QL numero 4

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La RELAZIONE

Ricostruire Stato e nazione ✺

Ferdinando Adornato • 4

gli INTERVENTI

Il partito mancante ✺

Giorgio La Malfa • 32

Tutti i costi del federalismo ✺

Enrico Cisnetto • 38

Sulla scia di Einaudi e De Gasperi ✺

Italiani senza Italia

Gennaro Malgieri• 58

Il nodo Nord-Sud ✺

Biagio de Giovanni • 64

Noi, i mediterranei ✺

Francesco D’Onofrio • 68

La soluzione c’è: il modello tedesco ✺

Piero Alberto Capotosti • 76

L’identità nella globalizzazione ✺

Francesco Rutelli • 82

le CONCLUSIONI

Stefano Folli • 45

Oltre la retorica ✺

Sandro Bondi • 50

Un partito per la nazione ✺

Pier Ferdinando Casini • 88

✺ La mia Ripartiamo dal bisogno di Dio Italia ✺

Francesco Paolo Casavola • 54

Carlo Azeglio Ciampi • 96



Le relazioni che pubblichiamo sono state tenute al convegno “Di cosa parliamo quando diciamo Italia” organizzato dalla fondazione liberal in preparazione del 150o anniversario dell’Unità d’Italia, che si è svolto a Roma, a Palazzo Wedekind, il 30 e il 31 ottobre scorsi.


La RELAZIONE FERDINANDO ADORNATO


COME RITESSERE IL FILO CRISTIANO E LIBERALE DEL PAESE

Ricostruire Stato e Nazione ✵

Ferdinando Adornato

P

ARTIAMO DA UNA SEMPLICE CONSIDERAZIONE: se a più di un anno dal 2011, centocinquan-

tesimo anniversario della nascita dello Stato italiano, è già in corso un’accesa discussione sul significato di tale ricorrenza, vuol dire che intorno alla nostra unità nazionale aleggiano ancora grandi nodi irrisolti. Il passato non è ancora serenamente passato. E il presente, incrocio da tutti ritenuto decisivo, chiede di chiarire, con limpidezza, di cosa parliamo quando diciamo Italia. Proponiamoci un paradosso: se non ci fosse più lo Stato italiano, continueremmo ugualmente a sentirci italiani? Io credo proprio di sì. Perché è la nazione a contenere lo Stato, non viceversa. Del resto, la nostra è stata, per secoli, una nazione senza Stato, unita da quel comune sentire che Giosuè Carducci ha definito «espressione letteraria», che ha permesso alle nostre terre di collegarsi attraverso la lingua (non certo attraverso i dialetti) già molto tempo prima di poter raggiungere l’unione «delle armi e dell’altar». Nascita di una nazione E la nostra lingua si chiama Dante e Petrarca. Sono loro i fondatori dell’Italia. L’ontologico bisogno di libertà, l’orizzonte di una giustizia fondata sulla nobiltà e sulla 4-5

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[RicostruireStato e nazione] dignità della persona, quel «cuore gentile» che solo può fondare le ragioni dello stare insieme (dell’amicizia come dell’amore) diventano, attraverso le loro «canzoni», i primi tratti distintivi dell’essere italiano. Dante vuole vedere crescere il «desio» di stare insieme a Guido e Lapo. Il loro «incantamento» è, da allora, per noi, la misura di ogni «vita nuova». Dei singoli come della nazione. L’aspra denuncia dell’assenza di una struttura di comando unitaria ed efficiente («nave sanza nocchiero»), la violenta stigmatizzazione degli odi civili che corrodevano le membra della penisola, la celebrazione della virtù repubblicana come base della legittimazione politica, disegnano, attraverso i loro versi, la stella polare che ha preparato la nostra Unità. Trasformando in profezia i versi del Petrarca che ispirarono la pagina finale del Principe di Machiavelli: «Virtù contro a furore/ Prenderà l’arme, e fia al combatter corto;/ ché l’antico valore/ nell’italici cor non è ancor morto». I poeti furono i primi ad alzarsi al di sopra delle divisioni e delle discordie che dilaniavano le terre italiane in nome della superiore unità della nazione. Gli italiani si armeranno e si libereranno perché i poeti li avranno prima armati con le parole. Non fu vero, dunque, se non per retorica, il petrarchesco lamento che «’l parlar sia indarno». Fu vero invece l’intuito di Francesco De Sanctis secondo il quale «una storia della letteratura italiana non poteva che inevitabilmente essere una storia d’Italia». ***** Ma i poeti non soltanto «sentivano». Sapevano. I versi della Commedia, ad esempio, corrispondono alle riflessioni politiche della Monarchia, nella quale Dante affronta uno stereotipo costante della nostra storia: il confronto tra l’Impero e la Chiesa. La fine dell’impero romano aveva lasciato sul territorio un vuoto di potestas e quindi un «volgo disperso che nome non ha», dominato da incontenibili forze centrifughe e soggette a policentriche mire espansioniste. La Chiesa invece c’è, ma con la sua sovranità, insieme spirituale e temporale, contende il primato alla sovranità civile-monarchica. Nella lotta tra questi due «poteri», come ha osservato Benedetto Croce, c’è già tutta l’ideale storia nazionale italiana. C’è la necessità sempre invocata e mai attuata o verificatasi, di una «riforma intellettuale e morale degli italiani». Ciò che oggi noi, con espressione più moderna, chiamiamo «religione civile»: la capacità di un popolo, pur separando rigorosamente Cesare da Dio, di rivendicare il primato dei valori fondamentali della nazione sul potere dello Stato. 6-7

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[FerdinandoAdornato] O, ancor meglio, la definizione dello Stato come mezzo e della nazione come fine. Ciò che costituisce il cuore dell’ispirazione cristiana e di quella liberale, i due fili d’oro che guideranno la nazione italiana al suo Risorgimento La nazione contiene lo Stato Stato e nazione: concetti di controversa attualità. Recentemente Tommaso Padoa Schioppa, in un suo fondo sul Corriere, sosteneva che, celebrando l’unità dello Stato, conveniva tener ben distinto e distante qualsiasi riferimento al concetto di nazione. È lo Stato, ricordava, che oggi dobbiamo riformare tutti insieme: ed è controproducente tirare in ballo la nazione, argomento sul quale troveremmo più motivi di divisione che di unità. Ragionevole. Però parziale. Come si può, infatti, discutere dello Stato, dei suoi limiti e di possibili nuovi assetti senza far riferimento ai valori di fondo cui esso deve ispirarsi? La nostra Costituzione, come del resto qualsiasi altra Costituzione, non è una invenzione ingegneristica di procedure, slegata, ove mai fosse stato possibile, dalla missione etica, culturale, sociale che la nostra comunità intendeva assegnarsi alla fine della seconda guerra mondiale. E se anche si volesse riformare solo la sua seconda parte, come si potrebbe mai farlo senza chiamare in causa principi e valori che sempre precedono la definizione di ogni assetto del potere? ***** Escludere ogni relazione tra nazione e Stato, tra valori e potere, tra principii e regole significa decapitare lo stesso concetto di bene comune e ridurre la politica a mero Come ha osservato strumento dell’interesse di singoli e di gruppi. Prova ne Benedetto Croce, sia il fatto che, da quando questa verità si è offuscata, nella lotta tra Stato e Chiesa ormai molti decenni orsono, l’interesse del proprio partic’è tutta la storia italiana. to o quello dello schieramento di appartenenza, l’interesse dei gruppi economici di riferimento o di singoli attori E la necessità sociali, l’interesse del proprio territorio o della propria di una “riforma intellettuale categoria, hanno preso il sopravvento sull’interesse genee morale degli italiani”. rale. Ed è proprio in questo confuso quadro di disgregaCiò che noi oggi chiamiamo zione che il concetto di nazione è andato smarrendosi, i

“religione civile”


[RicostruireStato e nazione] valori condivisi della comunità gradualmente sfarinandosi, fino a che oggi è del tutto impossibile distinguere i confini tra la crisi dello Stato e quella della nazione, sovrapposte come sono in un deficit istituzionale e morale. ***** Un diverso, ma altrettanto sintomatico errore è stato commesso da gran parte della cultura leghista e da certa cultura della sinistra quando, negli anni scorsi, hanno imposto il «dogma» del tramonto degli Stati-nazione, che risulterebbero travolti dall’incedere della globalizzazione e dall’affermarsi di poteri sovranazionali. È ormai tempo di rivedere questo scenario. Non solo perché è sempre più chiaro che protagonisti del XXI secolo, accanto agli Stati Uniti, si avviano a essere grandi Statinazione come la Cina e l’India, i quali già stanno mutando il corso del mondo grazie alla forza della loro identità e della crescita economica. Ma soprattutto per un’altra ragione a noi più vicina: anche in Europa, laddove i processi di unificazione sovranazionale sono più evidenti, la questione del tramonto degli Stati-nazione non appare così scontata. Il Vecchio Continente si trova davanti a un radicale aut-aut: o riesce a definire una sua anima storico-culturale, sintesi delle diverse identità nazionali (e in questo caso nascerà per tutti una nuova patria europea, con un solo volto politico sulla scena mondiale come era nei sogni dei Padri fondatori) oppure è destinata a restare solo una grande area economica comune, legata da qualche fragile e contraddittoria architettura istituzionale. ***** In altri termini: o nella storia vincerà la comune patria europea con l’emergere di un nuovo grande Stato-nazione, gli Stati Uniti d’Europa, oppure sarà comunque inevitabile (e conveniente) tenere viva la cornice identitaria dei diversi Stati-nazione. Credo si possa ormai riconoscere che quanto più si affermano processi di interdipendenza economica e commerciale, tanto più emerge nei popoli l’esigenza di tutelare gli insediamenti religiosi, culturali, linguistici di riferimento. E soprattutto in alcune aree d’Europa, e forse l’Italia ne è il sintomo più allarmante, l’attacco agli Stati nazionali non viene dall’alto, dal sovranazionale, ma dal basso, dalla teoria delle piccole patrie. L’unificazione europea, difficile quanto si voglia, nasce per garantire ai nostri popoli la pace, per chiudere con la tragica storia del Novecento. Il suo fallimento, viceversa, riaprirebbe un’era assai oscura. Non credo, infatti, che il «nazionalismo» delle piccole patrie sia meno insidioso di quello delle grandi che, da Sarajevo 1915 a Sarajevo 1992 ha devastato il XX secolo. ***** Sono questi i motivi che ci convincono oggi della necessità di costruire un movi8-9

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mento culturale, quanto più forte possibile, che rilanci i fondamenti valoriali della nazione. Ci sentiamo legati all’appello e al monito pronunciato dal presidente Ciampi il 4 novembre del 2002: «Oggi, giorno dell’Unità nazionale, dobbiamo riflettere sulla evoluzione che la nostra comunità sta vivendo. Stiamo ritrovando in noi le ragioni profonde di una memoria condivisa. Gli antichi valori della nostra indipendenza nazionale si stanno ricomponendo come in un mosaico con i valori di oggi, di una collettività democratica e pacifica, orgogliosa dei propri modelli di vita, pronta a difenderli. La storia non divide più noi italiani. L’ho sentito a El Alamein, come l’ho sentito a Cefalonia, a Tambov, a Porta San Paolo. La storia non divide più noi europei. L’ho sentito stando a fianco del presidente Rau nel sacrario dei martiri di Marzabotto. Oggi sappiamo che sono più forti le cose che ci uniscono». E poi ancora nel suo ultimo messaggio di capodanno il 31 dicembre del 2005: «Quel che ho cercato di trasmettervi è l’orgoglio di essere italiani. Siamo eredi di un antico patrimonio di valori cristiani e umanistici, fondamento della nostra identità nazionale». Un antico patrimonio di valori cristiani e umanistici. Esattamente quel patrimonio che nel corso dei secoli ha tenuto vivo l’anelito di una terra promessa da cercare sulla propria stessa terra. Di uno Stato da conquistare per la nazione italiana. Dobbiamo però oggi chiederci quale sortilegio ha fatto in modo


[RicostruireStato e nazione] O nella storia vincerà la comune patria europea con l’emergere degli Stati Uniti d’Europa, oppure sarà comunque inevitabile (e conveniente) tenere viva la cornice identitaria dei diversi Stati-nazione

che questa storia si concludesse, alla fine dell’Ottocento, con la conquista di uno Stato senza nazione. Il paradosso di Porta Pia Il paradosso di Porta Pia. Simbolo della vittoria ma anche della sua parzialità. Luogo della memoria unitaria, ma anche permanente pretesto di lacerazioni. Barricata dell’anima per un volgo che trovò finalmente il suo nome ma, forse, non cessò di sentirsi disperso. L’eterna lotta tra Chiesa e Stato che faceva soffrire Dante, e di cui parlava Croce, si depositò in uno scontro che lasciava aperta sia l’incompiutezza dello Stato sia quella della nazione (della quale la religione era fondamento). Liberalismo e cristianesimo, fonte primigenia della nostra identità, finirono per separarsi, come Romolo e Remo, al momento della realizzazione di un sogno che era stato comune. E se oggi ancora ci dividiamo nell’interpretazione del Risorgimento, se da più parti si chiedono riletture e revisioni anche forzate, ciò dipende forse dal fatto che, sia da parte clericale che da parte laicista, si è per troppo tempo rimasti chiusi nella gabbia mentale di Porta Pia, trascurando e negando come gli ideali del Risorgimento avessero unito cattolici e liberali. Che esso, dunque, dovesse considerarsi un loro comune, legittimo figlio. Da parte liberale ha giocato una sorta di «complesso del vincitore» che ha impedito di riconoscere che, se si era finalmente raggiunta l’unificazione politica, quella nazionale, nell’assenza o peggio nell’ostilità della comunità cattolica, era ancora lontana. Soprattutto perché essa si andava a intrecciare con un’altra drammatica incompiutezza: quella tra Nord e Sud. Da parte clericale è arrivato l’errore opposto. Porta Pia è diventato lo specchio deformante dietro al quale nascondere che, se il potere temporale della Chiesa confliggeva con quello dello Stato, il processo risorgimentale si era viceversa nutrito in modo sostanziale dei valori del pensiero cattolico. Cosicché se oggi è giusto ricordare, attraverso la ricostruzione storica, i crimini finora taciuti compiuti contro i cristiani da parte delle truppe «italiane», bisogna d’altra parte essere consapevoli che la vera «revisione» del Risorgimento consiste nell’andare oltre le barricate di Porta Pia per ricostruire la natura unitaria, cattolica e liberale della nazione italiana. È questo il più grande non-detto che ancora oggi pesa sulla nostra vita pubblica e che ci impedisce di raggiungere pienamente gli obiettivi indicati da Ciampi. Nonostante siano passati 150 anni, infatti, siamo ancora tutti prigionieri di queste parziali letture della nostra storia. Entrambi bulimiche di passione nei confronti della forma-Stato e anoressiche di 10-11

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[FerdinandoAdornato] attenzione, al contrario, verso la forma-nazione. Manzoni, Cattaneo, Gioberti, Rosmini, Mazzini, Ricasoli: sono solo alcuni nomi, non certo esaustivi, del grande movimento di pensiero e di azione che chiamiamo Risorgimento. Ma sono sufficienti a rendere evidente, pure all’interno di una polifonia di analisi e di proposte, la convergenza dell’umanesimo cristiano e di quello liberale, repubblicano, democratico nell’intessere, attraverso i fili già intrecciati da Dante e da Petrarca, la trama etico-politica della nuova patria comune. Ma si tratta anche di pensieri a volte travisati e certamente dimenticati. Sopratutto, letti nelle nostre scuole più con le lenti del dovere che con gli occhiali dell’attualità. Manzoni, i promessi italiani Alessandro Manzoni, «cantore operoso della civiltà italiana», profeta di quel ceto medio che diventerà nel tempo l’ossatura sociale della nazione, è il nome che più di altri ha resistito alla consunzione dell’oblio. Recenti ricerche sociologiche raccontano che persino per i giovani d’oggi il modello letterario prevalente di una storia d’amore restano I Promessi Sposi. Così come è sempre attuale l’amara e dolente critica al giustizialismo che urla dalle pagine della Colonna Infame. Eppure non si può dimenticare come il suo pensiero politico sia stato liquidato dalla storiografia del Novecento come quello di un «noioso conservatore» se non di un «bolso reazionario». Egli venne d’altra parte sospettato apertamente di «eresia» religiosa arrivando un passo da un processo canonico intentatogli dalle punte estreme di un cattolicesimo intransigente. Eppure sarà sopratutto attraverso Manzoni che si affermerà la concreta alfabetizzazione e unificazione linguistica (oltre che di sentimento nazionale) dell’Italia. Di più: la sua opera riuscirà nel miracolo di attenuare diversi motivi di conflitto storicamente ben evidenti al sorgere dell’Unità. Come quello di convincere i ceti possidenti e intellettuali, ammalati di retorica laicista, ad ammettere la tenace persistenza del vissuto cristiano e a non schedare più i cattolici come «eversori». E, sul versante opposto, a rimuovere il disprezzo per il «cencio massonico» con cui a lungo i padri gesuiti avevano salutato il Tricolore.


[RicostruireStato e nazione] ***** Ma, soprattutto ai più giovani, sarebbe opportuno ricordare alcune delle pagine meno conosciute di Manzoni: le sue riflessioni «sulle rivoluzioni». Mentre egli giudica «virtuosa e sensata» la rivoluzione americana, teme il contagio giacobino. E nella sua ultima opera, pubblicata postuma e incompiuta: (La rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione italiana del 1859. Osservazioni comparative) Manzoni, che accetta e riconosce il diritto dei popoli alla rivoluzione, si propone di descrivere la superiore «qualità» del Risorgimento nazionale, contrapposta agli errori e agli orrori seguiti all’Ottantanove francese che, da positivo sentimento di superamento del passato regime si trasforma nella pratica del «dominio», in una nuova tirannide scaturita dal gioco incrociato di folle agitate e di capi tesi solo al potere. E il «dispotismo» che ne deriva «non è, come la definiscono molti, l’eccesso della libertà:… ma il dispotismo della pessima specie, quello, cioè, dei facinorosi sugli uomini onesti e pacifici…». Con il risultato dei «gravi effetti» che segnano comunque la storia moderna, e cioè l’instabilità dei governi e la loro precaria durata e «l’oppressione del paese sotto il nome della libertà…». ***** Sono pagine che gli studenti possono ritenere figlie della penna di autori liberali moderni come Hannah Arendt. E sono pagine che se fossero state assunte nel profondo dalla politica italiana ne avrebbero forse modificato l’intima costituzione. Manca in Manzoni la spiegazione motivata del perché secondo lui la rivoluzione italiana andò immune da quei «gravi effetti» francesi. Ma fu fermato dalla morte nel 1873. O forse, ancor di più, dal doloroso silenzio nel quale si era rinchiuso dopo la lacerazione di Porta Pia e il conflitto armato con la Chiesa che deludeva le sue speranze unificanti di liberale e di cristiano. Per questo, lui da tempo senatore del Regno d’Italia, si rifiutò sempre di partecipare alle sedute convocate a Roma, nella nuova capitale. 12-13

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[FerdinandoAdornato] Cattaneo e Gioberti, due letture strumentali Ha scritto Giovanni Spadolini: «Cattaneo fu uno dei pochi pensatori italiani solitari del Risorgimento. Per l’educazione, la cultura e il gusto, sembrò quasi contraddire l’epoca sua. Alieno da ogni forma di indulgenza o di concessione alle preferenze e agli umori dei contemporanei, il suo messaggio poté essere compreso soltanto dopo la sua morte e la sua parola è più attuale oggi di un secolo e mezzo fa». Tuttavia, non si può non ricordare come anche l’attualità di Cattaneo sia stata deformata. Si è sottolineato il suo spirito lombardo, mentre fu un grande italiano. Si sono riproposte le sue pagine ma in maniera parziale. Alla luce dell’«uso politico» fatto del suo pensiero negli ultimi anni, la lettura delle sue pagine è stupefacente perché - lo si può dire senza mezzi termini - è una lettura anti-leghista, nazionale ed europeista. Egli non è il sostenitore di un federalismo divisorio delle piccole patrie, ma semmai l’alfiere di una visione kantiana della pace perpetua e di una modernizzante profetica apertura all’Europa: «Non ci sarà pace fino a che non avremo gli Stati Uniti d’Europa». ***** Così come appare ingiusta l’etichetta di neo-guelfo che, spesso in modo dispregiativo, è stata riservata a Vincenzo Gioberti. Il fatto è che, nella sua parabola dal Primato al Rinnovamento, egli preferisce contraddire se stesso pur di non contraddire lo scopo della sua opera. Contraddicendo se stesso, rifiutando cioè le speranze e le utopie che aveva coltivato e suscitato fra il 1843 e il 1848, intuendo lo spirito dell’epoca e soprattutto alieno da ogni ambizione personale, lui guelfo indicherà infatti la strada dell’indipendenza e dell’unità intorno a un programma liberale e riformatore. Fu una evoluzione talmente radicale che Gramsci lo chiamerà «giacobino». Era federalista e divenne unitario, era moderato e divenne rivoluzionario, era conservatore e divenne democratico: la dialettica di Gioberti acconsentiva a ogni cambiamento pur di raggiungere il fine dell’Italia unita. Ancora una volta lo capì Giovanni Spadolini: «Il paradosso dell’Ottocento italiano si rispecchia perfettamente nello scrittore torinese, che dalla fantasia del Primato evolse fino al machiavellismo del Rinnovamento, che dall’universalismo teocratico concluse al patriottismo democratico, che dallo Stato guelfo gettò le fondamenta dello Stato moderno, che, cattolico, tracciò la via del liberalismo. Restando, sempre, lo stesso: un «fanciullo sublime». Il paradigma Rosmini Il cattolicesimo liberale che, pur declinato sotto diverse angolazioni (come del resto è capitato anche ai Padri della rivoluzione americana) è la vera colonna sonora del


[RicostruireStato e nazione] Risorgimento italiano, appare nella forma più coerente nel pensiero di Antonio Rosmini. I concetti di persona, libertà e proprietà diventano i pilastri portanti della convivenza civile e dello Stato liberale. Leggiamo nella sua Filosofia del diritto: «Le persone sono principio e fine dello Stato. Sono esse che costituiscono, che assegnano lo scopo e i limiti, per cui lo Stato e tutti gli organi statali sono dei semplici mezzi per le persone che ne sono realmente il fine». Leggiamo nella Filosofia della politica: «La ragione di tutti gli avvenimenti sociali si trova nell’uomo. Tutto ciò che nasce nelle nazioni sopra una scala più grande e con altre proporzioni, preesiste in germe nella mente degli individui che la compongono». In nome della persona della libertà, della dignità e della responsabilità di ogni uomo e ogni donna Rosmini combatte con forza ogni statalismo: «Calcolandosi gli uomini unicamente per quello che sono utili allo Stato, e nulla in se stessi, essi vengono abbassati alla condizione di cose e privati del carattere di persone… per noi l’uomo non è solo cittadino». Rosmini ha un concetto sacro anche della proprietà e ciò gli consentirà di non cadere vittima dei sogni, poi diventati incubi, di palingenesi sociale: «La proprietà costituisce una sfera intorno alla persona, di cui la persona è il centro: nella qual sfera niun altro può entrare». Fa piacere infine ricordare la grande modernità del pensiero di Rosmini sul tema della libertà d’insegnamento: «I padri di famiglia hanno dalla natura e non dalla legge civile il diritto di scegliere per maestri ed educatori della loro prole quelle persone nelle quali ripongono maggior confidenza. Questo diritto generale contiene i diritti speciali seguenti: 1) Di far educare i loro figli in patria o fuori, in scuole ufficiali o non ufficiali, pubbliche o private, come stimano meglio al bene della loro prole; 2) Di stipendiare appositamente quelle persone nelle quali essi credono di trovare maggiore probità, scienza e idoneità; 3) Di associarsi ad altri padri di famiglia, istituendo insieme scuole dove mandare i loro figli». Riflessioni di grande attualità. Ma insisto: non dico quanti liceali, ma quanti studenti di scienze politiche o quanti aspiranti politici, sono stati mai indotti a frequentare il pensiero di Antonio Rosmini? La lettera di Ricasoli a Pio IX All’interno di questa rapsodica visita ad alcuni siti (purtroppo archeologici) del Risorgimento, mi sembra utile dar conto dell’indirizzo che il successore di Cavour, Bettino Ricasoli, inviò a Pio IX nel settembre del 1861. Perché dimostra come il rivoluzionario aristocratico fiorentino, influenzato dal cattolicesimo liberale di Lambruschini e Capponi, concepisse il compimento della rivoluzione nazionale come una «riforma religiosa su base civile». Così scriveva al Pontefice: «Reputo 14-15

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[FerdinandoAdornato] doveroso sottomettere alla Santità Vostra le considerazioni per le quali la conciliazione fra la Santa Sede e la Nazione italiana deve essere non pure possibile, ma utilissima… Questa conciliazione … sarebbe impossibile… se per ciò fosse d’uopo che la Chiesa rinunziasse ad alcuno di quei principii o di quei diritti che appartengono al deposito della fede ed alla istituzione immortale dell’Uomo-Dio… Come la Chiesa non può per suo istituto avversare le oneste civili libertà, così non può non essere amica dello svolgimento delle nazionalità… Il concetto cristiano del potere sociale siccome non comporta la oppressione da individuo a individuo, così non la comporta da nazione a nazione… Gli Italiani pertanto, rivendicando i loro diritti di nazione e costituendosi in regno, non hanno contravvenuto ad alcun principio religioso e civile… Intanto questo deplorabile conflitto arreca le più tristi conseguenze non meno per l’Italia che per la Chiesa… La La vera “revisione” Chiesa ha bisogno di essere libera e noi le renderemo intera la sua del Risorgimento libertà… ma per essere libera è necessario che ella si sciolga dai lacci consiste nell’andare della politica pei quali finora ella fu strumento contro di noi in mano oltre le barricate di Porta or dell’uno or dell’altro dei potentati… Se volete essere maggiore dei Pia per ricostruire re della terra, spogliatevi delle miserie del regno che vi agguaglia a la natura unitaria, loro. L’Italia Vi darà sede sicura, libertà intera, grandezza nuova, Ella cattolica e liberale venera il pontefice, ma non potrebbe arrestarsi innanzi al principe: della nazione italiana. ella vuol rimanere cattolica, ma vuol essere libera ed indipendente nazione». È questo il più grande ***** non-detto che ancora Una lettera splendida, lampante dimostrazione di quanto l’ideale oggi pesa sulla nostra della nazione fosse l’espressione comune del pensiero cristiano e di vita pubblica quello liberale. La «democrazia religiosa» di Mazzini Ma una delle letture più forzate del Risorgimento è quella che riguarda il pensiero di Giuseppe Mazzini, il quale è stato oggetto di una vulgata semplificatoria, sia di parte cattolica che di parte laica, che lo ha trasformato in una sorta di laicista antelitteram. Non c’è qui il tempo di ripercorrerne l’opera ma basterà far riferimento agli «articoli inglesi» che compongono i suoi Pensieri sulla democrazia in Europa e che sono tra le più limpide sintesi dell’intera sua filosofia politica. Cito: «A fondamento di qualunque questione politica il popolo avverte almeno un appello al suo spirito, - l’applicazione bene o male concepita di un principio - una garanzia della sua missione - sulla terra - qualcuno che gli dia la propria consapevolezza, e sollevi


[RicostruireStato e nazione] la sua dignità violata. Il popolo sente nel cuore meglio di tutte le piccole false intelligenze dell’oggi, che, purché ottenga un angolo nel territorio dello spirito, tutto il resto gli sarà dato. Il popolo avvertirà questo sempre più, e finirà per comprendere che ogni grande trasformazione sociale non è stata e non sarà mai se non l’applicazione di un principio religioso, di uno sviluppo morale, di una forte e attiva fede comune. Il giorno in cui la Democrazia avrà la forza di un partito religioso, avrà la vittoria: non prima». Un’ennesima testimonianza della grande vicinanza tra diversi pensatori del nostro Risorgimento (Manzoni, Cattaneo, Rosmini, Ricasoli, Mazzini) e la filosofia pubblica affermata negli Stati Uniti d’America. Molto minori sono invece le sintonie con il giacobinismo della rivoluzione francese. Aspetto sul quale il Novecento non ha riflettuto con la dovuta attenzione.

Una delle letture più forzate del Risorgimento riguarda Mazzini, il quale è stato oggetto di una vulgata semplificatoria, sia cattolica che laica, che lo ha trasformato in un laicista ante-litteram Del resto già molto tempo prima Giacomo Leopardi aveva severamente bocciato Parigi: «È veramente compassionevole vedere come quei legislatori francesi repubblicani credevano di conservare, e assicurar la durata, e seguir l’andamento, la natura e lo scopo della rivoluzione, col ridurre tutto alla pura ragione, e pretendere per la prima volta ab orbe condito, di geometrizzare tutta la vita. Cosa non solamente lagrimevole in tutti i casi se riuscisse, e perciò stolta a desiderare, ma impossibile a riuscire anche in questi tempi matematici perché contraria alla natura dell’uomo e del mondo». Ecco perché la breccia di Porta Pia è stata insieme la vittoriosa conclusione del Risorgimento ma anche una significativa restrizione del suo impianto etico-politico. Ha permesso che finalmente si facesse l’Italia ma, nello scontro tra Chiesa e Stato, ha finito per smarrire quell’idea di religione civile o di «democrazia religiosa», per stare a Mazzini, che era stata una delle anime unificanti del Risorgimento ritenendo, appunto, lo Stato solo il mero strumento di un fine più alto: il compimento della nazione. Ha scritto Federico Chabod: «Quali che fossero le differenze fra Mazzini e Cattaneo o tra Mazzini e Cavour, c’era in tutti il senso oltre che dell’individualità (la Nazione), dell’universalità (l’umanità, più precisamente ancora l’Europa): di guisa che l’espandersi dell’individualità trovava un suo naturale immediato 16-17

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[FerdinandoAdornato] limite nell’interesse degli altri e in quello generale dell’Europa». Eppure tale individualità non era riuscita a compiersi del tutto. Una nazione senza Stato si era trasformata in uno Stato senza nazione. L’Italia era stata fatta ma mancavano ancora gli italiani. C’era dunque una missione ulteriore da intraprendere per completare la storia. Le menti più avvertite già allora lo avevano compreso. Ma se siamo qui a discuterne vuol dire che il lavoro non è stato concluso. La particolare dinamica della fondazione dello Stato unitario, come una spada affilata, recise il nodo di Gordio che univa il liberalismo e il cristianesimo italiano. Tutto sarebbe di lì a poco cambiato. Il primo finì progressivamente per tradire i principii fondativi, Locke e Kant, riducendosi a diventare l’ideologia delle egoiste élite possidenti del Nord e ad assumere, via via, connotazioni anticlericali. Ciò che segnò nella storia una drammatica contraffazione italiana delle idee liberali. Il secondo fu costretto negli angusti confini del non expedit e, nonostante le folgorante intuizioni di Sturzo, dovette attraversare il deserto della dittatura, per riannodare i fili di una presenza politica all’altezza della grande storia della cultura politica cristiana. Dal Risorgimento alla Resistenza Come era inevitabile, ma come non era nel pensiero dei Padri risorgimentali, il mito dello Stato, da Crispi a Giolitti, assunse l’assoluta primazia nel discorso pubblico italiano. Quello della nazione, invece, fu costretto a scorrere, emarginato, nel sottosuolo. Non c’e dunque da stupirsi se proprio esso, dopo la tragedia della Grande Guerra, venisse fatto esplodere «contro lo Stato» in nome di nuove mitologie rivoluzionarie e dietro l’apparente verità del «Risorgimento tradito». Sarebbe cieco non rilevare che, con il fascismo, molti italiani al Sud come al Nord, sentirono per la prima volta realizzata l’unità della nazione. E non si finirà di ringraziare Renzo De Felice per i suoi studi. In ogni caso ben presto la storia impose agli italiani di accorgersi che il mito della «Grande Proletaria», anticapitalista, antiebraica, antiamericana, negava alla radice l’umanesimo che aveva fondato lo spirito nazionale italiano, che il «nazionalismo» stava alla «nazione» come il terremoto alla terra, che infine non può esistere «nazione» laddove non esiste «libertà». Anche dopo l’esperienza fascista, la storia italiana apparve segnata dall’eterno ritorno della mancata integrazione tra Stato e nazione. Non per nulla l’otto settembre divenne la metafora del crollo radicale di ogni regola, valore, senso di appartenenza a una medesima comunità istituzionale e morale. Non era la prima, non sarebbe stata l’ultima volta. Corsi e ricorsi storici raccontano di un Paese nel quale Regole e


[RicostruireStato e nazione]

Negli anni Cinquanta il pensare positivo si diffuse come un contagio. Ed ebbe la meglio. Lo spirito italiano, anche quando espresso con candida furbizia, sentiva che nessun ostacolo era impossibile da superare se il nostro genio, la nostra fantasia, perfino la sregolatezza della nostra arte di arrangiarsi, venivano messi al servizio della solidarietà comunitaria e sottratti al corporativismo, all’egoismo, alla diffidenza sociale.

Valori difficilmente riescono a trovare piena conciliazione, radicandosi in un compiuto senso di appartenenza nazionale. E anche ciò che appare conquistato per sempre è soggetto a repentini tramonti. Ma arrivò il «decennio dell’eccezione». Prima il tempo della Resistenza, poi quello della Ricostruzione, segnarono una vera «rottura epistemologica» con l’intera storia precedente. Ciò che suggerì a una parte della nostra cultura politica e storiografica di battezzare la Resistenza come «secondo Risorgimento». Si è molto discusso della giustezza di questa definizione. A me pare abbastanza indovinata alla condizione di riconoscerne, esattamente come per il primo Risorgimento, sia le luci che le ombre. Come alla fine dell’Ottocento gli italiani in armi (anche se in questo caso con il decisivo aiuto americano) conquistarono la loro libertà ed edificarono ex-novo il loro Stato. Ma, proprio come alla fine dell’Ottocento, non riuscirono neanche allora a creare i presupposti di una nazione, di una comunità dai valori condivisi. E non fu senza significato che la Resistenza si rivelasse come un esclusivo fenomeno nordista. Già nel Cnl le divisioni ideologiche, che avrebbero poi dominato l’era della guerra fredda, cominciarono a scandire l’alfabeto della loro alterità. Tanto che la nostra Costituzione, com’è da tutti riconosciuto, fu un abilissimo, lucido e geniale compromesso tra valori e culture politiche alternative. La forza dei Padri costituenti fu quella di condividere un grande senso dello Stato, ciò che permise loro di privilegiare sempre il dialogo allo scontro, la mediazione alla contrapposizione, la capacità di cercare soluzioni alla vanità dell’esibizione retorica. Ed è ciò che ancora oggi ci permette di guardare alla Carta come a un grande modello di etica pubblica. La loro obiettiva debolezza era invece quella di rappresentare forze politiche che, una volta sottoscritte le comuni regole, si preparavano a dar voce a valori e filosofie opposte, quasi si trattasse di «due nazioni diverse». Ancora una volta si delineava, dunque, lo scenario di uno Stato senza nazione. Con una sola, assai significativa 18-19

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[FerdinandoAdornato] eccezione: il senso dello Stato che i Padri costituenti indicarono con il loro lavoro, e che fu la vera grande forza della Prima Repubblica, costituiva comunque, al di là delle diversità ideologiche, uno dei valori fondanti di quello spirito della nazione italiana che Dante e Petrarca avevano cantato attraverso la ribellione ai particolarismi e agli odi civili. Il tempo magico della ricostruzione Ci fu però un tempo nel quale l’integrazione tra Stato e nazione sembrò finalmente compiersi: il tempo della Ricostruzione. E, ciò che conforta la nostra tesi di fondo, fu il primo momento storico dall’unità d’Italia in poi a essere guidato dalla stretta, attiva collaborazione tra due grandi esponenti del pensiero cristiano e di quello liberale: Alcide De Gasperi e Luigi Einaudi. Senza dimenticare la lezione di Luigi Sturzo. Tornò a risuonare il valore del primato della persona, l’etica della responsabilità e le virtù del civismo repubblicano diventarono un dover essere, l’economia sociale di mercato fu la stella polare di un nuovo paradigma politico. Il tutto in una società nuovamente operosa, nella quale migliaia di Renzi e di Lucie costruirono, facendo leva sulla famiglia, quel sistema di piccole e medie imprese, che sarebbe stato il volano del boom degli anni Sessanta. Non che mancassero, ovviamente, disagi, disperazione, criminalità aggressive. Ma negli anni Cinquanta il pensare positivo si diffuse come un contagio. Ed ebbe la meglio. Lo spirito italiano, anche quando espresso con candida furbizia, sentiva che nessun ostacolo era impossibile da superare se il nostro genio, la nostra fantasia, perfino la sregolatezza della nostra arte di arrangiarsi, venivano messi al servizio della solidarietà comunitaria e sottratti al corporativismo, all’egoismo, alla diffidenza sociale. L’immaginario collettivo, ben disegnato anche dal nostro cinema, era fortemente orientato al bene comune. Non ci fu periodo della nostra storia nel quale lo spirito italiano somigliò di più a quello americano. La nazione si sentiva Stato. E lo Stato al servizio della nazione. Ma il tempo della Ricostruzione fu un lampo. Già alla fine degli anni Cinquanta maturarono avvenimenti che avrebbero cambiato il clima e il volto del Paese. Nel passaggio da De Gasperi a Fanfani lo Stato si impegnò in una svolta dirigista, mostrando le stigmate di quella che sarebbe poi diventata la soffocante pervasività della politica rispetto alla società, economica e civile. D’altro canto le campane della guerra fredda già stavano suonando la morte dell’unità nazionale. Le «due nazioni», alternative sul piano interno come su quello internazionale, cominciavano a contendersi, palmo a palmo, le roccaforti dello Stato-padrone. Mai però, come detto, venne meno da parte dei


[RicostruireStato e nazione] duellanti quel comune senso dello Stato che aveva forgiato il compromesso repubblicano. La Costituzione aveva delineato un equilibrio capace di reggere anche gli urti della storia successiva. Il Parlamento era stato infatti pensato, con preveggenza, come camera di compensazione, luogo sovrano della composizione dei conflitti. Una sorta di permanente Assemblea costituente nella quale ciascuna forza poteva sentirsi «proprietaria» della cosa pubblica. L’esecutivo era d’altra parte diretta espressione della volontà delle Camere e intorno, a corolla, stavano le diverse magistrature, ivi compresa la Presidenza della Repubblica, a garanzia dell’intero impianto sistemico.

Nel passaggio da De Gasperi a Fanfani lo Stato s’impegnò in una svolta dirigista, mostrando le stigmate di quella che sarebbe poi diventata la soffocante pervasività della politica sulla società

Uno Stato, due nazioni Si affermò così, pur nella guerra fredda, una sorta di «patriottismo costituzionale» dove però la parola-chiave era Costituzione. Fuori dalla Carta, infatti, nella cultura e nella società, la parola patria e anche la parola nazione vennero lasciate in gestione alla destra (che era però fuori dal cosiddetto «arco costituzionale») preferendo la sinistra coltivare la tragica utopia dell’internazionalismo proletario e astenendosi la cultura cristiana (e i residui di quella liberale) dal rivendicare valori, sia pur a essa familiari, che potessero però far nascere qualsiasi sospetto su possibili «deviazioni» di destra. Persino il tricolore, manifestazioni istituzionali e ufficiali a parte, era meglio non circolasse, se non nelle piazze di destra. Come se nominare l’Italia come soggetto storico-morale significasse evocare un’entità atta a turbare il compromesso costituzionale sul quale si reggeva il sistema. Così, dagli anni Sessanta in poi, l’Italia tornò con tutta evidenza a manifestarsi come uno Stato senza nazione. Anzi, per essere più precisi, uno Stato con «due nazioni». Una democrazia vincolata dal dettato costituzionale, ma sostanzialmente orfana di un’identità etico-politica condivisa, perché fratturata in due distinte «comunità di valori»; separate non solo dal bipolarismo mondiale tra Usa e Urss ma anche da miti, sentimenti, letture, modelli di vita. Ciascuna riteneva di essere la right nation ed era pronta a combattere l’altra come wrong. Con una sola differenza di grande rilievo tra le due. Non potendo accedere al governo, la «nazione comunista» riteneva decisivo permeare della propria Weltanshaung cultura, edito20-21

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[FerdinandoAdornato] ria, informazione, università, scuole. La «nazione democristiana», viceversa, forse allo scopo di apparire a tutti gli effetti un mondo laico, preferì contenere le agenzie culturali cristiane in recinti autoreferenziali, in una sorta di collateralismo silenzioso, imitando in questo il metodo ecclesiale; ciò che determinò una più facile espansione dell’egemonia del gramscismo e del gobettismo e, all’interno dell’area cattolica, del dossettismo. Il cattolicesimo liberale che pure era stato il leitmotiv della ricostruzione italiana, cedette presto il timone al cattolicesimo sociale che trovava più di

una contiguità con il pensiero marxista. Un fenomeno questo che non mancherà di aver il suo peso al momento del passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica. Ma, come era già stato ampiamente dimostrato dal «pensiero italiano» che ci aveva condotto al Risorgimento, ogni Stato assume vero senso storico solo come strumento di una nazione. Nessuno Stato, viceversa, anche il migliore, può reggere a lungo senza un costante riferimento alla sua missione, alla sua constituency come nazione. Così era inevitabile che se in Italia si confrontavano due nazioni, ben presto ci si sarebbe trovati di fronte anche a due Stati. Dalla teoria del «doppio Stato» a Tangentopoli Non il valore dell’antifascismo (sacro in sé) ma l’ideologia che su di esso prima la doppiezza della sinistra parlamentare e poi l’arroganza di quella post-sessantottina avevano costruito, cominciò lentamente ma, inesorabilmente, a corrodere anche il patto istituzionale siglato dopo la Liberazione. Non senza efficacia la politologia l’ha appunto chiamata teoria del «doppio Stato». Accanto, dentro e «sopra» le istituzioni della Repubblica si era formato un «potere parallelo» che, attraverso una strategia della tensione, vere e proprie stragi, reti segrete di protezione, corruzione, collusioni mafiose, insomma un complotto permanente, costituiva il reale governo del Paese. Cresciuta nelle fumose elucubrazioni della sinistra antagonista, questa teoria


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ha finito, lentamente, per conquistare sempre più diffusi spazi nella politica e nei media, fino a favorire una vera e propria «storiografia alternativa» che legge la storia italiana come un unico grande filo rosso che dalla «Residenza tradita» porta fino a Tangentopoli. Non a caso l’inchiesta «Mani Pulite» è diventata per molti il baluardo di una «nuova resistenza» contro il doppio Stato. Già negli anni Settanta, il patto istituzionale che teneva comunque unite le «due nazioni» cominciò a perdere la sua forza propulsiva. Aldo Moro lo aveva intuito. Il leader dc fu uno dei pochi politici italiani a capire che i movimenti del’ 68 avevano creato una rottura profonda nel rapporto tra potere e popolo e che era arrivato il momento di aprire una nuova fase, forse anche costituzionale, nella storia della Repubblica. Ma aveva così tanta ragione che le Br scelsero proprio lui come capro espiatorio del fantomatico «doppio Stato». La ricerca di Moro restò poi inevasa. E, ovviamente, stagione dopo stagione la crisi dello Stato, degli strumenti della sua rappresentanza e dei suoi meccanismi decisionali, si fece sempre più evidente. Eppure ogni tentativo di riformare con razionalità l’architettura del rapporto tra potere e popolo è rimasta, negli ultimi trent’anni, una pia illusione. Nonostante si siano impegnate le leadership dei principali partiti e siano state messe in campo tutte le possibili iniziative parlamentari. Infine, l’anarchia nella quale si consumò il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica travolse ogni pensiero. E quindi ogni speranza. Paradigmatico fu il modo con il quale la sinistra reagì alle vicende di Tangentopoli che, per calcolo o per errore, finirono per riguardare solo Dc e Psi: si avvertiva più l’ansia di gettare veleno addosso al «nemico», di allontanare da sé ogni sospetto di 22-23

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[FerdinandoAdornato] collusione, semmai di «approfittare» dell’aiuto togato del destino, che la volontà di farsi carico con senso di responsabilità a una grave crisi nazionale e istituzionale. Chiudendo l’era della Prima Repubblica, Tangentopoli portò nella tomba, oltre che qualsiasi simulacro di valori nazionali condivisi, anche quel comune senso dello Stato che pure, fino ad allora, aveva caratterizzato anche i momenti più duri di scontro. Se il sistema che aveva saputo reagire alle Brigate Rosse e all’assassinio di Moro, crollò di fronte alle inchieste della Procura di Milano, era segno che qualcosa di profondo si era spezzato. Il rapporto tra potere e popolo, già incrinato da decenni, era esploso di fronte alla paralisi riformista. Il vecchio equilibrio politico costituzionale era ormai del tutto saltato. Alla fine fu chiaro a tutti: se non altro per l’estinzione dei suoi storici protagonisti. Crisi dello Stato e crisi della nazione si intrecciarono così in un convulso passaggio d’epoca che spinse l’Italia degli anni Novanta a un passo dal baratro. Sistema della rappresentanza e meccanismi della decisione totalmente azzerati, leadership politiche travolte, unità nazionale minacciata, assetto istituzionale sclerotizzato. Tutto avrebbe consigliato di ritornare sui passi della storia e di formare un nuovo clima costituente. In fondo, se Seconda Repubblica doveva essere, sarebbe stato opportuno convocare una seconda Costituente. Più di uno provò a proporlo. Ma era chiedere troppo a un Paese sostanzialmente caduto nell’anarchia. L’inganno del bipolarismo Bipolarismo. È stata questa la parola magica con la quale noi italiani abbiamo pensato di risolvere ogni problema. Come se la costruzione di contenitori sistemici simili a quelli di tutte le altre democrazie occidentali, avesse potuto sciogliere d’incanto anche ogni problema di contenuto. È avvenuto il contrario: i nodi si sono aggrovigliati ancora di più. La crisi dello Stato non si è risolta. Nuove diverse leggi elettorali, elezione diretta di sindaci e governatori, spezzoni incompiuti e contraddittori di federalismo, mutamenti costituzionali gestiti «a maggioranza» in modo autoreferenziale e ripetutamente bocciati, presidenzialismo virtuale. Finora niente di più. Il tutto condito da un perenne, irrisolto conflitto con la magistratura e dall’apertura di improvvisi squarci di guerra tra «eletti dal popolo» e alte magistrature dello Stato, che avvelena i già complessi e logorati rapporti tra le istituzioni. Intanto il Parlamento si ritrova malinconicamente abbandonato nella sua marcia verso l’irrilevanza. Dovevamo cercare un nuovo, più moderno equilibrio tra i poteri che sostituisse il patto del ’47 effettivamente desueto. Abbiamo finito per creare più acuti squilibri, smarrendo ogni rapporto di funzionalità tra esecutivo e legislativo.

Ha scritto Giovanni Spadolini: «Cattaneo fu uno dei pochi pensatori italiani solitari del Risorgimento. Per l’educazione, la cultura e il gusto, sembrò quasi contraddire l’epoca sua. Alieno da ogni forma di indulgenza o di concessione alle preferenze e agli umori dei contemporanei, il suo messaggio poté essere compreso soltanto dopo la sua morte e la sua parola è più attuale oggi di un secolo e mezzo fa».


[RicostruireStato e nazione] Dovevamo trovare la strada per rendere più vicino al territorio l’esercizio del potere. Abbiamo finito per vivere in un clima di «secessione mentale» tra Nord e Sud che rischia di interrompere l’intero circuito di sussidiarietà del Paese. Dovevamo cercare nuove forme di rappresentanza, capaci di ricostruire il consunto rapporto tra popolo e partiti. Abbiamo finito per naufragare sempre più esplicitamente nelle oligarchie clientelari, recidendo ogni forma di controllo e di partecipazione popolare. Dovevamo cercare meccanismi di decisione più snelli e veloci. Abbiamo finito per dar vita a governi paralizzati da coalizioni multilaterali. Dovevamo cercare partiti più moderni e aperti. Abbiamo finito per rifugiarci in meri cartelli elettorali privi di chiare identità, poveri di valori, preda di guerre per bande e di conflitti per-

Il periodo della Ricostruzione è stato quello nel quale lo spirito italiano somigliò di più a quello americano. La nazione di sentiva Stato e lo Stato al servizio della nazione. Ma passò come un lampo sonalistici che accrescono il discredito sulla politica. Dovevamo cercare classi dirigenti più moderne, all’altezza delle sfide del XXI secolo. Abbiamo finito per rotolare in mezzo a nuove più arroganti incompetenze a volte segnate da incredibili disordini morali. Ma se lo Stato piange, lo spirito nazionale certo non sorride. Il 1989 aveva cancellato lo spartito sul quale le «due nazioni» avevano ispirato la musica dell’intero dopoguerra. Il comunismo era crollato. Grazie a Reagan, grazie a Wojtyla, grazie alla miseria di un’utopia impossibile. Il mondo libero aveva vinto. In Italia questo metteva in discussione anche il ruolo della «nazione vittoriosa» e la sua identità che, per troppo tempo, si era modellata solo «in negativo», come baluardo verso il Partito comunista. Bisognava modificare schemi di gioco e giocatori. Forse poteva essere l’occasione perché, finalmente, esaurita la missione di uno Stato diviso in «due nazioni», cominciasse una storia nuova nella quale tornare a sentirsi una sola comunità «d’arme, di lingua, d’altar». E proprio questo molti italiani speravano potesse essere l’esito del nuovo tornante storico segnato dal «bipolarismo». Ma, ancora una volta, è avvenuto il contrarioL’era del bipolarismo si è rivelata l’era del ritorno dei particolarismi personali, degli odii civili e delle lotte intestine come da tempo non si vedeva. L’Italia della Seconda Repubblica è tornata a essere, davvero, una «nave sanza nocchiero in gran tempesta». Nonostante la nascita di Alleanza nazionale avesse determinato la piena legittimazione dell’unica frangia politica rimasta fuori dal patto costituzionale rendendo quindi totalmente «compiu24-25

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ta» la democrazia italiana; nonostante persino un presidente della Camera di sinistra come Luciano Violante si fosse reso protagonista di parole di pacificazione nei confronti dei «ragazzi di Salò»; nonostante tutto questo, i primi quindici anni della Seconda Repubblica sono stati segnati dall’incredibile ritorno dell’antinomia fascismo-comunismo. Non nelle sedi della ricerca storica: ma nell’arena delle campagne elettorali! Gli anni del bipolarismo sono stati anni di «guerra civile virtuale». Economia, media, politica, giustizia: ogni avvenimento è stato triturato dentro una logica binaria antagonista. Berlusconiani e antiberlusconiani si sono combattuti a tutto campo, ciascuno rigettando sull’altro l’infamia della demonizzazione, ciascuno rivendicando per sé l’esclusiva della pacificazione. Eserciti scomposti e volgari hanno trasformato l’Italia in una sorta di Beirut dell’anima. Volevamo anticipare il futuro. La bipolare macchina del tempo ci ha ricondotto invece al Medioevo. L’attacco all’unità nazionale Lo spirito nazionale italiano, mentre il mondo intorno chiedeva il coraggio di «nuove visioni» è stato costretto ad avvitarsi in un roll-back, nelle gabbie mentali di un «passato» che non sapeva «passare». Persino l’ostilità verso il tricolore, per altri versi ampiamente superata anche grazie a Ciampi, è riemersa come motivo di con-

Bipolarismo. È stata questa la parola magica con la quale noi italiani abbiamo pensato di risolvere ogni problema. Come se la costruzione di contenitori sistemici simili a quelli di tutte le altre democrazie occidentali, avesse potuto sciogliere d’incanto anche ogni problema di contenuto .


[RicostruireStato e nazione] trasto politico. Non più da parte della sinistra in nome dell’internazionalismo, ma dalla Lega in nome delle piccole patrie. Un tempo per superare le frontiere, oggi per formarne di più ristrette, in ogni caso l’intimidazione contro il simbolo della patria torna a delegittimare la nostra unità. Come se non bastasse il derby Berlusconi sì, Berlusconi no, la Lega tenta di riproporre lo schema delle «due nazioni» anche in chiave geografica: la nazione del Nord contro quella del Sud. Il modello politico, culturale, linguistico proposto dal Carroccio muove le contestazioni all’«essere meridionale» coinvolgendo antropologia, psicologia, modelli di vita. Esattamente come avveniva ai tempi di Peppone e Don Camillo. Solo che allora esisteva un patto istituzionale a tenere insieme quei due popoli. Oggi se passasse la divisione tra nazione del Nord e nazione del Sud, ciò avverrebbe in un quadro di disgregazione istituzionale tale da rendere inevitabile il passaggio dalla «secessione mentale» alla «secessione reale». Centocinquanta anni dopo, l’unità d’Italia è a rischio. Non solo l’unità. Ma anche l’identità. La Lega inocula infatti, in tutto il discorso pubblico, il veleno del corporativismo, dell’egoismo, dell’utilitarismo: sono questi i concetti dominanti del suo impianto politico. Quale che sia la fede religiosa professata dai leghisti, la loro ideologia si colloca su un versante antagonista all’ispirazione cristiana e liberale che ha segnato il formarsi dell’Italia come nazione. Si tratta di una sorta di «socialismo della terra e del sangue» che detesta, e spesso irride, ogni sorta di umanesimo. I Padri del nostro pensiero risorgimentale, da Cattaneo a Mazzini, sognavano un’Italia aperta, generosa, una nazione democratica europea. La Lega sogna piccole patrie autosufficienti e usa il progetto federalista come grimaldello per rompere ciò che è unito, non per unire ciò che è diviso. L’autarchia localistica contro il cosmopolitismo democratico: ecco la vera sfida lanciata all’identità italiana. Si tratta di un’ipoteca sul futuro. Il XXI secolo, infatti, non consente agli italiani alcuna chiusura né «interna», né «esterna». L’Italia non può diventare un Paese in guerra contro «tutti i Sud del mondo». Non solo perché i suoi valori nazionali, e quelli europei, glielo impediscono, ma anche perché lungo questa strada essa incontrerà solo declino, irrilevanza, povertà. La globalizzazione non si può arrestare, né si può esorcizzare. La si può solo governare. E per ciò che riguarda i fenomeni migratori non c’è dubbio che l’unica saggia governance è quella di favorire un’immigrazione di qualità che faccia fare un salto in avanti alla intelligenza della nostra produzione e della nostra ricerca. Non è saggio invece considerarla un reato, con il risultato di impaurire l’immigrazione di qualità e doversela vedere solo con i disperati che non hanno niente da perdere, neanche di fronte alla galera. 26-27

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Dovremmo piuttosto prendere atto che il modello americano è l’unico melting pot riuscito nel mondo. La forza delle regole di uno Stato giusto, unita ai valori irrinunciabili della nazione: questo il cocktail vincente di una «società aperta» che non mette in alternativa sicurezza e integrazione. Questa dovrebbe essere anche la filosofia di una nuova cittadinanza italiana. La Lega, dunque, non minaccia solo il nostro passato, ma anche il nostro futuro. Finora, come detto, solo la presidenza Ciampi è riuscita nell’impresa di tenere accesa, contro ogni regressione politica e civile della Seconda Repubblica, la fiaccola del senso dello Stato e dell’unità nazionale. E conforta vedere che Giorgio Napolitano si stia incamminando, a volte incompreso, lungo la stessa strada. Ma il Quirinale, anche volendo, nulla può fare contro il cattivo bipolarismo che consente a un partito che vuole rompere l’unità d’Italia e distruggerne l’identità, di stare al governo persino detenendone il coalition power. Perciò, se non si vuole fare solo esercizi retorici, la più grande vera iniziativa per celebrare l’unità d’Italia sarebbe quella di trovare la via per evitare che un partito antistatale e antinazionale con meno del 10% dei voti, comandi la politica italiana.

Il modello politico, culturale, linguistico proposto dal Carroccio muove le contestazioni all’«essere meridionale» coinvolgendo antropologia, psicologia, modelli di vita. Esattamente come avveniva ai tempi di Peppone e Don Camillo. Solo che allora esisteva un patto istituzionale a tenere insieme quei due popoli .


[RicostruireStato e nazione] Uno Stato e una nazione da ricostruire Vorrei sperare che queste analisi risultino viziate da un eccesso di pessimismo. Ma purtroppo non si può negare che quel che abbiamo sotto gli occhi è un Paese nel quale sia Stato che nazione sembrano ormai solo roboanti concetti, non più fattive realtà. Per secoli siamo stati una nazione senza Stato, per lunghi decenni uno Stato senza nazione. Ora sembra che stiamo facendo di tutto per rinunciare a entrambi. Tutti concordiamo sul fatto che gli italiani si trovino davanti alla necessità di un «doppio movimento»: ridisegnare la loro architettura istituzionale e, nel contempo, decifrare i valori capaci di rilegittimare il loro patto di convivenza. Una gigantesca opera di ricostruzione istituzionale, politica, culturale, morale. Un’opera da far tremare le vene dei polsi di qualsiasi classe dirigente si accinga a compierla. Ma il punto è: c’è oggi una tale classe dirigente? Le coordinate lungo le quali muoversi ci sono: le fornisce la nostra stessa storia. Esse sono rintracciabili nelle nostre biblioteche. Vivono nella L’autarchia memoria degli archivi come in quella dell’esperienza popolare. A localistica contro meno di non essere ormai totalmente soggiogati da talk show, sondaggi e gossip, i nostri padri ci hanno messo in condizione di il cosmopolitismo sapere di cosa parliamo quando diciamo Italia. Parliamo di una democratico: nazione fondata sul primato della persona. Sulla sua nobiltà (quel ecco la vera sfida «cuore gentile» solo dal quale nascono amicizia e amore) e sulla lanciata all’identità sua insopprimibile libertà e dignità. Parliamo di una comunità italiana dalla Lega. che si è voluta fondare in contrasto con i partigiani della faziosità Niente di più lontano e dell’odio civile, e di uno Stato che si è voluto costruire contro dalle idee dei Padri ogni particolarismo campanilistico e contro ogni dispotismo personale. Parliamo di un popolo operoso di famiglie, nel quale il del Risorgimento 28-29

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[FerdinandoAdornato] Scriveva Giacomo Leopardi: «Il presente progresso della civiltà è ancora un risorgimento; consiste ancora in gran parte nel recuperare il perduto».

cristianesimo si è modellato tanto su Benedetto, creando le condizioni del libero mercato e del capitalismo, quanto su Francesco, generando il carisma della solidarietà e del volontariato. Parliamo di una storia che, da Roma al Risorgimento, ha sempre pensato il mondo come suo palcoscenico e l’Europa come sua seconda patria. Parliamo di una cultura che ha informato di sé la civiltà occidentale e mediterranea sempre in modo aperto, generoso, cosmopolita. Parliamo però anche di una comunità volubile, fragile, capace di contraddire se stessa con grande facilità. Una comunità camaleontica, capace di adattare la sua morfologia al paesaggio nel quale si trova a vivere. Abituato, com’è stato costretto dalla storia, a dover sopravvivere sotto gioghi stranieri, lo spirito italiano ha mantenuto come sua speciale abilità la mimesi, sorella di una istintiva diffidenza verso il potere. Perciò in Italia dare l’«esempio» è da sempre ritenuto assai importante. Perché il nostro popolo si adatta al paesaggio. Perciò in Italia si è sempre dovuto combattere «per l’Italia». Perciò da noi, da Dante a Manzoni, da Gramsci a Croce, le riflessioni sulle attitudini delle «classi dirigenti» hanno sempre avuto grande rilevanza. Così è ancora oggi, perché purtroppo non sembra di intraveder all’orizzonte classi dirigenti capaci di risollevare l’Italia, come Stato e come nazione. Scriveva Giacomo Leopardi: «Il presente progresso della civiltà è ancora un risorgimento; consiste ancora in gran parte nel recuperare il perduto». Una considerazione che si adatta alla perfezione alla nostra attualità, perché davanti a noi c’è un nuovo risorgimento cui dar vita. Ma per realizzarlo occorre innanzitutto recuperare ciò che abbiamo perduto. Ecco allora il compito della nostra generazione, 150 anni dopo l’unità: creare una classe dirigente che sappia riannodare nelle proprie mani il grande filo rosso della storia d’Italia. Il filo che, al di là dei punti di partenza, unisce Gioberti, Mazzini, De Gasperi, Einaudi, Sturzo, La Malfa, Ciampi intorno a una grande priorità: saper mettere il senso dello Stato e l’amore per l’unità nazionale sopra ogni altra cosa, anche sopra le proprie idee. È il filo dell’umanesimo cristiano e liberale, vera colonna sonora della nostra unità. Proprio come accadde nel corso del Risorgimento, l’Italia di oggi avrebbe bisogno che tutte le correnti politiche che si riconoscono in questa storia, a qualsiasi titolo esse siano attive nel cattivo bipolarismo di oggi, si unissero in un grande patto. Lo si chiami come si vuole: alleanza, coalizione, partito. Importante è concordare sui due grandi, difficili, obiettivi da raggiungere: la ricostruzione dello Stato, la rinascita della nazione.



Gli INTERVENTI GIORGIO LA MALFA ENRICO CISNETTO STEFANO FOLLI SANDRO BONDI FRANCESCO CASAVOLA GENNARO MALGIERI BIAGIO DE GIOVANNI FRANCESCO D’ONOFRIO PIETRO ALBERTO CAPOTOSTI FRANCESCO RUTELLI


OCCORRE RESTITUIRE ALLE FORZE POLITICHE LA LORO FUNZIONE

Il partito mancante ✵

Giorgio La Malfa ✵

L

A RIFLESSIONE DI FERDINANDO ADORNATO ha il pregio di mettere come premes-

sa al nostro dibattito politico di oggi un materiale ricco di riferimenti storici e culturali. La tesi di fondo di Adornato è che molte delle difficoltà politiche dell’Italia di oggi sono conseguenza di una contraddizione di fondo che risale al momento della formazione dello Stato unitario nel Risorgimento. Dice Adornato che la nazione italiana esisteva da secoli, pur nella molteplicità delle forme politiche della penisola, ma che il Risorgimento nel far nascere lo Stato italiano fece scomparire l’idea e il sentimento di nazione. È una tesi suggestiva, che coglie un problema effettivo - l’esclusione di una parte del Paese, egli pensa ovviamente ai cattolici, dalla costruzione dello Stato - ma essa ha tuttavia un limite. Adornato nella sua relazione non si sofferma sul problema del fascismo, sul ruolo che esso ha avuto nella mancata unione italiana di Stato e nazione. Perché, se è vero che all’atto della creazione dello Stato unitario, una parte del Paese si sentì estranea, nei decenni successivi la frattura si stava sanando. La divisione tra laici e cattolici, considerata tra le prime cause del mancato processo di unione, infatti, si stava risolvendo: i cattolici che non partecipano alla vita parlamentare prima dell’inizio del secolo, decidono poi di entrare in Parlamento, così i repubblicani, pur dividendosi sulla pregiudiziale monarchica, e anche i socialisti di Bissolati. Le grandi forze estranee al Risorgimento si preparano a partecipare alla vita parlamentare aiutati anche dalla legge elettorale. Che cosa ha fermato questo processo? Il trauma della grande guerra che rovescia un peso difficile a portarsi sulle spalle del «giovane» Stato unitario e poi il fascismo che deve essere considerato in larga parte come una conseguenza del 32-33

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[GiorgioLa Malfa] trauma della guerra. Grave responsabilità del fascismo è stata rendere impresentabile per 50 anni dopo la sua caduta la parola «patriottismo». Nessuno di noi - neppure i mazziniani - osavano nel dopoguerra pronunciare la parola patria, io stesso esitavo a usarla. Se gli inglesi e gli americani sostengono il principio my country right or wrong, ciò vuol dire che, anche se i governi possono sbagliare, il paese viene difeso, il sentimento di nazione c’è, così come il diritto a giudicare - right or wrong. Questo principio in Italia non c’è, non l’abbiamo potuto usare perché la parola «Italia» è stata danneggiata da quel ventennio di nazionalismo inutile. Dobbiamo ragionare su questi aspetti per riconoscere che nel dopoguerra si è cercato di ricostruire, attraverso la Costituzione, un sentimento di unità. Detto questo per completare l’analisi storica, vi è da dire che l’osservazione di Adornato sulla scissione fra Stato e nazione nella società italiana di oggi coglie nel segno. È uno dei problemi di fondo del paese. È forse la questione centrale sulla quale riflettere e impegnarsi. A questo proposito si pone una domanda precisa: da dove si deve partire per ricostruire l’unità fra lo Stato e la nazione? Ci sono due vie: una è la via istituzionale, l’altra è la via politica. Sono molti anni che si percorre la via istituzionale e le conseguenze le abbiamo sotto i nostri occhi. Abbiamo fatto decine di riforme politiche, anche una riforma presidenzialista (fatta attraverso la legge elettorale), col risultato che viviamo in un regime presidenziale privo dei contrappesi necessari ai regimi presidenziali, come quello americano. Non abbiamo una Camera e un Senato autonomi, ma un sistema in cui il presidente del Consiglio ha poteri formidabili, capaci di eliminare il Parlamento inteso come entità autonoma e dialettica, indispensabile a un regime presidenziale. La via istituzionale l’abbiamo percorsa integralmente ad abundantiam ma il Paese non è più felice e, soprattutto, non è affatto più governato. Altrimenti non avremmo, dal punto di vista eco-

Dal nostro tessuto politico manca una componente fondamentale presente nel Parlamento europeo: quella forza liberale e repubblicana che insieme a socialisti e democristiani ha dato all’Italia 50 anni di sviluppo


[Il partitomancante]

In Europa, in Germania, in Spagna, in Olanda, in Belgio ci sono partiti di ispirazione cristiana che insieme rappresentano poco meno della metà dell’elettorato europeo. L’Italia non può non avere un riferimento analogo. La rischiosa conseguenza della nostra scelta istituzionale in questi ultimi vent’anni è che siamo partiti per superare i limiti della vita italiana, ma invece di avvicinarci alla vita europea abbiamo preso la nave e abbiamo attraversato l’Atlantico.

nomico, i risultati catastrofici che abbiamo da quindici anni a questa parte: sono i quindici anni di questo sistema istituzionale. Allora dobbiamo seguire la via politica. La Prima Repubblica ha visto l’esaurimento dei partiti che la connotarono: la caduta del Partito comunista nell’89 si è riflessa anche nella crisi della Democrazia cristiana e dei partiti laici. Su questo tessuto già indebolito si è rovesciata l’inchiesta di «Mani pulite» che ha inferto il colpo di grazia ai partiti. L’illusione coltivata in molti ambienti è stata quella di affermare (o di ritenere) che la causa dei difetti della Prima Repubblica fosse l’esistenza dei partiti e del sistema elettorale proporzionale che lo accompagnava. Sono nate così le leggi maggioritarie, la designazione diretta dei capi dell’esecutivo e così via. Ci si sta accorgendo che tutto questo non basta e che le cose funzionano altrettanto male, se non peggio. In realtà la crisi del sistema dei partiti ha creato un vuoto. Bisogna perciò ripartire dalla ricostruzione del tessuto politico del Paese. In questo senso ho salutato come un fatto positivo l’elezione di Pier Luigi Bersani. Egli infatti ha esposto il chiaro proposito di collocare il suo partito - che è un partito importante - in una tradizione europea, nell’Internazionale socialista e nel Partito socialista europeo. Questo inizia a essere un punto di riferimento, perché quello che è mancato all’Italia nel corso di questi anni è il riferimento all’Europa e ai movimenti politici europei, dove troviamo democristiani, socialisti, liberali, verdi, insomma tutto quello che non c’è più nella vita politica italiana. Se Bersani colloca il suo partito nell’ambito del Partito socialista europeo, mette un tassello nella ricostruzione politica del nostro Paese. Un altro l’aveva già messo Pier Ferdinando Casini, collocando l’Udc nel Partito popolare europeo. In Europa, in Germania, in Spagna, in Olanda, in Belgio ci sono partiti di ispirazione cristiana che insieme rappresentano poco meno della metà dell’elettorato europeo. L’Italia non può non avere un riferimento analogo. La rischiosa conseguenza della nostra scelta istituzionale in questi ultimi vent’anni è che siamo partiti per superare i limiti della vita italiana, ma invece di avvicinarci alla vita europea abbiamo preso la nave e abbiamo attraversato l’Atlantico. Mio padre diceva talvolta che l’Italia del centrosinistra partiva per fare le riforme della Svezia e finiva per approdare in America latina. Nel caso della riforma presidenziale è proprio così: l’Italia è partita per gli Stati Uniti ed è finita in America Latina. Il presidenzialismo italiano assomiglia molto più al presidenzialismo dell’Uruguay o del Paraguay di quanto non assomigli al presidenzialismo degli Stati Uniti, che parte dal principio della limitazione dei poteri del governo. Il costituzionalismo americano si fonda sull’idea di limitare la forza dei governi, non di rafforzarla rispetto alla loro debolezza. Ma in questo panorama italiano manca una compo34-35

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[GiorgioLa Malfa] nente minoritaria che in Europa c’è e che è composta dal Partito liberale tedesco, dal Partito liberale inglese, dal Partito liberale olandese, dal Partito repubblicano italiano. Forze che combinandosi con i socialisti e con i democristiani hanno dato al nostro Paese cinquant’anni di sviluppo. Occorre perciò ricostruire anche questa terza parte. E se il nuovo partito di Rutelli va in questa direzione, è un passaggio positivo. La ragione per cui mi sono riappropriato della mia autonomia rispetto alla maggioranza di Berlusconi e mi sono rimesso in cammino, è proprio per ricostruire questa terza componente che in Europa c’è e non può non esistere anche in Italia. L’articolo 49 della nostra Costituzione riguarda la funzione dei partiti politici. Un giovane studente di un’università americana - tra quelli che si occupano di politica che sono una minoranza - si identifica con i repubblicani o con i democratici, ha chiaro che cosa vuol dire essere repubblicano o essere democratico. Così in Inghilterra si sa con certezza cosa vuol dire essere socialista, conservatore o liberale. È solo in questo Paese che ciò si è perso e lo si deve ricostruire. Con un’idea. Si può obiettare: Berlusconi segna il superamento di tutto questo. Considerando che comunque il suo cammino è alla fine, e finirà con l’esaurirsi di quella che Berlinguer una volta chiamò, riferendosi alla rivoluzione socialista del ’17, la «spinta propulsiva», bisogna riconoscere che il fallimento di Berlusconi è duplice. Primo: non aver dato un assetto istituzionale che abbia un senso al Paese. Dopo molti anni di governo manca un assetto istituzionale, assistiamo a una specie di corsa continua nel riscrivere e cancellare le leggi. Secondo: il fallimento della politica economica. Quello che concluderà l’esperimento di Berlusconi si gioca nel rapporto tra Berlusconi e Tremonti. Se si va nella direzione di una politica di sviluppo, ha perso Tremonti, e l’Europa probabilmente ci condannerà; se invece la direzione è quella di una politica di severità, ha perso Berlusconi. Nel caso in cui si scegliesse una via di mezzo, con gli emendamenti della Finanziaria (invece di apportare 40 miliardi di taglio dell’Irap ci si limita a 4 o 2), diventano ridicoli entrambi, perché in questo caso avrebbe ceduto Tremonti sul principio e Berlusconi sulla quantità. È possibile risanare questa politica? Non più, bisogna ricominciare da capo e affrontare il problema della riscrittura delle leggi. Ho letto di recente un bellissimo articolo dell’economista della Bocconi Roberto Perotti, che spiegava come la Danimarca e la Svezia, alle prese con la spesa pubblica negli anni Ottanta, abbiano ridotto del


edizioni

NOVITÀ IN LIBRERIA

PERVEZ MUSHARRAF CONFINI DI FUOCO La trincea del Pakistan tra storia e autobiografia La guerra al terrorismo è solo uno dei temi affrontati da questo libro che ripercorre la storia completa degli eventi che hanno portato Pervez Musharraf al potere nel 1999 in Pakistan. Perché per l’ex presidente pachistano (il libro è uscito in lingua originale nel 2006, quando Musharraf era ancora al governo del Paese) narrare la propria vita è solo il pretesto per far capire al lettore il complesso intreccio di poteri militari, civili e religiosi che per molti anni hanno funestamente caratterizzato il vertice dello Stato e allo stesso tempo offrire “nero su bianco” le sue possibili soluzioni per un’area colma di tensioni e conflitti: dal Kashmir al nucleare, da al Qaeda all’impasse devastante fra Israele e Palestina. Già supporter dei talebani e dei muhijaiddin afgani ai tempi della lotta contro l’invasione sovietica dell’Afghanistan, Musharraf di fronte al disastro dell’attentato alle Twin Towers dell’11 settembre 2001 si trova, da musulmano, in una posizione inequivocabile di nemico dell’Islam militante e terrorista. Da allora, è sopravvissuto a due tentativi di assassinio, ha sradicato gli estremisti islamici dal suo governo, ha organizzato e diretto un grande numero di raid militari contro al Qaeda nelle città e sulle montagne, dove ha fatto inseguire il mullah Omar e Bin Laden con tutti i mezzi a sua disposizione. Nel libro, rivela con sorprendente semplicità i retroscena di un gran numero di eventi che hanno destato l’interesse del mondo intero. Tra questi, quale sia la vera storia del cosiddetto “golpe” militare contro Sharif, come Pakistan e India siano riusciti a evitare il confronto nucleare, la lotta contro la corruzione, la simbiosi tra terrorismo e religione dopo l’11 settembre, le cause del radicamento di al Qaeda in Pakistan. Tutto questo e di più, compreso il terribile terremoto nelle province del Nord-ovest e del Kashmir, che nel 2005 ha fatto 3,5 milioni di senzatetto e oltre 70 mila vittime.

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[GiorgioLa Malfa] Una consolidata unità europea può essere la cornice per un’Europa fatta di piccoli Stati o di regioni che si dichiarano Stati 10 per cento l’incidenza della spesa corrente sul Pil, senza per questo finire alla fame. Hanno avuto una ripresa formidabile dello sviluppo, riorganizzando nello stesso tempo la sanità, la previdenza, la macchina dello Stato. Abbiamo un compito molto importante sul quale bisogna cominciare a lavorare e sono convinto che ci siano le condizioni per fare insieme qualcosa di utile per il Paese. C’è un’urgenza, però, e su questo forse il mio giudizio è diverso da quello di altri amici che si collocano in questa area. Il problema è che il quadro politico e istituzionale europeo, che ovviamente da europeisti non possiamo che considerare come un passo avanti importante, contiene anche un elemento di pericolosità per l’Italia. Esso infatti, specialmente con l’entrata in vigore del trattato di Lisbona, nel dar corpo all’idea di un’Europa unita con un ministro degli Esteri europeo, una politica militare europea e così via, consente di considerare fattibile la dissoluzione degli Stati che fanno parte dell’Unione. In un quadro europeo diventa così possibile sostenere che è inutile tenere oggi insieme l’Italia, giustificando così un radicale federalismo tra Nord e Sud in nome del quale ciascuno possa gestire come vuole questioni finanziarie, d’immigrazione e tutto il resto nascondendoci dietro al fatto che tanto siamo tutti europei, che le grandi decisioni di quadro - di politica economica, di politica internazionale - le prende l’Europa. Una consolidata unità europea può quindi essere la cornice per un’Europa fatta di piccoli Stati o di regioni che si dichiarano Stati. Ricordiamoci come si è sfasciata la Cecoslovacchia e come potrebbe sfasciarsi il Belgio nel sostenere di essere europeo nelle grandi scelte, salvo poi scegliere il vallone nell’insegnamento della lingua nelle scuole. Affrontare il problema della Lega, il pericolo costituito da questo modo superficiale di risolvere i problemi con l’identità regionale, locale, è una delle questioni per me più urgenti. È possibile che dentro il centrodestra non ci sia nessun uomo di pensiero? Martino, Urbani, Pera, Pisanu… ce ne sono molti di uomini di pensiero. È possibile che essi possano continuare a vivere dentro la retorica, le chiacchiere, senza che i problemi sostanziali del nostro Paese vengano risolti? La ricostruzione di un’Italia unita come nazione e come Stato all’interno dell’Europa è un problema aperto: o noi sappiamo affrontarlo con forza tutti insieme oppure i rischi sono davanti a noi e non alle nostre spalle.


PERCHÉ LA RIFORMA FEDERALE NON HA GIOVATO AL PAESE

Tutti i costi del federalismo ✵

Enrico Cisnetto ✵

C

HI, COME ME, HA RADICI NEL

PRI DI LA MALFA non può che avere tra i suoi principali obiettivi la tutela della Repubblica e delle sue istituzioni, oltre ovviamente alla salvaguardia del senso di appartenenza dei cittadini alla nazione unita. Partendo da queste convinzioni, è fin troppo facile individuare il nemico numero uno dell’unità e della coesione nazionale: il federalismo, non il federalismo teorico, ma quello realizzato che come nel caso del socialismo realizzato è ciò che conta rispetto alle teorie. E la questione da cui vorrei partire è proprio una disamina, visto il tempo sufficientemente lungo che è trascorso dal suo «esordio», del federalismo: sono quindici anni che lo pratichiamo, penso sia giunto il momento di giudicare quello che è stato fatto fino a qui e, se si analizza quello che è stato realizzato, credo che la nostra preoccupazione debba essere non tanto per quello che potrà avvenire, ma per quello che fin qui (non) è stato realizzato. Perché in questi anni la questione meridionale è rimasta tale, semmai si è aggravata, ma nel frattempo è esplosa la questione settentrionale. Quello che abbiamo prodotto è un localismo esasperato, un municipalismo sgangherato, che ha moltiplicato i costi anche perché ha duplicato le funzioni, non trasferendole dal centro alla periferia, ma sdoppiandole. In questo modo ha creato un elemento di contenzioso enorme e soprattutto ha prodotto quei diritti di veto che si sono sparsi sul territorio e che abbiamo visto agire in questi anni. Poi possono essere stati vestiti a sinistra come «no-tav» e a destra come tassisti che rifiutano le liberalizzazioni, ma di fatto si è trattato di diritti di veto a tutti gli effetti che hanno bloccato infrastrutture di carattere internazionale. Non a caso un uomo avveduto come Giuseppe Guzzetti, presidente dell’Acri, 38-39

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[EnricoCisnetto] L’indecisionismo italiano che ha caratterizzato la politica economica recente nasce, anche e soprattutto, per effetto delle divisioni alla giornata del risparmio ha sostenuto che è decisamente sbagliata l’equazione che è passata in questi anni «territorio = sede di decisione alternativa al centro», aggiungendo, oltretutto, che il territorio non può sostituirsi al sistema paese come invece purtroppo è avvenuto. Ciò si è verificato perché all’inizio degli anni Novanta, con la caduta della Prima Repubblica, è passato nel nostro paese un vento nuovista e si è affermata l’idea che per rendere più efficiente il funzionamento della macchina dello Stato fosse utile accentuare le politiche di decentramento. Si è venduta questa idea come il modo per combattere il malaffare, per tagliare le unghie alla casta, per avvicinare i cittadini alla politica dalla quale si erano allontanati. Non bastava il regionalismo della Prima Repubblica, che in effetti era rimasto incompiuto perché chi l’aveva voluto a suo tempo aveva chiesto che ci fosse una risistemazione del decentramento - penso alle proposte di abolizioni delle province che accompagnarono la nascita delle regioni e che sono rimaste lettera morta; questa idea del decentramento, che quello che sta in periferia sia meglio di quello che sta al centro, che poi non a caso si accompagna in economia al «piccolo è bello» che molti danni ha fatto (perché ha reso nano e impotente un segmento importante del nostro capitalismo al di là delle retoriche che sento usare ancora oggi), ha finito per permeare anche molti altri aspetti della stessa società - che già era predisposta, poiché il dna dell’Italia è pur sempre quello dei mille campanili e del particolarismo con la fioritura di mille federalismi: quello universitario, perché ognuno voleva l’università sotto casa; quello aeroportuale, perché «guai a non avere un aeroporto»;


[Tutti i costi delfederalismo] quello ospedaliero, tant’è che oggi il problema è quello di tagliare decine e decine di ospedali in eccesso. Di tutti i servizi possibili e immaginabili si è assistito a una moltiplicazione: persino le stesse province e numero dei comuni sono aumentati tant’è che oggi il nostro sistema con questo mostro istituzionale conta venti regioni, centonove province, ottomilacento comuni, trecentotrenta comunità montane - comprese quelle al mare - sessantatre consorzi di bacino (credo che siano riferiti anche ai torrenti oltre che ai grandi fiumi) e una pletora ulteriore di istituzioni di secondo o terzo grado. Un mostro questo che è stato alimentato dalla scelta drammaticamente sbagliata della modifica al Titolo Quinto della Costituzione votata dal centrosinistra alla fine della legislatura ’96-2001, sbagliata nel merito e nel metodo. Il risultato è stato quindi una moltiplicazione dei centri di spesa che, per esempio, ha portato sei regioni su venti a essere in default dal punto di vista della spesa sanitaria, e un’esplosione delle tasse locali, per cui dal ‘95 al 2006, mentre le tasse nazionali al netto dell’inflazione sono aumentate del 12 per cento, quelle locali hanno subito un aumento del 111 per cento arrivando a rappresentare il 22 per cento del totale. Basti pensare che oggi più del 50 per cento della spesa pubblica è spesa allocata negli enti locali. Una situazione sicuramente non sostenibile che adesso si vorrebbe aggiustare, o portare a compimento: io dico, invece, che così facendo si stanno definitivamente tagliando le gambe al nostro paese, e questo per colpa del federalismo fiscale. A parte che basterebbe leggere il disegno di legge che lo istituisce: in esso si trova una formula che recita che «l’attuazione della presente legge deve essere compatibile con gli impegni finanziari europei». Chi ha votato contro - e penso all’amico La Malfa - ha sottolineato in Parlamento che non si può scrivere una norma dicendo che sarà realizzata nella misura del possibile perché questa non è una cosa conciliabile con le esigenze di uno Stato che deve misurarsi a livello mondiale; è inaccettabile che ci si debba basare solo sull’impegno assunto dal governo, che sembra quasi dire ai cittadini «state tranquilli che questa norma rispetterà i problemi della finanza pubblica». In realtà, se si scava poco al di sotto degli impegni presi in campagna elettorale, si scopre che la norma in questione ha previsto un ulteriore stanziamento a favore degli enti locali e in particolare delle province perché l’articolo 1 stabilisce che si attribuisca patrimonio a comuni, città metropolitane, province e regio40-41

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[EnricoCisnetto] ni, ma l’articolo 2 dichiara espressamente autonomia finanziaria delle province. Secondo un calcolo fatto dall’università della Sapienza, la già enorme cifra di 17 miliardi e mezzo l’anno che costano le province, di cui l’80 per cento impiegato per l’auto sussistenza, lieviterebbe a 27 miliardi, con un aumento del 65 per cento. Questo nonostante si sia preso l’impegno di abolire le province. Insomma, questo è il federalismo realizzato, e io credo che da cittadini, prima ancora che da analisti, abbiamo il dovere di testimoniare la nostra completa insoddisfazione per lo stato attuale delle cose. Il fatto, poi, che qualcuno voglia creare una sorta di dicotomia tra un ipotetico «federalismo buono» che soppianterà l’attuale federalismo «cattivo» è tanto aleatorio quanto sprovveduto. Se davvero esiste, e ho seri dubbi in proposito, un federalismo buono, come mai finora è stata applicata solo la sua versione più deteriore? Senza contare che non si riesce proprio a intravedere l’utilità di questo tipo di federalismo, buono o cattivo che sia. Il problema principale di questo paese è il suo declino: la questione che ci troviamo ad affrontare oggi, pur essendosi aggravata con la crisi economica e con la recessione finanziaria internazionale, era già presente nel nostro paese. L’Italia viene da quindici anni in cui ha accumulato un gap di crescita nei confronti degli altri paesi europei di un punto percentuale all’anno: quindici punti in quindici anni con Eurolandia e trentacinque punti in quindici anni nei confronti degli Stati Uniti. La crisi italiana è nata ben prima di quella internazionale e francamente non si capisce come si possa sostenere che la recessione globale avrebbe potuto metterci in condizione di cancellare quel gap e di metterci addirittura, come ci viene raccontato ormai quotidianamente, nelle condizioni ideali per ripartire una volta terminata la recessione. Come sia possibile che avvenga tutto questo non ci è stato spiegato, e infatti non avverrà. Ma se il tema è quello di recuperare la via dello sviluppo, di recuperare questi gap, sarebbe utile capire se questa idea del federalismo fiscale possa aiutare in questo senso il nostro paese. In Parlamento il ministro Tremonti ha sostenuto che l’attuazione del federalismo non avrebbe peggiorato la situazione. Sarebbe stato singolare sentire il contrario. Ma bisogna focalizzarsi su quali possano essere gli elementi che portano a un miglioramento dell’attuale status quo. Dando per assodato, infatti, che

Il problema principale di questo paese è il suo declino: la questione che ci troviamo ad affrontare oggi, pur essendosi aggravata con la crisi economica e con la recessione finanziaria internazionale, era già presente nel nostro paese.


[Tutti i costi delfederalismo] l’Italia, con il sistema attuale, continuerà a perdere terreno nei confronti dei competitor mondiali, è necessario soffermarsi sulle soluzioni possibili, uscendo una volta per tutte dal guado in cui siamo da oltre quindici anni. Nel mondo, dall’inizio degli anni Novanta in poi, sono due i paradigmi che si sono affermati. Uno è quello delle grandi dimensioni, poiché la globalizzazione significa prima di tutto quello, e l’altro è la velocità, in particolare nelle decisioni. Il processo federalista ha fatto in modo che l’Italia diventasse l’unico paese ad aver agito al contrario rispetto agli altri: si è diviso ciò che era unito, non unendo ciò che era diviso attraverso il federalismo. Infatti l’indecisionismo italiano che ha caratterizzato la politica economica recente nasce, anche e soprattutto, per effetto del federalismo. E allora, se il mondo va in tutt’altra direzione, se il federalismo non serve ad agganciare le grandi tendenze che sono in atto nel mondo, portandoci invece in direzione di ciò che abbiamo fin qui descritto, è necessario porsi delle domande e sottoporre l’intero processo a una verifica radicale. Basti pensare, per voler citare un altro esempio, alla questione dei vaccini contro l’influenza H1N1, che sono stati sì acquistati dallo Stato, ma la cui distribuzione è stata affidata alle regioni: il risultato è che in alcune realtà il vaccino è stato disponibile da metà ottobre, in altre lo si attende per metà gennaio, quando l’allerta sarà ormai del tutto o quasi rientrata. Allora, in un paese in cui ci sono stati alcuni morti per questo nuovo virus, che il viceministro Fazio, interrogato sulla motivazione dei rallentamenti nella distribuzione del vaccino, si trinceri dietro la scusa delle regioni, è francamente eccessivo: la delega su questioni così rilevanti non può essere una scusa per le istituzioni per «lavarsi le mani». È, in ultima analisi, necessario pensare che, nel più breve tempo possibile, si ritorni a un riaccentramento delle competenze sanitarie a livello statale. In questo modo si potrà evitare che si ripetano situazioni di default per il 30 per cento delle regioni italiane. Secondo un recente studio della Banca d’Italia, negli ultimi sei mesi sono aumentati del 9,5 per cento gli impegni finanziari in derivati dei comuni italiani: gli ultimi sei mesi significa nel pieno della crisi finanziaria. È pleonastico sostenere che avere a che fare i derivati, specie in questo momento storico, è estremamente pericoloso. Eppure, nonostante questo, i comuni hanno aumentato la loro esposizione con questi strumenti finanziari. Fino a ora abbiamo analizzato le criticità più impellenti, ma quali possono essere le risposte più adeguate? A mio giudizio, sono almeno due: la prima, quella che dipende esclusivamente da noi, è quella di un ripensamento: togliamoci dalla testa questo riflesso condizionato che parlare male del federalismo è come parlare male 42-43

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[EnricoCisnetto] di Garibaldi, ragioniamo su quello che è stato il federalismo fin qua, tiriamo le somme e se la conclusione, come ho cercato di illustrare fino a qui, è negativa, allora è necessario che ci interroghiamo, nel più breve tempo possibile, per capire quali siano gli strumenti più adeguati per rinnovare il paese e per rimanere in quel processo di modernizzazione mondiale che in questo momento è in atto. Se il processo federalista non serve, è necessario che le forze politiche e culturali del nostro paese si facciano portatrici di una reale volontà di cambiamento e di discontinuità con quanto fin qui realizzato. E se questo significherà entrare in collisione con un partito che ha fatto del federalismo una sua scienza, ben venga lo scontro, dal momento che la politica è fatta anche di assunzione delle proprie responsabilità e di sottolineatura delle distinzioni. L’altra risposta, necessaria e non più procrastinabile, è quella delle riforme. Oltre alla sanità, cui ho già fatto riferimento, alla previdenza e alla semplificazione istituzionale, è necessario anche procedere a una revisione dell’organizzazione dello Stato; in questo modo, infatti, sarebbe possibile generare delle risorse che ci permetterebbero, da un lato, di ripianare parte dell’enorme debito pubblico che oggi affligge le casse italiane; dall’altro, consentirebbe di realizzare quelle infrastrutture che non sono più rimandabili. Se accorpassimo alcune regioni più piccole a quelle più grandi, non dico creando agglomerati di dimensioni simili ai länder tedeschi, ma comunque procedendo a un drastico taglio del numero di realtà regionali, se abolissimo le province, se diminuissimo a metà il numero dei comuni e se revisionassimo tutte le istituzioni di secondo e terzo grado, cominciando da quelle che più hanno fallito come le comunità montane, potremmo ricavare più di cento miliardi di euro. Con una cifra del genere, anche in una crisi come Abbiamo bisogno di un federalismo questa, si potrebbe iniziare a impostare delle verso l’alto, europeo, perché nel grande riforme strutturali ormai imprescindibili. E ho menzionato solo questa riforma, senza scenario mondiale e nella competizione aggiungere quella della sanità, della previnessun paese europeo da solo ha la forza denza; senza contare, infine, gli interventi per affrontare i cambiamenti in atto una tantum sul debito pubblico che pure


[Tutti i costi delfederalismo]

Come Società Aperta abbiamo lanciato da molto tempo l’idea di una nuova Costituente. Un’assemblea costituente rappresenterebbe per il paese il segno che si svolta, il segno che se nasce una Terza Repubblica e dio solo sa quanto ci sia bisogno che nasca al più presto -, priva di quei difetti della Seconda.

sono, secondo me, le altre riforme che bisogna affrontare. Come Società Aperta abbiamo lanciato da molto tempo l’idea di una nuova Costituente. Un’assemblea costituente rappresenterebbe per il paese il segno che si svolta, il segno che se nasce una Terza Repubblica - e dio solo sa quanto ci sia bisogno che nasca al più presto -, priva di quei difetti della Seconda. Io dico sempre che la peggiore cosa che ha fatto la Prima Repubblica è stata quella di averci dato la Seconda, non vorrei dire domani che la Seconda ha fatto la cosa peggiore nel darci la terza perché la Terza, a mio giudizio, dev’essere un auspicio. Potrà essere una realtà migliore solo se nascerà con ottimi presupposti. Perché solo attraverso una nuova costituente sarebbe possibile ottenere quell’unità necessaria per varare le riforme che, oggi, troppo spesso sono state procrastinate. L’Italia, se vuole davvero ripartire, non può più aspettare: deve trovare la forza di uscire dalla palude e di ricollocarsi al fianco delle altre potenze mondiali. Infine, non va dimenticato che il sistema entro cui il nostro paese si muove è, come minimo, quello continentale: non avevamo bisogno di questo federalismo ma abbiamo bisogno del federalismo verso l’alto, del federalismo europeo perché nel grande scenario mondiale, nella competizione mondiale, certamente nessun paese europeo da solo ha la dimensione e la forza per affrontare i cambiamenti che sono in atto. Abbiamo fatto la moneta ma non siamo stati capaci di fare l’unificazione politico-istituzionale dell’Europa. Oggi abbiamo una classe dirigente che deve prendere definitivamente coscienza del fatto che questo è uno dei paesi più deboli d’Europa e che ha, rispetto agli altri, ancor più necessità, ragione e interesse ad avviare un processo di integrazione europea: sta a noi quindi lanciare quel tipo di idea federalista e battere quella strada che può portare alla creazione degli Stati Uniti d’Europa. Queste penso che debbano essere le grandi indicazioni che possono supportare in maniera non retorica e banale una rifondazione e una riaffermazione del concetto di unità nazionale. 44-45

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RICOSTRUIRE LO STATO RITROVANDO IL MEGLIO DELLA NOSTRA STORIA DEGLI ULTIMI SESSANT’ANNI

un momento significativo per la memoria storica del paese. Il testo di Adornato ne è testimonianza, dominato com’è in ogni sua pagina dall’ambizione di preservare un patrimonio essenziale per capire dove sta andando l’Italia di oggi. In sostanza si tratta di tornare alla cultura politica, alla migliore cultura politica del passato, in un momento che potremmo definire di desertificazione culturale del paese. C’è un’attenzione spasmodica intorno a temi di questo genere, ossia per occasioni di riflessione che si dimostrano capaci di ricucire insieme i fili di una grande storia nazionale che si è perduta. Mettiamola così. La storia del dopoguerra è un patrimonio che va recuperato, ma non per un’operazione di nostalgia, evidentemente, bensì per comprendere davvero quali sono state le nostre radici, per non dimenticarle e per proporre soluzioni politiche adeguate in un momento in cui l’attualità politica propone una sorta di eterno presente in cui svanisce la memoria del passato e neanche il futuro è molto chiaro. Quindi non è azzardato affermare che in una certa misura una riflessione a più voci come questa proposta da liberal ricorda quelle proposte nei convegni del Mondo di Pannunzio negli anni Cinquanta, convegni che preparavano e accompagnavano sul piano della cultura politica le importanti trasformazioni del paese. Capisco bene che ci sono enormi differenze, però nell’Italia di oggi, nell’Italia appunto desertificata, si avverte un vuoto, una mancanza totale rispetto a quella stagione più vitale della nostra democrazia e della nostra storia non remota. Aver posto il problema del rapporto tra Stato e nazione vuol dire quindi cercare una nuova sintesi, con l’ambizione di restituire a nuova vita entrambi i princìpi, considerando che oggi si è disgregato lo Stato e si è smarrito il senso della nazione. È un obiettivo culturale ma anche politiUESTA RIFLESSIONE PROPOSTA DA LIBERAL RAPPRESENTA

Sulla scia di Einaudi e De Gasperi ✵

Stefano Folli


[Sulla scia diEinaudi e De Gasperi]

co assolutamente prioritario, perché coincide con la necessità di ricostruire l’Italia. Il secondo motivo per cui ho apprezzato la riflessione di Adornato riguarda le considerazioni sul Risorgimento sotto una luce particolare: vale a dire il ruolo dei cattolici liberali come tassello importante di quella religione civile che costituì allora il messaggio morale del moto di riscatto nazionale. E anche questo aspetto è fondamentale proprio per dare una risposta non scontata ai problemi posti dall’imbarbarimento del confronto politico ai nostri giorni. Naturalmente riaprire le pagine del Risorgimento e parlare di cattolicesimo liberale non significa proporre improbabili revisionismi, anzi mi sembra che la posizione di Adornato si distacchi decisamente da quel tanto di revisionismo cattolico che pure esiste ancora e di tanto in tanto si riaffaccia con studi tendenti a delegittimare in qualche misura il senso stesso del Risorgimento. Qui si va in una direzione diversa, benché io non possa essere d’accordo con tutto quello che Ferdinando sostiene. Tuttavia è apprezzabile lo sforzo di conciliare anche in questo caso Stato e nazione, di spiegarli all’interno di un contesto che li sappia ricomprendere entrambi. Cosa che Adornato fa anche sulla scorta degli studi essenziali di Giovanni Spadolini. E io trovo molto pertinente la citazione della lettera di Bettino Ricasoli a Pio IX, una lettera davvero splendida del 1861 in cui lo statista toscano così ri rivolge al papa: «La Chiesa ha bisogno di essere libera e noi le renderemo intera la sua libertà, ma per essere libera ha bisogno che si sciolga dai lacci della politica pei quali finora ella fu strumento contro di noi in mano ora all’uno ora all’altro dei potentati. Se volete essere il maggiore 46-47

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[StefanoFolli] dei re della terra, spogliatevi delle miserie del regno che vi agguaglia a loro». Qui, in questa perorazione contro il potere temporale, c’è l’indicazione implicita ma chiarissima di Roma capitale come compimento del Risorgimento. E va notato che essa viene da un esponente di quel cattolicesimo liberale moderato che aveva saputo far propria fino in fondo la causa risorgimentale. Non c’è dubbio che queste posizioni di cattolicesimo liberale, è stato ampiamente provato, avevano in sé alcuni sintomi di eresia, erano fortemente influenzate dal giansenismo, la cui influenza arrivava a lambire anche Manzoni, che viene ricordato giustamente come l’esempio più famoso e autorevole di cattolicesimo liberale. Adornato rammenta che Manzoni non partecipò alle sedute del Parlamento italiano convocato a Roma dopo il 1870, però sarebbe il caso di ricordare anche l’ostinazione dello stesso Manzoni nel 1864, quando si recò a votare al Parlamento subalpino per la mozione che indicava l’obiettivo di Roma capitale e quindi la provvisorietà della scelta di Firenze. Lo scontro allora fu molto duro e la posizione di Manzoni non coincideva con quella di molti cattolici liberali o conservatori. Come dimostra il profondo dissidio che lo divise in quell’occasione da D’Azeglio. Ed è appena il caso di sottolineare che alla morte di Manzoni le voci del cattolicesimo ufficiale stesero intorno a lui una cortina di silenzio infastidito, a cominciare dalla Civiltà Cattolica. In altre parole, la storia di quegli anni è anche la storia di cattolici che avevano fatto una scelta precisa a favore della causa risorgimentale e che le recavano il peso della loro peculiarità culturale, naturalmente, contribuendo così alla ricchezza del processo nazionale; al tempo stesso altri cattolici, liberali e non, avevano fatto la scelta opposta e non ponevano Roma capitale come traguardo finale del Risorgimento. Vedevano, anzi, la possibilità di protrarre in un modo o nell’altro il potere temporale. Non è una differenza da poco, anche perché la risposta del papa alla lettera di Ricasoli fu il Sillabo, nel 1864, in cui si lanciava un anatema contro il liberalismo, con ciò creando una frattura notevolissima tra le forze che credevano nella nazione. Quindi la riflessione di Adornato, di cui condivido l’impianto, tende un po’ troppo a unire fra loro cose e fatti che erano abbastanza diversi tra loro. La posizione dei cattolici liberali era una bella testimonianza, era anzi un atto di straordinaria adesione alla «religione civile» dell’Italia nascente, però era pur sempre una posizione minoritaria e come tale fu sostanzialmente sconfitta dal Sillabo. E se poi si dice che Porta Pia rappresenta una ferita, una forma di restringimento etico-politico che indebolisce il nuovo Stato, discutiamone.

«La Chiesa ha bisogno di essere libera e noi le renderemo intera la sua libertà, ma per essere libera ha bisogno che si sciolga dai lacci della politica pei quali finora ella fu strumento contro di noi in mano ora all’uno ora all’altro dei potentati. Se volete essere il maggiore dei re della terra, spogliatevi delle miserie del regno che vi agguaglia a loro». BETTINO RICASOLI


[Sulla scia diEinaudi e De Gasperi] Perché allora bisogna riconoscere che sei anni prima c’era stato il Sillabo, con la profonda spaccatura che esso aveva provocato. Qui possiamo accennare alla questione della religiosità di Mazzini. Giustamente si afferma che egli fu espressione di un autentico spirito religioso, di cui è intriso il suo messaggio politico. Però mai tale spirito rende Mazzini assimilabile ai cattolici liberali. Diciamo che Mazzini è assai più vicino alla tesi di Machiavelli, per il quale il papato è il grande ostacolo all’unità nazionale, come la storia ha confermato. Ed è anche vero che il sussulto religioso di Mazzini si muove su di un terreno completamente diverso da quello Riscoprire il senso della Chiesa, tanto è vero che Mazzini è il teorico della di una politica «terza Roma», portatrice di un afflato universalistico e spiliberal-democratica rituale destinato nella sua idea a sostituire la Chiesa cattolica. Quello che va ricordato è che Mazzini, da un certo con il concorso punto in poi, viene assimilato e ricompreso nel fiume dei cattolici-liberali della storia d’Italia proprio a partire dal suo messaggio da un lato e dei laici riformatori morale. Trascuro naturalmente in questa sede la valorizè con ogni evidenza zazione che ne fece il fascismo. Ma voglio sottolineare la sfida culturale come la componente religiosa del suo pensiero fosse dei nostri tempi apprezzata da Da Gasperi, che di Mazzini fu un grande estimatore, al punto che il monumento sull’Aventino viene inaugurato nel 1949 proprio per impulso decisivo di De Gasperi. E si deve pensare che quel monumento esisteva da anni, realizzato alla fine dell’Ottocento, nel clima dell’Italia anti-clericale, dallo stesso scultore che aveva fatto il monumento a Giordano Bruno in Campo de’ Fiori. Però resta inutilizzato e solo nel ’49, nel centenario della Repubblica Romana di cui Mazzini era stato uno dei triumviri, viene collocato su uno dei colli di Roma. In un clima culturale cambiato e con il pieno concorso del cattolico De Gasperi. Il che significa che la conciliazione tra il cattolicesimo liberale, sconfitto nel Risorgimento, e la cultura liberal-democratica avviene effettivamente e completamente solo nel secondo dopoguerra. I due nomi di De Gasperi ed Einaudi sono il simbolo di quel decennio in cui realmente la conciliazione avviene sul piano del governo e delle istituzioni. Senza dimenticare che sul terreno costituzionale, a partire dalla scrittura della Carta, c’è un più ampio e intenso concorso di forze. Tanto è vero che la componente mazziniana, con Ugo La Malfa, è il terzo elemento chiave per comprendere il senso del periodo «centrista», sviluppandosi poi verso la nuova fase che si profila, quella del 48-49

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[StefanoFolli] centrosinistra. Questa conciliazione avviene ed è il senso di una storia che possiamo cogliere anche oggi. Io credo che dobbiamo sforzarci di riflettere sulla rinascita di un’etica pubblica. Il senso dei diritti e dei doveri: questa è un’immagine del tutto mazziniana. Ed è un ottimo punto di partenza. Riscorpire il senso dei doveri nella sfera pubblica, interrogarsi sul perché questa è diventata la stagione del populismo. La crisi di Tangentopoli è la crisi della rappresentanza politico-istituzionale da cui emerge in seguito la corrente populistica che ha preso il via in quegli anni, ma si è addirittura ingrossata in seguito. Ne deriva che riscoprire il senso di una politica liberal-democratica con il concorso dei cattolici liberali, da un lato, e dei laici riformatori, dall’altro, è con ogni evidenza la sfida culturale dei nostri tempi. L’incontro si è già realizzato con successo negli anni del dopoguerra, quindi può rinnovarsi oggi. È chiaro che il bipolarismo, così com’è, non va bene per il paese perché comporta un rischio troppo grave, tra radicalizzazione e populismo. Il pericolo è proprio nella messa in crisi degli assetti generali del paese e dunque nell’emergere di forze ancora più radicali, ancora più indotte alla disgregazione progressiva del tessuto nazionale. Questa sarebbe la sconfitta totale delle forze di ispirazione liberale, laiche o cattoliche che siano. Un ultimo punto. Laici e cattolici, quando si sono ritrovati, lo hanno fatto sul terreno di una forte autonomia della politica anche rispetto alla Chiesa, autonomia che oggi si avverte solo a tratti. C’è una lettera di De Gasperi scritta a Pio XII dopo il rifiuto all’operazione Sturzo in Campidoglio. Il papa fa a De Gasperi lo sfregio di negargli un’udienza in Vaticano, siamo nel ’52, e allora lo statista - che è allora presidente del Consiglio e ministro degli Esteri - gli scrive accettando «l’umiliazione come cattolico», ma rivendicando la dignità di capo del governo italiano e chiedendo un chiarimento alla Segreteria di Stato. Ecco una straordinaria lezione di autonomia della politica e di senso dello Stato. Se davvero vogliamo ricostruire la nazione dobbiamo in primo luogo ricostruire lo Stato. E questo lo si può fare solo ritrovando il meglio della nostra storia negli ultimi sessant’anni. Se saremo capaci di questo, se sapremo cogliere l’ispirazione profondamente liberale di questa vicenda nazionale, allora poi ci porremo il problema istituzionale, degli schieramenti, della legge elettorale e infine di un bipolarismo che non funziona come dovrebbe. Prma però bisogna individuare quali sono oggi i fili da tessere e da connettere fra loro. Solo così diventa credibile la prospettiva, auspicabile, di un nuovo patto. Cioè di un nuovo inizio.


IL TESSUTO CIVILE DEL PAESE È SANO E VUOLE RINNOVARSI

Oltre la retorica ✵

Sandro Bondi

T

politico che in questo paese rischiano pericolosamente di allontanarsi l’una dall’altro, è un elemento di grande utilità al fine di dare vita a una cultura politica unitaria. Un’esigenza fortemente sentita nella nostra vita democratica, tanto più attuale e significativa mentre ci prepariamo alla celebrazione del centocinquantesimo anniversario dell’unità d’Italia. Credo infatti che questo anniversario offra un’occasione di unità che presuppone da parte di tutti una disposizione alla riflessione seria e non - come spesso da noi accade - autodistruttiva. Dobbiamo avere la consapevolezza che la storia degli italiani non è quella degli ultimi centocinquant’anni. La storia degli italiani e l’influenza che essa ha avuto nel mondo intero attengono a periodi assai più antichi e di certo superiori per straordinarietà di quanto non sia la storia dell’ultimo secolo e mezzo che è per molti aspetti problematica, e che richiede ulteriori approfondimenti da parte di storici, studiosi, intellettuali, uomini di cultura. Questa celebrazione sollecita una domanda di fondo che è politica ma si alimenta di una riflessione culturale: qual è oggi la nostra idea dell’Italia? Se noi ci poniamo seriamente questa domanda - qual è l’idea che il popolo, le classi dirigenti, i partiti politici di maggioranza e d’opposizione hanno dell’Italia - rifuggiamo innanzitutto dal rischio di una inutile celebrazione retorica e al tempo stesso evitiamo di trasferire l’acceso dibattito politico, molto spesso la rissa politica che contraddistingue la vita politica italiana, sul piano della storia e del passato. Due pericoli che dobbiamo assolutamente evitare, per risolvere il problema dell’identità del nostro paese e per individuare la chiave, la pietra angolare su cui ricostruire un’unità ENERE INSIEME LA RIFLESSIONE CULTURALE E IL CONFRONTO

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[SandroBondi]

nazionale. È indubbio che parliamo dell’unità d’Italia in un contesto caratterizzato di tanti elementi di disunità, sul piano politico, culturale, territoriale. Ma la divisione e il divario tra il Sud e il Nord d’Italia non sono questioni mentali che nascono dalla posizione della Lega Nord, che semmai è il risultato di questa situazione. La disunità territoriale tra il Sud e il Nord d’Italia è una questione reale che una classe dirigente deve saper affrontare e risolvere. Dunque il problema di fondo oggi è quale sia la chiave per cercare di ricostruire questa unità e per creare un sentimento nazionale, una memoria condivisa, un paese più unito, capace di affrontare i problemi ancora irrisolti dell’unità italiana. La mia opinione personale è che la nostra vera identità nazionale sia il frutto delle nostre diversità regionali, comunali, municipali: quella libertà comunale che è all’origine della libertà in Europa. Una diversità che è non un fattore di disgregazione ma di ricchezza per l’unità nazionale. Sono convinto che questo tessuto, questa straordinaria storia italiana che consiste nelle sue diversità culturali, sociali, territoriali, nelle sue molteplici tradizioni, spieghi anche la vitalità di questo paese, la sua forza economica e sociale. Non ho una visione pessimistica della società italiana. Certo, ne vedo tutti i problemi drammatici. Abbiamo tutti ancora davanti agli occhi le immagini trasmesse dalle televisioni e riprese dai giornali dell’esecuzione del camorrista Mariano Bacio Terracino avvenuto nel quartiere Sanità a Napoli. Non possiamo più vivere in un paese così, ci vuole un moto di reazione a un problema drammatico del nostro paese. Ma l’Italia non è soltanto questo, l’Italia dimostra forza, vitalità, energie e una volontà di cambiare, di rinnovarsi, di modernizzarsi a cui dobbiamo aggrapparci. Questa vitalità del tessuto economico e sociale spiega in parte


il quotidiano Economia, politica, cultura scienza, religione: ne succedono di cose in ventiquattr’ore. E ci sono decine di televisioni e di giornali che ti assediano per raccontartele. Ma nessuno prova a spiegartele. Leggendo, dentro gli eventi, i segni di dove sta andando il mondo. E cercando insieme le idee per renderlo migliore…

…questo lo fa solo liberal Tutti i giorni in edicola Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Tel. 06.6992.5679


[SandroBondi]

anche la ragione per la quale l’Italia abbia saputo reagire, forse meglio di altri paesi considerati economicamente più forti, alla crisi internazionale: non solo per merito del governo, delle forze politiche, ma soprattutto in ragione del fatto che ha un tessuto civile, economico, culturale che ancora resiste e che è il frutto più profondo della sua storia. È a questo che noi dobbiamo ricollegarci. Ecco allora quale può essere oggi la chiave per affrontare i problemi ancora irrisolti del nostro paese: un federalismo attivo all’interno di una cornice nazionale. Il federalismo così inteso potrebbe risolvere i problemi del nostro paese soprattutto nel Sud, a condizione che ci sia una responsabilità nazionale, unitaria. Sono convinto, tanto più oggi, che il federalismo necessiti di un più forte potere nazionale. Dico di più: un federalismo che non presupponga un forte potere centrale rischia di determinare nel paese un processo di anarchia, di disgregazione, di sfaldamento dell’unità nazionale. Certo dovrebbe essere un federalismo che non moltiplichi a piramide ulteriori centri burocratici: il rischio infatti non è rappresentato solo dal potere burocratico centrale ma anche dai poteri burocratici regionali, provinciali e dagli enti locali. Penso a un federalismo che si ispiri al principio di sussidiarietà e a quel personalismo comunitario di Adriano Olivetti, sul quale ho avuto occasione di tornare in tempi recenti con un mio lavoro a lui dedicato (il libro Il sole in tasca. L’utopia concreta di Adriano Olivetti e Silvio Berlusconi, Mondadori, ndr). Avvicinandoci alla celebrazione del centocinquantesimo anniversario dell’unità italiana dovremmo cercare di lavorare sulla base di questi principi e se sapremo discutere e impegnarci potremmo non sprecare questa occasione. Potremmo farla diventare un’occasione propizia per rinsaldare l’unità della nazione e al tempo stesso per creare le condizioni per affrontare i problemi ancora irrisolti di questo paese. Solo così sarà possibile avviarci verso una fase di maggiore democrazia e di maggiore unità.

La vitalità del tessuto economico e sociale del Paese spiega la ragione per cui l’Italia ha saputo reagire meglio di altri considerati più forti, alla crisi globale


Ripartiamo dal bisogno di DIO ✵

Francesco Paolo Casavola ✵

P

ROVIAMO A MUOVERE DAGLI STATI D’ANIMO DEGLI ITALIANI

quando loro si propone l’approssimarsi del compleanno di un secolo e mezzo dell’Unità. I settentrionali vedono i meridionali in balia di mafia, camorra, n’drangheta, sacra corona unita, di amministrazioni locali colluse con i poteri criminali. A loro volta i meridionali guardano al Nord come il luogo di elezione di poteri forti, finanziario, bancario, mediatico e di popolazioni ricche ed evolute. Le infrastrutture delle comunicazioni, autostradali, ferroviarie, aeroportuali sottolineano le differenze a svantaggio del Sud. Si aggiungono ospedali e scuole per una comparazione ancora una volta di inferiorità del Sud rispetto al Nord. Basterebbero queste grandi evidenze a giustificare l’esistenza di due Italie, e dunque di italiani non uguali a seconda dei luoghi di nascita e di vita, come se non si trattasse di cittadini di uno stesso e unico Stato unitario. La questione meridionale, spina nel fianco dell’unità italiana, sembrava potere essere assorbita intitolandola e trattandola quale questione nazionale, quando le si è contrapposta la questione settentrionale della reclamata indipendenza padana e della minacciata secessione qualora la forma di Stato non si mutasse da unitaria a federale. Il federalismo fiscale è per ora uno stralcio di un non dismesso disegno di mutamento costituzionale. Come strategia di autodifesa si propone un partito del Sud. Si mette in discussione la lingua meridionale con impiego concorrenziale dei dialetti. Regionalismi e localismi tendono ad alimentarsi della sfiducia nelle istituzioni nazionali. La richiesta di fronteggiare l’emergenza sicurezza con le ronde anziché con le forze dell’ordine è un sintomo inquietante di progressiva eclisse dello Stato. Italiani divisi e diversi ancora dopo centicinquant’anni di unità? Ma allora, che cosa è veramente stata l’unità d’Italia? 54-55

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[Francesco PaoloCasavola] Stringere la più antica nazione d’Europa in un solo Stato invece che in sette, poteva avere ed ebbe due distinte motivazioni. La prima era quella di avere più voce nel capitolo delle relazioni tra le potenze europee e meridionali. La seconda di dare una patria giuridica alla nazione. A seconda che prevalesse l’una o l’altra ispirazione diversa divenivano le forme del vissuto istituzionale degli italiani. Le guerre di indipendenza e poi quelle coloniali e le due guerre mondiali univano gli italiani, qualunque fosse la loro origine regionale in una obbedienza comune, fino al sacrificio della vita per quella idea ch’era insieme un sentimento della fraternità nella patria. Fratelli d’Italia. Non c’è nulla di retorico nelle parole dell’inno di Mameli: «siamo pronti alla morte». Il suggello dell’amore ai fratelli nella patria è sacrificare la vita. Il trapasso tra la patria e lo Stato sta in una vita che non si perde, ma si spende al servizio dello Stato e, attraverso lo Stato, dei concittadini. Quante migliaia di maestri elementari, di professori, di ferrovieri, postelegrafonici, di funzionari hanno per un secolo e mezzo lavorato per lo Stato avendo di faccia scolari, studenti, viaggiatori, utenti, cittadini destinatari di innumerevoli frustrazioni pubbliche? Questa moltitudine di soldati e di cittadini non saldavano la nazione e lo Stato? Perché allora non è bastato a far nascere un popolo italiano, come altrove erano il popolo francese o il popolo tedesco? Popolo è un soggetto politico e costituzionale. In Italia il protagonismo politico-costituzionale è stato della monarchia, del Parlamento, dei partiti, non del popolo. Lo stesso modello liberale dello Stato di diritto ha avuto vita grama. Nella monarchia il governo oscillava tra i voti del Parlamento e il gradimento del sovrano, la giustizia era emanazione del re, come prescriveva lo Statuto di Carlo Alberto, i partiti condizionavano l’amministrazione, come denunciò Marco Minghetti, il suffragio era limitato ai maschi dotati di istruzione e di censo, in pratica pilotato da ceti borghesi di proprietari, imprenditori,


[Ripartiamo dal bisognodi Dio] professionisti. Quando nel tornante tra Otto e Novecento divenne acuto il conflitto sociale gli italiani si separarono tra lavoratori e padroni. Il turn-over tra destra e sinistra storica non oppose al socialismo la forza di uno Stato liberale. Anche per questo la soluzione che il fascismo prospettò per chiudere il conflitto di classe fu quello Stato autoritario, nulla contro, nulla al di sopra e al di fuori dello Stato. Una ideologia politica che si proponeva come una mistica, come una religione. Gli italiani che della libertà non avevano mai fatto effettiva esperienza, della perdita della libertà nella dittatura non avvertirono la gravità, se non nelle esigue frange degli antifascisti. La nazione non mai divenuta pienamente adulta degenerò in nazionalismo. La forma parlamentare dello Stato fu soppressa, sostituita dal corporativismo in cui l’individuo valeva solo come monade dell’universo autoritario dello Stato. Con la Repubblica gli italiani avrebbero dovuto essere educati alla democrazia come avvertì e ammonì la Commissione alleata di controllo. Invece i partiti preferirono tenerli sotto tutela, gestendo una Repubblica dei partiti, non dei cittadini. Gli italiani restavano separati in monarchici e repubblicani, liberali e democristiani, socialisti e comunisti. Il pianeta spaccato, per usare la metafora di Solgenitsin, tra Usa e Urss, si rifletteva in Italia sui due schieramenti dell’atlantismo e del comunismo filosovietico. Lo stesso patriottismo costituzionale restò una formula ottativa perché se ne fece un impiego fazioso da una parte contro l’altra. Con l’effetto che la Costituzione ebbe un’attuazione tardiva, ostacolata e Il tessuto connettivo prodotto distorta, la Corte costituzionale entrò dalla morale cristiana che aveva in funzione nel 1956 otto anni dopo consentito di superare il conflitto la Carta del 1948, le Regioni cominStato-Chiesa, oggi è causa ciarono a darsi i loro statuti agli inizi di contrasti politici e culturali. del decennio Settanta. Le crisi del Ma l’onda lunga della terrorismo, di Tangentopoli, la fine secolarizzazione va esaurendosi dei grandi partiti popolari, 56-57

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[Francesco PaoloCasavola] Democrazia cristiana, Partito socialista e Partito comunista, hanno segnato un itinerario che è stato chiamato di transizione da una Prima Repubblica a una Seconda e ora a una Terza senza che si sia approdato ad altro che a un bipolarismo di due schieramenti che dividono i cittadini in pregiudizi di setta anziché unirli ed educarli a essere giudici sereni delle opere dei governanti e dei programmi di chi aspira a governare. I conflitti tra i poteri dello Stato si acuiscono, specie tra esecutivo e legislativo da un canto e giudiziario dall’altro, l’invocato presidenzialismo prevede una perdita di ruolo del capo dello Stato e del Parlamento rispetto al primo ministro, il popolo come fonte dell’investitura elettorale sembra chiamato a dare superiorità gerarchica su qualunque altra figura istituzionale non direttamente elettiva, la forma di governo diventando così non quella di una democrazia parlamentare, quale fu voluta dai Costituenti e di cui sanziona la non riformabilità l’art. 139 della Carta, ma quella di un governo personale e autoritario senza i pesi e i contrappesi propri alle grandi democrazie occidentali. Quanto alla società che movimenta le sue innumerevoli filiere entro il traballante telaio di uno Stato affidato ormai alla sola moral suasion del presidente della Repubblica, essa si trova non solo nella crisi economica congiunturale e nelle tante difficoltà indotte dai processi di globalizzazione, ma soprattutto e più gravemente in una tormentata fase di disorientamento etico. Vita privata tra riservatezza e rilevanza pubblica, libertà e dignità della persona e interesse collettivo, valori della coscienza tra religione e leggi dello Stato laico sono nodi problematici ogni giorno più complessi. Quel tessuto connettivo prodotto dalla morale cristiana che aveva consentito di superare il conflitto Stato-Chiesa nel processo unitario e che nella preparazione della Costituzione repubblicana faceva dire a Togliatti: noi siamo il più importante partito cattolico non democristiano, oggi è causa di ulteriori contrasti, politici e culturali. Principi del cristianesimo sono confutati in nome di una laicità animata da ostilità alla religione, letta come forma arcaica di potere sociale, da chi ignora la portata rivoluzionaria del cristianesimo nella promozione della libertà della persona, e da chi è estraneo a ogni sentimento di religiosità. Esaurita l’onda lunga dei processi di secolarizzazione, il bisogno di Dio torna a rivivere nella società contemporanea. Potrebbe divenire un collante di fraternità in un sistema di formazioni sociali troppo incline a moltiplicare le sue frammentazioni fino a restituire la persona umana alla solitudine. Ecco, a centicinquant’anni dall’unità, questo il quadro di un paese in cui le tensioni individualistiche e di gruppi particolaristici sembrano assai più energiche che non quelle di solidarietà politica, economica e sociale per ripetere il trinomio dell’art. 2 della Costituzione.


DA

DOVE RIPARTIRE PER RICOSTRUIRE IL SENTIRE COMUNE NELL’ATTUALE DECADENZA

Italiani senza Italia ✵

Gennaro Malgieri ✵

S

nella riflessione di Ferdinando Adornato una verità per me ovvia da molto tempo ma negata a lungo, e cioè che la nazione italiana esisteva quando non c’era lo Stato e ha cessato di esserci proprio quando è nato lo Stato. Un paradosso tutto italiano. Anzi, nel panorama europeo la nazione italiana precede, come tutti sanno, la costruzione dello Stato unitario, a differenza di qualsiasi altra nazione che ha avuto bisogno dello Stato per potersi concretizzare. Diceva Gioacchino Volpe che la nazione italiana comincia a esistere a cavallo fra il X e l’XI secolo, contraddicendo la teoria di Barbagallo che voleva che la nazione italiana traesse origine direttamente da Roma e contraddicendo anche Benedetto Croce che asseriva che la nazione italiana coincideva con la nascita dello Stato unitario. In effetti se andiamo a scavare nelle origini della nazione italiana non possiamo che accettare la teoria di Volpe perché vediamo la nazione italiana dispiegarsi dal crogiuolo di genti, popoli, etnie, culture, storie, tradizioni, usi, che, amalgamandosi, prendono una forma particolare e attraverso la lingua si presentano poi in maniera unitaria. Nasce più o meno così, in questa maniera un po’ fantasiosa all’apparenza ma molto concreta nei fatti che la determinano, la nazione italiana. Tutta questa ricchezza l’abbiamo smarrita nel corso dell’ultimo secolo e mezzo, cioè nei centocinquant’anni dello Stato unitario nazionale. Al punto che uno dei capisaldi della cultura della nazione italiana, vale a dire il principio dell’inclusione culturale, religiosa ed etnica, viene oggi espunto quasi come se fosse un male dal quale liberarci; le polemiche intorno all’inclusione o all’esclusione dell’altro da noi, attengono anche alla decadenza delONO STATO PARTICOLARMENTE LIETO DI RITROVARE

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[GennaroMalgieri]

l’idea stessa di nazione così come si è andata configurando nel corso dei secoli. Nel corso del processo unitario, molti sono stati i marginalizzati e gli umiliati, ma non bisogna dimenticare - e in questo senso va riconosciuta la validità del lavoro di tanti storici come Angela Pellicciari impegnati nella revisione di questo periodo storico - che lo Stato unitario si realizza anche per una guerra sanguinosa che non ci apparteneva - quella di Crimea - e per l’utilizzo di pratiche extra-politiche, come il ruolo giocato dalla contessa di Castiglione nella vicenda amorosa che ebbe con Napoleone III. Anche attraverso questi motivi si realizza lo Stato unitario che da alcuni è stato visto come una forma di colonizzazione di una parte delle terre del nostro paese. Una questione meridionale seriamente affrontata avrebbe bisogno di essere inquadrata dal punto di vista storico per la maniera in cui si è realizzata (o non realizzata), non sempre così lineare come si è voluto far credere. Tutto questo attiene ai motivi di riflessione, di indagine, di considerazioni varie che possono essere fatti nell’imminenza o nel corso delle celebrazioni del centocinquantesimo anniversario dell’unità d’Italia, e che offrono le basi di discussione storica, culturale e politica per formulare un giudizio, a cui non s’addice alcuna indulgenza, dell’Italia come paese e come nazione in questa stagione particolarmente travagliata della sua vita pubblica. Aggirandomi per que-

Per lungo tempo non abbiamo saputo cosa vuol dire sentirsi immersi in una storia, in una tradizione e avere radici. Da questa assenza è derivata la patologia dei particolarismi che hanno portato all’attuale mancanza di unità


[Italianisenza Italia]

Non sappiamo chi siamo perché siamo smarriti, e le istituzioni formative del nostro paese non ci hanno aiutato. Non ci ha aiutato la scuola, non ci ha aiutato l’università, non ci aiuta la televisione, la cultura in genere, i giornali, l’editoria e quant’altro.

sto paese incontro più che altro macerie. Mi sembra di vivere la storia del protagonista di un recente romanzo americano - La strada di Corman McCarthy dove ci sono un padre e un figlio che si aggirano in un universo nichilista attraverso macerie, rottami fumanti tra i quali non c’è nulla di vivo, nulla che induca alla speranza. Sarà anche un’immagine letteraria ma la letteratura - come si sa - precorre i tempi della politica, anzi li esplicita, li fa sentire molto più vivi, li rende più comprensibili. Queste macerie sono la rappresentazione plastica della disunione della nazione italiana, della frammentarietà, della assoluta inconsistenza di quello che noi vediamo e facciamo. Non c’è un settore della nostra vita pubblica del quale ci si possa dire più o meno soddisfatti, ma questo non è l’inveterato pessimismo di un deluso, credo che basti sfogliare un giornale. Anzi, per igiene mentale forse non bisognerebbe sfogliarli i giornali, ma paradossalmente è proprio attraverso i giornali (che grazie a Dio esistono) che ci rendiamo conto dello spaesamento nel quale viviamo. Infatti, quando diciamo Italia, non sappiamo più bene che cosa diciamo e a che cosa ci riferiamo. Tutto questo è forse riconducibile alla fine della politica? In buona parte credo di sì. E se c’è una vitalità in questo paese, nelle imprese, nelle aziende, nelle attività professionali, ritengo che risulti in qualche maniera oppressa, che avverta la fatica di rappresentarsi quotidianamente in qualche modo. Non condivido perciò l’ottimismo istituzionale espresso dal ministro Bondi nella sua riflessione, poiché credo, con Adornato, che il paese sia oppresso dalla crisi dello Stato. Crisi che si concretizza nel conflitto permanente tra le istituzioni e tra i poteri dello Stato, in particolare fra i tre poteri costituzionali. Crisi che si evince dalla mancanza di coesione nel sentirci tutti parte di una nazione: in una parola, dalla decadenza dello spirito pubblico. Una volta si diceva che raccontando in questi termini la vita di un paese, di una nazione, si era come immersi in una sorta di gaia apocalisse. Questa frase venne usata per descrivere la vita alla fine dell’impero asburgico. Una metafora condivisibile, avviandoci, consapevolmente, verso un naufragio, senza far nulla per tenerci a galla. Non sarà certamente il federalismo a sanare la grande ammalata. Semmai il federalismo mi pare ne acceleri la fine perché esso, non accademicamente inteso, viene interpretato come trionfo dei particolarismi e dei neoegoismi piuttosto che come un punto di partenza per una nuova unione. Dove si è mai visto che per dare maggiore coesione a uno Stato, se ne disfa uno centrale per renderlo federale? Nel passato è accaduto tutto il contrario e si è scelta la forma federale per dare maggiore coesione agli Stati. Così, per esempio, è nato il 60-61

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[GennaroMalgieri] Belgio in Europa, ma si potrebbero fare altri esempi. Dovrebbe essere questo l’impegno - una riflessione che riguardi anche il federalismo e la coesione dello Stato - per onorare davvero le celebrazioni del centocinquantesimo anniversario dell’unità nazionale. Ciò che chiedeva dalle colonne del Corriere della Sera Tommaso Padoa Schioppa, espungendo però dalla sua considerazione che la ricostruzione dell’idea di Stato deve essere la prosecuzione o comunque un posterius rispetto alla ricostruzione dell’idea di nazione. Perché è inimmaginabile prevedere la costruzione dello Stato o la sua invenzione prima della nazione: è dalla nazione che procede naturalmente lo Stato. L’uno senza l’altra non hanno alcun senso, anzi sono destinati a entrare in rotta di collisione come se una società entrasse in una guerra permanente con le istituzioni giuridiche che sono la sua proiezione, senza la possibilità di poter ricondurre a unità il rapporto. L’identità nazionale, in altri termini, è la grande assente dal dibattito pubblico perché è stata volontariamente rimossa, perché per lungo tempo non abbiamo saputo cosa significhi essere italiani, cosa vuol dire sentirsi immersi in una storia, in una tradizione, in un senso comune, cosa significhi avere un senso comunitario, delle radici. Da questa assenza credo sia derivata la patologia dei particolarismi che hanno portato alla disunità che oggi lamentiamo. La dicono lunga, in questo senso, le ultime vicissitudini che hanno riguardato la definizione del Dizionario biografico degli italiani di cui si è molto parlato. È la biografia della nazione: vi sembra normale che in paese, in uno Stato normale, le pagine di alcuni quotidiani si siano riempite della seguente domanda: perché non viene portata a termine un’impresa che è l’orgoglio della cultura contemporanea del nostro paese? Mi permetto di ricordare - citandomi - che nel 1997 presentai al presidente del Consiglio dell’epoca e al ministro dei Beni culturali un’interrogazione sullo stato penoso in cui versava questa opera della quale dovremmo essere orgogliosi. Non ebbi risposta. Eravamo fermi alla lettera F, Francesco Paolo Casavola, già presidente anche della Enciclopedia italiana oltre che della Consulta, mi conferma che siamo arrivati alla lettera M con il rischio di chiudere da un giorno all’altro se non arriva una sovvenzione, una elemosina da parte dello Stato mosso a pietà dopo i recenti appelli di intellettuali e uomini politici. Un piccolo esempio, questo, per far capire come in realtà noi teniamo poco alla nostra nazione, all’idea stessa di nazione. Non sappiamo chi siamo perché siamo smarriti, e le istituzioni formative del nostro paese non ci hanno aiutato. Non ci ha aiutato la scuola, non ci ha aiutato l’università, non ci aiuta la televisione, la cultura in genere, i giornali, l’editoria e quant’altro.


[Italianisenza Italia]

Lo Stato-nazione è l’unico antidoto nei confronti di una governance mondiale che non ha volto e che prende decisioni che non passano al vaglio di nessun organismo rappresentativo delle comunità e delle genti

Quello che rimane è la frammentarietà, la disunità, per cui essere italiani oggi significa molto poco, proprio nel momento in cui altri paesi con minore tradizione politica, riscoprono un’idea che è stata centrale nella politica del XX secolo: la centralità dello Stato-nazione nel tempo della globalizzazione. Ricordo un pregevole libretto di Ralph Dahrendorf, La democrazia in Europa (Laterza 1992). Diceva lo scomparso economista che lo Stato-nazione è l’unico antidoto nei confronti di una governance mondiale che non ha volto, nei confronti di decisioni che vengono prese altrove e che non passano al vaglio di nessun organismo rappresentativo delle comunità e delle genti; proprio nel mezzo del trionfo della globalizzazione lui riscopriva l’antica idea - da liberale e conservatore quale era - che è stata lo strumento attraverso il quale la modernità ha potuto dispiegarsi nell’Europa tra la fine del XIX secolo e gli inizi del XX secolo. Questo Stato-nazione è oggi presente alle classi politiche italiane di destra o di sinistra? Mi pare proprio di no. Come molti apologeti di destra e di sinistra del bipolarismo, anche io mi sono battuto per un bipolarismo serio, che potesse inserirci a pieno titolo nell’area delle grandi democrazie occidentali ma quel che ne abbiamo ricavato sono state, nella migliore delle ipotesi, delle illusioni. Ebbene in questo bipolarismo è assente quello che dovrebbe caratterizzarlo, cioè un’idea della politica e dunque anche l’idea di come rimodulare lo Stato-nazione. Questo bipolarismo è stato il pretesto per enfatizzare non il bipolarismo mite come immaginavamo qualche anno fa, ma un leaderismo straccione e un populismo locale. Come sapete leaderismo e populismo sono due temi speculari, sin dai tempi di Bakunin e di Kropoptkin che amarono studiarli nella seconda metà del XIX secolo. Come atteggiarsi allora nei confronti di questa decadenza della politica? La risposta che viene in evidenza è semplice: attraverso una grande stagione, un grande processo riformatore. Ma in questa decadenza dello spirito pubblico voi ce li vedete tutti questi soloni mettersi attorno a un tavolo per 62-63

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[GennaroMalgieri] riformare la Costituzione, per riformulare le parti desuete, li vedete attrezzarsi per quelle leggi di cui il paese ha una necessità straordinaria, mettersi con disposizione d’animo dialogante a cercare le soluzioni migliori nel campo dell’economia, della società, dei diritti? Io francamente non ce li vedo e non credo sia mai accaduto che un presidente della Camera dei deputati abbia dovuto sospendere i lavori di un ramo del Parlamento per mancanza di oggettivo materiale legislativo. È un’idea che conduce a quell’universo di macerie e di rottamazione che descrivevo prima, perché questo la dice lunga sulla decadenza di uno Stato, sulla crisi del parlamentarismo, sulla irrilevanza di una classe politica che non riesce a garantire neppure il tipo di lavoro che i parlamentari eletti dal popolo dovrebbero fare. Una cosa che indigna, disattesa da molti giornali che si sono limitati a pubblicare la notizia mentre gli articoli di fondo, i commenti, le analisi e i grandi titoli riguardavano ben altro. Quando si parla della fine dello spirito pubblico, non occorre rispolverare antichi classici della scienza e della politica - da Montesquieu a Carl Schmitt passando per Hans Kelsen - basta leggere i giornali per rendersi conto dello stato di decadenza nel quale siamo immersi. Ma noi abbiamo anche un compito come persone responsabili. Una volta si sarebbe detto come minoranze avanzate, o avanguardie rivoluzionarie. Abbiamo il compito di ricostruire il sentire comune anche nell’ambito di questo contesto decadente. Per questo c’è bisogno di un nuovo quadro di riferimento e dobbiamo prenderne atto con molta lealtà, indipendentemente dalle appartenenze. Personalmente sono stato sempre fedele agli ideali della mia giovinezza - come diceva un poeta francese -, ma è per un senso di giustizia e di lealtà verso se stessi che dobbiamo ricominciare a costruire un sentire comune in questo momento così difficile. Occorre un quadro di riferimento che vada oltre questo inconcludente bipolarismo, queste classi dirigenti un poco abborracciate, oltre le classi parlamentari. Vorrei una democrazia che fosse allo stesso tempo partecipativa, decidente e anche elettiva, non nominata. Vogliamo chiamare tutto questo un nuovo sentimento della nazione? Perché no. Credo che la nazione si possa ricostruire dalle fondamenta proprio tenendo conto, senza nascondersi nulla, dell’abisso in cui è precipitata. Senza questo presupposto, continueremo a nuotare nella gaia apocalisse, e quando parleremo di Italia inevitabilmente saremo costretti a farlo, nella migliore delle ipotesi, come il vecchio Metternich, riferendoci a un’espressione geografica. O, in altra maniera giornalisticamente più «attraente», ne parleremo come di una malattia morale o di un incubo politico.


Il nodo Nord-Sud ✵

Biagio de Giovanni ✵

A

FFRONTARE IL TEMA DELL’ANALISI DEL PAESE a centocinquant’anni dall’unità d’Italia,

tenendo insieme storia, politica e idee - portando avanti quella che una volta veniva definita «battaglia delle idee» - è fondamentale per tentare di combattere questa sorta di bipolarismo un po’ barbarico nel quale siamo sprofondati. Questo modo di affrontare le questioni sta scomparendo dalle nostre scene politiche con conseguenze drammatiche sul dibattito pubblico e non solo su quello. Così, si rischia, soprattutto in fase di accelerati mutamenti del mondo, di capire poco e niente. Vorrei articolare la mia riflessione riprendendo alcuni spunti forniti dal testo di Ferdinando Adornato ed esprimendo su alcuni fra essi il mio accordo e il mio dissenso. A proposito del ritorno degli Stati-nazione, del ritorno del tema delle identità, credo che la medesima idea di nazione sia soggetta a mutamenti e a problemi più complicati di quelli che ci ha consegnato la storia del passato. Basti pensare a Stati come l’India e la Cina, che sono Stati multinazionali, l’India soprattutto... questo ci pone di fronte a problemi che vale la pena richiamare anche se non li affrontiamo in questa sede. Abbiamo ragionato per tanto tempo sul legame problematico fra nazione e Europa, sostenendo che più si indebolivano le nazioni, più si rafforzava l’Europa, come in una specie di tiro alla corda. Non è così. L’Europa si rafforza se si rafforzano le identità nazionali purché all’interno di questo rafforzamento non prevalgano i nazionalismi. Questa tesi era sostenuta in un testo famoso e ormai classico, Cosmopolitismo e Stato nazionale di Meinecke (La Nuova Italia, 1975 ndr), dove si diceva che non è affatto detto che l’irrompere delle nazioni fosse la fine dell’Europa: dentro le nazioni, dentro la loro stessa dinamica c’è una tendenza ad andare oltre esse. «Cosmopolitismo», appunto, un termine ambiguo, problematico, sui cui ci sarebbe 64-65

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tanto da dire, che è sinonimo della volontà di uscire dai vecchi confini delle vecchie radici. E qui si affaccia il tema nazione-globalizzazione, il problema di una richiesta di identità che tende anche a regredire nelle piccole patrie: quanti di noi non hanno immaginato che la globalizzazione avrebbe rappresentato la fine della questione identitaria, quando in realtà avviene proprio il contrario, cioè che la resistenza alla globalizzazione sollecita il tema delle identità? Lo rimette in campo per difendersi dall’omologazione richiamandosi alla propria identità: più piccola è, e più sembra capace di difesa. Ma così tutto può regredire e farci tornare indietro di molto. Infine il tema della religiosità, la religione civile, grande tema tocquevilliano che richiama la questione del rapporto tra democrazia e religiosità. I cattolici che hanno partecipato in maniera attiva e positiva al Risorgimento italiano erano quasi tutti ai limiti dell’eresia; erano rappresentanti di una borghesia liberale, direi quasi di un cristianesimo cosmopolita. Lo era Manzoni ma anche Rosmini. Per Gioberti il problema si potrebbe porre in maniera più complessa, ma quando egli passa da una posizione all’altra lo fa soprattutto per criticare la politica del Pontefice. È stato recentemente ripubblicato da Laterza L’Italia laica a cura di Michele Ciliberto dove si trovano ripubblicati i due discorsi fatti da Cavour al Parlamento italiano sulla questione romana: sono due pezzi straordinari di cultura liberale carica di religione civile, tutti da leggere, da tenere comunque molto presenti. L’impressione che se ne ricava è che il dato rimane: nella storia d’Italia il cattolicesimo istituzionale è stato troppo a lungo un elemento di rottura della nazione, di frattura dell’identità nazionale. In qualche modo ciò ha reso più difficile la formazione di una religione civile. In questo senso, da storico delle dottrine politiche aggiungo che la tradizione del grande liberalismo risorgimentale, da De Sanctis a Silvio Spaventa, qualche elemento di riflessione ce lo potrebbe ancora fornire. Porta Pia è un restringimento della dimensione etico-politica, è l’elemento attraverso il quale, nel realismo dell’effettiva opposizione del cattolicesimo istituzionale alla rottura della nazione, si prova a dare una soluzione a una questione fondamentale quale la questione romana. Quel cattolicesimo attento all’America, - ecco il richiamo a Tocqueville - al modello degli Stati Uniti che già comincia a essere presente in


[Il nodoNord-Sud] quei pensatori, attento a interpretare secondo diverse modalità il rapporto tra religione e democrazia, non era inutile. Ma dove è finito oggi il cattolicesimo liberale? Si può immaginare un rapporto tra questa Chiesa e il mondo moderno? Non voglio dire che la Chiesa appaia semplicemente antimoderna, ma di certo sta fortemente problematizzando il suo rapporto col mondo moderno. Il fatto è che si devono avere ben presenti le forze reali, non solo i valori, perché altrimenti i valori finiscono per assomigliare a «caciocavalli appesi» come diceva ai suoi studenti quel professore di filosofia che faceva lezione in dialetto (cosa che farebbe molto piacere alla Lega), ricordato da Labriola in una lettera a Croce. Come a dire che sono delle entità che stanno lì sopra, a disposizione di chi li vuole. Se parliamo di cattolicesimo liberale e lo valorizziamo come uno degli elementi portanti, sia pure enormemente minoritario della storia del Risorgimento italiano, dobbiamo porci il problema delle forze, cioè delle relazioni effettive intorno a cui questa tradizione, questi valori e questa cultura possono tornare in campo. E qui secondo me c’è il nodo dell’istituzione Chiesa, della problematicità del suo rapporto col mondo moderno, in forme diverse da Papa Wojtyla a Benedetto XVI. La riprova indiretta di questo è che nella situazione attuale la Chiesa resta arroccata, rispetto alla dinamica di enorme mutamento della modernità, nel suo ruolo di custode dei valori in un mondo che, a suo giudizio, si va dissolvendo nel nichilismo. È questa la visione che prevale, in una realtà comunque permeata di residui di cattolicesimo sociale. Passo ora a tutt’altro tema. Sono stato ipercritico nei confronti della formazione del Pd perché ho avuto l’impressione che si trattasse di un revival della sinistra cattolica post-comunista da cui non potesse uscire vivo il senso di un rinnovamento per il XXI secolo, necessario alla politica del nostro Paese. E che fosse anche portatore di un secolarismo estremo in una società ipersecolarizzata. Quante punte diverse, quante difficoltà a mettere insieme questo quadro! Del resto anche la destra che governa l’Italia da un lato sembra attenta alle cose che la Chiesa sostiene su alcuni temi di fondo - la bioetica, la difesa della vita - e dall’altro induce una secolarizzazione strepitosa della società, quasi dissolvendo l’autonomia della questione cattolica. Sono molto sensibile al tema «cristianesimo e liberalismo» che considero due punti fondamentali per una riflessione più complessiva sulle forze che hanno dato vita alla modernità italiana. 66-67

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[Biagiode Giovanni] Tangentopoli ha avuto effetti drammatici sull’Italia, l’unica democrazia occidentale il cui il sistema politico è stato azzerato dall’iniziativa giudiziaria, in cui sono state azzerate le culture politiche del riformismo italiano che, nel bene e nel male, avevano governato il Paese. Questo è un drammatico elemento di anomalia democratica. Con il bipolarismo, che è stato un tentativo messo in atto per rispondere al fatto che la frantumazione partitica era finita, che anzi erano finiti i partiti, irrompeva il cosiddetto populismo. Senza per questo demonizzarlo, il populismo irrompe quando la rappresentanza politico-istituzionale è incrinata se non addirittura spezzata. È la fine dei partiti che induce l’ingresso nella politica della dimensione «popolo». E su questo si deve riflettere. Possiamo lavorare a disarticolare il concetto di popolo, forse uno dei compiti del Pd potrebbe essere fare analisi che permettano di rompere questa mitica unità. Ma il dato resta questo e questo è ciò che ha messo in radicale discussione le forme di egemonia che si erano consolidate nella Prima Repubblica. Ma, oggi, nella crisi, non credo finale, della Seconda Repubblica non c’è solamente la drammatizzazione prodotta dal populismo, c’è anche la Lega. Ci ragioniamo, di solito, aggettivandola: la Lega è corporativa, è settaria, è faziosa, i suoi devoti sono rozzi, primitivi, la Padania non è mai esistita. Ma la Lega è la questione settentrionale, una questione storica. Come la rappresenta, come la legge, con quale cultura, con quali occhiali, è un altro problema, ma il suo atto di nascita è questo. Quando allora ci poniamo il problema della nazione e della sua unità, quello che emerge in maniera evidente è il nodo Nord-Sud. Che cos’è infatti la nazione se non l’insieme delle cose che riescono a rimanere unite? Certo, anche i valori. Ma è difficile immaginare una nazione che sia poggiata solo sui valori. La nazione è anche un insieme di forze reali, è quel plebiscito sul destino comune, come diceva Renan. Se analizziamo più da vicino il problema, ci troviamo di fronte alla scissione reale dell’Italia. Allora chiediamoci, da cosa è indotta? Dalla Lega o la Lega è il prodotto di questa scissione? Non basta perciò criticare la Lega per superare la scissione, dobbiamo piuttosto porci il problema di come ricostituire nelle forze reali e nelle politiche non solamente nei valori astratti - il senso dell’unità del Paese e della nazione. Queste sono secondo me le questioni importanti da affrontare pur sapendo che nessuno ha risposte definitive, ma il solo interrogarsi su questi temi, rimettendo finalmente insieme storia, idee e politiche e uscendo dalla barbarie di un dibattito non più adeguato alla modernità dell’Italia, è di per sé cosa utile. Non è vero che il paese è allo sfascio, c’è anche un’Italia moderna, vitale, forte. Certamente esiste un elemento di separazione della classe politica dalla società ma per ricostruire l’unità occorre ripartire dalle idee e dalla politica.

Che cos’è la nazione se non l’insieme delle cose che sono unite? Un insieme di forze reali, un plebiscito sul destino comune. Per questo occorre saper leggere che cosa produce la scissione cavalcata dalla Lega


IL RUOLO NOSTRUM NEL PROCESSO DI INTEGRAZIONE EUROPEA CI CHIAMA A UNA PROVA DI MODERNITÀ DEL

MARE

Noi, i MEDITERRANEI ✵

Francesco D’Onofrio ✵

O

di volere «celebrare i centocinquanta anni» dell’unità d’Italia, si deve costantemente far riferimento o all’idea stessa di Italia - che è molto più antica di centocinquanta anni - o alla storia dell’Italia - che giunge all’unità dopo una proliferazione di Stati e staterelli della nostra penisola e delle due isole maggiori o alla politica dell’Italia unita che oggi deve confrontarsi con il processo di globalizzazione in atto. Sono queste le ragioni che hanno reso sino a ora difficile l’accettazione della formula «partito della nazione»: occorre evitare il rischio di cadere nella formula ottocentesca e infine fascista della nazione intesa quale portatrice di valori anche bellici e colonialistici; occorre del pari rendere chiaro che un partito della nazione non mette in discussione il fatto che la nazione sia un bene comune, di tutti, quale che sia il partito di riferimento. Abbiamo comunque voluto iniziare proprio dall’idea di Italia che si ha in mente, perché siamo convinti che da alcuni anni la politica italiana annaspa proprio sull’idea dell’Italia (si pensi al dibattito sui dialetti); è incerta sul significato stesso della storia italiana (europea o mediterranea o entrambe?); siamo di fronte alla necessità di costruire una politica italiana per il tempo presente che è fatto contestualmente di residua sovranità nazionale, di progressiva integrazione europea, di incipiente globalizzazione mondiale. Abbiamo dunque bisogno di chiarire a noi stessi innanzitutto cosa significa oggi Italia, da un punto di vista sia spaziale sia temporale. Idea, storia e politica dell’Italia sono pertanto un tutt’uno ogni volta che si discute

CCORRE AVER BEN CHIARO CHE QUANDO SI DICE

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[FrancescoD’Onofrio] dell’Italia troppo spesso lasciando da parte ora l’una, ora l’altra, ora l’altra ancora: dal nostro punto di vista, pertanto, idea, storia e politica sono un tutt’uno che deve essere posto a fondamento di una iniziativa politica che tende alla costruzione di una nazione italiana nel tempo presente. Non sorprende dunque che vi sia stata nel corso di tutta la cosiddetta Seconda Repubblica una grande incertezza sul significato stesso del ruolo del presidente della Repubblica, della Corte costituzionale, della magistratura. Si tratta infatti di istituti tutti tendenti alla limitazione del potere popolare, soprattutto se questo si è materializzato in una Costituzione cosiddetta «rigida» come la nostra: nel corso dell’Assemblea costituente, infatti, risuonarono sia da parte comunista sia da parte azionista proposte contrarie alla istituzione di un organismo di controllo della costituzionalità delle leggi, così come vi furono notevoli incertezze sulla definizione dei rapporti tra presidente della Repubblica e governo da un lato e tra azione penale e legittimazione parlamentare dall’altro. In ciascuno di questi casi entrava infatti in gioco l’idea di Italia che si aveva in mente: espressione geografica (giunta all’unità ma oggi sulla soglia di una divisione spaziale)? Unità soltanto linguistica (dai dialetti all’italiano è solo un fatto di egemonia toscana o anche di identità nazionale)? Unità dei beni culturali (monumenti, chiese, dipinti)? Occorre perciò una vera e propria idea di Italia considerata nel suo insieme di pensiero, storie e politiche, anche fortemente diverse le une dalle altre ma pur tuttavia convergenti verso una comune idea ricostruttiva dell’Italia medesima. Questa è l’ambizione ed è per questo che noi la riteniamo posta a fondamento della stessa azione politica ricostruttiva di una nuova identità politica e di governo del nostro paese. Vedremo domani se, andando oltre questa dimensione più strettamente culturale, riusciremo a porre le basi di un’iniziativa politica che abbiamo temporaneamente definito della costruzione del Partito della nazione. Deve essere infatti molto chiaro che se parliamo di Costituzione intendiamo riferirci a qualcosa che vale molto di più di una semplice tecnica giuridica. La nostra Costituzione ha Europa e Africa da un lato, Europa e Medio rappresentato infatti un patto Oriente dall’altro: la nostra posizione geografica costituzionale concernente tutti impone anche territorialmente l’unità nazionale e tre quelli che da costituziona-

tra Nord e Sud del Paese


[Noi,i mediterranei]

Populismo, neonazionalismo territoriale, annegamento dell’identità nazionale nella globalizzazione sono pertanto i rischi che la storia contemporanea pone difronte a noi. È per questo che quando parliamo di Partito della nazione pensiamo al mutamento ma non al sovvertimento della radice popolare della Costituzione; al mutamento ma non al sovvertimento dell’assetto territoriale dell’Italia; al mutamento ma non alla supina acquiescenza italiana alla globalizzazione.

listi abbiamo chiamato gli elementi costitutivi dello Stato: popolo, territorio e sovranità. La nostra Costituzione si caratterizza infatti quale patto costituzionale che riguarda tutti e tre questi elementi nel senso della necessaria derivazione popolare per l’esercizio della funzione parlamentare; nel senso della unità territoriale complessiva conseguita alle guerre di Indipendenza del Risorgimento e alla prima guerra mondiale; nel senso dell’appartenenza al popolo della sovranità, ma non in senso assoluto ed esclusivo. È per questa ragione che temiamo mutamenti radicali per ciascuno di questi tre elementi: una sorta di estremismo elettorale farebbe scadere il popolarismo in populismo; una sostanziale indifferenza rispetto al territorio nazionale farebbe rischiare una sorta di neostatalismo territoriale minore; una sorta di acquiescenza supina alla globalizzazione farebbe rischiare la fine di qualunque aspetto residuo della sovranità nazionale. È di tutta evidenza che ciascuno dei tre elementi essenziali dello Stato italiano, quale è identificato nella Costituzione vigente (modifiche radicali comprese), deve essere sottoposto a innovazioni significative capaci comunque di dare una risposta complessiva di nuovo equilibrio e non di sovvertimento dell’equilibrio costituzionale originario. Populismo, neonazionalismo territoriale, annegamento dell’identità nazionale nella globalizzazione sono pertanto i rischi che la storia contemporanea pone difronte a noi. È per questo che quando parliamo di Partito della nazione pensiamo al mutamento ma non al sovvertimento della radice popolare della Costituzione; al mutamento ma non al sovvertimento dell’assetto territoriale dell’Italia; al mutamento ma non alla supina acquiescenza italiana alla globalizzazione. Per queste ragioni non abbiamo una obiezione di principio a formule costituzionali sul modo di formazione di chi guida il governo del paese, ma siamo rigorosi assertori della necessità che un’eventuale soluzione presidenzialistica del sistema di governo sia sempre accompagnata dalla preventiva previsione di quelli che gli americani chiamano checks and balances. Non si tratta di semplici formule giuridiche ma della sostanza stessa dei modi coi quali un popolo costruisce il proprio modello di democrazia. Abbiamo la consapevolezza che occorre fare in modo che la decisione elettorale incida sul governo del paese più di quanto non sia possibile con un sistema istituzionale-elettorale, costruito più per la rappresentanza che per il governo. Abbiamo del pari la consapevolezza che la cultura sturziana originaria non possa limitarsi alla esaltazione della comunità comunale, perché occorre che 70-71

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[FrancescoD’Onofrio] la comunità regionale sia a sua volta dotata di strumenti autonomi di governo. Abbiamo, infine, la consapevolezza che il rifiuto di tecniche diffuse di protezionismo non siano soltanto parte necessaria del processo di costruzione dell’unità europea, ma anche parte significativa dell’incipiente processo di globalizzazione. Nuovo equilibrio costituzionale; non ritorno al vecchio equilibrio della cosiddetta Prima Repubblica rapidamente degenerata in partitocrazia; non illusione di una rincorsa dell’elettore mitico, perché ben consapevoli del fatto che anche il popolo può essere indotto a scelte contrarie al bene comune: basti pensare a quel che si ricorda a proposito di Socrate e alla scelta che Pilato rimise al popolo tra Barabba e Gesù. Come sostiene Enrico Cisnetto nella sua riflessione, non si può parlare di federalismo o di autonomie locali senza chiederci cosa fanno e quanto costano. La nostra Costituzione è, anche da questo punto di vista, una costituzione sturziana, nel senso che essa parte dal territorio ma non fa del territorio un elemento di dissoluzione dello Stato. Essere favorevoli a una democrazia che parte dal territorio significa necessariamente essere consapevoli che una siffatta democrazia costa rispetto ad altri modelli istituzionali che ignorano il territorio o lo considerano soltanto elemento di decentramento di funzioni integralmente statali. Se dunque siamo favorevoli al territorio comunale quale primo elemento identitario di comunità locali e se siamo favorevoli anche - almeno per quanto mi riguarda - al territorio regionale, inteso quale base culturale di un federalismo comunitario non dissolutore dell’unità nazionale, abbiamo pur sempre il dovere di affrontare il problema del costo dell’uno e dell’altro in termini di compatibilità complessive con la spesa pubblica generale. È per questa ragione che anche chi come me è favorevole a una ipotesi federalistica della Repubblica italiana, ha visto con piacere l’Udc votare contro la delega concernente il federalismo fiscale, perché non si poteva condividere una delega al governo per quel che concerne la spesa, senza una previa determinazione delle funzioni degli enti


[Noi,i mediterranei]

1948-1958: la proposta odierna dell’Udc cerca di fare di quel decennio il punto di fondo del nostro futuro. Un decennio eccezionale per l’affermazione del primato della libertà non solo economica dell’uomo

locali, considerati almeno per livello istituzionale: comunale, provinciale, metropolitano, regionale. Il rovesciamento del principio di razionalità che comportava - se rispettato - la determinazione delle funzioni prima della previsione delle competenze fiscali, ha fino a ora impedito di affrontare in termini non demagogici la questione stessa del costo degli amministratori locali: si tratta di persone chiamate a rappresentare le comunità locali, o si tratta prevalentemente di apparato periferico di burocrazia di partito? Nel primo caso, il loro numero complessivo e la loro retribuzione deve tener conto proprio del fatto che si è instaurato un fondamentale rapporto democratico di rappresentanza delle rispettive comunità; nel secondo caso, si tratta di valutare - anche in termini rigorosi - il costo complessivo dei partiti nel sistema italiano, considerando insieme enti locali, struttura nazionale e struttura europea dei partiti medesimi. È in questo contesto che va seriamente ripensata l’esperienza nazionalistica del fascismo. In qualche misura l’esito guerrafondaio e coloniali72-73

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[FrancescoD’Onofrio] stico del fascismo ha comportato quasi la difficoltà - nel periodo immediatamente successivo alla seconda guerra mondiale - di usare le parole «patria» e «nazione», quali parole ancora capaci di esprimere un aspetto positivo del vivere comune. Il nazionalismo fascista infatti ha rappresentato da questo punto di vista più la conclusione dell’Ottocento fortemente caratterizzato almeno nell’Europa continentale - dalla coincidenza di unità statuale e identità nazionale, che non l’avvio della nuova stagione culturale europea, che ha visto l’identità nazionale salvaguardata come tale anche nel processo di costruzione di integrazione europea. Ma per noi italiani vi è un ulteriore aspetto fondamentale per comprendere che siamo in presenza di una stagione nuova dell’iniziativa politica che stiamo proponendo: il Mediterraneo. Il fascismo aveva infatti individuato nel Mediterraneo una sorta di mare esclusivo dell’Italia in un contesto di perdurante colonialismo al quale anche l’Italia aveva voluto contribuire. Il processo di integrazione europea, invece, sta facendo del Mediterraneo uno straordinario punto di equilibrio rispetto all’allargamento a Est dell’Europa all’indomani della caduta del Muro di Berlino. La nuova dimensione del Mediterraneo chiama infatti l’Italia a una straordinaria prova di autocritica e, insieme, di modernità, soprattutto alla vigilia della nascita dell’area di libero scambio del Mediterraneo medesimo. Il problema che abbiamo di fronte si pone in termini radicalmente diversi dal passato fascista e anche in termini diversi dalla fase iniziale del processo di integrazione europea. Oggi infatti il Mediterraneo è visto contemporaneamente quale sostanziale bilanciamento europeo dello spostamento a Est del baricentro europeo medesimo, e quale ponte ideale tra Europa e Africa da un lato e tra Europa e Medio Oriente dall’altro. La posizione geografica dell’Italia diventa perciò complessivamente una posizione capace di concorrere al mantenimento anche territoriale dell’unità nazionale, a differenza di quanto si poteva constatare alcuni decenni or sono, allorché sembrava che il Nord Italia fosse attratto dall’Europa centrale e il Sud Italia fosse attratto dall’Africa. Occorre dunque una nuova consapevolezza culturale e politica a un tempo del significato ideale, storico e politico dell’Italia. In questo senso mi è sembrata particolarmente importante la considerazione di Ferdinando Adornato sul «decennio eccezionale nella storia italiana, quello che va dal 1948 al 1958». Eccezionale questo decennio perché nell’intero contesto della Prima Repubblica, esso - e soltanto esso - è stato


[Noi,i mediterranei]

caratterizzato dalla convergenza culturale e politica del cattolicesimo liberale di De Gasperi e del liberalesimo politico di Luigi Einaudi, con la cultura liberal-democratica dei repubblicani che stavano raccogliendo in questo modo la parte non estremista dell’azionismo. Decennio liberal-democristiano, dunque. Se volessimo riassumere con una terminologia allo stesso tempo antica e nuova questa straordinaria congiuntura italiana, potremmo dire - con linguaggio sturziano - che si è trattato di un decennio liberal-popolare: liberale nel senso dell’affermazione del primato della libertà non solo economica dell’uomo; popolare perché fondato sulla legittimazione democratica del popolo quale soggetto identificato per una propria idea, una propria storia, una propria politica. La proposta odierna dell’Udc cerca di fare di quel decennio il punto di fondo del futuro caratterizzato quest’anno dall’eccezionale crisi economica e finanziaria, che sta mettendo in discussione proprio la deriva liberista della libertà einaudiana e la deriva populista del popolarismo sturziano. Non un ritorno a un mitico passato liberale-democraticocristiano dunque, ma un futuro che trae dal passato l’alimentazione per andare oltre l’illusione a lungo coltivata della divisione del mondo da un lato in sovietici e statunitensi e dall’altro in europei e coloniali. È per questa ragione che il nostro progetto è alternativo al Pdl, che si sta sempre più caratterizzando quale polo elettoral74-75

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[FrancescoD’Onofrio] secessionista molto più che perno di un asserito sistema bipolarista, e al Pd, che sta cercando - finora senza successo - di costruirsi come tentativo di amalgama tra cultura post-sovietica e cultura post-dossettiana. L’alternativa di cui parliamo non è caratterizzata da una logica di centrismo da «doppio forno», ma dal senso profondo dell’identità nazionale, intesa quale garanzia non solo territoriale dell’unità della Repubblica. Occorre aver presente il fatto che la nostra Costituzione fu scritta da una Assemblea costituente eletta con il metodo proporzionale senza premio di maggioranza, e con un modestissimo sbarramento di partenza. Allorché si prevede il non ricorso al referendum costituzionale nell’eventualità in cui la legge costituzionale sia stata approvata a maggioranza dei due terzi di ciascuna assemblea, ciò significa che la Costituzione rappresentava una sorta di patto costituzionale essenziale per la convivenza democratica di governo e opposizione. Non si era ancora in presenza né del Patto Atlantico (che è del 1949) né della guerra fredda in senso stretto, che è contemporanea o immediatamente successiva al Patto Atlantico medesimo. Si tratta di una regola costituzionale interna e non imposta dalla situazione internazionale, anche se questa aveva avuto a Yalta un punto fondamentale di distinzione tra Oriente e Occidente. È per questa ragione che quando si dice che è bene se c’è l’intesa tra maggioranza e opposizione, ma che se l’intesa non c’è, la maggioranza procede anche da sola (come è avvenuto nel 2001 per il radicale Titolo V della II parte della Costituzione e nel 2005 per una riforma complessiva di tutta la II parte), si dice qualcosa che non corrisponde allo spirito originario della Costituzione medesima. Il problema oggi è capire tra chi dovrebbe realizzarsi un’intesa costituzionale, non essendovi più nessuno dei due partiti maggiori che avevano concorso a scrivere la Costituzione originaria. La nostra proposta parte da un’idea di Italia che va compiutamente descritta e costruita, e giunge alla previsione di una riforma costituzionale, che è liberal-popolare perché non fa coincidere il popolo con gli elettori o il territorio con alcune sue parti o l’identità nazionale intesa quale bene transitorio. Si tratta di un compito eccezionale, non solo culturale. È per questo che si è ritenuto necessario ripartire proprio dalla domanda: cos’è l’Italia oggi?

L’alternativa proposta dall’Udc non è caratterizzata da una logica di centrismo da «doppio forno», ma dal senso profondo dell’identità nazionale, intesa quale garanzia non solo territoriale dell’unità della Repubblica.


La soluzione c’è: il modello tedesco ✵

Piero Alberto Capotosti

G

LI OBIETTIVI DI FONDO, CHE LA RELAZIONE di Ferdinando Adornato prospetta con un’anali-

si di ampio respiro culturale e con un’acuta percezione dell’attuale tormentato contesto possono così sintetizzarsi: la ricostruzione dello Stato e la rinascita della nazione. Obiettivi validi oggi così come erano validi ieri, intendendo per ieri il periodo dei nostri Padri costituenti su cui intendo soffermarmi perché è da lì che comincia lo Stato repubblicano. È con il patto dei Costituenti fra le tre componenti politico-culturali presenti nell’aula di Montecitorio, che si è attuato quel «compromesso alto e nobile» di cui parla Meuccio Ruini (presidente della Commissione per la Costituzione dal 19 luglio 1946 al 31 gennaio 1948, ndr) - definendo così la Costituzione. Quel compromesso alto era finalizzato a ricostruire un paese distrutto dalla dittatura, dalla guerra, dalla guerra civile, e a rifondare uno Stato. Certo, lo Stato Italia esisteva dal 1861, ma riprendere, dopo eventi così drammatici, il filo di uno Stato rappresentativo di una nazione unita era un impegno molto difficile. A dire il vero, questo à stato un problema sempre molto complesso, se Massimo D’Azeglio viene spesso citato per avere affermato che «fatta l’Italia, bisognava fare gli italiani», e anche di Giuseppe Mazzini si ricorda, anche se più raramente, l’espressione che «il fiat della nazione non può essere proferito che da una Costituente e non può incarnarsi che in un patto nazionale». E dunque il problema della ricerca dell’identità nazionale e del suo raccordarsi con l’Assemblea costituente e con il «compromesso» costituzionale. Ma quale fu allora la scelta dei Costituenti? Costantino Mortati, che redige il progetto alla prima sottocommissione, fa una scelta di campo netta. D’altronde un giurista dello spessore di Mortati aveva analizzato attentamente pregi e difetti di tutte le varie forme possibili e ipotizzabili di governo, ma la scelta definitiva fu quella per un governo parlamentare perché, tra molte altre ragioni, era quella più utile a rafforzare l’unità del paese. Mortati sosteneva che il presidenzialismo è un sistema tipico degli Stati federali e quindi non contribuisce a rafforzare l’unità del paese. Siamo nel ‘46 e la disomogeneità della società civile, sul piano culturale, economico, sociale rendeva più che mai necessario un sistema di governo 76-77

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[Piero AlbertoCapotosti] che evitasse le rotture dell’unità e indivisibilità della Repubblica, che temeva Lussu, e che componesse le disomogeneità attraverso «una serie di garanzie reciproche tra le varie forze sociali e politiche» (Crisafulli). Si doveva quindi optare per un sistema che, come quello parlamentare, attuasse una compenetrazione e cooperazione tra i poteri, cioè quella leale collaborazione che oggi, dopo la modifica costituzionale del 2001, è espressamente sancita nella Costituzione. È vero, non fu una scelta univoca: c’era la posizione di Piero Calamandrei, tanto per fare un richiamo eminente, a favore del sistema presidenziale, ma la scelta è stata quella, anche se qualcuno come Egidio Tosato sosteneva che il sistema parlamentare avrebbe dovuto subire una «contaminazione» con il sistema presidenziale, anche per introdurre, in qualche modo, quei «dispositivi» di stabilizzazione del governo, evocati nel famoso o.d.g. Perassi, che appunto indicava ai Costituenti il modello parlamentare. Ma come funziona il modello che esce dalla Costituente? Bene nella prima fase, quella di De Gasperi, poi alla fine degli anni Cinquanta comincia a zoppicare, perché le spinte dello Stato dei partiti diventano sempre più prevalenti. Ecco allora il succedersi di varie fasi - il centrismo, il centrosinistra, i governi di solidarietà In Germania nazionali, il pentapartito -, una serie di passaggi in cui quel modello via via degenera in una forma di democrazia «bloccata» per fattori interni è dal ’48 che funziona, e internazionali, che favoriscono l’emergere di quella che Leopoldo riuscendo a comporre Elia aveva battezzato conventio ad excludendum nei confronti del paresigenze composte. tito comunista. Ma quand’è che si rompe quel patto costituente che È un sistema aveva dato una fisionomia al complesso sistema politico-istituzionale di che assicura tipo parlamentare classico del nostro Stato? E quand’è che comincia la una forma «lunga transizione» verso la «Grande Riforma» dello Stato? La datadi premierato regolato zione può essere variamente interpretata. C’è chi parla del ’68-’69, con e conferisce stabilità la fine del centrosinistra organico, la gestione sempre più difficile della coalizione di governo per l’emergere di tentativi di un nuovo rapporto di governo


[La soluzioe c’è:il modello tedesco] tra il Psi e il Pci, anche sotto la spinta dei movimenti del ’68. Altra possibile data è il ’76, quando nelle elezioni politiche Democrazia cristiana e Partito comunista erano divisi da un punto di percentuale e insieme totalizzavano circa il 75%. Aldo Moro diceva che in quelle elezioni non c’era stato un vincitore, ma due, prefigurando così sin dal ’76 conseguenze rilevanti sull’assetto dei partiti e sulla forma di governo. È in quel momento infatti che Giorgio Galli conia l’espressione «bipartitismo imperfetto» e si esalta con i nuovi Regolamenti la «centralità» del Parlamento, quale vero luogo di incontro e di decisione tra le forze politiche di maggioranza e di opposizione. Oppure possiamo riferirci al ’93, data dalla quale di solito si ritiene che prenda le mosse la cosiddetta Seconda Repubblica, proprio per l’emergere della scelta del bipolarismo. Ma fu una scelta obbligata quella a favore del bipolarismo? Non lo credo, fu una scelta indotta dal superamento della questione comunista e, per altri motivi, dalla fine della questione democristiana. A mio avviso, il superamento di queste due questioni attraverso la scelta bipolare tendeva a favorire l’egemonia della sinistra non più comunista, utilizzando la strada aperta non già di un mutamento costituzionale, ma da una semplice riforma elettorale, anzi di un ancor più semplice referendum abrogativo. Quindi una strada rapida e agevole, su cui doveva muoversi la «gioiosa macchina da guerra» di cui parlava Occhetto, alle elezioni del 1994. Ma la cosiddetta Seconda Repubblica per me non esiste e non è mai esistita perché non c’è stata nessuna rilevante modifica della Costituzione formale, né la riforma elettorale ha indotto un mutamento della Costituzione «materiale» di cui oggi si fa un gran parlare. Quella riforma elettorale, che ha introdotto un bipolarismo «forzoso», non si è mai inverata nelle coscienze dei cittadini e nelle forze politiche tant’è vero che si è cominciato subito dopo a parlare di ulteriori modifiche, tant’è vero che non sono stati raggiunti quegli obiettivi che si prefiggevano, cioè la semplificazione e la trasparenza del quadro politico, la riduzione delle forze politiche e delle formazioni partitiche. Niente di tutto questo si è verificato. Pensiamo ad esempio alla stabilità dei governi: ci sono stati dal ’93 a oggi tre scioglimenti anticipati del Parlamento, nessun governo ha compiuto l’intera legislatura. Inoltre ’è stata una proliferazione di 78-79

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[Piero AlbertoCapotosti] quelli che Mauro Calise ha chiamato i partiti personali, partiti padronali, partiti liquidi. Tutto fuorché partiti nel senso tradizionale, privi cioè di qualsiasi radicamento sociale, territoriale e soprattutto ideale, tanto che i partiti di quegli anni, e purtroppo anche di quest’epoca, richiamavano assai poco le denominazioni delle grandi famiglie dei partiti europei. Che cosa abbiamo ottenuto in questa fase? Una grande instabilità politica derivante appunto dal formarsi di due grandi «cartelli elettorali», molto poco coesi al loro interno, e dalla connessa spinta a creare formazioni partitiche per lucrare rendite di posizione e i vantaggi economici previsti dalla legge sul finanziamento pubblico dei partiti. Non c’è dubbio che noi italiani abbiamo sempre una grande inventiva: ma la soglia di sbarramento unitamente al premio di maggioranza è qualcosa di assolutamente atipico e anomalo; per di più il premio di maggioranza senza un quorum minimo. La cosiddetta «legge truffa» del 1953 impallidisce al confronto, poiché lì, come è noto, il premio di maggioranza era previsto che scattasse per lo schieramento che avesse ottenuto almeno il 50% più 1 dei voti. Oggi il nostro sistema elettorale ha qualcosa di perverso, perché divarica ed estremizza le posizioni politiche. Il bipolarismo è estraneo alla cultura, alle radici, alla storia della società italiana, per cui in Italia non si è mai realizzato compiutamente, perché, per così dire, non è stato «metabolizzato» dagli elettori e quindi viene praticato in modo distorto. In proposito si ricordi che nelle democrazie bipolari classiche la battaglia elettorale si vince al centro: il bipolarismo, cioè, è centripeto, il nostro invece è centrifugo, tende sempre di più a spostare l’elettorato verso le ali dell’arco politico, mentre il centro resta vuoto. E questa centrifugazione esaspera il rapporto tra i due schieramenti che tra loro sembrano non avere nessun vero dialogo, nessun idem sentire de re publica, proprio perché sono divaricati verso la ricerca delle frange più estreme. Anche sotto questo profilo da noi il bipolarismo non funziona, appunto perché non agevola affatto il processo decisionale e, per di più, dividendo in due parti contrapposte lo schieramento politico, tende di fatto a vanificare le istituzioni di garanzia. Siamo quindi alla ricerca di qualcosa che possa ridare allo Stato italiano una sua propria fisionomia, liberandoci dalle degenerazioni del quadro politico che ci assediano, provocate non soltanto dal sistema bipolare, ma anche dalla verticalizzazione del potere. Demonizzare i partiti come contenitori di tutti i vizi possibili e immaginabili, e con essi l’intera classe politica, alla quale si è voluto contrapporre una società civile bella e pulita, non ha mai dato buoni risultati. Il leaderismo e la «verticalizzazione» del potere hanno infatti prodotto un sistema tale, da incidere in modo rilevante sull’attuale funzionamento della forma di governo, che assume così andamenti anomali. Si continua infatti a dire che il governo è debole perché così


[La soluzioe c’è:il modello tedesco] Si continua a dire che il governo è debole perché così l’hanno configurato i Costituenti. Questo è vero solo in teoria, e in Italia non c’è mai stato un governo forte come oggi l’hanno configurato i Costituenti, ma questo è vero soltanto in teoria. In Italia non c’è mai stato un governo della Repubblica così forte come oggi: il governo legifera prevalentemente con decreti legge (anche quando necessità e urgenza sono tutte da dimostrare), o mediante delegazioni legislative amplissime e riservandosi spesso a possibilità di ricorrere anche a decreti correttivi e integrativi. Altra innovazione dell’attuale sistema di governo è costituita dalla frequente presentazione di maxiemendamenti direttamente in aula, i quali in questo modo eludono, per così dire, il doveroso esame delle commissioni. E dulcis in fundo, il ricorso sempre più ripetuto alla questione di fiducia, essenzialmente per compattare la maggioranza, anche se così ampia. Tutto ciò comporta un’automatica emarginazione del Parlamento, per cui oggi non si può più dire che il nostro sia ancora un sistema autenticamente parlamentare: è un sistema che è difficilmente configurabile, non è né parlamentare né presidenziale, ma qualcosa di assolutamente atipico e soprattutto privo di regole. Come uscirne? Innanzi tutto, introducendo nel nostro sistema quei «dispositivi», che, secondo l’o.d.g. Perassi approvato all’Assemblea Costituente, dovevano contribuire ad attuare una forma di parlamentarismo «razionalizzato», capace di assicurare stabilità ed efficienza al governo, prevenendo, allo stesso tempo, le degenerazioni del sistema. In proposito ho in mente il modello tedesco, utile a tante cose. Il modello c’è, è dal ’48 che funziona, componendo esigenze opposte, e che quindi anche da noi potrebbe mettere d’accordo i sostenitori di tesi diverse. In primo luogo è un sistema che assicura una forma di premierato regolato, che conferisce stabilità di governo. Dal ’48 a oggi, infatti, ci sono stati in Germania sette o otto cancellieri, non di più, il che mi sembra un risultato incoraggiante. D’altronde, come appunto accade nella prassi tedesca, il premierato si esprime nell’ambito di una coalizione di governo di tre partiti al massimo, dal momento che le ipotesi di Grosse Koalition sono straordinarie ed eccezionali (dal ’48 a oggi in Germania ce ne sono state soltanto due, se ben ricordo). Un altro elemento importante da considerare è la speciale regolamentazione del rapporto di fiducia tra Parlamento e cancelliere; un rapporto di fiducia basato sul notissimo meccanismo del voto di «sfiducia costruttivo», che appunto conferisce particolare stabilità al governo, e su precise ipotesi di scioglimento anticipato rimesse alla valutazione del capo dello Stato. Inoltre, il sistema elettorale tedesco, con la clausola di sbarramento al 5 per cento, senza premio di maggioranza, evita la frammentazione dello schieramento politico, ma, nello stesso tempo prevede un sistema non maggioritario, e invece tendenzialmente proporzionale. Va pure segnalato che l’introduzione del collegio uninominale per la metà dei seggi da 80-81

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[Piero AlbertoCapotosti] il bipolarismo è estraneo alla cultura e alla storia della nostra società, in Italia non si è mai realizzato perché non è mai stato metabolizzato assegnare e della lista bloccata per l’altra metà può apparire una soluzione soddisfacente, anche per i fautori, in Italia, del voto di preferenza. Infine è da ricordare che in Germania c’è anche il bicameralismo differenziato: noi lo stiamo inventando, ma forse potremmo assumere il modello tedesco. Per non parlare poi del loro regionalismo, con l’esistenza, tra l’altro, di una fondamentale clausola di supremazia degli interessi del paese che invece noi non abbiamo previsto nel nostro testo costituzionale del 2001. Ma l’interrogativo più urgente è come recuperare, insieme con l’efficienza dello Stato, l’unità della nazione, attualmente in pericolo per motivi di carattere simbolico e sostanziale. Simbolici sono i vessilli, gli inni regionali e l’insegnamento dei dialetti. Sostanziale è invece il federalismo, un federalismo - attualmente solo quello fiscale - che sembra aggravare i problemi anziché risolverli, accentuando la divaricazione tra Nord e Sud. Il problema non è il federalismo in sé, anche se va notato che siamo l’unico paese con una forma di Stato di tipo centralizzato ad avviarsi verso una forma di Stato di tipo federale, quando normalmente avviene il contrario; il problema è colmare quella lacuna che da sempre esiste nel nostro ordinamento: la mancanza cioè di un tessuto sociale coeso e unito nella condivisione dei valori di fondo. Proprio questo è ciò che mette in dubbio la nostra unità e la nostra identità nazionale, ed è appunto questo vuoto, anche dovuto ai comportamenti dei singoli, che dobbiamo colmare. Possiamo pensare a forme di autocritica, di autocorrezione dei titolari dei poteri supremi, o degli organi statali più importanti, ma il recupero dell’etica pubblica non può essere impostoRecuperare il senso della nazione è tanto più importante in tempi di globalizzazione e di rinvigoriti localismi religiosi, culturali, etnici, spesso esasperati e contrapporti appunto alla spinta globalizzatrice. In questo contesto è molto difficile individuare il ruolo dell’Italia nell’Europa di Lisbona, perché c’è il rischio che l’Europa di Lisbona, per come oggi appare, non sia in realtà che una reminiscenza di quella «Europa delle patrie» che tanto piaceva a de Gualle. L’equilibrio tra Europa e localismi è difficile da raggiungere: il rischio è appunto quello che ci sia un’Europa di tante patrie, senza però un vero spirito europeo. L’auspicio è che il senso di identità nazionale possa essere recuperato anche attraverso comportamenti corretti, là dove si abbandonino le prevaricazioni di un potere sull’altro, le invasioni di campo, la politica degli insulti. Ma questo, temo, è il frutto di una lunga desuetudine a forme di autocorrezione e di autocritica, che però non possono essere imposte da nessuno. La speranza è che molto presto l’Italia si incammini verso un pieno recupero dell’etica pubblica, al termine del quale sarà davvero possibile intendersi sull’unità e l’identità della nazione.


DECLINARE UN DISEGNO POLITICO GUARDANDO OLTRE I CONFINI NAZIONALI

I

L TEMA CHE È AL CENTRO DI QUESTA RIFLESSIONE - l’idea dell’Italia, la sua identità - richiama innanzitutto concetti politici. Definire l’identità dell’Italia era già un fatto politico per Dante Alighieri o per Alessandro Manzoni. Credo che ancora oggi sia impossibile riflettere sull’idea dell’Italia e sulla sua identità con un approccio prevalentemente culturale, sociologico o economico. Non dovrebbe interessarci soltanto l’analisi del contributo dei patrioti nel Risorgimento, quanto quello dell’Italia da condividere oggi, delle ragioni che hanno segnato l’unità della nazione e che la riguardano ancora oggi. L’idea dell’Italia e la sua identità ci riportano a una esigenza politica: si tratta di provare a declinare un disegno politico e civile contemporaneo. Ha ragione Ferdinando Adornato a sottolineare, come ha fatto nel suo intervento, le caratteristiche del ritorno dello Stato-nazione sulla scena contemporanea. Allo stesso tempo, l’identità della nazione presente e futura va interpretata in una dimensione geopolitica, oltre i nostri ristretti confini. Non di rado, nel corso della storia, un popolo si è definito anche per contrasto. Non c’è dubbio che l’idea dell’Italia sui cui possano unirsi gli italiani di oggi e i nostri figli domani non può che essere connessa strettamente alla lettura di ciò che ci circonda, di ciò che ci attraversa, di ciò che ci minaccia, di ciò che può cambiare l’eredità delle lunghe vicende della nostra patria. Siamo interpellati dal processo di integrazione di un’Europa che abbiamo sempre inteso come seconda patria. Siamo interpellati dalla difficoltà di questo processo di integrazione, stemperato nell’allargamento. Tuttavia, come ci ricordano i Padri fondatori - cito

L’identità nella globalizzazione ✵

Francesco Rutelli✵

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L’idea dell’Italia non può essere un concetto astratto ma l’indicazione delle missioni contemporanee della nazione

per tutti Monnet: «l’Europa si farà dalle crisi che saprà superare» - una svolta è possibile proprio nei momenti più delicati, come quello che stiamo attraversando. Siamo interpellati dalla globalizzazione, nella quale dobbiamo definire la nostra identità nazionale. Pensiamo al multiculturalismo, un tema troppo spesso invocato con eccessiva superficialità. Personalmente non condivido l’idea di un multiculturalismo asettico; credo piuttosto che si debba pensare a un pluralismo culturale riferito a una identità forte. Molti osservatori affermano che l’islam approdato in casa nostra finirà per essere assorbito dalla ricchezza del pluralismo, dalla forza della democrazia e delle libertà piuttosto che snaturare la nostra società con la sua incapacità di tenere separati l’aspetto religioso e le istituzioni. Tuttavia, un tratto fondamentale dell’islam è proprio quello della «non-separazione» tra religione e Stato, tra la dimensione religiosa e i compiti pubblici, delle istituzioni. Un’indagine molto interessante compiuta da un’istituzione americana di ricerca, il Pew Research Center, basata su un censimento delle diverse fedi rapportabili all’islam, mostra una concentrazione geopolitica soprattutto nel continente asiatico. Il più popoloso Paese islamico è l’Indonesia, e ci sono oggi in Russia e in Cina molti più musulmani di quanti ce ne siano in Medio Oriente. Pur in questa diffusa presenza geografica, il dato che emerge è quello della impossibilità di una separazione tra «fatto religioso» e «fatto statuale». Il tema della globalizzazione non pone soltanto questioni di carattere economico, non si limita alla competitività delle nostre aziende di fronte all’ascesa cinese o a un costo del lavoro più contenuto in Asia come in Europa orientale. La globalizzazione investe l’identità, il senso di una nazione; tocca il suo futuro. Come interpretare oggi la circostanza per la quale cittadini inglesi di terza generazione e di religione islamica si arruolano nelle fila del jihad per combattere i loro soldati e concittadini in una valle dell’Afghanistan? L’idea dell’Italia è stretta tra gli effetti della globalizzazione e la tradizione del suo «particulare», così come declinato da grandi italiani come Guicciardini o Machiavelli. L’idea dell’Italia non può essere né un concetto astratto, né tantomeno un concetto universale. Deve essere piuttosto l’indicazione delle missioni contemporanee della nazione. Ci si unisce attorno a un’idea di Italia perché si condivide l’agenda delle priorità per il Paese. È indubbio che alcuni programmi di governo assumono ai giorni nostri le caratteristiche di una cultura politica che crea frammentazione e divisione. Questo tipo di cultura mina la solidità dell’impianto nazionale. Voglio derivare un’immagine da una vicenda che ho vissuto in prima persona: ero sindaco di Roma quando crollò una intera palazzina al quartiere Portuense. Si scoprì


[L’identità nellaglobalizzazione] che quel crollo fu determinato da modifiche strutturali seguite a un condono edilizio. Laddove c’erano pilastri che sorreggevano l’intero palazzo, si era insediata una tipografia. I macchinari usati dalla tipografia avevano progressivamente logorato la struttura, causando il crollo. Non sottovalutiamo, quindi, l’effetto di un lento ma pericoloso logoramento del significato unitario del nostro Paese. L’obiettivo più importante per una politica che voglia contrastare l’atomizzazione della società, la frammentazione, la frattura tra Nord e Sud, che voglia avere come ambizione il benessere, la crescita, la coesione, la competitività del Paese è avere un disegno preciso del proprio presente e, soprattutto, di un futuro comune. Quando si è celebrato il cinquantenario dell’unità d’Italia, nel 1911, venne organizzata la prima mostra nazionale delle regioni italiane. Cosa singolare e lungimirante. L’evento fu concepito soprattutto in termini etnografici, antropologici e culturali, tanto che buona parte dell’installazione di quella mostra - oggi conservata al museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari, all’Eur di Roma - riguardavano il folklore, le tradizioni, i mestieri; ciascuna regione ha avuto modo di esporre esempi e oggetti della propria storia, della cultura, della sua spiritualità. Ma il messaggio più forte trasmesso cinquant’anni dopo l’unità d’Italia ha riguardato essenzialmente Roma capitale. In quell’anno venne inaugurato l’Altare della Patria (anche se le statue arrivarono in un secondo momento, inclusa quell’opera di un mio bisnonno...); si costruirono due ponti sul Tevere, il Palazzo delle Esposizioni di via Nazionale, la Galleria d’Arte Moderna, il Palazzo di Giustizia. Tante opere che, dopo la risoluzione della Questione romana e il superamento dello Stato pontificio, servirono a dare il senso di una grande città, in grado di essere competitiva con le altri capitali europee. Nel 84-85

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[FrancescoRutelli] 1961, il messaggio più forte del centenario fu invece quello dell’«Italia che cresce»: l’Italia del boom economico e dell’industrializzazione. A Torino, città dell’unità nazionale sabauda, ma anche della Fiat, si concentrò la maggior parte delle celebrazioni. Quale dovrà essere, per il 2011, il messaggio forte per celebrare i 150 anni di unità della nazione? Celebrare degnamente questo passaggio senza concordia istituzionale è, a mio avviso, impossibile. La base dell’unità di un Paese è la condivisione dei valori trasmessi dalle istituzioni. In democrazia ci si può dividere, ci si deve contrapporre, ma le istituzioni appartengono a tutti. Istituzioni di assoluta garanzia, come quella del presidente della Repubblica, vengono troppo spesso trascinate nella polemica politica e nell’attacco personale. La base per celebrare degnamente il centocinquantenario dell’unità della nazione deve essere la condivisione istituzionale. Dovremmo anche occuparci in maniera più seria della nostra lingua. È un tema che si pone per i nuovi italiani, immigrati integrati pienamente nella nostra società, e per i nostri concittadini all’estero, cui abbiamo opportunamente riconosciuto il diritto di voto. Galileo Galilei sosteneva: «Parlare oscuramente lo fa ognuno, chiaro pochissimi». L’acquisizione della cittadinanza per i migranti dovrebbe passare attraverso la conoscenza della lingua italiana. Perché non immaginiamo di lanciare, nel 2011, uno speciale «Erasmus» dedicato agli studenti italiani e ed europei, invitandoli a conoscere l’Italia attraverso le sue istituzioni, i suoi paesaggi, le bellezze artistiche e naturali? Vorrei concludere il mio intervento con due proposte politiche. La prima: insieme con esponenti politici di ogni orientamento, dovremmo chiedere a un gruppo di personalità della cultura, di intellettuali e storici, di lavorare, da qui al 2011, a un ambizioso documento sui 150 anni dell’unità d’Italia da pubblicare all’inizio delle celebrazioni. Un documento non strettamente politico, ma incentrato sui valori da assumere come base della convivenza civile nazionale. Dal punto di vista politico, si tratterebbe anche di uno sforzo utile a far emergere l’insostenibilità dell’azione della Lega Nord, la cui posizione di forza negli equilibri di governo mette realmente a repentaglio le fondamenta della nostra nazione. La seconda proposta riguarda più direttamente chi, come noi, ha responsabilità politiche: spetta a noi creare le condizioni perché l’Italia esca dalla «guerra dei quindici anni» che si sta purtroppo consumando senza vincitori e con un grande sconfitto: il nostro Paese. L’Italia ha bisogno di un orizzonte condiviso dalle forze democratiche liberali e popolari, per il bene comune che dobbiamo lasciare ai nostri figli. La gratitudine verso i Padri dell’unità nazionale e l’intransigenza costituzionale repubblicana vanno resi attuali nella concreta battaglia politica.



Le CONCLUSIONI PIER FERDINANDO CASINI CARLO AZEGLIO CIAMPI


Un partito per la nazione ✵

Pier Ferdinando Casini

P

ER DESCRIVERE, REINTERPRETARE E RIANNODARE

i fili della nostra identità di italiani è inevitabile richiamarsi - come ha ben fatto Ferdinando Adornato nella sua riflessione - ai contributi decisivi dati in questo senso con i loro scritti, il loro pensiero e le loro azioni, da pensatori, uomini di cultura e politici degli ultimi secoli: da Dante e Petrarca, a Manzoni, Cattaneo, Gioberti, Rosmini, Mazzini e Ricasoli in tempi risorgimentali, fino ad arrivare a Sturzo e De Gasperi nel secolo scorso. Tanto più è utile farlo in questa fase di profonda incompiutezza di questa Seconda Repubblica in cui stiamo vivendo, correndo il rischio di una esiziale regressione verso lo sfaldamento dell’unità nazionale, figlio di un evidente, e purtroppo avanzato, processo di esaltazione dell’individualismo che pare non conoscere ostacoli, rifiutando di confrontarsi con concetti fondamentali per la tenuta complessiva di qualsiasi società umana. Concetti come il rispetto delle regole della convivenza civile, la necessità della ricerca e della prevalenza del bene comune rispetto alle pur legittime aspettative degli interessi parziali. Stato e nazione sono due concetti strettamente intrecciati: il primo, che con una semplificazione estrema ma efficace potremmo individuare come il corpo, non può vivere a lungo senza il secondo; nel secondo, invece, identifichiamo l’anima, ovvero un insieme di valori che identificano una comunità nazionale e che, per quanto riguarda l’Italia e l’Europa, non può che partire dal riconoscimento delle radici cristiane della nostra identità. Il compito a cui siamo chiamati ora e nei mesi a venire, con un tempo a disposizione che non è illimitato, è forse il più faticoso dall’unificazione a oggi: salvare lo Stato dai pericoli di disgregazione che lo minacciano, ammodernarlo, renderlo più vicino ai cittadini, restituirgli l’anima della nazione riscoprendo i valori su cui poggiarne le fondamenta. Vorrei però riflettere su due elementi in particolare per sviluppare la mia riflessione sul futuro che attende qualsiasi italiano che avverta su di sé l’onore ma anche la responsabilità di appartenere a una comunità più ampia e di doversi impegnare per preservarla. La mia visione della realtà è piuttosto ottimistica perché ritengo che su uno degli snodi fondamentali della nostra 88-89

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[Un partitoper la nazione] realtà, quella storica e quella attuale, si siano raggiunti risultati importanti che hanno prodotto e continueranno a produrre effetti positivi nel tempo. Mi riferisco ai rapporti tra Stato e Chiesa. E colloco l’avvio del processo, senz’altro tormentato ma assolutamente positivo e tutt’ora in evoluzione, nel momento della soluzione del conflitto aperto con la breccia di Porta Pia, alla firma dei Patti Lateranensi e alla successiva revisione del 1984. Il Concordato del 1929 non solo mise fine a una situazione di stallo che tarpava le ali a uno sviluppo armonico di una società già afflitta da gravissimi problemi economici e civili che si protraevano da sessant’anni, ma aprì le porte a un impegno dei cattolici in politica di cui nemmeno il regime fascista fu in grado di valutare fino in fondo le conseguenze. Conseguenze che divennero evidenti e straordinariamente rilevanti e feconde subito dopo la caduta del regime, influenzando in modo decisivo i lavori della Costituente e il testo finale della Carta fondamentale di tutti gli italiani. Rileggendo le relazioni del tempo di gran parte dei Padri costituenti cattolici, da La Pira, a Moro, a Fanfani, a Dossetti, a Mortati, a Tupini, si staglia con chiarezza la volontà di annodare e sviluppare un testo costituzionale architettato su basi teoriche solide, ovvero una precisa concezione dell’uomo e dei suoi rapporti con la società e con lo Stato, e un’altrettanto precisa concezione della vita sociale e del suo svolgimento. Illuminanti in tal senso appaiono le parole di La Pira, per il quale, la Costituzione «in quanto pone alla sua base la persona umana, in quanto concepisce il corpo sociale come articolato in una pluralità originaria ma coordinata di comunità, in quanto costruisce l’ordinamento giuridico e politico proporzionalmente a tale base e a tale corpo è cristianamente ispirata, perché conforme alla natura umana». Analogamente espliciti negli scritti dello stesso La Pira e di Dossetti sono i richiami alle influenze delle correnti del cattolicesimo francese di Mounier e di Maritain, e in quelli di De Gasperi alle 90-91

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[Pier FerdinandoCasini] esperienze politiche del cattolicesimo tedesco e austriaco. La nostra Costituzione dunque, non rappresenta solo l’atto formale fondativo di un nuovo Stato, né può essere letta come il risultato di un compromesso tra diverse culture politiche, ma racchiude al suo interno anche un’anima, che è quella di una civiltà laica ispirata ai valori dell’uomo cristianamente intesi. Per questo, se sul piano delle relazioni internazionali essa ci ha collocato fin da subito nel solco della Comunità europea, sul piano interno ha permesso a tutti gli italiani, di qualsiasi credo e convinzione, di riconoscersi sul presupposto dell’inviolabilità dei diritti dell’uomo, dell’eguaglianza di tutti i cittadini e della promozione delle condizioni per il pieno sviluppo della persona umana. Il boom economico degli anni Cinquanta, dunque, non è tanto il frutto di un’irripetibile coincidenza fortunata, quanto il risultato concreto dell’avviamento dell’opera di realizzazione dei fini indicati da parte di una Costituzione «progettuale» alla società e alle istituzioni. Un’opera a cui si dedicò gran parte della classe dirigente che aveva scritto quella Carta, a partire da quella di matrice cattolica guidata da Alcide De Gasperi. Una personalità il cui pensiero è racchiuso, a mio avviso, molto bene in questa frase, scritta alla sorella suora in un momento di vacanza in montagna: «Sento bene che dovrei approfittare di questo ritiro per parlare a Dio, ma le voci degli uomini mi chiamano al loro servizio; e non li servo in nome di Dio?». Quei valori e quelle finalità, contenuti nella prima parte della Costituzione, così solidamente ancorati, mantengono inalterata la loro validità e la loro capacità di indicare le vie da percorrere per garantire uno sviluppo equilibrato della nostra società, in cui gli ultimi non siano lasciati al loro destino e i primi non vedano frustrati i loro meriti e le loro capacità. L’Italia insomma anche oggi può ritrovarsi intorno ai valori della Carta costituzionale e le riforme che pure sarebbero necessarie non debbono intaccare quei valori e quei principi. Si può discutere di ridurre il numero dei parlamentari, di introdurre il Senato delle Regioni, di rafforzare i poteri dell’esecutivo e contemporaneamente i contrappesi di garanzia istituzionale. Se si ritiene, si può avviare un discorso sul presidenzialismo, ma evitando scivolamenti verso avventure dai confini incerti. Quello che però occorre prima di tutto chiedersi è se l’attuale assetto politico consenta di realizzare le riforme necessarie e se l’attuale classe dirigente del paese sia all’altezza del compito che le spetterebbe. Molte di queste riforme infatti non riguardano la Costituzione. Non serve una procedura costituzionale per riformare il sistema previdenziale, il mercato del lavoro, per aggiornare e ridurre i tempi della giustizia civile e penale o per liberalizzare i servizi pubblici locali. Non servono riforme costituzionali per restituire centralità alla


[Un partitoper la nazione] La nostra Costituzione racchiude in sé l’anima di una civiltà laica ispirata ai valori dell’uomo cristianamente intesi. Per questo fin da subito ci colloca nel solco della comunità europea

famiglia, il nucleo portante della nostra società, senza la quale appare illusoria qualsiasi ipotesi di consolidamento della comunità civile, né servono modifiche alla Costituzione per riconoscere e promuovere attraverso le leggi ordinarie la centralità della dignità umana, la cultura della vita. La Costituzione al contrario, fondata sui principi a cui facevo riferimento prima, non solo non ostacola ma al contrario incoraggia l’opera riformatrice del legislatore, fornendogli gli strumenti per realizzarla. Allora, visto che queste riforme sono attese invano da anni, forse è il caso di chiedersi se non sia l’assetto politico nel quale viviamo a non funzionare, che non è quello immaginato dai nostri Padri costituenti, al punto che oggi gli stessi suoi fautori non perdono occasione per marcare la distanza tra la Costituzione formale e quella materiale che avrebbero riscritto con i loro comportamenti. Un assetto bipolare in cui risultano vincenti le forze centrifughe, ovvero le ali più estreme, i populisti, rese decisive da leggi elettorali viziate dalla previsione dell’assegnazione del premio di maggioranza. Siamo l’unico paese in cui c’è il premio di maggioranza e lo sbarramento. Un assetto in cui le regole del gioco si cambiano per interesse della propria parte e non per le esigenze del paese. In cui si preferiscono alimentare e assecondare, per accrescere consensi in cambio della rinuncia a guidare la nazione, le paure dei cittadini già disorientati. Uno stato, quello in cui viviamo oggi, impegnato quotidianamente ad amplificare le tensioni, a iniettare come una droga tutto ciò che è pulsione e che in realtà bisognerebbe guidare. Perché il compito di una classe dirigente è guidare, superare le tensioni attraverso un ruolo di guida come avviene in tutti i paesi. Dunque è necessario che la classe dirigente sia in grado di riannodare il filo della storia passata con quello della storia futura d’Italia. A partire dai deputati e dai senatori che devono rappresentare il popolo e non i segretari di partito che li hanno inseriti nelle liste. Al paese serve una classe dirigente responsabile, pronta a dar conto del proprio operato. Ecco perché ritengo necessaria una riforma della legge elettorale, il passaggio da questo bipolarismo sbilanciato sulle estreme a un nuovo assetto in cui siano le forze di buonsenso ad alternarsi al governo, la nascita di partiti in grado di raccogliere e rappresentare le istanze sociali mediandole con le prevalenti esigenze del bene comune. E arrivo al secondo punto, il multiculturalismo. Noi viviamo in una società multietnica, multirazziale. Qualcuno nella società politica vorrebbe arrestare un pro92-93

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[Pier FerdinandoCasini] Il boom economico degli anni Cinquanta non è il frutto di una coincidenza fortunata, ma il risultato concreto dell’opera realizzata secondo i fini indicati da una Costituzione progettuale

cesso che non ha alternative. Viviamo in un’epoca globalizzata, in una società che non fa figli, purtroppo anche a causa delle politiche familiari. Molti vagheggiano idee impossibili e improbabili di un’Italia che si chiude nei propri confini, che alza immaginifici muri per evitare la contaminazione delle diversità: non c’è quest’Italia, non c’è questo mondo, non c’è questa possibilità. Noi non potremo che essere una società multietnica e multirazziale, anche multireligiosa, ma stiamo attenti a non confondere questa idea di multirazzialità, di multietnia inevitabile, con un’idea confusa di multiculturalismo. Multiculturalismo non deve significare una società in cui assembliamo culture diverse in un mosaico, in una specie di puzzle che non riesce a esprimere un’idea identitaria di paese e di nazione. Proprio perché sappiamo che c’è un contatto continuo con la diversità, noi vogliamo favorire la maturazione di un senso di appartenenza a un destino comune: vogliamo vivere col ragazzo extracomunitario e vogliamo non solo che tifi per la nostra Nazionale di calcio, che senta come noi l’orgoglio del tricolore, ma che maturi un senso di appartenenza condivisa al destino comune che è il destino della nostra patria, del nostro paese. Perché questo sia vero dobbiamo trasmettere a chi viene il senso di un’appartenenza a qualcosa che c’è, che ha radici, che ha valore. Solo così si può evitare che un generalizzato relativismo continui a diffondersi a scapito del senso di appartenenza e della maturazione delle identità. Noi cattolici, liberali, repubblicani, persone che hanno maturato il senso del bene comune siamo in grandi difficoltà politiche. La malattia italiana sono le corporazioni e noi soffriamo di questa malattia. Le riforme che si dovevano fare negli ultimi trent’anni hanno avuto un ostacolo che è sempre stato lo stesso: le resistenze corporative. Le liberalizzazioni non si fanno a causa delle resistenze corporative e tutto quello che ne consegue - cioè la paralisi politica - è dovuto alle resistenze corporative. Più una corporazione è forte, più è in grado di paralizzare il paese. Valutiamo quello che sta capitando nella politica italiana. La presenza della Lega ha prodotto un effetto emulativo incredibile per cui il territo-


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rio meridionale, siciliano o sardo, che chiede tutela al legislatore non trova di meglio che scimmiottare, facendo nascere sul territorio pseudo-Leghe: la Lega del Sud, la Lega della Sicilia, la Lega Meridionale. L’idea che per garantirsi, un territorio abbia bisogno di spezzettare la propria rappresentanza politica è la fine dello Stato, è la fine dell’Italia, è la fine della politica. La politica è esattamente l’altra faccia della medaglia, è la capacità di prendere un paese per mano e di spiegare che a volte una parte del paese ha ragione ad avanzare una richiesta corporativa e un’altra volta ha torto. La classe politica deve portare unita avanti il paese, non favorendo elementi che finiscono per certificare l’impotenza della politica, creando e minando l’unità della nazione. Ecco perché va restituito il diritto di cittadinanza a concetti che ormai non l’hanno più nella vita italiana: amor di patria, cultura politica, storia, valori, rispetto reciproco. Noi chiediamo un supplemento di coraggio, di orgoglio e di dignità all’Italia e agli italiani, umiliati da questa politica e dai suoi protagonisti. Bisogna costruire insieme un progetto di modernizzazione del nostro Stato, recuperare valori condivisi davanti al degrado morale che esiste. Occorre unire un paese lacerato da risse, da individualismi, da corporativismi territoriali. Di fronte a

È necessaria la riforma della legge elettorale e il passaggio da questo bipolarismo sbilanciato sulle estreme a un nuovo assetto in cui siano le forze di buon senso ad alternarsi al governo

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[Pier FerdinandoCasini] Chi ha pensato che bastasse avere carisma per creare un partito è stato smentito dal fatto che questo partito, oggi, è vittima delle litigiosità interne perché non c’è un progetto, non c’è un’idea e non ci sono radici.

tutto questo non contano la destra, la sinistra, il centro, sono terminologie che non hanno più alcun senso. Noi dobbiamo rivolgerci a tutti. Non ci sono più rendite di posizioni e non c’è più la possibilità di delimitare l’iniziativa politica in un ambito esclusivo della geometria politica internazionale. C’è tanta gente che è orfana ed è collocata in tutte le parti della vita politica italiana. Noi che abbiamo fatto un tragitto diverso con Francesco D’Onofrio, con Ferdinando Adornato e con tanti altri amici, comprendiamo e incoraggiamo Francesco Rutelli nella sua battaglia forte e generosa di critica all’attuale bipolarismo, e come abbiamo denunciato per primi la finzione del Pd, un partito nato da una fusione a freddo, con la stessa convinzione abbiamo evidenziato fin dalla sua nascita tutte le contraddizioni del Pdl, un partito nato dalla reazione rabbiosa a un momento di difficoltà di una sola persona salita su un predellino. Forze politiche diverse eppure così simili che non a caso tenendosi per mano, hanno tentato di introdurre in Italia un bipartitismo imperniato su un impasto di evocazioni carismatiche da una parte e di assemblaggi confusi di culture diverse dall’altra. Ebbene dopo un anno e mezzo di legislatura entrambe le risposte si sono manifestate perdenti. E chi ha pensato che bastasse avere carisma per creare un partito è stato smentito dal fatto che questo partito, oggi, è vittima delle litigiosità interne perché non c’è un progetto, non c’è un’idea e non ci sono radici. Così come sull’altro fronte assistiamo al ripiegamento su se stesso di un assemblaggio di culture, come se queste sostituissero l’esigenza di un messaggio unitario e di una sintesi nuova per il paese. Non ci siamo sbagliati, dunque, nel denunciare la finzione del bipartitismo, ma purtroppo abbiamo dovuto constatare che questa inadeguatezza si estende ormai anche al bipolarismo, che da una parte ha consegnato la politica italiana ai ricatti del populismo giustizialista di Di Pietro, che offre le luci della ribalta ai peggiori istinti di un certo modo di fare opposizione politica, e dall’altra ha posto la golden share della politica italiana in mano alla Lega che la esercita con la spregiudicatezza e l’abilità che le vanno riconosciute. Dunque, oggi dobbiamo assumerci le nostre responsabilità. Abbiamo il tempo di farlo in questa legislatura. Evitiamo di ragionare in termini di spallate, perché chi cerca spallate è destinato a rompersi le ossa. Impegniamo invece bene il tempo che abbiamo davanti, perché dobbiamo arrivare alla fine della legislatura obbligando Berlusconi e chi per lui a rendere conto delle promesse che non avrà mantenuto. Questo è l’elemento decisivo, la questione cruciale. Abbiamo tempo, ma non perdiamolo: andiamo a lavorare.


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COSA VUOL DIRE ESSERE ITALIANO

SECONDO IL PRESIDENTE EMERITO DELLA

REPUBBLICA

ARE CONTO DELLA MIA IDEA DI NAZIONE, CHE PER ME

fa tutt’uno con l’orgoglio di essere italiano, con il sentimento di appartenenza a un sistema di valori che affonda in primis nella lingua e nella cultura, significa inevitabilmente risalire indietro nel tempo; riandare a quel periodo della vita in cui cominciano a prendere forma convinzioni e idee. In breve, si tratta di ripensare quella fase dell’esistenza in cui intensa e appassionata è la ricerca di ideali di vita; meglio ancora, degli ideali per la vita. Quale che sia stata l’esperienza di ciascuno, tutti concordiamo nel considerare fondamentali quegli anni formativi: per lo sviluppo della personalità, per gli indirizzi da seguire nel prosieguo dell’esistenza. Sono gli anni in cui in buona misura si decide con quale atteggiamento si affronteranno e si opereranno le scelte importanti che si sarà chiamati a compiere; quale sarà la bussola che fornirà l’orientamento nei passaggi difficili della vita, privata e pubblica. È questa convinzione, soprattutto, a portarmi a «raccontare» la mia idea di nazione; di come essa abbia preso forma nella ragione e nel cuore. Un racconto indirizzato idealmente ai giovani. A essi, infatti, ho scelto di dedicare la più gran parte del mio tempo. Considero un dovere il dialogo tra generazioni: ai giovani passiamo il testimone, perché proseguano in quanto di buono abbiamo fatto; perché riprendano quanto abbiamo lasciato di incompiuto; perché correggano gli errori commessi. Noi adulti sentiamo la responsabilità del concorrere al processo di formazione delle coscienze dei giovani; la avvertiamo con acuta intensità nel tempo presente. Tempo di smarrimento, di incertezza diffusa: incertezza che oscura l’orizzonte economico e con esso le prospettive del futuro; incertezza che investe la gerarchia dei valori, sovente sovvertendola, con il rischio di produrre una crisi ben più grave di quella economica, una crisi morale dagli esiti imprevedibili per la potenzialità disgregatrice che reca in sé. Appartengo alla generazione nata alla fine della prima guerra mondiale; cresciuta nel clima opprimente del fascismo e da questo trascinata, insie-

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[La miaItalia] Occorre ritrovare uno spirito autentico di civilis concordia, per consolidare le fondamenta della Casa comune, per darle stabilità e sicurezza per essere accogliente, vivibile per chi la abita.

me con tutto il popolo italiano, in una nuova tragica avventura bellica, con un epilogo più funesto della stessa disfatta militare: la ferocia di un’occupazione nemica e l’atrocità di una guerra fratricida. Anche allora, e in misura incommensurabilmente più drammatica, ci trovammo a vivere una realtà di smarrimento e di confusione morale. La mancanza di ogni riferimento istituzionale che ci colse all’indomani dell’armistizio dell’8 settembre fu una realtà durissima che «nell’animo di un giovane poteva accelerare il processo di maturazione della coscienza, rinsaldandone la fibra morale; oppure, al contrario, gettare quell’animo in uno stato di confusa disperazione e, privo di riferimenti morali, renderlo cinico e spregiudicato». Fu nel turbine di quegli eventi che nazione, patria, libertà - valori sui quali era incardinata la mia formazione, propiziata da un ambiente familiare saldamente legato agli ideali del Risorgimento e altrettanto ai principi del cattolicesimo liberale, più compiutamente maturata negli anni cruciali degli studi alla «Normale» - cessarono di essere astratti, seppur nobili ideali, per divenire concrete realtà che imponevano, mi imponevano, scelte drammatiche. Vestivo la divisa di ufficiale dell’esercito italiano l’8 settembre del 1943; per una serie di circostanze, quel giorno mi colse lontano dal mio reparto. Solo. Nella solitudine della mia coscienza, pressato dall’urgenza di dare risposta all’interrogativo «che fare», mi trovai a tu per tu con me stesso. Mi trovai a dover «verificare» il significato che in quel preciso momento della storia e della mia vita assumevano espressioni come patria e nazione. Certo, quelle ore convulse non potevano lasciarmi il tempo di «ripassare» la lezione di Croce, di De Ruggiero, di Chabod, di Omodeo, di Calogero. Erano stati i Maestri della mia educazione civile, nel loro pensiero, nel loro esempio si radicavano le mie convinzioni più profonde. Il loro insegnamento illuminò la mia decisione. La mia decisione, come del resto quella di moltissimi altri italiani, rispose a una istanza morale. Ritrovare la nostra dignità di uomini, di cittadini; restituire così dignità alla patria. Questa volontà di riscatto accomunò milioni di italiani: quelli che salirono in montagna imbracciando il fucile, come quelli che continuando a vivere una quotidianità sempre più difficile dettero aiuto, riparo, assi98-99

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[Carlo AzeglioCiampi] stenza a chi per ragioni anagrafiche, di razza, di fede politica era costretto a nascondersi; così come i militari che per onorare la divisa che indossavano continuarono a combattere nell’esercito italiano, consapevoli che quella fedeltà avrebbe richiesto loro un tributo altissimo. Nel vivere quei giorni, nel compiere quei gesti, nell’assumere quei comportamenti con la naturalezza con cui si affronta l’ordinario, in un tempo che ordinario non era, nessuno pensava di prenotare per sé un posto da eroe; né ci si interrogava sul significato di patria e di nazione. La nazione e la patria si «vivevano» in quelle scelte, in quei gesti, in quei comportamenti. Era come se dal profondo del proprio essere ciascuno ricevesse una spinta poderosa verso un’unica direzione: ridare all’Italia e agli italiani la libertà e l’onore. Erano secoli di storia, di cultura, di civiltà che chiamavano alla mobilitazione dello spirito, poiché «gli italiani non si rassegnarono a scomparire nell’ora più oscura e funesta della loro storia» perché «un popolo non muore, una nazione non si estingue, una civiltà luminosa non può sprofondare nella notte»: una speranza e insieme una certezza che alimentavano, ancorché inespresso, un diffuso sentimento popolare. Era una certezza - resa manifesta in quei termini - per Concetto Marchesi; non dissimile da quella dichiarata, sull’opposto versante ideologico, da De Gasperi quando osservava che... «Curvi sotto il peso del loro destino, gli italiani levano la fronte in cui risplende la nobiltà antica». Milioni di uomini e di donne divisi da convinzioni politiche antitetiche, portatori di visioni dello Stato e della società profondamente diverse trovarono un denominatore comune nella volontà di servire quella patria dei cui destini si sentivano egualmente responsabili: tutti sentivano di appartenervi. Il lavoro al quale tutti attendevano era la salvezza della Casa comune; il luogo che custodiva il patrimonio della comunità che l’abitava e di quelle che l’avevano abitata in passato. Oggi siamo noi ad abitare questa Casa. Conviventi sempre più rissosi, sordi alla ragioni dell’altro; troppo impegnati in una sorta di contesa permanente non ci avvediamo delle crepe che alla lunga compromettono la stabilità dell’edificio. Lo spirito di condivisione quotidianamente invocato e con pari frequenza ignorato è come il refrain di una canzone di cui si sono dimenticate le strofe, cosicché non se ne capisce più il senso. Il senso sta in uno spirito autentico, praticato, di civilis concordia, per consolidare le fondamenta della Casa, per darle quella stabilità e quella sicurezza che la rendano accogliente, vivibile per chi la abita.


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F I R M E

del numero

SANDRO BONDI: ministro per i Beni e le Attività Culturali. PIERO ALBERTO CAPOTOSTI: presidente emerito Corte Costituzionale. FRANCESCO CASAVOLA: presidente emerito Corte Costituzionale. PIER FERDINANDO CASINI: già presidente della Camera. CARLO AZEGLIO CIAMPI: presidente emerito della Repubblica. ENRICO CISNETTO: editorialista, presidente di Società Aperta: BIAGIO DE GIOVANNI: docente di Storia delle Dottrine Politiche all’Università di Napoli. FRANCESCO D’ONOFRIO: direttore scientifico Fondazione liberal-popolare. STEFANO FOLLI: giornalista e storico, editorialista del Sole 24 ore. GIORGIO LA MALFA: presidente della Fondazione Ugo La Malfa. GENNARO MALGIERI: giornalista e parlamentare Pdl. FRANCESCO RUTELLI: presidente di Alleanza per l’Italia.




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