, che hanno in pancia milioni di veicoli diesel iscritti ad un ceto valore residuo, perché da un lato hanno fiutato da tempo l’aria che tira e hanno adottato i correttivi e, dall’altro, sanno che se dovessero diminuire oltre le previsioni i valori residui delle macchine diesel, aumenterebbero quelli dei mezzi a benzina, che pure possiedono. Sul tavolo ci sono piuttosto due interessi dei cittadini. Da una parte quelli che hanno un’auto vecchia e non vogliono essere discriminati. Dall’altra quelli che hanno acquistato un’auto Euro5/6 e non vogliono essere privati del diritto ad usarla, per colpa degli altri. Qualsiasi intervento politico scontenterebbe qualcuno, ma nessun intervento scontenta tutti. Infine, un ultimo sassolino. Sarebbe il momento di smettere di affermare che l’industria automobilistica sia sotto pressione per lo scandalo del diesel-gate, quando 3 anni fa macchine Euro5 piuttosto pulite vennero vendute dichiarando che inquinavano ancor meno - e per fortuna nessuno si fece male. Lo scandalo c’è stato, è stato circoscritto e pene e rimedi sono stati stabiliti. Fine della pressione. Fuor di malizia (perché a pensar male si fa peccato…), continuare a parlarne fa sorgere il sospetto che il bersaglio non fossero quelle Euro5 troppo incipriate, ma la tecnologia diesel nell’uso insieme, ossia l’industria europea dei propulsori. Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 27 febbraio 2018

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IL MERCATO È TORNATO IN BUONA SALUTE

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e moto hanno continuato a trainare la crescita del mercato anche nel 2017, superando le 82mila immatricolazioni. Anche gli scooter targati, che sono la fetta più grande, hanno dato il loro contributo, sfiorando le 122mila targhe. Ma la vera novità è stato il segno più davanti al segmento dei “cinquantini”, che hanno totalizzato quasi 24.000 pezzi venduti. Un’inversione di tendenza che si attendeva ormai da anni. “Il 2017 conferma le nostre previsioni di ripresa con oltre 11.000 immatricolazioni in più grazie al contributo significativo delle moto e al buon risultato degli scooter. Leggera ripresa per i 50cc che superano i volumi dell’anno scorso. I prossimi tre anni serviranno a recuperare i livelli pre-crisi, soprattutto se continuerà il processo delle riforme” afferma Corrado Capelli, Presidente di Confindustria ANCMA che ha concluso il mandato passando il testimone ad Andrea Dell’Orto. “Il nostro settore – continua Capelli – dovrà puntare con decisione al rinnovo del parco circolante, perché troppi veicoli sono obsoleti: circa il 50% ha superato i 10 anni e quasi il 30% è ancora Euro0. Confindustria Ancma proseguirà con tenacia anche nella prossima legislatura le innumerevoli iniziative legate al sostegno del mercato, della sicurezza e della mobilità a 360 gradi”. Un’altra piacevole novità del 2017 è l’impennata di vendite delle cilindrate medie, da 250 fino a 500cc, che hanno superato le 52mila unità. È il segmento strategico, che attira nuovi clienti verso la moto, senza chiedere l’impegno alla guida tipico di una cilindrata più grossa. L’ideale per i centauri che si muovono nel traffico cittadino. Nelle moto, Naked e Enduro sono le protagoniste del mercato, facendo insieme quasi il 70% delle vendite. Le Naked non solo si confermano le più vendute, con oltre 30mila unità immatricolate, ma segnano anche la crescita maggiore, quasi +16% sul 2016. Anche le moto da Turismo, in terza posizione, crescono del 13% superando le 11.500 unità. 53


UN GIRO IN MACCHINA 2018

Guardando al 2018, registriamo una partenza sprint, che però secondo Valerio Papale di Agos (leader nel credito al consumo del settore, che proprio per questo sente il polso del mercato) “va ridimensionata, perché gennaio 2017 scontava in negativo l’abbuffata di km0 di mezzi Euro3 fatta a dicembre, mentre questo inizio d’anno è positivo anche grazie ad alcuni arrivi di moto 2018 in anticipo rispetto al 2017”. Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 13 marzo 2018

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L’INGLORIOSO DECLINO DELL’EFFICIENTE DIESEL

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iano B: il grande convitato di pietra al Salone di Ginevra. La soluzione che non c’è. Nel 2021 (dopodomani per l’auto) l’UE passerà al setaccio le emissioni medie di ogni costruttore e imporrà multe salate per gli sforamenti della CO2 oltre i 95 gr/km. In un pianeta che produce circa 700/800 Gtons/anno di CO2 (non un inquinante ma un clima-alterante) le auto circolanti dell’UE ne emettono circa 0,5/anno e le nuove immatricolazioni pesano per circa 0,04 Gton/anno. Quella che avrebbe dovuto essere la soluzione per evitare gli sforamenti, ossia spingere la gente a comprare molte auto elettriche, non è pervenuta. Così, per la prima volta nella sua storia, questa industria ha capito cosa significa “consumatore”. Uno che ha tanta passione, sì, ma non è stupido al punto di adottare un prodotto che ancora non è migliore di quello che guida ogni giorno. Che erano tutte esposte lì, bellissime e piene di tecnologia, mosse da ottimi propulsori Euro6, in gran parte diesel. L’intera vicenda sarebbe grottesca, se non fosse tragica. Un’industria eccellente, in ottima forma, un gioiello competitivo dell’Europa nei confronti di America e Cina, che tuttavia ha dentro i nostri stessi confini i suoi più temibili avversari. Sarà penalizzata dopo essere passata in circa vent’anni da Euro0 a Euro6, con un miglioramento dell’impatto ambientale che ha pochi eguali in altri settori. Perché invece di rullare i tamburi della scienza accetta che il diesel, il suo gioiello della corona, venga messo al bando da qualche personaggio in cerca d’autore, che non sa di che parla ma suona bene il piffero ambientalista. Perché non ha voluto o saputo dire che dopo l’Euro6 ci sarebbe stato lo stop, che il “non-plus-ultra” era stato raggiunto e che un ulteriore incremento sarebbe eccessivamente oneroso e foriero di miglioramenti infinitesimali. Certo, non tutti i costruttori hanno seguito 55


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la medesima strategia e chi ha scelto bene è giusto che ne tragga i benefici. Inoltre, non tutti saranno gravati allo stesso modo dalle multe. Ma questo vale per la concorrenza tra imprese. Le bufale e le norme che ignorano la realtà scientifica sono un’alterazione malefica del mercato. È tempo per qualcuno di battere un colpo? Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 17 marzo 2018

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SUV E CROSSOVER SOSTENGONO I MARGINI DELLE CASE

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orse sarà un anno interessante, per il mercato dell’auto. I primi due mesi, in genere avari di segni rilevanti, hanno invece già battuto un colpo importante. Tra i costruttori di volume, il leader di mercato ha parlato con i fatti, affermando che le targhe sono importanti, ma i margini di più. Concetto poi ribadito a Ginevra, per chi assolutamente non voleva leggere le statistiche. Non serve più svenarsi per immatricolare Fiat oltre misura, quando nei due mesi Jeep ha quasi raddoppiato volumi e quota e Alfa Romeo cresce di oltre il 23% in volume e molto più in valore, visto che il prezzo di Stelvio non è quello della Giulietta. Nonostante le dichiarazioni d’intenti di tutti i costruttori a fine 2017, quando le stime dell’Unrae, l’associazione dei costruttori, prevedevano un 2018 con meno ricorso ai chilometri zero, questo inizio d’anno ha sorpreso un po’ tutti. Il segnale era arrivato a gennaio, con Fiat che immatricolava 3.000 macchine meno dello stesso mese 2017, cedendo oltre 2 punti di quota. Poi il concetto è stato ribadito a febbraio, con oltre 6.000 targhe in meno (ma tutto il mercato è calato) e 3,4 punti di quota persi. Sarà questo il leit motiv dell’anno, con un ritorno a quantità di km0 in linea con il passato, distanti dal picco toccato lo scorso anno? È presto per dirlo, visto che sempre tra i grandi generalisti c’è chi sembra andare nella direzione opposta. Il Gruppo PSA, ad esempio, sta spingendo molto con i marchi Peugeot e Citroen, che insieme hanno guadagnato nel bimestre quasi due punti di quota, ben oltre quanto servisse per bilanciare Opel, che ha lasciato sul campo più di 2.000 macchine. Quali che siano le strategie delle case, che impatto può avere un minor ricorso alle forzature di fine mese? La conclusione più ovvia è che le reti di concessionari tirerebbero un po’ il fiato, per agevolare quel “bisogno di smaltimento degli stock di km0” cui fa riferimento la stessa l’Unrae. Ma non sempre la conclusione più ovvia è 57


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quella giusta e quasi mai è l’unica. È prematuro, ma alcuni segnali sembrano indicare che in realtà molti concessionari potrebbero non gradire la riduzione di queste vendite a prezzo scontatissimo, che permettono loro di soddisfare la domanda di una clientela particolarmente sensibile al prezzo. Speriamo davvero che non sia così. Più in generale, la politica commerciale appare comunque più attenta alla qualità delle vendite (ai margini) rispetto all’anno scorso, grazie alla costante ascesa dei SUV, più che raddoppiati dal 2014 (296.000 unità, pari a una quota del 22%) al 2017 (609.000 e 31% di quota). Si tratta di un fenomeno molto più ampio e non solo italiano. A livello globale, stando a un’analisi di Jato Dynamics, una società di consulenza, le vendite di questi modelli sono passate dai quasi 17 milioni del 2014 ai circa 28 dell’anno scorso, con la quota che è balzata dal 22 al 34%. Questi modelli, che hanno mediamente un prezzo maggiore rispetto alle tradizionali station wagon e 5 porte, hanno consentito lo scorso anno al nostro mercato di superare con 38,6 miliardi netti (secondo le prime anticipazioni del Centro Studi Fleet&Mobility) i 38,1 miliardi del 2008, prima della crisi, nonostante siano state immatricolate 200.000 macchine in meno. Il premium price dei SUV accettato dalla clientela sta avendo anche un altro effetto di marketing. Fino a pochi anni fa la premiumness (ossia il riconoscimento di un valore superiore) era associata al posizionamento del brand, di cui tutti i suoi modelli beneficiavano, mentre gli altri (cosiddetti “generalisti”) si accontentavano di ricavare tuttalpiù il giusto dalla vendita. Oggi possiamo affermare che ogni brand, anche quelli posizionati sulla convenienza (value for money), riescono a spuntare un premium price per i SUV che offrono, rispetto ai corrispettivi modelli classici. Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 27 marzo 2018

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LE MACCHINE “ALLA SPINA” NON SONO UNA PANACEA

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l Salone di Ginevra quasi ogni costruttore aveva in esposizione uno o più modelli equipaggiati con propulsori elettrici, ma tutti sapevano ormai che non sarebbero state loro quelle acquistate dai clienti, bensì le altre, le famose Euro6. Non erano più loro le novità per cui andavi da uno stand all’altro. Nulla di dichiarato, sia chiaro. Piuttosto una palpabile sensazione forse originata dal fatto che gli stessi costruttori hanno capito che le auto elettriche non gli daranno l’aiuto per il quale erano state pensate e lanciate, almeno in Europa. Le multe dell’UE sono in arrivo, ed è evidente che la penetrazione delle vetture elettriche pure (BEV) e anche di quelle ibride plug-in (PHEV) non riuscirà ad abbassare la media delle emissioni tanto da evitarle. I paesi dell’UE hanno immatricolato 15 milioni di vetture nel 2017, di cui quasi 98mila BEV (0,7% arrotondato per eccesso) e 117mila PHEV (altro 0,8%). La media delle emissioni di CO2 è stata di 118 gr/km, uguale all’anno precedente a causa della flessione della quota dei diesel dal 49 al 44%. Il target è di 95 gr/km nel 2021, pari a un gap da recuperare di 23 gr/ km in tre anni. Un simile calo (da 141 a 118) è stato conseguito in sei anni, dal 2010 al 2016. Non saranno certo le vendite da prefisso telefonico delle elettriche a scongiurare le multe. A questo servivano e a questo non serviranno. Poi la storia proseguirà e la quota di elettriche potrà anche arrivare a qualche punto percentuale tra 10/15 anni, grazie alle piccole da città e ai giocattoli di lusso che fanno status. Ma noi altri continueremo a girare con motori termici, almeno in occidente. Un’ottima notizia per gli ambientalisti informati, visto che ormai è acclarato che le auto elettriche inquinano più di quelle termiche, nel ciclo completo “wells-to-wheel” (dal pozzo alla ruota). Non parliamo poi di altri danni collaterali, legati alle batterie: minerali di produzio60


ne, smaltimento, durata. Non dovremo neanche potenziare la produzione e la distribuzione di energia, necessario nel caso di diffusione di massa, visto che secondo Green Alliance, un think tank inglese, una ricarica di auto assorbe quanto un appartamento medio in 3 giorni e l’allacciamento simultaneo di molte vetture manderebbe in tilt la rete. Così appare la vicenda delle auto elettriche, vista da noi europei, notoriamente tolemaici e concentrati sull’ombelico, che abbiamo studiato Colombo ma non Marco Polo. In realtà è più complessa, come molti sanno. Nel risiko globale, l’industria automobilistica europea vanta l’eccellenza dei propulsori termici, mentre dall’oriente del Sol Levante soffia da due decenni il vento dell’ibrido (che è un propulsore più complesso e più costoso, perché coniuga insieme termico ed elettrico). Da circa 5 anni però arriva dal Regno di Mezzo un altro vento, molto più potente, il cui sibilo dice: abbiamo il più grande mercato auto del Mondo e le regole le dettiamo noi. In Cina, dal 2019 la produzione e la vendita di auto devono passare gradualmente dai propulsori termici a quelli elettrici o al massimo ibridi plug-in e tra un po’ fisseremo una data oltre la quale le auto a motore termico tradizionale non saranno più vendibili. Altro che dazi. Secondo Xin Guobin, Vice-Ministro dell’Industria di Pechino, “queste misure promuoveranno profondi cambiamenti nell’ambiente e daranno slancio allo sviluppo dell’industria automobilistica della Cina”. I profondi cambiamenti nell’ambiente saranno devastanti, visto che oltre la metà (prevista in crescita) dell’elettricità in Cina proviene dal carbone. Invece lo slancio dell’industria automobilistica cinese, a cui corrisponde una frenata di quella occidentale, si fonda sul fatto che il propulsore elettrico (BEV) è più semplice da costruire e tutto il know-how dei costruttori occidentali su motori e trasmissioni sarebbe inutile. Da un’analisi di Alix Partner, una società di consulenza, emerge che in media l’assemblaggio del motore a combustione (ICE) assorbe 6,2 ore di manodopera, contro le 3,7 (-40%) del motore elettrico (BEV) e le 9,2 (+48%) 61


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dell’ibrido plug-in (PHEV). Insomma, per la Cina, che è il più grande esportatore mondiale (+736 miliardi USD nel 2016) ma nell’auto ha un saldo negativo (-44 miliardi), la partita sarebbe più facile. Ciascuno la giochi come crede, ma non credendo di imporre agli europei ciò che non vogliono. Anche perché, sia detto chiaro, la questione dei motori contiene molti elementi, ma non quello ambientale. Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 27 marzo 2018

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L’UOMO E LA GUIDA AUTONOMA

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’è scappato il morto. A Tempe, l’auto autonoma ha ucciso una donna. Adesso stanno indagando per capire cosa è andato storto. Cosa è andato storto? Che non c’era nessuno al volante, ecco cos’è andato storto. Ovviamente, questo pensiero fa inorridire i tanti amanti del futuro, che proprio non ci stanno bene al mondo e desiderano una sola cosa: cambiarlo il più in fretta possibile. Questo fatto, pur nella sua tragicità, offre tuttavia l’occasione di porre un interrogativo. Accettando che prima o poi le auto saranno in grado di muoversi autonomamente, potranno davvero coesistere le due forme di mobilità, quella governata dall’intelligenza artificiale e quella governata dalla mente umana? Uso la parola “mente” proprio per segnare la distinzione. L’intelligenza artificiale potrà elaborare di più e più velocemente tutti i calcoli razionali che servono a stare dentro un sistema di mobilità. Nessun dubbio che treni e aerei potranno essere mossi dai computer meglio che dagli uomini. Ma questi si muovono dentro un sistema protetto, in cui dovranno interagire con altri veicoli mossi anch’essi da un computer. Tutti insomma risponderanno alle medesime logiche, ottimizzandole e mettendole in sicurezza. Ma la mobilità umana è altra cosa. È determinata da calcolo, ma entrano in gioco anche facoltà che logiche non sono: l’intuito, l’immaginazione, la distrazione, l’esitazione, il cambio improvviso senza ragione. L’uomo è spesso in grado di intuire che un altro potrebbe deviare la marcia, solo guardando come procede, magari associandolo all’avvicinamento a una traversa o a un posto libero. Inoltre, l’uomo ha la possibilità di scegliere contro il proprio interesse, andando volutamente e colpevolmente a tamponare un’altra macchina per salvare un pedone che era fuori posizione. Sarebbe importante sapere se il computer sarebbe all’altezza di una decisione simile. Infine, la circolazione nel si63


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stema di mobilità umana è resa possibile da un mix di osservanza e trasgressione delle norme, altra area di grande disagio per un computer. Tutto ciò per porre la questione fondamentale: i due sistemi di mobilità, tecnologica e umana, possono convivere? Oppure ci troveremo di fronte alla scelta se trasformare le nostre città in ferrovie, senza rotaie fisiche ma dove all’uomo è vietato comunque l’accesso, se non dentro una vettura autonoma? Una sorta di Venezia senz’acqua. Articolo pubblicato su il Giornale, il 28 marzo 2018

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IL SOGNO INFRANTO DI TESLA E UBER I problemi della guida autonoma.

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’è un filo rosso che collega i due incidenti mortali delle scorse settimane, quello di un’auto Uber a guida autonoma (che ha investito una donna) e quello di una Tesla con l’Autopilot inserito, che si è schiantata su un’autostrada di San Francisco, uccidendo il 38enne pilota. Il filo rosso non è tanto quello della ricerca e della sperimentazione della guida autonoma, quanto piuttosto quello della finanza speculativa, che spinge le due aziende a cimentarsi nello sviluppo di questa tecnologia. Pur se nell’immaginario collettivo annoverate tra le stelle della nuova frontiera tecnologica e innovativa, entrambe hanno scelto di entrare in mercati maturi: la costruzione di macchine l’una e i taxi l’altra. Entrambe proponendo un’innovazione importante. Tesla, vendendo auto solo elettriche e affiancando una fabbrica di batterie. Uber, sostituendo al tassista professionista un autista, in alcuni casi provvisto di licenza, in altri senza nemmeno quella. Entrambe hanno visto la loro offerta accolta con successo, per il seducente contenuto simbolico del prodotto presso un pubblico di nicchia (Tesla) ovvero per questo e per l’effettiva qualità superiore del servizio (Uber). Tuttavia, ancora nessuna è riuscita a far decollare il suo business, nell’accezione che ancora si dà nella vecchia economia reale: chiudere bilanci in utile e distribuire dividendi. Alla fine dello scorso anno, Uber ha visto la sua valutazione ridimensionarsi del 30%, a circa 48 miliardi di dollari (dai 69 di qualche tempo fa) soprattutto a causa del ritiro da alcuni mercati di UberPOP e delle difficoltà ancora in piedi per UberBlack. Tesla non naviga in acque migliori. Brucia cassa al ritmo di 8.000 dollari al minuto, secondo Bloomberg, e non riesce a costruire 65


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più di 500 auto alla settimana, lontane dalle previste 5.000 (e dalle 8.300 che vent’anni fa uscivano dallo stesso impianto, la Nummi joint-venture Toyota-GM). Entrambe, ancora, hanno continuo bisogno di iniezioni di liquidità da parte degli investitori. Ma quali investitori? Quale finanza? Ci sono quelli che credono nel progetto e puntano ad esserne partecipi, confidando che un dollaro investito oggi si moltiplichi domani, quando quelle macchine si venderanno e quei taxi porteranno persone – con profitto. Questi investitori si aspettano che l’azienda stia concentrata, ogni giorno, nella risoluzione dei problemi per rendere il progetto profittevole. Poi ci sono gli altri, che puntano sul titolo sperando che domani possa essere rivenduto con guadagno. Costoro non hanno il tempo né l’interesse ad attendere la soluzione dei problemi e la distribuzione degli utili. Gli serve invece ogni tanto un nuovo progetto, una nuova sfida che possa ammaliare altri giocatori, in modo da rilanciare continuamente. Ecco allora che un costruttore di macchine elettriche (che ancora non riesce a costruirle) e una piattaforma di taxi (che non girano ancora appieno) devono dedicarsi alla guida autonoma, un’altra tecnologia, un’altra sfida. Questa è un’epoca fantastica, di grandi innovazioni tecnologiche che ci stanno migliorando la vita. Di finanza c’è grande bisogno, perché ogni progetto deve avere la liquidità iniziale necessaria. A questo tavolo, i giocatori d’azzardo inquinano solo i pozzi. Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 7 aprile 2018

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FORMULA E, ECCO QUANTO PESA IL MARKETING NEL CAMPIONATO DELLE MONOPOSTO ELETTRICHE

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l marketing è una cosa importante, lo sanno tutti. È anche difficile e sottile, perché si confronta con l’intimo pensiero di ciascuna persona, ma questo lo sanno in pochi.

Un esempio di marketing è la manifestazione della Formula E, le competizioni delle monoposto elettriche, su circuiti cittadini. La finalità è di avvicinare le persone alle macchine elettriche. Il ragionamento sarà stato più o meno il seguente: visto che l’auto ha una forte attrazione per la sua sportività, mostriamo a tutti che anche senza il motore termico ci può essere tanta sportività, e dunque tanto fascino, seduzione, attrazione. In altri termini, se guidi un’auto elettrica non sei meno pilota e non ti diverti di meno. Però, però. Capita purtroppo che queste vetture abbiano un’autonomia limitata, determinata dai 28 Kwh delle attuali batterie. Una simile disponibilità di energia (ricaricabile in almeno due ore) permette di girare circa 20/25 minuti, alle velocità di gara con picchi di 240 km/h. Di fronte a questo limite, la soluzione adottata è stata di raddoppiare il parco auto, in modo da sostituire la vettura a metà gara e continuare a girare fino ai 50 minuti. Come nella 24 Ore di Le Mans si cambiano i piloti, perché non durano 24 ore, qui si cambiano le macchine, perché non arrivano a mezz’ora. Diciamo subito che dalla prossima stagione saranno disponibili le macchine di seconda generazione, le Spark SRT05e, alimentate da batterie per 54 Kwh, in grado di arrivare fino alla fine ed eliminare il cambio vettura. Ma per adesso si offre alla gente lo spettacolo sportivo delle monoposto elettriche che a metà gara restano a secco. Mostrando e 67


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anzi accentuando uno dei freni, dal lato del cliente automobilista, all’adozione delle auto elettriche. Non è il solo, d’accordo, ma non va sottovalutato. Del resto, che si tratti di un punto debole è dimostrato proprio dal fatto che la prima evoluzione di questi bolidi sia consistita nell’aumentare il range di autonomia ed evitare il cambio macchina. C’erano alternative? C’è sempre un’alternativa. Si poteva accorciare la durata della corsa, ad esempio. Oppure si poteva sdoppiare la gara, con due gironi di qualificazione da 20 minuti e poi un girone finale sempre da 20 minuti tra i migliori. O probabilmente un’altra ancora, che gli addetti ai lavori avrebbero potuto e dovuto trovare, se il capo del marketing avesse avuto la forza di affermare che no, non si può promuovere un nuovo prodotto, il propulsore elettrico, mostrando a tutti una delle sue più temute mancanze rispetto a quello termico o ibrido: che rimani fermo e devi aspettare ore per ripartire. Ma evidentemente non era chiaro a tutti il progetto: non si trattava di fare una competizione in più, ma di promuovere (con lo strumento della gara) le auto elettriche, evidenziandone la sportività e celandone i limiti. Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 9 aprile 2018

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LA CRISI DEL DIESEL IMPATTA SULLE FLOTTE La scelta della motorizzazione a gasolio non è più scontata nei parchi auto delle imprese e nelle vetture date in benefit. Ibrido, elettrico, metano e Gpl diventano opzioni percorribili.

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ambiare l’auto è un momento frizzante e pieno di stimoli, perché le macchine sono affascinanti e l’offerta è vastissima: orientarsi non è facile. Oltre ai modelli e agli allestimenti occorre inserire anche una variabile che finora era data quasi per scontata: il tipo di propulsore. Da tanto tempo il diesel era per molti un’opzione pacifica, non in discussione – almeno per chi guida auto non piccole da città e per percorrenze medio-lunghe. Adesso non è più così. Tanti professionisti che scelgono la prossima vettura valutano se tornare al motore a benzina o considerare una ibrida oppure un’auto a metano o GPL. Dietro tali interrogativi ci sono motivazioni diverse. C’è quella del rispetto dell’ambiente, che soprattutto nel nostro Paese è in genere dichiarata più di quanto poi seguita nei fatti. Ancora, c’è quella fondamentale della libertà di ingresso nei grandi centri urbani. D’accordo che il bollo non è più una tassa di circolazione, ma di possesso, però resta una forte contrarietà a pagare per un bene di cui viene impedito l’utilizzo. Ormai non ci si può godere più di una settimana di bel tempo, che arriva il temuto blocco alla circolazione, che troppo spesso colpisce anche le vetture nuove, le Euro6. Inoltre, non passa mese che qualche sindaco annunci di volere che un suo successore, intorno al 2025, blocchi tout court la circolazione per le auto diesel anche nuove (gli autobus invece, la cui età media si aggira intorno ai 15 anni, potranno continuare a circolare). Infine, la preoccupazione per il valore residuo di questa nuova macchina. Si tratta pur sempre di un’importante operazione economica e nessuno vuole veder svanire metà del suo valore finale di realizzo a causa di un mer69


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cato che vedrebbe il diesel uscire dalle opzioni dei consumatori. Sono tutte preoccupazioni legittime, ma sono anche accompagnate dal bisogno delle persone di sapere se effettivamente questa campagna sia giustificata (e dunque ineluttabile) dalle evidenze dei livelli di emissione. Molti se lo chiedono e lo chiedono a chi ritengono più addentro al settore. Diciamo subito e chiaro che no, non c’è alcun fondamento scientifico per affermare che un motore diesel Euro6 sia più inquinante di un motore a benzina. Molti studi che concludono il contrario sono basati, in tutto o in parte, sulle vetture in circolazione dieci e vent’anni fa, ossia antecedenti al common rail e prive del filtro anti-particolato (FAP). Ad esempio, le emissioni di polveri sottili o particolato (PM) del motore diesel sono state ridotte del 96%, da 0,14 gr/ km (Euro1) a 0,005 gr/km (Euro6). Inoltre, va anche ribadito (a costo di cadere nel “benaltrismo”) come il riscaldamento degli edifici produca nelle nostre città il triplo delle emissioni di PM10 e PM2,5 generate da tutti i veicoli: autobus, furgoni e automobili. Più in generale, l’automobilista deve sapere che gran parte delle polveri sottili saranno prodotte non dal motore, bensì dall’usura dei freni, degli pneumatici e della strada, unitamente al sollevamento di polveri dal suolo (che andrebbe opportunamente lavato dalle amministrazioni). Dall’altro lato c’è la questione del riscaldamento globale, in piccola misura collegato anche all’anidride carbonica prodotta dai motori. Sulla CO2, che non è un inquinante ma un clima-alterante, non c’è però discussione: il diesel ne produce meno, in quanto più efficiente del motore a benzina. Quindi il diesel aiuta, non peggiora, il riscaldamento globale. Comunque, le alternative a diesel e benzina ci sono. Le auto alimentate a GPL e a metano vantano, insieme a emissioni di CO2 inferiori, anche un’economia di costo, sebbene le prestazioni non siano così brillanti come le corrispondenti vetture a benzina o diesel. Discorso diverso per le macchine ibride, che uniscono un propulsore elettrico a quello termico. Si tratta di una tecnologia relativamente nuova, che sta 70


gradualmente aumentando la penetrazione sul mercato. Nei primi 3 mesi sono cresciute del 32% rispetto all’anno precedente, più di quelle a metano (+30%), mentre nello stesso periodo, in un mercato in flessione dell’1,5%, il diesel è calato del 2,5%, il benzina del 3,2% e il GPL addirittura del 7,5%. È probabile che anche coloro che scelgono una nuova auto all’interno delle flotte aziendali si pongano le stesse domande, soprattutto legate alla possibilità di circolare nei centri urbani. Tuttavia, secondo quanto riportano i grandi noleggiatori, queste preoccupazioni non sono ancora arrivate a scalfire le decisioni dei fleet manager, che come noto guardano prevalentemente alla CO2 come indicatore della sensibilità ambientale dell’impresa e dunque restano fedeli al gasolio, almeno per quei driver che fanno tanti chilometri. Infatti, alcune aziende optano per i motori a benzina o ibridi per quei driver che stanno sotto i 15.000 km/anno. In generale, i grandi clienti ascoltano e leggono del clamore che si sta suscitando intorno al diesel, e pongono interrogativi ai noleggiatori, soprattutto per capire se sul versante dei valori residui potrebbero incappare in una diminuzione della convenienza. Ma non è questo il caso, visto che i noleggiatori affermano che in una certa misura la minore appetibilità dei diesel usati è già stata messa in conto, mentre ciò che oggi li preoccupa di più sul fronte dell’usato sono le percorrenze elevate delle macchine a fine noleggio. Per quante domande possano porsi, i clienti del noleggio sono ancora la parte in crescita del mercato auto. Gli operatori del NLT hanno acquistato nel trimestre 85.000 vetture, 10.000 più dello stesso periodo del 2017, con un incremento del 13%, che come sappiamo è in gran parte derivante da nuova clientela, PMI e professionisti ma anche privati cittadini. Anche il renta-car ha segnato una crescita importante (intorno al 10%), giustificata da una Pasqua arrivata presto, che ha imposto di avere le auto disponibili in flotta già da metà marzo. Non così bene il resto del mercato, con le società tenute in positivo solo dal71


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le auto-immatricolazioni, cresciute ancora in questo trimestre del 16%, mentre i privati hanno immatricolato 38.000 auto in meno, probabilmente quelli che hanno optato per un usato a km0, visto che i passaggi di proprietĂ netti (riconducibili per il 95% a privati) sono aumentati di 34.000 unitĂ . Nel complesso, tra nuovo e usato, la domanda dei privati nel trimestre risulta stabile intorno a 1.110.000 unitĂ . Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 10 aprile 2018

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SUL DIESEL RISTABILIAMO LA VERITÀ

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ome i vaccini, la guerra al diesel è priva di fondamento scientifico ed è auspicabile che non prosegua, per il bene dell’ambiente. Questa la posizione dei massimi esponenti e studiosi del settore automobilistico, riuniti a Roma presso l’ACI lo scorso 20 aprile, nel convegno La Capitale Automobile promosso da Agos. Dall’analisi del parco circolante, c’è stata una convergenza nel ritenere che la sfida dei prossimi anni sia non di aumentarlo ma di svecchiarlo, puntando a rottamare i 6 milioni di auto con oltre vent’anni, di cui 0,9 diesel e 5,1 a benzina. Ovviamente, è stato pure evidenziato come molte di queste vetture circolino in realtà molto poco o affatto, ridimensionando il loro effettivo impatto ambientale. Un’auto che percorra 2.000 chilometri all’anno emette circa un decimo degli scarichi di una vettura mediamente circolante, quali che siano le sue concentrazioni di polveri e altre sostanze. Il panel di esperti è sceso proprio nei dettagli delle emissioni, evidenziando come ad esempio proprio sulle polveri sottili (PM: particulate matter) l’impatto degli scarichi sia relativo. Se la circolazione di una vettura Euro6 produce circa 66 milligrammi di PM10 al chilometro, dallo scarico ne derivano solo 3,1 (2,4 nel caso del diesel), pari al 4/5%, mentre un ulteriore 23% arriva dall’usura di freni e gomme. Oltre il 70% viene prodotto dal consumo della strada e dal sollevamento delle polveri che sono già depositate al suolo: se le amministrazioni lavassero le strade la salute ne guadagnerebbe molto più che dal blocco del traffico. In punto di verità, i sindaci sbagliano a fermare la circolazione delle auto recenti, soprattutto Euro6. Se lo fanno, ottengono l’effetto di rallentare invece di accelerare il ricambio delle auto vecchie, inquinanti e meno sicure. La scelta poi di penalizzare 73


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i motori diesel è davvero priva di fondamento. Un Euro6 a gasolio ha emissioni nocive infinitamente inferiori a un vecchio propulsore a GPL, ad esempio. Ma dove tali decisioni risultano incomprensibili è sul fronte della lotta al riscaldamento globale attribuito alla CO2: i dati predisposti dal Centro Studi Fleet&Mobility hanno confermato non solo che le emissioni di CO2 del diesel sono inferiori, in quanto più efficiente, ma che tutte le auto del mondo generano appena lo 0,2% di tutta la CO2 prodotta dal pianeta, riconducibile per il 96% a fenomeni naturali, avulsi dall’intervento umano. Articolo pubblicato su il Giornale, il 3 maggio 2018

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AUTO E INQUINAMENTO, ECCO I NUMERI VERI Anidrite carbonica e polveri sottili nel mirino dei regolamenti e delle politiche ambientali.

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a anni la CO2 e il particolato sono al centro dell’attenzione del comparto auto in Europa. Di cosa si tratta esattamente?

L’anidride carbonica (CO2) è una sostanza importante per i processi vitali di piante (fotosintesi) e animali (respirazione) e contribuisce per circa il 15% all’effetto serra, il fenomeno che regola la temperatura dell’atmosfera terrestre, consentendo l’ingresso dell’energia termica proveniente dal sole ma impedendone l’uscita. Tuttavia, in caso di sovrapproduzione, determina un aumento del riscaldamento globale del pianeta. Non un inquinante, dunque, ma una sostanza che regola o altera il clima. Il pianeta produceva la CO2 prima della comparsa dell’uomo. Parliamo di circa 800 Gt/anno (giga-tons, miliardi di tonnellate). Di queste, oltre 330 vengono dagli oceani che, contenendo fino al 79% dell’anidride carbonica naturale, ne assorbono e rilasciano in base alla temperatura: più si riscaldano gli oceani più CO2 si sposta dall’acqua all’atmosfera. Si tratta però anche del più importante gas serra prodotto dall’uomo, che se scomparisse d’emblée dalla faccia della Terra risparmierebbe al pianeta 28 Gt/anno di CO2 (il 3,5%), tale essendo la quantità riconducibile alle attività umane. La bassa percentuale però non autorizza a ritenere marginali le fonti antropiche, poiché sono complessivamente in grado di alterare l’equilibrio naturale tra assorbimento e produzione, che tende in genere al pareggio. Alcune di queste attività, come le centrali elettriche e altri settori industriali, sono distanti dalla massa della popolazione e così, pur producendo 75


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poco meno della metà delle 28 Gt, non occupano la sensibilità quotidiana delle persone. Come invece è il caso dell’attività di gran lunga più parcellizzata, le auto. Il miliardo e duecento milioni di autovetture circolanti emettono da sole 1,5 Gt di CO2, pari allo 0,2% del totale e al 5,4% di quelle antropiche. Le auto dell’UE contribuiscono per circa un terzo, generando con le loro combustioni 0,5 Gt/anno. Questo certamente spiega l’enorme sensibilità che abbiamo in Europa per la CO2, mentre al di là del mare sono più attenti alle polveri generate dal traffico delle auto, il PM (particulate matter). Anche su questo alcuni dati scientifici sono opportuni. Il particolato da traffico deriva dagli scarichi delle auto e da altre fonti direttamente proporzionali al peso del veicolo, quali l’usura di gomme, freni e asfalto e il sollevamento di polveri già presenti sulla strada. Secondo Timmers&Achten, uno degli studi più accreditati sul tema, l’incidenza degli scarichi pesa per meno del 10% sulla produzione di PM10 da traffico mentre non raggiunge il 15% per il PM2,5. Nonostante il clamore del diesel-gate, le variazioni tra motore a benzina e motore a gasolio sono minime, mentre le auto elettriche ovviamente non emettono particolato allo scarico, sebbene a causa del maggior peso ne producano di più dalle altre fonti, azzerando di fatto il beneficio. Tenendo dunque gli occhi sul bersaglio grosso, ossia le polveri non derivanti dagli scarichi, l’auspicio è di una diminuzione del peso dei veicoli, in controtendenza rispetto a quanto avvenuto dall’inizio del secolo. Ma non bisogna disperare, perché la gran parte del particolato, quasi i due terzi, deriva dal sollevamento di polveri dal suolo, provocato dal rotolamento delle ruote. Questo offre una soluzione a portata di mano, anche a bassa intensità tecnologica, se vogliamo: lavare le strade. Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 19 maggio 2018

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Fonte: V.R.J.H. Timmers, P.A.J. Achten, Atmospheric Environment 134 (2016)

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IL “LUNGO TERMINE” VERSO IL CAMBIAMENTO La formula Nlt è in costante ascesa e tra le leve del suo sviluppo ci sono le nuove tecnologie digitali per l’interazione con i clienti.

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a nave del noleggio va, e anche a velocità sostenuta, ma gli operatori stanno molto attenti alla rotta. Perché se prima viaggiavano su un’autostrada, quella delle grandi flotte, a tratti anche noiosa, adesso procedono per strade e stradine, quelle dei piccoli clienti, dove perdere la bussola è un attimo. Con quasi 110mila immatricolazioni nei primi quattro mesi dell’anno, 15.000 più dello stesso periodo dell’anno precedente, il NLT segna una crescita superiore al 16%. Gli operatori parlano di inizio d’anno scoppiettante e ammettono che il vento ancora gonfia le vele. Aggiungono pure che sul fronte dei prezzi il mercato si sta stabilizzando, dopo gli eccessi causati dal super-ammortamento, anche se qualcuno ancora offre quotazioni molto aggressive. Come sappiamo, la crescita non viene certo dalle flotte ma dalle auto di comuni automobilisti, con o senza partita IVA, in forma societaria oppure no. Questo pubblico nuovo pone nuove sfide, portate da nuovi concorrenti, magari molto avanti sul fronte del digitale e dell’e-commerce. È il mercato retail. Per rafforzare ciascuno il proprio network gli operatori NLT, quasi tutti emanazione di grandi gruppi con spalle grandi, stanno lavorando sulle politiche distributive, costruite sul canale lungo degli intermediari. Ma è solo l’inizio. La frontiera si chiama digitalizzazione. Ancora mancano offerte di quotazioni online, che avrebbero il vantaggio di abbattere questo costo commerciale, lasciando che le persone possano dedicarsi a interagire col cliente sui punti dove effettivamente ha bisogno. Ormai è chiaro che tutte le ope78


razioni a scarso valore aggiunto andranno sostituite dai sistemi esperti, mentre la trattativa vera, la personalizzazione e la rassicurazione sulle ansie da novità resterebbero affidate alle persone. Perché molti sono convinti che il NLT sia un prodotto complesso, la cui vendita difficilmente verrebbe finalizzata senza un contatto diretto person-to-person, seppure telefonico. Al momento, non è dato provare questo convincimento. Proprio il prodotto è l’altro importante fronte di novità per il settore. Se da quando è apparso sulla scena si è occupato di macchine (e furgoni) come oggetti da governare, d’ora in avanti il NLT dovrà occuparsi dei servizi che da questi oggetti scaturiscono. Qualcuno potrà obiettare che ancora sul fronte del core business classico ci sarebbe molto da fare, ma la nuova clientela non aspetta. Inoltre, si tratta di interlocutori individuali, a cui non facilmente si adattano le soluzioni che funzionano per le flotte. Lo sviluppo di questi nuovi prodotti non è affare nazionale, ma impegna direttamente i vertici europei degli operatori. In questo senso, le filiali italiane hanno meno libertà di azione di quanta ne avevano un tempo, dovendo condividere le linee strategiche dei prodotti. Però abbiamo osservato che in più di un caso proprio l’Italia è tra i paesi guida nello sviluppo e nel lancio di innovazioni. Infine, c’è un ulteriore fronte di cambiamento, che interessa le politiche di acquisto dei noleggiatori. Normalmente, si seguiva la regola di acquistare un’auto a fronte di un ordine del cliente, con tutte le caratteristiche (marca, modello, colore, allestimento, option). Da alcuni mesi a questo sistema se n’è aggiunto un altro, l’acquisto per lo stock, come confermano importanti costruttori. Agevolati dai nuovi prodotti mid-term, che si basano su un’offerta di auto disponibili, già immatricolate e magari anche un po’ usate, i noleggiatori stanno piazzando ordini importanti a quelle Case che presentano offerte allettanti, convenienti da accettare. A quel punto, con la tranquillità di avere in ultima istanza il polmone della propria flotta, i noleggiatori propongono a loro volta ai 79


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clienti veicoli già ben definiti (marca, modello e tutte le altre specifiche), invogliandoli con un canone molto competitivo. Questo fenomeno, che avvicina abbastanza il prodotto NLT a quello del rent-a-car, nel senso che raramente si può scegliere il modello (e certo mai il colore), allontana ancor più il concetto di auto personale, disegnata sulle proprie preferenze. Forse dobbiamo aspettarci domani un cliente ancor più distaccato, che acquisisce la disponibilità di un’auto, seppure in esclusiva, vedendola come una commodity. O forse no, nel senso che se l’offerta più conveniente è tutto sommato accettabile, poi ci penserà il cliente stesso a farsela piacere e sentirsela cucita addosso. Come sappiamo, sugli elementi intangibili la libertà di immaginazione degli individui tende all’infinito. Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 22 maggio 2018

Fonte: Unrae

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DIESEL IN CRISI, ECCO COME IMPATTA SU CONCESSIONARI E RETI DI VENDITA

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endere auto usate (la cui regola base è: comprare bene) è un business da concessionari e le Case non devono entrarci, sennò fanno danni. Questa la posizione condivisa di alcuni tra i principali dealer italiani, riuniti a Verona nel consueto Club Usato di Agos. La conversazione era centrata soprattutto sui veicoli usati diesel, per capire se e quanto siano interessati dalla tempesta mediatica che si sta abbattendo su questo propulsore. Ammettono che qualche apprensione i clienti la manifestano, ma se il prezzo è buono poi comprano. Anche perché di auto a benzina usate non ce ne sono tantissime, almeno non quelle che cercano i clienti, come emerge dalle statistiche di Subito. it, un portale di annunci. Dall’analisi delle inserzioni si apprende che lo stock di vetture diesel offerte non ha registrato variazioni, nelle quantità come nei prezzi, e che i tempi medi di pubblicazione sono stabili, segno che il ritmo delle transazioni non ha rallentato. Su questo punto hanno insistito i concessionari, sottolineando come la velocità di rotazione dello stock sia l’elemento chiave per tenere sotto controllo la redditività del business, soprattutto in questo momento in cui la domanda potrebbe effettivamente raffreddarsi. In realtà pare sia già accaduto per un segmento specifico: i veicoli di attacco, da 1000/1500 euro. Parliamo ovviamente di vetture anziane e con tanti chilometri, il cui mercato era più vivace fino a qualche mese fa. Spiegazione? I valori di offerta sono troppo elevati, perché chi vende ha comprato male. Sempre sul diesel, i concessionari hanno evidenziato una pos81


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sibile opportunità: se nei grandi mercati del nord Europa la domanda di auto diesel continuasse a calare, molte di queste prenderebbero la via dell’Italia a prezzi vantaggiosi, e loro dovranno essere pronti ad approfittarne. Altro punto di riferimento sono i valori residui a 36 mesi, che le società di noleggio a lungo termine avrebbero già rivisto al ribasso di circa 3 punti. Ma di nuovo, i concessionari operano su un arco temporale molto più breve, che consente di avere il polso del mercato prima di acquistare (che sia una permuta o un vero acquisto da altro operatore). Qualcuno l’ha detto chiaramente: il futuro fa paura quando non lo prevedi per tempo e arrivi impreparato. Le statistiche del primo trimestre confermano: le vendite di auto usate diesel pesano la metà del totale e crescono quasi del 6%, laddove le auto a benzina segnano un +2%. Il resto è conversazione. Chiacchiere che i concessionari non sembrano gradire e che giudicano quanto mai inopportune, poiché sono proprio queste esternazioni a creare disorientamento nel pubblico. Alcuni importanti dealer hanno riportato come non pochi clienti abbiano scelto un’auto a benzina, magari ibrida, e siano poi tornati in concessionaria dopo qualche mese, lamentandosi dei consumi eccessivi. In effetti, il propulsore diesel Euro6 rimane il più efficiente, con le più basse emissioni di CO2, e anche quello a minore impatto ambientale nel ciclo completo, come gli esperti del CNR hanno ribadito alcuni giorni fa proprio a Verona, su invito dell’Unrae. In generale, sul tema del diesel e dei propulsori alternativi, i concessionari ritengono che certe previsioni siano del tutto prive di fondamento (sono dieci anni che le sentiamo e non corrispondono mai a quanto davvero si realizza), mosse secondo loro da interessi diversi, di borsa, più che guidate da un’attenta e obiettiva osservazione dei fatti. Piuttosto, ritengono opportuna una forte presa di posizione da parte delle associazioni che rappresentano gli operatori del settore, in fa82


vore della verità scientifica. Il cliente, a loro giudizio, si trova spesso a decidere sulla base di informazioni parziali e distorte – sulle auto elettriche parlano di vera illusione – che creano solo confusione e disorientamento. Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 23 maggio 2018

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IL NOLEGGIO CRESCE (E I PREZZI SCENDONO)

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gli italiani il noleggio piace sempre di più. Circa un milione di veicoli gestiti, con un giro d’affari di oltre 6,2 miliardi e più di 400.000 veicoli immatricolati nel 2017. Questa la fotografia del Rapporto che viene presentato questa mattina da Aniasa, l’associazione dei noleggiatori (e che Il Sole è in grado di pubblicare in anteprima). Più di 200.000 clienti sono passati dalla proprietà o dal leasing al noleggio a lungo termine, tra il 2015 e il 2017. Al punto che ormai è a noleggio a lungo termine un’auto ogni 20 in circolazione, tra quelle fino a 7 anni di anzianità (come è giusto confrontare, visto che il NLT quasi mai supera i cinque anni). Questa crescente erosione di quote di mercato dagli altri canali, che ha portato il NLT a pesare circa il 13% sulle immatricolazioni, sta avendo un impatto notevole sugli equilibri della distribuzione. Entrando nel merito dei numeri, si osserva che a fronte di volumi aumentati del 18% (a quasi 800.000 veicoli in flotta) i ricavi sono cresciuti molto meno, il 9%, pari a 4,9 miliardi di euro. La ragione è da attribuire a vari fattori, a cominciare dal vantaggio fiscale del super-ammortamento, per finire al costo del denaro ancora tenuto prossimo allo zero dalla BCE e ai premi RC in flessione. Tutti questi elementi hanno consentito di sviluppare efficienze nei conti, tanto da poter offrire al cliente canoni sempre più aggressivi. Tuttavia, si tratta di fenomeni congiunturali, che presto metteranno gli operatori di fronte alla sfida di dover aumentare quei prezzi a cui magari il cliente avrà fatto l’abitudine. L’aspetto ironico della vicenda è che, mentre gli operatori si combattevano a suon di sconti, l’autorità antitrust li teneva sotto osservazione, convinta di riscontrare accordi sottobanco per tenere i canoni alti. Anche nei numeri del noleggio a breve, il rent-a-car, si riscontra il medesimo fenomeno. Il giro d’affari è aumentato del 3% (1,2 84


miliardi di euro), che è poco se confrontato con l’incremento dei volumi, intorno al 6/7% (5,2 milioni di noleggi e 34,7 milioni di giorni, rispettivamente). Un settore estremamente competitivo, dove gli intermediari commerciali (41% dei volumi e 37% del fatturato) hanno acquisito un potere contrattuale abnorme e lo sfruttano per alimentare una guerra di prezzi che impoverisce il comparto. Un altro elemento da sottolineare è la flessione dei noleggi pluri-mensili, quelli normalmente utilizzati soprattutto dai noleggiatori a lungo termine per fornire al cliente un’auto in attesa che arrivi quella ordinata. È certamente un effetto del fatto che gli operatori del NLT abbiano da oltre un anno lanciato il loro prodotto mid-term, al quale attingono alla bisogna. In ultimo, sono stati anche presentati i primi dati del noleggio del 2018, al giro di boa del primo trimestre. Si conferma che la domanda continua a essere sostenuta e migliora rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, con il RAC in crescita del 7% e il NLT addirittura del 18%, in termini di volumi. Contrariamente invece all’anno scorso, sul fronte dei prezzi dai primi dati non emergono grandi pressioni, tanto che la dinamica del fatturato, per entrambi i settori, appare in linea con l’incremento dei volumi. Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 29 maggio 2018

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IL NOLEGGIO INQUINA MENO DELLA METÀ DELLE ALTRE MACCHINE

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l noleggio inquina meno, molto meno del resto del parco circolante italiano, grazie al fatto che la sua flotta (sia breve che lungo termine) è composta per l’87% da vetture Euro6, con una minoranza residua che risponde alla normativa Euro5. Tutte auto di ultima generazione, che dispongono degli accorgimenti tecnologici per limitare al minimo l’impatto degli scarichi nell’aria, dal filtro anti-particolato al common rail. È quanto riporta un’analisi del Centro Studi Fleet&Mobility per Aniasa, l’associazione dei noleggiatori, presentata questa mattina a Milano. Come noto, gli scarichi delle auto emettono varie sostanze inquinanti, regolamentate in misura diversa. Il monossido di carbonio (CO) delle vetture a noleggio risulta inferiore rispetto alla media delle altre macchine in circolazione del 58 e del 37%, rispettivamente per i motori a benzina e diesel, attestandosi sul valore di u grammo/km per i primi e 0,5 per i secondi. Le emissioni di ossido di azoto (NOx) sono invece circa la metà, -52 e -47%, sempre per benzina e diesel, con valori pari a 0,06 e 0,17 grammi/km. Gli scarichi delle auto a noleggio emettono il 70% in meno di idrocarburi incombusti (HC), un inquinante derivante dai propulsori a benzina in ragione di 0,1 grammo/km. Infine, è sulle polveri sottili, il cosiddetto particolato (PM) che il gap diventa enorme: i propulsori diesel a noleggio ne emettono l’85% in meno della media delle auto in circolazione. Come anticipato in apertura, è l’anzianità dei veicoli in circolazione, rispetto alla flotta del noleggio, a fare la differenza. Il parco auto italiano ha un 10% di vetture, circa 3,8 milioni, antecedenti alle normative Euro. C’è poi un altro 29% (11 milioni) che risponde alle normative Euro1/2/3. Con un 30% di Euro4, la 86


quota di macchine in regola con la normativa Euro5/6 è del 32%, pari a 12,3 milioni. Il noleggio invece propone solo vetture di ultima generazione, per la precisione Euro6 per l’87% ed Euro5 per il 13%. Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 29 maggio 2018

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IL NOLEGGIO NEL CUORE DEGLI ITALIANI

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l noleggio si fa sempre più spazio nelle abitudini degli italiani, sostituendo l’acquisto e il leasing. Quasi un milione di veicoli gestiti e oltre 6,2 miliardi di ricavi, con più di 400.000 immatricolazioni di nuovi veicoli. Questa in sintesi la fotografia del settore presentata ieri da Aniasa, l’associazione dei noleggiatori. Entrando nei singoli comparti, osserviamo come il noleggio a breve sia ancora in crescita, nella misura del 6/7% in termini di volumi operati, a cui però è corrisposta una crescita in valore di circa la metà, il 3%. Questa dinamica dei prezzi, più che un driver di stimolo della domanda, sembra essere riconducibile a una difficoltà che gli operatori stanno incontrando, da anni, a governare il processo commerciale, con eccessivo ricorso a grandi intermediari, che di fatto bruciano gran parte del valore generato in una competizione sui prezzi a dir poco tempestosa. Oggi il mantra delle imprese (tutte, non solo quelle del noleggio) è di perseguire il prezzo più basso. Però questo equivale non a creare ma a distruggere ricchezza. La bravura è spuntare un prezzo più alto, non più basso. È la generalizzata modesta capacità a far percepire il valore del proprio prodotto/servizio a non lasciare altra strada che quella di ridurre i costi per competere sul prezzo. Purtroppo, la scomparsa del marketing alla fine del secolo scorso ha prodotto miseria, non ricchezza. Serve a poco ammirare Apple e fare il contrario. Il noleggio a lungo termine procede a un ritmo impressionante di penetrazione nelle scelte degli automobilisti. Nel biennio 2015/2017 oltre 200.000 clienti sono passati dalla proprietà o dal leasing al noleggio, portando la flotta gestita a quasi 800.000 veicoli. Anche in questo caso i ricavi, pur arrivati a sfiorare i 5 miliardi di euro (a cui andrebbe aggiunta la rivendita dell’usato) non hanno segnato il medesimo tasso di incremento. Perché anche in 88


questo caso gli operatori hanno scelto di utilizzare un minor costo congiunturale (il beneficio fiscale del super-ammortamento) per competere sul prezzo. È comunque significativo che la penetrazione del noleggio a lungo termine, sul parco circolante delle vetture fino a 7 anni di anzianità, sia arrivato a superare il 5%. In pratica, delle auto fresche che girano, una su venti è a noleggio – era una su cento all’inizio del secolo. Articolo pubblicato su il Giornale, il 31 maggio 2018

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ELOGIO DEL DIESEL DI ULTIMA GENERAZIONE

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accio bene a prendere un’auto diesel? Quali incognite si annidano in una scelta simile? Potrò circolare liberamente, senza essere discriminato? Sono queste le domande che si stanno ponendo gli automobilisti che in questi mesi sono alle prese con la sostituzione della vecchia auto. Il processo d’acquisto è sempre una fase piena di dubbi e interrogazioni, specialmente quando l’oggetto è un bene durevole di valore importante – vulgata vuole che l’auto sia addirittura il più importante dopo la casa. Però tra tutti i dubbi e le opzioni non c’era stata finora quella dell’alimentazione. Il propulsore diesel viene riconosciuto da decenni come il più affidabile, capace anche di performance divertenti. Basti citare, a titolo di esempio, come la Golf GTD a gasolio abbia sostituito la Golf GTI a benzina come icona del desiderio realizzabile per tanti automobilisti. Non si tratta solo di una scelta dei consumatori. Sono stati gli stessi governi, in Europa, a favorire questi propulsori rendendo il gasolio più economico alla pompa, aggiungendo ulteriore convenienza a quella intrinseca, dovuta all’efficienza dei consumi rispetto al motore a benzina. Lo hanno fatto per perseguire l’obiettivo di ridurre le emissioni di anidride carbonica derivanti dalle vetture, visto che a questi motori viene riconosciuta una minore produzione di CO2. La CO2 non inquina, ma può alterare il clima del pianeta. È un gas serra, fondamentale per la vita delle piante (fotosintesi) e connesso alla respirazione degli animali, che contribuisce per il 15% all’effetto serra, quella calotta di gas che consente ai raggi solari di entrare ma non di uscire dall’atmosfera, in modo da garantire una temperatura che permette la vita, come oggi la conosciamo. Il più grande deposito di anidride carbonica sono gli oceani, che ne contengono fino al 79% e la rilasciano all’alzarsi della temperatura, mentre la assorbono 90


al suo diminuire. Mediamente il pianeta produce circa 800 Gtons (miliardi di tonnellate) di CO2 all’anno, di cui 330 dagli oceani. Le attività umane, complessivamente, producono intorno alle 28 Gt/anno, all’incirca il 3,5%. La percentuale apparentemente bassa non deve però trarre in inganno, poichè c’è un effetto accumulo, che ha portato la CO2 ad aumentare fino a oltre 400 ppm (parti per milione) a partire dalla seconda rivoluzione industriale, quando la concentrazione era intorno a 280 ppm. Per amor di verità, va anche detto che non sono solo le attività antropiche a accrescere la CO2, visto che negli anni 2014-2016, pur in presenza di una riduzione delle emissioni da attività umane, la concentrazione in atmosfera è aumentata, a causa delle siccità prodotte da El Nino, che hanno messo in ginocchio le foreste di mezzo pianeta, compromettendo la capacità di assorbimento di anidride carbonica delle piante. Nonostante la sensibilità, soprattutto europea, al contenimento della CO2, in questo decennio il diesel è stato messo sotto osservazione, a causa delle sue emissioni di elementi inquinanti. Nel 2012, uno studio dello IARC confermava il sospetto che i fumi del diesel fossero cancerogeni. Si trattava di studi partiti nel 1988, con diesel americani privi di elettronica (e dei benefici determinanti del common rail, del filtro antiparticolato e degli iniettori piezoelettrici) e alimentati con gasolio ad alto tenore di zolfo, respirati nelle miniere per almeno 5 anni: in effetti risultavano cancerogeni. Alcuni anni dopo, nel 2015, sempre dagli Stati Uniti partiva la disgraziata storia del Dieselgate. Infine, pochi mesi fa, ancora dagli USA è emersa la vicenda delle cavie sottoposte ai gas di scarico dei diesel. È probabile che la provenienza americana di questi attacchi non c’entri nulla col fatto che il diesel sia un propulsore sviluppato dall’industria europea, a un livello mai eguagliato 91


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né dai costruttori americani né tanto meno da quelli asiatici. Forse è piuttosto la minore sensibilità al riscaldamento globale e dunque al contenimento della CO2 antropica che spinge a posare l’attenzione sugli elementi inquinanti. Chissà che non abbia il suo peso anche il sistema sanitario assicurativo, esposto più alle patologie respiratorie che non al riscaldamento globale. Approfondiamo dunque gli aspetti inquinanti. Il propulsore diesel per le vetture si è affermato in questo secolo. Nel 2000 nel nostro Paese circolavano meno di 5 milioni di auto a gasolio (di cui meno di centomila più vecchie di 20 anni), mentre lo scorso anno erano arrivate quasi a 17 milioni (di cui quasi un milione aveva oltre 20 anni). L’anzianità è importante, perché l’industria automobilistica è in continuo sviluppo e su molti aspetti ci sono degli abissi tra un prodotto recente e uno del secolo scorso. Prendiamo il monossido di carbonio: in un quarto di secolo l’emissione di un motore a benzina è diminuita di 3 volte, quella di un diesel addirittura quasi 6 volte e adesso è la metà del benzina. Anche sull’ossido di azoto (NOx) i progressi apportati al motore diesel sono enormi: un Euro5 ne emette oltre 6 volte meno di un Euro3. Dove l’evoluzione è stata impressionante è però sulle polveri sottili, il PM (particulate matter). Rispetto all’Euro1 della fine del secolo scorso, i diesel Euro5 e Euro6 emettono oltre 28 volte meno polveri, grazie al common rail e al filtro anti-particolato. A questo, si aggiunga che il particolato emesso dagli scarichi è solo una minima parte, nell’ordine del 4/5%, di quello derivante dalla circolazione di un’auto. Quasi 3/4 infatti sono prodotti dalla sollevazione di polveri già presenti sulla strada e dall’usura del manto stradale, mentre poco meno di un quarto è attribuibile all’usura di freni e gomme. In altre parole, se si provvedesse al lavaggio delle strade (invece di attendere le piogge) questa sostanza sarebbe quasi del tutto eliminata. 92


In conclusione, impedire la circolazione alle vetture diesel di ultima generazione è inutile, sotto il profilo della qualità dell’aria, ed è controproducente per il clima, nella misura in cui spinge gli automobilisti verso il propulsore a benzina. Questi i fatti. Che poi bastino a impedire provvedimenti ispirati alla facile acclamazione delle piazze, è tutta un’altra storia. Articolo pubblicato su Harvard Business Review, a giugno 2018

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PER LE FAMIGLIE UNA SVALUTAZIONE DI ALMENO TRENTA MILIARDI DI EURO

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utto ha un prezzo, anche l’eliminazione delle auto diesel. Basta quantificarlo e vedere se c’è qualcuno disposto a pagarlo. Sempre che ciò che si ottiene sia un risultato di valore e non una bufala. Le amministrazioni che minacciano di vietare la circolazione ai diesel toccano l’interesse economico di molti cittadini, nella misura in cui gli impongono di andare sul mercato per vendere la macchina e comprarne un’altra, nuova (Euro6) o semi-nuova (Euro5). Quanto è grande questo interesse? Nel nostro Paese le auto ante Euro5 a gasolio sono 10 milioni, quasi tutte in mano a privati cittadini, poiché le imprese hanno un ciclo di sostituzione più breve (le Euro4 erano vendibili fino al 2010). Già questo fa capire che ogni provvedimento tocca trasversalmente milioni e milioni di famiglie. Ma quanto male gli fa? Non è facile rispondere con dati precisi, ma con una certa approssimazione si può individuare almeno l’ordine di grandezza. Un’analisi del Centro Studi Fleet&Mobility parte dal valore medio delle transazioni di usato presso i concessionari, fissato intorno a 8.700 euro, che per le auto a gasolio è stimabile intorno a 10.300 euro, visto che le auto diesel vendute (poiché più grandi) hanno un prezzo medio superiore del 19% alla media del mercato. L’incrocio di questi due valori restituisce un patrimonio circolante (diesel fino a Euro4) di un centinaio di miliardi. È una cifra molto, molto approssimativa, probabilmente per eccesso. Ma attenzione! Più è basso questo valore, più è ampio il gap che divide questi cittadini dall’auto nuova/semi-nuova. Ora, il primo effetto dei provvedimenti censori sarà di deprimere il valore di queste vetture, che troverebbero mercato quasi solo all’estero. Così, non solo il patrimonio circolante degli italiani diminuirebbe, ma sarebbero anche costretti a monetizzarlo. È ipotizzabile una flessione del 30/50%? Parliamo 94


di 30/50 miliardi. A cui va aggiunto ciò che manca per acquistare una macchina nuova, di dimensioni simili. Il valore medio netto delle vetture acquistate dai privati nel 2017 è stato di 19.500 euro (al netto degli optional), che per i diesel è stimabile in 23.200 euro (non perché gli italiani debbano sostituire un diesel con un altro diesel, ma perché in genere sono diesel le auto più grandi, e dunque il valore dà un riferimento della dimensione dell’auto). Considerando una media tra nuovo e semi-nuovo, possiamo individuare un valore di acquisto poco sotto i 20mila euro. La realtà sarà più variegata di questi brevi calcoli, ma non tanto lontana da una spesa di 13/15mila euro, imposta forzatamente a 10 milioni di famiglie. Ne vale la pena? Sul fronte del riscaldamento globale certamente no, visto che il diesel è il propulsore più efficiente in assoluto sul ciclo completo. Per l’inquinamento, l’industria dell’auto ha fatto miglioramenti enormi. Ora tocca alle amministrazioni lavare le strade, costruire parcheggi per fluidificare il traffico e ridurre le emissioni, e occuparsi di caldaie. Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 28 giugno 2018

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GUIDA AUTONOMA: SIAMO PRONTI?

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e possono comunicare, possono muoversi da sole. Questo il pensiero alla base di tutti i programmi di sviluppo della guida autonoma. L’auto che non ha bisogno del guidatore sarebbe dunque solo una questione di tecnologia. D’ora in avanti non qualcuno ma qualcosa, un sistema intelligente, si occuperà di condurre le automobili e gli altri mezzi di trasporto su gomma. Non accadrà in maniera netta, bensì con una gradualità distribuita nel tempo. In pratica, il sistema ti sostituisce in una cosa alla volta. Con molto tatto, prima ti aiuta se ne hai bisogno, poi ti inibirà atti contrari a quelli appropriati, prima dello stadio finale: la sostituzione piena alla guida, comunemente indicata come Livello 5 dell’evoluzione dell’automazione applicata all’auto. Oggi i computer governano molte attività, ma ancora niente di tanto complesso come la circolazione urbana. Un’auto autonoma di tale livello avrebbe un codice software formato da circa 300 milioni di linee, rispetto ai 18 del software che pilota un Boeing 787. Una tecnologia più pervasiva porta con sé il tema delle norme e delle responsabilità. Quando non sarà più il guidatore a compiere le scelte, chi dovrà rispondere per queste? Il costruttore del software o colui che l’ha progettato e scritto? Oppure il costruttore del veicolo, che l’ha installato e commercializzato? O ancora, chi ha eseguito la manutenzione, probabilmente da remoto? Questa appare una sfida enorme, eppure non è la più difficile. Il vero tema è proprio quello dell’intelligenza artificiale (AI), ossia la capacità del computer di apprendere e dotarsi di un suo corredo di codici di comportamento, non scritti dall’esterno ma prodotti dalla stessa macchina, sulla base dell’esperienza cognitiva. È questo l’aspetto davvero dirompente di tutta la vicenda. Quando un algoritmo è in grado di leggere la realtà e da questa derivare i suoi nuovi codici adattivi, significa che è in grado di fare delle valuta96


zioni e scegliere sulla base di motivazioni. Siamo in un’area non più meccanicistica, dove finora hanno operato le macchine, anche le più sofisticate. Nella nuova dimensione operano anche l’immaginazione e la motivazione, due fattori che conosciamo bene, in quanto esseri umani. Sappiamo però altrettanto bene che non sono di facile comprensione. Noi tutti spesso ci troviamo a ricostruire ex post la motivazione che ha indotto una certa azione. Tralasciando le aberrazioni e le devianze, dobbiamo ammettere che anche le persone più equilibrate, ossia più corrispondenti a un sistema condiviso o almeno noto, portano dentro di sé un bagaglio di emozioni e valutazioni sopite, di cui non hanno consapevolezza ma che all’occorrenza fanno sentire il loro peso nei comportamenti. Del resto, Intelligere significa esattamente capire e discernere. La mobilità è un fatto umano, che funziona ala maniera umana, oscillando tra la norma e la trasgressione. La domanda dunque è se il computer sarà intelligente al punto da compiere due possibili scelte, che sono: andare contro la norma e andare contro se stesso. Quando l’unico modo per evitare un danno causato da altri sarà di causarne uno a nostra volta, di entità minore (o presunta tale), il computer sarà in grado? Sembrano discorsi lontani, ma calati nella realtà prendono la forma, ad esempio, di un bambino che colpevolmente sbuca in mezzo alla strada: salvarlo potrebbe implicare andare a tamponare un’altra vettura. Ossia, perseguire un fine superiore passando dalla ragione al torto. Poi ci sono tutti quei piccoli comportamenti che oggi adottiamo, che stanno al limite delle norme e spesso ben oltre esso, come fermarsi in doppia fila per far salire un passeggero. Molti hanno un giudizio preciso e netto su queste vicende. Se siano da tollerare oppure no. Quello che nessuno davvero può affermare è se il saldo complessivo di tutti questi gesti umani alla guida sia positivo o negativo, alias se rimuovendoli in blocco la circolazione e la produttività che ne deriva aumenterebbero o diminuirebbero. Articolo pubblicato su Guida alla Sicurezza – Viasat, a luglio 2018 97


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QUELLA FEDELTÀ ALLA MARCA SOLTANTO DICHIARATA Lo studio. Automobilisti e intenzioni di acquisto.

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clienti su 10 dichiarano fedeltà alla marca dell’auto che stanno guidando. È quanto emerge dal 12° Rapporto Findomestic sui trend della mobilità automobilistica. Però mentono, come la stessa ricerca si perita di verificare – autorizzandoci di fatto le considerazioni che seguiranno. Alla domanda su quale scelta abbia fatto nell’ultima occasione, risulta che nella realtà solo uno ogni tre ha acquistato un’auto della stessa marca. La notizia non è tanto nel numero in sé, quanto piuttosto nella consapevolezza che coloro che rispondono a queste indagini lo fanno con tanta immaginazione, cortesia e attenzione alle risposte più cool del momento. La conferma arriva, semmai ce ne fosse bisogno, anche da altre domande dell’indagine. Cominciamo dai fatti semplici. Secondo i rispondenti, persone che hanno acquistato una vettura nuova negli ultimi 5 anni, la prossima scelta cadrebbe su una km0 nel 33% dei casi, mentre uno su quattro la prenderebbe nuova (ma perché, i km0 che sono? – ndr) e appena il 14% si rivolgerebbe all’usato. Vediamo anche in questo caso la realtà. Lo scorso anno in Italia i privati (ossia l’universo rappresentato dal campione) hanno acquistato poco più di 3,9 milioni di auto, tra usate (2,6, pari al 67%, non il 14%), nuove (1,1 pari al 28%, e qui ci troviamo) e km0 (0,2, pari al 5%, lontanuccio dal 33%). Ma dove lo scollamento tra la conversazione (risposta al questionario) e la vita vera tocca la vetta è quando si parla delle motorizzazioni. Prima uno su tre dichiara che il prossimo acquisto sarà diesel (19%) o benzina (14%), poi 8 su dieci si dicono favorevoli 98


alla messa al bando di questi propulsori termici. Tradotto, significa che il 12% dei rispondenti (uno su otto) pensa di acquistare un’auto termica, ma poi di desiderare che non possa circolare. Fortunatamente, sappiamo che la situazione è grave, ma non è seria, citando Flaiano. Innanzitutto, possiamo stare tranquilli che il mercato sarà altra roba rispetto a queste dichiarazioni. In secondo luogo, e più importante, non siamo di fronte a dei minus habens che rispondono alle domande, ma semplicemente a persone come noi, che la macchina ce l’hanno e che, trovandosi a conversare, cercano di apparire quanto più trendy possibile. Si chiama animo umano, ed è bellissimo. Basta saperlo. Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 2 luglio 2018

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IL NOLEGGIO A LUNGO TERMINE È ANCORA IN PIENA ACCELERAZIONE Auto aziendali. Il canale fleet conquista anche l’utenza privata e segna nei primi 5 mesi 2018 un rialzo dell’11%. Audi, Alfa Romeo, Nissan e Bmw i brand per i quali le flotte pesano di più.

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ei primi 5 mesi il noleggio a lungo termine ha proseguito la sua marcia con un incremento dell’11% sul 2017, in un mercato complessivo stabile. Quando arriva il momento di cambiare la macchina, sempre più clienti scelgono il noleggio e si tratta in larga misura di privati, che possiamo definire individuals (che abbiano o meno una partita Iva è poco rilevante). Il fenomeno è iniziato pochi anni fa ma sta crescendo rapidamente. Fino al 2013, il NLT era utilizzato dalle flotte e si presentava ormai stabile dal 2008, con le immatricolazioni che andavano a sostituire le vetture vendute a fine contratto. Ma già l’anno successivo fu registrato un saldo positivo tra acquisti e vendite, pari a oltre un punto e mezzo di quota di mercato guadagnato. A cui negli anni successivi si sono aggiunti guadagni crescenti, fino a superare il 5% di quota aggiuntiva nel 2017: nel triennio 2015/17 200.000 nuovi automobilisti sono entrati nel sistema del NLT. È il segno dei tempi che cambiano e vuol dire che come automobilisti siamo ben vivi. Tuttavia, per uno che festeggia c’è qualcuno meno contento. Federauto, l’associazione dei concessionari, ha indicato nella sua mission di voler “ricondurre in un alveo appropriato il NLT, che oggi si pone come un canale di vendita alternativo a quello ufficiale delle concessionarie, con condizioni di acquisto migliori delle nostre e senza l’impegno di onerosi standard contrattuali”. Nel 2017 su 100 auto immatri100


colate (escluse quelle destinate al rent-a-car) 14 erano oggetto di un contratto di NLT, contro le 6 del 2010. È vero che alcuni di questi contratti sono stipulati dalle stesse concessionarie, ma è un fatto che poi il rapporto economico (e dunque operativo) è tra il cliente e il noleggiatore. Anche la fase della vendita appare più articolata che nel recente passato, quando il concessionario era in pratica l’unico interlocutore del cliente, in tandem con il costruttore. Oggi chi sceglie il NLT si trova a dialogare, sullo stesso atto d’acquisto, anche con il noleggiatore e con il broker del noleggio. Va precisato che non per tutti i brand il noleggio (sia breve che lungo) pesa allo stesso modo. Dall’analisi del mercato noleggio 2017 in valore, realizzata dal Centro Studi Fleet&Mobility e promossa da Europcar, emerge che Audi realizza il 39% delle sue vendite nel canale noleggio, seguita da Alfa Romeo (33%), Nissan (32) e BMW (31). La statistica, che si concentra sui top 15 brand, prosegue indicando una penetrazione calante dal 29% di Fiat al 20% di Jeep, passando per Citroen (28), Mercedes (27), Volkswagen (24), Ford, Peugeot e Land Rover (23) e Renault (20), seguiti da Opel (19) e Toyota (13). L’analisi indica però soprattutto le quote del mercato noleggio in valore dei top 15 brand. Dopo Fiat, leader col 17,6%, troviamo Audi (8,9), Volkswagen (7,5), BMW (7,2) e Mercedes (6,7). Da segnalare il forte balzo di Alfa Romeo, dal 2,6 al 4,4, grazie alle vendite di Giulia (passata dallo 0,7 all’1,7% di quota in valore sul totale noleggio), che hanno portato il valore unitario medio del brand (al lordo degli sconti) a 38.325 euro, dietro Land Rover (59.110), BMW (43.255), Mercedes (42.690) e Audi (40.313). Nella classifica dei top 15 modelli, ordinati in base al valore unitario medio lordo, Giulia si posiziona al terzo posto con 41.137 euro, dietro l’Audi A4 (44.051) e la BMW serie 3 (43.908). In ultimo, riportiamo che nel noleggio le vetture diesel in valore sono passate dall’83 all’81% di quota, ben più elevata che nel mercato totale, dove pesano per il 67%. 101


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Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 3 luglio 2018

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GUIDA AUTONOMA, FINO A 50 MILIARDI DI INVESIMENTI (MA L’AUTO ROBOT NON ARRIVERÀ)

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ueste macchine che guidano da sole, saranno realtà o si tratta dell’ennesima favola vestita di innovazione? Ha fatto il punto la consueta analisi di Alix Partner, una società di consulenza, sintetizzando nell’incipit che il ritmo di diffusione sarà ben più lento di quello che tanti si aspettano, tranquillizzando così le agenzie di scuola guida. Lo studio tocca i tre principali fattori di sviluppo: la tecnologia dei costruttori, il quadro normativo e la disponibilità degli automobilisti, sia economica che culturale. Cominciando dall’offerta, si vede come gli investimenti (che ancora nel 2014 erano a zero) siano arrivati in tre anni a superare i 50 miliardi di euro, considerando quanto stanno spendendo sia i costruttori di automobili (OEM, original equipment manufacturer) che i loro partner informatici. Soprattutto, si evidenzia che i segnali sono nella direzione di mantenere, se non aumentare, questi livelli di investimento, in una gara in cui nessuno vuole perdere l’occasione di essere il primo a proporre ai clienti un sistema di guida autonoma. L’impressione che si ricava è di un cambio epocale, in cui gli OEM hanno preso coscienza di non rappresentare più per il grande pubblico l’industria di avanguardia, che nel secolo scorso ha scandito il progresso della società. Nonostante siano ancora bravissimi a costruire macchine e sebbene si tratti di un compito non facilmente emulabile (Tesla docet), temono di trovarsi marginalizzati nel nuovo sistema di mobilità che si prefigura, offuscati dai giganti del chip e del web. Però, nonostante i tanti soldi spesi, mancano ancora milioni di chilometri di sperimentazione perché le auto a guida autonoma si avvicinino all’affidabilità della guida umana. 103


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Ma di quale automazione stiamo parlando, in concreto? È opportuno chiarirlo, perché troppe volte leggiamo di innovazioni davvero esigue, come è il caso di certe vetture ibride, che nella sintesi della comunicazione commerciale appaiono invece totali. In questo studio, l’attenzione è concentrata sulle auto autonome di livello 4 (secondo la classificazione della SEA, l’associazione degli ingegneri automobilistici). Dunque, scordiamoci per il momento, e per molti anni a venire, quei veicoli (livello 5) dove il guidatore (o presunto tale, più propriamente) schiaccia un sonnellino. Seppure non faremmo i passeggeri, un’auto di livello 4 significa un grado di automazione molto spinto. Per poter circolare avrebbe bisogno di interventi normativi importanti, e sappiamo bene che legiferare in materia di sottrazione di competenze alla sfera umana, in favore dell’intelligenza artificiale, non è mai una passeggiata. In ultimo, ma certo non per importanza, la disponibilità degli automobilisti. Lo studio indica che i consumatori attribuirebbero un valore intorno ai 2.000 euro in più a un’auto che offrisse un sistema di autonomia di livello 4, che è circa un decimo del costo che avrebbe. Si prospetta insomma una sfida non trascurabile di economie di scala da generare, anche se questa oggi appare una questione minore, visto che col tempo cambieranno le percezioni e con esse il valore attribuito all’automazione, che comunque sarà graduale, dando tempo al bisogno di affermarsi nei valori ricercati. Molto più significativo il responso dell’indagine sulla disponibilità dei clienti a sentirsi a proprio agio in un’auto che si muove autonomamente. Oltre la metà dei rispondenti non pare ne voglia sapere, mentre circa uno su cinque si dichiara pronto a comprare una macchina di livello 4. È un quadro molto incoraggiante, considerando la posta in gioco. Aggiungiamo anche che negli anni queste percentuali sono destinate a modificarsi profondamente, sia perché come dicevamo l’automazione aumenterà in maniera graduale, sia perché in dieci anni cambiano proprio gli automobilisti, nel senso che molti nonni saranno sostituiti dai nipoti. 104


Infine, lo studio mette anche in guardia dagli effetti che potranno avere sul fenomeno gli incidenti che dovessero capitare. A parte la frequenza oggettiva, si tratta di accadimenti difficilmente accettabili dall’opinione pubblica, abituata all’incidente causato dall’uomo, ma ben poco disposta a mettere in conto quello originato dal computer. Questo, un po’ per la stessa ragione per cui molti hanno paura dell’aereo ma non della macchina: d’accordo che statisticamente è più sicuro volare, ma resta il fatto che in auto gli incidenti capitano agli altri, poiché io so guidare e sto attento. E poi anche per la violazione del patto di fondo: ci affidiamo al computer perché, a differenza dell’uomo, non commette errori. Ma se dovesse umanizzarsi troppo, allora non vale. Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 4 luglio 2018

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CONSUMATORI DISORIENTATI. ECCO PERCHÉ

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a domanda di auto nuove non va così male come una lettura sommaria dei dati delle immatricolazioni a fine giugno lascerebbe intendere. È vero che il mese ha segnato un calo triplo rispetto al mese scorso, ma è dovuto essenzialmente alla minor pressione esercitata dai costruttori, sulla propria rete e sul segmento tattico per eccellenza, il noleggio a breve termine. Il semestre, racconta meglio come stanno andando le cose. Cresce il noleggio a breve, soprattutto quello immatricolato dalle concessionarie. Si mantengono sullo stesso livello dello scorso anno (alto, molto alto) le auto-immatricolazioni (km 0) e crescono molto i noleggi a lungo, tutte macchine che poi finiscono indirettamente ai privati, che poi di risulta nelle statistiche ufficiali cedono il 5%. Detto semplicemente, la rete sta scaricando un po’ di stock accumulato. Però sarebbe parziale attribuire tale flessione solo a questo caleidoscopio di canali dove prendere un’auto. Parlando con gli operatori si apprende che in effetti molti clienti esitano ad entrare nel mercato, perché disorientati dalle notizie, che si susseguono a ritmo settimanale, sulla fine dei motori diesel (e termici). Mettere all’angolo il propulsore che oggi interessa oltre metà della domanda non è cosa da poco. La colpa viene attribuita agli amministratori locali delle grandi metropoli, che annunciano divieti e fanno notizia. Ma la responsabilità non è solo loro, anzi. Sono troppi anni che i costruttori parlano e parlano e parlano di un futuro fatto di altri motori, che però non accenna a diventare realtà per una serie ben nota di motivi oggettivi, primo su tutti il fatto che i clienti non sentono il bisogno di questi cambiamenti. Come si dice: puoi portare il cavallo all’acqua, ma non puoi farlo bere. Nonostante la gente abbia compreso che non si tratta di alternative attualmente percorribili (e chissà se mai lo saranno), tuttavia il danno è stato fatto. Quale danno? Il dubbio, l’incertezza, l’insicurezza. Questi 106


non stanno comprando gomme da masticare, ma beni costosissimi e soprattutto durevoli. Durevoli: non ci puoi mettere la data di scadenza. Poi, serve a poco tranquillizzare con una frase e ribadire con l’altra che tutto è destinato a cambiare. I costruttori scelgano, se vendere oggi le macchine di oggi, o aspettare di vendere domani le macchine di domani. La moneta con entrambe le facce pare non abbia tanto mercato. Articolo pubblicato su il Giornale, il 13 luglio 2018

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L’AUTO È “FRAGILE”. E CON LEI 37 MILIONI DI CLIENTI

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li automobilisti sono i clienti di qualcuno e quel qualcuno dovrebbe curarsi di loro. Gli automobilisti se l’aspettano, in fondo.

Gli automobilisti hanno i loro grattacapi, professionali, familiari, di salute, come tutti noi. Però sono anche automobilisti, ossia posseggono un’auto, che in linea di massima gli facilita gli spostamenti – almeno quelli! A volte la cambiano, ogni 7/8 anni, con una nuova o con una usata ma più fresca. Si tratta di una scelta individuale, funzione di alcuni fattori: il gradimento estetico, la qualità del prodotto, la capacità di spesa e altro ancora. In questo periodo sono piuttosto disorientati, perché sentono che una certezza viene messa in discussione: quella di poter usare la loro macchina e anche quella che andrebbero ad acquistare. Le automobili sono sotto attacco per l’impatto ambientale, con tutti i distinguo del caso, che vale appena ricordare: i diesel emettono meno CO2 (che è il vero problema, perché altera il clima), i motori di ultima generazione (Euro5 e 6) hanno emissioni bassissime, anche inferiori (Euro6d) all’ambiente in cui gli scarichi vengono immessi. Resta però il fatto che alcune metropoli minacciano di vietarne o limitarne la circolazione. Questo accade perché l’auto è fragile. La sua industria è importante per i governi, per i sindacati, per l’economia nel suo complesso, e proprio per questo fatica a percepire la fragilità del prodotto. Una fragilità ideologica, culturale, che lo rende un bersaglio facile. Non è difficile trovare ascolto per chi voglia scagliarsi contro l’automobile. Questa volta sono i diesel, prima sono stati i SUV, e prima ancora le fuoriserie. Tanti opinion leader fanno vanto di non usare l’auto – loro che possono. 108


Di fronte a queste pressioni, dettate da un mix di genuina attenzione all’ambiente, di fiuto istintivo per il consenso facile e di colpevole disinformazione, gli automobilisti sentono di non avere un punto di riferimento, qualcuno che parli per loro. Eppure, qualcuno conoscevano nel settore, quando quell’auto hanno acquistato. Qualcuno conoscono ancora, quando quell’auto ha bisogno di un tagliando o di una riparazione. Ma chi? Chi è quel qualcuno? Sono le persone che li hanno stimolati e attratti con prodotti affascinanti, con offerte convenienti, con tutta la cortesia e la professionalità del mondo. Quegli automobilisti hanno creduto, non solo al prodotto e all’offerta, ma ai tanti qualcuno che glieli proponevano. Ora gli automobilisti sono disorientati, e magari vorrebbero sentire che quel qualcuno è ancora dalla loro parte, che sta perorando le loro ragioni. Che sono le ragioni della gente comune. C’è chi può realisticamente sostituire l’auto vecchia (troppo vecchia, effettivamente) con una più nuova, che ha un impatto ambientale basso o bassissimo. Questi devono essere aiutati, incentivati finanche (sì, abbiamo detto la parolaccia), ma non costretti. Nessuno deve essere forzato, brutalizzato. Perché soprattutto a certe fasce di reddito tirare avanti dignitosamente non è facile, e chi lo fa (e sono tanti) merita rispetto, non aggressività. Aggressività non è solo mettere la data di scadenza su un bene durevole e importante, come stanno iniziando a fare le amministrazioni – che si sa, non sempre sono in sintonia con i cittadini. Aggressività è anche imporre il futuro prima del tempo (e prima che sia davvero pronto). Il futuro è una cosa bellissima che un giorno arriverà e magari non sarà come oggi lo immaginiamo. È questa la sua principale caratteristica, che sorprende. Ecco perché va preservato, non anticipato forzatamente. Tutti gli automobilisti (chi può, chi potrebbe e chi invece proprio non ce la fa) sono stati clienti di qualcuno. E lo saranno ancora. 109


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A patto che quel qualcuno non si giri dall’altra parte o addirittura contro, magari ingolosito da qualche vendita in più nell’immediato. Un cliente è un patrimonio, e chi ce l’ha se lo tiene stretto, quando è facile e quando è più complicato. Molti di questi qualcuno erano sul campo quando quelle auto oggi criminalizzate sono state acquistate. Erano vicino ai clienti. Erano i loro clienti. Se vogliono che lo siano ancora domani, devono considerarli tali anche oggi. Anche quando non possono (o semplicemente non vogliono, non ora) entrare nel mercato. Oggi devono scegliere da che parte stare. Anche perché quella marca, se qualcuno un giorno gliel’ha venduta, loro la guidano tutti i giorni. Se vendere macchine è affare di un momento, possederle è durevole. I clienti in Italia non sono 2 milioni, ma 37. E non all’anno, ma tutti i giorni. Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 17 luglio 2018

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LA SUA EREDITÀ INDUSTRIALE: NENO VENDITE PIÙ GUADAGNI Jeep e Alfa anziché Panda a km zero. Così le mosse di Marchionne hanno salvato un’azienda in crisi.

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ome vanno le cose in FCA? Nel primo semestre dell’anno ha perso oltre il 9% dei volumi rispetto allo stesso periodo del 2017, in un mercato che cede appena un punto e mezzo. Un po’ in affanno, si dirà. Decisamente male, diranno altri, intimamente godendo di veder confermato quel mix di scetticismo e critiche verso le strategie del gruppo, che ebbe l’ardire di andare allo scontro con i sindacati per la seconda volta, dopo la storica vicenda del 1980. Vincendo per la seconda volta: imperdonabile! Con l’aggravante che, se nel 1980 a Torino furono i quadri e i dirigenti a far sentire la loro voce, nel 2010 a Pomigliano d’Arco sono stati proprio gli operai a mettere all’angolo le politiche sindacali, schierandosi dalla parte dell’azienda. In tutti questi anni, mentre le fabbriche funzionavano e le vendite miglioravano, il fronte degli oppositori lavorava incessantemente ai fianchi, contestando anche l’acquisizione di Chrysler, un’operazione da orgoglio nazionale, laddove tanti altri grandi e medi gruppi finivano invece in mani straniere. Adesso forse sperano di leggere in questa flessione dei volumi un redde rationem. Facciano pure, ma sbaglierebbero. Nel primo semestre del 2018 c’è il compimento di quella strategia tanto aspramente contestata quanto pervicacemente perseguita. L’idea che per continuare a fabbricare macchine in Italia (col costo e la rigidità del lavoro che abbiamo) l’unica possibilità fosse di costruire auto ad elevato valore aggiunto: se i fattori della produzione sono costosi, anche il prodotto deve esserlo. Non è difficile da capire e il fatto che tanti si siano schierati contro prova non 111


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che siano stupidi, ma che siano in malafede e, soprattutto, che abbiano a cuore il loro successo, non il benessere dei lavoratori. Guardando non ai volumi ma al valore delle auto vendute, da un’analisi esclusiva del Centro Studi Fleet&Mobility emerge che nel semestre i ricavi delle vendite (valore a listino al lordo degli sconti e senza gli optional) risultino in flessione intorno all’1,5% rispetto al 9% di calo dei volumi. I circa 800 milioni in meno di Fiat sono stati recuperati dalle sole vendite Jeep, arrivate a 1,5 miliardi, più del doppio rispetto all’anno scorso. Metà dei 150 milioni di minori ricavi di Lancia è stata recuperata dalle maggiori vendite di Alfa Romeo, cresciute in valore ben oltre il 10%. Ma questa è solo una foto parziale di come stanno andando davvero le cose. Scendendo lungo il conto economico, è facile concludere che il margine netto delle vendite sia ben superiore a quello dello scorso anno, perché i volumi di questa prima metà del 2018 sono molto più sani e redditizi che in passato. In parole semplici, quest’anno FCA ha potuto rinunciare a forzare le vendite delle piccole utilitarie attraverso i km0 (che fanno volume ma poco margine), grazie al fatto che le vendite di Jeep e Alfa Romeo (in particolare Giulia e Stelvio) hanno raggiunto una massa tale da bilanciare i pochi margini legati alle minori immatricolazioni Fiat e Lancia. È il compimento della strategia avviata anni fa, niente di più e niente di meno. La strategia del valore, dei soldi, quella cosa con cui si pagano gli stipendi degli operai e il cuneo fiscale per il terzo socio, quello sprecone e inefficiente. A chi lamenta che comunque la flessione del marchio Fiat è una cosa brutta e deprecabile, chiediamo innanzitutto se guidano una Fiat e poi suggeriamo di considerare la cosa da un altro punto di vista. Forzare le vendite di un brand a suon di sconti non ne ha mai costruito il successo, anzi spesso lo ha portato al declino. Evitare o limitare tali forzature, come FCA sta facendo in questo 2018, consente vendite più sane dei due prodotti (Panda e la linea 500) che in questi anni sono stati curati e coltivati dal management, nonostante l’aggressività (necessaria) sui mercati. Se 112


Fiat avrĂ ancora un suo ruolo sui mercati di domani, dipenderĂ da questi due prodotti-brand e dalle politiche commerciali che li sosterranno, invece di sfruttarli. Articolo pubblicato su il Giornale, 22 luglio 2018

Fonte: Centro Studi Fleet&Mobility

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CHI RIMPIANGE LA FIAT DEI BRUTTI TEMPI

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ergio Marchionne è un simbolo, e come tale dobbiamo trattarlo. La sua vicenda umana, dolorosa, e la sua performance manageriale, strepitosa, lasciano la scena al simbolo e alle posizioni che esso provoca: approvazione e avversione. Ogni simbolo produce l’effetto di un sasso nello stagno: cerchi concentrici di intensità calante. Molto vicino al simbolo, troviamo le critiche di chi ne è stato ferito, ossia i sindacati. Hanno subito un colpo durissimo, quando la loro stessa base gli ha votato contro e a favore delle prospettive offerte dall’azienda: i nostri interessi coincidono, diceva quel voto. Non è più operai-contro-padrone, ma operai-e-padrone contro gli altri, anche se poi un certo tira-e-molla nelle relazioni industriali ci sta, ci mancherebbe altro. “Noi siamo quello che facciamo”: è la scritta che campeggia sopra lo stabilimento di Pomigliano, frutto di mesi di formazione e confronto tra tutti gli addetti, che hanno ritrovato la dignità del lavoro in un clima sorprendentemente positivo. Nei cerchi seguenti ci sono tutti i soggetti, dai partiti a Confindustria, che a vario titolo venivano turbati da una grande impresa che decideva di giocare la sua partita in campo aperto. Anche se poi sfruttava tutti i possibili sostegni che l’Italia, l’Europa e gli Stati Uniti rendevano disponibili, a vario titolo. Ma è quello che fanno tutte le aziende in tutti i paesi. La differenza col passato sta nel fatto che adesso FCA li sfruttava per rafforzarsi, laddove prima si trattava piuttosto di abbracci mortali. Tutte queste politiche, rivoluzionarie per il nostro paese, si pongono al di là dei compiti di un amministratore delegato. Non è il lancio di una macchina o l’ingresso in Formula Uno. Per quanto Marchionne sia stato un manager di grande autonomia, mai avrebbe potuto perseguirle senza l’appoggio dell’azionista. La vera novità per tutti è stata questa. Nonostante la proprietà fosse più polverizzata che in passato 114


(sebbene riunita in Exor) e guidata non più da un carismatico Avvocato ma dal giovane nipote, ha dimostrato di saper stare dritta rispetto alle sfide che il brillante e visionario manager proponeva di raccogliere. In questi giorni non è emerso questo aspetto, che è però il più rilevante. È scomparsa la preoccupazione di smussare ogni attrito col sistema, che concedeva finanche una cogestione delle scelte importanti. Negli ultimi 14 anni, tutti parlavano ma FCA tirava dritto per la sua strategia. Che alla fine pagava. Sì, però che brutto! Nei centri nevralgici del Paese era dislocata una classe dirigente tra le più esperte al mondo nella gestione delle imprese, capace di tanti capolavori come Alitalia, che veniva tenuta a fare chiacchiere al Bar Sport. Avevano tanto da dare, alla Fiat: quali modelli sfornare, in quali stabilimenti produrre e con quale contratto. Avrebbero perfino consigliato che sì, l’avventura americana era un bel sogno, ma meglio lasciar perdere e concentrarsi sulle cose di casa nostra. Nei cerchi più distanti sta la pubblica opinione divisa, come ormai da qualche anno, tra coloro che guardano ai fatti e chi invece i fatti li soffre, perché intralciano le opinioni. FCA ha vinto il campionato, questo è un fatto: più addetti, più soldi. Ma non ha condiviso la formazione, magari in rete. Sulle opinioni, ognuno ha diritto alla sua. Sui fatti, è più complicato: se uno funziona, il suo contrario è sbagliato. FCA è una storia di fatti, come il Muro di Berlino. I cerchi nello stagno sono solo opinioni. Così in questi giorni assistiamo al ritorno dei nostalgici, ispirati al vecchio e al nuovo statalismo dirigista, che forse pensano che dopo Marchionne sarà agevole riprendere a tessere la tela dell’inciucio domestico. Ho paura che resteranno delusi. Potrebbero scoprire quanto sia determinato e risoluto il giovane Elkann, che giovane non è più, dopo 14 anni spesi alla guida della più grande azienda italiana, trascorsi non proprio a gestire l’esistente, ma a conquistare, tra l’altro, la Chrysler negli Stati Uniti e l’Economist in Inghilterra. Articolo pubblicato su il Giornale, il 27 luglio 2018 115


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ATTENZIONE, IL MONDO È CAMBIATO

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el ‘900 le produzioni manifatturiere sono state il motore dell’economia e l’industria dell’automobile ne era la regina. Dove insediava stabilimenti era temuta e rispettata, perché ogni mese pagava lo stipendio a milioni di lavoratori, tra addetti diretti e indotto. Dal canto loro, questi colossi industriali sviluppavano prodotti sempre più belli, sicuri, affidabili e, se pressati, anche più eco-sostenibili. Le auto consentivano a masse sempre più estese di muoversi liberamente e velocemente, facendo da nastro di trasmissione al sistema economico e sociale. Poi il secolo (già breve di suo) è finito e col nuovo è arrivata una nuova forma di relazioni, che si affianca a quella fisica. Oggi puoi produrre o socializzare senza muoverti, oppure puoi muoverti per delle cose mentre ne fai altre. Un’opzione per gli eroi del ‘900 era di restare concentrati sulla produzione dei mezzi di spostamento individuale, ad esempio investendo sui sistemi di assistenza alla guida. E lasciare che altri colossi, più ricchi e più intangibili, vi montassero sopra le loro tecnologie digitali. Dopo qualche esitazione e dopo l’epilogo di Nokia, che ha terrorizzato un’intera generazione di uomini d’impresa molto più delle Due Torri, hanno invece scelto di avventurarsi in un campo nuovo, a loro sconosciuto: la mobilità. Quell’automobilista, che incontravano meno di dieci volte nella vita quando cambiava la macchina, adesso vogliono seguirlo e assisterlo tutti i giorni e tutto il giorno. Vogliono fare ciò per cui sono nati giganti del futuro come Google, Apple, Facebook e Amazon e senza la leggerezza di questi, ma trascinandosi dietro il fardello degli impianti e degli stabilimenti. Sono spinti non dalla voglia di stare affianco ai clienti, ma dal terrore di restare indietro. Altrimenti non si spiega perché in un’altra vicenda, negli stessi anni, hanno fatto spallucce. Da alcuni anni, il sistema del noleggio a lungo termine si propone agli automobilisti (prima flotte e ora individuals) per gestire tutte le faccende 116


legate all’uso dell’auto. Ma evidentemente questi operatori, pur grandi banche, non appaiono minacciosi, visto che la risposta dei costruttori è stata più o meno questa: fate pure, a noi di assistere il cliente pagando un’assicurazione o cambiando l’olio non ci interessa. Facciamo macchine, noi. Siamo metalmeccanici, non garagisti. Però come mobility provider siamo pronti. Articolo pubblicato su il Giornale, il 15 agosto 2018

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VI SPIEGO IL BLUFF DELL’ELETTRICO

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empre più persone sono consapevoli che questo miraggio dell’auto elettrica non sta in piedi. I consumatori l’hanno capito dall’inizio e infatti se ne tengono ben distanti. Tra gli addetti ai lavori, alcuni l’hanno sempre saputo (o almeno sospettato) ma ovviamente non potevano e non possono dirlo, perché hanno il mandato di promuoverle, dunque sarebbe impensabile che ne parlassero meno che entusiasticamente. È un po’ frustrante, perché non si vendono, ma pazienza. Gli altri esperti (presunti tali) diffondono acriticamente la buona novella. Come stanno le cose nella realtà è presto detto. I prezzi degli elementi essenziali delle batterie stanno già schizzando (in due anni, più 40% il nichel e tre volte il cobalto) e ancora la domanda non ha superato la capacità estrattiva, cosa che è prevista nel prossimo decennio. Gli investimenti pubblici nelle colonnine tardano ad arrivare e affidarsi ai privati significa, in un mercato libero dell’energia, pagare un prezzo più alto di quello messo in conto al momento dell’acquisto. Per tacere della velocità (lentezza) delle ricariche. In assenza di elettricità da rinnovabili, anche la dimensione ambientalista cade, comunque travolta dallo smaltimento delle batterie. Ma allora, da dove viene tanta pressione? 1) Dalla Cina, che per non subire il gap tecnologico dei costruttori stranieri ha pensato bene di elettrificare il suo mercato, dopo essersi accaparrata quasi il monopolio del cobalto. Passare dagli arabi ai cinesi: non male 2) Dalla Commissione Europea che ha abbassato talmente i limiti per le emissioni di CO2 da rendere impossibile starci dentro con la tecnologia termica 118


Di fronte a queste due mosse i costruttori hanno scelto di piegarsi, convinti di riuscire a convincere i consumatori. Hanno messo in campo una tale potenza di fuoco che nei prossimi anni qualche punto di quota riusciranno a spostarlo. C’erano alternative? Alla Cina si poteva rispondere che no, noi andiamo in giro con dei fantastici motori, che inquineranno sempre meno: liberi di comprarseli o di svilupparsi le loro macchine elettriche. Facile a dirsi. Dopotutto, ci sono piaciuti 20 anni di magliette a 50 centesimi, e adesso paghiamo il saldo. Ai Governi si poteva opporre la chiusura di qualche fabbrica, dovuta alla minore domanda di auto rese piÚ costose dalle multe della Commissione, e che se la sbrigassero tra loro. Di nuovo, facile parlare. Articolo pubblicato su il Giornale, il 29 agosto 2018

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CONCESSIONARI AUTO SENZA VENDITORI: ECCO COME CAMBIANO I DEALER NELL’ERA DIGITALE

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concessionari d’auto negli Stati Uniti hanno un problema con i loro venditori di salone. Le nuove leve sono poco disponibili a fare quel lavoro e questo sta spingendo in alto il turnover dei venditori, con conseguente difficoltà a sviluppare appieno la professionalità necessaria – e relativo spreco degli investimenti in formazione. È quanto emerge da uno studio di Hireology, una società di consulenza. Quasi il 60% dei nuovi assunti come venditori sono millennials e più della metà non dura neanche 12 mesi nella posizione, tanto che in pochi anni, dal 2013 al 2017, il turnover generale nelle concessionarie è passato dal 36 al 46%. Una ragione sta nel fatto che questi giovani, essendo più indebitati per gli studi, preferiscono di gran lunga un lavoro con una retribuzione stabile, ancorché più bassa, rispetto all’autosalone, dove sono pagati in base ai risultati che producono. In media un venditore di auto guadagna 44.700 USD, il 63% più della media dei venditori di negozio (27.500 USD), secondo i dati del Bureau of Labor Statistics. È la parte succulenta dell›impiego. L›altra è il sistema di retribuzione, basato essenzialmente sul margine prodotto dalle vendite. Questo piace sempre meno, perché spinge a una politica commerciale fatta di offerte molto convenienti per agganciare il cliente, e di una trattativa poi volta a fargli acquistare un›auto dove il margine sia ben più corposo (il cosiddetto bait-and-switch), attraverso un mercanteggiare che non rientra nelle corde dei giovani millennials, cresciuti in mercati digitali, dove scegli l’offerta e il relativo prezzo, senza alcun margine di negoziazione. 120


Insomma, fanno fatica a calarsi nei panni classici del “venditorevecchio-stile”. Alla luce di questi fatti, il maggior turnover non pare una patologia (se non per lo spreco di formazione) quanto piuttosto la capacità del sistema di selezionare quelli che davvero hanno nel DNA la stoffa del venditore – che sono sempre meno. Questo spinge a una prima riflessione: esiste un “venditore-nuovo-stile”? Premesso che certe aberrazioni al limite della truffa sono da condannare ed estirpare, quale che sia lo stile di riferimento, occorre però interrogarsi se la negoziazione, sana e pulita, possa essere accantonata per sempre. È un punto angolare, adesso che molte attività della vendita si stanno realizzando su piattaforme digitali. Siamo sicuri che non stiamo buttando via qualcosa di positivo, di essenziale nel commercio retail, che è incontro di persone, di informazioni e di cultura prima che scambio di beni e servizi? È indubbio che le nuove leve possano e debbano disegnarsi il mondo come più gli piace, ma non includere la trattativa di vendita (e relative parti) è un passo avanti o indietro? Qualcuno potrebbe ravvisare in questo un primo effetto del commercio online, che di fatto riduce o annulla le relazioni personali negli scambi – si tratta ovviamente di un dettaglio minore, essendo solo la pietra su cui sono cresciute le civiltà negli ultimi 5.000 anni. Tornando agli autosaloni, proprio internet sta spingendo i concessionari americani a rivedere quel sistema retributivo. Con il cliente che arriva in salone dopo aver navigato sui siti e avendo dunque un’idea precisa del prodotto e del suo prezzo, diventa difficile fargli spendere di più o comunque aumentare il margine. Col risultato che i venditori guadagnano molto meno. A questo punto alcuni concessionari, anche in molti casi con il sostegno delle Case, stanno passando a retribuire non in base al margine ma in base al volume di vendita: un fisso per ogni auto venduta più un bonus per il target mensile. All’aspetto economico agganciamo una seconda riflessione, non nuova in verità: in presenza dell’e-commerce, può l’autosalone 121


UN GIRO IN MACCHINA 2018

restare uguale a sé stesso senza scomparire? Due sono i principali effetti: i venditori di salone devono essere molto più preparati (maggiori costi) e lo spazio di manovra sul prezzo di vendita si restringe (minori margini). Appare evidente come sia l’intero modello di business a dover cambiare, a meno di trasformare l’attività in una Onlus. Un campanello d’allarme che ci arriva, come spesso accade, d’oltreoceano. Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 1 settembre 2018

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LE BUFALE AI TEMPI DEL DIESELGATE: ECCO COME TI COSTRUISCO UNA FAKE NEWS

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ome nasce una fake news? Si parte da alcuni dati reali, che offrano ai meno accorti la sicurezza della fonte, agganciati a un tema di grande scalpore. Poi i dati originari si incrociano tra loro senza curarsi del flusso logico, fino ad arrivare a cifre colossali, affinché nessun divulgatore voglia prendersi il rischio di “bucare” la notizia. Un esempio è quanto accaduto nei giorni scorsi con una sedicente analisi della ONG Transport&Environment, che ha prodotto il seguente dato: gli automobilisti europei dall’inizio del secolo avrebbero speso 150 miliardi di carburante in più (16,4 solo gli italiani), a causa del dieselgate, emettendo 264 milioni di tonnellate di CO2 in più. In più rispetto a che cosa? A quei consumi che risultavano dai test di omologazione delle vetture. Le parti vere sono i litri di carburante acquistati e la differenza tra il consumo effettivo su strada e quello registrato in fase di omologazione. Fino al 2017 i consumi di un nuovo modello venivano misurati solo con simulazioni di laboratorio, a cui dallo scorso anno è affiancata una prova su strada, da cui il nome RDE (real driving emissions). Il trucco sta nel flusso logico. La vita vera sono i motori che muovono le macchine, non i parametri riportati nei limiti normativi. In altre parole, gli automobilisti avrebbero comunque consumato i litri che hanno consumato, altrimenti le macchine si sarebbero fermate perché a secco. Aver introdotto il RDE test non altera per sé i consumi, ma semplicemente li misura in modo più fedele. Ad esempio, se noi decidessimo da oggi che un anno si compone non di 365 ma di 730 giorni, ciascuno di noi avrebbe la metà degli anni, ma non per questo saremmo più giovani, né tantomeno 123


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vivremmo il doppio. Però certo, laurearsi a 12 anni sarebbe una bella notizia. In punto di fatto, le cose stanno diversamente. Grazie ai limiti sempre più stringenti introdotti in Europa, le emissioni inquinanti (ancorché misurate in laboratorio) sono state abbattute in modo significativo. Ad esempio, le emissioni di NOx (ossido di azoto) nei diesel sono diminuite dell’84% e il particolato (PM) del 90%. Mentre l’efficienza dei motori diesel (km/lt) aumentava del 22%, riducendo dunque le emissioni di CO2, che è il vero elemento dannoso perché non inquina ma altera il clima del pianeta. Proprio su questo punto la notizia diffusa tocca il suo apice di disinformazione, allorché mette insieme il dieselgate con la CO2. Innanzitutto, la difformità tra consumi effettivi e misurazioni di laboratorio riguarda tutti i motori termici, non solo quelli a gasolio. In secondo luogo, il dieselgate ha riguardato alcuni modelli di un solo costruttore, in un periodo di tempo limitato. Infine, senza i motori diesel le emissioni di CO2 sarebbero state molto maggiori. In Europa le immatricolazioni di auto diesel sono passate dal 32% del 2000 a oltre il 50% nel decennio 2006/2015, contribuendo (insieme all’efficienza di tutti i nuovi propulsori termici) alla riduzione delle emissioni di CO2, passate dai 159 gr/km del 2007 ai 118 del 2017. In conclusione, un tentativo di screditare ancora una volta il propulsore diesel, sfruttando una reale (ma perfettamente legale) difformità tra i test e la strada (di tutti i propulsori, non solo dei diesel) e cavalcando i ricordi dello scandalo delle centraline, che è stato opportunamente ampliato per includere tutti i motori a gasolio. Tentativo grossolano che ha dimostrato la sua insipienza accostando in negativo (è il contrario) la CO2 al diesel. Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 3 settembre 2018 124


AUTO ELETTRICHE, GLI INVESTIMENTI AUMENTANO DI 10 VOLTE Investimenti per 255 miliardi di dollari.

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ei prossimi 8 anni gli investimenti annunciati dai costruttori di macchine per sviluppare modelli a propulsione elettrica, pura (Bev) e ibrida plug-in (Phev), sono 255 miliardi di dollari, 10 volte quelli degli ultimi 8 anni, secondo un’analisi di Alix Partner, una società di consulenza. La Cina, ritenuta il mercato chiave per queste auto, è il destinatario di gran parte di questi sforzi. Come a un tavolo di poker, chi vuole giocare in quel mercato deve avere una dote robusta da investire. A guidare è l’Alleanza Renault-Nissan-Mitsubishi, con circa 66 miliardi, seguita dai gruppi Volkswagen (49) e Hyundai-Kia (25). Ford, Daimler, GM e FCA prevedono di investire tra 8 e 12 miliardi ciascuno, davanti a Toyota e Jaguar-Land Rover sui 6/7 ciascuno. Ma altri fattori potrebbero complicare la diffusione di questa tecnologia. A partire dai costi di produzione delle batterie. Nel biennio 2016/17 il prezzo del Nichel è aumentato del 40%, mentre quello del Cobalto è addirittura triplicato e un’ulteriore crescita della domanda potrebbe gonfiare ancora i prezzi. Per il Cobalto, verso il 2022 la domanda dovrebbe superare la capacità estrattiva. Ricordiamo che la Cina raffina metà della produzione mondiale, che per 2/3 è in Congo. Queste stime sono basate sulla prevista crescita delle vendite di auto elettrificate e tengono in conto che le batterie di prossima generazione richiederanno metà del cobalto rispetto a quelle attuali, laddove aumenterà la quantità di Nichel, nella sua forma più pura (Classe 1), la cui produzione già prima del 2030 sarà inferiore alla domanda. Dunque, se il trend verso l’elettrificazione continuasse ci sareb125


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be una dipendenza dai Paesi che controllano queste risorse. Ciò potrebbe allentare la pressione mondiale sui Paesi produttori di petrolio, ma non è detto, visto che qui ancora parliamo della sola costruzione delle batterie, che poi andranno ricaricate. L’idea di inquinare meno potrebbe spingere i consumatori verso l’elettrico, ma a condizione di un’elettricità da fonti pulite. È probabile che la transizione non procederà spedita come l’industria dell’auto si aspetta – e che ricade fuori dal loro controllo. L’altro grande driver, che qualche ombra sull’intero progetto la getta, sono le infrastrutture di ricarica. Nel 2017 c’era una densità (in crescita) di 7,6 auto per colonnina pubblica (424.000 di cui la metà in Cina). Si aspetta che anche i privati investano nelle infrastrutture, ma il rischio è che poi per accelerare il pay-back dell’investimento alzino il prezzo dell’energia. Oggi in media girare elettrico ha un costo/km intorno a 3 centesimi, meno della metà rispetto al carburante. L’alternativa sarebbe il metano, con una rete già disponibile. Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, l’8 settembre 2018

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QUEI DUBBI SULLA GUIDA AUTONOMA

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ltre 55 miliardi di investimenti sulla guida autonoma secondo AlixPartners. Ma i clienti che dicono? Non più di uno su cinque ci salirebbe sentendosi a proprio agio, perché solo il 16% confida che siano sicure e solo uno su 20 certamente la acquisterebbe un altro 14% propende, non convinto del tutto. Hanno ragione. Il sistema migliore, Waymo, si disinserisce per guasto o perché non sa cosa fare (con conseguente crash) in media ogni 15mila miglia. Nella guida umana la frequenza di crash è 500mila miglia. Ma al di là dei dati tecnici, magari gli automobilisti intuiscono che tale cambiamento ha una portata ben diversa: non un ennesimo strumento in mani umane, ma computer indipendenti calati nella mobilità umana. Attraverso le automobili (vero oggetto di relazione di massa) avremmo la diffusione dell’intelligenza artificiale. Non quella debole, che si limita a replicare più velocemente algoritmi impostati dall’uomo, ma sistemi in grado di pensare e agire autonomamente. Siamo pronti ad accettarli? In questi anni si registra un disallineamento tra avanzamento culturale e progresso scientifico: la tecnologia corre di più. Pertanto, quelli a cui non è chiaro cosa stia accadendo, sono spaventati dalle conseguenze della diffusione dei robot. A «temere il giorno in cui la tecnologia supererà l’interazione umana» era Albert Einstein, non un automobilista della domenica. Applicato al nostro caso, si tratta di calare la capacità di un’auto di muoversi da sola in quell’affare complesso e sofisticato che chiamiamo mobilità, così permeata di variabili imprevedibili e incomparabilmente più complessa del traffico aereo, ad esempio. Le macchine, acquisendo il bagaglio valoriale umano posso127


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no imitarne i comportamenti e, dunque, stare in società svolgendo la loro funzione. Tuttavia, non essendo riproducibile la componente biologica dell’uomo, da cui deriviamo istinti (sopravvivenza) e impulsi, restano prive di un’effettiva indole morale e, laddove imitare non è sufficiente, non riescono a creare. Ancora Einstein: «Il vero segno dell’intelligenza non è la conoscenza, ma l’immaginazione». Articolo pubblicato su il Giornale, il 12 settembre 2018

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DIESELGATE, L’IMPATTO ECONOMICO DI UN EVENTO EPOCALE Tre anni dopo.

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ome ha fatto il diesel-gate a diventare il diesel-gate? Perché una truffa operata da un solo costruttore (per quanto importante) e su un solo motore (sì certo, diesel) ha sparso livore e condanna su un’intera tecnologia, tra le più avanzate al mondo? Sulle prime, il Gruppo Volkswagen sarà stato anche contento di vedere il proprio nome sostituito in cartellone dal più generico motore diesel. Ma oggi, a distanza di 3 anni, dobbiamo concludere che lo scandalo ha prodotto danni rilevanti all’intera industria automobilistica europea, ben maggiori di quelli che avrebbe portato alla casa di Wolfsburg, se fosse rimasto appiccicato solo addosso a lei. Non tanto perché uno solo è meno peggio di tutti, quanto perché i brand sono oggettivamente più forti di una tecnologia. In chiave di comunicazione e pubblica opinione, un brand, specialmente se desiderato e rispettato come quello Volkswagen, ha le capacità e i mezzi per risalire la china e far dimenticare, se non perdonare, l’errore commesso. Il primo mezzo è il fatto stesso che un’azienda se ne curi, laddove la tecnologia diesel appartiene a tutti e dunque nessuno si fa carico di difenderla dagli attacchi modaioli quanto ingiustificati. Per spiegarlo in cifre, nel nostro Paese quando scoppiò lo scandalo, a fine settembre del 2015, il Centro Studi Fleet&Mobility registrò il seguente fenomeno: un immediato e forte calo delle vendite Volkswagen, che trascinò in basso l’intero mercato poiché i clienti non deviarono su altri brand, con un altrettanto drastico recupero a novembre di Volkswagen e del mercato, quando quegli stessi clienti conclusero che non c’era problema. Insomma, se avessimo rigettato la semplicistica e generica defini129


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zione, oggi pochi appena ricorderebbero che nel 2015 un costruttore fu pizzicato a truccare delle centraline e un diesel-gate nemmeno ci sarebbe. Ma all’epoca non sapevamo che 3 anni dopo gli Stati Uniti avrebbero gettato la maschera, dichiarando che il vero problema è lo squilibrio commerciale delle tante auto tedesche che si imbarcano ogni anno per attraversare l’oceano, troppe rispetto alle pochissime americane che vengono qua. Secondo Jato Dynamics, nel primo trimestre dell’anno le vetture assemblate in Germania e vendute negli USA sono state 164.000 (pari a una quota del 4% di quel mercato) contro le 11.800 che hanno fatto la strada inversa (occupando lo 0,3% delle vendite in Germania): un rapporto di 14 a 1 difficile da digerire. Più in generale, deve esser chiaro che le principali questioni che stanno interessando in questi anni l’industria dell’auto si incastrano, o meglio prendono forma, nei rapporti commerciali tra i Paesi. Gli Stati Uniti importano un valore di auto 3 volte superiore a quello che esportano. La Cina addirittura dieci volte di più. Mentre ad esempio il Giappone esporta nove volte le auto che importa e la Germania 3 volte. Sono squilibri che generano pulsioni a un livello più alto che non la pubblica opinione. Nella realtà dei consumatori, in effetti, non c’è mai stato nessun diesel-gate legato all’affaire delle centraline truccate, visto che la quota di mercato di questo propulsore, che prima stava al 55%, quello stesso anno subito dopo lo scandalo arrivò al 57%, dove è rimasta stabilmente fino al 2017. Solo in questi ultimi mesi ha iniziato a flettere (54% nei primi 8 mesi), ma a causa delle minacce di alcune amministrazioni locali che, per non essere da meno di altre municipalità europee, hanno annunciato la guerra a questo propulsore, con motivazioni scientifiche inesistenti, come evidenziato dallo stesso CNR. Articolo pubblicato sui Il Sole 24 Ore, il 15 settembre 2018 130


SVECCHIARE IL PARCO SI DEVE, MA CON SOSTEGNO E INFORMAZIONE

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re sono le notizie dal mondo dell’auto di questi giorni.

Quella più nazional-popolare è il blocco alla circolazione delle auto vecchie, vecchie per l’ambiente, non per i loro proprietari, che si son visti appiedati e con l’auto svalutata quasi a zero. Quando quelle macchine furono vendute come bene durevole (durevole, le parole abbiano un senso) erano perfettamente in linea con le norme ambientali e nessuno poteva immaginare che anni dopo ne sarebbe stata vietata o molto limitata la circolazione. Per ottime ragioni, aggiungerei. In un sistema degno di tale nome, simili restrizioni, che hanno un impatto sul reddito disponibile delle famiglie e sulla loro capacità di produrne altro, andrebbero accompagnate da misure altrettanto robuste di sostegno al cambiamento, anche per la fase di transizione (visto che uno che entrasse oggi in concessionaria per comprare una nuova auto poi la guiderebbe se va bene tra qualche mese). I costruttori, che comunque beneficeranno della domanda che forzatamente entrerà nel mercato, devono riflettere bene su quale posizione prendere. Gli americani hanno un’espressione che li guida in politica estera da quasi un secolo: “Yes maybe he’s a bastard, but he’s our bastard!” Significa in pratica che non sempre si è completamente liberi di scegliere, vincolati in qualche misura dal proprio ruolo, dalla propria storia, fatta di impegni e responsabilità. Ma quale sarebbe la responsabilità dei costruttori? Semplicemente il fatto che quel legame cercato e enfatizzato al momento della vendita ha trasformato quegli automobilisti nei “loro” automobilisti. Dunque oggi, per la storia che li 131


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accomuna, si trovano dalla stessa parte, e se Atene piange, Sparta non ride. Non può ridere. Che poi possa fare altro, è lasciato alla competenza degli addetti ai lavori. Nessuno chiede di organizzare uno sciopero di tutti gli automobilisti, ci mancherebbe altro. Dopotutto, si tratta di macchine, mica di trattori. Di bambini da accompagnare a scuola e genitori che vanno al lavoro, non certo di quote latte. Non interessano a nessun altro, ma sono i loro clienti e sono in difficoltà. Sarebbe bello che i costruttori e i concessionari dessero la loro voce a questi tanti automobilisti colpiti dai provvedimenti restrittivi. L’altra notizia, più fragorosa, che attira sempre, è il crollo del 40% delle vendite di FCA a settembre. Fa rumore perché conta su un affezionato pubblico sempre disponibile, ma va inquadrata in un settembre distorto, dove tutti i brand hanno frenato, dopo le forzature di luglio e agosto. Nel trimestre, il calo di FCA è intorno al 15%. In volume, perché in valore, in soldi, è tutta un’altra storia. È curioso che dopo aver giustamente deprecato per oltre 15 anni la pratica di sporcare le immatricolazioni con i km0, quando il suo creatore e principale artefice decide di rallentare viene presa per una debolezza. In verità, sono i km0 il sintomo della debolezza. Quando uno è costretto a svendere i prodotti non è forte. Tutti li hanno usati a piene mani, adducendo come motivo la quota di mercato: se il principale player li fa, gli altri devono seguire per non perdere posizioni. Ma da inizio d’anno FCA ha potuto frenare su Fiat e Lancia, grazie ai maggiori volumi di Jeep e Alfa Romeo che danno più fatturato, alzando di fatto il margine su tutte le vendite, come le analisi su queste pagine hanno ampiamente documentato. Fino ad agosto gli altri costruttori non avevano seguito, segno che forse più che le quote di mercato erano le quote di produzione a spingere. A settembre la musica è cambiata. Vedremo. L’ultima notizia, ma forse in prospettiva la più importante, riguarda il diverso calo delle vendite di auto diesel. Mentre le tre città d’avanguardia, Milano, Torino e Roma, segnano una quota 132


di vendite diesel tra il 20 e il 30%, il resto d’Italia viaggia ancora sul 45%, anche se ora ci sarà l’effetto dei blocchi di cui sopra. I costruttori lamentano che questa guerra al diesel sia poco motivata, alla luce dei nuovi motori Euro6d, che hanno emissioni addirittura inferiori all’ambiente circostante, inquinato di suo da altre fonti, a cominciare dai riscaldamenti. Però sicuramente tutti gli annunci, da un anno a questa parte, sull’abbandono del diesel non hanno fatto altro che gettare benzina (metaforicamente?) sul fuoco della guerra santa. Non di guerra c’è bisogno, ma di pace, costruita con l’informazione e con provvedimenti armonici che aiutino lo svecchiamento del parco con veicoli nuovi e meno inquinanti. Se poi una parte di questi, magari quelli ad uso urbano, saranno ibridi e non più diesel, ci può stare, anzi forse certe utilitarie diesel erano anche una forzatura, almeno col senno di poi. Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 2 ottobre 2018

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LA MOBILITÀ NON È UNA GUERRA PER BANDE

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e registri i successi della gestione Marchionne, è perché sei pagato da FCA. Se fai luce sul dieselgate, i soldi te li dà Volkswagen. Se misuri le vendite e i tempi di ricarica delle auto elettriche, sono i petrolieri a mettere mano al portafoglio. Lo spirito giusto per la guerra: per qualcuno, contro qualcun altro. Però non funziona in tempi di cambiamenti. L’evoluzione tecnologica della mobilità e i cambiamenti sociali che la accompagnano avvengono per tentativi, per contributi diversi, per verifiche più o meno costanti sulla giustezza della rotta e sul ritmo dell’implementazione. Per questo serve un clima che rispetti e, anzi, accolga le diversità, le voci discordanti. La Chiesa commise un grave errore con Galileo, ma si trattava di un periodo buio della storia occidentale e di difendere le tesi fondamentali di una religione. Purtroppo, dispiace osservare che molti sostenitori di questo o quel cambiamento troverebbero molto più confortevole il Medioevo, dove vestirebbero i panni degli inquisitori. Quando un articolo, facendo solo un puro e neutrale fact checking, riporta delle realtà che poco o male si conciliano con una delle fedi (con la f minuscola) alla moda, le reazioni spaziano dall’offesa personale (la più giustificabile, perché dipende dall’educazione che uno ha ricevuto in famiglia) all’accusa di essere al soldo di qualcuno (mancando di rispetto sia al giornalista che alla testata) fino alle minacce (ricordarsi il nome del giornalista). Viviamo in un’epoca di pensiero unico, anzi di fede unica, che è lo specchio amaro della povertà intellettuale in cui ci siamo gettati con decenni di lassismo, che non hanno risparmiato nemmeno la buona educazione. È in atto una regressione culturale, seppur mascherata da nuove tecnologie. Quello che molti sacerdoti offrono si chiama dogma, non innovazione. Quello che tanti invocano non è la sconosciuta novità, ma la confortante omologazione. Il 134


cambiamento vero è il futuro, una cosa bellissima proprio perché quasi mai e solo in parte assomiglia a quello previsto o provocato. Il cambiamento è una materia viva, fluida, che porta per strade inaspettate a luoghi sconosciuti. A ogni generazione è dato il privilegio di vivere il proprio: peccato che questa preferisca i paraocchi. Articolo pubblicato su il Giornale, il 4 ottobre 2018

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DA SUPERARE È LA MERA ESPOSIZIONE

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el 1840 occorrevano 5 giorni per arrivare da Firenze a Roma, mentre oggi è sufficiente 1 ora e mezza. Solo dieci anni fa, ogni importante Paese produttore aveva il suo autosalone internazionale, mentre oggi si discute se averne uno o due in Europa, e altri due/tre nel mondo. Mantenendo lo stesso format del secolo scorso, ossia esporre le macchine, si rischia di fare la fine delle diligenze con l’avvento del treno. L’interesse per le macchine c’è ancora, anzi forse è più vivo che mai, tra i clienti come tra gli operatori. Solo che ciò che vogliono è qualcosa di diverso che non la vetrina. Non ci sono mai state opzioni e novità nell’auto come negli ultimi dieci anni, e i prossimi si annunciano ancora più pregni. I costruttori devono (meglio, dovrebbero) confrontarsi tra loro e con i portatori di altre visioni, visto che non siedono più da soli al tavolo della mobilità individuale, e rischiano di non trovare nemmeno il posto a capotavola. Poi è necessario coinvolgere le istituzioni, che hanno un ruolo determinante nello sviluppo della mobilità di domani. Furono loro 2mila anni fa a fare quelle strade che poi 19 secoli dopo hanno accolto le auto. Saranno loro a dover costruire le nuove strade, quelle telematiche. Però un grande Salone è pensato soprattutto per i clienti, che non hanno l’esigenza di vedere i prodotti, ampiamente visibili online. Piuttosto, serve conoscerli dentro, approfondendo tutte le tecnologie che un’auto moderna offre, e che troppo spesso non viene a galla se non dopo aver fatto l’acquisto (e nemmeno sempre, in verità). Poi c’è la necessità di conoscere gli aspetti legati alle propulsioni, non in chiave futuristica, ma calati nelle realtà. In conclusione, lo spazio per un Salone ci può ancora essere, a 136


patto che risponda alle esigenze di oggi dei suoi visitatori, che non vogliono tanto «vedere», quanto sapere, scoprire, confrontarsi, conoscere. Il bisogno di quest’epoca di cambiamento è la conoscenza. Le persone, dal cliente che compra, al manager che guida, vogliono più luce per orientarsi meglio, perché si muovono in territori inesplorati. Intendiamoci, le macchine restano centrali, ma portano con loro domande diverse da un tempo, a cui può dare risposte un Salone nuovo, ripensato sulla conoscenza, non sulla mera esposizione. Articolo pubblicato su il Giornale, l’8 ottobre 2018

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CRUSCOTTO OTTOBRE

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I PRIVATI SCELGONO SEMPRE DI PIÙ IL NOLEGGIO A LUNGO TERMINE Il segmento Nlt. Le società puntano a proposte su misura per professionisti e cittadini. Arval ha attivato un canale dedicato in rete e offre ai clienti il ritiro a domicilio dell’usato.

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iccoli clienti crescono. Il segmento dei privati (con/senza partita IVA) sta trainando la crescita del noleggio a lungo termine da alcuni anni. Da un’analisi del Centro Studi Fleet&Mobility, si vede come la quota di nuovi contratti di noleggio sul totale delle immatricolazioni sia passata dallo 0,5% del 2013 a oltre il 5% del 2017. Gli ultimi dati, relativi ai primi nove mesi dell’anno in corso, danno un’indicazione ancora più marcata del fenomeno: un ulteriore 1,3 punti di quota che il noleggio a lungo termine ha strappato agli altri canali, arrivando a coprire il 14,2% delle immatricolazioni totali del mercato. Questi sono tutti clienti nuovi, aggiuntivi, che scendono da un’auto in proprietà o in leasing e salgono su una a noleggio. In numeri assoluti, parliamo di 213.000 vetture immatricolate nei nove mesi, rispetto alle 199.000 dello scorso anno. Questo porta a un incremento della flotta gestita che a fine anno potrebbe essere superiore alle 30.000 unità, visto che le uscite (le macchine che rientrano alla scadenza e vengono vendute) sono decisamente inferiori alle immatricolazioni. Insomma, tutto va bene e basta solo assecondare la domanda? Non proprio. Ai privati il NLT piace ma i noleggiatori hanno capito che il prodotto/servizio delle flotte non è commestibile tal quale per un automobilista singolo. L’hanno capito grazie all’esperienza fatta sul campo, visto che questi contratti provengono in buona parte dai loro broker ma anche dalle concessionarie che offrono ai loro clienti il noleggio a lungo termine. 139


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Una caratteristica del noleggio destinato ai privati, che a molti potrà apparire banale ma invece è molto importante, è proprio l’indicazione del canone comprensivo dell’IVA. Sempre restando sull’aspetto economico, le vetture, soprattutto quelle di fascia media e medio-alta, vengono proposte in genere con un canone che prevede un anticipo, di qualche migliaio di euro. Questa opzione, che potrebbe sembrare un onere strano per un prodotto che nasce proprio per trasformare un esborso cospicuo in una rata mensile molto più abbordabile, in realtà serve a venire incontro a un bisogno che quasi tutti i privati hanno, quando scelgono di cambiare auto: la vendita del proprio usato. A questo punto, l’importo ricavato dalla vendita dell’usato può essere impiegato per l’anticipo, che concorre ad abbattere l’importo del canone, come quando si acquista l’auto da un concessionario. L’offerta poi deve includere i servizi essenziali del noleggio, ossia le coperture assicurative, anche la kasko, e tutti gli interventi di manutenzione, sia ordinari che straordinari, oltre alla tassa di proprietà e all’assistenza e soccorso stradale, proprio per interpretare appieno la filosofia di liberarsi dalle incombenze legate alla gestione dell’auto. Liberarsi almeno economicamente, visto che ovviamente poi tutte le attività pratiche di gestione dell’auto coinvolgono il driver. Qui il cambiamento non è trascurabile, poiché si tratta di interfacciarsi con i sistemi digitali del noleggiatore, che indubbiamente limitano lo spazio di autonomia del driver. Non è una cattiva idea quella di far avvicinare il cliente privato al noleggio a lungo termine partendo dai servizi, ossia offrendogli di poter accedere, per la gestione della propria auto, al sistema del noleggiatore e al suo network di officine per gli interventi di manutenzione, riparazione, pneumatici e cristalli, eventualmente anche con il traino, la presa e riconsegna a domicilio e l’auto sostitutiva. Il tutto non all’interno di un contratto di noleggio, ma sulle vetture di proprietà del cliente. È la filosofia che ha ispirato probabilmente un nuovo servizio, questo davvero innovativo, appena lanciato: Arval for me. In 140


pratica, il driver inserisce sulla piattaforma digitale dedicata le informazioni necessarie e ottiene un preventivo online, con cui può fissare un appuntamento presso l’officina più vicina. È un’ottima trovata di marketing, per far entrare i privati nel meccanismo di gestione dell’auto del noleggiatore, in vista magari di acquisirlo come cliente. Arval ha anche appena presentato il suo servizio di noleggio a lungo termine dedicato ai privati pensato e costruito sulle loro necessità, che offre un canale online per il primo contatto: su arval. it/privati si può scegliere il modello della macchina, la durata e mandare la richiesta. Le offerte esposte sono per 3 anni e 100.000 chilometri, che non sono pochi. Poiché la percorrenza media nel nostro Paese si attesta tra i 15 e i 20mila chilometri all’anno, è probabile che per tanti clienti privati il canone possa rivelarsi anche inferiore a quello indicato sul sito. Arval, per annullare tutti gli oneri legati alla proprietà dell’auto, mette a disposizione dei propri clienti una valutazione del proprio usato in poche ore, completamente gratuita e senza impegno e, in caso di accettazione della valutazione da parte del cliente, il ritiro a domicilio anche contestualmente alla consegna dell’auto a noleggio, anch’essa a domicilio. Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 9 ottobre 2018

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IL MERCATO VA GIÙ MA IL NOLEGGIO A LUNGO TERMINE CRESCE DEL 7% I trend. Le immatricolazioni in calo a settembre hanno penalizzato il comparto: da inizio anno gli acquisti delle società sono scesi del 4% ma il Nlt resta in terreno positivo grazie ai privati.

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oleggio a lungo termine crollato nelle immatricolazioni di settembre di oltre un terzo, rispetto allo stesso mese del 2017, peggio dell’intero mercato, che ha lasciato sul terreno un quarto delle vendite che aveva immatricolato l’anno precedente. Alla fine, chi ha segnato la flessione minore sono stati proprio i privati, col meno 16%. Come sappiamo bene, il dato del mese è troppo figlio della congiuntura (le forzature a luglio e agosto di macchine che non sarebbe stato più possibile immatricolare dopo, perché non in linea con i test WLTP) per leggervi un segnale di domanda. Se alla fine dell’anno le vendite saranno probabilmente meno di 1,9 milioni, sarà piuttosto per le incertezze che caratterizzano questo periodo e per la scarsità di prodotto disponibile, sempre a causa degli adeguamenti al WLTP. Però settembre è molto utile per sottolineare come, oltre alle società e al noleggio a breve, anche il noleggio a lungo termine ormai sia per i costruttori un mercato all’occorrenza tattico, che assorbe volumi importanti in assenza di contratti già firmati col cliente finale. Detto questo, è più opportuno focalizzare l’attenzione sul giro di boa dei nove mesi. In termini di valore netto, secondo le stime del Centro Studi Fleet&Mobility, il mercato nei nove mesi ha prodotto un giro d’affari di 29,2 miliardi, laddove lo scorso anno superava, seppur di poco, i 30 miliardi. Il canale noleggio, con 7,3 miliardi, pesa un quarto del valore (era al 23,5% lo scorso anno). Il peso delle società (6,5 miliardi) non varia se non di qualche 143


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decimale, mentre i privati scendono di oltre un punto, al 52,7% della torta, pari a 15,4 miliardi (erano 16,2 lo scorso anno). In un mercato che cede in volume il 3%, le società segnano un meno 4% e il rent-a-car addirittura il meno 9%. Il noleggio a lungo termine è l’unico canale in crescita, con più 7% rispetto ai nove mesi del 2017. I privati pure perdono il 5%, ma questo dato va compreso alla luce dei collegamenti che ormai sono acclarati tra questi soggetti (individui con/senza partita IVA) e due canali flotte, che ormai solo flotte non sono. C’è un doppio tiraggio che sgonfia le immatricolazioni ai privati. Il più noto sono i km0, che vengono ricompresi nella voce auto-immatricolazioni, ossia vetture immatricolate dagli stessi operatori, che dunque non finiscono nelle mani di un cliente finale, non subito. Ci arrivano qualche settimana o mese dopo, ma in forma di auto usata, che usata non è. Fenomeno sorto all’inizio del secolo, poi salito negli ultimi anni a livelli abnormi (siamo oltre il 15% delle vendite totali) e lì rimasto all’incirca: inutile dunque a spiegare la flessione dei privati rispetto ai nove mesi 2017. L’altro tiraggio, più nuovo, si chiama noleggio a lungo termine, che proprio grazie ai privati è l’unico segmento in crescita. Tutti gli operatori del noleggio sono molto attivi verso questa che si preannuncia come una vera prateria per il loro business. Leasys, che ha di recente nominato il nuovo amministratore delegato, Alberto Grippo, sta raccogliendo ottimi risultati dal prodotto BeFree, una formula di noleggio “a scaffale” molto versatile pensata proprio per i privati, in collaborazione con la rete FCA. Anche l’acquisizione di WinRent, operatore di noleggio a breve, si inquadra nella “strategia di Leasys di ritagliarsi un ruolo ancora più significativo quale player globale e integrato della nuova mobilità, offrendo prodotti e servizi lungo tutta la catena del valore” – secondo il suo presidente Giacomo Carelli. Quali sono le ragioni per cui gli automobilisti privati scelgono il noleggio a lungo termine? Molti credono che ci sia una motivazione economica alla base, e sicuramente per certi versi sono nel 144


giusto. L’abbassamento dei costi di manutenzione e il costo del denaro ai minimi termini da anni consentono di proporre canoni davvero aggressivi, a cui si aggiunge il fatto che la copertura assicurativa per i normali cittadini è arrivata a cifre proibitive, a causa di un sistema che da un lato non fa emergere le inefficienze delle compagnie e dall’altro non trova di meglio che spalmare il costo delle truffe su tutte le polizze. Fatti due conti, il noleggio è allettante. Però sarebbe incompleto guardare solo a queste considerazioni razionali. È ben altro che spinge sempre più automobilisti a non possedere una macchina, ma usarla solo per tre o quattro anni. Quel ruolo di compagna, di cosa che cosa non è, per cui si arrivava a darle un nome, la macchina non ce l’ha più. E non ce l’ha perché le funzioni che svolgeva sono cambiate, in peggio. L’auto piace ancora, ma guidarla non dà più quel piacere, quelle soddisfazioni che la facevano un po’ amare. Non per colpa delle macchine, certo. La colpa è delle strade, diventate insufficienti a un traffico che in vent’anni è aumentato del 50%. Spostarsi in auto diventa ogni volta più disagevole. Complici i voli low cost e l’alta velocità, succede che anche per le tratte medio-lunghe si decida di partire senza, lasciandola in garage. Una nuova vita insomma, in cui l’auto rimane indispensabile, ma non è più centrale: c’è vita e movimento anche senza di lei. Allora, se ridiventa una cosa, sebbene una bella cosa, può anche non essere mia, può anche essere affittata. Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 9 ottobre 2018

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PIÙ ASSISTENZA AL DRIVER PER MIGLIORARE IL NOLEGGIO

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rendi la tua auto e … non ci pensi più”. Quante volte abbiamo letto e sentito questa bella frase. Nelle intenzioni dei noleggiatori, è così che vorrebbero che fosse l’esperienza dei clienti a bordo delle loro macchine. Sicuramente è così che la immaginano, in perfetta buona fede. Purtroppo, le cose nella vita reale stanno diversamente, nel senso che sì, l’auto la prendi, ma quanto a non pensarci più ce ne corre. Nelle varie fasi di utilizzo dell’auto, sorgono alcuni problemi che possono anche peggiorare, e non di poco, quel clima di leggerezza evocato dalla promessa. Cominciamo con la fase finale del processo d’acquisto, quando tutto è stato definito: il modello, gli allestimenti, i colori dell’esterno e degli interni, gli optional e il prezzo, ossia il canone. I tempi di attesa potrebbero rivelarsi ben superiori alle aspettative. Un problema che non dipende certo dal noleggiatore, sia chiaro, bensì dal costruttore, che si sforza di ottimizzare i cicli di produzione e di distribuzione, per stare dentro a quel poco margine che le offerte sempre più aggressive gli impongono. Eppure, è il noleggiatore che ci mette la faccia, come si usa dire. È anche per evitare questi disservizi che i grandi noleggiatori hanno iniziato ad affiancare al sistema tradizionale (definisci e ordina l’auto come la desideri) un modello di business alternativo, basato su acquisti di stock di auto da offrire al cliente in pronta consegna. Apparentemente, sembrerebbe una limitazione della facoltà di scelta e di personalizzazione della vettura, visto che ovviamente gli stock tendono agli allestimenti e ai colori best seller. Nella realtà però si tratta solo di anticipare ciò che il driver viene spesso a sapere dopo, quando gli viene comunicato che quella combinazione di interni, eterno e optional non sarebbe disponibile, o non in tempi accettabili. 146


Un altro punto di grande sensibilità per il cliente rimane quello della consegna dell’auto, che negli anni si è trasformata in un oggetto pieno di tecnologie. Le società di noleggio a lungo termine si sforzano di dedicare un certo tempo a questa operazione, ma a volte le cose non vanno come previsto. Può succedere che il cliente si presenti in orario limite o che comunque non abbia tutto il tempo necessario da dedicare, come pure che l’addetto alla consegna sia poco esperto del software delle vetture. Insomma, non è raro trovarsi a guidare un’auto senza sapere come usare gran parte dei nuovi e modernissimi dispositivi, di assistenza alla guida o di entertainment. Come nel caso dell’auto acquistata, ognuno ci passerà pian piano del tempo per scoprirli tutti, anche avvalendosi dei tutorial che le case rendono disponibili in rete. È il caso ad esempio di quello di Mopar (gruppo FCA), che illustra bene tutti i servizi di assistenza alla guida di Uconnect, il software che equipaggia anche la nuova Jeep Cherokee e che da pochi giorni è disponibile anche nella versione dedicata alle flotte, il Mopar Connect Fleet, che offre un set di servizi come al privato e, in aggiunta, un pacchetto destinato al fleet manager per monitorare e gestire in maniera efficiente il parco auto, avvalendosi della tecnologia avanzata di Targa Telematics. Tutte queste cose sono praticamente impossibili nel caso di renta-car, dove i più accorti si fanno almeno indicare come si inserisce il freno di stazionamento (il buon vecchio freno a mano, che a mano non è più) e come si apre lo sportellino del rifornimento carburante, che è marginale tranne in certi momenti. Tutto il resto dei dispositivi è come se non ci fossero, soprattutto se la lingua dell’auto è impostata sul tedesco. Anche in questo caso, poco possono i noleggiatori, se non pungolare i costruttori a dotare le auto di tutorial già installati sul touch screen. Durante il periodo di uso dell’auto e dei servizi tanti episodi, gravi 147


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e meno gravi, potrebbero essere citati, per affermare che senz’altro la soddisfazione del cliente può e deve aumentare. Dai tempi di autorizzazione per cambiare le pastiglie dei freni alle attese per un ricambio. Per fare meglio, probabilmente dovrebbe aumentare l’intervento umano nei processi di assistenza e di gestione dell’auto, oggi troppo affidati a procedure digitalizzate, ricordando che quasi mai la norma riesce a prevedere e interpretare, da sola, tutte le specifiche fattispecie reali. Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 9 ottobre 2018

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L’ABIURA DEL DIESEL MIGLIORA LA QUALITÀ DELL’ARIA? In alcune città Europee, anche in Italia, viene imposto il blocco della circolazione delle automobili a propulsione Diesel. Sarà un provvedimento efficace per abbattere l’inquinamento?

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ietare la circolazione alle auto diesel ante Euro4 contribuisce alla qualità dell’aria nei centri urbani molto meno di quanto i cittadini possano pensare. Secondo uno studio del Politecnico di Milano, le caldaie del riscaldamento a gasolio emettono il triplo di polveri sottili rispetto alle auto. Inoltre, delle polveri prodotte dalle auto diesel, solo il 4% deriva dallo scarico, mentre il 23% deriva dall’usura di freni e gomme e il 73% dal sollevamento delle polveri posate sulla strada. Infatti, quando piove i parametri si abbassano. Quando non piove, basterebbe lavare le strade. Insomma, diesel, benzina o elettrica (che pesa di più), la quantità di PM10 non cambia. Poi ci sono gli autobus pubblici, di cui quasi la metà ha più di 18 anni e la cui età media è superiore ai 12 anni, contro i 6,9 della Germania. Questi fatti rendono insopportabili i sacrifici che le amministrazioni impongono ai cittadini, obbligandoli a sostituire le auto vecchie. Ma in sé non è male sostituire i veicoli obsoleti, che sono anche molto meno sicuri di quelli moderni. Piuttosto, il sacrificio andrebbe accompagnato da misure economiche di sostegno, per le quali ovviamente le amministrazioni non hanno risorse, visto che ne impiegano la gran parte per mantenere strutture ipertrofiche. Come l’Atac di Roma, che ha 2500 addetti più di Milano, con un’offerta di vetture/km inferiore, e una media di 1500 assenteisti al giorno, pari al 12% del personale. Intervista a Pier Luigi del Viscovo pubblicata su Il Foglio, il 10 ottobre 2018 149


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TAVARES (CEO DI PSA): “LA SVOLTA ELETTRICA È UNA SCELTA EMOTIVA E PIENA DI INCOGNITE”

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l mondo è impazzito. Il fatto che le autorità ci ordinano di andare in una direzione tecnologica, quella del veicolo elettrico, è una grande svolta. Non vorrei che poi tra 30 anni si scoprisse qualcosa di meno bello di come ce lo immaginiamo, sul riciclaggio delle batterie, sull’uso dei materiali rare del pianeta, sulle emissioni elettromagnetiche della batteria in situazione di ricarica. Come faremo a produrre più energia elettrica pulita? Come si fa a far sì che l’impronta di carbonio di una batteria del veicolo elettrico non sia un disastro ecologico? Come fare in modo che il riciclaggio di una batteria non sia un disastro ecologico? Come trovare abbastanza materie prime rare per fare le cellule e le chimiche delle batterie nel tempo? Chi affronta la questione della mobilità pulita nella sua globalità? Chi oggi pone la questione in modo sufficientemente ampio da un punto di vista sociale per tener conto di tutti questi parametri? Mi preoccupo come cittadino, perché in quanto produttore di macchine non sono ascoltato. Tutta questa frenesia, tutto questo caos, si ritorceranno contro di noi perché avremo preso decisioni sbagliate in contesti emotivi.” Queste parole di Carlos Tavares, il numero uno del gruppo automobilistico PSA (Peugeot, Citroen e Opel), ancorché di qualche mese, tornano d’attualità dopo la decisione dei ministri dell’ambiente dell’UE di inasprire i limiti per le emissioni di CO2 di auto e furgoni, rispettivamente del -35 e -30% entro il 2030 (rispetto ai 95 gr/km da raggiungere entro il 2021). In effetti, le cose basta volerle – e votarle, come ben sappiamo. La tecnologia può produrre in dodici anni auto che consumano il 35% in meno (perché di questo si tratta)? Certo che sì. Conservando le medesime prestazioni e agli stessi costi di produzione? 150


Assolutamente no. Ma allora, gli automobilisti le compreranno, pagando di più per andare più piano? Ovvio che no. Piuttosto, continueranno a girare con le auto che hanno, emettendo molta più CO2. Ma a questo penseranno le amministrazioni locali, vietandone la circolazione. La diminuzione della mobilità individuale avrà un impatto sulla produttività del sistema economico. Inoltre, la minore domanda di nuove auto porterà alla chiusura di alcuni impianti produttivi, con ulteriore costo sociale ed economico. Tali costi però vanno giudicati alla luce dell’obiettivo fondamentale, di contenere (se non ridurre) le emissioni antropiche di CO2 (circa 30 gigatons/anno), che accumulandosi nell’atmosfera producono il cosiddetto effetto serra, che contribuisce ai cambiamenti climatici. Oggi la concentrazione nell’aria è poco sopra le 400 parti-per-milione, mentre era a 280 prima della seconda rivoluzione industriale, 150 anni fa. Purtroppo, è improbabile che tali valori possano essere ridotti significativamente dall’abbattimento delle emissioni delle auto in Europa. Infatti, le auto che circolano nel vecchio continente pesano per meno dell’1,7% sul totale delle emissioni antropiche di CO2: pur dimezzandole, l’impatto positivo sarebbe inferiore all’1%. Quello economico-sociale invece no, sarebbe completo. Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 13 ottobre 2018

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L’INCERTEZZA DANNEGGIA LA SOLIDITÀ DEL MERCATO I forti dubbi dei privati sulla tipologia di propulsore creano una frattura tra domanda e offerta.

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clienti sono confusi e le vendite arrancano, mentre le concessionarie sono gonfie di stock e i costruttori faticano a produrre le vetture in linea con i requisiti WLTP (Worldwide harmonized Light vehicles Test Procedure – i nuovi parametri sulle emissioni). È questa la lettura dei dati del mercato, a tre mesi dalla chiusura dell’anno. Un milione e mezzo di targhe (meno 2,8% rispetto ai primi nove mesi del 2017) con un valore stimato di 29,2 miliardi di euro (erano più di 30 un anno fa). I privati flettono del 5%, lasciando sul campo 40.000 veicoli, di cui il noleggio riesce a recuperare appena un quarto, pur apprezzandosi in volume del 3%. L’incertezza dei clienti deriva da due fattori. Lo scenario economico nazionale non ispira certo serenità, con il quotidiano pingpong tra i sostenitori di una manovra che aggrava lo stato del bilancio pubblico e coloro che avvertono che i compratori di 350/400 miliardi di titoli pubblici potrebbero presentare il conto. Ma anche lo specifico dell’automobile lascia poche certezze, tra amministrazioni che limitano la circolazione seguendo un caleidoscopio di logiche e costruttori che comunicano una mobilità futura di tendenza, che però è ancora troppo distante dalle realtà della gente e dalle soluzioni che cerca. In tale contesto, è oggettivamente difficile decidere per un bene durevole, ove l’aggettivo assume un peso determinante, come forse mai prima. Eppure, mai come ora si registra nel mercato una distanza, quasi uno scollamento, tra le riflessioni, i dubbi della domanda e l’afona voce dell’offerta, sintonizzata su una lunghezza d’onda diversa. Magari inconsapevolmente, messa a sua volta sotto pressione da fenomeni 152


esogeni, lei che al tavolo da gioco per un intero secolo aveva sempre tenuto il banco. Così le vendite segnano ormai definitivamente il segno meno, avviandosi a chiudere l’anno intorno a 100mila immatricolazioni sotto quelle del 2017, se tutto va bene. Che però non significa necessariamente che le cose vadano male. È vero che in volume scendiamo ben sotto i due milioni sfiorati lo scorso anno, ma qui occorre chiarirsi. Negli anni horribiles della crisi, tutti gli operatori sentivano che il mercato sarebbe tornato su, ma a un livello fisiologico intorno a 1,7-1,8 milioni. Quelle previsioni sono state finora confermate, se registriamo gli ultimi due anni come un rimbalzo dopo l’astinenza dei precedenti. Dal punto di vista del valore poi, secondo le stime del Centro Studi Fleet&Mobility, il giro d’affari dovrebbe arrivare poco sotto i 39 miliardi, che è sì uno meno dello scorso anno, ma ancora 5,5 sopra il livello pre-crisi del 2010, quando tra l’altro a spartirsi la torta c’erano almeno un 25% di concessionarie in più rispetto a quelle oggi attive. Questo grazie al fatto che il mercato, meno affamato di volumi, si è però mostrato di bocca più raffinata sulla qualità, dagli allestimenti alla carrozzeria, privilegiando SUV e crossover, che nei primi nove mesi dell’anno sono arrivati a pesare il 38% delle immatricolazioni (erano al 12% nel 2010). Il fenomeno si legge dal prezzo netto medio delle auto immatricolate, passato da meno di 17mila euro del 2010 agli oltre 20mila attuali. Insomma, la distribuzione non dovrebbe passarsela male, se non fosse per l’enorme e insopportabile stock di vetture che hanno in pancia. Il fenomeno era partito lo scorso anno, con un livello di km0 schizzato a 215.000 unità, pari all’11% delle immatricolazioni. Dall’Osservatorio dei bilanci delle concessionarie, curato da Dekra, emerge che alla fine dell’anno lo stato patrimoniale mostrava le giacenze (leggi macchine) in crescita del 25% rispetto al 2016, a oltre 7,7 milioni, con incremento quasi uguale delle esposizioni a breve, a 8,4 milioni, di cui però il 75% verso i fornitori (si legge Case) e il resto verso le banche. Evidentemente, si 153


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pensava che il giochetto potesse continuare: ti scarico più macchine, che poi usando la leva del prezzo il mercato assorbirà. Purtroppo, come detto, negli ultimi mesi i clienti comprano meno, e la situazione si surriscalda. Tanto che anche la pressione sulle auto-immatricolazioni ultimamente si è raffreddata. Ma la tempesta non sarebbe perfetta senza un’ulteriore complicazione: più di un costruttore non riesce ancora a sfornare le quantità richieste di vetture in linea con le nuove omologazioni WLTP, a causa dei necessari adeguamenti in produzione. Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 30 ottobre 2018

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IL DECLINO DEL DIESEL NON FA BENE AL CLIMA E NEPPURE ALL’INDUSTRIA Le penalizzazioni di un motore virtuoso per emissioni di CO2.

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l motore diesel (meglio se ibrido) emette meno CO2 rispetto a quelli a benzina ed elettrico, su un ciclo di vita pari a 168.000 km e tenendo conto ovviamente della produzione del veicolo e dell’elettricità, che non si trova in natura. Lo afferma lo studio Schernus-Schnorbus, validato dal CNR, secondo cui la musica cambierebbe nel caso di elettricità prodotta, anche solo per metà, da fonti non fossili – al momento siamo intorno al 20%. Gli esperti concordano che il livello di emissione di anidride carbonica diventerà il primo parametro di confronto tra veicoli, poiché contribuisce a determinare l’effetto serra che surriscalda il clima, anche se non inquina, a differenza di altre sostanze, quali le polveri sottili (PM), il mono e biossido di azoto (NOx) e gli idrocarburi incombusti (HC e CO). Secondo il CNR, le emissioni di incombusti gassosi dei motori diesel di ultima generazione sono ormai controllabili e non rilevanti, come pure è marginale la quantità di NOx, scesa a 0,08 gr/km (il motore benzina è a 0,06) e previsto in diminuzione fino a 0,01 nelle prossime evoluzioni. Infine, col filtro anti-particolato (FAP), già sui motori Euro4, le polveri allo scarico sono circa il 4%, rispetto al 23% generato dall’usura di freni e gomme e al 73% sollevato dal rotolamento, se non piove o la strada non viene lavata, secondo lo studio Timmers-Achten. Insomma, se circolassero solo auto diesel Euro6 il problema non ci sarebbe. Purtroppo, in Italia risultano ancora 4,8 milioni di auto diesel ante Euro4, sebbene non tutte circolanti, per cui sono stati annunciati e adottati limiti alla circolazione. Questi si traducono in una perdita di valore (almeno qualche migliaio di euro) dei vei156


coli, che i proprietari devono vendere per sostituirli con altri che possano circolare, in assenza di misure di sostegno all’acquisto. È singolare che l’Accordo di Programma Bacino Padano indichi che la limitazione si applica ai comuni nei quali è garantito “un adeguato servizio di trasporto pubblico locale”, come se fosse una soluzione. La lettura della realtà indica che per la maggior parte degli spostamenti i mezzi pubblici e privati sono complementari, non alternativi, e che ormai è più corretto distinguere fra trasporto collettivo e individuale. L’altro impatto degli annunci è stato che nei primi 8 mesi dell’anno la quota di vendita del diesel è scesa al 43% (era esattamente la metà l’anno precedente) e nelle tre città sopra i 500mila abitanti (Milano, Roma e Torino) è crollata al 27% (ma già era al 36%). Come emerge dai dati scientifici, questa fuga dal diesel di ultimissima generazione non ha alcun senso, soprattutto per le auto medie e grandi e per percorrenze elevate, trattandosi di un’eccellenza tecnologica europea, su cui importanti colossi del settore stanno facendo cospicui investimenti per migliorarne sempre più l’efficienza e la sostenibilità. Certo, ci sono stati paralleli annunci di altri costruttori nel senso dell’uscita da questo mercato. Alcuni sono comprensibili perché vengono da chi è debole su questa tecnologia o ha un legittimo interesse a spingerne altre. Altri sono più difficili da capire, visto che arrivano da leader europei nella manifattura di questi propulsori. Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 30 ottobre 2018

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“L’EFFETTO CUBA” SULLE AUTO

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olti credono che sia il male a spaventare le persone. In parte è così, poi però al male ci si abitua. Al buio no. L’ignoto fa sempre paura. Le persone vogliono conoscere l’ambiente in cui si muovono, quali sono le norme che lo regolano, cosa possono realisticamente aspettarsi nel futuro. Se questi punti di riferimento vengono a mancare, la mente si pone in uno stato di vigile attesa, di osservazione, in ascolto dei segnali per ridisegnare la mappa. E non si muove. I grandi venditori, come i grandi pubblicitari, lo sanno bene e fanno di tutto per offrire un ambiente che dia la percezione del massimo confort, di grande rassicurazione, perché solo abbattendo le resistenze potrà aver luogo la madre di tutte le azioni dei nostri tempi: l’acquisto. Le vendite di auto in questi mesi stanno segnando il passo proprio per questo: c’è troppa incertezza in giro. In generale, non si capisce dove stia andando l’economia. A prescindere dal debito e dal suo effetto su figli e nipoti (un collegamento che tuttora ci sfugge – o che più probabilmente ci vogliamo far sfuggire), nessuno sa come sarà la situazione a metà del prossimo anno, con gli scenari che si prospettano e senza nessuno al comando, nella migliore delle ipotesi (perché potrebbe anche esserci una regia, ma è troppo brutto anche solo pensarlo). Potrebbe bastare, ma il mondo dell’auto non è uno che si accontenta: autoreferenziale com’è, ci mette del suo. Le limitazioni alla circolazione, che qualche mente razionale interpreta come stimolo a sostituire l’auto vecchia inquinante con una nuova eco-compatibile, stanno sortendo l’effetto di far rintanare i potenziali acquirenti, in attesa che la nebbia si alzi. Da un sondaggio Ipsos per AgitaLab (il think-tank di Agenzia Italia), il 38% degli automobilisti “prevede di tenere l’auto più a lungo di quanto aveva previsto, per ridurre la perdita” sul valore residuo della vettura usata. Sì, 158


perché metà del campione ritiene che “le limitazioni alla circolazione annunciate da alcuni grandi comuni riducono il valore di mercato dell’auto al momento della rivendita”. Colpa delle amministrazioni, dunque. Però tanti costruttori, che vivono vendendo auto diesel, potevano risparmiarsi di annunciare l’intenzione di terminare la produzione di questo propulsore. Ma questo è il problema quando è la finanza a condizionare le scelte industriali. Articolo pubblicato su il Giornale, il 31 ottobre 2018

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IN UN MONDO TUTTO GREEN La sostenibilità nel trasporto non è solo motori a emissione zero. Bisogna pensare a tutto tondo.

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on vedo nel prossimo futuro un cielo pieno di droni che consegnano pacchi. Vedo invece passi concreti verso soluzioni più sostenibili. Nel campo dei trasporti i filoni di sviluppo sono tre: la connettività, l’assistenza alla guida e la propulsione sostenibile. Partiamo da quest’ultima. La sostenibilità deve essere ambientale, vero, ma anche economica e funzionale. L’ecosistema è minacciato dalla CO2 in eccesso, prodotta dalla combustione dei fossili: centrali elettriche, fabbriche, navi, riscaldamenti domestici, camion e anche auto. I trasporti possono passare alla propulsione elettrica, a patto che questa sia da fonti rinnovabili o nucleari. Ma c’è anche l’inquinamento dei centri urbani, dove sta crescendo la circolazione del trasporto merci a seguito dell’e-commerce. CO2 a parte, questi mezzi potrebbero e dovrebbero passare subito al motore elettrico, visto che non soffrono di quei limiti che incontrano le auto per la ricarica. Proprio in vista di questi impieghi del cosiddetto “ultimo miglio” il Gruppo Volkswagen ha appena lanciato il nuovo e-Crafter, con oltre 170 km di autonomia. “Che arriva al momento giusto – afferma Luca Bedin, direttore di Volkswagen Veicoli Commerciali – perché ormai è diventata un’esigenza, soprattutto per certi clienti, avere in gamma un furgone elettrico. Sia per entrare e girare nei centri storici, senza neanche pagare pedaggi, sia perché a conti fatti conviene, visto che il costo iniziale più elevato è ampiamente bilanciato dai costi di manutenzione quasi azzerati e dal valore residuo che beneficia di una garanzia di 8 anni e 160.000 chilometri (anche sulla capacità di ricarica delle batterie fino al 70%)”. Anche i mezzi pesanti potrebbero passare alla propulsione elettrica. La ricarica sarebbe un incentivo a fare quelle soste che tanti evitano in tutti i modi, con deficit di sicurezza per tutti e concorrenza sleale 160


verso i trasportatori onesti. Ma non c’è solo questo nel prossimo futuro. La svedese Scania, ad esempio, sta anche puntando sul pantografo (tipo filobus). “Siamo pronti a collaborare con A35 Brebemi per dare vita alla prima autostrada elettrificata in Italia, un progetto estremamente rivoluzionario destinato a cambiare per sempre la concezione del trasporto su gomma”, ha evidenziato Franco Fenoglio, Presidente e Amministratore Delegato di Italscania. Il progetto riguarderà inizialmente 6 chilometri della A35 Brebemi, l’autostrada che collega Brescia con Milano. Ma la sostenibilità non riguarda solo l’ambiente. Il sistema dei trasporti italiano, dal punto di vista economico, soffre la competizione dei paesi dell’est, che hanno un costo del lavoro e un carico fiscale decisamente inferiori. Non potendo abbassare questi costi, l’unica per noi è competere sul loro valore aggiunto, che dunque deve essere maggiore degli altri. In questo, le tecnologie possono senz’altro aiutare. Anche grazie alla telematica, i camion moderni sono dotati di sistemi di assistenza sempre più sofisticati, che aiutano il driver nelle funzioni di guida. Ciò consente di liberargli, in prospettiva, tempo e attenzione da dedicare ad altre funzioni del trasporto, a cominciare dal rapporto con il punto di consegna, che richiedono anche una professionalità diversa, più formata e più evoluta. Un nuovo lavoro, quello del camionista, per persone moderne, che ovviamente non intendono rinunciare a stare bene mentre svolgono il proprio compito. A questo punta la Pyxis, una nuova start-up che promuove la cultura del benessere sul lavoro, per quelle aziende che guardano al futuro con lungimiranza e intendono competere sul mercato non sul piano dei prezzi, ma della qualità delle persone e del servizio che da loro inevitabilmente dipende. “Il metodo molto innovativo – come ci spiega la fondatrice Tiziana Pregliasco – prevede lo studio e l’implementazione di protocolli specifici per le modalità di lavoro tipiche degli autisti, quali l’esercizio fisico adattato, una nutrizione adeguata e la rigenerazione e qualità del sonno e del recupero dalla stanchezza e dallo stress”. Articolo pubblicato su Trasportare Oggi, a novembre 2018 161


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L’ECONOMISTA CONTROCORRENTE: “IL FULL ELETTRICA AVVANTAGGIA SOLO I CINESI”

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e case annunciano il passaggio graduale all’elettrico, l’Europa modifica ai limiti per le emissioni, i media riportano dichiarazioni spesso fuorvianti. Occorre fare chiarezza. Qual è la fotografia dell’esistente e quale lo scenario da qui al 2025 che si realizzerà con maggiore probabilità nel campo della mobilità automobilistica? La risposta, forte e controcorrente, di Pier Luigi Del Viscovo, direttore del centro studi Fleet&Mobility: “l’Europa va contro i dati scientifici, contro l’ambiente e contro l’industria europea”, esordisce. “Il diesel è oggi il miglior propulsore disponibile e ha un impatto inquinante irrisorio su strada, che non teme confronti. Emette meno CO2, che è il vero problema perché non inquina, ma altera il clima. Il motore elettrico puro è la strategia cinese per proteggere il proprio mercato e aggredire gli altri, visto che non sono competitivi sul motore termico. Favorirlo per noi europei non ha davvero senso. Comunque, gli automobilisti non l’hanno adottato, nonostante la forte pressione delle case e dei media, perché costa molto e non ci sono sufficienti colonnine di ricarica. Le stime del centro studi Fleet&Mobility per le vendite di auto solo elettriche (non ibride) prevedono che si potrà arrivare, nel prossimo decennio, a tre/quattro punti di quota. Discorso diverso per l’ibrido, che è molto più sofisticato e complesso e in città riduce significativamente le emissioni”. È realistico prevedere una data di uscita dalle linee produttive dell›ultimo motore termico destinato a un’autovettura, almeno per i mercati occidentali? “No, è completamente fuori dalla realtà. Aggiungo che il futuro ha 162


il pregio di essere imprevedibile. Inoltre, trovo insopportabile questa smania di scappare in avanti, quasi che dovessimo accorciarci la vita”. Consiglierebbe una macchina elettrica a chi oggi devo fare un acquisto? E perché? “No, perché oggi avrebbe enormi difficoltà a ricaricare”. Sono prevedibili cambiamenti radicali nella filiera automobilistica, quanto a modello di business, esercizio e assistenza, oppure è verosimile ritenere che saranno gli attuali player del mercato, al netto di nuovi protagonisti come ad esempio Tesla, hai evolvere verso le nove tecnologie di motorizzazione? “Le automobili sono oggetti complessi e costruirle non è facile. Oggi pensiamo, sbagliando, che il valore dell’auto stia nelle sofisticazioni che vediamo e usiamo, nel nel cruscotto, per semplificare. Invece il valore sta in quello che non si vede: il comfort di viaggio, l’efficienza del motore e soprattutto la sicurezza attiva e passiva, che nessuno dovrebbe e vorrebbe sperimentare mai. Circa dieci gruppi metalmeccanici al mondo sono oggi all’avanguardia nella progettazione e costruzione di macchine. Purtroppo, per inseguire la clientela i costruttori da anni stanno mortificando le loro eccellenze. Tesla finora ha bruciato una montagna di soldi, senza avere concorrenti. Adesso con i tedeschi in campo sull’alto di gamma non so che futuro abbia. Potrebbe essere comprata da qualcuno per il brand, valutato qualche miliardo di dollari, ma il debito è pesante”.

Intervista di Enrico Sbandi a Pier Luigi del Viscovo, pubblicata su ItaliaOggi, il 12 novembre 2018

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INFLUENCER, PROFESSIONE “RIPETITORE”

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e Case auto vorrebbero far sapere ai clienti che possono acquistare un’auto Euro6d senza timore di blocchi alla circolazione, che contestano. Il problema è che la loro stampa non ha più tanto peso. Gli italiani apprezzano due tipi di giornalisti: quelli schierati dalla loro parte e quelli equidistanti, che offrono il comfort di non prendere mai una posizione. Tutti poi accettano che tratti le notizie come opinioni: qualsiasi pensiero andrebbe riportato con pari dignità. Un’abitudine formatasi nelle pagine politiche, ormai il trionfo del nulla, e nel calcio, dove le reti tv pagano per trasmettere le partite e anche le interviste. Vedono nel giornalista un reggitore di microfono, o scrivano sotto dettatura. Non c’è spazio alcuno per la principale funzione della stampa: il controllo di verità, da cui discende, in caso positivo, la sua divulgazione. Mentre sulle previsioni (quali la crescita del Pil o la diffusione delle auto elettriche) ci può essere qualche esitazione, per i fatti, le cose che sono o non sono, questa funzione sarebbe abbastanza semplice da svolgere. Nessuno riporterebbe che l’asino vola perché ogni giornalista è in grado, col bagaglio di sapere comune, di relegarlo nelle falsità. Purtroppo gran parte delle bugie richiede ben altre conoscenze, frutto di studio e ricerca. In epoca di tempo limitato e sforzi poco ricompensati, si tratta di chiudere il rubinetto a troppe notizie oppure farle passare sperando di non riportare una bufala. La soluzione per uscire dall’angolo è stata trasformare i fatti in opinioni, per le quali invece c’è piena libertà di circolazione. A quel punto, occorreva solo un volontario che si intestasse l’opinione e il gioco era fatto. La scelta è caduta sugli investitori pubblicitari, che prontamente hanno riqualificato i loro uffici, da pubblicità a comunicazione. Ma sempre di marketing si tratta, 164


per il quale il filtro di un giornalista serve come un sassolino nella scarpa. No, quello che ci vuole è un affidabile ripetitore, che faccia il mestiere che ogni media che si rispetti deve compiere: farsi ascoltare dal maggior numero possibile di potenziali clienti. Così è avvenuta la sintesi perfetta per servire uno dei meno civilizzati pubblici dell’Occidente: fondere la promessa della pubblicità con la credibilità della stampa. Sono i nuovi testimonial del messaggio. Si chiamano influencer e tanto valgono. Articolo pubblicato su il Giornale, il 21 novembre 2018

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NELLA MOBILITÀ GREEN CONVIVONO APPROCCI DIVERSI

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el mondo circolano 1,9 milioni di auto elettriche (BEV – camminano “solo” a batteria), di cui la metà in Cina, secondo le analisi dell’IEA (International Energy Agency) aggiornate al 2017, un altro 20% negli Stati Uniti e il resto sparso negli altri Paesi. Grandezze assai diverse per le auto ibride plug-in (PHEV – continuano a camminare quando le batterie sono esaurite). In totale sono 1,2 milioni, ma quelle ascrivibili alla Cina sono meno di un quarto del totale, mentre la concentrazione maggiore sta negli Stati Uniti, col 31%. Il restante 46% si ripartisce tra gli altri Paesi, con volumi tra 90 e 100mila unità in Giappone, Regno Unito e Olanda. La narrazione corrente accomuna BEV e PHEV, come due aspetti di una mobilità ad emissioni più contenute, sebbene siano due tecnologie molto diverse. Gli stessi costruttori, come spesso accade, non contribuiscono a fare chiarezza, bensì cavalcano questa confusione parlando genericamente di elettrificazione, probabilmente per sfruttare la superiorità ambientale che ha nell’immaginario dei clienti l’elettrico puro. L’ibrido contiene tutta la tecnologia sofisticata del motore termico a cui aggiunge la spinta alternativa dell’elettrico. Quello solo elettrico è molto meno complesso. Spingere sul motore BEV è una scelta comprensibile per la Cina, poiché consente alla sua industria di avvicinarsi presto e molto alle capacità tecnologiche degli occidentali. All’industria manifatturiera europea ovviamente non conviene, perché perdere competitività significa perdere occupazione, cedendo quote di export e agevolando l’import di vetture cinesi. Nonostante ciò i costruttori europei l’hanno cavalcata, per essere pronti per il più grande mercato del mondo e anche per stare dentro 166


i limiti alle emissioni di CO2 imposti dall’UE. Ma ora che i clienti non hanno risposto e la UE ha abbassato ancora i target, stanno rivedendo la posizione, chi più chi meno esplicitamente. Questo dibattito finora si è sviluppato avendo in mente una visione west-centrica tipica di quando c’eravamo noi, i Paesi avanzati, e poi tutti gli altri che, se andava bene, erano in via di sviluppo – ossia, un giorno sarebbero arrivati. In quello scenario si riteneva che le differenze fossero di tempo: tutti avrebbero seguito le scelte dell’occidente, anche a livello industriale. Nel mondo multi-centrico di oggi non per forza si dovrà arrivare a un sistema unico. La Cina potrebbe continuare, legittimamente, a spingere sul motore BEV, mentre l’Europa resterebbe sul termico, riducendone l’impatto ambientale con l’elettrificazione ibrida. Inutilmente, visto che sia l’aria che il clima risentono pochissimo dei nuovi motori termici, rispetto ai vecchi e rispetto alle altre fonti di inquinamento e di CO2. Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 23 novembre 2018

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GLI INCENTIVI NON BASTANO, SERVONO INFRASTRUTTURE

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hi compra un’auto non vuole restare a piedi e possibilmente nemmeno impiegare ore a cercare una colonnina libera e funzionante e a ricaricare. Sarà banale eppure la questione delle auto elettriche (BEV, si fermano quando le batterie sono scariche) sta tutta qua. Molti pensano agli incentivi perché credono che la barriera sia il prezzo alto, che è importante, certo, ma gestibile con finanziamenti e noleggio. Il vero divide è la ricarica. Prima si installano le colonnine, prima i clienti possono valutare le auto elettriche. Le colonnine non sono tutte uguali. Quelle “domestiche” hanno una potenza che varia tra i 7 e i 9 kwh e ricaricano in un tempo notturno, 6/8 ore a seconda della potenza e della capacità/ autonomia delle batterie. È una struttura necessaria per possedere un’auto a batterie (chi pensa alla presa in garage non ha mai usato forno e fon insieme) ma non sufficiente. Un automobilista deve poter ricaricare anche lontano da casa e senza impiegarci una notte. A completamento serve una rete capillare di colonnine rapide, fast charge, fino a 43.5 kwh se a corrente alternata (AC) trifase, o anche oltre i 100 kwh, a corrente continua (DC). Queste riescono a ridurre i tempi fino a 45/30 minuti, a seconda della batteria da ricaricare e della potenza della colonnina. Quante colonnine servono, per dare la sicurezza agli automobilisti di non restare a piedi? Non è facile dirlo. Oggi in Italia 100.000 erogatori (24.000 stazioni con 4,3 pompe di media) servono 37 milioni di macchine, impiegando circa 3 minuti per dare un’autonomia di 7/800 km. Quando ci sono tre macchine davanti, i minuti diventano dodici. Se le macchine sono più di tre, in condizioni normali si passa oltre, al distributore successivo, però nei 168


giorni di grande esodo si aspetta, anche con 6/7 auto davanti: quasi venti minuti di attesa, ma non c’è altro da fare. Con ricariche della durata di 30 minuti, quell’attesa diventerebbe di 3 o 4 ore, da ripetere due volte vista l’autonomia. Eventuali proiezioni devono tener in conto che le auto elettriche uscirebbero la mattina già cariche, grazie alle colonnine domestiche. Vediamo gli altri che fanno. La Cina sull’elettrico fa sul serio, perché dalla diffusione di questi propulsori dipende la competitività dell’industria automobilistica, più che l’aria che respirano visto che l’elettricità la producono ancora per il 63% col carbone. Ha il 74% delle colonnine fast charge del mondo: 83.000, una ogni 11 auto BEV (fonte IEA, International Energy Agency). Nel resto del mondo il rapporto è 34/1, tre volte di più, ossia tre volte meno disponibilità. Magari si tratta di un falso problema, eppure la Norvegia, con un parco circolante significativo e un rapporto auto/colonnine pari a 94, nel 2017 le ha aumentate del 72%, rispetto al +52% della Cina e al +31% degli altri Paesi. Di nuovo, non è facile, ma per un ipotetico parco di 1,9 milioni (5% del circolante in Italia) sarebbero sufficienti 50.000 colonnine? Si tratta di circa un miliardo, oltre cablaggio potenziato e installazione. L’auto elettrica è una questione di marketing, come sempre quando ci sono i clienti di mezzo. Solo che la palla stavolta non sta nel campo dei costruttori, ma delle amministrazioni: prima le colonnine, poi le macchine. Forse. È questo il bello del libero mercato. Poiché credono nell’elettrico, non esiteranno. Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 23 novembre 2018

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LA SFIDA: VENDERE AUTOVETTURE O ELETTRONICA?

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e concessionarie auto non si sono trasformate in tanti Apple Store e fortunatamente non accadrà, nonostante l’impegno dei costruttori. Sono luoghi dove si entra per comprare (pardon, procurarsi) una macchina e di questo si riempie la relazione tra il cliente e il venditore. Sicuramente deve essere un rapporto moderno, che vive nell’incontro fisico come da remoto. Oggi l’esplorazione per l’auto inizia online, come prima cominciava in edicola acquistando Quattroruote e facendosi una prima idea di modelli, prestazioni, qualità, optional e prezzi. Dunque, è opportuno che i concessionari siano attrezzati per agganciare sul web i clienti, senza aspettarli in salone, per poi seguirli dopo la visita. Ci vogliono competenze nuove, che tanti venditori non hanno e alcuni forse non avranno mai: familiarità con mezzi di comunicazione moderni, prima di tutto. Ma anche spostare le relazioni commerciali nel mondo virtuale, consapevoli che l’acquisto (chiedo ancora scusa, il contratto, quale che sia) può arrivare dopo una foto su Instagram o la risposta a un Whatsapp alle 10 di sera. Se vent’anni fa bastava un’isola in un centro commerciale per avviare una trattativa, da concludere poi in salone, oggi è necessario stare online. Competenze necessarie e tuttavia non sufficienti, altrimenti basterebbe un web-maniaco qualsiasi. Occorre conoscere il prodotto e saperne illustrare tutti i plus. Già, ma quali sono questi plus? I clienti ormai conoscono poco le caratteristiche essenziali di un’auto, come la qualità dei materiali, le specifiche del motore (potenza, cambio, trasmissione, consumi, emissioni), i sistemi di sicurezza attiva e passiva, il confort di viaggio – che non è il vano dove poggiare la bottiglietta d’acqua. Eppure, è in questo che si realizza la competenza delle case auto. Sono invece sempre più attratti dai sistemi di infotainment, che 170


quasi mai sono frutto dei costruttori, i quali li ricevono da giganti dell’elettronica e li assemblano nelle vetture. Purtroppo, la comunicazione di prodotto ha fatto indigestione di marketing (che notoriamente va consumato a piccole dosi e sotto il controllo di un adulto) e racconta al cliente quanto sia facile connettere lo smartphone e quanto sia sveglia e gradevole la voce della macchina – che adesso parla! Non c’è niente di male, ma è lecito ritenere un po’ azzardato poggiare su questi giochetti da grandi una differenza di prezzo di alcune migliaia di euro, tra una marca e l’altra? Strumenti complessi e sofisticati, i più costosi tra tutti i beni mobili, avranno dentro ben altro valore che uno smartphone? Probabilmente nessuno vuole negarlo, ma le cose vanno dette, i clienti devono ascoltarle. Se non le conoscono, allora di più. Il dilemma del concessionario sta tutto qua: essere esperto di informatica o spiegare che un’auto è qualcos’altro. Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, l’11 dicembre 2018

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DIESEL, I DIVIETI BLOCCANO LA SOSTITUZIONE DELLE VETTURE Il mercato. Una ricerca Ipsos - AgitaLab evidenzia che i consumatori italiani sono confusi, poco consapevoli e nell’incertezza rinviano l’acquisto.

È

improbabile che vedremo tanti giubbetti gialli sulle nostre strade, ma ciò non significa che questa storia del diesel non stia facendo male anche agli italiani. Intervistati da Ipsos per conto di AgitaLab, un laboratorio di ricerca per l’innovazione in campo automotive, la metà ha affermato che “le limitazioni alla circolazione annunciate da alcuni grandi comuni riducono il valore di mercato della propria auto al momento della rivendita”. Questa indagine conferma quanto proprio questo giornale portò all’attenzione già un anno fa, quantificando in alcuni miliardi il danno patrimoniale che si stava perpetrando nei confronti delle famiglie, costringendole a svendere la macchina e acquistarne un’altra. Tuttavia, per quanto possa far male, la finalità è apprezzabile, visto che punta a migliorare la qualità dell’aria che respiriamo. Peccato che quegli annunci e quei provvedimenti nella realtà la peggiorino l’aria, sortendo esattamente l’effetto opposto. Sì perché in un’economia liberale, quale siamo, quelli che possono tendono a minimizzare l’impatto negativo della svalutazione della propria auto, nel modo più semplice di tutti: non vendendola e dunque rimandando la sostituzione a tempi migliori. Per dirla in termini ambientali, invece di girare con un motore nuovo Euro6d (dove la “d” non sta per diesel ma per ultimissima generazione) le cui emissioni sono ormai trascurabili, l’automobilista continuerà ancora per mesi o forse anni a utilizzare la vecchia macchina, con propulsore Euro2 o 3 quando va bene, o anche più vecchio, producendo emissioni, queste sì, nocive per l’ambiente e per il clima. Anche questo avevamo previsto su queste pagine, definendolo “ef172


fetto Cuba”, e anche questo è stato puntualmente confermato dal sondaggio Ipsos/AgitaLab. Alla domanda se “prevede di tenerla più a lungo di quanto aveva previsto, per ridurre tale perdita”, quattro italiani su dieci hanno risposto di sì e solo il 35% ha negato questa opzione, mentre il 27% non ha espresso un orientamento. C’è poi un altro aspetto di certi provvedimenti che gli italiani davvero non capiscono, non perché ignoranti o stupidi ma perché privo di senso logico: il divieto di circolazione per i veicoli diesel di ultima generazione, Euro5 e 6. Dovendo indicare “tra un’auto a benzina di oltre 10 anni e una diesel di ultima generazione quale fosse più dannosa per l’ambiente”, l’83% ha puntato il dito su quella vecchia. Tuttavia, è significativo quel 17% che invece ha indicato la nuova diesel, perché dà il senso della disinformazione che regna sul tema e che l’indagine ha fatto emergere. Innanzitutto, la confusione tra CO2, che non fa male ma altera il clima (buco dell’ozono) e sostanze inquinanti. Solo un italiano su tre afferma che le polveri sottili sono dannose solo per la salute e appena uno ogni sette ha ben chiaro che la CO2 è un problema solo per il clima. La stragrande maggioranza (tra il 60 e 70%) afferma che entrambe le sostanze facciano male sia al clima che alla salute. Una simile mancanza di conoscenza su temi che magari sono anche ritenuti importanti non deve sorprendere. Le persone sono letteralmente bombardate da innumerevoli informazioni su tanti argomenti disparati, ed è naturale che tendano poi a formarsi delle conclusioni sintetiche e approssimative. Per mesi hanno ascoltato messaggi contro il propulsore diesel, da fonti che ingenuamente ritengono autorevoli, avallate poi addirittura dagli stessi costruttori di quei diesel, che ancora li vendono ma annunciano che in futuro non lo faranno più – come se questo avesse un senso. Questi consumatori, che a un certo punto devono scegliere cosa acquistare, giungono alla fine a una conclusione semplice: buono/cattivo. Se un prodotto è buono lo compro, altrimenti no. Se lo compro, deve essere buono per tutto. Non ho spazio per 173


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troppe sottigliezze. Così il campione degli intervistati, dopo aver espresso il suo giudizio su “quale motore emette più polveri sottili” (il diesel per il 48%), ha anche indicato “quale emette più CO2” (ancora lui, il diesel, per il 42%), mentre sarebbero altri i motori che “necessitano di minori costi di gestione” (il diesel per appena il 16%) e “consumano di meno” (ultimo il diesel, per il 10%). La disinformazione non si limita però ai propulsori, ma investe l’auto come oggetto. Alla domanda se “l’automobile è la principale fonte di inquinamento in città”, metà degli intervistati si è posizionata sul punteggio massimo (tra 8 e 10, in una scala da 1 a 10), senza tener conto delle caldaie dei riscaldamenti, tanto per fare un esempio. Addirittura, richiesti di dire se “l’automobile è la principale fonte di inquinamento in assoluto”, oltre un quarto si è posizionata tra 8 e 10 e più della metà comunque tra 4 e 7. Evidentemente, non hanno mai sentito parlare degli impianti industriali. Com’era la frase di Mao? “Grande è la confusione sotto il cielo. La situazione è eccellente”. Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, l’11 dicembre 2018

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ECOTASSA: IL «NO» DI COSTRUTTORI E CONSUMATORI. OK AL BONUS PER ELETTRICHE E IBRIDE PLUG-IN

L’

obiettivo di molti esponenti del sistema automobilistico in questi giorni è di evitare che sia confermato al Senato l’emendamento 79bis della legge finanziaria (bonus-malus sulle emissioni di CO2 g/km delle nuove autovetture) che di fatto impone un prelievo extra a carico delle famiglie e delle imprese intorno ai 400 milioni di euro. Dopo l’incontro di ieri con il Ministro Di Maio, questa tassa potrebbe venire ridimensionata, rimuovendo al tempo stesso l’incentivo per le auto ibride e a metano (finanziato appunto col prelievo sulle altre vetture) e lasciando solo quello (molto forte: 6.000 e 3.000 euro) per le auto elettriche e ibride plug-in. Ma vediamo quali sono state le principali raccomandazioni portate all’attenzione del Ministro e del Vice-Ministro Galli. C’è stato un coro quasi unanime a favore dell’obiettivo di ridurre sensibilmente le emissioni inquinanti (polveri, ossido di azoto e idrocarburi incombusti) e quelle clima-alteranti (CO2) del parco circolante italiano. La strada indicata dal presidente dell’ACI Sticchi Damiani è di incentivare chi rottama una vecchia Euro0/1/2 e 3 sostituendola con una usata fresca, Euro4/5 e 6. Proposta avanzata anche da Massimiliano Dona, presidente dell’Unione Nazionale Consumatori, con un documento predisposto dal Centro Studi Fleet&Mobility e illustrato al Ministro, nel quale si osserva che le auto del secolo scorso (Euro0/1 e 2) sono 9 milioni e vengono radiate a un ritmo di mezzo milione all’anno, tanto che impiegheremmo in condizioni normali 18 anni ad eliminarle tutte. L’analisi inoltre fa notare che i proprietari di queste vetture spesso 176


non hanno la disponibilità di avvicinarsi all’acquisto di una nuova, per quanto incentivati (come l’ultima rottamazione del 2009/10 ha ampiamente dimostrato), e che dunque sarebbe molto più efficace destinare i soldi dei contribuenti a finanziare chi rottama un’auto del secolo scorso e acquista una usata, il cui valore medio si aggira intorno agli 8.000 euro, contro i 20.000 delle nuove. Il bacino dei compratori di usato conta circa 3 milioni di privati/ famiglie, contro il milione e centomila che possono permettersi un’auto nuova. Infine, il documento spiega come la maggiore uscita dal parco circolante di macchine vecchie determinerebbe comunque un aumento di fabbisogno di vetture, per cui anche le immatricolazioni di auto nuove ne beneficerebbero, pur senza essere direttamente incentivate. Sul punto, la posizione espressa è molto chiara: sebbene ci siano differenze in termini di emissioni di CO2 tra i diversi propulsori (piccole e alte cilindrate, ibridi o metano), è innegabile che si tratti comunque di auto ad impatto ambientale molto basso rispetto a quelle vecchie in circolazione, e che pertanto la loro immissione sul mercato non vada in alcun modo rallentata con tasse e balzelli. Federauto, l’associazione dei concessionari d’auto, ribadendo la priorità di rottamare il vecchio parco circolante, ha tradotto in numeri economici l’impatto del provvedimento, così come validato dalla Camera. Poiché di fatto l’opzione delle auto elettriche è limitata dalla mancanza di infrastrutture e dalla scarsa offerta di prodotti, almeno 150.000 consumatori rimanderebbero l’acquisto, portando a una perdita di circa 15.000 posti di lavoro nella sola distribuzione. Una realtà scomoda, richiamata anche da FCA, che ha fatto notare come allo stato dei fatti sarebbero pochissimi (una decina) i modelli che beneficerebbero degli incentivi, a fronte di tutto il resto dell’offerta che sarebbe penalizzata. In termini tecnici, poi, FCA ha ribadito che il prossimo sarà un anno di transizione per il passaggio dalle norme di omologazione NEDC a quelle WLTP, con conseguente confusione nella rilevazione dell’esatto livello di 177


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emissioni di CO2, suggerendo al Governo di considerare lo slittamento del provvedimento in avanti al 2020, aggiungendo che sarebbe anche il caso di rivolgere l’attenzione alle sostanze inquinanti, visto che sul fronte della CO2 l’industria è già su posizioni molto buone. Pure Confindustria ha affermato che il provvedimento di bonus/ malus rallenterebbe, anziché stimolare, il ricambio del parco circolante, perché l’accelerazione verso i modelli elettrici è in anticipo sui tempi, non essendo ancora pronta l’offerta dei costruttori, che al momento dispongono di una gamma ridottissima di modelli, e non essendo disponibile una rete infrastrutturale (colonnine) sufficiente. Michele Crisci, presidente dell’Unrae, l’associazione dei costruttori esteri, ha ribadito che tassare le immatricolazioni di auto Euro6d senza un piano per la rottamazione sarebbe completamente inefficace per l’ambiente, mentre produrrebbe un calo sensibile delle vendite, intorno ai 2,5 miliardi di euro, dentro cui ci sono oltre 400 milioni di IVA, che verrebbero a mancare. La strada verso l’elettrificazione, secondo l’Unrae, non può che passare dalla dotazione di colonnine, nell’ordine di 35.000 all’anno nei prossimi tre anni, il cui investimento andrebbe incentivato fiscalmente. Verso il termine dell’incontro, alla disponibilità del Ministro di ricevere proposte e osservazioni per modificare l’emendamento, il Vice-Ministro Galli ha osservato che il fenomeno va guardato in modo ampio, visto che l’auto elettrica produce meno emissioni allo scarico, ma se poi l’elettricità è prodotta col carbone o con altri fossili l’impatto sull’ambiente è solo delocalizzato, cosa inutile visto che il pianeta è uno solo. Ha anche aggiunto come sia importante trovare un sistema per rottamare la parte più vecchia del parco circolante e quanto sia necessario, per gli interessi nazionali, tener conto sia del fatto che FCA ancora non produce un’auto elettrica e sia dell’industria che ruota intorno alla produzione di batterie, se non si vuole dipendere dalle forniture cinesi. 178


Ma le conclusioni sono state poi tirate dallo staff del Ministro, che ha indicato come la riduzione delle tasse sulle auto termiche potrebbe aver luogo solo rinunciando al bonus per quelle ibride e a metano. Sono queste infatti a esprimere volumi importanti (oltre centomila unità all’anno) e ad assorbire la gran parte delle risorse dei contribuenti: quasi 200 milioni, secondo le stime del Centro Studi Fleet&Mobility. L’incentivo dunque potrebbe restare per le elettriche e le ibride plug-in, circa 9.000 auto in tutto, che sarebbe un mero segnale della direzione futura. Ma è tutto da vedere nelle prossime ore, poiché l’impianto economico dell’emendamento punta a recuperare dalla tassazione sul grosso delle auto i soldi per agevolare i compratori di vetture elettrificate, per quanto poche possano essere. Però dai calcoli emerge che questi conti siano stati fatti senza l’oste, il consumatore, che restando fuori dal mercato farebbe mancare parte degli introiti attesi e produrrebbe anche un buco di IVA rilevantissimo. Articolo pubblicato Il Sole 24 Ore, il 12 dicembre 2018

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LA SOLUZIONE: “USATO FRESCO” L’obiettivo del bonus-malus sulle emissioni delle nuove auto è agevolare l’acquisto di vetture elettriche, ibride e a metano, facendo pagare il conto a chi ne prende una a benzina o diesel.

U

n fine nobile, diminuire le emissioni di CO2, che tuttavia non sarà raggiunto, come gli esponenti del settore hanno spiegato bene al ministro Di Maio e al suo staff, nell’incontro di martedì. Di fronte a una tassa di circa 400 milioni, molti automobilisti rimanderebbero l’acquisto, con una contrazione del mercato di circa 3 miliardi di euro e un minor gettito Iva di 540 milioni. Il bonus spingerebbe solo una piccola parte di automobilisti ad optare per un’auto ibrida o a metano, tanto che il calo netto stimato dal Centro studi Fleet&Mobility sarebbe intorno a 2,5 miliardi di vendite (con meno Iva per 450 milioni). Se i tecnici del ministero avevano previsto un equilibrio economico tra incentivi e maggiori tasse, dovranno rifare i conti. In aggiunta, il calo porterebbe a una perdita di circa 15.000 addetti nella sola distribuzione, secondo Federauto (l’associazione dei concessionari). FCA ha poi fatto sapere che sarebbe costretta a rivedere l’intero piano di investimenti appena annunciato: parliamo di «5 miliardi nel periodo 2019/21 per il lancio di 13 nuovi modelli e il restyling di modelli esistenti, tra cui la gamma Maserati e l’attesa 500 elettrica». Infine, frenerebbe il già lento processo di ricambio di vetture obsolete, inquinanti e poco sicure (cosiddetto «effetto Cuba»). In proposito, è stato fatto notare al ministro come l’unica vera via per migliorare l’ambiente sarebbe proprio di rottamare le auto 180


del secolo scorso che ancora girano (Euro0/1/2). In particolare, il piano elaborato dal Centro studi Fleet&Mobility e presentato dall’Unione nazionale consumatori prevede di incentivare, a fronte di queste rottamazioni, l’acquisto di un usato fresco (Euro4/5 o 6), perché sarebbe molto più efficace. Infatti, il prezzo di una vettura usata si aggira intorno agli 8.000 euro, contro i 20.000 di una nuova. Una simile mossa andrebbe a stimolare un bacino di 3 milioni di privati/famiglie acquirenti di auto usate, contro il milione e centomila che accedono al nuovo. Sulla stessa linea anche la proposta dell’Aci, che ha sottolineato pure la maggior sicurezza delle auto più recenti rispetto alle vecchie. L’orientamento finale del ministro è stato di disponibilità a rivedere la tassazione sulle auto, con parallela eliminazione del bonus in favore delle auto ibride e a metano, che a quel punto non sarebbe sostenibile economicamente. L’incentivo rimarrebbe solo per le elettriche e per le ibride plug-in, pochissimi modelli dal prezzo piuttosto elevato destinati quindi a una clientela che magari non dovrebbe ricevere aiuti economici (stimiamo circa 100 milioni) da parte dei contribuenti. Aiuti in fondo inutili perché, hanno osservato in molti, per spingere queste vetture servono le colonnine, di cui il Paese è tuttora quasi sprovvisto. Ma pure perché, come ha sottolineato il Vice-Ministro Galli, se l’elettricità non è prodotta da fonti rinnovabili, ma da fossili, le emissioni ci sarebbero comunque. Articolo pubblicato su il Giornale, il 13 dicembre 2018

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ECO-BONUS, TUTTI I NUMERI E I COSTI PER FINANZIARE L’OPERAZIONE

Q

uando entra in gioco la Fiat i contorni di ogni vicenda sfumano per lasciare spazio alla saga popolare. La stessa FCA ridiventa Fiat. Sui social si scatena quel mai sopito spirito di odio-amore, che come tale trascende i connotati economici di una realtà economica, dove economici sono gli interessi degli azionisti ed economici sono gli interessi dei lavoratori e degli altri stakeholder interessati. Tuttavia, i fatti sono fatti ed è bene fissarli, per quei pochi che ancora li hanno in conto. L’emendamento sul bonus-malus per l’acquisto di un’auto nuova nasce da un’idea: finanziare fortemente (6.000 euro) l’acquisto di auto elettriche e, via via meno fortemente, quello di auto semi-elettriche (3.000 euro alle ibride plug-in: comunque si attacca una spina) e poi quello di auto a basse emissioni di CO2 (1.500 euro alle ibride normali e a metano). Questi bonus hanno un costo, legato ai volumi che queste auto muovono sul mercato. Quest’anno parliamo di meno di 9.000 unità per le elettriche e le plug-in, ma di 120.000 pezzi per le altre. Sono tre segmenti già in forte espansione e con incentivi più o meno forti crescerebbero ancor di più. Quanto? Elettriche e plug-in potrebbero facilmente raddoppiare le vendite, fino a 17/18mila unità, con un costo di 76 milioni di euro. Le ibride normali e quelle a metano magari meno, ma arriverebbero comunque a 180mila unità, pari a 273 milioni. In totale, parliamo di 350 milioni di euro, secondo questa analisi del Centro Studi Fleet&Mobility. Per ottenere cosa? 70.000 immatricolazioni aggiuntive di vetture 182


con emissioni di CO2 basse o nulle (allo scarico, perché l’elettricità va prodotta e per il 70% da fossili). Non proprio, visto che le vendite di queste macchine sono già in crescita senza incentivi. È probabile che la spinta dei bonus dunque aggiungerebbe 30/40mila unità. È questo il problema con le promozioni, che danno soldi non solo a chi altrimenti non acquisterebbe, ma anche a chi lo farebbe comunque. Com’è noto, nella finanziaria questi soldi non ci sono. Ecco allora che entra in gioco l’altra metà dell’emendamento, quella che tassa gli acquisti di più di un milione di altre auto, che dovrebbe produrre un gettito di quasi 400 milioni di euro, se i volumi fossero gli stessi dell’anno in corso. Sfortunatamente, come tutti gli operatori hanno fatto osservare e com’è intuitivo anche per chi non ha particolari esperienze o competenze, il mercato avrebbe una contrazione, stimata in almeno 100/150mila unità, al netto di quelle incentivate aggiuntive. Con questi volumi, il gettito scenderebbe più o meno a 300 milioni, non sufficienti a coprire del tutto gli incentivi, ma ci andrebbe vicino. Forse l’impianto potrebbe ancora stare in piedi, direbbe qualcuno. Invece no, assolutamente. Perché le immatricolazioni mancanti farebbero venir meno anche il gettito di Iva, stimabile intorno ai 4/500 milioni. Difficile che in questi giorni di caccia al tesoro il Governo trovi coperture per questo costosissimo emendamento, che poco o nulla darebbe all’ambiente (40.000 auto a basse emissioni sono l’un per mille del parco circolante – una goccia nel mare). Insomma, l’operazione non sta in piedi per sé. Parlare di Panda e di Fiat fa colore, ma non rende giustizia alla realtà. Il provvedimento in questione è stato affossato dall’associazione dei costruttori esteri, i diretti concorrenti di FCA, dall’associazione dei concessionari e da quella dei produttori di componenti (a cui FCA non partecipa), che vendono a tutti costruttori. 183


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Perché deprimerebbe le vendite, senza nemmeno sfiorare quei 9 milioni di vecchie macchine Euro0/1 e 2 che emettono tonnellate di CO2 e di altre sostanze inquinanti, che sono il vero problema sulle nostre strade, insieme alle caldaie e alle fabbriche. Dunque, l’intervento di FCA sarebbe stato inutile, superfluo? Non proprio. È stato invece molto opportuno, perché come abbiamo visto in questi giorni ha attirato su di sé l’attenzione, facendosi carico di un probabile e auspicabile affossamento dell’emendamento. Insomma, facendo da parafulmine, in modo da non dover ammettere che l’idea era insostenibile, ma solo che sarà eventualmente abbandonata per le pressioni di chi investe 5 miliardi negli stabilimenti italiani. Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 17 dicembre 2018

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MERCATO AUTO A VALORE 2018 Mercato auto e fuoristrada – valori assoluti

Rapporto tra performance e valore e volume

Body e alimentazione

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Top 15 brand e model

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MERCATO AUTO A VALORE 2018 - NOLEGGIO Mercato auto e fuoristrada – valori assoluti

% noleggio su vendite in valore – top 15 brand

Nlt e Rac

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Top 15 brand e model

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TRIBUTI Voglio ringraziare Pierluigi Bonora del Giornale, che mi sollecita i commenti e le provocazioni più stimolanti, Mario Cianflone, capo della pagina Motori del Sole 24 Ore e di Motori24, che ha il chiodo fisso della verità e della misura delle cose - due lussi che pochi oggi si regalano, Laura La Posta, che coordinava i Rapporti del Sole 24 Ore con maestria e profondità - e che tuttavia ha saggiamente anteposto le cose importanti, Enrico Sassoon, direttore di Harvard Business Review Italia, che ospita per i suoi sofisticati lettori anche temi dell’industria automotive, e Francesco Signor, direttore responsabile di Guida alla Sicurezza, che anche lo scorso anno ha voluto ospitare un mio contributo. Voglio ringraziare i miei colleghi, Alessandro, Alessia e Francesca, per il contributo di analisi su cui poggiano gli articoli e per far funzionare la nostra piccola utilitaria tanto bene da potermi dedicare con tranquillità a questa passione. Sono lusingato e grato che Mario abbia accettato di scrivere la prefazione, accordandomi una stima che conserverò con cura. In ultimo, ma non ultimi, ringrazio quei pochi che hanno avuto la pazienza e la cortesia di leggere gli articoli.

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Finito di stampare nel mese di settembre 2019 DB Stampa - Roma


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