risk QUADERNI DI GEOSTRATEGIA
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quaderni di geostrategia
COMMENTARI
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SCENARI
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Michele Nones
La sfida di Hezbollah
pagine 4/9
Andrea Margelletti
La geopolitica dell’Artico •
DOSSIER
Andrea Margelletti pagine 86/101
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Rupture, anno primo Raphael Glucksmann
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Fuochi d’artificio e di paglia
SCACCHIERE
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Medio Oriente
Stefano Silvestri
Emanuele Ottolenghi
Ma dove va il Quai d’Orsay
Unione Europea
Jean Pierre Darnis
Giovanni Gasparini
Il cappello magico di Attali
Russia
Claudio Catalano
David J. Smith
La Grandeur è militare
America Latina
Andrea Nativi
Riccardo Gefter Wondrich
I più bravi d’Europa
Africa
Michele Nones
Egizia Gattamorta
Con tutta l’energia possibile
pagine 102/113
Carlo Jean pagine 10/59 •
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Editoriali
LA STORIA
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Virgilio Ilari pagine 114/121
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Michele Nones Stranamore pagine 60/61
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LIBRERIA
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Il caos mondiale
Mario Arpino Daniel Pipes Ludovico Incisa di Camerana Andrea Tani
Alain Bauer e Xavier Raufer
pagine 122/131
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IL RAPPORTO
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pagine 62/85 •
RUBRICHE Beniamino Irdi Pierre Chiartano pagine 132/135
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DIRETTORE Andrea Nativi CAPOREDATTORE Luisa Arezzo COMITATO SCIENTIFICO Michele Nones (Presidente) Ferdinando Adornato Mario Arpino Enzo Benigni Vincenzo Camporini Amedeo Caporaletti Carlo Finizio Renzo Foa Giovanni Gasparini Pier Francesco Guarguaglini Virgilio Ilari Carlo Jean Alessandro Minuto Rizzo Remo Pertica Luigi Ramponi Stefano Silvestri Guido Venturoni Giorgio Zappa RUBRICHE Arpino, Incisa di Camerana, Chiartano, Ilari, Irdi, J. Smith, Gasparini, Gattamorta, Gefter Wondrich, Ottolenghi, Tani
REGISTRAZIONE
TRIBUNALE
DI
ROMA N. 283
DEL
23
GIUGNO
2000
Editore Filadelfia, società cooperativa di giornalisti, via della Panetteria, 12 - 00187 Roma. Redazione via della Panetteria, 12 - 00187 Roma. Tel 06/6796559 Fax 06/6991529 email segreteria.risk@gmail.com Amministrazione: Cinzia Rotondi Abbonamenti: 40 euro l’anno Stampa Gruppo Colacresi s.r.l. via Dorando Petri, 20 - 00011 - Bagni di Tivoli Distribuzione Parrini s.p.a. - via Vitorchiano, 81 00189 Roma
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ommentari
LETTERA APERTA AL MINISTRO DELLA DIFESA DI
MICHELE NONES
aro Ministro, quando questa lettera aperta sarà pubblicata Lei si sarà appena insediato. Ma, mentre viene scritta, non si sa ancora chi ne sarà il desti• natario. Ma questo non è un problema perché la politica della difesa ha assunto da molto tempo una caratteristica di forte stabilità in una logica bipartisan che tutti sono certi anche Lei vorrà mantenere. Ciò rappresenterà per Lei un triplice vantaggio: • avere la responsabilità politica di una struttura in cui continuano a prevalere la professionalità e l’attaccamento alle istituzioni e sulla cui lealtà Lei potrà, quindi, fare pieno affidamento; • contare su un consenso dell’opinione pubblica molto più ampio di quello rappresentato da qualsiasi maggioranza parlamentare e che si riflette spesso nelle stesse aule parlamentari; • muoversi a livello internazionale contando sulla grande credibilità acquisita grazie all’impegno delle Forze Armate nelle missioni per il mantenimento e il ristabilimento della pace (contrastando una deriva che molti ritenevano, altrimenti, inarrestabile). È un patrimonio prezioso che va tutelato e rafforzato perché rappresenta uno dei pochi punti in cui il nostro Paese ha raggiunto una condizione di normalità rispetto ai nostri partner. Il ministero della Difesa e le Forze Armate hanno
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vissuto in questi ultimi venti anni e soprattutto dopo l’11 settembre una profonda trasformazione. L’area tecnico-operativa e in particolare quella legata alle attività internazionali ha registrato un forte miglioramento in termini di capacità e di efficienza. Su di essa si sono giustamente concentrate l’attenzione e le risorse. Ma siamo ormai giunti ad un momento delicato perché il resto della macchina non ha subito un conseguente adeguamento. Si registra, quindi, uno squilibrio fra la parte emersa dell’iceberg e la molto più vasta parte immersa che la sorregge. A quest’ultima dovrebbe essere particolarmente dedicata la Sua attenzione, anche tenendo conto che la gestione delle missioni internazionali può fare ormai affidamento su una ben collaudata catena di comando e su vertici militari in grado di eseguire compiutamente le direttive politiche ricevute. Certo la Sua presenza presso i reparti impegnati nel mondo a tutela della pace sarà necessaria per testimoniare a loro il ringraziamento e l’affetto del Paese e alle autorità di quei Paesi il mantenimento degli impegni presi. E vi è anche una comprensibile esigenza di visibilità politica. Ma sarebbe auspicabile che riuscisse a dedicare una parte delle Sue energie a dare impulso ad una radicale trasformazione della struttura interna della Difesa. Gli uomini che oggi stanno all’estero poi tornano e sapranno tutti apprezzare gli sforzi messi in atto per consentire loro di continuare a lavorare meglio anche a casa. La nostra politica della difesa richiede un nuovo
commentari impulso e, in parte, un adeguamento. Il rapido cambiamento dello scenario strategico, politico, militare, economico e tecnologico impongono una capacità di adattamento e, in alcuni momenti, anche un salto qualitativo. Fra i problemi da risolvere gliene vorrei indicare alcuni, insieme a qualche possibile linea di azione, senza avere la pretesa di affrontarli tutti, né di dare risposte esaustive. L’approccio che suggerisco è prima di tutto basato su una diversa metodologia, perché ci si augura che Lei possa mantenere l’incarico abbastanza a lungo per impostare e stabilizzare la trasformazione della Difesa, ma siamo tutti consapevoli che il suo completamento richiederà per lo meno un decennio. Si tratta, quindi, di prendere le opportune decisioni affin-
ministro solo nella gestione della sua responsabilità politica, senza sovrapporsi alle attività della struttura interforze. Pur tenendo conto che il Suo incarico presenta una notevole complessità e coinvolge profili di ordine militare, politico, diplomatico, industriale, giuridico, sociale e di raccordo col parlamento, le istituzioni locali e i mass media, il gabinetto potrebbe essere ridotto a un paio di decine di persone, tutti compresi. Sotto i due organismi interforze, gli stati maggiori di Forza Armata dovrebbero essere finalmente ridimensionati trasferendo verso l’alto più competenze e responsabilità, in linea con lo spirito della riforma dei Vertici del 1997. A livello inferiore, il ruolo dei comandi e ispettorati logistici andrebbe ricondotto al ruolo di
Alla struttura ammministrativa e operativa bisogna ridare una forma piramidale, anziché quella dell’attuale prisma. Sotto i due organismi interforze, gli Stati maggiori dovrebbero essere ridimensionati ché in questo arco di tempo diventino completamente operative. Partendo dall’alto della piramide ministeriale e andando verso il basso rischia probabilmente di posticipare i risultati più appariscenti della trasformazione, ma si assicurerà l’effettiva capacità di portarla a termine grazie ad una struttura di vertice in grado di meglio aiutarla e condividerne le responsabilità sul piano della messa in pratica delle Sue indicazioni e decisioni.
1. Il primo obiettivo è quello di ridare alla struttura amministrativa e operativa della Difesa la forma di una piramide anziché quella dell’attuale strano prisma. Il ministro dovrebbe avere un ristretto gabinetto formato dai suoi consiglieri e da un minimo supporto di segreteria. Le funzioni dell’attuale gabinetto andrebbero ridistribuite fra segretariato generale della Difesa e stato maggiore della Difesa. I capi delle due strutture dovrebbero essere i diretti collaboratori istituzionali del ministro senza nessun altro filtro. I consiglieri dovrebbero affiancare il
sola gestione del supporto logistico dei mezzi in servizio, trasferendo anche tutti gli ammodernamenti alle direzioni generali, soprattutto tenendo presente che da tempo la vita operativa dei grandi sistemi d’arma si allunga a livello di piattaforma e si accorcia a livello di sottosistemi ed apparati che spesso vengono sostituiti più di una volta. A loro volta le direzioni generali tecniche devono essere sottoposte in modo più stretto al segretariato generale della Difesa/direzione nazionale degli Armamenti, il quale deve essere messo in condizione di esercitare davvero tutte le sue prerogative nel campo della politica degli armamenti. Affinché questa trasformazione sia efficace bisogna reimpostare la gestione delle risorse umane, chiave di volta di qualsiasi struttura operativa. Se si vuole un’impostazione interforze, non è pensabile che la responsabilità sia lasciata quasi esclusivamente agli stati maggiori di Forza Armata. È necessario attribuire un maggiore ruolo allo stato maggiore della Difesa nella selezione e nella valutazione del per5
commentari sonale destinato agli organismi interforze in modo da una riorganizzazione della loro collocazione all’interassicurare un alto livello qualitativo e una maggiore no della Difesa. tutela di quanti vi vengono impiegati. 3. Il ruolo dei sottosegretari è fondamentale in un 2. La decisione di fare dei carabinieri la quarta Forza ministero ampio e diversificato come quello della Armata non è poi stata seguita dalle conseguenti deci- Difesa. Con 330mila dipendenti fra militari e civili e sioni a livello interforze. Qualcuno continua a dubita- un bilancio complessivo di 21 miliardi di euro, con re che sia stato saggio separare i carabinieri dall’eser- 10mila uomini impegnati in missioni internazionali e cito, anziché aumentare ulteriormente la loro autono- una distribuzione capillare sul territorio, con compiti mia anche a livello di vertice. Ma, una volta presa tecnico-operativi e tecnico-amministrativi, la Difesa questa decisione, bisogna adeguarne organizzazione e costituisce la macchina più complessa dello Stato. ordinamento. Se sono una Forza Armata, devono Anche se dovesse gestire solo l’ordinaria amministraacquisirne l’impostazione, per lo meno nelle linee zione, un ministro non potrebbe farcela da solo a far generali, a partire dalla partecipazione alle attività e fronte ai molteplici impegni che, per legge, a lui comagli organismi interforze per finire con l’organizza- petono. La presenza dei sottosegretari non è, in quezione del procurement. Ma, soprattutto, bisognerebbe sto caso, il tributo pagato alla logica della “casta”, ma espanderne il reclutamento in una logica interforze, una parte indispensabile del vertice politico del miniprivilegiando ulteriormente la loro selezione nel baci- stero. Se poi, come auspicato, Lei dovrà affrontare no fornito dai volontari che concludono positivamen- anche l’ambiziosa trasformazione dello strumento te la loro esperienza nelle altre Forze Armate e, in par- militare, la necessità di potersi avvalere di sottosegreticolare, nell’esercito. tari capaci e di sua fiducia risulta imprescindibile. Questa integrazione dei carabinieri è, per altro, giusti- Quello che è mancato fino ad ora, complice la logica ficata dalla stessa integrazione fra difesa e sicurezza di coalizione che ha caratterizzato i nostri governi, è sia sul fronte interno che su quello delle missioni prima di tutto un forte e convergente legame politico internazionali. Cresce, infatti, il loro ruolo man mano fra ministro e sottosegretari. Anche nelle situazioni che il confine fra difesa e sicurezza diventa più labile. migliori si è sempre registrata una certa gelosia o, A livello nazionale bisogna far fronte alla nuova comunque, separazione che ha impedito una gestione minaccia rappresentata dal terrorismo e dalla crimina- unitaria e condivisa del ministero. L’ideale sarebbe, lità organizzata e bisogna contrastare il traffico di pro- evidentemente, che il ministro avesse un ruolo deterdotti illegali e di uomini che lo alimenta. A livello minante nella scelta dei Sottosegretari. Questo non è internazionale bisogna anche tutelare la sicurezza del probabilmente ancora possibile fino in fondo, ma personale civile e militare impegnato nelle missioni sicuramente il nuovo quadro politico può favorire per il mantenimento e ristabilimento della pace e della un’evoluzione in questa direzione. All’interno di quepopolazione civile nelle aree di crisi, contribuendo sta nuova logica ci si può domandare se dimensioni e nel contempo ad addestrare le forze di sicurezza loca- complessità della Difesa non giustifichino la presenza li che sono destinate a garantire l’autonoma capacità di un viceministro, oltre che di sottosegretari. Questo consentirebbe, ad esempio, di delegare in via permadei nuovi governi e stati. D’altra parte, con la sospensione della leva, la forza nente e con ampi margini di autonomia la gestione bilanciata dell’esercito è, dal 2003, analoga a quella dell’area tecnico-amministrativa. dei carabinieri e negli ultimi due anni è diventata infe- In secondo luogo, la ripartizione delle deleghe fra i riore. I carabinieri sono, quindi, in termini numerici la sottosegretari ha seguito un approccio amministratipiù grande Forza Armata. Anche di qui l’urgenza di vo-burocratico con attribuzioni di competenze legate 7
alle diverse Forze Armate anziché un approccio funzionale. Le tre grandi aree di attività da seguire sono soprattutto: tecnico-operativa, tecnico-amministrativa e personale. La prima dipende dal Capo di Stato Maggiore della Difesa e a lui dovrebbe essere affiancato un sottosegretario. La seconda dipende dal segretario generale della Difesa/direttore nazionale degli Armamenti che, a sua volta, ha due vicesegretari per il procurement e per affari generali e personale. Anche in questo caso la ripartizione dei compiti fra i sottosegre-
gabinetto abbia una struttura ristretta, flessibile e qualificata in grado di aiutare il vertice politico a fissare le linee di azione senza sostituirsi alle strutture designate. Un problema analogo si pone per il rapporto con l’industria dell’aerospazio, sicurezza e difesa che rappresenta la base tecnologica e industriale del sistema della difesa. Nell’attuale scenario questa industria ha bisogno di uno stretto e collaborativo rapporto col suo principale cliente, la Difesa. L’incertezza che caratte-
La decisone di fare dei carabinieri la quarta forza armata, implica che bisogna adeguare organizzazione e ordinamento. Ed espandere il reclutamento fra i volontari di altre F.A., specie nell’esercito tari dovrebbe seguire il modello organizzativo del ministero. Se poi fosse possibile avere un quarto sottosegretario potrebbe essere possibile delegare i compiti legati all’attività dei carabinieri e, più in generale, di concorso delle Forze Armate per far fronte ad esigenze di sicurezza e a situazioni di emergenza.
rizza la minaccia a livello internazionale, ma anche la rapida evoluzione di tutti i fattori in gioco, possono trovare come unica risposta un costante e tempestivo confronto fra domanda e offerta che consenta a ciascuno di compiere più consapevolmente le proprie autonome scelte. Questo rapporto non sembra, però, aver trovato fino ad ora una sua forma compiuta al vertice della piramide. Sulla scena i diversi attori sono sembrati muoversi troppo spesso in maniera disordinata e irregolare. Adesso, più che rivitalizzare vecchi riti e sedi di incontri, bisognerebbe cambiare approccio, soprattutto con un’operazione di chiarezza. Vanno rispettate meglio le competenze a livello di strutture e, una volta stabilita l’organizzazione del vertice del ministero, anche a livello politico. Se Lei dovesse decidere di delegare un Suo sottosegretario per il procurement e le questioni industriali, come qui auspicato, toccherà a Lei sostenerlo, evitando che vengano prese iniziative che lo possono delegittimare. Nei rapporti con l’esterno, infatti, non conta tanto quello che può essere scritto nei decreti di delega, quanto l’autorevolezza che deriva dal poter davvero rappresentare il ministro e il governo.
4. In questo decennio l’attività del ministro e del ministero della Difesa si è sempre più frequentemente intersecata con quella di altri ministri e ministeri, nonché con lo stesso presidente del Consiglio e i suoi uffici. Problemi e implicazioni di politica internazionale ed europea hanno richiesto una stretta collaborazione con gli Esteri e le Politiche Comunitarie, mentre quelli di politica industriale e tecnologica hanno coinvolto lo Sviluppo Economico e l’Università e Ricerca, quelli finanziari l’Economia, quelli inerenti la sicurezza l’Interno e l’Autorità Nazionale per la Sicurezza. Su tutte le questioni più importanti la Difesa ha partecipato, inoltre, alle iniziative di coordinamento interministeriale promosse dalla presidenza del Consiglio dei ministri. Questo tipo di rapporti dovrebbero passare attraverso il coinvolgimento del gabinetto del ministro il quale dovrebbe poi delegarne la partecipazione all’organismo della Difesa più 5. Il bilancio continua a rappresentare la vera “spada competente in materia. Ma questo presuppone che il di Damocle” per la Difesa e di questo Lei dovrà
commentari necessariamente farsi carico. Dovrà riuscire a convincere governo e parlamento che qualsiasi progetto di trasformazione delle Forze Armate non porterà risparmi, ma richiederà, anzi, per lo meno il mantenimento dell’attuale volume di spesa. Se poi, come proposto da ampi settori politici nel recente passato, si dovessero far rientrare nel bilancio della Difesa una parte degli stanziamenti oggi gestiti dallo Sviluppo Economico per l’acquisizione di equipaggiamenti destinati alle Forze Armate, il volume delle risorse dovrebbe proporzionalmente crescere. L’equazione è relativamente semplice: l’Italia spende per la funzione difesa meno dei partner con cui ci confrontiamo, mentre ha le stesse esigenze come capacità di difesa e sicurezza. Sotto il livello raggiunto quest’anno non si può scendere perché i risparmi, che saranno nel tempo realizzabili con la riduzione quantitativa dello strumento militare verso l’obiettivo di 140-160mila uomini, dovranno essere destinati al funzionamento e all’investimento per recuperare le limitate spese effettuate fino ad ora e far fronte alle nuove esigenze imposte dal mutamento dello scenario strategico e dall’evoluzione tecnologica. Ogni forma di auspicabile efficientismo e risparmio dovrà essere utilizzata per ridurre il peso del personale sulle spese per la funzione difesa che da oltre il 60 percento dovrà scendere verso il 40 percento. Per quanto riguarda il patrimonio immobiliare non più necessario, è stato molto assottigliato nel corso degli ultimi anni e, quindi, non si potranno ricavare ulteriori significative risorse. Il problema è, invece, quello di risparmiare i costi di gestione e manutenzione di strutture che non servono più, come nel caso di numerosi aeroporti che, pur essendo già utilizzati per il traffico civile, gravano ancora sul bilancio della Difesa. L’auspicato processo di trasformazione produrrà uno strumento militare più efficiente, ma non meno costoso: meno uomini, ma più addestrati, equipaggiati, retribuiti.
tura della difesa che condiziona negativamente la disponibilità ad investire in sicurezza e difesa. Questo si traduce in difficoltà ad ottenere le necessarie risorse finanziarie, ma anche ad accettare vincoli e limitazioni funzionali ad assicurare maggiori e migliori capacità in questo campo. Basti ricordare le difficoltà incontrate per l’addestramento e le esercitazioni o la realizzazione di nuove infrastrutture. Ciò si traduce in polemiche e, in alcuni casi, opposizione alla nostra partecipazione a talune missioni internazionali per il mantenimento o il ristabilimento della pace. Il problema maggiore è quello del disinteresse, se non rifiuto, verso i problemi internazionali. La globalizzazione viene da molti percepita come un fenomeno negativo e, quel che è peggio, come una scelta. È, quindi, forte l’illusione che basti estraniarsi da una crisi per non esserne coinvolti. Le missioni internazionali vengono percepite come il nostro legame con queste aree di crisi: basterebbe reciderlo per potersene dimenticare. È diffusa l’idea di un’Italia e di un’Europa che si chiudono in se stesse come una fortezza, indifferenti a quanto avviene attorno. Questo approccio, anche culturale, andrebbe sistematicamente contrastato, perché rischia di rendere più difficile e complesso ogni sforzo per creare il necessario consenso nei confronti delle missioni internazionali a cui partecipiamo e, più in generale, di ogni impegno assunto nel campo della difesa. La diffusione di una moderna cultura della difesa che, senza creare allarmismi, renda più consapevole l’opinione pubblica sulle minacce e i rischi insiti nel nuovo scenario strategico è un’operazione di alto profilo politico che richiederà tempo ed energie e che non può essere delegata alle sole Forze Armate. È un’attività che va rivolta verso l’esterno e nella quale Lei sarà costretto ad impegnarsi in prima persona. Ma è un investimento ad elevato rendimento perché contribuirà a rimuovere per lo meno una parte degli ostacoli che inevitabilmente 6. Infine, ma non meno importante, si registra nel incontrerà il complesso processo di trasformazione nostro Paese una preoccupante assenza di una cul- delle nostre Forze Armate. 9
SARKOZY ANNO PRIMO Il 17 giugno 2007 la Francia chiudeva una sequenza elettorale lunga tre mesi. Il 6 maggio 2007 alla fine del secondo turno dell’elezione presidenziale, il candidato dell’Union pour un movement populaire, Ump, Nicolas Sarkozy, si piazzava in testa con il 53,06 per cento dei suffragi. Il 17 giugno la maggioranza presidenziale si vedeva confortata da una maggioranza parlamentare di 323 deputati. Dopo un’estate che prolungava i bagliori di una campagna elettorale trionfale, i mesi a seguire hanno mostrato qualche difficoltà. Sarkozy ha ora quattro anni di tempo per ribaltare la percezione che l’opinione pubblica francese si sta facendo del suo presidente. In un anno ha agito molto e si è agitato molto. Dalla riforma di alcuni settori particolari della previdenza, a quella dello scudo fiscale passando per il rinnovamento dell’Università, il nuovo eletto non è stato certo con le mani in mano. Ma dietro questo inventario la Francia non vede più quello slancio formidabile che aveva portato alle urne l’84 per cento dei cittadini, nuovo record di partecipazione per un’elezione presidenziale nella V repubblica. La fortuna di Sarkozy è che la crisi sia arrivata presto. Ora sulla strada delle riforme, il presidente verrà accompagnato dalla crisi mondiale e dall’impopolarità nazionale. Sarà il pegno da pagare per trasformare la nazione. Tutte le immagini di Parigi sono tratte da “Parigi dall’alto” di Yann e Ann Arthus-Bertrand, Rizzoli editore.
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BILANCIO (E COERENZA) DEL SARKOZYSMO AL POTERE
RUPTURE, ANNO PRIMO DI
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RAPHAEL GLUCKSMANN
icolas Sarkozy non è un mago: da tre mesi, questa pseudo-rivelazione agita tutta Parigi. Il “Mozart della politica” (soprannome che gli fu attribuito sin dal suo ingresso nel governo di Edouard Balladur, nel 1993) è ai livelli minimi nei sondaggi ed è riuscito nell’impresa di battere i record di impopolarità di Jacques Chirac. Il ribaltamento è sps
spettacolare e, seccati per essere stati ieri troppo servili, i giornali francesi oggi si beano all’infinito delle difficoltà di «Speedy Sarkò». Il cantore della rottura, che aveva successivamente domato i conservatorismi prima gaullisti, poi socialisti, è improvvisamente diventato un «uomo senza visione». L’architetto dell’apertura, che aveva rubato all’opposizione i suoi elementi più popolari, viene ora dipinto come un avventurista maldestro. Il vincitore dei sindacati sulla spinosa questione dei regimi pensionistici è ora criticato finanche nel suo entourage dopo la sconfitta riportata alle elezioni municipali. Nel giro di poche settimane si è passati dalla sarkolatria alla sarkofobia, senza rinunciare a un’isteria che la dice ben più lunga sui rapporti passionali dei giornalisti e dei politici francesi al potere, rispetto alla vera e propria natura della politica condotta dal governo in Francia da maggio 2007. Astraiamoci per un solo istante da questi eccessi tipicamente francesi, per stilare un primo bilancio del sarkozysmo al potere. Che ne è di quella rottura annunciata dall’elettorato proprio un anno fa di questi tempi?
Il modello francese è forse messo in discussione? A Bruxelles, nei corridoi della Commissione europea, fa furore una barzelletta: «Cosa fanno un francese e un italiano dopo aver toccato il fondo? Scavano!». Alla stregua di quei siciliani amanti della loro arcaicità e orgogliosi della propria miseria, citati dal principe Salina per snobbare le riforme proposte dal messo modernista inviato da Torino, i francesi sembrano vivere nel mito della propria divinità, immutevoli nel loro eterno genio ed immersi nella certezza incrollabile della propria perfezione. Fanalini di coda in fatto di crescita, indebitati fino al collo, scossi da sommosse a ripetizione nelle periferie, depressi e nevrastenici, si sono a lungo rifiutati, a destra come a sinistra, di rivolgere il benché minimo sguardo ai loro vicini che conducevano esperimenti innovativi e concludenti. Questa è stata la prima rottura sarkozysta: fare una diagnosi senza concessione alcuna sul famoso “modello sociale francese”, il quale rinchiude i poveri e gli immigrati in ghetti e trasforma l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro in una marato11
Risk na complicata ancor più di una corsa ad ostacoli, per poi invitare gli eredi di Astérix e del generale De Gaulle a guardare al di là del Reno, della Manica e dei Pirenei per trarre ispirazione dalle riforme tedesche, scandinave, inglesi o spagnole. Una simile audacia valse al candidato un’ondata di ingiurie. Cosa ha fatto il presidente? Senza dubbio molte cose: almeno una cinquantina di misure, cantieri a profusione e dibattiti nazionali, quanti ne volete! Le parti sociali discutono di un testo che snellisce il codice del lavoro, un dipendente pubblico su due che va in pensione non viene più sostituito con un neo-assunto (il che consentirà tra quattro anni di ritornare alle stesse cifre del pubblico impiego del 1992); le trentacinque ore vengono svuotate della loro sostanza; il sistema pensionistico si riappiattisce; le università ottengono l’autonomia… L’Istituto Thomas More ha appena pubblicato uno studio che indica che quasi il 50 percento delle 490 promesse del candidato Sarkozy o è stato realizzato o è in corso di realizzazione. Dopo 12 anni di apatia da parte di Chirac, 12 mesi di attivismo sarkozysta hanno dato il capogiro alla Francia.
Nessuno sa ancora se il piano «periferie» di
Fadela Amara, l’ex musa ispiratrice del movimento femminista «Né puttane, né sottomesse», ed il Reddito di solidarietà attiva di Martin Hirsch, l’ex Presidente di Emmaus (la fondazione dell’Abbé Pierre), beneficeranno dei finanziamenti sufficienti ad assicurare che non vi siano contraccolpi sociali ai provvedimenti economici già resi operativi. Né si sa che ne è stato del contratto unico (un adattamento tutto francese della flessicurezza scandinava) e della discriminazione positiva (una affirmative action alla francese, più sociale che etnica), due promesse «faro» del candidato Sarkozy. Ci si può meravigliare infine del mancato contenimento del disavanzo e della mancata riduzione del debito pubblico. Ma vi è ancora tempo, quattro lunghi anni, e d’altra parte, «Roma non si è fatta in un giorno», come continuano a ripetere i consiglieri dell’Eliseo. No, il problema non è infatti l’infingardaggine o la 12
mancanza di azione, quanto piuttosto la mancanza di leggibilità politica di tutto questo fervore riformista. Schröder aveva raccolto tutti i suoi provvedimenti in un’«Agenda 2010»; Blair era stato il teorico della “terza via”; Veltroni cerca di definire un liberalismo di sinistra... Paradossalmente, manca al presidente proprio quella coerenza che sembrava essere la forza del candidato dell’Ump. Tutte le disposizioni prese sono d’ispirazione liberale, ma questa rimane una parola tabù e non si può applicare a molti atti presidenziali (ad esempio in materia d’immigrazione o di politica agricola). La volontà di non garantire alcuna assistenza “post-vendita” filosofico-politica una volta attuate le riforme rivela il vergognoso intento di farle passare in cavalleria. Ora, col fatto di non voler offendere nessuno più del dovuto, si rischia di deludere tutti e di far diffondere nell’opinione pubblica un’impressione cacofonica e di disinvoltura troppo dura a morire. Un’impressione che, del resto, non è che sia necessariamente sbagliata. Come far stare in una stessa squadra non tanto uomini e donne di sinistra e di destra – cosa, questa, che ormai sembra riuscire piuttosto bene, in barba ai nostalgici delle scissioni politiche nette e tradizionali del passato di entrambi gli schieramenti – ma accesi sostenitori della sovranità dello Stato, come Henri Guaino, ed europeisti liberali del calibro di Bernard Kouchner o Christine Lagarde? Il primo ministro François Fillon si aspettava dal presidente che indicasse una rotta inequivocabile per il processo di riforme, nella sua apparizione in pompa magna in televisione di fine aprile. Non può dirsi che l’abbia ottenuto, a giudicare da quella che è stata una prestazione energica, sovente convincente, ma priva di collante e di una visione globale. Perfettamente in linea con l’anno appena trascorso. E non è certo lanciando, in una surreale conferenza stampa ad inizio gennaio, l’idea tuttofare di politica di civiltà che Sarkozy sia riuscito a chiarire la coerenza delle proprie intenzioni ed il senso storico delle sue riforme. In mancanza di un atteggiamento diverso, potrebbe benissimo tra quattro anni lasciare dietro di sé un bilancio contraddittorio e illeggibile. L’elettorato non glielo perdonerebbe ed il Paese fareb-
dossier Russia come il necessario contrappeso all’influenza di Washington nell’est europeo; la globalizzazione viene percepita almeno per metà come un’opportunità e per metà come una minaccia e la reintegrazione delle strutture militari della Nato pone fine a quaranta lunghi anni di ipocrisia tutta francese. Vi furono simboli forti. Così, se le cose sulla terra andassero un tantino meglio, la visita di Kouchner in Rwanda - Paese in cui il nostro governo ha comunque appoggiato i responsabili di un genocidio nel 1994, e con il quale siamo larvatamente in guerra dall’avvento al potere dell’oppositore Paul Kagamé - avrebbe I diritti umani sono sacrosanti, come testi- assunto maggiore importanza agli occhi dell’opinione moniano la nomina di Bernard Kouchner al Quai pubblica rispetto a tutta la polemica su Carla Bruni, d’Orsay e l’audacia spontanea della giovane segreta- alla pantomima elettorale di Neuilly o perfino alla ria di Stato Rama Yade, ma non per questo sono ces- rocambolesca e vergognosa visita di Gheddafi a sati gli abbracci a Putin e gli inchini a Hu Jintao. La Parigi. Franciafrica, questa strana commistione di reti mafio- Il problema di leggibilità della politica estera di se e di ideologia post-coloniale che rappresenta la costante vergogna della Quinta Repubblica dalla sua fondazione, viene sì ufficialmente condannata, ma poi il dittatore del Gabon, Omar Bongo, ottiene con due o tre telefonate ancora una volta la sostituzione di un sottosegretario alla cooperazione, Jean-Marie Bockel, ritenuto troppo impertinente. L’antiamericanismo dei tempi di Chirac non è più di moda, ma sembra perdurare il tropismo filo-russo. Talvolta non è fattibile mantenere l’equidistanza, e questo porta all’indecisione, come si è visto Sarkozy risiede in quest’ambito, come negli altri, nel recentemente al vertice Nato di Bucarest a proposito fatto che lo Stato francese è una sorta di mucca sacra, dell’Ucraina e della Georgia. La Francia voleva nel un’amministrazione che resta, elezione dopo elezione, contempo piacere al Cremlino e alle giovani democra- identica a se stessa e che si ritiene investita di una miszie: risultato? Nessun risultato! sione quasi mistica: preservare l’eredità gaullista. Tuttavia, cominciano ad intravedersi delle linee di Quando Bernard Kouchner si insedia al Quai d’Orsay, forza. La politica francese non si definisce più in sceglie solo una decina di collaboratori e deve cercare opposizione a Washington: i miti che dettavano la di venire a patti con migliaia di funzionari che hanno politica estera in passato sembrano essere estranei al servito, spesso con vera e propria adorazione, le poliPresidente; infine l’Ue viene vista come un insieme di tiche diametralmente opposte ai suoi principi di un 27 Paesi e non più il connubio tra 2 nazioni (la Francia Hubert Védrine o di un Dominique de Villepin. Per e la Germania); la guerra ad al Qaeda non è più pre- aver assistito a scene allucinanti di diplomatici che sentata come un’impresa imperialista americana e la facevano la lezione ai segretari di Stato, posso conferbe una fatica enorme a riprendersi. Questo balletto di esitazione si estende anche alla politica estera. Per mascherare questa evidente vaghezza, Sarkozy inventò un altro sorprendente concetto: la diplomazia della riconciliazione. Benone: chi infatti ha voglia di avercela col mondo intero? Eppure, si può essere al tempo stesso “concilianti” con Georges W. Bush e con Bachar el-Assad, con la Georgia e con la Russia, col Dalai-Lama e con la Cina, con i democratici e con i tiranni, con i dissidenti e con i piedipiatti che li arrestano?
L’Istituto Thomas More indica che quasi il 50 percento delle 490 promesse del candidato Sarkozy o è stato realizzato o è in corso di realizzazione. 12 mesi di attivismo hanno dato il capogiro alla Francia
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Risk mare che il peso dell’amministrazione non è un mero modo di dire nel nostro Bel Paese. E che la rupture richiederà molto tempo e altrettanto coraggio ai suoi paladini. L’umanista atipico si trasforma istantaneamente nel Papa austero che indossa la veste vaticana nel Galileo Galilei di Brecht. Il principe ribelle alle convenienze e alle tradizioni si tramuta in re severo, quando gli viene cerimoniosamente apposta la corona sul capo, come nel Falstaff di Orson Wells. È il momento in cui la funzione prende il sopravvento sul personaggio, quel sacro istante della continuità dello Stato illustrata a meraviglia da Giovanni Bellini nel suo ritratto del doge Loredano: un leggero raggio dorato ivi congiunge la veste, simbolo della funzione, ed il volto del capo, garantendo una magnifica unità, ulteriormente rafforzata dalla sfumatura blu dello sfondo della scena. Il capo sembra appoggiato sull’abito e l’individuo, mortale, si fonde e confonde con i finimenti immortali. È il principale rimprovero che viene oggi mosso a Nicolas Sarkozy: la sua incapacità a dare di primo acchito l’idea del presidente. Il suo comportamento ha dissacrato la funzione e dato libero corso alla sua individualità profana. È quello che si chiama “bling-bling”. Per capire cosa significa in Francia un tale rimprovero, va detto che il presidente qui è investito di una sacralità senza eguali in Europa. In Spagna, in Inghilterra e in tutte le monarchie costituzionali, il lustro simbolico ed il carattere sacro dello Stato appartengono ad un monarca privo di potere, laddove il potere reale è nelle mani di un individuo completamente profano e senza alcuna sacralità, qual è il primo ministro. In Italia o in Germania, il carattere recente dell’unità nazionale ed il passato fascista privano di fatto i cittadini di tale rapporto quasi religioso nei confronti dello Stato e del suo capo. In Francia, invece, si richiede al presidente di essere nel contempo Tony Blair e la Regina Elisabetta, colui che detiene il potere esecutivo ed il padre della nazione, l’incarnazione della sua unità e della sua Storia, Juan Carlos e Zapatero. È con questo che cozza Nicolas Sarkozy. Ascoltandolo e guardandolo, non si ha l’impressione 14
di vedere traspirare dieci secoli di storia in ognuno dei suoi gesti o in ciascuna delle sue parole. Il suo ormai leggendario «Scansati, povero fesso!», buttato lì ad un uomo che lo insultava in occasione della fiera dell’agricoltura, non ha nulla dell’eredità di Clodoveo o di Luigi XIV.
In realtà, tanto meglio. Poiché la sacralità del
monarca impedisce qualunque rapporto autenticamente democratico e moderno col potere. Con Sarkozy la Francia entra in una nuova era politica. E non senza dolore, in un caos che sciocca perfino taluni consiglieri del presidente che lo supplicano, saggiamente, di rientrare nei ranghi. Speriamo che non ceda. Certo, la Francia è coperta da un «lungo mantello di cattedrali» come scrive Henri Guaino e ciò nondimeno ha inventato l’anno primo, l’esaltazione rivoluzionaria della non identità. La rottura: è questo l’unico modo di essere veramente fedeli alla parte gloriosa della nostra storia. «Il mondo non è altro che un perenne scotimento, ove ogni cosa vi si agita senza fine: la terra, le rocce del Caucaso, le Piramidi d’Egitto, sia di un moto pubblico che di moto proprio. La stessa costanza altro non è che più debole moto. Non riesco a fissare l’oggetto dei miei pensieri. Esso procede traballando e con difficoltà, come una sorta di ebbrezza naturale. Lo prendo in questo punto, così com’è nell’istante in cui provo in lui divertimento. Io non dipingo l’essere. Dipingo il passaggio: non il passaggio da un’età all’altra o, come suole dire il popolo, il passaggio di sette anni in sette anni, ma da un giorno all’altro, di minuto in minuto. Occorre adattare la mia storia al tempo» (In I Saggi, libro III, cap. 2: “Del pentirsi” ). Il più grande pensatore che abbia mai solcato il suolo di Francia, Montaigne, ci consegna la chiave di una rottura veramente riuscita: «adattiamo la nostra storia al momento attuale». Lasciamo morire la triste monarchia che abita ancora la nostra vecchia dimora. Parafrasando uno slogan sessantottino secondo lo spirito del tempo attuale: «Corri, corri compagno presidente, il vecchio mondo è dietro di te!».
dossier A LUGLIO LA FRANCIA ASSUME LA PRESIDENZA UE E VUOLE LASCIARE IL SEGNO
FUOCHI D’ARTIFICIO E DI PAGLIA DI
N
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STEFANO SILVESTRI
icolas Sarkozy ha un grande merito: è riuscito a disinnescare la gravissima crisi europea provocata dall’avventata decisione del suo predecessore, Jacques Chirac, di sottoporre a referendum, e quindi far bocciare, la ratifica del Trattato costituzionale dell’Unione Europea. Con una manovra politicamente brillante,
anche se notevolmente spregiudicata, egli ha rimescolato gli articoli del Trattato, ha tolto l’aggettivo costituzionale, ha mantenuto la grande maggioranza dei suoi contenuti, ha presentato il tutto ad un Consiglio Europeo a Lisbona, definendolo un “mini-trattato” e lo ha quindi fatto ratificare per la via parlamentare. In tal modo l’Unione Europea è potuta ripartire (sempre che tutte le ratifiche vadano in porto: questa volta a preoccupare è il referendum inopinatamente indetto dagli irlandesi). Se tutto andrà bene, il presidente francese potrà concludere in bellezza la sua manovra europea, durante il secondo semestre di quest’anno, quando la Francia avrà la guida dell’Ue, e avrà quindi la responsabilità di avviare le grande riforme politico-istituzionali previste dal nuovo trattato. Ma Sarkozy non è l’uomo dei tempi lunghi: ama il movimento perpetuo e vuole essere al centro dell’attenzione, per cui ha continuato a lanciare una girandola di iniziative che stanno rendendo il quadro complessivo piuttosto confuso, al punto di rischiare nuove battute d’arresto. Ha rilanciato l’idea di un riavvicinamento tra la Francia e gli Stati Uniti, che dovrebbe passare anche attraverso una sorta di “ritorno” francese nell’organizzazione militare dell’Alleanza Atlantica, la Nato. Si è
inventato una nuova Unione Mediterranea, poi diventata una (diversamente dalla proposta iniziale) una Unione per il Mediterraneo. Ha affermato di aver raggiunto una nuova entente amicale con la Gran Bretagna (sorta di riferimento “aggiornato” all’antica entente cordiale), preoccupando gli alleati tedeschi. Ha quindi rilanciato il suo rapporto con Berlino, affermando che egli stesso e Angela Merkel, il cancelliere tedesco, formano un couple armonieux. Dopo aver ribadito in campagna elettorale la sua opposizione all’ingresso della Turchia nell’Ue, ha anche cercato di riannodare i suoi rapporti con Ankara non opponendosi alla ripresa dei negoziati per l’adesione e facendo filtrare l’idea che, se essi dovessero giungere a conclusione positiva, egli sarebbe contrario all’idea, voluta da Chirac, di sottoporre tale decisione a referendum popolare. Vuole rilanciare i rapporti con la Cina, ma probabilmente non andrà alla cerimonia di apertura delle Olimpiadi di Pechino, e persino in Africa, dopo aver sostenuto la necessità di porre fine ai vecchi rapporti post-coloniali della cosiddetta France-Afrique, ha ribadito gli stretti legami di sicurezza con il vecchio cliente tradizionale di Parigi a N’djamena, il presidente del Ciad, Idriss Déby, salvandolo da un colpo di stato militare. Si 15
dossier vuole campione dei diritti umani, ma ha appena ricevuto con tutti gli onori il colonnello Muammar al-Gheddafi a Parigi ed ha compiuto un viaggio trionfale in Tunisia, abbracciandone il certo non molto democratico presidente, generale Zin el Abdin Ben Alì. Questa sorprendente mescolanza di politica delle idee e di realpolitica, di alti principi e di più terrena furbizia, non rende facile prevedere cosa effettivamente accadrà nei prossimi mesi. L’unica cosa sicura è che il presidente Sarkozy intende raccogliere dei successi, siano essi reali o anche soltanto mediatici, per rafforzare la sua immagine di nuovo grande demiurgo, capace di trasformare il ruolo internazionale della Francia e possibilmente della stessa Europa. L’ambizione è grande, ma la strategia non è ancora chiara, e se dobbiamo basarci sugli avvenimenti dell’anno appena trascorso, le scelte concrete saranno fortemente condizionate dal quadro tattico contingente nel quale verranno prese. Bisognerà stare attenti a non prendere per oro colato affermazioni anche decise, ma enunciate sull’onda di un presenzialismo mediatico, e cercare invece di comprendere le linee forti di una politica spesso non chiaramente enunciata. Così, ad esempio, la Commissione europea si era preoccupata di un’uscita estemporanea di Sarkozy che sembrava richiedere un immediato rinegoziato delle “quote pesca” della Francia, per poi scoprire che in realtà il suo Governo non aveva alcuna reale intenzione di riaprire l’accordo che era stato appena concluso. E docce scozzesi analoghe sono piovute anche sull’euro e la Banca centrale europea, sulla politica commerciale comune eccetera. Ciò non facilita certo l’azione diplomatica della Francia. È facile per un analista, a giochi fatti, affermare che non bisogna dare peso alle parole, ma solo alle decisioni effettivamente prese, ma è molto difficile capire (o prevedere) quali parole saranno poi seguite da fatti conseguenti, quando ancora bisogna prendere le decisioni. In altri termini: quand’è che si può credere a Sarkozy?
Il metodo del presidente francese sembra essere di tipo sperimentale, ma non realmente empirico. In genere si parte da una sorta d’intuizione o di slogan e poi si cerca di dargli sostanza abbracciando senza troppo esitare le modifiche, anche sostanziali, richieste dalla situazione. Un caso evidente è stato quello dell’Unione Mediterranea. L’idea Sarkozy l’ha lanciata durante la campagna elettorale, presentandola, tra l’altro, come un’alternativa all’ingresso della Turchia nell’Ue. Questa parte della sua proposta si è rivelata subito vuota di senso, poiché Ankara non ha alcuna voglia né interesse ad annegare nel Mediterraneo, magari a mezza strada tra l’Egitto e il Marocco, e vuole invece entrare stabilmente in Europa, soprattutto a fianco della Germania. Ma il presidente non si è scoraggiato, perché l’idea di rilanciare una sorta di nuova Unione, parallela a quella Europea, ma in cui la Francia fosse l’indiscusso Paese guida, rimaneva comunque un obiettivo apprezzabile, soprattutto a Parigi. Non piaceva però a molti altri, a cominciare dalla Germania, che ha enormi interessi commerciali e politici nel Mediterraneo, ai suoi stessi alleati “naturali” in Spagna e in Italia, che non volevano apparire come le ali secondarie del centro francese, e all’insieme dell’Unione Europea che nel Mediterraneo è già impegnatissima, con l’iniziativa Euro-Mediterranea (processo di Barcellona), la politica di vicinato, numerosi accordi di associazione eccetera.
Per cui Sarkozy ha nuovamente adattato
la sua proposta. In primo luogo ne ha cambiato il nome (Unione per il Mediterraneo) e poi ne ha fatto un’iniziativa di tutta l’Ue, associandovi strettamente la Germania e proponendola a Roma e a Madrid (che l’hanno accettata) come la strada per rilanciare la politica dell’Ue verso Sud, riequilibrando l’eccesso di sbilanciamento verso Est dell’Unione Europea allargata a 27 Paesi. Ma probabilmente questa non sarà l’ultima trasformazione di quest’idea avventurosa. Ora, ad esempio, si 17
Risk moltiplicano le difficoltà per la convocazione del Vertice istitutivo dell’Unione, a Parigi, il 13 luglio prossimo. Verranno gli europei, ma quanti capi di Stato del Mediterraneo saranno realmente presenti? Tra le tante novità annunciate da Sarkozy per la politica estera francese c’è anche quella di un riavvicinamento ad Israele, e il presidente si recherà in visita a Gerusalemme a fine giugno. Si prevede che lo stesso Ehud Olmert sarà presente al Vertice di Parigi, e questo non piace a Gheddafi e potrebbe scoraggiare anche il presidente siriano Bashar elAssad (tanto più che in questo periodo i rapporti tra Francia e Siria sono assolutamente gelidi, a causa delle crisi libanese). Altri leader più accomodanti, come il Re del Marocco Mohammad VI, vogliono soprattutto essere sicuri che tutto ciò non ritarderà la conclusione di un nuovo accordo bilaterale con l’Ue. E persino il presidente algerino, Abdelaziz Buteflika, cui pure Sarkozy ha già fatto visita, ad Algeri, ha fatto sapere che tutto dipenderà dalla situazione in quei giorni nei territori palestinesi. Ora la Francia insiste e sostiene che l’Unione per il Mediterraneo, diversamente dall’iniziativa EuroMediterranea, non dovrà occuparsi di sicurezza, ma piuttosto di grandi progetti globali per salvare l’ambiente mediterraneo, la cultura e la formazione, lo sviluppo economico e sociale. Molti dubitano però che queste limitazioni siano sufficienti ad evitare una paralisi di questa iniziativa, analogamente a quanto è accaduto con il processo di Barcellona, e si domandano se non sarebbe piuttosto il caso di prendere il toro per le corna, magari a rischio di perdere qualcuno per strada e magari di ridisegnare nuovamente i contorni di questa iniziativa (ad esempio, perché escludere dal dialogo i Paesi arabi del Golfo? Dopotutto la Francia non è forse uno dei Paesi guida nel negoziato sul nucleare con l’Iran?).
della sua prossima presidenza. Qui le cose sembrano per il momento seguire una strada più tradizionale e soprattutto riservata, specie per quel che riguarda i contenuti, ma non è certo un segreto che Parigi vorrebbe in questa occasione predeterminare la direzione della crescita dell’Ue nel campo della politica estera e della sicurezza, che il nuovo trattato dovrebbe fortemente favorire, grazie alle sue innovazioni istituzionali: la creazione del posto di presidente dell’Unione (da affidare ad un rappresentante del Consiglio, per un periodo minimo di due anni e mezzo), il rafforzamento dell’Alto rappresentante (già ministro degli Esteri dell’Ue) che sarà anche vice-presidente della Commissione e avrà a sua disposizione, oltre alle risorse e ai funzionari della Commissione, anche un servizio diplomatico e la possibilità di istituire un gruppo di testa di Paesi guida nel settore della difesa e della sicurezza (quella che è chiamata dal trattato una “cooperazione strutturata permanente” che potrebbe applicare alla difesa decisioni analoghe a quelle che hanno portato alla creazione dell’euro in campo monetario). Già sono iniziate le grandi manovre. I francesi, ad esempio, hanno iniziato a sondare i loro partner sulla necessità di rivedere la Strategia europea di sicurezza, il cosiddetto “documento Solana”, che era stato presentato dal Consiglio europeo alla riunione di Salonicco del giugno 2003. Dovrà però andare con i piedi di piombo, perché non tutti sembrano desiderosi di grandi avanzamenti. Il Consiglio europeo dello scorso dicembre, ad esempio, si è limitato a indicare l’opportunità di “esaminare l’attuazione della Strategia” per vedere se sia possibile migliorarne l’attuazione pratica e solo eventualmente vedere quali possibili aggiunte possano essere opportune. Anche se il parlamento europeo ha più esplicitamente parlato di una sua necessaria revisione, e della necessità di dedicare ad essa Vedremo quel che accadrà da qui a metà maggiori risorse, il consenso tra gli Stati membri luglio.Nel frattempo però si dovrà delineare meglio sembra essere ad un livello molto più basso. anche l’iniziativa europea della Francia, in vista Ma la chiave del successo o dell’insuccesso della 18
dossier presidenza francese riposa soprattutto sulla capacità di Parigi di assicurare un forte consenso, condiviso quanto meno dai maggiori Paesi, quelli che, se entrerà in vigore il nuovo trattato, dovrebbero poi costituire il cosiddetto “gruppo di testa”. E qui purtroppo le cose non vanno molto bene, non tanto per colpa di Sarkozy, ma perché la situazione politica europea complessiva è in questo momento piuttosto mutevole. In primo luogo per la scelta degli alleati. Il presidente francese non ha avuto molta fortuna. Aveva appena lanciato la sua manovra di avvicinamento alla Gran Bretagna, ed ecco che il governo di Gordon Brown, già di per sé non molto europeista, si ritrova a dover gestire una crisi politica maggiore, che vede l’opposizione conservatrice uscire trionfatrice dall’ultima consultazione elettorale amministrativa. È probabile che le scelte di Londra, nel prossimo futuro, saranno ispirate più dalla necessità di recuperare ad ogni costo consensi elettorali, che da priorità europee o internazionali.
Sarkozy aveva anche una sponda favore-
vole in Italia, con Romano Prodi. Certamente Silvio Berlusconi non è politicamente un suo avversario, anzi esistono importanti collegamenti politici tra lo schieramento italiano di centrodestra e la maggioranza parlamentare francese. Ma lo stesso Berlusconi potrebbe non essere altrettanto disponibile a percorrere la strada di una maggiore autonomia europea ove questa non incontrasse l’esplicito appoggio americano. E anche in questo caso, il riavvicinamento tra Sarkozy e Gorge Bush dovrà, dal prossimo novembre, fare i conti con le scelte e le preferenze di un nuovo presidente americano, di cui ancora non si conoscono né il nome né gli esatti orientamenti. Rimane naturalmente la Germania e la prospettiva dell’accoppiata “esemplare” Sarkozy-Merkel. Tuttavia l’esperienza dell’Europa allargata a 27 ha ormai dimostrato più volte che la sola leadership della coppia franco-tedesca, benché necessaria,
non è più sufficiente a garantire la pienezza del risultato voluto e che è necessario il concorso di altri Paesi rilevanti, quali almeno la stessa Gran Bretagna, l’Italia e la Spagna, e che tutto diviene più facile se ad essi si aggiungono sin dall’inizio altri Paesi come la Polonia e l’Austria. In altri termini, la ricerca del consenso a 27 ha ormai regole diverse del vecchio consenso a 15.
L’Unione per il Mediterraneo si occuperà di grandi progetti globali per salvare l’ambiente, la cultura e la formazione, lo sviluppo economico e sociale. Limitazioni che forse non eviteranno una paralisi di questa iniziativa, come accaduto con il processo di Barcellona Tanto più che spesso l’intoppo viene dai dettagli, anche quelli apparentemente più insignificanti, e in questo caso essi non mancano certamente. La nuova costruzione istituzionale varata a Lisbona, e mutuata dal vecchio trattato “costituzionale” ha molte potenzialità positive, ma presenta anche molti punti ancora da chiarire. Quali saranno ad esempio i poteri reali del nuovo presidente dell’Unione e come si rapporteranno a quelli del nuovo Alto rappresentante/ministro degli Esteri? E come si porrà quest’ultimo nei confronti del Consiglio, del presidente della Commissione e del Parlamento, visto che è strettamente connesso con tutte e tre queste diverse istituzioni? E i suoi diplomatici saranno funzionari europei a tutti gli effetti 19
Risk o solo funzionari diplomatici nazionali, “distaccati” per breve tempo a Bruxelles? Tra l’altro, la nuova figura del presidente dell’Unione non elimina il meccanismo delle presidenze rotanti semestrali dei singoli Paesi membri: come si concilieranno queste due realtà nella pratica? Molto dipenderà naturalmente dalle personalità di coloro che verranno scelti per occupare questi posti: un compito che la presidenza francese vorrebbe quanto meno avviare, e forse anche predefinire, nel corso del suo semestre. Ma anche qui bisognerà fare i conti con il gioco dei veti incrociati. Così ad esempio a Sarkozy sembrava inizialmente non dispiacere l’indicazione di Tony Blair quale primo nuovo presidente dell’Unione, ma la cosa ha subito irritato il governo tedesco che ha giustamente fatto notare come non sarebbe stato opportuno scegliere un uomo politico certamente brillante, ma che aveva anche assunto una posizione fortemente divisiva e unilaterale decidendo di intervenire in Iraq al fianco degli Stati Uniti e che per di più è cittadino di un Paese che resta al di fuori dell’Euro ed ha molti dubbi sul processo di integrazione europea. Il rischio però è che di veto in veto si scivoli progressivamente verso una scelta di minimo comune denominatore, tanto più accettabile quanto più politicamente neutra o insignificante, svuotando dall’interno e sin dall’inizio le novità istituzionali del trattato.
Il timore di Sarkozy è che tutte queste difficoltà e ritardi finiscano per bloccare preventivamente il successo della sua presidenza semestrale, costringendolo ad una continua battaglia di retroguardia che non è certamente nelle sue aspirazioni né, forse, nelle sue reali capacità. Se dovessimo giudicare da quanto abbiamo visto durante questo suo primo anno di gestione del potere presidenziale in Francia, la sua preferenza va piuttosto in direzione di forti provocazioni iniziali cui far seguire poi eventuali compromessi riduttivi, ma sempre giustificati dal disegno strategico lanciato inizial20
mente. Questo è un meccanismo molto più difficile da applicare in un contesto multilaterale che all’interno di un Paese, dove comunque detiene una solida maggioranza parlamentare, ma potrebbe comunque avere un maggiore impatto pubblico, e quindi anche un migliore risultato quanto meno di immagine, se non sul piano dei risultati concreti, a condizione però che la sfida di alto livello e non si limiti agli aspetti applicativi del nuovo trattato. In altri termini, Sarkozy, se vuole salvare la sua presidenza europea, deve riuscire a lanciare un messaggio chiaro e forte su cui poi obbligare i partner europei a misurarsi direttamente. Forse, inizialmente, egli pensava che la sua Unione Mediterranea avrebbe potuto costituire questa occasione. Oggi però è chiaro che così non sarà e che, nel migliore dei casi, l’Unione per il Mediterraneo, salvo nuove d inattese trasformazioni, andrà ad inserirsi nel quadro già molto affollato delle iniziative europee in quest’area. Egli dovrà dunque trovare un altro campo d’azione. Gli argomenti non mancano. La sicurezza energetica, ad esempio, è un tema di grande rilievo, che però ha il difetto di non essere ancora una piena e forte competenza comune europea. La crisi economica e finanziaria in atto potrebbe suggerire di rivedere al rialzo il patto dell’Euro, estendendolo ad altre politiche economiche e fiscali, rischiando però di dover mettere a fattor comune politiche nazionali ancora molto diverse e gelosamente salvaguardate dai singoli governi (incluso quello di Parigi). Il tema dell’Europa sociale è certamente caro alla Francia, ma incontra l’ostilità britannica e forti sospetti in molti altri Paesi membri. Ugualmente controverso e difficile è il tema della politica commerciale comune che, inevitabilmente, va a sbattere contro la necessità di riformare profondamente la politica agricola comune: un nodo che rischia di incidere sullo stesso consenso politico interno francese. La scelta possibile in realtà essere una sola: il forte rilancio della politica europea di difesa e sicurezza.
In questa direzione Sarkozy parte già avvantaggiato dal movimento di avvicinamento iniziato in direzione dell’Alleanza Atlantica (e dalla decisione di inviare alcuni rinforzi militari in Afghanistan) e dal nuovo quadro istituzionale previsto dal trattato approvato a Lisbona. Il presidente francese ha ora buon gioco per sostenere che ad un rientro francese nella Nato deve fare da contrappeso il rafforzamento del sistema autonomo di difesa europeo, in un quadro non più antagonista con quello atlantico e in largo accordo con Washington.
Certo, per essere pienamente credibile
un tale rilancio avrebbe bisogno di una ripresa del cosiddetto “spirito di Saint Malo”, cioè dell’apporto deciso da parte della Gran Bretagna, e non è affatto detto che Brown sia oggi in grado di garantirlo, o abbia voglia di esporsi in tal senso. Ma se nel lungo termine il contributo britannico è assolutamente necessario, nel più breve termine potrebbe essere sufficiente un suo assenso di massima, collegato ad un più deciso impegno di altri importanti Paesi europei come quanto meno la Germania, la Spagna, l’Italia e possibilmente la Polonia. Non che questo sia garantito (ad esempio, sarà disponibile l’Italia ad assumersi maggiori oneri in questo campo?), ma la sfida è tutta da giocare ed è di alto livello, anche perché si collega strettamente ad altri grandi impegni europei in Africa e nelle aree di crisi. Una cosa è certa: Sarkozy non può contentarsi di giocare un ruolo modesto di traghettatore istituzionale. Ciò non corrisponde alle sue ambizioni e del resto non serve neanche all’Europa. Egli ci ha abituato ad un altro stile, forse non sempre coerente ed efficace, ma comunque più esposto, visibile e scintillante. Non resta che augurarci che sappia rispolverarlo in positivo anche in questa occasione. A meno di non inciampare tutti su un “no” dell’Irlanda. 21
dossier
AFRICA, RUSSIA, GERMANIA, USA: UN ANNO DI CAMBIAMENTI
MA DOVE VA IL QUAI D’ORSAY? DI JEAN
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L
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PIERRE DARNIS
a campagna elettorale che ha portato Nicolas Sarkozy alla presidenza della repubblica francese ha dato luogo allo sviluppo di una forte retorica in materia di politica estera. Difesa dei diritti dell’uomo, Unione del Mediterraneo, nuova politica africana, rinnovata relazione transatlantica: ecco alcuni dei temi che sembravano dover segnare una rottura con
il periodo precedente, quello del mandato di Jacques Chirac. Le novità dell’inizio di legislatura hanno suscitato l’attesa, con effetti a volte deludenti. Mentre la Francia si prepara ad assumere la presidenza dell’Unione europea a Luglio, possiamo esaminare le sfaccettature delle posizioni francesi sull’insieme dei dossier del momento. È importante valutare la “rottura” nella politica estera di Sarkozy anche alla luce delle continuità con la politica precedente. Il primo esempio riguarda la politica africana della Francia. La francafrique era un concetto che descriveva una comunità di interessi politico-affaristici che ruotava intorno ai rapporti privilegiati intrattenuti dalla presidenza della repubblica francese con una serie di governi africani ritenuti “amici”. Era una relazione fatta anche di reti clientelari alimentate da interessi economici e di sicurezza. Jacques Foccart fu a lungo il simbolo di questo approccio neo-colonialista della Francia verso il continente africano. L’eredità a volte romantica di servizi segreti deviati, attività parallele di imprese petrolifere ed altre barbouzeries si è allontanata da un bel pò, con il patetico fallimento dell’ultima spedizione del mercenario Bob Denard nelle isole Comore nel
1995 oppure le condanne in tribunale nel 20032004 di vari responsabili del gruppo petrolifero Elf per corruzione nel contesto delle attività in Gabon. La giustizia ha chiuso questo capitolo, ma l’indirizzo politico non è stato cancellato. Lo dimostra non soltanto la tradizionale politica di sostengo al regime di Idriss Deby nel Ciad, ma anche lo spostamento nel governo del sotto-segretario riformista Jean-Marie Bockel passato nel 2008 dal dicastero della “Cooperazione” a quello dei “reduci di guerra”, mutamento che viene spesso analizzato come frutto delle pressioni del gabonese Omar Bongo o del congolese Denis SassouNguesso ostili a qualsiasi cambiamento della politica francese. Anche se Sarkozy ha espresso la volontà di riformare la politica in Africa, sia gli equilibri di potere sul continente che gli intrecci fra alcuni regimi africani ed interessi economici francesi costituiscono una serie di paletti che non riesce ad oltrepassare. La Libia ha rappresentato il primo successo diplomatico di Sarkozy, o della sua ex-moglie Cecilia, con la liberazione delle infermiere bulgare. Ma lo sfarzo dell’accoglienza di un Gheddafi che ha piantato la sua tenda a Parigi nonché la firma di un’ac23
Risk cordo di difesa fra Libia e Francia hanno suscitato numerose critiche da parte dei difensori dei diritti dell’uomo. Anche lì non si può parlare di un corso nuovo, ma di una politica realista che mira ad aprire nuovi canali con un regime in cerca di rispettabilità, con tutte le difficoltà intrinseche a questo tipo di dialogo.
la posizione francese appare difficile. Parigi ha interpellato il potere cinese a proposito del Tibet e spinge per la ricerca di un consenso europeo in materia. D’altro canto manda il consigliere diplomatico della presidenza Levitte, il presidente del Senato Poncelet e l’ex primo ministro Raffarin in Cina per cercare di evitare incomprensioni dannose da un punto di vista commerciale. Possiamo quindi osservare una forte tensione fra due elementi tradizionali della politica francese: il supporto ai “campioni nazionali” nel campo industriale e la promozione dei diritti dell’uomo. Rileviamo gli stessi elementi per quanto riguarda le relazioni con la Russia. Mentre il candidato Sarkozy sembrava piuttosto critico nei confronti della politica russa, interpretando anche cosi il filone ungherese paterno, la Francia oggi è piuttosto circospetta nei confronti della Russia. Ci sono ovviamente interessi importanti in gioco, dall’energia all’industria aeronautica, ma soprattuto prevale la necessità di concordare una posizione con una Germania molto sensibile ai rapporti con Mosca. Il rapporto con la Germania può servire a caratterizzare la differenza fra il candidato e il presidente, perché quest’ultimo, accedendo al potere, ha scoperto Berlino. Le visioni del Sarkozy in campagna elettorale ruotavano tutte intorno al ruolo della Francia in Europa e nel mondo, riproponendo il percorso della potenza nazionale francese, una spiccata tendenza geopolitica che fioriva sotto la penna dei suoi consiglieri. Una volta arrivato all’Elysée, Sarkozy ha dovuto prendere in considerazione il retaggio in materia di politica estera, e in modo particolare la Germania, chiave di volta della politica francese. Durante il semestre di presidenza tedesca dell’Unione, Sarkozy ha affiancato il cancelliere Merkel per promuovere un mini-trattato capace di sbloccare un’Europa istituzionale azzoppata dal voto francese al referendum sul trattato costituzio-
Il governo si barcamena fra una posizione teorica di supporto ai diritti dell’uomo, e quindi di attenzione al Tibet, e la volontà di sviluppare buone relazioni con la Cina che portino contratti per le industrie. Un tema che per la società civile è fuori discussione Le problematiche legate alla difesa dei diritti dell’uomo emergono apertamente nel caso del Tibet e delle relazioni con la Cina. La protesta della strada parigina contro il passaggio della fiaccola olimpica che annuncia i giochi di Pechino è stata assai vigorosa, costringendo le forze dell’ordine a troncare il percorso previsto. Dal lato politico il governo francese sembra piuttosto in imbarazzo fra una posizione teorica di supporto ai diritti dell’uomo e quindi di attenzione alla questione del Tibet e la volontà di sviluppare delle buone relazioni con la Cina che si possa tradurre in contratti per l’industria francese.
La società civile francese
si associa largamente a questa protesta mentre l’imbarazzo cresce nel governo. Fra il segretario di Stato ai diritti dell’uomo, Rama Yade, che ha parlato di “condizioni” per una presenza di Sarkozy alla cerimonia di apertura degli giochi e la presidenza stessa che ha tenuto a precisare che tutte le opzioni rimangono aperte, 24
dossier nale del 2005. Usando la sua vittoria per fare dimenticare all’elettorato francese la sua contrarietà all’Europa, è riuscito ad appoggiare Angela Merkel incamerando il suo principale risultato finora. È paradossale constatare come l’agenda del candidato Sarkozy nazionale e mondiale, si stia realizzando in ambito europeo. Germania e Europa, ecco i cardini fondamentali della politica estera francese, di quella politica concreta che non dà più luogo a grandi dichiarazioni, ma che costituisce la trama necessaria dell’azione internazionale.
L’asse Parigi-Berlino prende il seguito del-
l‘asse Parigi-Bonn, una costante della politica di entrambi Paesi simbolizzata dal trattato firmato all’Elysée nel 1963 da Adenauer e De Gaulle. La riconciliazione e la comune posizione nella guerra fredda dettavano l’alleanza fra i due Paesi, asse che ha costituito il motore della costruzione europea. Oggi le ragioni fondatrici sono sparite: la riconciliazione è avvenuta, il muro è crollato. La relazione fra la Francia e la Germania fa fatica a trovare un progetto comune che possa segnare un rinnovato dinamismo, ma questo non deve significare che sia diminuita la sua importanza. Esiste una consuetudine bilaterale unica fra i due Paesi: Francia e Germania si scambiano informazioni diplomatiche e dirigenti della pubblica amministrazione. Così viene assicurata un’inedita comunicazione che nessuno intende rimettere in discussione. Il progetto di Unione del Mediterraneo illustra molto bene quei binari obbligatori dei due Paesi in materia di politica estera. L’idea di Unione lanciata dal candidato Sarkozy nel 2007 e sviluppata poi dal suo consigliere Henry Guaino riprendeva una visione molto geopolitica nella quale la Francia cercava di mettersi al centro di un processo di integrazione al Sud dell’Europa, di fatto bilanciando il peso di una Germania in un’Europa orientata a nord ed a est. Berlino si è opposta alla creazione di una comunità che poteva apparire in concorrenza con l’Unione Europea, rivendicando anche un ruolo nel Medi-
terraneo. Così l’Unione del Mediterraneo è stata trasformata in Unione Per il Mediterraneo, un’iniziativa politica integrata che intende rilanciare l’attuale politica mediterranea europea. Inoltre la Germania non intende rimanere tagliata fuori da un’iniziativa politica che può avere conseguenze importanti sulla questione dell’integrazione della Turchia nell’Unione Europea, una problematica cruciale per Berlino con l’aumento della popolazione tedesca di origine turca. La virata della politica francese illustra come sia impossibile per la Francia concepire una politica comune che non sia frutto di una mediazione prima di tutto con la Germania e poi con l’insieme dei partner europei. Inoltre vediamo crescere nell’esecutivo europeisti convinti come il segretario di stato agli Esteri Jean-Pierre Jouyet mentre l’irruenza geopolitica di Henry Guaino, consigliere speciale alla presidenza della Repubblica, viene messa a tacere. I rapporti fra Nicolas Sarkozy e Angela Merkel non sembranno eccellenti per il momento: tra l’energico politico francese e la protestante cancelliera tedesca lo stile appare molto diverso. Ma non bisogna soffermarsi sulla dimensione personale della relazione, perché le difficoltà sono già state superate nel passato, come nel caso di Chirac e Schroeder. Il carattere fondamentale della relazione tra Francia e Germania è apparso nel summit di Bucarest della Nato nell’aprile 2008. Francia e Germania hanno avuto una comune posizione aiutandosi a vicenda per difendere sia le cautele tedesche in materia di allargamento della Nato all’est che la volontà francese di rilanciare una difesa europea come pilastro della Nato. La Francia e la Germania stanno pubblicando un manuale di storia comune destinato agli studenti di liceo, uno sforzo promosso da una commissione bi-nazionale di storici. Uno dei punti più discussi è stato il ruolo degli Usa nell’Europa del dopo-guerra, con esperti tedeschi orientati a sottolineare il contributo americano per la stabilità e la pace sul continente mentre i francesi erano più riluttanti. 25
Risk L’episodio dimostra quanto le relazioni transatlantiche siano un punto significativo per misurare l’evoluzione della Francia anche nel contesto europeo. Prima di tutto è importante dare a Chirac quello che è suo, ovverosia il lavoro di ricucitura con gli StatiUniti operato dopo la rottura del 2003 quando la Francia si oppose all’intervento in Iraq. L’evento rappresenta sicuramente una divergenza estrema che entrambi i partner, fondamentalmente alleati, si sono impiegati a ridurre. Chirac riprese il dialogo con gli Usa sia nell’ambito del consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, sia nel contesto di politiche bilaterali strategicamente mirate, come lo scambio di informazioni fra servizi per la lotta al terrorismo. L’operato dell’ ambasciatore di Francia a Washington, Jean-Daniel Levitte e del rappresentante permanente francese al consiglio di Sicurezza, Jean-Marc de la Sablière è stato intenso. Oggi Levitte è diventato il consigliere diplomatico del presidente, mentre De la Sablière ha preso funzione a Roma. Le posizioni comuni sul Libano e la Siria hanno poi rinsaldato l’alleanza.
L’azione di Sarkozy prende
il seguito di quella del suo predecessore. Ma Sarkozy ha subito voluto segnare la sua differenza dimostrando la sua familiarità con gli Usa. Le vacanze a Wolfeboro nel New Hampshire oppure la visita a Washington con un lungo discorso pronunciato di fronte al congresso vogliono apparire come segnali di un orientamento pro-americano di Sarkozy. E paradossale constatare che l’unico presidente della repubblica francese che ha avuto una conoscenza, pur relativa, della società americana è stato in realtà Jacques Chirac che fu allievo di Harvard durante una summer school. Di fatto, le capacità internazionali di Sarkozy sono certamente limitate da un inglese scolastico e dall’assenza di esperienze di studio o lavoro all’estero. A questo si aggiunge un George Bush molto impopolare in Francia, in quanto simbolo della guerra in Iraq. Per Sarkozy non conviene 26
quindi stringersi troppo a questo leader in uscita e bisognerà aspettare la nuova amministrazione americana per rilevare un’eventuale rinnovo dei rapporti con gli Usa. L’attivismo della Francia nella Nato sembra già indicare un’evoluzione. Nel corso del suo primo anno di presidenza, Sarkozy ha mandato avanti l’idea di un rinforzamento dell’Europa della difesa, condizione per un impegno maggiore della Francia della Nato, con un’eventuale ritorno della Francia nelle strutture di commando integrato all’orizzonte 2009. La crescità della presenza di soldati francesi in Afghanistan, annunciata da Sarkozy al summit di Bucarest, ha lo scopo di dimostrare agli alleati della Nato, Usa e Regno Unito in primis, come la Francia intenda rinforzare l’alleanza, ottenendo in cambio un via libera degli Stati Uniti per una maggiore crescita della dimensione europea della difesa. Anche nel corso della sua recente visita a Londra, Sarkozy si è fatto avvocato di una capacità di difesa europea autonoma presentata come complementare alla Nato. Sembra che anche da parte americana la posizione stia evolvendo con il desiderio di responsabilizzare maggiormente gli europei per quanto riguarda le spese di difesa. Il ritorno della Francia nelle strutture integrate della Nato non costituisce però un salto di qualità in termini militari, perché dal summit di Praga nel 2002 la Francia ha integrato le sue capacità di proiezione con quelle della Nato, e numerosi ufficiali francesi sono oggi presenti nel quartier generale di Bruxelles. Il ritorno della Francia nelle strutture integrate della Nato rappresenterebbe un’operazione politica e simbolica. Tra l’altro il dibattito parigino intorno a queste questioni riprende i termini di questa simbologia riferendosi alla politica gollista. Per quanto riguarda la politica di difesa è stata la presidenza Chirac a traghettare le forze francesi verso l’ammodernamento e la professionalizzazione. Sarkozy prosegue questo sforzo criticando il suo predecessore ma, come Chirac, non rimette in causa le capacità nucleare della Francia, anche se dimo-
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La Francia e la Germania stanno pubblicando un manuale di storia comune destinato agli studenti di liceo. Uno dei punti più discussi è il ruolo degli Usa nell’Europa del dopoguerra
stra la sua volontà di trasparenza evocando in modo aperto il numero di testate nucleari che possiede la Francia. La ribadita volontà della Francia di rinforzare un pilastro europeo di difesa rimane oggi una visione un po’ isolata. Deve fare i conti con i principali partner della Francia: il Regno Unito per le sue capacità militari, ma anche una Germania che si riafferma partecipando all’insieme degli interventi della Nato all’estero. I tedeschi a volte temono che la Francia coltivi un’alleanza privilegiata con il Regno-Unito per isolarli in Europa. Si tratta pero di un timore poco fondato: anche se la Francia avesse questo tipo di disegno, l’intensità dei legami con la Germania fa si che, alla fine, non si può pensare a una politica ambiziosa se non come condivisa fra i due Paesi, il che non esclude affatto partenariati con altri. Abbiamo prima sottolineato come la relazione franco-tedesca sia solida ma manchi di un’obiettivo europeo. La difesa potrebbe rappresentarne uno, poggiando sull’opera comune della brigata franco-tedesca ma anche sulla posizione di rifiuto di intervento in Iraq nel 2003. Sono numerose le contraddizioni di una Germania stretta fra lo sviluppo di forze militare proiettabili auspicate dalla Nato e il tradizionale pacifismo tedesco che teme un ritorno al militarismo. La Germania però sta lentamente evolvendo e anche nel campo militare la Francia può giocare un ruolo simbolico importante. Sia per la Francia che per la Germania il rapporto transatlantico è cambiato in modo definitivo da quando l’Europa non è piu un territorio strategico per gli Usa. Anche se Nicolas Sarkozy si dimostra filo-atlantista, non potrà ricreare le condizione di un’alleanza che individua, a volte con fatica, le ragioni di una sicu-
rezza comune. In questo contesto, la presidenza francese dell’Unione è un momento importante par Nicolas Sarkozy. Dopo un passaggio a vuoto nella politica interna che si è tradotto nel calo nei sondaggi, un momento negativo largamente dovuto alle vicissitudine della sua vità personale, Sarkozy si sta impegnando a restaurare l’immagine di serietà istituzionale tradizionalmente associata alla funzione di presidente della Repubblica. L’azione delle forze militari francesi nell’ambito del rapimento dello yatch di lusso al largo della Somalia è un indicatore di questa evoluzione.
La presidenza della repubblica francese ha
messo in moto un dispiegamento di forze notevole, con due navi della marina militare in zona, un aereo di ricognizione, e una cinquantina di commando di marina e forze speciali sotto gli ordini di un vice-ammiraglio direttamente paracadutato in zona. Con la liberazione degli ostaggi al seguito di un negoziato e la cattura di una parte dei rapitori al seguito di un’operazione a terra, la Francia ha mostrato la sua capacità di gestione di questo tipo di situazione, in un contesto di minaccia comune con i Paesi alleati come l’Italia che deve anche fronteggiare la pirateria marittima. E stato un comunicato della presidenza ad annunciare la fine del rapimento, e nella conferenza stampa successiva il capo di stato maggiore della difesa, il consigliere militare e il consigliere diplomatico della presidenza hanno risposto alle domande dei giornalisti, mostrando come Sarkozy eviti oggi una iper presenza mediatica sospetta di aver stancato l’opinione pubblica. E quindi sul terreno europeo che Sarkozy può cogliere l’opportunità di un rilancio della sua politica estera. La macchina amministrati27
Risk va francese è al lavoro da mesi per preparare l’appuntamento della futura presidenza dell’Unione. Le priorità della presidenza francese sono già ben individuate: energia (sicurezza e cambiamento climatico), politica europea di difesa, immigrazione e politica agricole comune.
La visione francese in materia di sicurez-
za energetica auspica delle maggiori capacità di pianificazione e coordinamento a livello europeo, con lo sviluppo di una “solidarietà energetica”. Certamente molti Stati-membri condividono questa necessità di poter fronteggiare eventuali crisi di approvvigionamento; si tratta di un punto sul quale l’Italia potrebbe essere interessata a collaborare. A Parigi, il cambiamento climatico viene analizzato con la logica dello sviluppo sostenibile. La Francia vuole lanciare un programma duraturo, creando un’iniziativa che proseguirà con le presidenze svedesi e ceche. La Germania si presenta come il partner principale per questa politica, mentre l’Italia sembra meno sensibile a questo dossier. Ritroviamo la volontà di riforma francese per quanto riguarda la politica agricola comune. Il bilancio sulla salute della Pac verrà svolto nel corso della presidenza francese. Sarkozy può beneficiare di un’opportunità dato il ruolo centrale della Francia per quanto riguarda l’agricoltura. Si tratta di una politica molto discussa, non soltanto dal punto di visto finanziario. La tematica della sicurezza alimentare, riapparsa di recente, fornisce una rinnovata basi per un sostegno dell’agricoltura a livello europeo basato sulla produzione, un punto che potrebbe anche aggregare il consenso dell’Italia. Il “patto europeo sull’immigrazione” proposto dalla Francia dovrebbe rinforzare il coordinamento delle politiche in materia. Le ultime elezioni hanno dimostrato quanto fosse sensibile questa tematica per l’Italia e quindi ci si puo’ aspettare un relativo consenso. 28
Per quanto riguarda la politica europea della difesa, il contesto sembra positivo per compiere ulteriori passi: l’avvicinamento di Sarkozy alla Nato rende i Paesi atlantisti più aperti alle iniziative francesi. Il problema però è di definire delle misure concrete che possano creare sinergie intorno a una maggiore integrazione. La visione tradizionale francese, ad esempio illustrata da Chirac, è stata quella di considerare l’Europa come una potenza che sarebbe in qualche modo una “super Francia”: un campione nazionale allargato al continente. E più che logico che la Francia si sia a lungo proiettata in questo modo, cercando di replicare in Europa la sua propria visione di potenza. Gli altri Stati-membri hanno però percezioni diverse, più articolate. La Germania, come già è stato ricordato, conosce una lenta e faticosa evoluzione nell’uso dello strumento militare, marcata dalle tendenze pacifiste del quadro politico interno. Ci sono quindi margini per un rilancio dell’integrazione nel campo militare, a patto di capire con i partner, Germania prima di tutti, in che direzione andare. L’insieme di questi dossier è di diretto interesse per l’Italia. Per quanto riguarda le relazioni bilaterali, il nuovo esecutivo italiano dovrebbe cambiare molto le relazioni fra i due Paesi. Certo gli intrecci del dossier Alitalia possono lasciare tracce a Parigi e a Roma. D’altro canto il governo Berlusconi rivendica un buon rapporto con la Francia, il che potrebbe compensare alcuni attriti. Di fatto, l’europeizzazione della politica estera della presidenza Sarkozy deve essere colta come un’opportunità da parte del governo italiano. Le tematiche della presidenza Ue ma anche, in modo più generale, le necessità per la Francia di ricercare il consenso in Europa per una serie di dossier offrono una sponda anche all’Italia. Non si tratta dell’asse alternativo alla Germania che alcuni zeloti della geopolitica nazionalista amano descrivere, ma dell’opportunità di rilanciare una serie di progetti comuni con i partner, riprendendo anche il camino istituzionale europeo interrotto dal referendum francese del 2005.
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SE NON RIPARTE L’ECONOMIA LE RIFORME NON DECOLLANO
IL CAPPELLO MAGICO DI ATTALI DI
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CLAUDIO CATALANO
e liberalizzazioni e la riforma del ruolo dello Stato, in Francia come in Italia, sono necessarie per far ripartire la crescita economica, che ha subito in questi anni un brusco rallentamento, attribuito da molti ai processi di globalizzazione in atto. La commissione Attali - dal nome del suo presidente già consigliere di Mitterand - nasce per risolvere questo processo di decli-
no. Goethe affermava che «I matematici sono come i francesi: se dici loro qualcosa, la traducono nella loro lingua, e oplà diventa una cosa completamente diversa» Per il sommo poeta di lingua germanica – vissuto quando il francese era la lingua principe della cultura e della diplomazia - la tendenza a tradurre questioni semplici in schemi per iniziati è caratteristica dell’esprit de finesse. Oggi, il francese è ormai soppiantato come lingua franca globale e le economie emergenti insidiano la posizione della Francia nei mercati internazionali. La commissione per le riforme economiche ha assunto l’evocativa, ma poco incisiva denominazione di “commissione per la liberazione della crescita francese”. Tuttavia bisogna riconoscere che il rapporto si ispira ad un approccio da policy paper, con 316 decisioni, spesso basate su best practice di riforme di altri Paesi europei, soprattutto: Regno Unito, ma anche l’Italia. Il successo della commissione dipenderà dall’efficacia con cui le sue raccomandazioni saranno effettivamente applicate all’economia. L’elezione di Nicolas Sarkozy a presidente della Repubblica francese è stata accolta con grandi aspettative. In campagna elettorale, Sarkozy aveva presentato diverse proposte per rivitalizzare l’economia e la società riuscendo a galvanizzare l’elettorato. Dopo
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circa un anno dall’elezione, sembra che la spinta riformista si sia lentamente spenta . Nel pieno della fase riformatrice, durante la luna di miele con l’elettorato, Sarkozy era cosciente di non poter affrontare gli alti costi delle riforme strutturali senza il propellente della ripresa economica. La congiuntura economica era sfavorevole e gli effetti del pacchetto fiscale annunciato prima dell’estate 2007, costato 12 miliardi di euro, avevano ridotto i margini di manovra del bilancio. Sarkozy si era posto l’ambizioso obiettivo di aumentare di un punto percentuale la crescita del Pil entro la fine del suo mandato, nel 2012. Un punto percentuale di Pil in più vuol dire aumentare di 500 euro il potere d’acquisto individuale, creare 150mila posti di lavoro e ridurre di 4mila euro il debito pubblico per ogni cittadino, tutto senza aumentare le tasse o peggiorare il deficit pubblico. Per ottenere questo punto in più è necessario liberalizzare il mercato del lavoro, aumentando le ore lavorative e reimpiegando gli anziani; incrementare la concorrenza nel mercato di beni e servizi, liberalizzare le professioni; ed infine accrescere la competitività internazionale delle imprese. Sarkozy aveva questo in mente quando istituì per decreto, il 27 agosto, la commissione Attali, attribuendole il compito di ricercare i mezzi per accresce-
dossier re la competitività e la produttività dell’economia francese, per migliorare la performance della Francia nello scenario globale e europeo. La commissione Attali si inserisce nella tradizione dirigista sul ruolo dello Stato nell’economia. Già nel 1959 la commissione Armand-Rueff era stata incaricata di rimuovere gli ostacoli alla crescita francese e più recentemente, nel 2004, su richiesta di Sarkozy, allora ministro dell’economia, il rapporto Camdessus aveva proposto delle misure per la crescita francese, non tutte applicate. L’anno successivo, dal “piano beffa” sulle tecnologie strategiche sorse l’Agence pour l’innovation industrielle, che ebbe breve vita e fu assorbita, nel gennaio 2008, nell’agenzia sull’innovazione per le Pmi. Con il rapporto Attali c’è quindi il rischio che si tratti solo di una ulteriore commissione e di un rapporto di più. Jacques Attali ha affermato, in un’intervista nel settembre 2007, che la sua commissione non intendeva produrre un “rapporto di più”, ma creare uno choc economico con l’obiettivo di raggiungere la crescita annua del 5 per cento. Per Attali l’obiettivo era credibile, perché «il mondo registra una crescita media del 5 per cento annuo da molti anni, non c’è nessuna ragione per cui la Francia e l’Europa siano al 2 o 2,5 per cento». Il progresso tecnologico agisce da motore per la crescita globale. Se la crescita di Paesi emergenti come la Cina o l’India è alimentata da grandi opere o progetti energetici, anche la Francia deve orientare gli investimenti pubblici e del settore privato in grandi progetti d’investimento. Negli ultimi 40 anni, invece, il tasso di crescita annuale francese è passato dal 5 per cento all’1,7 per cento, valore medio su cui si è attestato per gli ultimi 20 anni, mentre la crescita globale ha seguito il percorso inverso. Secondo i francesi più illuminati, vi è bassa crescita perché la Francia non ha attuato le giuste riforme. Il Conseil d’Analyse Économique ha individuato quattro punti per la ripresa economica. Il primo punto chiedeva di intensificare la produttività aumentando le ore lavorative; il successivo riguardava il mercato del lavoro e la riforma dei contratti; il
terzo consisteva nell’aumento della concorrenza nei mercati e la diminuzione delle barriere di entrata, soprattutto nel commercio al dettaglio e nelle professioni, attuando inoltre una deregulation nei settori delle telecomunicazioni e dell’energia; L’ultimo punto chiedeva di invertire la tendenza della diminuzione delle spese in ricerca e sviluppo e una riforma universitaria. Il rapporto Attali, presentato il 23 gennaio, tiene conto di questi punti ed elenca gran parte dei mali di cui soffre la Francia, ma forse ci sono troppe proposte e le idee migliori si perdono nella massa. La Francia è lenta - afferma il rapporto - ha i mezzi per riprendersi in tempi ragionevoli, ma deve cambiare approccio, velocizzarsi, avere fiducia nel futuro, preferire il rischio alla rendita e liberare la concorrenza, l’iniziativa e l’innovazione. Il Paese si deve modernizzare, l’avvenire dell’impiego non è più nel settore pubblico e le imprese non possono contare più sulle sovvenzioni statali.
Nonostante queste premesse,
rimane un approccio statalista che porta alla creazione di nuovi enti pubblici (alto rappresentante per il digitale; autorità per la concorrenza; agenzia per le Pmi; fondo sovrano; agenzia di orientamento tecnologico) o al potenziamento dell’agenzia per le partecipazioni di Stato. Ma c’è un approccio favorevole all’individuo, ad esempio nell’introduzione della class action o per semplificare l’apertura di un’impresa. Per l’innovazione, sull’esempio britannico si punta sulla formazione scolastica e sulla riforma universitaria e si cerca di creare “distretti d’eccellenza” e dieci “ecopolis” con tecnologie e infrastrutture sostenibili. Il rapporto riconosce che la crescita proviene dalla capacità del Paese a investire nei settori strategici, individuati in base all’elevato e stabile tasso di crescita mondiale. La Francia deve guadagnare spazio nel digitale anche utilizzando la presidenza europea, deve - strano a dirsi per un Paese avanzato - avviare una strategia alimentare, cercare di fare concorrenza 31
dossier a Londra come piazza finanziaria e, naturalmente, assicurarsi una politica energetica meno dipendente dall’estero e più durevole, sviluppando le energie rinnovabili (eolico, solare, biomassa, idrogeno), lo stoccaggio e il nucleare di nuova generazione, anche in cooperazione con altri Paesi. Per realizzare il piano d’azione, come ammette il rapporto stesso, saranno necessarie almeno due legislature e la commissione prevede riunioni annuali per valutare l’applicazione del rapporto. La fase iniziale di applicazione del piano inizia nell’aprile 2008 e dovrà essere portata a termine nel giugno 2009. Gli effetti saranno tuttavia visibili solo a partire dalla primavera del 2012. Se infatti, alcune riforme - come quelle fiscali e sul mercato del lavoro - avranno effetti immediati, altre necessiteranno di anni per manifestare i loro effetti, come la riforma scolastica e universitaria, quella sulla ricerca e sviluppo e sulle infrastrutture. Per ciascuna decisione è stato preparato un piano operativo che tiene conto delle necessità di concertazione e degli investimenti. Negli ultimi mesi, il governo è riuscito a fare progressi nelle riforme delle pensioni e delle università e in gennaio negoziando tra datori di lavoro e sindacati si è raggiunto un accordo sui contratti di lavoro. Ma il desiderio di consenso e di compromesso ha alzato troppo il costo delle riforme e il piano è stato attaccato sia dall’opposizione sia all’interno dello stesso partito di governo Ump. La resistenza alla realizzazione delle riforme spinge a compromessi per questo il metodo di applicazione diviene essenziale. L’economista di Harvard, Alberto Alesina propose per le riforme italiane il metodo delle “lenzuolate”, un attacco contemporaneo su più fronti per superare le resistenze delle categorie colpite, che possono però giovarsi dei vantaggi dalle riduzioni delle altrui rendite di posizione. Anche il rapporto Attali si basa su questo approccio. Charles Wyplosz, professore di economia all’Istituto di Studi Internazionali di Ginevra, nota che per il rapporto Attali si è costituito un ampio fronte contrario di
lobby (notai, avvocati, ferrovieri, funzionari e ipermercati), si è diluito troppo il calendario delle riforme e la concertazione ha neutralizzato lo spirito delle decisioni, perché affidare la realizzazione a commissioni composte dalle parti in causa ha permesso, come dicono gli americani, di “lasciar stabilire ai tacchini la data del giorno del ringraziamento”. Il metodo multidirezionale ha disperso le forze e scompaginato le priorità, quindi meglio forse gerarchizzare le riforme, cominciando dalle più importanti e mettendosi in condizione di realizzarle. Se, ad esempio, la priorità è la disoccupazione, non importa costruire le “ecopoli” o assicurare l’accesso ad internet per tutti; si deve riformare il contratto di lavoro e prevedere indennità di disoccupazione. Secondo Wyplosz, il metodo per convincere le categorie colpite è quello di offrire loro compensazioni. Prendendo il caso bene noto in Italia dei taxi, il governo dovrebbe riacquistare tutte le licenze e i tassisti, ricompensati, acconsentirebbero alla liberalizzazione. Di certo le riforme non si realizzeranno a buon mercato.
La speranza francese
è di riprendere un programma di largo respiro con la prossima presidenza europea, per diluire i costi delle riforme nell’Unione Europea intera. Dall’Italia si è osservato con interesse l’esperimento francese, cercando di valutarne i risultati. Ci si chiede in che misura un approccio simile a quello francese possa risolvere i problemi strutturali dell’economia e delle istituzioni italiane. Si dimentica forse che la commissione, oltre a giovarsi della collaborazione di illustri personalità italiane, ha adottato misure di riforma italiane. Giusto per dare due esempi bipartisan: lo slogan delle tre “I” (inglese, internet, impresa) per la formazione scolastica e la liberalizzazione delle licenze dei taxi per la riforma delle professioni. Sin dalla rivoluzione francese, le élite italiane guardano alla Francia come modello, ma spesso i francesi soffrono dei nostri stessi mali e non è detto che possano risolverli meglio di noi. 33
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RITORNO NELLA NATO, DIFESA UE, NUCLEARE, ESERCITO, MARINA, AERONAUTICA
LA GRANDEUR È MILITARE DI
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ANDREA NATIVI
on l’imminente pubblicazione dell’atteso Libro Bianco della Difesa, la Francia avvia una trasformazione ad ampio spettro della politica di difesa e sicurezza e dello strumento militare. Di un documento organico di indirizzo c’è indubbiamente necessità, dato che il precedente Libro Bianco risale al 1994, quando il clima
internazionale era ancora quello del post guerra fredda, doveva ancora iniziare la stagione delle grandi operazioni militari multinazionali e, soprattutto, neanche nei peggiori incubi si ipotizzava lo scenario post 9/11. Inoltre dal prossimo anno diventerà operativo anche il nuovo programma quinquennale di investimenti per la difesa per il periodo 2009-2014, che sancirà importanti cambiamenti di rotta per quanto riguarda le priorità di spesa e la scelta dei programmi da finanziare. A tutto questo si aggiunge, a luglio, anche l’inizio del semestre francese di presidenza dell’Unione Europea e l’agenda di Parigi attribuisce, come sempre, grande importanza alla dimensione politica estera, difesa e sicurezza. Temi, questi, che solo uno dei “grandi” Europei può davvero porre al centro dell’attenzione. Il presidente Nicolas Sarkozy già nel corso della campagna elettorale dello scorso anno aveva annunciato che la sua presidenza sarebbe stata caratterizzata da una revisione della politica di difesa, unita ad un incremento della spesa militare, senza però operare un netto distacco rispetto a quanto realizzato nel corso della presidenza Chirac. In realtà Sarkozy sta sempre più abbandonando l’impostazione del suo predecessore, sulla base di un
notevole pragmatismo e della disponibilità a porre in discussione anche i dogmi consolidati della politica estera e di sicurezza nazionale. Ed è ben chiaro che la politica di difesa rimane una materia di competenza del presidente, al punto che la redazione del Libro Bianco della Difesa appartiene essenzialmente alla sfera politica ed all’Eliseo, ai militari spetta invece verificare se i mezzi e le risorse a disposizione consentono di realizzare quanto previsto nel documento d’indirizzo e formulare quindi le opportune raccomandazioni, in particolare in tema di stanziamenti e programmi.
Alleanza Atlantica. Sarkozy, d’altronde, non ha
alcun timore reverenziale nell’affrontare questi problemi. A partire dal riavvicinamento alla Nato, con la prospettiva di un ritorno nella organizzazione militare integrata dalla quale la Francia era uscita nel 1966 per decisione di De Gaulle, che riteneva l’alleanza troppo dominata dagli Usa. Ma i tempi sono cambiati. Già negli scorsi anni, seppure con discrezione, i legami rescissi nel ’66 sono stati ripristinati, a livello operativo più che politico: basta pensare al rientro nel Comitato militare, la partecipazione alle esercitazioni alleate, a diversi enti Nato. Sarkozy però ha rotto 35
Risk gli indugi sollevando la questione già lo scorso anno e nel corso degli ultimi mesi ha detto che una decisione in proposito sarà presa entro fine 2008. E non c’è motivo per pensare che il tabù dell’indipendenza, pur nella appartenenza, non sarà violato. La scelta di sostenere l’impegno della Nato in Afghanistan, mettendo a disposizione dell’Isaf, la forza multinazionale, oltre 700 truppe combattenti in aggiunta a quelle già presenti nel Paese, “venduta” mediaticamente e politicamente in modo egregio prima e durante il vertice dell’Alleanza Atlantica di Bucarest, ancorché molto impopolare in patria, ha rappresentato un segno tangibile della volontà francese di contribuire agli impegni militari dell’Alleanza. Per molti, in particolare per Washington e Londra, il ritorno del “figliol prodigo” francese è un sogno che diventa realtà, intanto perché Parigi dispone di uno strumento militare consistente e di prim’ordine e soprattutto perché è disposta ad utilizzarlo senza troppe remore. La Nato con la Francia viene rivitalizzata, diventa più credibile e capace. Intendiamoci, non proprio tutti sono così entusiasti del suo rientro nei comandi militari integrati atlantici, perché ovviamente la Nato dovrà trovare e garantire spazi, visibilità e responsabilità adeguate al ruolo e alle capacità francesi. A partire dalla struttura, localizzazione e composizione dei comandi. Proprio il rientro nella Nato dà per la prima volta a Parigi una concreta possibilità di rilanciare il tema della difesa europea. Washington è stata rassicurata e l’avvicinamento politico tra Francia e Usa è una realtà che va sempre più consolidandosi. Lo conferma anche l’atteggiamento molto duro che Parigi sta mantenendo nel confronto dell’Iran e dei suoi programmi nucleari. Parallelamente 36
Parigi ha stabilito relazioni eccellenti con Londra proprio sul tema della difesa e sicurezza, contraddistinte anche da alcuni importanti programmi congiunti (le nuove portaerei, i velivoli da trasporto militare A400M etc.). Al punto che la Germania stava cominciando seriamente a preoccuparsi. Nel campo della sicurezza però Sarkozy e la cancelliera Merkel sembrano intendersi meglio che su altri dossier e ne è una conferma sia il “fronte comune” nel respingere la proposta statunitense di aprire le porte Nato ad Ucraina e Georgia, sia la scelta di far svolgere il prossimo vertice Nato, quello del Sessantesimo anniversario, nelle città gemellate di Strasburgo e Kehl.
Una difesa europea. La Francia vuole rilan-
ciare l’idea della difesa europea, non più considerata come alternativa alla Nato, anche se Parigi auspica una certa reale autonomia anche in termini di comando e controllo e capacità di pianificazione. E proprio nel momento in cui la Nato soffre sempre più problemi di coesione e di capacità decisionale (la formula di votazione per consenso rischia di trasformarla in doppione dell’Osce) Parigi sostiene una formula di Europa della difesa a più velocità, con un nocciolo duro, una specie di G6 europeo, formato da chi è disposto a fare e spendere: i membri del direttorio potrebbero essere Francia, Gran Bretagna, Germania, Italia, Polonia e Spagna. Ovvero i Paesi con le maggiori capacità militari. Le porte resteranno naturalmente aperte agli altri. Ma il club dei 6 farà da driver. E se si procederà per consenso, chi fosse disposto esclusivamente “all’armiamoci e partite” finirà emarginato. La capacità e volontà di usare le risorse militari diventerà altrettanto o forse ancora più importante
La scelta di sostenere la Nato in Afghanistan, ancorché molto impopolare in patria, rappresenta un segno tangibile a voler contribuire agli impegni militari dell’Alleanza
dossier della disponibilità di uomini e mezzi.
disposte ad alcuna concessione per sostenere gli investimenti, men che meno quelli per la difesa. Il bilancio della difesa francese è secondo in Europa solo a quello britannico e ammonta in tutto a 48 miliardi di euro, che si riducono a 37,6 miliardi per la difesa propriamente detta, escludendo quindi pensioni, ricerca e sviluppo ed una serie di altre spese. Il presidente Sarkozy però è intenzionato a compiere anche scelte drastiche, compresa quella di cancellare completamente quei progetti considerati sacrificabili o non più prioritari e quella di ridurre drasticamente la struttura della difesa per recuperare risorse da destinare alla modernizzazione ed all’investimento, ma anche all’esercizio, visto che molti militari si lamentano per la mancanza di fondi per l’addestramento, la manutenzione, il supporto. Questo vuol dire ad esempio intervenire sul personale. Rispetto agli attuali 426mila uomini e donne in servizio (347mila militari, compresi 100mila gendarmi, e 79mila civili) si scenderà di un minimo di 20mila ed un massimo di 50mila unità entro il 2014, colpendo soprattutto nel settore amministrativo e in quello logistico. Sempre nel campo logistico si procederà ad un ricorso più spinto all’outsourcing. Un altro settore dove la razionalizzazione consentirà di conseguire importanti riduzioni dei costi è quello delle infrastrutture. Il ministero della Difesa è il più importante proprietario immobiliare in Francia, considerando sia edifici sia i terreni. Molti di questi non sono più necessari o indispensabili, mentre la polverizzazione di reparti e mezzi sul territorio, che aveva un senso nell’era della guerra fredda, ora costituisce un lusso/onere insostenibile. Già nel 2006-2007 la Difesa ha ceduto immobili ottenendo circa 140 milioni di euro, ma il piano di dismissioni e permute sarà accelerato. Conseguendo importanti benefici: un’entrata extra significativa, una riduzione dei costi di esercizio ed un recupero di personale.
La recherche dei soldi. Ma per passare dal dire al fare… servono i soldi. Tanti. Secondo Parigi la soglia minima da mantenere è quella del 2 percento del Pil. Che rappresenta il doppio di quanto spende oggi l’Italia per la funzione difesa, ma che è pur sempre una percentuale molto lontana del 4,3 percento degli Usa. La Francia auspica un drastico incremento e una razionalizzazione della spesa europea in tema di ricerca e sviluppo militare e (ma su questo punto c’è una ben maggiore timidezza, perché la Francia non è molto disponibile ad aprire realmente il proprio mercato della difesa alla concorrenza internazionale) una liberalizzazione del mercato degli armamenti, oggi escluso da forme di reale concorrenza e competizione. In effetti la Francia sta aumentano gradualmente la spesa militare da ormai diversi anni ed in particolare il programma di spesa per la difesa 2003-2008 ha visto una crescita anno dopo anno, con investimenti complessivi in sviluppo ed acquisizione di nuovi sistemi per circa 86 miliardi di euro in un lustro. Tuttavia, come accade ormai in ogni parte del globo, le disponibilità finanziarie non sono assolutamente sufficienti a consentire la realizzazione o la prosecuzione di tutti i programmi in corso o di cui è prevista la realizzazione. In genere la risposta dei governi di fronte a questi problemi consiste in una combinazione di incremento degli stanziamenti, ma anche di tagli, diluizione, rinvio dei programmi. Anche la Francia si è comportata in questo modo. Di fatto il Modello di Difesa 2015, approvato nel 2003, è assolutamente irrealizzabile, come ha detto chiaramente il ministro della Difesa Hervé Morin, affermando che per poterlo attuare bisognerebbe che i fondi per l’investimento aumentassero di 4 miliardi di euro all’anno tra il 2009 e il 2011 e ciò solo per attuare gli impegni già in corso. Questa è una prospettiva del tutto irrealistica, soprattutto nel momento in cui l’econo- Il deterrente nucleare. Per quanto riguarda la mia europea è sotto pressione, per non dire in reces- Force de Frappe nucleare, la Francia continua, giusione, mentre le autorità monetarie europee non sono stamente, ad attribuirvi la massima importanza, ma la 37
Risk consistenza, qualità e capacità dell’arsenale sono oggetto di una revisione che, nel recepire le modifiche alla dottrina nucleare nazionale, già elaborate ed annunciate da Chirac (ma Sarkozy è più cauto sulla possibilità di ricorrere al nucleare contro il terrorismo, come invece affermato dal suo predecessore) per mantenere una effettiva capacità di deterrenza/ dissuasione nei confronti delle vecchie e nuove minacce, prevede ora una riduzione nel numero sia delle testate sia dei vettori . Gli armamenti nucleari sono caratterizzati da un favorevole rapporto costo/efficacia e le riduzioni francesi non comprometteranno affatto la credibilità del deterrente, anche perché la dottrina di impiego francese è piuttosto aggressiva, al punto che per anni Parigi ha sostenuto di non aver bisogno di un sistema di difesa antimissile per il territorio metropolitano in quanto la miglior difesa era costituita dalle armi nucleari e dalla volontà politica di farvi ricorso in caso di aggressione. Del resto iniziative analoghe sono state decise anche da Stati Uniti e Gran Bretagna, mentre la stessa Russia, che non potendo/volendo sostenere l’ammodernamento/potenziamento dello strumento militare convenzionale ha concentrato le risorse nell’ammodernamento e potenziamento dell’arsenale nucleare, sta comunque riducendo il numero di testate e di vettori. Secondo quando annunciato da Sarkozy in occasione del debutto del nuovo sottomarino lanciamissili balistici, l’Ssbn Le Terrible, che diventerà operativo nel 2010, il numero complessivo di testate a disposizione della Francia sarà ridotto di un terzo, scendendo al di sotto di quota 300, con un dimezzamento rispetto alla forza schierata durante la guerra fredda. La Fost, la Forza Strategica nucleare navale comprenderà così 4 Ssbn, due dei quali costantemente in pattugliamento, ciascuno armato con 16 missili balistici, attualmente gli M-45, sostituiti a partire dal 2010 con i nuovi M-51 che saranno dotati delle nuove testate Tno in corso di sviluppo. La seconda componente della forza nucleare, quella aerea (Parigi da tempo ha rinunciato ai missili nuclea38
ri basati a terra), la Fas, sarà ridotta di 1/3, visto che gli attuali 60 bombardieri da penetrazione Mirage 2000N saranno sostituiti da 40 Rafale. In compenso l’attuale missile nucleare aviolanciato Asmp sarà rimpiazzato dal nuovo Asmp-A dopo il 2015. Missile che andrà anche a bordo delle portaerei della Marina. La Francia avrà quindi meno armi nucleari, ma di tipo migliorato e affidate a vettori più moderni, precisi e con superiore gittata e capacità di penetrazione. E Sarkozy è tornato ad offrire la protezione dissuasiva consentita dalla coperta nucleare francese a Paesi amici ed alleati, a partire da quelli Europei/Nato. Per ora però il tema della dissuasione nucleare sembra restare un tabù, almeno a livello europeo.
Le forze convenzionali. Per quanto riguarda le
forze convenzionali, la Francia si trova ad affrontare una serie di sfide formidabili, dato che l’intero strumento militare sta compiendo un’importante modernizzazione, mentre al contempo gli impegni reali rimangono molto intensi e logorano uomini e mezzi ad un ritmo decisamente superiore alle previsioni. Se poi la Francia tornerà a far parte della struttura militare integrata Nato dovrà procedere ad un adeguamento/standardizzazione che non sarà né semplice, né rapido né tantomeno poco costoso, malgrado gli sforzi in direzione della interoperabilità compiuti da almeno un decennio. “L’eccezione” nazionale costerà sicuramente cara. In realtà la situazione dello strumento militare francese è tutt’altro che negativa. Lustri di cospicui investimenti, una notevole attenzione per la ricerca e l’ammodernamento e una base tecnologica di primo livello, che può anche beneficiare degli effetti dell’export (l’importanza dell’export militare è talmente elevata in Francia che dopo una serie di sconfitte subite negli ultimi due anni il presidente Sarkozy ha avocato a se il controllo e l’indirizzo del settore, con l’intento di rilanciarlo e potenziarlo) hanno reso le Forze Armate francesi tra le migliori qualitativamente a livello europeo e l’impiego in operazioni reali permette di rimanere costantemente up to date e di apportare i
dossier necessari aggiustamenti suggeriti dalla esperienza. Le Forze Armate francesi sono state professionalizzate, con successo, in un arco di tempo relativamente breve. Tutti gli effettivi sono dunque volontari o professionisti. La coscrizione obbligatoria non è stata cancellata e rimane “sospesa” mentre è stata creata una forza volontaria di riserva, che può anche contare su oltre 21mila militari e su significativi quantitativi di mezzi ed equipaggiamenti ritirati dal servizio di prima linea, ma che hanno comunque una discreta capacità bellica e sono mantenuti in “naftalina”. La Francia ha fatto propria la concezione “joint” che prevede quindi l’attribuzione delle competenze ad un Capo di Stato Maggiore della Difesa da cui dipende uno Stato Maggiore interforze, l’Emia, che è responsabile della pianificazione e in larga misura per le conduzione delle operazioni. Dipende dal Capo di Stato maggiore della Difesa anche il Comando delle Operazioni Speciali che, come negli Stati Uniti ed in altri Paesi europei, sta aumentando importanza e consistenza, nonché l’intelligence militare (Drm) e la sanità militare, anche questa fortemente integrata. I vantaggi dell’integrazione interforze sono sempre più apprezzati, ad esempio anche nel settore logistico, dove spicca una organizzazione dedicata a supportare mezzi più costosi e complessi in dotazione alle Forze Armate. Si tratta del Simmad, che sta fornendo risultati positivi dopo aver superato l’inerzia e le resistenze iniziali.
L’Esercito.
L’Esercito può contare su 120mila militari e circa 24mila civili ed esprime una forza operativa strutturata su 9 brigate, con 35 reggimenti di manovra, mentre ci sono 3 brigate di supporto al combattimento, con 18 reggimenti. Nel settore logistico ci sono 2 brigate, con 17 reggimenti. A queste unità vanno aggiunte 1 brigata aeromobile, 1 brigata forze speciali e la brigata franco-tedesca. Si tratta di un’organizzazione finalizzata ad esprimere la massima capacità operativa, privilegiando quindi i “denti” piuttosto che la “coda” logistica e territoriale. La sfida principale per l’Armèe de Terre è
quella di compiere il “salto” in avanti costituito dalla digitalizzazione e dalla capacità di integrarsi in un contesto network-centrico. I piani avviati sono molto ambiziosi e probabilmente dovranno essere rivisti e diluiti, ma sicuramente non c’è nessuna intenzione di rallentare la modernizzazione della fanteria, come conferma l’ordine per 5mila kit Felin, soldato futuro, che saranno quanto prima distribuiti a una prima aliquota del personale. Prosegue intanto l’acquisizione di mezzi blindati 8x8 Vbci, dei quali sono previste 700 unità (forse oggetto di una qualche riduzione), mentre vengono acquisiti i nuovi autocannoni da 155 mm Caesar, veicoli leggeri protetti di vario tipo, elicotteri da combattimento Tigre e da trasporto NH90. Malgrado sia prevista una consistente riduzione dell’aviazione dell’esercito, i piani attuali prevedono comunque oltre 350 velivoli dal 2015, tutti modernissimi.
La Marina. La Marina francese, con quasi 45mila
uomini e donne e 10mila civili è impegnata in un rinnovamento di tutto il naviglio principale. Dopo aver a lungo tentennato, sembra proprio che il governo francese darà il via al programma per la realizzazione di una seconda grande portaerei d’attacco, che si affiancherà alla portaerei nucleare De Gaulle. L’ordine per la nuova unità, da realizzare in collaborazione con la Gran Bretagna, dovrebbe essere firmato quest’anno. Si tratta di un progetto molto costoso, oltre 2,5 miliardi di euro, ma indispensabile se Parigi vuole mantenere ed anzi accrescere le proprie capacità di proiezione della forza, considerando che due unità sono il minimo per averne almeno una costantemente operativa (ma in effetti due unità saranno mediamente disponibili nel 70 percento del tempo). Difficilmente peraltro la Marina potrà realizzare, almeno non con la tempistica prevista, il suo “Model 2015” che prevede entro il 2015 la disponibilità di 80 navi da guerra, 130 velivoli e 5 Gruppi commando. In ogni caso alcuni dei programmi cruciali sono già in corso: 2 grandi cacciatorpediniere lanciamissili, realizzati in collaborazione con l’Italia, sono in via di 39
Risk completamento e il primo entrerà in servizio il prossimo anno, mentre una prima tranche di 8 fregate multiruolo, classe Aquitaine, anche queste frutto della cooperazione bilaterale con l’Italia, è in corso di costruzione. Ne sono previste in tutto 17, con consegne dal 2011, anche se è possibile una qualche riduzione. Parigi ha anche lanciato la costruzione di una nuova classe di sottomarini nucleari d’attacco. Il primo degli Ssn Barracuda dovrebbe entrare in servizio nel 2016 e ne sono previsti almeno 6, anche se inizialmente la Marina potrebbe essere costretta ad accontentarsi di 4 unità, visto che 6 battelli verrebbero a costare intorno agli 8 miliardi di euro. Sia le Aquitaine sia i Barracuda saranno armati con missili da crociera Scalp Navale con una gittata di circa mille km. Il potenziamento delle capacità di proiezione include naturalmente anche la componente anfibia, che potrà contare su due grandi portaelicotteri anfibie classe Mistral e su 2 unità d’assalto classe Foudre, oltre a 5 più piccole Batral. Del resto il ministero ha assegnato alla marina il compito di essere pronta a proiettare un gruppo aeronavale, un gruppo anfibio con una forza di marines di almeno 1400 uomini e diversi sottomarini d’attacco. Quanto all’aviazione navale, due sono i programmi principali: da un lato l’acquisizione del cacciabombardiere multiruolo Rafale, del quale finora sono stati ordinati 38 esemplari, con l’obiettivo di arrivare a 60, mentre parallelamente dal prossimo anno saranno consegnati gli elicotteri navali Nfh 90, dei quali sono previsti 27 esemplari.
L’Aeronautica.
Per l’Aeronautica, con 63mila militari e 4800 civili, è venuto il tempo di procedere ad una concentrazione dei reparti di volo su un numero limitato di basi ed installazioni: se si arriverà a compiere scelte drastiche, le forze da combattimento potrebbero essere distribuite su appena 8-10 grandi aeroporti rispetto alla trentina di basi attualmente utilizzate. Una tale rivoluzione dovrebbe essere accompagnata, secondo quanto previsto dal piano Air 2010, sulla concentrazione di personale ed assetti sotto appena quattro “poli”, rispettivamente dedicati alla 40
pianificazione e conduzione delle operazioni, la preparazione e l’addestramento delle forze, il supporto e la gestione del personale. La nuova organizzazione sostituirebbe l’attuale struttura che prevede 13 comandi e enti principali e che è decisamente pletorica considerando la consistenza delle linee di volo. Anche il comando delle forze strategiche nucleari vedrà una consistente riduzione dei propri assetti. Per quanto riguarda i mezzi, l’Aeronautica è in una situazione abbastanza favorevole, grazie ai caccia e cacciabombardieri della famiglia Mirage 2000 che costituiscono il grosso della forza, mentre gli ultimi Mirage F-1, ancorché modernizzati andranno in pensione nei prossimi anni. L’Aeronautica vorrebbe standardizzare la sua forza operativa su due tipi di velivolo da combattimento, il Mirage 2000 e il Rafale, del quale sono previsti in tutto 234 esemplari, compresi 84 biposto nelle due versioni da addestramento operativo ed attacco nucleare. Tuttavia il costo di questi aerei ha finora limitato gli ordini a sole 82 unità, dei quali 47 appartengono alla versione migliorata F.3. Proprio l’esigenza di risparmiare ha costretto a rinunciare ad ordinare una serie di 51 aerei; quest’anno, solo 6 nuovi Rafale saranno finanziati. Tuttavia le capacità dei Mirage 2000, in particolare quelli delle versioni più recenti, sono tali da rendere possibile una diluizione delle commesse, a condizione però di prevedere nel medio termine un ammodernamento per portare quelli della versione d’attacco D fino al 2020. È probabile che il numero complessivo di Rafale che saranno acquistati potrà essere ridotto. Quantomeno saranno eliminati 20 dei 60 velivoli destinati al ruolo di attacco nucleare. In compenso l’Aeronautica spera di poter acquisire una significativa capacità nel campo dei velivoli non pilotati, introducendo sia Uav da ricognizione/sorveglianza a media quota/lunga autonomia al più presto, da sostituire nel medio termine con macchine di superiore capacità, sia velivoli da combattimento senza pilota, un settore nel quale sono impegnate risorse significative, in particolare attraverso il programma europeo Neuron. Il ministero della Difesa ha affidato all’Aeronautica il
dossier compito di approntare una forza integrata proiettabile forte di un centinaio di velivoli, una capacità che sarà probabilmente ridotta nel medio termine, ma che oggi fa dell’Aeronautica francese una forza con pochi eguali nel continente europeo. E gli schieramenti operativi, compreso quello in Afghanistan, confermano che si tratta di capacità reali e contraddistinte da grande efficacia. Una situazione più critica riguarda il settore del trasporto aereo, soprattutto perché le dottrine francesi prevedono di far affidamento ai mezzi di trasporto strategici, quindi soprattutto aerei, ma anche navi, nonché sulla disponibilità di basi oltremare per far affluire rapidamente uomini e mezzi dove necessario in tempi ridotti. L’Aeronautica dovrà essere in grado di schierare 1500 soldati e relativi mezzi a 5mila km di distanza nel giro di tre giorni. Per il futuro l’Aeronautica si affiderà al nuovo aereo da trasporto europeo Airbus A400M, un programma però che ha accumulato significativi ritardi, che stanno mettendo sotto pressione i velivoli disponibili, i vecchi Transall e un piccolo numero di C-130 statunitensi, visto che parte degli aerei più vecchi è stata messa a terra avendo raggiunto i limiti di ore di volo. In tutto sono previsti 50 A400M. Si tratta comunque di aerei con capacità di carico “intermedie” tra quelle degli aerei strategici e quelle degli aerei tattici. In diverse occasioni si è valutata la possibilità di acquisire o noleggiare un piccolo numero di aerei C-17 statunitensi, come ha fatto la Gran Bretagna e si appresta a fare la Nato, tuttavia ragioni di politica industriale e il costo di queste macchine ha fatto rinunciare ad una tale iniziativa. La Francia ha poi urgente bisogno di sostituire la flotta di aviocisterne, oggi basata su KC-135 di produzione statunitense che dovrebbero lasciare il posto a nuove cisterne basate su cellula A330. Nessuna particolare novità è prevista nel campo dei velivoli da addestramento, con le linee di volo basate su Alpha Jet, Tucano ed Epsilon, mentre nel settore degli elicotteri i mezzi a disposizione sono relativamente moderni. L’Aeronautica ha anche la responsabilità per la dife-
sa antiaerea missilistica, avendo anche assorbito tutti i mezzi in precedenza assegnati all’esercito (una razionalizzazione che sarebbe quanto mai opportuna anche in Italia) e oltre a batterie per la difesa di punto e a breve raggio potrà presto contare su sistemi missilistici per la difesa areale Samp-T realizzati in collaborazione con l’Italia. Cominciano a circolare anche i primi progetti relativi a sistemi di difesa antimissile, ma ora che la Nato ha deciso di affrontare il problema e si appresta ad avviare iniziative concrete a partire dal 2009 è probabile, considerando anche i costi elevatissimi, che la Francia cercherà di porsi alla guida di eventuali progetti congiunti piuttosto che perseguire la via nazionale.
Settore spaziale. La strada della cooperazione è
prevista anche nel settore spaziale. Parigi ha identificato da tempo lo spazio come nuovo “campo di battaglia” il cui dominio non può essere lasciato esclusivamente agli Stati Uniti. Anche se la Francia è il Paese che più investe in Europa nella ricerca e nelle attività spaziali, incluse quelle militari e il budget della difesa garantisce circa 500 milioni di euro all’anno. Che sono pochi considerando i desiderata francesi: oltre ai satelliti di osservazione e comunicazione si richiedono capacità nel campo dello spionaggio elettronico, della trasmissione di dati, dell’allarme tempestivo per il lancio di missili balistici. Idealmente dovrebbe essere l’Europa ad occuparsi di sviluppare queste capacità strategiche, ma pochi sono realmente pronti ad impegnarsi, mentre c’è anche chi si oppone nettamente. Per ora la Francia sta cercando di trasformare l’agenzia spaziale europea, l’Esa, che fino a poco tempo fa era assolutamente vincolata a operare nei soli campi scientifici, civili e commerciali (e questo spiega perché il sistema di navigazione/posizionamento satellitare europeo Galileo è stato sciaguratamente impostato come programma civile con applicazioni nel campo della sicurezza) in un vero contraltare della Nasa, la quale spesso lavora a programmi e ricerche di interesse militare. Nel frattempo si persegue la collaborazione con alcuni Paesi, 43
Risk per la Costa d’Avorio. E auspicabilmente il “vuoto” che si potrebbe a venire a creare potrà essere colmato dall’Unione Europea, anche se per ora i tentativi in questa direzione hanno incontrato modesto successo. D’altro canto l’Europa non può disinteressarsi dell’Africa, specie nel momento in cui si acuisce il confronto tra Stati Uniti e Cina per l’influenza e, diciamolo chiaramente, il dominio del continente. La Francia molto saggiamente non pensa affatto di rinunciare ai vantaggi strategici e politici che derivano da una politica di presenza avanzata ancorata ad una serie di basi militari oltremare. Tanto è vero che tra guarnigioni, missioni internazionali e contingenti impegnati in progetti di cooperazione, la Francia mantiene all’estero 20mila soldati dell’Esercito e ne impiega 11mila in operazioni di stabilizzazione/peacekeeping per non parlare delle componenti navali e aeronautica. Questo vuol dire che ogni quattro mesi circa 13mila soldati ruotano tra basi/contingenti e che oltre 40mila soldati svolgono turni di servizio all’estero. Sono numeri molto significativi e che dovrebbero far riflettere anche altri Paesi che hanno eserciti consistenti, ma poco proiettabili. Certo, l’obiettivo di rendere addirittura 80mila dei militari dell’esercito “proiettabili” (quindi oltre il 60 percento), con la capacità di arrivare a schierare 50mila soldati per una eventuale grande missione ad alta intensità one shot o di impegnare fino a 20mila uomini indefinitivamente in più missioni su più teatri rimane soltanto una aspirazione e sarà certamente rivista al ribasso dal Libro Bianco. Il problema fondamentale è quello economico: non ci sono le risorse per costruire e mantenere una capacità di proiezione così consistente. Non c’è invece difficoltà nel trovare i volontari/professionisti: proprio grazie alla possibilità di impiego all’estero e di retribuzioni ragionevoli, senza dimenticare la possibilità di fare carriera (il 52 percento degli ufficiali proviene dai ranghi dei sottufficiali e il 53 percento dei soldati
Ogni quattro mesi 13mila soldati ruotano tra basi/contingenti e oltre 40mila soldati svolgono turni di servizio all’estero. L’obiettivo di schierare 50mila soldati per una eventuale missione ad alta intensità rimane un’aspirazione in particolare l’Italia (programmi per l’osservazione terrestre Helios prima e oggi SkyMed/Pleiades nonché per le telecomunicazioni protette) e con la Germania. Per adesso i programmi spaziali militari francesi sono condotti su base interforze, ma è possibile che l’Aeronautica cerchi di assumerne il controllo nel medio termine, cosa questa che potrebbe portare ad un incremento di “attenzione” e stanziamenti.
Le missioni all’estero.
La razionalizzazione della spesa prevede anche una revisione in chiave riduttiva degli impegni militari, a dimostrazione di una coerenza politica/economica/strategica che ben pochi Paesi possono vantare. I soldati francesi possono e saranno impiegati all’estero, ma solo quando sarà realmente necessario per tutelare gli interessi primari nazionali o quelli condivisi. Questo vuol dire, ad esempio che la tradizionale vocazione francese all’Africa, con una politica estera attiva supportata da una consistente presenza militare nel continente (in media tra 5 e 8mila soldati), connessa ad importanti impegni nel campo della sicurezza a supporto di governi locali, sarà ridimensionata. Non eliminata, come conferma ad esempio la disponibilità di Parigi a impegnare ben 2100 soldati per costituire il fulcro della forza di stabilizzazione europea in Ciad, la Eufor Chad-Car. Tuttavia diversi accordi di sicurezza bilaterali saranno rinegoziati o sospesi, mentre anche la presenza di truppe e di basi avanzate nell’Africa francofona sarà ridotta. Come è accaduto ad esempio 44
dossier di truppa si conquista i gradi di sottufficiale: una prospettiva ben diversa da quella che troviamo in eserciti molto più classisti, come quello italiano) l’esercito non fa fatica ad arruolare gli oltre 13mila soldati di cui ha bisogno ogni anno per garantire turnover e mantenere bassa l’età media della forza. Le basi all’estero sono però e rimangono cruciali se si vuole operare militarmente su base planetaria. Caso mai si può pensare di rinunciare a certe presenze/installazioni che perdono rilevanza per sostituirle con altre realizzate in aree che hanno acquisito maggiore rilevanza. Si spiega chiaramente, ad esempio, il progetto di Parigi di creare una grande base negli Emirati Arabi Uniti, dove saranno schierati in permanenza almeno 500 uomini e difficilmente si rinuncerà ad una presenza a Djibuti, nonostante la “convivenza” con gli americani della Task Force Horn of Africa che sta creando problemi significativi, di cui cerca di approfittare il governo locale. In ogni caso Djibuti resta una base di importanza strategica sia per il controllo dei traffici marittimi, sia per la proiezione verso buona parte del continente africano sia come cerniera verso il Pacifico e l’Oceano Indiano, dove la Francia possiede ancora significativi territori, basi e circa 1,5 milioni di abitanti. Altrettanto importante è la presenza nella Guiana Francese, dove sorge il poligono spaziale francese/europeo di Kourou, un’installazione da cui dipende l’accesso francese/europeo allo spazio e che quindi va adeguatamente protetta. Insomma, riduzione delle basi si, ma solo dove è conveniente, mentre quelle davvero strategiche saranno mantenute o potenziate. A Parigi nessuno si sogna di seguire le sciagurate iniziative dell’allora Segretario alla Difesa Ruumsfeld, che se pienamente attuate avrebbero inferto un colpo micidiale alle capacità di intervento ed influenza statunitensi. 45
Risk
LA FORZA DEL SISTEMA INDUSTRIALE AEROSPAZIALE E DELLA DIFESA
I PIÙ BRAVI D’EUROPA DI
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I •
MICHELE NONES
l sistema industriale francese nel campo dell’aerospazio e difesa rappresenta, per molti versi, un modello per ogni Paese europeo. Il suo fatturato consolidato è calcolato in circa 14 miliardi di euro, di cui circa il 40 percento all’esportazione. Rappresenta più di un quarto dell’intero fatturato dell’industria europea. Sostenuta dalla politica di autonomia all’interno della Nato e di manteni-
mento dello status di potenza a livello internazionale durante la guerra fredda e dalla volontà politica di avere la leadership del processo di integrazione europea nel campo della difesa, l’industria francese è diventata la più forte e più completa in Europa. I punti di forza di questo sistema industriale sono soprattutto quattro: • un forte mercato interno, particolarmente attento alla ricerca tecnologica; • una pianificazione pluriennale delle spese di difesa; • una dinamica politica industriale nel settore; • un continuo e intenso sostegno alle esportazioni. Questa impostazione rappresenta una costante bipartisan del quadro francese, basata sulla diffusa consapevolezza e convinzione che le capacità tecnologiche e industriali nell’aerospazio e difesa sono uno dei componenti insostituibili di un’efficace politica di sicurezza e difesa. Il mantenimento di un adeguato livello tecnologico nei confronti dei competitori americani e della supremazia tecnologica verso i nuovi produttori extra-europei hanno permeato le scelte francesi dal tempo di De Gaulle. Quello che è cambiato nell’ultimo decennio è la crescente consapevolezza che questa impostazione deve inevitabilmente passare da una dimensione
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nazionale ad una dimensione europea per far fronte ad esigenze finanziarie, tecnologiche e industriali che non possono essere diversamente soddisfatte. Ma sempre nella convinzione che deve essere la Francia a guidare questo processo. Non va, per altro, dimenticato che nella storia della concentrazione delle capacità europee in campo aerospaziale proprio alla Francia va riconosciuto il merito di aver trainato i partner europei. Questo è avvenuto nel campo spaziale sia a livello istituzionale con l’Esa, l’Agenzia spaziale europea che ha permesso al nostro continente di diventare uno dei protagonisti della conquista dello spazio, sia a livello industriale con Arianespace, l’impresa che ha assicurato l’accesso europeo allo spazio, senza il quale ogni pretesa europea di avere una sua politica spaziale sarebbe risultata velleitaria. Esemplificativo di questo impegno francese è la realizzazione della base di lancio di Korou nella Guyana francese: una fondamentale iniziativa europea in un lembo di territorio francese, protetto dalle Forze Armate francesi e sotto la responsabilità del Governo francese. In questo contesto va tenuto presente anche l’avvio del programma di navigazione satellitare Galileo che ha trovato nell’Esa e nell’Unione
dossier Europea due convinti sostenitori che hanno saputo superare preoccupazioni e dubbi provenienti da diversi Stati Membri. E nell’assicurare questo sostegno la Francia ha, ancora una volta, giocato un ruolo di primo piano. Un secondo settore è quello aeronautico civile, perché non ci sarebbe Airbus senza la Francia. Ha, innanzi tutto, finanziato da sempre i programmi del Consorzio e poi della società integrata che è stata costituita. Come si legge nelle relazioni del ministero dei Trasporti francese al Senato, i fondi gestiti per l’industria aeronautica (che sono sottoposti al controllo della Commissione di Bruxelles) sono destinati per oltre la metà a beneficio di Airbus. Ha partecipato come socio di riferimento prima ad Aerospatiale e poi, insieme alla Germania, alla stessa Airbus, dopo aver stimolato la riorganizzazione e la concentrazione dell’industria francese. Ha favorito e favorisce il sostegno europeo alle attività di ricerca di Airbus che, proprio come “progetto di interesse europeo” è esonerato dalle limitazioni riguardanti gli aiuti pubblici, in particolare per quanto attiene i limiti di intensità. Tutela, attraverso l’Unione Europea, Airbus nei confronti delle critiche americane sul suo finanziamento (anche perché la fonte non è, a sua volta, propriamente “immacolata”). In tutte e tre queste success stories si può sostenere che senza un’iniziativa europea il mercato sarebbe ancora oggi un monopolio americano e che senza il traino della Francia è ben difficile immaginare un successo europeo.
Il mercato interno. Nel 2008 gli investimen-
ti della Difesa ammontano a 10,7 miliardi di euro, pari al 35 percento dei fondi per la funzione difesa (stimabili in 30,3 miliardi di euro), a cui si aggiungono 3,8 miliardi euro, pari al 12 percento, per la ricerca e sviluppo. Secondo l’Eda, l’agenzia europea di Difesa, nel 2006 l’Europa ha speso per investimenti e ricerca e sviluppo 38,8 miliardi, di cui più di un quarto da
parte francese. La Francia si colloca, quindi, al secondo posto in Europa, preceduta di poco dal Regno Unito. Ma il Regno Unito ha una proiezione internazionale e un legame con gli Stati Uniti che impongono un impegno militare particolarmente forte. La Francia è il primo Paese europeo nel sostegno alla ricerca e sviluppo in campo militare, dedicandovi lo 0,23 del Pil, precedendo di poco il Regno Unito e distanziando di moltissimo la Germania e l’Italia (0,04 percento). In Francia le attività di ricerca sono considerate fondamentali sia per il mantenimento delle capacità militari, sia per la crescita tecnologica complessiva. Nella prefazione ad un recente studio, Defendre la France et l’Europe, pubblicato l’anno scorso, Philippe Esper, presidente del consiglio economico della Difesa francese scrive: «La Francia ha globalmente mantenuto uno sforzo di ricerca per la difesa durante tutta la durata della legge di programmazione militare (2003-2008, ndr). La cooperazione deve essere mantenuta e sviluppata con le strutture incaricate della politica della ricerca (ministeri civili, agenzie specializzate, direzioni strategiche dei grandi enti). Peraltro la ricerca e lo sviluppo per la difesa deve divenire sempre di più duale, cioè interessarsi tanto del settore civile su obiettivi mirati, quanto dei settori della difesa e della sicurezza. I collegamenti con la ricerca civile devono tener conto delle sovrapposizioni crescenti delle tecnologie civili e militari, particolarmente nei settori spaziale, aeronautico e di sicurezza. La parte di dualità significativa nella ricerca deve ugualmente svilupparsi fino alla fase dello sviluppo. Esiste oggi un tasso di trasferimento asimmetrico fra le aree militare e civile: 60 percento della ricerca finanziata dalla Difesa va a vantaggio del settore civile a fronte di un 20 percento nel senso inverso». Significativo è il caso dell’elicotteristica che ha sempre beneficiato fortemente dei finanziamenti della Dga, grazie ai quali sono stati sviluppati diver47
Risk si elicotteri che presentano, accanto alle versioni militari, versioni civili utilizzanti sottosistemi impiegati anche dai modelli militari. Ad esempio l’elicottero Ec225 (civile) della famiglia Puma (nata da un elicottero militare) ha il rotore principale di tipo Spheriflex basato sull’applicazione e sul concetto utilizzato sull’elicottero militare Nh90 sia nella sua aerodinamica che negli aspetti dinamici, cinematici e nel design meccanico. L’Ec225, certificato civile dall’Easa il 27 luglio 2004, è il clone dell’elicottero militare Ec725 “qualificato” dalla Dga il 23 dicembre 2004: un semplice confronto delle descrizioni fornite nei due certificati rivela oltre ogni dubbio che si tratta della stessa macchina. Altri esempi: il Bo105 (sia militare, per l’esercito tedesco, sia civile, che è divenuto il Bo108 e infine sviluppato come Ec135, di cui Francia e Germania hanno ordinato diversi prototipi) e l’As365 Dauphin (sviluppato sia come elicottero civile Dauphin, sia come elicottero militare Panther), poi divenuto Ec155, attualmente in produzione, il quale ha elementi (pale e rotori) di disegno e tecnologia provenienti dagli elicotteri militari di recente sviluppo Tiger e Nh90.
La pianificazione pluriennale. Attraverso le
leggi di programmazione militare, su base quinquennale, l’industria francese ha una buona visibilità temporale sulla strategia delle acquisizioni della Difesa francese. Può, di conseguenza, pianificare i suoi investimenti con una ragionevole certezza sull’evoluzione quantitativa e qualitativa del mercato interno. È questo, sempre più, un importante fattore di successo nel settore della difesa perché le elevate risorse finanziarie ed umane assorbite dai moderni sistemi d’arma richiedono scelte che devono basarsi sulla massima stabilità possibile del quadro di riferimento. La scorsa legge di programmazione, secondo la fonte prima citata, «ha permesso alla Francia di essere riconosciuta come una presenza mediamente efficace e credibile nel contesto della difesa. La nuova legge di programmazione militare (200848
2013, ndr) dovrà prolungare e consolidare gli sforzi compiuti negli ultimi cinque anni».
La politica industriale. La Francia è da sempre
uno dei Paesi più interventisti nel settore della difesa. Lo stretto legame fra Stato e industria è esemplificato dalla presenza e dall’influenza esercitata nel capitale dei principali gruppi, Eads e Thales, ma è basato, soprattutto, sulla grande attenzione con cui sono seguiti il suo andamento e le sue vicende. A questo va aggiunto un’ancora forte presenza diretta dell’industria pubblica, soprattutto in campo terrestre con la Nexter. Anche grazie a quest’azione governativa l’industria francese è leader in Europa. I due grandi gruppi hanno ormai acquisito una forte connotazione multidomestica con Eads presente lungo l’asse orizzontale europeo (Francia-Germania-Spagna dove realizza rispettivamente circa un decimo, un decimo e un ventesimo del suo fatturato) e Thales lungo l’asse verticale (Francia-Regno Unito dove realizza un terzo e un ottavo). A questi due grandi gruppi si aggiungono due altre importanti società: Safran nel campo della propulsione aeronautica e dell’elettronica e Dassault nel campo dei velivoli da combattimento ed executive. Quest’ultima ha, però, una presenza squilibrata sul piano commerciale perché, mentre è fortemente internazionalizzata nella parte civile dei business jet, resta fortemente dipendente dal mercato nazionale nella parte militare. Il Rafale stenta, infatti, a trovare spazio sul mercato internazionale fra l’Eurofighter nella fascia alta e il Gripen in quella più bassa, oltre che per la presenza di diversi competitori americani e mentre all’orizzonte si profila l’arrivo del Jsf. Migliori prospettive presenta, invece, il campo dei velivoli da combattimento non pilotati. Qui Dassault guida il programma europeo di ricerca tecnologica Neuron sulle cui applicazioni sembra puntare l’industria aeronautica francese per il futuro. Sul piano delle alleanze, invece, vi sono quelle strutturali in campo spaziale fra Thales e Finmeccanica (Thales Alenia Spazio nei satelliti a maggioranza
dossier francese e Telespazio nei servizi spaziali a maggioranza italiana) e in campo missilistico (Mbda, col 37,5 percento di Eads, 37,5 percento di Bae Systems e 25 percento di Finmeccanica) e quelle legate ai più importanti programmi navali (Fregate Orizzonte e Fremm; siluri con la joint- venture Eurotorp, che dovrebbe evolvere in una alleanza strutturale; satelliti per tlc e osservazione). Non va, infine, dimenticata Atr, la joint-venture Eads-Alenia Aeronautica che, oltre ai successi conseguiti coi suoi turboelica sul mercato internazionale, ha consentito all’industria italiana di maturare un’importante esperienza nel campo dei velivoli civili che potrà essere messa a frutto nelle nuove iniziative. Non va, a questo proposito, dimenticato che da parte italiana si è manifestato nel recente passato l’interesse ad assumere la leadership di questa società, ma che fino ad ora non si è trovato la disponibilità del partner, nonostante che sul piano strategico l’esperienza Atr dovrà necessariamente evolvere. Tutto questo è, in gran parte, il risultato di una costante azione di guida e promozione da parte dello Stato. In un documento del ministero della Difesa del luglio 2004, For a competitive autonomy in Europe: the defence procurement policy, sono indicati chiaramente i due obiettivi da perseguire all’interno del processo di integrazione e riorganizzazione del mercato europeo in corso: reintrodurre il concetto di politica industriale volta ad assicurare la conservazione delle competenze tecnologiche chiave e supportare lo sviluppo di una base tecnologica e industriale sia a livello nazionale sia a livello europeo. Questa politica è basata sul principio della “autonomia competitiva” della base tecnologica e industriale, dove il termine “autonomia” è riferibile alla sicurezza degli approvvigionamenti, all’utilizzo non vincolato dei prodotti acquisiti e alla possibilità di riesportarli, integrati in sistemi nazionali, ad altri Paesi. Vi è, infatti, nella posizione
francese una costante preoccupazione per i condizionamenti politici, militari e industriali che derivano dall’utilizzo di componenti non europei, in particolare americani, come si è registrato anche l’anno scorso nella tentata vendita di velivoli da trasporto C295 della casa al Venezuela.
La politica esportativa.
La Francia, con 5,5 miliardi di euro nel 2007 (4,5 in media dal 2001), è il maggiore esportatore europeo in campo militare. Il peso sull’export totale è di quasi 1,5 percento. I principali contratti vengono dal settore elicotteristico, missilistico ed elettronico. Se si analizza la media delle esportazioni nel decennio 1997-2006 si rileva questa distribuzione dei clienti per fascia di vendita: nella fascia da 0,5 a 1 miliardo di euro, Emirati Arabi Uniti; nella fascia da 0,2 a 0,5 miliardi, Germania, Arabia Saudita, Grecia, India, Regno Unito; nella fascia da 0,1 a 0,2 miliardi, Australia, Corea del Sud, Stati Uniti, Italia, Malaysia, Pakistan, Singapore, Taiwan, Turchia. Vi sono poi numerosi altri Paesi nella fascia fra 50 e 100 milioni di euro: Africa del Sud, Brasile, Cina, Egitto, Marocco, Oman e altri stati europei (Spagna, Norvegia, Olanda, Svezia, Svizzera). È interessante osservare la diversificazione delle esportazioni francesi, anche se il grosso dell’attività è concentrato nel Medio Oriente: a valori 2006 il totale degli ordini nell’area nel decennio 1997-2006
La Francia è uno dei Paesi più interventisti nel settore Difesa. Lo stretto legame tra Stato e industria, testimoniato dalla presenza nel capitale dei principali gruppi, Eads e Thales, si basa soprattutto sulla grande attenzione al suo andamento e alle sue vicende 49
Risk è ammontato a 13,3 miliardi di euro, pari al 25 percento. Il secondo mercato è quello asiatico (esclusa l’Oceania) con 12,2 miliardi, pari al 23 percento. Anche nel caso di Paesi che hanno contenziosi in corso, la Francia riesce a bilanciare la sua presenza: all’India sono andati in questo decennio 3,4 miliardi di euro e al Pakistan 1,1; alla Cina 0,7 e a Taiwan (indicato fra i destinatari “diversi” per non turbare la suscettibilità cinese in materia), circa 1,6.
Il totale degli ordini
per 53,5 miliardi di euro (a valori 2006) del decennio 1997-2006 è così distribuito fra i settori: aerospazio 52,2 percento, navale 25,4 percento, terrestre 23,5 percento. Anche da questo punto di vista si può rilevare un bilanciamento che corrisponde all’impegno francese nel mantenere una capacità industriale e tecnologica che garantisca una forte autonomia nazionale. A questo fine, la Francia è fortemente impegnata nella promozione e nel supporto delle esportazioni militari. Come osserva il Rapport au Parlament sur le exportations d’armament de la France en 2006 del ministero della Difesa, «il peso dei grandi contratti di armamento è una caratteristica essenziale del mercato internazionale… i mercati da più di 150 milioni di euro rappresentano in media, in valori, per la Francia, la metà del mercato, e quasi il 75 percento in certi anni. A causa delle implicazioni politiche e finanziarie, la preparazione e la conclusione di questi contratti richiedono di stabilire una stretta e durevole relazione con questi partner, tanto sul piano diplomatico che strategico. Per questi contratti, alla competizione commerciale fra gli esportatori si somma una concorrenza politica fra gli Stati». Ed è proprio al livello politico che si cerca di trasformare, grazie all’importanza che riveste l’armamento, le relazioni bilaterali in rapporti di partena-riato. Questa azione di alto livello può 50
dossier risultare determinante nell’affermazione dell’industria sul mercato interessato. Sul piano tecnico-militare la Délégation Générale pour l’Armament (Dga) conduce, attraverso la Direction du développement international (Ddi), un’azione di accompagnamento a diversi livelli: la specificazione dei bisogni; la presentazione dei materiali (assicurata dalle direzioni dei programmi) e le dimostrazioni (con il concorso dei centri di collaudo); le proposte di cooperazione; la predisposizione di un controllo sullo svolgimento dei programmi per conto dello Stato cliente; l’assicurazione del controllo di qualità e l’organizzazione dei collaudi di qualifica quando lo Stato cliente lo desideri; l’esame del mantenimento in condizioni operative (la Dga fornisce delle informazioni sul costo di acquisizione, i piani di manutenzione, la logistica). Anche gli Stati Maggiori giocano un ruolo importante, intervenendo su diversi piani: • operativo, che comprende la condotta di esercitazioni comuni che permettono di sviluppare le relazioni tra le Forze Armate e di valorizzare i materiali francesi, lo scambio di unità e di personale e la messa a disposizione di capacità di addestramento sul territorio francese; • di formazione dei quadri stranieri, sia a livello generale (ad esempio: Collége Interarmées de Défense), sia tecnico e specialistico, in particolare nell’ambito dell’accompagnamento dei contratti (attraverso gli uffici coinvolti); • di dialogo con gli Stati Maggiori dei Paesi utilizzatori, partecipando indirettamente alla formulazione dei bisogni e alla riflessione sul concetto di impiego, proponendo cooperazioni e partenariati per sviluppi comuni, rendendo note le condizioni di utilizzo e di mantenimento dei materiali; • altri aspetti riguardano, infine, la partecipazione ai saloni, il prestito o la cessione di materiali, la condotta di azioni di promozione in Francia o localmente a seconda della domanda degli industriali. Lo sforzo è notevole anche in termini di supporto
finanziario. Secondo lo studio pubblicato lo scorso anno da Enaat, (European export credit agencies and the financing of arms trade, una Ong) l’agenzia francese per il credito all’export Coface è impegnata per circa un terzo nel settore militare. Recentemente tutta questa attività è stata potenziata attraverso la definizione del Pnsed, il piano strategico per il supporto delle esportazioni nel campo della difesa, approvato ai massimi livelli, allo scopo di dotare tutte le amministrazioni interessate di una visione comune e interministeriale dei settori dell’industria francese candidati a ricevere sostegno pubblico e conseguentemente coordinarne il lavoro. Al fine di attuare questa strategia e di mantenere aggiornato il piano, il 1 ottobre 2007 è stata istituita una commissione interministeriale per il coordinamento delle strategie delle esportazioni nel campo della difesa e sicurezza.
In questo quadro va tenuto presente che la
Francia agisce ancora oggi in gran parte per far fronte alle proprie esigenze in un’ottica nazionale. Ma l’Europa ha bisogno della Francia per sviluppare una sua più forte e competitiva base tecnologica e industriale. Se l’impulso e la forza trainante della Francia non è controbilanciata dallo sviluppo di un quadro istituzionale europeo in cui può essere incanalata a vantaggio di tutti, rischia di portare la nave europea fuori rotta o di provocare resistenze che rallentano il percorso. La Francia deve, quindi, essere vincolata dagli altri attori europei nel campo dell’aerospazio, sicurezza e difesa a muoversi all’interno di una strategia di rafforzamento europeo e non più prevalentemente, se non esclusivamente, nazionale. Tutto ciò può essere favorito dallo sviluppo di programmi europei in cui la dimensione nazionale sia sempre più sostituita da quella continentale e dallo sforzo per definire requisiti comuni europei che rappresentano la chiave di volta per la costruzione dell’Europa della difesa. 51
Risk
DALLA DIPLOMAZIA DEL NUCLEARE ALL’ELETTRICITÀ
CON TUTTA L’ENERGIA POSSIBILE DI
•
U •
CARLO JEAN
n’adeguata disponibilità di energia è il fondamento della prosperità, dell’indipendenza e, quindi, della sovranità degli Stati. L’energia costituisce una posta in gioco essenziale per la politica. Determina il benessere e, perciò, la solidarietà sociale e nazionale. Esiste una dipendenza molto stretta fra sviluppo ed energia.
• Poiché la politica ha un obbligo morale allo sviluppo, lo ha anche nei riguardi dell’energia. Essa è dunque parte essenziale del contratto politico fra Stato e cittadini. Purtroppo in Italia - con la furbesca modifica del 2001 al titolo V della Costituzione - le responsabilità in tema di energia sono state suddivise fra Stato, Regioni ed Enti locali. Ha agito anche l’attenuazione - che il professor Tremonti ha recentemente sottolineato (La paura e la speranza) del principio di autorità e dell’obbligo morale verso le generazioni future. La politica del “non fare” e del Nimby (Not in my backyard) si è potuta così sbizzarrire nel settore energetico e, più in generale, in tutte le grandi opere. Perciò, la situazione del nostro Paese è critica, non solo per quanto attiene la sicurezza energetica e la dipendenza dall’estero per le fonti di energia primaria, ma anche per l’elettricità. Abbiamo rinunciato al nucleare, ma importiamo dalle centrali nucleari straniere esistenti vicino ai nostri confini! Nonostante gli sforzi - eroici o almeno patriottici - di Eni, Enel ed Edison, tanto per citare solo le società maggiori, la situazione è tanto critica che consumiamo parte della ricchezza nazionale - il “tesoretto”, quello vero, costituito con l’impegno degli italiani negli anni del “miracolo economico” – sia per portare i rifiuti di Napoli in Germania (San Gennaro è stato di scarso soccorso al riguardo!), sia per comprare energia elettrica dalla Francia. Nel 2007, l’Edf ha intascato ben
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3 miliardi di euro dalle vendite all’Italia dalle sue centrali nucleari. Per poter sopravvivere, l’Italia dovrà effettuare massicci investimenti all’estero per la costruzione di centrali nucleari. Il nostro “ecologismo da strapazzo” non le lascia costruire in Italia, tirando in ballo la “bufala” del referendum del 1987. Esso, in realtà, non proibì il nucleare in Italia, ma lo sospese per soli cinque anni. Non vi sono altre soluzioni. La recente proposta di costruire centrali nucleari in Albania limita i danni, ma non li annulla. Se non altro, creeremo posti di lavoro ad alta qualificazione all’estero, ma non per i giovani italiani. L’Italia non dispone dell’energia. Se essa costa di più, l’economia ce la potrebbe fare aumentando la produttività. Se manca, invece, “si chiude”. La costruzione in Albania - oggi Paese Nato - ci farebbe risparmiare sul costo di Kyoto, che abbiamo allegramente sfondato, nonostante le furbesche iniziative di un recente ministro dell’Ambiente che ha sulla coscienza la vergogna dei rifiuti di Napoli e della diossina nelle mozzarelle - vero e proprio Pulcinella che, in ogni sua uscita, ha ridotto il già basso prestigio dell’Italia in campo internazionale. Vogliamo poi sempre fare i primi della classe. Abbiamo accettato Kyoto senza clausole di salvaguardia e oggi anche la direttiva “20+20+20” dell’Unione Europea, potrebbe segnare il suicidio economico dell’Italia (assieme a quello dell’Europa).
dossier Beninteso, è doveroso il collegamento fra consumo di energia e tutela dell’ambiente. Non tutti gli esperti sono d’accordo sull’effetto serra. Una certa cautela non guasterebbe. Molti esperti attribuiscono i cambiamenti climatici a fenomeni naturali; come i mutamenti delle macchie solari (il che spiegherebbe l’alternarsi di cicli di glaciazione e di riscaldamenti nel corso della storia). Solo marginalmente (0,5 percento!) deriverebbero da attività antropiche. Non è da escludere che fra qualche anno l’effetto serra faccia la fine del “buco dell’ozono” di cui nessuno parla più. La recente direttiva europea metterà in ginocchio l’Europa, in particolare il nostro Paese, riducendone produttività e, quindi, competitività internazionale e crescita. È quello che gli americani chiamano “spararsi sui piedi”. Comunque sia, abbiamo firmato e gli impegni vanno rispettati. Pagheremo molto, anche perché il prezzo di una tonnellata di CO2, previsto dalla Commissione Ue a 15 euro è già salito a 23 sul mercato libero. Si pensa che salirà a 50 euro nel 2012. Insomma, 3 miliardi di euro alla Francia e 5-6 per Kyoto sono una bella somma. Travolti dalla retorica ecologista gli italiani non se ne sono ancora resi conto. Quando se ne accorgeranno, sarà troppo tardi. Una politica dell’energia deve avere un orizzonte di almeno 50 anni, come quella francese che si spinge addirittura a fine secolo. I consumi globali di energia sono destinati ad aumentare. Molto potrà fare il risparmio energetico, ma in tempi più lunghi delle dozzine di anni previsti dalla direttiva europea. Si tratta di condizionare le abitazioni, di progettare nuovi motori, di aumentare l’efficienza energetica del riscaldamento domestico e, soprattutto, quella dell’industria, di vedere come le energie rinnovabili (almeno l’eolico) potranno contribuire a risolvere il problema, anche se ho la sensazione che si tratti di un’altra “bufala”, che ci è costata negli ultimi vent’anni oltre 45 miliardi di euro, con il bel risultato di concorrere allo 0,5 percento di consumi elettrici nazionali. Occorre anche tener conto che l’intensità energetica italiana è pari a solo al 64 percento della media Eu-15 e che la riduzione della manodopera - con l’andata in
pensione dei baby-boom del secondo dopoguerra obbligherà l’industria a ricorrere massicciamente alla robotizzazione e, quindi, ad aumentare il consumo di elettricità per la produzione industriale, anche per contenere l’immigrazione, adottando le strategie già in atto in Giappone.
Come ci procureremo l’energia necessaria? Non
sicuramente con gli “specchi per le allodole” del fotovoltaico, né con i “mulini a vento” dell’eolico. Non ce la procureremo neppure con la liberalizzazione o la separazione dei produttori dalle reti di distribuzione. L’Europa non ci risolverà il problema. Non ce lo risolverà neppure per il nucleare, malgrado le recenti affermazioni di un ex-direttore generale dell’Energia, che ha avuto anche la spudoratezza di affermare che sarà l’Europa a procurarci il deposito geologico per le nostre scorie nucleari ad alta attività e durata di vita. Si vede che non conosce cosa ha fatto il “Progetto Arius”, che in vent’anni non ha prodotto nulla, se non promuovere un po’ di “turismo” burocratico! Sono problemi vitali per il futuro economico e per la sicurezza del nostro Paese che andrebbero trattati con la serietà che meritano. Uno sforzo per affrontarli - o, almeno, per precisare i termini del problema - è stato recentemente fatto nel Rapporto 2020 Le scelte di politica estera, da un gruppo di lavoro del ministero degli Affari Esteri diretto dalla dottoressa Dassù e dal ministro Massari. È necessario tradurre le intuizioni e direzioni in esso indicate in politiche concrete. Ad esempio, è necessario far uscire il dibattito sul ritorno al nucleare dall’empireo onirico in cui si è sinora svolto. Si potrebbe iniziare con un provvedimento che sarebbe comunque necessario non solo per l’attivazione di qualsiasi programma nucleare, ma anche per lo smantellamento delle centrali dismesse. Quello di ammettere per la legge che le autorizzazioni e i controlli in Italia possano essere effettuati dalle Autorità degli altri Paesi dell’Ue, esautorando l’attuale Apat, monumento del “non fare” e del moral hazard burocratico, quasi impossibile da riformare. La sua riabilitazione richiederebbe almeno una quin53
Risk dicina di anni. Non possiamo aspettare per tanto tempo. La politica energetica francese costituisce un modello non solo applicabile al nostro Paese per superare molte delle difficoltà esistenti nel settore, ma anche un modo per cercare di migliorare la macchina pubblica, ponendola al servizio dei cittadini anziché di interessi ideologici o di parte - questa volta spesso molto meno ideologici - oppure del “comodo non fare burocratico” per non assumersi responsabilità. Il consumo di energia primaria aumenta costantemente, per effetto sia della globalizzazione - che sta introducendo centinaia di milioni di persone nel mercato mondiale - sia dell’urbanizzazione e dell’aumento del benessere (condizionatori, seconde case, ecc.) dei popoli industrializzati e di quelli emergenti. L’energia - come si è detto - è fattore fondamentale dello sviluppo. È importante quanto l’accesso alle risorse alimentari. Dall’epoca del carbone siamo passati a quella del petrolio e del gas e, verosimilmente, verso la fine del Ventunesimo secolo, passeremo a quella dell’energia di fusione e dell’idrogeno che potrà essere impiegato economicamente sia per l’elettricità che per l’autotrazione. Per i prossimi decenni dobbiamo però sopravvivere. Quindi, non possiamo limitarci alla ricerca, da effettuarsi beninteso in cooperazione europea o con Paesi extracomunitari, come la Russia e gli Usa. Le ricerche sul nucleare di “quarta generazione” o sulla fusione costano decine di miliardi di euro. L’Italia non li ha. Quelle sulle energie alternative sono più fattibili, ma possono dare benefici solo marginali. Occorre prendere quello che c’è. Non siamo più furbi degli altri. Quindi, dobbiamo copiarli. La Francia costituisce un esempio, anche per la sua convinzione che l’energia è indispensabile per l’indipendenza nazionale e che un Paese senza energia è senza futuro. Soluzioni troppo immaginifiche potrebbero portare a disastri simili a quelli che i “biocarburanti”, in particolare l’etanolo, monumento del connubio inverecondo fra le lobbies dei “verdi” e delle grandi multinazionali agricole. Esse stanno provocando molte difficoltà soprattutto nei Paesi più poveri e che rischiano di provocarne l’esplosione geopolitica. L’Occidente possiede l’arma ali54
mentare, ma non l’arma energetica, di cui i Paesi produttori stanno facendo uso geopolitico spregiudicato, ben aiutati in questo dalla speculazione degli hedge funds e dei fondi pensioni (il loro “giro d’affari” nel settore energetico ammonta a 5-10 volte l’entità del commercio mondiale di petrolio e gas). Per inciso, l’arma alimentare - di cui sono in possesso i Paesi avanzati - non può compensare quella energetica. La prima colpisce i Paesi poveri; la seconda quelli industrializzati. Gli Stati produttori di petrolio avranno, infatti, sempre la possibilità di comprare i viveri che loro servono. Una foto degli affamati del terzo mondo dovrebbe essere inserita nelle targhe degli uffici degli oppositori degli Ogm. Il ricorso sistematico ad essi rappresenta infatti l’unica via possibile per superare la fame nel mondo, nonostante che il 6-7 percento dei cereali venga impiegato per i biocarburanti e nonostante i maggiori consumi derivanti dall’accesso al benessere dei Paesi emergenti (per produrre una caloria da carne, ne occorrono dieci da cereali).
Il consumo attuale di energia primaria rad-
doppierà nel 2030. Nel 1990 era di 9,2 miliardi di Tep (Tonnellate equivalenti di petrolio). In futuro oscillerà a seconda del tasso di sviluppo dell’economia mondiale. In media, dovrebbe essere di 16 miliardi di Tep nel 2020 e, nel 2050, potrebbe raggiungere i 25-30 miliardi di Tep. In particolare, aumenterà la domanda di gas naturale. Si prevede che l’Europa raddoppierà i suoi consumi, che già sono oggi di 250 miliardi di m3. Il petrolio continuerà ad essere indispensabile per i trasporti (circa il 60 percento dei consumi europei) e per gli usi industriali e domestici (circa il 30 percento). Sarà giocoforza necessario - per diminuire gli scostamenti dagli impegni di Kyoto - ridurre drasticamente il consumo di idrocarburi per la produzione di elettricità. Esso oggi domina in Italia, esponendoci al rischio di qualche shock non tanto petrolifero, quanto del gas naturale e facendo sì che la nostra elettricità sia la più costosa del mondo. A somiglianza di quanto è stato programmato in Russia - dove oggi il 46 percento dell’energia elettrica
dossier è prodotta dal gas - il 60 percento deriva da tale energia primaria in Italia (il 20 percento dal petrolio). Essa dovrebbe essere invece prodotta con il carbone (anche nella prospettiva della messa a punto definitiva delle tecnologie del carbone pulito o della “cattura” della CO2) e, soprattutto, da centrali nucleari. Un esempio, in proposito, è l’enorme, prodigioso sviluppo della produzione di energia nucleare in Francia. Esso fu deciso al primo shock petrolifero (1973), quando la Francia era la maggiore importatrice di petrolio in Europa, poiché lo utilizzava massicciamente (80 percento) per la produzione di energia elettrica, di cui era netta importatrice, anche dall’Italia. Oggi, la Francia produce l’80 percento della sua elettricità con il nucleare e ha praticamente eliminato l’elettricità da petrolio e gas (circa l’1 percento). Le sue 58 centrali (più una fast-breeder) producono una quantità di elettricità pari a oltre una volta e mezza gli interi consumi italiani (465 rispetto a 300 TKWh circa). Cioè, le consente di esportare energia elettrica per oltre 3 miliardi di euro all’anno. Non solo. Con tale politica volontaristica, degna della grande tradizione régalienne del colbertismo francese, l’elettricità francese è per oltre il 90 percento di origine nazionale. La sicurezza energetica è migliorata. È divenuta pari al 50 percento. Il bilancio energetico si è diversificato non solo come fonti di approvvigionamento, ma anche come tipo di energia primaria. Le importazioni petrolifere si sono ridotte. Sono state contenute le emissioni di gas ad effetto serra. Come la force de frappe permette alla Francia una libertà d’azione strategica, così la maggiore sicurezza energetica la permette in campo sia diplomatico che economico ed anche tecnologico. L’energia, anziché essere una vulnerabilità è divenuta un business, che ha attirato i migliori ingegneri nucleari anche dall’Italia. Il ricorso al nucleare è reso indispensabile non tanto dalla fine “dell’era degli idrocarburi” - pronosticato dai vari sostenitori del “picco di Hubbert”, cioè da cause geologiche - ma dei rischi geopolitici degli approvvigionamenti. Il petrolio rimarrà indispensabile per l’industria chimica e l’autotrazione. La sicurezza energe-
tica - parte essenziale della sicurezza nazionale - deve essere centrata sull’elettricità. Per ridurre i rischi geopolitici degli approvvigionamenti petroliferi, fidiamo sul fatto che “mamma America” mantenga libero il mercato mondiale degli idrocarburi, accessibili le regioni produttrici e protette dal terrorismo transnazionale. Lo può fare per il petrolio e per il gas liquido. Non lo può fare, invece, per il gas naturale, trasportato da gasdotti, rigidi e vulnerabili a decisioni politiche dei Paesi da cui transitano. A parte ogni altra considerazione - con gli attuali prezzi del petrolio e del gas, influenzato non solo dal fatto che il mercato è trainato dall’offerta, non dalla domanda che continua a crescere - è una follia “bruciare” per produrre elettricità delle commodities così preziose, come il petrolio, per produrre elettricità.
Le politiche adottate nel
periodo dei bassi prezzi degli idrocarburi vanno modificate quanto prima, anche per non rischiare una “colonizzazione” alla rovescia dell’Occidente da parte dei Paesi produttori e di quelli emergenti, a cui i bassi costi e l’alta disponibilità della forza-lavoro conferiscono la possibilità di massiccio accumulo di “fondi sovrani” con cui non solo la Cina, ma anche i Paesi produttori di petrolio stanno comprando i “gioielli industriali” dell’Occidente. L’attuale apertura del mercato (anche se qualsiasi aumento di domanda si trasferisce automaticamente sui prezzi, data la rigidità dell’offerta) non deve mascherare l’enorme vulnerabilità dei Paesi consumatori. La politica energetica va collocata al cuore della politica degli Stati, come lo è in Francia. Non può essere lasciata alle sole forze del mercato. Può essere coordinata in ambito mondiale o dell’Ue, ma rimane primaria responsabilità nazionale. Costituisce parte non delegabile della sovranità, come la politica di sicurezza e quella militare. È influenzata da fattori sia endogeni che esogeni. Deve tener conto della grandi tendenze che si sono affermate in Europa e nel mondo: la liberalizzazione dei mercati elettrici e del gas; la crescita dell’importanza del gas nella bilancia energetica
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Risk globale; il revival dell’energia nucleare; gli sforzi per utilizzare le energie rinnovabili e far aumentare l’efficienza e il risparmio energetici, e così via. Beninteso, la Francia intende mantenere le sue posizioni. Per questo sta effettuando grandi sforzi nel settore dello sviluppo tecnologico - non solo in campo nucleare e dell’esplorazione ed estrazione di idrocarburi - anche in quelli della distribuzione, del risparmio energetico e della riduzione delle emissioni nocive. I massicci investimenti effettuati in tali settori sono finalizzati non solo al soddisfacimento delle esigenze nazionali, ma anche alla conquista di mercati all’estero. La Francia si avvale in essa di un prestigio tecnologico che, nel settore nucleare, è ancora superiore a quello che possiede nel campo degli armamenti. Lo si vede dai successi della “politica nucleare” del dinamico presidente Sarkozy. La politica energetica francese è veramente globale. Questo richiede, beninteso, una rilevante continuità politica, che garantisca che un governo non distrugga quanto ha fatto il precedente. Tale stabilità delle strategie adottate è permessa dalla tradizionale saldezza e autorità nell’alta burocrazia francese, nonché dal senso dello Stato e dallo spirito civico dei cittadini francesi. Soprattutto - ma solo per il nucleare - occorre il consenso e la consapevolezza della popolazione, che deriva dal senso di identità e dai valori propri della cittadinanza e del patriottismo (se vogliamo, anche dallo sciovinismo). La politica energetica francese è olistica. Comporta misure anche nel settore del risparmio energetico delle abitazioni (coibentazione) e dell’efficienza energetica delle caldaie e dei motori dei mezzi di trasporti. Tale ultimo settore è particolarmente curato data l’alta percentuale (circa il 50 percento) che occupa nel consumo finale di petrolio. Notevoli sforzi sono stati effettuati anche negli altri settori di utilizzazione degli idrocarburi (soprattutto industriali, non energetici), che rappresentano quasi il 30 percento del loro consumo finale (il consumo “residenziale” si colloca a poco meno del 20 percento). Tendenza generale è quella di ridurre il consumo di 56
fossili per salvaguardare l’avvenire delle generazioni future, per non far pesare sui giovani francesi le confortevoli condizioni in cui si trova l’attuale generazione che dispone di energia ancora abbondante ed ancora a basso costo, nonostante i recenti aumenti, le cui cause sono tutte da approfondire, (come Leonardo Maugeri spiega esaurientemente nel suo recente saggio Con tutta l’energia possibile). Tra le soluzioni praticabili è stata approfondita in Francia anche la possibilità di una tassazione differenziata, a favore delle energie meno inquinanti, delle rinnovabili, del risparmio energetico e della produzione decentrata di energia. L’attività del parlamento è stata sostenuta da studi approfonditi, che hanno teso a collegare in un contesto unitario valutazioni tecnologiche ed economiche con i costi sociali e ambientali dell’energia. Il tutto è stato accompagnato e sostenuto da un’accurata opera d’informazione e di sensibilizzazione dell’opinione pubblica, che ha consentito alla classe politica di scegliere con una certa flessibilità le soluzioni tecnologicamente ed economicamente più convenienti.
L’energia elettronucleare. Il nucleare militare
precedette in Francia quello civile. Nell’ottobre 1945, de Gaulle istituì il Cea (Commissariat à l’Énergie Atomique). Il primo esperimento nucleare francese avvenne nel 1960, dopo il fallimento (ad opera sia degli Usa che del generale de Grulle) del tentativo fatto nel 1957 di costruzione della “bomba europea” (accordi Taviani, Chaban–Dalmas, Strauss). Come ricordato, la Francia decise di costruire centrali elettronucleari solo a seguito del primo shock petrolifero del 1973; quindi, circa quindici anni dopo l’Italia. L’obiettivo fu quello di realizzare almeno il 50 percento di indipendenza energetica e di minimizzare le emissioni di Co2. Particolare attenzione fu posta anche nella gestione delle scorie, soprattutto del combustibile esausto. A differenza della Germania, la Francia ha deciso di seguire il criterio della reversibilità, anche nel deposito geologico in fase di costruzione a Bure, in modo da
dossier potere riutilizzare le scorie nei reattori di quarta generazione, che dovrebbero entrare in funzione verso la metà di questo secolo. In particolare - dopo l’abbandono per motivi politici del Super Phenix nel 1998 - resta in funzione il reattore Phenix gestito dal Cea, essenziale per la messa a punto delle tecnologie di trasmutazione degli attinidi, segnatamente per “bruciare” il plutonio e preparare la messa a punto dei reattori self e fastbreeder di quarta generazione. Questo provvedimento la dice lunga circa la cura e la lungimiranza della Francia per soddisfare la domanda di energia anche a lunghissimo termine. I reattori di quarta generazione forniranno energia elettrica in attesa che entrino in funzione le centrali a fusione. La Francia ha in funzione 58 reattori nucleari (oltre il Phenix sperimentale del Cea, che è un fast-breeder). La sua potenza totale è di oltre 60 GWe la produzione di 460 GKWh all’anno. Essa soddisfa circa l’80 percento dell’attuale fabbisogno di energia elettrica francese, oltre a consentire le interessanti esportazioni a cui si è già accennato. La costruzione dei reattori nucleari avvenne a fine anni Settanta ad una velocità che ha del prodigioso. Dopo la costruzione di 8 reattori raffreddati a gas (ora demoliti), l’Edf scelse i reattori ad acqua pressurizzata (Pwr) e decise di costruirne di tre tipi, con molte componenti comuni. In nessun Paese al mondo, esiste una standardizzazione nei reattori paragonabile a quella francese, con evidenti vantaggi nei costi e nei tempi di costruzione, di demolizione, di esercizio e di manutenzione. La costruzione avvenne in circa dieci anni. Furono costruiti 34 reattori da 900 MWe, 20 da 1300 MWe e, poi, 4 da 1500 MWe, gli unici entrati in funzione successivamente, alla fine del secolo scorso. La vita operativa dei reattori era stata stabilita a trent’anni, ma poi prolungati a quaranta. L’enorme impulso dato all’industria nucleare consentì alla Francia di esportare un numero consistente di reattori nucleari e di affermarlo come uno dei settori di eccellenza della Francia. All’inizio del Ventunesimo secolo, il Paese ha messo a punto un nuovo tipo di reattore, sempre ad acqua pres-
surizzata, denominato Epr (European Pressurised Reactor), dalla potenza installata di 1650 MWe. Ne sono in costruzione due prototipi: uno in Finlandia, l’altro in Francia (a Flamanville), con il 12,5 percento di partecipazione dell’Enel, che sarà proprietario per un’eguale percentuale anche dei primi 5 Epr di serie. L’Epr, messo a punto dal 2012 al 2015, sarà costruito in serie a partire dal 2020. La Francia prevede di costruire 40 Epr per realizzare una potenza installata simile a quella degli attuali reattori, che saranno via via demoliti. Ne costruirà uno - due l’anno. Come detto, essi saranno sostituiti con i reattori di quarta generazione (self-breeder ed a sicurezza intrinseca), messi a punto verso la metà del secolo. L’Epr assume interesse anche per l’Italia, non solo perché l’Enel partecipa al programma, ma anche per la presenza di Edf in Edison. L’Epr occupa una superficie inferiore a quello dei reattori della prima e seconda generazione. Su un sito di 150 ettari possono esserne, quindi, costruiti tre, se non quattro. Inoltre, l’Epr incorpora molte delle tecnologie di sicurezza intrinseca, proprie della quarta generazione e riduce grandemente la quantità di scorie, poiché funziona a Mox e brucerà, quindi, anche il plutonio. Il suo costo si aggira sui 3,3 miliardi di euro; la sua produzione annuale di energia sarà di 11-12 GKWh; il risparmio di CO2 rispetto alle centrali a ciclo combinato si aggirerà sui 4-5 milioni di tonnellate all’anno per centrale (con gli attuali prezzi di mercato di 23 euro per tonnellata ogni centrale farà risparmiare 80-90 milioni di euro/anno). I tempi di costruzione saranno dell’ordine dei 54 mesi per il prototipo di Flamanville, ma diminuiranno certamente una volta che si inizierà la costruzione in serie degli Epr. L’esperienza francese insegna che i costi dello smantellamento dell’impianto e della gestione delle scorie non superano il 5 percento del costo dell’elettricità prodotta per i 30 - 40 anni di funzionamento (sono inferiori alla metà di quanto incassa l’Edf esportando elettricità). Il costo per KWh dell’Epr si aggira sui 4,6 centesimi di euro, nettamente superiore ai 3,3 delle attuali 58 centrali, che sono già state ammortate. È un 57
Risk costo analogo a quello del ciclo combinato, con prezzi del gas dall’aprile 2007 (in un anno è più che raddoppiato!). Inoltre, le centrali a gas subiscono i vincoli della sicurezza energetica, nonché i costi connessi con la produzione di CO2. Beninteso, una valutazione più completa degli aspetti economici potrà essere effettuata solo dopo la messa a punto definitiva dell’Epr. Sia in Francia che in Finlandia le valutazioni però convergono sull’affermazione della convenienza economica dell’Epr, nonostante che ben il 40 percento del suo costo di costruzione sia assorbito dalle misure di sicurezza. È quello della Francia un esempio di politica dell’elettronucleare, di rigore e lungimiranza, paragonabile nel mondo solo a quella del Giappone. Per quanto riguarda i reattori a fusione, hanno avviato il progetto internazionale Iter, volto alla messa a punto delle tecnologie necessarie. Con essi sarà possibile passare dalla “civiltà del petrolio o, comunque, degli idrocarburi” all’“età dell’idrogeno”. L’abbattimento dei costi dell’energia da fusione consentiranno di utilizzarlo anche accettando rendimenti molto bassi (ad esempio, con le fuel cells per l’autotrazione e anche per la propulsione aerea, nonché per la produzione illimitata di elettricità). Tale utilizzo su larga scala è oggi proibitivo, dato che la produzione d’idrogeno (che non è un combustibile, ma un vettore di energia) richiede una grande quantità di energia, che libera poi con bassissimo rendimento. Oltre che le centrali nucleari e numerosi laboratori di ricerca (solo il Cea dispone di 14 reattori), la Francia può avvalersi di una ricca gamma di impianti del ciclo del combustibile, per l’arricchimento dell’uranio, per il riprocessamento, ecc. e di numerosi diritti minerari, dal Canada al Niger e al Kazakstan. Essi consentono di fornire alle centrali francesi le 12.400 tonnellate di ossido di uranio di cui necessitano ogni anno e di arricchire 14mila tonnellate all’anno di uranio naturale. Nuovi impianti consentiranno di elevare tale capacità a 21mila tonnellate, in grado di fornire le barre a reattori con potenza installata di 81mila MWe, cioè un terzo in più di quanto si prevede necessario per la Francia. Ciò le permetterà di fornire combustibile nucleare ai nume58
rosi reattori che ritiene di poter esportare. Le capacità di riprocessamento francesi ammontano a 1700 tonnellate/anno di combustibile spento. L’Edf invia al riprocessamento 850 tonnellate di combustibile sulle 1200, che sono scaricate dai suoi reattori ogni anno. Il resto è stoccato, in modo da poterne utilizzare il plutonio per l’avvio dei reattori di quarta generazione. Il plutonio ottenuto dalle 850 tonnellate riprocessate (8,5 tonnellate per anno) viene oggi trasformato in ossido misto di uranio e plutonio (Mox) e utilizzato direttamente in 22 dei 58 reattori dell’Edf, che “bruciano” tale combustibile.
La politica dell’energia ha
importanza non solo per lo sviluppo economico, ma anche per la sicurezza, la competitività e l’immagine internazionale di un Paese. Lasciando da parte gli aspetti economici - già ampiamente trattati - va sottolineato come la Francia utilizzi la “diplomazia del nucleare” per accrescere la sua influenza internazionale. Vanno ricordati, in proposito, gli accordi conclusi dal presidente Sarkozy con diversi Paesi del Mediterraneo e del Golfo, nonché lo spazio che la Francia sta ritagliandosi nel revival dell’elettronucleare in atto ovunque, dall’America Latina all’Asia, dagli Usa alla Russia e negli stessi Paesi produttori di petrolio. Il nucleare, come le attività spaziali e gli armamenti, è un attrattore e un acceleratore dello sviluppo tecnologico ed industriale di un Paese. È stato bloccato in Italia non solo per “strampalate” ragioni ideologiche, per irresponsabilità politica e per l’inefficienza burocratica dello Stato, ma anche per lo scarso coraggio civico di scienziati e universitari, che hanno subito, senza volersi esporre per non “aver grane”, il referendum del 1987, e la successiva tacita decisione governativa di non ritornarvi, anche a causa del crollo del prezzo del petrolio e del gas. C’è da augurarsi che dal revival nucleare non saremo tagliati fuori. Ma il tempo per una decisione è molto ridotto. Rischiamo di farci ancora del male da soli come, peraltro, ci ha abituato il “regime del non fare” e della politica delle chiacchiere e delle dilazioni.
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Risk GLI EDITORIALI/MICHELE NONES
Un sistema di controllo per i programmi intergovernativi I dati del Rapporto del presidente del Consiglio sulle esportazioni militari italiane nel 2007 confermano ancora una volta quanta confusione, anche statistica, provochi il tenere i programmi di collaborazione intergovernativa nell’ambito della legge 185/90. A fronte di 2.369 milioni di euro di esportazioni definitive ce ne sono stati 1.846 per programmi intergovernativi, pari a più del 40 percento del totale delle operazioni. La ragione per cui sono assoggettati alla normativa in materia di esportazioni è che al momento dell’approvazione della legge 185 del 1990 l’unico vero programma intergovernativo era il Tornado e che nessuno se ne è curato, tanto è vero che nel testo non viene nemmeno citato questo tipo di attività. Da allora il mercato della difesa è profondamente cambiato e sono progressivamente aumentati i programmi di collaborazione intergovernativa per lo sviluppo e la produzione di equipaggiamenti per la difesa. L’aumento dei costi di ricerca e sviluppo associati all’alto contenuto tecnologico, la stessa complessità tecnologica dei nuovi sistemi, la sempre più limitata dimensione dei mercati nazionali, la volontà di utilizzare equipaggiamenti non solo interoperabili ma comuni con i partner e gli alleati, hanno spinto tutti i Paesi europei a sviluppare un elevato numero di programmi di collaborazione. Il ministero della Difesa italiano è stato uno dei primi e principali protagonisti di questo cambiamento sia perché convinto della necessità di una maggiore integrazione delle capacità di difesa a livello Nato ed Unione Europea, sia perché le nostre Forze Armate dovevano superare più di altre un forte ritardo nell’ammodernamento dei mezzi legato alla limitazione delle risorse finanziarie disponibili, sia perché l’industria italiana risultava allora più debole sul piano tecnologico e dimensionale. Oggi la maggior parte degli investimenti della Difesa sono assorbiti dai 18 programmi di colla-
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borazione intergovernativa a cui stiamo partecipando. Il ministero della Difesa segue, attraverso i suoi diversi organismi, l’intero ciclo di vita del programma a partire dalla sua impostazione fino al supporto logistico. Il controllo viene esercitato sia a livello centrale sul piano gestionale e finanziario, sia a livello periferico sul piano tecnico e qualitativo. Si può, quindi, sostenere che all’interno di questi programmi il controllo pubblico è totale e continuo a prescindere dai controlli della legge 185/90. Anche sul piano concettuale queste movimentazioni non possono essere assimilate alle effettive esportazioni. Il numero delle operazioni è elevato poiché uno stesso componente può entrare ed uscire più volte dal territorio nazionale man mano che viene integrato un insieme più complesso, ma tale numero non è omogeneo con quello delle esportazioni a Paesi terzi di prodotti italiani. Per tutte queste ragioni risulterebbe, quindi, opportuno prevedere una decisa separazione fra il sistema di controllo delle esportazioni definito dalla legge 185, che è stato costruito per controllare le attività dell’industria italiana sul mercato internazionale ed è affidato prevalentemente al ministero degli Affari esteri, e un nuovo sistema semplificato di controllo delle esportazioni e importazioni di materiali di armamento per la realizzazione di programmi di armamento ed equipaggiamento delle Forze Armate e di Polizia, che potrebbe essere affidato alla gestione del ministero della Difesa. Ne guadagnerebbero tutti: le Forze Armate che potrebbero gestire i propri programmi con maggiore efficienza, le amministrazioni coinvolte che potrebbero concentrarsi sul controllo delle vere esportazioni, le industrie che potrebbero risparmiare tempo e risorse umane e finanziarie.
editoriali GLI EDITORIALI/STRANAMORE
La fragile primavera pakistana
Preoccupazione, attenzione e mantenimento di una costante pressione politica, questo l’atteggiamento adottato dagli Stati Uniti e della Gran Bretagna nei confronti di un Pakistan che ha inaugurato l’era del dopo Musharraf con una serie di scelte estremamente delicate per il futuro della regione. Il governo di coalizione formato dalla strana coppia di ex nemici - Nawaz Sharif e Asif Zardari - è tutt’altro che consolidato, tuttavia sta già marcando il suo distacco rispetto alle politiche di Musharraf. Una prima iniziativa, riguarda l’offerta di una riconciliazione ad almeno alcuni dei gruppi estremisti islamici che Musharraf aveva contrastato con decisione. Il simbolo del nuovo corso è costituito dalla liberazione di Sufi Muhammad, leader politico/religioso del Movimento per l’applicazione della legge islamica messo al bando dal 2002 e responsabile dell’arruolamento e dell’invio in Afghanistan di migliaia di combattenti pro-talebani. La liberazione del vecchio leader è frutto di un accordo: libertà di svolgere un’azione politica in favore dell’applicazione della sharia in cambio della rinuncia alla violenza ed alla guerriglia. L’accordo riguarda una delle provincia più turbolente, quella Nord-occidentale anche se meno compromessa rispetto al Waziristan. È ancora presto per capire quali saranno le conseguenze dell’accordo e se le parti lo rispetteranno, ma se l’esperimento funzionerà, il governo cercherà di estenderlo ad altri gruppi pro-talibani. In realtà anche Musharraf aveva cercato in qualche caso il dialogo con gruppi islamici relativamente moderati, ma con ampiezza e risultati molto limitati. E già questi tentativi avevano suscitato perplessità ed allarme negli alleati statunitensi. I quali temono che accordi di tal fatta preludano ad un cessate il fuoco che consentirebbe ai gruppi islamici di riprendere le proprie attività e di condurre azioni di guerriglia… purchè rivolte verso l’esterno, a partire dall’Afghanistan, rinunciando solo alla destabilizza-
zione all’interno del Paese. Il governo poi è meno convinto nell’impegnare l’esercito nella lotta ai talebani e ad al Qaeda. Non solo, si vuole anche restringere la libertà di movimento all’interno del territorio pachistano alle Forze Speciali statunitensi, che conducono raid in profondità partendo dall’Afghanistan, a volte in cooperazione con i colleghi pachistani, a volte in autonomia. Proprio per questo negli ultimi mesi gli Usa hanno intensificato attacchi ed azioni antiguerriglia, perché è probabile una stretta. Il governo pachistano ha anche deciso di rimpatriare, con le buone o con le cattive, i milioni di profughi afghani che hanno trovato rifugio in Pakistan, in molti casi fin dagli anni dell’invasione sovietica del Paese. Ufficialmente il rimpatrio dovrà essere completato entro il 2009. Un processo così rapido rischia di mettere in ginocchio l’Afghanistan e provocare una crisi umanitaria. Probabilmente Islmabad accetterà di procedere con una maggiore gradualità. Gli Usa da un lato temono l’impatto del rientro su un Afghanistan più che fragile, dall’altro sono consci che i campi profughi in Pakistan costituiscono una retrovia sicura per al Qaeda e la guerriglia talebana, nonché un terreno ideale per il reclutamento e l’addestramento di guerriglieri. La sfida consiste nel gestire il rimpatrio. Se gli Usa e l’Afghanistan ci riusciranno, concordando con Islamabad il ritmo, i tempi e la consistenza dei flussi, si potrebbe anche trattare di uno sviluppo positivo. Tuttavia, considerando la realtà dell’Afghanistan, è inutile farsi troppe illusioni. In conclusione, Washington fa bene a seguire con apprensione quanto sta avvenendo nel Paese alleato, adottando un mix di blandizie e pressioni sul nuovo governo. Perché basta davvero poco per provocare contraccolpi micidiali in tutta la regione, mettendo a rischio la stessa permanenza della forza Nato Isaf in Afghanistan. 61
Il rapporto
IL CAOS MONDIALE di ALAIN BAUER E XAVIER RAUFER
Il terrorismo e la criminalità organizzata,
a dispetto dei loro diversi metodi ed obiettivi, non sono più incompatibili
(come accadeva durante la guerra fredda):
anzi, in alcuni casi si alimentano e aiutano,
come dimostra la loro simbiosi in Somalia e Iraq. questa sfida è completamente nuova:
nel diritto internazionale classico, infatti, lo stato “controlla” la violenza interna
e “classifica” come guerra reale solo quella tra Stati. Ma tutto questo, ormai, non esiste più.
L’audace e stimolante tesi del consigliere alla sicurezza del presidente Nicolas Sarkozy
In collaborazione con l’Istituto di criminologia di Parigi Dipartimento di ricerca sulle minacce criminali contemporanee
Risk Realtà ed origini del caos mondiale Il caos mondiale non è figlio di un aumento quantitativo del numero di rivolte, schermaglie, attentati terroristici, micro-conflitti e ribellioni nel mondo (ad esempio in confronto agli eventi verificatisi durante la Guerra Fredda), né lascia supporre che vi siano oggi più banditi, ribelli e dissidenti di prima. Il caos mondiale deriva dalla mancanza qualitativa di una chiara distinzione fra guerra e pace e di consenso su ciò che effettivamente costituisce la guerra. Definizione della parola greca chaos: il primo significato fu statico, riferito al vuoto, all’abisso senza fondo. Nel greco classico, la parola chaos assunse un significato più dinamico, riferito alla perturbazione, al disordine, all’anarchia ed al cambiamento, soggetto alla natura costante e mutevole del caso. Ben più che un trambusto momentaneo, chaos – vale a dire confusione, disordine, rivolta – è l’opposto di tutto ciò che è stabile, costante, coerente, prevedibile ed ordinato. In passato, un ordine internazionale – in contrasto con il disordine, o peggio, con il caos – si è sempre basato sul presupposto che i protagonisti condividessero lo stesso concetto di ostilità ed un’idea comune di guerra. Affinché potesse esistere un ordine internazionale, gli avversari potenziali dovevano semplicemente vedersi e riconoscersi – sia 64
dal punto di vista fisico che giuridico. Di qui l’utilizzo di uniformi per soddisfare il primo criterio. Per quanto riguarda il secondo, vale a dire la prospettiva giuridica, il nemico doveva essere «legittimato» nel senso stretto del termine, vale a dire mantenendo i massimi standard. In base a tale sistema, banditi, pirati e ribelli non venivano considerati nemici legittimi – justi hostes – ma erano una questione da procedimento penale volto ad impedire loro di arrecare danno. Inoltre, si riteneva che i potenziali avversari dovessero avere nozioni del tempo analoghe. Tuttavia, dalla fine della Guerra Fredda, il nemico è andato ben oltre questa semplice classificazione. Pertanto si è creata una confusione crescente sulle regole del conflitto fra uomini, un settore che non soleva prestarsi ad ambiguità (in Europa, una netta distinzione fra nemici e criminali era la regola pratica seguita successivamente alla Guerra dei Trent’anni ed alla pace di Westfalia). Questo disordine risale a molto tempo fa, quasi alla preistoria: deriva per lo più dai concetti elaborati nella Grecia post-omerica, che operava una netta distinzione fra il nemico sul campo di battaglia (polernos), che non era oggetto di alcuna animosità personale, e l’odiato e detestato individuo (echtros), che inspirava il più profondo disprezzo. Nel bel mezzo di questo caos
mondiale sono scoppiate guerre caotiche. Le guerre caotiche non dovrebbero essere confuse con le più ideologiche «guerre partigiane» o con le «guerre di bande» più rurali e localizzate, che si basano sul concetto tedesco di Bandenkriege. Esse implicano conflitto – come nel caso dell’Africa – fra entità instabili e volubili venute alla ribalta a partire dalla fine della Guerra Fredda nell’ambito del terrorismo e della criminalità organizzata a livello transnazionale: frange fanatiche di religioni altrimenti pacifiche, oscuri terroristi, gruppi di guerriglieri corrotti ed un mucchio di bande armate, mafiosi, cartelli, ecc. A volte, queste (o altre) entità si scontrano con gli eserciti regolari dei Paesi sviluppati, come nel caso di Iraq ed Afghanistan. A causa della mancanza di ordine mondiale la guerra, di per sé caotica, è – per prendere in prestito un termine informatico – la «modalità default» delle ostilità. Se innanzitutto non si controlla il caos, ogni tentativo di ingaggiare altre forme di guerra, quale quella «convenzionale» tentata dagli Stati Uniti in Iraq, fallirà ed alla fine la situazione sprofonderà in «modalità caotica default». Esaminiamo pertanto le caratteristiche di queste guerre caotiche criminalizzate, non–localizzate e discontinue. • Il teatro del conflitto non ha confini. Ad esempio, dall’11 settem-
il rapporto bre 2001 sono stati catturati appartenenti alla jihad di 70 diverse nazionalità in circa un centinaio di Paesi ed i fondi della jihad sono stati congelati in 130 Paesi di tutto il mondo. A seguito di questa guerra a livello mondiale, il «campo di battaglia» ha raggiunto più di 24 Paesi, ivi compresi Afghanistan, Egitto, Indonesia, Iraq, Kenya, Pakistan, Arabia Saudita, Spagna, Tanzania, Tunisia, Turchia, Regno Unito, Stati Uniti e Yemen; • la dimensione spaziale è sufficiente a mettere in discussione, o persino obliterare, il potere territoriale dello stato–nazione; • la dimensione umana rivela la natura incostante, nebulosa e proteiforme delle entità non statuali coinvolte; • la dimensione temporale riflette il tentativo da parte degli stati di concepire ed utilizzare il tempo in modo radicalmente diverso rispetto ai metodi impiegati dai protagonisti che emergono dal caos mondiale. Nella giungla della guerra caotica, il terrorismo e la criminalità organizzata – a dispetto dei loro diversi metodi ed obiettivi – non sono più incompatibili (come accadeva durante la Guerra Fredda); in alcuni casi si alimentano persino l’un l’altro, come dimostra la simbiosi fra terroristi e criminali nelle situazioni caotiche che si registrano in Somalia e nell’attuale Iraq. Nel bel mezzo della guerra caotica/criminalizzata, ogni azione è
limitata ad un orizzonte di breve termine, che guarda soltanto all’immediato. La folla fa presto ad accalcarsi e la pace può d’improvviso andare in frantumi. Nel mezzo del caos mondiale, il clan, la jama’a, la famiglia, la tribù o la banda sono soli e lo sanno. I mafiosi, gli adepti della jihad, i banditi e gli spacciatori di droga diventano schegge impazzite, temuti da tutti tranne che dai maggiori predatori. Per alcuni Dio è considerato l’unica salvezza:
Non hai visto come il tuo Signore ha trattato (la tribù de)gli ‘Âd?/ e Iram dalla colonna,/ senza eguali tra le contrade,/ e (la tribù de) i Thamûd che scavavano la roccia nella vallata/ e Faraone, quello dei pali?/ [Tutti] costoro furono ribelli nel mondo/ e seminarono la corruzione,/ e il tuo Signore calò su di loro la frusta del castigo./ In verità il tuo Signore è all’erta. («L’Alba», Sura 89, versetti 6–13, dal Corano)
Minacce reali del mondo attuale: gli elementi fondamentali Dal novembre 1989 al settembre 2001, il mondo sviluppato è vissuto relativamente in pace. Sebbene abbia risentito di alcune ripercussioni causate da disordini e violenze in altri Paesi, non è stato colpito da gravi conflitti. L’Occidente tendeva a considerare questa tranquillità come una situazione acquisita e permanente e poco si interessava al disordine mondiale, ma questo periodo fu in effetti soltanto un intervallo che precedeva una fase caotica della storia mondiale. Quando la bonaccia fu interrotta in modo brusco dagli attac-
chi dell’11 settembre 2001, gli occidentali si resero improvvisamente conto dell’enorme minaccia strategica posta a livello mondiale da una nuova – o forse – antica forma di conflitto: la guerra terroristica e criminale. Questo tipo di guerra terrorista e criminale era completamente diversa dalle guerre sanguinarie del Ventesimo secolo. Nel diritto internazionale classico, lo stato ha il monopolio sulla violenza legittima, per cui in un mondo dominato dagli stati, le uniche guerre «reali» sono quelle fra stati. Tuttavia, questo tipo di guerre ormai non esistono quasi più: • le armi nucleari costituiscono un deterrente che le rende troppo pericolose, in particolar modo quando sono coinvolte le superpotenze; • oggi le democrazie sono più numerose di prima e tendono a non farsi guerra l’una con l’altra; • lo sviluppo economico e tecnologico rende l’acquisizione del territorio con mezzi militari meno essenziale di quanto non fosse in passato. Fino alla fine della guerra fredda, il limite massimo di guerra fra stati era la strategia indiretta: uno schema complesso di astuzie, stratagemmi e manovre volte ad infrangere l’ordine di battaglia del nemico. All’inizio del Ventunesimo secolo, la logica della strategia indiretta è ormai superata e non più applicabile in un mondo in cui diventano meno nitide le 65
il rapporto
Risk nette distinzioni del passato fra attacco e difesa, stato e società civile, settore pubblico e privato, legalità ed illegalità. Emergono nuove forme di scontro, ove il fattore determinante non è più la nazione o l’ideologia, bensì la razza, la tribù, l’avidità o il fanatismo religioso.
L’avvento delle guerre caotiche, del terrorismo e della criminalità Quando inizia una nuova era, la maggior difficoltà è quella di individuare, con sufficiente tempestività, il nemico, il campo di battaglia, ed eventualmente le regole d’ingaggio. Quali conclusioni possiamo trarre in merito ai pericoli reali del mondo attuale? • Nel mondo caotico odierno, le guerre non si combattono più fra uno stato e l’altro e pertanto stanno diventando sempre più aspre e feroci. Spesso i nostri nemici combattono per qualcosa che rappresenta un viscerale attaccamento e viene ritenuto sacro, quali la stirpe (essi stessi ed i loro discendenti, la parentela, il clan) e la terra (le loro case ed il loro territorio); • la guerra caotica è caratterizzata dal crimine, dal tribalismo e dal terrorismo. L’avversario è sempre più una sorta di ibrido, in parte criminale comune ed in parte politico. I signori della guerra, i leader tribali o i fondamentalisti fanatici possono pur guidare milizie o reti terroristiche, sovvenzionate dal 66
racket delle estorsioni e dal traffico di esseri umani, di armi, sostanze stupefacenti, specie protette e rifiuti tossici. Ad esempio, molti Paesi dell’Africa sub–sahariana sono sprofondati in una spirale verso il basso in cui fallisce lo stato–nazione, proliferano le bande armate ed i guerriglieri senza ideologia; si ripete la guerra fra bande; il crimine organizzato diventa onnipresente; predominano il tribalismo e le regole dei signori della guerra e si sviluppa una cultura dell’impunità. Nell’aprile del 1999, Oswaldo de Rivero, un alto funzionario delle Nazioni Unite, commentava su Le Monde Diplomatique: «La guerra civile va di pari passo con la peggiore criminalità». A suo parere, «la mancata autosufficienza nazionale di molti Paesi in via di sviluppo» fa implodere lo stato–nazione facendolo diventare «un’entità caotica ingovernabile» dominata da «un’alleanza di anarchia generale e varie forme di delinquenza».
Caratteristiche delle guerre caotiche • Abolizione dello spazio geo– strategico chiaramente definito nel quale, in passato, i maggiori Paesi svilupparono la loro difesa nazionale; • diminuzione del numero di stati–nazione che hanno confini continui e controllati e si conformano al diritto internazionale vigente. Pertanto, un numero cre-
scente di coloro che partecipano a guerre criminali o terroristiche sono decisamente indifferenti agli stati ed ai confini degli stessi; • nessuna distinzione fra autorità civile e militare o fra prima linea e retroguardia ed i miliziani che indossano una qualche uniforme regolare sono rari; • il nemico si annida fra la popolazione, spesso mescolato alle forze amiche; • il combattimento «classico» in un campo aperto di battaglia è sostituito da massacri, vendette sanguinose (come in Albania, Algeria, Cecenia ed ex Jugoslavia) ed attacchi terroristici; • questi fenomeni fanno parte di un intrico di criminalità di tutti i tipi: traffico di sostanze stupefacenti, rifiuti tossici, esseri umani (nella loro interezza, come nel caso degli immigrati clandestini, o in parti, come nel caso del traffico di organi umani), componenti elettroniche “sensibili», pietre preziose («i diamanti di guerra») ed armi. Si registrano altresì scontri fra fanatici religiosi, conflitti etnici e tribali, guerre civili e carestie, pirateria marittima ed aerea. Una nuova forma di terrorismo: indefinito ed imprevisto Dal 1989 al 2001, la natura e la portata del terrorismo sono cambiate. In passato il nemico era noto, stabile e conosciuto. Oggi il nemico è sfuggente, inafferrabile, strano ed incomprensibile – ma pur sempre pericoloso, se non di
il rapporto più. Durante la Guerra Fredda, le minacce strategiche erano pesanti, stabili, lente, individuabili, quasi familiari (ad esempio il Patto di Varsavia). Anche la minaccia terroristica era stabile e spiegabile. Ne è un esempio il Consiglio Rivoluzionario Fatah di Abu Nidal: il suo covo, i suoi protettori e le sue armi erano ben note a tutti e decifrare le sigle ed i messaggi in codice scelti per le sue azioni era un gioco da ragazzi. Oggi, al contrario, il terrorismo offre soltanto una vaga idea, una fugace immagine della sua faccia brutale ed irrazionale, come nel caso della setta Aum Shinrikyo o del Gruppo Islamico Armato (Gia) in Algeria. Quali sono allora le reali minacce che dobbiamo affrontare oggi? Che cosa è diventato il terrorismo? Pericoli e minacce del caos mondiale Sin dalla sua prima comparsa nel Diciannovesimo secolo, il terrorismo è stato analizzato all’interno di uno specifico quadro di riferimento, quello del terrorismo stesso. Oggi questo concetto è diventato troppo limitante. Con la fine dell’ordine mondiale bipolare (contrassegnato dalla caduta del Muro di Berlino), il terrorismo è mutato ed è fuoriuscito dalla sfera nella quale si soleva analizzarlo. La sfera più ampia di minacce – criminali o di altro tipo – che oggi minaccia la società fornisce un quadro più adatto alla concettua-
lizzazione ed alla definizione del terrorismo ed alla comprensione della sua portata. Oggi la minaccia reale viene dai gruppi ibridi che sono opportunisti e capaci di rapide trasformazioni. I conflitti reali (nei Balcani, in Africa ed altrove) sono essenzialmente civili e sono spesso etnici o tribali. Sono crogiuoli in cui si mescolano criminalità, fanatismo religioso, carestia, massacri, pirateria marittima ed aerea, traffico di essere umani, di sostanze stupefacenti, sostanze tossiche o gemme (i cosiddetti «diamanti di sangue»). Pertanto, nel prossimo futuro, la guerra, l’ultima forma di conflitto, avrà una dimensione criminale, una dimensione terroristica, o una combinazione di entrambe. I civili – città, aziende e la popolazione nel suo complesso – ne saranno sempre più colpiti, come è stato drammaticamente dimostrato dagli attentati dell’11 settembre 2001 e dall’allarme antrace a New York quello stesso autunno. Le guerre, siano esse ispirate dal terrorismo o dalla criminalità, avranno origine da due tipi di zone senza legge: • Stati “falliti” che sono diventati temporaneamente o permanentemente anarchici (Afghanistan, Albania, Liberia, Sierra Leone, ecc.); • vaste aree urbane nei Paesi in via di sviluppo caratterizzate da uno sviluppo incontrollato (Karachi, Lagos, Rio de Janeiro, ecc. ) dove interi quartieri e periferie – che coprono migliaia di chilometri
quadrati e dove vivono milioni di persone – sono efficacemente controllate dalla criminalità organizzata, dai terroristi e dai trafficanti. Da basi quali Karachi e Rio de Janeiro, pericolosi gruppi possono facilmente colpire obiettivi–simbolo dei Paesi sviluppati.
Nuove forme ibride di terrorismo Al giorno d’oggi il terrorismo è una componente fondamentale della guerra, che si è lentamente ma costantemente contaminata negli ultimi trent’anni. Per i nostri governi il terrorismo è una delle principali preoccupazioni in tema di sicurezza. Si può persino affermare che il terrorismo si è trasformato in guerra. Tuttavia, questo terrorismo onnipresente – ed in verità, per una ragione o per l’altra, ogni giorno esplodono bombe in tutto il mondo – ha subito una significativa mutazione. È quasi scomparso il terrorismo di stato dei tempi della guerra fredda, sia politico che ideologico. Sono venuti alla ribalta nuovi terroristi. Il nocciolo duro è costituito da fanatici quali i terroristi islamici, ma vi sono anche criminali non politici quali cosche mafiose, sette apocalittiche ed altri gruppi irrazionali e violenti.
Da cosa è costituita la “Nuova Minaccia”? Comprendere la situazione delle effettive zone di pericolo dalla fine dell’ordine mondiale bipola67
il rapporto
Risk re, con un’analisi obiettiva dell’origine degli attentati, di dove si verificano i conflitti e delle modalità con le quali è organizzato il flusso di merci e servizi illegali (esseri umani, sostanze stupefacenti, armi, veicoli rubati, ecc.) fa giungere alla conclusione che la minaccia reale viene da: • milizie, gruppi di guerriglieri e gruppi ibridi che mescolano terroristi, fanatici, i cosiddetti «teppisti patrioti» e disertori dell’esercito; • essi sono agli ordini di generali dissidenti e signori della guerra, folli o criminali comuni; • sono spesso gruppi sconosciuti ed oscuri, capaci di rapidi cambiamenti e di mutevoli alleanze; • sono sprezzanti e non rispettosi del diritto internazionale, in particolare per quanto riguarda le questioni umanitarie; • sono simbolicamente legati all’economia criminale: sostanze stupefacenti, traffico d’armi e denaro sporco. La “biologia» dei gruppi pericolosi La fine dell’ordine mondiale bipolare ha provocato mutazioni in quei gruppi che in passato erano soltanto terroristi o criminali, nonché un’improvvisa ed imprevedibile deriva dalla sfera del «tecnomorfo» a quella del «biomorfo». La sfera del tecnomorfo: in passato, il terrorismo internazionale era perpetrato da gruppi coinvolti in «servizi speciali» per conto degli stati; questi gruppi erano «a libro 68
paga» ed eseguivano ordini loro impartiti agendo, in un certo senso, meccanicamente, su base alterna. La sfera del biomorfo: oggi, gruppi complessi e pericolosi proliferano, in un certo senso, organicamente e pertanto in modo ben più incontrollabile. Sono difficili da individuare, definire o comprendere in quanto emergono da flussi e territori che non sono quasi per nulla tracciati ed esplorati.
non è un’organizzazione come l’Ira (tanto per citare un esempio che si limita al terrorismo). Al Qaeda non è semplicemente la controparte militante islamica dell’Ira cattolico–romana. Dall’agosto 1998 e dai suoi primi due attentati contro le ambasciate statunitensi a Nairobi e Dar es Salam, al Qaeda è stata oggetto di un’aspra e fiera repressione. Sulla base delle nostre informazioni, circa 5mila individui considerati suoi «membri» sono stati interroCaratteristiche comuni gati in 58 Paesi in tutto il mondo e Analizziamo le analogie fra la centinaia di ulteriori arresti si sono maggior parte, se non proprio verificati in gran segreto, in partitutti, questi gruppi. In primo colare nel mondo arabo. luogo, non si tratta affatto di vere e proprie organizzazioni nel senso Il congelamento dei fondi in cui generalmente l’Occidente di al Qaeda in tutto il mondo utilizza questo termine, vale a dire (Fonte: rapporto del luglio 2003 che non sono strutture solide, rigi- del gruppo di esperti Onu responde. Al contrario, sono fluide, liqui- sabili del controllo dell’applicade o persino mutevoli. zione delle risoluzioni sulla lotta Ad esempio, consideriamo ciò a al terrorismo) cui si riferisce il governo degli Stati Uniti con il termine al Dai suoi primi attentati nell’agoQaeda, che insiste nel presentare sto 2001, sono stati congelati o come un’organizzazione formale confiscati in 120 Paesi 59,2 milioe gerarchica (con un «numero 2» ni di dollari posseduti da al Qaeda, ed un «numero 3»). Gli Stati Uniti da imprese o entità ad essa riconhanno dichiarato di «aver elimina- ducibili, o da singoli individui to i due terzi della struttura di ritenuti suoi «membri»: il 70 percomando», intendendo con ciò cento in Europa, Eurasia e Nord che vi sia una sorta di affiliazione America, il 21 per cento in Medio stabile o permanente. Queste fan- Oriente (Arabia Saudita, Emirati tasie sono diffuse da vari presunti arabi, ecc.) e l’8 percento esperti, uno dei quali riteneva nell’Asia sud–orientale. Giova avventatamente che «i membri di ricordare che tutto ciò si è verifial Qaeda fossero 1200». Ci vuole cato prima che iniziasse la guerra poco a dimostrare che al Qaeda in Iraq, nella primavera del 2003,
il rapporto e prima che si verificassero i successivi attentati nei seguenti Paesi (direttamente attribuiti al movimento mondiale della jihad riconducibile ad Osama bin Laden): • Riad (Arabia Saudita, maggio 2003: 35 vittime; novembre 2003: 17 vittime); • Casablanca (Marocco, maggio 2003: 45 vittime); • Giacarta (Indonesia, agosto 2003: 12 vittime); • Istanbul (Turchia, novembre 2003: 69 vittime); • Madrid (Spagna, marzo 2004: 202 vittime); • Londra (Regno Unito, luglio 2005: 58 vittime); • Sharm el–Sheikh (Egitto, luglio 2005: 90 vittime); • Bali (Indonesia, ottobre 2005: 30 vittime); •Amman (Giordania, novembre 2005: 60 vittime); • Dahab (Egitto, aprile 2006: 30 vittime). Ed ovviamente non va dimenticato il bagno di sangue quotidiano in Iraq. A fini comparativi, esaminiamo il caso di due importati organizzazioni (reali stavolta) che per motivi professionali hanno anch’esse una presenza a livello mondiale: una multinazionale quale la General Motors ed un servizio segreto quale la Cia. Che cosa sarebbe rimasto di questi due giganti se, in tutto il mondo, 5mila–6mila suoi dirigenti e dipendenti fossero stati gettati in prigione; se i loro uffici fossero stati chiusi, i loro registri saccheg-
giati, i loro strumenti di lavoro, risorse finanziarie e conti bancari confiscati? Nulla. Una seconda caratteristica che questi pericolosi gruppi hanno in comune è la loro natura ibrida, in parte politica, in parte criminale. Si parla attualmente di notevoli scambi e commistioni fra gruppi criminali e gruppi terroristici: la camorra napoletana con il gruppo basco dell’Eta ed il Gia in Algeria; la banda di Dawood Ibrahim a Karachi con i gruppi islamici vicini ad Osama bin Laden quali Jaish–e–Mohammad ed Harakat ul–Mujahideen. Contatti analoghi legano l’Iracon il movimento degenerato e proto–criminale dei guerriglieri della Farc in Colombia. La terza caratteristica che accomuna questi pericolosi gruppi è la loro mutevolezza. Come ricordato in precedenza, sono capaci di mutazioni molto rapide, in funzione dell’ormai cruciale «fattore dollaro». Molto spesso, la maggior parte di questi gruppi sono nomadi, territorializzati (o localizzati in aree accessibili) e transnazionali. Sono tagliati fuori dal mondo e dalla società civile. I loro obiettivi possono essere criminali, fanatici, basati su concetti apocalittici, o completamente spuri e decisi ad ingannare e raggirare il più vasto mondo: ne sono esempio in Liberia e Sierra Leone le bande assassine guidate da Foday Sankoh denominate Fronte Unito
Rivoluzionario (Ruf). In alcuni casi, i loro obiettivi sono semplicemente incomprensibili (è il caso della setta Aum). In genere questi pericolosi gruppi non sono affatto sostenuti dallo stato, il che li rende ancor più imprevedibili ed incontrollabili; perpetrano massacri su vasta scala, con l’intenzione di uccidere quante più persone possibile (fra gli esempi possiamo citare Bin Laden, il Gia in Algeria, la setta Aum, ecc.). 1. Il caos mondiale: contagi, alleanze e forme ibride pericolose Da 20 anni un gruppo di pazzi criminali ed assassini sta terrorizzando le popolazioni di Uganda, Kenya e Sudan. La Lord’s Resistance Army (Lra) guidata dal guru Joseph Kony, autoproclamatosi «discendente di Gesù Cristo», professa il suo scopo che è quello di creare il Regno di Dio in terra e vivere seguendo i dieci comandamenti. Tuttavia, nel perseguire i suoi obiettivi, l’Lra ha massacrato, mutilato (tagliando labbra, orecchie ed altre parti del corpo), stuprato e rapito giovani, poi costretti ad unirsi al loro «esercito». I combattimenti fra l’Lra e le forze ugandesi hanno fatto sì che più di un milione di vittime fuggisse da quella regione. Eppure non si tratta di un caso isolato. Nel mondo, in Paesi come la Colombia, l’Irlanda, Haiti, i Territori palesti69
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Risk nesi, il Nepal ed il Sudan, cloni terroristici sono spuntati fuori come funghi con gruppi di guerriglieri e miliziani che sono diventati bande criminali. Questo caos è contagioso: in un mondo caotico, le «guerre fra bande», il terrorismo e la criminalità organizzata hanno una forte tendenza a proliferare. Il meccanismo è semplice eppure non si riesce a fermarlo: quando uno stato crolla, si disintegra in criminalità e la «privatizzazione» della violenza che ne deriva porta al caos che rapidamente contamina la regione. Pertanto il crollo della Sierra Leone ha avuto un effetto a catena su Liberia e Paesi confinanti; il caos in Zaire (oggi Repubblica Democratica del Congo) ha rapidamente contagiato la regione africana dei Grandi Laghi, il Congo–Brazzaville; e la lista potrebbe continuare. Alimentato dal tam tam e dal sensazionalismo mediatico, il caos criminale e terroristico si diffonde indirettamente da un continente all’altro. Ad esempio, secondo modalità che rispecchiano la «cultura islamica del martire» che si ritrova in Medio Oriente, il 24 aprile 2004, i minatori boliviani si imbottirono di dinamite e manifestarono nel quartier generale della Federazione dei Minatori, minacciando di farsi saltare in aria se non fossero state aumentate le loro pensioni. Al contempo, un altro minatore si fece saltare in aria dentro il Parlamento boliviano, 70
uccidendo due persone fra le quali il Capo della sicurezza. Stiamo ora assistendo alla confisca di vasti appezzamenti di terreno da parte di milizie armate, bande criminali e gruppi terroristici, creando zone grigie che attingono ad un’efficace miscela a metà strada fra la Corte dei Miracoli ed il Sentiero di Ho Chi Minh. Queste zone grigie forniscono una pletora di basi dalle quali gruppi terroristi e criminali possono successivamente colpire obiettivi nei Paesi sviluppati (gli attentati dell’11 settembre furono preparati in una zona grigia dell’Afghanistan) o saccheggiare il mondo da un punto di vista puramente predatorio. Inoltre, queste zone grigie forniscono una copertura ideale per la coltivazione di droga: ad esempio in Afghanistan il Fondo Monetario Internazionale (Fmi) stima che i proventi dalle esportazioni di oppio ed eroina ammontavano a 2,5 miliardi di dollari nel 2002 e rappresentavano circa il 50 percento del Pil del Paese nel 2003. Pertanto, «non esistono più regioni in cui le strutture statali possano crollare senza scatenare gravi conseguenze per l’ordine politico ed economico mondiale». È questo il principale insegnamento appreso dall’11 settembre: una volta createsi, queste zone grigie – anche se si trovano dall’altro lato del pianeta – costituiscono una grave minaccia per la comunità internazionale nel suo complesso.
In particolare in Europa, ed in special modo considerato il clima attuale, il caos mondiale, le zone grigie e le altre questioni correlate devono ancora realmente attirare l’attenzione dell’opinione pubblica e pertanto tendono ad essere messe da parte dai governi. In palese contrasto con questa situazione, i pericolosi gruppi che operano in zone incontrollate sono fin troppo interessati alle società aperte del mondo sviluppato ed ai loro innumerevoli ed appetibili obiettivi. Queste entità sono dannose in generale, ma nei contesti urbani, in special modo in quelli dell’emisfero meridionale, pongono una minaccia mortale. Un «mega–sviluppo incontrollato delle città» è caratterizzato da un agglomerato immenso di alti edifici, immobili a fini abitativi, ascensori, supermercati, centri commerciali, autostrade, aeroporti, grave inquinamento, crimine galoppante e terrorismo. Il mega–sviluppo incontrollato delle città, da Le Mondehebdo, 7 febbraio 2004 1900: il 10 percento della popolazione mondiale vive nelle aeree urbane; 1900: 150 milioni di persone vivevono nelle aree urbane; 1960: l’80 percento della popolazione sudcoreana vive nelle aree rurali; 2000: l’80 percento della popolazione sudcoreana vive nelle aree urbane;
il rapporto 2000: 3 miliardi di persone vivono nelle aree urbane; 2000: la popolazione urbana mondiale cresce di 180mila unità al giorno; 2000: l’urbanizzazione in Africa cresce di circa il 5 percento all’anno; 2000: ogni ora, ci sono 60 persone in più a Manila, 47 a Dehli e 21 a Lagos; 2015: a Mumbai e Tokyo vivranno 27 milioni di persone; 2015: l’80 percento della crescita mondiale proverrà dal mega–sviluppo incontrollato delle città; 2020: il 60 percento della popolazione dell’Africa sub–sahariana vivrà in piccole e grandi città; 2025: si prevede che la popolazione urbana raggiunga i 5 miliardi di persone, vale a dire il 50 percento della popolazione mondiale totale; 2030: il 60 percento della popolazione mondiale vivrà in grandi aree urbane; 2030: l’incessante mega–sviluppo incontrollato delle aree fra Guangzhou ed Hong Kong conterà una popolazione di 36 milioni di persone. Quasi ogni giorno la televisione dà notizia di guerre e violenze nelle grandi aree urbane dei Paesi in via di sviluppo caratterizzate da uno sviluppo incontrollato, con punti caldi in aree quali Gaza (la striscia di Gaza è in effetti una gigantesca baraccopoli), Baghdad e Bassora (in Iraq), Karachi, Rio
de Janeiro, ecc. (vedi premessa). A Gaza e Baghdad, truppe scelte sono sul campo, munite di attrezzature ed equipaggiamenti che si basano sulle più moderne tecnologie, ed i governi in carica di entrambi gli eserciti hanno di fatto sospeso le Convenzioni di Ginevra (in materia di trattamento di prigionieri ed imputati, lunga detenzione senza processo, distruzione di obiettivi civili, ecc.) Tuttavia sia Gaza che Baghdad si sono dimostrate una trappola fatale – sia a livello fisico che morale – per le forze di occupazione: entrambi gli eserciti si troveranno a dover affrontare in futuro la necessità di un ritiro, senza aver registrato vittorie decisive o definitive. Prima di far scoppiare una guerra in una grande area urbana caratterizzata da uno sviluppo incontrollato o in una baraccopoli, vi sono altri aspetti da considerare oltre a quelli specifici della regione che sarà il teatro delle operazioni: • la popolazione locale può essere organizzata in tribù o clan e la sua istintiva reazione ad attacchi o invasioni sarà motivata da concetti quali onore e vendetta; • la crescita esplosiva della popolazione è un fattore importante. Per lungo tempo Gaza ha registrato il più elevato tasso di crescita demografica del mondo, con un tasso di natalità pari a 6,8 bambini per donna in età fertile. La seconda intifada ha provocato 4mila morti – circa tre quarti palestinesi
ed il resto israeliani. Ma può il bilancio delle vittime – 3mila da una parte e mille dall’altra – essere comparato in termini di capacità delle rispettive popolazioni ai sostenerlo (e potremmo quasi dire «assorbirlo»)? Certamente no. • La plebaglia può ben essere matura per cadere vittima delle tentazioni del fanatismo religioso (islamico nel caso di Gaza e Baghdad) in quanto la vasta maggioranza è stata relegata in una situazione di povertà abietta. La promessa di un paradiso nell’aldilà è tanto realistica quanto la prospettiva di migliorare la propria esistenza attuale. • Una società può ben vivere di «economia parallela», che è in parte criminale (tratta di esseri umani, sostanze stupefacenti, veicoli, armi, ecc.). È chiaro che la violenza ed i conflitti che devastano le vaste aree urbane caratterizzate da uno sviluppo incontrollato e le baraccopoli riguardano non soltanto questi luoghi, bensì il mondo intero, ed innanzitutto quello sviluppato. Tutto ciò che abbiamo appreso sui territori e sulle entità pericolose dalla caduta del Muro di Berlino dimostra che il caos criminale, ovunque si manifesti, è virulento e contagioso. • L’Iraq è già diventato un centro di traffico criminale in Medio Oriente. • L’amministrazione palestinese indipendente e le forze di polizia, braccate e perseguitate dall’eser71
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Risk cito israeliano, sono scomparse consentendo al disordine criminale di prosperare su una scala tale che va ben al di là dei Territori indipendenti fino a coinvolgere la diaspora palestinese, l’intero Medio Oriente e ben oltre. Inoltre, lo stesso tipo di disordine sta iniziando a prendere piede negli insediamenti israeliani e nei territori occupati. Un recente rapporto del National Audit Office del governo israeliano ha rivelato l’esistenza di corruzione e di un crescente «indice di opacità» negli insediamenti, che sono i primi classici sintomi di una deriva verso la criminalità. È questa la realtà che a breve il mondo sviluppato si troverà a dover fronteggiare. Il caos criminale può ben essere meno sensazionale ed evidente del terrorismo mediatico di Bin Laden e dei terroristi suoi simili. Ma è proprio il caos criminale a costituire la vera minaccia sia per il mondo sviluppato che per il mondo in genere che, per potersi sviluppare, ha una necessità immensa e vitale di opporsi al caos promuovendo pace e stabilità. Nei Paesi in via di sviluppo gli eserciti occidentali lottano contro la guerra asimmetrica Al giorno d’oggi, il volto della guerra è cambiato. Dalla Pace di Westfalia fino alla caduta del Muro di Berlino, la guerra era un affare di stato, sotto tutti i punti di vista. È convinzione comune che l’apparato
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statale sia un sistema durevole, stabile e logico e sia pertanto ragionevolmente prevedibile. La sua opera può essere chiaramente individuata e compresa sulla base di concetti condivisi. Negli ultimi tre secoli, la macchina di stato ha affrontato i conflitti secondo principi e metodi radicati nelle strategie della guerra classica e tradizionale, sostenuta dal concetto di impegno ostile fra due stati sovrani considerati come singole entità. Questa impostazione è oggi superata. Queste opinioni della guerra sono l’equivalente della fisica newtoniana: di certo lasciavano spazio a fattori imprevisti ed a quantità sconosciute, ma l’impostazione complessiva era relativamente lineare, simmetrica e logica. Ma ritorniamo su questa arte ormai datata di guerra tradizionale. Nel dicembre 1914, le armate britannica e tedesca ingaggiarono l’una contro l’altra la prima battaglia navale della I Guerra mondiale, al largo delle coste delle isole Falkland. Scontri iniziali portarono all’affondamento di due incrociatori tedeschi, la Gneisenau (agli ordini del Capitano Hans Pochhammer) e la Scharnhorst (agli ordini dell’Ammiraglio von Spee). Tuttavia, quella sera stessa, a bordo della nave ammiraglia britannica, il Capitano della Gneisenau divideva a cena la tavola con l’Ammiraglio Frederik Sturdee (il capitano Hans Poshhammer era sia prigioniero di guerra che ospite a cena). Questo sistema ormai morto e sepolto ope-
rava una netta distinzione fra le forze controllate e monopolizzate dallo Stato ed il tipo di violenza al quale l’Europa aveva assistito fino alla seconda metà del Diciassettesimo secolo. Pertanto, per gli europei, la civiltà e l’ordine dipendevano chiaramente dal controllo della violenza: qualora quest’ultima avesse preso una piega incontrollabile, avrebbe causato la fine della civiltà. Oggi, tutto è cambiato, creando una situazione che alcuni visionari avevano previsto ben prima della Seconda guerra mondiale. Rivolgendosi ai pacifisti, lo scrittore francese Georges Bernanos ammoniva: «Un soldato in meno equivale a cento assassini in più».Pochissimo tempo dopo (dal punto di vista storico), la profezia si avverò: oggi, coloro che contribuiscono all’ascesa della violenza nel bel mezzo del caos mondiale – tribù guerriere e bellicose, famiglie «mafiose» e bande criminali, reti terroristiche e quel che resta di ex–eserciti, milizie e forze paramilitari guidate dai signori della guerra – sono instabili, incostanti e mutevoli ed è difficile (se non impossibile) prevedere le loro azioni. Andando ben oltre i confini del terrorismo puro e semplice, formano «assetti asimmetrici» complessi i cui ragionamenti – territoriali, settari o predatori – sono solitamente piuttosto oscuri. Decisamente dediti all’assassinio, ai rapimenti, alle intimidazioni ed ai ricatti, questi gruppi si alimentano di una miscela fatta di ingan-
il rapporto ni e fanatismo, sostenuta da dena- terreno solido prima di iniziare a ro sporco ed omertà. costruire; ci consente di gettare solide basi, definire concetti validi 2. Terrorismo: e forgiare i necessari strumenti la prospettiva francese intellettuali. Ciò che vorrei qui Tutte le forme note di terrorismo, presentare è un tentativo di sintesi senza eccezione alcuna (anarchi- di questo corpus di idee e di queco, rivoluzionario, nazionalista, sta esperienza. Ed allora che cosa terrorismo di stato, terrorismo si può apprendere dall’esperienza religioso, ecc. ) si sono manifesta- francese? te originariamente in Europa, un continente che, a partire dal Il campo d’analisi preliminare Diciannovesimo secolo, è stato Creiamo innanzitutto un quadro per anche la prima vittima di queste comprendere le minacce ed i peridiverse forme di terrorismo e con- coli che dobbiamo affrontare oggi: tinua ad esserne vittima. Se consi- ovviamente il terrorismo è il perideriamo soltanto il terrorismo colo più visibile, ma non è l’unico. islamico (sciita all’epoca) il primo Di fronte a un problema che contiattacco terroristico al di fuori del nua ad essere complesso, un primo Medio Oriente fu quello di Parigi passo importante è quello di elabonel dicembre 1985 che ferì 41 per- rare ciò che la filosofia classica sone. Soltanto in Francia, fra il europea definisce «campo d’analisi 1985 ed il 1996, circa 17 attentati preliminare» prima di avventurarci terroristici islamici portarono in un’osservazione diretta del fenoall’uccisione di 24 persone ed al meno stesso. Omettere questa fase essenziale ci condanna ad una proferimento di altre 500. Pertanto, esperti, magistrati, fun- spettiva di breve periodo soltanto, zionari dei servizi e forze di poli- facendoci osservare dal lato sbazia nei principali Paesi europei gliato del telescopio. In termini di hanno un notevole bagaglio di pericoli e minacce, la nostra società esperienza multidisciplinare, troppo frettolosa ignora, mette ai acquisita nel corso degli anni, per margini o trascura la prospettiva, il affrontare il terrorismo. Questa contesto nel quale si verifica un esperienza forma un corpus di determinato evento, ad esempio un idee che differiscono notevolmen- attentato terroristico. Tuttavia, la te da ciò che si può leggere ed nostra comprensione del fenomeno ascoltare dall’altro lato dipende dal «campo d’analisi prelidell’Atlantico. Ed è di cruciale minare» ove si verifica uno specifiimportanza poter disporre di un co atto. Quando un individuo non corpus di idee quando si affronta prende in considerazione questo un tale fenomeno: ci consente di «campo d’analisi preliminare», elaborare le nostre posizioni su un diventa preda di un attivismo scon-
siderato, proprio come un toro che reagisce istintivamente al drappo rosso. L’azione prende il posto del pensiero: nel caso di quell’individuo, la prassi precede la teoria o la soppianta persino. Che cosa è questo «campo d’analisi preliminare» nel quale possiamo inquadrare ogni fenomeno, ogni situazione che richiede riflessione? Ad esempio, la comprensione del concetto di tempo è essenziale per comprendere l’utilizzo dell’orologio, non il suo meccanismo, bensì la sua applicazione, il suo obiettivo finale. Pertanto il concetto di tempo come dimensione, come flusso misurabile, è il «campo d’analisi preliminare» che spiega l’orologio e gli dà significato. Lo stesso dicasi per tutto ciò che deve essere attentamente concepito e considerato. Nel nostro caso, il «campo d’analisi preliminare» è la conoscenza specialistica dei fenomeni criminali e terroristici: un’osservazione attenta della loro vera essenza, eliminando da questo campo tutti i pregiudizi, le illusioni, le rappresentazioni intellettuali datate, i miraggi, le fantasie, le manie e le fobie che nel loro insieme formano le «verità accettate», il «pensiero unico» della società dell’informazione. Individuare un fertile «campo d’analisi preliminare» vuol dire scavare le fondamenta ed utilizzarle per costruire un solido substrato di conoscenze sulla base della quale possiamo elaborare la nostra diagnosi. 73
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Risk Facciamo un primo esempio concreto: si fa un gran parlare a livello mondiale di questa entità nota come al Qaeda, ma qual è la sua vera essenza? Tutti sanno che la Ford è un’impresa industriale, il partito democratico è un partito politico e che la Citibank è un istituto di credito: ma che cosa è al Qaeda? Che quadro dovremmo utilizzare per analizzare e riflettere su questa entità? Questi interrogativi non devono essere ignorati o, peggio ancora, essere considerati come già noti, in quanto il successo o il fallimento delle successive azioni repressive dipende dalla possibilità o meno di rispondere ad essi in modo corretto o errato. Questo esempio dimostra la vitale importanza del «campo d’analisi preliminare», sostenuto in questo caso dai due seguenti temi fondamentali: 1. A che serve la logica di compilazione delle informazioni di fronte alle minacce reali del mondo attuale? 2. La corrente salafita–jihadista è religiosa, stabile e razionale? Oppure è politica, proteiforme e magica? La logica della compilazione serve ancora? L’esperienza ci insegna che è difficile, per non dire impossibile, combattere oggi contro entità terroristiche o criminali ostili – al di fuori del mondo occidentale in senso stretto – utilizzando la logi-
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ca della compilazione, vale a dire compilando gli elenchi di singoli individui o organizzazioni che devono essere catturati, eliminati o ai quali si deve impedire di salire a bordo di aerei. Nel mondo attuale, spesso il nemico non ha un’identità fissa o definita. Nell’analisi che segue mi concentrerò esclusivamente sul terrorismo islamico. In questo contesto, il primo passo da intraprendere per neutralizzare l’attuale corrente jihadista a livello mondiale è quello di individuarla. Va rilevato che: • la raccolta delle informazioni non equivale a pensiero: non possiamo mettere insieme una strategia efficace di lotta al terrorismo o alla criminalità organizzata semplicemente raccogliendo dati (segreti e non), anche se questi saranno poi elaborati per via informatica. Il motivo è che la base per la raccolta delle informazioni – vale a dire la programmazione informatica – non è l’essenza dell’entità oggetto d’analisi, bensì rispecchia i pregiudizi dei programmatori e delle istruzioni ricevute. Pertanto piani coraggiosi, sofisticati sistemi elettronici e capacità investigative all’avanguardia sono inutili se il pensiero di coloro che li escogitano o li programmano è errato. Pertanto la rete Echelon, ritenuta in grado di intercettare ogni giorno milioni di telefonate, fax ed e–mail in tutto il mondo, non ha consentito di scoprire i vari prepa-
rativi che hanno portato agli attentati terroristici dell’11 settembre 2001, per la semplice ragione che le parole chiave programmate all’interno del sistema, che avrebbero dovuto far scattare l’allarme, non erano adeguate. In una fase di aggregazione e fusione, in cui 12mila–15mila reduci arabi assuefatti e temprati a tutte le battaglie della jihad afgana stavano creando le loro reti, la strumentazione elettronica non era riuscita ad avere ferme indicazioni che consentissero di bloccare i terroristi prima che perpetrassero gli attentati dell’11 settembre 2001. Durante questa lunga fase preparatoria, che va dalla dichiarazione di guerra di Osama bin Laden (il 23 agosto 1996) fino all’11 settembre 2001 (più lunga di 5 anni ed un mese dell’intera durata della Prima guerra mondiale), l’enorme barriera elettronica che si supponeva proteggesse gli Stati Uniti non si è rivelata particolarmente utile. Questo punto tocca uno dei problemi principali, vale a dire quello dei guasti causati dall’attrito, dallo scontro fra vita di tutti i giorni e routine in ogni tentativo di analisi. Non è questa la sede per soffermarci su questo punto, ma è un problema che deve essere considerato e compreso, quale parte integrante della prospettiva volta a controllare le minacce ed i pericoli del mondo attuale. • La dimensione successiva è il tempo. Elenchi e liste nere, volti ad informare i funzionari e gli
il rapporto ufficiali interessati, sono aggiornati di volta in volta sulla base dei dati raccolti, in altre parole, sulla base degli eventi attuali. Ma ciò che definiamo attuale non è sempre al passo con la realtà. Per sua stessa natura, l’informazione non è utile per prevedere gli eventi. Ad esempio, nell’attività quotidiana degli esseri umani, nessuna operazione proattiva si basa sugli eventi attuali né su quanto viene riportato dai media. Come accade nel caso degli operatori di Borsa, quando il personale militare è chiamato ad agire sul campo ha bisogno di dati che siano effettivamente «in tempo reale», il che dimostra che l’informazione da un lato ed il tempo reale dall’altro hanno diversi ritmi cronologici. Da questo punto di vista, ci rendiamo conto di come la logica paralizzante ed inefficiente della compilazione mette chi la segue nella stessa condizione di un turista che programma un viaggio consultando una guida ormai obsoleta. Oggi gli Stati Uniti stanno combattendo due guerre su scala planetaria, vale a dire la «guerra contro la droga» e la «guerra contro il terrorismo». In entrambi i casi, la prima fase di ogni azione è quella di compilare elenchi e liste nere di «stati canaglia» e di specifici individui e gruppi. Alla fine del 2004 elenchi e liste nere tendevano a proliferare: esse contenevano i nomi di tutti coloro che operavano negli aeroporti statunitensi, qua-
lunque fosse la loro occupazione o il luogo in questione, e di tutti coloro che prendevano parte a crociere (sia equipaggio che passeggeri). Inoltre il servizio diplomatico statunitense chiedeva al resto del mondo di compilare elenchi di organizzazioni ed individui ritenuti pericolosi o ostili. La macchina repressiva o militare degli Stati Uniti cerca quindi di dare la caccia e snidare le organizzazioni ed i singoli individuati. Tuttavia, mentre la maggior parte dei terroristi che operava durante la guerra fredda aveva identità fisse e stabili ed i gruppi terroristici dell’epoca erano duraturi e «su scala umana», oggi non è più così. Non abbiamo forse semplicemente prolungato le curve senza debita riflessione? Non abbiamo trascurato di pensare alle condizioni della guerra al terrorismo o alla criminalità in un mondo mutevole e nebuloso, dove le carte d’identità sono sconosciute, e probabilmente impossibili da introdurre, data la situazione attuale nel mondo? Potrebbe essere, eppure le macchine continuano a compilare elenchi di: • organizzazioni fluide, proteiformi, cangianti, ibride, caleidoscopiche e persino senza vertice e guida; • individui che oggi emergono da società tradizionali, pre–moderne, claniche o tribali, e la cui identità è di filiazione o affiliazione, elusiva, sfocata, indistinta e variabile: individuale, certo, ma in alcun
modo personale (ad esempio, ali bin–Muhammad al–Bagdadi, Ali figlio di Muhammad da Baghdad). Lo stesso dicasi per le entità o i gruppi che rientrano nella sfera del terrorismo islamico. In questo caso, ad esempio, vi sono alcuni nomi generici (vale a dire «automobile» piuttosto che Ford) che si ritrovano frequentemente sia fra musulmani sunniti che sciiti e non fanno riferimento ad una struttura specifica: Jihad al-Islam: jihad islamica; Hizb Allah: Partito di Dio; Jamiat Islamiya (o Jama’a, Gamaa, Jemaah, ovvero variazioni dovute alla pronuncia o alla trascrizione): associazione islamica; Ansar al-Islam: compagni (del Profeta) dell’Islam; Jund Allah: soldati di Dio; Jund al-Islam: soldati dell’Islam; Jaish-i- Mujammad: esercito di Mohammed; Jaish al-Islam: esercito dell’Islam; Takfir wa’t Hijra: anatema ed Egira; Tawhid: unità, monoteismo assoluto. Comunque, il fatto che appaiano in elenchi e liste nere dimostra innegabilmente che la macchina repressiva e militare americana presuppone che l’identità delle entità o degli individui che si tengono sotto controllo nel mondo attuale siano stabili, durature e pertanto sfruttabili. Presuppone altresì che abbiano un nome permanente o un’identità fissa, come nel caso delle società occidentali. Pertanto la logica della compilazione presuppone come noti ed individuabili – una volta per tutte 75
il rapporto
Risk – entità e singoli individui che sono, al contrario, mobili e mutevoli. L’intera concezione che sottende questa logica è meccanica e fissa. Impedisce un’impostazione aperta e biologica (cellule, emersione, trasformazione, ecc) a gruppi ed entità viventi nella sfera del terrorismo islamico, vale a dire in un ambiente caotico, che comprenda la dimensione comportamentale e temporale di queste entità: ciò che questi individui ed entità tendono a fare abitualmente e più frequentemente, a che ora o in che periodo; cosa non fanno mai, ecc. La corrente salafita–jihadista è religiosa, stabile e razionale oppure è politica, proteiforme e magica? Nella situazione caotica venutasi a creare a seguito dell’abolizione dell’ordine mondiale bipolare, l’aspetto dominante del conflitto (per il momento) oppone la superpotenza mondiale, circondata da una coalizione a geometria variabile, ad un nocciolo duro di qualche migliaia di fanatici deterritorializzati. Questi fanatici sono convinti della loro legittimità metafisica e ritengono di agire per difendersi dall’aggressione – e sono pertanto convinti che la loro causa sia giusta. Vedono l’atteggiamento degli Stati Uniti in Palestina ed in Iraq come un vero casus belli. Se, da un lato, la natura politica della corrente salafita–jihadista è
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evidente, dall’altro il comportamento, la cultura ed il modus operandi di questa corrente sembrano essere ancora poco compresi da chi li combatte, dall’Afghanistan all’Iraq. Troppo spesso, questa corrente è vista come la nostra immagine al contrario: la vediamo come vorremmo che fosse. Non è né razionale né stabile; la sua sfera intellettuale, a differenza della nostra, non è affatto influenzata dalla cultura di gestione o marketing, anzi è proteiforme e magica. Esaminiamo alcuni casi concreti. Tanto per cominciare, alcuni funzionari ed ufficiali americani non conoscono bene il modo di pensare dei Salafiti. Ad un anno di distanza dall’11 settembre 2001, l’11 settembre 2002 l’America era in allarme. I voli commerciali erano vuoti. L’esercito, la Guardia Nazionale, la Marina, l’Aeronautica, la polizia ed i servizi avevano decretato la massima allerta, come riportato da tutti i media. Osama bin Laden avrebbe colpito ancora nell’anniversario del precedente attacco? Va rilevato che quando parla dell’11 settembre lo definisce il «giorno benedetto» (yom al–moubarak) senza fare alcun riferimento alla data effettiva. Si tratta di un caso, di una pura coincidenza? Niente affatto: per un Salafita della penisola araba, l’idea stessa di data non ha molto senso: nella cultura tradizionale beduina, il tempo esiste, ovviamente – le persone hanno gli orologi – ma il
concetto stesso di tempo è piuttosto diverso da quello dei Paesi cristiani. Feste comandate, un santo al giorno: la vita dei Cristiani è completamente contrassegnata ed inglobata in un calendario fisso. Per dirla in breve, a differenza del tempo occidentale che è lineare, quantitativo e sempre caratterizzato dall’urgenza e dal concetto di just–in–time, vi è un tempo tradizionale che è ciclico e reversibile, il cui orizzonte è quello della divinità: un tempo senza urgenza – anzi, in verità proprio il contrario – intriso di pazienza. Nel tempo tradizionale dei musulmani, il calendario è lunare e mobile: il mese del Ramadan cambia ogni anno. Nella penisola araba, patria di 19 dei terroristi dell’11 settembre, gli anniversari non vengono mai celebrati, né i compleanni di genitori o figli, né tanto meno gli anniversari di matrimonio o di altri eventi importanti. I salafiti ritengono persino che sia un’eresia celebrare l’anniversario del Profeta, sebbene altre correnti religiose lo facciano. Ma andiamo oltre: quando l’America ufficiale e le sue grandi reti televisive parlano di al Qaeda o degli insorti iracheni, li descrivono come un nemico stabile, riconoscibile ed individuabile: un’organizzazione, un leader, un obiettivo. La corrente jihadista viene descritta come un’organizzazione simile all’Ira, con un Consiglio militare, uno Stato
il rapporto maggiore ed Abu Musab al Zarqawi nel ruolo di Capo del Comando della Brigata di Baghdad. Tuttavia, la corrente jihadista è tutt’altro che stabile e razionale. Al contrario è cangiante, intermittente, camaleontica. Anche se i wahabiti ed i salafiti rifiutano la loro eredità sufi, un migliaio di anni di prassi segrete ed esoteriche, di fratellanze invisibili e di percorsi d’iniziazione indistruttibili (tanqas) hanno conferito a questi militanti ed attivisti una forte predilezione per la cospirazione, la segretezza, la clandestinità e la capacità di far perdere le loro tracce. In Asia centrale e nel Caucaso, persino la polizia segreta di Stalin non è mai riuscita a smembrare i tanqas, che sono riemersi intatti intorno al 1990 dopo settant’anni di ateismo di stato, gulag, torture ed esecuzioni sommarie. E non dimentichiamo che Ayman al Zawahiri era un importante sceicco sufi nel suo natale Egitto. Tanto per introdurre quelle che saranno le mie successive osservazioni, vorrei citare l’esempio di un importante protagonista del caos islamico–tribale afgano, il capo tribù, il condottiero della lotta pashtun, Gulbuddin Hekmatyar (della tribù Ghilzai). Potrebbe vantare il titolo di campione di tutte le categorie combinate del Guinness dei primati. Dal giugno 1993 al giugno 1994, Hekmatyar fu primo ministro a Kabul. Al contempo, la sua milizia, l’Hizb
e–Islami, si era alleata con l’Hizb e–Waddat di un altro signore della guerra, Abdulrachid Dostom (leader degli uzbechi d’Afghanistan), e stava assediando e bombardando Kabul, sede del governo guidato da Hekmatyar stesso. Inoltre, l’incredibile doppio gioco di Hekmatyar nel 1994 non è un caso isolato nella regione.
Dal marxismo-leninismo intransigente ai talebani Nel 1992, Ahmed Shah Massoud si impossessò di Kabul. Il regime comunista afgano crollò e Mohammed Najibullah fu sconfitto e scomparve dalla scena. Ma che cosa ne fu dei generali pashtun dell’ex–Armata Rossa afgana e del Kgb afgano, il Khad, sia della fazione Khalk (favorevole ai comunisti cinesi) che dell’ala Parcham (pro–sovietica)? Dal 1990 al 1992, questi marxisti–leninisti intransigenti si trasferirono al servizio del palesemente salafita Gulbuddin Hekmatyar (dopo essersi fatti crescere la barba). Fondamentalmente erano tutti pashtun e nei tempi duri la fratellanza tribale è una certezza – ancor più certa della religione che spesso ossessionava gli occidentali. Tanto per citare alcuni esempi: • il comandante in capo dell’artiglieria dell’Armata Rossa afgana, il generale Shahnawaz Tanai, finì per allearsi con Hekmatyar nel 1990 e nel 1995 si unì ai talebani; • il capo talebano Mullah Barman
(ormai scomparso) era in realtà l’ex–generale comunista Turan Abdurrahman; • i capi dei servizi segreti talebani, Shah Sawar e Mohammed Akbar, erano ex–membri di spicco rispettivamente dei servizi dell’Armata Rossa afgana e del Khad; • Mohamed Gilani, generale in capo dell’Aeronautica talebana, proveniva anch’egli dall’esercito comunista. Dall’ottobre 1991 ad oggi, la missione di scovare Osama bin Laden ed il Mullah Omar è stata affidata a camaleonti simili – o agli stessi camaleonti – con i risultati che tutti conosciamo.
Dal salafismo intransigente agli affari col nemico Dal 1996 all’autunno 2001 i Talebani controllavano il 90 percento dell’Afghanistan. Sfuggivano al loro controllo soltanto due enclaves nel nord del Paese: una popolata dagli uzbechi e l’altra dai Tajik, partner della traballante Alleanza del Nord. Il fortino tajiki era nella valle del Panjshir, protetto da alte montagne interrotte soltanto da alcune gole. I “cattivi” talebani crearono un vero e proprio blocco per opporsi ai “buoni” Tajik, il cui capo e condottiero in battaglia era Shah Massoud, l’icona favorita della stampa occidentale: entrambe le parti combattevano apparentemente una guerra spietata. Tuttavia, attraverso l’intero “bloc77
il rapporto
Risk co”, i talebani stessi rifornivano la Valle di Panjshir tramite carovane giornaliere di centinaia, persino migliaia di asini carichi di generi alimentari, combustibile, beni primari e pezzi di ricambio. Tutti i testimoni sono categorici al riguardo: non si trattò né di un’iniziativa locale, né di un traffico portato avanti all’insaputa dei capi del «blocco», né di volontà di chiudere gli occhi: si trattò di un sistema particolarmente sofisticato. Ciascun asino veniva tassato 10 dollari Usa per ciascuna «andata e ritorno». Soltanto al valico di Giobah, un testimone vide 500 asini in fila in un’unica carovana. Il volume di questo commercio era così grande che il testimone ammirato descrisse i talebani come «sensibili e con un vero fiuto per gli affari». Per riassumere, in base ai criteri occidentali, da una parte vi sono i «cattivi» e dall’altra i «buoni». I giornalisti ci deliziano con i resoconti del fanatismo e della ferocia dei primi e della moderazione e modernità dei secondi. Tuttavia, dietro le quinte, i «buoni» ed i «cattivi» condividono i proventi dei loro traffici. Ed i soldi corrisposti all’Alleanza del Nord finiscono in parte – ed ovviamente all’insaputa degli ingenui sostenitori e finanziatori – nelle tasche del Mullah Omar e degli “Arabi–Afghani” di Osama bin Laden. Ma questi piani hanno una qualche importanza? Ne hanno moltissima e la riprova può essere fornita senza indugio: 78
nell’ottobre 2001, quando gli Stati Uniti sferrarono il loro attacco in Afghanistan ed affidarono il compito di catturare Osama bin Laden, il Mullah Omar ed i Talebani, e la leadership di al Qaeda ai «combattenti della libertà» dell’Alleanza del Nord, la caccia fu un fallimento completo. Ma perché dovremmo sorprendercene? Si può «tradire» un compagno, un complice?
3. La mafia: una grave minaccia finanziaria I mezzi di comunicazione (principali quotidiani, riviste, ecc.) sembrano decisamente dediti a scrivere lo stesso articolo infinito sulla mafia. Nonostante quanto noto e dimostrato dagli esperti legali, da accademici ed esperti di polizia, anno dopo anno, l’opinione dei media è che la mafia stia morendo e presto scomparirà del tutto. Sono decine gli articoli titolati con L’ultimo Padrino. Commentando negli Stati Uniti la mafia italiana, dal 1930 il New York Times ha costantemente parlato dell’ «ultimo padrino». Il 29 marzo 2004, la rivista Time mise questa immagine trita e ritrita in copertina. La stessa settimana, Joseph «Big Joe» Massino (Il Grande Joe), capo della famiglia mafiosa di New York Bonanno, fu condannato all’ergastolo. Titolando L’Ultimo Don, la rivista dedicava sette pagine alla notizia e divagava raccontando nell’articolo di come la famiglia Bonanno
sarebbe scomparsa a breve, insieme alle altre quattro «famiglie» mafiose della città. Il 23 novembre 2004, Le Monde pubblicava un articolo a tutta pagina sul presunto padrino di Marsiglia, Jacky Le Mat. Non sorprende il fatto che l’articolo fosse intitolato Le dernier caïd (L’ultimo boss). Tuttavia, la famiglia Bonanno, che ha resistito ininterrottamente dagli anni ‘20, è sopravvissuta a decine di altre disavventure di questo tipo e continua a sopravvivere. In un’impresa criminale che non conosce sosta, la perdita di un capo non è che una piccola battuta d’arresto. Ne è prova il fatto che lo stesso giorno che Massino fu condannato, Little Italy già conosceva il suo successore: Vincent “Vinnie Gorgeous” Basciano (Vinnie il bello), capo della gang del Bronx della famiglia Bonanno, fu nominato immediatamente per sostituire Massino e portare avanti gli affari di famiglia che avevano prosperato sotto il suo regno. Quando anche Basciano cadde in disgrazia, nel novembre 2005, aveva già nominato suo successore il trentacinquenne Salvatore “Sal the Ironworker” Montagna (Sal, l’operaio siderurgico). E la storia continua. Le famiglie criminali di New York sono ancora in affari, vive e vegete. Una nota Fbi del marzo 2004, al quale la rivista Time potrebbe aver avuto facilmente accesso, afferma che le cinque famiglie comprendevano 570
il rapporto membri a pieno titolo nel gennaio 2001…e 650 nel gennaio 2004. Nel 2003, le 5 famiglie avevano iniziato agli «affari» 94 nuove “reclute”. Una mossa insolita per un’organizzazione che presumibilmente stava «scomparendo». Purtroppo, insistendo ripetutamente sulla sconfitta del crimine organizzato – con gran divertimento e soddisfazione della mafia – i media riescono soltanto a far cullare l’opinione pubblica in un falso senso di sicurezza ed a rendere la polizia meno attenta e vigile. Perché temere la mafia se è ormai in via di estinzione? Che motivo c’è di preoccuparsi di un’organizzazione criminale che sta scomparendo? Perché adottare costose precauzioni per opporsi e combattere una minaccia che a breve non esisterà più?
La mafia ed i traffici mondiali su vasta scala: gli stupefacenti In totale, i trafficanti di droga hanno in tutto il mondo 216 milioni di “clienti”. Nonostante questo traffico sia il più diffuso e quello che attira maggiormente l’attenzione dei mezzi di comunicazione, non è l’unico tipo di flusso illegale promosso e controllato dalla criminalità organizzata transnazionale.
Gli esseri umani Il Rapporto 2004 dell’Europol sulla situazione della criminalità organizzata sottolinea che: «La complessità dell’azione intrapresa per trasferire grandi gruppi d’indi-
vidui in alcuni Paesi richiede un grado di organizzazione e di sofisticazione che può essere soddisfatto soltanto dai gruppi della criminalità organizzata». Fra i protagonisti del traffico internazionale di esseri umani nell’Unione Europea vanno annoverati la mafia italiana, albanese e turca, le triadi, il sottobosco criminale serbo e croato, nonché le bande nigeriane. Avendo creato un’efficace rete intercontinentale di cooperazione, queste organizzazioni criminali sanno come fare pressione sui leader europei quando si tratta di tematiche quali quelle della richiesta d’asilo e dell’«esclusione». Il traffico di esseri umani è giunto ai massimi negli anni 1990 e continua a crescere senza sosta. Alla Conferenza sull’alleanza mondiale contro la criminalità organizzata internazionale (marzo 2002), Grenville Cross, il direttore della Procura di Hong Kong, stimava che questo traffico vedesse il coinvolgimento di quattro milioni di persone all’anno e generasse proventi pari a sette miliardi di dollari. D’altro canto, l’Interpol stima proventi pari a 17 miliardi di dollari ed un numero di vittime pari a 25 milioni, con un milione di donne e bambini vittime ogni anno dello sfruttamento sessuale.Nel mondo, 25–27 milioni di individui sono vittime della schiavitù, con un numero di vittime di queste commercio mondiale che oscilla fra 700mila e 4 milioni di
persone (sulla base di specifiche categorie e metodi di calcolo): il 95per cento sono donne, adolescenti e bambini che ogni anno si trasformano in «merce umana» a fini di prostituzione (furto, questua, ecc.) Per quanto riguarda i flussi in arrivo in Europa, questo tipo di traffico colpisce 200mila–500mila persone l’anno (ivi compresi 120mila dai Balcani e 50mila dall’ex–Unione sovietica). Soltanto in Francia, secondo l’Ocrtech (Ufficio centrale per la repressione del traffico di esseri umani) vi sono 15mila–18mila prostitute, di cui quasi il 90 percento provengono da altri Paesi e che nel 2004 hanno generato proventi (vale a dire profitti netti) pari ad almeno 1,5 miliardi di euro ed in media 3,3 miliardi di euro per i loro sfruttatori. Si stima pertanto che uno sfruttatore che controlla cinque prostitute possa pertanto contare su profitti netti pari a 500mila euro l’anno, che sono più che sufficienti per investire nel traffico di droga su larga scala. Con questi proventi, i criminali possono acquistare 12 chili di eroina pura in Turchia e aspettarsi di poter ragionevolmente incrementare la loro quota iniziale di 10 volte tanto in appena pochi mesi. Le armi «leggere» Secondo le statistiche delle Nazioni Unite, vi sono circa 640 milioni di armi di piccolo calibro ed artiglieria leggera nel mondo, 79
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Risk fra i quali vanno annoverate armi da fuoco, pistole mitragliatrici, fucili d’assalto, bombe a mano, lanciabombe, granate, mine, ecc. L’invasione di armi deriva principalmente dal traffico illegale, con un valore stimato di mercato superiore ad un miliardo di dollari l’anno. Gli effetti sono devastanti al punto che le uniche reali «armi di distruzione di massa» effettivamente utilizzate nel mondo sono in fondo queste stesse armi «leggere». Tanto per citare alcuni esempi: • la sanguinosa guerra tribale nella Repubblica democratica del Congo (ex–Zaire) ha provocato 3,3 milioni di morti fra il 1998 ed il 2003; sebbene la maggior parte fosse causata da epidemie e carestia, il 15 percento almeno erano causa diretta di combattimenti, assassini e massacri perpetrati utilizzando artiglieria leggera (per un totale di 500mila morti in quattro anni). • In termini più generali, le Nazioni Unite stimano che nel mondo le armi leggere illegali siano la causa di circa 500mila morti l’anno (a causa di conflitti locali, assassini, suicidi, ecc.), vale a dire 57 morti l’ora. La contraffazione • I medicinali contraffatti costano all’industria farmaceutica mondiale 30 miliardi di euro l’anno, che rappresentano circa il 10 percento dei proventi totali (Jean–François Dehecq, ammini80
“CLIENTI” MONDIALI DEI TRAFFICANTI NEL 2005 (FONTE UNODC) Tipo di droga
2000
2005
Cannabis
circa 144 milioni
circa 150 milioni
Anfetamine + ecstasy
circa 29 milioni
circa 38 milioni
Cocaina, crack, ecc.
circa 13 milioni
circa 13 milioni
Oppiacei (eroina, ecc.)
circa 13,5 milioni
circa 15 milioni
stratore delegato della Sano fi–Aventis). • Nel mondo, la contraffazione e la pirateria sono causa di perdite annuali per chi ne è vittima pari a circa 500 miliardi di dollari.
Mafia e criminalità finanziaria Le ricerche in tema di riciclaggio di denaro sporco sono effettuate a seconda delle necessità dei mercati finanziari. Questi studi sottolineano i metodi di riciclaggio noti agli esperti e le scappatoie che consentono ai proventi del traffico di droga di infiltrarsi nel mondo della finanza legale. Pertanto è comprensibile che la principale preoccupazione dell’industria finanziaria siano le modalità con le quali viene riciclato il denaro sporco. Tuttavia, sembra si tenda a non considerare chi sono coloro che effettuano il riciclaggio. Al di là delle considerazioni morali, non vi è nulla in questi studi che descriva in dettaglio le caratteristiche e le attività di coloro che sono dediti al riciclaggio. Eppure individuare chi ricicla e con quali modalità, è alla base di ogni tentativo volto a combattere questa
pratica. Così come la diagnosi medica è determinante per affrontare la malattia, soltanto l’identificazione può fornire un mezzo per prevenire le operazioni di riciclaggio di denaro sporco. Trascurare questa impostazione può soltanto portare a reazioni pigre e risposte fiacche, condannando pertanto ogni strategia ad essere soltanto «una lotta tardiva». Le conoscenze specialistiche su chi ricicla («conoscere il nemico») e la micro–economia criminale sono fattori cruciali per vincere questa guerra. E allora chi ricicla denaro sporco? Esaminiamo le diverse categorie. Per lo più, le ingenti somme coinvolte (anche se solo stimate) sono riciclate da grosse organizzazioni criminali transnazionali. Da un punto di vista classico, il riciclaggio di denaro sporco è un’attività tipicamente attribuita alla criminalità organizzata. Se paragonato ai proventi derivanti soltanto dal traffico di sostanze stupefacenti, il denaro sporco gestito dai cosiddetti «colletti bianchi» della criminalità, da politici e funzionari pubblici e dai loro simili è di entità insignificante. Tanto per fare un esempio recente,
il rapporto si può ricordare che ogni mese circa 10 tonnellate metriche di eroina attraversano la «Rotta dei Balcani», che va da Istanbul all’Unione Europea. Tramite questi canali, ogni tonnellata metrica venduta all’ingrosso dalla mafia porta a profitti netti minimi di 50 milioni di dollari. Ed il contrabbando di eroina è ben lungi dall’essere l’unico forma di traffico di sostanze stupefacenti (altri comprendono cocaina, anfetamine, ecstasy, cannabis, ecc. ). Le grosse organizzazioni criminali si riempiono le tasche anche grazie alla pirateria sul mercato dei beni di consumo, grazie al traffico di esseri umani, di armi militari illegali e di materiale illustrativo, alla contraffazione, al contrabbando ed altre attività analoghe. Per quanto riguarda i terroristi, essi non «riciclano» denaro sporco. Al contrario, di solito utilizzano «denaro pulito» proveniente da contributi, raccolte, beneficenza, donazioni, ecc. e lo trasformano in denaro sporco, utilizzandolo per finanziare operazioni criminali (attentati terroristici, ecc.). Inoltre la quantità di denaro che viene «sporcato» dai terroristi è niente rispetto alle ingenti somme gestite dalla criminalità organizzata. Un esperto finanziario della Prefettura di polizia di Parigi ha stimato che la campagna di attentati dinamitardi portata avanti dal Gia algerino nella primavera del 1995 a Parigi è costata meno di 100mila franchi francesi (circa 20mila dol-
lari) e la fabbricazione della bomba che devastò la stazione del Metro di Saint–Michel è costata soltanto 680 franchi francesi. Appare ormai chiaro che la preparazione e l’esecuzione degli attacchi dell’11 settembre a New York ed a Washington sono costate meno di 500mila dollari. Pertanto il denaro sporco non proviene dai terroristi, bensì da elementi corrotti della società civile. La maggior parte del denaro riciclato in tutto il mondo viene «ripulito» dalla criminalità organizzata, che poi lo reimmette nell’economia legale per trarne benefici senza rischi o vincoli. In prima linea per queste attività di riciclaggio c’é la mafia che – non esitiamo a dirlo – forma l’«aristocrazia» della criminalità organizzata, sia in senso di “élite” criminale che di società duratura, fortemente radicata e permeata di un vero talento per la stabilità. Pertanto combattere efficacemente il riciclaggio di denaro sporco implica comprendere queste organizzazioni criminali fondamentali, studiarne i metodi e gli «stratagemmi» utilizzati per guadagnare, gestire, riciclare e recuperare il denaro sporco.
4. Allerta e individuazione rapida Per quanto vaghi, indistinti e talvolta incoerenti, i principali Paesi e le coalizioni a livello mondiale hanno una visione comune dei pericoli reali del mondo moderno
che oggi ci minacciano davvero tutti. Questo è un elemento positivo. Esaminiamo quattro testi importanti, tutti pubblicati fra il 1999 ed il 2003, che formano la base del nostro pensiero in materia: Il concetto strategico dell’Alleanza Atlantica (1999); il comunicato finale del Vertice di Praga (Nato, 2002); La Strategia di Sicurezza Nazionale (Stati Uniti, 2002); La Strategia di Sicurezza europea (Unione europea, 2003). Tutti questi testi sottolineano le stesse evidenti minacce: terrorismo, proliferazione delle armi di distruzione di massa, conflitti regionali, stati man mano sempre più deboli e criminalità organizzata. Dicono tutti più o meno le stesse cose, che si possono ritrovare in questo brano della Strategia di Sicurezza Europea: «La combinazione di tutti questi elementi – vale a dire un terrorismo fermamente risoluto ad utilizzare al massimo la violenza, l’accesso alle armi di distruzione di massa, la criminalità organizzata, l’indebolimento del sistema statale e la privatizzazione della forza – potrebbe esporci ad una minaccia estremamente grave». I principi Le minacce che gravano oggi sul mondo possono essere efficacemente comprese, contrastate e superate utilizzando il metodo dell’allerta ed individuazione rapida. L’utilizzo di queste tecniche è 81
il rapporto
Risk oggi di vitale importanza, per tutta una serie di ragioni: • l’ordine mondiale è andato in frantumi. Concepito dopo la Seconda guerra mondiale, è durato fino alla fine del Ventesimo secolo. Tuttavia, gli Stati Uniti sono oggi alla ricerca di una politica unilaterale da perseguire; le Nazioni Unite e l’Unione Europea appaiono deboli e la posizione della Nato non è chiara. Inoltre stiamo assistendo allo scioglimento di tutta una serie di accordi e partenariati internazionali, che erano stati inizialmente sottoscritti per combattere il comunismo tramite una stretta collaborazione volta a prevenire alcuni attacchi ed a mitigarne altri. Considerato che oggi queste strutture stanno man mano cadendo a pezzi, nuovi attacchi – sia di tipo terroristico che criminale – colpiranno l’Europa molto più rapidamente ed arrecheranno maggiori danni. • Durante la guerra fredda, le minacce al mondo occidentale erano tutte pesanti, stabili e lente, ivi compreso il terrorismo. Al contrario, oggi i gruppi pericolosi in tutto il mondo appaiono caotici, volatili, irrazionali e, talvolta, improvvisi. Possono essere effettivamente devastanti e devono essere intercettati e neutralizzati il prima possibile. Pertanto, all’alba del Ventunesimo secolo, l’allerta e l’individuazione rapida rivestono cruciale importanza, ma non possono comunque bastare: l’unica azione veramente 82
utile in questo settore è il lavoro intrapreso da coloro che si rendono conto che ciò che non abbiamo visto, ciò che ci siamo rifiutati di riconoscere, ciò che abbiamo trascurato e ciò a cui non abbiamo creduto, costituiscono oggi una vera minaccia. Pertanto come dovremmo considerare le minacce reali nel mondo attuale? Il terrorismo e la criminalità organizzata sono fenomeni solitamente analizzati in un quadro concettuale ristretto. Il terrorismo era tradizionalmente visto come un fenomeno isolato, limitato e che poteva essere misurato e controllato. La vecchia impostazione alla criminologia considerava la criminalità come un singolo fenomeno psicologicamente o socialmente spiegabile o persino giustificabile. Dalla fine della guerra fredda, il terrorismo e la criminalità organizzata sono mutati, hanno raggiunto dimensioni mondiali e si sono tramutati in fenomeni ibridi a tal punto che vanno di gran lunga al di là dei metodi di controllo ristretti, statici e retrospettivi utilizzati in passato. Un’impostazione dinamica, geopolitica e di previsione è oggi il quadro più adatto per analizzare e comprendere queste minacce. Attingendo ad un quadro ed a concetti che si basano su allerta e prevenzione rapide e proattive, una miscela innovativa di geopolitica e criminologia fornisce gli strumenti cognitivi per una tale impostazione.
Come metterli in pratica Come ripetutamente chiarito in precedenza, scoprire il prima possibile eventuali entità o attività potenzialmente pericolose riveste un’importanza cruciale, ben a monte rispetto alla raccolta di informazioni in formato elettronico e persino di informazioni a livello umano, con l’idea di indirizzare con maggiore precisione le attività di «intelligence», portandole ad avere un loro effetto sugli obiettivi rilevanti già in una fase preliminare. Questo lavoro di indagine e scoperta è quasi del tutto concettuale, non richiede enormi mezzi materiali e pur tuttavia « acuisce» ed affina enormemente i sensi degli operatori dei «servizi» allertandoli ed informandoli. Analizziamo i principi e le principali direttrici di questo metodo di lavoro. L’allerta ed individuazione rapida dei pericoli reali del mondo attuale sono un po’ come la medicina preventiva. Forniscono le seguenti capacità: • in primo luogo, la capacità di individuare e successivamente eliminare le apparenze superficiali, vale a dire avere accesso a ciò che è reale; • in secondo luogo, la capacità di effettuare una diagnosi rapida e tempestiva; • infine, la capacità di agire prontamente con precisione ed autorità. Dove indagare e scoprire? Cosa e come? In questo caos mondiale,
il rapporto un’impresa multinazionale o uno stato è come una jeep su una strada non asfaltata, che va di gran carriera su una strada rocciosa con curve e curve a gomito impreviste. Dove si trova il punto sensibile e delicato? Un ben noto detto americano afferma che si trova «dove la gomma incontra la strada». Questo è il punto che controlla la rotta, la direzione, il punto in cui la jeep tiene la strada ed evita di capovolgersi. Anche per un’impresa multinazionale o uno stato, lo scambio cruciale, il pericolo estremo si trovano dove la gomma incontra la strada. È lì che dobbiamo stare, quel millesimo di secondo prima di ciò che deve essere previsto, dove dobbiamo raddrizzare la ruota ed evitare l’ostacolo. Ed è tutta una questione di riflessi, altrimenti la jeep rotola giù o anche peggio. Ecco perché sono utili l’allerta e l’individuazione rapida, è questo il loro obiettivo. Pertanto l’allerta ed individuazione rapida sono una procedura originale, la decisione di seguire una certa strada. In un mondo caotico nel quale l’attacco è inaspettato e l’avversario impalpabile, l’allerta e l’individuazione rapida delle minacce significano ricercare l’illuminazione, non dietro di noi (nel passato), ma davanti a noi (nel futuro): «All’alba, vediamo la luce del giorno che deve ancora venire». L’allerta e l’individuazione rapida sono l’osservazione specialistica ancorata nel futuro del ger-
moglio, non dell’albero ormai cresciuto. In uno spazio caotico, coloro che agiscono in ritardo o col senno del poi hanno già perso. Prolungare le curve è inefficace. In un simile mondo, vincere vuol dire necessariamente prevenire gli eventi. Dobbiamo decidere non guardando al passato, bensì al futuro che verrà. Per gli esperti e gli accademici europei, che operano nel settore della geopolitica e della criminologia, questa politica di individuazione rapida delle minacce che emergono dal caos che regna nel mondo costituisce il nostro obiettivo ultimo: fornire ai leader politici ed agli esperti dei media un’analisi in tema di difesa e sicurezza, mezzi concettuali per percepire e successivamente diminuire il caos, secondo una logica di «limitazione–consolidamento–sta bilizzazione».
Conclusioni Quando si tratta di minacce, la società dell’informazione può ancora elaborare diagnosi serie o è condannata a intimidire ed esprimersi in modo violento? È questo un punto cruciale. Oggi gli esperti mondiali in tema di minacce e pericoli, su entrambe le sponde dell’Atlantico, non operano nel vuoto. Viviamo in una società le cui principali caratteristiche non sono particolarmente strumentali ai compiti di difesa e sicurezza. Basta guardare per un’ora la televisione: la nostra
società è instabile, superficiale, interessata principalmente alla soddisfazione impulsiva ed immediata dei propri desideri. Questa società impaziente, per certi versi simile ad una pentola a pressione, è prigioniera di un eterno presente, prigioniera della miopia, dell’urgenza cronica, della fretta, del just–in–time, della lotta continua ed incessante. È una società in cui le folle tendono a comportarsi come banchi di pesci. Tale società è vulnerabile allo sfruttamento ed alla manipolazione. Pertanto, ciò è fonte di preoccupazione per tutti gli esperti nel campo della sicurezza e della difesa. Qual è il nostro peso reale, in una società che è così permeabile agli slogan, al gergo ed alle vecchie teorie dei media, così facilmente affascinata dai vari pifferai magici? A mo’ di monito ai nostri politici francesi, un eminente economista francese, premio Nobel per l’economia, dichiarava alcuni anni fa: «Vi è una forma di frode che viene denunciata raramente che, per i circoli ufficiali, consiste nell’occultare deliberatamente fatti che potrebbero probabilmente mettere in discussione verità comprovate e nell’opporsi alla loro pubblicazione…non vi sono e non possono esservi altri criteri di verità di una teoria se non i suoi accordi più o meno perfetti con i fenomeni concreti». Tuttavia, da allora, questa cattiva abitudine di nascondere o deformare i fatti si è effettivamente diffusa su entram83
il rapporto
Risk be le sponde dell’Atlantico. Prendiamo, ad esempio, la «guerra mondiale al terrorismo» e l’escalation che ha portato alla guerra in Iraq: possiamo osservare che molte delle rivelazioni iniziali, ed anche quelle più sensazionali, si sono successivamente rivelate infondate e persino fittizie, forse anche deliberatamente fittizie. Cosa possono fare gli esperti in un mondo dominato dalle sfuriate e dai discorsi minacciosi, dai lanci pubblicitari dei media, dalle montature giornalistiche basate su affermazioni generiche e non suffragate dai fatti, dagli attacchi personali e dalle campagne diffamatorie contro chi contraddice il pensiero ufficiale? Ben poco. Queste pratiche nefaste non si limitano soltanto al campo della sicurezza e della difesa, ma oggi contaminano anche tutti i campi nei quali l’uomo comunica. Viviamo in un mondo in cui la falsificazione fraudolenta delle analisi è sempre passibile di gravi procedimenti penali, in medicina ad esempio, dove questa falsificazione può riguardare la vita di un singolo individuo. Tuttavia, nel campo politico e della comunicazione, dove la falsificazione riguarda milioni di individui, non vi è questo tipo di reazione. E le prime vittime di questa propaganda e di queste montature sono i veri esperti, che i tornado mediatici cacciano dai centri del potere (politico e mediatico) sia nel caso 84
della New Economy che in quello della «guerra mondiale al terrorismo» e della guerra in Iraq. Il fatto che, sulla base di pressioni politico–mediatiche, i ciarlatani o i bugiardi prendano il posto dei veri esperti è uno dei più gravi problemi che il mondo sviluppato si trova oggi a dover affrontare. Le conseguenze di questa situazione sono attualmente gravi e lo saranno ancor più in futuro qualora questa situazione persista. Pertanto che cosa dovremmo fare in questa situazione? Essere realistici. Affrontare con serietà i fatti. In breve, vi sono due settori nei quali dobbiamo prendere una posizione: 1. gli strenui sostenitori dell’economia di mercato e chi crede in una positiva e felice globalizzazione vedono le manifestazioni terroristiche o criminali del mondo moderno come piccole grane senza importanza che inceppano il motore o come piccole avarie e intoppi, malfunzionamenti accidentali fastidiosi, ma poco importanti. Al contrario, noi riteniamo che queste manifestazioni terroristico–criminali del caos mondiale porteranno, se ignorate, ad un’anarchia internazionale che paralizzerà l’economia mondiale. Dobbiamo forse ricordare che il prezzo del petrolio era di 20 dollari al barile prima dell’11 settembre e che da allora il suo prezzo è lievitato? E dobbiamo considerare la grande criminalità organizzata internazionale una
minaccia certo oscurata dal terrorismo, ma di crescente gravità. Basti soltanto citare una cifra che è sicuramente importante per noi europei: la quantità di eroina contrabbandata in Europa occidentale lungo la “Rotta dei Balcani” è passata da due a tre tonnellate metriche al mese nel 2001 a 8–10 tonnellate metriche al mese alla fine del 2005. 2. Dobbiamo considerare le minacce attuali e quelle emergenti nel mondo reale nella loro interezza. La pratica politico–mediatica di riportare soltanto spezzoni di brani e discorsi, taglia la vasta e complessa realtà del crimine in singoli pezzettini; ci condanna a guardare dal lato sbagliato del telescopio. Concentrarci esclusivamente sul terrorismo, ad esempio, in seno a questo magma criminale caotico, ci condanna a non comprenderlo affatto. Al contrario, dobbiamo guardare e considerare nel suo complesso questa sorta di continuum caratterizzato da criminalità organizzata e terrorismo; non dobbiamo separare i vari aspetti della stessa cosa. Tutte le nostre osservazioni giungono alla conclusione che esiste un fenomeno reale di vasi comunicanti fra i diversi protagonisti di questo caos mondiale e che questi ultimi: • hanno armonie comuni; • frequentano terre e territori comuni; • hanno un’economia comune (sommersa);
il rapporto • offrono opportunità reali di simbiosi, nonostante abbiano diversi sistemi biologici. Pertanto, per utilizzare un concetto precedentemente descritto, queste minacce devono essere consi-
Attacchi terroristici islamici in Francia, 1985-1996 (nei quali si sono registrati morti o feriti)
1985-86: Attentati rivoluzionariislamici, sciiti libanesi ed Iran islamico Dicembre 1985 Bombe in due grandi magazzini di Parigi, 41 feriti; Febbraio 1986 (Parigi, 3 febbraio) Bomba in una galleria commerciale dell’VIII arrondissement, 8 feriti; (Parigi, 4 febbraio) Bomba in una libreria del V arrondissement, 3
derate nel loro complesso, dall’osservatorio privilegiato e dalla posizione di forza dello stesso «campo d’indagine preliminare». Soltanto così potremo uscire dalla cultura della reazione, dello sguar-
feriti; (Parigi, 5 febbraio) Bomba in un centro commerciale nel I arrondissement; Marzo 1986 (17 marzo) Bomba sul treno Parigi-Lione, 10 feriti; (Parigi, 20 marzo) Bomba in una galleria commerciale nell’VIII arrondissement, 2 morti e 28 feriti; Settembre 1986 (8 settembre) Bomba al Municipio di Parigi, 1 morto e 19 feriti; (12 settembre) Bomba in un supermercato della periferia di
do retrospettivo e della compilazione. Solo così potremo arrivare alla fase del pensiero orientato al futuro e consentirci di individuare, in via preventiva, le minacce ed i pericoli del mondo moderno.
Parigi, 41 feriti; (Parigi, 14 settembre) Bomba in un caffè dell’VIII arrondissement, 2 morti ed un ferito; (Parigi, 15 settembre) B omba alla Prefettura del IV arrondissement, 1 morto e 51 feriti; (Parigi, 17 settembre) Bomba in un grande magazzino del VI arrondissement, 6 morti e 16 feriti; 1995-1996 – Attentati terroristici salafiti-jihadisti, Gia algerino Luglio 1995 Bomba su un treno regionale parigino (Rer) nel V arrondisse-
ment, 7 morti ed 84 feriti; Agosto 1995 (Parigi) Bomba a Place de l’Etoile, nell’VIII arrondissement, 17 feriti: Settembre 1995 (Parigi) Bomba in un mercatino dell’XI arrondissement, 4 feriti Bomba in una scuola di Villeurbanne, Rhône, 14 feriti; Ottobre 1995 Bomba nel Metro di Parigi, XIII arrondissement, 29 feriti: Dicembre 1996 Bomba su un treno regionale parigino (Rer), 4 morti e 128 feriti.
85
S
CENARI
LIBANO
I
LA SFIDA DI HEZBOLLAH DI
ANDREA MARGELLETTI
l Libano è un Paese bellissimo, libanese. Sull’omicidio di Hariri ma la sua storia, oltrepassando sta indagando una commissione il velo idilliaco della natura seldelle Nazioni Unite. vaggia e della spontaneità del suo Contemporaneamente la frattura popolo, presenta i tipici tratti di un interna alla comunità cristiana Paese mediorientale. maronita - tra i sostenitori del Una guerra civile iniziata nel lonta“Fronte 14 marzo” e l’ex generale no 1975, che in realtà non ha mai Michel Aoun vicino al fronte sciitrovato pace, e altri due conflitti, di ta di Hezbollah e Amal - non lascia cui uno giovane di soli due anni. intravedere alcuna possibilità di La cosiddetta “guerra dei 34 giorricomposizione. Inoltre la dramLa crisi divampata ni”, che si è combattuta tra Israele ed matica situazione dei campi profuin questi giorni Hezbollah nell’estate del 2006, ha ghi palestinesi – abitati da circa è l’ultimo sintomo rappresentato l’ultima di queste 400mila rifugiati – costituisce di una debolezza strutturale, politica, drammatiche esperienze. In questi un’ulteriore variabile indipendente, sociale e confessionale ultimi trent’anni non c’è stata una che incide sul già precario livello di ben più grave generazione tra i libanesi che non sicurezza del Paese. E le ultime abbia vissuto l’incubo dei bombarnotizie, sugli scontri nel campo di damenti. Oggi alle connesse ripercussioni si aggiunge Ein al-Hilweh, vicino a Sidone, tra Jund al-Sham e un preoccupante squilibrio tra le 18 confessioni reli- Fatah al-Islam – ritenuto un gruppo ribelle e scismatigiose, che costituiscono l’intricato panorama culturale co – non fanno altro che gravare sulle preoccupazioni del Paese, e un’instabilità politica che attualmente non relative alle difficoltà che la crisi del Libano possa trooffre soluzioni. vare una via d’uscita. Il vuoto di potere alla presidenza della Repubblica - da A tutto questo si aggiungono fattori di origine stranienovembre 2007 - non è un problema contingente, ra. È il caso del rischio sempre elevato di un nuovo bensì l’ultimo sintomo di una debolezza strutturale intervento militare da parte delle Forze Armate israepolitica, sociale e confessionale ben più grave. Il 14 liane, le quali accusano il “Partito di Dio” di non aver febbraio 2005, giorno dell’uccisione dell’ex primo mai smesso di riarmarsi. Al tempo stesso se un attacministro, Rafiq Hariri, è anche la data di inizio di una co dovesse essere effettuato su Gaza, certo il Libano lunga serie di attentati, 6 per la precisione, mirati nei ne risentirebbe in qualche modo le ripercussioni. confronti di importanti protagonisti della vita politica E non si può dimenticare i costanti tentativi d’ingeren86
scenari za siriana. Damasco, costretta dalle Nazioni Unite a ritirare le sue truppe dal territorio libanese nel 2005, non ha mai abbandonato l’ambizione di fare del Libano una sorta di suo protettorato, se non addirittura di integrarlo nell’ancor più utopistico progetto della “Grande Siria”. Tuttavia il regime Baath, per la sua genetica discontinuità nell’ambito diplomatico, per la sua stretta alleanza con l’Iran e per i sospetti che i suoi servizi di sicurezza siano in qualche modo coinvolti nella morte di Hariri, è sotto osservazione ancor più di quanto sia Israele.
In controtendenza - unico caso, ma non di
poco rilievo - va sottolineata la presenza del contingente delle Nazioni Unite, Unifil 2. L’impegno dei “caschi blu”, comandati dal nostro generale Claudio Graziano, è accolto favorevolmente da tutti gli schieramenti e le fazioni. Nello specifico il contributo dei 2500 militari della 132esima Brigata corazzata “Ariete” e delle nostre due unità navali dell’Euromafor risulta esemplare, o addirittura superiore agli altri. Il nostro ambasciatore, Gabriele Checchia, a sua volta, si sta spendendo personalmente per un dialogo e una mediazione tra le parti. Un impegno, questo, che ha generato alti apprezzamenti ed elevata visibilità mediatica nei confronti di tutto il Governo italiano e del suo rappresentante in Libano. Last but not least va sottolineato anche il lavoro della “Cooperazione italiana allo sviluppo”, presente in Libano da ben prima della guerra del 2006, con l’obiettivo di rilanciare l’economia nazionale martoriata dai diversi conflitti. Tutto questo sta a dimostrare quanto, in una visione strategica di ampio respiro, il bacino del Mediterraneo sia per l’Italia l’area di naturale impegno politico e diplomatico, oltre che un’opportunità economica, su cui mirare per un progetto strutturale. Osservando la situazione interna del Paese, l’attenzione cade automaticamente sull’impasse nell’elezione di un nuovo capo dello Stato. Dopo dieci anni, il mandato di Emile Lahoud è scaduto nel novembre scorso e da allora maggioranza e opposizione non trovano un
accordo su chi dovrebbe sostituirlo. Il generale Michel Suleyman, capo di Stato Maggiore uscente delle Forze Armate libanesi (Lebanese Armed Forces, Laf) aveva progressivamente guadagnato la stima sia della coalizione di governo, il “Fronte 14 marzo”, sia dei due partiti sciiti, Hezbollah e Amal, come pure all’estero. Un consenso nato in seguito alla vittoria delle Laf su Fatah al-Islam, durante gli scontri a Nahr el-Bared, nel 2007. L’episodio aveva dato il via a un processo di riqualificazione dell’esercito libanese, anche grazie al sostegno politico e tecnico di Unifil. L’obiettivo era aumentarne la forza e irrobustirne la struttura affinché le Laf potessero, facendosi garanti di un più stabile livello di sicurezza, rendere inutile la presenza di tutte le altre milizie armate presenti sul territorio libanese. Tuttavia l’operazione non ha ancora raggiunto gli obiettivi prestabiliti. Agli impedimenti costituzionali che si erano inizialmente opposti all’elezione di Suleyman – in Libano un militare può ricoprire incarichi pubblici civili solo dopo 90 giorni che ha abbandonato l’uniforme – se ne sono aggiunti altri di natura prettamente politica. L’opposizione ha presentato un pacchetto di riforme da affiancare alla sua nomina. Le modifiche costituzionali chieste da Hezbollah prevedono un governo di unità nazionale e soprattutto una nuova legge elettorale, in vista delle elezioni del 2009, che permetta la creazione di un’Assemblea Nazionale più rappresentativa e soprattutto svincolata dalle distribuzioni confessionali. Questo darebbe al movimento guidato da Hassan Nasrallah, che attualmente detiene 14 seggi sui 128 totali all’Assemblea Nazionale - e che si vanno a sommare con i 15 di Amal - la possibilità di sperare in una vittoria elettorale in un Paese strategicamente fondamentale in Medio Oriente. Ma il rifiuto del governo di Fouad Siniora a prendere in considerazione queste proposte ha indebolito sensibilmente le possibilità per Suleyman di diventare presidente. E ha favorito conseguentemente quello che, in passato, era classificato un outsider, appunto il generale maronita Michel Aoun. Quest’ultimo, dopo un 87
Risk lungo esilio in Francia, in fuga dalle truppe siriane contro le quali aveva combattuto, è tornato in patria e alle elezioni del 2005 ha ottenuto 21 seggi. Per quanto ambigua possa apparire la sua posizione odierna, è forse la più chiara tra tutte le realtà politiche che spaccano la comunità maronita. Alla dichiarata opposizione al governo Siniora, si è aggiunta la sua candidatura alle presidenziali e una nuova alleanza con il blocco sciita. I suoi seggi quindi si sommano con quelli degli sciiti e costituiscono un massiccio fronte di opposizione che quotidianamente dà del filo da torcere al governo.
La fluidità della situazione
ha fatto sì che Suleyman abbia reso nota una sorta di scadenza per la sua nomina e che se questa non dovesse avvenire entro i prossimi mesi, si ritirerebbe a vita privata. Ma il suo abbandono dalla scena pubblica provocherebbe un ulteriore cedimento sia della struttura di comando sia dell’immagine dell’esercito libanese. E scoprirebbe il fianco della già precaria sicurezza nazionale. Il nodo gordiano nasce quindi dall’intreccio fra le riforme istituzionali che il Libano necessita e l’intenzione della comunità maronita che mira a riconquistare la leadership perduta ormai da tempo. La sua antica maggioranza in seno alla popolazione libanese è, infatti, venuta meno nel corso degli ultimi trent’anni, a vantaggio delle comunità sciita e sunnita, oggi entrambe notevolmente più numerose. Una situazione che gli stessi leader maroniti tendono a percepire con difficoltà. Per tutti loro, incluso Aoun, l’obiettivo è di “tornare ad amministrare il Libano”, volendo usare le inequivocabili parole del leader delle “Forze libanesi”, Samir Geagea. Tuttavia la tipologia della frattura interna alla comunità, di carattere non contingente solo all’elezione del presidente, porta a escludere qualsiasi possibilità di ricomposizione in tempi brevi. Anzi, questo “no” unanime al dialogo, da parte di leader come Geagea e Aoun, ma anche di Amine Gemayel - a cui si associa la disillusione del Patriarca maronita il cardinale Sfeir - rappresenta forse uno dei pochissimi punti in comune tra i diversi attori. 88
scenari Lo stesso cardinale Sfeir lascia trasparire la sua personale preoccupazione per lo “smembramento del suo gregge”. Dall’alto del suo incarico super partes, prende atto del “sovvertimento demografico” subito dal Paese negli ultimi trent’anni. Sono terminati i tempi in cui i maroniti costituivano la struttura portante dell’establishment nazionale e sotto il loro controllo permanevano le altre ben 18 confessioni religiose, tra musulmani (soprattutto sunniti e in minor numero alawiti e sciiti), drusi, ebrei e le Chiese minori. Oggi questi equilibri sono andati perduti e i maroniti di cui Sfeir è guida spirituale non seguono più un’unica via politica. In questo senso, il “caso Aoun” è esemplificativo. Tuttavia quel che è importante sottolineare sta nel fatto che le direzioni opposte adottate dai due nuclei, il “14 marzo” da una parte e Aoun dall’altra, non sono motivate unicamente e semplicemente dalla situazione politica attuale. Bensì sussiste anche un’impossibilità di condivisione di intenti futuri. Il primo ha adottato una linea politica all’insegna della continuità, impostata sull’alleanza con i sunniti della famiglia Hariri e nell’ottica anti-siriana. Al contrario il generale Aoun si è reso conto delle trasformazioni subite dal Libano, in particolare dell’avvenuta crescita della comunità sciita. E se entrambi gli schieramenti sognano di governare il Paese, da un lato l’attuale governo sta effettuando un’operazione ad excludendum nei confronti degli sciiti, dall’altro Aoun è consapevole che con questi ultimi è ormai necessario trattare. Non solo perché grazie a loro potrebbe diventare presidente, ma anche per il fatto che ormai costituiscono la maggioranza della popolazione. Inoltre il “14 marzo” non riesce a nascondere le difficoltà al suo interno. La maggioranza di governo mostra ogni giorno di più sintomi di scarsa unità. Il leader delle “forze libanesi”, Samir Geagea, infatti non nasconde la “palese strumentalità” che sostiene l’alleanza fra i maroniti e il clan sunnita degli Hariri. Effettivamente del “14 marzo” se ne può parlare come di una coalizione tra partiti di carattere familistico, dettata dalla esigenza di concentrare forze politiche e risorse finanziarie.
scenari Concentrando l’attenzione su Amine Gemayel e sulle sue “Falangi libanesi”, si ottiene un esempio lampante di come è strutturata una realtà politica libanese. L’ex presidente Gemayel è l’ultimo esponente di una lunga dinastia politica. Le Falangi infatti sono state fondate da suo padre Pierre nel 1936 e da allora la leadership è sempre rimasta nelle mani di un esponente della dinastia: prima Pierre, poi Bashir, fratello minore di Amine ucciso nel 1982 e infine quest’ultimo. E il partito avrebbe potuto anche vantare una successione, se solo Pierre Gemayel, figlio dell’attuale leader, non fosse stato ucciso da un’autobomba nel 2006. Oggi quindi le Falangi costituiscono un tassello essenziale, oltre che una presenza storica, nella maggioranza di governo. E vedono nell’impegno speso da loro stesse contro la Siria e gli attori libanesi che la sostengono - Hezbollah, Amal e Aoun - la sola politica della “non indifferenza” mai realizzata in Libano in questi ultimi anni. Dalla risoluzione Onu 1559 per il ritiro delle truppe siriane dal Libano alla vittoria delle Laf a Nahr el-Bared, Gemayel considera questi i più importanti successi di raggiunti dal “14 marzo” e dal premier Siniora. Chiusura totale invece nei confronti delle forze di opposizione. Da una parte il presidente dell’Assemblea Nazionale e leader di Amal, Nabih Berri, appare come un personaggio inaffidabile, impossibilitato a fornire - proprio per il suo doppio ruolo - la garanzia richiesta dal suo incarico. Dall’altra il Generale Aoun, che impone il suo aut aut sulle presidenziali, ma che appare al tempo stesso invischiato in un vicolo cieco, senza rendersi conto di essere vincolato a un asse politico (Hezbollah e Amal) che non gli è proprio. In realtà, il vero timore di Gemayel è rivolto al “Partito di Dio”. Perché l’ex presidente sa che una vittoria su
tutta la linea di quest’ultimo, incassando presidenza della Repubblica, Parlamento e Governo, non è da escludere. Il controllo delle tre massime autorità dello Stato libanese rappresenterebbe a suo giudizio il primo passo della temuta rivalsa, in tutto l’Islam, della minoranza sciita sulla stragrande maggioranza sunnita. Un’operazione orchestrata da Iran e Siria insieme. Paure, queste, che sono appesantite dalla debolezza interna delle Falangi. È evidente infatti che il movi-
Da una parte il presidente dell’Assemblea Nazionale e leader di Amal, Nabih Berri, appare impossibilitato a fornire la garanzia richiesta dal suo incarico. Dall’altra il Generale Aoun, che impone il suo aut aut sulle presidenziali, non si rende conto di essere vincolato a un asse politico (Hezbollah e Amal) che non gli è proprio mento dei Gemayel soffra la perdita del loro effettivo leader. L’uccisione di Pierre Gemayel, il solo che avrebbe potuto tracciare una nuova agenda politica del partito, infatti le ha rese orfane di chi avrebbe potuto traghettarle nel Libano del futuro. Questo non fa altro che incidere sull’opinione pubblica, la quale non sembra nutrire fiducia in un movimento che guarda sì al futuro, ma che non dispone di un ricambio generazionale.
Maggiore fermezza e intransigenza invece
sono da attribuire a Samir Geagea. Il leader delle “Forze libanesi” infatti non si fa scrupolo nel considerarsi come una sorta di defensor fidei di fronte a quella che viene comunemente indicata la “deriva islamica”. E considera la crescita di consenso in favore di 89
Risk Hezbollah come il primo passo per la realizzazione di un “califfato” sciita di ispirazione iraniana. Sulla base di questa chiave di lettura, Geagea giudica l’asse Hezbollah-Aoun-Amal-Damasco come spurio e strumentale. Perché per lui è difficile immaginare come un generale Aoun - cristiano maronita, che quindi condivide i valori dei suoi avversari del “14 marzo” - possa camminare al fianco del blocco sciita senza scontrarsi. Ed è chiaro inoltre che Nasrallah abbia bisogno di un presidente “soft”, facile da controllare. Aoun, nella fattispecie, tutto potrebbe essere fuorché una figura “gestibile”. Anzi, il carisma del generale potrebbe risultare un grosso ostacolo agli interessi di Hezbollah e dei siriani, i quali si renderebbero conto di aver puntato su un cavallo difficile da domare. Si potrebbe ipotizzare addirittura che Geagea speri maliziosamente in una vittoria del generale. Questa sarebbe la condizione necessaria e sufficiente per svelare tutte le contraddizioni di una coalizione composta da un maronita, una forte rappresentanza sciita e un elemento esterno quale è il regime di Damasco, peraltro alawita.
Tuttavia Geagea resta quello di sempre: ideo-
logizzato, ma a tratti contraddittorio e poco realista. Vivendo nella sua “villa-bunker”, il capo delle “Forze libanesi dà la sensazione di condurre un’esistenza aliena dalla realtà quotidiana del Libano e di avere una percezione distorta del quadro politico del suo Paese. Ne è un esempio il fatto di sottolineare la “comunanza di valori” tra Aoun e i maroniti del “14 marzo”. Una valutazione da un lato innovativa, ma dall’altro quasi insostenibile. La lontananza tra le due realtà è ridotta a mera differenza strategica. Cosa significa questo? Che se Aoun, come un figliol prodigo, abbandonasse sciiti e siriani per bussare alla porta del “14 marzo”, questa gli verrebbe aperta? Tenuto conto di quanto detto da Gemayel e da Geagea, ma conoscendo anche il generale, tutto questo appare irrealistico. Quest’ultimo infatti non si è mai fatto scudo dietro barriere diplomatiche. Anzi, ha sempre fatto sfoggio del
90
scenari proprio pragmatismo, impostando la sua linea politica su tre pilastri: la sua determinatezza nel voler diventare presidente, la certezza nel poterlo diventare, l’indifferenza che nutre verso tutte quelle realtà politiche a suo giudizio deboli. «Se gli Stati Uniti vogliono un Presidente, questo già c’è!», ha sempre detto Aoun senza mezzi termini. «Altrimenti se pretendono un fantoccio, non ci sarà mai». Come ex militare passato alla politica, il generale non fa sconti né agli avversari né agli alleati e imposta i suoi ragionamenti essenzialmente sui risultati elettorali. Non si può dimenticare, infatti, che alle elezioni parlamentari del 2005, il 70 percento delle preferenze espresse dagli elettori maroniti andarono al suo movimento. Un risultato inatteso e - questo a onor del vero va detto - ottenuto anche grazie al sostegno esterno di Michel Murr. Quello stesso Murr che, tuttavia in questi ultimi mesi, è tornato nei ranghi del “14 marzo”. Ma questo voltafaccia, controproducente in linea teorica, ad Aoun non preoccupa, in quanto - sempre grazie ai risultati del 2005 - si sente in diritto di considerarsi l’esponente politico più forte tra i maroniti e di conseguenza il loro unico rappresentante. Certo, anche lui è convinto che la frattura interna alla sua comunità sia il nodo di tutti i problemi. Ma se il “14 marzo” ne attribuisce le responsabilità agli sciiti, per il generale - che con questi è alleato - la colpa spetta agli Stati Uniti. Perché sarebbe Washington a bloccare le presidenziali, “onde evitare che collateralmente si risolva il problema palestinese”. Aoun infatti è convinto che, con lui capo dello Stato, gli Usa sarebbero costretti a confrontarsi con un presidente non piegato alla loro strategia e che saprebbe traghettare il Paese verso una risoluzione del problema dei profughi. Ecco spiegata l’alleanza con Hezbollah. Entrambi si dichiarano contrari all’ingerenza politica che gli Usa starebbero effettuando sul governo Siniora. Un’alleanza tutt’altro che spuria, quella tra Aoun e gli sciiti, a dispetto di Geagea. Il calcolo politico porta il generale a convincersi della necessità che si cominci a contestare l’equazione “Hezbollah = movimento terroristico”. Prima di tutto perché l’Onu non impedisce a
scenari un popolo di resistere e lottare per la propria libertà. Secondo perché, a suo giudizio, tutte le volte che si chiede un elenco degli attentati che il “Partito di Dio” avrebbe commesso in Europa, non si arriva a nulla. Terzo, ed è questo il passaggio chiave, perché è consapevole della forza che Hezbollah riscuote in termini di consenso. Di conseguenza, Aoun e il “Partito di Dio” sono riusciti a definire un piano di riforme che il “14 marzo” non ha saputo fronteggiare. Inizialmente la loro agenda politica prevedeva l’appoggio di Suleyman alle presidenziali. A patto però che la nomina fosse accompagnata dalla formazione di un governo di unità nazionale e da una nuova legge elettorale, in prospettiva delle elezioni parlamentari del 2009. L’intenzione era di introdurre un sistema proporzionale, più rappresentativo dei nuovi equilibri confessionali del Libano e capace di svincolare gli elettori dal votare i candidati della loro stessa confessione religiosa. Il governo Sinora, però, ha rifiutato le trattative, senza presentare una qualsiasi controproposta. Dimostrando così che il suo solo punto di forza - che è al tempo stesso il suo fianco debole – è quello di detenere momentaneamente il potere. C’è un ultimo punto interessante da osservare in Aoun. E cioè come, evitando di fare volutamente qualsiasi nome, il generale escluda dallo scenario politico del Libano un personaggio come Berri. Lo Speaker dell’Assemblea Nazionale e il suo movimento, Amal, non sembrano interessare al generale. Quasi non avessero futuro, nel caso lui venisse eletto Presidente. Aoun quindi è ben consapevole del suo ruolo e di chi comanda tra gli sciiti. Hezbollah, a sua volta, sostenendo la candidatura del generale mira a offrire agli osservatori internazionali un’ulteriore dimostrazione di essere un partito politico, che non ricorre alla violenza come strumento di trattazione, ma il cui vero obiettivo è di creare uno Stato islamico normalizzato, dotato di una struttura democratica, sull’esempio di quella afghana. È una forza ringiovanita, la sua, e in controtendenza con la fase di crisi attraversata negli ultimi mesi del-
l’anno passato. Il ritrovato consenso in favore del “Partito di Dio” lo si percepisce nel quartiere meridionale di Beirut, roccaforte sciita, ma soprattutto nelle province del Libano del Sud, dove abbondano manifesti e bandiere del “Partito di Dio” e fotografie dei suoi leader e martiri. In questo caso, proprio a sostegno di quanto dice Aoun - e soprattutto di quello che non dice - le gigantografie di Berri e Nasrallah, ritratti insieme, lasciano intendere come l’alleanza sciita si stia muovendo con una strategia più compatta.
Il fatto che l’immagine del leader di Amal non
appaia di regola da sola suggerisce che il fronte dell’opposizione non sia guidato da tre leader - Aoun, Nasrallah e Berri - piuttosto da due, con quest’ultimo schiacciato dal carisma e dalla visibilità dei primi. Plausibile quindi che Hezbollah abbia garantito ad Amal la presidenza dell’Assemblea Nazionale e altre posizioni seppure secondarie in un futuro assetto postelettorale, sempre che nel 2009 ottenga la maggioranza dei voti. Unico punto debole in questo scenario è la recente uccisione del responsabile per la sicurezza del movimento, Imad Mughniyeh, che ha provocato un sensibile aumento delle misure di controllo, non solo nei confronti dei suoi più autorevoli membri, ma anche nella quotidianità delle strade della capitale libanese. Resta da capire, quindi, come e quando Hezbollah si riprenderà da un colpo tanto duro. E soprattutto se riuscirà a sostituire - ovviamente non in tempi brevi - un personaggio dal carisma e dalle doti operative quale era Mughniyeh. È anche vero in questo momento al “Partito di Dio” interessano da una parte le presidenziali, dall’altra sottrarre il Paese da quello che considerano il “giogo degli Stati Uniti”. I quadri del movimento vedono nella strategia di Washington il tentativo di realizzare il progetto di un nuovo Medio Oriente, ridisegnato secondo il principio di autodeterminazione dei popoli, con nazioni più piccole e quindi più facili da controllare. In concreto il nuovo assetto mediorientale presenterebbe un Iraq 91
Risk diviso in tre Stati, seguendo la divisione sciiti, sunniti e curdi, un Libano frammentato nelle piccole realtà confessionali, e tutti i Paesi del Golfo soggetti a un pesante ridimensionamento dei confini.
Le regole d’ingaggio ai caschi blu le può cambiare solo l’Onu. Il ruolo del nostro contingente, la Brigata corazzata “Ariete”, la fregata “Espero” e il pattugliatore “Bettica” non può essere ridotto. L’impiego dei mezzi è finalizzato a impedire il traffico d’armi, ma i nostri uomini si adoperano anche per la sicurezza della popolazione Al contrario un Libano governato dall’attuale opposizione e quindi immune dall’ingerenza statunitense potrebbe rapportarsi - a livello politico, ma soprattutto sul versante economico e per la ricostruzione del Sud del Paese - con l’Unione Europea e con i suoi singoli Stati membri. A sua volta la comunità palestinese presente nei campi profughi costituisce una realtà politica e sociale di tutt’altro genere. Molti osservatori occidentali la identificano come una delle fonti di maggiore insicurezza del Paese. E gli scontri che si sono registrati verso la fine di marzo a Ein el-Hilweh, tra Jund al-Sham e Fatah alIslam, non dissimili da quelli di Nahr el-Bared del 2007, potrebbero confermare questa osservazione. 92
scenari Tuttavia la presenza palestinese in Libano non può essere vista unicamente come una questione militareoperativa, quindi di resistenza armata. I 400mila profughi che dal 1948 a oggi abitano negli insediamenti temporanei rappresentano un problema sociale e umanitario. Inoltre la lotta per la creazione di uno Stato palestinese “omogeneo e contiguo” - volendo ricordare le parole espresse dal presidente Bush, durante la sua visita in Medio Oriente a gennaio - va osservata come un obiettivo politico.
Allo stato attuale dei gruppi armati palesti-
nesi presenti sul territorio, si può rilevare la loro tendenza a voler creare una sorta di coalizione che faccia da collettore di tutte le istanze attive nei campi, nella Striscia di Gaza e in opposizione con la Presidenza dell’Anp di Abu Mazen. Obiettivo di questa intesa sarebbe la definizione di una politica comune, al fine di evitare gli scontri tra le singole fazioni - è il caso di Fatah al-Islam - e garantire la continuità della lotta armata nei confronti del “nemico sionista”. Questo progetto implica due questioni essenziali: l’implicito riconoscimento di Israele come realtà esistente e l’esistenza di un circuito di comunicazione e operatività comune fra tutte le realtà palestinesi. Si tratta indiscutibilmente di un passaggio innovativo. Se precedentemente il conflitto tra palestinesi e israeliani costituiva un problema risolvibile unicamente in termini militari, oggi questa visione sembra sia sottoposta a un processo di revisione. Si tratta di un’inversione di tendenza da sintetizzarsi in un postulato: riconoscere Israele qualificandolo come un “nemico sionista” è di per sé un riconoscimento. Questo non implica automaticamente un’apertura all’avversario. Tutt’altro. L’obiettivo di creare uno Stato palestinese indipendente, esteso su tutta l’area geografica della Palestina e con capitale al-Quds nella sua integrità, resta quello di sempre. Ciononostante emerge l’“inevitabile” esistenza dello Stato d’Israele, per quanto temporanea e rivedibile in futuro. Questa parziale e minima apertura altro non può esse-
scenari re che il frutto di un dialogo tra le fazioni più antagoniste e combattive. E non si può escludere che proprio Hamas, mossa in quest’ultimo periodo da correnti interne contrastanti e anche favorevoli al dialogo, abbia fatto prevalere questa linea, che è sì intransigente, ma non è più unicamente militare. In questi termini, non può essere sottovalutato il recente incontro fra il responsabile dell’ufficio politico di Hamas a Damasco, Khaled Meshal, e l’ex presidente Usa Jimmy Carter, dal quale è emersa la possibilità di avviare molto lentamente un dialogo con il governo Olmert. Quest’ultimo però ha immediatamente reso noto il proprio rifiuto a confrontarsi con i rappresentanti di quello che continua a essere classificato come un gruppo terroristico. Il raggruppamento - e qui poggia il secondo punto presenta tutte le caratteristiche di un’alleanza strumentale, che ha nell’indipendenza della Palestina il minimo comun denominatore. Obiettivo politico supportato dalla strategia di resistenza armata contro Israele e di preservazione della sicurezza all’interno dei campi profughi. I fatti di Ein el-Hilweh lo confermano. Dopo gli scontri del 2007 a Nahr el-Bared, a metà marzo scorso è stata la volta di quest’altro insediamento vicino Sidone. Sempre come nel caso precedente, alcuni esponenti della fazione di Fatah al-Islam si sono confrontati con quelli di Jund al-Sham. La ragione dello scontro è riconducibile al fatto che Fatah al-Islam è penetrata in campo di competenza di Jund al-Sham, cercando - come del resto era avvenuto a Nahr elBared - di sostituirsi. Questi episodi però che non possono essere semplificati a “scontri fra bande rivali”. Bensì sono sintomi del pericolo di un’escalation di violenze, all’interno della comunità palestinese, da sempre vittima di una condizione di vita che rasenta quotidianamente la crisi umanitaria. Il rischio è che i gruppi armati attivi ormai da tempo nei campi, si scontrino con altri “non autoctoni”. In questo caso la resistenza armata dei palestinesi in Libano, come Jund al-Sham, troverebbe dall’altra parte della trincea soggetti che sposano una strategia
più integralista e globale, per esempio Fatah al-Islam. Una linea lontana, se non addirittura contraria all’ortodossia politica e di resistenza radicata nel tessuto sociale dei campi libanesi. Perché una cosa è la resistenza per la Palestina indipendente, un’altra è la lotta per obiettivi globali estranei e lontani a quanto avviene sulle coste del Mediterraneo. Il vuoto di potere al vertice del Paese e la spaccatura fra i cristiani inoltre sono pericolosamente appesantiti dai rischi di origine straniera: da un lato la Siria, dall’altro Israele. La prima sembra non voler abbandonare l’antica ambizione di influenzare Beirut, anche dopo aver preso parte al summit di Annapolis - evento certamente positivo - e a quello della Lega Araba che, a fine marzo si è tenuto proprio a Damasco. Il regime Baath si dimostra discontinuo e imperscrutabile. Ai dubbi strutturali - l’alleanza con l’Iran in primis - si accompagnano questioni contingenti, anch’esse difficili da comprendere. Non è chiara infatti la sorte che attende il capo dell’intelligence siriana e cognato di Bashar el-Assad, Asef Shawqat, che pare sia stato posto agli arresti domiciliari da qualche settimana. Difficile immaginarne il motivo. I rumor dicono che sia accusato di tentato golpe. Tuttavia la questione si complica nel momento in cui ci ricordiamo che proprio Shawqat è considerato il primo indiziato nell’attentato che ha provocato la morte di Rafiq Hariri.
A questo proposito, appaiono però preoccu-
panti le posizioni di intransigenza e le richieste di intervento anche armato che il “Fronte 14 marzo” invia all’Occidente. Gemayel e Geagea reclamano un provvedimento risolutivo dell’Onu contro quella che considerano la joint venture tra Damasco e Teheran e che tenterebbe ogni giorno di più di intervenire nella politica libanese. Certo, sono sotto gli occhi di tutti gli investimenti iraniani, effettuati nel Paese dopo la “Guerra dei 34 giorni” per la ricostruzione delle zone coinvolte dal conflitto. Investimenti che, secondo Gemayel, avrebbero raggiunto la cifra record di un miliardo di dollari, e rappresenterebbero un “pizzo pro-Hezbollah” che 93
Risk questo sarà prima o poi chiamato a ripagare. Di conseguenza, se si vuole che il regime siriano si senta davvero minacciato, il “14 marzo” insiste nel chiedere un sistema di sanzioni molto più rigido, a livello di embargo, accompagnato da un impegno militare di carattere differente. Una richiesta però che tende a non valutare da una parte il rischio del proporsi di nuovi attentati o di ripercussioni violente nei confronti di Unifil, dall’altra le ripercussioni a un’eventuale caduta del regime di Bashar el-Assad.
Perché non si può dimenticare che, in questo
momento, non ci sono alternative, pena il rischio di cadere nella stessa sequenza di calcoli errati commessa in Iraq nel 2003 - detronizzazione del governo, creazione di un vuoto di potere ingestibile, crack politico del Paese. D’altra parte i maroniti libanesi si sentono in diritto di rivolgere un appello all’Occidente, così come Hezbollah chiama sfrutta il canale preferenziale della comunanza religiosa con l’Iran. La loro speranza è che i “fratelli” cristiani dell’altra costa del Mediterraneo giungano in loro soccorso. Ma mentre l’Iran giunge perché ha interesse a esserci, l’Ue non fa nulla perché non ha una politica estera comune e perché preferisce non invischiarsi in cause ritenute “perse e impopolari”. In questo risiede la critica più severa verso quella che i maroniti considerano l’indolenza europea. A sud del Libano invece incombe Israele. In questo caso il pericolo viaggia su due direttrici. Per prima cosa va ricordato che il potente vicino non esclude un suo intervento armato contro Hezbollah. Il fatto che la sua aviazione sorvoli sistematicamente le regioni meridionali del Paese può apparire come il preludio di un nuovo conflitto. Non giunge a caso quindi l’ultimo appello del Consiglio di Sicurezza dell’Onu di «applicare completamente la Risoluzione 1701». Dopo le continue accuse da parte del governo Olmert di un riarmo che il “Partito di Dio” starebbe effettuando e dopo le esercitazioni straordinarie volute dal Ministero della Difesa israeliano, i pericoli di una nuova defla-
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scenari grazione si sono fatti ancora più concreti. In seconda istanza è giusto chiedersi quali sarebbero le reazioni dei gruppi palestinesi attivi in Libano nell’eventualità di un acuirsi delle tensioni nella Striscia di Gaza. In linea teorica, l’ipotesi più semplice è che questi possano aprire un fronte opposto in modo da impegnare maggiormente Israele. Così facendo però coinvolgerebbero anche il Libano in una nuova ondata di violenze. Plausibile è quindi lasciare che i responsabili dei gruppi in armi lascino al parola alla popolazione civile, in modo che questa organizzi spontanee e pacifiche manifestazioni di piazza e non con operazioni di altro tipo. Questa neutralità presenterebbe inoltre il vantaggio che Israele impegni le proprie risorse militari su un fronte opposto e tolga lo sguardo da Beirut, lasciando campo libero alle attività politiche di Hezbollah. I palestinesi auspicano, infatti, un governo libanese più stabile, più attento alle loro esigenze e soprattutto che possa intervenire per apportare un iniziale miglioramento delle condizioni di vita nei campi profughi.Come sola nota positiva, ma non di poco conto, in questo scenario vanno sottolineati gli sforzi compiuti dalla missione Unifil 2, dalla diplomazia italiana e dall’ufficio della Cooperazione. L’impegno del nostro Paese è volto affinché sia mantenuta accesa quella debole speranza di giungere a un compromesso fra tutte le parti in causa. Per quanto riguarda i “Caschi blu”, oggetto recentemente di discussioni anche accese in merito alla necessità o meno di modificare le regole di ingaggio, bisogna ricordare che i cambiamenti di queste sono possibili unicamente in base agli eventuali sviluppi della missione e per decisione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Inoltre il ruolo del nostro contingente, composto dalla Brigata corazzata “Ariete”, dalla fregata “Espero” e dal pattugliatore d’altura “Comandante Bettica”, non può essere ridotto a quello di poliziotto. L’impiego dei mezzi navali, nelle acque prospicienti le coste, è finalizzato ad impedire il traffico illegale di armi. Sulla terraferma inoltre si sta provvedendo alla riorganizzazione, nella sua struttura e sul piano operativo, delle Laf. Ma allo stesso tempo
scenari i
i nostri militari si adoperano per la sicurezza quotidiana della popolazione, oltre che per l’incentivo allo sviluppo e alle attività economiche. La bonifica dalle mine dei campi coltivati, che permette il ritorno al lavoro agricolo, costituisce un esempio fondamentale e non è certo di secondaria importanza rispetto ad altri incarichi. Per questo motivo, risulta precipua la necessità che il comando di Unifil 2 resti nelle mani italiane, come è ora in quelle del Generale Claudio Graziano, il cui impegno è apprezzato da tutti, sia dai libanesi sia dai comandi degli altri contingenti. Dalle medesime caratteristiche trasversali è il consenso riconosciuto all’ambasciatore Checchia, che vanta un canale preferenziale nel dialogare con tutte le forze politiche coinvolte, sia della maggioranza sia dell’opposizione. Al rappresentante del Governo italiano vengono attribuiti gli elogi da parte di tutte le forze politiche, sia del “14 marzo” sia dell’opposizione. Tuttavia, a fronte dei sempre maggiori impegni che la nostra Ambasciata a Beirut sta sostenendo, è necessario che Roma acquisisca la consapevolezza di effettuare nuovi investimenti - politici quanto economici - e non rischiosi tagli nella realtà libanese. Questi interventi troverebbero la fattibilità più concreta nella presenza di una solida ma anche agile struttura, coordinata da Fabio Melloni, quale è l’ufficio di Cooperazione presso la nostra sede diplomatica. La missione in Libano infatti è strategica per il nostro Paese, forse ancor di più di quella in Afghanistan. Perché a Beirut giochiamo da leader e non da gregari. Perché l’Italia, priva di un trascorso coloniale che ne penalizzerebbe l’immagine presso l’opinione pubblica locale, ha saputo riscuotere la stima di tutto il Libano. E infine perché il Mediterraneo - dove disponiamo di capacità di manovra non solo militare ma anche politica - rappresenta il nostro “habitat strategico”. E questa è una riflessione che la nostra classe politica dovrebbe effettuare, prendendo a modello il caso libanese e riprodurlo in un intervento politico strutturale in tutti i Paesi che si affacciano su questo mare. 95
scenari
POLO NORD
L’
LA GEOPOLITICA DELL’ARTICO DI
DAVIDE URSO
Artico è sempre più il terza di mari periferici - mare di mometro del mondo. Sia Barents, di Bering, di Beaufort, di perché il cambio climatiChukchi, di Kara, Siberiano co di tale regione - due volte più Orientale, ecc. - che, negli anni, veloce della media globale - è lo hanno portato alla nascita di aree specchio dello stato di salute del portuali strategiche: le città russe nostro pianeta. Sia in termini di surdi Murmansk e Arcangelo, riscaldamento delle dinamiche Churchill in Canada e Prude Bay geopolitiche e geostrategiche delle in Usa. potenze sub-artiche: Stati Uniti, Lo scioglimento dei ghiacci sta Canada, Danimarca, Norvegia e riducendo la distanza tra aree onshore e off-shore, facilitando il traRussia. Esse hanno modificato la sporto di merci. Già agli inizi del propria “grande strategia”, basata Circondato da tre Duemila, tanker hanno iniziato a sulla definizione e la dinamica degli continenti: Europa, Asia e Nord America, trasportare petrolio dall’artico interessi nazionali, proprio sulla base più Groenlandia russo in Europa. Inoltre, lo scioglidell’assetto e delle potenzialità e varie isole, la regione mento sta facendo emergere un dell’Artico. è sempre più appetibile per l’immenso bacino immenso tesoro ancora inesploraIl “Grande Nord” è un “sub-contidi riserve energetiche to, fatto di ricchi depositi di metalnente oceanico”. Oggi ancora più di quanto lo fosse in passato. Lo scioglimento dei ghiac- li, oro, argento, rame, diamanti; di uranio, combustibici dell’Artico - oltre a disastrose conseguenze sulla le per le centrali nucleari; e, secondo le ultime stime, flora, la fauna e sulle popolazioni indigene - sta apren- di circa il 20-25 percento delle riserve di petrolio e gas do rotte finora sconosciute e non raggiungibili dall’uo- del pianeta non ancora scoperte. Petrolio e gas sono il mo. La possibile navigabilità del “mitico” Passaggio a driver dell’economia dell’Artico. Senza contare che le Nord-Ovest (coste nord del Canada e dell’Alaska) o acque artiche sono considerate una delle ultime gran“la Rotta del Mare del Nord” (via che passa dalla parte di riserve di pesce del mondo. russa del Circolo Polare Artico) aumenta l’importanza Secondo il rapporto Artic Oil and Gas 2007, l’Artico strategica dell’Artico, soprattutto perché riduce enor- produce oggi circa un decimo del greggio e un quarto memente le distanze per i trasporti di merci tra uno del gas del mondo. Di tale quantitativo, quasi l’80 perStato e l’altro. Inoltre, l’Artico è circondato da tre con- cento di petrolio e il 99 percento di tale gas vengono tinenti - Europa, Asia e Nord America - oltre alla dall’Artico russo. Inoltre, con l’aumento della domanGroenlandia (danese) ed a numerosissime isole ed iso- da mondiale, l’attività di estrazione di petrolio e gas lotti, che rendono la regione appetibile per un gran nella regione artica aumenterà. Soprattutto, se si connumero di player, oltre agli Stati sub-artici. In più, i sidera che, ormai da molti anni, grandi giacimenti di bordi dell’Artico si contraddistinguono per la presen- petrolio nel mondo Opec e Mediorientale non sono 96
scenari stati trovati e che il petrolio russo si trova sempre più a nord e portarlo a sud, verso gli utilizzatori russi e verso il mercato internazionale, è sempre più costoso. Sono in fase di studio progetti per nuove pipeline. La Federazione Russa sta progettando la costruzione di un oleodotto dal bacino della Siberia Occidentale e Timan-Pechora al porto artico occidentale, di un oleodotto del Far East per il trasporto del petrolio artico ai porti del Pacifico e di nuovi terminali marittimi e di nuovi tanker per rafforzare il mercato delle risorse energetiche dell’Artico. Il Canada sta investendo molto nell’estrazione di greggio dalle sabbie bituminose, presenti nel nord dello Stato di Alberta. Attualmente vengono estratte in Athabasca-Wabiskaw, Cold Lake e Peace River, un’area di 140 mila mq con risorse stimate in 175 miliardi di barili di sabbie bituminose non lavorate. Secondo le ultime stime, entro il 2015 un quarto della produzione di petrolio del Nord America dovrebbe derivare dalle sabbie bituminose. Ciò inciderebbe profondamente sugli equilibri geoeconomici mondiali, rendendo gli Stati Uniti più indipendenti dalle importazioni petrolifere del Medio Oriente. Pechino ha investito in imprese ed oleodotti per il trasporto di greggio dall’Alberta alle coste del Pacifico, per poterlo poi importare in Cina. Inoltre, il Canada ha in costruzione il gasdotto Mackenzie Valley per aumentare lo sviluppo e la produzione nel Delta Mackenzie e nel Mare di Beaufort. Un gasdotto in Alaska, dal North Slope ai mercati meridionali, è in fase di finalizzazione, per sfruttare le riserve oggi conosciute. Le acque del Polo Nord sono considerate “mare internazionale”. Tutti gli Stati hanno uguali diritti nello sfruttamento delle risorse presenti, dalla navigazione, alla pesca, alla posa dei cavi.Non è ammissibile che gli Stati se ne approprino a loro arbitrio fino al punto di sopprimere ogni possibilità di utilizzazione da parte degli altri Paesi. Il diritto esclusivo di esercitare il potere di governo sulle attività di sfruttamento viene acquistato in modo automatico a prescindere da qualsiasi occupazione effettiva della piattaforma. La Convenzione di Montego Bay del 1982 dispone che
uno Stato costiero ha il diritto esclusivo di sfruttare le risorse della piattaforma continentale e della zona economica fino a 200 miglia marine dalla costa. Lo Stato costiero ha il controllo esclusivo di tutte le risorse economiche della zona, sia biologiche che minerali, sia del suolo e del sottosuolo che delle acque sovrastanti e per la pesca. Spetta allo Stato fissare la quantità massima delle risorse ittiche sfruttabili, determinare la propria capacità di sfruttamento e, solo se questa è inferiore al massimo, consentire la pesca agli stranieri. Per molti esperti sarà, quindi, una corsa contro il tempo, visto il vuoto del diritto internazionale sulla sovranità dei fondali artici e sullo sfruttamento delle sue risorse.
In realtà, più che una questione di tempo gli
Stati sub-artici stanno giocando al “gioco della globalizzazione”, per spartirsi le zone d’influenza dell’Artico. La globalizzazione - e la “geopolitica dell’orto”, basata sull’approccio glocal alle relazioni internazionali - garantisce guadagni per tutti a fronte di successi locali basati su collaborazioni strategiche. L’attrazione dell’Artico è troppo forte e le tecnologie estrattive a disposizione sono ancora troppo deboli perché gli Stati sub-artici possano agire fuori dalle regole della globalizzazione e degli equilibri geo-strategici, innescando possibili mini-guerre fredde. Il rischio è la perdita dei vantaggi economici e di rango geopolitico che l’Artico destinerà nel medio-lungo periodo. L’unico Stato in grado di agire sulla base di interessi globali e non locali è la Russia, che per storia, dimensioni e cultura, si colloca in posizione privilegiata. Lo scorso agosto, una spedizione scientifica russa, composta da due batiscafi Mir-1 e Mir-2 e costata circa 70 milioni di euro, ha piantato una bandiera russa sui fondali della banchisa artica ad oltre 4.200 metri di profondità. Il Cremlino ha paragonato la spedizione alla prima passeggiata degli astronauti sulla Luna. L’esplorazione dell’Artico è un’impresa scientifica alimentata più da aspirazioni di egemonia e di controllo, che di conquista di un singolo mercato regionale. Non si tratta di una mera impresa geologica, quanto una vera e propria conquista geopolitica e di potenza. 97
scenari L’obiettivo era dimostrare che la dorsale Lomosonov - catena sottomarina lunga 1700 km che si estende dalla Siberia all’estremità Nord-occidentale della Groenlandia - è il prolungamento del territorio della Federazione. Sotto la spinta di Mosca, gli oceanografi russi sono al lavoro per dimostrare la teoria geopolitica - denominata “Artico Sovietico” - secondo la quale la Russia e il Polo Nord sono parte della stessa piattaforma. Se la tesi del Cremlino fosse confermata dall’apposita commissione delle Nazioni Unite, la Russia otterrebbe la sovranità non solo sulla dorsale e i fondali, ma anche sulle risorse naturali del sottosuolo artico. Sarebbe un successo per la politica post-zarista di Putin, tendente alla conquista dei mercati geoenergetici, per il ritorno alla grandeur della Vecchia Russia (non è un caso che Putin abbia dato il titolo di “Eroi della Russia” ai membri della spedizione e che il neo-presidente Medvedev abbia ribadito la volontà che la Russia torni ad essere una potenza marittima e navale). Visto che la dorsale Lomonosov taglia il Mar Glaciale Artico, collegando la piattaforma Eurasiatica a quella Nord Americana, anche Canada e Danimarca acquisirebbero gli stessi diritti di Mosca. Copenaghen, dal canto suo, sta da tempo cercando di dimostrare che la dorsale Lomonosov è parte della piattaforma della Groenlandia. La corsa contro il tempo non sarà per la sovranità sull’Artico, ancora incerta, quanto sugli investimenti in tecnologie in grado di sfruttare l’off-shore profondo, cioè le risorse dei fondali artici, e sulla protezione di quelle su cui ciascuno Stato sub-artico rivendica la propria sovranità. A otto giorni dalla missione russa, il Canada - non avendo mezzi rompi-ghiaccio adeguati - ha annunciato la costruzione di una base di addestramento al combattimento per l’esercito in condizioni estreme a Resolute Bay sull’isola di Cornwallis, a 600 chilometri dal Polo Nord, e di un porto d’altura per il rifornimento per le navi da guerra e dei vascelli di pattugliamento a Nanisivik, sede di un’antica miniera di zinco, a nord dell’isola di Baffin. Intanto il governo canadese ha stanziato un finanziamento per la costruzione di 6-8 pattugliatori d’altura di V classe che pre-
sidieranno l’area artica, nel tentativo di assicurarsi il Passaggio a Nord Ovest. La “corsa all’Artico” è iniziata a colpi di politiche economiche, storico-strategiche e concorrenziali. Ciò sta scatenando contenziosi diplomatici tra le potenze subartiche, soprattutto quelle maggiormente o simbolicamente tagliate fuori - Stati Uniti e Norvegia -, riaprendo vecchi contenziosi mai risolti.
La dissoluzione dell’Unione Sovietica ha in-
nescato un processo di “rinnovamento geopolitico” da parte del Cremlino. Tutti gli accordi stipulati o firmati e non ratificati prima e durante la guerra fredda, non vantaggiosi per la federazione sono stati considerati nulli. Pertanto, con buona pace del diritto del mare, Mosca sta deliberatamente provocando piccole dispute lungo le frontiere marine artiche, sfruttando l’attuale superiorità geografica e tecnologica sull’Artico. I conflitti principali sono con gli Stati Uniti e la Norvegia. Beninteso, non si tratta di confronti militari - né oggi né in prospettiva - ma di dispute geopolitiche su tratte di mare di enorme importanza economica e strategica: abbondanti risorse ittiche, ingenti giacimenti di petrolio e gas e il controllo di vie di comunicazione e di trasporto marittime. Nel 1867, gli Stati Uniti hanno acquistato dall’allora zar russo Alessandro II il territorio dell’Alaska: 600 mila miglia quadrate, al costo di 7.2 milioni di dollari, circa 2 cent per acro. L’accordo d’acquisto definiva una frontiera marittima tra la Russia e gli Stati Uniti nello Stretto di Bering - la International Date Line - senza però specificare il tipo di linea che avrebbe dovuto separare i due Stati e il tipo di proiezione della mappa utilizzata per definire il confine marittimo. Inoltre, né Stati Uniti, né Russia produssero mai la cartina geografica utilizzata durante i negoziati. Ciò - con l’estensione a 200 miglia marine della zona economica esclusiva - generò una diversa interpretazione della linea di confine: entrambi i Paesi descrivevano il trattato come una “linea dritta” di confine, ma mentre gli Stati Uniti consideravano la frontiera marittima del Mare di Bering come una “linea geodetica” (ovvero la linea che descrive local99
Risk mente la traiettoria più breve fra gli estremi), la Russia la considerava come una “linea rhomb” (ovvero la linea tracciata da ogni punto della bussola su una carta nautica, eccetto i quattro punti cardinali). Usa ed Urss giocavano la partita per la sovranità su 15 mila miglia marittime.
La frontiera fu rinegoziata
con l’accordo “Baker-Shevardnadze” del 1 giugno 1990. Esso, rispettando le differenze interpretative cartografiche tra i Paesi, si rivelò decisamente favorevole agli Stati Uniti, che mantenevano il possesso sul tratto di mare Mare di Bering e Mare di Chukchi - con riserve di petrolio e gas stimate rispettivamente in 24 miliardi di barili e 126 trilioni di metri cubi, e con capacità di pesca - stimata dagli Stati Uniti - superiore ai 2 milioni di tonnellate di pesce l’anno nel Mare di Bering. Inoltre, l’accordo creò 4 aree speciali: 3 nel lato americano, definite “aree speciali orientali” e 1 - “area speciale occidentale” - nel lato sovietico. L’accordo sarebbe entrato in vigore a seguito della ratifica dei rispettivi parlamenti. Quello americano ratificò immediatamente l’accordo. L’Urss collassò prima di poterlo ratificare. La Federazione Russa ha subito ritenuto l’accordo invalido, con la motivazione che il ministro degli esteri Shevardnadze non rappresentava gli interessi della Federazione, ma dell’Unione. Mosca ha invitato Washington a rinegoziare l’accordo, per una maggiore equità nella determinazione delle quote ittiche transfrontaliere. La giustificazione della richiesta è proprio che la dorsale Lomonosov sarebbe agganciata al continente eurasiatico e, quindi, alla Federazione Russa. Le industrie ittiche della Russia Orientale hanno chiesto 150 mila tonnellate di quote ittiche dalle acque americane come compensazione per l’area persa con l’accordo del 1990, in cambio del loro appoggio alla ratifica dell’accordo da parte del governo russo. Mosca vuole mettere le mani sulla “zona Pollack” in Alaska, garantendo al Paese un territorio ricchissimo di stock ittici e di giacimenti di materie prime e un passaggio marittimo strategico per i sottomarini russi. Sempre più spesso i pescherecci russi 100
scenari sconfinano in acque americane, con il rischio concreto di scontri con la Guardia costiera Usa. Washington ha recentemente rifiutato di riaprire una negoziazione, forte dei vincoli imposti dal diritto internazionale, che considera valido l’accordo Usa-Urss del 1990. Per ostacolare la prevista richiesta dei russi, Washington dovrebbe prima ratificare la Convenzione di Montego Bay. L’amministrazione Reagan aveva negoziato la Convenzione, ma il Senato si rifiutò di ratificarla per timore che limitasse eccessivamente la libertà d’azione degli Stati Uniti sui mari aperti. Ora il quadro internazionale è mutato e la posta in gioco è molto più alta. Mosca è già in grande vantaggio. La seconda disputa territoriale riguarda la sovranità sul Mare di Barents tra Russia e Norvegia. La mappatura delle risorse ittiche del Mare di Barents è stata sviluppata in collaborazione tra gli scienziati norvegesi e quelli russi/sovietici, a partire dagli anni cinquanta. Essa è oggi istituzionalizzata nell’International Council for the Exploration of the Sea (Ices). La Joint Norwegian-Russian Fisheries Commission spartisce le quote per gli stock ittici tra i Paesi e definisce i regolamenti tecnici. Ma anche le Tac, ovvero le quote di estrazione nei tre stock comuni per i due Paesi: cod, haddock e capelin. I primi due sono spartiti al 50 percento, mentre lo stock capelin è per il 60 percento a vantaggio della Norvegia. Fintantoché le flotte ittiche del bacino settentrionale dell’Urss erano occupate in acque lontane (Africa Occidentale e Sud America) pertanto, l’Urss non era dipendente dagli stock di pesce del Mare di Barents - il governo sovietico era favorevole alle raccomandazioni dell’Ices su uno sfruttamento più limitato delle Tac. La discontinuità della politica russa con quella sovietica ha portato, tra le altre cose, a puntare sulle acque vicine, senza spingersi troppo lontano, risparmiando in termini di tempo e costi. Improvvisamente, quella che era stata una cooperazione lineare tra Norvegia e Russia divenne motivo di contrasto. Mosca chiese l’aumento della percentuale russa sullo stock cod, fino ad allora spartito equamente. Il problema divenne serio quando lo stock cod raggiunse all’inizio del Ventunesimo secolo livelli cri-
scenari tici di sfruttamento e la Comunità internazionale, a causa della mancanza di certezze scientifiche sul futuro dello stock e le sue conseguenze, raccomandò il rispetto del “principio di precauzione”. Esso fu subito accolto dall’Ices e dalla Joint Commission. Gli scienziati raccomandavano una drastica riduzione delle quote dello stock cod. Il governo russo si oppose a tale riduzione, che, diversamente, fu accettata (anche se non del tutto) da quello norvegese. Un accordo sulle quote fu trovato nel 2001 e nel 2003 la Joint Commissione pose delle regole più moralizzatrici per la gestione e lo sfruttamento del cod dell’Artico Nord-Orientale. La Federazione Russa ha continuato ad eccedere nelle attività ittiche. Il governo norvegese ha più volte accusato Mosca di overfishing, ovvero di pescare pesce fresco in acque comuni e di trasportarlo, come pesce surgelato, in Paesi terzi, senza rendere conto alla Norvegia. Secondo l’Ices, il pescato russo non denunciato nel cod sarebbe di 90 mila tonnellate nel 2002, 115 mila nel 2003, 117 mila nel 2004 e 166 mila nel 2005; un incremento di overfishing annuale di circa il 25-40 percento. In altre parole, la Russia avrebbe superato le quote nazionali ittiche a disposizione tra il 50 e l’80 percento. Nel 2006, le autorità russe hanno stimato l’overfishing in 20-30 mila tonnellate l’anno. Dal 2006, la Norvegia ha assunto la presidenza di turno del Consiglio Artico fino alla fine del 2008. Inoltre, fa parte della Cooperazione nordica. Tali ruoli istituzionali consentono ad Oslo di avere un ruolo centrale nelle discussioni sulla gestione delle risorse arti-
che. La futura spartizione dell’Artico determinerà molti dei futuri assetti geopolitici mondiali e la sicurezza del Ventunesimo secolo. Essa sta sempre più diventando strumento di richiamo politico per i Governi. L’Artico - e l’apertura del Passaggio a NordOvest (via commerciale che consentirebbe di accorciare di 5 mila miglia le rotte dall’Artico al Pacifico) rappresenta una sfida anche per gli equilibri geopolitici dell’Europa, in particolar modo per gli Stati portuali del Mediterraneo e, soprattutto, dell’Adriatico del Nord, che hanno una posizione privilegiata per gli scambi con l’Asia.
Nel marzo 2007 è stato istituito l’Anno Polare
Internazionale (Ipy). È un’iniziativa di ricerca scientifica internazionale per il periodo marzo 2007 - marzo 2009, che riguarda 200 progetti e coinvolge circa 50 mila ricercatori di oltre 60 nazioni. L’obiettivo è comprendere le regioni polari nel loro complesso, attirando l’attenzione del mondo intero sulla loro importanza. Nonostante l’Italia abbia presentato 35 progetti riguardanti l’Artico, non è passata la legge che assegna il finanziamento da parte del Governo alla partecipazione italiana alle attività di ricerca dell’Ipy. In generale, nel 2006, tutta la ricerca italiana nell’Artico ha risentito della fase di riforma profonda del Cnr, con conseguente perdita di finanziamenti. Il risultato è che l’Italia è uscita, di fatto, dall’Artico proprio quando tutta la Comunità internazionale sta facendo sistema con il linguaggio universale della scienza. La mancanza di fondi rischia di far evaporare per l’Italia anni di ricerche, esperienze e riconoscimenti da parte di tutto il mondo.
Nel 2007 è stato istituito l’anno polare internazionale, un’iniziativa di ricerca scientifica che riguarda 200 progetti e 60 Paesi. Ma non l’Italia, visto che il governo Prodi non ha finanziato l’operazione. Siamo dunque fuori dall’Artico proprio mentre tutta la comunità internazionale se ne occupa
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lo scacchiere
Medio Oriente/ poggia sui diritti umani
il vademecum delle sanzioni contro l’iran
M
Restrizioni delle esportazioni e riduzione del commercio: si parte da qui DI
EMANUELE OTTOLENGHI
entre il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha approvava il terzo giro di sanzioni contro l’Iran, adottando la risoluzione 1803 del marzo 2008, gli opinionisti americani si aspettavano che l’Unione Europea seguisse la solita prassi varando ulteriori misure punitive. Tuttavia, a quasi due mesi di distanza, gli europei sono ancora indecisi sul da farsi, a causa di molti Paesi - per lo più quelli con cospicui interessi economici in Iran contrari all’idea che l’Unione Europea appoggi il testo della risoluzione, ma questa disputa interna potrebbe essere risolta spostando il dibattito dalla questione delle sanzioni alla situazione dei diritti umani in Iran, un argomento sul quale è più facile costruire il consenso nel Vecchio continente. Dopo aver sospeso il dialogo con l’Iran a causa delle vio-
lazioni dei diritti umani, l’Unione Europea ha continuato a criticare la Repubblica islamica focalizzandosi su qualche caso particolarmente emblematico, esemplificato dalla recente condanna da parte della presidenza europea della lapidazione di due sorelle iraniane. Finora però, alle dure parole non sono seguite azioni risolute, eppure l’Unione Europea ha il potere di imporre sanzioni basate esclusivamente sulle preoccupazioni per i diritti umani. Per esempio, può ridurre gli scambi commerciali quando i beni in questione «possono essere usati per eseguire pene capitali… o per le torture o qualsiasi altra forma crudele, inumana e degradante di pena». Da quando alcuni prodotti sono stati impiegati sia per motivi civili che repressivi, l’Unione Europea istruisce i suoi Stati membri sulla necessità di dover ridurre il commercio di qualche articolo che potrebbe
scacchiere essere utilizzato per fini illegittimi. Per stabilire quali oggetti appartengano a questa categoria, ogni Stato dovrebbe valutare l’utilizzo fatto nel passato dei beni già esportati, ma esiste comunque un precedente per imporre sanzioni basate sulla questione dei diritti umani; è quello del 2006 riguardante la Birmania. Le misure adottate allora dall’Unione Europea includevano un embargo per le armi, un divieto di ingresso e il congelamento dei beni di alcuni membri del governo birmano, così come un divieto di esportazione di strumenti utili alla repressione interna e anche il prestito di denaro alle imprese statali birmane è stato vietato. Mettendo in atto le sanzioni, l’Unione Europea ha chiarito che la situazione dei diritti umani in Birmania era la prima causa di queste misure punitive: «Le misure restrittive presenti in questa disposizione sono strumentali alla promozione del rispetto dei diritti umani fondamentali e perciò utili allo scopo di difendere l’etica pubblica». L’Unione Europea cercava di assicurarsi che i birmani e gli enti coinvolti nella repressione non traessero profitto dal commercio con l’Europa, anche nel caso in
cui gli oggetti del commercio non fossero stati usati direttamente per compiere determinati abusi, e voleva anche accertarsi che i suoi cittadini non commerciassero con la Birmania facilitando così politiche in «contrasto con la legge internazionale e incompatibili con i principi di libertà, democrazia, rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali e dello stato di diritto». In generale, l’Europa può pressare l’Iran sulla questione dei diritti umani in tre modi: ampliando la legislazione europea sulla restrizione dell’esportazione di materiale che può essere usato per la repressione, la tortura, il maltrattamento e la pena di morte; riducendo il commercio che avvantaggia compagnie di proprietà del governo o legate alle Guardie Rivoluzionarie Islamiche (Irgg); adottando un’ampia serie di misure simboliche ideate per imbarazzare il regime ed evidenziare i suoi abusi dei diritti umani. Ci sono molte prove che gli strumenti della repressione sono comprati nei mercati europei e occidentali e poi usati, ad esempio, per le esecuzioni pubbliche. I condannati iraniani, infatti, sono abitualmente impiccati ad una gru prodotta da alcune 103
Risk compagnie occidentali come la Kato, la Tadano e l’Unic, e le forche sono spesso costruite con aste metalliche prodotte in Europa. Anche se controproducente per la strategia economica europea, l’Unione potrebbe imporre oneri addizionali sul commercio con le compagnie governative in Iran. Per esempio, potrebbe imporre ulteriori ostacoli per la cessione di licenze e stilare una lista nera ufficiale delle compagnie che hanno legami con il regime. Anche se le società e i governi europei potrebbero obiettare ad una applicazione integrale delle sanzioni economiche - soprattutto in ragione dell’importanza del settore energetico iraniano per gli obiettivi europei di lungo termine - queste misure potrebbero essere valutate per determinati settori industriali come la petrolchimica e la metallurgica, che sono in mano al governo, all’Irgc ed alle compagnie a loro collegate. Oltre le restrizioni commerciali, l’Europa può adottare anche misure simboliche che avvertano Teheran che il suo comportamento non è privo di conseguenze. Gli alti funzionari europei raramente viaggiano in Iran ormai, ma, quando lo fanno, potrebbero prendere l’abitudine di visitare i dissidenti, mentre, quando incontrano i loro pari iraniani, dovrebbero sollevare la questione dei diritti umani come principale tema di confronto bilaterale, facendo riferimenti concreti, specifici e funzionali piuttosto che condanne generiche. L’Europa dovrebbe stilare una dettagliata lista di nomi e abusi e chiedere azioni specifiche, come la riapertura dei quotidiani iraniani e il rilascio dei prigionieri politici; si dovrebbe insistere su questo annunciando e ampliando le misure punitive in caso di mancanza di collaborazione. Inoltre, l’Europa potrebbe far decadere i contratti diplomatici richiamando tutti gli ambasciatori europei da Teheran e lasciando un incaricato a rappresentare gli Stati membri; ne conseguirebbe un immediato contraccolpo commerciale, ma avrebbe un significativo impatto 104
politico e gli europarlamentari potrebbero evitare le frequenti visite al parlamento iraniano, così come gli inviti ai loro funzionari dovrebbero essere condizionati al miglioramento dei diritti umani. La Danimarca recentemente ha deciso di cancellare un viaggio in ragione del rinnovato incitamento iraniano all’odio per le vignette danesi; tutti i parlamenti nazionali europei dovrebbero seguire questo esempio. Il dialogo tra l’Iran e l’Unione Europea deve continuare, ma non con il solito atteggiamento affaristico. Quando i rappresentanti iraniani vengono a visitare l’Europa - il che avviene di frequente - c’è una ragione meschina nell’accordare il visto per accompagnare le delegazioni economiche. Intanto, le città europee potrebbero accogliere qualcuno di questi visitatori con gesti di alto profilo simbolico; ad esempio ribattezzare le vie dei recapiti delle ambasciate della Repubblica Islamica con i nomi di importanti dissidenti iraniani, come fece Ronald Reagan quando rinominò la strada dell’ambasciata sovietica con il nome del suo ultimo dissidente, Andrei Sakharov. Allo stesso modo, l’impegno dei dissidenti famosi potrebbe essere evidenziato da campagne stampa, che darebbero un volto umano alle dolorose imposizioni iraniane inflitte ai suoi cittadini. Quando è stata criticata per la mancata tutela dei diritti umani, Teheran ha mostrato debolezza e imbarazzo. Per questo motivo, i funzionari europei dovrebbero attuare una serie di misure simboliche per segnalare il proprio disappunto all’Iran, e mostrare alla reticente popolazione iraniana che le politiche interne del suo governo non sono una preoccupazione minore rispetto alle sue ambizioni nucleari. Un consenso su ampie sanzioni economiche europee contro l’Iran è ancora lontano. Nel frattempo, l’Europa può ancora attuare una serie di misure simboliche e morali che avrebbero effetto sia sul regime che sulla popolazione.
scacchiere
Unione Europea/ la “lista della spesa”
della nuova alleanza transatlantica
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Successi, fallimenti e strategie post Bucarest DI
GIOVANNI GASPARINI
utti i matrimoni e le alleanze comportano la celebrazione di riti; il rapporto fra Europa e Stati Uniti nell’ambito della sicurezza si tiene ormai con cadenza annuale in una diversa città europea, sotto forma di vertice dell’Alleanza Atlantica. A nove anni dal vertice celebrativo del cinquantesimo anniversario, allora caratterizzato dalla grave crisi nei Balcani, la Nato si riunisce nuovamente per tentare di trovare allo stesso tempo una sostenibile strategia di lungo periodo e una soluzione pratica ai problemi operativi immediati, oggi dati dall’Afghanistan. Il vertice Nato di Bucarest di inizio Aprile si è concluso come sempre con un lungo comunicato in cui si elencano tutti i temi discussi e i relativi punti di consenso all’interno dell’Alleanza. Questa “lista della spesa” indica successi (pochi, a meno di non considerare la sopravvivenza un obiettivo in se), insuccessi (scarse capacità, incapacità di trovare una linea comune che valorizzi allo stesso tempo dissuasione e prevenzione) e partite ancora in bilico, come in Afghanistan, dove a fronte di un rilancio di una strategia “sulla carta” si deve registrare una situazione “sul campo” in continuo deterioramento. Si è trattato dell’ultimo vertice dell’Alleanza Atlantica cui ha partecipato il presidente Bush, il quale, conscio della sua prossima uscita di scena, ha tenuto fermi due obiettivi solo parzialmente raggiunti, entrambi di alto valore simbolico ma di incerto impatto strategico: l’allargamento della Nato a Ucraina e Georgia e l’avvio della componente in suolo continentale europeo del discusso sistema di difesa anti-missile americano. La proposta di inglobare i due Paesi di area ex-sovietica ha suscitato l’opposizione francese e tedesca,
determinando un compromesso soddisfacente per tutti gli attori: il piano d’accesso è rinviato, con sollievo degli europei e dei russi, ma al contempo si riafferma il principio della “porta aperta” e si rigetta il tentativo russo di porre veti all’adesione di un altro Paese, secondo quanto voluto da Washington. Lo sviluppo della difesa anti-missile americana in Europa è stato invece oggetto di vertici bilaterali separati fra Usa e Russia, in cui si sono registrate alcune aperture, tagliando così fuori gli europei da una discussione che riguarda anche la loro sicurezza. L’occasione del cambio di potere alla Casa Bianca deve portare con se l’avvio di una riflessione radicale, tesa a rilanciare una nuova alleanza strategica transatlantica di ampio respiro, più equilibrata e consona alle sfide della globalizzazione. Dopo otto anni di “vacanza strategica” negli anni Novanta e otto anni di arrogante “inconsistenza (per usare un eufemismo) strategica” dall’inizio del nuovo millennio, davanti ad una situazione economica e di sicurezza in rapido deterioramento, vi è bisogno di un nuovo accordo euro-americano. Il principale punto di partenza per questa ri-fondazione della partnership transatlantica deve nascere dalla constatazione americana che vi è un nuovo attore internazionale importante e con un alto potenziale stabilizzante: l’Unione Europea, la quale si è mostrata ben più responsabile ed efficace della somma dei suoi Stati membri, ancora frenati da una concezione di sovranità inadatta alle sfide globali. Il rapporto transatlantico dovrà quindi sempre più divenire un rapporto bilaterale fra Usa e Ue, non solo come già avviene in ambito economico, ma anche in quello della sicurezza. I due temi inoltre sono sempre più legati strutturalmente e le pesanti prospettive di 105
scacchiere
Risk crisi economica generalizzata pongono una forte domanda di governance globale, davanti a cui la cura protezionistica da molti evocata ed invocata potrebbe rivelarsi assai peggiore del male da curare. Se gli Stati Uniti continueranno a perseguire una strategia europea incerta ed altalenante, in cui privilegiare il “divide et impera” fra gli europei, si troveranno davanti un partner certo più docile e meno pretenzioso, ma anche quasi inutile. L’Europa non è certo più il luogo del fuoco strategico americano, ma ne rappresenta comunque l’unico reale alleato. Ciò comporta che la strategia dei singoli Paesi europei sia destinata a svilupparsi necessariamente in chiave europea, pena il loro ineluttabile declino ed incapacità d’influenza. Ciò non significa che gli Stati nazionali siano destinati a scomparire nel breve periodo, né che non si debba sviluppare una “sana” competizione fra membri dell’Unione, né che tutti gli Stati debbano essere considerati “eguali” indipendentemente dal loro effettivo peso e capacità. Di conseguenza, si pone il problema della leadership interna all’Unione, tema particolarmente sentito anche per il recente attivismo francese sotto la presidenza Sarkozy. La leadership francese si basa su una certa solidità economico-industriale e sulla capacità di saper compiere investimenti strategi-
ci anche consistenti (nel settore spaziale per esempio), quanto meno in confronto con gli altri Paesi europei. In ambito Difesa, solo il Regno Unito si dota di capacità comparabili, ma senza l’elemento di autonomia strategica che caratterizza la politica francese, dovuto al “legame particolare” inglese con gli Stati Uniti e ad una certa tendenza a pensare al proprio posto in Europa “con il freno a mano inserito”, più in funzione di blocco che in veste propositiva. Ma la volontà di leadership francese si scontra con l’opposizione generata dall’arroganza con cui si pone nei confronti dei potenziali alleati; in realtà in Europa oramai si guida tramite il consenso e il ruolo di primus inter pares lo si vince convincendo e contrattando, più che imponendosi. Inoltre, diversi Stati “nuovi” europei, Polonia, Repubblica Ceca e Stati baltici in particolare, giocano proprio la carta della relazione transatlantica bilaterale per distanziarsi da un potenziale “direttorio” alla francese. E così, come i famigerati capponi di Renzo di manzoniana memoria, invece di dedicarsi allo sviluppo di politiche comuni che ne accrescano la credibilità nei confronti dell’alleato americano, i gloriosi Statinazione europei si beccano fra di loro, finendo inermi di fronte ai veri problemi globali della sicurezza e dello sviluppo.
Russia/ l’occidente deve sfidare mosca
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sul terreno della diplomazia
E presentare una ferrea proposta per l’Abkhazia e l’Ossezia del Sud DI
DAVID J. SMITH
a mancata concessione del Map alla Georgia ed all’Ucraina, sancita dal fallimento del summit Nato di Bucarest del 2-4 aprile, è un tremendo errore geopolitico. Il presidente russo Vladimir Putin ha rifiutato il compromesso messo a punto dall’Alleanza prima di lasciare la capitale romena, ed è tornato a casa per 106
portare a termine il suo piano di annessione dei territori georgiani di Abkhazia e Ossezia del Sud. L’Occidente, come Putin si aspettava, ha replicato con parole stizzite, ma adesso bisogna vedere se a queste dure dichiarazioni seguiranno i fatti; bisogna avere il coraggio di una proposta audace. Il 16 aprile, Putin ha spinto il governo russo ad instal-
scacchiere lare nei due territori georgiani uffici burocratici tipici delle repubbliche autonome russe, portando così, praticamente, l’Abkhazia e l’Ossezia del Sud all’interno del sistema legale ed economico russo. Data la debolezza dimostrata da qualche membro della Nato a Bucarest, Putin si sarebbe aspettato un giudizio più morbido sulle sue conquiste territoriali; invece, queste hanno provocato l’irrigidimento di Francia, Germania, Regno Unito e Stati Uniti, che sono membri del Gruppo di Amici che lavora ai problemi dell’Abkhazia. I quattro Paesi hanno rilasciato una dichiarazione nella quale «riaffermano il proprio impegno per la sovranità, l’indipendenza e l’integrità territoriale della Georgia», e ancora: «Esortiamo la Federazione Russa a revocare o a non applicare la propria decisione del 16 aprile. Accogliamo con favore il fatto che il presidente georgiano abbia recentemente messo in campo una nuova iniziativa per una risoluzione pacifica del conflitto in Abkhazia… ci sono in questo momento molte idee utili sul tavolo per incontrarsi e trovare un accordo nell’interesse comune». La dichiarazione è chiara e forte, ma insufficiente. Putin ha già fatto sapere - usando termini inopportuni per un capo di Stato - che la presa di posizione occidentale non lo farà indietreggiare. L’Occidente adesso deve far seguire i fatti alle parole con una ferrea proposta per l’Abkhazia e l’Ossezia del Sud, sfidando la Russia sul terreno della diplomazia. La proposta possibile si potrebbe chiamare Zog+2, perché comporterebbe una zona di libero scambio per l’Abkhazia tra Zugdidi, Ochamchire e Gali, e un nuovo tipo di trattato, denominato 2+2+2, per l’Ossezia del Sud. La proposta avrebbe il pregio di mantenere lo slancio diplomatico occidentale, il che è un fatto positivo in una situazione altrimenti drammatica, e di testare la possibilità di migliorare le relazioni con la Russia sotto il neopresidente Dmitry Medvedev. Il ministro degli Esteri lussemburghese Jean Asslborn, dopo un incontro della Nato del 6 marzo che non risolse la questione del Map prima del Summit di Bucarest, ha fatto riferimento proprio a
questo aspetto: «In Russia c’è un nuovo presidente, e io credo che l’Unione Europea vorrà impostare il proprio rapporto con questo Paese su presupposti diversi». Asselborn ha espresso un desiderio ampiamente condiviso e affatto irragionevole, ma i leader occidentali non devono lasciare che questa speranza svilisca la propria determinazione, usandola come scusa per non prendere una decisione difficile. Piuttosto, dovrebbero mettere alla prova Medvedev per capire se il loro desiderio di intendersi con lui è reciproco, mentre i diplomatici occidentali dovrebbero correre a Tbilisi per aiutare la Georgia a mettere a punto una trattativa secondo le seguenti linee: 1. Partendo dalla dichiarazione dei membri occidentali del Gruppo di Amici, l’Unione Europea e gli Stati Uniti dovrebbero congiuntamente proclamare il proprio sostegno all’offerta del presidente georgiano Mikheil Saakashvili di una grande autonomia per l’Abkhazia all’interno della Georgia, e sottolineare questo impegno nominando diplomatici di alto livello per facilitare le trattative in questo senso, sfidando la Russia a fare lo stesso. 2. L’Unione Europea e gli Stati Uniti dovrebbero sostenere la proposta georgiana di modificare il negoziato per l’Ossezia del Sud dall’improduttivo Comitato Unitario di Controllo al promettente 2+2+2, che metterebbe insieme le due nazioni interessate, la Georgia e la Russia, più le due amministrazioni presenti in Ossezia del Sud - quella di Eduard Kokoity sostenuta da Mosca, e quella di Dmitry Sanakoyev sostenuta da Tbilisi - più le due istituzioni maggiormente rispettate e coinvolte, l’Ocse e l’Unione Europea. Quest’ultima potrebbe nominare un suo rappresentante e unirsi agli Stati Uniti nel seguire il lavoro dell’Ocse, sfidando nuovamente la Russia a fare lo stesso. 3. La Georgia dovrebbe ideare una proposta per una zona di libero scambio in Mingrelia e Abkhazia orientale (Zog); poi, i membri occidentali del Gruppo di Amici dovrebbero invitare la Russia e gli altri membri del Gruppo ad un colloquio mediato tra Georgia, l’Autorità esistente di fatto in Abkhazia, i 107
scacchiere governi locali e le organizzazioni internazionali per stabilizzare la zona. Questa iniziativa potrebbe evitare le sabbie mobili che avviluppano qualsiasi discorso sull’Abkhazia, dimostrando che i popoli di tutte le nazionalità possono lavorare insieme per portare il benessere economico nella regione. 4. Se lo Zog decollasse, l’area avrebbe più bisogno di uffici legali che di soldati per il mantenimento della pace. I membri occidentali del Gruppo di Amici potrebbero invitare la Russia ad unirsi a loro nel supportare una risoluzione delle Nazioni Unite che renda merito alle forze di pace russe per il servizio reso, e
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chiami gli stati membri a contribuire ad una forza di polizia controllata e diretta dall’Onu. Se funzionasse, il principio dello Zog potrebbe allargarsi a tutta l’Abkhazia e Ossezia del Sud. I soliti scettici diranno che questa idea è troppo audace, che Sukhumi la screditerà e Mosca la rifiuterà… Può darsi. Ma tre cose sono certe. Primo, non possiamo sapere se non tentiamo. Secondo, nessuna cosa buona è semplice. Terzo, solo una proposta solida come questa ci darà la misura di che uomo sia Medvedev, e così, forse, sarà possibile fare qualche passo in avanti per i popoli dell’Abkhazia e dell’Ossezia del Sud.
America Latina/ sul venezuela
soffia il vento nazionalista E si spande sull’intero continente DI
RICCARDO GEFTER WONDRICH
el 2007 era toccato alle raffinerie petrolifere, alle imprese elettriche e delle telecomunicazioni. Ora è la volta dell’industria siderurgica e di quella del cemento. Il passo successivo potrebbe vedere la nazionalizzazione del settore bancario (con importante presenza di capitali spagnoli), agro-alimentare e minerario (dove sono coinvolti investimenti statunitensi e canadesi). Tutto nel segno dell’industrializzazione interna a tappe forzate. L’ondata di privatizzazioni che aveva travolto l’America Latina negli anni Novanta sta lasciando il posto ad un riflusso nazionalista che ha in Caracas il proprio epicentro. Un riflusso che non conosce bandiere e coinvolge anche importanti imprese di capitali latinoamericani. Altri Paesi stanno seguendo l’esempio venezuelano. La Bolivia ha rinegoziato i contratti nel settore del gas e del petrolio, l’Ecuador ha decretato il blocco delle esplorazioni nel settore minerario nell’attesa di una legge che aumenti le entrate fiscali, in Paraguay il presidente eletto Fernando Lugo ha promesso la revi-
sione dei trattati di Itaipú e Yacyretá che regolano la vendita di energia idroelettrica al Brasile e all’Argentina, in Argentina si rincorrono le voci di una prossima nazionalizzazione della compagnia aerea di bandiera, oggi controllata da capitali spagnoli.È finita l’epoca delle ricette uniche propugnate dagli organismi multilaterali, accompagnate da meccanismi di enforcement incentrati principalmente sul rifinanziamento del debito estero. Lo scenario è radicalmente cambiato: aumento generalizzato dei prezzi degli idrocarburi, dei minerali e dei prodotti agricoli da un lato, spesa pubblica crescente e forti pressioni inflazionistiche, dall’altro. A ciascun governo, quindi, le proprie scelte di politica economica. Alcuni Paesi hanno adottato misure di precauzione: la politica fiscale più prudente è quella del Cile, che ha costituto un fondo anticiclico con i proventi eccezionali della produzione di rame risparmiando circa 15 miliardi di dollari e destinando alla spesa pubblica solo gli interessi di questa ricchezza. All’estremo opposto sta il Venezuela di Hugo 109
Risk Chávez, che accelera lungo la strada dell’autarchia economica. In novembre si eleggono i 24 governatori, e la politica interna predomina rispetto alle alleanze internazionali. Nel 2007 si stima che il governo abbia speso 7 miliardi di dollari per acquisire il controllo delle società da nazionalizzare. Dopo la sconfitta al referendum nel dicembre scorso, e soprattutto in seguito alle prove dell’appoggio alle Farc emerse con l’uccisione del guerrigliero Raúl Reyes, il 1 marzo, Chávez si è lanciato in una difficile riconquista del consenso interno. E a nulla hanno valso le intercessioni della presidente argentina Cristina Kirchner per evitare la nazionalizzazione di Sidor, la più importante acciaieria in Venezuela e impresa chiave del gruppo siderurgico italo-argentino Techint. Sidor era stata privatizzata nel 1997 per un valore di 1200 milioni di dollari. Oggi il suo fatturato raggiunge i 2400 milioni di dollari, con 10mila tra dipendenti e personale a contratto. È controllata al 60 percento da Ternium (gruppo Techint), leader in America Latina nella produzione di acciaio, mentre il restante 40 percento è in mano allo Stato venezuelano e ai lavoratori e pensionati dell’azienda. L’impianto di Sidor produce il 40 percento dei laminati di acciaio del gruppo Techint. Ora il governo venezuelano acquisirà la maggioranza del pacchetto azionario e il controllo dell’azienda. La giustificazione è sempre la stessa: le imprese straniere si sono installate in Venezuela per esportare la loro produzione senza rifornire adeguatamente il mercato interno, non investono a sufficienza e sfruttano i lavoratori per massimizzare il profitto. Tutto ciò è incompatibile con i lineamenti del piano quinquennale di sviluppo economico e sociale tracciati un anno e mezzo fa. Il Proyecto Nacionalista Simón Bolivar prevede infatti di ridurre il rango delle “imprese capitaliste private” al livello delle “imprese di produzione sociale” e delle “imprese capitaliste di Stato”. In questa logica, «lo Stato conserverà il totale controllo delle attività produttive di valore strategico per lo sviluppo del Paese». Su queste basi si giustifica il piano di statalizzazioni realizzato di concerto con le rappresen110
scacchiere tanze sindacali. Le distorsioni introdotte nel mercato continuerà Sidor ad esportare il 30 percento della propria produzione, una volta che sarà amministrata dallo Stato? - e l’esigenza di contare con un management sufficientemente qualificato non sembrano preoccupare più di tanto il governo venezuelano. Nel frattempo, la scarsità di beni alimentari sul mercato interno, gli aumenti salariali e la pressione sul tasso di cambio stanno spingendo l’inflazione oltre la soglia di guardia: nel primo trimestre 2008 l’aumento dei prezzi è stato del 7,1 percento.Le conseguenze della nazionalizzazione di Sidor possono essere rilevanti in chiave internazionale, giacché essa colpisce direttamente le relazioni con Buenos Aires. Techint è il gruppo industriale privato più importante dell’Argentina e, fino ad ora, ha fatto da garante al sostegno dell’Unione Industriale ai due governi Kirchner. Nel 2007 il presidente del gruppo, Paolo Rocca, si era recato a Caracas insieme al presidente Néstor Kirchner proprio per evitare la nazionalizzazione forzosa di Sidor. La decisione di Chávez, quindi, rappresenta uno schiaffo allo stesso governo argentino. Diverse aziende nel settore metalmeccanico hanno congelato i propri piani di investimento in Venezuela. Aumenta la diffidenza nei confronti del Venezuela e si moltiplicano i casi di ritardi nei pagamenti e nell’esecuzione dei progetti di cooperazione. Soprattutto, sono scarse le garanzie giuridiche che tutelano un investitore estero dopo la creazione di una società mista con la messa a fattor comune del proprio know how. Preoccupazioni simili sono condivise dal Brasile e dal Messico. La società brasiliana Usiminas controlla il 14 percento delle azioni di Sidor, e il governo Lula ha già denunciato che dietro la nazionalizzazione degli attivi di Petrobras in Bolivia avvenuta nel 2007 vi fosse la mano della venezuelana Pdvsa. Il maggior concorrente regionale di Techint, la brasiliana Gerdau, nel 2007 acquisì la terza acciaieria venezuelana. Per ora non è tra gli obiettivi di Chávez, ma il futuro resta incerto. Nel caso messicano la situazione è simile a quella di Sidor, e la decisione di nazionalizzare l’industria cementiera Cemex rischia di incrinare i rapporti con
scacchiere il governo di Felipe Calderón. Cemex produce il 45 percento del cemento e calcestruzzo del Venezuela, con 3mila dipendenti e una trentina di impianti produttivi. In attesa delle ratifiche dei parlamenti di Brasile e Paraguay, il cammino del Venezuela per entrare a pieno titolo del Mercosur appare in salita,
sempre che tale obiettivo rientri ancora nelle priorità politiche di Caracas. A giudicare dai fatti, la cosiddetta “rivoluzione bolivariana” sta entrando in una fase in cui la politica estera passa in secondo piano rispetto all’imperativo di rafforzare il processo di industrializzazione interna. A qualsiasi prezzo.
Africa/ sette paesi sull’orlo
del precipizio sono un rischio globale
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Ma Europa e Usa guardano da un’altra parte DI
EGIZIA GATTAMORTA
e si parla del continente africano, il riferimento costante è alle guerre dimenticate, alle pandemie, agli effetti distorti della decolonizzazione, alla corruzione e alla cleptocrazia. L’Africa è un contenitore da tenere chiuso, un vaso di Pandora, in cui è più saggio far rimanere compresse le numerose crisi locali, pena una pericolosa fuoriuscita disordinata con effetti indesiderati nello spazio circostante. Geopolitica e globalizzazione hanno punito pesantemente la regione negli anni Novanta, privandola di un potere decisionale e lasciandola alla periferia delle relazioni internazionali. Recentemente, però, il clima di insicurezza che aleggia a livello planetario - dovuto per lo più, ma non solo, ad una rete terroristica ben articolata e strutturata in grado di agire nei punti più sperduti del globo - ha indotto a riesaminare seriamente le dinamiche del vasto spazio a sud del Mediterraneo, comprendente la fascia subsahariana. Quanto potrebbe influire la stabilità dei Paesi africani sul mondo degli affari, sugli equilibri regionali e da qui a largo raggio sulla stabilità mondiale? Molto, se si prende in seria considerazione una recente classifica stilata dal Jane’s, una rivista internazionale che focalizza l’attenzione sui problemi della sicurezza e della difesa. Dai dati emerge un quadro anomalo e raccapricciante: accanto alle prevedibili Gaza e West Bank, nonché al presumibile Afghanistan, si affermano a ragion veduta Somalia, Sudan, Costa D’Avorio, Zimbabwe, Ciad, Repubblica Democratica del Congo, Repubblica
Centrafricana e Haiti. Vale a dire che su 10 entità a più alto rischio, 7 sono africane. La lista induce a riflettere, non solo perché non sono inseriti Iraq e Pakistan, ma perché viene appurato uno stretto legame tra stabilità interna del continente reietto e stabilità mondiale. Da che deriva l’instabilità dei suddetti Paesi del black continent? Possono essere stabiliti criteri precisi in base ai quali raggruppare un determinato numero di Stati? Se ne sarebbero potuti aggiungere altri con un minimo di lungimiranza? Interferenze esterne e fattori interni si abbinano con diverso peso. Vi sono dei casi in cui sono predominanti le prime, altri in cui prevalgono i secondi; poi vi sono combinazioni in cui hanno una preponderanza i fattori geopolitici, altre in cui hanno una rilevanza quelli geoeconomici, altri in cui prevalgono dinamiche interne, legate a vecchi schemi di potere. Religione, petrolio, diamanti, etnie e potere si miscelano esplosivamente. In Somalia e Sudan, ad esempio, si può leggere tra le righe lo scontro diretto tra forze islamiche radicali e moderate oppure tra forze islamiche e schieramenti cristiano-animisti. La situazione di Mogadiscio, ingovernabile e ingestibile dalla caduta di Siad Barre, non sembra volgere alla stabilizzazione. La guida del Presidente Yusuf - totalmente dipendente dal supporto etiopico - si è arenata nel dialogo con le altre forze presenti sul terreno, cioè le Corti islamiche. Non si è realizzata la liaison tra forze moderate e per un certo periodo hanno prevalso gli schieramenti radicali islamici (giugno-dicembre 2006). Sin dagli albori 111
Risk del governo federale di transizione, gli scontri sono stati violenti e la nomina di Nur Hassan Hussein come capo del governo al posto di Mohammed Ali Gedi (novembre 2007) non sembra aver riscosso il successo auspicato. Sono giornaliere le azioni di guerriglia contro i soldati etiopici e ugandesi (questi ultimi rappresentanti dell’Unione africana), ma anche gli scontri tra membri dei diversi clan attivi nell’area (darod e hawiye), azioni che hanno portato alla fuga migliaia di persone che vanno a premere sulle aree di confine con il Kenya. Gli scontri nel 2007 hanno causato la morte di oltre 6500 persone e 1,5 milioni di sfollati interni. Per ciò che concerne il Sudan, le tappe previste dagli accordi del 2005 per la pacificazione tra nord e sud hanno avuto un percorso altalenante. Il rimpasto di governo e la minaccia nei mesi scorsi da parte di Salva Kiir di ritirarsi dall’esecutivo, interrompendo l’implementazione degli accordi, non sono un buon segnale per la stabilità del Paese. Diversi i problemi sul tavolo. Il censimento iniziato il 22 aprile scorso (il primo dal 1993, rinviato almeno tre volte negli ultimi mesi) pur essendo considerato un requisito essenziale per le elezioni del 2009, desta dubbi circa l’accuratezza e gli effettivi esiti che potrebbero portare ulteriori sbilanciamenti nelle aree petrolifere. La spartizione dei proventi finanziari provenienti dalla ricca regione petrolifera dell’Abyei è un’incognita pericolosa, come anche il ridispiegamento delle forze armate. A ciò si aggiunga, come ricordato dal leader islamico Hassan alTurabi, che il governo di Khartoum sta fallendo nel promuovere lo sviluppo e la ricostruzione del Sud del Paese. I fatti del Darfur, sul fronte occidentale sono poi cronaca quotidiana. Proseguono gli attacchi dei Janjaweed contro la popolazione inerme delle tre regioni interessate, l’incapacità dei ribelli del Justice and Equality Movement e delle fazioni del Sudan liberation movement/army di fare un fronte unico nei negoziati con il governo di El Bashir permettono l’impunità delle autorità centrali che proseguono di fatto con il loro disegno genocidiario, pur di mantenere il paese unito e non sgretolarlo in molteplici entità. È palese che in questi due casi religione e petrolio si mescolano con interessi esterni. Usa, Cina, Europa favoriscono la mediazione cercando parallelamente di 112
tutelare i loro interessi strategici o economici, di grande rilievo soprattutto nel caso sudanese (Pechino docet). Il petrolio, secondo alcune voci, avrebbe fomentato gli scontri in Ciad e le ribellioni contro il potere centrale di Idriss Deby (nella foto). In questo caso però si devono anche inserire il peso dei rifugiati sul confine orientale con il Darfur e gli interessi francesi che supportano il potere centrale, di certo fondamentali negli accadimenti degli ultimi mesi. Se Deby è rimasto saldo a Ndjamena e ha potuto respingere gli attacchi nell’ultimo periodo del Front Uni pour le Changement Démocratique, del Rassemblement des Forces Démocratiques e del Mouvement pour la Démocratie et la Justice au Tchad lo deve in particolare al battaglione Epervier ed al forte sostegno dell’Eliseo.
I diamanti ed il coltan sarebbero invece la causa
prima degli scontri in Repubblica Democratica del Congo. Le elezioni del 2006 e la presa ufficiale di potere da parte del giovane Joseph Kabila hanno messo in secondo piano il Rassemblement Congolais pour la Démocratie di Azarias Ruberwa ma non ha hanno portato a effettivo compimento l’altro obiettivo, cioè quello dell’integrazione delle truppe del Gen. Laurent Nkunda e delle milizie Mai Mai. L’area del Nord del Kivu continua a essere quella più delicata, l’epicentro delle violenze in cui si bilanciano interferenze ed interessi regionali (Rwanda e Uganda). Motivazioni interne, non tanto economiche quanto politiche locali, si possono attribuire all’instabilità in Repubblica Centro Africana e Costa d’Avorio. Il cambio di guida al potere centrale di Bangui del marzo 2003, tra Ange-Felix Patassè e il Gen. Bozizè ha certamente favorito il gruppo etnico dei Gbaya che si trova a controllare tutto il Paese. Non indifferente il peso dei rifugiati provenienti dal Sudan ma i due focolai locali si trovano nel nord ovest (dove ci sono i vecchi sostenitori di Patassè) e nel nord est (dove sono presenti dissidenti dell’attuale regime). Di fatto Bozizè mantiene il potere grazie all’appoggio di Parigi e Ndjamena. Senza questi due forti supporti non solo no avrebbe preso il potere ma non avrebbe saputo neanche gestire le ribellioni degli ultimi due anni. La Costa d’Avorio, un tempo gioiello della
scacchiere
regione occidentale africana, “annaspa” nell’instabilità dal settembre 2002. Il tentato golpe contro il presidente Gbagbo ha praticamente diviso in due il Paese. L’implementazione degli Accordi di Ouagadougou raggiunti dopo 5 anni (marzo 2007) sta dando lentamente i suoi risultati. Il disarmo, il processo di identificazione e il censimento elettorale sono obiettivi necessari ma non sufficienti. Le elezioni del prossimo novembre saranno la vera tappa, l’unica significativa per promuovere stabilità e sviluppo nel paese. Il caso dello Zimbabwe è poi esemplare. L’uomo ed il partito che hanno rappresentato l’affrancamento dal potere coloniale bianco, hanno ormai raggiunto la piena simbiosi con le istituzioni. Robert Mugabe e lo Zimbabwe African National UnitPatriotic Front (Zanu-Pf), non accettano la sconfitta ed il turn over, fino al punto di mettere a repentaglio la stabilità del Paese e della regione. Le elezioni del 29 marzo scorso, suddivise in consultazioni presidenziali, parlamentari e locali, hanno evidenziato un profondo malcontento e disagio sociale dopo 28 anni di controllo dello Zanu-Pf, ma ancor più il grande coraggio di un popolo di esprimere il proprio dissenso anche laddove non è concesso dalla repressione giornaliera da parte degli organi di potere. Quello cui si assiste ora è lo spettacolo più basso dei giochi politici: riconteggio dei voti, blocco della pubblicazione dei risultati presidenziali, politica imbelle regionale che - pur consapevole - accetta questa manipolazione evidente. Con la parvenza della quiet diplomacy, Mbeki e i suoi colleghi si stanno rendendo complici di violenze e soprusi contro una popolazione vessata da anni di regime dispotico. È questo il quadro africano dei Paesi ad alto rischio. Con un po’ di sagacia si potrebbero aggiungere anche Kenya, Mali e Niger. Una loro debacle comporterebbe l’ulteriore indebolimento del continente e reazioni a catena con effetti indesiderati. Si dovrebbe riflettere su questi dati… non in maniera allarmistica ma concreta e costruttiva. Non è sufficienti dare aiuti o inviare peacekeeper all’occorrenza, è necessario monitorare costantemente i processi. L’instabilità regionale di oggi, quella che non interessa ad Europa ed America, potrebbe essere la loro insicurezza di domani. 113
La storia
IL RINASCIMENTO DI CLAUSEWITZ MINUTO PER MINUTO di Virgilio Ilari «Quando si parte il gioco della zara, colui che perde si riman dolente, repetendo le volte, e tristo impara » (Dante, Purgatorio, VI, 1-3)
on solo la vita, ma anche la fortuna letteraria di Clausewitz stanno ad attestare che la scienza è figlia della sconfitta. Furono la vedova, il fratello e un gruppo di amici e discepoli a curare, a proprie spese, la prima edizione delle sue opere (Hinterlassene Werke des Generals Carl von Clausewitz über Krieg und Kriegsführung, pubblicate per i tipi di Ferdinand Dümmler a Berlino nel 1832-34). Erano 10 volumi, i primi tre contenenti il Vom Kriege, il IV e V dedicati allo studio delle campagne del 1796 e 1799 in Italia e Svizzera, il VI-VII alle campagne napoleoniche del 1805-09 e del 1812-14, l’VIII alla
N 114
storia campagna di Waterloo e gli ultimi due alle campagne di Gustavo Adolfo, Turenne, Luxemburg, Sobieski, Münich, Federico il Grande e il duca di Brunswick, «con altri materiali storici per la strategia».
Bücherfreude, Wegweiser Verlag). La Strategia del 1804 fu pubblicata nel 1937 a cura di Erhard Kessel (Strategie aus dem Jahre 1804 und Zusätzen von 1808 und 1809, Hamburg, Hanseatische Verlagsanstalt). Altre raccolte di lettere e scritti inediti sono state pubblicate nel 1976 (M.-L. Questa prima edizione, con una tiratura di Steinhauser, Gallimard), 1979 (Hahlweg, 1.500 copie, non era ancora esaurita, quando Osnabrück), 1981 (Ausgewählte militärische Dümmler ne pubblicò una seconda con varie modi- Schrifte, a cura di Gerhard Förster e Dorothea fiche: i primi tre volumi nel 1853-57, il IV e V nel Schmidt, Berlin, Militärverlag der Deutschen 1858 e i restanti nel 1863-64. Pur meno fedele della Demokratischen Republik) e 1992 (Peter Paret e prima al testo originale, fu questa l’edizione del Vom Daniel Moran, Historical and Political Writings, Kriege più diffusa, sulla quale Princeton U.P.). La traduzione vennero fatte quasi tutte le sucinglese della campagna di Dalla prima edizione cessive riedizioni (altre quattro Russia fu ripubblicata nel 1995 delle sue opere tedesche sino alla prima guerra (The Campaign of 1812 in mondiale), come pure i comRussia, Da Capo Press) e 2006 nel 1832 a spese pendi e le traduzioni pubblicati (The Russian Campaign of della vedova e un all’estero. Bisognò attendere 1812, Transactions Publishers). gruppo di amici, quasi un secolo per una ristamIn Italia il Vom Kriege arrivò solall’arrivo pa commentata della prima tanto nel 1934, con la pubblicadel Vom Kriege edizione, curata dallo storico zione di Clausewitz e la guerra militare Werner Hahlweg odierna, del colonnello viterbese in Italia nel 1934 (Bonn 1952). La prima edizioEmilio Canevari (1892-1966). fino all’Associazione ne (tranne il volume VIII) può Antonio Gramsci se lo appuntò dedicata al generale essere scaricata dal sito Gallica nei Quaderni, in una noterella che, ancora oggi, (Bibliothèque numérique) della pedante e maligna, poi intitolata conta mille soci Bibliothèque Nationale de dai suoi primi editori La cultura France, mentre i volumi IV-X degli ufficiali, in cui osservava della seconda sono disponibili in Google libri. che in un articolo dell’ammiraglio Sirianni il nome era sempre riferito come «Clausenwitz» (Passato e Una prima traduzione inglese del saggio presente, Einaudi, Torino, 1954, p. 128). Il libro di sulla campagna di Russia risale al 1843. Le prime Canevari sollecitò anche un breve articolo di traduzioni inglese, francese e russa del Vom Kriege Benedetto Croce («Azione, successo e giudizio: note risalgono al 1873, 1887 e 1902, l’ultima inglese al in margine al Vom Kriege»): da un appunto risulta 1976 (Princeton U.P.), realizzata da sir Michael Eliot che cominciò a scriverlo il 27 dicembre 1934 e lo Howard (1922) e dall’americano Peter Paret (1924) pubblicò tra gli Ultimi Saggi (1935). L’unica tradusul testo curato da Werner Hahlweg. La corrispon- zione italiana integrale del Vom Kriege è ancora queldenza con la moglie fu pubblicata in Germania nel la pubblicata nel 1942 dall’ufficio storico del corpo 1916, con ristampe nel 1917 e nel 1934 (Linnebach, di stato maggiore del Regio Esercito, con la firma del Karl und Marie von Clausewitz. Ein Lebensbild in generale e senatore Ambrogio Bollati (1871-1950) e Briefen und Tagesbuchblättern, Volksverband d. di Canevari. Traduttore di Hindenburg, von 115
Risk
La Convenzione di Tauroggen del dicembre 1812; in apertura, ritratto di Clausewitz; nelle pagine seguenti: un ritratto di Carl Schmitt e la Commissione di Riforma dell’esercito riunita a Koenigsberg del 1807.
Bernardi e Falkenhayn, come pure di vari documenti dell’archivio di stato germanico e dell’archivio di guerra di Vienna. Bollati fu anche autore di uno dei famosi libri (il suo sulla guerra di Spagna) scomparsi dal catalogo Einaudi dopo la caduta del regime (Vittorio Messori, «Il giallo dei libri scomparsi», Corsera 11 luglio 1998). Primo esegeta italiano di Clausewitz e ammiratore del modello militare tedesco, congedato a seguito di un’inchiesta amministrativa su un suo comando in Libia e divenuto critico militare (con lo pseudonimo di “Maurizio Claremoris”) del Regime Fascista, il giornale di Farinacci, Canevari fu supposto suggeritore della clamorosa requisitoria pronunciata dal gerarca cremonese contro il maresciallo Badoglio nel dicembre 1940, e riesumato solo nel 1941, quando, subentrato a Badoglio, il maresciallo Cavallero intensificò la cooperazione militare con la Germania. In realtà Bollati e Canevari si limitarono a rivedere la correttezza di una traduzione commissionata ad un professore universitario. Non ho potuto verificare la notizia (avuta da fonte autorevole, ma de relato) che alla traduzione abbia collaborato anche l’ingegnere 116
napoletano Luigi Cosenza (1905-1984), allora ufficiale di complemento e già abbastanza affermato come architetto, futuro esponente di spicco del Partito Comunista (le sue arringhe in consiglio comunale contro lo scempio laurino di Napoli sono uno dei pezzi forti del film di Rosi Le Mani sulla città).
In ogni modo questa traduzione ebbe una scarsissima circolazione fino al 1970, quando fu ripubblicata da Mondadori (con ristampe 199097). Nel 1989 fu pubblicata anche dalla Rivista Militare con prefazione del generale Carlo Jean (1936), ed è questo il testo in seguito pubblicato da Laterza. La lettera del 1809 su Machiavelli (pubblicata anonima sulla rivista Vesta) compare in appendice alla traduzione dello scritto di Fichte curata da Gian Franco Frigo (Gallo, Ferrara 1990: 121-8). Nonostante la nutrita bibliografia (Katalog der Deutschen Nationalbibliothek), resta forse ancor oggi attuale l’annotazione fatta già nel 1857 dal suo estimatore Wilhelm Rüstow (1821-78), che Clausewitz, nonostante la sua fama, non era letto.
storia Introdotto da Franz Mehring (1846-1919) nella cultura comunista, annotato da Lenin nel 1915-17, durante la Repubblica di Weimar Clausewitz entrò nel pantheon della destra sovversiva, ma non per la sua teoria della guerra (dichiarata anzi superata da Ludendorff nel suo famoso saggio sulla guerra totale del 1934), ma per la sua teoria romantica e völkisch che in circostanze estreme lo Stato e lo stesso sovrano dovessero essere sacrificati alla sopravvivenza dell’esercito per l’onore della patria. Il 30 ottobre 1919, varcando il confine lituano per combattere assieme ai russi “bianchi” e ai corpi franchi tedeschi del Baltico sia contro i bolscevichi sia contro le forze anglo-francesi che sostenevano il governo democratico lituano, un battaglione ribelle della Reichswehr “provvisoria” prestò giuramento davanti all’obelisco che allora ancora commemorava la storica Convenzione di Tauroggen. Negoziata da Clausewitz - allora colonnello al servizio dello zar e citato da Tolstoi in Guerra e pace - la convenzione fu firmata il 30 dicembre 1812 tra i due generali prussiani von Diebitsch e York von Wartemburg, che comandavano rispettivamente l’Armata russa inseguitrice della Grande Armée e l’Armata prussiana ribellatasi all’ordine del re di proteggere le spalle dei francesi in rotta. Più tardi sia le destre che i comunisti tedeschi usarono l’esempio di Tauroggen per sostenere il revanscismo antioccidentale e la cooperazione con l’Unione sovietica, dal trattato di Rapallo (1922) al patto Ribbentrop-Molotov (1939) fino alla Repubblica democratica tedesca (1946-89). Inoltre la destra antiweimariana esaltò la figura di Yorck per invalidare l’obbedienza dei militari alla Repubblica di Weimar sorta dall’ingiusta pace di Versailles. Il caporale Adolf Hitler fu tra coloro che si identificarono nella figura dei soldati ribelli al loro re per il bene superiore della patria: citò nel Mein Kampf il manifesto politico lanciato nel 1812 da Clausewitz e onorò la memoria di Yorck con un film e col nome di uno degl’incrociatori della nuova Kriegsmarine. Durante la battaglia delle Ardenne dedicò un film a colori alla resistenza di Kolberg (assediata nel 1806-
07 non direttamente dai francesi, ma dai loro ausiliari tedeschi e italiani, sotto il comando del famoso avvocato-generale milanese Teulié, ucciso da una cannonata dei difensori mentre, ubriaco, li sfidava stupidamente in piedi su una batteria). Infine (come ci ha di recente ricordato il film La Caduta) battezzò “piano Clausewitz” l’estremo tentativo di difendere Berlino. Volendo dirla tutta, nel Vom Kriege si possono pescare anche perle antisemite (VI, 23).
Fu Werner Hahlweg (1912-89), con la sua edizione critica del 1952 e con la sua biografia del 1969 (Clausewitz, Soldat–Politiker–Denker, Göttingen, Münsterschmidt Verlag), a restituire Clausewitz alla quiete degli studi militari. L’interesse per il Vom Kriege rimase però per vent’anni circoscritto alla sola Germania, anche se non mancarono tentativi di adattarlo all’“era nucleare” e di usarlo per analizzare le guerre di liberazione nazionale del Terzo Mondo, e se nel 1963, nella sua famosa Teoria del partigiano, Carl Schmitt (1888-1985) fece un micidiale confronto tra la ribellione del generale Yorck e quelle dei suoi colleghi de Gaulle (1940) e Salan (1962). Perché si ponessero le condizioni di una vera e propria “Clausewitz Renaissance” nella comunità internazionale degli storici militari e degli studiosi di strategia, bisognò attendere la sconfitta americana in Vietnam, come dimostra il fatto che proprio nel 1976 comparvero, insieme ad un nuovo saggio di un allievo di Hahlweg (Wilhelm von Schramm, Clausewitz. Leben und Werk, Esslingen, Bechtle), la citata edizione inglese di Paret e Howard e altri due studi fondamentali, dello stesso Paret (Clausewitz and the State, Princeton U.P.) e di Raymond Aron (1905-83: Penser la guerre. Clausewitz, 2 voll., Gallimard). Seguirono nel 1981 una traduzione tedesca di Aron (Propyläen, Frankfurt a. M.), nel 1982 ancora un libro di Schramm (Clausewitz. General und Philosoph, Heyne, Monaco), nel 1983 uno di Howard (Clausewitz, Oxford U. P.), nel 1986 uno di Paret (nella riedizione, da lui curata, di Makers of Modern 117
storia Strategy, Princeton U.P., pp. 186-213) e un lavoro collettivo curato da Michael I. Handel (Clausewitz and Modern Strategy, Frank Cass, London) e nel 1987 una raccolta di scritti di Aron (Sur Clausewitz, Ed. Complexe, Bruxelles: ed. it. a cura del compianto amico Carlo Maria Santoro, Il Mulino, Bologna 1991). E poi ancora Kurt Guss (Krieg als Gestalt. Psychologie und Pädagogik bei Carl von Clausewitz, 1990), Dietmar Schössler (Carl von Clausewitz, Rowohlt, Reinbeck bei Homburg, 1991) e Handel (Sun Tzu and Clausewitz: The Art of War and On War Compared, Strategic Studies Institute, U.S. Army War College, 1991). Nell’ultima stagione della Prima Repubblica furono possibili perfino tre buoni contributi italiani, di Pier Franco Taboni (Clausewitz. La filosofia tra guerra e rivoluzione. Quattroventi, Urbino, 1990), Loris Rizzi (Clausewitz. L’arte militare, l’età nucleare, Rizzoli, Milano 1987) e Gian Enrico Rusconi (Rischio 1914, Il Mulino, Bologna 1987, pp. 147-164 «Clausewitz è caduto sulla Marna?»). In precedenza solo Piero Pieri aveva scritto un saggio a carattere meramente informativo («Il legame fra guerra e politica dal Clausewitz a noi», in Relazioni al X Congresso Internazionale di Scienze Storiche, vol. I, Firenze, 1955, pp. 277-339), propedeutico al suo noto saggio La guerra e la politica negli scrittori militari italiani (Firenze 1955: Mondadori, Milano 1970).
Al decennio Novanta risalgono anche due importantissimi studi sulla recezione di Clausewitz in Inghilterra e negli Stati Uniti (Christopher Bassford, Clausewitz in English. The Reception of Clausewitz in Britain and America 1815-1945, Oxford U. P. 1994) e in Russia e Unione Sovietica (Olaf Rose, Carl von Clausewitz. Zur Wirkungsgeschichte seines Werkes in Russland und den Sowjetunion 1836 bis 1994, Monaco, Oldenbourg Verlag, 1995). Un progetto di ricerca sulla recezione di Clausewitz in Italia, presentato nel 1996 da Andrea Molinari, fu bocciato a maggioranza dalla commissione del dottorato di ricerca in sto-
ria militare come scarsamente attinente alla materia. Sempre a maggioranza, lo stesso dottorato si auto estinse nel 1998. Nel 1991 Martin van Creveld (1946) mise in luce il limite storico della concezione clausewitziana della guerra, espressione di un’epoca incentrata sulla sovranità dei “Regni Combattenti” e non più in grado di spiegare la trasformazione della guerra nella nuova era della “Pace Celeste” inaugurata dalla fine dell’ultimo antagonista globale dell’Occidente. K. M. French, un maggiore dei marines che aveva ascoltato le lezioni di van Creveld a Quantico e studiato il suo volume The Transformation of War (New York, Free Press, 1991) ne fece oggetto di una interessante tesi di dottorato (Clausewitz vs the Scholar: Martin van Creveld’s Expanded Theory of War).
Nondimeno nell’ottobre 1996
l’autorevole Institute for National Strategic Studies americano pubblicò uno studio fondamentale del tenente colonnello Barry D. Watts sul concetto clausewiziano di “frizione in guerra” (Clausewitzian Friction and Future War, McNair Paper No. 52). Ma all’inizio del Ventunesimo secolo lo storico militare più in voga al Pentagono era fortunatamente il californiano Victor Davis Hanson (1953) che, illuminato dalla sua diretta esperienza di oplita ateniese, sgonfiò la mongolfiera da cui il damerino tedesco aveva creduto di scrutare le nebbie della guerra. Anche il suo involontario maestro, sir John Keegan (1934), impartì una spazientita lezione, spiegando che il Blitzkrieg americano in Iraq aveva definitivamente sotterrato le confuse sciocchezze “trinitarie” di Clausewitz (The Iraq War, 2004). Constatato che l’Italia era l’unico Paese al mondo in cui van Creveld e Keegan non erano mai stati invitati da autorità militari o accademiche, nell’ottobre 2004 la Società Italiana di Storia Militare propose al centro Alti Studi Difesa di invitarli per una tavola rotonda con studiosi italiani sul rapporto tra storia militare e strategia, ma dopo vari rinvii per ristrettezze di bilancio, l’iniziativa fu infine sostituita da una megacommemorazione del 119
storia
Sessantesimo anniversario della fine della seconda guerra mondiale, presieduta dal capo dello Stato (Commissione Italiana di Storia Militare, Le Forze Armate e la fine della II Guerra Mondiale. Atti dell’incontro di studio tenuto il 10 maggio 2005 alla presenza del capo dello Stato, Roma, centro Alti Studi Difesa, Palazzo Salviati, 2005, pp. 96, 14 foto dell’evento e tasca in cellophan contenente un Tricolore in stoffa). Come addio alle armi, non c’è male.
Krieges, Nomos Verlagsges. 2003), di Ralf Kulla (Politische Macht und politische Gewalt. Krieg, Gewaltfreiheit und Demokratie in Anschluss an Hannah Arendt und Carl von Clausewitz, Homburg, Verlag Dr. Kovaã 2005), di Beatrice Heuser (Clausewitz lesen! Eine Einführung, Oldembourg Verlag 2005) e di Hew Strachan, curatore assieme ad Andreas Herberg-Rothe di Clausewitz in the Twenty-First Century (Oxford U. P. 2007) e autore di Carl von Clausewitz’s On Purtroppo, i successi della Rivoluzione negli War. A Biography (Atlantic Books 2007, trad. it. Affari Militari e della guerra democratica contro Newton Compton, Roma, 2007). Fondata nel l’islamofascismo non sono bastati a scongiurare un 1961 dal generale Ulrich de Maizière, allora ispetnuovo rigurgito di studi sul Vom Kriege. Citiamo tore generale della Bundeswehr, e oggi presieduta tra gli altri quelli di Andreas Herberg-Rothe (Das dal tenente generale Klaus Olshausen, Rätsel Clausewitz. Politische Theorie des Krieges l’“Associazione Clausewitz” (Clausewitzim Widerstreit, Fink Verlag, 2001), dell’Istituto di Gesellschaft) annovera mille soci di alta qualificastrategia del Boston Consulting Group (Clausewitz zione professionale e scientifica. Tra i lavori più - Strategie denken, Monaco, 2003), di Herfried interessanti scaricabili dal sito, segnalo quello di Münkler, teorizzatore del nuovo sistema imperiale Ulrike Kleemeier (Clausewitz: Soldat und Denken. e membro dell’Accademia federale tedesca per la Überlegungen zur Aktualität des Clausewitschen politica di sicurezza (Clausewitz’ Theorie des Werkes). 121
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DIRITTTO INTERNAZIONALE LO SCONOSCIUTO DEL NOVECENTO
I
Mario Arpino “danni collaterali” conseguenti le operazioni di guerra – o “di pace”, come richiede il politically correct – giustamente oggi fanno scandalo, anche se tutti sanno che, all’atto pratico, sono inevitabili. C’è stato un tempo non lontano in cui il mondo occidentale per questi danni inferti dalla guerra ai comuni cittadini si scandalizzava molto di meno, o non si scandalizzava affatto. Eppure, sessant’anni or sono l’Occidente non era meno civile di oggi ed i danni di cui si parla non erano affatto “collaterali”, ma derivavano dalla precisa volontà di colpire le città e dalla deliberata ricerca del maggior danno possibile. Esattamente il contrario di ciò che oggi, terroristi a parte, si cerca di fare. Senza scomodare Dresda, Berlino, Darwin o Coventry, l’Italia, tra il giugno 1940 e il maggio 1945, è stata per cinque anni sotto attacco dei bombardieri anglo-americani e in rare occasioni, dopo l’8 settembre 1943, anche tedeschi. Le incursioni condotte da centinaia di velivoli su Napoli e Messina superano il centinaio, quelle su Torino, Milano e Genova sono state più di cinquanta per ciascuna città. Foggia è stata rasa al suolo, e così Rimini. Roma non è stata risparmiata, e così le città del nord, obiettivo di attacchi indiscriminati con migliaia di morti. Così, per la sacra missione di liberare i cittadini italiani dal fascismo e portare loro la democrazia, ne hanno uccisi sessantamila sotto le macerie delle proprie case. Era proprio necessario bombardare l’Italia? Marco Gioannini e Giulio Massobrio cercano in effetti di rispondere a questa domanda, ma senza accontentarsi delle risposte più ovvie. I vecchi strateghi risponderebbero che ciò è in linea con il concetto di “guerra totale”, in Italia, così come in Germania, in Inghilterra, in Russia e in Giappone. E, secondo i principi della guerra totale, che coinvolge tutte le risorse materiali e umane di una nazione, il bombardamento delle città e delle infrastrutture rappresenta uno degli strumenti primari per la vittoria. E il
Marco Gioannini e Giulio Massobrio
Bombardate l’Italia
Rizzoli pp. 555 pagine • euro 24.00 Una pagina poco conosciuta della Seconda guerra mondiale. L’Italia occupata dal nazismo e sotto le bombe degli alleati. La Raf al comando di un ufficiale ribattezzato dagli inglesi «il macellaio» che, con l’obiettivo di fiaccare lo spirito degli italiani, puntava agli obiettivi civili. Una ricostruzione basata su documenti e testimonianze che ribaltano quello che gli autori definiscono un «luogo comune».
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Risk diritto internazionale? Quelli, risponderebbero gli stessi strateghi, sono principi che “vengono dopo” (dopo la vittoria?) e che comunque, all’epoca, erano assai meno sostenuti e, in ogni caso, l’Onu di allora, la Società delle Nazioni, non disponeva di alcunché per limitare gli eccessi. Ma gli autori, che tutto ciò conoscono bene, cercano di spostare molto più in là la loro analisi. In primo luogo, lo spiegano loro stessi, cercano di capire se i bombardamenti sono stati davvero un continuum nei cinque anni di guerra o se sia invece possibile distinguerli in fasi diverse, sotto il profilo temporale e quello geografico, qualitativo o strategico. Si scopre che ciò è metodologicamente possibile, in quanto la guerra aerea sull’Italia, sia al Nord cha al Sud, ha fasi di grandissima intensità e continuità, ma anche lunghi periodi di tregua relativa. Il Centro Italia, invece, ha cominciato ad essere interessato tardi – sino alla primavera del 1943 non aveva subito alcun danno – ma nei quindici mesi successivi ha subito gli attacchi, assieme alle città del Nord, con maggiore frequenza ed accanimento. In secondo luogo, si cerca di capire se la disomogeneità nella scansione spazio-temporale fosse da attribuire a fattori tattici, semplicemente legati all’andamento della guerra in Italia, o rispondesse invece a fattori strategici, come lo svilupparsi della guerra in Europa, o addirittura a fattori politici – una sorta di guerra psicologica, o del terrore – per costringere gli italiani a ribellarsi a chi li aveva trascinati in questa guerra e, quindi, provocare il collasso di quel regime che l’aveva voluta. Va da sé, quindi, il tracciare una linea di demarcazione che suddivida e classifichi i bombardamenti prima e dopo l’8 settembre 1943. Dopo l’invasione da sud della penisola, e, segnatamente, dopo questa data, sembrerebbe logico pensare che l’obiettivo della guerra aerea sarebbero state le forze armate germaniche. La popolazione italiana e le città, infatti, non potevano più essere un obiettivo intenzionale degli Alleati, che, sembrerebbe ovvio, non dovrebbero aver avuto più alcun interesse a farla soffrire, se non altro per non renderla ostile in vista dei futuri assetti post-bellici. Invece, e questa è una sorpresa dell’analisi, i morti per bombardamento tra la popolazione civile 124
sono stati, dopo l’armistizio, più di due terzi del totale dell’intera guerra. Se di questo si vuol cercare una ragione, allora si scopre che, nei primi due anni, per quanto gli attacchi aerei fossero più frequenti e violenti al Sud che al Nord, questi ultimi impressionavano di più, perché erano diretti chiaramente a terrorizzare i civili, anche laddove non c’erano obiettivi militari da battere. In concomitanza con la conquista del nord Africa, a fine 1942, la Royal Air Force scatena sull’Italia una nuova offensiva aerea, questa volta visibilmente indiscriminata. In ossequio alla dottrina del capo del Bomber Command, Sir Robert Harris (the butcher, il macellaio, secondo gli stessi Alleati), come in Germania così anche in Italia la Raf non si cura gran ché degli obiettivi militari o industriali nelle città, ma vuole colpire deliberatamente le città stesse ed i loro abitanti. Tutto ciò continuerà, con l’apporto determinante degli americani al Sud, ma poi anche al Nord, sino alla prima settimana del maggio1945. Altre aree di ricerca degli autori del libro, in realtà molto completo, ma anche articolato e complesso nelle tematiche svolte, sono la capacità di resistenza degli italiani sotto i bombardamenti, la reale utilità degli stessi in relazione agli scopi politico-strategici previsti (rovesciamento del regime e “sganciamento” dalla guerra), la capacità di reazione della difesa antiaerea italiana, lo sfollamento dalle città, la solidarietà tra i cittadini. Infine, una bella carrellata sui sacrifici e le peripezie dell’Aviazione Nazionale Repubblicana, che nella convinzione che fosse buono e giusto combattere per difendere le città del Nord, da un lato cercò di evitare in ogni modo di lasciarsi “omogeneizzare” nei reparti della Luftwaffe e, dall’altro, continuò i combattimenti a fianco di essa fino agli ultimi giorni di aprile 1945. Su quest’ultimo argomento, i lettori mi perdoneranno se mi soffermo a indulgere su qualche ricordo personale. Ero un ragazzino di otto anni, ma mi ricordo molti eventi con grande freschezza. Nell’inverno ’44 –’45 ero a Cave del Predil, un paesino del confine nord-orientale sede di una miniera di zinco, non lontano dal passo di Tarvisio, circondato da montagne sulle quali si annidavano le postazioni della Flak, la contraerea tedesca
libreria basata sull’efficacissimo cannone da 88. Quando suonava l’allarme, più volte al giorno, usavamo come rifugio antiaereo alcune gallerie della miniera, rifugiandoci nella parte “a gomito” perché così, ci veniva detto, eravamo al riparo degli spostamenti d’aria. A volte le formazioni dei quadrimotori americani, provenienti dai campi di Foggia e dirette in Germania, effettivamente “oscuravano il cielo” – non è un modo di dire – tanto grande era il numero dei velivoli, e attraverso il rombo cupo di centinaia di motori – tremavano i vetri delle finestre di casa – si percepiva la cadenza degli 88 della Flak continuamente in azione. Ricordo due abbattimenti, il lancio degli equipaggi, che ero andato a vedere mentre familiarizzavano con i militari tedeschi dopo la cattura, e ricordo che qualche giorno dopo a scuola molte bambine avevano la camicetta fatta con la seta dei paracadute, mentre tra noi ragazzini andavano a ruba i frammenti dei finestrini di plexiglas, lo chiamavamo “vetro infrangibile”, utilissimi per ritagliare, con seghetto a traforo e trapanino, invidiatissimi porta chiave. Ricordo anche, in occasione di uno di questi enormi sorvoli, il lancio di migliaia di striscioline luccicanti, di stagnola o
di alluminio, che non sapevamo a cosa servissero, ma che facevamo a gara a raccogliere nei campi innevati. A Udine, prima di un bombardamento, ho visto quattro caccia dell’Aeronautica Nazionale Repubblicana attaccare di fronte una sterminata formazione di bombardieri americani, evolvendo tra nugoli di caccia di scorta. Uno di quei quattro piloti era mio zio, il maggiore Carlo Miani, comandante del 2° Gruppo Caccia. Ho voluto fare questo “stacco”, invero irrituale per una recensione (ma so che gli autori mi perdoneranno), per dire che la lettura di questo libro, ancorché impegnativa in relazione alla sua complessità ed alla sua articolazione, è in grado di suscitare nei lettori della mia generazione, ma anche di quelle prima e quelle dopo, un gran numero di ricordi e, quindi, di emozioni. Ciò non solo per la freschezza della narrazione e per l’interesse degli argomenti trattati, sui quali hanno ragionato parecchio, ma anche per l’importanza della parte bibliografica. In essa ogni cittadino italiano può infatti trovare documentazione su ciò che ha dovuto subire la propria città nel corso della guerra aerea tra il 1940 e il 1945.
IL MALE OSCURO DEL LIBERALISMO USA L’omicidio di Kennedy ha spinto al pessimismo gli ambienti democrats
Daniel Pipes di sé Partito Democratico di Franklin D. Roosevelt, Harry Truman e John he cosa ha il liberalismo ameri- Kennedy? Per quale motivo Joe cano che non va? Cosa è succes- Lieberman, che più loro somiglia, è so all’ottimista, pragmatico e sicuro stato estromesso dal partito? In che
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JAMES PIERSON
Camelot and the Cultural Revolution: How the assasination of John F. Kennedy shattered american liberalism Encounter Books
pp. 176 • dollari 25.95 Analisi senza sconti che narra del grande errore della cultura liberal statunitense. Il mancato riconoscimento delle ragioni che portarono Lee Harvey Osvald ad assassinare John F. Kennedy ne è un punto chiave. Un antiamericano che mirava ad abbattere la politica centrista di Jfk ed il suo connaturato anticomunismo. Questo era chi ha premuto il grilletto del Mannlincher-Carcano modello 91, dalla finestra del deposito di libri della Texas school board di Dallas. Il mancato riconoscimento di questa semplice verità e l’inseguimento di complesse teorie complottiste, hanno portato un grossa parte della cultura liberal americana verso un’involuzione autodistruttiva. Ha ucciso la fede dei democratici verso il futuro e compromesso la loro fiducia nei confronti della nazione. L’uccisione del loro presidente avrebbe dimostrato che la storia non sarebbe un processo di avanzamento e progresso, ma qualcosa di molto diverso. L’America non sarebbe una società in grado di costruire la «città sulla collina», come aveva affermato Kennedy, citando John Winthorp, ma qualcosa di più oscuro e sinistro, come descritto dallo stesso James Pierson in una recente intervista alla National Review.
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Risk modo l’anti-americanismo ammorba le scuole, i media e Hollywood? E da dove proviene la rabbia liberal che conservatori come Ann Coulter, Jeff Jacoby, Michelle Malkin e il Media Research Center hanno ampiamente documentato? In un tour de force, James Piereson del Manhattan Institute offre una spiegazione storica tanto originale quanto convincente. Il suo libro Camelot and the Cultural Revolution: How the Assassination of John F. Kennedy Shattered American Liberalism (Encounter) riconduce lo scivolone del liberalismo in anti-americanismo al fatto, apparentemente di minore entità, che Lee Harvey Oswald non fosse un segregazionista né un fautore della Guerra Fredda, quanto invece un comunista. Ecco cosa arguisce Piereson: Nel corso dei quarant’anni che precedettero l’assassinio di Kennedy, perpetrato il 22 novembre 1963, quella del progressismo/liberalismo era la filosofia imperante e quasi la sola di pubblico dominio. Kennedy un ferreo e pragmatico centrista, era figlio di un’efficace tradizione che cercò, con successo, di sviluppare la democrazia e lo stato assistenziale. Al contrario, repubblicani come Dwight Eisenhower mancarono di un’alternativa intellettuale al liberalismo, e pertanto ebbero un effetto meramente frenante. Il movimento conservatore Remnant, guidato da William F. Buckley Jr., non ha avuto in pratica alcun impatto sulla politica. La destra radicale, rappresentata dalla John Birch Society, sprizzava un fanatismo insensato e sterile. Come chiosa Piereson, l’assassinio di Kennedy colpì profondamente il liberalismo poiché Oswald, un comunista della Nuova Sinistra, uccise John F. Kennedy per tutelare il governo cubano di Fidel Castro dal presidente che, all’epoca della crisi missilistica cubana del 1962, brandiva la carta militare dell’America. In poche parole, Kennedy morì a causa dell’atteggiamento intransigente da egli mostrato durante la Guerra Fredda. I liberal hanno ricusato tale teoria poiché essa contraddiceva le loro convinzioni e, piuttosto, presentarono 126
Kennedy come una vittima della destra radicale e come un martire delle cause liberal. Questo illusione politica ha richiesto due passi temerari. Il primo di essi riguardava Oswald: • Ignorare la sua visione comunista, dipingendolo come un appartenente all’estrema destra. Così, Jim Garrison, procuratore del distretto di New Orleans, asserì che «Oswald sarebbe stato maggiormente a suo agio con Mein Kampf piuttosto che con Il Capitale». • Rendere il suo ruolo irrilevante: a) formulando delle teorie su altri 16 assassini o b) inventandosi una gigantesca cospirazione in cui Oswald era una pedina della mafia, del Ku Klux Klan, degli anticastristi cubani, dei russi bianchi, dei milionari petrolieri texani, dei banchieri internazionali, della Cia, dell’Fbi, del complesso militare-industriale, dei generali oppure di Lyndon Johnson, successore di Kennedy. Con Oswald pressoché emarginato dalla narrazione o perfino trasformato in un capro espiatorio, l’establishment dominante - Johnson, Jacqueline Kennedy, J. Edgar Hoover e molti altri - fecero un secondo, sorprendente passo. Essi attribuirono la responsabilità dell’assassinio non a Oswald, il comunista, ma agli americani e alla destra radicale, in particolare, accusandoli di aver ucciso Kennedy per essere stato troppo moderato nella Guerra Fredda o troppo accomodante verso i diritti civili per gli afro-americani. Qui di seguito, solo quattro degli esempi citati da Piereson per documentare quella bizzarra distorsione: • Earl Warren, presidente della Corte Suprema, screditò il presunto «odio e rancore che erano stati infusi da fanatici nella vita della nostra nazione». • Il leader della maggioranza al Senato, Mike Mansfield, si infuriò contro il «settarismo, l’odio, i pregiudizi e l’arroganza che si manifestarono in quell’attimo di orrore per colpirlo». • Adam Clayton Powell, un membro del Congresso, esortò a: «Non piangere per Jack Kennedy, ma per l’America».
libreria • Un editoriale del New York Times lamentò che «tutta l’America deve assumersi la responsabilità dello spirito di follia e dell’odio di cui è stato vittima il presidente John F. Kennedy». In questo “diniego o indifferenza” verso le ragioni o le colpe di Oswald, Piereson individua le vere e proprie origini della virata del liberalismo statunitense verso il pessimismo antiamericano. «L’enfasi riformista del liberalismo americano, che era stato pragmatico e lungimirante, venne surclassata da uno spirito di autocondanna nazionale». Reputare gli Stati Uniti come un Paese crasso, violento, razzista e militarista spostò l’attenzione del liberali-
smo dall’economia alle tematiche culturali (razzismo, femminismo, libertà sessuale, diritti ai gay). Questo cambiamento contribuì a produrre il movimento contro-culturale della fine degli anni Sessanta; in modo più persistente, ciò ha alimentato “un residuo di ambivalenza” riguardo il valore delle tradizionali istituzioni americane e la validità del dispiegamento della forza militare statunitense che, a distanza di 43 anni, continua ad essere l’opinione generale del liberalismo. Così, nel 2007, il dannoso retaggio di Oswald sopravvive, danneggiando e snaturando ancora il liberalismo e continuando a inquinare il dibattito nazionale.
BATTE IL CUORE DI TENEBRA DELL’AFRICA Non ci sono solo colpe occidentali nell’arretratezza del continente nero
Ludovico Incisa di Camerana comune al raggiungimento del tenore di vita delle potenze centrali, ossia ncora quindici anni fa, un delle potenze più ricche, le potenze esperto africano, Buenor industrializzate, le potenze occidenHadjor, autore di un celebre tali. Dizionario dei termini del Terzo Orbene, alla fine del secolo Mondo, riserva il termine “primo Ventesimo si realizzavano gli sforzi mondo” ai Paesi occidentali, il ter- delle potenze occidentali di attirare mine “secondo mondo” ai Paesi del- nella propria orbita i Paesi del seconl’orbita sovietica e il termine “terzo do mondo, inclusa l’Unione mondo” ai Paesi in via di sviluppo, Sovietica ed i Paesi circostanti nonincludendo in tale categoria anche ché la Cina e le grandi e medie l’America Latina, i Caraibi e il potenze dell’Asia Orientale e i Paesi Medio Oriente. Quei paesi che un maggiori dell’America Latina. altro esperto, il francese Pierre Viceversa per quasi tutta l’Africa e Moussa, definiva le “nazioni prole- parte dell’Asia orientale, il termine tarie”, come tali titolari di un diritto “terzo mondo” è sempre valido,
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PASCAL BRUCKNER
Il singhiozzo dell’uomo bianco Ugo Guanda Editore
Pagine 294 • Euro 16,50 Non sarà il «fardello» di Kipling, ma gli assomiglia molto. È la cultura che vuole l’uomo bianco malvagio, cresciuto sulle spalle del Sud del mondo. Un peccato originale che l’Occidente, dal secondo dopoguerra, ha tentato di espiare dando vita ad una specie di religione laica. Un culto del politicamente corretto che ha chiamato terzomondismo. Gli adepti di questa fede hanno trovato il modo per emendarsi dai loro peccati grazie alle supposte vittime. Le hanno trasformato nei redentori dell’umanità. Una “verità” che ha plasmato una realtà distorta e una politica nei confronti del Terzo mondo tanto ipocrita quanto inutile, perché figlia di una grande menzogna. L’autore invita, invece, ad avvicinarsi all’«Altro lontano», con schiettezza, meraviglia, stupore, senza pietismi, ipocrisie o preconcetti, ma con sincero spirito d’amicizia. La scelta che ci impone di scegliere di amare una civiltà, quella degli altri, e disprezzarne un’altra, la nostra, rischia solo di non farci capire la grandezza d’entrambe.
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Risk nonostante gli sforzi dei loro governi, tra molte marce all’indietro e poche marce in avanti, con risultati dall’indipendenza in poi che dimostrano l’incapacità di mantenere un ritmo di sviluppo pari a quello dei Paesi occidentali e dei loro simili. Questo ritardo del terzo mondo è determinato solo in parte dall’appoggio insufficiente dei Paesi già sviluppati, ma in via generale da scelte sbagliate delle dirigenze locali perché, come ha dimostrato a suo tempo, nel 1965, l’esperto francese Yves La Coste, i dati di partenza del reddito nazionale lordo erano condivisi tra Paesi occidentali, ancora arretrati, come il Messico e il Portogallo ed ex colonie come, per esempio, il Marocco, la Tunisia, l’Algeria, il Ghana, il Sudan. In seguito Messico e Portogallo si staccheranno con processi di rapida industrializzazione dalle spire di una massa di Paesi. Questi diversi destini aiutano a comprendere le difficoltà incontrate da certi Paesi nella formazione di un sistema economico nazionale, difficoltà in maggioranza non dovute a Stati ed Unioni straniere, ma in prevalenza alla riluttanza di accettare le regole dello Stato moderno, e all’alleanza, localmente, di strategie organiche come spiegato in un saggio dell’esperto francese Pascal Bruckner pubblicato nel 1984, ma rivisto e recentemente tradotto in italiano, saggio che nasce da una profonda conoscenza del terzo mondo. Bruckner indica un paradosso: il terzomondismo entra nel primo mondo come tentativo artificiale di diffondere regole di vita poco condivisibili, basandosi sull’alleanza delle classi giovanili con il sottoproletariato costituito in parte notevole dalle masse emigrate nei grandi Paesi europei. Si accompagnerà la pressione sulle leve delle nuove generazioni occidentali in un clima di pessimismo: si descrive un ingenuo terzo mondo «strappato alla sua natura buona da un Occidente demoniaco e corruttore». Si enumerano i delitti e i mali dell’Occidente: «le decine di milioni di indiani eliminati dai conquistadores; i 200 milioni di 128
africani deportati o scomparsi nel traffico degli schiavi; infine i milioni di asiatici, di arabi, di africani, di asiatici uccisi durante le guerre coloniali e nelle guerre di liberazione». Tuttavia Bruckner difende una civiltà europea che ha rifiutato la ripetizione dell’età delle guerre e respinge il triste incitamento dello scrittore comunista francese Louis Aragon: «Mondo occidentale, sei condannato a morte», un augurio smentito radicalmente, come il pessimismo di Sartre: «L’Europa è finita. Una verità che non è bella da dire, ma di cui siamo tutti convinti». Le idee rivoluzionarie delle minoranze intellettuali europee non troveranno peraltro un aggancio in rivoluzioni lontane e sempre più incomprensibili. «Cos’era quel terzo mondo a quell’epoca? Un coltello senza manico privo di lama, l’oggetto non trova in altri termini un’idea pura», osserva Bruckner. La saldatura tra la vocazione rivoluzionaria degli studenti europei: non ci fu o nel fondo non interessava. «I dannati della terra erano doppiamente disincarnati: abitando migliaia di chilometri dalle nostre frontiere, erano assenti dalle nostre vite come noi dalle loro». La nostra lontananza dal luogo reale dei combattimenti, la situazione di un’Europa privata delle sue antiche colonie, incoraggiavano a vivere gli eventi per procura, a cedere il compito, la rivoluzione, rifatta dai suoi seguaci asiatici che ripeteranno tra loro tutto il ciclo rivoluzionario dalla conquista militare allo sterminio della rivoluzione giovanile, delle guardie rosse. La conclusione sarà data fuori dall’Europa da Stati più neutri che rivoluzionari. Non ci saranno più momenti epici, ma avvedute offensive commerciali. Il terzo mondo diventerà un imbarazzante residuo perché - come afferma Bruckner - «la loro qualità di ex colonizzati non conferisce agli Stati del terzo mondo alcun privilegio, alcuna esenzione, alcuna superiorità morale». Il Terzo Mondo, insomma, deve fare da sé.
dossier
IMPERO, INSIEME A TE STAVAMO BENE Il dominio britannico è un esempio per molti Stati e certamente la fortuna dell’India di oggi
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Andrea Tani
olti dei lettori di Risk avranno in casa un atlante geografico di anteguerra 40-45, retaggio di babbi e nonni. Io ne ho uno splendido, un tomo De Agostini del 1939, rilegato come una Bibbia e grande quanto un cassetto. Il mondo appariva generosamente colorato di un pink deciso, presente in larghe fasce su tutti i continenti. Qualcuno era tutto rosa, come l’Australia; altri lo erano in gran parte, come l’Africa, dal Mediterraneo al Capo di Buona Speranza, o la porzione più settentrionale del Nord America. Si trattava dell’Impero Britannico, ovvero una delle più straordinarie costruzioni geopolitiche della storia, che, al massimo del suo splendore - per il giubileo della regina Vittoria - si estendeva su un quarto delle terre emerse e regnava su un’analoga percentuale della popolazione del pianeta. È il protagonista di questo intrigante saggio di Niall Ferguson, professore di Storia moderna ad Harvard e di Storia economica alla New York University, nonché autore, negli ultimi dieci anni, di sei innovativi libri di storia popolare che hanno avuto un grande successo. I mappamondi e le carte di oggi non sono più inflazionati dal rosa. Nel giro di una generazione questo colore formidabile tale per quello che sottintendeva, più che per il potere evocatore dell’elemento cromatico (che più lontano non poteva essere dal machismo dei colonizzatori di Sua Maestà, anche se molti di loro erano machi
di un tipo particolare, che non disdegna il pink..) - è scomparso. Con esso è svanita anche la valenza epica che si è accompagnata alla parabola imperiale, conclusasi bruscamente all’indomani della seconda guerra mondiale. Lo stesso termine Impero - riferito particolarmente a quello britannico, il più grande e ragguardevole di tutti - è diventato sinonimo d’oppressione, sfruttamento, razzismo, schiavismo, prevaricazione, violenza; una somma di negatività che ha stravolto completamente il significato e il valore di un’esperienza storica di straordinaria importanza che ha molto accelerato il progresso delle società arcaiche che governava. Con il suo libro Ferguson compie una coraggiosa operazione di rivisitazione del tema da una prospettiva complessiva - si potrebbe dire globalista - che risulta particolarmente in sintonia con il modo di ragionare contemporaneo. In sole trecento pagine coglie l’essenziale di una vicenda che altrove ha richiesto biblioteche intere per essere descritta, sostanziando un giudizio storico d’insieme che finisce per contrastare come più non potrebbe con il politicamente corretto degli ultimi cinquant’anni. Nei suoi elementi essenziali, il mondo di oggi - sostiene l’autore - non sarebbe altro che una diretta e conseguente derivazione di quello che l’impero britannico ha rappresentato. Nessuna costruzione istituzionale, ideologia politica, evento storico del secondo millennio ha avuto una paragonabile influenza nel delineare il modo collettivo di
NIALL FERGUSON
Impero Come la Gran Bretagna ha fatto il mondo moderno Mondadori
pp. 345 • euro 28 Descrivere il passato per analizzare il presente. Potrebbe essere questa la decodifica dell’avvincente libro di Nial Ferguson, divulgatore di successo e grande narratore. Luci e ombre, forza e fragilità, ma soprattutto nuove verità su quello che viene definito uno dei più grandi fenomeni di geopolitica della storia: l’impero inglese. Descrizione meticolosa e originale dell’ascesa e declino della potenza d’oltremanica. Dal commercio alla forza militare, dal ruolo della colonizzazione religiosa alla creazione di figure politiche, come i vicerè e l’alleanza stabile con i poteri locali. Un grande quadro da cui emerge un’immagine sostanzialmente positiva del governo coloniale di Sua Maestà. Soprattutto dal confronto con altre potenze egemoniche, come l’Impero spagnolo e il Terzo Reich, per non dire della querelle con i cugini americani. Un gioco a somma positiva, per le nazioni che subirono il giogo della corona britannica, è quello che ci descrive il professore di Harvard. Una colonizzazione delle virtù, pagata a caro prezzo dall’isola nel Mare del Nord, che aspetta ancora il ringraziamento dal resto del mondo.
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Risk vivere e di comportarsi dei sette miliardi di individui che abitano il pianeta. Insieme alle ombre, numerose, gravi e inconfutabili, l’autore elenca e circostanzia le luci, ovvero i grandi lasciti positivi dell’impero britannico. Fra le prime egli analizza senza alcuna indulgenza lo spirito di rapina e l’ipocrita ambiguità dei governi di Londra nel patrocinare e assecondare le scorrerie dei fondatori dell’impero, ovvero dei fuorilegge oceanici (in seguito Pari d’Inghilterra), che hanno saccheggiato nel corso dei secoli gli imperi precedenti, olandese, francese, portoghese, cinese, moghul, africani, etc., senza un disegno preciso, ma mossi da puro istinto predatorio. L’Impero si è formato in un secondo tempo, quando i razziatori hanno passato la mano al patrio governo, paghi delle scorrerie e alquanto in difficoltà nel gestire le loro conseguenze. Ferguson mette chiaramente all’indice il razzismo, l’arroganza, il disprezzo per le culture locali dei quali i colonizzatori privati e istituzionali dettero prova - più i primi che i secondi - l’eccessivo uso della forza che ne caratterizzò l’azione (ad esempio l’overkill attitude, esemplificato nella mitragliatrice Maxim che nella seconda metà del secolo Diciannovesimo permise ai britannici di conquistare l’intera Africa con perdite risibili, facendo strage di nativi), le durissime repressioni indiane e i campi di concentramento “inventati” per aver ragione dei riottosi Boeri (come ricordò Goering ad uno statista britannico che lo rimproverava per le analoghe infrastrutture che i nazisti stavano mettendo su negli anni Trenta a beneficio di oppositori politici, ebrei e zingari..) ed altri “strumenti di lavoro” imperiali.Tra le luci più splendide, Ferguson annovera l’inglese, ovvero la lingua franca del mondo globalizzato, la certezza del diritto e la sua prevalenza su ogni altra potestà, il sistema rappresentativo democratico come fondamento delle medesime, la libera circolazione di beni, capitali e manodopera, la protezione dell’individuo e delle sue proprietà, il sistema bancario moderno (ovvero, nel complesso, il capitalismo), i limiti all’intervento dello stato, la libertà dell’informazione e la diffusione dei media, la valenza etica come asse portante del buon governo, l’abolizione della schiavitù, l’apertura culturale e comportamentale verso nuovi orizzonti, geografici e 130
libreria culturali, l’etica della responsabilità, il pragmatismo e la diffidenza verso gli ideologismi. Nonché - ancora luci l’edificazione delle fondamenta di alcune più grandi costruzioni istituzionali del mondo, derivate direttamente o indirettamente dall’esperienza coloniale britannica: Stati Uniti d’America, Dominions evoluti in Stati indipendenti (Canada, Sud Africa, Australia, Nuova Zelanda,etc.), India moderna (anche se con l’ombra del pericolante Pakistan e del disastrato Bangladesh, che però ai tempi del Raj erano tutt’uno con l’India), Stati africani di maggior successo. Persino Israele, che divenne tale in seguito ad un impegno del governo di Londra in una area di interesse coloniale britannico. Poi c’è il Commonwealth come istituzione e, su piani meno aulici, la cultura easy going moderna, la musica pop, il week end, il tempo libero, gli sport di squadra, eccetera. Secondo l’autore, il bilancio dei costi-benefici dell’intera operazione è largamente positivo. Soprattutto per il mondo, che paradossalmente ha ricevuto dai colonialisti britannici molto più di quanto non sia stato costretto a dare, nonostante questa non fosse certo la loro intenzione. L’economista Ferguson documenta questa tesi con il rigore analitico dello scienziato, riprendendo seri e autorevoli studi in materia. Se l’Inghilterra avesse investito in patria - o soprattutto in patria - gli enormi capitali con i quali ha edificato le ferrovie indiane, le miniere africane o le città australiane e canadesi, come hanno fatto, a casa loro, sia gli Stati Uniti che la Germania che il Giappone (ovvero le potenze che hanno prima insidiato poi sopraffatto per un verso o per l’altro l’Impero Britannico), il suo declino sarebbe stato molto meno accentuato. La Gran Bretagna non avrebbe vaporizzato la sua enorme ricchezza e non si sarebbe addirittura ridotta in miseria come accadde rispettivamente nel primo e secondo dopoguerra del secolo precedente, ben oltre le implicazioni dello sforzo bellico. Determinato peraltro questo sforzo - dalla necessità di sbarrare la strada ad altri imperi in ascesa, i citati giapponese e tedesco, i quali avevano comportamenti ben più tirannici e prevaricatori. Secondo l’autore il sacrificio dell’impero britannico, nel perseguimento di questo nobile scopo, ha rappresentato il suo ultimo hurrà e il suo merito storico più apprezzabile. Questa interpretazione anglocentrica sembra alquanto
libreria ardita, anche se contiene elementi di plausibilità: le modalità di colonizzazione del Terzo Reich nelle pianure degli spazi vitali dell’oriente slavo, come quelle della “Sfera di Co-prosperità” nipponica in Asia, erano in effetti alquanto diverse da quelle dell’autogoverno indiano o australiano reso operante da Londra più o meno nello stesso periodo. Hitler ebbe a dire che se fosse dipeso da lui Gandhi sarebbe stato fucilato, e non si fa fatica a credergli. Interessante, fra le tante cose, il confronto che l’autore opera con altri costruttori storici di imperi. Ad esempio, egli spiega perchè il colonialismo britannico nelle Americhe ha avuto più successo di quello spagnolo, che pure all’inizio del fenomeno complessivo era preponderante. L’Inghilterra ha costruito nel Nuovo Mondo stabili e floride colonie attraverso l’emigrazione massiccia di uomini e donne, ovvero di famiglie e comunità numerose che tendevano a replicare le analoghe solide istituzioni che avevano lasciato in Europa. Gli spagnoli, invece, inviavano soprattutto uomini, funzionari e soldati, che in maggioranza non piantavano radici definitive ma tendevano a tornare in patria. Quando ciò non accadeva, si fidanzavano prevalentemente con signore locali, dando vita ad un diffuso meticciato di complessa gestione e dubbia lealtà. Il famoso argento che avrebbe sfavorito l’imprenditoria coloniale spagnola corrompendo e inflazionando la stessa madrepatria è quindi una conseguenza dell’intrinseca labilità dell’esperienza imperiale ispanica, non la sua causa, come comunemente si crede. Anche nella vicenda dell’emancipazione coloniale dell’America del Nord Ferguson si sofferma con novità inedite, particolari interessanti e gossip divertenti, come la demitizzazione che opera sul famoso “Boston Tea Party” che avviò la Rivoluzione americana, nient’altro che una colossale zuffa fra le bande dei contrabbandieri del porto infuriate per la riduzione delle tasse sulla commodity e non la prima espressione di ardore patriottico. Oppure la rivelazione che per la Corona britannica le Tredici Colonie erano meno importanti, in termini economici, di quelle dei Caraibi e questo spiega anche la relativa indecisione inglese nel reprimere l’insurrezione. La quale peraltro fu contrastata da un quarto dei colonials, e quindi fu tutt’altro quel fenomeno corale che Hollywood rappresenta nei suoi
film. Ben centomila lealisti americani ripararono in Canada dopo la vittoria di Washington, e i loro discendenti costrinsero il Britsh Army a presidiare le frontiere con la Repubblica Stellata per tutto l’Ottocento. La descrizione dell’esperienza coloniale in India è naturalmente quella più estesa, approfondita ed interessante del libro. Viene messa in luce la straordinarietà dell’impegno britannico, sia in termini di qualità dei quadri deputati all’amministrazione del gioiello della corona - la selezione per i civil servants era durissima, con concorsi pubblici di una impervietà assoluta - che nella contemporanea, incredibile esiguità dei loro numeri. L’India - in due secoli, da duecento a quattrocento milioni di sudditi - non fu governata mai (e mai così bene) da più di un migliaio di civil servants, nonchè presidiata da più di settantamila soldati, molti dei quali nativi. Per contro, i soldati indiani combatterono a milioni per l’Inghilterra in guerra a loro estranee. Solo nel secondo conflitto mondiale due milioni di essi servirono sotto le insegne di San Giorgio, duecentocinquantamila fuori dell’India. La loro lealtà alla Corona fu incondizionata e costituì esplicitamente un motivo di grande orgoglio marziale per i protagonisti, almeno fin quando durò la strana relazione di forte attrazione mista ad estraneità fra le due culture, descritta da tanti scrittori inglesi e anglo indiani. Quando questa relazione finì e l’estraneità prevalse, ebbe termine l’Impero Indiano (con esso, quasi immediatamente, l’Impero Britannico tout court). Ma l’eredità dell’esperienza imperiale ha fatto la fortuna dell’India di oggi, che contende alla ben più potente, compatta e laboriosa Cina il primato asiatico - e il secondo lauro planetario - in gran parte per la fertilizzazione che tale eredità ha operato nel cuore della propria società.
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Risk U S C I T I • INGRID BETANCOURT Lettera dall’inferno a mia madre e ai miei figli Garzanti Libri 2008
Il libro è la prima traduzione integrale e autorizzata del testo scritto il 24 ottobre 2007 da Ingrid Betancourt alla madre, Yolanda Pulecio, e ai suoi figli Mélanie e Lorenzo. Betancourt, sequestrata il 22 febbraio 2002, è tuttora prigioniera, insieme a molti altri civili, dalle Farc, le Forze armate rivoluzionarie della Colombia. Il manoscritto, rinvenuto insieme ad un video e da alcune foto in occasione dell’arresto di alcuni guerriglieri a Bogotà, è stato trasmesso dal governo colombiano alla famiglia di Ingrid, che ha deciso di pubblicarlo insieme alla risposta dei due figli, che oggi portano avanti la battaglia per la sua liberazione. • EHUD GOL Da Gerusalemme a Roma. Il Medio Oriente, l’Italia, il mondo: riflessioni di un ambasciatore. 2001 - 2006 Mondadori 2008
Ambasciatore dello stato di Israele in Italia all’indomani dell’11 settembre 2001, attento osservatore della realtà politica italiana e internazionale, Ehud Gol raccoglie in questo volume quasi cinque anni di articoli e di riflessioni, offrendo al lettore una visione ampia e
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M O N D O
completa della questione mediorientale, delle sue connessioni con lo scenario internazionale ed europeo, nonché delle vie d’uscita percorribili, all’insegna del dialogo ma anche della fermezza contro il terrorismo. • FABRIZIO CALVI Ragazzi di buona famiglia. La brigata 28 marzo e l’omicidio Tobagi Piemme 2008
Il 28 maggio 1980, in via Solari a Milano, sei adolescenti assassinarono Walter Tobagi, inviato del Corriere della Sera. L’attentato fu rivendicato dalla Brigata 28 Marzo. Il libro di Calvi è la ricostruzione dettagliata dell’itinerario di questi sei brigatisti, figli della buona borghesia italiana affascinati dalla violenza. Dai banchi del liceo, quando si organizzano i grandi movimenti di protesta contro gli attentati neofascisti, la loro storia accompagna l’escalation delle manifestazioni del 1977, gli espropri proletari e la guerriglia urbana. I sei trafficano in armi e si addestrano all’uso degli esplosivi. Sono in prima linea nell’assalto alla Scala e nella sparatoria di via De Amicis. Rapinano banche per finanziarsi. Assaltano un carcere. Distruggono una stazione del metrò. L’attività della Brigata culmina con l’omicidio di Tobagi, un
a cura di Beniamino Irdi
giovane giornalista di area socialista, ed il successivo arresto di Marco Barbone, il leader del gruppo, che farà i nomi degli altri per salvarsi.
• COLIN BEAVAN Operazione Jedburg. La missione segreta che salvò la resistenza francese Mondadori 2008
Nel 1943, a meno di un anno dallo sbarco in Normandia, i capi delle agenzie d’intelligence alleate, si accorsero che la Gestapo stava arrestando, uno dopo l’altro, gli agenti inseriti nelle reti della Resistenza francese. Nei mesi che seguirono il DDay (6 giugno 1944), trecento giovani volontari americani, britannici e francesi furono paracadutati dietro le linee nemiche. In collaborazione con gli uomini della Resistenza, i ‘Jed’ lanciarono una brillante campagna di guerriglia contro la macchina bellica del Terzo Reich, armando e addestrando i combattenti che liberarono Parigi, e fornendo un supporto essenziale all’invasione alleata. Per ricostruire una delle operazioni meno note e più interessanti dell’ultimo conflitto mondiale, Beavan - nipote del responsabile dell’operazione Jedburgh per conto dell’Office of Strategic Services (Oss) - precursore della Cia - si è basato sulla testimonianza degi agenti sopravvissuti,
che rompono un silenzio durato sessant’anni. Emozionante come una spy-story, il libro è soprattutto un’approfondita analisi di un connubio tra servizi di intelligence e forze speciali, che avrebbe cambiato per sempre il modo di fare la guerra.
• RICK PERLSTEIN Nixonland: The Rise of a President and the Fracturing od America Scribner 2008
L’autore esplora alcuni fra gli anni più caotici della Storia americana, quelli fra l’elezione plebiscitaria del democratico Lyndon Johnson nel 1964 e la rielezione del Repubblicano Richard Nixon otto anni più tardi, attraverso la guerra, le proteste, gli assassini ed il fermento sociale che li caratterizzarono. Lo storico riserva, nel nuovo libro, un’attenzione speciale alla “maggioranza silenziosa” che per due volte elesse alla Casa Bianca un personaggio centrale del periodo, un politico brillante che affrontò le battaglie dell’epoca per poi cadere in disgrazia. L’autore, pur da un’ottica evidentemente di sinistra, non risparmia, con il suo stile brillante e convincente, né il cinismo di Nixon né l’ingenuità dei liberali dell’epoca, come l’allora sindaco di New York, John Lindsay.
riviste L A
R I V I S T A
SCOTT G. BORGERSON Arctic meltdown Foreign Affairs Marzo - Aprile 2008
Il mitico Passaggio a Nordovest, chimera di intere generazioni d’esploratori, oggi sembra navigabile. Grazie allo scioglimento dei ghiacci della calotta artica, che solo la scorsa estate hanno perso una superficie di più di un milione di miglia quadrate. In mezzo secolo i ghiacci eterni del Polo Nord si sono dimezzati. Oggi è dunque possibile navigare dove un tempo dominavano incontrastati orsi bianchi e foche. Si è dunque scatenata la corsa all’accaparramento delle risorse naturali di quelle lande, fra le cinque potenze artiche. Russia in testa che, già nel 2001, ha dato il via alla corsa all’oro, con una richiesta d’annessione di un territorio grande quanto la California, l’Indiana e il Texas messi insieme, presentata all’Onu - che l’ha rigettata. Poi l’estate scorsa il Cremlino ha messo in scena tutte quelle operazioni che servono per giustificare, di fronte all’opinione pubblica interna ed internazionale, le proprie ri-
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vendicazioni o pretese territoriali. Una miniflotta composta da un rompighiaccio nucleare e due sottomarini ha deposto la bandiera russa sul fondo del Polo nord geografico, oltre al voletto dimostrativo di un paio di vetusti bombardieri strategici sulla stessa zona. A guardare le foto satellitari che corredano l’articolo, è evidente la scomparsa totale – in soli sette anni – dei ghiacci di fronte alle coste settentrionali della Russia e in piccola parte dell’Alaska, mentre la Groenlandia e parte del Canada rimarrebbero nell’abbraccio artico dei ghiacci. Il primo ministro canadese, Stephen Harper si è affrettato a dichiarare la formazione di una flotta di pattugliamento artico e altre iniziative collegate. Danimarca e Norvegia che amministrano la Groenlandia e le isole Svalbard (base della missione del dirigibile Italia, ndr) non vedono l’ora di avanzare le loro richieste. Il problema è che nessuno s’immaginava che l’Artico potesse diventare uno spazio navigabile, per cui non esiste alcun trattato o convenzione che ne regoli l’accesso. Di più, sottolinea l’articolo, la mancata ratifica da parte del Senato Usa, della cosiddetta Unclos, la Convenzione sulla legge del mare, pur sostenuta dall’amministrazione Bush, da molte Ong, dalla Us Navy, allo Us Coast guard service e da numerosi autorevoli rappresentanti del settore privato, pone la superpotenza americana in una situazione imbarazzante. Possiede una flotta navale che per grandezza
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a cura di Pierre Chiartano
supera le prime 17 flotte mondiali messe insieme, ma ha un solo rompighiaccio, in condizioni operative non ottimali. Di fronte ai 18 mezzi russi e anche a quello cinese che sorprendentemente – la Cina non ha sbocchi sull’Artico – solca i mari.
BRIAN GROW KEITH EPSTEIN CHI-CHU TSCHANG The new E-spionage threat Businessweek April 21, 2008
Si chiama Poison Ivy, è un virus studiato per rubare dati segreti nei network superprotetti del circolo del Pentagono e dalle società ad esso collegate. È successo a Booz Allen Hamilton, un gigante della consulenza nel settore della sicurezza che si è visto recapitare una mail, apparentemente proveniente dal ministero della Difesa. Nell’allegato una lista della spesa nel campo militare: ciò che l’India avrebbe voluto comprare negli Usa. Era però un falso e appena l’attachment è stato aperto, il vaso di Pandora – in questo caso l’Access database – delle informazioni sensibili contenute negli archivi della società
ha preso il volo. Misterioso l’indirizzo internet da cui sarebbe partita la mail, meno sconosciuto l’indirizzo fisico: la Bank of China Yangtse River. Questa è solo una delle storie che descrivono la cyberwar in atto da circa un biennio che ha preso di mira le istituzioni americane. Le agenzie federali hanno denunciato all’U.S. Homeland security department circa 12mila attacchi informatici, solo nell’ultimo anno. Sono triplicati dal 2005, con un incremento di oltre il 50 per cento annuo e colpiscono molto il settore della sicurezza militare. La preoccupazione è montata anche alla Casa Bianca tanto che i reporter di Businessweek sono riusciti a scoprire il nome in codice di un’operazione classificata. Scoprire, tracciare e impedire intrusioni non autorizzate nel network della Difesa, dei suoi contractor e delle agenzie federali, è il suo obiettivo. Bizantine Foothold il nome. È stata autorizzata direttamente dal George W. Bush, l’8 gennaio scorso, all’interno di un progetto più vasto, la Cyber Iniziative. Per restare sui dati concreti: entro giugno tutte le agenzie governative dovranno ridurre drasticamente il numero di cancelli, porte di collegamento col web, da circa 4mila a solo cento. Una progetto impegnativo che ha portato il segretario alla Homeland security, Michael Chertoff, ha definirlo un «Manhattan project» della sicurezza informatica. Ma non è finita perché sono ormai tante le agenzie militari della sicurezza infor133
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matica allarmate dalla facilità con cui questi attacchi vanno a segno. «La professionalità e i mezzi utilizzati hanno certamente un’origine da strutture sponsorizzata da Stati», questa la conclusione di molti esperti e l’intelligence community militare è convinta che il pericolo maggiore provenga dalla Cina popolare. L’infezione arrivata a Booz Hallen ha un’altra pericolosa caratteristica, secondo gli esperti, il rat (remote administration tool), che permette il controllo a distanza del pc infettato. L’origine della maggior parte di questi attacchi ha come dominio l’indirizzo 3322.org che fa capo ad una società web, la Bentium, con sede a Changzou. Tanto per restare in Cina.
FREDDY GRAY The audacity of the Pope The American Conservative April 2008
Per combattere la battaglia contro il crescente secolarismo in tutto il mondo sviluppato, Benedetto XVI avrà bisogno dell’alleanza col 134
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«leale esercito dei cristiani americani, sia cattolici che protestanti». È questa una delle convinzioni condivise dall’autore e da larghe fasce dell’opinione informata statunitense. Bell’analisi condotta qualche giorno prima che la storica visita del Santo padre prendesse vita sul suolo del Nuovo Mondo. Una prima dimostrazione che il pubblico dei comunicatori americani incomincia ad essere più informato sulla realtà cattolica nel mondo. Sugli aspetti “politici” di un Vaticano guardato con un po’ di sospetto dagli ambienti più volteriani di ogni amministrazione su quelli più ecumenici che non risparmiano critiche alla Casa Bianca, come per il conflitto iracheno. Controbilanciati dall’assoluta ammirazione sul ruolo che la religione svolge nel Paese dei Padri fondatori e sull’enorme vitalità del cristianesimo, come Benedetto XVI ha avuto occasione di ribadire all’ambasciatrice Usa presso la Santa Sede, Mary Ann Glendon, durante la cerimonia d’insediamento, pochi mesi fa. L’ottimismo per la strada percorsa nella reciproca comprensione è corroborata da un’ulteriore precisazione circa la dottrina sociale della Chiesa, «un termine di cui si era abilmente appropriata la sinistra cattolica da farlo diventare ad oggi, sinonimo di socialismo». E non è l’unico passaggio in cui i commentatori statunitensi danno i punti ai nostri con-
R I V I S T E nazionali, perché anche nella distinzione fra attività pastorale, etica cristiana e supposto indirizzo politico della Chiesa, sembrano aver capito le differenze. Il perseguimento del bene comune è commendevole se «temperato dall’impegno cristiano ad aiutare gli ultimi», così come la politica dell’espansione della democrazia, pur essendo un obiettivo desiderabile e condivisibile, «deve essere accompagnato da un impegno per la pace e il rispetto dei diritti degli altri nel determinare il proprio stile di vita». Commenti che denotano rispetto per ciò che afferma il Santo Padre anche quando critica. Rispetto che si è conquistato assieme alla considerazione di essere un religioso non pavido o timido. Dà a Cesare quel che e di Cesare, ma a Ratisbona prende una posizione netta contro la componente violenta dell’Islam, citando l’ormai famoso imperatore bizantino. Come a voler dire che questo Papa e gli americani sono fatti per capirsi, anche quando non sono d’accordo. Un esempio che denota quanto, la deriva laicista degli ultimi secoli, abbia provocato, in Europa ed in Italia, un tale impoverimento dialettico che possiamo affermare di vivere in una cultura quasi completamente scristianizzata. La prova sta nella facilità con cui questo Papa riesce a farsi capire ad oltre seimila chilometri di distanza, piuttosto che pochi metri oltre le mura leonine.
JOE STIGLITZ Seven questions on how the Iraq war is wrecking the economy Foreign Policy April 2008 - web exclusive
Cosa possa significare per il contribuente americano pagare una fattura da 3mila miliardi di dollari lo possiamo immaginare facilmente. È il conto, ancora parziale, del conflitto iracheno ed è la domanda iniziale dell’intervista al Nobel per l’economia (2001) professore alla controversa Columbia University, Joseph Stiglitz. Quindi possiamo considerarlo non tenero con l’attuale amministrazione. Ciò che riesce difficile è capire l’ordine di grandezza della crisi finanziaria in atto e quanto possa incidere su tutto il resto, sulla politica estera, sulla lotta al terrorismo, sullo stile di vita di molti cittadini occidentali, segnatamente di quelli che vivono sull’altra sponda dell’Atlantico. Che venga intervistato da FP è però un segnale di come le cose stiano mutando negli Usa e non è solo una questione di cambio della guardia alla Casa
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Bianca. Oggi certi schematismi politico-culturali stanno saltando, perché non ci sono più i confini dei vecchi modelli politici, in Europa quelli dell’ideologia, negli Usa quelli che dividevano i partiti sullo stile e le modalità dell’intervento federale nella vita dei cittadini. La critica anche pungente viene più dagli ambienti conservatori che da un’area liberal che cerca di accreditarsi come affidabile in politica estera, come custode della sicurezza e degli interessi americani. Stiglitz è padrone dei numeri e subito inquadra gli ordini di grandezza: 25mila dollari a famiglia, a tanto ammonta il debito accumulato per l’intervento militare in Medio Oriente. «È aritmetica di base», sostiene Stiglitz. Senza contare i costi aggiuntivi di una struttura militare che usura, sia i materiali che gli esseri umani. Basterebbe pensare all’enorme costo in sicurezza sociale per i veterani - finito sotto la lente d’ingrandimento della stampa - e al ruolo controverso che avrebbero le banche centrali nel far ripartire l’economia, stremata dalle bolle speculative immobiliari, dalla conseguente crisi dei subprime e da tutte quelle malattie legate alla finanza derivata. «La politica monetaria non è in grado di riaccendere il motore dell’economia (…) può solo prevenire il verificarsi di ulteriori i danni». Da una parte lo stimulus package è di 150 miliardi di dollari, dall’altra le perdite sui muti “spazzatura”, al momento, è di circa
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900 miliardi di dollari, cui si sommano altri centinaia di miliardi all’anno provocati dal rincaro della bolletta petrolifera. Anche il ruolo della World Bank (WB) andrebbe riconsiderato. «Oggi è focalizzato solo sui beni pubblici globali, sul cambiamento climatico e sull’Africa. Tutti obiettivi benemeriti. Ma i due elementi controversi sono il commercio e il Medio Oriente», è l’affondo del Nobel, già capo economista della WB.
PETER D. FEAVER Anatomy of the surge Commentary April 2008
L’ottimismo sui risultati dell’intervento in Iraq rimane, il surge ha funzionato, l’Iraq sarà in grado di difendersi, governarsi ed esser un fedele alleato contro il terrorismo. In questi mesi di gran lavoro del generale David Petraeus è cambiato solo il calendario. Non si parla più di mesi o anni, ma di decenni per raggiungere questi risultati. L’autore descrive un’esperienza personale cominciata
R I V I S T E nel 2005 quando fu scelto come special adviser per la pianificazione strategica del National security council (Nsc). Già in quegli anni all’interno di quel ristretto circolo di esperti era chiaro che per la restante parte della presidenza Bush, in Iraq, si sarebbe potuto ottenere solo «un trionfo dei nostri nemici, una ritirata dell’America, e il precipizio nel caos dell’Iraq». La politica di surge che dagli insider veniva ribattezzata «bridge», sarebbe solo servita per un passaggio di consegne, meno dannoso possibile, fra il vecchio e il nuovo inquilino della Casa Bianca. Con un solo punto chiaro in mezzo al marasma di difficoltà che quotidianamente sorgevano – e sorgono – da quelle parti, «e dove i nostri critici avevano ragione»: la politica sull’Iraq non funzionava. Tanto che due prudenti strateghi come il gen. Petraeus e l’ambasciatore in Iraq, Ryan Crocker non avrebbero accentuato i toni della loro testimonianze di fronte al Congresso. Con un ambiente politico non propriamente favorevole ad ulteriori impegni, che va dal candidato repubblicano John McCain considerato un «supporter scettico», al membro del Congresso, il democratico John Murtha dalla Pennsylvania, che già nel novembre del 2005 avrebbe saltato a piè pari un ritiro graduale, a favore di un abbandono del campo porta-
to a termine in un solo semestre. «Una ricetta da panico» secondo Feaver. Un piano con molti difetti, preso poco sul serio anche dalla stampa specializzata, ma che ha continuato ad aver un certo appeal sul pubblico, anche perché proposto da un veterano del Vietnam. L’unico modo per metterne in evidenza le assurdità sarebbe stato quello di presentarne uno alternativo da parte dell’attuale amministrazione. A settembre dello scorso anno Petraeus e Crocker fecero il loro primo rapporto al Congresso, in un clima decisamente mutato verso un maggior ottimismo sui risultati sul campo. Nonostante ciò la senatrice Hillary Clinton aveva attaccato il rapporto, che avrebbe avuto bisogno «di una volontaria sospensione d’incredulità» e che caratterizzava i due relatori come «portavoce di quello che molti di noi considerano una politica fallimentare». Ora invece il problema che preoccupa Petraeus è come graduare un eventuale ritiro, dopo l’agosto 2008, quando il surge terminerà. Dopo l’estate il numero di soldati americani in Iraq si stabilizzerà sui 130mila. Per quanto tempo dovrà mantenere quel livello e quando si potrà cominciare una sua diminuzione tale da non vanificare i risultati raggiunti? Un calcolo certosino che dovrà equilibrare risultati sul campo e aspettative politiche in patria. 135