QL numero 3

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L’ITALIA OLTRE LA SECONDA REPUBBLICA

FARE CENTRO



Il richiamo di Sturzo

Rocco Buttiglione • 6

Il coraggio di uscire dal Palazzo Stefano Folli • 40

Parola chiave partecipazione

Ricordiamoci di Bluntschli

Savino Pezzotta • 12

Paolo Pombeni • 46

✺ Il rischio è il blocco Alla ricerca di nuove convergenze dell’alternanaza ✺

Arnaldo Forlani • 17

Giovanni Sabbatucci • 56

Modello tedesco

Bruno Tabacci • 20

Un nuovo partito holding

Perché partito, perché nazione

Memorie Il blocco e il boom

Francesco D’Onofrio • 22

Finché regge Berlusconi ✺

colloquio con Sergio Romano di Riccardo Paradisi • 28

Nostalgia della politica ✺

Gennaro Malgieri • 34

Enrico Cisnetto • 60

Mauro Canali • 68

IL DOCUMENTO/ IL MANIFESTO DI TODI

Verso il partito della nazione pagina • 76


BIPARTITISMO, RIFORMA ELETTORALE, PARTITO DELLA NAZIONE: DODICI INTERVENTI SUI NODI PRINCIPALI DELLA COSTRUZIONE DEL CENTRO

1)

2)

TRE DOMANDE SUL FUTURO

PUÒ SOPRAVVIVERE IL SISTEMA TENDENZIALMENTE bipartitico attualmente in corso o gli acuti ed evidenti problemi di identità irrisolta imporranno nel prossimo futuro novità rilevanti sia nell’area del Pd (come è già chiaro) che in quella del Pdl?

Per esaltare e rendere al meglio l’essenza di Centro abbiamo scelto di illustrare questo numero dei “Quaderni di liberal” con riproduzioni fotografiche e pittoriche delle più importanti piazze d’Italia. Nella pagina a fianco: piazza San Marco a Venezia

È CORRETTO SOSTENERE CHE LE PIÙ RILEVANTI aree culturali presenti nel Paese siano cinque-sei: la lega, la destra post-missina, l’area di centro popolare e liberale, quella riformista post-comunista e, infine, quella giustizialista e antagonista? Se così è, conviene tenersi un sistema elettorale che obbliga culture anche molto distanti a stare insieme (per ottenere il premio di maggioranza) oppure è meglio andare verso un sistema che permetta una libera alleanza programmatica (precedente al voto) tra queste aree, rendendo flessibile, e non rigido come è oggi, il sistema delle coalizioni?

3)

È CONVINCENTE IL PROGETTO DI UN PARTITO che punti tendenzialmente a unificare le diverse componenti di centro oggi presenti, oltre che nell’Udc, anche nel Pdl e nel Pd. Non un Terzo polo ma un partito di programma, un Partito della nazione come l’ha chiamato Pier Ferdinando Casini? 4-5

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Nella pagina a fianco: uno scorcio di piazza del Plebiscito a Napoli

SIAMO IN UNA SITUAZIONE SIMILE A QUELLA DEL ‘19

IL RICHIAMO DI STURZO ✵

Rocco Buttiglione

I

PAESE LIQUIDO, DOVE NON VALGONO PIÙ le regole della moralità e si disfa ogni sentimento di appartenenza a una comunità e con esso ogni sentimento di responsabilità e di dovere, il riferimento più autorevole che rimane è quello all’identità cristiana della nazione e al magistero del Papa. Non si tratta di una posizione confessionale. Molti si riservano piena libertà di dissentire su questo o quell’aspetto dell’insegnamento della Chiesa, secondo la convinzione e (qualche volta ) anche il comodo personale. Quando, tuttavia, dobbiamo identificare un nocciolo di valori che sentiamo come nostro, quando le vicende dell’esistenza ci costringono a domandarci con serietà chi siamo e cosa vogliamo, la tradizione cristiana riemerge come inevitabile fattore identitario. Altri tentativi di unificare il popolo o di creare un popolo nuovo sono falliti. Quello comunista di imporre una nuova integrale concezione del mondo è stato l’ultimo tentativo delle ideologie dell’Ottocento di creare un nuovo carattere nazionale italiano. I suoi resti permangono nella pretesa della sinistra di rappresentare una sempre più dubbia superiorità morale che le attribuirebbe il ruolo di coscienza morale della nazione. Dall’altro lato la società liquida, di cui il berlusconismo è l’espressione più evidente, non crede di avere bisogno di un punto di identificazione morale. Ognuno è fondamentalmente un consumatore e un utente di programmi televisivi e di altro, in realtà, non vi è bisogno. Il mercato e l’immagine sono tutto il collante di cui la società liquida crede di avere necessità. Ciò non vuol dire che il discorso sui valori si arresti. Come ogni altro discorso può essere esercitato e perfino tornare utile, purché non si prenda troppo sul serio e non cerchi di uscire dagli spazi (modesti) che nel palinsesto generale gli vengono assegnati. N UN

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[Il richiamodi Sturzo]

La società liquida di cui il berlusconismo è l’espressione più evidente, non crede di aver bisogno di un punto di identificazione morale. Il mercato e l’immagine sono gli unici collanti considerati necessari Il partito nuovo che nasce, l’Unione di Centro, deve essere un partito nazionale e popolare, cioè un partito che chiama a raccolta un popolo che oggi appare in via di dissoluzione, a partire da valori presi sul serio: la vita, la libertà nella verità, il lavoro, il risparmio, la legalità. Dobbiamo rivolgerci a chi a questi valori si sente legato. Mentre una forma della cristianità e della nazione si venivano dissolvendo, all’interno della società liquida nascevano forme nuove di solidarietà, di comunità, di appartenenza reciproca di valori concreti ricreati da una fede viva. L’Italia è un paese in via di rievangelizzazione e i primi frutti di questa rievangelizzazione si vedono. C’è un popolo cristiano sempre più presente nei luoghi della sofferenza umana, nel volontariato e nella assistenza ai poveri ma anche nelle fabbriche, nelle università, negli uffici, in tutti i luoghi della vita sociale. È grazie a questo popolo che è stato possibile vincere il referendum sulla bioetica ed è questo popolo che è entrato di forza nella sfera dell’attenzione pubblica con la grande manifestazione delle famiglie a San Giovanni. Questo popolo è il nostro popolo, non nel senso che ci appartenga, ma nel senso che noi apparteniamo a lui, parliamo lo stesso linguaggio e coltiviamo la stessa speranza e lo stesso desiderio. Quel popolo è arrivato al confine della politica e

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[RoccoButtiglione] sosta sulla soglia della politica. Ne ha paura, ne sente il potenziale di divisione e di corruzione, ma sente anche di non potere svolgere compiutamente la propria missione se non investe anche la politica, laicamente e senza integralismi. Noi quel popolo vogliamo rappresentare e vogliamo aiutarlo e da lui farci aiutare per rinnovare la politica in Italia. Siamo in una situazione simile a quella in cui si trovava don Luigi Sturzo quando decise di fondare il Partito popolare. L’Opera dei Congressi aveva vivificato la presenza dei cristiani nella società, di modo tale che diventava inevitabile l’incontro con la politica. Questo incontro, però, non poteva avvenire nelle forme di attività perseguite fino ad allora. Si poteva rifluire e tornare indietro in un cattolicesimo individualista e devozionale,

L’Italia è un paese in via di rievangelizzazione. Mentre l’idea di cristianità e di nazione si stavano dissolvendo sono nate nuove forme di solidarietà. Ora sulla soglia della politica c’è un popolo ansioso di affermare i propri valori senza pretesa di incidere nella società. Si poteva stringere un accordo con il potere, vendergli i propri voti in cambio della promessa di non attentare ad alcuni valori (era la via del Patto Gentiloni). Oppure si poteva formulare un proprio programma e fondare un partito. Questa ultima fu la scelta di Sturzo. Ovviamente il partito non pretende di rappresentare tutti i cattolici e altri, in modo del tutto lecito, potranno perseguire altri cammini. Esso però crede di trovare nella esperienza del popolo elementi sufficienti a formulare un programma e da quel popolo vuole selezionare una classe dirigente. Oggi siamo di nuovo di fronte alla medesima scelta. Se vogliamo salvare l’Italia, che chiaramente minaccia di affondare, dobbiamo selezionare una nuova classe dirigente. E l’unico luogo in cui possiamo selezionare una classe dirigente onesta, competente, appassionata al bene comune è proprio quel popolo cristiano. C’è un qualche significato simbolico nel fatto che questo tentativo nasca proprio nel novantesimo anniversario della fondazione del Partito popolare. Un’intuizione non molto differente ha espresso Benedetto XVI quando, a Cagliari, ha invitato i giovani cattolici a una nuova stagione di impegno politico. L’avventura che inizia il 3 aprile a Roma è anche la nostra risposta al Suo appello.


edizioni

IN LIBRERIA

RENZO E VITTORIO FOA

NOI EUROPEI Un dialogo tra padre e figlio All’inizio del Novecento l’Europa, illuminata dalla Belle époque, era divisa fra tanti Stati separati da confini e barriere, ma era nel suo complesso la capitale dello sviluppo industriale, della cultura e dei grandi imperi coloniali. All’inizio del XXI secolo, cento anni dopo, passati attraverso la catastrofe di due guerre mondiali, artefici e vittime dei grandi totalitarismi, perse le colonie, a lungo tenuti distanti dalla «cortina di ferro», gli europei scoprono di essere uniti e integrati come non lo sono mai stati in passato. E nonostante la profondità delle crisi economiche e finanziarie che si sono susseguite, sanno anche di vivere in una condizione di benessere, di protezioni sociali e di tutela dei diritti individuali come non succede in nessun’altra parte del pianeta. Però vedono anche quanto sia difficile capire dove passano le frontiere che essi stessi hanno via via allargato, quanto coraggio ci voglia per trovare la forza di affrontare i drammatici problemi esplosi sulla soglia di casa (come quelli della ex Jugoslavia nello scorso decennio e del terrorismo fondamentalista ora) o direttamente in casa (come l’incontro-scontro con l’immigrazione), quanto sia arduo tradurre princìpi e valori in azione politica e non avere paura del futuro. E, pur avendo assorbito nel profondo i modelli americani (nella vita, nei consumi e così via), si accorgono di voler segnare le distanze dagli Stati Uniti. Come è successo? In questo dialogo che ripubblichiamo – fra un padre e un figlio che hanno visto, con occhi e attenzioni diverse, l’uno tutto il Novecento e l’altro la sua seconda metà e che hanno avuto fra di loro un particolare scambio intellettuale – c’è il racconto di come sono diventati gli europei lungo un secolo di grandi cambiamenti.

104 pagine ●● euro 12,00



La copia della statua di Marco Aurelio nella piazza del Campidoglio a Roma

LE

FORZE E LE IDEE IN CAMPO IN GRADO DI RICOSTRUIRE UN POPOLO E DI RIDARE VITALITÀ ALLA DEMOCRAZIA

PAROLA CHIAVE PARTECIPAZIONE ✵

P

Savino Pezzotta

ER SEMPLIFICARE IL SISTEMA POLITICO ITALIANO da

tempo si è scelta la strada del maggioritario e del bipolarismo, certi che avrebbero favorito la governabilità. In questa prospettiva sono nate coalizioni eterogenee e composite, il cui principale obiettivo era quello di vincere le elezioni. Siamo così precipitati in quindici anni di campagna elettorale permanente. Nelle elezioni politiche dell’anno scorso, preso atto che il modello della cosiddetta Seconda Repubblica non aveva generato maggior governabilità, per semplificare ulteriormente ci si è spinti verso il bipartitismo. Così al Lingotto e alla proposta del partito a vocazione maggioritaria ha fatto seguito quella del «predellino» del Partito delle libertà. Per fortuna non tutti gli elettori sono caduti nel tranello e con le loro scelte hanno semplificato il quadro politico ma non abolito il pluralismo. La crisi che ha attraversato il Pd, il consolidamento dell’Unione di Centro, la crescita dell’Italia dei Valori, i movimenti della Lega che condizionano la maggioranza e le tensioni nel Pdl, dimostrano che il bipartitismo è fallito. La forzatura in direzione binaria ha finito per consolidare l’area di destra e il suo leader. Siamo nuovamente a una svolta ma senza chiarezza sui progetti alternativi. O meglio, c’è il desiderio del presidente del Consiglio di ulteriori semplificazioni e di una modifica sostanziale del sistema parlamentare. In tutto questo c’è una tensione neo-autoritaria. Non mi associo certo a coloro che parlano di regime, ma non posso non vedere come si agisce e come lentamente - a partire dal caso Alitalia/Cai - avanzino nuove relazioni di potere nell’economia e nell’informazione. Ci si deve allora chiedere come tutto

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[Parola chiavepartecipazione]

Il problema non è oggi con chi ci si allea per ottenere un posto di governo a livello comunale, regionale o nazionale, ma se si ha un progetto credibile di rinnovamento della politica questo sia stato possibile. Una delle motivazioni è stata proprio l’idea che i partiti e le coalizioni servissero solo per catturare il consenso. C’è stata negli ultimi anni una lunga marcia dei partiti verso una sorta di «nichilismo morbido», fatto di affermazioni programmatiche e ideali alquanto generiche e concentrato soprattutto sulla figura mediatica del leader. Si è preteso di essere nuovi senza una verifica approfondita e concettuale della storia da cui si proveniva. In pratica si è pensato che i nuovi contenitori potessero servire da lavacro e da dimenticatoio. Nei nuovi Pantheon si è mescolato il diavolo con l’acqua santa, creando una sorta di sincretismo ideologico che sicuramente premia chi crede si possa fare a meno di pensare politicamente la realtà e crede che conti solo la pura e semplice gestione del potere. In una situazione di questo genere ciò che conta è l’annuncio, è la dimensione mediatica, è la virtualizzazione della politica. Così manca chiarezza sul terreno dalla rappresentatività del sistema elettorale e sul potere di scelta e di sanzione dei cittadini, sul rapporto tra scuola pubblica e privata, sulla giustizia sociale, sul conflitto di interesse, sulle politiche di reindustrializzazione e sulle risposte da dare alla crisi, sui diritti civili e sulle questioni biopolitiche. Non si è in grado di fare scelte profonde e programmatiche perché le differenze culturali nei due partiti maggiori sono così profonde da inibire ogni progettualità a lungo termine. Si

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[SavinoPezzotta] agisce solo in funzione della prossima campagna elettorale. Così a pagare è il paese e il suo futuro. La dialettica tra opposizione e maggioranza si è ridotta a schermaglie di corto respiro. C’è il rischio che, mantenendo la politica entro questi schemi, ci si consegni a un potere che a volte sembra essere ai limiti della costituzionalità. C’è il pericolo della logica degli interessi più forti e convenienti, in cui una maggioranza, nel rispetto formale delle regole, terrà in una situazione di marginalità la minoranza e in via surrettizia modificherà l’assetto istituzionale e di gestione del potere. Dobbiamo renderci conto che una prassi politica agitata dal modernismo e da un novismo senza profonde basi culturali, dimentico o imbarazzato delle culture politiche che hanno segnato la storia del nostro paese e le sue istituzioni, ha già prodotto una modificazione in senso materiale della Costituzione. Occorre essere attenti al formarsi, oltre a quella formale, di una Costituzione materiale, intesa come istituzione posta e imposta non da tutti gli

Una prassi politica agitata dal modernismo, da un novismo senza basi culturali e dimentica delle culture che hanno fatto la nostra storia, ha già di fatto prodotto una modificazione materiale della Costituzione interessi organizzati politicamente, ma soltanto dagli interessi vincenti; non da tutte le forze politiche, ma soltanto dalla forza politica che riesce a imporre alle altre, e quindi all’intera società, la sua idea di politica. È l’unità raggiunta attraverso la vittoria di una parte degli interessi economici e sociali e la sconfitta degli altri. In definitiva, è la costituzione della forza politica della maggioranza dominante e pertanto e di un progetto di società sugli altri. La stessa strategia del federalismo fiscale esplicita un modo di pensare la politica che non convince. Non si parte - come sarebbe corretto - dalla modifica della Costituzione in senso federale, ma dalla dimensione fiscale e pertanto da quella degli interessi. Con questa azione si perverrà, lo si voglia o meno, alla modificazione profonda della Costituzione materiale e, tramite essa, a una rimodulazione dell’idea di unità nazionale. Utilizzando lo stesso sguardo per valutare come è gestito il tema della sicurezza e dell’immigrazione, si comprendono molto bene le idee che si fanno prevalere. Non si tratta di contrapporre «buonismo» a «cattivismo» - due concetti che non possono appartenere al lessico politico - perché entrambi tendono a sollecitare i timori, le paure, le separazioni anziché produrre azione politica tesa al rispetto delle persone, al rigoroso rispetto delle leggi e a una corretta attenzione ai più deboli. Sono tutti segni


[Parola chiavepartecipazione] dello smarrimento e della debolezza della politica intesa come cura delle persone e del bene comune. A tutto ha contribuito la dispersione delle culture politiche e la riduzione della politica a stretti gruppi di comando o leadership piglia tutto. L’attuale crisi economica sicuramente accentuerà i problemi sociali, la perdità dei posti di lavoro, l’aumento di nuove sacche di povertà e di disuguaglianze nel mondo. I cambiamenti nella vita sociale, nelle forme della produzione e distribuzione delle merci e della ricchezza, la crescita delle disuguaglianze, la nuova divisione internazionale del lavoro, il rimescolamento degli equilibri geopolitici, sollecitano risposte e proposte inedite sia sul piano normativo che su quello dell’agire personale. Il Novecento si è caratterizzato nella dialettica tra totalitarismi e democrazia con la vittoria di quest’ultima, ma è anche stato il tempo dell’affermazione dei diritti, della ricerca delle tutele sociali e della promozione dei lavoratori. Ora stiamo entrando sempre più in un rapporto ravvicinato con le questioni peculiari di etica della vita umana, di bioetica. Sfere di azione come quella della bioetica esigono una dialettica nuova fra princìpi e problemi concreti, una declinazione dinamica dei princìpi, anzitutto di quelli maturati in una cultura individualistica che continua a mettere l’individuo al centro dell’universo di valori. Mi domando se di fronte alla pervasività delle tecniche non sia necessario ricercare regole che salgano e scaturiscano dall’idea di persona. Di fronte alla pervasività della tecnica È questo oggi il confine in cui la è necessario ricercare regole che provengano questione sociale s’intreccia con la questione antropologica e con l’esidall’idea di persona. È questo oggi il confine genza di salvaguardare in ogni in cui la questione sociale s’intreccia aspetto la dimensione dell’umano. con la questione antropologica 16-17

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LE

Diventa sempre più cogente la necessità di una vigilanza critica, senza cedere alle visioni catastrofiste che guardano con paura ai progressi della tecnica e della scienza. L’obiettivo, quindi, è quello di mantenere saldamente sotto la direzione dell’uomo i fini dell’umano. La politica dovrà sempre fare i conti con la biopolitica, ovvero con i problemi del governo della vita, dell’ambiente e pertanto di una vivibilità sempre più compromessa. Da qui l’esigenza di una nuova articolazione del sistema politico che sia in grado di ricomporre e far agire le culture politiche, che restituisca il senso comune alla parola partecipazione. Servono forze e idee in grado di ricostruire - dentro e dopo la «rivoluzione individualista» che ha attraversato il mondo sotto la spinta del liberismo economico - un popolo. È un lavoro lento e faticoso ma necessario. Per fare questo servono strumenti nuovi che sappiano innovare e inverare storie, tradizioni e dare corpo alle aspettative che maturano nella società. È importante quindi ripartire dal centro e ricostruire una forza

[SavinoPezzotta]

RISPOSTE ALLE NOSTRE DOMANDE DELL’EX SEGRETARIO DELLA

DC

ALLA RICERCA DI NUOVE CONVERGENZE

1) Adesso che l’opposizione forte non è più comunista e la maggioranza di governo, anche nella sua parte già legata al passato, si propone liberaldemocratica, non capisco perché non sia possibile il confronto più ravvicinato e costruttivo sui temi istituzionali e soprattutto sui problemi gravi che rendono ormai drammatica la situazione economica e sociale. Qui è l’anomalia: la politica vuol farsi più pragmatica ma le contrapposizioni diventano intanto sempre più intransigenti e settarie. È rispetto a questa contraddizione che prende rilievo, credo, la ragione della posizione autonoma assunta da Casini e dagli amici dell’Udc. E solo così si può capire: come ricerca di un denominatore fra gruppi che da campi diversi perseguano obiettivi convergenti di interesse generale e avendo comuni ispirazioni ideali. Che l’attuale «sistema tendenzialmente bipartitico» sopravviva è però possibile e non credo che le sue ragioni siano solo motivate e collegate al fenomeno Berlusconi e alla capacità di iniziativa del personale politico che non intende rinunciarvi. Penso che si dovrebbe sempre guardare in modo realistico allo scenario europeo dove indubbiamente due sono le tendenze decisive a confronto, quelle più largamente rappresentative sul piano politico. ✵

Arnaldo Forlani

2) Per il sistema elettorale ritengo sempre che il proporzionale sia da preferire, con i correttivi ragionevoli e necessari già proposti a suo tempo dall’Udc e da altri.

3) La linea proposta merita di essere considerata con attenzione, e penso che si definirà ancora meglio sul campo e in confronti concreti. Gli obiettivi che comporta sono infatti propri di una dialettica anche interna alle due coalizioni maggiori e verificare sui due lati riscontri o avversità per decidere in concreto come e con chi andare avanti non sarà compito facile. Non lo era d’altronde in altri tempi e in scenari diversi nemmeno per la Dc.



[SavinoPezzotta] che si ponga sul terreno programmatico, in grado di contribuire e determinare un sistema politico in cui l’alternaza si coniughi con il pluralismo e con la capacità di offrire una chiara idea di paese. La sfida è di fronte a noi e non possiamo essere timidi o temere di perdere qualche posizione. L’ambizione è di conquistare il centro della politica italiana, chiamando a raccolta tutti i democratici cattolici e laici che credono in una visione mite del fare politica e che vogliono costruire una casa nuova, nel programma, nelle prospettive e nel modo di essere, con una stretta correlazione tra ciò che si dichiara e come si agisce concretamente. E si deve creare un luogo di dialogo in cui incontrarsi per pensare e agire, in grado di rispondere alle inquietudini di coloro che si sentono a disagio in un sistema di partiti fusionisti. Il problema non è oggi con chi ci si allea, se riusciamo ad avere un posto di governo a livello comunale, regionale o nazionale, ma se si ha un progetto credibile di rinnovamento della politica. Non lavoriamo per la politica delle convenienze o dei due forni, ma per rendere praticabile un’idea diversa di alternanza, non più basata sullo schieramento ma sul programma. Per questi motivi la Costituente del nuovo soggetto politico deve essere un processo aperto e puntare alla costruzione di un nuovo partito che si regga su regole di democrazia interna condivise e praticate. Non vogliamo costruire un partito cattolico, ma un partito popolare, attento e sensibile all’ispirazione cristiana e pertanto fortemente laico, in cui i cattolici possano esprimere le loro idee con chiarezza e in un rapporto fecondo con chi proviene da altre esperienze, senza mai essere piegati a posizioni prevalenti se non per libera scelta. È la pratica, l’esercizio e il dovere di una spiritualità laica che depura la politica da ogni incomprensibile radicalismo e pragmatismo e che fa sorgere l’esigenza di una visione della politica come servizio e cura. La politica assunta come permanente inappagamento, che si sintetizza nell’esigenza di una presa di coscienza civile che come ci ha insegnato don Primo Mazzolari - chiede alla politica null’altro che «piano di eguaglianza nel dovere, nella libertà, nel diritto comune; che non sia però l’arbitrio né di uno, né di pochi, né di molti, ma il riconoscimento preciso e reale di quelle fondamentali libertà umane, civili e religiose che [...] formano per virtù precipua dello spirito cristiano il patrimonio inalienabile dell’uomo». Si deve costruire un soggetto, un partito in grado di ridare spazio alla partecipazione delle persone, di rivalutare il ruolo delle assemblee elettive, in primo luogo del Parlamento, capace di mantenere una visione nazionale entro cui si esercitano le autonomie orizzontali e verticali. Lo scopo principale è contribuire a ridare vitalità alla democrazia, intesa come regime della libertà e della «cura» della cosa pubblica.


MODELLO TEDESCO ✵

Bruno Tabacci ✵

F

iniziata nel 2001 sostengo che il tentativo di ridurre il sistema politico italiano prima a un bipolarismo muscolare e coatto e poi a un bipartitismo all’americana non può riuscire perché il nostro è il Paese del Guicciardini, delle 100 città, che ha saputo fare nel corso della sua storia virtù delle sue differenze. Accanto alle ragioni storiche esistono poi ragioni istituzionali concrete, legate al fatto che in Italia non esistono i contrappesi necessari all’inevitabile accentramento di potere che una brutale semplificazione del quadro politico a due soli partiti comporterebbe. Negli Stati Uniti sia Bush che Obama sono costretti a mediare con il Congresso, mentre da noi si è giunti a considerare il Parlamento un impiccio. Senza dimenticare poi che il vero obiettivo di Berlusconi, più ancora che il bipartitismo è il presidenzialismo, il passaggio da una Repubblica parlamentare a una presidenziale: il bipartitismo insomma potrebbe essere al massimo un mezzo per lui per giungere più agevolmente al presidenzialismo. Quindi il problema non riguarda solo la possibilità per le diverse componenti di Pdl e Pd di rimanere insieme, con il Pd che già mostra tutte le sue crepe e il Pdl che non potrà che farlo mano a mano che al suo interno ci si renderà conto che oltre Berlusconi non c’è altro. Ma riguarda ancor più il futuro assetto politico e istituzionale del paese intero. IN DAI PRIMI ANNI DELLA LEGISLATURA

***** IL PREMIO DI MAGGIORANZA COSTITUISCE un autentico invito alla corruzione politica e prima verrà eliminato meno danni farà. Ci si mette insieme per spartirsi il premio in vista delle elezioni e dal giorno successivo ci si divide come se nulla fosse accaduto. Sarebbe bene, come sostengo da tempo, che le cinque o sei aree politiche in cui tradizionalmente si ritrovano gli italiani si potessero esprimere liberamente anziché essere costrette ad alleanze innaturali. Per ottenere questo obiettivo occorre intervenire sulla legge elettorale introducendo il modello tedesco. E 20-21

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non è vero come alcuni dicono che un sistema proporzionale senza premio di maggioranza come quello tedesco impedirebbe il formarsi di governi stabili: al contrario in Germania in oltre sessant’anni con quel sistema si sono succeduti appena otto Cancellieri. Così come è falso sostenere che con quel sistema i cittadini diano una delega in bianco ai partiti per formare il governo. Basti ricordare quel che è accaduto proprio alle ultime elezioni tedesche quando prima del voto Schroeder ha avuto il coraggio di chiudere la porta a un eventuale accordo con la sinistra radicale di Lafontaine, finendo col pareggiare una partita che altrimenti avrebbe potuto vincere. Ma sarebbe stata una vera vittoria, con un Cancelliere costretto a pagare dazi sempre più elevati ad un alleato tanto differente? Al contrario dal pareggio è nata una Grosse Koalition con Angela Merkel a capo dell’esecutivo. Da noi si sarebbe gridato allo scandalo ma la verità è che non mi pare che la Germania non abbia un governo autorevole e apprezzato. ***** UNIRE LE VARIE ANIME CHE FANNO RIFERIMENTO ai valori del buonsenso e alla cultura di governo di uomini come De Gasperi, Fanfani e Moro è indispensabile se si vuole tentare di costruire un futuro diverso per il nostro paese. Non si tratta di rifare la Dc come afferma qualche critico preconcetto ma semmai di andare oltre lo schema politico attuale, e quindi anche oltre l’Udc, per costruire un soggetto completamente nuovo che sappia cogliere le istanze provenienti dal paese e fornire risposte di governo all’insegna della responsabilità. In questa Seconda Repubblica hanno prevalso la furbizia individualista e il populismo di chi fa politica pensando di non poter mai andare controcorrente. Il risultato è che dal 1994 perdiamo regolarmente terreno rispetto agli altri paesi più industrializzati. Se vogliamo invertire la rotta dobbiamo farlo anche sul fronte della politica. Non ha senso, come ho ricordato molte volte, che io ed Enrico Letta, pur pensandola allo stesso modo su quasi tutte le questioni più rilevanti, siamo costretti a rimanere divisi da un taglio innaturale del sistema politico praticato giusto al centro. Né avrebbe avuto senso negli ultimi anni che io passassi con Enrico Letta nel centrosinistra o lui passasse con me nel centrodestra. Sono proprio centrosinistra e centrodestra a essere inadeguate. Il centro ha una sua dignità, una sua autonomia e una sua cultura e deve poter esprimere le proprie politiche senza subalternità. Non tanto nell’interesse dello stesso centro, quanto nell’interesse del paese.


D

LE BASI PER IL NUOVO SOGGETTO POLITICO SULLE TRACCE DI STURZO MA GUARDANDO AL FUTURO

da quella che siamo stati soliti definire Prima Repubblica a quella che numerosi anche se frettolosi commentatori hanno definito Seconda repubblica, sembra che la vita politica italiana stia finalmente prendendo atto che occorre un nuovo equilibrio istituzionale, politico, economico, sociale e culturale se vogliamo che l’Italia in quanto tale riesca a guardare al proprio futuro senza alcun tradimento del proprio passato e soprattutto senza alcuna illusione di poter vivere di solo presente. Quasi che si trattasse di una deriva inarrestabile si è passati - a partire dal 1994 - dagli esiti partitocratrici degli ultimi anni della Prima Repubblica all’illusione che si potesse imporre in Italia un sistema bipartitico nel quale non contasse più alcuna grande idea del passato ma soltanto il fatto elettorale considerato come unico punto di approdo delle diverse ispirazioni culturali che avevano concorso in qualche modo alla cosiddetta Prima Repubblica. Abbiamo pertanto assistito a una vera e propria esplosione di vocazioni maggioritarie sia che si trattasse di pretese maggioritarie autosufficienti di modello veltroniano sia che si trattasse di dimostrazioni maggioritarie elettorali di modello berlusconiano: tra l’una e l’altra «vocazione maggioritaria» si sta costruendo non un inesistente Terzo Polo, sia perché Pd e Pdl sono stati due Poli soltanto in senso elettorale e non politico, sia perché l’Italia ha bisogno di un grande soggetto di governo popolare e d’ispirazione cristiana e non certo di un esangue Terzo Polo tutto ripiegato sulla nostalgia perché il passato non è costretto a essere vissuto soltanto come promotore di un’ispirazione di pura testimonianza. Una grande idea politica-culturale innanzitutto - perché l’Italia tutta nel contesto contemporaneo euro✵ Francesco D’Onofrio ✵ OPO UN LUNGHISSIMO PERIODO DI TRANSIZIONE

PERCHÉ PARTITO PERCHÉ NAZIONE

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[Perché partitoperché nazione] peo e globalizzato manca proprio di questa grande idea non potendo trovare l’alimentazione di cui ha bisogno né nel passato comunista né in quello storicamente fascista. La costruzione di un siffatto nuovo soggetto politico prende certamente le mosse dall’esperienza concreta dell’Udc prima e dell’Unione di Centro successivamente pur non fermandosi certamente ai soggetti individuali e collettivi che hanno dato vita alla Costituente di Centro. Un’idea di Italia innanzitutto, rispetto alla sollecitazione durissima che è posta da qualche decennio dalla Lega Nord proprio in riferimento all’idea di Italia. Non si tratta del solito discorso sulla secessione più o meno morbida perseguita oggi dalla Lega Nord: chiedersi infatti quale sia l’idea d’Italia che si ha oggi significa proprio rispondere alla domanda di fondo che si stanno ponendo in tante parti d’Europa i cittadini che dopo la fine della guerra fredda si chiedono cosa sia appunto l’Unione europea. Nessuna tentazione nazionalistica di tipo ottocentesco nel parlare dunque di partito della nazione da parte di molti di noi che sono tra i promotori della Costituente di Centro. Da quando l’Italia si è costituita a unità a metà dell’Ottocento vi sono stati vari tentativi di dar vita a un comune sentire della nazione: dopo il tentativo delle classi dirigenti liberali e risorgimentali della seconda metà dell’Ottocento; dopo il tentativo del fascismo mussoliniano di nazionalizzare il Mezzogiorno in nome dei presunti destini imperiali di Roma; dopo il tentativo gramsciano di nazionalizzare le masse contadine in nome dell’egemonia operaia; dopo l’esperienza democristiana di nazionalizzare le diverse tradizioni corporative in un’unica dimensione egualitaria e popolare, possiamo ora affermare che si può seriamen24-25

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[FrancescoD’Onofrio] Nella pagina a fianco, Giorgio De Chirico: “Piazza d’Italia con torre rosa”, 1943

te tentare di nazionalizzare l’Italia tutta secondo il coraggioso insegnamento sturziano: liberali perché non clericali, popolari perché non elitari, anche federalisti purché municipali, nazionali purché sempre democratici. Occorre aver presente l’insieme dei significati profondi che gli altri tentativi di nazionalizzazione hanno avuto per poter porre il nuovo ambizioso e strategico obiettivo di nazionalizzazione dell’Italia di oggi, nel contesto europeo istituzionale e nell’avvento della globalizzazione economica e finanziaria. Saper dunque guardare al futuro senza dimenticare il passato nella certezza che occorre stabilire un nuovo equilibrio proprio fra passato, presente e futuro senza cedere alla tentazione del fare del solo presente l’obiettivo dell’impegno politico. Chi parla di democrazia degli elettori al posto della democrazia dei partiti lo fa non sempre consapevolmente avvertito che i diversi passati dell’Italia non si possono tutti annegare in un indistinto presente qual è quello tipico degli elettori al momento del voto: il sapere e il lavoro da un lato; il risparmio e l’investimento dall’altro hanno bisogno certamente di presente ma non possono produrre risultati degni di essere vissuti senza passato e futuro. La prima fondamentale scelta che si pone dunque agli italiani è quella sul tempo dell’azione politica: se intendiamo costruire il senso comune dell’appartenenza a una medesima nazione dobbiamo pazientemente ricercare le ragioni del passato di ciascuna parte del territorio nazionale e di ciascun segmento della società italiana e allo stesso tempo guardare al futuro delle prime e dei secondi nel nuovo contesto unitario europeo. Centrale e non Terzo Polo, questo nuovo soggetto politico, proprio perché la costruzione della nazionalizzazione dell’Italia di oggi è utile a ciascuna parte politica, al governo o all’opposizione che essa si collochi in riferimento a ciascuna elezione politica. Questo obiettivo di evidente interesse generale, e non solo di parte, pone a noi il compito di definire ulteriormente il significato del popolarismo oggi nella politica italiana. La grave crisi economica e finanziaria che anche l’Italia sta vivendo oggi trova le sue origini - a mio giudizio - non già nella fine dell’ipotesi capitalistica dello sviluppo quanto nei modi anche radicalmente nuovi con i quali il capitalismo è stato vissuto in Europa e soprattutto in Italia dopo la fine dell’esperienza storica sovietica. Il nuovo equilibrio culturale non può trovare nel liberalismo e nel socialismo i suoi punti di riferi-

Liberali perché non clericali, popolari perché non elitari, federalisti purché municipali, nazionali purché sempre democratici. Ecco le linee guida per nazionalizzare l’Italia


[Perché partitoperché nazione] mento ultimi: allorché parliamo di economia sociale di mercato siamo consapevoli di affermare un’ipotesi che vuol ricercare faticosamente un punto di incontro tra i due estremi. L’affermazione dell’economia sociale di mercato non può essere una semplice ripetizione verbale di un assunto culturale che soprattutto in Germania è stato indicato nel corso della prima metà del XX secolo quale soluzione dello scontro tra liberalismo e socialismo, perché oggi questa affermazione deve fare i conti proprio con le ragioni culturali della grave crisi economica che è in atto e dimostrare nei fatti che la soluzione della crisi non può essere ricercata né negli strumenti del solo Stato né negli strumenti del solo Mercato: l’uno e l’altro dovranno essere seriamente ripensati perché entrambi essenziali ma nessuno da solo sufficiente.

Chi parla di democrazia degli elettori al posto di democrazia dei partiti, lo fa spesso in modo non avvertito: non si possono annegare i diversi passati dell’Italia in un indistinto presente. Occorre dare tempo all’azione politica Il popolarismo pertanto costituisce una robusta affermazione di una linea culturale di fondo che non si è esaurita con la nascita del Partito popolare italiano del 1919 perché si tratta di un’ispirazione di fondo capace proprio oggi di essere messa alla prova di questa grave crisi economica e finanziaria. In questo contesto il nuovo soggetto centrale è chiamato a dimostrare che la nazione italiana sa concorrere alla risoluzione europea della crisi in atto senza alcuna rivendicazione di antistorici rigurgiti coloniali europei né di alcuna pretesa di alternativa agli strumenti che gli Stati Uniti soprattutto con la presidenza Obama si stanno dando per affrontare i gravi rischi dell’oggi senza rinunciare agli ambiziosi progetti del domani. L’ispirazione popolare del partito consiste pertanto in una radicale affermazione di cultura economica e finanziaria per quel che concerne la proiezione europea e mondiale della nazione italiana e in una modalità di raccolta del consenso elettorale che deve partire dal rapporto interpersonale e diretto tipico dei rapporti che hanno la persona umana al centro della propria riflessione. Una grande e ambiziosa idea dell’Italia da un lato e una rigorosa proposta di economia sociale di mercato dall’altro costituiscono pertanto i primi due capisaldi di un nuovo soggetto politico, capace di andare ben oltre i tentativi in atto nei presunti due Poli politici - Pd e Pdl - presenti alle ultime elezioni politiche quasi 26-27

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[FrancescoD’Onofrio] a completamento di una stagione di straordinario abbandono di qualunque idea del passato e di qualunque speranza di futuro. Ed è in questo contesto che assume significato strategicamente nuovo la stessa questione ambientale non più vista in termini di antagonismo tra lavoro umano e ordine materiale della natura ma di integrazione tra quel che l’uomo sa fare senza danneggiare e men che meno distruggere l’ordine materiale delle cose. Ancora una volta i tedeschi hanno proposto una rilevante iniziativa culturale allorché hanno iniziato a ragionare di economia sociale di mercato ecologicamente sostenibile: è questa la sfida di fronte alla quale oggi si trova anche l’Italia e non si tratta di una sfida soltanto economica o di risparmio energetico tradizionale ma di una cultura capace, anche se in tempi non brevissimi, di fare della nazionalizzazione dell’Italia un obiettivo strategico anche in materia ambientale.

L’apertura al futuro prevede un’economia sociale di mercato ecologicamente compatibile e capace di far fronte alla crisi, un’identità cristiana consapevole del passato e aperta alla convivenza con religioni diverse Se non intendiamo in alcun modo costruire un partito della nazione con tentazioni coloniali e nazionalistiche in genere, dobbiamo saper guardare con serietà e con forza alla questione di fondo dell’identità nazionale: certamente cristiana, non clericale, consapevole che con le molteplici sfide dell’immigrazione da paesi diversi dal nostro per lingua e per religioni, la nazionalizzazione dell’Italia non potrà ridursi alla semplice rivendicazione dell’identità cristiana del nostro popolo proprio perché in questi anni e per un lungo periodo davanti a noi l’identità cristiana originaria sarà giudicata - e non solo in Italia - proprio in riferimento alla capacità di convivenza con religioni diverse dalla nostra. Questa è la nuova frontiera dell’ispirazione cristiana oggi: non semplice rivendicazione di un passato assolutamente ovvio ma neanche riduzione dell’ispirazione cristiana a mera testimonianza artistica. Questa è una grande e coraggiosa apertura al futuro: nazionalizzazione italiana senza tentazioni coloniali; economia sociale di mercato ecologicamente compatibile anche per far fronte alla grave crisi economica e finanziaria in atto; identità cristiana consapevole del passato e contestualmente aperta coraggiosamente al futuro. Questo è il senso culturale e politico di un nuovo e grande partito alla cui costruzione chiamiamo quanti sono interessati e consapevolmente pronti ad agire, anche se provenienti da altre esperienze politiche.


SOLO UNA CRISI DEL PDL POTRÀ DARE SPAZIO A DISEGNI POLITICI ALTERNATIVI

Finché regge BERLUSCONI ✵

colloquio con Sergio Romano di Riccardo Paradisi

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ON L’AMBASCIATORE

SERGIO ROMANO, EDITORIALISTA del Corriere della Sera e osservatore attento del mondo politico e del dibattito pubblico italiano, liberal ragiona sulle prospettive del ruolo del Centro e delle possibili mutazioni del sistema elettorale. Il Pd è in crisi, il Pdl celebra il suo congresso di fondazione: tutto questo in un sistema bipartitico che sembra consolidarsi. È anche vero che all’interno dei due maggiori partiti gli attori principali soffrono di problemi di definizione della propria identità. Il bipartitismo che viaggia su questi binari, ambasciatore, ha un futuro sereno davanti a sé? Per il momento io vedo un tripartitismo nel paese: un centrodestra piuttosto consolidato da una forte leadership, un centrosinistra in crisi e un centro che tiene le posizioni. La nostra è una situazione che assomiglia per certi aspetti a quella della Germania. In Italia però il centrosinistra è in una crisi più grave. Certo, il Pd è in condizioni peggiori di quanto non siano i socialdemocratici tedeschi che però hanno attraversato una crisi profonda quando erano al governo coi Verdi. La realtà è che la crisi politica attraversa tutte le sinistre europee. In Italia questa difficoltà 28-29

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[Finché reggeBerlusconi] della sinistra deriva dal fatto che il Pd è la sintesi non riuscita dell’ex Pci e di una parte degli ex Dc: mondi molto diversi che si sono addirittura combattuti negli anni della guerra fredda. Le proporzioni di questa difficoltà le vediamo nelle elezioni europee. Quale sarà il gruppo di approdo del Piazza San Pietro a Roma in una raffigurazione ottocentesca Pd a Strasburgo? Torniamo al tripartitismo: la legge elettorale presente in Italia non lo agevola. Certo la forma degli schieramenti è resa complicata dal funzionamento del sistema elettorale. Allo stato attuale delle cose anche quelli a cui non piace però devono giocare all’interno di un sistema bipartitico. L’Udc in questo è aiutata dalla crisi della sinistra. Se non ci fosse una crisi della sinistra infatti il centro dovrebbe aspettare, per essere influente e condizionante come oggi, una crisi altrettanto grave della destra. Ma se si gioca così di sponda non si ha una base propria così solida. Finché non si cambia la legge elettorale e non c’è una crisi della destra il quadro è il presente. Peraltro non so quanto sia giusto augurarsi una sua mutazione radicale e traumatica. Preferirei che piuttosto la sinistra curasse i suoi mali, consentendo un sistema di alternanza più funzionale. Non è da auspicare nessuna crisi anche se non è peregrino mettere in ipotesi qualche tensione nel Pdl: le contraddizioni troveranno una composizione o questo soggetto unitario ci riserverà delle sorprese? Le sorprese non mancano mai in politica. L’unità del Pdl, d’altra parte, è sostanzialmente dovuta e fondata sulla perNel sistema proporzionale, sonalità di Berlusconi. È un uomo l’elettore non sceglie, solo che oggi tiene in piedi le forze del Pdl e la coalizione del governo. È dà una procura che poi viene usata Berlusconi l’imbastitura o addirittura senza che lui possa poi dire la sua. la cucitura del Pdl. La sua uscita dalla Il sistema bipartitico, invece, scena politica metterebbe in crisi il pur con tutti i suoi difetti, centrodestra e l’intera coalizione. E a

permette di fare delle scelte 30-31

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[SergioRomano] quel punto tante cose sarebbero possibili, anche la soluzione centrista cui pensa Pier Ferdinando Casini. Ma lo ripeto, io provo un certo disagio a sperare qualcosa che comporta esiti così incerti. Anche perché, accanto ai suoi difetti, occorre riconoscere i meriti di Berlusconi. Il principale è quello di avere portato all’interno del sistema due forze extrasistema: Lega e Msi. Anche chi critica il Cavaliere dall’estero forse non considera sufficientemente il vantaggio di tenere all’interno del sistema forze che invece tendevano a scivolare fuori. Per ora, lei diceva, le regole del gioco sono quelle che abbiamo, ma considerato che le più rilevanti aree culturali presenti nel paese sono cinque-sei - la Lega, la destra post-missina, l’area di centro popolare e liberale, quella riformista post-comunista e, infine, quella giustizialista e antagonista - non sarebbe più razionale un sistema che consenta una libera alleanza programmatica tra queste aree rendendo più flessibili le coalizioni? Dipende da ciò che si considera prioritario e importante. Se si considera prioritaria la soddisfazione di un’appartenenza ideologica e culturale dell’elettore a un partito, allora non c’è dubbio che sia così. Ma se si ritiene che la priorità per qualsiasi paese e per il nostro in particolare debba essere governare, creare governi che abbiano il massimo di stabilità possibile, allora la prospettiva cambia molto. Io personalmente non considero molto importanti i capricci italiani di riconoscersi in identità quasi familistiche. I partiti, come famiglie di appartenenza, mi sembrano francamente vecchissima politica. E poi si devono anche considerare i problemi seri che implicherebbe il sistema proporzionale. Che nell’immediato consentirebbe di avere governi costituiti da forze omogenee - Mario Monti sostenne questa tesi quando voleva che si facesse il governo dei riformatori - presentando quindi certi vantaggi. Però per raggiungere questo scopo si paga un prezzo molto alto. Si ritorna indietro: al voto di delega. Dove i giochi politici delle alleanze si fanno dopo il verdetto elettorale. In un sistema come quello proporzionale l’elettore infatti non sceglie, dà una procura che viene poi usata senza dare all’elettore la possibilità di dire la sua. Io continuo a pensare che questo sistema tendenzialmente bipartitico, pur con tutti i suoi difetti, mi permette di fare delle scelte. Che efficacia potrebbe avere ambasciatore il progetto di un partito di centro che punti a unire le diverse aree centriste presenti nel paese disponibili oggi a un’unione? È ipotizzabile un soggetto che punti tendenzialmente a unificare le diverse aree


[Finché reggeBerlusconi] Tra i meriti di Berlusconi, il principale è quello di aver portato all’interno del sistema due forze che altrimenti sarebbero scivolate fuori: Lega e Msi. Chi critica il Cavaliere forse non considera questo aspetto... di centro oggi presenti, oltre che nell’Udc, anche nel Pdl e nel Pd? Allo stato attuale delle cose direi di no e lo stato attuale delle cose è quello che abbiamo cercato di descrivere, vale a dire la legge elettorale che abbiamo e a maggior ragione quella che avremmo se il referendum ottenesse il risultato che si auspicano i suoi promotori. E poi perché mi sembra molto remota l’ipotesi di una crisi del centrodestra mentre Berlusconi è ancora pienamente attivo ed è il punto di riferimento di una parte importante del paese. La crisi del centrodestra passa attraverso una crisi del leader. Se non c’è una crisi del leader - può essere la sua scomparsa, un errore clamoroso, una sentenza giudiziaria - mi sembra che il quadro non possa essere nel medio periodo suscettibile di mutazione. In fondo non è così irrazionale però per un centro che si candida a essere alternativo ai due principali blocchi di questo bipolarismo pensare che Berlusconi possa, prima o poi, lasciare la mano. Anche perché essendo il Pdl un partito a leadership carismatica potrebbe ingenerare il paradosso di Alessandro Magno: al massimo del suo potere arrivò il collasso del suo impero. Certo è uno scenario su cui si può anche costruire un disegno politico, ma le ripeto mi provoca un certo disagio immaginare che qualcuno possa costruire la propria fortuna politica sulla base di qualcosa che non è desiderabile per il paese. Il centro tiene alle politiche e implementa consenso in Sardegna. Alle prossime elezioni europee viene dato intorno all’8 per cento... Siamo ancora una volta nel discorso del sistema elettorale. La Francia non è in condizioni molto diverse dall’Italia. Bairou aveva raccolto quella parte del consenso nazionale che era ugualmente delusa da Chirac e Mitterrand. Il pendolo francese si è puntualmente spostato in controtendenza rispetto al colore del presidente. Se il presidente era di destra votavano a sinistra e viceversa. Nei sistemi bipartitici c’è sempre una componente di insoddisfazione. In Italia questa insoddisfazione si esprime con sentimenti di antipolitica mentre il centro funziona da camera di decompressione per il popolo di centro, perché non arriva mai il momento della semplificazione definitiva. 32-33

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[SergioRomano] Nei sistemi bipartitici c’è sempre una componente di insoddisfazione. In Italia si esprime attraverso estesi sentimenti di antipolitica, mentre il centro funziona da camera di decompressione

Un anno fa lei diceva a liberal che Casini avrebbe rischiato molto del suo consenso se avesse stretto accordi a sinistra con Veltroni. Oggi con l’ex Dc Franceschini alla segreteria del Pd è cambiato qualcosa da allora? Da allora sono molto cambiate le condizioni generali. Ma non credo che i rapporti tra Udc e Pd possano migliorare in virtù dell’avvento di Franceschini. Non dimentichiamoci che quando in Italia è cambiato il sistema elettorale la Dc si è spaccata. Un motivo ci sarà. Casini e Franceschini facevano parte di correnti diverse di quella Dc. Oggi Casini e Franceshini possono apparire in pubblico concordi. Ma nella sostanza? Non mi si dica che la proposta fatta da Franceschini sul salario minimo garantito potrebbe essere sostenuta e impugnata da Casini. Quindi le differenze ci sono eccome. E non credo che il loro superamento tattico per costruire una nuova formazione centrista rappresenterebbe un sistema più coerente e omogeneo rispetto al centrodestra di oggi. Che ha una tenuta interna maggiore del centrosinistra. Nell’ultima campagna elettorale i temi eticamente sensibili, quelli riferibili cioè alla bioetica, sono stati elusi dal dibattito politico. In nome della laicità della politica si è detto. Però con il caso Englaro tutte le formazioni politiche sono state costrette a prendere posizione su questa vicenda drammatica. L’unico modo per affrontare questi problemi - a mio avviso - è quello della libertà di coscienza. Però certo il caso Englaro ha provocato un trauma autentico nella coscienza del paese. Devo dire che c’è un altro problema oggettivo: è vero che il concetto della libertà di coscienza funziona male in un sistema in cui non si muore più in casa ma di fronte a medici curanti che non sono diventati i funzionari di una sanità molto burocratizzata. I quali peraltro possono essere trascinati in tribunale e per questo sono sempre più inclini a chiedere regole che li proteggono. Sicché delle regole sono a questo punto necessarie. Sono gli stessi italiani, mi sembra, a chiederle. Però sarebbe bene non esagerare, sforzarsi di essere il meno ideologici possibile. Altrimenti si rischia di finire in uno di quei dibattiti nei quali è molto facile diventare giacobini.


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PERCHÉ È POSSIBILE, ANZI AUSPICABILE, SUPERARE I VECCHI BLOCCHI

che fatica a diventare realtà. Lo hanno compreso anche coloro i quali alla sua concretizzazione hanno profuso l’impegno maggiore. E oggi, dopo traversie che hanno prodotto anche dolorose lacerazioni interne alle formazioni politiche protagoniste della semplificazione del sistema politico, ci si interroga se davvero la democrazia italiana è pronta per assumere le fattezze di una democrazia fondata su due partiti e qualche marginale e ininfluente compagine. Per quanti sforzi siano stati fatti, bisogna concludere che il massimo a cui si può realisticamente aspirare è un bipolarismo dalle connotazioni sfuggenti e più movimentista di quanto si possa immaginare, nel senso che i partiti di riferimento non sono inclini a cristallizzarsi in questo o in quello schieramento. È una questione di identità culturali, prima che politiche, irrisolte e che, con buona pace di tutti coloro i quali scommettevano fino a qualche tempo sull’affinamento delle sensibilità diverse tra le forze in campo, dimostrano una vitalità sorprendente nel non appiattirsi sulla ragione che le vorrebbe nelle mani di un paio di potenti Leviatani. Lo abbiamo visto nel Partito democratico; lo stiamo osservando nel Partito del Popolo della libertà. Entrambi sono nati da «fusioni a freddo», sia pure seguendo percorsi dissimili e avendo obiettivi opposti. Il risultato, in entrambi i casi, non può dirsi entusiasmante. Che poi nell’uno e nell’altro si cerchi di mascherare le difficoltà asserendo che la compatibilità tra i «soci» fondatori si realizzerà con il passare del tempo, è comprensibile, ma non giustifica la «mistica» dell’assemblaggio a cui sono stati «costretti», per ragioni diverse ma convergenti nel proposito di dare ✵ Gennaro Malgieri ✵ L BIPARTITISMO ITALIANO SI FONDA SU UN DESIDERIO

NOSTALGIA DELLA POLITICA

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[Nostalgiadella politica] forma alla semplificazione del sistema. Semplificazione che avrebbe tutte le ragioni di sussistere qualora le identità politiche nel nostro paese fossero poca cosa, come accade altrove e non avessero segnato la storia stessa della nostra democrazia oltre che della più complessiva storia politica italiana ben prima che lo Stato unitario si affermasse. È perciò del tutto improprio immaginare partiti che possano reggere all’urto delle contraddizioni interne (a meno che non decidano di fare a meno di un’identità riconoscibile) con il solo collante della necessità che tiene insieme soggetti disparati dalle provenienze più varie. Beninteso, anche quest’operazione è legittima da tutti i punti di vista, ma ciò che da essa viene fuori non è una forza politica omogenea, per quanto pluriculturale, ma una piccola coalizione mascherata o un cartello elettorale. Il Pdl, ad esempio, come partito non è altro che la formalizzazione della lista che si è presentata alle elezioni. In più c’è soltanto un organigramma unitario, che non è cosa da poco naturalmente, ma che rispecchia identità disomogenee poiché quel che bisognava fare, avendo avuto il tempo per farlo se si fosse voluto, non è stato fatto, cioè a dire «omogeneizzare» le sensibilità dei diversi soggetti e dar luogo a una sintesi alla fine di un lavoro preparatorio che avrebbe dovuto coinvolgere anche la cosiddetta società civile di riferimento. Faticoso, indubbiamente. E forse dagli esiti incerti. Ma oggi, dopo la fine di An, il centrodestra incarnato dal Pdl è una creatura fragile anche se accreditata del 40 per cento dei consensi, legata alla durata del 36-37

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[GennaroMalgieri] berlusconismo al declino del quale, posto che nulla è eterno soprattutto in politica, è plausibile immaginare una scomposizione del partito e uno scioglimento del centrodestra dal momento che Berlusconi, incontestabilmente, è stato il federatore capace di tenere insieme ciò che insieme non poteva stare. Non so se la destra se n’è resa conto, ma aver legato i propri destini, senza inverarsi in una sintesi che avrebbe salvaguardato e fatto vivere i suoi valori, a una formazione programmaticamente effimera perché proiezione immediata di una personalità carismatica, ha significato la sua dispersione inevitabile non tanto come soggetto politico strutturato, ma come idea e visione del mondo. La stessa cosa può dirsi del mondo cattolico e del mondo post-comunista o socialdemocratico che si ritrovano nel Partito democratico. Le differenze qui sono vistose. L’incompatibilità tra personalità e spezzoni di movimenti addirittura plateali. Le culture non si sono intrecciate e mai s’intrecceranno: il Pd è un’operazione di potere, mentre tutti speravano (anche chi scrive) che fosse altra cosa. C’è un pregiudizio egemonico che connota tutte le nuove formazioni che hanno ritenuto di dare vita a unioni o a fusioni: ognuno guarda all’altro come se fosse qualcosa di meno di un alleato eppure stanno insieme protestando ogni giorno la loro comune appartenenza. Se il Pdl è comunque un partito fortemente segnato dalla personalità di Berlusconi il quale non teme rivali interni, il Pd non può vantare neppure un capo indiscusso e assoluto che si assuma in proprio le decisioni che impegnano il partito. Tra ex popolari ed ex diessini la competizione perciò è sfrenata, si formano correnti interne che bloccano l’attività del partito, bruciano leader con una voluttà che lascia allibiti. Tanto il Pdl che il Pd, grazie anche a una legge elettorale che glielo consente, sono i pilastri di una democrazia oligarchica la cui deriva populista è sotto gli occhi di tutti. Quando da entrambe le parti comprenderanno che l’Italia ha necessità di riformare il suo sistema istituzionale, di rivedere il suo impianto costituzionale, si renderanno conto che la partecipazione popolare (e non il plebiscitarismo da cui sembrano conquistati) sarà la sola strada percorribile per arrivare a una nuova democrazia i cui caratteri sono tutti da riscrivere posto che l’arretratezza del governo dell’economia, non meno che

Tanto il Pdl che il Pd, nati da “fusioni a freddo”, complice una legge elettorale che glielo consente, sono i pilastri di una democrazia oligarchica la cui deriva populista è sotto gli occhi di tutti


[Nostalgiadella politica] il quadro ordinamentale all’interno del quale si cerca di inserire istituti contraddittori fino a modificare surrettiziamente la forma-Stato, sono decrepiti, inadeguati a recepire le istanze della modernità, soggiogati dai cosiddetti «poteri forti» che hanno nell’attuale sistema dei partiti il loro terminale, mentre la politica soffre nell’aver perso il suo primato e di conseguenza i poteri costituzionali sono in continua fibrillazione fino a delegittimarsi reciprocamente. Tutto questo è all’attenzione dei due grandi partiti? Credo di sì, ma non mi pare che dall’una e dall’altra parte si faccia molto per ovviare a una crisi di legalità e di legittimità i cui prodromi sono proprio nella confusione dei ruoli e nel «cattiverio» in cui sono state costrette le identità senza che nessuno si sia applicato a superarle per dar vita a identità più grandi e

C’è bisogno di ricostruire il tessuto partitico, posto che nessuna democrazia decente ne può fare a meno. Un Partito della nazione, con connotazioni cattoliche, solidariste e nazional-conservatrici potrebbe concorrere a questo... complesse su cui fondare nuovi soggetti politici. È questo il deficit che segna il bipartitismo italiano. Il quale, come nuova ideologia, ha preteso di fagocitare tutto senza digerire nulla. Sicché le aree culturali invece che diventare permeabili l’una rispetto all’altra, in funzione di una contaminazione feconda, si guardano adesso con maggiore diffidenza che nel passato. Laici e cattolici sono più lontani; nazionalisti e secessionisti sembrano più vicini, ma in realtà si sopportano malamente; liberal-liberisti e solidaristi convivono sotto gli stessi tetti, ma non si capiscono; radical-socialisti e post-comunisti sembra che siano prossimi, ma in realtà si guardano con diffidenza; tutti, naturalmente, com’è giusto che sia, detestano i neo-giustizialisti, ma in parte vi si alleano proprio come fanno gli assertori dell’integrità e dell’identità nazionale con coloro che vorrebbero fare a pezzi l’Italia. Convenienza vuole che il melting pot politico sia diventato talmente «corretto» e accettato per puri motivi di agibilità elettorale da escludere qualsivoglia riforma seria, organica e coerente poiché nessuno nel cortile che condivide con altri può praticare la politica che vorrebbe al punto che la mediazione e il compromesso si trasformano quasi sempre in ricatti tanto nell’ambito della maggioranza, quanto dell’opposizione. Se la ragione operasse nel senso della ricerca del bene comune e da una 38-39

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[GennaroMalgieri] parte stessero i conservatori-popolari, da un’altra i socialdemocratici postmarxisti, da un’altra ancora i massimalisti e neo-pauperisti, e poi i separatisti-federalisti e via esemplificando, sarebbe paradossalmente più facile trovare punti di intesa tra diversi, come accadde alla Costituente. Invece, con l’alibi della semplificazione - che non significa estinzione di famiglie politiche, ma dovrebbe significare invece rafforzamento di quelle riconoscibili ed emarginazione delle altre fittizie che non esprimono niente - si è reso praticamente impossibile l’incontro tra le culture e le identità dovendo fronteggiare all’interno dei partiti-coalizioni le difficoltà che inevitabilmente mettono a repentaglio la convivenza tra coloro che non sono assimilabili, né integrabili. Non saprei dire se dall’incontro tra possibili «affini» sul piano valoriale possano discendere altrettanti «poli».

Forse la destra non se ne è resa conto, ma legare i propri destini a una formazione così legata a una personalità carismatica significa la sua dispersione non tanto come soggetto politico ma come visione del mondo L’esperimento sarebbe da tentare. Ma prima di tutto bisognerebbe modificare la legge elettorale e poi rivedere le forme di partecipazione politica. Insomma, c’è bisogno di ricostruire il tessuto partitico, posto che nessuna democrazia decente può prescinderne. Al contrario rischiamo che la subalternità della politica ai «poteri forti» diventi assoluta. Come il dominio delle oligarchie nei nuovi schieramenti nei quali le logiche del merito, della selezione, della competenza, del radicamento territoriale sono state espulse con conseguenze nefaste per l’intero sistema. Un Partito della nazione, con connotazioni cattoliche, solidariste e nazional-conservatrici, potrebbe concorrere, al pari di altri soggetti, alla formazione di una coscienza politica nella quale siano presenti i caratteri riassunti fin qui. Si tratta di vedere come, in quali tempi e con chi. Certo è che se il leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini al Partito della nazione ha fatto riferimento e, nel suo discorso congressuale, a esso pure si è riferito il presidente della Camera ed ex leader di An, Gianfranco Fini, vuol dire che una certa idea della ricomposizione della politica comincia a farsi strada: non so se la circostanza autorizza un po’ d’ottimismo, ma certamente è segno che i vecchi blocchi possono essere superati. Almeno questa è la speranza.


Un’immagine del Duomo di Amalfi

L’ALTERNATIVA ALLA TENAGLIA BIPARTITICA È POSSIBILE: ECCO LE CONDIZIONI

IL CORAGGIO

di uscire dal Palazzo ✵

Stefano Folli

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UANDO SI FARÀ LA STORIA POLITICA DI QUESTI ANNI,

si dovrà prendere atto di un dato tra i più significativi: il centro moderato, rappresentato in modo particolare dall’Udc, avrebbe dovuto scomparire, invece non è stato così. Avrebbe dovuto sparire in base ai canoni della divaricazione bipolare. Il postulato, come è noto, è che la nascita di due grandi blocchi tende a schiacciare le forze intermedie fino a renderle superflue. L’elettorato segue l’onda e sceglie: o di qua o di là. Al contrario, le vicende che hanno accompagnato le elezioni legislative del 2008 e soprattutto i fatti successivi, compresi alcuni appuntamenti parziali (ad esempio il voto in Abruzzo e in Sardegna) hanno dimostrato che una forza moderata, all’opposizione dell’attuale governo ma distinta dal Partito Democratico, riesce a conservare il suo spazio e addirittura, in qualche caso, ad accrescerlo. Tutto questo non costituisce una garanzia per il futuro, ma aiuta a comprendere alcune caratteristiche di fondo del nostro sistema. Con ogni evidenza, la spinta bipolare non soddisfa tutte le esigenze dell’elettorato: anche perché l’evoluzione del quadro politico è avvenuta senza essere accompagnata da un processo di maturazione istituzionale. Le fatidiche riforme, a lungo invocate, non hanno mai preso forma in modo compiuto. Al punto che oggi si parla di un «presidenzialismo» di fatto, fondato sulla personalità dei 40-41

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[Il coraggiodi uscire…] leader e di uno in particolare, come è logico: Silvio Berlusconi. Il che espone il paese alle suggestioni di un modello plebiscitario, insofferente alle regole e propenso a considerare la legislatura una sorta di campagna elettorale permanente. In qualche momento queste tentazioni hanno coinvolto anche il centrosinistra, quasi si trattasse di una scorciatoia per ritrovare la sintonia con l’elettorato perduto. Ma si è visto che sul terreno leaderistico-plebiscitario Berlusconi è imbattibile. E in ogni caso un bipolarismo che si evolve secondo questi criteri non garantisce l’equilibrio politico-istituzionale di cui oggi più che mai si sente il bisogno. Tanto meno se l’evoluzione sfociasse - senza correttivi - in un assetto bipartitico consolidato e definitivo. Sotto questo profilo, è evidente che la nascita del Popolo della libertà rappresenta senz’altro la premessa di un futuro bipartitismo. Sviluppo che la gestione veltroniana del Partito democratico aveva assecondato, mentre il nuovo corso di Franceschini lo vede con qualche dubbio e non poca diffidenza. Tuttavia la tentazione di «semplificare» e di essere in qualche modo i beneficiari di tale semplificazione è quasi irresistibile per tutti. Il problema è che i fatti vanno in un’altra direzione. Alla volontà dei leader, in particolare di Berlusconi, non ha corrisposto finora una propensione altrettanto chiara dell’elettorato. Basta vedere i sondaggi in vista delle prossime elezioni europee, in cui accanto ai due partiti maggiori (Pdl e Pd) crescono una serie di forze il cui peso è valutabile tra il 5 e il 9 per Una forza che voglia rappresentare cento: dalla Lega all’Udc all’Italia dei l’Italia moderata non deve temere Valori, senza contare l’arcipelago deldi proporre un programma l’estrema sinistra. In altre parole, lo spazio fra i due maggiori schiera- che contempli un’autentica menti rimane sufficientemente rifondazione sul piano istituzionale, ampio, tanto da autorizzare una stra- amministrativo, economico e morale 42-43

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[StefanoFolli] tegia alternativa alla tenaglia bipartitica. Non sarà semplice, è ovvio. Ma bisogna partire dalla realtà. In primo luogo, lo stesso Gianfranco Fini si rende conto che il binomio secco destra-sinistra presenta qualche rischio di troppo per l’Italia che non ha nel suo bagaglio storico la tradizione anglosassone. Nel discorso in cui ha dato l’addio ad Alleanza Nazionale, il presidente della Camera si è posto una serie di interrogativi cruciali. Dire, ad esempio, che il nuovo Popolo della libertà non può essere condizionato dal «pensiero unico» significa porre un cuneo nella concezione del partito carismatico, accentrato nella figura del capo. Ma vuol dire anche sottolineare la vera sfida dei prossimi anni: la costruzione di una democrazia matura, e quindi immune da derive plebiscitarie. Una democrazia affidata a salde istituzioni liberali, nel rispetto della storia italiana. Quella storia - possiamo aggiungere - «complessa e complicata», come la definiva Benedetto Croce, in cui il rapporto tra laici e cattolici resta essenziale, se non si vuole lacerare il tessuto nazionale in nome di brutali manicheismi. Nessuno può offrire al centro moderato la garanzia di vivere da protagonista la prossima fase. Ma di sicuro non si parte dall’«anno zero»: né sul piano delle proposte, né su quello dei numeri elettorali. L’idea liberale dello Stato unitario, la difesa dell’interesse generale contro le corporazioni, una politica estera nel solco della tradizione europeista e occidentale, un’economia che non soffoca le imprese, ma nemmeno le abbandona a se stesse in nome di un malinteso liberismo: ci sono buone ragioni per credere che questi obiettivi siano meglio tutelati se esiste una forza in grado di condizionare la politica dei grandi schieramenti, senza essere obbligata a inseguire il consenso ogni giorno. Una forza che non può coincidere con i confini dell’attuale Udc, ma che richiede di essere costruita passo dopo passo riannodando tanti fili sparsi. Poi si vedrà. È chiaro che ogni giorno ha la sua pena. Ma non si



[StefanoFolli] I sondaggi delle prossime elezioni europee dimostrano che lo spazio tra i due maggiori schieramenti è sufficientemente ampio da autorizzare un’alternativa

Piazza del Duomo a Milano in un’incisione d’epoca

può negare che la grande missione di questa legislatura sia quella di rinnovare lo Stato. Vincerà chi riuscirà a esprimere su questo terreno l’idea più forte e più capace di creare coesione. Del resto, è evidente che la posizione leghista (il federalismo) finora ha avuto successo anche perché non ha trovato dall’altra parte un contrappunto altrettanto solido: ha trovato il «no» della sola Udc, senza che l’opposizione nel suo complesso riuscisse a mettere in campo un progetto diverso, capace di parlare al cuore degli italiani senza apparire succube delle tesi leghiste. Di qui l’astensione del Partito democratico, che dimostra l’incertezza di fondo di fronte al dinamismo di Bossi e Calderoli. Peraltro, lo stesso successo personale e politico di Berlusconi, che dura ormai da quindici anni, è possibile anche a causa della debolezza ideale e pratica dei suoi avversari. Quando è accaduto che a tale debolezza si è sostituita una chiara determinazione e un programma serio, come al tempo del primo Prodi e di Ciampi ministro dell’economia, le cose hanno cambiato segno. Si tratta allora di abbandonare i giochi di piccolo cabotaggio e di non aver paura di avanzare un programma che contempli una vera e propria rifondazione dello Stato: sul terreno istituzionale, amministrativo, economico e, perché no, persino morale. Le alleanze politiche verranno dopo e saranno calibrate in base alle prospettive delle riforme. Uscire dal palazzo significa anche smetterla di fornire argomenti alle polemiche sulla «casta» e cominciare a offrire agli italiani una visione, un progetto. Una speranza autentica e non retorica per il futuro. È un ottimo esercizio per una forza che voglia rappresentare l’Italia moderata.


LA LEZIONE DEL TEORICO SVIZZERO CHE NELL’OTTOCENTO TENTÒ DI ADATTARE IL BIPOLARISMO ALL’EUROPA

Ricordiamoci di Un angolo di piazza Navona a Roma

BLUNTSCHLI ✵

Paolo Pombeni

L

della cosiddetta Prima Repubblica è tutt’ora irrisolta, per la semplice ragione che non ha ancora dato vita a una stabilizzazione ragionevole con una legittimazione riconosciuta, almeno di fatto, delle componenti in cui il sistema sta cercando di articolarsi. Credo sarebbe opportuno misurasi con questa situazione affrontando il tema da un punto di vista storico, avendo l’occhio non solo alla realtà italiana, ma a quella europea più generale. Il sistema politico italiano post 1945 è stato fondato sul presupposto, a lungo negato nella nostra storia, che il paese avesse un’unità «politica», ma non un’unità «culturale». La prima era stata confermata dalla Resistenza, quando il crollo del sistema istituzionale del regime monarchico e fascista non aveva dato vita a una frammentazione delle fedeltà «nazionali», ma aveva visto il convergere spontaneo di tutte le forze in campo nella difesa della «patria». Non ci furono infatti vere tentazioni disgregatrici dell’unità nazionale (il separatismo siciliano fu un fenomeno marginale; i tentativi francesi di suscitare un distacco della Valle d’Aosta fallirono, come quelli tedeschi verso il cosiddetto Alpenvorland, cioè il Trentino) e tutti i partiti si mossero in un’ottica fortemente nazionale. A testimonianza si potrebbero citare i miti della Resistenza come «Secondo Risorgimento» o ancor più significativamente il fatto che le brigate partigiane comuniste fossero intitolate a Garibaldi. Quella unità «politica» si raggiungeva però grazie al mantenimento di «identità A CRISI PROVOCATA DAL CROLLO DEL SISTEMA POLITICO

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[Ricordiamoci diBluntschli] culturali» molto forti, testimoniate dal fatto che ogni «partito» aveva, in misura più o meno consistente, le proprie unità combattenti, poi coordinate (sino a un certo punto) in un sistema militare unitario grazie alla politicizzazione e lottizzazione del sistema di comando fra le diverse forze politiche. In realtà la cosiddetta «repubblica dei partiti» nasce qui e quel modello non sarà mai messo veramente in discussione: l’unità della politica ha radice nella compartecipazione di tutte le «culture sociali» esistenti nel paese alla produzione della decisione politica, Piazza che, non a caso, si vorrà in seguito fortemente incentrata sul Santa Maria Parlamento, luogo dove possono convivere tutti in forma più o Maggiore a Roma meno dialettica. Qualche riflessione andrebbe pur fatta su un fenomeno interessante come l’aver respinto da parte della maggioranza uscita dalle elezioni del 18 aprile 1948 ogni tentazione di messa fuori legge dell’estrema sinistra e anche dell’estrema destra, puntando invece ad averle in Parlamento. Si tratta, si badi bene, di una scommessa vinta, perché il Parlamento funzionava come strumento di compartecipazione, magari in negativo, alla decisione politica, sicché tanto il Pci quanto il Msi si parlamentarizzarono sempre più al di là di liturgie rivoluzionarie che mantennero per tempi diversi in funzione di difesa dei confini del loro bacino di consenso. È questo che ha dato luogo fino all’incirca alla metà degli anni Sessanta a quello strano sistema che metteva insieme una feudalizzazione notevole del paese con lo sviluppo di un crescente senso di appartenenza comune che, grazie anche allo sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa (specialmente la televisione), dava adito a un progressivo indebolimento delle componenti culturali identitarie presenti nei partiti. Peraltro la coesione del sistema era favorita dal fatto che il suo perno fosse in certa misura un «partito sintesi» come la Democrazia Cristiana, che aveva all’epoca una forte radice socio-culturale (la comunità cattolica, vincolata a quel partito dalla scelta delle gerarchie vaticane), ma di natura non immediatamente politica, in quanto, a dispetto della retorica su una autonoma cultura sociale cattolica, questa conteneva posizioni prese da diversi settori dello schieramento politico (destra e sinistra; progressisti e conservatori; sostenitori del centralismo e sostenitori delle autonomie locali; ecc.). Si era così sviluppata progressivamente una certa «cultura nazionale» che tendeva a uscire dai vecchi recinti identitari e dava spazio alla competizione 48-49

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[PaoloPombeni] per chi potesse essere l’erede dell’interpretazione «centrale» di quella «nuova Italia» di cui si cominciò a discutere alla fine degli anni Sessanta. Era complice una trasformazione profonda delle grandi ideologie, se non proprio una loro morte: quella cattolica affrontava il confronto con il Concilio Vaticano II che la richiamava a pensare in termini religiosi, lasciando alla sua indipendenza la sfera della politica; quella comunista si misurava col trauma dell’invasione sovietica della Cecoslovacchia che rilanciava il problema del «socialismo dal volto umano»; quella che per estensione generalizzante potremmo chiamare laico-liberale era sempre più attratta dalla sirena di una trasformazione sociale che metteva in gioco istanze libertarie e nuove fiammate di positivismo scientifico (o talora pseudo-tale). La viscosità dei regimi politici avrebbe tenuto insieme i vecchi presupposti partitici per ancora un quarto di secolo, ma il progressivo svuotamento delle «culture sociali» come contenitori obbligati dei percorsi di apprendimento della politica e di ingresso nelle sue strutture avrebbe inevitabilmente portato alla fine del loro ruolo di perno del sistema politico. Che poi vari gruppi di potere nella dura competizione per sopravvivere a quella che, magari inconsciamente, tutti sentivano come fine imminente siano stati spinti a rifugiarsi nella forza di attrazione economica che poteva loro derivare dal ruolo ricoperto è ormai storia: la radice della «corruzione» del sistema è lì, e non fu solo corruzione nel senso banale di tangenti e malaffare, ma proprio nel senso forte di un contesto che si corrode dall’interno. Sembra a me che il sistema politico italiano non voglia fare i conti con questa sua storia e che fondamentalmente ancora oggi non promuova una riflessione seria su come ristabilire un equilibrio che non può reggersi né sul resuscitare un mondo defunto né su una superficiale riappropriazione delle vecchie bandiere fatte adottare a eserciti che non sono in grado di riconoscerle. La soluzione tentata è stata costantemente quella della manipolazione elettorale. Gli eredi delle classi politiche precedenti si sono raccontati fra loro, con l’ausilio di compiacenti ingegneri politici assai Quattro partiti, due “medi” digiuni di storia, che il riequilibrio del e due “estremi”: così secondo sistema poteva nascere dal ricreare lo schema di Johan Kaspar artificialmente qualche funzione chiave Bluntschli era possibile del sistema: una maggioranza in grado mantenere il sistema politico di governare, come primo obiettivo; in equilibrio dinamico poi, alternativamente, un sistema che o


[Ricordiamoci diBluntschli] Il bipartitismo classico fa fatica ad affermarsi perché in realtà non mantiene ciò che promette: il dualismo tra progresso e conservazione

La planimetria michelangiolesca di piazza del Campidoglio a Roma

preservasse al massimo tutti i clan politici che si erano formati nella diaspora o tagliasse via le frammentazioni restringendosi a pochi (tendenzialmente a due) «blocchi elettorali» di incerta identità. Sino a ora il risultato di questo modo di procedere è stato, a dir poco, fallimentare. A seconda dei sistemi si sono avute esplosioni in frammenti generatrici di clan di varia natura oppure blocchi elettorali in cui però ogni clan superstite badava bene a mantenere salde le sue fedeltà e le sue truppe. Nell’uno e nell’altro caso tutto si è risolto in una perpetuazione della famigerata «lottizzazione», ora non più giustificata in termini di pluralismo culturale, ma di semplice distribuzione delle spoglie fra i clan dei pretoriani. Oggi si sta ponendo il tema di come uscire da questa situazione che non è semplicemente insoddisfacente dal punto di vista della stabilizzazione del sistema, ma che si rivela non solo incapace, ma ostativa alla gestione di una crisi epocale di passaggio i cui contorni vanno drammaticamente definendosi di giorno in giorno. Il problema sul tappeto è dunque quello di come ridisegnare un sistema che contempli meccanismi di «divisione» dell’opinione pubblica (necessari e fisiologici in ogni democrazia) con un contesto di legittimazione generale che consenta una dialettica proficua tra le parti in causa, una mobilità dell’elettorato (senza la quale non ci può essere rappresentanza competitiva) e il mantenimento al contempo di una «cultura nazionale» senza la quale difficilmente si può realizzare la convergenza politica verso l’obiettivo di fondo di ogni regime, che è la realizzazione del «bene comune». La tentazione bipartitica ripropone la storica alternativa ai sistemi, come quello italiano o tedesco, che, come si è visto, erano fondati sulle culture sociali trasformate in partiti politici. Questa alternativa è ciò che si definisce, sin dalla seconda metà dell’Ottocento, come il bipartitismo anglosassone, quello di Gran Bretagna e Usa. Qui la divisione non era nei termini classici destra e sinistra1 ma piuttosto quella fra «progressisti» e «conservatori» o, per essere ancora più precisi, fra il partito del cambiamento e il partito del lasciare le cose come stanno. Naturalmente un sistema di questo genere, 50-51

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[PaoloPombeni]

nel suo stadio evoluto, suppone una società «pacificata» in cui l’alternanza fra progressisti e conservatori non sia in grado di spostare gli assi di fondo del consenso politico. Coloro che storicamente si opposero all’importazione di questo modello sul «continente» sostennero che ciò era impossibile appunto perché qui non vi erano società pacificate che rendevano non attuabile e pericolosa una alternanza frequente. Per la verità un teorico svizzero tedesco degli anni Sessanta-Settanta dell’Ottocento, Johan Kaspar Bluntschli, cercando di adattare la questione bipolare all’Europa continentale propose una teoria che ebbe una grande fortuna ai suoi tempi, ma che poi venne completamente dimenticata. La riassumono brevemente perché credo che oggi potrebbe tornare di qualche interesse. Sostenne Bluntschli che in realtà i partiti «puri» che avrebbero dovuto esserci in ogni sistema (bandendo quelli legati alle culture sociali che a suo giudizio minavano la tenuta del corpo sociale unitario) non erano due, ma quattro: i radicali, i liberali, i conservatori e i reazionari. L’equilibrio, che è l’obiettivo fondamentale a cui mirava il costituzionalismo classico, si sarebbe ottenuto quando l’alternanza fra liberali e conservatori fosse garantita dal fatto che i liberali tenevano sotto il loro controllo i radicali e i conservatori i reazionari. Ove questo non fosse successo e invece a dominare in ciascuno dei due poli fosse stata l’ala estrema, ecco che allora si sarebbe dovuta avere l’alleanza fra i due partiti «medi» per impedire che le estreme, arrivando tramite loro al governo o dominando l’opposizione, portassero il paese al disastro. Naturalmente qui non ci interessa la plausibilità assoluta dello schema di Bluntschli, ma solo il suo cogliere il problema, che diventerà fondamentale, di come si può mantenere un sistema politico al tempo stesso dinamico (con la competizione per l’alternanza) e in equilibrio (evitando le tentazioni giacobine insite nel dominio delle estreme). A me sembra che sia questo il problema che oggi ha davanti il sistema politico italiano. Il bipartitismo classico fa molta fatica ad affermarsi per due semplici ragioni: non ha dalla sua né la riproponibilità del dualismo progresso/conservazione, né una sedimentazione storica che abbia abituato gli italiani a pensarsi in uno schema bipartitico. Oggi far coincidere la volontà di progresso con un polo e la conservazione con un altro è impresa assolutamente ardua, a meno di giocarla sul piano puramente retorico dove si può fare tutto. Destra e sinistra, per tornare alle vecchie etichette, sono ciascuna impasti di progressismo e di conservazione, per di più del tutto a casaccio perché la scelta per l’una o per l’altra direzione non è motivata da scelte ideologiche di carattere generale, da «ragioni politiche» su cui si possa discutere, ma per lo più da posizionamenti tattici.


[Ricordiamoci diBluntschli] Destra e sinistra sono un impasto casuale di progressismo e conservazione, non motivati da ideologie o da ragioni politiche ma solamente da posizionamenti tattici

Una riproduzione ottocentesca di piazza San Marco a Venezia

Di conseguenza è difficile fondare «partiti» nel senso classico del termine (istituzioni che vogliono incidere sulla decisione politica in nome di una cultura capace di interpretare il mondo) e imporre questa linea di frattura nella raccolta del consenso. Molti obiettano che non è più questa la linea di frattura che esiste nei sistemi bipartitici, come ad esempio negli Usa. Ciò è vero, ma appunto perché qui la frattura bipolare che all’origine era motivata in quel modo, ha in realtà dato vita a due raggruppamenti «storici» che sono semplicemente le «calamite» per organizzare lo spostamento dei consensi, tanto è vero che i loro candidati per le cariche pubbliche non vengono selezionati sulla base di filiere stabili di adesione a questa o a quella ideologia di partito (per non parlare di «militanze» al loro interno), ma sulla base delle «esigenze di vittoria» che di volta in volta appaiono prevalenti (di qui l’origine del testare queste capacità in elezioni primarie, che appunto sono sondaggi sulle esigenze dell’elettorato e sulla capacità dei candidati di «raccontare la storia» che ha la maggiore capacità di presa in termini di consenso). In Italia non possiamo né costruire davvero una frattura ideologica fra conservatori e progressisti, non da ultimo perché di questi tempi cosa valga la pena di conservare e cosa richieda una iniezione di vero progresso è arduo da dire, né possiamo disporre di tradizioni storiche che abbiano già prodotto quei contenitori che adesso potrebbero sopravvivere anche dopo l’atrofizzarsi delle motivazioni originarie. La vicenda del Pd sta proprio lì a dimostrare queste difficoltà, per l’esilità del ragionamento che presumeva di mettere insieme «riformismo comunista» (e socialista) e «riformismo cattolico», senza tenere conto che in termini culturali non esistono più né l’uno né l’altro (che siano ancora usati come bandiere da vari capi clan è un altro paio di maniche). Il Pdl, partito ancora una volta personale e tutto pragmatico, può riuscire meglio sul momento, avendo più convenienze tattiche da spendere (la comune partecipazione alla gestione del potere), ma anch’esso è assai a rischio quando deve dare una qualche veste «ideologica» a una gestione del potere che in tempi di crisi epocale non potrà limitarsi ad accontentare un po’ tutti come si faceva ai tempi dei «partiti pigliatutto», quando c’era l’abbondanza e le risorse da distribuire parevano infinite. Con questa situazione è allora meglio tornare al vecchio sistema della frammentazione ampia? 52-53

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Personalmente do a questa domanda una risposta del tutto negativa, per la semplice ragione che la frammentazione ampia non opera per dare spazio e rappresentanza a una reale frammentazione socio-culturale esistente nel paese, ma per consentire ai clan politici di fare il nido nei pre-giudizi delle angosce collettive, da loro scomposte e opportunamente gestite per via mediatica. Mi permetto anche di ricordare che al momento nei grandi paesi europei sistemi seccamente bipartitici non ne esistono: mai in Germania, dove una volta i partiti erano tre (coi liberali che facevano la spola fra i due maggiori) e adesso sono cinque o sei; non in Inghilterra, dove i liberali hanno sempre mantenuto una qualche area di consenso non facendosi assorbire né dai conservatori, né dai laburisti; non in Francia, come si è visto chiaramente nelle ultime elezioni presidenziali. Allora come produrre un sistema che non sia artificiosamente bipartitico, ma che impedisca al tempo stesso una frammentazione infinita e senza senso in vista di pure aggregazioni di potere? La risposta non può venire, a mio avviso, solo dalla manipolazione del sistema elettorale, anche se possono essere utili alcuni strumenti, come ragionevoli clausole di sbarramento, individuazione di circoscrizioni sufficientemente ristrette da obbligare a un voto sulle persone dei candidati anziché ad astratti schieramenti ideologici, disincentivi alla sopravvivenza di gruppi che non hanno rappresentanza nelle istituzioni o che non vanno al di là di testimonianze individuali (revisione di tutti i sistemi pubblici di sussidio e finanziamento a queste forze a livello centrale e locale). La risposta più forte deve venire da due dinamiche, che, purtroppo, non possono essere create artificialmente. La prima è il ritorno a una seria cultura politica fondata sul primato del «fare» rispetto al primato della «testimonianza». Se dovessimo dirlo con Max Weber, parleremmo della preminenza dell’etica della responsabilità su quella della convinzione. Si capisce che l’operazione è molto difficile, perché ovviamente i «commentatori» oggi predi-



[PaoloPombeni] Ma non bisogna tornare alla frammentazione che consentirebbe ai clan politici di fare il nido nei pregiudizi delle angosce collettive degli italiani, da loro gestiti per via mediatica

ligono il ruolo di giudici della «ortodossia» dei politici a quello di analisti delle operazioni che si mettono in atto (ovviamente è più facile ragionare, in materia di «proposte», in termini di bianco e nero, buono e cattivo, che non farlo quando ci si misura con le «realizzazioni», le quali richiedono tempi lunghi, aggiustamenti e quant’altro). La seconda è la presenza di leader capaci di coagulare consenso intorno a proposte forti e di espungere, o quanto meno marginalizzare, i demagoghi e i populisti che in politica ci sono sempre, ma che in tempi di crisi trovano più spazio, perché sono come quei ciarlatani che promettono guarigioni miracolose a chi ha avuto dai medici prognosi infauste e irreversibili. Né l’una né l’altra di queste soluzioni si possono produrre artificialmente in laboratorio. Certo si possono creare situazioni un po’ più favorevoli al loro realizzarsi: aiutano senz’altro meno demagogia in Tv, promozione di luoghi seri e fuori dei circuiti dello scontro politico diretto per il confronto delle idee, spazio alla circolazione delle nuove élite (generazionali o meno non è decisivo: l’importante è che siano «nuove»). Tuttavia se poi queste due condizioni non si avverano, sarà gioco forza aspettare, perché non le si può avere per decreto. Certamente oggi la prospettiva che manca è quella del one nation party come si diceva nella teoria classica inglese, cioè partiti (non necessariamente se ne deve avere uno solo) che si pongono come obiettivo l’unificazione del corpo sociale interpretato come un insieme, anzi, prendendo anche qui a prestito una terminologia weberiana, come una «comunità di destini», capace di unificare la ricerca della felicità che, in termini ovviamente laici e limitati, interessa ogni individuo, e la consapevolezza che questa può essere realizzata solo in un contesto di solidarietà che coinvolga tutti i molteplici ambiti in cui ogni individuo e ogni comunità elementare sono coinvolti (dagli ambiti più immediatamente territoriali di insediamento, alla nazione, all’Europa, all’intero sistema globale, oggi tanto di moda).

1) Questa a rigore è una distinzione in origine sociale perché deriva dalla disposizione nella camera cetuale francese pre-rivoluzionaria: i nobili e l’alto clero sedevano a destra del re (sulla convenzione che nella Apocalisse sta scritto che i giusti siederanno alla destra del Padre) e gli altri a sinistra. Poiché furono gli altri a fare la rivoluzione, la sinistra divenne il simbolo della rivoluzione, la destra della conservazione.


I

PERCHÉ

LA SCOMPOSIZIONE DELL’ATTUALE SISTEMA POTREBBE RIPORTARCI AI DIFETTI DELLA PRIMA REPUBBLICA

Il RISCHIO è il blocco dell’alternanza ✵

Giovanni Sabbatucci

L PROBLEMA NON NASCE OGGI: LE CRITICHE

alle modalità di funzionamento del sistema politico vigente in Italia, le deplorazioni nei confronti del «bipolarismo coatto» (o «bipolarismo polarizzato», come mi è capitato di definirlo) e della sua incapacità di rappresentare un arco di posizioni più ampio e articolato hanno accompagnato il nuovo assetto sin dai suoi esordi, nel 1994. E si sono via via intensificate, a fronte delle non brillanti performance del sistema in termini di qualità di governo e in seguito al fallimento di tutti i tentativi volti a renderlo più dolce e più virtuoso (ultimo quello abbozzato da Berlusconi e Veltroni all’indomani delle elezioni del 2008). Eppure, da qualche mese a questa parte, l’evocazione di altri scenari si è fatta più insistente, a partire da alcuni fatti nuovi. Le novità sono sostanzialmente tre: la crisi evidente di consensi e il possibile conseguente sfaldamento di uno dei due poli (il Partito democratico, la cui scissione potrebbe «liberare» un pezzo importante del mondo cattolico); l’emergere di posizioni di dissenso abbastanza marcate in seno al Popolo delle libertà; la crescita, nelle urne e nei sondaggi, dell’unico partito (l’Udc) che già oggi svolge la funzione di «piccolo centro» (come i liberali tedeschi, per intenderci) e ha da tempo puntato le sue carte sull’insostenibilità del bipolarismo all’italiana, fino al punto di ipotizzare la nascita di un grande «partito di programma» destinato a occupare stabilmente l’area mediana e moderata dello schieramento politico. I segnali sono forti e indicano indubbiamente una situazione in movimento. Ma non credo che l’esito possa essere quello auspicato dai centristi. E, tutto 56-57

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[Il rischioè il blocco…] sommato, nemmeno me lo auguro. Provo a spiegare perché, cominciando con una valutazione di fattibilità. Per sbancare davvero gli assetti attuali, non basta che sia in crisi uno dei due poli: da sola questa condizione non fa che rafforzare l’attuale maggioranza, dando luogo a una sorta di nuovo «bipartitismo imperfetto» (ovvero senza possibilità immediata di alternanza) e costringendo l’opposizione, dato che la politica non tollera il vuoto, a mettere in atto nuove strategie, a inventarsi nuove formule in una prospettiva verosimilmente di lungo periodo, ma sempre in una logica bipolare. Perché si possa parlare di un nuovo assetto del sistema, è necessario che in crisi siano entrambi i poli. Ma questo scenario appare al momento lontano. Nonostante i suoi eccessi, nonostante le sue divisioni, nonostante le uscite infelici del presidente del Consiglio e - quel che è più notevole nonostante la crisi economica, il patrimonio di consensi, reali e virtuali, del Popolo della libertà non è stato sinora seriamente intaccato: al contrario, alla vigilia del congresso di fondazione, sembra in crescita. Le voci di dissenso che si levano all’interno della maggioranza su singoli temi, e anche su temi importanti, non mutano questo dato. Non lo mutano le periodiche prese di distanza della Lega (che non è mai stata organica alle diverse incarnazioni dello schieramento di centrodestra, né mai lo sarà). Non le pur significative riserve espresse da singoli esponenti di Forza Italia (è il caso di Pisanu). E nemmeno il controcanto, ormai costante, intonato da Gianfranco Fini, che propone un suo modo - più equilibrato, più moderato, in una parola più «europeo» - di intendere la funzione di una destra democratica. La sua è una proposta che riguarda il futuro più che il presente; ed è una implicita auto-candidatura alla leadership dello stesso schieramento di centrodestra oggi guidato da Berlusconi. Quella proposta non prevede quindi un mutamento degli attuali assetti sistemici e, anche se lo prevedesse, non

Perché si possa parlare di un nuovo assetto politico, è necessario che in crisi entrino entrambi i poli. Uno scenario al momento lontano, nonostante gli eccessi e le uscite infelici del presidente del Consiglio

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[GiovanniSabbatucci] Le pulsioni moderate tendono a rafforzare l’attuale “piccolo centro” in vista di una possibile alleanza con un centrosinistra non sbilanciato sul versante dell’Estrema

avrebbe la forza per realizzarlo, dal momento che poggia solo sul prestigio personale e sul ruolo istituzionale del presidente della Camera. Stando così le cose, le pulsioni moderate e centriste che pure percorrono settori non trascurabili dell’opinione pubblica non possono tradursi che in un ampliamento dei consensi (e dunque della forza contrattuale) dell’attuale «piccolo centro», ossia dell’Udc, in vista di una possibile alleanza con un centrosinistra non troppo sbilanciato sul versante dell’Estrema: alleanza peraltro apertamente invocata da importanti settori del Pd. Questo per quanto riguarda la fattibilità del progetto. Resta da dire qualcosa sulla sua auspicabilità, nel quadro di un miglior funzionamento della democrazia repubblicana. I fautori di una nuova configurazione di sistema dichiarano di non desiderare un ritorno al modello fondato su un grande centro inamovibile per via elettorale (la «soluzione trasformista», nel senso non spregiativo del termine, tipica della tradizione italiana). Si rifanno invece al modello tedesco, in quanto capace di assicurare l’alternanza attraverso alleanze programmatiche «flessibili», in una partita con quattro, cinque o sei giocatori. Trascurano però il fatto che il modello tedesco ha smarrito la sua virtuosa funzionalità nel momento in cui è comparsa sulla scena una sinistra-sinistra (die Linke) capace di raccogliere quote di elettorato vicine al 10% e di ridimensionare drasticamente gli spazi della Spd. Da quel momento (essendo assai remota l’ipotesi di un fronte delle sinistre vincente) l’alternanza in Germania è diventata una chimera e gli scenari più probabili oscillano fra un proseguimento a tempo indeterminato della Grosse Koalition e un nuovo stabile equilibrio di centrodestra stile anni Cinquanta, fondato sull’alleanza fra Cdu-Csu e liberali. Tornando agli scenari di casa nostra, credo che una contemporanea scomposizione dei due poli (al momento, lo ripeto, improbabile) avrebbe come conseguenza ultima il ritorno ad assetti da Prima Repubblica, con alleanze mobili, ma entro un range limitato, e con coalizioni comunque gravitanti verso il centro, o più probabilmente, verso il centrodestra (era la preclusione a destra, ormai caduta, che dava alle coalizioni a guida Dc un segno centrista). In altri termini, si avrebbe un nuovo e duraturo blocco dell’alternanza, quella vera, quella decisa dagli elettori. È uno scenario che non mi sento di auspicare, per quanto gravi siano i difetti e i misfatti del nostro bipolarismo.


COME REALIZZARE L’AMBIZIONE DI CASINI: UNA PROPOSTA DAL PRESIDENTE DI SOCIETÀ APERTA

Un nuovo partito Uno scorcio di piazza del Campo a Siena

HOLDING ✵

Enrico Cisnetto

A

SSUNTO : LA CRISI ECONOMICA METTERÀ FINE ALLA

S ECONDA R EPUBBLICA . Strumento: la creazione di un «nuovo partito nuovo». Approdo: la nascita della Terza Repubblica e la conseguente salvezza del paese attraverso la rifondazione del suo sistema politico e dei suoi assetti istituzionali. È questo, schematicamente, il canovaccio politico che a mio giudizio abbiamo davanti per i prossimi, decisivi mesi. Proviamo a esplorare punto per punto. Partiamo dal quadro politico. Io credo che in Italia - unico paese occidentale con il Giappone a entrare in recessione già nel 2008 - la crisi economica esploderà in tutta la sua virulenza nei prossimi mesi, tanto che a fine anno dovremo prendere atto di una regressione del pil tra il 3% e il 4%. Sarà dunque la crisi più grave dal dopoguerra a oggi, visto che si sommeranno il declino strutturale accumulato negli ultimi tre lustri e la peggiore congiuntura che si ricordi. Essa si concentrerà nelle quattro aree (Piemonte, Lombardia, Triveneto ed Emilia) maggiormente sviluppate e produttive del paese. Così, quello che fino a ieri era una «questione settentrionale» dovuta alla mancata crescita per effetto di vincoli, burocrazie e povertà infrastrutturale, ora sta diventando una «questione settentrionale» derivante dalla maggiore concentrazione 60-61

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[Un nuovo partitoholding] degli effetti recessivi. Con tutto quello che ciò significa in termini sociali e politici. In particolare, si scateneranno almeno due tipi di sentimenti. Da un lato, una crescente intolleranza verso chi «mi porta via il posto di lavoro» stile lavoratori inglesi verso quelli italiani, per capirci - e in una rabbia verso chi si ritiene abbia di più di quel che merita, sia esso il Sud considerato troppo assistito, siano essi i dipendenti Giorgio De Chirico, “L’ora del silenzio”, 1943 pubblici, non a caso concentrati maggiormente da Roma in giù, il cui posto di lavoro non c’è recessione che possa mettere in discussione. Dall’altro, pulsioni di tipo «rivendicativo»: difesa dell’esistente, anche se improduttivo o comunque fuori mercato, e risentimento se tutto ciò non sarà possibile. Se questo scenario ha fondamento, non è difficile credere che esso genererà conseguenze politiche oggi inimmaginabili. Per esempio, c’è da scommettere che la Lega diventerà sempre più «partito di lotta» e sempre meno «di governo», proprio per intercettare quei disagi e trasformarle in voti, già alle prossime europee e amministrative di giugno. Così come non è difficile immaginare che al Sud sarà la linea populista di Di Pietro a fare il pieno, a danno sia del Pd che del duo Fi-An. E allora sarà dura per Berlusconi rispondere con la politica del sorriso e dell’ottimismo di maniera, così come per Tremonti tener ferma la barra del «non si spende perché se aumentiamo il debito rischiamo il default». Insomma, la crisi economica s’incaricherà di dimostrare che anche Berlusconi e non solo la sinistra sono nudi davanti a essa, così come lo sono stati di fronte al declino. Penso dunque che, nonostante in Parlamento e nel paese non ci sia una maggioranza alternativa, il governo dimostrandosi incapace di reggere alla forza d’urto della recessione rischi di entrare in crisi. Si può cadere da soli, per implosione, mica solo perché qualcun altro ti fa lo sgambetto e ti prende il posto. Qualcuno dice: ma non essendoci alternativa, Berlusconi tirerà a campare, dirà che la crisi è mondiale e che anche gli altri paesi fanno fatica a uscirne. Vero, questo sarà il comportamento del premier, il quale non esiterà ad 62-63

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[EnricoCisnetto] aprire un «fronte costituzionale» sostenendo che la difficoltà di rispondere in modo forte e tempestivo alle complicazioni economiche non discende dalle incapacità del governo ma da un sistema politico di tipo parlamentare non funzionale (ha già aperto la questione rivendicando il reiterato uso dei decreti e del voto di fiducia). Ma credo che di fronte alla virulenza della recessione, che unirà imprenditori e lavoratori coinvolti, tutto questo non sarà sufficiente a passare indenni la «nottata». D’altra parte, si provi a ragionare su questo: se quando c’era il declino, inesorabile ma lento e poco visibile, i governi (tanto il centrosinistra quanto il centrodestra) sono riusciti a «tirare a campare», ora che la recessione imprime alla crisi strutturale una velocità molto più elevata e rende percepibile ciò che fino a ieri veniva negato, come si può pensare che la conseguenza sia ancora una volta il «galleggiamento»? No, penso che non sia possibile. Credo, invece, che la crisi politica esploderà - prima, a cavallo o dopo le europee, questo lo vedremo, molto dipenderà dai tempi della recessione - e che sarà di sistema. In quel momento verranno di colpo al pettine tutti i nodi irrisolti della «crisi italiana», che possono essere riassunti in quella che è giusto chiamare la «questione democratica», di cui le forzature costituzionali - quelle già perpetuate e quelle che si profilano - il leaderismo senza partiti e il giustizialismo sono gli aspetti più gravi di un sistema-paese che è ormai scivolato in quella che non esito a definire la «deriva putiniana», cioè una democrazia che conserva i suoi tratti formali ma perde quelli sostanziali. Non si tratta, si badi bene, del «regime berlusconiano» di cui la sinistra straparla da anni, regalando al Cavaliere un lucroso ruolo di vittima. No, si tratta di una malattia grave e progressiva della democrazia, che investe l’intera classe dirigente e la mentalità collettiva del paese, i cui sintomi più evidenti sono il superamento di fatto dei dettami costituzionali - la Costituzione, si badi bene, si può e si deve cambiare, ma occorre farlo nei luoghi deputati e con le procedure previste, non a strappi «di fatto» - e la Serve un grande “progetto Italia” creazione di una sorta di «decisioniche guardi all’esperienza storica smo senza decisioni», tutto di natura dell’asse De Gasperi-La Malfa mediatica. Malattia che è stata il e che consenta a laici e cattolici tratto distintivo della Seconda di incontrasi intorno Repubblica nell’intero arco della a un piano rifondativo del paese sua (troppo lunga) durata. Ma se è vero che tutte queste contraddizioni


[Un nuovo partitoholding] La diga berlusconiana non potrà resistere più di tanto agli effetti della crisi che si faranno sentire nei prossimi mesi. L’uscita del Cavaliere dal “mercato del consenso” creerà le condizioni per passare davvero alla Terza Repubblica sono destinate a esplodere, l’orologio della politica tornerà al 1993, prima della «discesa in campo» di Berlusconi, riaprendo quella voragine di rappresentanza dei ceti medi e della borghesia, insomma della maggioranza moderata degli italiani, che allora rimasero orfani della Dc e dei partiti laici del centrosinistra (quello vero). In più, ci sarà - anzi, già c’è ora - una voragine altrettanto grande a sinistra, visto che l’allora pur perdente «gioiosa macchina da guerra» di Occhetto valeva mille volte di più della «armata sgangherata» della sinistra di oggi. Dunque, due grandi serbatoi di voti, due mondi peraltro in via di mescolamento, che dovranno trovare un’offerta politica adeguata a rappresentarli. Scettici? Non facciamoci ingannare dal risultato delle recenti elezioni in Sardegna: oltre a essere un passaggio decisivo del processo di autodistruzione del Pd, soprattutto esse rappresentano la certificazione del fatto che finora gli italiani «vedono» ma ancora non «sentono» la recessione, nel senso che la percepiscono come pericolo - tant’è che si aggrappano a Berlusconi nella speranza che li difenda - ma non ne hanno ancora patito sulla loro pelle tutte le conseguenze, cosa che quando avverrà li indurrà a prendersela con chi «comanda». Per questo sono dell’idea che i tempi dello show down siano decisamente brevi e che pur sulle barricate di una recessione gravissima verrà finalmente il momento per il Paese di mettere mano alla propria fallimentare situazione. Infatti, non credo che la diga berlusconiana saprà resistere più di tanto, e l’uscita del Cavaliere da quel «mercato del consenso» di cui in questi anni è stato insuperato (e purtroppo inutilmente imitato) protagonista, creerà le condizioni per passare davvero alla Terza Repubblica. E qui veniamo alla seconda questione: la creazione di un nuovo soggetto politico. È del tutto evidente che se lo scenario appena descritto si rivelasse fondato, esso aprirebbe spazi politici enormi per chi nel frattempo avesse guadagnato una posizione terza rispetto ai due poli del fallimentare bipolarismo all’italiana. Certo, occorre mettere in campo una proposta forte e radicale, intorno alla quale costruire il lavoro politico di tutti coloro che si sentono impegnati alla «rifondazione» della politica italiana. Non ci si può permettere di esibire surrogati che si dimostrano allo stesso tempo troppo vuoti (di contenuti) e troppo pieni (di cesarismo, di personalizzazione della politica, di forzature istituzionali, e per di più regressive), bensì forze che pur nuove (come non esserlo, se molto 64-65

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[EnricoCisnetto] Gli azionisti del nuovo soggetto politico, oltre all’Udc e alle diverse realtà del cattolicesimo liberale, potranno essere i socialisti, i repubblicani, i liberali di tutte le diaspore, forze laiche e cattoliche provenienti dall’ex Margherita, ex Ds, Forza Italia... deve cambiare) hanno nel loro dna la forma-partito e le regole di governance tipiche della democrazia. Ma rispetto agli anni scorsi, quando il bipolarismo all’italiana ha comunque chiuso tutti gli spazi, persino gli interstizi, fra poco sarà davanti a noi un’intera prateria, e questo renderà meno difficile il compito di dar vita a un nuovo partito che dovrà essere un «partito nuovo». E qui viene la proposta - che torno ad avanzare dopo averla già lanciata nel recente passato, devo dire inutilmente - del «partito holding». Lo faccio non solo a titolo personale, ma soprattutto a nome di Società Aperta, il movimento che ho fondato e presiedo, e che danni si batte per una Terza Repubblica che nasca da un’Assemblea Costituente e che per sconfiggere il declino dia vita a una stagione politica di «grande coalizione». L’idea è semplice: creare una nuova formazione in cui tutte le forze esistenti - partiti, associazioni, fondazioni, movimenti - interessate a quello che Pier Ferdinando Casini ha chiamato il «partito della nazione», possano federarsi senza per questo perdere la loro identità e rinunciare alla loro autonomia. Questo consentirebbe a laici e cattolici, e alle loro diverse anime, di incontrarsi intorno a un progetto rifondativo del paese, della sua democrazia, delle sue regole basilari, ma nello stesso di mantenere intatta la loro capacità di iniziativa e battaglia politica sui temi più propri alle rispettive radici politico-culturali. Per capirci, sulle tematiche etiche liberi tutti, mentre sul programma di governo - un grande «progetto Italia» che guardi all’esperienza storica dell’asse De Gasperi-La Malfa - piena convergenza e assoluta lealtà. Al primo lavoro ci penseranno i soggetti esistenti (o quelli che vorranno costituirsi intorno a delle specificità), al secondo dovrà badare il partito holding, che poi sarà quello che dovrà presentarsi alle elezioni e riscuotere il consenso di quei tanti, verosimilmente la maggioranza degli italiani, che saranno politicamente orfani. E a chi obbietta che le questioni etiche sono fondamentali, rispondo che pur essendo temi molto sentiti, quando si tratta di votare alle Politiche i cittadini scelgono con altri criteri - come dimostra la storica marginalità parlamentare dei Radicali o il fallimento di operazioni clericali, come la lista Ferrara - riferibili ai temi economici o alla politica estera. Da laico dico che tra il caso Englaro e il declino strutturale del paese, non ho dubbi su cosa sia più importante per il futuro dell’Italia. Ma



[EnricoCisnetto] attenzione: il nuovo partito deve anche essere un vero «partito nuovo». Non possiamo permetterci «ricicli» e pasticci. Certo, mi rendo conto che un punto di partenza ci vuole, e che l’Udc - considerato che ha superato lo tsunami delle «elezioni della semplificazione» del 2008, e che si è efficacemente collocato al centro del sistema politico - consente a Casini di mettersi a buon titolo alla testa di un complesso disegno di ristrutturazione dell’intera geografia politica italiana. Ma un conto è coltivare questa ambizione, altro è riuscire a realizzarla. E per farcela, l’Unione di Centro non basta. A parte il facile gioco delle sigle - sempre di Udc si tratta - francamente si fa fatica a comprendere la differenza tra la «vecchia» Unione democraticocristiana e la «nuova» Unione di Centro. C’è bisogno di molto di più e di molto meglio. Ma siccome, nello stesso tempo, non è utile il suo scioglimento a favore di qualcosa d’altro, né è pensabile che essa possa essere in grado di lanciare «opa» su altre forze, né infine in questa fase ci sono il tempo e le condizioni per una «grande fusione» di forze diverse, ecco allora l’idea del «partito holding». Chi penso potranno essere gli azionisti di questa nuovo soggetto politico? L’Udc, ovviamente, e le diverse realtà del cattolicesimo liberale. E poi i socialisti, i repubblicani e i liberali di tutte le diaspore. Ma anche le forze laiche e cattoliche dell’ex (?) Margherita, e le componenti maggiormente riformiste degli ex (?) Ds. Così come i settori non di matrice aziendalista di Forza Italia (Pisanu, per fare un nome). Senza contare quelle realtà della società civile, a cominciare da Società Aperta, che in questi anni hanno tenuto accesa la fiammella della speranza che non tutto il Paese si omologasse all’italico bipolarismo straccione. Lo so, si tratta di un progetto difficile, complicato, fuori dagli schemi. Ma non ha alternative. Disegnarlo e avviarlo aiuta ad accelerare i tempi di chiusura della Seconda Repubblica. Realizzarlo è condizione indispensabile per aprire - finalmente - la Terza Repubblica.

Piazza del Popolo a Roma vista dal Pincio


MEMORIE LA

La Cinquecento Fiat in un logo d’epoca. Nella pagina a fianco: Alcide De Gasperi in partenza per Parigi nel 1946

STAGIONE DEL CENTRISMO E LE RESPONSABILITÀ DELLA SINISTRA

IL BLOCCO E IL BOOM ✵

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Mauro Canali

A STAGIONE DEL CENTRISMO, COME L’HA DEFINITA Francesco Malgeri in un bel saggio di

qualche anno fa, è il decennio che dura dalle elezioni del 18 aprile 1948, con l’inaspettata sconfitta di comunisti e socialisti uniti, alla fine degli anni Cinquanta, con l’ingresso del Psi nell’area di governo, - «la stanza dei bottoni», come si disse allora, - preludio ai primi governi di centro-sinistra. Sul piano politico furono anni di grande instabilità, mentre sul terreno economico e dello sviluppo civile si trattò di un decennio di progressiva e, alla fine, robusta crescita che per definirne i ritmi politologi ed economisti sarebbero ricorsi al termine di «miracolo economico». Malgrado la drammatica cesura, imposta dalla guerra fredda, tra le forze politiche uscite alleate dall’esperienza resistenziale, con la cacciata dei comunisti dall’area governativa, e il conseguente inasprimento del clima politico e sociale, i partiti politici al governo, la Dc e i partiti laici minori (repubblicani, socialdemocratici e liberali) riuscirono ad avviare e attuare una politica di riforme che senza dubbio rese il paese più moderno e maggiormente legato a una dinamica di sviluppo di tipo europeo. Paul Ginsborg afferma che la politica «centrista» fece dell’Italia il paese dell’Europa meridionale «più integrato nelle strutture economiche, politiche e militari dell’Occidente», e, che «i frutti di queste scelte sarebbero divenuti sorprendentemente evidenti a partire dal 1958», dove è chiaro il riferimento agli anni del «miracolo economico». Complessivamente tutta la sinistra, se ottenne indubbi successi nella mobilitazione delle masse su temi strettamente politici, come la brutalità della polizia, la legge truffa, gli impegni internazionali del governo, le battaglie contro l’ingresso dell’Italia nella Nato e contro l’istituzione della Ced, ecc…., uscì sconfitta dal confronto sui grandi temi della ricostruzione e dello sviluppo, a cui non seppe fornire risposte e progetti adeguati al contesto che in quel momento si offriva alle forze politiche. Il massimalismo ideologico, ina68-69

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Il massimalismo ideologico peggiorato dal clima della guerra fredda impedì a Pci e Psi di capire i profondi mutamenti che la politica delle classi dirigenti moderate stava imprimendo all’economia italiana sprito dalle esigenze propagandistiche imposte dal clima della guerra fredda, impedì al Pci e al Psi di prestare la necessaria attenzione ai profondi mutamenti e ai nuovi indirizzi che la politica delle classi dirigenti moderate stavano imprimendo ai vari settori dell’economia italiana. Non compresero, ad esempio, il valore che per lo sviluppo del Mezzogiorno poteva avere la riforma agraria del 1950, che pure era stata oggetto negli anni 1944-45 dei decreti del ministro comunista Gullo, il quale aveva cercato di mettere ordine al movimento spontaneo di occupazione delle terre in atto nel Centro-sud del paese. Nel 1949-50, mentre il Pci e il Psi continuavano a battere il tasto della riforma basato sull’esproprio tout court delle terre incolte e sull’applicazione dell’imponibile di manodopera, il varo della riforma Segni, pur con tutti i suoi limiti, intaccava il potere dei latifondisti, creando, come ha scritto Castronovo, non solo «nuovi centri di aggregazione elettorale», ma anche nuovi centri «d’interesse fra i ceti contadini». Nascevano nuovi centri di potere sulle ceneri della vecchia classe egemone degli agrari e dei «galantuomini», radicandosi negli enti di riforma , nella Federconsorzi e nelle amministrazioni periferiche a cui veniva affidata la gestione del denaro che la riforma aveva cominciato a far affluire al Sud. Tutto ciò sfuggiva alla sinistra, ipnotizzata dalla necessità della condanna classista e massimalista di tutto ciò che veniva prodotto in campo riformatore dalle forze moderate, e ferma alla ricerca dell’obiettivo massimo della fine del grande latifondo parassitario attraverso una vasta espropriazione con la mobilitazione diretta dei contadini e dei braccianti. Se le novità della riforma Segni sfuggirono al Pci, non sfuggirono naturalmente ai diretti interessati, i latifondisti, che, per reazione ai loro interessi lesi, non esi-

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[MauroCanali] tarono a spezzare il patto con le forze politiche moderate, e a far pagare alla Dc il prezzo della riforma Segni nelle elezioni del 1953 dove spostarono in modo massiccio i loro voti più a destra, su monarchici e neofascisti. Ma al Pci sfuggirono anche le profonde ripercussioni che la riforma aveva provocato in seno a fasce consistenti dei ceti contadini, che, invece di attendere la utopica liquidazione del latifondo, più realisticamente presero a rivolgersi ai nuovi enti finanziari disponibili per l’acquisto anche di un fazzoletto di terra da coltivare. Altrettanto inascoltate ripercussioni la riforma ebbe nei ceti medi meridionali, in seno ai quali stava ormai avvenendo una rivoluzione silenziosa, in

Sia la riforma agraria che la Cassa per il Mezzogiorno poterono attingere al fondo Erp del Piano Marshall e questo fu un motivo in più per l’ostilità della sinistra che vi leggeva solo volontà di asservimento agli Usa forza della quale la piccola e media borghesia tradizionale delle arti e delle professioni veniva progressivamente scalzata nella sua posizione centrale tradizionalmente occupata da nuovi ceti tecnici e impiegatizi nati dalla costruzione del complesso e ramificato apparato amministrativo-burocratico necessario all’attuazione della riforma. Alla fine del processo le forze centriste avevano allargato la base del loro consenso sociale inglobando la nuova piccola e media borghesia, e dall’altra avevano finito per svuotare di attendibilità le istanze «rivoluzionarie» della sinistra legata al movimento delle occupazioni e allo slogan massimalista della «terra a chi la lavora». Pur con tutti i suoi limiti la riforma agraria riuscì alla fine a distribuire in tutto 700 mila ettari di terreni, che se si aggiungono ai 700 mila acquistati dai contadini tra il 1948 e il 1956 grazie ai mutui agevolati concessi da un fondo speciale stanziato dal governo nel 1948, si giungeva alla ragguardevole cifra di un milione e mezzo di ettari. I comunisti s’accorsero tardi dell’enorme impatto che la riforma stava provocando sulla redistribuzione dei rapporti di forza tra i ceti sociali meridionali, e se prima s’erano battuti contro l’attuazione della riforma, in seguito presero ad agitare strumentalmente contadini e braccianti per la rigorosa attuazione di essa. Come osserva giustamente Ginsborg: «I comunisti avevano guidato le agitazioni contadine, ma era la Democrazia cristiana che portava a termine la riforma», che fu, conclude lo storico inglese, «senza dubbio il primo serio tentativo nella storia dello Stato Unitario di modificare i rapporti di proprietà in favore dei contadini poveri». La riforma agraria del 1950 venne qualche anno dopo commentata, in una intervista alla Bbc, da Manlio Rossi Doria, uno studioso al di sopra di ogni sospetto, il quale, pur sottolineandone i gravi limiti, riconosceva come


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con essa i governi «centristi» avessero trovato il coraggio «di attaccare la grande proprietà fondiaria assenteistica, attorno alla quale si erano sempre barricati il conservatorismo e l’immobilismo meridionali». Ma la riforma agraria non fu l’unica occasione in cui l’ideologia massimalista dominante nella sinistra contribuì a non far adeguatamente fruttare l’enorme patrimonio morale accumulato dalle classi lavoratrici con la Resistenza e con le lotte sociali dell’immediato dopoguerra, un patrimonio che avrebbe potuto attingere a ben altri risultati per la generosità delle lotte condotte dai suoi militanti e dirigenti locali, tra i quali le vittime della reazione latifondista e mafiosa furono molte. La guerra fredda e l’appiattimento del Pci sulle posizioni del blocco filosovietico impedirono che alcuni fondamentali interessi delle masse avessero voce e rappresentanza politica negli importanti processi riformatori avviati dalle classi dirigenti moderate. Stessa sorte Pci e Psi riservarono alla istituzione, nel 1950, della Cassa per il Mezzogiorno, che sempre Rossi Doria definì «il contributo più importante al superamento dell’isolamento del Meridione, dai tempi delle costruzioni ferroviarie dei primi decenni successivi all’Unità d’Italia». I principali settori da finanziare erano stati individuati nella irrigazione, bonifica, costruzione di strade, acquedotti, canali, insomma i secolari problemi in cui si dibattevano le popolazioni meridionali. Piuttosto che puntare direttamente sulla industrializzazione del Sud, i governi «centristi» preferirono privilegiare la costruzione delle infrastrutture. Lo stesso Paul Ginsborg, che pure si mostra assai critico verso il riformismo moderato, e attribuisce alla Cassa le principali responsabilità della mancata industrializzazione del Meridione, invita tuttavia a non «sottovalutare l’estensione delle opere di infrastruttura costituite dalla Cassa». In un bel saggio, molto serio e intellettualmente onesto, La democrazia in Italia, Angelo Ventrone si spinge più in là dello storico inglese quando afferma che la Cassa per il Mezzogiorno contribuì molto a ridurre la disoccupazione e a distribuire in maniera più equa il reddito, consentendo l’ampliamento delle vie di comunicazione e della rete di distribuzione dell’energia elettrica, la costruzione di acquedotti e fognature, la bonifica di centinaia di migliaia di ettari, l’efParticolare ostilità fu riservata fettiva crescita del potere d’acquial Piano-casa Fanfani, forse perché catturava sto delle popolazioni interessate e il consenso delle classi lavoratrici attraverso dei loro livelli di consumi. Sia la il soddisfacimento di un bene primario riforma agraria che la Cassa per il 72-73

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Nella pagina a fianco: Amintore Fanfani con la moglie. A pagina 70, Antonio Segni con John Kennedy.

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Mezzogiorno poterono attingere generosamente al fondo Erp del Piano Marshall, e questo fu un motivo in più per l’ostilità della sinistra, che, del tutto in sintonia con l’azione propagandistica di Mosca, aveva condannato il Piano Marshall, e facendo mostra di ignorare gli accordi di Yalta e la progressiva occupazione da parte del regime staliniano dei paesi dell’Europa orientale, sostennero, non senza una certa dose di ipocrisia, che il vero obiettivo di esso era l’asservimento del paese agli Usa. Naturalmente, in sostituzione del Piano Marshall e dei capitali che sarebbero affluiti, non erano in grado di indicare alcuna soluzione alternativa se non una posizione, assolutamente impraticabile in quella temperie internazionale, di equidistanza in politica estera, che avrebbe significato di fatto una saldatura al Patto di Varsavia. Questo arrière-pensée relativo alle alleanze internazionali venne camuffato con denunce dei guasti che stavano producendo gli organismi finanziari nati grazie agli aiuti del Piano Marshall. Si sottolineò l’elefantiaco apparato burocratico a cui la Cassa aveva dato vita, le sperequazioni di cui fu centro indiscusso, l’occupazione di esso da parte delle forze di governo che ne fecero naturalmente un serbatoio elettorale, ma non ne vollero vedere gli aspetti innovativi, che pure vi erano, in primis il fatto inedito per la storia del nostro Mezzogiorno rappresentato dalla concentrazione di un enorme flusso di denaro indirizzato alla soluzione di problemi che investivano popolazioni dimenticate sin dai tempi dell’unità del paese; si negarono in seguito i dati positivi che alla fine del primo decennio di vita la Cassa poteva vantare al suo attivo, come l’aumento del tenore di vita della popolazione meridionale, l’aumento del consumo di carne, energia elettrica, mezzi di trasporto individuali, macchine agricole, concimi chimici, vani costruiti. Senza trascurare il fatto che essa fece inoltre da volano alle industrie settentrionali, le quali, grazie alla forte richiesta di macchinari agricoli, e di beni legati alla costruzione delle infrastrutture che venivano dal Sud, avviarono un forte processo di ampliamento e di modernizzazione con l’introduzione di nuove macchine e tecnologie, e una maggiore specializzazione. Il Piano Tupini per le opere pubbliche dei Comuni e il Piano Fanfani per le case ai lavoratori ebbero la stessa accoglienza da parte del radicalismo ideologico della sinistra, cioè ostile in modo assoluto. Particolare ostilità venne riservata al Pianocasa Fanfani varato nel 1949, forse perché cercava in modo evidente di catturare il consenso delle classi lavoratrici attraverso il soddisfacimento di un bene per loro primario, cioè la casa. Eppure a vararlo era un seguace di Giuseppe Dossetti, leader della sinistra cristiana in seno alla Dc, fautore di una politica sociale particolarmente attenta alle esigenze delle masse, e assai vicino in molte battaglie politiche


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alle posizioni della sinistra. Le critiche furono molteplici e talvolta assai pesanti e a riassumerle ci penserà lo storico dell’urbanistica Pier Luigi Cervellati, in un saggio apparso nel 1976: espansione edilizia selvaggia, assenza di piani regolatori, valorizzazione eccessiva della rendita fondiaria, deficit eccessivi dei comuni per la costruzione delle necessarie infrastrutture. Tuttavia alla fine lo studioso non potrà negare che si trattò comunque «nei trent’anni considerati il momento più alto di produzione edilizia pubblica», che collocava l’Italia in questo settore assai vicina a paesi europei più progrediti come la Francia, la Germania e l’Inghilterra. Un altro risultato non irrilevante il riformismo moderato lo ebbe sul piano fiscale, con l’attuazione della riforma Vanoni, un insieme di leggi varate tra il 1951 e il 1956, che introdusse un moderno sistema di tassazione, con l’esenzione per le fasce sociali più deboli, la riduzione delle aliquote fiscali, e con una lotta più decisa all’evasione fiscale rendendo obbligatoria la dichiarazione annuale dei redditi. Anche qui, la sinistra ne sottolineò i limiti, ma tacque sui vantaggi che la legge introduceva e che non erano pochi: dagli accertamenti più facili alla possibilità per lo Stato di fare previsioni più precise sulle proprie entrate con una ricaduta importante nel settore del finanziamento degli interventi pubblici. Nel corso del decennio centrista la sinistra agitò lo spauracchio che in definitiva il paese si trovasse in una fase di decadenza e che dovesse essere salvato dal comportamento irresponsabile delle classi dirigenti moderate, equiparate con insistenza martellante alla classe dirigente fascista, e asservite al capitalismo monopolistico. Tuttavia, nel 1984, Michele Salvati riassumeva i risultati ottenuti dai governi centristi negli anni Cinquanta definendoli «un capolavoro economico e politico». Alla luce di tutto ciò non ce la sentiamo di liquidare come di parte e fazioso il commento di Angelo Costa, allora presidente della Confindustria che osservava che «anche quando vengono presentati piani economici che hanno l’apparenza di essere

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L’Italia ha sofferto l’assenza di una forza autenticamente riformista. Un compito che si assunse la classe politica moderata, raccogliendo molte suggestioni d’ispirazione socialista

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costruttivi, la finalità politica è così evidente che purtroppo non consente una vera collaborazione neanche sui punti sui quali non esisterebbe contrasto di interessi neanche apparenti». Insomma la «doppiezza» togliattiana finiva per far pagare a tutta la sinistra un prezzo politico altissimo sul terreno della affidabilità democratica e sulla capacità di assunzione di responsabilità di governo nel rispetto delle regole democratiche. La stessa Cgil, a sua volta, fece poco per smentire il suo ruolo di «cinghia di trasmissione» del Pci, che rendeva impossibile il ripristino di quell’unità del proletariato infranta nel 1948 e che a parole e con frequenza rituale si cercava sempre di ricomporre. Ma v’era un elemento ideologico molto importante che, tra i tanti altri, impediva il dialogo tra le diverse confederazioni sindacali, ed era un tema legato alla guerra fredda, cioè la forte subalternità della Cgil al modello di costruzione del socialismo in atto in Urss. Ha scritto Ginsborg che «nelle riunioni politiche o durante le occupazioni si proiettavano documentari sull’Urss e si diffondevano così le immagini famigliari del realismo socialista: operai eroici e muscolosi che maneggiavano pesanti macchine, donne che guidavano trattori, quote di produzione raggiunte e superate». Osserva sempre Ginsborg che il romanzo del 1935 di Ostrovski, Come si temprò l’acciaio, ebbe una larghissima diffusione tra gli attivisti sindacali. Questa subordinazione rendeva le proposte avanzate dalla Cgil e da Di Vittorio, anche quelle che si muovevano in una prospettiva laburista e neo-keynesiana, come il già citato Piano di Lavoro, inaffidabili e sospette agli occhi dei partiti di governo e della Confindustria. Ciò di cui soffrì il paese fu quindi l’assenza di una forza politica autenticamente riformista, o per meglio dire la presenza di una forza politica massimalista, il Pci, egemone nella sinistra, allineata a posizioni filosovietiche nell’aspra temperie della guerra fredda in atto. Da ciò derivò l’assoluta inattendibilità presso consistenti fasce di ceti medi e di classe operaia delle sue proposte riformistiche. Il netto schierarsi con Mosca determinò la ghettizzazione del sindacato e del partito che di più rappresentavano le masse operaie, e ciò favori la sterilità delle loro proposte anche le più interessanti. Tale situazione finì per consegnare i compiti riformatori a una classe politica moderata, quella dei partiti centristi al governo, che non poteva certo sostituirsi al riformismo d’ispirazione socialista, ma che tuttavia cercò di raccogliere e reinterpretare come poteva, in chiave modernizzatrice, molti delle suggestioni provenienti dallo sforzo progettuale social-comunista.


[il documento] “È TEMPO DI RIMETTERSI IN CAMMINO. CON IL CORAGGIO DEI LIBERI E DEI FORTI”

UNIONE DI CENTRO

MANIFESTO PER UNA NUOVA ITALIA tutti gli uomini liberi e forti, che in questa grave ora sentono alto il dovere di cooperare ai fini supremi della Patria, senza pregiudizi né preconcetti, facciamo appello perché, uniti insieme, propugnino nella loro interezza gli ideali di giustizia e di libertà” Luigi Sturzo

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L’Italia ha bisogno di una profonda rigenerazione politica e morale. È giunto di nuovo il tempo di fare appello alle migliori energie dell’Italia, allo slancio delle donne e degli uomini liberi, alla responsabilità delle donne e degli uomini forti, per determinare una grande svolta nel futuro della nazione. Novanta anni dopo l’atto di coraggio di Luigi Sturzo, un nuovo coraggioso impegno è richiesto 76-77

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il documento ] ] Hillmann [Ferdinando

a chi crede nel valori della giustizia e della libertà.

Perciò nasce l’Unione di Centro. Per proporre una nuova casa politica a tutti i popolari, i liberali, i moderati e i riformisti italiani che avvertono con preoccupazione il vuoto etico e politico sul quale si basa l’attuale sistema dei partiti. La cosiddetta Seconda Repubblica è fallita. Non ha saputo ricostruire il corpo e l’anima della nostra democrazia. Non ha creato le basi di un nuovo patto istituzionale tra gli italiani.

Quando, negli anni Novanta, crollò il vecchio sistema, quattro erano le grandi questioni che giustificavano la transizione verso un nuovo tempo della Repubblica: 1) La questione istituzionale, già posta alla fine degli anni Settanta, affrontata lungo il corso degli Ottanta e infine riproposta dall’illusione referendaria. 2) La questione giudiziaria, parte essenziale della questione istituzionale, esplosa drammaticamente in un inedito, radicale e pericoloso conflitto con la politica di settori della magistratura, dei media e dell’opinione pubblica. 3) La questione dell’unità nazionale e del sistema delle autonomie, nell’incombente rischio di una nuova frattura storico-sociale tra Nord e Sud. 4) La questione della modernizzazione economica, sentita come ineludibile, in tutti i campi della vita pubblica, per ricollocare l’Italia in sintonia con le esperienze più avanzate dell’Occidente.

Ebbene, tutte queste questioni sono ancora davanti a noi, irrisolte; anzi, incancrenite dal tempo perduto. Abbiamo ormai alle spalle quasi un ventennio sprecato. Le pochissime realtà riformate (Regioni, Comuni, legge elettorale) lo sono state seguendo suggestioni del momento o logiche di convenienza, fuori da un omogeneo progetto nazionale. E così si continua ancora oggi, tentando di piegare leggi elettorali e nodi istituzionali agli interessi di parte. Bisognerebbe trovare le sedi e gli strumenti per soluzioni largamente condivise. Il panorama è stato invece dominato da una sorta di guerra civile ideologica.

Una nuova casa per chi

avverte

con preoccupazione il vuoto politico su cui si basa l’attuale

sistema

Il risultato è che la cosiddetta Seconda Repubblica ha finito per mettere in archivio i concetti di “interesse generale” e di “bene comune” che sono invece il fondamento di ogni democrazia. Ha offuscato la partecipazione popolare alla vita pubblica trasformando il consenso in audience, le strategie politiche in surrogato quotidiano 78-79

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[FerdinandoHillmann]

dei sondaggi, i partiti in clan elettorali dei leader e, infine, ciò che è più grave, il Parlamento in una sorta di “ente inutile”, pura cassa di risonanza dell’Esecutivo. Non è questa la modernità politica che gli italiani pretendevano. Fingendo di costruire una “democrazia degli elettori” si è, in realtà, dato vita ad una soffocante “democrazia delle oligarchie”. Questo è il vero volto dell’Italia nel primo decennio del XXI secolo.

Per questo nasce l’Unione di Centro. Per aprire un nuovo tempo della Repubblica. Per ricostruire i valori fondativi della democrazia italiana: l’interesse nazionale e il bene comune come esclusiva finalità dell’agire politico. La competenza, lo spirito di servizio, il senso dello Stato come modello di selezione della classe dirigente. Il ruolo dei “corpi intermedi” nella gestione della cosa pubblica. La partecipazione popolare come motore della vita associata. Il dovere di “guidare” eticamente e politicamente il Paese, al di là delle effimere rilevazioni statistiche del consenso. La democrazia nei partiti e nei sistemi elettorali come unica garanzia di libertà per tutti gli eletti e per tutti i cittadini. La centralità del parlamento come sede legittima della formazione dell’interesse pubblico. Fuori da questa “cornice di valori” nessuna democrazia può avere futuro. L’Unione di Centro, partita dall’incontro tra l’esperienza storica dell’Udc con nuove realtà di movimento come la Rosa per l’Italia, i circoli liberal e i Popolari democratici, forte dei due milioni di consensi che, nelle elezioni del 2008, le hanno permesso di resistere all’illusione del “voto utile”, nasce per proporre ai cittadini italiani di tutti gli schieramenti che vivono il disagio del finto bipartitismo, al mondo del volontariato e dell’associazionismo laico e cattolico, un grande progetto politico: l’orizzonte di un nuovo partito popolare e liberale di governo.

L’unità politica dei cattolici è formula che appartiene ad altra e superata stagione storica. Ciò però non vuol dire che tutti coloro che si riconoscono nell’ispirazione cristiana debbano necessariamente accettare la “diaspora” come condanna inappellabile della storia dei cattolici italiani, come se dovesse essere obbligatorio vivere in “partibus infidelium”, e non possano invece ritrovarsi in una stessa casa politica, se la cornice identitaria e programmatica corrisponde ai loro valori.

Ma non è certo questo il tempo di “rifare la Dc”. Il passato è il nostro tesoro di esperienza e di saggezza. Ma il presente e il futuro ci chiedono di aprire un diverso tempo politico. Il tempo di un nuovo soggetto nel quale i popolari, i liberali, i riformisti, i moderati di tutte le aree politiche riscoprano insieme la via


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maestra del Centro come luogo sempre essenziale per il governo.

C’è un popolo cristiano che guarda alla politica con diffidenza, ma che sa che solo attraverso la politica può ottenere risposta alle sue esigenze. C’è un popolo laico che non si riconosce più nelle posizioni laiciste e che sente giunta l’ora di intraprendere nuovi sentieri.

È giunto dunque il momento di aprire una nuova storia politica. Non un “terzo polo” di risulta tra due immutabili giganti bipolari, ma un’offerta politica, di governo, di partecipazione democratica del tutto nuova, che nasca dalla “rottura” del finto bipartitismo, pericolante esito del fallimento della cosiddetta Seconda Repubblica. Un centrosinistra che metta insieme tutto, dall’estrema sinistra al centro, così come un centrodestra costruito con analoga disomogeneità non sono stati e non saranno mai in grado di governare, nella stabilità, l’innovazione. L’Italia di oggi è malata di immobilismo, mentre tutt’intorno il mondo cambia e prepara, a cominciare dagli Stati Uniti, l’avvento di una nuova era. Noi siamo fermi. La grave crisi economica internazionale mette in discussione la tenuta del nostro patto sociale e denuncia come ormai intollerabili le arretratezze del nostro sistema istituzionale ed economico. Il deficit di valori che colpisce soprattutto le giovani generazioni sta facendo nascere un vero e proprio allarme sulla tenuta etica della nostra società.

Non c’è più tempo da perdere. Non c’è più tempo per pigrizie, per paure, per coltivare piccole rendite di posizione. È tempo di rimettersi in cammino. Con il coraggio dei liberi e dei forti. PARTITO DI VALORI FORTI

L’Europa del XX secolo ha incredibilmente cercato di uccidere se stessa, dando corpo ai mostri del nazismo e del comunismo, e permettendo l’affermarsi del più grande tentativo di annullamento delle culture basate sulla centralità della persona: il cristianesimo, il liberalismo, l’ebraismo. Se il XXI secolo vuole davvero chiudere con gli orrori del Novecento non basta dunque che si dichiari nemico di ogni dittatura. Occorre che torni a innalzare, come valori forti e positivi della sua identità, proprio quelle filosofie che i totalitarismi intendevano annichilire, in primo luogo il cristiane80-81

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simo e il liberalismo. Questi sono i valori forti dell’Occidente, questi sono i valori forti dell’Europa, questi sono i nostri valori forti.

Nella storia politica europea e italiana una tradizione sulle altre ha saputo elaborare la sintesi più convincente di cristianesimo e liberalismo: il popolarismo. Perciò noi intendiamo muoverci nel solco di questa grande strada, partecipi come già siamo della grande famiglia del Ppe, coscienti come vogliamo sempre essere che questo cammino è illuminato da due stelle polari: la Libertà e la Solidarietà. Stelle che possono guidare una nuova grande alleanza tra popolarismo e modernità, orientando i rapporti tra i singoli individui, tra impresa e Stato, tra le diverse categorie e le classi sociali, tra le nazioni nell’arena della globalizzazione mondiale.

Centralità della persona, tutela della dignità e dell’integrità della sua vita. Centralità del diritto naturale contro ogni abuso della Politica, dell’Ideologia, della Scienza. Centralità della famiglia come cellula fondamentale della conservazione della specie e dello sviluppo materiale e morale della società. Centralità della sussidiarietà come principio regolatore di un corretto rapporto tra Stato e Società. Centralità dell’equilibrio tra economia e natura come dovere umano per governare con saggezza l’ambiente ricevuto in dono. Centralità della libertà come unica garanzia per poter raggiungere sempre più alti livelli di pace nel mondo.

Proprio perché siamo un partito di ispirazione cristiana e liberale, ci battiamo con convinzione per difendere, in ogni circostanza, la laicità dello Stato e la reciproca autonomia tra Chiesa e potere politico. La netta separazione tra gli affari di Dio e quelli di Cesare appartiene all’essenza stessa della nostra civiltà e deriva, del resto, dall’ispirazione cristiana. Essa è la chiave di volta della convivenza umana per ogni democrazia liberale.

Il fatto che su questi temi continuino a prodursi infinite polemiche pubbliche deriva da una infelice confusione culturale. Una cosa infatti è il rapporto di separazione tra Chiesa e Stato, che non sembra davvero nel mondo occidentale contestato da nessuno. Altra cosa è il rapporto tra la democrazia e i suoi valori fondativi che il laicismo nega, proponendo una visione relativista della vita pubblica, nella quale ogni valore viene messo sullo stesso piano. Non è così. Il valore del primato della Persona rispetto allo Stato, alla Razza, alla Classe, alla Scienza, il valore dell’inviolabilità della sua vita, della sua dignità e della sua libertà, il valore del diritto naturale, sono valori universali, codici fondativi delle democrazie liberali. Se le nostre società smarrissero


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il carattere universale, e dunque non relativo, dei valori che le hanno fondate, se diventassero “società indifferenti”, perderebbero ben presto la loro anima e, nel tempo, decadrebbero come foglie morte. Il politico laico - e dunque non laicista - non può che orientarsi intorno a questo schema binario: rigorosamente autonomo deve essere il rapporto tra la Chiesa e lo Stato, tra la Politica e la Religione. Assolutamente condiviso deve essere, invece, quello tra la Democrazia e i suoi Valori di fondazione. PARTITO APERTO E DEMOCRATICO

Quale che sia il giudizio sui vecchi partiti, neanche i più disinvolti protagonisti dell’antipolitica hanno il coraggio di teorizzare (neppure quando la praticano) che sia possibile una democrazia senza partiti. Eppure è proprio questo il rischio di fronte al quale si trova oggi l’Italia.

In seguito alla lunga consunzione degli storici insediamenti politici (già prevista da Aldo Moro) e, poi, alla loro traumatica scomparsa, la politica italiana avrebbe dovuto procedere ad un serio lavoro di ricostruzione: dei fondamenti identitari, spiazzati dai mutamenti dell’assetto geopolitico mondiale; della forma partito per renderla adeguata ai nuovi sistemi di comunicazione e alle mutate caratteristiche della partecipazione; dei meccanismi di selezione della classe dirigente, accertato l’esaurimento delle tradizionali sedi di formazione. In una parola, c’era bisogno di un’evoluzione del pensiero politico per individuare la strada di nuovi partiti di massa del XXI secolo. Più leggeri ma non meno radicati, più veloci ma non meno democratici. Viceversa abbiamo assistito ad un generale decadimento del pensiero politico. Così, tra i vecchi partiti tramontati e i nuovi partiti necessari, sta vincendo la pragmatica e sbrigativa soluzione del non-partito. Le conseguenze sono sotto i nostri occhi: la decadenza della qualità della rappresentanza parlamentare; la selezione delle classi dirigenti affidata a meccanismi casuali, oligarchici e padronali; l’assenza di sedi reali del dibattito politico e culturale, l’aggravarsi della crisi tra rappresentanza e territorio.

La necessità di dotarsi di leader capaci di significative suggestioni simboliche, circostanza certamente normale per ogni democrazia moderna, ha finito, 82-83

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in questo quadro, per determinare l’avvento di un leaderismo senza partiti, fenomeno invece assai anomalo in tutto il mondo occidentale.

Il fallimento della cosiddetta Seconda Repubblica, evidenziato dalla crisi del bipolarismo poggiato su due coalizioni eterogenee e perciò stesso ingovernabili, è stata finalmente riconosciuta in occasione della campagna elettorale del 2008. Ma la soluzione trovata, quella del finto bipartitismo, ha peggiorato la situazione. Sono nati in realtà due nuovi cartelli elettorali: il Pdl generato da una fusione pubblicitaria tra Forza Italia e An, ed il Pd fondato su una fusione “a freddo” tra Margherita e Ds. Entrambi hanno impostato la loro strategia sul presupposto che una semplificazione brutale del quadro politico rappresentasse la panacea per rimediare agli errori dei quattordici anni precedenti. Ridurre il numero dei partiti era certamente una necessità, ma forzare il sistema verso un “artificiale bipartitismo” è stato ed è un disegno sciagurato. Perché è del tutto evidente che ciò impone sia al Pdl che al Pd un doppio salto mortale: da una parte un’autoritativa restrizione del pluralismo politico e culturale del Paese e, nel contempo, una significativa contrazione degli spazi della propria democrazia interna.

Il bi-leaderismo senza partiti ha una sola inevitabile conseguenza: la trasformazione della democrazia in oligarchia.

L’Unione di Centro nasce per scongiurare questo rischio superando il finto bipartitismo. E lancia una sfida politica e organizzativa. Vogliamo essere un partito moderno, leggero, rapido nelle decisioni, all’altezza delle nuove esigenze della comunicazione, ma allo stesso tempo non vogliamo rinunciare a quella che consideriamo l’essenza stessa della politica: il contributo ideale dei militanti e dei simpatizzanti, la formazione culturale delle classi dirigenti, la possibilità di ricambio dei leader attraverso la democrazia interna.

Il rischio che corre

Non vogliamo essere un partito di apparati e di tessere, ma un partito della società. Pensiamo sia giunta l’ora di immaginare un modello organizzativo che, accanto al ruolo sempre decisivo degli iscritti, sappia dare voce e diritto di rappresentanza anche ai movimenti d’opinione, alle associazioni sociali e civili, agli istituti culturali che si muovono nell’area popolare e moderata. Si tratta di costruire una forma-partito che consenta anche a questi

l’Italia di oggi è quello

vivere

di una democrazia senza partiti


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centri di partecipare alla vita quotidiana del partito, e alle sue campagne congressuali ed elettorali, garantendo una presenza permanente che caratterizzi l’Unione di Centro come un partito aperto e in costante riferimento dialettico con la società. Con particolare interesse guardiamo, ovviamente, a tutte quelle realtà di associazionismo e volontariato cattolico e laico, che operano con spirito di servizio nella società italiana e alle quali rivolgiamo un appello perché partecipino alla nostra sfida, con l’autonomia della loro elaborazione ma anche con la consapevolezza di una condivisione progettuale.

Sono proprio i giovani presenti in questi movimenti che possono dar vita a quella che è stata evocata come una “nuova generazione di politici cattolici”. Sono le loro idee e il loro entusiasmo, che hanno animato le grandi giornate della gioventù, a poter fermare l’inaridimento di valori del tempo che viviamo. È la loro freschezza che può sconfiggere il nichilismo morale e politico che l’Unione di Centro vede come il primo nemico di una società “a misura della persona”.

Vogliamo essere dunque un partito nuovo. Un partito nazionale e, insieme, un partito delle autonomie, fondate sulla sussidiarietà che esprime, proprio attraverso una selezione vera sul territorio, un gruppo dirigente in grado di catturare una forte attenzione nell’opinione pubblica. Un partito con un nucleo centrale snello e più impegnato nell’elaborazione politica che non nel controllo verticistico delle sue emanazioni locali. Un partito forte al centro e radicato in periferia. Un partito sempre attento alla dimensione sociale. Un partito flessibile, capace di appassionare i giovani per la sua generosità ideale e non di respingerli per la sue chiusure burocratiche. Un partito con un forte e riconosciuto leader, non un partito del leader. Un partito di servizio, non un partito padronale. PARTITO DELL’EQUILIBRIO ISTITUZIONALE E DELLA RESPONSABILITÀ NAZIONALE

Il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica è avvenuto per forza d’inerzia, in un processo confuso e superficiale. Le spinte referendarie non sono state accompagnate da alcun progetto condiviso di riforma. Il ripetuto fallimento delle diverse Commissioni Bicamerali ha certificato l’impotenza delle nostre classi dirigenti. L’ipotesi di eleggere un’Assemblea Costituente è stata sempre fret84-85

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tolosamente scartata. Il risultato è che i ripetuti “strappi” prodotti sulla legge elettorale e sulla seconda parte della Costituzione ci hanno consegnato un sistema contraddittorio, nel quale il rapporto tra i diversi poteri non poggia più su alcun razionale equilibrio. Viviamo in una sorta di “presidenzialismo di fatto” senza aver ridisegnato il sistema di bilanciamento dei poteri. Un’assurda anomalia politica e istituzionale: assai pericolosa per la tenuta della democrazia.

L’Unione di Centro nasce per fare dei temi dell’equilibrio istituzionale e della responsabilità nazionale le proprie bandiere. Fuori da ogni logica di parte occorre ripensare l’intera architettura dello Stato, per ricomporre un quadro coerente, funzionale e moderno della nostra convivenza pubblica.

La Prima Repubblica ha privilegiato la questione della rappresentanza. La Seconda il momento della decisione. È giunto il tempo di trovare un nuovo equilibrio capace di realizzare un efficace bilanciamento tra le due esigenze, entrambi irrinunciabili.

Nella Prima Repubblica avevamo un sistema rigido nelle regole del torneo (l’alternanza era consentita solo in riferimento agli schieramenti internazionali) e flessibile nello schema di gioco (la dialettica tra le correnti dc e gli alleati, e perfino il consociativismo, funzionavano come correzione permanente del potere). Quel sistema finì per produrre un’instabilità cronica, quasi un governo ogni anno, e si rivelò non più adatto a gestire la modernità. Oggi soffriamo l’errore opposto: un sistema flessibile nelle regole del torneo (c’è l’alternanza) ma espressione di un’estrema rigidità, quasi militare, nello schema di gioco. Una volta che uno schieramento ha vinto le elezioni non c’è più alcuna possibilità di correzione parlamentare del potere, di condivisione di progetti di interesse nazionale, di adeguamento del governo ai mutamenti della società. Si tratta di una sorta di bipolarismo leninista. Anacronistico e antimoderno.

È l’era della flessibilità. La chiediamo a tutti gli attori sociali: eppure la politica resta vittima di un’artrosi sistemica ancora più evidente di quella del passato. Tanto per fare un esempio macroscopico: a noi non è consentita, se anche i tempi lo suggerissero, la flessibilità di un governo di Grande Coalizione come in Germania. Il principale ostacolo alla flessibilità del sistema è la forzosa introduzio-


[il documento] La prima repubblica ha privilegiato la rappresentanza, la la decisione. Occore un nuovo

seconda

ne del premio di maggioranza su un sistema proporzionale. Si obietta che eliminarlo significherebbe aumentare la frammentazione politica e tornare a negare ai cittadini la scelta “diretta” dei governi. Non è vero. Una pur modesta soglia di sbarramento è in grado di ridurre a cinque-sei i soggetti parlamentari. Ed è solo un pregiudizio l’idea che ciò che si chiama “modello tedesco”, debba inevitabilmente riportarci al passato, quando i governi si componevano dopo il voto.

L’Unione di Centro ritiene che gli elettori debbano poter scegliere le alleanze di governo prima del voto. Ma tali alleanze non possono essere il frutto di una pietrificazione del sistema politico. Le diverse aree politiche del Paese debbono essere libere di proporre ai cittadini, di volta in volta, le alleanze che ritengono più adatte alla fase politica, facendo davvero prevalere i programmi sugli schieramenti. Guadagnandosi la maggioranza dei seggi solo se gli elettori gliela concedono. Senza alcun premio. E confrontandosi poi, liberamente, in Parlamento con tutte le altre forze politiche.

equilibrio

La differenza con l’oggi di un modello proporzionale senza premio di maggioranza non starebbe dunque nella rinuncia a proporre leader e governi prima del voto. Starebbe invece nella liberazione dalla rigidità di un bipolarismo fondato sull’eterno scontro destra-sinistra, categorie otto-novecentesche che non corrispondono più, se non genericamente, alle domande delle società moderne. Il vero valore della nostra modernità politica non è il bipolarismo. È la democrazia dell’alternanza. L’Italia moderna deve proteggere questa seconda, non il primo. Dobbiamo garantire il ricambio del potere, e la scelta preventiva, da parte degli elettori, dei partiti e degli uomini che debbono governare. Ma questo può avvenire anche con un sistema tripolare o quadripolare. Il bipolarismo è solo una delle forme possibili di governance. La democrazia dell’alternanza è la sostanza.

Partendo da questo chiaro orizzonte politico è possibile ridisegnare, secondo un progetto razionale, l’architettura dello Stato facendosi guidare da una sola grande priorità: la centralità del Parlamento e di tutte le assemblee elettive. Perfino nei più consolidati sistemi presidenziali il ruolo delle assemblee nazionali è 86-87

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decisivo. Nell’Italia della Seconda Repubblica si assiste invece ad una inquietante espropriazione di sovranità delle Camere.

È necessario accrescere i poteri del premier ma solo se, nel contempo, si definiscono con precisione le prerogative delle assemblee elettive che debbono essere dotate di un potere di veto rispetto all’esecutivo. Si può prevedere, ad esempio, che su alcune materie di rilevante interesse nazionale, siano necessarie maggioranze qualificate. Ciò impedirebbe la “dittatura dei decreti” in auge da alcuni anni e costringerebbe governi e opposizioni a collaborare, ricercando le soluzioni migliori per il Paese, con spirito di responsabilità nazionale. Intorno a questa idea-forza vanno unificati i diversi sistemi elettorali e le diverse forme di governo, dai Comuni alle Regioni: laddove è sempre più evidente la crisi delle assemblee elettive e la trasformazione del ruolo di governatore in una sorta di vicerè, sciolto da ogni controllo, sotto il quale proliferano, assai spesso, burocrazie sprecone e inefficienti. Anche il possibile federalismo va letto dentro questo orizzonte: può essere un traguardo positivo solo se non si trasforma in una scissionistica moltiplicazione dei centri di spesa.

Il potere legislativo che è il caposaldo della democrazia parlamentare è stato negli ultimi decenni aggredito da due versanti: dal potere esecutivo che ha tentato di attribuirsene le prerogative istituzionali e dall’ordine giudiziario che ha operato come una sorta di “contropotere”. L’equilibrio dei poteri voluto dai Padri Costituenti è saltato. Si tratta di ricostruirlo uscendo dalle contrapposizioni forzate. Per riuscirci la via è una sola: recuperare il primato del potere Legislativo, sia rispetto all’Esecutivo che al Giudiziario.

L’unione di Centro nasce per sottoporre al Paese l’urgenza di prendere atto del fallimento della Seconda Repubblica e di aprire un nuovo tempo della nostra storia nazionale: una Terza Repubblica che si lasci alle spalle il pressappochismo, la faziosità, lo strapotere delle attuali oligarchie e riscriva, con serietà e dedizione, in modo condiviso, le regole della nostra vita pubblica.

Il nuovo equilibrio della Repubblica deve favorire la soluzione della quattro grandi questioni aperte dall’inizio della transizione, quella istituzionale, quella giudiziaria, quella dell’unità nazionale e delle autonomie territoriali, quella della modernizzazione economica.


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Occorre un Nuovo Inizio. L’Italia ha bisogno di un nuovo “patto democratico”. Tutto il tempo che si perderà prima di aderire a questa necessità sarà tempo rubato al futuro del Paese. PARTITO EUROPEISTA E OCCIDENTALE

L’Italia, grazie alla lungimiranza di Alcide De Gasperi, ha scelto di entrare nel novero dei Padri Fondatori dell’Unione Europea. È una scelta da cui non si può tornare indietro. Al contrario, sentiamo come nostro dovere lavorare per imprimere un’ulteriore accelerazione al processo di unificazione, riprendendo il cammino di approvazione della Carta Costituzionale europea.

Lavoriamo affinché l’Unione europea diventi un soggetto politico unitario, protagonista della scena mondiale. Raggiunto l’obiettivo della moneta unica e della riunificazione politica tra Ovest e Est si può far più vicino il sogno dei Padri Fondatori: un continente unito che sia visto come un’affidabile sponda di dialogo verso quei Paesi del mondo islamico che vogliono incamminarsi lungo la via della democrazia e come un partner affidabile dell’unica democrazia liberale presente nell’area del Medio Oriente: quella d’Israele. E più in generale come protagonista di una nuova cooperazione di tutta l’area del Mediterraneo.

L’auspicabile autonomia dell’Europa non può certo essere interpretata in modo antagonista nei confronti degli Stati Uniti ma, al contrario, come la leva per assumere nel mondo precise responsabilità politiche e militari rispetto ai temi della sicurezza globale cui finora l’Europa non è stata in grado di attendere, sempre facendo conto sulla forza di Washington.

Del resto, De Gasperi, Adenauer e Schumann ci hanno insegnato che Europa e Stati Uniti rappresentano le due facce di un’unica storia di civilizzazione e di libertà. Questa comune consapevolezza salvò prima il mondo dal totalitarismo nazista e poi contribuì al crollo di quello comunista. Un ritorno indietro da questa chiave di volta dell’assetto geopolitico del pianeta segnerebbe un passo indietro della storia del mondo. Perciò un eventuale isolazionismo americano rispetto all’Europa sarebbe un gravissimo errore strategico. Così come un ipotetico isolazionismo europeo rispetto a Washington, magari per avvicinarsi alla Russia di Putin, segnerebbe l’inizio di un’autentica decadenza politica, economi88-89

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ca e culturale del vecchio continente.

Una stretta alleanza di intenti tra Europa e Usa, fatta di reciproco rispetto e capacità d’ascolto, è decisiva anche per riuscire a coinvolgere il maggior numero di Stati possibile in un nuovo patto di collaborazione planetaria. L’Onu è la sede più importante del dialogo tra gli Stati, ma non sempre è stata in grado, nel recente passato, di svolgere un ruolo positivo nella soluzione delle controversie. In ogni caso le nuove sfide della globalizzazione, il ruolo della finanza, il governo dell’ecosistema, la lotta al terrorismo e le politiche di sicurezza, la tutela dei diritti umani, i limiti e gli sviluppi delle biotecnologie, l’allarme povertà, richiedono la definizione di una nuova Carta dei diritti e dei doveri del XXI secolo da far sottoscrivere alle principali potenze, per condividere alcuni valori di fondo nella governance del pianeta.

Europa e Usa, nell’ambito di tutte le organizzazioni internazionali, possono essere i principali promotori di questa ineludibile necessità. Il multilateralismo è il giusto metodo da seguire. Ma, appunto, è solo un metodo: la cosa più importante è condividere gli stessi contenuti. Altrimenti il multilateralismo diventerebbe solo una formula rituale per sancire l’esistenza di veti contrapposti e, di conseguenza, l’impotenza della politica mondiale.

Per l’Unione di Centro la parola pace rappresenta un valore supremo e universale. Ma seguendo l’insegnamento della Pacem in Terris, sappiamo che in assenza della Libertà, della Verità, dell’Amore e della Giustizia non si dà vera pace. Pace e Libertà, dunque sono due concetti gemelli: simul stabunt, simul cadent. La pace senza libertà diventa solo una parola-totem, un feticcio senz’anima, uno scudo talmente generico da risultar valido anche per chi esercita violenza, oppressione e ingiustizia. C’è pace, infatti, anche sotto la cappa di piombo delle dittature. La medesima etica della responsabilità ci guida anche nell’affrontare le questioni dell’integrazione multirazziale e il dialogo con le altre civiltà. Noi siamo convinti che l’“interculturalismo” sia un destino inevitabile delle nostre terre e anche un’occasione di crescita per le nostre società. Ma non siamo affatto convinti che esso debba dar luogo da parte nostra ad una sorta di abdicazione identitaria. La nostra è una cultura dell’accoglienza, della solidarietà, della tutela universale della dignità umana. Perciò ci opponiamo con fermezza ad ogni diffi-


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denza xenofoba. Nello stesso tempo vogliamo che l’Italia e l’Europa tornino a coltivare l’amore per la propria identità, per la propria storia e la propria etica pubblica, l’affetto per la nostra religione, tutte cose che negli ultimi decenni sembrano essere state smarrite. Perché senza amore e rispetto per se stessi non è possibile alcun vero dialogo. L’amore per l’altro, lo spirito di amicizia e di comprensione, la ricerca dell’integrazione devono coniugarsi con una permanente e convinta richiesta di reciprocità. Anche di fronte ai massicci fenomeni di immigrazione, la generosità verso chi cerca la nostra terra come speranza di futuro è doverosa. Ma altrettanto doveroso è pretendere rispetto per la nostra cultura, la nostra religione, le nostre tradizioni, le nostre leggi. Questa è l’unica via maestra per provare a costruire dialogo e solidale convivenza.

L’economia

sociale di mercato

resta la più efficace dottrina di delle società occidentali

governo

I profondi cambiamenti in atto nella società richiedono dunque un “doppio movimento”: la più ferma determinazione a difendere la sicurezza nelle nostre città e nelle periferie e uno sforzo altrettanto deciso per garantire nuove forme di integrazione dei lavoratori stranieri e delle loro famiglie. Finora l’oscillazione della sinistra e della destra tra accoglienza facile senza regole e durezza ideologica ai confini della xenofobia, non solo non ha risolto il problema, ma lo ha persino aggravato caricandolo di irrazionali emotività. Anche su questo argomento il “partito dell’equilibrio” è l’unico vincente. PARTITO DELLA MODERNIZZAZIONE DIECI PROPOSTE CONTRO IL DECLINO

L’Italia è ormai da due decenni il Paese del “riformismo bloccato”. Nella Seconda Repubblica i roboanti impegni di innovazione assunti sia dalla destra che dalla sinistra sono il più delle volte naufragati nell’impotenza. Così, anno dopo anno, lo spettro di un grave declino storico del nostro Paese si è fatto sempre più incombente.

All’impotenza politica si è accompagnata la confusione culturale. Si è passati dalla declamazione della “rivoluzione liberale” alla teorizzazione di un 90-91

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“nuovo statalismo” con spensierata spregiudicatezza. Gli stessi protagonisti che un tempo si facevano paladini del “più mercato-meno Stato” oggi sono i principali fan della tesi opposta “meno mercato-più Stato”. Non si può governare un grande Paese con tale superficiale volubilità di visione del mondo. L’economia sociale di mercato resta per noi, non solo a parole, la più efficace dottrina di governo delle società occidentali. Essa propone da sempre un orizzonte assai chiaro: “più mercato” (per accrescere la ricchezza) e “più Stato” (quando è necessario per riequilibrarla).

Questo orizzonte di flessibilità vale sempre: nei periodi di crescita che ieri hanno consentito all’Italia di diventare una grande nazione industriale, come in quelli di crisi che oggi segnano uno dei momenti più gravi di tutta la nostra storia. Il pendolo tra liberalismo e statalismo è dunque “normale”: ma deve essere gestito con saggezza. Il governo di un grande Paese industriale non può essere sottoposto a radicali e repentini squilibri di indirizzo.

La destra ha finora messo l’accento sulla modernizzazione. La sinistra ha insistito sull’equità. Si è trattato e si tratta di una contrapposizione insensata. Anche perché, negli ultimi quindici anni, nessuno di questi due obiettivi è stato raggiunto, consegnando dell’Italia al mondo una strana e deprimente immagine: quella di un Paese nel quale inaudite arretratezze da Terzo mondo convivono con scintillanti ricchezze da California!

Il fatto è che modernizzazione ed equità sono due facce della stessa medaglia. Non è moderno un Paese ingiusto che lascia soli i più deboli e non si accorge delle nuove povertà. Non può essere solidale un Paese che rinuncia a produrre ricchezza, a produrre energia anche con il nucleare, che ha una tassazione eccessiva, che non si dota di infrastrutture, che non sia apre a un rivoluzione liberalizzatrice del rapporto tra Stato ed economia. C’è una parola che lega la modernizzazione all’equità: qualità. È questa l’unica vera grande missione verso la quale un governo deve saper indirizzare il proprio popolo. La qualità deve tornare ad essere la vera chiave di volta di tutto il lavoro della nazione. Qualità nell’industria, certo. Ma anche e necessariamente qualità dei servizi, qualità dell’amministrazione, qualità della ricerca, qualità della scuola, qualità della vita. L’Unione di Centro nasce per contribuire a superare il deficit italiano di riformismo ponendosi l’obiettivo di una seconda modernizzazione dopo quella che,


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nel dopoguerra, guidata da De Gasperi e Einaudi, realizzò la “ricostruzione italiana”. Lungo dieci grandi aree di intervento. Le uniche capaci di farci uscire anche dal tunnel dell’attuale crisi. 1) La difesa della vita

Che si tratti dell’efferata criminalità che ormai invade i nostri paesi e le nostre città. Che si tratti della biotecnologia che manipola i nostri corpi e il ciclo naturale dell’esistenza. Che si tratti della pedofilia che insidia i nostri bambini. Che si tratti dell’indifferenza nei confronti dei diritti del nascituro. Che si tratti dell’inquinamento o, peggio, della distruzione del nostro habitat. Che si tratti degli ormai quotidiani incidenti sul lavoro o delle settimanali stragi della strada. In ogni caso, oggi, l’estrema, risoluta, intransigente difesa della vita è la nuova frontiera della nostra civiltà. Dietro gli inauditi crimini quotidiani che offendono le nostre comunità, dietro le mille polemiche laiciste che negano il diritto naturale, dietro le maschere di una società che umilia e volgarizza i nostri corpi, soprattutto quelli delle donne, si cela un unico grande nemico: il nichilismo.

Stiamo perdendo il senso della vita, stiamo offendendo la sacralità di un mistero, di un dono che non è nelle nostre disponibilità distruggere. Noi vogliamo unire nell’unico concetto di difesa della vita i temi più importanti del nostro tempo. • La sicurezza della nostra esistenza e delle nostre città. • La difesa della famiglia. • Un equilibrato rapporto con il corpo e con il sesso. • La libertà e la dignità della persona umana. • La qualità del nostro ambiente. • L’umanità del nostro rapporto con la scienza e con il progresso.

2) Un nuovo patto fiscale

L’economia sommersa oggi raggiunge e supera il 25%. Si tratta di una cifra enorme, decisamente superiore a quella degli altri Paesi dell’Ocse. Sono dati che inquinano i bilanci dello Stato, alterano la concorrenza e soffocano i cittadini e le 92-93

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imprese oneste, costretti a pagare aliquote elevate per bilanciare la riduzione della base imponibile. La sinistra ha inseguito l’improponibile modello di un Grande Fratello fiscale. La destra ha ripetutamente tradito il proprio impegno di ridurre le tasse. Ecco perché è ormai indifferibile un nuovo “patto fiscale” tra Stato e cittadini che, senza demonizzare o criminalizzare alcuna categoria, sia in grado di ottenere una maggiore giustizia sociale e far recuperare competitività alle imprese italiane nel mondo.

La nostra proposta è semplice quanto risolutiva: passare ad un modello di tassazione fondato sul “contrasto di interessi” per consentire ad ogni cittadino di poter portare in tutto, o in parte, in detrazione i costi dei servizi che acquista, garantendo ulteriore tutela alle famiglie attraverso l’adozione del modello del “quoziente familiare” che misura il peso del fisco sulla base della composizione dei nuclei familiari. Solo attraverso l’allargamento della base imponibile si potrà realizzare il vero federalismo fiscale di cui il Paese ha bisogno, evitando di affiggerne soltanto i manifesti come sembra voler fare la Lega.

Contemporaneamente occorre liberare il sistema produttivo dai vincoli che rendono impari la competizione con le imprese degli altri Paesi: una forte e concreta riduzione dell’imposizione fiscale nei confronti delle imprese non può più essere rinviata, soprattutto se si intendono garantire condizioni di sviluppo economico durature e strutturali all’Italia, consentendole di uscire più rapidamente dalla grave crisi finanziaria internazionale. 3) Il rilancio della famiglia contro il declino demografico

Il declino economico è accompagnato, in Italia e in Europa, da un preoccupante declino demografico che porterà, a breve, drammatici squilibri dal punto di vista sociale, previdenziale, sanitario e solidaristico. Si tratta di un declino annunciato ma sempre sottovalutato che aggraverà la già difficile situazione italiana perché l’invecchiamento della popolazione vuol dire meno consumi, meno lavoro, meno investimenti: vuol dire una società debole e perciò più fragile e in sofferenza. Dunque le politiche per la famiglia non sono una delle diverse opzioni possibili; sono al contrario decisive per il nostro futuro. L’Unione di Centro ritiene che i soldi spesi per i figli non debbano essere tassati, in omaggio agli articoli 29, 30, 31 e 53 della nostra Carta Costituzionale. Ciò che avviene in tutta Europa deve


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essere possibile anche in Italia. La famiglia è un’impresa che produce capitale umano e come tale va considerata con politiche di promozione e di tutela, così come si fa con tutte le aziende del Paese. Occorre inoltre mettere in campo politiche del lavoro che consentano la conciliazione dei tempi della famiglia con i tempi del lavoro fuori casa; politiche educative che garantiscano la libertà di scelta educativa delle famiglie come condizione ineludibile anche per il rilancio della scuola statale, politiche di welfare che sostengano la famiglia nel suo quotidiano lavoro di cura verso i soggetti più deboli. La definizione di un nuovo contratto sociale passa attraverso la concezione della famiglia quale soggetto sociale di rilievo prioritario. Primo soggetto dell’intervento statale dovrà dunque essere la famiglia e non l’individuo. È questa la più grande sfida dei prossimi anni. 4) Una svolta nelle liberalizzazioni: per il consumatore, per la piccola e media impresa

L’Unione di Centro si propone come partito di tutela del cittadino-consumatore. Partiamo dalla consapevolezza che, dal 1996 al 2001, i governi di centrosinistra hanno realizzato una serie di privatizzazioni che, in luogo dei cittadini, hanno favorito nuovi monopolisti di settori strategici come banche, assicurazioni, telecomunicazioni, gas ed energia con il risultato di appesantire i costi dei servizi per i cittadini-consumatori, le famiglie-consumatrici e le imprese consumatrici. Ma la destra non ha cambiato strada: la nuova fase di governo, dietro il paravento della crisi internazionale, sembra mirare anch’essa solo a costruire nuovi equilibri di potere nell’ambito del sistema bancario e industriale.

Occorre invertire la rotta: solo attraverso un’imponente spinta liberalizzatrice sarà infatti possibile completare il processo di ammodernamento dell’economia italiana creando finalmente condizioni di concorrenza tra le imprese, riducendo i costi e migliorando la qualità per i consumatori. Lo Stato, abbandonato definitivamente il ruolo di Stato-imprenditore, ha il dovere di assumere quello di Stato-regolatore ponendo al centro della propria azione la figura del consumatore.

La spinta liberalizzatrice, oltre che a livello nazionale, va diffusa anche al livello dei servizi pubblici locali e delle professioni, abbandonando l’eterna malattia italiana di coltivare corporativismi e interessi particolari. Ciò vale ovviamente anche per la macchina burocratica dello Stato e dei suoi enti periferici che appare organizzata più in funzione di chi vi lavora, spesso peraltro in condi94-95

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zioni di frustrazione, che del cittadino che ne usufruisce.

Solo con un’imponente

L’Unione di Centro si propone anche come partito di riferimento della piccola e media impresa che rimane il principale traino economico dell’Italia. Le sfide del mercato globale impongono una continua rimodulazione delle politiche di sostegno e un’analisi attenta ma severa dell’evoluzione del sistema imprenditoriale italiano. Il “nanismo” delle nostre imprese costituisce da una parte un elemento di freno dello sviluppo, dall’altra un punto di forza, garantendo flessibilità e dinamismo. Occorre individuare i settori nei quali favorire selettivamente le aggregazioni d’impresa e quelli nei quali le politiche di distretto agevolano la competitività, salvaguardando anche i caratteri distintivi delle aziende, per imprimere ulteriore spinta all’affermazione del made in Italy. In questo percorso la ricerca e l’innovazione di prodotto diventano l’unico vero traino di una riscossa, non effimera, dei nostri indici di competitività.

spinta liberalizzatrice sarà possibile modernizzare

economia italiana

l’

5) Elevare il tasso di solidarietà

Un partito moderato e riformatore ha il dovere di assumere scelte anche apparentemente impopolari se improntate alla tutela dell’interesse generale. Ebbene, il nostro Paese ha bisogno che torni in politica il tempo del coraggio per affrontare seriamente il tema della povertà, della disuguaglianza, delle redistribuzione del reddito; per definire un nuovo welfare, sostenibile e giusto, non più centralizzato ma fondato sulla sussidiarietà orizzontale; per promuovere un moderno sistema di protezione sociale capace di garantire un avvenire meno incerto ai nostri giovani che hanno bisogno di una scuola e di un’università radicalmente rinnovate, per offrire sostegno agli anziani, per assicurare solidarietà ai “nuovi poveri” e realizzare condizioni di pari opportunità a tutte le donne.

L’attuale sistema pensionistico non tiene conto dei mutamenti demografici in atto e finirà con il far pagare alle giovani generazioni il prezzo dell’irresponsabilità dei governi attuali. È indispensabile approvare una riforma della previdenza che tenga conto della combinazione tra allungamento dell’attesa di vita e caduta delle nascite. Dalla previdenza occorre inoltre sganciare l’assistenza, recu-


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perando risorse che potranno essere destinate a chi ne ha veramente bisogno. Elevare il tasso di solidarietà del Paese è la missione più alta che una buona politica possa darsi nel medio-lungo periodo. Occorre allora incentivare e non abbandonare a se stessi i tanti italiani che oggi si dedicano alla solidarietà, aiutandoli a proseguire nel loro impegno con un rinnovato spirito imprenditoriale. Intorno alla figura dell’imprenditore sociale il Paese può ritrovare gli stimoli e le energie per sostenere i cittadini che attualmente vivono in condizioni di povertà. 6) Una nuova cultura del lavoro

Negli ultimi decenni sono intervenuti profondi cambiamenti nell’organizzazione del lavoro e nelle sue regole. Il lavoro in nero si è spesso intrecciato con l’immigrazione clandestina; il rapporto tra flessibilità, precarietà e stabilità si è fatto più complesso; la presenza degli immigrati ha reso i luoghi di lavoro sempre più multiculturali, multireligiosi e multietnici; l’ingresso delle donne ha modificato sia quantitativamente che qualitativamente il paesaggio professionale. L’insieme di questi elementi ha prodotto una profonda modificazione. La tradizionale relazione tra scelta del lavoro e realizzazione della persona è ormai messa in seria discussione. Avanza al contrario una concezione strumentale del lavoro non visto più come missione, ma più semplicemente come mezzo. Il fine della vita oltrepassa il lavoro e viene individuato essenzialmente nella realizzazione economica, nel prestigio della carriera e nell’uso del tempo libero. È cambiata di conseguenza anche la relazione tra lavoro e socialità. Un tempo il mondo del lavoro era un luogo di forti relazioni cooperative e solidali, mentre oggi prevale la spinta di un forte individualismo assieme a sempre più marcate forme di corporativismo. La stessa natura della relazione tra uomo e lavoro è fortemente condizionata da un progressivo predominio della tecnologia che domina lo sviluppo della persona.

Noi riteniamo che tali fenomeni non siano irreversibili, che la modernità non debba necessariamente essere caratterizzata da questi fenomeni di “nuova alienazione”. Riteniamo che sia possibile, e per questo intendiamo batterci, ricostruire una cultura del lavoro fondata sulla centralità della persona, recuperando la visione antropologica di un’attività capace di rendere sempre più umana la vita, la cultura e la società. Occorre, in altri termini, segnare il passaggio da una visione conflittuale delle relazioni sociali ad una solidale e cooperativa. Immaginare una nuova “socialità del lavoro” che torni ad esibire una tensione dinamica, dei singoli e dei gruppi, verso il bene comune. 96-97

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7) Sanità e Scuola: la società del bene comune

Lo Stato italiano produce ormai un livellamento verso il basso di prestazioni e servizi, e non riesce più a promuovere verso l’alto chi sta indietro nella scala sociale. L’Unione di Centro lavora, viceversa, per ridefinire lo Stato sociale, per un nuovo grande modello da costruire in Italia e in Europa: la Welfare Society. Quest’ultima si potrebbe anche definire come “la società del bene comune”.

Una società dove la responsabilità della gestione sociale è affidata anche ai corpi intermedi della comunità. Nella quale il livello privato e il livello statale cooperino e competano nell’offerta di servizi formando, insieme, un unico sistema pubblico all’interno del quale sia più plurale e libera possibile la scelta dei cittadini e delle famiglie.

L’equazione che chi governa le moderne società europee deve risolvere è la seguente: come mantenere in piedi il carattere universale della tutela sociale riuscendo, nel contempo, a innalzare la qualità e l’efficienza dei servizi. Ebbene, le comunità umane non hanno fino a oggi trovato altro strumento per accrescere la qualità di qualsiasi sistema che far ricorso alla gara, alla concorrenza, all’emulazione. La soluzione del problema sta dunque nella costruzione di un Sistema Misto generalizzato nel quale, soprattutto nella Sanità e nella Scuola, il cittadino possa avere piena “libertà di scelta” tra una pluralità competitiva di offerte, private e statali. Il che vuol dire l’esatto contrario della cosidetta “privatizzazione dei servizi sociali”: significa, al contrario, far entrare, a pieno titolo, nelle regole del sistema pubblico anche l’offerta privata, chiamando a intervenire imprese, cooperative, mondo del no-profit. Si determinerebbe così, tra l’altro, un pieno coinvolgimento della società nella gestione dei servizi, accrescendo la responsabilità di tutti verso il “bene comune”. Finora è accaduto esattamente l’opposto. 8) Una nazione ad “energia libera”

Un Paese moderno deve avere la capacità di conciliare lo sviluppo con la qualità della vita. Tutela del territorio e crescita economica devono camminare insieme. Siamo per la politica del “sì”: per fare della difesa dell’ambiente non solo uno slogan, ma una politica. • Sì allo sviluppo delle fonti energetiche rinnovabili, insieme a un rientro


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serio, consapevole e rapido nel nucleare. Riteniamo inoltre indispensabile riportare in capo allo Stato gli indirizzi di fondo di tutta la politica energetica, strategica per un Paese che ha bisogno di ridurre i costi e di non diventare nel tempo una nazione a “sovranità limitata” di energia. Nell’era della globalizzazione l’autonomia energetica è una funzione decisiva della stessa autonomia della democrazia. • Sì alla realizzazione delle grandi infrastrutture che, velocizzando la movimentazione, riducono l’inquinamento. • Sì alla ricerca e al sostegno delle nuove tecnologie ambientali per evitare il continuo finanziamento d’impianti ormai superati. Condizione per riuscire a superare il devastante effetto Nimby (“fate tutto basta che non sia vicino a me”) è infine la buona gestione degli impianti industriali e l’accesso trasparente alle informazioni, per ridare fiducia nelle istituzioni e rendere partecipi i cittadini del loro futuro. 9) Tornare a vedere nel Mezzogiorno una risorsa

Nella Grande Mutazione imposta dalla globalizzazione il Mezzogiorno del nostro Paese può assumere un ruolo geopolitico di grande importanza strategica nel rapporto con il Medio Oriente e con l’Africa. Si tratta di una nuova frontiera della quale soprattutto l’Italia può avvantaggiarsi nella leadership mediterranea. Nazioni più dinamiche della nostra, come la Spagna, l’hanno già compreso. Viceversa la “questione meridionale” è avvertita dalla nostra opinione nazionale come un problema irrisolvibile, o quasi; di certo, non come una risorsa. La debolezza del tessuto economico associata alla inadeguatezza delle politiche hanno consolidato l’idea che si tratti solo di una società fragile, permeabile alla violenza della criminalità organizzata che si limita a selezionare i propri gruppi dirigenti in ragione dei localismi. Eppure, ci sono tante risorse ed intelligenze: vocazioni territoriali inespresse, la più alta percentuale di giovani laureati, una varietà di piccole associazioni e di movimenti di ispirazione cattolica o a difesa della legalità. Si tratta, però, di tante monadi, con le quali la politica deve avere il coraggio di misurarsi in maniera innovativa, aiutandole ad organizzarsi insieme e per riaccendere la speranza nel cambiamento possibile. Questo è e sarà l’impegno dell’Unione di Centro perché il Mezzogiorno è la parte dell’Italia che può crescere di più e costituisce, quindi, una straordinaria opportunità per tutto il Paese. Altre nazioni in Europa, che hanno investito con coraggio sui territori in deficit di sviluppo hanno realizzato poi incre98-99

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menti significativi del loro PIL. Ciò perché in un’economia globale non ci si può permettere di correre con una gamba più corta dell’altra. 10) Il merito al primo posto

L’insieme di questi grandi obiettivi non potrà mai essere raggiunto se non si diffonderà nel Paese una nuova cultura diffusa: la promozione del merito in tutti i campi della vita pubblica. I quarant’anni che ci separano dal ’68 hanno fatto diventare senso comune idee del tutto opposte, soprattutto la devastante equazione tra selezione di merito e selezione di classe. È vero esattamente il contrario: l’utopia dell’egualitarismo, che livella verso il basso, è infatti la tomba dell’emancipazione sociale. I ricchi, infatti, possono cavarsela in tanti modi, ma se ai figli dei poveri togli la chance del merito e del talento, li condanni all’inferno. L’uguaglianza delle opportunità è la nostra bussola, perché il destino sociale di emarginazione può essere combattuto dai giovani meno fortunati solo in una società che promuove il merito. L’assistenzialismo è conservatore. La promozione del merito è rivoluzionaria. L’assenza di questa consapevolezza è forse il tributo più alto che l’Italia di oggi paga all’egemonia culturale delle sinistre. In virtù di questa ideologia siamo diventati un Paese bloccato, pansindacalizzato, nel quale, per eccellere, ormai si può solo fuggire all’estero.

La situazione dell’Italia non è affatto semplice. Troppi sono i ritardi accumulati, troppe le contraddizioni di una politica superficiale e a volte irresponsabile. Ma in virtù della nostra fiducia nel popolo italiano ci sentiamo di affermare che non abbiamo paura della crisi. Perché il passaggio storico che stiamo attraversando, oltre ad evidenti gravi difficoltà, offre anche inedite opportunità, il possibile sorgere di un nuovo atteggiamento collettivo, responsabile e fattivo.

Ebbene, proprio intorno all’affermarsi di questa chance l’Unione di Centro chiama gli italiani a raccolta. Lo ripetiamo: è il tempo del coraggio.

L’assistenzialismo è conservatore. La promozione del è rivoluzionaria. È arrivato il del coraggio

merito

tempo


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CONCLUSIONI

Ancora una volta la storia ci chiede di essere liberi e forti. Liberi da ogni conformismo, da ogni meschinità, da ogni pegno da pagare alle oligarchie costituite. Forti della nostra identità cristiana e liberale, dei valori dei nostri padri che vogliamo trasmettere ai nostri figli, forti del nostro giuramento di servire, sempre e comunque, il bene comune degli italiani.

Liberi perché liberali e popolari. Forti perché cristiani. Liberi di dire la verità sull’Italia. Forti perché oggi il vento del declino che minaccia il nostro paese pretende saldezza di principii e spirito di sacrificio. Per rimettere l’Italia in piedi ci vuole coraggio. Il coraggio di contestare luoghi comuni, verità di comodo, rendite di posizione. Il coraggio di saper rischiare. Ebbene, noi questo coraggio l’abbiamo e lo stiamo dimostrando, sfidando da soli l’attuale finto bipartitismo e le sue oligarchie. Per rimettere l’Italia bisogna ripristinare il senso dell’autorità. Per decenni ci è stato raccontato che, dietro ogni autorità si nascondeva autoritarismo, che dietro ogni ordine sociale si nascondeva repressione, che dietro il rigore degli studi si nascondeva una limitazione delle libertà personali; che il professore a scuola era come il padrone in fabbrica. Il risultato è sotto i nostri occhi: hanno perso autorità lo Stato, la scuola, gli insegnanti, la famiglia. Il principio di autorità è invece elemento essenziale di ogni comunità umana.

L’autorità dei genitori è essenziale per la crescita dei figli. La madre e il padre non dovrebbero trasformarsi in amici, fratelli o sorelle del proprio figlio. L’autorità degli insegnanti è altrettanto essenziale per la crescita dei ragazzi: a condizione che essa derivi dalla competenza e dalla capacità pedagogica, troppo spesso oggi minacciate dalla dequalificazione di una categoria che tende a ripiegare verso il ruolo del dipendente pubblico piuttosto che a esaltare la dignità dell’educatore. L’autorità dello Stato è necessaria per rendere effettive la sicurezza e la giustizia. Negli ultimi decenni si è messo l’accento sulle garanzie degli imputati. È stato giusto. Ma si è finito per dimenticare di difendere i diritti delle vittime. Del terrorismo, della violenza, degli rapine, degli stupri. Questa grave carenza, sommata ai lunghi tempi dei processi e all’incertezza o alla debolezza delle pene, ha finito per logorare ogni autorità delle istituzioni. Per rimettere l’Italia in piedi, ci vuole serietà. Bisogna saper dire anche cose impopolari, chiudere i libretti dei 100-101

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sogni oggi dispensati a piene mani, trattare gli italiani per come sono: cittadini adulti, gente operosa, professionisti responsabili. Per rimettere l’Italia in piedi, ci vuole amore per il bene comune. Ci vuole una grande apertura mentale, quasi una rivoluzione culturale, per indurre noi stessi ad anteporre sempre l’interesse generale alle logiche di partito, di clan, di clientela. Il bene comune dovrebbe essere l’obiettivo primario della politica. Eppure in Italia esso giace dimenticato nell’archivio della storia, offeso da una lotta tra caste che inquina l’intera vita nazionale.

L’Italia del coraggio, l’Italia della serietà, l’Italia del bene comune. Ecco l’Italia alla quale rivolgiamo l’appello di condividere la nostra sfida.

È un’Italia che esiste e resiste, smarrita di fronte agli arbitrii e al disordine, ma sempre consapevole dei doveri.

È l’Italia dei nostri soldati che, rischiando la vita, fanno il loro dovere in tutto il mondo, portando pace e libertà in terre lontane. È l’Italia delle forze dell’ordine che, con mezzi non sempre adeguati, difendono ogni giorno la nostra sicurezza. Se tutti in Italia vivessimo il senso del dovere come loro lo vivono, il nostro Paese sarebbe primo nel mondo.

È l’Italia delle piccole e medie imprese, l’Italia delle famiglie operose che, al contrario delle grandi aziende da sempre protette dallo Stato, devono solo alle loro capacità e alle loro fatiche, il progresso della loro vita. E ancora oggi, tra mille difficoltà burocratiche, vessati da tassazioni inique, formano un originale “modello economico” che è il vero traino del Paese. Se tutti in Italia avessimo il loro spirito di sacrificio, il nostro Paese sarebbe primo nel mondo.

È l’Italia delle ragazze e dei ragazzi che pensano positivo e che, invece di abbandonarsi alla droga e alla protesta, o di pensare che l’unico futuro sia quello di fare la velina o il calciatore, studiano sodo, aprono nuove imprese, inventano, nel settore del volontariato e del no-profit, nuovi lavori e inedite iniziative economiche, sfidano la società mettendo su famiglia e facendo figli, cercano di sopperire, con la creatività, all’assenza di una politica che non pensa a loro. Se tutti in Italia mettessimo in campo l’ottimismo e la speranza che, malgrado tutto, questi ragazzi trasmettono, il nostro Paese sarebbe primo nel mondo. Senso del dovere, spirito di sacrificio, ottimismo e speranza. Proprio di


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questo ha oggi bisogno l’Italia.

Sarà dura farcela. Perché per troppi anni abbiamo vissuto sopra le nostre possibilità. Perché siamo tutti bravissimi a lamentarci delle cose che non vanno, ma solo in pochi siamo disposti a rimboccarci le maniche per farle andare meglio. Perché stiamo smarrendo il principio di unità della nazione e dello Stato, e sta venendo meno la solidarietà tra Nord e Sud, tra le Regioni, tra le diverse categorie sociali. Perché sull’Italia delle persone oneste rischia di prevalere l’Italia dei furbi, dei mediocri, dei parassiti. Ma l’Italia può ancora evitare il proprio declino. Alla condizione di capire che nessuno ha la bacchetta magica. Che nessun demiurgo, ammesso che ce ne siano, può salvarci. Solo gli italiani possono salvare l’Italia. Perciò è indispensabile resistere alle tentazioni del rifiuto, del disimpegno, dell’antipolitica, del leaderismo senza sostanza. Al contrario abbiamo tutti bisogno di attraversare insieme una nuova frontiera di responsabilità. Di nuovi diritti e di nuovi doveri. L’Unione di Centro nasce per raggiungere questo obiettivo. Per proporre una nuova politica: insieme umile e coraggiosa, responsabile e costruttiva.

Siamo figli di chi, nel dopoguerra, ha permesso che questo Paese crescesse nella libertà. Adesso la storia ci chiama a un nuova decisiva prova. Essere i padri di nuove generazioni di liberi e di forti. Roma, 20 febbraio 2009

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F I R M E

del numero

ROCCO BUTTIGLIONE: vicepresidente della Camera dei deputati, è tra i promotori del Comitato per la Costituente di Centro. MAURO CANALI: è professore ordinario di Storia contemporanea presso l’Università di Camerino. ENRICO CISNETTO: presidente di «Società aperta». FRANCESCO D’ONOFRIO: è docente di Istituzioni di Diritto Pubblico presso l’Università La Sapienza di Roma, è tra i promotori del Comitato per la Costituente di Centro. STEFANO FOLLI: giornalista, editorialista del Sole 24 Ore. ARNALDO FORLANI: è stato segretario della Democrazia Cristiana. GENNARO MALGIERI: deputato del Pdl, giornalista e scrittore. SAVINO PEZZOTTA: deputato dell’Unione di Centro, presidente del Comitato Promotore della Costituente di Centro. PAOLO POMBENI: professore ordinario di Storia dei sistemi politici europei presso il Dipartimento di Politica, Istituzioni e Storia dell’Università di Bologna. SERGIO ROMANO: editorialista del Corriere della Sera e Panorama, storico ed ex diplomatico. GIOVANNI SABBATUCCI: ordinario di Storia contemporanea presso la facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università La Sapienza di Roma. BRUNO TABACCI: deputato dell’Unione di Centro, vicepresidente della Commissione Bilancio della Camera, è tra i promotori del Comitato per la Costituente di Centro.




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