Stati di allucinazione Non avete idea del bisogno che ha l’essere umano di credere che quello che fa è importante, specie se non lo è. Roberto Messori
L
a pizzeria - Dopo qualche cappotto di troppo, un giorno nè bello nè brutto Super Fly si pose all’improvviso la domanda più terribile per la mente di un vivente: «Da dove veniamo?» E precipitò nell’angoscia. Eravamo in pizzeria, il solito gruppetto, il Riccio, Bob, il Baffo, Super Fly ed il sottoscritto. Aspettavamo quattro capricciose e Super Fly, come al solito, una margherita con mosche vere. La domanda fece esplodere una terrificante discussione filosofica. Ognuno sparò la sua cazzata e i dubbi su paternità incerte e castità materne si incrociarono, specie alla seconda birra. Ma l’angoscia di Super Fly rimase. «Da dove volete che veniamo? Siamo un prodotto di passaggio» dissi io, nel tentativo di risollevargli il morale, e continuai: «Proveniamo dal mondo animale, il nostro corpo ha gli stessi organi delle bestie e la nostra psiche è quella di milioni di specie estinte divorandosi a vicenda. Conserviamo il terrore inconscio di essere mangiati e siamo fisicamente condannati all’imperfezione: il nostro corpo sarà sempre costituito da una parte obsoleta e da un complesso di spinte evolutive in perenne ritardo.» «A te non ti tira più» sentenziò il Riccio. La mia teoria antropologica, considerata non esaltante, scatenò dissensi a non finire. A me pareva buona. Super Fly se la prese più di tutti: la pesca a mosca era rimasta fuori dal gioco e non lo tollerava. Cominciò ad agitarsi e quando cominciò a lasciare lì la pizza per mangiare solo le mosche corressi il tiro:
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«Andiamo Fly, è scontato che la pesca a mosca è al centro di tutto: noi stessi esistiamo perchè il primo essere vivente, due miliardi di anni fa, per lasciare il mare e conquistare la terraferma ha dovuto vincere la tensione superficiale, la stessa contro cui lottiamo con le nostre dry flies. Lanciare una piccola Lunn’s Particular nelle correnti di un torrente rappresenta freudianamente il ritorno alle origini e religiosamente il nostro atto liturgico. Sai che ti dico? Che il troppo no kill ti ha squilibrato, ecco il perchè delle tue angosce. Hai
bisogno di catturare e divorare una grossa trota, o presto inizieranno le crisi di panico, poi gli impulsi suicidi. Devi liberare i tuoi istinti primordiali, prima che si ribellino e ti distruggano.» Super Fly non rispondeva. Con sguardo vitreo stuzzicava, con l’indice, una mosca semiaffogata nel poltiglio di pomodoro e mozzarella. Occorreva un colpo di genio. Ma è difficile, così, su due piedi. Provateci voi. Insomma, Super Fly rischiava la psicosi irreversibile e noi amici non riuscivamo a far nulla. Il morale del gruppo non era mai stato a livelli così bassi. E pericolosi.
La serata continuò tra stupide battutelle e frasi di circostanza, impregnate di una noia terribile che nessuno ammetteva. Io, per resistere al disagio, cercavo di pensare a cose piacevoli. Così una parte di me era lì in pizzeria e l’altra ripercorreva le piste del deserto Siriaco, dove mesi prima visitai suggestivi siti archeologici fino alle antiche rive dell’Eufrate. Ripensai quando, dalle mura di Dura Europus, un’antica fortezza sull’Eufrate, raggiunsi la riva per bagnarmi il viso e le braccia e vidi, inaspettatamente, grossi pesci che bollavano nelle acque gelide. Alla partenza stavo, in verità, per infilare in valigia la mia Hardy in 7 pezzi, un mulinello ed una scatola di artificiali, ma rinunciai: ritenevo l’Eufrate una sorta di pantano. Merda! Era limpido come un ruscello, largo come il Po, gelido e pieno di pesci. Qualche notte dopo, al Cham Palace Hotel di Deir az Zor, ancora ossessionato da quelle bollate, vagando tra sonno e dormiveglia fantasticai di catturare un pesce con la mosca artificiale partendo dall’unico strumento a mia disposizione - una scheggia di selce trovata nell’antico insediamento - per costruire un’attrezzatura primitiva da pesca a mosca. Una gomitata del Riccio mi fece trasalire: «Allora, la vuoi o no un’altra birra? Il cameriere aspetta!» Feci sì con la testa, ma quella scossa improvvisa ricompose violentemente la mia psiche. I ricordi svanirono, solo l’ultima parte rimase per un attimo, ma bastò: ora avevo il colpo di genio per la
salvezza di Super Fly, della compagnia di pam frustrati, delle prossime vacanze, della pesca a mosca, della nostra depressione alieutica e, forse, dell’intera civiltà occidentale, che vive nella perenne angoscia di cercare le proprie radici culturali in un passato che non sopporta. L’associazione del ricordo dell’Eufrate con la crisi del presente diede davvero un grande frutto. «Fermi! Fermi, fermi. Fermi! sbottai Ho l’idea giusta. Ora so cosa fare. È un ritorno alla vita, È la risposta a tutto. Il Nobel è nostro, anzi mio. Ora so cosa fare. È la Soluzione. Il viaggio di 2001 Odissea nello spazio era niente, inoltre fallì, questo progetto darà la risposta a tutto. Ora so cosa fare. È la strada giusta, la via per la consapevolezza, ora so cosa fare.» Finalmente tirai fiato. Non fecero neppure finta di essere curiosi, tanto erano convinti che avrei detto una cazzata, e neanche divertente, un’altra delle stupide battute che caratterizzavano la loffia serata. Super Fly alzò le sopracciglia con un’espressione di compatimento, ma sapevo cosa stavo per dire e nulla poteva scoraggiarmi. Li avrei travolti. Andai subito al dunque, senza preamboli: «Andremo in un bosco, presso un fiume selvaggio, dico sul serio, e lì staremo fino a che non riusciremo a catturare una trota a mosca, partendo da un unico attrezzo: la piccola ossidiana comprata a Damasco. È tagliente e dura come l’acciaio. Non esistono strumenti più antichi. Dico sul serio. Dovremo fare tutto: studiare i materiali per la coda, che so, liane, filamenti di corteccia, crini di animali selvatici... Poi la canna, questa è più facile, troveremo un ramo adatto, poi il finale, chissà, forse tendini o budella di qualche piccolo felino, la seta dei bruchi, vedremo, l’amo è più difficile, forse le spine ricurve dei cactus, schegge d’osso... Le incurveremo e le forgeremo col fuoco. Ce la faremo, troveremo il modo, deve esserci. Dico sul serio. Per le piume, nei nidi ci sono sempre penne, e i rovi strappano il pelo agli animali selvatici... Risaliremo all’origine della forza vitale, dei pensieri, della vita. Liberere-
mo i nostri istinti... e li domineremo! Non sto scherzando, dico sul serio.» Sei occhi sconcertati mi osservavano in silenzio. Occorreva un ultimo tocco magico, e dissi, ieratico: «Noi andremo tra monti e fiumi selvaggi e con gli antichi elementi, aria, acqua, terra e fuoco cattureremo una trota a mosca e la divoreremo. Di notte, in riva al fiume, con tribale complicità. Partendo dalla selce, dono della terra, dimostreremo che duemila anni di tecnologia
sono nulla, tutto s a r à ridiscusso, e inizierà una nuova era. E noi saremo i capi, se saremo furbi. Forse.» Ammetterete che il progetto non era male. Dissi tutto d’un fiato, istintivamente, come guidato da non so quale entità, poi tacqui. Mi sentivo come Hitler dopo il discorso del ‘33, al Reichstag. Erano paralizzati. Non capivo se dall’esaltazione o dal terrore. «Super Fly! - urlai per scuoterlo Non capisci? Dimostreremo che la pesca a mosca è il mezzo per svelare i segreti della vita!» Non avete idea del bisogno che ha l’essere umano di credere che quello che fa è importante, specie se non lo è. Super Fly tirò fuori la lingua più che potè, poi cominciò ad agitarla a destra e sinistra strabuzzando gli occhi, indi
contorse il capo da tutte le parti, zompò sul tavolo rovesciando birre e pizze e iniziò con cadenza ritmica a saltellare percuotendosi con energia i muscoli delle braccia, del petto, dalle gambe e scandendo parole incomprensibili, strane e terribili. Cavolo! Era una hakà maori, la danza di guerra della bellicosa tribù! Come faceva a conoscerla? Non la conosceva. Erano i geni del suo DNA che iniziavano a manifestare sconcertanti sorprese, allora incomprese. E tragicamente sottovalutate. Ci sono cose strane, nei nostri geni. La serata finì al commissariato più vicino, a riempire mestamente i verbali dei carabinieri chiamati dai pizzaioli, ma ormai nella mente avevamo una cosa sola: catturare quella trota e divorarla! La caccia, parte prima - «Stai calmo, stai calmo, non sanguini più». «Accidenti c’è freddo qui. Ci vorrebbe un fuoco, ma non devono vederci» Disse il Riccio. «Come va la spalla?» chiesi. «Male, fa un male bestia, non riesco a muovere il braccio e ho freddo.» «Accendiamo quel fuoco del cazzo, staremo in guardia, se ci attaccano ci difenderemo. Poi avranno freddo anche loro. Il Baffo ha un ginocchio a brandelli, non è pericoloso, ma Super Fly è imprevedibile, l’ho colpito con forza, ma è ancora in grado di reagire» Dissi. Ormai ero abile, il fuoco richiese qualche decina di minuti. Avevamo ancora un po’ di mele selvatiche. E la trota. Era questa il pericolo maggiore. Ma era nostra. Il dolore all’occhio cominciava a passare e il naso non sanguinava più, ma zoppicavo vistosamente. «Non capisco ancora cos’è successo. Così all’improvviso, quella discussione, poi tutta quella violenza, maledizione, stava andando tutto così bene, cosa diavolo gli è preso?» disse il Riccio. Non risposi. Il fuoco cominciò a scoppiettare illuminando due facce tumefatte, sporche, stravolte e parecchio incazzate. Eravamo zuppi di sangue co-
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agulato fuori e di adrenalina dentro, ma ora, con la notte, la calma alimentava dolore e riflessioni. I bagliori rossicci davano forma alle cose e mi cadde l’occhio (per come era ridotto poteva cadere davvero) sulla canna da mosca. Era lì, appoggiata a terra con la lenza arrotolata lungo il fusto. Bella ed affascinante La canna - Eravamo stati bravi. Il Baffo scelse un secco ed elastico ramo di bosso, ma era troppo corto, così lo si infilò nel fusto di un sambuco, irrobustito con una legatura di corteccia di salice tagliata a strisce sottili. Era sui tre metri. La lenza - La lenza fu facile, da rossi rami di salice sfibrammo lunghi filamenti che vennero rapidamente intrecciati con massa decrescente. Non servì neppure l’ossidiana, bastarono le unghie. Per il finale risolse il problema un asino. Scorrazzava libero in un prato delimitato a monte da un roveto, usava il roveto per grattarsi e tra una mora e l’altra recuperammo lunghi crini che andarono a formare un finale perfetto. La mosca All’ultima fibra legammo un robusto spino, strappato assieme ad una piccola striscia di corteccia, irrobustito da un ossicino raccolto tra i resti di un piccolo uccello. Gli avanzi del pasto di una volpe fornirono alcune piume di beccaccia. Una fortuna inaspettata. Ci stupimmo di quante possibilità affioravano alla mente, alimentate da un entusiasmo sconfinato. Fu più facile del previsto avvolgere una piccolissima piuma screziata bloccandola tra la sporgenza dell’ossicino e il corpo dello spino. Si ottenne un’imitazione dal fascino misterioso, un potente feticcio che paralizzò la nostra attenzione per lunghi minuti. Non avremmo mai immaginato emozioni così vitali e potenti. L’attrezzo era pronto. Non era un semplice attrezzo. Era un prodotto della mente magicamente
realizzato con i frutti della terra. Era cosmologia pura. Avevamo materializzato qualcosa di indefinibile, come forze misteriose creano materia dalla pura energia. Ci sentimmo come Dèi. Eravamo Dèi. La preda – Ci parve giusto affidare la canna a Super Fly. L’attrezzo era vano senza una cattura, e inutili i nostri sforzi. Una cattura avrebbe dato senso a tutto. Una cattura avrebbe rappresentato Eros; il fallimento Tanatos. Ho ancora negli occhi il guizzo di quella trotella. Si fece prendere in un piccolo anfratto scuro. Alla base di una cascatella un macigno formava
una stretta fessura nella quale finì la mosca, lanciata dal superpollo. L’aggredì quasi subito e la ferrata istintiva la fece saltare in un piccolo spiazzo di ghiaia a lato del sasso a pochi decimetri dalla pozza. L’amo, imperfetto, bastò a farla saltare. Un ulteriore guizzo l’avrebbe fatta finire in acqua e così mi lanciai per afferrarla. La lotta – Non fui l’unico ad intuire quel rischio, così ci tuffammo all’unisono incrociando quattro teste e otto braccia agitate. Ma non furono quattro esseri umani soddisfatti e divertiti a tuffarsi in quel metro quadrato per salvare la loro preda,
bensì quattro belve inferocite e sanguinarie. Esplose una rissa furibonda per il possesso del pesce, una lotta senza esclusione di colpi, compresi morsi, graffi e alcuni sputi. La ragione scomparve del tutto finché il Riccio non riuscì a scappare con la trota super il greto. Lo seguii inerpicandomi forsennatamente per qualche decina di metri, scorticandomi unghie e ginocchia, seguito dagli alt r i che urlavano a squarciagola, poi per un po’ si sentì solo l’affanno ed infine il silenzio. L’energia era finita. Eravamo tutti spossati. Il Riccio in alto, al margine del bosco di conifere, io più sotto, aggrappato ad una radice, Super Fly ed il Baffo ancora più dabbasso. Fu Super Fly a rompere il silenzio, là sotto: «Vi prenderemo maledetti! Voi due non ve la caverete così, io e il Baffo vi prenderemo e ve la faremo pagare! La trota è mia, solo mia! MIA!» E così anche i branchi erano consolidati. Noi due, sopra Super Fly, eravamo i nemici, il Baffo, sotto di lui, era il suo complice. Quattro uomini, due tribù nemiche. Da un punto di vista matematico la situazione era sotto assoluto controllo. Io, che stavo seguendo il Riccio per ucciderlo e prendergli la trota, ora stavo con lui e con lui avrei condotto l’avventura fino alla fine. Lo raggiunsi e fuggimmo nel bosco senza fermarci fino a notte fonda. La caccia, parte seconda – Possedevamo la canna da mosca e la trota, mentre i nostri nemici non avevano nulla, solo la rabbia e la ferrea volontà di lottare. Continuavo ad osservare la canna, consapevole di aver rivissuto le basi essenziali della vita animale, gli istinti più crudi e brutali con l’involuzione psichica più gretta e meschina. E mi era piaciuto. Ora, braccato da due belve assassine, con un complice capace di uccidermi da un momento all’altro, con emorragie interne ed esterne, un ginocchio spappolato e svariate costole malmesse, mi sentivo finalmente soddisfatto.
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Mi rilassai per riposare e lasciai fluire i pensieri. Capii molte cose, il capitalismo, il comunismo, la religione, il perché delle guerre, delle leggi, degli stati, solo sulla propria pelle è possibile comprenderle davvero. L’Euro, però, continuò a rimanere un mistero. Fino alla sera prima la mia cultura era teorica, formatasi nei libri, nell’arte ed al cinema. Ricordate “Corvo rosso non avrai il mio scalpo”? Fu proprio pensando al momento in cui Jeremiah Johnson venne attaccato di notte da un indiano che aprii, allarmato, un occhio, in tempo per vedere un’ombra lanciare qualcosa prorompendo in un urlo disumano. Mi scostai di colpo, in tempo per salvare le palle: un pietrone finì proprio dove tre millesimi di secondo prima stava il mio inguine. Scattai in piedi pronto a reagire. L’ombra rimase immobile, le gambe divaricate, le ginocchia flesse, le braccia aperte e protese come Predator dopo essersi tolto il casco protettivo per combattere Schwarzenegger a mani nude, al mio fianco si era rialzato il Riccio, pronto alla lotta, mentre il Baffo, brandendo un bastone, faceva capolino dietro a Super Fly. Per nostra fortuna e grazie alla mia cultura cinematografica la sorpresa era sfumata. Stavamo lì, immobili, saturi di adrenalina, pronti a sbranarci, malamente illuminati dagli ultimi bagliori del fuoco. Erano momenti di attesa terribili. Gli occhi di Super Fly caddero per un attimo sulla trota, presso il fuoco, misera, brutta, rinsecchita e sporca di terriccio, ma era la nostra preda. Mugolò rabbiosamente una specie di rantolo scuotendo il capo: avrebbe voluto sgozzarci, ma anche noi. Scatenarci sarebbe equivalso ad un massacro per tutti. Ecco, ora compresi pienamente anche la guerra fredda. «Merden! Wilddieb! Bracconieri schifosen! Fi ho beccati endlich!» Ci voltammo di scatto. Sarà stato un quintale e mezzo, alto quasi due metri, in divisa da guardapesca altoatesino. Sembrava più incazzato di noi quattro messi assieme. Puntò il dito, una specie di würstel gigante, sulla trotella rinsecchita. «Ah! il corpus delikti! Italianen! Ora foi fenire come me: kuesti river is No kill!» Ci guardammo stupiti per un attimo, un tempo atomico, qualcosa come
un miliardesimo di secondo, poi scappammo a rotta di collo nelle medesima direzione. Tra tutte le pulsioni ancestrali, la ferocia animale, la brutalità e la violenza, l’emozione più forte rimase comunque il terrore da guardapesca. Raggelò il sangue, annichilì ogni cosa e ci diede un’energia inimmaginabile. Corremmo, corremmo, corremmo e poi ancora corremmo, trovammo un sentiero e corremmo, poi un viottolo e corremmo, raggiunta una strada continuammo a correre, non so quanta strada si percorse, forse di più di quella di Forrest Gump, ma alla fine, miracolosamente, apparve la nostra auto dove l’avevamo lasciata alcuni giorni prima. Finalmente corremmo in auto. Alle cinque del mattino, in autostrada diretti a Sud, passato Rovereto, alleggerii il piede ed il tachimetro abbandonò i 200, scese a 160, poi si assestò a 140. Nessuno aveva ancora pronunciato una parola. «Robbi, ma… Cristo! Ma che cazzo! Ma per mangiare una trota dovevi scegliere proprio un no kill?» Disse il Riccio. «Ma che ne so! E poi per un esperimento antropologico dovevo guardare il regolamento?» «Bèh, l’esperimento è comunque fallito, la trota non potremo più mangiarla, ammesso che qualcuno abbia ancora qualche dente». Disse il Baffo, il più riflessivo. «Davvero?» Quest’ultima era la voce di Super Fly. Ci girammo tutti ad osservarlo. Infilò la mano nella tasca del giubbino, ne estrasse il pesce, ne staccò la testa con un morso e soffocando il riso cominciò a masticarla offrendo a noi il resto. In silenzio, vittoriosi e compiaciuti, strappammo coi denti (molti li avevamo ancora) brandelli di carne finché rimase solo la lisca. Il mio vecchio Mercedes non aveva mai portato quattro pescatori così felici. Al successivo autogrill ci fermammo a bere. Scolammo due bottiglie di lambrusco, la birra era troppo tedesca. Proverbio arabo “Io contro mio fratello, io e mio fratello contro nostro cugino, noi tre contro il vicino, noi tutti contro lo straniero”.
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