XXI SECOLO
sarĂ ancora americano o il mondo volterĂ pagina?
[SommarioQuaderni] ✺ Il declino immaginario ✺
di John Bolton • 4 ✺ Cinque
minacce senza risposta ✺ di Newt Gingrich • 12
✺ È interesse di tutti ridimensionare Washington ✺
colloquio con Ernst Nolte di Renato Cristin • 50 ✺ La filosofia delle chance ✺
di James Hillmann • 54 ✺ Viene da Pechino l’unica vera alternativa ✺
di Barthélemy Courmont • 20
✺ Il
gigante è cieco ✺
di Emanuele Severino • 60
✺ Il
bisogno degli altri ✺ di Carlo Jean • 20
✺È
lo scontro di civiltà l’ignoto in agguato ✺ di Joshua Muravchik • 38
✺ Poveri
noi europei, viviamo di invidia ✺ di Giancarlo Galli • 68
IL DOCUMENTO ✺ La nuova arca dell’alleanza ✺ di John McCain • 76
✺ L’America
Latina aspetta un piano Marshall ✺
colloquio con Vicente Fox Quesada di Benedetta Buttiglione Salazar • 42
✺ Anziché
temere il futuro bisogna costruirlo ✺ di Barak Obama • 90
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DI
I QUADERNI DI
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FERDINANDO ADORNATO
DIRETTORE Renzo Foa
CAPOREDATTORE Gloria Piccioni PROGETTO GRAFICO E IMPAGINAZIONE
Stefano Zaccagnini
CARI LETTORI, liberal bimestrale ha ceduto il posto al quotidiano, ma non vogliamo farvi mancare le riflessioni e gli approfondimenti a cui i nostri fascicoli vi avevano abituato. Ecco dunque i Quaderni di liberal, che usciranno tre volte l’anno e che potrete trovare in edicola come supplemento al quotidiano
Supplemento al numero in corso di liberal
N
Scommettere contro gli Stati Uniti è uno sport praticato anche da molti americani. Può andare di moda, ma non ha mai pagato…
OTIZIA DELLA MIA MORTE ESTREMAMENTE ESAGERATA»
scriveva in un telegramma Mark Twain. L’espressione «estremamente esagerata» bene si confà anche alle continue, periodiche previsioni di un declino americano. In effetti sin dai primi momenti successivi alla conquista dell’Indipendenza, c’è stato chi ha predetto la fine, il declino o la scarsa importanza dell’America. L’unica variazione sul tema consiste nell’attribuzione dell’eclissi degli Stati Uniti alle debolezze interne o alla incomparabile superiorità di chi offuscherà il paese nordamericano. Scommettere contro gli Stati Uniti - uno sport praticato persino da diversi americani - può andare di moda, ma non ha mai pagato. E non pagherà finché gli Stati Uniti resteranno fedeli ai principi fondamentali e interrelati sui quali si fondano: la centralità della libertà individuale, l’apertura a nuove idee e opportunità e l’ottimismo che ha spinto nel nuovo mondo moltissimi dei nostri avi. Certo, tali convincimenti si possono ritrovare - del tutto o in parte, in maggiore o minore misura - in quasi tutte le nazioni del pianeta e non sono, quindi, appannaggio esclusivo degli Stati Uniti. Si può persino ritenere che alcuni paesi dimostrino di aderire ai suddetti precetti più di quanto non lo facciano gli Stati Uniti per alcuni aspetti di natura economica, politica o culturale. Ma soltanto in America sono stati riuniti e concentrati nel modo in cui abbiamo assistito nel corso della storia degli Usa. È questa la base di quello che può definirsi «eccezionalismo» americano, la caratteristica che induce i sostenitori del declino a darsi all’alcool o a cadere nella confusione mentale più di chiunque altro. Inizialmente dopo la fondazione degli Stati Uniti d’America, molti eu✵ John Bolton ✵
IL DECLINO IMMAGINARIO
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liberal 1•2008
[Il declinoimmaginario…] ropei ritenevano che non fossero tante le possibilità di sopravvivenza del nuovo Stato e ancora meno quelle che potesse prosperare. E, in effetti, il risultato finale era ancora incerto: è per questo che la guerra del 1812 contro la Gran Bretagna viene spesso definita seconda guerra d’indipendenza. Eppure, mentre l’Europa si autoconsumava con i suoi conflitti interni, gli Stati Uniti crescevano e i piccoli insediamenti sulla costa atlantica si tramutavano in un grande paese continentale. Purtroppo la crescita fu macchiata dalla piaga della schiavitù e gli Stati Uniti vissero una fase di dilaniante guerra civile, particolarmente sanguinaria anche per l’epoca, volta ad abolire la schiavitù e conservando, al contempo, l’unità faticosamente conquistata. Secondo le previsioni di molti, i costi umani, politici ed economici della guerra avrebbero avuto gli stessi effetti letali causati da altre terribili guerre civili, invece accadde esattamente l’opposto. Nel periodo in cui il paese risorgeva dalle ceneri dei campi di battaglia della guerra civile, prendeva corpo la rivoluzione industriale, il West veniva unificato al Nord e al Sud del paese e, alla fine del XIX secolo, soltanto chi non voleva vederlo poteva ignorare l’emergere dell’America sulla scena mondiale. In realtà, l’espansione ad ovest degli Stati Uniti ha costituito l’unica esperienza «imperialista» realmente duratura del XIX secolo, dato il successo del processo d’integrazione dei territori occidentali entrati a far parte dell’Unione quali Stati paritetici. L’Europa non vi prestava forse la dovuta attenzione o non capiva a fondo ciò che stava accadendo: l’America si affacciava sulla scena mondiale mentre l’Europa aveva lo sguardo rivolto altrove. Gli europei in generale - e i sostenitori del declino in particolare - tendono quindi ancora a ignorare la storia statunitense precedente al XX secolo. Sostengono implicitamente che quanto è accaduto durante il primo secolo di vita degli Usa non sia rilevante per comprendere ciò che è avvenuto nel secolo successivo e lo sia ancora meno in relazione al terzo secolo di vita del paese oggi dinanzi a noi nel XXI secolo. Questo non significa semplicemente ignorare la storia, bensì anche non avere 6-7
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[JohnBolton]
Richard Hamilton, “My Marilyn (past-up)” 1964, foto e olio su tela, Museum Ludwig, Colonia. Nella pagina d’apertura: Peter Philips, “For Men Only. MM and BB Starring” 1961 (part.), olio e collage su tela, Centro de Arte Moderna, Lisbona
cognizione dei principi comuni della libertà, della creatività e dell’ottimismo ai quali si è ispirata l’America nel XIX secolo e che ne hanno fatto una potenza mondiale nel XX. Naturalmente ha contribuito ad alimentare l’eccezionalismo americano il fatto che molta parte del resto del mondo abbia continuato a restare sensibile al fascino dei governi totalitaristici o autoritari, o che si sia lasciato trasportare verso le varianti del fascismo o del comunismo. Le tre grandi guerre del XX secolo, due tradizionali e una guerra fredda sono state, ciascuna a proprio modo, un riflesso del conflitto tra i fondamenti dello Stato americano e le alternative prodotte nel resto del mondo. L’Europa ha più volte rimproverato agli Stati Uniti l’atteggiamento isolazionistico assunto dopo la prima guerra mondiale, come se gli Usa fossero responsabili dell’ascesa del fascismo e del comunismo in Europa nel periodo post-bellico. A dire il vero, sebbene gli Stati Uniti non abbiano riconosciuto i Trattati di Versailles e la Lega delle Nazioni, si sono tuttavia impegnati attivamente a livello economico e diplomatico per il controllo degli armamenti per tutto il periodo tra le due guerre. Se l’Europa non è riuscita a sfuggire alla morsa del totalitarismo e il progetto della Lega delle Nazioni non è andato a buon fine, non si vede quale differenza avrebbero potuto fare gli Stati Uniti. Molti sostenitori del declino individuano nel 1945 l’inizio dell’indebolimento del dominio americano: un periodo in cui la potenza statunitense aveva raggiunto il suo apice, da tutti riconosciuto, e non avrebbe quindi potuto fare altro che diminuire. Naturalmente poiché l’Europa giaceva fiaccata dalle ferite che si era autoprocurata, si trattava di sapere se sarebbe risorta, come poi fece grazie agli aiuti affluiti tramite il piano Marshall. È naturale che la rinascita dell’Europa abbia reso gli Stati Uniti, in termini relativi, un po’ meno l’unica superpotenza. Ma c’è qualcuno che ritiene che l’America avrebbe dovuto agire diversamente negli anni successivi al secondo conflitto mondiale? Naturalmente no, e questo è tra i pochi dibattiti della storia recente che sembra ormai definitivamente chiuso. Tuttavia, purtroppo, lo spionaggio sovietico ha consentito lo sviluppo di capacità nucleari e l’emergere di una nuova forza economica, mentre l’ideologia comunista ha accelerato la deriva verso la guerra fredda.
Le tre grandi guerre del XX secolo, due tradizionali e una fredda, sono state un riflesso del conflitto tra i fondamenti degli Usa e le alternative prodotte nel resto del mondo
[Il declinoimmaginario…] Negli anni della guerra fredda sono state prodotte numerose teorie per spiegare l’impossibilità della vittoria americana. Inizialmente alcuni ritenevano che le fragili democrazie europee occidentali del dopoguerra sarebbero cadute sotto il comunismo, così come era avvenuto per i paesi dell’Europa centrale e orientale. Ma ciò non è avvenuto. Poi furono fatte previsioni secondo cui Unione Sovietica e Stati Uniti si sarebbero scontrati fino a raggiungere una situazione di stallo, vi sarebbe stata «convergenza» tra capitalismo e comunismo e i due schieramenti avrebbero finito per assomigliarsi. Neppure questo è avvenuto. Il primo mondo ha vinto e il secondo mondo ha perso. Ma ai sostenitori del declino si può rimproverare tutto tranne che non siano ostinati, a loro modo. Hanno previsto che il Giappone avrebbe preso il posto degli Stati Uniti: teoria molto in voga fino allo scoppio della bolla giapponese
Ai sostenitori del declino si può rimproverare tutto tranne che non siano ostinati. Hanno previsto che il Giappone avrebbe preso il posto degli Stati Uniti Poi hanno detto che l’Unione Europea avrebbe inevitabilmente superato gli Usa… degli anni ’90 dal quale il Giappone non si è ancora completamente ripreso. Poi ci è stato detto che l’Unione Europea avrebbe inevitabilmente superato gli Usa: una previsione che diventa sempre meno realistica, vista la costante diminuzione dei tassi di natalità della maggior parte dei paesi europei. Inoltre in nazioni quali l’Irlanda, ai margini dell’Europa, nessuno sembra credere che il progetto di costruzione dell’Ue possa procedere spedito, senza intoppi. Sembra che la democrazia possa passare di moda in Europa (e forse è già successo, dopo una breve comparsa, in Russia), mentre la democrazia americana continua in qualche modo ad andare avanti a tutta forza. Le attuali previsioni di un declino americano si fondano sull’assunto che alcuni paesi una volta appartenenti al terzo mondo (solitamente si fanno i nomi di Cina, India e Brasile) acquisiranno inevitabilmente maggiore peso, anche ove la potenza statunitense non registrasse un vero e proprio declino. Si tratta di un’idea di declino in un certo qual senso più sofisticata: la teoria del declino relativo degli Stati Uniti, anziché un reale deterioramento della situazione economica o una riduzione della potenza militare. Le previsioni riguardo al momento in cui verrà raggiunto l’apice sono discordanti: si fa a gara per anticipare il fausto momento in cui gli Stati Uniti prenderanno il posto che spetta loro nella catena alimentare delle nazioni, anziché starne fuori come fa da 8-9
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[JohnBolton] tanto tempo. Tutto ciò che posso dire è: non restate con il fiato sospeso ad aspettare. I sostenitori della teoria del declino dell’America compiono diversi importanti errori. Innanzitutto tendono a «proiettare» le dinamiche positive registrate da altri paesi all’infinito, nel futuro, facendo lo stesso con i problemi e le difficoltà attuali degli Usa. In secondo luogo ignorano sistematicamente qualsiasi possibilità alternativa che non sia in linea con la loro conclusione preconcetta. In effetti potrebbe essere meno probabile che si configurino tali scenari alternativi rispetto a quelli previsti dai fautori della teoria del declino, ma non per questo impossibile. In terzo luogo quando si pensa a un probabile futuro, quello dell’America finisce per essere sempre configurato come il peggiore possibile, mentre gli «altri», in qualche misura, sono sempre fortunati. Tali lacune analitiche evidenziano l’importanza non soltanto del-
Sembra che la democrazia possa passare di moda in Europa (e forse è già successo, dopo una breve comparsa, in Russia), mentre la democrazia americana continua in qualche modo ad andare avanti a tutta forza l’assunzione di una prospettiva storica di più ampio respiro, ma anche di capire ciò che determina detta prospettiva, sia negli Stati Uniti che negli aspiranti paesi concorrenti. Il rischio più grande che corre l’America è di diventare troppo uguale agli «altri». In Europa, ad esempio, il «principio precauzionale» è oggi consolidato. Secondo tale principio, ogni rischio evitabile dovrebbe - anzi deve - essere evitato. Esso esprime un’idea esattamente contraria a quella che ha mosso gli Stati Uniti nel corso del tempo, resa mirabilmente dal celebre aforisma di David Crocket: «innanzitutto, accertati sempre di aver ragione; poi, vai avanti». Ai suoi tempi Crocket - politico molto più noto di quanto sia apprezzato oggi - e i suoi venivano chiamati «Go Ahead Men» (uomini «vai avanti») e in effetti gli Stati Uniti erano un paese che «andava avanti». L’applicazione del principio precauzionale avrebbe forse potuto evitare gli eventi di Alamo, ma avrebbe altresì fatto perdere il Texas agli Usa e forse anche il resto del nostro attuale territorio nazionale. Allo stesso modo le menti più alte del mondo sono attualmente ossessionate dal riscaldamento del pianeta o «cambiamenti climatici», come li chiamano alcuni adepti. A essere onesti è un’ossessione molto diffusa anche in America. Il presidente ceco, Vaclev Klaus, ha puntualmente sottolineato come il surri-
[Il declinoimmaginario…] Tra venticinque anni potremmo tornare a parlare del “declino” americano e molti sosterranno che sarà già iniziato. Avranno torto, così come si sbagliano oggi
Andy Warhol, “Close Cover before Striking (Pespi Cola)” 1962, acrilico su tela, carta di vetro, Museum Ludwig, Colonia
scaldamento del pianeta abbia preso il posto del socialismo quale principio organizzatore attorno al quale convergono tutte le più alte menti per dare nuove giustificazioni a un maggiore controllo dello Stato sulla nostra vita personale, sostituendo una logica all’altra al fine di conseguire lo stesso obiettivo: un’autorità statale più forte e minori libertà individuali. Qui gli scenari alternativi assumono la massima importanza. Per quanto lo tema, non posso negare che sacrificare la libertà sull’altare del surriscaldamento del pianeta costituisca una reale possibilità per gli Stati Uniti. Se ne sacrifichiamo abbastanza i sostenitori della teoria del declino potrebbero finire per avere ragione, ma per motivi diversi da quelli da loro sostenuti. Infine i teorici del declino americano si basano in parte sull’idea storica che non sussistano più reali minacce per i paesi occidentali perché, secondo alcuni, saremmo giunti «alla fine della storia». Secondo tale logica, venendo meno le minacce, chi avrebbe bisogno di una superpotenza militare che protegga se stessa o gli altri? Secondo questa teoria, quindi, la forza americana sarebbe irrilevante e non se ne dovrebbe tenere conto nel confronto della forza relativa, con conseguente 10-11
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[JohnBolton] indebolimento della posizione degli Stati Uniti nel mondo. Come minimo. La proliferazione delle armi di distruzione di massa (nucleari, chimiche e biologiche) resta una grave minaccia, siano esse nelle mani di Stati canaglia quali Iran o Corea del Nord, oppure nelle mani di terroristi. Tali minacce possono forse essere asimmetriche per il momento, ma non sarebbero per questo meno esiziali per la popolazione di qualsiasi nazione che dovesse subire un simile attacco. Purtroppo dobbiamo oggi constatare che l’Europa non prende seriamente come gli Stati Uniti questo tipo di rischi e tale scarsa preoccupazione potrebbe rivelarsi estremamente pericolosa, sia per l’Europa, sia per gli Usa. Ho adottato una prospettiva storica rispetto alle previsioni del declino americano perché ne sono state formulate molte in passato e si sono spesso rivelate errate. È bene quindi inserire in tale contesto le teorie attuali. Sarebbe tuttavia una leggerezza da parte mia non preoccuparmi del posto che occupa l’America nel mondo. L’autocompiacimento è sempre un rischio e una tentazione alla quale gli Stati Uniti, così come altri paesi, hanno talvolta ceduto. Ma facendo una panoramica sulla storia americana, pur breve se la si considera secondo la mentalità europea, l’autocompiacimento non si è mai radicato a lungo. Indubbiamente, tra venticinque anni potremmo tornare a parlare del «declino» americano e molti saranno pronti a sostenere che detto declino sia già iniziato. Avranno torto, così come si sbagliano oggi. Traduzione di Valentina Maiolini
Jasper Johns, “Flag” 1954/55, drappo, encausto, olio e collage su tessuto The Museum of Modern Art, New York
L’ASCESA
DELLA CINA, LA RINASCITA DELLA RUSSIA, L’AGGRESSIONE DEL FONDAMENTALISMO ISLAMICO, UN NUMERO CRESCENTE DI REGIMI CANAGLIA E UN’ÉLITE BUROCRATICA CHE INDEBOLISCE LE DEMOCRAZIE
CINQUE MINACCE RESTANO ANCORA SENZA RISPOSTA ✵
Newt Gingrich
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G
STATI UNITI STANNO AFFRONTANDO la più grave crisi nel mantenimento del governo del popolo, da parte del popolo e per il popolo dagli anni cinquanta e sessanta del XIX secolo. La mancata elaborazione e attuazione delle necessarie riforme negli anni cinquanta del XIX secolo hanno portato alla guerra più sanguinosa e difficile della storia americana degli anni sessanta del XIX secolo. Si potrebbe affermare che le crisi nelle quali stiamo sprofondando siano paragonabili all’effetto combinato dell’ascesa delle dittature durante la Grande Depressione degli anni trenta del secolo scorso. Tuttavia, la dimensione relativa dell’economia americana e la fondamentale forza del sentimento patriottico americano hanno di fatto consentito agli Stati Uniti di avere la meglio sulla Germania nazista, LI
12-13
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Oggi l’America si sta disgregando. Le esigenze strategiche sono maggiori rispetto a quelle del potere militare sull’Italia fascista e sul Giappone imperialista, nonché sull’impero sovietico cinquant’anni dopo. Quel margine di potere economico, forza culturale e professionalità istituzionale è venuto meno nel corso dell’ultima generazione. Al contempo quell’America è diventata meno abile, i nostri potenziali oppositori si sono moltiplicati e hanno notevolmente accresciuto le loro capacità. Le nostre capacità militari ci hanno effettivamente fuorviato portandoci a sopravvalutare la nostra forza in rapporto ai nostri potenziali oppositori. La nostra capacità militare è un indicatore ritardato che riflette gli investimenti di capitale effettuati in passato nel settore della tecnologia, dei beni strumentali e della formazione. Nei nostri romanzi recenti, Pearl Harbor e Days of Infamy, Bill Forstchen, Steve Hanser e io abbiamo iniziato a fornire una sorta d’interpretazione attiva della storia descrivendo in che modo e fino a che punto le cose sarebbero andate molto peggio se l’ammiraglio Yamamoto avesse guidato la flotta giapponese a Pearl Harbor il 7 dicembre 1941. Un leader aggressivo, tecnologicamente avanzato e pronto ad assumersi rischi avrebbe danneggiato gli Stati Uniti molto di più di quanto abbiano effettivamente fatto i giapponesi. Nell’effettuare ricerche sulla fine degli anni trenta del secolo scorso in Asia, ciò che stupisce maggiormente è la portata dell’illusione britannica. I piani per proteggere la Malesia erano risibili e impossibili. Le risorse necessarie per controbilanciare la crescente minaccia della Germania nazista resero letteralmente impossibile fornire opportunità per la difesa degli interessi britannici in Asia. Tuttavia la burocrazia e la leadership politica della Difesa britannica non riuscirono a contrastare efficacemente la crescente sfida giapponese e a concepire intellettualmente un significativo cambio di strategia o un notevole cambio di risorse. Nelle prime settimane di guerra il risultato fu una catastrofica e umiliante sconfitta ad Hong Kong, in Malesia, a Singapore e in Birmania. L’incapacità di essere onesti con riferimento alle minacce in termini di sicurezza e di risorse realistiche necessarie ad affrontare queste minacce portarono a una delle più grosse umiliazioni strategiche della lunga storia dell’impero britannico. Oggi l’America si sta disgregando dirigendosi verso una sconfitta decisiva, paragonabile a quella subita dai britannici nel 1941. Le esigenze strategiche sono ben maggiori rispetto a quelle del potere militare immediato. Esse devono comprendere il potere intellettuale, la forza economica, una chiara comprensione di ciò che minaccia l’America e di ciò che deve essere fatto per affrontare queste minacce, nonché sistemi istituzionali definiti sulla base dei risultati e della professionalità piuttosto che
[Minaccesenza risposta…] sui processi e sulla burocrazia. Su ciascuno di questi fronti, gli Stati Uniti si stanno disintegrando e non si registrano segni di significativi sforzi di riforma in vista. Nel caso di un grande paese la pianificazione strategica dovrebbe avere un orizzonte temporale che varia dai 15 ai 25 anni. Nella Commissione Hart-Rudman, che ho avuto il privilegio di presiedere e che il generale Boyd ha guidato così efficacemente in qualità di direttore esecutivo, abbiamo passato in rassegna 25 anni cercando di avviare sforzi fondamentali per capire che cosa dovesse essere fatto. Il rapporto che ne è scaturito, pubblicato nel marzo 2001, ben resiste alla prova del tempo, ma gli sforzi fatti da allora per adeguarlo al passare del tempo sono stati deboli e inefficaci.
Una delle vere tragedie delle ultime due amministrazioni americane è stata la riluttanza a comprendere la portata e la difficoltà delle sfide poste alla sicurezza americana per poterle poi contrastare… Le maggiori minacce strategiche per gli Stati Uniti derivano da: un’ascesa del sistema cinese di potere economico, scientifico e militare; una rinascita della Russia autocratica, che utilizza la ricchezza energetica per ricostruire il potere militare in un paese ove una base demografica in declino si va via via disgregando; uno sforzo aggressivo e mirato dell’ala fondamentalista e irriconciliabile dell’Islam, che mira a sconfiggere l’Occidente, eliminare Israele e ad imporre una dittatura islamica fascista; un numero crescente di cosiddetti regimi «canaglia» desiderosi di acquisire armi di morte e di distruzione di massa per tutelarsi nei confronti delle democrazie e consentire loro d’imporre il proprio volere sugli stati confinanti; e un sistema emergente di pseudo-legalità sostenuta da un’élite burocratica internazionale che indebolisce le democrazie, tutela i malvagi e i perversi e assorbe le energie virtuose e la dignità dei paesi, convogliandole in manovre infinite di pura e semplice impotenza e disonestà. Queste cinque minacce si stanno evolvendo in parallelo e talvolta sulla base di un coordinamento sinergico fra loro. Ogni grande e nobile strategia americana dovrebbe prendere in considerazione queste cinque minacce nel loro complesso e dovrebbe essere studiata per sconfiggerle tutte. Una delle vere tragedie delle ultime due amministrazioni americane è stata la riluttanza a comprendere la portata e la difficoltà delle sfide poste alla sicurezza americana per poterle poi contrastare. Gli attuali sforzi americani sono troppo limitati, privi di immaginazione e troppo timidi. L’America deve avviare un profondo e significativo dibattito sulle sfide che deve raccogliere, sulle minacce che potrebbero distruggerla e le opzioni 14-15
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[NewtGingrich] strategiche che devono essere vagliate. L’America deve ridimensionare i suoi obiettivi strategici per accettare un suo eventuale declino nel mondo o riformare in modo sostanziale i suoi sistemi al fine di poter conseguire i suoi obiettivi a livello mondiale. Restare a metà strada fra queste due alternative le farà rischiare il disastro. Desidero essere molto chiaro. L’America si trova ad affrontare il rischio molto reale di un sistema cinese più avanzato dal punto di vista scientifico, più efficace dal punto di vista burocratico e con una economia più forte capace di concentrare maggiori risorse sugli strumenti nazionali di potere. L’America deve contrastare la minaccia molto reale dell’autocrazia russa che fornisce armi tecnologicamente avan-
Il recente acquisto della Jaguar da parte di Tata è un simbolo significativo dello spostamento del potere economico mondiale. Per essere più dinamica, l’America deve avviare grandi e significative riforme dei sistemi nazionali zate a ogni nazione o movimento interessato a intaccare ed erodere il potere americano e desideroso di creare alleanze contro il potere americano su base opportunistica. L’America si trova ad affrontare il pericolo molto reale che le forze del fanatismo scita (prevalentemente finanziato e guidato dall’Iran) e del fanatismo sunnita (prevalentemente saudita e finanziato a livello locale, ma in crescente coordinamento con l’Iran) abbiano acquisito slancio strategico sia a livello politico che in termini di capacità terroristico-militari. L’America si trova ad affrontare lo straordinario pericolo che gli Stati «canaglia» e i movimenti «canaglia» acquisiscano sistemi nucleari, radiologici, biologici e informatici che potrebbero arrecare enormi danni all’America e ai suoi alleati. L’America deve affrontare il problema crescente di una pseudo-legalità che sostiene una burocrazia internazionale impenetrabile, irresponsabile e spesso corrotta che ha effettivamente reso più difficile risolvere i problemi in Rwanda, Sudan, Zimbabwe e in altre zone caratterizzate da terrorismo, omicidi, cleptocrazia e brutalità. Di fronte a queste grosse sfide sistemiche, la generazione attuale dei leader di entrambi i partiti si rifiuta di comprendere la portata e l’urgenza dei problemi da affrontare per continuare a garantire all’America prosperità, sicurezza e libertà. L’istruzione è una delle componente fondamentali per sostenere il potere strategico americano. Venticinque anni fa, per la precisione nel 1983, nel rapporto A Nation at Risk si affermava che il livello di qualità delle nostre scuole era così basso che se una potenza straniera avesse fatto ai nostri figli ciò che noi stavamo facendo a loro lo avremmo considerato un atto di guerra. Sette anni fa, nel
[Minaccesenza risposta…] 2001, la Commissione Hart-Rudman ammoniva che l’insuccesso della nostra istruzione matematica e scientifica e i mancati investimenti a livello scientifico costituivano una minaccia maggiore rispetto a ogni concepibile guerra convenzionale (e in effetti costituiva la seconda minaccia alla sicurezza americana, superata soltanto dall’utilizzo di un’arma di distruzione di massa in una città americana, probabilmente a seguito di un attacco terroristico). Non abbiamo conseguito alcun risultato nella modernizzazione dei nostri sistemi di apprendimento e con ogni certezza la conseguenza sarà un lento disgregamento, a meno che non si affronti questa crisi silenziosa. Dal punto di vista strategico, l’istruzione è un grande problema di sicurezza nazionale. La forza economica non può essere garantita e sostenuta in un sistema giudiziario, normativo, fiscale, burocratico e sanitario caratterizzato da costi che sono semplicemente insostenibili. Il recente acquisto della Jaguar da parte di Tata è un simbolo significativo dello spostamento del potere economico mondiale. Il varo da parte della Cina di un’impresa commerciale di costruzione nel campo aeronautico è un altro indicatore del fatto che la superiorità che l’Occidente ha avuto negli ultimi due secoli è ormai finita. Se vogliamo che l’America sia l’economia più dinamica del mondo per i nostri figli e per future generazioni, dovremo avviare grandi e significative riforme dei nostri sistemi nazionali. Nella Seconda guerra mondiale abbiamo sconfitto la Germania nazista, l’Italia fascista e il Giappone imperialista in meno di quattro anni dall’entrata in guerra dell’America. Per l’esattezza tre anni e otto mesi trascorsero da Pearl Harbor, il 7 dicembre 1941, alla resa del Giappone nell’agosto del 1945. Oggi ci vogliono 23 anni per aggiungere una pista d’atterraggio all’aeroporto di Atlanta. Di recente il ministero dell’Energia ha annunciato che non completerà l’impianto sperimentale alimentato con carbone pulito la cui costruzione era stata annunciata nel 2003 e che avrebbe dovuto essere Il disgregarsi della nostra economia e del ultimato nel 2008. Ora prevede di nostro sistema d’istruzione rende sempre più varare una nuova versione di quel difficile per l’America competere con la Cina progetto con data di completamene con la Russia. Stiamo ipotecando to nel 2016. I cinesi hanno annunciato che apriranno un impianto di il futuro per sostenere il presente… 16-17
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[NewtGingrich] questo tipo a Beijing nel 2009. La tecnologia che sarà brevettata e fornita in concessione a livello mondiale sarà probabilmente cinese e non americana. Il ministero del Commercio ha annunciato il fallimento di un progetto informatico da 1,3 miliardi di dollari e di dovere per questo effettuare il censimento del 2010 con 600mila lavoratori interinali armati di carta e penna per un costo di 15 miliardi di dollari (rispetto ai 6,6 miliardi di dollari che furono necessari nel 2000). Il divario fra il mondo che registra successi e quello che registra insuccessi è stato ben descritto nel mio recente libro, Real Change, e su YouTube in un video intitolato FeEx versus Feeral Bureaucracy. Il disgregarsi della nostra economia e del nostro sistema d’istruzione rende sempre più difficile per l’America competere con la Cina e con la Russia. L’incapacità di finanziare appieno un sistema globale di sicurezza nazionale rende impossibile ricapitalizzare il sistema militare americano. Proprio perché disponiamo di un numero troppo limitato di uomini e di risorse stiamo ipotecando il futuro per sostenere il presente. Per il fatto di essere troppo timidi, cauti e privi di immaginazione, dipendiamo troppo dai nostri molteplici concorrenti. La storia ha dimostrato che questa è una scommessa molto pericolosa. Ci ritroviamo a essere danneggiati dal «politically correct» e incapaci di avviare un dibattito onesto su come affrontare le minacce che si registrano nel mondo. Le parti delle recenti guide elaborate dal Dipartimento per la Sicurezza nazionale e dal Centro per le attività antiterroristiche nazionali che chiedono ai funzionari di non utilizzare termini islamici nel fare riferimento al terrorismo sono enormemente auto-distruttive. Se non saremo in grado di avviare un dibattito onesto sulla natura delle minacce che dobbiamo fronteggiare non potremo elaborare strategie per contrastarle. È semplicemente suicida considerare la rete di al-Qaeda soltanto come «un’organizzazione politica illegittima, sia terroristica che criminale» ignorando, al contempo, la base religiosa radicale che la sostiene e gli altri gruppi che costituiscono l’ala fondamentalista e irriconcialibile dell’Islam. Chiunque non se ne renda conto non dovrebbe lavorare per il Dipartimento della Sicurezza nazionale. Il fatto che il sistema informativo e diplomatico americano non sia riuscito a capire che apparentemente i nord-coreani ci mentivano da anni mentre aiutavano i siriani a costruire in gran segreto un reattore nucleare dovrebbe allarmare tutti gli americani. Dopo un anno di sforzi e più di 500 milioni di dollari di aiuti all’esercito libanese, siamo rimasti inerti di fronte a Hezbollah che mostrava la sua capacità d’intimidire e dominare il governo libanese. Dopo tutto il gran parlare che si è fatto della necessità di perseguire i siriani per avere assassinato politici libanesi; dopo tutte le promesse fatte alle Nazioni Unite
[Minaccesenza risposta…] Un petrolio caro rende i dittatori più sicuri, aggressivi e indebolisce le economie dei paesi democratici. La mancanza di una politica energetica americana è un insuccesso strategico sulla necessità di smantellare Hezbollah in cambio di moderazione da parte d’Israele, sono Siria e Iran che vincono in Libano e in America ed è la democrazia che viene sconfitta. Il consolidamento di Hamas a Gaza è un’ennesima vittoria del terrorismo e una sconfitta della dignità e della democrazia. È certo uno dei misteri del nostro tempo come i nostri diplomatici possano parlare di ricerca della pace fra terroristi e Israele mentre riprendono slancio le forze del male e della distruzione. Soltanto coloro che vogliono scientemente illudersi possono guardare quello che sta accadendo senza ritenere che stiamo correndo rischi sempre più gravi. Nei paesi più poveri del mondo una decennale campagna contro i generi alimentari geneticamente modificati con l’ausilio della scienza hanno portato a una catastrofica diminuzione delle riserve alimentari. Nei regimi dittatoriali, l’assenza dello Stato di diritto riduce il desiderio degli agricoltori di produrre. Mentre gli europei e i loro amici liberali contrari alla scienza attaccano scientemente questo tipo di agricoltura potenziata dalla scienza, i poveri pagano con la vita questa ossessione di opporsi alla scienza. In mancanza di una seria e profonda strategia energetica nazionale, gli Stati Uniti hanno consentito che la domanda e l’offerta di energia diventassero decisamente squilibrate. Quest’anno saranno acquistate più auto in Asia che negli Stati Uniti. Questo record storico segna un notevole aumento della domanda di energia dato che cinesi, indiani e altre popolazioni diventano sempre più ricchi e desiderano una vita migliore. L’unica risposta pratica per il prossimo decennio sarà quella di aumentare notevolmente l’offerta. Nel lungo periodo vi saranno potenzialmente molte scoperte tecnologiche, ma nessuna di esse avrà un impatto nei prossimi anni. Il fatto è che si potranno trovare molte energie a patto che i politici lo vogliano. Nei diciotto mesi passati il Brasile ha scoperto due grandi giacimenti di petrolio nell’Atlantico. Questi due giacimenti sono così grandi da rendere il Brasile uno dei principali esportatori di petrolio. Oggi è illegale ricercare petrolio e gas nell’Atlantico al largo delle coste degli Stati Uniti. È illegale ricercare petrolio e gas nel Pacifico al largo delle coste degli Stati Uniti. È illegale ricercare petrolio e gas nel Golfo del Messico orientale. È illegale ricercare petrolio e gas nell’Alaska del Nord. Questa è una politica irrazionale e pericolosa. Con un costo di 20 dollari a barile gli Americani si possono permettere d’ignorare il loro potenziale in termini di risorse. Con un costo di 100 dollari a barile è pericoloso per l’economia e per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti adottare una politica che consenta deliberatamente ai dittatori stranieri di definire il sistema energetico mondiale. Un petrolio molto caro rende i dittatori più 18-19
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[NewtGingrich] sicuri, potenti e aggressivi. Un petrolio molto costoso indebolisce le economie dei paesi democratici e rafforza quelle dei paesi dove regnano dittatori e autocrati. Un petrolio molto caro fornisce a Russia e Iran molte più risorse da investire per competere con gli Stati Uniti. Un petrolio più costoso fornisce ai sauditi molti più fondi con i quali finanziare la propaganda estremista wahabita in tutto il mondo. La mancanza di un’efficace politica energetica americana è un insuccesso strategico che è secondo soltanto al crollo dell’istruzione, nelle sue implicazioni di lungo periodo, in quanto indebolisce l’America e ci rende più vulnerabili. Infine, dato che le armi nucleari, biologiche e dell’informazione continuano a diffondersi, continua a crescere il pericolo che gli americani siano colpiti in modo disastroso. Abbiamo davvero bisogno di un sistema di sicurezza nazionale pratico, rafforzato e basato sulla realtà, in grado di gestire tre diversi eventi nucleari in tre diverse città nello stesso giorno. I nostri sforzi attuali in questo campo sono troppo limitati, burocratici e non in linea con la dura realtà dell’attuazione di misure di contrasto in caso di crisi. Sono questi alcuni dei dibattiti fondamentali che dobbiamo avviare se vogliamo effettuare le riforme necessarie a fornire ai nostri figli e alle future generazioni le migliori prospettive di vivere nel paese più prospero, libero e sicuro del mondo. Questa è la dura strada che porta a molte fondamentali riforme. Ben più ardua è la strada dell’illusione che porta alla sconfitta strategica. Traduzione di Monica Avvisati
Edward Hopper, “Nighthawks” 1942, olio su tela, The Art Institute of Chicago, Chicago. Nella pagina precedente: James Rosenquist, “Untiled (Joan Crawford Says…)” 1964, olio su tela, Museum Ludwig, Colonia
LA CINA COSTITUISCE UN PROBLEMA PER WASHINGTON TANTO PER BARAK OBAMA CHE PER JOHN MCCAIN
Viene da
David Hockney, “A Bigger Splash” 1967, acrilico su tela, Tate Gallery, Londra
PECHINO l’unica vera alternativa ✵
C
Barthélemy Courmont
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ON L’AVVICINARSI DELLE OLIMPIADI DI PECHINO, che si annunciano già come la consacrazione dell’ingresso della Cina nella ristretta cerchia delle superpotenze (se non, addirittura, delle mega-potenze, come sostengono alcuni analisti), gli Stati Uniti continuano a proporre un’analisi ambivalente dell’emergere della potenza dell’Impero di Mezzo e s’interrogano addirittura su un possibile declino degli Usa conseguente a tale radicale riassetto dell’ordine mondiale. Oltre Atlantico (o bisognerebbe forse dire al di là del Pacifico in riferimento alle relazioni tra Cina e Stati Uniti), in un contesto di recessione economica e di forti interrogativi sul futuro della potenza americana, i propugnatori della teoria del declino si danno alla pazza gioia in questo «nuovo secolo», che non sarebbe il secolo degli Usa, piaccia o no ai profeti entusiasti di inizio anni Novanta, bensì quello della Cina. In tale scenario è difficile per l’amministrazione americana restare ottimista ed è difficile per i due candidati alla prima carica dello Stato, Barack Obama e John McCain, restare insensibili dinanzi all’ascesa del paese asiatico. Pechino costituisce un problema per Washington. Alcuni osservatori, tra cui il
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primo ministro di Singapore e alleato degli americani Lee Hsien Loong, non hanno remore a parlare di «ossessione cinese», come fa lo stesso Lee Hsien Loong in un’intervista rilasciata al Wall Street Journal. Posti dinanzi ai limiti di una politica di contenimento che, nel caso della Cina, potrebbe nuocere all’economia americana e nonostante le divergenze esistenti in ordine all’atteggiamento da adottare nei confronti del paese orientale, Washington sembra seguire la via del «contenimpegno», che consiste nell’isolare politicamente Pechino mantenendo tuttavia una partnership attiva in ambito economico e commerciale. Riuscire a contenere le ambizioni di Pechino, continuando nel contempo ad avere relazioni amichevoli con la potenza asiatica non sarà cosa facile per Washington. Nessuno può chiudere gli occhi dinanzi al dinamismo economico della Cina e alla progressiva apertura dei suoi mercati. Dopo più di sessanta anni di relazioni diplomatiche con la Repubblica di Cina (Taiwan), il Costa Rica ha ad esempio ceduto al miraggio economico cinese e ha riconosciuto il regime di Pechino. Così come questo piccolo Stato centroamericano, Washington non più rimanere insensibile al mercato più grande del globo. Una minaccia militare? E’ un fatto, quindi, che la Cina presenti questa forte attrattiva dal punto di vista economico; nondimeno l’amministrazione americana la considera se non proprio un nemico o una minaccia alla sicurezza degli Usa, almeno un rischio potenziale. Alla metà degli anni Novanta, molti esperti americani sottolineavano il rischio di un futuro scontro con Pechino, argomentando sull’espansione dell’economia cinese e sulle velleità espansionistiche della Cina che, prima o poi, si sarebbero scontrate con gli interessi di Washington. In un’opera dal titolo altisonante «La futura guerra con la Cina», due politologi annunciavano quello che, a loro avviso, sarebbe stato uno scon-
Contenere le ambizioni della potenza asiatica continuando ad avere relazioni amichevoli non sarà cosa facile
[Viene da Pechinol’unica vera…] tro inevitabile1. I sospetti continuarono a sussistere dopo l’episodio dell’aereo spia americano sull’isola di Hainan, il Rapporto Cox e il bombardamento dell’ambasciata cinese a Belgrado durante la guerra in Kossovo e poi, costantemente, dall’insediamento di George W. Bush alla Casa Bianca. In quest’ottica, la visita che Donald Rumsfeld effettuò in Cina nell’ottobre del 2005, pur testimoniando un riavvicinamento tra Pechino e Washington, dette l’occasione all’ex responsabile del Pentagono di fare le sue rimostranze per l’aumento del budget della Difesa cinese e i recenti sviluppi nel settore balistico. Se a ciò si aggiungono le critiche per l’assenza di democrazia, la Cina non si presenterebRichard Hamilton, “Interior II” 1964 (part.), be, agli occhi degli americani, in maniera molto diversa da uno Stato olio, collage, relievo canaglia. Il successore di Rumsfeld al Pentagono, Robert Gates, è di alluminio su legno, Tate Gallery, Londra molto più pragmatico e ritiene che, attualmente, non sussistano ragioni di considerare la Cina un concorrente degli Stati Uniti. Però è costretto a confrontarsi con il sempre influente vicepresidente Dick Cheney e con numerosi alti funzionari del Pentagono, in palese disaccordo con il loro capo. Quanto ai candidati alla presidenza, se pure continuano a credere nella necessità di un maggiore dialogo con Pechino, tuttavia non nascondono il timore di vedere emergere la Cina, tanto da competere con gli Stati Uniti, preoccupati segnatamente dal vedere aumentare in maniera esponenziale le capacità militari del grande paese asiatico. La Cina nutre indubbiamente ambizioni strategiche senza paragoni rispetto a quelle che poteva avere sinora con il suo esercito mal equipaggiato. Si pensi in particolare alla questione sensibile delle controversie territoriali con il Vietnam, riguardanti le isole del mare Cinese meridionale e, soprattutto, alla questione taiwanese che, dopo due anni di stasi, sembra porre nuovi problemi a seguito delle dichiarazioni del presidente Chen Shui-bian sul diritto all’indipendenza. Sono molti gli esperti americani preoccupati da un possibile scontro tra Cina e Taiwan e che riflettono sull’eventuale posizione di Washington in caso di una nuova crisi, nonostante i recenti segni di riavvicinamento, definiti «storici», tra i due tradizionali rivali. Appare quindi esagerato vedere nell’ammodernamento delle capacità di difesa cinesi il desiderio di contrastare la potenza di fuoco americana che i militari cinesi considerano comunque inarrivabile. Inoltre tali critiche appaiono un po’ fuori luogo in quanto formulate da un paese che negli ultimi quattro anni ha aumentato sensibilmente gli stanziamenti per la Difesa. Washington non può quindi fare altro che accettare la forza emergente dell’Impero di Mezzo e prendere atto delle sue ambizioni restando comunque all’erta. Ciò non esime tuttavia gli americani dal contestare alcune posizioni di Pechino, 22-23
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[BarthélemyCourmont] quale ad esempio quella recente sulla questione del Darfour e il rifiuto cinese di appoggiare le sanzioni nei confronti Khartoum. Interlocutori politici o rivali? I timori nei confronti di Pechino contrastano con la partnership politica spesso ostentata dai leader americani che vedono con favore «la crescita pacifica» del presidente cinese Hu Jintao e che cercano di stabilizzare le relazioni diplomatiche con la Cina. Su questa questione esiste, tuttavia, una netta divergenza tra il Dipartimento di Stato, aperto al dialogo con quello che oggi è ormai un paese partner, e il Pentagono, che teme di vedere l’ascesa cinese tramutarsi in ambizioni politico-strategiche in potenziale conflitto con gli interessi della prima potenza mondiale. Sarebbe errato pensare che gli schieramenti all’interno del Congresso - il maggiore artefice della politica estera americana - vedano opporsi da una parte i Democratici, più aperti al dialogo con Pechino e, dall’altra, i Repubblicani, più fermi sulle questioni strategiche. Le divergenze sono molto più sfumate e vanno al di là di ogni appartenenza politica. In un certo modo si potrebbe dire che, con l’avvicinarsi delle elezioni, i parlamentari fustighino legittimamente Pechino per il mancato rispetto delle regole democratiche (gli scontri in Tibet forniscono in tale senso forti argomentazioni ai Democratici che, attraverso alcune figure di spicco, esprimono profondo dissenso nei confronti della natura del regime cinese) e insistono, una volta eletti, sulla necessità di instaurare una partnership commerciale con il gigante asiatico. E gli Stati Uniti sono in piena campagna elettorale. Nell’affrontare le questioni strategiche, si pone spesso l’accento sulla cooperazione con Pechino in materia di lotta al terrorismo e contro la proliferazione delle armi di distruzione di massa - tra le priorità di Washington - ambiti in cui, secondo i parlamentari e gli analisti americani, Pechino si mostrerebbe piuttosto conciliante. Secondo alcuni, quindi, la Cina potrebbe essere un interlocutore per Washington, ma non ancora un amico e ancora meno un alleato. In realtà, i margini di manovra politica da parte di Washington sono tanto più stretti in quanto, parallelamente ai problemi di ordine strategico, la Cina è diventata una potenza commerciale che impone rispetto e della quale i consumatori americani non possono più fare a meno. Gli Stati Uniti sono già Il Dipartimento di Stato oggi debitori della potenza emergente. Le è aperto al dialogo. importazioni americane dalla Cina, già sei volte Il Pentagono teme superiori alle esportazioni verso Pechino, aumentano a un tasso del 30 per cento all’anno e un conflitto potenziale ciò dà luogo a un deficit commerciale da capogicon gli interessi americani
[Viene da Pechinol’unica vera…] Le relazioni Washington-Pechino appaiono caratterizzate da una schizofrenia che da un lato consente alla Cina di contare su una forte crescita economica e dall’altro imbarazza gli Usa ro: più di 200 miliardi di dollari annui. E le previsioni prospettano un accentuarsi di tale tendenza in futuro.
Richard Hamilton, “I am Dreaming of a White Christmas” 1967-68, olio su tela, Kunstumuseum Basel, Basilea
Pechino approfitta degli errori di Washington Tra diffidenza e pragmatismo, le relazioni Washington-Pechino appaiono caratterizzate da una certa schizofrenia che, se da un lato consente alla Cina di contare su una forte crescita economica, che le grandi potenze non possono ignorare, e su un rigore strategico su questioni quali quella dello Stretto di Formosa, dall’altro imbarazza gli Stati Uniti, soprattutto in ragione dei diversi atteggiamenti propugnati nei circoli influenti statunitensi. Così si sovrappongono i concetti di strategic partner e strategic competitor che, a seconda delle circostanze e delle influenze politico-ideologiche, definiscono la percezione della Cina da parte di Washington. Si tratta, quindi, di una riflessione condotta negli Usa in totale isolamento che, scontrandosi con la realtà delle relazioni con Pechino, crea una situazione difficile per Washington, che non può imporre né una partnership duratura, né l’accettazione della Cina quale nemico supremo. La Cina, dal canto suo, senza ostentarlo eccessivamente, si mostra critica nei confronti della politica condotta nella regione dagli Stati Uniti negli ultimi quattro anni (dall’inizio della crisi nucleare nord-coerana all’autunno del 2002 e, ancora di più, dal discorso di George W.Bush su «l’asse del male» del 20 gennaio 2002 che aprì una nuova era nelle relazioni tra Stati Uniti e i cosiddetti Stati canaglia). Riferendosi a Washington, Pechino sottolineava nell’ultimo «Libro Bianco» del dicembre 2006, che «un ristretto numero di paesi hanno fatto molto rumore in ordine a una minaccia cinese (...) cercando di controllarne l’espansione», mentre la Cina «cerca con tenacia di intessere relazioni di cooperazione (vantaggiose per tutte le parti coinvolte) con altri paesi e di promuovere una sicurezza comune». Il «Libro Bianco» rappresenta quindi una risposta diretta alle diffidenze da parte americana e ribadisce le ambizioni di Pechino, segnatamente nella regione asiatica. A Washington, ottimismo in mancanza di certezze Posta dinanzi al clima di pessimismo che si respira a Washington, il segretario di Stato, Condoleezza Rice si è schierata tra gli oppositori della teoria del declino affermando, il 7 giugno 2007, dinanzi al mondo economico di New York che, all’inizio del XXI secolo, gli Stati Uniti non sono un paese in declino, per quanto possa essere impressionante lo sviluppo economico della Cina. Condoleezza Rice ha spiegato che, 24-25
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così come un secolo fa, l’America deve oggi fare fronte a minacce geopolitiche mutevoli, a difficili sfide economiche a livello internazionale e a una forte ondata d’immigrazione interna, prima di respingere le teorie di un declino americano a favore di Cina e India, paesi attualmente emergenti. Si noti incidentalmente che l’ascesa dell’India ingenera a Washington minori timori di quanto non faccia quella della Cina. Per Condoleezza Rice, «Questa idea di declino permea talmente tanti studi e articoli di stampa che l’epoca attuale viene vista in funzione dello sviluppo di Cina e India e, forse, dell’avvento del secolo di un altro paese.Vogliono indurci a credere che l’America abbia fatto il suo tempo e che oggi possa soltanto avviarsi sulla via del declino». Il segretario di Stato ha spiegato come lei respingesse tale ottica a causa del suo innato ottimismo e della fiducia che nutre nelle capacità di reazione messe in campo dagli Usa. «Sono ottimista perché in America ciò che conta non è da dove si proviene. Conta soltanto dove si voglia andare. Siamo naturalmente portati a guardare al futuro con speranza, non con timore; lo consideriamo un qualcosa da plasmare e non un qualcosa cui si debba sottostare». Il Dipartimento Americano vede oggi più che mai la rivalità con Pechino come lo specchio dei valori incarnati dai due paesi. Il segretario di Stato è ottimista, ma raramente rilascia ai media statunitensi dichiarazioni su questi argomenti e ancora più nelle altre grandi democrazie. Il fatto di fare riferimento al declino nazionale, sebbene per evidenziarne l’insussistenza, è in ogni caso rivelatore della disposizione d’animo dell’amministrazione statunitense nei confronti della questione dello sviluppo della Cina: una posizione difensiva in contrasto con l’esaltazione dell’universalità dei valori americani alla fine della guerra fredda. Barthélémy Courmont è ricercatore presso l’Iris, responsabile dell’ufficio Iris di Taiwan. Ha di recente pubblicato il testo: Washington et les Etats voyous. Une stratégie plurielle?, edito da Dalloz ; Hollywood-Washington. Comment l’Amérique fait son cinéma, edito da Armand Colin, e L’autre pays du matin calme. Les paradoxes nord-coréens, anch’esso edito da Armand Colin. Traduzione di Valentina Maiolini
Note 1) Richard Bernstein et Ross H. Munro, The Coming Conflict With China, New York, Knopf, 1997.
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Gli Stati Uniti non rischiano il declino, ma il mondo è diventato troppo complesso per essere gestito soltanto da Washington
GNI PREVISIONE SUL FUTURO DEGLI USA - declino o mantenimento dell’attuale supremazia globale - è connessa con le idee che si hanno circa l’evoluzione della geopolitica mondiale. Occorre pertanto esaminare prima quest’ultima. Gli assetti geopolitici del mondo stanno mutando rapidamente. Fioriscono così numerose ipotesi sul futuro ordine mondiale. Il sistema delle relazioni internazionali presenta oggi - nell’era della globalizzazione - caratteristiche diverse da quelle che lo avevano caratterizzato nelle precedenti epoche storiche. Generalmente, per definire un ordine geopolitico, viene utilizzato il concetto di polarità: al multipolarismo, che aveva caratterizzato il mondo fino al secondo conflitto mondiale, è succeduto dal 1945 al 1991 il bipolarismo Usa-Urss. Esso terminò non tanto per la fine della guerra fredda, quanto per l’implosione dell’Urss. Dopo aver pensato che il mondo potesse essere organizzato con un’alleanza di fatto fra Washington e Mosca - come era avvenuto nella guerra di liberazione del Kuwait - gli Usa, con la presidenza Clinton, avevano puntato sulla creazione di un ordine unipolare, incentrato sulla «iperpotenza» americana sia nell’hard che nel soft power e sulla globalizzazione, intesa come americanizzazione del mondo, e attribuendo all’economia un ruolo preminente rispetto alla politica. All’inizio del secolo XXI - dopo lo scoppio della bolla della new economy -, era però risultata evidente l’impossibilità americana di dominare il mondo in tutte le dimensioni della sua complessità. Tali limitazioni della potenza americana erano state magistralmente messe in rilievo da Jospeh Nye1. Egli aveva sottolineato il fatto che, a differenza di quanto avveniva nel passato, si era verificata nel mondo una crescente diffusione non solo quantitativa, ma anche qualitativa di potenza, ✵ Carlo Jean ✵
IL BISOGNO DEGLI ALTRI
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[Il bisognodegli altri] sia orizzontale che verticale. Orizzontale, nel senso che, oltre i tradizionali strumenti di potenza militari - con cui si misurava la balance of power del mondo multipolare, ma anche di quello bipolare - stavano comparendo altri, altrettanto efficaci: da quello comunicativo a quelli culturale, economico e finanziario. Verticale, da un lato, per l’emergere di nuove grandi potenze dalla Cina all’India e al Brasile - e, dall’altro per il moltiplicarsi di attori geopolitici sia statali che non statali, capaci di utilizzare efficacemente il soft power, al di fuori di ogni controllo da parte degli Stati. Questa situazione è stata recentemente descritta da Richard Haass come il «momento della non-polarità»2. È un modo più elaborato e strutturato per descrivere che il mondo non è più rotondo, ma è divenuto «piatto», dominato dalle interdipendenze e dal prevalere dei flussi sugli spazi. Così, il sistema delle relazioni internazionali è divenuto imprevedibile e fluido, come già suggerito da Thomas Friedman3. Si è rivelata errata la previsione di Francis Fukuyama4 che la fine della guerra fredda avesse segnato la fine della storia - beninteso nel senso hegeliano del termine - cioè la vittoria definitiva della democrazia liberale. Essa sarebbe divenuta egemonica ideologicamente. Il Washington Consensus avrebbe inesorabilmente minato gli altri regimi politici, che avrebbero dovuto adeguarsi ai suoi principi e regole. Più corrispondente allo stato del mondo si sono rilevate le previsioni di Samuel Huntington. Egli aveva posto in luce l’impossibilità che società e culture differenti da quelle dell’Occidente ne adottassero i principi etico-politici e istituzionali. Ciò era vero soprattutto nel caso dell’Islam, le cui società sono rimaste claniche e tribali, con i diritti collettivi più importanti di quelli individuali5. La politica dei neoconservatori americani - tanto influenti nell’amministrazione Bush dopo l’11 settembre - è derivata anche dalla consapevolezza che le previsioni di Fukuyama non si erano verificate, ma che lo avrebbero potuto con l’utilizzazione della «finestra di opportunità», consentita agli Usa dalla loro enorme superiorità militare ed economica. Mentre nella storia le potenze egemoni sono sempre state a favore del man28-29
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[CarloJean] Andy Warhol, “Cartons superposés de Brillo, Del Monte et Heinze” 1964, serigrafia su legno, Collezione privata, Bruxelles Nella pagina precedente: Andy Warhol, “Single Elvis” 1964, serigrafia su acrilico su tela, Ungarisches-Ludwig-Museum, Budapest.
tenimento dello status quo, gli Usa hanno così ritrovato appieno la loro anima «missionaria» e «rivoluzionaria». Si sono trasformati da «sceriffi riluttanti» del mondo - come lo erano stati nella ex-Jugoslavia e in Somalia - in «gendarmi» che intendono trasformarlo. L’«impero-non impero» americano ha posto la democratizzazione al centro dei suoi fini politici. Come reazione alle difficoltà incontrate oggi si avverte un ritorno a posizioni idealiste, ma più realiste e conservatrici6. L’ultimo tentativo di riprendere tale visione missionaria del ruolo degli Usa nel mondo è stato effettuato da Robert Kaplan7, con la sua proposta di una «Lega delle Democrazie». Essa riprende concetti già formulati da Madaleine Albright, segretario di Stato di Clinton, che in realtà - più che di alleanza formale - parla di caucus delle democrazie. Si tratterebbe di creare una sorta di Onu democratico, che utilizzerebbe come suo braccio armato una Nato globale, estesa alle democrazie asiatiche alleate degli Usa, dal Giappone all’India. Esso dovrebbe avere come finalità ultima la democratizzazione del mondo, cioè l’attuazione della «fine della storia», che Fukuyama dava già per avvenuta. Kaplan propone un programma a molto più lungo termine di quello che era stato formulato dai neoconservatori. Con la costituzione di un blocco delle democrazie, inevitabilmente si formerebbe una Lega delle Autocrazie, forse centrata sulla Shanghai Cooperation Organization (Sco), copresieduta dalla Cina e dalla Russia. Così, il mondo ridiventerebbe bipolare, competitivo, non cooperativo. Nel confronto fra democrazie e autocrazie vincerebbero alla fine le prime. La proposta di Kaplan - ripresa nelle sue linee generali da John McCain - garantirebbe una certa stabilità a un mondo divenuto ingovernabile, per l’assenza di paradigmi unificanti. Del tutto opposta al «missionarismo democratico» sono le visioni dei realisticonservatori alla Kissinger o alla Brzezinski. Essi definiscono le priorità della politica americana in termini tradizionali, di rapporti di potenza, di alleanza e di confronto fra gli Stati, attribuendo ridotta importanza al tipo dei loro regimi politici interni. Gli Usa lo avevano fatto a partire dal viaggio di Nixon a Pechino nel 1972, in cui la Cina comunista era divenuta di fatto alleata degli Usa contro l’Urss. Lo stanno facendo oggi contrapponendo l’Islam sunnita a quello sciita.
Mentre nella storia le potenze egemoni sono sempre state a favore del mantenimento dello status quo, l’impero-non impero americano ha posto la democratizzazione al centro dei fini politici 29
[Il bisognodegli altri] Gli Usa manterranno per decenni ancora la loro posizione dominante nel mondo. Ne rimarranno il centro, a cui farà capo un sistema stellare di equilibri regionali Le alleanze non dipendono dal tipo di regime politico, ma da interessi tradizionali. A tale corrente di pensiero appartiene Robert Zoëllick, già vicesegretario di Stato americano e oggi presidente della Banca mondiale. La «dottrina» che da lui prende nome, mira a rafforzare i legami fra Usa e Cina, determinando quella strana alleanza che viene denominata «Chimerica»8, incentrata sul rafforzamento dell’Apec e sulla trasformazione della Cina in «stakeholder responsabile» del nuovo ordine mondiale di una globalizzazione sino-americana. Concetti del tutto differenti dalla contrapposizione fra unipolarismo, multipolarismo e nonpolarismo sono quelli di unilateralismo e multilateralismo. Qualsiasi ordine mondiale non possiede solo strutture e quantità di potenza. Richiede anche istituzioni internazionali e regole comuni, che prescrivono le procedure con le quali vengono prese le decisioni politiche. Gli Usa sono stati una democrazia prima ancora di avere una politica estera. Per essi, il concetto di sovranità è rimasto westfaliano. Congresso e Senato non riconoscono la loro subordinazione a regole e a scelte fatte da organizzazioni che sfuggono al loro completo controllo. Tale posizione è sempre esistita. Basti ricordare la mancata partecipazione americana alle Società delle Nazioni o l’affermazione di Madaleine Albright che «gli Usa sono multilateralisti quando possono, ma unilateralisti quando debbono». L’unilateralismo, che ha dominato la politica di Bush, è stato alimentato dal disprezzo - ma anche dalla delusione - provata soprattutto nei riguardi dell’Onu, dalle indecisioni del Consiglio di Sicurezza e dall’inefficienza e corruzione di molte istituzioni internazionali. Il problema che oggi si pone agli Usa è che il mondo è divenuto troppo complesso e interdipendente per essere gestito soltanto da Washington, con un sistema istituzionale che non è imperiale, ma che è basato su checks and balances, spesso paralizzante. Gli Stati Uniti avranno perciò sempre più la necessità di essere sostenuti da altri paesi e organismi governativi e non, per affrontare taluni problemi globali, che non sono in grado di gestire da soli: dalla finanziarizzazione dell’economia, alla sua liberalizzazione e deregolamentazione; dalla proliferazione al terrorismo; dai cambiamenti climatici all’energia e allo sviluppo. Il corso della politica americana post-Bush sarà certamente caratterizzato da una maggiore disponibilità alla collaborazione internazionale e anche da un relativo disimpegno dai problemi del mondo. Potranno così responsabilizzare 30-31
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maggiormente gli altri Stati e ritornare a essere non gli unici garanti dell’ordine e della sicurezza internazionali - come sono oggi - ma quelli di riserva o, come si dice, «di ultimo ricorso». Il bene pubblico internazionale da essi prodotto quello della stabilità e della sicurezza internazionali, incluso il libero uso delle vie di comunicazione marittima - rimarrà insostituibile. Non potrà essere fornito da altri. Gli Usa manterranno così, per decenni ancora, la loro posizione dominante nel mondo. Ne rimarranno il centro, a cui farà capo un sistema stellare di equilibri regionali. Le difficoltà incontrate in Iraq - come quelle che dovettero fronteggiare nel Vietnam - non hanno inciso sui «fondamentali» della loro potenza militare, economica e culturale, né sulla loro coesione nazionale. Se si è diffuso l’anti-americanismo - con i panni dell’antibushismo - ed è diminuito l’appeal dell’American Way of Life, la potenza statunitense rimane intatta, così come la loro ricchezza, nonostante le fasi negative del ciclo economico che stanno attraversando. La flessibilità della società e dell’economia americane fanno prevedere che rapidamente gli Usa supereranno la crisi senza entrare in recessione, fatto che peraltro potrebbe provocare il globo-bang economico, temuto da Henry Kissinger9. Nel futuro prevedibile, non vi sarà un declino americano, anche se le capacità degli Usa di gestire direttamente le crisi potranno diminuire. Tale assunto va argomentato dal punto di vista geopolitico, militare, economico, demografico e culturale, cioè avendo riguardo ai principali fattori che determinano i rapporti di potenza a breve, medio e lungo periodo. Sotto il primo punto di vista, il «cuore della terra» della geopolitica classica si è spostato, dopo il primo conflitto mondiale, negli Stati Uniti e vi rimarrà ancora a lungo. La geopolitica favorisce gli Usa. Essi sono posti al centro fra i due oceani che li raccordano con le aree più ricche del mondo: l’Europa da un lato e l’Asia Orientale, dall’altro. Nessun altro Stato gode di una posizione geopolitica tanto privilegiata. Gli oceani, non solo li hanno protetti e li proteggono da pressioni sui loro confini non è realistico ipotizzare minacce dal Messico o dal Canada - ma consentono alle loro poderose forze aeronavali e anfibie di intervenire in ogni punto delle periferie della massa continentale eurasiatica e di controllare le vie di comunicazione marittime dell’intero mondo. Finora hanno protetto la libertà di navi-
Roy Lichtenstein, “Girl with a Ball” 1961, olio su tela, collezione, The Museum of Modern Art, New York. Nella pagina precedente: Jasper Johns, “Three Flags” 1958, encausto su tela, Collezione del Whitney Museum of American Art, New York
La geopolitica favorisce l’America con i due oceani che la uniscono con le aree più ricche del mondo: l’Europa e l’Asia. Nessuno altro Stato gode di una posizione tanto privilegiata…
[Il bisognodegli altri] Il dominio degli oceani costituisce l’aspetto caratterizzante dell’egemonia politicostrategica statunitense. Una superiorità marittima è molto più resistente di una terrestre gazione di tutti, con una capacità di sea control mai raggiunta nella storia, neppure dalla Royal Navy al tempo della pax britannica. Evidentemente, tale capacità conferisce a Washington anche la possibilità di interrompere i traffici commerciali mondiali. Il dominio degli oceani costituisce l’aspetto caratterizzante dell’egemonia politico-strategica statunitense. Come si è già ricordato, una superiorità marittima è molto più resistente di una terrestre. È destinata a durare ancora per decenni. Nessuno Stato può permettersi una «corsa al riarmo navale» con gli Usa. Il dominio degli oceani è completato da quello dello spazio. Gli Usa stanno estendendo le dottrine dell’ammiraglio Mahan dagli spazi oceanici a quelli extra-atmosferici, anche come fallout dello sviluppo delle loro difese anti-missili. Taluni hanno avanzato l’ipotesi che la Cina possa sfidare - nel medio termine, beninteso - la potenza aeronavale americana. Ciò presupporrebbe l’abbandono da parte di Pechino della politica del peaceful rise e, quindi, l’adozione di un’aggressiva politica di potenza nell’intero sistema Asia-Pacifico. Ciò provocherebbe reazioni non solo da parte degli Usa. Infatti, la Cina si isolerebbe, mentre si rafforzerebbe il sistema di alleanze degli Usa nel sistema Asia-Pacifico, estendendolo dal Giappone e dall’Australia all’India ed anche agli Stati dell’Asean, che si raggrupperebbero sotto la protezione americana. La Cina, con lo sviluppo del suo commercio estero, si è trasformata da continente autarchico in un’isola, sempre più dipendente dalle vie di comunicazione marittime controllate dalle Marine degli Usa e dai loro alleati. Inoltre, la sua economia è legata e interdipendente con quella degli Usa. La probabilità di conflitto per Taiwan si è ridotta dopo la vittoria del Kuomintang nelle recenti elezioni nell’isola. Anche se Pechino svolge un’aggressiva azione di penetrazione dall’Asia Centrale, all’Africa e all’America Latina e sul mercato mondiale delle commodities, i suoi rapporti economici con gli Usa e con i loro alleati - particolarmente con il Giappone - sono migliorati e si sono intensificati. In particolare, Pechino ha riunioni semestrali ad alto livello con Washington - Sed (Strategic Economic Forum), in cui non si trattano solo questioni economico-finanziarie, ma anche di sicurezza, di ecologia, di materie prime minerarie e agricole, ecc. «Chimerica», cioè la convergenza di fatto - anche se non formale - fra Cina e America è molto meno una «chimera» di quanto sostengano gli allarmisti del «pericolo giallo». Sono invece in crescita le tensioni fra la Cina e la Russia, poiché la prima sta 32-33
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[CarloJean] aumentando la sua influenza in Asia Centrale fino al Caspio, riattivando con gigantesche infrastrutture (oleodotti e gasdotti, strade e ferrovie, ecc.) l’antica «via della seta» e sottraendo al transito attraverso il territorio russo - e, quindi, al controllo di Mosca - le commodities di cui l’Asia Centrale è ricchissima. Il bilancio militare Usa copre il 50 per cento delle spese militari mondiali. Tale cifra, beninteso, non rappresenta tutta la realtà dei rapporti di forze globali. Gli Usa non dispongono di un «esercito imperiale» in grado di controllare i territori conquistati con operazioni militari «lampo». Mancano anche di un corpo di funzionari coloniali analogo a quello di cui disponevano gli Stati europei. Le difficoltà incontrate in Iraq sono però state uno stimolo per il cambiamento. Lo dimostra la strategia del generale Petraeus di dividere le tribù e di metterle l’una contro l’altra. L’Islam è stato diviso. La rivalità fra sunniti e sciiti ne sta assorbendo le energie. Sta avendo successo una politica di divisione del campo avverso, simile a quella praticata da Kissinger e da Nixon nei riguardi del blocco comunista sino-sovietico. Con l’Iran, la politica Usa è estremamente abile. Gioca come il gatto fa con il topo, alternando incentivi e minacce. Lo dimostra il rapporto Nie, seguito da smentite, nonché l’andamento dei negoziati con cui gli Usa cercano di ottenere l’appoggio iraniano per la stabilizzazione non solo dell’Iraq, ma anche dell’Afghanistan. Lo dimo-
Roy Lichtenstein, “Explosion No. 1” 1965, Museum Ludwig, Colonia
[Il bisognodegli altri] stra anche il misterioso bombardamento israeliano in Siria del settembre scorso, effettuato sicuramente con il placet degli Usa per inviare a Teheran un «segnale». Sotto il profilo economico, gli Usa mantengono da 120 anni una quota sorprendentemente costante del Pil mondiale: 32 per cento nel 1913; 26 per cento nel 1960; 22 per cento nel 1980; 27 per cento nel 2000 e 26 per cento nel 2007. L’economia non è soltanto la base della loro potenza militare e politica, ma è stimolata tecRay Johnson, “Elvis Presley nologicamente dagli enormi investimenti del Pentagono nella No. 1” 1955, ricerca e sviluppo scientifico e tecnologico. Gli Usa registrano il tempera e inchiostro su carta di giornale, maggior numero di brevetti; le loro università producono la magCollezione William gior parte dei premi Nobel nel settore scientifico ed economico; la loro produttività e crescita sono superiori a quelli dell’Europa e del Giappone; con le Mnc industrialcommerciali e finanziarie dominano l’economia mondiale; il loro dinamismo tecnologico sarà stimolato dalla rivoluzione delle nanotecnologie e delle biotecnologie, che nei prossimi decenni avrà un impatto analogo a quello delle Ict; gli Usa attirano i migliori cervelli del mondo, consentendo ai giovani la possibilità di tradurre le loro idee e invenzioni in produzioni economiche; hanno anche un numero di ingegneri in proporzione alla popolazione superiore a quelli di ogni altro paese; le loro «grandi scuole» sono ineguagliate nel mondo: in esse si formano gran parte delle élite politiche ed economiche mondiali; e così via. La crisi economica - prima della new economy, poi dei subprime e oggi delle grandi banche - non si è trasformata nella temuta recessione. Occorre tenere presente che, in un’economia capitalista, i cicli economici sono inevitabili e che essi sono occasioni per la riforma dell’economia. La potenza economica americana rimane intatta. Anche l’indebolimento del dollaro ha fatto parte di una politica deliberata, volta a consolidare l’influenza mondiale americana. L’attrattività finanziaria degli Usa per i paesi produttori di petrolio e per quelli dell’Asia Orientale - i quali dispongono di larghi avanzi delle partite correnti - è rimasta inalterata. Tra l’altro, coloro che hanno perso per l’indebolimento dei dollari esistenti nelle loro riserve, temono oggi di essere penalizzati una seconda volta, quando - prima o poi - il dollaro si rafforzerà. Perciò non diversificano le loro riserve, se non in modo marginale. Le dimensioni dell’economia americana e la centralità che possiede nel mondo, proteggono gli Usa da una crisi. Danno anche loro la 34-35
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[CarloJean] possibilità di «scaricarla» sul resto del mondo. L’affermazione di Greenspan, secondo cui «il dollaro è la nostra moneta, ma il vostro problema» è stata una delle non molte affermazioni «azzeccate» dell’ex-capo della Fed. Anche economicamente il mondo rimane «america-centrico». Sotto il profilo demografico, gli Usa si trovano in migliori condizioni rispetto a molte altre potenze: Europa, Cina, Russia e Giappone. Soltanto l’India, il Brasile e l’Indonesia conosceranno un andamento demografico più dinamico. La popolazione Usa crescerà entro il 2030 di oltre 25 per cento, non soltanto grazie all’immigrazione, ma anche al fatto che i cittadini americani di origine latina mantengono un elevato tasso di natalità. Il rapporto di sostegno (numero di lavoratori rispetto a numero di giovani alle scuole e di pensionati) rimarrà negli Usa più equilibrato e, quindi, - nonostante taluni squilibri, soprattutto in campo sanitario - le spese sociali peseranno sulla società e sull’economia meno di quanto avvenga in altri paesi. Gli Usa potranno continuare a finanziare senza problemi la politica estera e militare. A parte questi aspetti quantitativi, contano in demografia anche aspetti qualitativi. Il melting pot americano continua a funzionare. Ispanici, asiatici e musulmani vengono intergrati molto meglio di quanto avvenga in Europa, per non parlare dell’Asia Orientale. Esistono grandi istituzioni di integrazione, quali le università cattoliche - che ricevono ricche donazioni anche dalle foundations, più conservatrici - e l’esercito. In esse viene «scremata» e integrata l’élite dei giovani immigrati e trasmessi i valori tradizionali americani. Oltre le luci esistono anche le ombre poste in evidenza da Samuel Huntington10. L’eccessiva immigrazione di latinos sta eccedendo le capacità di assorbimento del melting pot americano e sta erodendo progressivamente i valori Wasp dell’identità nazionale e della coesione sociale e nazionale degli Usa. Il problema sicuramente esiste, ma non presenta difficoltà comparabili a quelle europee nei riguardi degli immigrati, non soltanto musulmani, ma anche dell’Europa orientale. Ne è prova il fatto che nelle ultime elezioni presiNelle ultime elezioni la massa denziali la massa di americani di religione di americani di religione islamica hanno votato per Bush e che è pratiislamica hanno votato per Bush: camente sconosciuto in America il fenomeno in America è praticamente dell’arruolamento di jihadisti, tanto esteso e sconosciuto il fenomeno preoccupante in Europa. Infine, sotto il profilo culturale e ideologico, dell’arruolamento jihadista
[Il bisognodegli altri] gli Usa continueranno a essere il centro del mondo. I loro grandi istituti di formazione superiore sono ineguagliati. Resta la religione dell’efficienza, della meritocrazia e della competitività individuale. Sicuramente, tali caratteristiche peculiari degli Usa - hanno subito un’attenuazione, anche perché le disuguaglianze all’interno della società crescono. Come è sempre avvenuto nella storia degli Usa, l’aumento della potenza del paese è stato realizzato con l’aumento dei divari sociali. Essi sono però ancora accettati senza particolari difficoltà. Agisce, al riguardo, il patriottismo americano, stimolato da una forte religiosità. Essi distinguono sempre più l’America, dall’Europa divenuta secolare, scettica e rinunciataria.
Ci siamo troppo abituati alla confortevole leadership americana, per essere capaci di farne a meno. Non solo contro gli Usa, ma anche senza di essi, ci dividiamo. In questo modo non possiamo influire sui destini nostri e su quelli del mondo In sostanza, gli Usa rimarranno per decenni ancora la più grande potenza esistente al mondo11. Da essi dipenderà il nuovo ordine mondiale che sarà differente da quelli precedenti, per la più accentuata complessità e rapidità di mutamento dei fattori e degli attori che influiscono sulla geopolitica mondiale. È probabile che, con la nuova presidenza, quale che essa sia, gli Usa recupereranno molta della credibilità che hanno perso, non tanto per il loro multilateralismo, quanto per la loro gratuita arroganza e per la mancanza di efficienza dimostrata nella stabilizzazione dell’Iraq. Il multilateralismo avrà maggiore spazio. Lo aveva peraltro già avuto durante la seconda presidenza Bush, rispetto alla prima. Tutti oggi si dicono multilateralisti. La realtà continuerà però a essere quella che è sempre stata, fatta di multilateralismi formali (alleanze), o ad hoc (coalizioni), nonché da bilateralismi multipli e da frequenti unilateralismi, soprattutto quando i responsabili politici riterranno che siano in gioco interessi nazionali vitali. Il maggior pericolo che corre l’ordine mondiale, per evitare di cadere nel caos della «non–polarità», è una divisione interna all’Occidente, fra gli Usa e l’Europa, seguita da un relativo disimpegno degli Usa. È probabile che tale scenario non si verificherà. Gli Usa continueranno a consumare più di quanto producono. Hanno, quindi, necessità di attivare investimenti stranieri in quantità massicce. Sono una grande potenza «a credito», come lo sono state spesso nella storia le grandi potenze, facendosi compensare 36-37
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[CarloJean] per i beni pubblici internazionali che forniscono. Per il nostro Paese, è estremamente importante l’alleanza con gli Usa e la loro presenza in Europa. Gli Usa non hanno garantito soltanto la nostra sicurezza e contribuito al mantenimento degli equilibri politici interni, ma hanno sostenuto l’ingresso dell’Italia nei «gruppi di testa»: da quello di Berlino, al G-7, al gruppo di contatto per la ex-Jugoslavia, e ora al «5+1» per il negoziato con l’Iran sul nucleare. La politica estera Usa è sempre stata pragmatica. Non cambierà, quale che sia il nuovo presidente. Potrà però essere formalmente diversa. Si ispirerà alla proposta di «Lega delle Democrazie», qualora vincesse John McCain, oppure al «concerto delle grandi potenze», in caso di vittoria di Barack Obama. Ma le cose non cambieranno sostanzialmente. Esistono interessi più permanenti e profondi perché possano essere mutati fortemente dalle scelte che può fare un presidente americano. Ciò rappresenta una fortuna non solo per l’Italia, ma per tutti gli europei. Ci siamo troppo abituati alla confortevole leadership Usa, per essere capaci di agire senza di essa. Non solo contro gli Usa, ma anche senza di essi, ci dividiamo. Non possiamo così influire sui destini nostri e su quelli del mondo. Il vero declino lo conoscerà l’Europa, non gli Usa. Avrà quindi una crescente necessità del sostegno americano. Soltanto così potrà coltivare le sue propensioni a essere una potenza solo civile, cioè una grande Svizzera, che almeno sa fare i propri affari
Note 1) Joseph S. Nye, The Paradox of American Power – Why the World’s Only Superpower Can’t Go It Alone, Oxford University Press, New York, 2002; vds. anche Adam Roberts, International Relations After the Cold War, in International Affairs, 84, 2 (2008), pp. 335-350; 2) Richard N. Haass, The Age of Nonpolarity – What Will Follow the U.S. Dominance, Foreign Affairs, May-June 2008, pp. 44-56; 3) Thomas Friedman, The World Is Flat: A Brief History of the Twenty-First Century, Farrar, Straus and Giroux, New York, 2005; 4) Francis Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, Milano 2002; 5) Fareed Zakaria, The Future of American Power – How America can Survive the Rise of the Rest, Foreign Affairs, May-June 2008, pp. 18-43; 6) Carlo Jean, Visioni strategiche e prospettive geopolitiche degli USA, in C. Jean, Geopolitica del caos, Franco Angeli, Milano 2007, pp. 103-29; 7) Robert Kaplan, Why should Democracy be Shy?, in Newsweek, June 9, 2008, in cui riprende le sue proposte ampiamente sviluppate nel saggio The Return of History and the End of Dreams; 8) Carlo Jean, La geopolitica russa: dall’impero allo Stato-nazione, in Aspenia 40, giugno 2008, pp. 126-143; 9) Henry Kissinger, Does America Need a Foreign Policy?, Simon&Schuster, New York, 2001; 10) Samuel Huntington, The Hispanic Challenge, Foreign Policy, March-April, 2004; 11) Stratfor, Net Assessment: The United States, December 31, 2007.
Martial Raysse, “Bel Eté concentré” 1967 (part.), serigrafia su plastica, Seurmondt. Ludwig, Museum, collezione Ludwig, Aix-la-Chapelle
COME IL XX SECOLO, IL XXI POTRÀ ESSERE UN NUOVO SECOLO AMERICANO O UN ALTRO SECOLO DEL TOTALITARISMO. TUTTO DIPENDE DALLA DIFFUSIONE DELLA DEMOCRAZIA NELLE TERRE MUSULMANE
È LO SCONTRO DI CIVILTÀ L’IGNOTO IN AGGUATO ✵
Joshua Muravchik
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I
XX SECOLO È STATO IL «SECOLO AMERICANO», come ha scritto il fondatore del Time magazine, Henry Luce. Il XXI secolo sarà un altro secolo americano? Prima di rispondere a questa domanda dobbiamo innanzitutto chiederci fino a che punto Luce avesse ragione per quanto riguarda il XX secolo. In un certo senso aveva sicuramente ragione. Fu più o meno all’inizio del XX secolo che l’economia americana superò quella della Gran Bretagna, facendo dell’America il paese più ricco del mondo. Un secolo dopo, mentre il XX secolo cedeva il posto al XXI secolo, la potenza militare americana superava quella di tutti gli altri Stati e l’America usciva vittoriosa dalla prima e dalla seconda guerra mondiale, nonché dalla guerra fredda. Oltre a questo dominio in termini di ricchezza e di armamenti, la cultura popolare americana, nel bene o nel male, pervase il mondo intero. Vi erano pochi luoghi al mondo ove la gente non mangiasse i Big Macs, bevesse Coca-Cola, indossasse i jeans, ascoltasse il rock, guardasse i film di Hollywood e apprendesse a utilizzare i programmi informatici della Microsoft. In particolare, il sistema di governo che aveva costituito la base dell’esperimento americano - vale a dire il governo del popolo, da parte del popolo e per il popolo, per dirla con le parole del presidente Lincoln - fu imitato in tutto il L
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Alla fine del Novecento più del 60 per cento dei governi erano stati scelti dai loro cittadini con regolari elezioni. È questo l’esempio americano imitato nel mondo libero… mondo finché non divenne il normale metodo di governo. Secondo gli studi annuali della Freedom House, alla fine del XX secolo, più del 60 per cento dei governi di tutto il mondo erano stati scelti dai loro cittadini con regolari e libere elezioni. Inoltre, le idee di socialismo o delle altre versioni di economia centralizzata e dirigista si erano rivelate un fallimento e il sistema capitalistico di cui l’America era il modello fu riconosciuto essere il solo metodo grazie al quale le nazioni avrebbero potuto prosperare. Quando Francis Fukuyama decretò la «fine della storia», ciò significava che, in effetti, il mondo intero si stava americanizzando. Tuttavia vi è un importante aspetto per il quale non si può dire affatto che il XX secolo sia stato un secolo americano, vale a dire la sfera della politica internazionale. Il ruolo dell’America è stato per lo più reattivo e difensivo. L’idea di democrazia che l’America aveva propugnato, facendo un po’ da pioniere, aveva colpito i popoli in molte parti del mondo per la sua portata interessante e rivoluzionaria sia nel XVIII che nel XIX secolo. Ma nel XX secolo, o all’inizio di esso, l’idea iniziava ad apparire fuori moda e superata, in special modo quando era legata al capitalismo. Al contrario, le idee che avvincevano l’immaginario collettivo erano il socialismo, il comunismo e le loro propaggini e ramificazioni, vale a dire il fascismo e il nazionalsocialismo. All’inizio queste idee fecero presa sui principali paesi e in seguito quei paesi cercarono di conquistare il mondo. L’azione che dominò la scena mondiale per buona parte del XX secolo fu guidata dalle immense e sconfinate ambizioni dei comunisti, dei fascisti e dei nazisti. I loro grandiosi progetti stroncarono la vita di cento milioni di persone vittime della guerra, della fame, del genocidio e di altre forme di massacri di massa. Alla fine, l’America e i suoi alleati ebbero la meglio su queste mostruosità, ma furono queste ultime a costringere all’azione. Pertanto, si può affermare che il XX secolo sia stato il «secolo del totalitarismo» non meno di quanto sia stato il «secolo americano». Considerando la storia che abbiamo appena ripercorso,
[È lo scontrodi civilità…] che previsioni si possono fare per il XXI secolo? Il nuovo secolo potrebbe rivelarsi un nuovo «secolo americano» o un altro «secolo del totalitarismo». Il fascismo, il nazismo e il comunismo sono ormai morti e sepolti, ma un nuovo movimento totalitaristico è in marcia, vale a dire l’islamismo jihadista. Non di meno del comunismo e anche più del fascismo, proclama il suo obiettivo che è quello di governare il mondo intero e costringere tutti a sottomettersi al suo credo. Di certo è vero che il jihadismo non può contare sulle risorse di un potente Stato industrializzato per sostenersi, come accadde nel caso della Russia o della Germania. Per questa ragione alcuni non ritengono che possa costituire una grandissima minac-
Il jihadismo parla a 1,2 miliardi di musulmani in tutto il mondo. Pur non concordando sui metodi, un numero crescente di persone sostiene i suoi obiettivi e lo riconosce come voce legittima dell’islam cia. Potranno mai l’Iran e i talebani, il Sudan e al Qaeda e gli altri gruppi jihadisti sconfiggere le potenti democrazie occidentali? In ultima analisi non potranno. Ma anche se il jihadismo non dispone di quelle risorse che fecero del comunismo e del nazismo due terribili minacce per la civiltà occidentale, esso ha comunque alcune risorse che questi ultimi non avevano. Il fascismo - sia nella sua versione italiana che in quella tedesca - era un’ideologia nazionalista che intrinsecamente limitava la sua attrattiva ai soli cittadini del suo paese. Il comunismo sosteneva di rappresentare e parlare a nome dei lavoratori, ma a dire il vero era soltanto un movimento di intellettuali agiati o borghesi nel quale la maggior parte dei lavoratori del mondo non si riconosceva e per il quale non provava alcun interesse. Al contrario, il jihadismo parla a 1,2 miliardi di musulmani in tutto il mondo. La maggior parte di essi non lo accetta, ma una notevole minoranza invece sì e un numero crescente di essi afferma nei sondaggi di sostenere i suoi obiettivi, pur non concordando sui metodi utilizzati. Viene largamente riconosciuto quale voce legittima del mondo musulmano e non vi è garanzia alcuna che non diventi dominante nel caso in cui sia fortificato, per così dire, dalla resa americana in Iraq e dalla realizzazione della bomba nucleare da parte dell’Iran. Qualora i jihadisti dovessero prendere il sopravvento in seno all’islam, ci troveremmo davvero a fare i conti con uno scontro di civiltà. È certo che da questo scontro il mondo occidentale e cristiano risulterebbe
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[Joshua Muravchik] vittorioso. Ma i costi umani del conflitto sarebbero orrendi. Farebbero del XXI secolo il secolo della guerra religiosa, piuttosto che il «secolo americano», anche se l’America restasse la potenza più forte e imitata. D’altro canto, potremmo avere un altro «secolo americano» se la democrazia continuasse a diffondersi, soprattutto in tutto il mondo islamico, che costituisce la principale eccezione alla regola ormai emergente di governi scelti dal popolo con libere elezioni. Dei 193 paesi indipendenti che esistono oggi al mondo, 121 hanno governi eletti, mentre gli altri 72 sono governati in modo coercitivo. La popolazione di più della metà di queste 72 non-democrazie è principalmente musulmana. Se la demo-
Alcuni movimenti islamisti come i Fratelli Musulmani potrebbero vincere le elezioni. Ma se le elezioni si susseguiranno i partiti islamisti diventeranno sempre più moderati o saranno marginalizzati crazia si diffonderà in queste terre musulmane, allora verrà meno la minaccia musulmana. Vero è che alcuni movimenti islamisti, ad esempio i Fratelli Musulmani, potrebbero vincere alcune elezioni. Ma se le elezioni si susseguiranno, allora i partiti islamisti diventeranno sempre più moderati o saranno marginalizzati, in quanto la democrazia induce moderazione. La democratizzazione del mondo islamico non ridurrà soltanto il pericolo di uno scontro di civiltà, ma costituirà altresì un altro balzo in avanti sulla via di un’applicazione universale di queste idee - politiche, economiche e personali - che non appartengono all’America, ma che sono state alla base dell’esperimento americano. Che sia o meno un «secolo americano», ciò renderà il XXI secolo un secolo di gran lunga più felice del sanguinoso XX secolo. Traduzione di Monica Avvisati
L’
L’EX PRESIDENTE DEL MESSICO: GLI USA DOVRANNO CAMBIARE RADICALMENTE LA POLITICA ESTERA
L’AMERICA LATINA
ASPETTA UN PIANO MARSHALL
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colloquio con Vicente Fox Quesada di Benedetta Buttiglione Salazar ✵
EX PRESIDENTE DEL MESSICO, VICENTE FOX, è stato protagonista del grande cam-
bio democratico avvenuto nel suo paese nel luglio del 2000, quando il partito di opposizione Partido Accion Nacional guadagnò la presidenza della Repubblica dopo 71 anni di governo autoritario di un solo partito il Partido Revolucionario Institucional. Lo abbiamo incontrato a Bruxelles in occasione di un convegno sulla transizione di Cuba. Presidente, lei è stato capace nell’anno 2000 di vincere una scommessa: realizzare in Messico una transizione pacifica alla democrazia. Oggi un altro paese latinoamericano, piccolo, ma molto importante, vede aprirsi davanti a sé questa stessa possibilità: lei crede davvero che con Raúl Castro i cubani possano finalmente raggiungere l’agognata democrazia? Io sono ottimista, credo sul serio che sia giunta per Cuba la grande opportunità. L’assenza di Fidel facilita senza dubbio la transizione, ma le dittature e i governi autoritari non spariscono da soli, ci vuole sempre il contributo dei popoli democratici. Il 42-43
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Purtroppo abbiamo perso moltissimo tempo a causa di dittatori, governi autoritari e corruzione. Soltanto alla fine del secolo scorso i cittadini latinoamericani si sono ribellati…
futuro di Cuba è adesso in mano ai cubani, soprattutto di quelli che vivono a Cuba, che aspirano alla democrazia e alla libertà. Esiste una struttura di partiti politici che si sta appena delineando: sono i partiti della grande famiglia democristiana che fanno capo a due grandi leader, Oswaldo Payá e Marcelino Miyares. Il popolo cubano deve agire in maniera istituzionale, dando un forte impulso alla libertà, al rispetto della sua dignità e dei diritti umani, chiedendo la liberazione dei prigionieri politici. Ci parli della sua esperienza in Messico... Effettivamente mi è toccato lottare contro un governo autoritario, al potere da 71 anni in Messico e per questo posso dire che, nonostante le trasformazioni democratiche siano sempre in mano al popolo e ai cittadini, l’aiuto e il sostegno che si ricevono fuori del proprio paese possono essere fondamentali. Mentre portavo avanti la mia battaglia sapevo bene quanto fosse importante avere l’appoggio dell’Unione Europea, con le sue posizioni politiche chiare e ben definite. Ritengo perciò che l’Unione Europea debba giocare oggi un ruolo chiave nel processo di transizione cubano, senza intervenire, lasciando liberi i cubani di scegliere dove andare, ma appoggiandoli con la sua autorità morale, con l’esempio di quello che sono la democrazia, la libertà, l’apertura alla globalizzazione e all’economia di mercato. È ora che l’Europa parli e parli forte e, con la sua autorità morale, chieda che la transizione di realizzi. Da parte loro gli Stati Uniti devono togliere l’embargo e il Messico può dimostrare come l’economia di mercato abbia funzionato nella lotta contro la povertà. Sono convinto che la transizione cubana avrà il successo che merita e sarà pacifica. Presidente, quale crede che siano le sfide che deve affrontare l’America latina nel XXI secolo? Prima di parlare delle sfide del XXI secolo devo spiegare che cosa è accaduto nel secolo ventesimo. Purtroppo l’America latina ha perso moltissimo tempo in mano a dittatori, dittature militari, governi autoritari, corruzione e mancanza di trasparenza. Soltanto alla fine del secolo scorso i cittadini latinoamericani si sono ribellati e hanno deciso di incamminarsi sulla strada della democrazia, adottando negli anni 80 e 90 una serie di cambiamenti e di riforme economiche che si sono poi estesi in quasi tutto il continente. La prima sfida che dobbiamo affrontare è quella di promuovere e consolidare le nostre democrazie che oggi sono nuovamente minacciate, non da ideologie, ma da leader messianici che, nascondendosi dietro parvenze democratiche, sono in realtà populisti, mentono, ingannano e agiscono in maniera autoritaria.
Andy Warhol, “Liz” 1965, serigrafia su tela, Collezione privata
[L’AmericaLatina]
Chávez, Morales, Correa e Ortega fanno di tutto pur di rimanere sempre al potere, ingannano i propri cittadini, indeboliscono e svuotano di senso la democrazia, corrompono i processi democratici
La seconda sfida è mantenere il cammino delle nostre economie all’interno dell’economia di mercato. L’America latina ha oggi un tasso di crescita come regione pari al 6 per cento annuo e questo ci fa essere molto ottimisti per il futuro. In dieci anni il numero di famiglie povere si è ridotto di 10 punti percentuali, riteniamo perciò di avere trovato la strada giusta verso la riduzione della povertà nel continente. La sfida numero tre riguarda la formazione del capitale umano: dobbiamo aumentare la qualità e la quantità dei processi educativi. Per quanto riguarda la sfida numero quattro ci allineiamo con il resto del mondo nella protezione delle risorse naturali e nella difesa dell’ambiente. Quando parla di leader messianici populisti si riferisce alla triade Chávez-Morales-Correa. Crede veramente che rappresentino una minaccia per la democrazia in America latina? Assolutamente sì. Stavo proprio pensando a Hugo Chávez in Venezuela, a Evo Morales in Bolivia, a Correa in Ecuador e anche a Ortega in Nicaragua. Attenzione, io non ho nulla contro il socialismo o la social-democrazia, è una questione diversa. Il socialismo può avere anche i suoi lati positivi come abbiamo visto in Europa, per esempio in Spagna con Felipe González o in Cile con Lagos. Ma qui non stiamo parlando di ideologia, stiamo parlando di persone che farebbero e fanno di tutto pur di rimanere per sempre al potere, ingannano i propri cittadini, indeboliscono e svuotano di senso la democrazia, corrompono i processi economici. Questi signori hanno già tentato di cambiare la Costituzione per potersi far rieleggere a vita e hanno già cercato di riformare il potere giudiziario e quello legislativo secondo i loro comodi. L’America latina deve stare molto attenta a che non si diffondano in tutto il continente tali movimenti populisti che hanno come vocazione quella di estendersi e fare proseliti fuori dal proprio territorio nazionale. Così infatti sta già facendo Ugo Chávez invertendo i proventi del petrolio venezuelano nei processi elettorali di altri paesi. O anche finanziando e sostenendo la guerriglia in Colombia. A proposito di Colombia, lei crede che Uribe contro le Farc e il narco44-45
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[VicenteFox Quesada] traffico sia un po’ come Davide contro Golia o pensa che possa avere successo? Sta già avendo successo e molto anche. Prima di tutto perché la Colombia riesce ad avere una economia stabile e in crescita all’interno di una situazione instabile e irregolare. Poi perché Uribe ha guadagnato un bel po’ di terreno sulle Farc e sul narcotraffico. Non dobbiamo dimenticare che la guerriglia dura ormai da 45 anni e nonostante questo la perseveranza e l’energia del presidente Uribe hanno portato avanti la nazione. In piú Uribe ha anche la sfortuna di avere un vicino violento come Chávez, che certo non lo aiuta nella lotta al narcotraffico visto che continua a finanziare i narcotrafficanti. Nonostante il grande capitale di risorse umane e naturali che possiede, l’America latina non è stata ancora in grado di decollare economicamente. Quale crede che siano le misure politiche ed economiche necessarie per fare di questo continente un competitore a livello mondiale? Adesso finalmente sappiamo qual è il cammino giusto da percorrere, un cammino già sperimentato: democrazia, libertà economica con responsabilità e potenti politiche sociali. In economia abbiamo bisogno di mantenere la stabilità, il rispetto del budget annuale, la competitività e la produttività nella globalizzazione; dobbiamo aprire i nostri mercati, come in fondo abbiamo già fatto e bene anche, basta vedere le esportazioni del Messico, che è diventato la settima potenza esportatrice del mondo. Anche il Cile e il Brasile hanno dimostrato di avere queste capacità. Però l’economia da sola, per quanto possa essere efficiente, non basta per vincere la povertà. Ecco perché ci occorrono potenti politiche sociali in un quadro di stabilità, pace sociale ed educazione. La formula non è difficile: tutti a scuola, qualità educativa e sistema di verifica. È fondamentale che tutti i giovani possano accedere all’istruzione scolastica. Per far questo dobbiamo creare un sistema di borse di studio che permetta alle famiglie più povere di mandare i propri figli a scuola. I programmi delle materie insegnate devono essere nuovi, con un contenuto moderno. Infine dobbiamo costantemente verificare la qualità del nostro sistema educativo, rendendo pubbliche le valutazioni, perché tutti sappiano dove siamo arrivati e dove possiamo migliorare. In materia di sanità è necessario estendere a tutti l’assistenza, la previdenza e la sicurezza sociale, dal momento della nascita fino alla fine. Questo si traduce in un servizio medico accessibile e in pensioni adeguate per vecchiaia e infortunio. Nella possibilità di vive-
Andy Warhol, “The TwentyFiveMarilyns” 1962, serigrafia su acrilico su tela, Moderna Museet, Stoccolma
[L’AmericaLatina] re in un’abitazione dignitosa e in una forte politica pubblica che combatta in maniera diretta la povertà. I progetti «Opportunità» e il programma «Parti alla pari con la vita» sono due programmi che hanno permesso in Messico di ridurre in 10 anni il numero delle famiglie povere del 40 per cento. Questi stessi programmi sono già stati adottati in Brasile, in Cina e anche a New York. Si tratta di dare un forte incentivo economico alle famiglie in stato di povertà a patto che queste mantengano i figli a scuola, li portino dal medico e diano loro un’alimentazione adeguata. «Parti alla pari con la vita» consiste nell’aiutare le future mamme già durante la gravidanza, assicurare loro un’assistenza medica durante il parto e poi pediatrica al bambino. Insomma, cercare di fare in modo che i bimbi comincino la loro avventura alla pari con la vita e non partano invece svantaggiati fin dall’inizio. Il Messico appartiene geograficamente all’America del Nord e svolge l’importantissimo ruolo di trait-d’union tra l’America latina e il gigante del nord Stati Uniti. Che relazione ha con le grandi potenze regionali del Sudamerica, Brasile e Argentina? Le relazioni del Messico con il Brasile sono sempre state molto buone. Però il Messico dovrebbe già fare parte del Mercosur. Durante il mio mandato presidenziale ho lavorato molto in questa direzione, però il Brasile ha deciso di ammettere per primo il Venezuela. È evidente che affinché i rapporti si mantengano buoni - e possibilmente migliorino - risulta indispensabile che il Messico entri nel Mercosur al più presto. Anche con l’Argentina le relazioni sono buone, anche se penso che le misure che sta prendendo Cristina Fernández a volte sono troppo populiste e a volte sono contrarie alla L’aspirazione è verso un accordo continentale libertà di mercato esercitata che includa anche gli Stati Uniti e il Canada: con responsabilità. Il popolo argentino ha bisogno e si sarebbe la strada migliore merita successo nel suo processo di per l’America latina. La prova è data sviluppo. dagli eccellenti risultati del Nafta 46-47
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[VicenteFox Quesada] Si può parlare di integrazione latinoamericana? Che ruolo hanno o vi dovrebbero avere gli Stati Uniti? Fino a oggi l’America latina ha realizzato un’integrazione per blocchi regionali, muovendosi a tappe e in modo troppo lento. Senz’altro alcuni blocchi sono più sviluppati di altri. Direi che il più sviluppato di tutti è il Nafta, l’accordo di libero commercio tra Stati Uniti, Messico e Canada. Esiste anche l’Unione Centro-Americana che segue da vicino il modello dell’Unione Europea e di fatto ha già eliminato le frontiere tra El Salvador e il Guatemala. C’è anche il Caricom nel Caribe e il Mercosur in Sudamerica. Purtroppo Chávez ha fortemente indebolito il Patto Andino e qui sottolineo nuovamente il pericolo che leader populisti possano distruggere non soltanto il futuro dei propri cittadini, ma anche dei propri vicini. Ovviamente l’aspirazione è verso un accordo continentale che includa anche gli Stati Uniti e il Canada: sarebbe la strada migliore per l’America latina. La prova è data dagli eccellenti risultati del Nafta che ha generato grandi benefici per i tre paesi membri. Adesso la missione del Nafta per il futuro dovrebbe essere quella di un’integrazione più stretta sul modello europeo. Per fare ciò chi dovrebbe vincere le prossime elezioni negli Stati Uniti ? Quando sono in campagna elettorale i candidati promettono tutti qualsiasi cosa. E a volte è indispensabile che sia così. Chiunque sarà il prossimo presidente degli Stati Uniti dovrà realizzare cambiamenti radicali in politica estera: dovrà passare dal militarismo alla diplomazia, dalle imposizioni alle negoziazioni, dal fare orecchi da mercante ad ascoltare, dall’unilateralismo al multilateralismo e dovrà rispettare le decisioni delle Nazioni Unite. Per quel che riguarda l’America latina gli Stati Uniti dovranno abbandonare la loro politica di indifferenza verso il nostro continente. Non hanno presenza, non esercitano nessuna leadership, non collaborano in nessun modo al processo di sviluppo latinoamericano. Avremmo bisogno di iniziative e di idee forti, come il piano Marshall in Europa dopo la seconda guerra mondiale che aiutò la costruzione della Comunità Europea. Oppure come la convocazione del presidente Kennedy a la «alianza para el progresso» in America latina. Qualcosa del genere ci aspettiamo adesso dal futuro presidente degli Stati Uniti. Come vede i rapporti dell’America latina con l’Europa? Io considero che sia davvero urgente riequilibrare la relazione che l’America latina ha
James Rosenquist, “President Elect” 196061, olio su agglomerato, Musée National d’Art Moderne, Centre Georges Pompidou, Parigi
[L’AmericaLatina]
Andy Warhol, “Campbell’s Soup Can” 1968, acrilico, serigrafia su tela, Neue Galerie, Collezione Ludwig, Aix-la-Chapelle
con gli Stati Uniti attraverso un rafforzamento del rapporto con l’Europa. Almeno questo è ciò di cui abbiamo bisogno adesso in Messico. Nonostante il Nafta sia stato e sia straordinariamente buono per il Messico, in questo momento ci conviene strategicamente dare un forte impulso alla nostra relazione con l’Europa. E lo stiamo facendo, abbiamo da dieci anni un trattato di partenariato economico con l’Unione europea che ha incrementato e facilitato il commercio tra il Messico e l’Europa, arrivato ormai a più del 15 per cento annuo. Questo fa bene all’Europa e fa bene al Messico. Presidente, in Messico non c’è rielezione, lei ha giocato e vinto la sua partita nei sei anni del suo mandato, alla fine del quale è stato eletto Felipe Calderón sempre del Partido Acción Nacional. Adesso a che cosa dedica il suo tempo? Terminata la presidenza della Repubblica, Martha e io abbiamo deciso il fondare il Centro Fox, ispirato in un certo senso alle biblioteche presidenziali degli Stati Uniti. L’idea è quella di seguire la linea già tracciata da altri ex-presidenti responsabili che vogliono continuare a fare qualcosa per il proprio paese e per l’umanità, come fecero González, Lagos, Aznar, Toledo e altri. Nel caso del Centro Fox siamo andati più lontano delle biblioteche presidenziali americane, il nostro fine è quello di creare e di educare veri e propri leader politici in tutta l’America latina, giovani con valori universali che agiscano eticamente per accelerare il processo di sviluppo latinoamericano del ventunesimo secolo. La fondazione vuole rappresentare un ponte tra l’America latina e le democrazie e le economie sviluppate degli Stati Uniti, del Canada e dell’Europa, per poter incanalare verso il nostro continente parte delle loro risorse economiche, politiche e tecnologiche. Il nostro think tank sviluppa quattro temi fondamentali: il primo riguarda la democrazia e la libertà che, come abbiamo visto, sono nuovamente minacciate a causa di una regressione democratica in alcuni paesi. Il secondo è l’economia di mercato con responsabilità, nei suoi due aspetti macro e microeconomico. Ci interessa soprattutto la microeconomia e in particolare i sistemi di finanziamento delle piccole imprese. Terzo tema sono le politiche sociali riguardanti l’educazione, la salute, un’abitazione degna per tutti e la lotta alla povertà. Per finire promuoviamo le pari opportunità,
È urgente riequilibrare la relazione che l’America latina ha con gli Stati Uniti attraverso un rafforzamento del rapporto con l’Europa. È ciò di cui abbiamo bisogno adesso in Messico
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[VicenteFox Quesada] cercando di generare rispetto e considerazione per la donna in tutta l’America latina. Per fare questo lavoriamo con fondazioni e think tanks simili negli Stati Uniti ed in Europa e collaboriamo con le università messicane e straniere.
DALLE PREVISIONI DI HEGEL E TOCQUEVILLE SULLA PREDOMINANZA DEGLI USA ALLA GLOBALIZZAZIONE
È interesse di tutti ridimensionare
Peter Philips, “For Men Only. MM and BB Starring” 1961, olio e collage su tela, Centro de Arte Moderna, Lisbona
WASHINGTON ✵
S
colloquio con Ernst Nolte di Renato Cristin
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ULLE PAGINE DI LIBERAL, ERNST NOLTE NON HA BISOGNO di presentazioni. Egli è una delle figure di riferimento dell’orizzonte culturale della rivista, sulla quale ha pubblicato negli ultimi anni numerosi saggi e articoli. Ed è stato soprattutto grazie a «Liberal» che la sua vastissima competenza nel campo storico e storiografico e la sua capacità critica nel campo geoculturale hanno potuto essere valorizzate in Italia. In questa brevi considerazioni sulla domanda posta dal primo fascicolo della nuova serie della rivista, i Quaderni di liberal, egli sintetizza la sua visione del momento storico attuale. Le lezioni sulla filosofia della storia che Hegel tenne tra il 1822 e il 1830 prefiguravano non soltanto una predominanza degli Stati Uniti d’America sotto il profilo politico, economico e militare, ma anche una loro prevalenza sotto il profilo della forza culturale e morale. Come giudica, professor Nolte, la previsione hegeliana?
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Nelle Lezioni sulla filosofia della storia universale, Hegel definisce gli Stati Uniti d’America come «la terra del futuro», che fino a quel momento non era ancora entrata realmente a far parte della storia. Ma il fatto che egli parli anche con accento positivo di un futuro stadio della «ragionevolezza americana» ci fa supporre che egli pensi a un livello non più storico, totalmente determinato dai princìpi e dalle realtà di quella forma di vita che è venuta formandosi per la prima volta in America. Già all’inizio del XIX secolo Hegel avrebbe dunque parlato di quella situazione che alla fine dello stesso secolo uno scrittore inglese ha definito come la futura «americanizzazione del mondo». D’altra parte Hegel attribuisce un futuro promettente analogo a quello dell’America, o meglio del Nordamerica, anche a quello che egli chiama «il grande mondo slavo», e con questa tesi egli sembra prevedere quella che sarebbe diventata la futura dualità fra le superpotenze in modo analogo a come fece Tocqueville nel 1835. Tuttavia, non bisognerebbe perdere di vista il fatto che l’intero XIX secolo fu l’epoca delle potenze europee e che ancora nel 1914 gli Stati Uniti d’America avevano compiuto solo alcuni esitanti passi verso la loro futura condizione di «imperialismo». Un secolo dopo le riflessioni di Hegel, Spengler ipotizzava la fine della civiltà occidentale, spossata da una crisi di valori e di finalità, sconfitta da altre dotate di maggiori energie vitali e determinatezza di obiettivi. In un’epoca di difficoltà dell’Europa e di concomitante avanzata di altre civiltà, questa visione può aiutarci a uscire dalla crisi? Nelle prime pagine del Tramonto dell’Occidente, Oswald Spengler si inorgoglisce per avere attribuito alle culture non-europee il medesimo rango della cultura euro-
Una premessa importante per una coesistenza dinamica nella pace potrebbe consistere nel fatto che gli Usa rinuncino a essere l’unica potenza mondiale
[RidimensionareWashington] pea - in altri termini, per avere superato quello che chiamiamo «l’eurocentrismo». Tuttavia, se è vero che secondo la sua interpretazione tutte le culture, quando arrivano al loro stadio avanzato, si irrigidiscono in una civilizzazione che è propria di ciascuna di esse, è anche vero che egli ascrive alla civiltà europeo-americana una straordinaria preminenza che le permette di plasmare l’intero mondo in base alla propria immagine orientata alla tecnica. D’altra parte, egli concepisce la nostra civiltà non come «l’unica potenza mondiale», ma le contrappone, sebRichard Hamilton, “Towards a Definitive bene in un modo non del tutto chiaro, una civilizzazione russa come Statment on the Coming concorrente di pari livello. Ma se vedo bene, sia Spengler sia Hegel Trends in Men’s Wear and Acessories” 1960 (part.), olio, non parlano di una crescita delle civiltà asiatiche come quella cinese o collage, foglio di plastica quella indiana e di un loro inserimento nel novero delle grandi potensu legno, Tate Gallery, Londra ze mondiali. Secondo Spengler, nell’epoca della «civilizzazione» (e delle civilizzazioni) le «culture» genuine possono darsi ancora soltanto in angoli nascosti della terra. Lo scenario geopolitico attuale mostra una preoccupante crescita del livello dei conflitti e un’altrettanto preoccupante, sia pure per motivi opposti, difficoltà degli Usa di intervenire nelle varie aree. Come si configurerà il futuro del pianeta sotto questo aspetto? Se gli sviluppi planetari successivi al 1945 hanno mostrato con chiarezza una cosa, questa è da un lato il fatto che «la tecnica» non è più una proprietà dell’Europa e dell’America, che può essere solamente imitata da alcuni Stati come per esempio il Giappone, e dall’altro lato il fatto che la capacità di sviluppo e di appropriazione della tecnica e di un procedimento razionale è una facoltà umana universale, anche se diversamente configurata. Di questo fatto è una prova convincente la crescita economica delle «piccole tigri» come la Corea del Sud e, più recentemente, delle grandi potenze India e Cina. In base a ciò, il mondo diviene per certi aspetti più unitario, ma per altri aspetti diventa più vario e più pluralistico. Sembra che sul piano della globalità si stia formando fra i grandi Stati un sistema analogo a quello che venne a determinarsi in Europa nel XVIII e XIX secolo fra confessioni religiose, concezioni del mondo, gruppi sociali e singoli individui, e che in quanto «sistema liberale» diventò il fondamento della possibilità della libertà individuale. Nel più favorevole dei casi il mondo futuro sarà un «pluriverso» composto da differenti civiltà, che si svilupperanno in uno scambio vivente reciproco. Nel più infausto dei casi, le guerre che sono state condotte nel XX secolo fra Stati e fra ideologie con l’o52-53
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[ErnstNolte] biettivo di conseguire il predominio e il diritto assoluto, si riproporranno su scala planetaria e faranno precipitare il mondo in una disgrazia ancora più grande. Gli Usa si sono sempre fondati su precisi valori morali in base ai quali hanno orientato la loro azione. Oggi, in quella macroarea del pianeta dominata da Cina e India, potenze regionali che possono legittimamente aspirare a diventare superpotenze globali, la crescita economica e militare si basa su valori diversi e, in qualche caso, sembra anche prescindere da principi etici. Non vede in ciò conseguenze negative per il mondo intero e per l’Occidente in particolare? Non credo che una Cina confuciana e un’India induista si fondino su «valori morali» meno di quanto su di essi si basino gli Stati Uniti d’America. A mio giudizio, una premessa importante per una coesistenza dinamica nella pace potrebbe consistere nel fatto che gli Usa rinuncino alla loro pretesa, condotta per mezzo della violenza e di armamenti altamente sofisticati, di essere l’unica potenza mondiale. Per riprendere dunque la questione di fondo che liberal ha posto, secondo Lei, professor Nolte, è bene che anche il XXI secolo sia «americano» oppure è auspicabile che non lo sia? A dire il vero, io non auspico che il XXI secolo sia un «secolo americano». In altri termini, sarebbe bene se nella sfera pubblica non si riflettesse soltanto sulla «globalizzazione» ma anche su quella che io ho definito «trascendenza pratica». Allora infatti diverrebbe chiaro, da un lato, che l’umanità corre il rischio di essere condotta «al di là di se stessa» per mezzo dell’agire imperscrutabile di un sistema di concorrenza che si è sviluppato nella forma più forte negli Usa, e, dall’altro lato, che la più importante e decisiva questione dell’epoca presente è la seguente: se l’umanità è pronta a proseguire senza opporre resistenza sulla via di questa evoluzione, già chiaramente delineata, che porterà all’uomo «artificiale» e che all’uomo «naturale» riserverà ancora soltanto modesti residui (come pure alla natura terrestre, sempre più artificiale e meno naturale) oppure se a L’umanità è vittima questa prefigurata evoluzione essa è pronta ad di un sistema che rischia articolare un «no», che sarebbe nient’altro che di condurla al di là di se un «sì» all’uomo «umano», cioè all’uomo così stessa. È ora di riflettere come esso è stato fino al momento storico presente. sulla “trascendenza pratica”
e di opporre l’uomo naturale all’uomo artificiale
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Il predominio degli Usa si regge su fondamenta psicologiche. A vincere è la fede nell’eccezionalismo che esprime il perpetuo desiderio della psiche umana per la buona vita
LI ESPERTI DI PRONOSTICI CANTANO IL REQUIEM dell’America come se fosse un Inno
alla Gioia. Il desiderio ampiamente diffuso di un declino dell’egemonia americana fa aprire le orecchie soltanto a quei fatti che si accordano al tono luttuoso della musica, ignorando deliberatamente altre melodie e ritmi che io vorrei invece far suonare qui a pieno volume. Il trionfalismo e l’egemonia mondiale americana hanno un’importante radice nei fondamentali volumi dell’ammiraglio A. T. Mahan (nato nel 1840) sulla potenza navale. Sono state infatti le sue opere a estendere l’ideologia del Destino Manifesto al di là dello stesso continente americano e a implicare il sostegno all’egemonia americana nei Caraibi e nel Pacifico Occidentale dopo l’infame guerra contro la Spagna (1898). Persino lo sbarco delle truppe americane in Francia nel 1917 e nel 1944 trova una fonte di ispirazione nelle pagine di Mahan. Ma la potenza militare americana e la sua conseguente egemonia economica stanno declinando di giorno in giorno, sotto i nostri stessi occhi. Tre fallimenti delle loro ambizioni - in Corea, Vietnam e Iraq/Afghanistan (più quello subito dal loro alleato israeliano in Libano nel 2007) - hanno gravemente incrinato la loro schiacciante potenza mondiale. La potenza dell’America, tuttavia, non si fonda né sulla supremazia militare né sul predominio economico. La nazione non si regge su fondamenta storiche quanto piuttosto psicologiche. Gli europei spesso non si accorgono di questa distinzione e di conseguenza non si rendono conto che l’America non può essere paragonata a una nazione europea, perché l’«America» non è un luogo; è invece una convinzione nel suo destino assolutamente eccezionale. Gli americani credono innanzitutto nell’America; poi, ma soltanto poi, vivono sul suo suolo. Le loro radici affondano appunto in questa fede, più ancora che nella terra. Noi non abbiamo una madrepatria; abbiamo invece la Nuova Gerusalemme dei padri pellegrini, il motto In God We Trust inciso sulle nostre monete e la bandiera a stelle e ✵ James Hillmann ✵
LA FILOSOFIA DELLE CHANCE
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[La filosofiadella chance] strisce, alla quale ogni scolaro deve prestare giuramento di fedeltà. Quando cacciarono dalle proprie terre le popolazioni indigene, i coloni che formarono il primo nucleo degli americani non erano spinti dal desiderio di possesso della terra quanto dall’esigenza di purificarla (si leggano, a questo proposito, i romanzi di Nathaniel Hawthorne). Erano mossi dai principi di un illuminismo razzista che doveva spazzare via il buio dello stato selvaggio. Erano dominati più dalla fede che dalla golosità. In generale, gli americani non mostrano alcun interesse per il cosiddetto genius loci. Non conoscono quasi mai i nomi delle colline che vedono dal proprio cortile di casa o delle sorgenti dei loro fiumi. La nostra terra ha dei nomi che lasciano stupiti gli europei. A pochi chilometri da dove vivo ci sono città chiamate Baltic, Lisbon, Scotland, Lebanon, Oxford. I nomi biblici abbondano, anche nel «Selvaggio West». I nomi derivati dalle lingue indigene sono traslitterati senza che se ne possa capire il senso. Insomma, in questo paese dobbiamo ancora incominciare a vivere. Persino le battaglie della guerra civile (1861-1865), nella quale finalmente gli americani hanno versato il proprio sangue per la propria terra (anziché il sangue di indigeni, schiavi, messicani …), sono state combattute non tanto per la terra quanto in nome delle idee: la ferma fede nella «Unione» contro «lo stile di vita sudista», la sua bandiera, il suo Eccezionalismo. Quindi, per capire la psiche americana bisogna innanzitutto comprendere la sua fede nell’Eccezionalismo dell’America: la convinzione che gli Stati Uniti d’America siano un paese unico nella storia mondiale, diverso da tutti gli altri Stati nel fondamento e nello scopo, espressione delle più nobili aspirazioni per la società umana. Quando (prima del 1918) gli Stati Uniti erano ancora politicamente una potenza di secondo piano, erano già una forza eccezionale dal punto di vista psicologico. In quanto patria della filantropia, luogo di rifugio e mediatore tra le potenze, nonché come simbolo idealizzato, gli Stati Uniti attrassero immigrati da tutto il mondo. Molti di coloro che sfuggivano alla coscrizione in patria si arruolarono volontari nell’esercito americano. L’Eccezionalismo sta alla base del «Sogno americano»: la convinzione popolare che la libertà personale e quella civica producano la prosperità, e viceversa. Sebbene sia una idealizzazione illusoria che non corrisponde alla realtà, l’Eccezionalismo 56-57
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[JamesHillmann] Mimmo Rotella, “Cinemascope” 1962, décollage, Museum Ludwig, Colonia. Nella pagina precedente: Robert Rauschenberg, ”Black Market” 1961, tela, legno, metallo, olio, Museum Ludwig, Colonia
continua a caratterizzare la mentalità americana perché esprime quel perpetuo desiderio della psiche umana per la «buona vita», proclamato dalla Dichiarazione d’Indipendenza americana come «la ricerca della felicità». In secondo luogo, abbiamo davvero il coraggio di ammettere che l’egemonia della cultura americana sta crescendo? Per il termine «cultura» faccio riferimento a un saggio pubblicato da T. S. Eliot nel 1948, intitolato Notes Towards a Definition of Culture, nel quale sostiene che cultura, religione e comportamento sono strettamente legati insieme e non possono essere nettamente distinti. La cultura, dice Eliot, non si limita alla alta cultura dell’intellighenzia o alle eccentricità della cultura popolare, né è definita dagli stili, dai costumi o dai prodotti di un qualche gruppo specifico all’interno di una società. Semmai, la cultura è il comportamento della società nel suo complesso: il modo in cui ogni giorno camminiamo e parliamo, pensiamo e mangiamo, ci vestiamo e moriamo. La cultura è una convinzione vissuta. La cultura mondiale segue sempre di più i modelli comportamentali stabiliti negli Stati Uniti: la sua musica, i suoi gadget, le sue abitudini alimentari, le tecniche curative, le forme di comunicazioni, i divertimenti, il marketing, il revivalismo, le tecniche agricole. Anche le opere d’arte, persino se le si isola come «alta cultura», sono soggette all’egemonia del mercato di New York. Il predominio culturale americano appare evidente in tre diffusissimi sintomi comportamentali: la fretta, l’obesità e le droghe (legali e illegali). E anche in un quarto: l’idea di una dipendenza del sé dallo sguardo degli altri. La via d’uscita dall’anomie è vista non attraverso Dio, come nella filosofia di Berkeley (esse est percepi), ma attraverso un’immagine fotografica. L’America rimane la potenza coloniale extraordinaire: la lingua inglese ne è il suo più autentico missionario, capace di convertire senza bisogno della spada o della Bibbia. Che si tratti di finanza, di commercio, di legge, di scienza o di atletica, l’incontro tra genti diverse avviene in inglese. «I linguisti calcolano che il numero di cinesi che attualmente studia o parla inglese si aggira attorno tra i duecento e i trecentocinquanta milioni, una cifra grosso modo pari a quella della popolazione statunitense… Il più grande sistema scolastico in inglese, New Oriental, è quotato alla Borsa di New York» (New Yorker, 28 aprile 2008, pag. 46). Terzo: il denaro. Il declino del valore fiscale del dollaro non implica anche un declino del suo valore simbolico. Il dollaro è l’incarnazione del concetto americano del denaro inteso come bene
L’America rimane la potenza coloniale “extraordinaire”: la lingua inglese è il suo più autentico missionario, capace di convertire senza bisogno della spada o della Bibbia
[La filosofiadella chance] La novità tiene gli americani in movimento. La sua fonte va ricercata nella psicologia delle chance: l’opportunità è il varco attraverso il quale la Fortuna può entrare in qualsiasi momento
Jess Collins, “Tricky Cad (case VII)” 1959 (particolari), collage di giornali, County Museum of Art, Los Angeles
in se stesso e rappresenta l’accumulazione del denaro sia come lo scopo della vita sia come il modo per raggiungere questo scopo. Il denaro americano è un altro perpetuum mobile: sostenuto soltanto dalla fede e creato per circolare senza alcun ostacolo all’interno di un libero mercato. Le Banche centrali cercano di controllarne la libertà. Definiscono i modi della sua circolazione, ne misurano l’andamento, alzano o abbassano i tassi di interesse. Ciononostante, il denaro cresce in forza del proprio dinamismo interno. Negli Stati Uniti tutti vogliono abbarbicarsi al denaro come per succhiare benessere dalla sua vitalità. Ci immaginiamo che la sua crescita farà salire il nostro valore personale, e così nessuno ritiene mai di avere abbastanza denaro. In America il denaro è concepito come una forza quasi organica, o demonica, ingovernabile, archetipica, capace di moltiplicare, dominare e tiranneggiare i suoi «proprietari». I miti di Cresa e di Mida continuano a influenzare la psiche americana, e dall’America si diffondono in tutto il mondo. Quarto: non bisogna sottovalutare la capacità americana di sorprendere. La prima emozione provata dai primi esploratori, poi dai coloni e infine dagli immigrati è sempre stata quella di una grossa sorpresa di fronte a ciò che vedevano. Gli americani si aspettano l’inaspettato. Non è un caso se l’America è stata chiamata il «Nuovo mondo». L’America è il mondo del nuovo, e gli americani sono drogati di novità, come anche della sua incorreggibile ombra: un’ingenuità che si nutre e perpetua da se stessa. Anche se il nostro governo è ora uno dei più vecchi al mondo, e indipendentemente dal fatto che idoleggiamo i nostri padri fondatori come santi della laicità e che la gestione di trecento milioni di persone è impastoiata da idee, procedure e legislazioni repressive, la novità domina ancora la psiche. Da qui derivano l’inventività degli americani, la loro mobilità e la loro disaffezione nei confronti di qualsiasi duratura fedeltà: matrimonio, clan, lavoro, squadra o luogo di residenza. Quando proclamano che intendono «tenere l’America in movimento», i politici non fanno altro che richiamarsi a un ideale costantemente messo in pratica dal popolo americano: il 20 per cento della popolazione cambia indirizzo ogni anno. Dal New Deal di Roosevelt e alla New Frontier e New Society di Kennedy e Johnson, fino al Change di Obama, i programmi dei nostri partiti annunciano novità non specificate. Noi votiamo per l’indefinito e ci aspettiamo di essere sorpresi. Di conseguenza, gli americani adorano i sondaggi che individuano tendenze di fondo, alla ricerca di indicatori capaci di svelare ciò che è all’orizzonte. Chiedono continuamente previsioni su un 58-59
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[JamesHillmann]
futuro che sanno essere invece imprevedibile. Questo amore per l’inaspettato è una parte essenziale di ciò che gli americani intendono con il termine «libertà». La capacità americana di inventare sorprese sembra tuttavia in declino. Rispetto ad altri paesi, la registrazione di nuovi brevetti negli Stati Uniti è calata. Ma le invenzioni tecniche e i punteggi ottenuti dagli studenti nei test di matematica non sono uno specchio fedele della novità americana. La sua vera fonte sta nella psicologia delle chances. L’opportunità è il varco attraverso il quale la Fortuna può entrare in qualsiasi momento. Il pragmatismo della mente americana sta nel suo accoglimento del nuovo e nella sua sorprendente capacità di ottenere qualcosa dal nulla: per definirlo, il suo inventore William James (il più importante filosofo americano) ha, come ben noto, usato la frase «il valore contante di un’idea». Per l’America, le opportunità bussano continuamente alla porta; sono come una finestra di sorprese sempre ottimisticamente spalancata. © 2008 James Hillman PUBBLICATO D’INTESA CON ROBERTO SANTACHIARA AGENZIA LETTERARIA (Traduzione di Aldo Piccato)
Red Grooms, “Hollywood (Jean Harlow)” 1965, acrilico su legno, Smithsonian Institution, Washington D.C.
DOMINIO
DELLA TECNICA O SULLA TECNICA? È QUESTO LO SNODO SU CUI GLI STATI UNITI SI GIOCHERANNO IL LORO RUOLO
MA IL GIGANTE È CIECO ✵
Emanuele Severino
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XX È STATO «AMERICANO». Soprattutto perché gli Usa hanno avuto il maggior peso nella sconfitta del totalitarismo nazista e fascista e dell’imperialismo giapponese prima, e poi del totalitarismo comunista dell’Urss. La loro non è stata soltanto una vittoria militare. Quest’ultima ha espresso sul piano della forma più visibile della forza il prevalere, nei paesi più industrializzati e tecnologicamente più avanzati del pianeta, della concezione capitalistico-democratico-liberale sulla concezione assolutistico-totalitaria della società. E, daccapo, il prevalere di questa concezione non è un fenomeno isolato, ma uno dei grandi episodi del gigantesco processo che da due secoli sta conducendo l’umanità al di fuori della «visione del mondo» tradizionale. Tale «visione» rinchiude la vita dell’uomo all’interno di sistemi normativi ritenuti assoluti, innegabili, indiscutibili, immodificabili, immutabili, quindi tali da prevedere, non solo sul piano politico ed economico, ma anche religioso e culturale le sanzioni più gravi per chi ne minacci l’esistenza e ne discuta la validità. La «libertà» dell’uomo del XIX e XX secolo è la «liberazione» da questa «visione del mondo». Soprattutto gli Usa sono apparsi nel secolo scorso, i portatori di questo senso pregnante della «liberazione». Che però è ancora più pregnante di quanto sin qui possa sembrare. Giacché tale «liberazione» si presenta generalmente, nella cultura e nell’opinione pubblica, come un «fatto», ossia come qualcosa che c’è ma sarebbe potuto non esserci e potrebbe non esserci più in seguito al farsi di nuovo innanzi e al L SECOLO
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La tutela e la crescita della potenza sono determinate dalla situazione in cui è la tecnica a servirsi delle forze che vorrebbero servirsi di essa rinnovato rafforzarsi di quella «visione del mondo» tradizionale da cui le società si sono e si stanno liberando. E invece tale «liberazione» non è un semplice «fatto». Questo suo maggiore spessore passa per lo più inosservato perché esso viene alla luce in una dimensione dove, ormai si crede, non vengono decise le sorti del mondo: la dimensione della filosofia. Per scorgere questo maggior spessore della «liberazione» è infatti necessario rivolgersi non solo alla filosofia, ma a quel sottosuolo pressoché inesplorato dell’essenza della filosofia degli ultimi due secoli, dove si mostra l’impossibilità di un ordinamento immutabile di qualsiasi tipo che rinchiuda in sé, controlli e prestabilisca il divenire dell’uomo e del mondo: l’impossibilità per la quale la «liberazione» da tali forme di ordinamento non è dunque un semplice «fatto», ma una necessità. La filosofia vede e indica ciò che produce e spiega tale necessità; ma non le si presta ascolto e ciò che essa indica passa del tutto inosservato. La filosofia indica, comunque, la necessità della «liberazione» dagli assolutismi e totalitarismi che nel XX secolo sono stati sconfitti dalle democrazie occidentali guidate dagli Stati Uniti d’America. La filosofia vede questa necessità all’interno del gigantesco processo che sta portando il pianeta dalla tradizione occidentale alla civiltà della tecnica, ossia all’interno di ciò che chiamo «tendenza fondamentale del nostro tempo». (Per la comprensione di queste affermazioni rinvio al gruppo dei miei scritti che si rivolge a questa «tendenza»).
[Il giganteè cieco] La domanda se il XXI secolo sarà ancora americano richiede una previsione; ma, allora, sulla base dei cenni dati qui sopra, nessuna previsione intorno al futuro del mondo - e dunque di quella parte eminente del mondo che sono gli Stati Uniti - può prescindere dalla «tendenza fondamentale del nostro tempo». Guardandola un po’ più da vicino (richiamando cioè una struttura concettuale che altrove ho analiticamente considerato), si può dire che tale «tendenza» è il processo nel quale 1) l’impossibilità di ogni ordinamento assoluto si fonda sull’accertamento dell’impossibilità di ogni verità assoluta
La filosofia del nostro tempo mostra l’impossibilità di un limite assoluto della crescita indefinita della potenza tecnologica. Solo se ascolta la voce della filosofia la tecnica può possedere una potenza illimitata… che sovrasti e prestabilisca il divenire del mondo; 2) le forze - soprattutto capitalismo e democrazia - che servendosi della tecnica guidata dalla scienza moderna hanno sconfitto nel XX secolo le più grandi forme di totalitarismo e di assolutismo non possono nemmeno esse presumere di valere come ordinamenti e verità assolute; 3) tali forze non possono dunque nemmeno pretendere di guidare in nome della propria assoluta verità la tecnica, ossia l’insostituibile strumento, o mezzo, di cui esse si servono; e 4) non possono nemmeno indebolire o comunque intralciare l’efficienza di tale strumento; sì che 5) quanto è indicato nei punti precedenti è la situazione planetaria in cui il mezzo universale - cioè la tecnica - è destinato a diventare lo scopo universale delle forze che ancora si illudono di servirsi della tecnica come di un semplice mezzo. Queste forze sono grandi forme culturali: democrazia e capitalismo - si diceva - e, ieri, anche il socialismo reale; e, ancora, cristianesimo, altre forme di umanesimo, islam. Ma queste forze sono anche gli Stati e dunque, tra gli Stati, quello che ha ancora molte ragioni a considerare se stesso come l’unica superpotenza rimasta dopo il crollo dell’Unione Sovietica: gli Stati Uniti. I cinque punti sopra indicati indicano infatti il processo in cui avviene anche il rovesciamento per il quale la situazione, in cui lo Stato si serve della tecnica per affermarsi come Stato, si rovescia, appun-
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[EmanueleSeverino] to, nella situazione in cui la tecnica si serve dello Stato per aumentare all’infinito la propria potenza. Tale rovesciamento è destinato ad accadere soprattutto negli Stati Uniti, perché essi hanno dato vita all’organizzazione politica del centro mondiale del capitalismo; e il capitalismo è la forza che più radicalmente, coerentemente e in modo più pervasivo si serve della tecnica - sì che è soprattutto il capitalismo statunitense a essere coinvolto nel rovesciamento per cui lo Stato che si serve della tecnica è portato al tramonto dalla tecnica che si serve dello Stato. Essere «superpotenza» significa formare il
Ma che ne è sulla Terra della capacità di ascoltare la voce della filosofia, ossia la voce che determina la forma suprema di potenza? Esistono negli Usa le condizioni perché nel XXI secolo la tecnica ascolti la filosofia? luogo in cui con maggiore intensità la statocrazia diventa tecnocrazia. Uno Stato che si serve della tecnica, o che fa in modo che il capitalismo si serva di essa, o che, tutelando il proprio peso politico, si unisce al capitale per servirsi di essa, sviluppa una potenza inferiore a quella sviluppata da una tecnica che si serve dello Stato e del capitale. Essere mezzi rispetto a uno scopo significa essere indeboliti dalla volontà di realizzare lo scopo. Le forze che si servono della tecnica indeboliscono quindi il mezzo con cui esse intendono realizzare i loro scopi, e quindi indeboliscono se stesse. La tecnica è invece volontà di accrescere indefinitamente la propria potenza; e certo, servendosi dello Stato, del capitale, della religione, della democrazia, ecc., li indebolisce, ma indebolisce ciò che, mirando a scopi escludenti altri scopi, indebolisce la forma più alta della potenza, cioè la volontà - da cui la tecnica resta definita - di incrementare all’infinito la capacità di realizzare scopi. Sulla base di quanto si è detto sin qui, si potrebbe dire che, diventando il luogo per eccellenza in cui la tecnica si serve dello Stato, del capitale e di tutte le altre forze (quelle religiose e culturali comprese), gli Stati Uniti si candidano anche per il secolo XXI al ruolo di unica «superpotenza» e che anche questo può essere un secolo americano. Sennonché anche l’«americanità» degli Stati Uniti - ossia quel tipico sistema di valori che avvolge ma non
[Il giganteè cieco] coincide con il capitalismo e la democrazia americani - è una delle forze che intendono servirsi della tecnica. Con l’amministrazione Bush questa intenzione si è fatta particolarmente sentire. Oggi essa è in crisi. Ma la sua crisi autentica non è quella resa visibile dai mass media, ma è il rovesciamento a cui anch’essa va incontro: quello in cui (anche) l’intenzione dell’«americanità» di servirsi della tecnica si rovescia nell’intenzione della tecnica di servirsi (anche) dell’«americanità». In questo senso il nostro non potrebbe essere, come quello trascorso, il secolo dell’America, ma all’opposto sarebbe il secolo del «tramonto» dell’America: appunto perché in esso potrebbero tramontare tutte le forze - in prima fila Stati Uniti e «americanità» - che si sforzano di trattenere la tecnica all’interno del ruolo di semplice mezzo per la realizzazione dei loro scopi. Esse continuerebbero probabilmente a lungo a chiamarsi con i loro nomi attuali, ma propriamente il nostro sarebbe il secolo dell’amministrazione tecnologica della tecnica - dove, certamente, gli Stati Uniti (ossia il capitalismo e la democrazia statunitensi) continuerebbero a essere il centro mondiale della dominazione della tecnica. Le forze di cui stiamo parlando, dunque innanzitutto gli Stati Uniti, «tramontano»: non nel senso che non esista più Stato, democrazia, capitalismo, ma nel senso che quando queste forze hanno il ruolo di scopi che si servono della tecnica sono qualcosa di essenzialmente diverso da ciò che sono quando, all’opposto, sono mezzi di cui la tecnica si serve. Questa diversità si produce attraverso uno scontro L’“americanità” degli Stati Uniti è una delle dove, quanto più esse hanno forze che intendono servirsi della tecnica. potenza, tanto più sono capaci di resistere al processo che le riduCon Bush questa intenzione ce alla funzione di mezzi, e d’alsi è resa evidente, ma oggi è in crisi tra parte esse sono tanto più 64-65
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[EmanueleSeverino] Tom Wasselmann, “Landscape No.2” 1964, carta, fotografia, olio e rilievo su tela, Museum Ludwig, Colonia. Nella pagina seguente: Edward Ruscha, “Large Trademark with Eight Spotlights” 1962, olio su tela, Collezione del Whitney Museum of American Art, New York
capaci di resistere quanto più potenziano l’apparato tecnologico di cui si servono, ossia quanto più potenziano ciò che tende a trasformarle, da scopi e valori primari, in mezzi. Tale scontro è cioè una contraddizione: per sopravvivere, quelle forze devono resistere e dunque ritardare il potenziamento di quell’apparato tecnologico che peraltro sono costrette, appunto per realizzare se stesse e sopravvivere, a potenziare. Nel nostro secolo gli Stati Uniti potrebbero quindi essere destinati a essere il centro mondiale di questa gigantesca contraddizione - che peraltro investe l’intero pianeta. Ma se per un verso in ogni istituzione sociale e in ogni individuo la presenza della contraddizione riduce e distrugge la potenza, per altro verso, da tempo, gli Stati Uniti sono diventati l’unica potenza, insieme alla Russia, in possesso di un arsenale nucleare capace di distruggere qualsiasi nemico; cioè da tempo sono diventati invincibili e chiunque abbia raggiunto questo privilegio in un mondo sempre più pericoloso non intende perderlo. (Altre volte ho rilevato, anche su questa rivista, i motivi per i quali continua ad avere un’importanza decisiva l’armamento nucleare anche in relazione al terrorismo fondamentalista islamico, che da ultimo non può appoggiarsi a uno Stato - oggi l’Iran, ritengono molti - ossia a qualcosa che non è sfuggente ma ben visibile e quindi possibile oggetto di un attacco nucleare). Ma se anche per gli Stati l’istinto di sopravvivenza e la volontà di potenza stanno in cima alla scala dei valori, la volontà americana di non perdere l’invincibilità spinge a eliminare il più possibile la «contraddizione» qui sopra rilevata, che produce impotenza e che riguarda lo scontro tra tecnica e forze che ancora si illudono di servirsene, essendo invece esse destinate a servirla. E tale contraddizione, per chi intende sopravvivere e continuare a essere invincibile, non può essere eliminata col rafforzamento di quell’insieme di forze che negli Stati Uniti, volendo lasciare alla tecnica la sola funzione di mezzo, indeboliscono la potenza del mezzo e di se stesse. Come sopra si è richiamato, la tutela e la crescita della potenza sono infatti determinate dalla situazione in cui è la tecnica a servirsi delle forze che vorrebbero servirsi di essa. Se così stanno le cose, è negli Stati Uniti, ossia nel centro mondiale della contraddizione di cui stiamo parlando, che nel nostro secolo dovrebbe prodursi il più ampio e profondo sommovimento sociale: quello in cui la volontà tecnica di accrescere all’infinito la propria capacità di realizzare scopi diven-
[Il giganteè cieco] ta lo scopo di tutte le forze che invece vorrebbero servirsi di tale volontà per realizzare i loro scopi reciprocamente escludentisi. E tale sommovimento non potrebbe non propagarsi in tutto il pianeta. Anche in questo senso, quindi, il nostro secolo sarebbe ancora un secolo americano. Infatti in Cina e India potrebbero sì raggiungere l’economia americana ma non avrebbero una invincibilità da salvaguardare. E, certo, la Russia ha anch’essa da salvaguardare la propria invincibilità e l’immaturità del suo capitalismo oppone alla tecnica una resistenza molto minore di quella del capitalismo americano; tuttavia in Russia il sommovimento di cui stiamo parlando sarà di minore portata, da un lato perché il peso del capitalismo russo, che l’apparato tecnologico in Russia deve spostare e dominare, è inferiore al peso del capitalismo americano, dall’altro perché il sommovimento più radicale, in Russia, è già stato operato: l’eliminazione del socialismo reale, ossia della forza più potente che in Russia ha voluto servirsi della tecnica - dove l’eliminazione di questa forza prefigura il sommovimento che è destinato a prodursi negli Stati Uniti. Ma c’è ancora una considerazione da richiamare - che in certo senso è la più importante in questo ordine di problemi e che ci riconduce al tema
del carattere decisivo del pensiero filosofico sopra toccato e spiega perché o uno dei principali perché -, considerando l’America del XXI secolo, si è usato il condizionale… Anche nel presente scritto si parla della tecnica in un senso radicalmente diverso da quello corrente nei diversi campi culturali. Come si desume dai cinque punti indicati nella parte iniziale, la tecnica può subordinare a sé le forze della tradizione solo in quanto la filosofia mostra l’impossibilità che esse contengano una verità assoluta. Ciò significa che l’essenza profonda della filosofia del nostro tempo mostra l’impossibilità di un limite assoluto alla crescita indefinita della potenza tecnologica. Ma ciò significa che anche la tecnica possiede effettivamente una potenza senza limiti solo se conosce l’impossibilità dell’esistenza di tali limiti, cioè solo se ascolta la voce della filosofia. Altrimenti è un gigante cieco che può essere guidato da un bambino. Ma che ne è sulla Terra della capacità di ascoltare la voce della filosofia, ossia la voce che determina effettivamente la forma suprema della potenza? Sino a che i giganti sono ciechi non possono imporsi 66-67
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[EmanueleSeverino]
sui bambini e sugli adulti che vogliono guidarli. Esistono negli Stati Uniti le condizioni perché nel XXI secolo la tecnica dia ascolto alla filosofia e alla voce essenziale della filosofia del nostro tempo? Questa domanda sta mille leghe al di sopra della povera discussione, che ancora si protrae, intorno alla contrapposizione tra «filosofie analitiche» anglosassoni e «filosofie continentali». Questa domanda significa: esiste negli Stati Uniti la condizione fondamentale che, trasformando la tecnica da mezzo in scopo, produce la suprema potenza? Sino a che questa domanda è lasciata senza risposta, tutto quanto si è detto sin qui sulla centralità dell’America nel secolo XXI resta in sospeso.
QUALI PROSPETTIVE SENZA L’EGEMONIA USA CHE TIENE INSIEME IL PIANETA?
Poveri noi europei, viviamo di
Alez Katz, “The Red Smile“ 1963, olio su tela, Collezione del Whitney Museum of American Art, New York
INVIDIA ✵
S
Giancarlo Galli
✵
CONCERTANTE L’ATTEGGIAMENTO COL QUALE,
troppo spesso, pretendiamo di giudicare il modello americano. Gli Usa. Specie fra gli intellettuali, prevale un approccio viziato all’origine da un cocktail ideologico in cui qualche abile alchimista dalla matrice marxista ha sapientemente mischiato l’ignoranza della realtà statunitense a fruste utopie condannate dalla Storia: dallo pseudo egualitarismo dell’Urss al mito maoista. Sino all’esaltazione acritica del castrismo cubano. Così, rifiutiamo di accettare l’impero a stelle e strisce, non perdendo occasione di fantasticare, con sottile compiacimento, del suo tracollo prossimo venturo. Accadde con la grande crisi del 1929, poi con la tremenda sconfitta in Vietnam. Oggi, in presenza del dollaro debole, del controverso andamento delle vicende in medio Oriente, dall’Afghanistan all’Iraq, con malcelato entusiasmo profetico, si dibatte su un XXI secolo segnato dal declino americano. Possibile, indubbiamente, poi68-69
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ché tutti gli imperi a un certo momento vanno in frantumi. Ma quanto probabile? In ogni caso, evitando di chiederci, e sarebbe quantomeno doveroso: quali prospettive per un mondo libero senza quell’egemonia Usa che tiene insieme il pianeta? L’ambito di riflessione in cui mi viene attribuita una qualche competenza, è quello economico-finanziario. Prima di affrontare il tema, vorrei tuttavia affrontare, con rapidi flash, questioni di natura politico-sociologica. In soldoni: perché gli Usa piacciono poco, e sempre meno, agli europei? (Gli italiani, infatti, non fanno che seguire l’onda). Alle radici, trovo l’inconfessabile pulsione a volere riscrivere la Storia, quella con la maiuscola, a nostro uso e consumo. Verità è che il vecchio continente ha coltivato uno strano sentimento: considerare l’America quasi una sua appendice e non la migliore. A partire dal XVII secolo, il territorio fu colonizzato dai francesi (Luisiana) e dagli inglesi (Nuova Inghilterra, Maryland, Carolina, Georgia, Virginia), che nel 1664 subentrarono agli spagnoli nella colonia di New Amsterdam, l’attuale New York. Mentre gli spagnoli, risalendo dal Messico, penetrarono in tutta l’area meridionale, dalla California alla Florida. Sistematicamente emarginando i vari gruppi amerindi, i pellirosse. L’America come zona d’influenza europea, insomma. Senonché questi migranti, con incredibile tenacia e determinazione, talvolta con ferocia (verso gli indigeni), insofferenza verso i colonizzatori che stavano dall’altra parte dell’oceano, si emanciparono. Costruendo davvero un nuovo mondo, sbarazzandosi delle tutele. Si scannarono, nella guerra di Secessione fra nordisti e sudisti (1861-65), ma nacque un impero. Col quale fummo costretti a confrontarci, poiché erano più bravi, dinamici. Tuttavia, sino all’inizio del Novecento, noi europei sottovalu-
Alle radici c’è la pulsione a volere riscrivere la Storia a nostro uso e consumo
[Poveri noieuropei] tammo gli States. Portati a considerarli un immenso contenitore in cui scaricare il surplus demografico: almeno trenta milioni di inglesi e di irlandesi, italiani e spagnoli, lì sbarcarono fra il 1890 e il 1910. Testimone l’Immigration Museum di Ellis Island (ora sovrastato dalla statua della libertà). Vi furono periodi in cui i bastimenti ne scaricavano migliaia al giorno, altro che Lampedusa o Pantelleria! E a dispetto della leggenda che pretende l’esistenza di un campo di concentramento, smistati nel giro di un paio di giorni. Tutti schedati Roy Johnson, “Elvis Presley No. 1” 1955, tempera e e vietato, pena il rinvio immediato, il rifiuto di generalità e di proveinchiostro su carta di giornale, nienza. In Usa, la clandestinità (che pure è consistente, nonostante Collezione William S. Wilson l’erezione di un muro al confine col Messico), è da sempre un reato. Nessuno stupore dunque, arrivando agli aeroporti, per la procedura che ci obbliga alle impronte digitali, a compilare un meticoloso questionario. La regola che la bugia è un reato, costituisce un pilastro della società statunitense. «È quel che fa la differenza con la vecchia Europa, in particolare quella di matrice cattolica», ebbe a spiegarmi durante una cena all’Harry’s Bar di New York, l’allora procuratore Rudolph Giuliani (per inciso, discendente di immigrati italiani). «Siamo per l’accoglienza, ma l’essere accolti implica un’accettazione dei principi che stanno alla base della convivenza multirazziale». Nessun paese è più multirazziale dell’America, un brillante politico dalla pelle scura, il democratico Obama, sangue keniota, è in corsa per la Casa Bianca e nessuno si scandalizza. Senza tirare in ballo le centinaia di governatori e di sindaci neri o ispanici. Inconcepibile in un’Europa che pur dichiarandosi progressista con bizantini riti politici si lacera sul voto, financo amministrativo, degli immigrati. Una regione c’è. Là (Usa), l’integrazione non ammette deroghe; qui (Italia in primis), è un optional. Rientrando nel seminato, l’Europa «riscopre» l’America nel momento del bisogno. Siamo nel 1916-17, in piena e fratricida Prima guerra mondiale. La Germania sta per avere la meglio su Francia e Italia e la Russia zarista percorsa da fremiti rivoluzionari è allo stremo. Gli inglesi chiamano a soccorso l’America, che dopo qualche esitazione manda i suoi figli a sacrificarsi. Col presidente Wilson a chiedere, in contropartita, la democratizzazione dell’Europa. Attraverso la creazione della Società delle Nazioni (sede a Ginevra, antesignana dell’Onu). Wilson è smentito clamorosamente e gli Usa non entreranno nel consesso, orientandosi verso una politica di isolazionismo. Con realistico cinismo, faticano a credere in un’Europa democratica. 70-71
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[GiancarloGalli] L’Atlantico tende ad allargarsi, negli anni Venti-Trenta, con gli Usa essenzialmente preoccupati di accrescere la loro egemonia nel Pacifico. Individuando nel Giappone il principale rivale. Nel frattempo l’Europa, percorsa dal vento del totalitarismo, rifiuta di prendere atto della sua perdita d’influenza; l’impero di sua maestà britannica è uscito malconcio dalla grande guerra, pur celebrando la vittoria. Peggio ancora i francesi, che non riescono a ritrovare il rango di superpotenza continentale. La Seconda guerra mondiale trova un’Europa indebolita, lacerata al suo interno. Nazismo e fascismo al potere, guerra civile in Spagna, Balcani in ebollizione. E un po’ ovunque, forti partiti comunisti che hanno eretto l’Urss a casa madre. L’Europa ha dunque perso la sua identità. Seconda guerra mondiale. Gli Usa, pur non insensibili (per etica democratica) al dramma che si sta consumando in Europa e agli appelli di Winston Churchill, mantiene una posizione di sostanziale neutralità. Col presidente Roosevelt incalzato dagli isolazionisti. Solo il proditorio attacco giapponese a Pearl Harbor (8 dicembre 1941), e l’asse Berlino-Roma-Tokio fa scattare il gigante apparentemente dormiente. Vittoria totale, la cui paternità viene però messa in discussione: dalla Francia di De Grulle alla resistenza italiana. A menare la danza i partiti comunisti che trovano vasto consenso negli ambienti intellettuali, con i portabandiera nella Parigi di Sartre e Simone de Beauvoir. Inutilmente gli yankee ci mandano aiuti d’ogni sorta: la stella cometa sembra brillare sul Cremlino. Gli Usa, questa volta, non ripetono l’errore strategico del 1919. Morto Roosevelt, il presidente Truman costringe Stalin a riscrivere la carta geografica europea, erigendo una barriera fra democrazie e comunismo. Il fascismo dell’impero sovietico tuttavia permane. Destinato a resistere sino alla caduta del Muro di Berlino (1989) che segna la fine dell’era del socialismo reale, iniziata con la rivoluzione bolscevica del 1917. Una fiammella che non s’è ancora totalmente spenta, pensando a quella miriade di partitini che continuano ad avere la falce e il martello nei loro simboli, a quanti marciano sventolando bandiere rosse. Nocciolo della questione: da dove proviene la diffusa allergia al modello americano che non è certo di oggi? Forse, una delle ragioni (e potrebbe essere la principale), è racchiusa in una sola parola: capitalismo! Nessun paese è più Gli Usa sono, per definizione corrente, capitamultirazziale dell’America: listi. Nell’ottocentesca accezione marxista, un un politico dalla pelle scura sistema economico-sociale fondato sulla separazione tra capitalisti (proprietari dei mezzi di corre per la Casa Bianca
[Poveri noieuropei] Mentre l’Europa continua a scomporsi e ricomporsi gli Usa si “fanno Stato”. Espandendosi. È una sfida che gli europei nemmeno possono prendere in considerazione produzione) orientati alla massimizzazione del profitto, e lavoratori che cedendo la loro forza-lavoro ne ricavano un salario. Di conseguenza, perenne lotta fra classi. Segnata, secondo Marx, da una costante: i ricchi che divengono sempre più ricchi, a spese di moltitudini destinate all’impoverimento. Il che varrebbe sia per gli individui che per le nazioni. (La retorica sul terzo e quarto mondo, sfruttati, ha qui le sue radici). Adam Smith, economista e filosofo scozzese, è considerato il padre del liberismo. Sin dal Settecento, aveva teorizzato come la prosperità di un paese, e quindi di tutti i suoi abitanti, discenda dalla produttività del lavoro, dall’accumulazione del capitale e dall’esaltazione dell’egoismo individuale. Così, mentre gli europei, più o meno consapevoli, si richiamano a Marx, gli Usa partiranno da Adam Smith. Confortati da Max Weber, sociologo tedesco, che identificò nell’ «etica protestante» lo «spirito del capitalismo». E chi più protestanti degli americani? In un fresco ed eccellente saggio (L’Idea del capitale in Occidente, Marsilio editore), lo storico ed economista Francesco Boldizzoni descrive con efficacia il progressivo venir meno della «centralità del pensiero dell’Europa», rispetto all’affermarsi del «disincantato primato culturale degli Usa». (In campo economico-finanziario, ovvio). Proviamo a rivisitare, in quest’ottica, gli eventi succintamente esposti in chiave geopolitica. Mentre l’Europa continua, da Napoleone in poi, a scomporsi-ricomporsi, dilapidando i suoi patrimoni, gli Usa si «fanno Stato». Espandendosi. È una sfida che gli europei nemmeno possono prendere in considerazione! L’Europa ha decine di monete, gli Usa ne hanno una sola, il dollaro; nemmeno la guerra di Secessione l’ha posto in discussione. Ed è ancorato saldamente all’oro e all’argento. Il nazionalismo ha ceduto il passo a un federalismo reale, e a promuovere lo sviluppo. È un individualismo sì sfrenato, ma che ha abbattuto ogni concetto di «lotta di classe». Ogni americano, se ne è capace, ha in tasca le chiavi del successo, del salto sociale. Lì, ricchi non si nasce, lo si diventa. Per contrastare questa dinamica (imprevista poiché imprevedibile, in quanto contraria ai nostri paradigmi), che cosa potrebbe opporre l’Europa? Un suo modello, plasmato sulla nuova realtà di una società industrializzatasi. Dove capitale e lavoro hanno cessato di essere antagonisti per principio. Invece, ci si incaponisce nella contrapposizione marxiana, o si va alla ricerca di scorciatoie. La grande crisi del 1929, innescata dal crollo di Wall Street (divenuto il primo mercato finanziario mondiale), dovrebbe indurre gli europei non soltanto a 72-73
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denunciare i limiti del capitalismo americano, da dove è partita la recessione, ma a ricercare soluzioni alternative. Il sommo economista John M. Keynes, un inglese che Roosevelt mise alla porta, diverrà il padre delle socialdemocrazie, sostenendo che la libertà economica deve venire arginata dalla presenza dello Stato. (In Italia, nascerà l’Iri, per salvare banche e industrie dal fallimento). I cattolici immaginano una terza via, equidistante dal liberismo e dal socialismo: quel corporativismo che ha il massimo teorico in un giovane professore dell’Università Cattolica, Amintore Fanfani. Un po’ ovunque, i regimi dittatoriali condizionano l’apparato industriale alle loro mire, imbrigliando i sindacati ma lasciando agli imprenditori larghissimi, talvolta spropositati, margini di profitto. In assenza di mercato e concorrenza. Gli Usa, trionfanti sul terreno militare, impongono (a spese della sterlina inglese), il dollaro quale moneta universale di riferimento; e facendosi paladini della «decolonizzazione», minano alle fondamenta gli imperi coloniali di Francia e Gran Bretagna. Anche attraverso le loro multinazionali: petrolifere, chimiche, alimentari. Per un po’ mantenendo il cambio di 35 dollari per un’oncia d’oro; poi sospendendolo, con la celeberrima decisione del presidente Richard Nixon (15 agosto 1971): «Dollar as good as Gold». Ovvero, il dollaro è come l’oro. Ce n’è a sufficienza, ammettiamolo, per non amare gli States. Tuttavia, quali alternative? In campo monetario il rublo sovietico non è credibile e qualche eccellenza tecnologica (lo Sputnik) non ha ricadute nell’economia reale. Al contrario, gli Usa, hanno inventato il «capitalismo di massa», che va sotto il nome di «consumismo». Sulle orme di Henry Ford che sin dall’anteguerra aveva standardizzato la produzione automobilistica, coniando lo slogan «I miei dipendenti raggiungeranno la fabbrica in auto». Dunque, alle spalle di re dollaro, sta una filosofia economica complessa, con primo attore il consumatore. Non per magnanimità, bensì nella consapevolezza che la crescita, lo sviluppo, dipendono dai consumi: l’altra faccia dell’«egoismo individuale» di Adam Smith. Vi è però una questione irrisolta: l’incognita dei cicli economici. E quelli che si determinano in Usa sono paurosi, facendo di volta in volta, parlare di un declino americano.
James Rosenquist, “Rainbow” 1961, olio, tela, vetro, Museum Ludwig, Colonia
[Poveri noieuropei] Accadde, per restare al passato prossimo, nel 1987, col disastro della New Economy, nel 2001 dopo gli attentati alle Torri Gemelle e si ripete oggi col crack dei mutui. S’ha da riconoscere all’Europa, più che a qualunque altra area del pianeta (incluse Cina, India e la Russia postcomunista), di aver cercato di produrre un modello se non alternativo, quantomeno non appiattito sugli Usa. Mercato comune, Unione europea, sino all’euro. Successo innegabile, la moneta unica, salvo chiedersi, realisticamente: si rafforza per nostro merito o per la capacità di manovra del dollaro che la Federal Reserve utilizza (con rialzi e ribassi mozzafiato sul mercato dei cambi), per favorire le politiche commerciali statunitensi? Ancora: l’euro è sostenuto da un concerto politico concorde, fra gli statisti del vecchio continente, oppure è un artificio tecnocratico che spinto troppo in alto potrebbe esplodere? Infine: una moneta, per essere davvero forte, deve avere alle spalle un sistema estremamente robusto; il che, per l’Europa dei 27, non è dato. Non fosse altro per l’incapacità di concepire una politica estera (quindi di economia globale, capace di fare da contraltare agli Usa. Queste semplici osservazioni (probabilmente destinate a far torcere il naso ai più sofisticati analisti, che peraltro quasi mai ne hanno azzeccata una), induce a dubitare su un declino americano dietro l’angolo. Derubricandolo a esercizio intellettuale, dopo aver sfogliato il recentissimo volume The Post-American World di Fareed Zakaria, editor di Newsweek International. Si legge che i sintomi di un
I potenti di turno non hanno mai goduto di buona stampa fra gli intellettuali, il cui principale difetto è il pregiudizio. Il “politically correct” li porta a immaginare l’inesistente
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[GiancarloGalli] mondo post-americano sono molti: «il grattacielo più alto è a Taipei, e presto ce ne sarà uno ancora più alto a Dubai», che «il più grande casinò è a Macao e non a Las Vegas», che «la più grande raffineria del mondo è in costruzione in India», che nelle classifiche più recenti «il più ricco del mondo è un messicano e soltanto due su dieci sono americani». Casistica stimolante, ma quanto indicativa di un processo di disfacimento dell’impero, solo pensando a quel che rappresentano gli Usa sullo scacchiere internazionale? Certo i potenti di turno (storicamente parlando) mai hanno goduto di buona stampa fra gli intellettuali, il cui principale difetto non è la presbiopia (vedere poco da vicino e bene da lontano), ma il pregiudizio. Quello che ammantato da buone intenzioni li porta ad immagazzinare l’inesistente. Nello specifico, un pianeta con gli Usa ridimensionati a potenza regionale, fra l’Alaska e i Carabi, New York e Honolulu. Le Borse di New York e Chicago a luoghi in cui si scambiano cambiali e noccioline. Ho l’impressione si stia facendo del wishful thinking, ovvero scambiare i desideri per realtà. Apparendomi, il declino americano il pericoloso sogno di un’Europa rumorosa quanto impotente.
Jim Dine, “Double Isometric SelfPortrait (Serape)” 1964, olio, legno e metallo su tela, Collezione del Whitney Museum of American Art, New York
[il documento]
IL FUTURO VISTO DAL CANDIDATO REPUBBLICANO
LA NUOVA ARCA DELLA
ALLEANZA ✵
John McCain
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Q
UANDO AVEVO CINQUE ANNI, UN’AUTO SI FERMÒ
dinanzi alla nostra casa di New London, Connecticut. Un ufficiale della Marina abbassò il finestrino e gridò a mio padre che i giapponesi avevano bombardato Pearl Harbor. Mio padre uscì immediatamente per recarsi presso la base sottomarina dove era di stanza. Nei quattro anni successivi lo vidi pochissimo. Mio nonno, il quale comandava un’unità sotto la guida dell’ammiraglio Halsey, tornò a casa provato dalla guerra, per gli stress che aveva subito e venne a mancare il giorno successivo. In Vietnam, dove ho stabilito i legami di amicizia più profondi della mia vita, ho visto alcuni di quegli amici non tornare mai più nel paese che tanto amavano. Detesto la guerra. Può forse non essere la cosa peggiore che possa capitare a un essere umano, ma non ci sono parole per descrivere quanto sia orribile. La scelta delle nazioni di risolvere le loro divergenze ricorrendo alle armi ha come conseguenza milioni di tragedie. Si sacrifica la vita dei migliori patrioti del paese. Degli innocenti soffrono e muoiono. Vengono danneggiati gli scambi commerciali, intere economie, oltre 76-77
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ad alcuni interessi strategici protetti da anni di paziente esercizio dell’arte di governare, sacrificati perché le esigenze della guerra e quelle della diplomazia non coincidono. Né il coraggio con cui la si combatte, né la nobiltà della causa cui si ispira possono nobilitare la guerra. Indipendentemente da ciò che ci si guadagna, è delle perdite che i veterani hanno il ricordo più vivo. Soltanto uno stolto o un ciarlatano può romanticizzare la spietata realtà della guerra. Per quanto elettrizzante possa essere il fascino della chiamata alle armi, per quanto giusta possa essere la causa da difendere, dovremmo comunque versare una lacrima per tutto quanto si è perso quando la guerra ci chiede il conto. Sono un idealista e credo che oggi sia possibile cambiare il mondo in cui viviamo, renderlo migliore, un posto in cui regni maggiore pace, ove i nostri interessi e quelli dei nostri alleati siano meglio protetti e dove gli ideali americani che trasformano il mondo, i principi della libertà degli individui e del libero mercato, si consolidino ancora più di quanto lo siano già. Ma, sulla base della dura esperienza e delle conclusioni cui essa induce, sono un idealista realistico. So che è necessario lavorare sodo e in maniera costruttiva per gettare le nuove fondamenta di una pace stabile e duratura. Non possiamo auspicare un mondo migliore di quanto non lo sia oggi. Abbiamo nemici per i quali nessun tipo di attentato è troppo spietato, nessuna vita innocente è al sicuro e che, se potessero, ci colpirebbero con le armi più terribili del mondo. Vi sono alcuni Stati che li sostengo-
[il documento] no e che potrebbero aiutarli a procurarsi quelle armi perché nutrono il loro stesso odio per l’Occidente e non li placheranno ulteriori appelli rivolti agli angeli migliori della loro specie. È questa la minaccia principale dei nostri tempi e dobbiamo comprendere quale impatto abbiano le nostre decisioni in ordine a tutti i tipi di rischi, di natura regionale o internazionale, sulla possibilità di eliminarli. Una volta, il presidente Harry Truman disse dell’America: «Dio ci ha creati e ci ha portati a raggiungere l’attuale posizione di potere e forza per ragioni superiori». Al tempo, dette ragioni erano costituite dal contenimento del comunismo e dalla costruzione di strutture di pace e prosperità, in grado di consentire di superare indenni la guerra fredda. Ora tocca a noi. Abbiamo dinanzi nuove opportunità, ma anche nuovi pericoli. I progressi della scienza e della tecnologia ci hanno regalato una indicibile prosperità, hanno consentito di eliminare molte malattie e di ridurre le sofferenze di milioni di persone. Nel corso della vita abbiamo la possibilità di elevare il mondo verso un livello superiore dell’esistenza umana. Eppure, le stesse tecnologie hanno prodotto nuovi e gravi rischi, armato alcuni esaltati oggi 78-79
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[FerdinandoHillmann] È NECESSARIO LAVORARE SODO PER GETTARE LE NUOVE FONDAMENTA DI UNA PACE STABILE E DURATURA
capaci di uccidere milioni d’innocenti e prodotto un’industrializzazione mondiale che, nel tempo, può costituire una minaccia per il pianeta. Per fronteggiare tali problemi è necessario comprendere il mondo in cui viviamo e il ruolo di primo piano che gli Stati Uniti devono svolgere ai fini della determinazione del futuro. Gli Stati Uniti devono svolgere una funzione di comando, ✵✵✵ come ai tempi di Truman. Ma il comando ha un significato diverso oggi, rispetto al secondo dopoguerra, quando l’Europa e le altre democrazie attraversavano ABBIAMO ancora una fase di ripresa dalle devastazioni della guerra e gli Stati Uniti erano DAVANTI NUOVE l’unica superpotenza democratica. Oggi non siamo da soli. C’è anche la voce OPPORTUNITÀ forte dell’insieme dei paesi dell’Unione Europea e ci sono grandi nazioni quali MA ANCHE India e Giappone, Australia e Brasile, Corea del Sud e Sudafrica, Turchia e NUOVI PERICOLI CHE SONO Israele, per citare soltanto alcune delle principali democrazie. Vi sono inoltre UNA MINACCIA nazioni sempre più forti, quali Cina e Russia, che esercitano una forte influenza PER IL PIANETA sullo scenario internazionale. In un mondo siffatto, in cui tutti i poteri sono distribuiti in maniera più ampia ed equa, gli Stati Uniti non possono proporsi ✵✵✵ come guida semplicemente in ragione della propria forza. Dobbiamo essere forti a livello politico, militare ed economico. Ma dobbiamo esercitare la nostra funOGGI zione di guida anche inducendo gli altri a sostenere la nostra causa, dimostrando NON SIAMO DA SOLI ancora una volta quali siano le virtù della libertà e della democrazia, difendendo C’È ANCHE le regole della società internazionale civile e creando nuove istituzioni internaLA VOCE FORTE zionali, necessarie per promuovere quella pace e quella libertà a noi tanto care. DEI PAESI Forse, essere al comando nel mondo di oggi significa, soprattutto, accettare e DELL’UNIONE fronteggiare le responsabilità che abbiamo in quanto grande nazione.Tra le sudEUROPEA dette responsabilità v’è quella di essere un alleato buono e fidato delle democrazie come la nostra. Non possiamo costruire da soli una pace durevole basata sulla ✵✵✵ libertà e non vogliamo farlo. Dobbiamo rafforzare le nostre alleanze internazionali e farne il nucleo di un nuovo patto internazionale - una lega delle democraESSERE zie - in grado di far leva sulla dilagante influenza delle più di cento nazioni AL COMANDO SIGNIFICA democratiche del mondo per promuovere i nostri valori e difendere gli interessi FRONTEGGIARE comuni. I COMPITI Il suddetto patto deve basarsi sul rispetto e la fiducia reciproci. Ricordo le parole CHE ABBIAMO IN QUANTO che i nostri padri fondatori hanno riportato nella Dichiarazione d’Indipendenza, GRANDE sottolineando come dobbiamo «rispettare l’opinione dell’umanità». La nostra NAZIONE grande forza non implica che possiamo fare ciò che vogliamo, quando vogliamo,
[il documento] né dobbiamo piccarci di essere depositari di tutta la saggezza e la conoscenza necessarie per conseguire gli obiettivi prefissati. Dobbiamo ascoltare il parere degli altri e rispettare la volontà collettiva dei nostri alleati democratici. Ove ritenessimo che sia necessario un intervento internazionale, sia esso di natura militare, economica o diplomatica, dovremmo cercare di convincere i nostri amici che abbiamo ragione. Ma, in cambio, dobbiamo essere disposti a farci convincere da loro. L’America deve agire da modello se desideriamo che gli altri ci prendano ad esempio. Il modo in cui agiamo a livello nazionale influenza la percezione che all’estero hanno di noi. Dobbiamo combattere il terrorismo e, nel contempo, tutelare quei diritti che costituiscono il fondamento della nostra società. Non possiamo torturare o trattare in maniera disumana i sospetti terroristi che catturiamo. Ritengo che dobbiamo chiudere la struttura di Guantanamo e adoperarci, insieme ai nostri alleati, per formulare nuovi criteri internazionali sulla collocazione dei detenuti pericolosi in nostro controllo. Esiste una cosa che si chiama buona cittadinanza internazionale. Dobbiamo essere buoni custodi del nostro pianeta e unirci con altre nazioni per contribuire a conservare la nostra casa comune. I rischi legati al 80-81
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surriscaldamento del pianeta non hanno frontiere. Nei prossimi anni noi e le altre nazioni dobbiamo perseguire con serietà l’obiettivo di ridurre in modo sostanziale le emissioni di gas serra, oppure lasceremo ai nostri nipoti un mondo impoverito. Abbiamo bisogno di uno strumento che sostituisca il Trattato di Kyoto, un sistema cap-and-trade che abbia il necessario impatto ambientale in maniera economicamente responsabile. Noi americani dobbiamo guidare con l’esempio e incoraggiare la partecipazione del resto del mondo e, soprattutto, quella delle potenze economiche in via di sviluppo di Cina e India. Circa quarantacinque anni fa, John Kennedy definiva i popoli dell’America Latina nostri «vecchi e consolidati amici, uniti a noi dalla storia, dall’esperienza e dalla nostra determinazione a promuovere i valori della civiltà americana». Con la globalizzazione, il nostro emisfero si è fatto più compatto, più integrato e interdipendente. Oggi, l’America Latina assume crescente rilevanza in tutte le questioni che riguardano gli Stati Uniti. Gli americani del Nord e del Sud hanno una geografia e un destino comuni. I paesi dell’America Latina sono partner naturali degli Stati Uniti e del nostro vicino settentrionale: il Canada. Le relazioni con i paesi vicini del Sud devono basarsi sul rispetto reciproco e non su impulsi imperialistici o su un antiamericanismo demagogico. La posta in gioco, cioè la vita dell’America settentrionale, centrale e meridionale, è troppo alta. Ritengo che le Americhe possano e debbano costituire un modello di nuove relazioni Nord-Sud nel XXI secolo. Il nostro può diventare il primo emisfero interamente democratico, nel quale si avrebbero liberi scambi commerciali senza frontiere, ove la supremazia del diritto e la forza del libero mercato promuoverebbero sicurezza e prosperità per tutti. Oggi, il baricentro della potenza mondiale si sta spostando verso Est: la regione dell’Asia orientale è in grande ascesa. Insieme al nostro alleato democratico di vecchia data, il Giappone, possiamo cogliere le opportunità offerte dal mondo in evoluzione e questo secolo può diventare un secolo di sicurezza e libertà, sia per gli americani, sia per gli asiatici. Negli ultimi decenni, l’Asia ha compiuto enormi progressi. Sono ben noti i traguardi economici rag-
Il nuovo
patto internazionale
deve basarsi sul rispetto e la fiducia reciproci. « l’opinione dell’umanità»…
Rispettando
DOBBIAMO RAFFORZARE LE ALLEANZE INTERNAZIONALI E FARNE IL NUCLEO DI UNA LEGA DELLE DEMOCRAZIE ✵✵✵
DOBBIAMO ASCOLTARE IL PARERE DEGLI ALTRI E RISPETTARE LA VOLONTÀ DEI NOSTRI ALLEATI DEMOCRATICI ✵✵✵
DOBBIAMO COMBATTERE IL TERRORISMO E TUTELARE QUEI DIRITTI CHE SONO IL FONDAMENTO DELLA NOSTRA SOCIETÀ ✵✵✵
DOBBIAMO RIDURRE LE EMISSIONI DI GAS SERRA O LASCEREMO AI NOSTRI NIPOTI UN MONDO IMPOVERITO
[il documento]
giunti, mentre si sa meno che ci sono più persone che vivono sotto regimi democratici in Asia di quante ve ne siano in qualsiasi altra zona del mondo. Quello di relazionarsi a una Cina in ascesa sarà uno dei compiti più difficili del prossimo presidente americano. Il recente conseguimento di una situazione di benessere da parte della Cina ha sottratto un numero maggiore di persone alla povertà e lo ha fatto più velocemente di quanto sia mai accaduto in qualsiasi altro periodo storico. La sua nuova potenza impone alla Cina nuove responsabilità. La Cina può confermare la propria ambizione a un’«ascesa pacifica» mantenendo una maggiore trasparenza sul proprio programma di rafforzamento militare, collaborando con il mondo per isolare Stati paria come la Birmania, il Sudan e lo Zimbabwe, e smettendo di cercare di istituire forum regionali e siglare accordi economici allo scopo di escludere l’America dall’Asia. La Cina e gli Stati Uniti non sono predestinati a essere avversari. Abbiamo numerosi interessi in comune e possiamo ragionevolmente sperare di veder evolvere le nostre relazioni in una direzione vantaggiosa per entrambi i paesi e, quindi, per la 82-83
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regione dell’Asia-Pacifico e il mondo intero. Ma finché la Cina non si incamminerà sulla via della liberalizzazione politica, le nostre relazioni potranno fondarsi soltanto sulla temporanea condivisione di interessi e non su solidi pilastri costituiti da valori condivisi. Gli Stati Uniti non hanno vinto da soli la guerra fredda: è stata l’Alleanza Atlantica a vincerla, con la collaborazione dei suoi alleati in tutto il mondo. I legami che abbiamo con l’Europa, in termini storici, di valori e di interessi, sono profondissimi. Gli americani dovrebbero salutare con favore l’ascesa di un’Unione Europea forte e solida, continuando a sostenere la necessità di una Nato forte. Il futuro delle relazioni transatlantiche dipende dalla capacità di affrontare le sfide del XXI secolo in tutto il mondo: messa a punto di una politica energetica comune, creazione di un mercato comune transatlantico che leghi maggiormente le nostre economie, soluzione del problema di una Russia revanscista, istituzionalizzazione della cooperazione su questioni quali i cambiamenti climatici, gli aiuti internazionali e la promozione della democrazia. Dobbiamo fare in modo che il G8, il gruppo costituito dalle otto nazioni più industrializzate, torni a essere un club di democrazie del libero mercato: bisogna includervi il Brasile e l’India ma escludere la Russia. Anziché tollerare il ricatto nucleare o gli attacchi «elettronici» della Russia, le nazioni occidentali dovrebbero sottolineare con chiarezza che l’unità della Nato, dal Baltico fino al Mar Nero, è indivisibile e che le sue porte rimangono aperte a tutte le democrazie impegnate nella difesa della libertà. Se da un lato conosciamo bene i problemi dell’Africa, tra cui vi sono povertà, corruzione, malattie e instabilità, dall’altro dobbiamo imparare a cogliere le opportunità positive offerte da alcuni Paesi del continente africano. Dobbiamo impegnarci a fondo, dal punto di vista politico, economico e della sicurezza con i governi africani amici, ma insistere anche sul rispetto delle regole di trasparenza e della supremazia del diritto da parte degli stessi. Molte nazioni africane non riusciranno a sfruttare appieno le loro potenzialità senza che siano coadiuvate dall’esterno nelle loro attività volte a risolvere proble-
Cina
La e gli Stati Uniti non sono predestinati a essere avversari. I legami con l’ sono profondi…
Europa
RELAZIONARSI A UNA CINA IN ASCESA SARÀ UNO DEI COMPITI PIÙ DIFFICILI DEL PROSSIMO PRESIDENTE AMERICANO ✵✵✵
GLI USA NON HANNO VINTO DA SOLI LA GUERRA FREDDA: È STATA L’ALLEANZA ATLANTICA A VINCERLA ✵✵✵
GLI AMERICANI DOVREBBERO SALUTARE CON FAVORE L’ASCESA DI UNA UE SOSTENENDO UNA NATO FORTE ✵✵✵
IL G8 DEVE ESSERE UN CLUB DEMOCRATICO: DENTRO BRASILE E INDIA FUORI LA RUSSIA
[il documento] mi profondamente radicati quali la sieropositività e l’Aisa, che colpiscono l’Africa in maniera smisurata. Mi prefiggerò l’obiettivo di eliminare la malaria sul continente: si tratta della principale causa di morte dei bambini africani d’età inferiore ai cinque anni. Oltre a salvare milioni di vite delle aree più povere del pianeta, una siffatta iniziativa conferirebbe lustro all’immagine dell’America nel mondo. Inoltre, con le altre grandi potenze mondiali, condividiamo l’obbligo di porre fine alla proliferazione degli armamenti nucleari. Gli Stati Uniti e la comunità internazionale devono unire le forze e fare tutto quanto in loro potere per contenere e porre fine al programma nucleare militare della Corea del Nord e impedire all’Iran - una nazione il cui presidente ha più volte espresso il desiderio di cancellare Israele dalla faccia della terra - di dotarsi della bomba nucleare. Dovremmo adoperarci per ridurre gli arsenali nucleari di tutto il mondo, iniziando dai nostri. Quarant’anni fa, le cinque potenze nucleari dichiarate sostennero, insieme, il Trattato di Nonproliferazione nucleare, impegnandosi a porre fine alla corsa agli armamenti e ad avviarsi verso il disarmo nucleare. È giunto il momento di rinnovare quell’impegno. Non abbiamo bisogno di tutti gli armamenti di cui constano gli arsenali attuali. Gli Stati Uniti dovrebbero farsi promotori di un’iniziativa mondiale per il disarmo nucleare, in linea con i nostri interessi vitali e la causa della pace. Se riusciamo a mettere insieme una coalizione internazionale per la pace e la libertà - se ci poniamo alla guida assumendoci le nostre responsabilità internazionali, indicando la strada verso un futuro migliore e più sicuro per l’umanità credo che la nostra nazione trarrebbe vantaggi tangibili. Ciò ci rafforzerà anche nello sforzo di raccogliere la sfida più grande dei nostri tempi: la minaccia suprema del terrorismo islamico radicale. Non la definisco la minaccia suprema perché è l’unica cui dobbiamo far fronte. Nel mondo di oggi vi sono numerosi pericoli e la nostra politica estera deve avere l’agilità e l’efficacia necessarie a farvi fronte. Ma i rischi legati al terrorismo non hanno eguali. Soltanto i terroristi dedicano tutte le loro energie e sacrificano addirittura la vita per uccidere uomini, donne e bambini innocenti. Soltanto loro sono alla ricerca di armi nucleari e di 84-85
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distruzione di massa non già per difendersi, accrescere il proprio prestigio o avere maggiore potere negli affari internazionali, bensì per utilizzarle contro di noi ogni qualvolta riescano a farlo. Qualsiasi presidente che non considerasse tale minaccia superiore a tutte le altre non meriterebbe di sedere alla Casa Bianca, perché non assolverebbe al primo e più importante compito di un presidente: quello di salvaguardare la vita dei cittadini americani. Attraverso la tragica esperienza dell’11 settembre 2005, abbiamo imparato che la sola difesa passiva non ci garantisce protezione. Dobbiamo proteggere le nostre frontiere. Ma dobbiamo altresì dotarci di una strategia aggressiva di attacco ed eliminazione dei terroristi, ovunque cerchino di agire, e impedire loro di creare basi in Stati inesistenti o quasi. Oggi, Al Qaeda e altre reti terroristiche sono attive in tutto il mondo, alla ricerca di opportunità in Asia Sud-Orientale, Asia Centrale, Africa e Medio Oriente. Per vincere questa guerra sarà necessario possedere molto più della semplice forza militare. Dovremo far leva su tutte le componenti che costituiscono la forza della nostra nazione: la diplomazia, l’assistenza allo sviluppo, l’addestramento al rispetto delle leggi, l’espansione delle opportunità economiche, nonché notevoli capacità d’intelligence. Ho lanciato un appello affinché il nostro governo muti radicalmente il suo modo di affrontare i problemi legati all’estremismo radicale islamico e ho chiesto lo stanziamento di risorse molto più ingenti per le attività civili volte alla prevenzione dei conflitti e alla gestione delle problematiche postbelliche. Dobbiamo prefiggerci lo scopo di conquistare «la mente e il cuore» della stragrande maggioranza dei musulmani moderati, i quali non desiderano che il loro futuro dipenda da una minoranza di estremisti violenti. In questa battaglia, le borse di studio avranno una rilevanza di gran lunga maggiore delle bombe intelligenti. Dobbiamo inoltre creare una cornice internazionale di pace duratura, nella quale gli estremisti radicali vengano gradualmente offuscati dalle potenti forze della libertà e della tolleranza. Le nostre iniziative in Iraq e in Afghanistan sono fondamentali in tal senso e non possono essere isolate dalla più ampia strategia generale. Questi due paesi, situati in un’area tormentata e spesso pericolosa, possono essere o fonte di estremismo e instabilità, oppure diventare dei pilastri di stabilità, tolleranza e democrazia. Per decenni nel Grande Medio Oriente abbiamo attuato una strategia che ci ha visto affidare agli autocrati il compito di mantenere ordine e stabilità. Abbiamo fatto affidamento sullo scià
DOBBIAMO IMPEGNARCI CON I GOVERNI AFRICANI MA ANCHE INSISTERE SUL RISPETTO DELLE REGOLE ✵✵✵
ABBIAMO L’OBBLIGO DI PORRE FINE ALLA PROLIFERAZIONE DEGLI ARMAMENTI NUCLEARI ✵✵✵
I RISCHI LEGATI AL TERRORISMO NON HANNO EGUALI E LA SOLA DIFESA PASSIVA NON BASTA ✵✵✵
PER VINCERE BISOGNERÀ POSSEDERE MOLTO PIÙ DELLA SEMPLICE FORZA MILITARE
[il documento] iraniano, sul regime dittatoriale egiziano, sui generali pakistani, sulla famiglia reale saudita e persino, per un certo periodo, su Saddam Hussein. Alla fine degli anni Settanta, questa strategia ha iniziato a sfaldarsi. Lo scià fu rovesciato dai fautori della rivoluzione radicale islamica che ancora oggi governano il paese. I fermenti che essa ha causato nel mondo musulmano hanno dato luogo a una crescente instabilità. Gli autocrati hanno inasprito la repressione interna e, nel contempo, aiutato subdolamente il radicalismo islamico all’estero nella speranza di non divenirne essi stessi le vittime. Si è trattato di una miscela tossica ed esplosiva. Ma l’oppressione esercitata dagli autocrati si è mescolata con la teologia dogmatica degli islamisti e ha prodotto una tempesta perfetta di intolleranza e odio. Non possiamo più illuderci che affidarci a queste ormai anacronistiche autocrazie costituisca la scelta migliore. Non garantiscono più un’autentica stabilità, ma ne danno solo l’illusione. Non dobbiamo pretendere un mutamento immediato e improvviso. Ma non possiamo nemmeno ritenere che lo status quo sia ancora sostenibile o addirittura nel nostro interesse. Il cambiamento sta già avvenendo, indipendentemente dalla nostra volontà. La sola questione è se saremo in grado di orientare questo cambiamento in una direzione vantaggiosa per tutta l’umanità o se invece permetteremo ai nostri nemici di impadronirsene per i loro detestabili scopi. Dobbiamo contribuire a rafforzare e diffondere la libertà, usando tutti gli strumenti di cui disponiamo in quanto popolo libero. Questo non è semplice idealismo. È invece il genere più autentico di realismo. Saranno le democrazie del mondo a costruire i pilastri sui quali potremo costruire una pace duratura. Se si traccia una linea partendo dal medio Oriente, attraversando l’Asia Centrale e il subcontinente asiatico, fino all’Asia Sud-Orientale, è possibile scorgere quei pilastri della democrazia lungo tutto il tracciato, dalla Turchia e da Israele, fino 86-87
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Non possiamo ritenere che lo status quo sia ancora
all’India e all’Indonesia. L’Iraq e l’Afghanistan si trovano al centro di quell’area. E il fatto che si trasformino anch’essi in stabili democrazie o, al contrario, sprofondino nel caos e nell’estremismo, determinerà non solo il futuro di quella importantissima zona del mondo, ma anche quello di noi tutti. È questa l’ampia ottica strategica attraverso la quale vanno viste le nostre iniziative in Iraq e Afghanistan. Molti ci chiedono come si possa definire il successo. Il successo in Iraq e in Afghanistan consiste nella creazione di due Stati democratici, pacifici, stabili e prosperi, che non costituiscano una minaccia per le nazioni vicine e contribuiscano a sconfiggere il terrorismo. È il trionfo della tolleranza religiosa sul radicalismo violento. Chi sostiene che i nostri obiettivi in Iraq siano irraggiungibili si sbaglia, così come si sbagliava chi un anno fa considerava la guerra ormai persa. Dal giugno del 2007, le violenze tra sette e gruppi etnici diversi sono diminuite del 90 per cento. Il numero totale delle vittime civili è diminuito del 70 per cento. Anche le perdite delle forze della coalizione sono diminuite del 70 per cento. Tale significativa riduzione della violenza ha aperto la strada a un ritorno a una vita economica e politica vicina alla normalità per il cittadino medio iracheno. La gente torna al lavoro. I mercati sono aperti. I proventi petroliferi aumentano. Si prevede che, nel 2008, l’economia irachena registrerà una crescita pari a circa il 7%. In tutto l’Iraq, a livello locale e provinciale, ha luogo una riconciliazione politica. I sunniti e sciiti che erano stati costretti ad abbandonale le loro case dalle violenze settarie e terroristiche, vi stanno facendo ritorno. A livello nazionale, i progressi politici sono ancora troppo lenti, ma ve ne sono stati. Secondo alcuni critici, l’aumento di truppe non sarebbe, di per sé, una soluzione ed è necessario procedere sulla via dell’autosufficienza dell’Iraq. Sono d’accordo. Gli iracheni devono via via farsi carico della loro sicurezza e diventare soggetti politici responsabili. Tuttavia, ciò non significa che dobbiamo ritirarci immediatamente dall’Iraq senza pensare alle conseguenze. Dobbiamo adottare una linea improntata alla cautela e alla responsabilità e aiutare gli iracheni ad avvicinarsi al giorno in cui non avranno più bisogno del nostro aiuto. È questa la rotta che uomini di
sostenibile o che addirittura sia nel nostro
interesse…
L’IRAQ E L’AFGHANISTAN POSSONO DIVENTARE PILASTRI DI STABILITÀ, TOLLERANZA E DEMOCRAZIA ✵✵✵
L’OPPRESSIONE ESERCITATA DAGLI AUTOCRATI SI È UNITA ALLA TEOLOGIA DOGMATICA DEGLI ISLAMISMI ✵✵✵
IL SUCCESSO IN MEDIO ORIENTE È IL TRIONFO DELLA TOLLERANZA RELIGIOSA SUL RADICALISMO VIOLENTO ✵✵✵
DAL GIUGNO 2007 IN IRAQ LE VIOLENZE SONO DIMINUITE DEL 90 PER CENTO
[il documento] Stato responsabili devono seguire. In Iraq ci siamo assunti una responsabilità morale. Sarebbe un atto di vergognoso tradimento, una macchia sulla reputazione della nostra grande nazione, se andassimo via abbandonando il popolo iracheno alla violenza, alla pulizia etnica e, forse, al genocidio che farebbero senz’altro seguito a un ritiro repentino e prematuro. I nostri critici dicono che l’America deve ricostruire la propria immagine nel mondo. Come possono allora sostenere nel contempo una rinuncia, moralmente riprovevole, alle responsabilità che ci siamo assunti in Iraq? Chi sostiene che dovremmo ritirarci dall’Iraq per combattere con più efficacia al Qaeda altrove commette un pericoloso errore. Se già si trovasse lì in passato ha poca importanza: il punto è che ora al Qaeda è radicata in Iraq, così come nelle terre di confine tra Pakistan e Afghanistan, nonché in Somalia e in Indonesia. Se ci ritiriamo troppo presto dall’Iraq, al Qaeda riuscirà a sopravvivere, proclamerà la vittoria e continuerà a provocare tensioni settarie che, anche se mitigate dal successo delle ultime operazioni, continuano a sussistere, perché le diverse fazioni sunnite e sciite non hanno ancora superato vecchi odi e sono vulnerabili alle provocazioni di al Quaeda. In Iraq la guerra civile potrebbe facilmente degenerare in un vero e proprio genocidio, destabilizzando l’intera regione perché le nazioni vicine correrebbero in aiuto delle fazioni che esse sostengono. Ritengo che un ritiro prematuro rappresenterebbe una terribile sconfitta per i nostri interessi di sicurezza e i nostri valori. Anche l’Iran considererebbe un nostro ritiro prematuro come una vittoria e il principale Stato sostenitore del terrorismo, con ambizioni nucleari e lo scopo dichiarato di distruggere Israele, vedrebbe aumentare notevolmente la propria influenza in Medio Oriente. Dovremmo pagare per anni le conseguenze di questa nostra sconfitta e chi propugna il ritiro immediato - così come fanno entrambi i candidati democratici - sostiene una linea che ci porterebbe a una guerra più ampia e difficile da combattere, con maggiori pericoli e sacrifici di quelli sostenuti sinora. Mi oppongo al ritiro non perché sia indifferente alla guerra e alle sofferenze che causa a molte famiglie americane. Al contrario, ho assunto questa posizione - così come anni fa sostenevo la necessità di un cambiamento tattico e dell’aumento delle truppe, che oggi si stanno rivelando effi-
Nel 2008 l’economia irachena registrerà una pari al 7 per cento. In ha luogo una riconciliazione politica
crescita Iraq
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caci in Iraq - perché odio la guerra e so per esperienza personale quanto possa essere dolorosa. Ma so anche che talvolta dobbiamo fare dei sacrifici per evitare di doverne fare di ancora maggiori in un momento successivo. Mi sono candidato alla presidenza perché voglio che il paese che amo e che ho servito per tutta la vita sia sicuro e perché intendo affrontare le sfide del nostro tempo, così come le generazioni passate hanno fatto fronte alle loro. Mi sono candidato alla presidenza perché so che spetta all’America, più che a qualsiasi altra nazione della terra, il compito di mettersi alla guida del mondo per costruire le fondamenta di una pace stabile e duratura, una pace fondata sulla forza del nostro impegno a conseguirla, sugli ideali trasformativi sui quali abbiamo costruito la nostra patria, sulla nostra capacità di guardare al futuro e sul nostro coraggio di prendere decisioni difficili. Mi sono candidato alla presidenza perché sono assolutamente convinto, così come lo sono sempre stato, che abbiamo la capacità di creare un mondo migliore di quello che abbiamo ereditato. Riflessioni di John McCain al World Affairs Council di Los Angeles. (Traduzione di Valentina Maiolini)
NON DOBBIAMO RITIRARCI SUBITO DALL’IRAQ SENZA PENSARE ALLE CONSEGUENZE ✵✵✵
AL QAEDA POTREBBE SOPRAVVIVERE, PROCLAMEREBBE LA VITTORIA E CONTINUEREBBE A PROVOCARE TENSIONI SETTARIE ✵✵✵
ANCHE L’IRAN VALUTEREBBE UN NOSTRO RITIRO PREMATURO COME UNA VITTORIA ✵✵✵
SPETTA AGLI USA, PIÙ CHE A QUALSIASI ALTRA NAZIONE DELLA TERRA LA GUIDA DEL MONDO
[il documento]
BARACK OBAMA PUNTA SU EDUCAZIONE, COMPETITIVITÀ E INFRASTRUTTURE
ANZICHÉ TEMERE IL
FUTURO DOBBIAMO COSTRUIRLO ✵
Barak Obama
✵
S
ONO LIETISSIMO DI ESSERE ALLA KETTERING - un’università che sta formando la prossima
generazione di dirigenti politici e lavoratori, in modo che possano farsi strada nel mondo del lavoro e nella società. Sono mesi che la situazione economica del nostro paese è oggetto dei titoli delle prime pagine dei giornali e le notizie non sono positive. La crisi dei mutui sub-prime ha scosso il mercato immobiliare e ha causato una significativa contrazione dei mercati creditizi. Quest’anno abbiamo perso più di 360mila posti di lavoro e il tasso di disoccupazione ha registrato l’aumento mensile più cospicuo dal febbraio del 1986. I redditi non riescono a stare al passo con l’aumento dei prezzi delle assicurazioni sanitarie e delle rette universitarie e il vertiginoso aumento del prezzo di alcune derrate alimentari e del petrolio causano notevoli problemi alle famiglie che stentano a farcela. Certo, le notizie 90-91
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economico finanziarie poco incoraggianti non costituiscono nulla di nuovo per Flint. Da decenni, ormai, i posti di lavoro nell’industria manifatturiera registrano una continua diminuzione e quelli che li hanno sostituiti sono meno remunerati e offrono minori garanzie socio-previdenziali. Molti americani, grandi lavoratori, cui in passato era sufficiente un solo stipendio per mandare avanti la famiglia, non hanno soltanto perso il posto di lavoro, ma anche l’assistenza sanitaria e la pensione. E ciò che è peggio, è che molti non credono più nella fondamentale promessa americana di una vita migliore della nostra per i nostri figli. Dobbiamo aiutare le famiglie in difficoltà in zone e città come Flint con misure d’urgenza, ma abbiamo bisogno anche di un piano serio di creazione di nuovi posti di lavoro e nuove industrie. Non possiamo semplicemente tornare alle strategie del passato. Perché viviamo in un’epoca di grandi cambiamenti economici. La tecnologia ha modificato il nostro modo di vivere e il modo in cui opera l’economia mondiale. Il crollo dell’Unione Sovietica e l’avanzata del capitalismo ci hanno consentito di superare alcuni ostacoli alla leadership internazionale americana, ma sono emerse nuove sfide, provenienti ad esempio da Cina e India, dall’Europa orientale e dal Brasile. I posti di lavoro e le industrie possono spostarsi in qualsiasi paese metta a
[il documento] loro disposizione un collegamento a Internet e una manodopera desiderosa di lavorare. I figli del Michigan cresceranno e dovranno far fronte alla concorrenza di gente proveniente non solo dalla California o dalla Carolina del Sud, ma anche da Pechino e Bangalore.Qualche anno fa, ho visto uno scorcio di questa nuova realtà recandomi presso la sede centrale di Google in California. Verso la fine della mia visita, sono stato condotto in una stanza in cui c’era un’immagine tridimensionale della terra che ruotava su un grande schermo piatto. L’immagine era tempestata di un numero infinito di lucine di colori diversi. Mi fu spiegato da un ingegnere che le luci rappresentavano tutte le ricerche effettuate tramite Internet nel mondo in quel momento e a ciascun colore corrispondeva una lingua. Era un’immagine affascinante: una fotografia del mondo in cui scompaiono le vecchie frontiere, un mondo in cui la comunicazione, i collegamenti e la concorrenza possono provenire da qualsiasi parte. Alcuni ritengono che dobbiamo rimettere indietro l’orologio di questo nuovo mondo. Che l’unico modo per mantenere il nostro tenore di vita consista nel costruire una enorme fortezza attorno all’America, interrompere gli scambi commerciali con gli altri paesi, bloccare i flussi migratori e fare affidamento sui settori industriali tradizionali. Non sono d’accordo. Non solo è impossibile respingere l’onda di marea della globalizzazione, ma eventuali tentativi in questa direzione potrebbero causare ulteriore nocumento. Anziché temere il futuro, dobbiamo farlo nostro. Non nutro alcun dubbio sul fatto che l’America sia in grado di competere – e vincere – nel XXI secolo. E so anche che, più 92-93
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[FerdinandoHillmann] DOBBIAMO AIUTARE LE FAMIGLIE IN DIFFICOLTÀ IN ZONE E CITTÀ PERIFERICHE CON MISURE D’URGENZA
che da ogni altra cosa, la vittoria dipenderà non già dallo Stato, bensì dal dinamismo, dalla determinazione e dalla forza innovativa del popolo americano. Gli otto anni appena trascorsi saranno ricordati per le politiche fuorvianti, le occasioni mancate e l’osservanza rigida e ideologica di principi ormai screditati. A quasi dieci anni dall’inizio del nuovo secolo, non abbiamo ancora messo a punto una strategia per competere in un’economia globaliz✵✵✵ zata. Basti pensare a ciò che avremmo potuto fare. Avremmo potuto impegnarci per dare un’istruzione d’eccellenza ai nostri ragazzi, invece abbiamo varato la legge «No Child Left ABBIAMO Behind», che, malgrado i buoni propositi, non ha previsto gli stanziamenti necessari e, BISOGNO ANCHE invece di motivarli, ha disincentivato insegnanti e dirigenti scolastici. Avremmo potuto DI UN PIANO fare qualcosa per porre fine alla dipendenza che abbiamo dal petrolio ma, invece, abbiaSERIO mo continuato a percorrere una strada che finanzia entrambe le parti coinvolte nella DI CREAZIONE DI NUOVI guerra al terrorismo, danneggia il pianeta e impone agli americani di vedersela con prezzi POSTI della benzina che si attestano sui quattro dollari a gallone. Avremmo potuto investire in DI LAVORO innovazione e pensare alla manutenzione di strade fatiscenti e ponti, invece abbiamo speso centinaia di miliardi di dollari per combattere una guerra in Iraq che non avrebbe ✵✵✵ mai dovuto essere autorizzata né intrapresa. Ciò che è peggio, è che il conto di questi errori dovranno pagarlo i nostri figli. L’amministrazione Clinton ha terminato il mandato NON con bilanci positivi, ma questa amministrazione ha portato i conti in rosso. Abbiamo oggi POSSIAMO TORNARE un deficit di bilancio di centinaia di miliardi e un debito di circa tre trilioni di dollari. ALLE Abbiamo preso a prestito miliardi di dollari da paesi quali la Cina per finanziare un’ inutiSTRATEGIE le riduzione della pressione fiscale sulle classi più abbienti e una guerra altrettanto inutile. DEL PASSATO VIVIAMO Eppure, il senatore McCain dice apertamente di voler dare un seguito e persino estendeIN UN’EPOCA re tali iniziative, senza presentare piani realistici per finanziarle. Gli esperti parlano di due DI CAMBIAMENTI dibattiti: uno sulla sicurezza nazionale e l’altro sull’economia. Ma non hanno colto il vero punto della questione. Non abbiamo vinto la guerra fredda solo grazie alla forza militare. ✵✵✵ Abbiamo vinto anche grazie alla forza della nostra economia e dei nostri ideali. In questo secolo, non saremo al sicuro se continuiamo a finanziare terroristi e dittatori tramite il NON NUTRO petrolio, da cui dipendiamo tanto. Non saremo al sicuro se non avremo infrastrutture affiALCUN DUBBIO dabili. Non continueremo a mantenere la promessa della grandezza americana se non SUL FATTO investiremo nei giovani e non chiederemo loro d’investire nell’America. Queste elezioni CHE L’AMERICA implicano, quindi, una scelta chiara. Invece di aprirci a nuovi orizzonti, George Bush ci ha SIA IN GRADO DI VINCERE rinchiusi in una buca, nella quale continueranno a farci rimanere le politiche di John NEL XXI McCain. Voglio condurre il paese in una direzione nuova, migliore. Rifiuto di credere che SECOLO dobbiamo o indietreggiare dinanzi alle sfide poste dalla globalizzazione, oppure ricorrere
[il documento] alle stesse desuete strategie attuate nel corso degli ultimi otto anni. È giunto il momento di varare nuove politiche che consentano di creare posti di lavoro e opportunità future: un programma di rilancio della competitività che si fondi sull’istruzione e l’energia, l’innovazione e le infrastrutture, il commercio equo e le riforme. In cima al nostro programma c’è l’istruzione. Praticamente tutti gli economisti, siano essi conservatori o liberali, Repubblicani o Democratici, concordano che in quest’epoca digitale, una forza lavoro con un’istruzione di alto livello e qualificata è essenziale, non solo in termini di opportunità individuali, ma anche per l’economia tutta. Non potremmo dirci soddisfatti finché tutti i bambini americani - e sottolineo tutti i bambini americani - abbiano pari accesso a una buona istruzione, quella che desideriamo per i nostri figli. Eppure, nonostante tale unanimità di vedute, non riusciamo a conseguire l’obiettivo. Qualche anno fa, ho fatto visita a una scuola superiore alla periferia di Chicago. La preoccupazione primaria degli studenti di quella scuola era costituita dal fatto che il provveditorato non poteva permettersi di pagare gli insegnanti per l’intera giornata e, quindi, la scuola terminava ogni giorno alle 13,30. Ciò non consentiva di tenere corsi in materie di fondamentale importanza quali scienze e attività di laboratorio. Soltanto il 20 per cento degli studenti giungono al college con una preparazione sufficiente in materie quali l’inglese, la matematica e le scienze e solo un 94-95
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L’amministrazione
Clinton è terminata con bilanci positivi ma questa
decimo dei ragazzi appartenenti a famiglie con redditi bassi riesce a conseguire il diploma del college. Ciò impedirà loro di stare al passo con gli sviluppi dell’economia globalizzata e comprometterà le capacità competitive di tutta la nazione. Il senatore McCain non parla molto d’istruzione. Io, invece, non accetto la situazione attuale. È eticamente inaccettabile ed economicamente insostenibile. È giunto il momento di assumere impegni di portata storica in materia di istruzione: un impegno serio, che richiederà nuove risorse e riforme. Possiamo iniziare investendo 10 miliardi di dollari per garantire l’accesso a un’istruzione per la prima infanzia di qualità, a costi ragionevoli, a ogni bambino d’America. Ogni dollaro investito in questo tipo di politiche pone i nostri figli sulla strada verso il successo e ci consente di risparmiare addirittura 10 dollari in termini di riduzione delle spese per l’assistenza sanitaria, della criminalità e dell’assistenza sociale. Possiamo porre rimedio al mancato raggiungimento degli obiettivi da parte della Legge No Child Left Behind, ponendo l’accento sulla responsabilità. Ciò significa, in termini pratici, mettere a disposizione le risorse finanziarie promesse e, cosa più importante, raggiungere livelli elevati. Questo, però, non facendo affidamento su un unico esame, con una posta altissima e uguale per tutti che distorce i metodi d’insegnamento degli insegnanti. Dobbiamo invece lavorare insieme ai governatori, agli educatori e, soprattutto, agli insegnanti alla messa a punto di strumenti di valutazione migliori, in grado di valutare meglio i risultati degli studenti e d’incoraggiare i ragazzi a condurre attività di ricerca, indagini scientifiche e attività di risoluzione dei problemi: tutti settori in cui i nostri figli dovranno competere con gli altri. E dobbiamo assumere un esercito di nuovi insegnanti. Da presidente, darò la seguente assicurazione: offrirò a chi s’impegnerà a dedicare la propria vita all’insegnamento, l’istruzione gratuita al college. Assumeremo insegnanti di matematica e scienze e li invieremo nei circoli didattici con maggiore carenza d’organico, nelle zone interne e agricole degli Stati Uniti. Amplieremo i programmi di sostegno, che prevedono l’affiancamento di insegnanti esperti ai nuovi assunti. E dinanzi ai risultati che otterranno i nostri insegnanti, non mi limiterò a complimentarmi con loro: ricompenserò il loro valore aumentando gli stipendi e fornendo loro strumenti di lavoro migliori. Ma da alcuni studi si evince come le sole risorse finanziarie non potranno dare luogo alla scuola di cui abbiamo bisogno per aiutare i nostri figli a raggiungere buoni risultati. Dobbiamo anche promuovere l’innovazione, adottando programmi e calendari scola-
amministrazione ha portato i conti in rosso…
ABBIAMO PRESO A PRESTITO MILIARDI DI DOLLARI PER FINANZIARE UN’INUTILE RIDUZIONE FISCALE ✵✵✵
NON ABBIAMO VINTO LA GUERRA FREDDA SOLO GRAZIE ALLA FORZA MILITARE ✵✵✵
NON SAREMO AL SICURO SE CONTINUIAMO A FINANZIARE TERRORISTI E DITTATORI TRAMITE IL PETROLIO ✵✵✵
NON MANTERREMMO LA PROMESSA DELLA GRANDEZZA AMERICANA SE NON INVESTIREMO NEI GIOVANI
[il documento] stici adatti al XXI secolo, modernizzando le scuole che formano i nostri insegnanti, accogliendo le charter school (o scuole mirate) nella nostra pubblica istruzione e snellendo le procedure di riconoscimento delle qualifiche per gli ingegneri o i rappresentanti del mondo economico che desiderino cambiare carriera e insegnare. Dobbiamo anche mettere in discussione il sistema che ci impedisce di promuovere e premiare l’eccellenza nell’insegnamento. Non possiamo chiedere ai nostri insegnanti di fare l’impossibile: insegnare a ragazzi poco preparati, con mezzi inadeguati e poi punirli se i ragazzi ottengono risultati scadenti a un esame troppo omologato, uguale per tutti. Ma se forniremo agli insegnanti i mezzi di cui hanno bisogno, li pagheremo di più e daremo loro il tempo di frequentare corsi d’aggiornamento, se daremo loro voce in capitolo sulla messa a punto di strumenti valutativi migliori e programmi scolastici più creativi, se progetteremo le riforme insieme agli insegnanti, anziché imporle loro, allora avremo ragione di attenderci risultati migliori. Dove vi saranno insegnanti ancora in situazioni di difficoltà e che producano scarsi risultati, dovremo fornire loro sostegno individuale. E se, dopo tutto questo, non saranno ancora all’altezza, dovremo trovare un modo rapido ed equo di sostituirli con altri. I nostri figli non meritano nulla meno di questo. Infine, il nostro impegno non può limitarsi al diploma di scuola superiore. La possibilità di accedere al college non deve essere appannaggio di pochi: deve essere un diritto di nascita di ogni americano. Il senatore McCain sta conducendo una campagna elettorale in cui promette nuove agevolazioni fiscali alle aziende. Io desidero dare agevolazioni fiscali ai giovani, sotto forma di un credito d’imposta pari a 4mila dollari all’anno, che andrà a coprire i tre quarti del costo medio di un college pubblico e rendere i college locali totalmente gratuiti. In cambio, chiederò agli studenti di fare qualcosa per la società insegnando, aderendo ai corpi di volontari per la collaborazione con i paesi in via di sviluppo, o di svolgere attività sociali. E pagheremo l’intera retta di chi appartiene alle forze armate, varando un GI Bill 96-97
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per il XXI secolo ancora più generoso. L’idea è semplice: l’America investe su di voi e voi investite sull’America. È cosi che garantiremo il successo dell’America in questo secolo. La riforma dell’istruzione richiederà il lavoro duro e continuo di tutti noi: genitori e insegnanti, autorità federali, stati ed enti locali. Lo stesso vale per il secondo punto del nostro programma per la competitività: una politica energetica coraggiosa e sostenibile. In passato, l’America è stata indotta all’azione in occasioni in cui è stata minacciata la sicurezza nazionale. È accaduto, ad esempio, quando gli eserciti tedesco e giapponese hanno iniziato a farsi strada in Europa e Asia, o quando i sovietici hanno lanciato lo Sputnik. I rischi legati all’energia che oggi dobbiamo fronteggiare possono forse essere meno diretti, ma sono reali. La dipendenza dal petrolio estero mette a dura prova i bilanci delle famiglie e prosciuga l’economia del paese. I proventi del petrolio sovvenzionano le bombe che esplodono da Baghdad a Beirut e la magniloquenza dei dittatori da Caracas a Teheran. La nostra nazione non sarà al sicuro se non togliamo loro quest’arma e non lo sarà neppure il pianeta, finché non ci muoveremo con fermezza nella direzione di un futuro di energia pulita. I pericoli vengono offuscati soltanto dalle opportunità che si apriranno grazie al cambiamento. Sappiamo che i posti di lavoro del XXI secolo verranno creati sviluppando le energie alternative. Si tratta di sapere se tali posti di lavoro verranno creati in America o all’estero. Abbiamo già visto paesi quali la Germania, la Spagna e il Brasile raccogliere i frutti della crescita economica alimentata da energia pulita. Ma noi siamo indietro di diversi decenni rispetto a loro. George Bush ha trascorso la maggior parte del tempo che ha passato alla Casa Bianca a negare che avessimo un problema e a siglare accordi a porte chiuse con Big Oil. E mentre va dato atto a John McCain per la sua denuncia dei rischi legati ai cambiamenti climatici, la sua retorica è indebolita dal voto che ha più volte espresso contro importanti investimenti nel settore delle energie rinnovabili. È giunto il momento di considerare la sicurezza energetica una priorità assoluta. Il mio piano energetico prevedrà investimenti per 150 miliardi di dollari nei prossimi dieci anni, volti a creare un’industria dell’energia verde che offrirà fino a 5 milioni di posti di lavoro nei prossimi vent’anni. Si tratterà di posti di lavoro di qualità, come quelli creati in Pennsylvania dove si producono turbine eoliche, o quelli
In cima al nostro programma c’è . l’ Gli economisti concordano che una forza lavoro con un’istruzione di alto livello … è
istruzione
essenziale
SOLTANTO IL 20 PER CENTO DEGLI STUDENTI GIUNGONO AL COLLEGE CON UNA PREPARAZIONE SUFFICIENTE ✵✵✵
IL SENATORE MCCAIN NON PARLA MOLTO D’ISTRUZIONE IO, INVECE, NON ACCETTO LA SITUAZIONE ATTUALE ✵✵✵
OGNI DOLLARO INVESTITO IN MATERIA D’ISTRUZIONE ASSICURA AI NOSTRI FIGLI IL SUCCESSO ✵✵✵
ISTRUZIONE GRATUITA AL COLLEGE PER CHI S’IMPEGNERÀ A DEDICARE LA PROPRIA VITA A INSEGNARE
[il documento] che verranno creati quando le macchine ibride o elettriche arriveranno sulla catena di montaggio qui, in Michigan. Aiuteremo i produttori - segnatamente quelli dell’industria automobilistica - a convertirsi alle tecnologie verdi e aiuteremo i lavoratori ad acquisire le competenze necessarie. E diversamente da quanto ha fatto George Bush, non aspetterò il sesto anno della mia presidenza per sedermi attorno a un tavolo con i rappresentanti dell’industria automobilistica. Li incontrerò nel corso della campagna elettorale e li incontrerò nuovamente da presidente, per parlare di come costruiremo le auto del futuro proprio qui, in Michigan. E quando sarò presidente, investiremo in ricerca e sviluppo su ogni possibile forma di energia alternativa: solare, eolica e biocarburanti e in tecnologie che possano rendere pulito il carbone e sicuro il nucleare. Daremo incentivi ad aziende e consumatori per promuovere il risparmio energetico e migliorare l’efficienza energetica degli edifici. È così che creeremo posti di lavoro ben retribuiti e non esternalizzabili. È così che ci riprenderemo il controllo del nostro destino, sottraendoli a dittatori arricchitisi con il petrolio. Ed è così che risolveremo il problema della benzina a 4 dollari al gallone: non con un altro stratagemma di Washington come la sospensione delle accise sui carburanti di John McCain, che gonfierebbe il portafoglio delle compagnie petrolifere e prosciugherebbe il fondo per le autostrade tanto importante per il Michigan. Inoltre, il nostro impegno nei confronti dell’industria manifatturiera non può limitarsi alla creazione di posti di lavoro «verdi». È per questo che eliminerò le agevolazioni fiscali che danno luogo alla delocalizzazione all’estero dei posti di lavoro e investirò in posti di lavoro americani. Il senatore McCain è di parere diverso. Ha votato a favore del mantenimento degli incentivi fiscali alle aziende che si trasferiscono all’estero. Dovrebbe dare ascolto agli amministratori del Michigan, tra cui Carl Levin, che hanno avanzato proposte serie per fronteggiare la crisi dell’industria manifatturiera. Dobbiamo dare sostegno a programmi quali il Michigan’s 21st Century Jobs Fund o Fondo del Michigan per i posti di lavoro del XXI secolo e fare tesoro delle migliori prassi riscontrabili in tutto il paese. È per questo che istituirò un fondo per l’industria manifatturiera avanzata, al fine di orientare gli investimenti in aree che registrano perdite di posti di lavoro. Agirò di concerto con i College locali, in modo da formare giovani nei settori in cui 98-99
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l’industria locale avrà bisogno di manodopera. E non possiamo limitarci neppure a tutelare le industrie esistenti. Dobbiamo spingerci oltre e promuovere lo sviluppo di altre aziende: questo significa, naturalmente, scienza, ricerca e tecnologia. Per due secolo l’America è stata prima nel mondo in quanto a innovazione. Ma oggi paghiamo lo scotto dell’ostilità dimostrata dall’amministrazione Bush nei confronti della scienza. In un’epoca in cui la tecnologia determina il nostro futuro, destiniamo una quantità di risorse sempre meno ingenti alla ricerca e allo sviluppo. È tempo che l’America torni a essere all’avanguardia. Raddoppierò i fondi federali per la ricerca di base e darò carattere permanente al credito d’imposta R&D. Possiamo garantire che le scoperte del XXI secolo abbiano luogo in America: nei nostri laboratori e nelle nostre università, in luoghi quali Kettering e l’Università del Michigan, alla Wayne State e alla Michigan State. Incoraggiare lo sviluppo di nuovi soggetti industriali significa anche dare maggiore sostegno agli imprenditori statunitensi. L’altro giorno, il senatore McCain è intervenuto allo Small Business Summit, attaccando il mio piano di agevolazioni fiscali per la classe media. Quello che non ha detto è che ho proposto anche un’esenzione per tutte le aziende nella fase di start-up dalle tasse sulle plusvalenze. In altri termini, John McCain le tasserebbe. Io no. Ci adopereremo per rimuovere ogni ostacolo burocratico, in ogni fase dell’iter, che possa ostacolare lo sviluppo delle piccole e nuove imprese fluidificando, per esempio, il meccanismo di deposito dei brevetti e rendendolo più affidabile. E forniremo tutto il sostegno tecnico necessario affinché la prossima Google o Microsoft venga fondata proprio qui, negli Stati Uniti. E sappiamo che l’America non sarà in grado di competere se costi esorbitanti indurranno società quali le «Tre Grandi» a spendere 1.500 dollari in assistenza sanitaria per ciascuna automobile e condannerà milioni di americani a non avere un’assistenza sanitaria. È per questo che dobbiamo impegnarci per la diffusione delle cartelle cliniche elettroniche, che abbattono i costi migliorando la sanità. Dobbiamo investire in ricerca biomedica e nella ricerca sulle cellule staminali, per essere all’avanguardia in materia di prevenzione e cura. E dobbiamo finalmente adottare un sistema sanitario pubblico, in modo che tutti gli Americani possano stipulare un’assicurazione medica a prezzi abbordabili e fornire i servizi chiave per la riduzione dei costi. Questo è ciò che m’impegno a fare durante il mio primo mandato da presidente. Il terzo punto del nostro programma deve essere costituito dalle infrastrutture per il XXI secolo. Se vogliamo tenerci al passo con la Cina o l’Europa, non possiamo accontentarci di strade e ponti fatiscenti, fognature e acquedotti obsolescenti e reti elettriche precarie che ci costano miliardi di dollari in blackout, riparazioni e ritardi. La situazione si è talmente
AMPLIEREMO I PROGRAMMI DI SOSTEGNO CON INSEGNANTI ESPERTI ACCANTO AI NUOVI ASSUNTI ✵✵✵
RICOMPENSERÒ IL VALORE DEGLI INSEGNANTI AUMENTANDO GLI STIPENDI E FORNENDO STRUMENTI MIGLIORI ✵✵✵
LA POSSIBILITÀ DI ACCEDERE AL COLLEGE DEVE ESSERE UN DIRITTO DI NASCITA DI OGNI AMERICANO ✵✵✵
DARE CREDITO AI GIOVANI SOTTO FORMA DI UN CREDITO D’IMPOSTA DI 4 MILA DOLLARI ANNUI
[il documento] deteriorata che l’American Society of Civil Engineers ha assegnato una «D» all’infrastrutture del paese. Un secolo fa, Teddy Roosevelt riunì i maggiori esponenti del mondo economico e della politica per mettere a punto un piano infrastrutturale per il XX secolo. Ora tocca a noi fare la stessa cosa. Da presidente, istituirò una banca nazionale di reinvestimento in infrastrutture, che investirà 60 miliardi di dollari in dieci anni: una banca in grado di finanziare con investimenti privati progetti infrastrutturali e creare due milioni circa di posti di lavoro. I criteri d’azione saranno la massima sicurezza e competitività. Finanzieremo la banca non appena porremo fine, in maniera responsabile, alla guerra in Iraq. È ora di smettere di spendere miliardi di dollari alla settimana in assegni in bianco consegnati a un governo iracheno che non investe i proventi del petrolio che incassa. È giunto il momento di potenziare il sistema dei trasporti e proteggere gli obiettivi sensibili dalle minacce terroristiche. Possiamo modernizzare la nostra rete elettrica, che favorirà la conservazione e promuoverà lo sviluppo e la distribuzione di energia pulita. Possiamo investire in ferrovie, cosicché città come Detroit, Chicago, Milwaukee e St. Louis vengano raggiunte dall’alta velocità e alla gente venga offerta un’alternativa al trasporto aereo. Questo è quello che possiamo fare se ci impegniamo a ricostruire un’America più forte. Nell’ambito degli interventi infrastrutturali, dovremo ricomprendere un potenziamento della nostra superautostrada digitale. Guardando il planisfero sullo schermo negli uffici di Google, sono rimasto inizialmente colpito dalla luce prodotta dalle ricerche in corso su Internet in ogni angolo della terra. Ma poi sono stato colpito da alcune zone buie. Delle vaste aree del continente africano e da alcune zone asiatiche sulle quali non splende ancora la luce della rivoluzione informatica. E poi ho notato che vi erano anche alcune zone degli Stati Uniti in cui, le dorsali illuminatissime si disfacevano in rarefatti filamenti debolmente illuminati. È inaccettabile che, nel paese che ha inventato Internet, siamo scesi al 15° posto nel mondo nella classifica della diffusione della banda larga. Il fatto che dei ragazzi che abitano nel centro di Flint o nelle zone agricole dell’Iowa non possano permettersi o non abbiano un collegamento a Internet ad alta velocità, riduce la competitività del paese. Da presidente, fisserò un obiettivo semplice e chiaro: ciascun americano dovrà avere un accesso a Internet alla più alta velocità disponibile, indipendentemente da dove viva o dal reddito. Daremo collegamenti alle scuole, alle biblioteche e agli ospedali. E ci adopereremo per liberare il potenziale della tecnologia 100-101
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wireless a servizio della sicurezza e della connettività. Ristrutturazione del settore dell’istruzione. Una politica energetica nuova e coraggiosa. Un sistema sanitario più efficiente. Maggiori investimenti nella ricerca di base e nelle infrastrutture. Sono questi i pilastri di un’economia più competitiva, che saprà cogliere le opportunità offerte dal mercato globale. Ma sebbene vediamo con favore la concorrenza, dobbiamo ricordare che le politiche economiche da attuare devono essere supportate da politiche commerciali salde e intelligenti. L’ho già detto e lo ripeterò: credo nel libero scambio. Fa risparmiare i consumatori, genera possibilità imprenditoriali per gli esportatori statunitensi e un aumento della ricchezza mondiale. Ma diversamente da George Bush e da John McCain, non ritengo che ogni accordo commerciale sia buono. Non credo che un accordo che consente alla Corea del Sud di esportare centinaia di migliaia di automobili negli Stati Uniti continuando, però, a porre limiti alle esportazioni di automobili statunitensi in Corea del Sud sia un accordo intelligente. Non credo che accordi commerciali senza accordi sindacali o ambientali soddisfino i nostri interessi di lungo periodo. Se continuiamo a consentire che la politica commerciale del paese sia dettata da interessi particolari, i lavoratori americani continueranno a essere in pericolo e il sostegno pubblico agli scambi commerciali s’indebolirebbe ulteriormente. Ciò potrebbe non dispiacere ai gruppi di pressione di Washington che conducono la campagna del senatore McCain, ma non aiuterà il paese a diventare più competitivo. Consentire a prodotti sostenuti da aiuti di Stato e oggetto di pratiche commerciali scorrette di inondare il nostro paese non è libero scambio e non è giusto per la gente del Michigan. Non possiamo restare a guardare mentre altre nazioni attuano politiche monetarie volte a promuovere le esportazioni e a creare forti disequilibri nell’economia internazionale. Non possiamo consentire che le disposizioni di legge di altri Stati escludano i prodotti americani. Non possiamo consentire che accordi commerciali in vigore vengano relegati in secondo ordine per fare posto a negoziati che diano luogo a nuovi accordi. In parole povere: abbiamo bisogno di negoziatori più fermi dal nostro lato del tavolo, che concludano accordi buoni non già soltanto per Wall Street, ma anche per Main Street. E questo è ciò che faremo quando sarò presidente. Infine, consentitemi di accennare brevemente alla responsabilità fiscale. Riconosco che il
Competitività è il secondo punto del nostro programma: una energetica coraggiosa e sostenibile
politica
IL MIO PIANO PREVEDE INVESTIMENTI PER 150 MILIARDI DI DOLLARI NEI PROSSIMI DIECI ANNI ✵✵✵
L’INDUSTRIA DELL’ENERGIA VERDE OFFRIRÀ 5 MILIONI DI POSTI DI LAVORO NEI PROSSIMI VENT’ANNI ✵✵✵
DAREMO INCENTIVI A CONSUMATORI E AD AZIENDE PER MIGLIORARE L’EFFICIENZA ENERGETICA DEGLI EDIFICI ✵✵✵
ISTITUIRÒ UN FONDO PER INVESTIMENTI IN AREE CHE REGISTRANO PERDITE DI POSTI DI LAVORO
[il documento] mio è un programma ambizioso, soprattutto alla luce delle politiche fiscali attuate dall’amministrazione Bush, che hanno fatto aumentare il debito a più di 4 trilioni di dollari. La spesa per le pensioni è destinata ad aumentare con l’avvicinarsi alla pensione della generazione del Baby Boom generation. Ma la risposta ai nostri problemi fiscali non sta nel continuare a sottrarre risorse all’istruzione, al settore energetico, all’innovazione e alle infrastrutture: investimenti vitali per una crescita di lungo periodo. Piuttosto, dobbiamo porre fine alla guerra in Iraq, eliminare gli sprechi laddove individuati nelle attuali attività dello Stato, generare reddito facendo pagare chi inquina e rilascia gas serra nell’atmosfera ed eliminare tutte le scappatoie e le agevolazioni fiscali a beneficio di gruppi specifici d’interesse e dei più ricchi, che hanno costituito il perno della politica economica dell’amministrazione Bush. John McCain vuole duplicare le politiche disastrose di George Bush, non solo dando carattere permanente alle agevolazioni fiscali per le classi a reddito più elevato, ma prevedendo un’ulteriore alleggerimento fiscale per 300 miliardi di dollari, un quarto dei quali a vantaggio delle famiglie con un reddito superiore ai 2,8 milioni di dollari. Peggio ancora: non ha neppure detto come finanzierà questi doni. Non c’è nulla di conservatore in questo atteggiamento. Continuerà a fare aumentare il deficit, a costringere a contrarre prestiti da altri paesi, per spostare il fardello sui lavoratori oggi e sui nostri figli domani. Intanto, John McCain ridurrà i finanziamenti all’istruzione, l’energia e l’innovazione, rendendo più difficile per la generazione futura essere competitiva. Tutto ciò è inaccettabile. È giunto il momento di compiere scelte difficili e dare incarico a un governo più avveduto, che paghi di tasca propria ed effettui gli investimenti giusti per il futuro dell’America. Spetta a noi plasmare un nuovo secolo. È necessario ripensare tutte le componenti dello Stato. Non possiamo permetterci una burocrazia inutile e programmi datati. La mia amministrazione aprirà le porte della democrazia. Pubblicheremo su Internet i dati relativi all’apparato statale e utilizzeremo la tecnologia per gettare nuova luce sulla spesa. Inviteremo i cittadini a collaborare e a partecipare e snelliremo la burocrazia in modo che ogni organo statale lavori nel rispetto di standard elevatissimi. Faremo capire con chiarezza ai gruppi d’interesse che è finito il tempo in cui erano loro a definire l’agenda di lavoro a Washington, perché gli americani non costituiscono il problema di questo XXI secolo: ne sono la soluzione. Possiamo scegliere. Non alterare lo status quo determinato dall’amministrazione Bush - così come desidera fare il senatore McCain - e diventeremo un paese in cui soltanto pochi raccoglieranno i frutti
Infrastrutture ecco il terzo punto del nostro programma. Se vogliamo tenerci con la Cina o l’Europa…
al passo
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prodotti dall’economia mondiale, mentre un numero crescente di persone lavorerà di più, sarà meno retribuito e dipenderà da uno Stato al collasso. Un’America in cui il debito aumenta, esposta ai capricci di dittatori arricchitisi con il petrolio, mentre si ridurranno le opportunità offerte ai nostri figli e nipoti. Oppure, possiamo risollevarci insieme. Se scegliamo di cambiare, immaginate quello che possiamo fare. Le grandi aziende produttrici di automobili del XX secolo potranno convertirsi e produrre auto alimentate con energie rinnovabili nel XXI secolo. I laboratori di biotecnologie scopriranno nuove cure. Nuove linee ferroviarie e strade metteranno in comunicazioni parti diverse del paese. Beni prodotti qui, in Michigan, potranno essere esportati in tutto il mondo. I nostri figli avranno un istruzione di primissimo ordine e i loro sogni futuri riusciranno a offuscare persino le nostre attuali e più forti speranze. Possiamo scegliere di risollevarci insieme. Ma non sarà facile. Dovremo collaborare tutti, studiando molto, con un addestramento più costante, lavorando in maniera più intelligente e pensando in modo nuovo. Dovremo liberarci delle cattive abitudini, riformare le istituzioni del paese e rituffarci nel mondo. Possiamo farcela, perché questa è l’America: un paese caratterizzato dalla determinazione a credere in cose che non si vedono e ad adoperarsi per ottenerle. Nel corso della storia, vi sono periodi in cui l’America è chiamata a sollevarsi e a dimostrarsi all’altezza del momento. È stato così per le generazioni che hanno costruito le ferrovie e hanno fronteggiato la depressione, che hanno lavorato alla prima catena di montaggio e che sono andate sulla luna. E deve essere così per noi, oggi. È il nostro momento. È giunto il momento di unirci e di tendere a un obiettivo comune: fare di questo secolo un altro secolo americano. Perché quando gli americani si ritrovano uniti, non c’è obiettivo troppo distante o difficile da raggiungere. Discorso tenuto all’Università di Kettering, a Flint il 16 giugno 2008. Traduzione di Valentina Maiolini
BASTA CONSEGNARE MILIARDI A UN GOVERNO IRACHENO CHE NON INVESTE I PROVENTI DEL PETROLIO CHE INCASSA ✵✵✵
È ORA DI POTENZIARE IL SISTEMA DEI TRASPORTI E PROTEGGERE GLI OBIETTIVI SENSIBILI ✵✵✵
POSSIAMO MODERNIZZARE LA RETE ELETTRICA CHE FAVORIRÀ DISTRIBUZIONE E SVILUPPO DI ENERGIA PULITA ✵✵✵
DOBBIAMO RICOMPRENDERE IL POTENZIAMENTO DELLA NOSTRA SUPER AUTOSTRADA DIGITALE
[Hannocollaborato] JOHN BOLTON: Senior fellow all’American Enterprise Institute. BENEDETTA BUTTIGLIONE SALAZAR : giornalista, esperta di politica latinoamericana. JOHN MCCAIN: senatore repubblicano, candidato alla presidenza Usa. BARTHÉLEMI COURMONT: ricercatore dell’Istituto Relazioni Internazionali e Strategiche e responsabile dell’ufficio Iris di Taiwan. RENATO CRISTIN: docente di Ermeneutica filosofica presso l’Università di Trieste. VICENTE FOX QUESADA: co-presidente del Centrist Democratic International, è stato presidente del Messico. GIANCARLO GALLI: economista. NEWT GINGRICH: è senior fellow presso l’American Enterprise Institut. JAMES HILLMAN: psicoanalista e scrittore. CARLO JEAN: esperto di strategie militari e di geopolitica. JOSHUA MURAVCHIK: è resident scholar presso l’American Enterprise Institute. ERNST NOLTE: storico, professore emerito presso l’università di Berlino. BARAK OBAMA: senatore democratico, candidato alla presidenza Usa. EMANUELE SEVERINO: filosofo.
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