La trasformazione dello spazio nell’era della globalizzazione: una doppia relativizzazione? Marco Caselli, sintesi dell’intervento proposto nell’ambito del ciclo di seminari interdisciplinari “Globalizzazione: tra storia e teoria politica”. Milano, 8 giugno 2017 Robert Holton (2005: 14-15) definisce la globalizzazione come un processo costituito da tre elementi principali. Il primo di questi è l’intensificazione dei movimenti di “goods, money, technology, information, people ideas and cultural practices” attraverso i confini politici e culturali presenti sul pianeta. Il secondo è la profonda interdipendenza dei processi sociali che si dispiegano in ogni angolo del globo. Il terzo è lo svilupparsi di una global consciousness. A nostro parere, a questi tre elementi se ne deve aggiungere almeno un altro, particolarmente rilevante in quanto è quello che forse più di tutti marca la differenza tra i processi di globalizzazione e una semplice internazionalizzazione: la trasformazione dello spazio e del modo in cui questo contribuisce a plasmare i processi e le relazioni sociali. Motore principale di questa trasformazione, come già accennato poco sopra, è stato lo sviluppo dei mezzi di comunicazione e di trasporto che, come si usa dire nel linguaggio comune, hanno accorciato le distanze fisiche che separano le persone. Da qui l’idea che, associata ai processi di globalizzazione, vi sia una time-space compression (Harvey 1990; Giddens 1996; Appadurai 1990; Lash and Urry 1994; Albrow 1996; Adam 1998) in virtù della quale il mondo starebbe diventando sempre più piccolo. La globalizzazione porta così a far emergere la distinzione tra un absolute space, ontologicamente dato, dalle caratteristiche oggettive e immutabili, e un relative space, le cui caratteristiche non sono fisse bensì dipendono dalle percezioni e dalle azioni degli individui che si muovono al suo interno (Roudometof 2016: 34). Facendo quindi riferimento allo spazio relativo, che assume nell’era della globalizzazione un ruolo preponderante rispetto a quello assoluto, una prima considerazione che possiamo sviluppare è che l’immagine di distanze che si accorciano e di un mondo che diventa sempre più piccolo, per quanto suggestiva, risulta sbagliata e fuorviante, e questo per due motivi opposti. Tale immagine, infatti, al tempo stesso ci dice troppo poco e ci dice troppo. Innanzitutto ci dice troppo poco: alcune distanze, infatti, in virtù di processi che possiamo definire di disembedding (Giddens 1990) o di de-territorializzazione (Scholte 2005) non si sono accorciate bensì sono del tutto scomparse. Si pensi per esempio alla comune azione di inviare una email, azione per la quale la posizione geografica del mittente e del ricevente sono del tutto irrilevanti. Ma si pensi anche alla realtà dei mercati finanziari o delle cosiddette comunità virtuali. E si pensi, da ultimo, a come le distanze e la collocazione geografica diventino parimenti irrilevanti a fronte di alcuni rischi tipici dell’età contemporanea, a cominciare da quello di una guerra nucleare su vasta scala (Beck 1992).
Ma l’immagine di un mondo che diventa sempre più piccolo ci dice al tempo stesso troppo, in quanto suggerisce che tutte le distanze si riducano nella medesima proporzione e si riducano allo stesso modo per tutte le persone. Ma entrambe queste suggestioni sono evidentemente false. Lo spazio, nell’epoca contemporanea, diventa, come detto, soprattutto uno spazio relativo, ma quella a cui si assiste è addirittura una doppia relativizzazione dello spazio e delle distanze. La prima forma di relativizzazione riguarda le caratteristiche dei luoghi tra cui si calcola la distanza. Non tutte le distanze si sono infatti ridotte nello stesso modo. Per esempio, le principali città europee risultano tra loro molto più vicine – nei termini nel tempo necessario per coprire la distanza che le separa – di quanto non lo siano città minori e aree periferiche del medesimo paese. Allo stesso modo, non di rado, una qualsiasi capitale africana risulta più facilmente raggiungibile via aereo – tempi più brevi e costi inferiori – partendo da una delle principali città europee che non da un’altra capitale africana. Le distanze tra Europa e Africa risultano quindi più ridotte di quanto non lo siano molte distanze all’interno dell’Africa stessa. Alcuni luoghi specifici della terra dunque, tra cui, in particolare, quelle che Sassen (1991) chiama le “global cities”, sono dotati di infrastrutture e di una rete di connessioni tale da ridurre in maniera considerevole le distanze che li separano da qualsiasi altra parte del mondo. Più che di una compression dello spazio, quindi, bisognerebbe parlare di una distorsion dello spazio, con alcune distanze che si riducono in misura significative ed altre che si riducono molto meno o restano addirittura pressoché invariate (Caselli 2012: 12). Conseguentemente la stessa geografia, che secondo alcuni avrebbe dovuto diventare irrilevante (O’Brien 1992), non vede diminuire la sua importanza ma è chiamata anch’essa ad una radicale trasformazione. La seconda forma di relativizzazione riguarda invece le caratteristiche delle persone che intendono spostarsi da un luogo a un altro. Le distanze, infatti, non si riducono per tutti nello stesso modo. Per un cittadino residente in un qualsiasi paese dell’area Schengen, in possesso di un passaporto del suo stesso paese, di una carta di credito e di una almeno basilare conoscenza della lingua inglese, per esempio, la città di Nairobi – così come qualsiasi altra capitale africana – dista soltanto poche ore di aereo. Viceversa, la medesima distanza fisica, tra il Kenya e l’Europa, risulta pressoché incolmabile per le persone che vivono nelle baraccopoli di Kibera o Korogocho. Sulla base di queste considerazioni, vi è chi sostiene che la globalizzazione e la trasformazione dello spazio ad essa connessa comporti una nuova forma di stratificazione sociale, che vede contrapposti – come estremi di un continuum – da un lato classi alte globali e, dall’altro, classi basse locali (Bauman 1998). Per le prime, le distanze tendono a contrarsi fino quasi a scomparire e gli spazi, intesi come aree a loro accessibili, ad ampliarsi a dismisura (Augé 1992). Per le seconde, viceversa, le distanze si mantengono nella loro estensione o addirittura aumentano, per esempio a seguito di cambiamenti nelle leggi sull’immigrazione posti dai paesi del Nord del mondo, mentre gli spazi, intesi come possibilità di movimento, tendono a ridursi.
Nell’era della globalizzazione lo spazio dunque si trasforma ma non perde la sua rilevanza nell’influenzare e plasmare la vita sociale, anche se tale influenza si manifesta in maniera diversa rispetto al passato. Se infatti, un tempo, erano soprattutto gli aspetti fisici e quantitativi dello spazio ad essere rilevanti, oggi risultano molto più importanti gli aspetti qualitativi dello spazio stesso. Nel momento infatti in cui, grazie allo sviluppo tecnologico, almeno per alcuni le distanze fisiche non costituiscono più un ostacolo per gli spostamenti e la capacità di azione, l’attenzione tende a focalizzarsi sulle caratteristiche qualitative degli spazi e dei luoghi, su quello che questi spazi e questi luoghi hanno da offrire a quanti possono spostarsi liberamente da una pare all’altra del pianeta (Harvey 1990: 294): “those able to settle wherever they want will choose the best plase to do so” (Caselli 2012: 11). Peraltro, occorre rilevare come la nuova geografia che si accompagna ai processi di globalizzazione non sia data una volta per tutte, ma risulti a sua volta in continua trasformazione. Da ultimo, si può segnalare come la trasformazione dello spazio e del modo in cui le persone si rapportano ad esso imponga ai ricercatori di ripensare in maniera radicale il modo in cui la realtà sociale deve essere studiata. In particolare, da più parti si leva la richiesta di andare oltre quello che è stato variamente definito “methodological nationalism” (Beck 2004), “embedded statism” (Sassen 2000), o “methodological territorialism” (Scholte 2000), cioè l’idea, largamente dominante sin dalle origini nelle scienze sociali, secondo la quale ogni società è delimitata entro confini spaziali chiaramente definiti, generalmente corrispondenti a quelli di uno specifico stato nazione. Tuttavia, a oggi, sono ancora tutto sommato pochi i contributi che cercano di delineare, in termini concreti e operativi, una metodologia d’indagine che vada oltre il nazionalismo metodologico: tra questi si veda, per esempio, Gobo (2011).