Footballmagazineitalia numero 2

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FOOTBALL MAGAZINE IL GIOCO PIÙ BELLO DEL MONDO

ITALIA / TRIMESTRALE / GIUGNO / 4 EURO

I L P E R SO N AGG I O

MARIO INTERVISTA

LA STORIA

PAOLO ROSSI

BRASILIANI D'ITALIA

NUMERO UNO

GIANLUIGI BUFFON

IL CUCCHIAIO

ATTO DI FEDE

THE MATCH

ITALIA VS. BRASILE 1938

ITALIANI IN BRASILE

MARCO OSIO

HANNO SCRITTO LUCA FERRATO MASSIMO MARIANELLA GIULIANO PAVONE SIMONE STENTI

HANNO FOTOGRAFATO ANTONIO RIGHETTI CHIARA MIRELLI




sommario / giugno - agosto 2013

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ITALIA MUNDIAL

GIANLUIGI BUFFON

ROSSI! ROSSI! ROSSI!

BRASILIANI D'ITALIA

L'AVVENTURA DI MARCO OSIO

La Confederations Cup sarà un degno prologo ai Mondiali 2014. Ma quali sono le reali possibilità dell'Italia? Balotelli sarà il nostro trascinatore? by Lorenzo Cazzaniga

Il miglior portiere al mondo. Per tanti, uno dei cinque migliori di sempre. Eppure, SuperGigi è spesso finito nel mirino della critica. Perché? by Simone Stenti

Paolo Rossi ha ripercorso quel magico pomeriggio del 1982 allo stadio Sarriá di Barcellona, quando con una tripletta stese il Brasile di Zico, Falcao, Socrates… by Massimo Marianella

Anche l'Italia ha sfoggiato talenti tecnici notevoli. Più o meno famosi. Come il Bruno Conti del 1982. Ma vi ricordate di Giovanni Roccotelli? by Giuliano Pavone

Un solo giocatore ha varcato l'Oceano al contrario, passando dall'Italia al Brasile, dalla Parmalat al Palmeiras. Lo abbiamo intervistato. by Luca Ferrato


sommario / giugno - agosto 2013

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ITALIA VS. BRASILE 1938

LA MAGLIA AZZURRA

I RIGORI

LA PASSIONE DELLE FIGU

MONDIALI 2014: L'ITALIA

Un meraviglioso articolo di Gianni Brera racconta il primo Italia vs. Brasile ai Mondiali del 1938. Tra calzoncini che cadono e schermaglie psicologiche, un successo storico per gli azzurri.

Un giocatore può cambiare decine di squadre nel corso della sua carriera, ma la maglia più ambita resta (senza alcun dubbio) quella della Nazionale.

È sempre il finale più drammatico. Nel 2006 ci ha regalato un Mondiale, ma si ricordano soprattutto i fallimenti. A partire dal Divin Codino. by Lorenzo Cazzaniga

Ora si trovano quelle digitali o che sfruttano la realtà aumentata. Noi invece, abbiamo voluto ripercorrere la storia delle figurine. Quelle vere. by Riccardo Bisti

Quale sarà la formazione delL'Italia ai Mondiali 2014? Abbiamo provato ad anticipare le mosse di Cesare Prandelli. Ipotizzando un trio d'attacco di grande talento.


.CONTRIB

MASSIMO MARIANELLA IL MIGLIOR TELECRONISTA ITALIANO HA RIPERCORSO ITALIA-BRASILE 1982 CON IL SUO GRANDE PROTAGONISTA: PAOLO ROSSI

SIMONE STENTI

GRANDE CONOSCITORE DI VICENDE JUVENTINE, SUO IL PROFILO DEL NOSTRO NUMBER ONE: GIANLUIGI BUFFON

LORENZO CAZZANIGA IN QUESTO NUMERO IL DIRETTORE SI È OCCUPATO DI... UN CUCCHIAIO DI FIGURINE

GIANNI BRERA*

*IL NOSTRO RINGRAZIAMENTO A DALAI EDITORE CHE CI HA CONCESSO LA PUBBLICAZIONE DI UN ARTICOLO SEMPLICEMENTE CLAMOROSO

FOOTBALL


BUTORS.

LUCA FERRATO

ESPERTO GIORNALISTA DI CALCIO MONDIALE, HA SCOVATO L'UNICO CALCIATORE ITALIANO AD AVER GIOCATO IN BRASILE: MARCO OSIO

GIULIANO PAVONE

APPREZZATO SCRITTORE, SI È OCCUPATO DI ITALIANI... BRASILIANI: CONTI, CAUSIO, VERZA, ROCCOTELLI...

ANTONIO RIGHETTI

A LUI IL COMPITO DI RITRARRE MARCO OSIO. CIRCONDATO DA MAGLIE RICORDO DELLA SUA AVVENTURA BRASILIANA

CHIARA MIRELLI

IL VOLTO DI ITALIA-CONTRO-BRASILE È CHIARAMENTE QUELLO DI PAOLO ROSSI. RITRATTI DI PRIMISSIMA QUALITÀ

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FOOTBALL MAGAZINE ITALIA

Direzione e redazione Sports Publishing & Management Srl corso Garibaldi, 49 - Milano www.footballmagazineitalia.com Direttore responsabile Lorenzo Cazzaniga lorenzo@footballmagazineitalia.com Caporedattore Riccardo Bisti info@footballmagazineitalia.com Photo editor Marco Falcetta Art director Der Prinz

Hanno scritto El Barrendero, Massimo Callegari, Luca Ferrato, Massimo Marianella, Paulo Passos, Giuliano Pavone, Simone Stwenti, David Tryhom, Marcel Vulpis, Tim Vickery Hanno fotografato Antonio Righetti e Chiara Mirelli Photo Agency Getty Images

Stampa Grafiche Mazzucchelli Via Cà Bertoncina 37/39/41 24068 Seriate (BG) Italia Tel: (+39) 035 292.13.00 Fax: (+39) 035 452.01.85 info@grafichemazzucchelli.it Distributore per l’Italia M-dis S.p.A. Via Cazzaniga, 19 20132 Milano tel. 02/25.82.1 Registrazione n.48 del 25 febbraio 2013 presso il Tribunale di Milano


Foto Gianni Dal Magro

Solide basi per grandi sfide.

Stadio San Siro, Milano

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Editoriale DI LORENZO CAZZANIGA

CALCIOPOLI E LO SCANDALO SCOMMESSE. LE SQUADRE CHE FATICANO IN EUROPA E GLI STADI CHE SI SVUOTANO. CHE ITALIA SI PRESENTERÀ ALLA CONFEDERATIONS CUP? L’Italia ha sempre avuto approcci complicati con le ultime, grandi manifestazioni che hanno visto impegnate le nazionali. Questa volta, tanto per non farci scappare l’abitudine, abbiamo avuto il casoOsvaldo, escluso dai convocati per tener fede al codice etico imposto dal commissario tecnico Cesare Prandelli. Tuttavia, se paragonato a Calciopoli e all’inchiesta sulle scommesse, è un fatto quasi trascurabile. Anche perché le chance degli azzurri non sono cambiate granché.

DA NON PERDERE Vi sono diversi articoli che vale la pena gustarsi, ma in particolare vi suggeriamo di non perdere assolutamente:

L’amichevole disputata lo scorso marzo contro il Brasile, ha confermato che non siamo lontani dalla Seleçao, che tutto sommato tra un Neymar e un Balotelli la distanza non è abissale e che in termini di solidità difensiva e fantasia in avanti, non siamo per nulla inferiori. Però tra amichevoli e partite ufficiali, la differenza è enorme, per pressione, aspettative e carica agonistica, anche se Prandelli e Scolari hanno preso molto seriamente l’impegno dell’ultimo Italia vs. Brasile.

1.L’INTERVISTA A PABLITO Se chiudiamo gli occhi e pensiamo a Italia-controBrasile, la mente non può che accompagnarci a quel pomeriggio del 1982, quando una tripletta di Paolo Rossi ha affossato il Brasile di Zico, Falcao e Socrates. Massimo Marianella lo ha intervistato per rivivere quei ricordi.

La Confederations Cup sarà dunque un buon test in vista dei Mondiali 2014, come hanno sintetizzato Gigi Buffon e Giorgio Chiellini. La Nazionale si presenta con un buon mix tra vecchia guardia e giovani rampanti, anche se la coesistenza non sarà banale. Prandelli ha avuto il merito di sperimentare diversi schemi, senza fossilizzarsi su un’unica idea di calcio. Anzi, ha più volte ripetuto che sapersi adattare alle situazioni e all’avversario è una qualità indispensabile in tornei di breve durata, quando ci si gioca tutto in una sola partita. Come a dire che l’intelligenza tattica, talvolta conta più della qualità tecnica. E, almeno in questo, l’Italia ha sempre dimostrato di essere particolarmente competitiva. In un certo senso, la mancanza di denari e investimenti esteri (quei pochi arrivati, per adesso non garantiscono follie in stile PSG o Monaco) ha obbligato le squadre italiane a ingegnarsi, a trovare nuove soluzioni e soprattutto ad affidarsi (anche) ai giovani. Una condizione che non deve essere dispiaciuta a Prandelli. Giocatori come Lorenzo Insigne o lo stesso Stephan El Shaarawy, hanno goduto di minutaggi che un tempo sarebbero stati impensabili. Un’esperienza che tornerà utile in Confederations ma soprattutto in vista della Coppa del Mondo 2014. Per questo bisogna essere fiduciosi che non vivremo un flop come in Sudafrica. Nel frattempo godetevi questo secondo numero di Football Magazine Italia. Ci rivediamo in edicola nel mese di settembre. Vi aspetta uno speciale SFIDE! SFIDE!. Ci sarà (ancora) da divertirsi.

Nel bene e nel male, Mario Balotelli conquista sempre le prime pagine dei quotidiani. Oppure la cover di un newsmagazine come il Time americano, che poi lo ha inserito addirittura tra le 100 persone più influenti al mondo. Ma voi pensate che riuscirà a esserlo anche in Confederations Cup con la maglia azzurra come agli scorsi Europei? Scrivetelo a: info@footballmagazineitalia.com

2. GIANLUIGI BUFFON A Simone Stenti, che conosce molto bene l’ambiente juventino, il compito di ritrarre il portiere della Nazionale. Considerato tra i migliori di sempre nel suo ruolo, è spesso stato criticato, anche per faccende extra sportive. Eppure resta un uomo da ammirare. Scoprite perché. 3. THE MATCH Per gentile concessione di Dalai Editore, abbiamo pubblicato un articolo di Gianni Brera in ricordo del primo Italia-contro-Brasile, nella semifinale dei Mondiali 1938. Davvero imperdibile.


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WHO La mamma di Mauro Bellugi

WHERE Buonconvento, Toscana

WHEN 14 aprile 2013

WHY Perché l’amore di mamma va sempre sottolineato.

WHAT L’orgoglio per i figli non tramonta mai. Nemmeno se il tuo ha già spento 63 candeline. La mamma di Mauro Bellugi mostra fieramente dalla finestra di casa, un poster della Nazionale italiana. Bellugi (in piedi, terzo da sinistra), difensore, ha vinto uno scudetto con l’Inter nel 1971 e vestito 32 volte la maglia azzurra tra il 1972 e il 1979. È stato inoltre citato nel brano del 1992 Urna di Elio e le Storie Tese nel pezzo in cui alla fine si dice «64, gli anni di Bellugi» ovviamente in tono scherzoso per rimarcare come, sin da giovane, Bellugi, sembrasse più vecchio della sua età. photo by Gabriel Bouys Getty Images

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WHO Giovani appassionati

WHERE Napoli, Italia

WHEN 15 luglio 1989

WHY Per ricordarci il calcio più bello. Quello dei ragazzi. Quello di strada.

WHAT Questa immagine è stata scattata 24 anni fa. Non era ancora possibile twittarla, nè elaborarla con photoshop. E a noi piace proprio per la sua naturalezza: un gruppo di ragazzini che giocano per le strade di Napoli, arrangiandosi col gesso per la porta. Nel 1989, Maradona vestiva ancora la maglia partenopea: in quella stagione vinse la Coppa UEFA e finì secondo in Campionato, dietro l’Inter. L’anno dopo, ci diede uno dei più grandi dispiaceri della nostra storia sportiva, battendo gli azzurri nella semifinale dei Mondiali di Italia 90. Da allora sono cambiate tante cose. Purtroppo anche i giochi di strada. photo by Maja Moritz Getty Images

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WHO Giovani tifosi

WHERE Palermo, Italia

WHEN 14 giugno 2010

WHY Perché il calcio deve servire per migliorare le condizioni di vita dei ragazzi nei quartieri più degradati

WHAT Si chiama ZEN ma la religione buddista è ben lontana da questo quartiere di Palermo (Zona Espansione Nord) dove povertà, analfabetismo e microcriminalità sono il pane quotidiano per i ragazzi che vi abitano. Come questi due giovani tifosi che agitano una bandiera dell’Italia dopo aver visto il match Italia-Paraguay ai Mondiali del 2010. Maurizio Zamparini, presidente del Palermo, aveva intenzione di costruire in questa zona il nuovo stadio cittadino. Speriamo che moderne infrastrutture sportive riescano a migliorare le condizioni di vita di questa zona di Palermo. E che i ragazzi abbiano motivo di festeggiare non solo i gol dell’Italia. photo by Marcello Paternostro Getty Images

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PROGRAMMI TV Confederations 24/7

Ti piace vincere facile? COME VIVERE LA CONFEDERATIONS CUP AL TOP? OVVIAMENTE SU SKY SPORT CHE SFRUTTERÀ LE SUE ARMI MIGLIORI. COMPRESA UNA NOVITÀ MOLTO GRADITA: UNA MINI-SERIE CURATA DA ALESSANDRO DEL PIERO

L

a Confederations Cup è un prologo ai Mondiali del 2014, ma Sky Sport ha deciso di trattarla come merita, visto che il campo di partecipazione è il migliore della storia. Non solo l’Italia, ma anche il Brasile, la Spagna (campione del Mondo e d’Europa), l’Uruguay (campione Sud America), il Giappone di Zaccheroni (campione d’Asia), il Messico (campione del Nord America), la Nigeria (campione d’Africa) e Tahiti (campione d’Oceania). Dal 15 giugno, tutte le partite saranno trasmesse in diretta su Sky Supercalcio HD (canale 205) e Sky Calcio 1 HD (canale 251), con le opportune repliche per gli incontri in notturna. Le partite dell’Italia saranno visibili anche su Sky Sport 1 HD. Una delle grandi novità (oltre all'ormai immancabile televoto per votare l’uomo partita) è l'ingresso di Alessandro Del Piero (nella foto con Ilaria D'Amico) nel Team Sky. Del Piero Football Legends sarà un programma curato da Del Piero: dieci (ovvio) puntate introdotte dalla voce narrante di Federico Buffa che prenderanno spunto dalle sfide di Confederations: da Italia-Brasile del 1982 vista con gli occhi di un bambino che allora aveva otto anni, a una memorabile partita di calcio su un campo di terra a Tahiti. Le soirée saranno condotte da Ilaria D’Amico, affiancata da Zvonimir Boban, Giancarlo Marocchi, Massimo Mauro, Christian Panucci e Gianluca Vialli. La chicca per Italia-Brasile: non poteva mancare Paolo Rossi, per una giornata speciale tutta dedicata all’uomo che ha fatto piangere la Seleçao nel 1982. Come commentatori tecnici, Daniele Adani, Giuseppe Bergomi, Luca Marchegiani e “Pampa” Sosa. 15 giugno 16 giugno 17 giugno 19 giugno 20 giugno 22 giugno 23 giugno 26 giugno 27 giugno 30 giugno 30 giugno

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ore 21.00 ore 21.00 ore 00.00 ore 21.00 ore 21.00 ore 00.00 ore 21.00 ore 00.00 ore 21.00 ore 21.00 ore 21.00 ore 21.00 ore 21.00 ore 21.00 ore 18.00 ore 00.00

BRASILE – GIAPPONE MESSICO – ITALIA SPAGNA – URUGUAY TAHITI – NIGERIA BRASILE – MESSICO ITALIA – GIAPPONE SPAGNA – TAHITI NIGERIA – URUGUAY ITALIA – BRASILE GIAPPONE – MESSICO TAHITI – URUGUAY NIGERIA – SPAGNA SEMIFINALE SEMIFINALE finale 3° posto finale 1° posto


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LO STUDIO

CAPO CANNONIERI L’Italia è celebre per le sue impenetrabili difese. Ma quali sono gli attaccanti azzurri più prolifici? Segnare con la maglia azzurra è un’esperienza unica, sostiene chiunque abbia avuto la capacità realizzativa di riuscirci. Tuttavia, nella top 10 all-time non compare nessuno dei giocatori convocati da Prandelli per la Confederations Cup, anche perché l’attacco attuale è composto da giocatori molto giovani. In particolare Balotelli, che ha già segnato 8 gol in 20 presenze ed è stato capocannoniere all’ultimo Europeo con tre gol. A lui il compito di raggiungere i mostri sacri di cui potete leggere qui sotto.

Riva

LUCKY ITALY Quanto conta la fortuna nel calcio? Secondo gli studi statistici oltre il 40%. Ma inf luisce sempre meno.

A

bbiamo avuto il culo di Sacchi e l’acqua santa di Trapattoni. Ma non sempre la fortuna ci ha assistito, anche se pare intervenga nel determinare oltre il 40% dei risultati (nel nostro campionato di Serie A). Chi lo ha stabilito? Luigi Curini, professore di Scienza e Politiche all’Università Statale di Milano. Ha preso in analisi le partite del massimo campionato italiano dal 1946 al 2012 utilizzando una metodologia statistica utilizzata negli sport americani. Il risultato è che la fortuna ha pesato negli ultimi 66 anni per il 42%. Ma come è giunto a questa conclusione? In sostanza calcolando la distribuzione effettiva delle vittorie e paragonandola a quella che si otterrebbe se a decidere un match fosse il lancio di una moneta. La differenza è l’incidenza del destino. Dagli studi del professor Curini, si deduce che la sorte ha recitato il suo ruolo più determinante nella stagione 1956-57 (75%, con la scudetto finito nelle mani del Milan), mentre quella meno influenzata è stata la stagione 2005-06 (20% e trionfo della Juventus). Va sottolineato che, stando a questo studio, l’intervento della fortuna pare sia in forte calo, con un -15% registrato negli ultimi due decenni. Una tendenza che nasce dal fatto che si è creato un divario sempre maggiore tra i top club e le cosiddette “piccole”, con il fattore C sempre più escluso dalla competizione. Eppure l’incertezza del risultato riveste un’importanza fondamentale pnel creare attenzione nello spettatore, motivo per il quale gli sport americani hanno creato delle regole che aiutano a mantenere un certo equilibrio nelle loro leghe professionistiche. È quindi possibile che il calo degli spettatori negli stadi sia dovuto in parte all’offerta televisiva sempre più accattivante, ma dall’altra a partite più scontate e, per questo motivo, meno intriganti. La distribuzione dei diritti tv, il maggior numero di squadre iscritte al campionato di Serie A e la possibilità di tesserare calciatori stranieri hanno influito sulla prevedibilità dei risultati, e una miglior distribuzione di queste risorse aiuterebbe a creare maggior equilibrio (e a far intervenire maggiormente la dea bendata). Ma è difficile che accada perché le squadre più forti non hanno interesse a far determinar eun risultato dalla fortuna. Nelle competizioni tra Nazionali invece, potendo scegliere tra le migliori risorse del paese, è naturale che si crei più equilibrio. E chissà che il culo (e non solo il bel gioco) di Prandelli ci possa portare lontano anche in Confederations Cup. (Gianluca Roveda)

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Rombo di Tuono (che ha appena deciso di abbandonare il ruolo dirigenzziale che ricopriva in Nazionale) è il top scorer con la maglia azzurra. Dal 1965 al 1974 ha segnato la bellezza di 35 reti in 42 partite, con una media di 0,83 gol a partita.

Meazza

Si resta agli albori, ai primi Campionati del Mondo vinti dall’Italia nel 1934 e 1938. Per Meazza (al quale è stato poi intitolato lo stadio di San Siro a Milano) 33 gol in 53 partite, media di 0,62, mantenuta dal 1930 al 1939.

Piola

Si resta negli Anni 30, anche se Silvio Piola ha vestito la maglia azzurra un’ultima volta nel 1952. Trenta gol in 34 partite (e una lunga interruzione per la Seconda Guerra Mondiale), con una media ancora migliore di quella di Gigi Riva (0,88).

Baggio

Si arriva al calcio contemporaneo con Roberto Baggio che ci ha trascinato in finale ai Mondiali di USA 1994 (a parte il rigore sbagliato nella finale di Pasadena col Brasile). Per lui 27 gol in 56 partite (0,48 gol di media-partita).

Del Piero

Pinturicchio ha lasciato da poco la Nazionale azzurra dopo 13 stagioni, di militanza, una vittoria Mondiale (2006) e 27 gol in 91 partite.


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AMARCORD

CHE FINE HANNO FATTO? Sono gli eroi dei Mondiali 1982 e in particolare i titolari del celebre Italia-Brasile 3 a 2. Ma in cosa sono impegnati attualmente? Allenatori, opinionisti tv, coordinatori, pensionati... ZOFF

ANTOGNONI

SCIREA

GENTILE

COLLOVATI

GRAZIANI

71 anni, sua la parata decisiva nel finale del match con il Brasile. Dopo aver allenato Nazionale e Lazio, ora si gode una meritata pensione.

59 anni, grande classe e ottimo piede, attualmente è il Coordinatore delle Nazionali Giovanili per la FIGC.

Il più sfortunato dei reduci da quel Mondiale. Scomparso a soli 36 anni in un incidente stradale in Polonia.

59 anni, roccioso difensore (mitici i suoi duelli con Maradona e Zico) ha vinto da allenatore l'Europeo 2004 con l'Under 21. Ora è in cerca di una panchina.

56 anni, difensore capace di resistere contro i fuoriclasse in maglia verdeoro, ora è opinionista RAI.

60 anni, dal 2004 al 2006 è stato protagonista del reality tv Campioni come allenatore del Cervia. Ora è opinionista a Mediaset Premium.

ROSSI

CONTI

ORIALI

CABRINI

TARDELLI

BEARZOT

56 anni, l'eroe dei Mondiali 1982 con la tripletta al Brasile, la doppietta alla Polonia e il primo gol della finale con la Germania. Ora è opinionista tv a Sky Sport.

58 anni, il più brasiliano degli italiani in questa formazione, attualmente è il responsabile del settore giovanile della Roma.

60 anni, dopo la dedica di Ligabue nella bellissima Una vita da mediano, ora lavora come opinionista a Mediaset Premium.

55 anni, il Bell'Antonio, straordinario terzino sinistro, ora allena la Nazionale italiana di calcio femminile.

58 anni, il suo urlo dopo il gol nella finale con la Germania è l'immagine più emozionante di quel Mondiale. Ora è opinionista a Radio RAI e viceallenatore dell'Irlanda.

Il Vecio detiene il record di panchine da CT della Nazionale che guidò per 104 volte, dal 1975 al 1986. È scomparso il 21 dicembre 2010 a 83 anni.

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Esplorare la vita

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MARIO

L’ITALIA SI APPRESTA AD AFFRONTARE LA CONFEDERATIONS CUP IN BRASILE CON QUALCHE DUBBIO MA ANCHE DIVERSE CERTEZZE.

MA TUTTO PARE LEGATO AL RENDIMENTO DI MARIO BALOTELLI, DISCONTINUO CON I CLUB, PERFETTO IN NAZIONALE. BASTERÀ?

DI LORENZO CAZZANIGA

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Mario Barwuah Balotelli è nato a Palermo 12 agosto 1990. Attaccante del Milan e della Nazionale vicecampione d’Europa nel 2012, è soprannominato Super Mario.

ITALIA

E’ l’Italia di Mario, poche balle. Vero, c’è Buffon, c’è Pirlo, c’è Marchisio, ma se l’Italia ha una chance di giocarsela con l’Argentina di Messi, la Spagna del tiki-taka e il Wunderteam tedesco, ebbene quella chance passa dai piedi di Mario. E la prospettiva non è poi così malvagia. L’Italia di Cesare Prandelli ha spiccato il volo per la Confederations Cup, manifestazione prestigiosa ma sostanziale tappa di avvicinamento al momento clou della gestione prandelliana: i Mondiali 2014. Da un lato il ricordo del trionfo del 2006 è troppo lontano per chiedere un altro miracolo, dall’altro, il f lop di Sudafrica 2010 è troppo vicino per ammettere un secondo tonfo. Prandelli si presenta col titolo di vice-campioni d’Europa, un biglietto da visita non trascurabile, benché le quattro sberle subite in finale dalla Spagna facciano ancora male. Ma c’è da giurare che in Brasile la vicenda assumerà contorni ben diversi. Eccessivo ottimismo? Non solo.

L’amichevole col Brasile ha dimostrato che gli azzurri non sono poi da retrovie, in un pronostico (molto) anticipato su quanto potrà accadere l’anno prossimo. Siamo lì, in terza fila, nemmeno troppo lontani dai primissimi, con la consapevolezza che (generalmente) nelle grandi competizioni falliamo pochissimo, quasi mai due volte di fila. E così accade con Mario, il giocatore deputato a es-

sere il nostro trascinatore, il genio e sregolatezza che si perde nelle competizioni lunghe perché la costanza è dei robot, non di chi vive con estro, talvolta un pochino eccessivo. Ma una Confederations Cup, un Mondiale, si giocano in tre settimane, una manciata di partite. Non è la classica di un giorno, non è nemmeno un Tour de France. Occhio e croce, sembra studiata apposta per i tipi

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come Mario. L’obbligo di un ritiro pressoché totale gli impedisce dubbie frequentazioni. E la maglia azzurra lo stimola in maniera particolare, figlio d immigrati, aspetto da extracomunitario e forte accento bresciano, un mix che può far male. Ce lo spiegava Rudi Voeller, in una trasferta in quel di Leverkusen. «Prima la Francia, poi la Germania, adesso l’Italia: si vanno a scovare gli immigrati perché hanno più fame, più voglia di emergere, più cattiveria quando scendono in campo. Noi abbiamo Ozil, Khedira, Gomez. Voi El Shaarawy e Balotelli, che possono fare la differenza». Corretto, come la scelta di partire dalle nostre certezze. L’attacco made in Milan, giovane, ma già abituato a grandi palcoscenici (se reggi tutte le settimane al pubblico di San Siro, non ti spaventa nemmeno avere il Maracana contro). Due amici che si completano, si proteggono e si coprono. Balotelli che con la sua personalità si prende tutte le responsabilità, il Faraone che invece tende a coprirlo nel senso letterale del termine, pronto a far su è giù come un Frecciarossa, mentre il compagno prende fiato, poco abituato a rincorrere un terzino che decide di fare l’attaccante. Bisogna però scegliere un partner che si adatta a questo mix di fantasia e concretezza. Perché se è vero che Prandelli è abile nel mischiare carte, schemi e soluzioni, un eventuale 4-3-3 ha bisogno di un supporto valido. Passerà un’altra stagione e il nome che maggiormente affascina è quello di Lorenzo Insigne. Con l’Under 21 ha già mostrato un vivo attaccamento alla maglia azzurra, col Napoli qualità indiscutibili e una visione di gioco che potrebbe completare l’asse d’attacco. Avremmo preferito che a Napoli fosse rimasto Walter Mazzarri, tecnico capace, soprattutto di insegnare a segnare. Insigne dovrà percorrere il cammino di avvicinamento al Mondiale al fianco di Benitez. Materazzi lo darebbe già per spacciato, noi incrociamo le dita e quant’altro e preghiamo. Per andare avanti in un Mondiale serve un pizzico di follia: Insigne-Balotelli-El Shaarawy ne sono dotati in abbondanza.

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Le altre certezze sono la difesa made in Juventus: Chiellini, Barzagli-Bonucci. E serve giocano a tre, se serve giocano a quattro. In ogni caso sono una garanzia: in giro, tanto di meglio non si vede. E nelle gare ad alta tensione, spesso vince la difesa. O almeno questo dicono gli allenatori. Possiamo anche contare sulla crescita di xxx De Sciglio. Il terzino del Milan ha fatto passi da gigante, e un altro Campionato alle spalle (da probabile titolare fisso) potrebbe consacrarlo, in un ruolo dove si fatica a trovare l’eccellenza. Resta il centro del campo, che la logica vuole essere il perno di una squadra. E forse qui è venuto il momento di introdurre i dubbi. Che l’Italia (come troppo spesso la Juventus, sia Pirlo-dipendente, è fuori di dubbio. Succede se ti metti in squadra dei fenomeni. Però è come trovare alternative se il genio bianconero viene bloccato. Marchisio ha la tendenza a sparire nei match clou, qualche volta sovrastato fisicamente, qualche volta dalle aspettative; Montolivo non è Xavi e gli anni migliori di De Rossi sono forse alle spalle. Forse troverà spazio per Marco Verratti, una stagione altalenante al PSG ma con punte di rendimento notevoli e una freschezza giovanile che servirà a dar fiato al 34enne Pirlo. Però è chiaro che è il reparto dove concediamo di più. Oh, non che gli altri non abbiano i loro fastidi da risolvere. La Spagna avrà Xavi e Iniesta ancor più vecchi e forse appagati; il Brasile dovrà mettere insieme (presunti) fuoriclasse e qualche operaio, perché senza corsa non si vince più. L’Argentina ha il baricentro alto più forte di tutti e quello basso che può

IN POCHI CENTRANO LA PORTA COME MARIO. SI TRATTA SOLO DI CREARE L’OPPORTUNITÀ. POI CI PENSA LUI.

essere un disastro. L’Inghilterra ha poca qualità (rispetto alle potenzialità), Colombia e Belgio ne hanno invece in abbondanza ma sono poco abituate a recitare ruoli importanti. Sono nazioni da una botta e via, capaci di battere chiunque nelle giornate di grazia, ma che difficilmente mostrano la costanza necessaria per arrivare in fondo. Solo la Germania appare priva di pecche: “Mancano dieci titolari? Ne mettiamo dentro altri dieci e cambia poco” ci ha detto Voeller. Vero, ma un Lewandovski non ce l’hanno e il gioco fisico rischia di logorare presto i suoi interpreti. Però hanno la panchina più lunga e in un Mondiale non è un particolare trascurabile. Però restiamo fiduciosi. La Confederations ci dirà a anche punto siamo, perché anche nazioni come il Messico vanno prese con le molle. E poi ci sono Brasile e Spagna in formazione tipo, quindi il test è più che attendibile, anche per scoprire (piccolo vantaggio) le condizioni di gioco che offrirà la terra brasiliana. Detto ciò, le nostre possibilità restano indissolubilmente legate a Mario. Uno che lo ricordano per la Fico e la Fanny, per le baracconate e i gossip più o meno veri. Ma la doppietta alla Germania nell’ultimo Europeo? E il golazo al Brasile nell’ultima amichevole. Con la maglia azzurra segna quasi un gol ogni due partite, ma la media potrebbe anche crescere, con i compagni disposti a giocare con e per lui. Perché in pochi centrano la porta come Mario. Si tratta solo di creare l’opportunità, poi ci pensa lui. Dicono che per rendere al top, un atleta dovrebbe chiudersi in una sorta di black box, una scatoletta nera, dove è impossibile far entrare amici, presunti amici, fidanzate, presunte fidanzate, gossip, presunti gossip. Quelli bravi ci restano anche un paio d’anni. Mario pare claustrofobico e dopo qualche settimana ha bisogno di una boccata di vita. Scelta che spesso non collima con le esigenze di un calciatore professionista. Ma in Confederations, in un Mondiale, basta chiuderlo in una scatoletta azzurra per tre settimane. Un altro miracolo non succede. Ma se succede… sarò stato merito di Mario.


Mario Balotelli mentre festeggia un gol in maglia azzurra. In 20 presenze con la Nazionale ha realizzato 8 reti

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calciopoli. il mondiale. la serie b. e sempre qualcosa (o qualcuno) da cui doversi difendere. ecco perchÉ noi amiamo gianluigi buffon

E RO NUM U NO

È il miglior portiere del mondo ma viene spesso criticato. Perché? Mette in mostra l'anima... DI SIMONE STENTI

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C

hissà perché siamo sempre tanto diffidenti di chi mette in mostra l’anima. Forse pudore, forse snobismo. Certamente invidia. Un sentimento che non risparmia i più Grandi Italiani. Toccò persino a Sandro Pertini, di cui in maniera postuma, il solito caustico Indro Montanelli scrisse nella sua quotidiana Stanza: «Non perdeva occasione di dare spettacolo seguendo in lacrime tutti i funerali, baciando torme di bambini, e insomma toccando sempre quel tasto del patetico a cui noi italiani siamo particolarmente sensibili». Con le dovute proporzioni, prendiamo Gigi Buffon e la sua caldissima estate del 2006: Calciopoli, poi la vittoria Mondiale, infine la serie B. Mezza Juve scappa dall’inferno, lui e pochi altri “moschettieri” (copyright Lapo) decidono di scoprire come sono fatti i campi di provincia. Quando l’Ansa,

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il 19 luglio 2006, lancia la dichiarazione del suo procuratore Silvano Martina: «Gianluigi Buffon resta alla Juventus, è disposto anche a giocare nel campionato di serie B», la scelta viene immediatamente marchiata in negativo. Non ha mercato e costa troppo, si sussurra. I siti s’intasano di cervellotiche congetture: «È chiaro che l'operazione sia una mera propaganda bianconera decisa per dare entusiasmo all'ambiente e consentire a Gianluigi Buffon di restare parcheggiato a Torino ancora un anno senza dare troppo nell'occhio. Il portiere della Nazionale infatti ha prolungato il suo contratto di una stagione. Dal 2011 è stato portato al 2012. Che cosa cambia?», scrivono per esempio sui canali sportivi di Blogosfere. Non bastano le rassicurazioni di Martina, che a posteriori racconterà: «Di occasioni per lasciare Torino ce ne sono state, specie dopo i Mondiali del 2006. Arrivarono due offerte ufficiali sul tavolo della Juventus, ma in quel mo-


«È una persona

onesta e non esita a comunicare i suoi pensieri, tra quattro mura o davanti ai microfoni » andrea agnelli

Gianluigi Buffon è nato a Carrara il 28 gennaio 1978. Campione del mondo con la Nazionale italiana nel 2006 e vicecampione d'Europa nel 2012, ha vinto quattro scudetti e una Coppa UEFA con la Juventus. mento non se la sentì di andarsene per riconoscenza e affetto nei confronti del club che l’aveva reso grande e che stava vivendo il momento di maggior difficoltà della sua storia. Non fu una scelta facile perché al momento aveva 28 anni e due mesi dopo aver alzato la coppa del mondo a Berlino giocare a Rimini, con tutto il rispetto, non è un gran salto». Le due offerte, non è più un segreto, arrivavano dall’Inter, dove migrarono i compagni Zlatan Ibrahimovic e Patrick Vieira, e dalla Roma, che addirittura ipotizzò un prestito, rifiutato con sdegno: «Non si chiede in prestito un campione del mondo». In un Paese dove gli idoli hanno sempre, chissà perché, basamenti di cristallo, riesce molto più facile cercare le pagliuzze dei difetti piuttosto che vedere le travi dei pregi. Uno con il palmares di SuperGigi dovrebbe avere già il nome inciso nella Hall of Fame del calcio, eppure quando, il 2 maggio 2012, al 40’ del secondo tempo di Juventus-Lecce, cercò

un dribbling che lanciò a rete Bertolacci, si scatenarono i peggiori istinti. Col campionato ipoteticamente riaperto, le critiche lasciarono presto il terreno di gioco (dove, peraltro, sarebbe stato difficile mettere all’angolo un portiere che aveva subìto solo 16 reti in 35 partite) per sconfinare su terreni scivolosi. Nell’immediato dopo partita un giornalista gli inviò questo sms, vai a sapere con quale intento: «Sul web dicono che hai scommesso…». Buffon restò allibito: «Se sei così tarato da pensar male, davvero non so cosa dire. Sono offese che mi disarmano». Dopo qualche settimana, scoppiò proprio l’ennesimo scandalo scommesse nel calcio e, con uno strano anticipo sull’ufficialità, saltò fuori anche la notizia degli assegni staccati dal portiere a favore di Massimo Alfieri, tabaccaio di Parma, per 1,5 milioni di euro. Senza gli opportuni approfondimenti, l’Italia dalla memoria corta e dalla moralità a fisarmonica, chiese per la seconda vol-

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uno con

il palmares di supergigi dovrebbe avere giÀ il nome inciso nella hall of fame del calcio. eppure...

ta l’esclusione di Buffon dai convocati azzurri prima di un evento internazionale. Così come l’aveva chiesta prima dei Mondiali di Germania 2006, si ripeté prima degli Europei. Fu proprio l’ex pm di Calciopoli, Giuseppe Narducci, a suonare la carica: «Io sono un integralista da questo punto di vista, ovviamente la Nazionale deve andare agli Europei come successe nel luglio 2006 per i Mondiali. Ma allora, come in questo caso, è opportuno non portare nella competizione persone rimaste coinvolte in uno scandalo del genere. Io non avrei convocato Buffon e Bonucci». Buon per la verità storica che il commissario tecnico Cesare Prandelli non si lasciò influenzare, come non ci pensò minimamente Marcello Lippi sei anni prima. E buon soprattutto per il calcio azzurro, che in quelle occasioni ha alzato la Coppa del Mondo ed è arrivata in finale nel torneo continentale. Due tra i massimi traguardi della storia del calcio italiano. Sospetti e pettegolezzi, perché l’errore, come la debolezza umana, è difficile da concedere. E men che meno per chi ci mette la faccia. Allora, al disarmato Gigi, è toccato pure sentire Franz Beckenbauer sbroccare e dargli del pensionato, dopo il gol di Alaba e la sconfitta della Juve all’Allianz Arena col Bayern di Monaco, nei quarti di finale della Champions

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2013. Una critica inverosimile che ha subito trovato terreno fertile sui soliti che hanno presto dimenticato le parate decisive nel turno precedente contro il Celtic. Senza le quali il signor Alaba avrebbe tirato verso la porta di Fraser Forster. Soltanto due anni fa gli stessi tifosi bianconeri recitavano in coro irriconoscenti: Buffon non è più lui, meglio tenerci Storari e fare cassa. Al punto che il secondo portiere juventino, nell’euforia dell’immediato dopopartita di Roma - Juve, si sentì in diritto di dire: «Solo un cieco non vede quello che sto facendo e spero che il mister non sia cieco». Anche in quell’occasione Gianluigi non alzò la cresta, fedele al suo motto: «Quando sei martello batti, quando sei incudine statti!». Ovvero, taci e aspetta l’occasione giusta per dimostrare chi sei. Era l’aprile del 2011 e il mister lungo-vedente a cui si riferiva Storari, era Gigi Delneri. Poi però è arrivato Antonio Conte e i due anni seguenti sono nella storia della Juve, sintetizzati nell’ultima istantanea della stagione 2012 - 13, dove Buffon alza la coppa, primo capitano dell’era post Del Piero. Buffon è tutt’altro uno che sta zitto, però. Lo stesso Andrea Agnelli, durante la conferenza stampa dello scorso 23 gennaio per il prolungamento del contratto fino al 2014, l’ha definito così: «È una persona onesta e non esita a comunicare


A livello individuale, tra i vari successi ottenuti spiccano gli 11 Oscar del calcio AIC come miglior portiere, il premio dell'Istituto Internazionale di Storia e Statistica del Calcio come miglior portiere del decennio 2011/2011 e il secondo posto nel Pallone d'Oro 2006 i suoi pensieri, tra quattro mura o davanti ai microfoni». È esattamente questo il motivo per cui poi incappa anche negli scivoloni più macroscopici, come l’ormai celebre maglietta con la scritta «Boia chi molla». Una catastrofica gaffe più volte chiarita: «Non è stato un errore, al massimo una botta d’ignoranza. Grave, non sapere, ma da qui allo scandalo che ne è uscito, c’è un abisso», confessò, lasciando l’approfondimento dell’episodio alla sua autobiografia, Numero 1. «Adesso che c’è Internet ti documenti in fretta, ma a me quel motto era venuto dal cassetto di un tavolo in collegio. Lì, a tredici anni, avevo trovato quella scritta intagliata. Erano i primi anni che ero fuori casa, era un periodo difficile dal punto di vista psicologico. Feci mia la frase come incitamento a resistere, senza avere o sospettare ideologie politiche, e la tirai fuori sei, sette anni dopo quando la squadra stava attraversando un momento delicato». Con la politica Buffon ha un sentimento complesso, ma anche in questo campo lui è uno che non si nasconde. Nel 2000 scese in campo con l’88 sulla schiena e Vittorio Pavoncello, responsabile sport della comunità ebraica di Roma, scatenò l’inferno: tra i neo-nazisti, quel numero è un simbolo che rappresenta l’Heil Hitler (l’acca è l’otta-

va lettera dell’alfabeto). Buffon cadde dal pero: «Chiesi al Parma lo 00, che per me era il simbolo delle palle. Lo consideravo anche il simbolo della rinascita dopo l’infortunio che mi aveva impedito di andare all’Europeo in Belgio e Olanda. Mi dissero di no, che lo 00 non si poteva. Allora, risposi, prendo l’88, che di palle ne ha quattro». Spinto dalla società, chiese scusa di un qualcosa che neppure si spiegava bene. Come si poteva realisticamente pensare a un Buffon nazista? Domanda che rimbomba anche più paradossale dopo il plateale endorsement che il portiere della Nazionale ha riservato al premier uscente Mario Monti, prima delle Politiche 2013. Un discorso a braccio che ha fatto sgranare gli occhi a molti e che, per la verità, non ha neppure portato troppa fortuna al leader di Scelta Civica, ma che ha dimostrato una volta di più che Gigi Buffon ama dare parola ai moti del cuore. Perché Buffon è sempre nel mezzo degli impietosi giudizi degli italiani, popolo incapace di rispettare i Grandi che per fortuna sa produrre: «Nella vita esistono sfumature di colore, invece c’è gente che giudica con una certezza granitica, senza considerare che un margine di errore, tra gli esseri umani, è sempre possibile». Tra i pali come fuori.

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A 23 anni viene acquistato dalla Juventus per 75 miliardi di lire più la cessione di Jonathan Bachini, valutato 30 miliardi, risultando il giocatore più pagato nella storia della società bianconera.

2001

È stato criticato in diverse occasioni. Nel Parma per una maglia con la scritta Boia chi molla che gli è costata un deferimento alla commissione disciplinare. Poi per l'88 come numero di maglia che simboleggiava (per lui) quattro palle, simbolo della rinascita dopo un infortunio. Ma il numero può essere associato anche a Hitler (l'ottava lettera dell'alfabeto è la H, quindi Heil Hitler) e quindi ripiega sul 77. Nel 2001 rischia la reclusione a causa di un falso diploma: si iscrive all'università senza averne titolo ma patteggia la pena a sei milioni. Nel 2006 pare coinvolto in un giro di scommesse che gli fa rischiare la partecipazione agli imminenti Mondiali e, durante i festeggiamenti per la vittoria mondiale, sventola uno striscione: Fieri di essere italiani con annessa una Croce celtica.

2000

2002 C

u

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Acquistato a 13 anni dal Parma per 15 milioni di lire, a 14 anni, è costretto a giocare in porta per l'assenza di entrambi i portieri. Dopo due settimane conquista il posto di titolare. L’esordio in Serie A in Parma-Milan (0-0) del 19 novembre 1995. Subisce la prima rete nella partita successiva contro la Juventus (gol di Ciro Ferrara).

1991

Sui guanti porta scritto l'acronimo C.U.I.T., che significa Commando Ultrà Indian Trips, il nome di un gruppo di tifosi ultras della Carrarese, di cui è unico azionista. Tra gli altri investimenti, un ristorante nel centro della città di Pistoia (Zerosei) e lo stabilimento balneare La Romanina in località Ronchi.

È soprannominato Superman, appellativo che risale ai tempi del Parma, quando indossò la maglia azzurra con la S del supereroe dopo un rigore parato a Ronaldo (Il Fenomeno) in un Parma-Inter.

1998

TUTTE LE DATE PIÙ IMPORTANTI DELLA CARRIERA DI GIANLUIGI BUFFON. DAGLI ESORDI ALLE VITTORIE CON JUVENTUS E NAZIONALE, PASSANDO ATTRAVERSO CRITICHE E PREMI PRESTIGIOSI

GLORY DAYS Gianluigi Buffon è nato a Carrara il 28 gennaio 1978 da una famiglia di sportivi: la madre Maria Stella Masocco è stata tre volte campionessa italiana di getto del peso e lancio del disco, lo zio Dante Masocco ha giocato in Serie A1 di pallacanestro, il padre Adriano ha militato nella Nazionale di getto del peso e le sorelle Guendalina e Veronica sono state buone pallavoliste.

1978

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In Confederations Cup supererà le 126 presenze attuali con la maglia della Nazionale e comincerà l’inseguimento alle 136 presenze di Fabio Cannavaro. In totale ha disputato 665 partite in Serie A subendo 582 gol. Ha vinto 4 scudetti, 1 Coppa Italia, 4 Supercoppe Italiane e una Coppa UEFA. Con la Nazionale ha vinto un Campionato del Mondo, un Campionato Europeo under 21 e un'edizione dei Giochi del Mediterraneo.

2013

Dopo le vicende di Calciopoli, decide di continuare la sua avventura con la Juventus in Serie B. «La tua maglia dice chi sei». Così la Juventus ha voluto ringraziarlo pubblicamente, acquistando una pagina di pubblicità sui tre quotidiani sportivi nazionali.

2006

Si laurea Campione del Mondo con la Nazionale Italiana e viene premiato dalla FIFA come miglior portiere del campionato mondiale.

2006

La tua maglia dice chi sei Si è classificato secondo nel ranking del Pallone d'oro, dietro Fabio Cannavaro. L’unico portiere capace di vincere il Pallone d’Oro è stato Lev Yashin nel 1963.

2006

Viene inserito nella FIFA 100, una lista dei 125 più grandi giocatori viventi, selezionata da Pelé e dalla FIFA in occasione delle celebrazioni del centenario della federazione.

2004

Si è laureato vice-campione d'Europa con la Nazionale italiana perdendo solo la finale contro la Spagna.

2012

Il 16 giugno 2006 si è sposato con la showgirl ceca Alena Seredova. Hanno due figli: Louis Thomas (28 dicembre 2007), il cui nome è stato scelto in onore del suo idolo sportivo, il portiere del Camerun Thomas N'Kono, e David Lee (31 ottobre 2009).

Perde la finale di Champions League ai rigori contro il Milan, nonostante pari i tiri di Seedorf e Kaladze. È premiato come miglior giocatore della Champions, primo portiere a ricevere questo riconoscimento.

2003


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PABLITO

«Sono nato col mito di Pelè e cresciuto col mito del Brasile. Quel 5 luglio 1982 poteva finire la mia carriera. Invece quel primo gol… è stato il gol della mia vita» Intervista di Massimo Marianella Ritratti di Chiara Mirelli

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È una partita che al parco, in cortile o sulla sabbia abbiamo giocato tutti. Italia contro Brasile. Lo ha fatto anche un ragazzo di Prato di nome Paolo. Quel giorno del 1982, quando in Spagna lui l’ha giocata davvero e la sua vita è cambiata. Per sempre. E forse anche quella di molti di noi. Lui, l’Italia e gli italiani si avvicinavano a diventare Campioni del Mondo. Una sensazione unica, anche da vivere sul divano di casa. Grazie a lui. Grazie a quell’Italia che con la sua tripletta mise in ginocchio il Brasile. La Nazionale dei sogni, quella cui è difficile fare il tifo contro. Quella che, più o meno confessandolo, tutti ammirano. Paolo Rossi quel giorno divenne uno dei simboli della storia del calcio italiano. Scrisse un capitolo indelebile che in trent’anni è stato poi costretto a rileggere, per tutti, tante volte. “Fastidio? No anzi. Ricordare quel giorno li, anche a distanza di tanti anni, è piacevolissimo. E’ una cosa bella. Se qualcuno mi ricordasse un incidente o una pagina buia della carriera allora.., Ma ricordare Italia-Brasile è come se mi si aprisse la vita, il Mondo. Quella è stata la mia partita. Guarda se tu volessi scrivere la sceneggiatura di un film, una fiction, non ti viene come la mia storia, che è davvero un film. Rientravo dopo un anno di squalifica, giocavo male, ma Bearzot continuava a darmi fiducia nonostante le critiche. Se ci fosse stato qualsiasi altro allenatore, probabilmente non avrebbe insistito così. Poi arriva il Brasile. L’ultima partita. Per me sicuramente l’ultima spiaggia e faccio tre gol. Dai, è inverosimile. E’ più della storia dello sport. E’ la storia della vita. La vita è così. Devi sempre crederci anche quando le cose ti vanno male. Bisogna fare. Provarci. Andare. Poi può anche non andar bene, ma bisogna provarci fino in fondo”. Ma giocare contro il Brasile, che cosa vuol dire?Il Brasile ha un fascino unico. Io sono nato col mito di Pelè e cresciuto col mito del Brasile. Avevo 12 anni quando mio papà mi portò a Firenze una sera con la Lambretta per vedere un’amichevole del Santos con la Fiorentina. Non tolsi lo sguardo

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da Pelè per tutti i 90 minuti. Ho guardato solo lui, la partita praticamente no. Lo seguivo con lo sguardo in ogni movimento. Eredità anche della finale del Mondiale del 1970. Una partita che per me è stata quasi il punto di partenza. Mi sembra di rivederla oggi. All’epoca ci si ritrovava nelle case. Ognuno aveva il suo posto. Mio nonno lì, mi padre là. Finita la partita, nonostante fosse andata malissimo, si andò a giocare a calcio e ci si chiamava coi nomi dei protagonisti di quel match e faceva piacere anche essere uno dei brasiliani. Avevo 14 anni e quel Brasile è sempre rimasto nella mia mente. I brasiliani nell’immaginario del mio calcio hanno sempre avuto un ruolo primario. Quelli fantasiosi, giocolieri, quelli che si divertono sempre a giocare. I più forti di tutti. Questa è sempre l’immagine con la quale sono cresciuto. Tra l’altro, con la Nazionale juniores nel Torneo Internazionale di Cannes ho coronato il mio sogno e li ho affrontati per la prima volta. Il nostro allenatore era Azeglio Vicini. Pure lì ho fatto gol, anche se allora giocavo tornante a destra e non attaccante puro. Si vede che era destino nel mio rapporto col Brasile”. Ti riporto al Sarrià, anche se non esiste più. “Beh, quel Brasile in particolare era una squadra stellare, zeppa di campioni. La favorita praticamente per tutti. Zico, Falcao, Socrates. Lo sapevamo, ne parlavamo con ammirazione anche noi alla vigilia. Poi però quando entri in campo tutte queste cose le perdi. Non ce l’hai più. Siamo io e te. Anzi, più bravo è l’avversario, più hai carica per dimostrare di essere all’altezza. A me ha sempre fatto quell’effetto lì e in quell’occasione anche a tutta la squadra. Comunque alla vigilia c’era una tensione pazzesca. Il lato positivo è che venivamo dalla partita contro l’Argentina che ci aveva restituito la fiducia che avevamo perso. Ci ha ridato la convinzione che comunque avremmo potuto giocare alla pari anche la partita col Brasile”. Bearzot aveva preparato qualcosa di particolare


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per il match? “No. Di davvero particolare niente. Come aveva fatto con Maradona, mise Gentile su Zico, ma a quel punto non era più una mossa a sorpresa. A me invece chiese a me di andare a pressare sui due centrali difensivi che erano Oscar e Luisinho. Senza stancarmi troppo, ma impedendogli di impostare il gioco tranquillamente. Non dovevo rincorrerli, ma stare nel mezzo a disturbarli. La fase di copertura era compito di Graziani. Le energie, mi diceva, dovevo utilizzarle offensivamente negli ultimi 40 metri. Era successo lo stesso anche in Argentina quattro anni prima contro i padroni di casa, quando dovevo dare fastidio in fase di creazione di gioco a Passarella”. Ho letto sul libro che hai scritto: “Il cuore mi è schizzato fuori dal petto. Il primo gol al Brasile è il più bel ricordo della mia vita calcistica” Perché il primo gol? “Ah sì, il primo in assoluto! Proprio per la situazione da cui venivo. Quando ho visto entrare la palla è come se mi fossi liberato da un peso enorme. Le critiche di tutti che, anche se ci era vietato leggere i giornali, comunque arrivavano quando coi gettoni (un tempo non c’erano i cellulari…) telefonavo a casa. Me ne sono sempre fregato però sapevo che c’erano. Sentivo soprattutto la responsabilità che mi era stata addossata. Quando sono tornato dopo due anni di squalifica tutti mi consideravano quello che poteva risolvere i problemi della Nazionale. Quando invece rientri, fai fatica, non giochi bene, non trovi il gol è come portare un macigno sulle spalle. Quella era la quinta partita e quelle precedenti non erano andate bene. Per me quel giorno non c’era ritorno. Sarebbe stata la partita della mia vita comunque. O in positivo o in negativo. Se avessimo perso quel match, se non avessi segnato, non dico che la mia carriera sarebbe finita, ma più o meno... Invece quel giorno a Barcellona è iniziata. La vita è fatta di episodi. Quel primo gol è stato l’episodio della mia carriera. Il gol della mia vita. Anche gli altri, il secondo e il terzo, sono stati importanti, ma meno rispetto al primo”. Sai che sei l’unico nella storia delle 14 sfide tra Italia e Brasile ad aver segnato una tripletta? “Neanche un brasiliano? Neanche uno. “Ah, non lo sapevo ed è una bella scoperta”. Con chi hai scambiato la maglia quel giorno ? “Semplice, non l’ho scambiata, l’ho tenuta io! Tra l’altro i brasiliani uscirono rapidamente dal campo mentre noi siamo rimasti lì ad abbracciarci. Ricordo che entrarono in campo Maldini, Bearzot, tutti. Per me quell’abbraccio di Bearzot era pieno di significati. Lui si era giocato tanto mettendomi in campo. Aveva tutti addosso. Chi spingeva per far giocare uno, chi un altro, mentre lui è andato per la sua strada seguendo le sue idee. Anzi, la sua idea. Era convinto che io sarei tornato quello di prima. Alla fine poi è andata così, ma non era per nulla scontato”.

Quante volte l’hai rivista quella partita? “Abbastanza. Spezzoni più che altro. Tutta intera credo di averla rivista 5 o 6 volte, ma spezzoni tante altre volte, anche perché viene riproposta spesso, per fortuna. Comunque quando la rivedo tranquillo, da solo davanti al televisore, mi offre ancora emozioni vere, forti. Più passa il tempo, più mi emoziona rivederla. Mi viene in mente quella frase che dice: ‘Quando i sogni lasciano spazio ai rimpianti, vuol dire che stai invecchiando….’. E forse è vero, anche se in questo caso sono emozioni positive. Qualche anno dopo quell’estate del 1982, rivedere quell’Italia-Brasile era bello, ma quasi normale. Adesso, a distanza di 30 anni, c’è ancora più piacere nel rivederla perché capisci meglio l’impresa che siamo riusciti a compiere”. Da quel giorno, l’Italia non ha più battuto il Brasile. “Lo dico sempre che battere il Brasile non è

PIÙ SCRIVI MALE DI UNA CURVA, PIÙ SI POPOLA DI ACCOMUNATI DA UNA BANDIERA. FIERI DI ESSSTADIO, SOTTO LA PIOGGIA. 40


ITALIA vs BRASILE Coppa del Mondo 1982 - 5 luglio 1982 Estadio de Sarrià, Barcellona - 44.000 spettatori

ALLENATORE: TELE SAMTANA

Peres Rossi Graziani Oscar

Conti

Luizinho

Junior Leandro Cerezo

Tardelli Falcão

ALLENATORE: ENZO BEARZOT

Antognoni Oriali

Socrates Zico Éder

Serginho Collovati Scirea

Gentile

Cabrini Zoff

MARCATORI Rossi 5’, Socrates 12’, Rossi 25’, Falcao 68’, Rossi 74’ AMMONITI Gentile 13’, Oriali 78’ SOSTITUZIONI Bergomi (per Collovati) 34’; Paulo Isidoro (per Serginho) 69’; Marini (per Tardelli 75’) www.transfermarkt.it/it/italia-brasile/index/spielbericht_965879.html

facile! Anche se non è più il Brasile galattico di qualche anno fa, qualsiasi squadra mettano in campo è sempre tosta. Vederli giocare è sempre bello perché per loro il calcio è una cosa naturale. Adesso sono anche molto meno ingenui difensivamente di prima, sono cambiati. Ora esportano anche difensori e portieri. Zico me lo dice sempre che quella partita al Sarrià non ha cambiato solo la nostra vita, ma anche il modo di giocare del Brasile. Li ha resi un po’ più europei, più accorti”. Per venire al Brasile di oggi, per te Neymar è un campione o dobbiamo aspettare che si misuri con un campionato europeo? “Per me è un campione. Ha dei colpi straordinari. L’ho visto giocare e ti assicuro che è un campione! E’ altresì vero che i campioni con la C maiuscola devono venire in Europa per fugare ogni dubbio. Adesso vengono meno perché il potere economico delle squadre brasiliane è cambiato e poi c’è il Mondiale in casa da giocare, però fra un paio d’anni dovremmo vederlo anche da queste parti”. Com’è questa Italia che si prepara ad andare in Brasile per giocare Confederations a giugno

e poi il Mondiale nel 2014? “A me quest’Italia piace. E mi piace Prandelli. Io ho ancora in mente l’ultimo Europeo. Se leviamo la finale contro la Spagna che è stata una partita disgraziata perché la squadra non aveva riposato abbastanza dopo la semifinale, l’Italia ha fatto un Europeo straordinario. Anche a livello di gioco mi è piaciuta tantissimo perché Prandelli ha l’idea di imporre il gioco, non di subirlo. Un po’ come le squadre di Conte che sono sempre propositive. Attenzione ai dettagli, pressing, aggressività. Io da osservatore e da tifoso sono davvero fiducioso. Penso che l’Italia possa recitare un ruolo importante nelle prossime competizioni ufficiali”. Cosa ne pensi invece del nuovo Brasile di Felipe Scolari? “Ovviamente è una grande Nazionale guidata da un allenatore esperto. Giocheranno in casa quindi sono tra i favoriti, ma viste le ultime amichevoli mi sembra che siano un passetto indietro rispetto alle previsioni. Hanno grandi giocatori, ci sarà l’entusiasmo di un Paese intero a sostenerli, ma la sfida di Scolari sarà rendere questo gruppo una vera squadra. Hanno il tempo necessario, ma c’è ancora un po’ di lavoro da fare”.

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ITALIANI DEDITI A MELINA E DIFESA A OLTRANZA? MACCHÉ. ANCHE NOI ABBIAMO AVUTO DEGLI ADEPTI DEL FUTBOL BAILADO. A PARTIRE DA BRUNO CONTI, «UN VERO BRASILIANO». PAROLA DI PELÉ. DI GIULIANO PAVONE

BRASILIANI D’ITALIA


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L’ULTIMO DEI BRASILIANI D’ITALIA, IL PIÙ VERO, È STATO BRUNO CONTI. TITOLO GUADAGNATO SUL CAMPO, IL SUO. UN CAMPO TORRIDO E DAL PRATO VERDE BRILLANTE: QUELLO DELLO STADIO SARRIÁ DI BARCELLONA, IN CUI UN POMERIGGIO DELL’ESTATE 1982 I BRASILIANI – QUELLI AUTENTICI – FURONO SCONFITTI DAGLI ITALIANI. E NIENTE FU PIÙ COME PRIMA. L’ultimo dei brasiliani d’Italia, il più vero, è stato Bruno Conti. Titolo guadagnato sul campo, il suo. Un campo torrido e dal prato verde brillante: quello dello stadio Sarriá di Barcellona, in cui un pomeriggio dell’estate 1982 i brasiliani – quelli autentici – furono sconfitti dagli italiani. E niente fu più come prima. Di quel titolo l’ala giallorossa fu investita ufficialmente proprio da un brasiliano. E non da uno qualsiasi. «E’ Bruno Conti il vero brasiliano dei mondiali; è il più forte fra tutti i giocatori che ho visto in Spagna. Credevo che giocatori come lui non ne nascessero più». Così parlò Pelé. Conti, però, un po’ brasiliano si sentiva già da prima: lui, al fútbol bailado, si era sempre ispirato. E anche a chi si beava nel vederlo giocare – dribbling irresistibile, tiro esplosivo – l’accostamento veniva spontaneo. Hai un tocco sopraffino? Sei portato alla giocata spettacolare? Col pallone hai una confidenza finanche eccessiva, al limite dell’autocompiacimento? Allora sei un brasiliano. Un’equivalenza, questa, a metà fra complesso di inferiorità e orgoglio della diversità. Perciò quando se lo trovò davanti, il Brasile – forse il miglior Brasile di sempre, almeno per nove undicesimi – Bruno dovette sentirsi un po’ confuso. Un soldato blu, anzi azzurro, diviso fra appartenenza e vocazione. Perché se per caso avesse vinto, avrebbe finito per sconfiggere anche una parte di se stesso. Prima della partita azzardò mentalmente un pronostico, o forse un salomonico auspicio, riportato nel libro “Il mio Mundial”: «Finisce due a due - mi dicevo - noi salviamo la faccia, ma loro vanno in finale. Forse è giusto così». Forse. Ma qualcuno aveva scritto un epilogo diverso, fatto di braccia alzate nel cielo di Madrid e bagni nelle fontane di tutta Italia.

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Conti è più brasiliano dei brasiliani. Non si tratta solo di dare del tu al pallone, è proprio una questione di impostazione. Prendiamo il primo gol di Rossi, quel pomeriggio. Tutti ricordano il cross di Cabrini da sinistra e Pablito che irrompe a valanga sul secondo palo. Ma se mandiamo indietro di qualche secondo il vhs d’annata, vediamo che l’azione inizia da destra, da Bruno Conti. A centrocampo fa una doppia giravolta su se stesso, accarezzando la palla col tacco, e avanza di alcuni metri. Poi rientra, e con l’esterno sinistro taglia il campo orizzontalmente con un passaggio a uscire che finisce docilmente fra i piedi del Bell’Antonio. Ecco, non è questione di morbidezza e precisione del passaggio: è proprio che in Italia un gesto del genere non si fa, non si è mai visto. Conti è il brasiliano d’Italia. Ma quella partita la vince perché è brasiliano fra gli italiani. Fossero scesi in campo un portiere e dieci Bruno Conti, quell’incontro non l’avremmo vinto. Conti era lì per confermare, con la sua eccezionalità, la regola italiana. Sembrava dire ai suoi avversari/compagni sudamericani: «Vedete? Siamo capaci anche noi» (fine del complesso di inferiorità). «Ma siamo capaci anche d’altro» aggiungeva il resto della squadra, rimarcando così l’orgoglio della diversità. E il trionfo epocale arrivò, oltre che per il sinistro velluto e dinamite di Conti, anche per l’istinto omicida di Rossi, la lucida essenzialità di Antognoni, il furore strappamaglie di Gentile, l’atavica saggezza di Scirea, l’algida concentrazione di Zoff e la sana avvedutezza di papà Bearzot. Eppure Conti non ha l’aspetto del brasiliano. Soprattutto, non somiglia a quei brasiliani. Atletici, statuari, perfetti, armonicamente multirazziali. Quasi divinità classiche. Lui – guizzante Calimero senza collo – della divinità classica ha solo il nome


Franco Causio con la maglia della Nazionale italiana. In apertura, Bruno Conti e, nella pagina seguente, Vinicio Verza con la casacca rossonera del Milan

del paese in cui è nato: Nettuno. Dall’altra parte c’è chi invece si chiama come un filosofo greco – Socrates – e del filosofo ha anche il sussiego, lo sguardo e la barba. Sguardo e barba: se Socrates li ha da filosofo, quelli di Junior sono da dissidente politico, o da cantautore impegnato. In casa nostra invece, barbe poche, finiti gli anni 70, e quanto ai baffi, quelli provvisori di Bergomi e quelli estemporanei di Gentile sembrano più che altro baffi da carabinieri. Anche gli sguardi da carabinieri hanno quei due, e l’attitudine alla custodia punitiva, da esercitare in coppia. Ma seduto in panchina, sulla panchina dell’Italia, quel giorno c’è un uomo che ha i baffi da brasiliano. E non solo quelli: pure lo sguardo, intenso e insieme vago. Un Rivelino de noantri. Per non parlare dei piedi. È FRANCO CAUSIO. Ed è l’unico, insieme a Conti, che può legittimamente fregiarsi del titolo di brasiliano d’Italia. E infatti oltre a Il Barone (il Barone e Conti: noblesse oblige…) era soprannominato anche Brasil. Causio di Conti era stato il predecessore in Nazionale. Il suo apporto più significativo alla spedizione spagnola fu un bluff che giocò a Pertini nella partita a scopone scientifico in aereo, sulla via del ritorno. In campo, a parte la passerella premio che Bearzot gli concesse all’ultimo minuto di Italia-Germania, giocò solo per un tempo contro il Perù, nella partita che – coincidenza singolare – vide Bruno Conti siglare il suo unico gol della manifestazione. Il mondiale di Causio era stato senza dubbio Argentina ’78. Causio insomma, sta a Bruno Conti come il mondiale sudamericano sta a quello iberico. E questo spiega la differenza fra i due. Se Argentina ’78 fu una meravigliosa incompiuta, Spagna ’82 sancì il trionfo. Forse in Argentina giocammo addirittura meglio, molto probabilmente senza quella

tappa di avvicinamento non avremmo tagliato il traguardo per primi quattro anni dopo, ma la storia si è fatta a Madrid. Stesso discorso per i due calciatori brazilian style: Causio fu grandissimo, Conti definitivo. Anche perché Conti il Brasile lo batté. Causio, invece, contro il Brasile segnò (un gol di testa alla Paolo Rossi), colse anche una traversa, ma poi la sua Italia crollò sotto i colpi da fromboliere di Nelinho e della buonanima di Dirceu. E poi quella era solo la finale per il terzo posto, non la rampa di lancio verso il tetto del mondo. Certo, se si parla di club, il più vincente dei due è senz’altro Causio, che con la Juve di Trapattoni fece incetta di scudetti (sei), vincendo anche una Coppa Uefa. Conti, nella Roma, di scudetto ne avrebbe vinto solo uno, proprio l’anno successivo al Mundial, compagno di squadra di quel Falcão a cui al Sarriá aveva strozzato in gola l’urlo del momentaneo 2-2 (nel campionato successivo Causio invece avrebbe accolto Zico nell’Udinese). Ma se la partita è fra Brasiliani d’Italia, il terreno di gioco non può che essere quello delle nazionali. E lì, vince Conti. Il mito della superiorità del Brasile era nato in Italia dopo la finale messicana del 1970. Gli eroi del 4-3 alla Germania erano stati annichiliti con disarmante facilità da Pelé e compagni. Quel mito sarebbe stato smontato proprio nel 1982, e non a caso è in questa parentesi, dal ’70 all’82, che si affermano Causio e Bruno Conti. Dunque, è in quella dozzina d’anni che il “tropicalismo” italico vive la sua stagione d’oro. E se le partite dell’Azteca e del Sarriá hanno avuto il loro peso nell’inaugurare e concludere questa fascinazione esotica, va anche considerato un altro fattore: dal 1966 al 1980 il campionato italiano aveva chiuso le frontiere. Con

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l’era degli oriundi ormai al tramonto e l’autarchia calcistica imposta dalla figuraccia contro la Corea, gli italiani cercavano insomma di arrangiarsi con dei surrogati locali, come accadeva col cafè in tempi di guerra. Ciò permise di scoprire cultivar nostrane di grande pregio, come si è visto, ma anche esemplari un po’ meno prelibati per i quali l’accostamento ad effetto con la patria del calcio-spettacolo rischia, a distanza di tempo, di sollevare qualche sorriso. Ma tant’è: non si vive di sola qualità oro. Non Cicoria ma VERZA, faceva di cognome il centrocampista veneto che giocò, fra l’altro, nella Juve, nel Milan e nel Verona. La sua fama di brasiliano, oltre che dal genio e dalla sregolatezza (Ilario Castagner l’aveva soprannominato Van Den Bosc per la sua attitudine a scomparire nel corso della partita), derivava forse anche dal suo nome di battesimo: VINICIO. Un nome che evocava, a seconda di gusti e culture, poeti carioca o centravanti di Belo Horizonte naturalizzati partenopei. E a proposito di Napoli, fu lì che Verza siglò il gol più importante della sua carriera, il 17 maggio 1981. Fu un suo tiro (era subentrato nel secondo tempo proprio a Causio) a permettere alla Juventus di espugnare il San Paolo e involarsi verso il suo diciannovesimo scudetto. La sua conclusione di sinistro fu in realtà sporcata da una deviazione di Guidetti, e Verza finì per farsi espellere, a due minuti dalla fine, per perdita di tempo. Ma per un mito minore può andar bene anche così.

e ruolo (benché il termine “ala” nel frattempo fosse caduto in disuso) è stato il legittimo erede di Causio e di Conti, nessuno ha mai scomodato suffissi -ão o -inho. Certo, Miccoli è il Romario del Salento, e se proprio vogliamo scandagliare il mare dei soprannomi, ci sarebbe anche Possanzini, che a Reggio Calabria avevano iniziato a chiamare il Ronaldo dello Stretto. Ma si tratta significativamente di accostamenti a singoli calciatori più che allo stile di un intero popolo. La verità è che nel calcio di oggi la nazionalità dei giocatori e le distinzioni fra scuole calcistiche hanno perso senso e importanza. Del resto è da tempo che l’Italia non gioca più all’italiana, ed è con uno stile moderno e internazionale che ha vinto il suo ultimo mondiale, nel 2006. Ma la verità è anche un’altra: da quando, nella fornace del Sarriá, gli umanissimi azzurri hanno abbattuto dal piedistallo i loro divini avversari, per gratificare un fuoriclasse non c’è più stato bisogno di cambiargli il passaporto. E’ per questo che Bruno Conti è stato il più grande, e al contempo l’ultimo, dei brasiliani d’Italia.

GIOVANNI ROCCOTELLI è invece l’uomo che inventò la rabona. Allora il colpo con le gambe a ics non si chiamava ancora così. Lui da ragazzino lo battezzò “incrociata”, in seguito divenne “cross alla Roccotelli”. Da quel “fondamentale”, discese anche una storica frase, a lungo usata nelle redazioni sportive ogni volta che le altre discipline, marginalizzate dal calcio, reclamavano più spazio: «Vale più un cross di Roccotelli che tutto il campionato di basket». Se fu qualcun altro a eternare il suo cognome, Roccotelli il soprannome brasiliano se l’era trovato da solo: in assonanza con Didì, Vavà e Pelé, per sé scelse Cocò. Potere della rabona (per i brasiliani letra o chaleira) o del bisillabico accentato, leggenda vuole che la stessa Perla Nera, durante un soggiorno in Italia, abbia accennato a Roccotelli. E in tempi più recenti Roberto Bettega gli rese omaggio nel corso di una telecronaca. Ma per un idolo di provincia come lui (Avellino, Cagliari, Ascoli, Cesena, Foggia e Nocerina sono alcune delle squadre in cui ha militato), il riconoscimento migliore forse resta un altro: la scritta su un muretto di tufo in un sobborgo di Taranto, che ha resistito alle ingiurie del tempo e ai propositi di imbiancatura ben oltre la fine della sua carriera agonistica. Diceva semplicemente «Roccotelli sei grande». Dopo la vittoria del Mundial, le cose cambiarono. Negli ultimi trent’anni, i fuoriclasse estrosi e quelli leziosi non sono mancati, ma a nessuno è stata attribuita stabilmente un’anima brasileira. Le giocate di un Baggio, di uno Zola, di un Cassano, solo sporadicamente hanno evocato meraviglie verdeoro. E per Donadoni, che pure per talento 1. Bruno Conti, classe 1955, simbolo della Roma dello scudetto nel 1983, l’anno prima si era laureato Campione del Mondo con l’Italia. 2. Franco Causio, classe 1949, detto Il Barone, ha vinto sei scudetti e una Coppa Italia con la Juventus. Campione del Mondo nel 1982, in undici anni di Nazionale ha totalizzato 63 presenze e 6 reti. 3. Vinicio Verza, classe 1957, ha giocato come ala destra e rifinitore. Ha vestito le maglie di Vicenza, Juventus, Cesena, Milan, Verona e Como. Con i bianconeri ha vinto due scudetti. In carriera ha totalizzato 198 presenze e 24 reti in Serie A. 4. Giovanni Roccotelli, classe 1952, in carriera ha totalizzato 19 presenze in Serie A con Torino, Ascoli e Cesena. Si faceva chiamare Cocò, rifacendosi al mitico trio brasiliano Didì, Vavà, Pelè.

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CONTI SEMBRAVA DIRE AI BRASILIANI: «VEDETE? SIAMO CAPACI ANCHE NOI»


D&R

Marco Osio è l'unico giocatore italiano ad aver indossato una maglia brasiliana, quella del Palmeiras. Ha vinto un Campionato Paulista e scoperto un nuovo mondo. Che ci ha voluto raccontare

IL SINDACO DI

PALMEIRAS intervista di LUCA FERRATO fotografie di ANTONIO RIGHETTI

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G

li allenamenti sotto il sole cocente, gli scrosci di pioggia all’improvviso, i profumi di un Paese tropicale, l’erba alta sui campi di calcio. Questo il primo impatto con il Brasile per chi il percorso l’ha fatto al contrario. Sì, perché mentre i calciatori brasiliani sono merce d’esportazione da sempre, lui, Marco Osio, ex Sindaco di Parma - calcisticamente parlando - è stato l’unico giocatore italiano a salire su un aereo in direzione San Paolo, e prendere così contatto direttamente con il fútbol bailado. Non tutti ricorderanno che Marco Osio è stato un giocatore del Palmeiras nella stagione 1995/96, e con la squadra biancoverde fondata dagli immigrati italiani ha vinto anche un campionato Paulista. L’abbiamo incontrato nella sua Parma, e ritrovato un personaggio solare, aperto e disponibile. Nessun dubbio che questo ex giocatore si sia adattato da subito allo spirito e alla cultura brasiliana… Perché la scelta di andare a giocare in Brasile? Come è arrivata questa opportunità? Nell’estate del 1995 ero riuscito a liberarmi dal contratto con il Torino, anche in seguito ad un brutto infortunio che avevo rimediato in quel periodo. Tra l’altro stiamo parlando del 1995, la Legge Bosman sarebbe arrivata poco dopo ma all’epoca non era così facile liberarsi dalle società. In quel periodo, mi stavo allenando con la seconda squadra della Parmalat, i Crociati Collecchio, oggi Crociati Noceto, e proprio mentre ero sul campo di allenamento, arrivò una chiamata di Gianni Grisendi, presidente della Parmalat Brasile, che mi prospettò la possibilità di andare a giocare dall’altra parte del mondo. Sono cresciuto con il sogno di fare il calciatore, e fin da bambino il Brasile rappresentava il Paese del bel gioco, dello spettacolo, del calcio fatto in una

Carlos Alberto Parreira, che aveva dichiarato di aspettarsi un altro giocatore e che a me avrebbe preferito Dino Baggio, ma sono andato avanti per la mia strada. Poi nel corso della stagione è subentrato Luxemburgo e le cose sono andate anche meglio. Con i compagni di squadra invece, ho avuto un ottimo rapporto fin dal principio. Ricordo che dopo uno dei primi allenamenti, Cafu mi disse: «Seguimi niño» mi chiamava sempre così, e insieme ad altri compagni mi portarono in una churrascaria e a base di carne, salsicce e birra, così familiarizzammo ancora di più. Il Palmeiras nasce come Palestra Italia, essendo la squadra fondata dagli immigrati italiani. Poi, durante la Seconda Guerra Mondiale, i dirigenti sono stati costretti a cambiare il nome, visto che il Brasile non appoggiava il regime fascista di Mussolini. Tu hai trovato ancora un certo legame con l’Italia? Assolutamente. Innanzitutto il centro sportivo dove ci allenavamo, con lo stadio che si chiamava ancora Palestra Italia. Poi ho notato un forte interesse verso l’Italia anche da parte dei tifosi più giovani, che nel nostro Paese non c’erano mai stati. Come tutti gli immigrati, quando sei all’estero senti ancor di più la vicinanza al tuo Paese d’origine e a me queste attenzioni verso l’Italia mi riempivano d’orgoglio. Com’era il calcio brasiliano che hai trovato nel 1995? E quali le differenze con il calcio italiano dell’epoca? A metà degli Anni 90, il calcio italiano stava cambiando profondamente, le palestre stavano diventando un elemento essenziale della vita del calciatore. In Brasile non era ancora così, si puntava molto sulla tecnica e i ritmi erano più cadenzati. Il tutto era favorito anche dall’erba altissima dei campi di gioco, dove la palla non scorreva velocissima ma favoriva il fattore tecnico rispetto a quello fisico. Poi

Il Brasile era un altro mondo. Capitava che le partite fossero rinviate perché quella sera in televisione c'era l'ultima puntata di qualche telenovela seguitissima. certa maniera. Avevo 28 anni, mi ero appena sposato e non avevamo ancora figli, quindi non me lo feci ripetere due volte: poco dopo eravamo sbarcati a San Paolo. Come ti sei trovato in Brasile e in una metropoli come San Paolo in particolare? Molto bene. San Paolo non è una città turistica ma la paragonerei un po’ a New York: c’è di tutto e a tutte le ore. Ristoranti, locali, divertimento, a qualsiasi ora del giorno e della notte. Certo, è una megalopoli sudamericana e quindi c’è anche tantissima povertà, devi evitare di uscire in certi orari, prestare attenzione anche quando sei fermo al semaforo con l’auto, ma in generale il giudizio è positivo. E sul campo invece? Come sei stato accolto da una società come il Palmeiras? All’inizio ho avuto qualche problemino con l’allenatore

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mi ricordo che giocavamo tantissimo, anche tre o quattro partite alla settimana e, anche se dovevamo affrontare un derby con un’altra società di San Paolo, non è detto che lo facessimo in città, magari giocavamo la partita a Campinas o a Bahia. Sembra assurdo, ma per motivi di incasso e di diritti tv, è qualcosa che succede ancora in Brasile. È un po’ come se Milan-Inter a volte non venisse giocata a San Siro, ma a Genova o Napoli. D’altra parte il calcio è la grande passione dei brasiliani, o almeno una delle tre grandi passioni, insieme al carnevale e alle telenovelas. Anche questo sembra uno scherzo, ma mi è capitato più di una volta che alcune partite di campionato fossero rinviate, perché quella sera in televisione c’era l’ultima puntata di qualche telenovela seguitissima. Ripensandola oggi, avresti voluto che quell’esperienza brasiliana fosse durata di più?


John McEnroe ha una famiglia molto è natocon ad la allargata. Da 15Marco anni èOsio sposato Ancona, il 13 gennaio cantante Patty Smith (sostanzialmente un 1966. Centrocampista, caso di omonimiahacon un’altra, piùAcelebre esordito in Serie nel cantante), abitano in con un ilapTorino. Poi ha 1984 vestito le maglie di Empoli (suo il primo gol in Serie A nella storia della squadra) e Parma, prima del trasferimento al Palmeiras. Dopo, solo squadre minori come Saronno, Pistoiese, Faenza e Crociati Parma

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Andare in Brasile è stata una scelta di vita, come anche lasciarlo. Mia moglie è rimasta incinta mentre eravamo a San Paolo e all’epoca pensavamo che tornare in Italia fosse la scelta giusta. Ora spesso ne riparliamo e arriviamo alla conclusione che saremmo potuti rimanere di più, anche perché mio figlio sarebbe cresciuto benissimo anche in Brasile. Ma in quel momento era sembrata la scelta più ragionevole. C’è una partita o un episodio che ricordi in maniera particolare riguardo la tua esperienza brasiliana? Durante quel campionato Paulista che vincemmo, segnai solo un gol, alla Juventude, ma la mia partita migliore la giocai contro il Ferroviàrio. Quel giorno non partii titolare, stavamo giocando male e la squadra andò sotto di un gol. Luxemburgo decise di mettermi in campo e quella fu la mia miglior partita. Ribaltammo il risultato e alla fine l’allenatore mi fece i complimenti davanti a tutti i miei compagni. Di episodi inusuali e divertenti poi ce ne sono stati tanti. Come quella volta che dovevamo affrontare il derby con il Corinthians ma, come dicevo prima, dovevamo giocarlo in un’altra città. Quel giorno ci ritrovammo con gli avversari non solo nello stesso aeroporto ma anche sullo stesso aereo. Nel Corinthians c’era Edmundo, che poi a fine Anni 90 giocò a Firenze, e all’inizio il clima era molto amichevole. Durante il volo però, alcuni giocatori del Corinthians presero il microfono della hostess e iniziarono a intonare coretti antipatici e offensivi contro Luxemburgo, che era stato il loro allenatore. Il clima si fece subito teso e io temevo si potesse scatenare una vera e propria rissa fra giocatori con l’aereo ormai decollato! Furono bravi i dirigenti delle due squadre a calmare la situazione e stemperare gli animi.

Una volta ci siamo ritrovati sullo stesso aereo con i giocatori del Corinthias. Partirono dei cori antipatici e quasi scoppiò una rissa con l'aereo già decollato! Il Brasile di oggi è molto diverso rispetto a quello che hai trovato nel 1995, sia da un punto di vista sociale, politico ed economico, ma anche da un punto di vista calcistico. Ora una squadra come il Santos può decidere quando vendere Neymar e il Fluminense riportare a casa Fred quando è ancora nel pieno della carriera ed è il centravanti titolare della nazionale brasiliana. Il Brasile è molto cambiato, in tutti i sensi e probabilmente in meglio. La situazione economica attuale permette ai giovani calciatori brasiliani di lasciare il Paese un po’ più tardi e non più giovanissimi, come facevano prima. Il brasiliano però adora viaggiare, conoscere nuovi posti e nuove realtà ed è molto aperto ai cambiamenti. Non è un caso che vi siano giocatori brasiliani in ogni parte del globo. Certo, i calciatori emigrano per guadagnare di più, ma anche per fare esperienze diverse. Poi è vero che soffrono di saudade e infatti, appena possono, tornano a casa. Diciamo che la situazione attuale del Paese potrebbe aiutare il Brasile a far crescere in patria i propri talenti e farli soffrire meno di saudade.

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Da dieci anni, sei un allenatore che ha girovagato un po’ per tutta Italia e hai appena salvato il Bellaria in Lega Pro Seconda Divisione: ma che tipo di allenatore sei? A chi ti sei ispirato maggiormente? Un po’ a tutti gli allenatori che ho avuto. Penso che un buon allenatore debba apprendere sia dalle situazioni positive sia da quelle negative che ha vissuto nelle esperienze passate. Per esempio, sono rimasto molto impressionato dai metodi di allenamento di Zeman, anche se l’ho avuto per poco tempo. Però un allenatore che ho stimato tantissimo, è paradossalmente uno che non mi ha mai allenato: Adriano Cadregari. Un grandissimo allenatore, un maestro di calcio, un personaggio che dal calcio ha avuto meno di quanto effettivamente meritasse. Dove allenerà in futuro Marco Osio? Dove lo chiameranno, dove ci sarà bisogno di lui, dove ci sarà un progetto serio da seguire. Magari anche all’estero. Dopo l’esperienza fatta in Brasile da calciatore, perché non provarne una anche da allenatore?


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the match

Olivieri

Rava

Allenatore Vittorio Pozzo

Foni

Andreolo

Serantoni

Locatelli

Biavati

Colaussi

Arbitro Hans Wuethrich

Ferrari

Mezza

Piola

Romeu

Patesko

Lopes

Allenatore Ademar Pimenta

Zeze Procopio Luisinho

Peracio

Alfonsinho

Machado

Domingos da Guia

Martim

Walter Goulart

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19 GIUGNO 1938 M A R S I G L I A ( 3 3 . 0 0 0 S P E T TATO R I )

ITALIA

BRASILE

Colaussi 51’, Meazza (rig.) 60’

Romeu 87’

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L'AEREO DEI BRASILIANI. I CALZONCINI DI MEAZZA. E ELLO PSICOLOGO DI POZZO…

DI GIANNI BRERA

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S

the match

Secondo calendario, nei quarti di finale l’Italia incontra la Francia a Colombes. È il 12 giugno. A Marsiglia faceva caldo; a Parigi si sta benissimo. Pozzo decide di schierare questi uomini: Olivieri; Foni, Rava; Serantoni, Andreolo, Locatelli; Biavati, Meazza, Piola, Ferrari, Colaussi. Colombes è zeppo (oltre 60.000 spettatori). La paura degli italiani è che l’arbitro si comporti con i francesi come si è comportato con loro nel 1934. Questa paura si attenua al 9’, quando Meazza taglia il consueto diagonale per Colaussi, che fa secco Di Lorto, e ridiventa notevole quando Heisserer pareggia per i francesi, che ci danno dentro con la solita foga. Sull’1 a 1 finisce il primo tempo. Alla ripresa, dopo 6’, Piola fa il 2 a 1: e al 27’ il 3 a 1. Di Lorto viene irretito e confuso non meno dei suoi compagni di centrocampo. Il gioco degli italiani è tale che anche gli antifascisti si uniscono agli applausi dei francesi. Dico, un giulebbe. Ora vediamo quali altre nazionali hanno superato i quarti: il Brasile, la Svezia, l’Ungheria. Ma il Brasile ha dovuto ripetere la partita con la Cecoslovacchia: la prima si è risolta 1 a 1 dopo i supplementari; la seconda è stata vinta dai brasiliani dopo una durissima battaglia. Il magnifico Planicka si è accorto solo a fine partita che il gran male sentito all’avambraccio veniva da una frattura. I brasiliani pagano a loro volta. Qualcuno rimedia botte notevoli. Non è solo per stordita presunzione che i tecnici pensano di far riposare Leonidas, il centravanti acrobata o mejor do mundo (si capisce) e l’interno Trim, che è considerato a sua volta un fuoriclasse. In effetti, i

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cechi li hanno pestati per il meglio. E però i tecnici brasiliani millantano che Leonidas e Trim rimangono fuori per essere più riposati in occasione della finale. Hanno visto l’Italia e non dubitano neppure lontanamente di poterla sistemare dall’alto della loro classe, che reputano immensa. Pozzo ha mandato Gian Piero Combi a vedere Brasile-Cecoslovacchia. Riferisce il ragioniere che i brasiliani sono formidabili virtuosi della palla, con la quale riescono a far tutto, magari anche a stopparla con i lobi delle orecchie; però sollevano polvere: il loro calcio è deliziosamente danzato per il pubblico. Il piacere proprio dei brasiliani è pescare gli avversari con dribbling stordenti, evoluzioni a ginocchia alte, ghirigori, tocchi e ritocchi in tutta eleganza: ma polvere sì che ne sollevano. Vittorio Pozzo prende atto. Quando i brasiliani fanno scalo a Marsiglia, va a salutarli come si conviene, e poiché ha saputo che sono stati loro i primi a prenotare l’aereo per Parigi, li prega, nel caso dovesse toccare ad altri di giocare la finale, di tener presente che anche gli italiani si servirebbero dell’aereo per l’occasione. I dirigenti brasiliani rimpettiscono, quasi che Pozzo li avesse offesi: ma come⁉ Gli italiani andare a Parigi per la finale? O che, siamo matti? Tranquilo sea o senhor senhor: i posti in aereo sono stati prenotati da chi vincerà la semifinale di Marsiglia: nessun dubbio su ciò. Pozzo prende atto strizzando le palpebre sugli occhietti che sapete e inspirando aria fra i denti opportunamente stretti. I brasiliani lo offendono nel profondo (e allora Roma 1934?) ma il nostro sa di psicologia. Non è un gran tattico, per quanto ho sentito e visto, però è molto bravo a giocare sui sentimenti. È un vecchio alpin, sia pure di retrovia e di spaccio, ma soprattutto ha aperto gli orecchi al clima littorio, e di calciatori ne ha lavorati ormai a centinaia: «Sentite questa, ragazzi: i brasiliani così e così per i biglietti (bauscioni de l’ostia!, gli fa eco Meazza); i brasiliani così e così per il gioco. Loro artisti e noi poveri artigiani. Loro futili bailarinos e noi pratici. Loro fragili e noi virili (ehm ehm). Loro milionari e noi molto meno (ma può essere una balla). Ricordarsi che i loro piedi costano troppo perché si possano opporre a tutti i bulloni… Stiamo raccolti e giochiamo a fiondare subito in avanti. Peppino Meazza, che può ballare calcio meglio di tutti, è pregato di non concedersi nemmeno una battuta di dribbling. E gli altri, per favore, che si adeguino. I brasiliani sono forti ma sollevano polvere e sono tanto sbruffoni. Io sono convinto che gliele possiamo dare… se non ci illudiamo di imitarli spandendo fumo». L’orazion picciola di Pozzo si rivela efficace come e più di sempre. A Marsiglia si ripetono i fescennini dei fuorusciti in occasione degli inni (Marcia Reale e Giovinezza): ma ormai gli azzurri sanno che non si va oltre il chiasso, che sotto sotto sono capaci anche di tifare, quei poveri cristi di esuli controvoglia. La partita inizia con un quarto d’ora di calcio pirotecnico all’insegna del fumo colorato e della polvere. I brasiliani danzano calcio come se avessero il fioretto sulla punta del ferro. Botte dritte non riescono a portarne mai. Gli azzurri vengono toreati fino al dispetto, e allo spavento, per vero dire, ma non si curano dei lazzi né dei cachinni con cui li seguono i marsigliesi. Quando un brasiliano arriva in zona di tiro, un nugolo di azzurri gli chiude la via. Dall’altra parte, difficile districarsi. Il nostro centrocampo è soprattutto impegnato a contenere. Le rare palle rilanciate o crossate vengono accolte dai difensori brasiliani con stacchi armoniosissimi: il disimpegno è immediato: ripartono allora i playmakers, si ripetono le funambolesche danze di avvicinamento a Olivieri. Piola sembra un leone in gabbia. Gli dedica le sue cure il fe-


L’articolo è tratto dal magnifico volume Storia critica del calcio italiano di Gianni Brera. Il più celebre giornalista e scrittore sportivo italiano di tutti i tempi, ha raccontato in questo libro le vicende del nostro calcio dal 1898 al 1978. Dall’epopea della Pro Vercelli ai trionfi degli anni Trenta, dalla tragedia di Superga ai mondiali in Argentina del 1978. E il racconto di questa storica vittoria dell’Italia sul Brasile ai Mondiali del 1938.

nomenale Domingos da Guia, alto 1,90. Costui riesce a domare qualsiasi traiettoria: uno spezzoncino di film lo illustra in momenti a dir poco preziosi: controlla un traversone con il ginocchio, nel contempo alza la palla – sempre con il ginocchio – sopra il nostro malcapitato centravanti, lo aggira, tocca di piatto al rimbalzo e serve un compagno. Gesti simili sanno di alto virtuosismo e anche di irrisione. Il gladiatore Piola, nonché abbacchiarsi, incarognisce. Tempo verrà… All’intervallo si arriva senza reti. Alla ripresa, un cross di Biavati viene conteso da Domingos (oh, tanto bello) e da Piola, che si ricorda di avere i gomiti. Domingos lancia un urlo nello sbucciare la palla con i suoi crespi capelli di negro: alla sua destra è appostato Colaussi. La palla non fa in tempo a ricadere che viene rudemente sberlata in gol. È il 10’. I brasiliani, negri e bianchi, incattiviscono. L’arbitro svizzero Wüthrich lascia correre un maligno sandwich perpetrato dai terzini brasiliani ai danni di Piola (lancio in profondità di Meazza); non può ignorare, subito dopo, una ruvida ancata con la quale Domingos da Guia stende Piola nuovamente partito in contropiede (appoggio delizioso di Meazza fra i due terzini). È rigore, decreta Wüthrich indicando il disco degli undici metri. I brasiliani danno fuori da matti. A Meazza si rompe l’elastico dei calzoncini: è incerto se uscire a cambiarli o battere per il 2 a 0. Non ritiene di la-

sciar passare il momento magico. Al fischio dell’arbitro si fa avanti reggendosi i calzoncini con la mano sinistra: il piede destro fa pensare al portiere che tiri alla sua sinistra e vi si tuffa: la palla rotola beffardamente a sfiorare l’angolino del palo opposto e si adagia in rete. È il 15’. Cosa fatta. Soltanto adesso Meazza sostituisce i calzoncini e torna in campo per bailar calcio a sua volta. I brasiliani gli si avventano ringhiando. Lui con olimpica calma se li gioca palleggiando verso il compagno più libero. La difesa rimane chiusa, e guai a chi sgarra. Nel finale segna un golletto Romeo, oriundo italiano: mancano 3’ alla fine. Rien ne va plus. Leggerò un giorno di questa partita in una storia del calcio brasiliano. Viene presentata come la nequizia di Minerva sotto le porte Scee. Achille sbaglia a lanciare l’asta ma la dea perversa gliela fa ritrovare. Non si sa proprio come i poveri italianuzzi siano riusciti a far fuori i campionissimi do Brasil Brasil… Non lo sanno al momento e non lo sapranno per molto tempo i brasiliani, puerilmente malati di presunzione e futbol bailado. Solo nel 1957 capiranno… per le esemplificazioni pratiche di un transfuga dall’Italia. Allora si disporranno tatticamente in campo in modo da riuscire imbattibili. Prima, del calcio sapevano tutto, fuorché l’imprescindibile necessità di premunirsi sul piano tattico. E quasi sempre facevano la figura dei pifferi di montagna.

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IL MONDO

Ti permette di regalare o vivere un’entusiasmante esperienza o un rilassante soggiorno, scegliendo tra l’adrenalina dello Sport, la magia del Romance, il benessere del Wellness & Spa, l’emozione della scoperta dell’Art & Culture, i sapori del Wine & Gourmet o l’allegria familiare del Kids. Ed in più, solo Dreambox, ti offre la copertura assicurativa medicobagaglio già inclusa nel cofanetto.

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I GUANTI DI BUFFON Si chiamano PowerCat 1.12 Protect. Li produce la Puma e sono i guanti utilizzati da Gianluigi Buffon. «Offrono un controllo assoluto e una presa sicura: difficile perdere la palla», dice il numero uno azzurro. Regular cut con palmo in lattice da quattro millimetri (Ultimate Grip), ottimo soprattutto con pallone asciutto e nell'ammortizzazione dei tiri. Gli inserti in mesh sui lati del dorso aiutano la traspirabilità, mentre il sistema di protezione per le dita Flexted (con stecche removibili) è brevettato, e consente di offrire un grande controllo e protegge sia i movimenti verticali delle dita, sia quelli laterali, evitando pericolosi infortuni. Le stecche sono molto leggere ma anche delicate: fate dunque attenzione nel caso le vogliate estrarre. Oh, sia chiaro: non è che indossando questi guanti diventerete dei novelli Buffon, ma renderete la vostra presa più sicura. Quanto costano? Prezzo consigliato, 85 euro.


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TEST

LA MAGLIA AZZURRA


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Caratterizzata dal design della collezione Power, riconoscibile anche dalla grafica sfumata in rilievo sul petto e dalla vestibilità slim fit che enfatizza la fisicità dei giocatori, la nuova maglia degli azzurri ha un look reso unico dai particolari come il colletto con dettagli bianchi e i profili delle maniche nei colori verde e rosso a richiamo del Tricolore, mentre gli inserti in mesh laterali assicurano una migliore vestibilità e traspirabilità e i dettagli fluorescenti sul colletto e attorno alle stampe di nomi e numeri garantiscono un certo appeal. Il nuovo tessuto in poliestere riciclato con inserti dryCELL mantiene la pelle fresca e asciutta, mentre gli inserti in filato Cocona, naturale ed ecologico, ottenuto dal carbone attivo dei gusci riciclati del cocco, offre traspirazione, resistenza e protezione dai raggi UV, anche dopo diverse ore di attività fisica. La nuova maglia Replica della Nazionale italiana è realizzata, in poliestere riciclato al 100% e rappresenta un passo ulteriore verso la strategia di sostenibilità. Volfango Bondi, General Manager Europa di PUMA ha aggiunto: «Siamo orgogliosi che la Nazionale Italiana abbia conquistato la qualificazione alla Confederations Cup dopo le eccezionali prestazioni dell’anno scorso in Polonia e Ucraina. Per onorare questo risultato abbiamo voluto creare un nuovo kit da gioco che trasmettesse un sentimento di vero orgoglio nazionale e per cercare ancora una volta, insieme agli Azzurri e a tutto il team, di raggiungere i migliori risultati anche in questa importante competizione». Info: puma.com/football

Realizzata per la nona edizione della FIFA Confederations Cup, il nuovo kit Puma della Nazionale è stato indossato per la prima volta lo scorso mese di marzo nella prestigiosa amichevole contro il Brasile finita 2 a 2. Giorgio Chiellini, uno dei punti fermi della squadra azzurra, ha commentato: «Il design è davvero originale, mi ha colpito soprattutto vedere i colori della nostra bandiera inseriti nei dettagli della maglia. Indossare la divisa della Nazionale mi riempie sempre di orgoglio e mi impegnerò al massimo per far parte della squadra che rappresenterà l’Italia alla prossima Confederations Cup».

PAROLA DI GIORGIO


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VOGLIA DI SUBBUTUEO L'hanno inventato gli inglesi (come spesso accade nello sport), ma è diventato famoso grazie all'Italia. Il Subbuteo è stato per anni un must nel nostro paese, tutti intenti a sfidarsi con i giocatori tra le dita, prima che PlayStation e compagnia dirottassero i giovani verso l'era dei giochi digitali. Tuttavia, il Subbuteo, dopo anni di difficoltà, vanta ancora un gran numero di estimatori. Il suo inventore è Peter Adolphs, nell'ormai lontano 1947, che modificò un precedente table football chiamato New Footy, che risaliva agli Anni 30. Adolphs viveva in un villaggio nel Kent, con tanto di piccolo campo da cricket, un bel pub e tanta passione per il football. Poi la crisi profonda, l'interruzione nella produzione per un certo periodo, addirittura Arturo Parodi che, dopo aver svolto il ruolo di distributore per anni e aver perso tale diritto, decide di creare Zeugo, un simil Subbuteo. Tutto pur di continuare la tradizione. Ora la Hasbro, viste le richieste, è tornata a far vivere seriamente il prodotto, con tanto di tornei e Gianluigi Buffon in qualità di testimonial d'eccezione. Perché, per fortuna, anche nell'era digitale, certe passioni non si svaniscono.


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Le figurine Panini si sono evolute dal 1965 a oggi: da quelle che si attaccavano con la colla a quelle che si personalizzano via web. Eppure, nonostante il passare degli anni, continuano a esercitare un vivo fascino. Sui ragazzi ma anche su chi è cresciuto nel mito di Pizzaballa. E l'album lo vuole finire anche quest'anno di Riccardo Bisti

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i è preso un colpo quando dal mio iPad mi è spuntato fuori Boateng. Nel vero senso della parola. Ho appoggiato una card e quel mistero che si chiama realtà aumentata mi ha sputato fuori Kevin Prince con tanto di dati anagrafici e statistici. Mancava solo che mi ballasse la moon walk e mi facesse apparire la Satta sul divano (che tanto non mi sarebbe dispiaciuto). Sono le nuove card digitali, capaci di appassionare i giovani, di farli interagire con i nuovi device digitali, come li chiamano quelli che li manovrano con professionalità. Ma quanta nostalgia, cantava Vasco Rossi. Già, quanta nostalgia per le care, vecchie figurine Panini, quelle che ti giocavi lanciandole con tre dita, che cercavi di scambiare perché l’album andava finito, costi quel che costi. Oh, non che siano sparite, tutt’altro. Però è la filosofia della raccolta che, inevitabilmente, subisce il progresso, benché i vecchia aficionados non rinuncino alle tradizioni.

LE ORIGINI

Agli inizi degli Anni 60, Benito e Giuseppe Panini scovarono un lotto di vecchie figurine invendute delle edizioni milanesi Nannina. Le infilarono in bustine bianche con cornicette rosse e, dentro, due figurine ciascuna, a 10 lire l'una. Un successo? Tre milioni di bustine vendute, fate voi. I Panini decisero di fare da sé, perché il business sembrava interessante. La prima figurina aveva come protagonista Bruno Bolchi, capitano dell’Inter, mentre per la copertina del primo album si optò per Nils Liedholm, allora attaccante del Milan. Nasce la collezione Calciatori e il primo anno si vendono 15 milioni di bustine. Quindici milioni. All’epoca, le figurine bisognava attaccarle con la colla, con le fotografie in bianco e nero colorate a mano, quattordici per ogni squadra (ah, ai tempi non esistevano le rose da 32 giocatori!). Particolare attenzione viene posta ai ritratti dei giocatori. Si passa dal classico mezzobusto alla figura

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il cucchiaio intera, per poi tornare ancora al mezzobusto. Nel 1972 si opta per le immagini in azione dei protagonisti, scelta poi abbandonata. E’ l’epoca delle sperimentazioni. Per gli scudetti si usa addirittura il laminato d’oro, poi quello d’argento e perfino un tessuto adesivo di jeans, per l’album della stagione 1978-79. Oltre alle figurine delle squadre, in fondo appare una sezione antologica, dedicata una volta alla Nazionale azzurra, un’altra alle coreografie create dai tifosi. Ogni tanto, ma senza soluzione di continuità, compaiono allenatori, dirigenti, presidenti della FIGC.

FIGURINE AUTOADESIVE

Ma la vera rivoluzione avviene nella stagione 1972-73 quando le figurine diventano autoadesive, abbandonando definitivamente la colla e le "celline", piccole linguelle biadesive che si staccavano, grazie a un taglio predefinito di contorno, da una schedina madre di formato pari ad una normale figurina, e che furono inserite per qualche anno nelle bustine). Nel 1982, Panini decide di rendere omaggio alla vittoria Mundial dell’Italia e comincia a prendere la forma che ancora oggi conosciamo. Si arriva a dar credito agli scudetti della Serie C2 e l’immagine a mezzobusto diventa la scelta definitiva. Gli sponsor compaiono nel 1981, perché l’esposizione mediatica che garantisce l’album è notevole, ma solo a fine Anni 80 le misure delle figurine diventano definitive (e permangono ancora oggi): 49 x 65 millimetri.

LA CRISI E LA RINASCITA

Si comincia a chiamarle semplicemente figu perché ormai sono diventate amiche di famiglia. La domenica è caccia grossa a quella che mancano per completare l’album: ragazzini che obbligano i padri a svenarsi per qualche pacchetto in più, ragazzi che si azzuffano «perché hai usato anche il pollici per girarle», altri che si improvvisano businessman e cercano di piazzare quella introvabile in cambio di chissà cosa. Le figurine Panini sono entrate nella vita quotidiana delle famiglie italiane. Tuttavia, all’inizio degli Anni 90, la Panini cambia proprietà e il primo assestamento non pare prolifico. Così come il numero di figurine che nella stagione 1992-93 tocca il suo livello più basso: 413 immagini e quelle delle squadre sono già impresse nelle pagine. I successivi cambi di proprietà sono invece più fortunati, compaiono le pagine a colori, migliora la grafica e la struttura generale, grazie anche ai primi supporti informatici. Il numero di immagini si stabilizza intorno alle 600, e non son mica poche. Achille Superbi disegna le caricature dei campioni che sostituiscono le ormai obsolete mascotte, mentre il 1998 segna una data storica: ad ogni squadra vengono dedicate quattro pagine, non più solo due. Anche lo stato italiano e le sue Poste si accorgono del Fenomeno Figurine e nel 2006 celebrano l’evento emet-

tendo un francobollo celebrativo della raccolta Calciatori. Si apre un nuovo millennio e ci si accorge che allenatori e arbitri sono parte integrante del gioco. Per questo fanno la loro prima apparizione nell’album, salvo poi essere rimossi (beh, d’altronde lo Zamparini di turno obbligherebbe a ristampe continue). L’anno successivo debutta invece il Campionato di calcio femminile e Panini decide di organizzare anche una partita amichevole tra la Nazionale femminile e una squadra composta da fieri collezionisti, giocata sul campo del Centro tecnico di Coverciano (finì 4 a 2 per la Nazionale allenata da Carolina Morace). La stagione 2003-04 segna invece il debutto del calcio giovanile, con le formazioni Primavera delle (allora) diciotto squadre di Serie A, con una pagina dedicata allo storico torneo di Viareggio. Poi è il turno dei tifosi, con l’immagine della curva, mentre nel 2006 anche lo stato italiano e le sue Poste si accorgono del fenomeno Figurine e lo celebrano emettendo un francobollo celebrativo della raccolta Calciatori.

MY PANINI E L'ERA DIGITALE

Poi si comincia a spaziare, a scovare nella fantasia novità che possano allettare il collezionista. Arriva l’immagine del gol con l’esultanza dei giocatori e soprattutto My Panini, la figurina personalizzata che ci si può creare sul

CON MY PANINI NASCE L'ERA DIGITALE DELLE FIGURINE. MA PER FORTUNA CERTE TRADIZIONI SOPRAVVIVONO... 66


il cucchiaio sito Internet della Panini stessa. Il web entra dunque di diritto nella storia delle figu, scelta inevitabile per tenere legati non solo i nostalgici ma anche le nuove generazioni. Già, ma cosa succede arriva Calciopoli e una squadra come la Juventus finisce in Serie B? E se a farle compagnia ci sono altri team blasonati? Che tornano le figurine della B a figura intera, con le squadre cadette che occupano maggior spazio, a danno degli scudetti della Serie C: potere bianconero. E prima ancora di diventare tormentone del calcio estivo, compare nell’album il Top Player, ovvero un giocatore che gode di particolare appeal e che appare raffigurato in azione. Al contempo, si segnala l’esordio della Serie D: quattro pagine con i dati e gli scudetti delle squadre che compongono i nove gironi e le figurine dei loghi della Lega Nazionale Dilettanti e del Comitato Interregionale. Nella copertina della 47ª edizione dell'album non è presente alcun calciatore ma solo due gambe in bianco e nero, con il pallone ufficiale dell'edizione 2007-2008, mentre la consueta rovesciata è raffigurata in piccolo, in alto a destra. Parte anche il concorso Top Team Panini: tramite il sito web della Panini si poteva votare gli 11 migliori giocatori del campionato. La formazione? Buffon, Materazzi, Maldini, Zanetti, Kakà, Marco Rossi, Gattuso, Nedved, Ibrahimovic, Del Piero e Totti. A completare l’album, le figurine di dodici giocatori che eseguivano colpi acrobatici. Nel 2008 si continua a cercare nuove soluzioni: “Il film del campionato", "Lo sprint scudetto", le figurine "We are the world" con otto 8 giocatori in rappresentanza dei cinque continenti, quelle "Verso il Sudafrica", in ricordo del cammino degli azzurri nelle qualificazioni al campionato mondiale di calcio 2010. Poi si apre la sezione "Calcio d'autore": 12 figurine di giocatori che eseguono grandissimi gesti tecnici. Sull'album, sotto lo spazio dedicato alla figurina, c’è l'autografo (non originale) del calciatore. Però nelle bustine ci sono 50 figurine in edizione limitata con gli autografi originali, ed è caccia grossa per i veri collezionisti. La prima in assoluto, porta la firma di Antonio Cassano, il 7 gennaio 2009. Nascono anche le sezioni "Momenti di gloria" e "L'Italia nei Mondiali Panini". Nel 2011, viene scelto il miglior attaccante della storia Panini: Diego Armando Maradona: chi altri? Per celebrare il 150º anniversario dell'Unità d'Italia invece, la solita rovesciata di Parola è posta sullo sfondo di un campo colorato in verde, bianco e rosso. Novità? Lo spazio Calciatori Show, realizzato in collaborazione con Sky Sport, con figurine che, grazie alla tecnologia digitale, ripropongono tutte le giocate più incredibili dei primi mesi di campionato. Era inevitabile che il digitale trasformasse le abitudini, senza però stravolgere le tradizioni. Celo-celo-celo-e-il-solito-Pizzaballa-che-manca.

CURIOSITÀ

1965-66

Il logo ufficiale della raccolta è un calciatore ritratto mentre esegue una rovesciata. Il simbolo è ispirato al gesto di Carlo Parola durante un Fiorentina-Juventus del 15 gennaio 1950 quando, per respingere un pallone dalla propria area, il centrale difensivo bianconero si esibì nella prodezza, ancora inusuale all'epoca. La fotografia fu realizzata da Corrado Banchi. Per i colori della divisa sono stati scelti la maglia rossa con calzoncini bianchi e calzettoni nerogialli per rappresentare l'imparzialità. Infatti non esiste una squadra del panorama calcistico italiano con questi colori sociali. La Rovesciata di Parola (in arte grafica) è stata realizzata dall'artista Wainer Vaccari, e pubblicata in oltre 200 milioni di copie con didascalie in greco e cirillico, arabo e giapponese. La sua prima comparsa sulla copertina e bustine di un album Calciatori fu nel 1965-66.

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Con sei presenze, Francesco Totti è il calciatore che è comparso per il maggior numero di volte sulla copertina dell'album.

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Paolo Maldini è invece il calciatore che è stato stampato in più edizioni dell'album: 24 volte.

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Il rigore è diventato regola nel 1891 e da allora ha offerto gioie e dolori a squadre e nazionali di tutto il mondo. Italia compresa. Trasformandosi in un momento unico, estremo. Un punto di non ritorno

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di Lorenzo Cazzaniga

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na situazione letteraria. Dicono sia questo, il calcio di rigore. Un momento unico, estremo, un punto di non ritorno. Un duello dove solo uno ha la pistola e per questo, vi fosse una logica nello sport, il rigorista dovrebbe essere un attore infallibile. Vallo a spiegare a Roberto Baggio e Gigi Di Biagio, a Roberto Donadoni e Billy Costacurta, tanto per restare solo nei confini italiani. L'INVENTORE DEL RIGORE Una situazione che nasce nel dicembre del 1890 quando William McCrum, portiere del Milford, squadra del primo campionato nordirlandese, introduce l'innovazione come provvedimento sperimentale, stanco dell’irruenza dei suoi stessi compagni davanti alla sua porta: «Ci siamo accordati sulla distanza dalla porta ma sulla tecnica non ci metteremo mai d'accordo», ammetteva profetico. La federcalcio nordirlandese sottopose l'idea all'International Football Board, la Consulta del calcio. Dopo le prime, grasse risate, la "mozione dell'irlandese" venne inaspettatamente accolta. Il 2 giugno 1891 il penalty kick diventò la regola numero 13. Il primo calcio di rigore fu tirato durante un incontro sul campo di calcio del sobborgo di Milford, contea di Armagh, settanta chilometri ad ovest di Belfast, Irlanda del Nord. Little Willie venne però defraudato del brevetto e poi dimenticato. Finito in bancarotta dopo la cattiva gestione del mulino di famiglia, gironzolava fra le strade di Milford sulla Rolls Royce del padre. «I vecchi lo conoscevano bene» ricorda Gary Lineker che nel 1998, dopo l'eliminazione dell'Inghilterra dai Mondiali di Francia (ai rigori contro l’Argentina), girò un breve documentario su McCrum. La favola del rigore perfetto e del perfetto rigore sbagliato cominciò a circolare restituendo, almeno in Gran Bretagna, la paternità dell'invenzione al suo legittimo proprietario che però andava dicendo: «Quest'invenzione mi porterà sfortuna». È morto poverissimo in una piccola pensione fuori Milford nel Natale del 1932, senza aver mai parato un rigore in vita sua. NIENTE DI NIENTE Ma come si può segnare un rigore decisivo? È utile la freddezza di un Balotelli, ancora a secco di errori, ma soprattutto non bisogna eccedere in concentrazione. Lo avrebbe stabilito uno studio dell’università di Birmingham, Gran Bretagna, pubblicato su Current Direction in Psychological Science. Troppa attenzione può provocare un effetto boomerang, è in sostanza il risultato finale della ricerca. «Quando si è sotto pressione – spiega Rob Gray – l’attenzione confluisce tutta verso il proprio corpo. Si vuole essere sicuri che ogni muscolo funzioni correttamente. Ma questa extra concentrazione innesca

una serie di reazioni nell’atleta che producono un effetto negativo sulla prestazione. Naturalmente – continua Gray – gli atleti sanno che dovrebbero semplicemente rilassarsi e tirare fuori il meglio, ma non è molto utile ricordaglielo». La ricerca ha dimostrato infatti come in questi momenti topici l’atleta sotto pressione tende a modificare alcuni piccoli gesti tecnici legati alla sua performance, non registrabili dall’occhio umano, ma determinanti per il successo. «L’obiettivo dello studio – afferma lo psicologo – era quello di capire cosa accade realmente quando qualcuno inizia a prestare troppa attenzione al proprio corpo. Ad esempio, i giocatori di baseball quando sono sotto pressione eseguono un minor numero di battute valide, perché il loro swing varia troppo. Queste improvvise modifiche tecniche in gesti conosciuti e ripetuti milioni di volte, possono essere identificati se osservati in maniera specifica. E un allenatore può lavorare con il professionista per evitare che si verifichino». Di opinione diametralmente opposta il rimpianto scrittore americano David Foster Wallace. Nel suo celebre How Tracy Austin Broke My Heart, scrive: «Non è un caso che i più grandi atleti vengano definiti 'naturals', perché riescono, durante la performance, a utilizzare il loro istinto e la loro memoria muscolare. E i più grandi atleti riescono a farlo anche, e specialmente, quando sono sotto pressione ed esposti al giudizio degli altri…. Il vero segreto dietro il genio dei più grandi atleti, potrebbe essere esoterico e ovvio, banale e profondo quanto il silenzio stesso. Ma la vera risposta alla domanda su cosa passa nella mente di un grande atleta mentre si trova al centro delle ostilità di un pubblico rumoroso e si prepara a scoccare il tiro che deciderà la partita, potrebbe benissimo essere: niente di niente. UN TORMENTO NAZIONALE I rigori però, come ha scritto Andrew Anthony «non sono più una regola, ma un tormento nazionale». Si discute da tempo se abbia senso chiudere un match di 120 minuti con quella che Bruno Pizzul ha troppo frettolosamente definito la «lotteria dei rigori». Ai penalties infatti, non vince (sempre) la squadra più fortunata, ma (generalmente) quella più forte, perché si tratta di una situazione di gioco che richiede freddezza, tecnica e un pizzico di presunzione, qualità che vanno premiate e spesso appartengono ai giocatori migliori. I rigori li abbiamo visti tirare in ogni modo: senza rincorsa come Casarsa, in tandem come Cruyff e Olsen (ma quando ci riprovarono Henry e Pires all’Arsenal fecero una gran brutta figura), senza dimenticare il cucchiaio di Panenka, replicato da Totti e Pirlo con la maglia azzurra. Ne abbiamo visti di tragici, come la zolla di Billy Costacurta nell’Intercontinentale 2003 o la scivolata di Terry nella finale di Champions del 2008. C’è stato Maspero

«Cosa passa nella mente di un atleta mentre si prepara a scoccare il tiro che deciderà la partita? Niente di niente» David Foster Wallace 70


il cucchiaio che ha regalato un pareggio al Torino nel derby del 2001 creando una buca davanti al pallone senza che il bianconero Salas se ne accorgesse, prima di spedire il rigore in curva o altri ancora più comici che YouTube ci ha permesso di scovare ai margini del calcio professionistico. 17 LUGLIO 1994 Perché il rigore richiama soprattutto la tragedia. Non a caso, ancor prima del penalty col quale Fabio Grosso ci ha regalato il Mondiale 2006, ci ricordiamo di quello sbagliato da Roberto Baggio a Pasadena, il 17 luglio 1994, nella finale dei Campionati del Mondo. Un errore che al Divin Codino ha fatto male, tanto da fargli scomodare gli angeli: «Non avevo mai calciato un rigore sopra la traversa. Penso che quel giorno sia stato Ayrton Senna che, dal cielo, ha spinto il pallone verso l’alto. È stato lui a far vincere il Brasile». Per l'occasione non vogliamo scomodare il tanto citato Francesco De Gregori («Nino non aver paura a sbagliare un calcio di rigore, non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore, un giocatore lo vedi dal coraggio, dall'altruismo e dalla fantasia»), ma per consolarlo (e consolarci) ci affidiamo ad un altro cantautore che ha fatto la storia, Claudio Baglioni: Roberto che spara troppo alto alla lotteria dei rigori sembra ieri ma ne è passato del tempo e il conto ormai segna cento a pensarlo così in ginocchio sul dischetto sotto lo sguardo da marmo greco dei compagni sequestrati a centro campo capisci che la vita scorre in gran parte prima del calcio di rigore e che la distanza che ti separa dalle cose è quella c'è sempre uno che fischia e un altro ti fissa con occhi di lama la cosa più difficile è capire che il senso non sta nel buttarla dentro o fuori ma nel prendere la rincorsa e tirare.

RIGORI FAMOSI La storia del calcio italiano è ricca di rigori che ci hanno fatto piangere e gioire, che fosse impegnata la Nazionale o un singolo club. Ecco la nostra top 10.

1

Pasadena 1994, finale Italia vs. Brasile. Il rigore decisivo lo sbaglia l'infallibile Roberto Baggio. Alto, sopra la traversa, per la gioia di Taffarel & Co.

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Berlino 2006, Fabio Grosso realizza il rigore decisivo nella finale Italia-Francia. È la quarta vittoria azzurra ai Mondiali.

3

«Nun te preoccupà, mo je faccio er cucchiaio cucchiaio» Francesco Totti. a Di Biagio e Maldini prima di battere il rigore contro l'Olanda in semifinale agli Europei 2000.

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Napoli 1990, semifinale Italia vs. Argentina, Roberto Donadoni sbaglia il rigore e Maradona va in finale (persa contro la Germania)

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Quarti di finale ai Mondiali 1998, Italia vs. Francia, Gigi Di Biagio. centra la traversa. E passano i cugini.

6

Roma 1984, La Roma è in finale di Coppa Campioni. Ciccio Graziani sbaglia il penalty. Vince il Liverpool.

7

Yokohama, Intercontinentale 2003. Hanno già sbagliato Pirlo e Seedorf, ma Costacurta tira una zappata e condanna il Milan.

8

Kiev, Europei 2012, Italia vs. Inghilterra, batte Pirlo: «Ho visto Hart carico ed ho deciso di tirare il cucchiaio cucchiaio» . Facile, no?

9

Roma, finale Coppa Campioni 1984. Prima dell'errore di Graziani, quello dell'idolo della tifoseria romana, Bruno Conti.

10

Uno dei rigori che ricordiamo più volentieri è quello di Fabio Grosso nella finale dei Mondiali 2006 a Berlino, contro la Francia. Grosso calcia sicuro, un sinistro perfetto nell'angolino alto, spiazzando Fabien Barthez. L'Italia vince la quarta Coppa del Mondo, e poco importa (forse anche a lui) se dopo quel Mondiale, non ha più combinato granché.

Madrid 1982, l'errore meno doloroso. Cabrini ciabatta il rigore sullo 0-0 ma vinciamo 3-1 la finale con la Germania.

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ALLENATORE: PRANDELLI

MARCHISIO CHIELLINI

ITALIA MONDIALI 2014

BALOTELLI

BONUCCI

PIRLO

INSIGNE

BUFFON

EL SHAARAWY BARZAGLI

MONTOLIVO

DE SCIGLIO


ALLENATORE: SCOLARI

MARCELO

BRASILE MONDIALI 2014

NEYMAR

D.LUIZ

PAULINHO

J. CESAR OSCAR

FRED

T. SILVA RAMIRES

LUCAS D. ALVES


vare la gente. Queste cose non possono succedere ovunque e in qualsiasi momento. Devono esserci una serie di fattori. Nell’Antica Grecia, la democrazia si è sviluppata in quel luogo e in quel momento particolare. Un processo di rivoluzione nasce sempre dalla capacità di un individuo o di un gruppo di persone che dicono: ‘Facciamo qualcosa di diverso, anche se tutto sembra a posto’. Devi aspettare oppure creare le condizioni affinchè il processo avvenga. C’è un pregiudizio di classe nel calcio brasiliano? No. La società brasiliana è certamente compromessa, soprattutto dal punto di vista economico. Non è un caso che in Brasile i poveri tendono a essere i neri. Ma nello sport ci sono meno pregiudizi economici e razziali. In realtà, fare sport offre una visione più profonda della realtà perché la gente di ogni classe gareggia insieme. Da questo punto di vista è un passatempo molto democratico. Quando ero un ragazzo e giocavo per il Botafogo, c’era un altro ragazzo che non poteva nemmeno permettersi di mangiare. Io facevo i miei corsi, studiavo medicina e lui non aveva nemmeno i soldi per mangiare. Sono andato a casa sua e ho capito la realtà in cui viveva. Fino a 30-40 anni fa, i calciatori brasiliani hanno imparato a giocare nelle strade. Il calcio era qualcosa per coloro che vivevano ai margini della società. Poi le classi medie hanno iniziato a interessarsene. Così i poveri hanno avuto la possibilità di ottenere una sorta di successo professionale nella vita. Quando lo sport è cresciuto, è diventato commerciale e ha iniziato a generare denaro, allora le classi medie che gestivano i club hanno iniziato a interessarsi dell’aspetto tecnico del gioco. Hanno visto il calcio come una professione legittima. Ma la borghesia è una classe molto facile da leggere. Hanno meno capacità di gioco ma hanno il potere economico. Comandano i club e lo hanno sempre fatto. Il loro potere politico ha reso più difficile la possibilità di emergere per la povera gente. I poveri hanno il talento, che ovviamente è stato ben valutato. Ma alcune porte sono rimaste chiuse. Oggi è molto più difficile entrare in un club rispetto a 40 anni fa perché le altre classi sono in competizione e spesso hanno più chance di conquistare determinate posizioni. Cosa pensi delle fondazioni create da ex calciatori per aiutare le loro comunità a educare attraverso il calcio? Sono magnifiche, ma queste istituzioni esistono perché il Governo non si è assunto le sue responsabilità. Sogno il giorno in cui non ci sarà più la necessità di farlo. È vero che hai corso come anti-candidato alle elezioni della federcalcio brasiliana nel 2001? Si. Ho fatto l’anti-cantidato per convincere la gente a parlare dell’argomento. Cos’è questa federazione? È una dittatura. Sono gli unici che possono dire la loro e fare quello che vogliono. Così ho voluto creare un dibattito per cambiare le cose al top della piramide e coinvolgere più gente possibile. Nella federazione non ci sono calciatori coinvolti, ma in teoria sono quelli che dovrebbero avere il maggior interesse. Hai mai pensato di lavorare per una federazione come fa Michel Platini con l’UEFA? La mia visione è esattamente opposta. A m non interessa il potere, voglio solo cambiare le cose. Essere al potere è facile, cambiare la società è un’altra cosa. Ma non vedo grandi speranze di poter lavorare per il calcio in Brasile. E non c’è modo che io possa lavorare fuori dallo sport con il mio curriculum.

Ma allora come è possibile che un ex calciatore, che è anche un medico e un amministratore, sia lasciato fuori dal giro? È vero che hai ricevuto una proposta da parte del colonnello Gheddafi per sponsorizzare la tua candidatura a Presidente del Brasile? L’ho visto come uno scherzo da parte di Gheddafi. Forse è qualcosa che potrei prendere in considerazione in futuro, ma non è qualcosa che mi piacerebbe fare. Sono stato segretario politico a Ribeirao Preto, ma non ho mai gareggiato per qualcosa del genere. Ci vuole un sacco di duro lavoro per risolvere le piccole cose! Mi piace l’immagine di qualcosa più grande, la politica nazionale, ma per arrivarci bisogna passare attraverso alcuni passaggi e fare un po’ di cose che non mi piacciono particolarmente. Cosa pensi dei progressi compiuti dal Brasile in vista dei Mondiali del 2014? Faranno pagare un prezzo molto grande al Paese. Un sacco di gente diventerà ricca, ma non il calcio brasiliano, non i club, non i calciatori e nemmeno i tifosi. Ma qualcun’altro sì. Abbiamo già parecchi stadi, eppure ne stanno costruendo di nuovi che non potranno mai essere riutilizzati. Una delle città ospitanti, Cuiaba, ha in progetto di costruire uno stadio da 60.000 posti. Se prendi tutti gli appassionati che assistono alle partite di tutti i club di quello stato (non solo della città), potrai riempire lo stadio solo una volta e mezzo in un anno. La stessa cosa sta accadendo a Manaus e Natal, e anche a San Paolo. Non vogliono usare il Morumbi, lo stadio del San Paolo. Vogliono costruire un nuovo stadio perché così qualcuno ci guadagnerà. Come se fosse la cosa più importante. Il calcio si gioca sull’erba, chi se ne frega del resto? Cosa ci importa? Chi vuole costurire uno stadio da 60.000 spettatori quando la maggior parte dei tifosi vedrà la partita in tv? E i brasiliani non ci andranno, perché non hanno i soldi per pagare il biglietto. Non avrai mai 60.000 persone per guardare la Nigeria, il Camerun, gli Stati Uniti o anche l’Italia. Solo il Brasile attirerà una grande quantità di pubblico. Il Brasile può vincere? Il Brasile può solo giocare per vincere. Possono sempre vincere, ma chissà se ci riusciranno. La Coppa del Mondo non sempre viene vinta dalla squadra più forte. Devi giocare sette partite in un mese! Non è come un campionato. L’importante è essere il più bravo nel giorno giusto al momento giusto. Mi piacerebbe invece vedere un Campionato Internazionale, sarebbe una grande cosa. Un torneo che si svolga nell’arco dei quattro anni. Pensate che bello: Brasile-Italia al Maracanà e tre mesi dopo Italia-Brasile a San Siro o all’Olimpico. Se fosse così, l’Argentina avrebbe vinto nel 1994, il Brasile nel 1982, l’Olanda nel 1974 e l’Ungheria nel 1954… e si sarebbe valorizzato il bel calcio. Pensa alla Francia del 2002. Hanno perso al primo turno perché Zidane si è infortunato. Senza di lui non avevano una squadra. Tuttavia, due o tre mesi prima del mondiale erano la squadra migliore del mondo. Se ci fosse stato un campionato e in un mese Zidane avesse recuperato, la Francia avrebbe potuto vincere il titolo. Così si valorizza il prodotto e lo spettacolo, che poi è tutto il buono del calcio. Altrimenti un giocatore si fa male ed è finito tutto. Così non c’è gusto. I mondiali di calcio sono ottimi per far guadagnare soldi a poche persone.

Socrates è morto il 4 dicembre 2011 a 57 anni lasciando una moglie e sei figli

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non abbia la consapevolezza del suo potere. Il movimento divenne sempre più politico nel tentativo di rovesciare la dittatura e ristabilire la democrazia in Brasile. Alla finè fallì dopo la mancata approvazione di un emendamento per le elezioni presidenzionali. Quando sei sbarcato in Italia nel 1984 non hai pensato che stavi abbandonando qualcosa che avevi creato? Ero devastato. Lottare per qualcosa è parte della vita. Nella vita devi sostenere vari combattimenti di varia importanza: ne inizi uno, poi vuoi condurne un altro. Noi abbiamo lottato per due anni affinchè si tenessero elezioni democratiche per scegliere il Presidente della nostra Repubblica. Portando questo tema per le strade abbiamo mobilitato oltre un milione di cittadini a partecipare a una manifestazione ad Anhangabau, a San Paolo. Ma l’atto è andato al Congresso e non è stato approvato. Hanno castrato il movimento e mi hanno distrutto. Durante gli ultimi sondaggi dissi che se avessero approvato l’emendamento non avrei lasciato il paese. Ma non è passato e ho deciso di andarmene. Credevi davvero che il Congresso l’avrebbe approvato? Quando sono arrivati i risultati mi sono messo a piangere. Credevo nei movimenti popolari, ma alla fine era il Governo che avrebbe deciso in un senso o nell’altro. Ma tutto è stato ritardato solo di qualche anno. Infatti, la dittatura non è caduta molto tempo dopo. È arrivato un potere di transizione, ma almeno non c’era più un regime militare.

IL TACCO DI DIO

Votato Miglior Giocatore Sudamericano nel 1983, Socrates è rimasto celebre per i suoi colpi di tacco

Perché la Democrazia Corinthiana è finita? Penso che la mia uscita sia stato il fattore principale. Io ero il più articolato del gruppo, quello che combatteva più duramente, che esponeva le nostre idee al pubblico e alla stampa. Quando sono andato in Italia è mancato un leader. In più, dopo la mia partenza sono arrivati dieci nuovi giocatori ed è cambiata l’atmosfera all’interno del club. Il gruppo è cambiato, come le prospettive e le finalità del movimento. Quindi è stata una squadra di calcio a cercare di cambiare un paese? Non era solo un club. Penso che il Corinthians riflettesse i bisogni di quella società. Il club è stato un catalizzatore per portare alla luce alcune questioni e argomenti, ma non eravamo un gruppo isolato che cercava di cambiare la società. Semplicemente, rispetto ad altri gruppi, siamo riusciti a farci ascoltare. Abbiamo avuto più forza rispetto a un individuo isolato, perché il Corinthians era il club più popolare dello sport più popolare del Brasile. Così siamo diventati i rappresentanti e i portavoce delle masse. Pensi che oggi il calcio continui ad essere conservatore? Assolutamente. Non è cambiato nulla. Il calcio ha un tumore che ha divorato tutto. Ma credi che la Democrazia Corinthiana possa nascere nuovamente? Dipende dalla nostra società e da quanto lontano vuole arri-

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ceti meno abbienti. Quindi, se un ragazzo è arrivato dov’è con il minimo indispensabile in termini di educazione e conoscenza, poi incoraggerà le nuove generazioni ad aspirare alla stessa cosa. Stiamo creando generazioni di ragazzi sempre più ignoranti e senza cultura. I loro idoli non hanno mai studiato, perché dovrebbero faro loro? Allora sto provando a usare il calcio come strumento per istruire adeguatamente le prossime generazioni. Se vuoi diventare un calciatore professionista devi studiare. Così, se anche non diventeranno dei professionisti del calcio – solo una minoranza ci riesce – tutti avranno almeno una base educativa alle spalle. Qual è il tuo ruolo in questo processo? È un compito del governo. Io voglio solo convincere i politici che è importante. È cruciale vedere il calcio non come un’entità a sé, ma come parte integrante della società. E un calciatore deve essere trattato come parte della società. Per questo hanno bisogno di una migliore educazione. Come è iniziata la Democrazia Corinthiana? Io sono innamorato della Democrazia. Non penso ci sia nulla di più giusto e sensato. Ad esempio, nella tua famiglia la maggior parte delle questioni riguardano una singola persona. Poi tutti ne discutono e alla fine si decide cosa fare. La cosa migliore è prendere una decisione a maggioranza. Sono innamorato di questo e ho sempre lottato per questo. Ma perché ciò accada, in ogni società e in ogni comunità, c’è qualcuno che deve cedere un po’ di potere. Nessuno può avere più potere di chiunque altro, quindi tutti devono avere un certo grado di umiltà. Questa è la mia visione, la lotta che ho portato avanti per tutta la vita e che si è radicata in me. Ho combattuto per questioni che sono rilevanti nella mia vita quotidiana e nel mio lavoro. Volevo una partecipazione attiva e non semplicemente subire le conseguenze del mio lavoro, solo perché ero un lavoratore che aveva avuto la possibilità di cambiare la struttura di un club calcistico. Il club ebbe una crisi, ci fu una brutta stagione e arrivò un nuovo presidente. Ma i giocatori iniziarono ad avere un dialogo più aperto con i gestori del club. Così, da capitano, ho trovato questa soluzione per mandare avanti il club. “Cerchiamo di mettere insieme un regime democratico dove tutti possano decidere”. Con questo crei il senso di responsabilità. Tutte le decisioni erano stabilite da una votazione. Anche le cose semplici, come ci saremmo allenati, a che ora saremmo partiti per le gare fuori casa, dove avremmo alloggiato… fu messo tutto al voto. Anche i nuovi acquisti furono sottoposti a votazione. Abbiamo scelto quelli che ci sembravano più adatti al modo di agire del Corinthians. Tutti avevamo lo stesso peso, il massaggiatore quanto il sottoscritto, capitano del Brasile. Tutto questo dava un incredibile livello di partecipazione, indipendentemente dallo status. C’è grande concorrenza all’interno di una squadra di calcio: la tua priorità numero uno è giocare, la numero due è distinguerti dai compagni. Questo rende l’ambiente molto competitivo. Ma permettere a tutti di partecipare a un processo collettivo ha ridotto il livello di concorrenza e migliorato i risultati, perché si è creato un incredibile spirito di gruppo. In quel momento e in quell’ambiente, è nata la Democrazia Corinthiana. Hanno accettato tutti o c’è stata qualche resistenza? All’inizio in tanti avevano paura di mostrare la propria opinione. Temevano rappresaglie. In quel periodo, il governo agiva pesantemente con chi si dichiarava “contro”. Il calcio non è così diverso, la gente era abituata a comportarsi così. Ma col tempo i giocatori sono diventati più coraggiosi ed esplici-

ti nel manifestare il proprio pensiero. Alcuni erano contrari, ma suppongo che fosse normale per chi non era mai stato coinvolto o non aveva mai visto niente di simile. Dopotutto non avevano mai votato, né visto una società in cui vince la maggioranza. Ma se qualcuno non voleva partecipare era un problema suo. È come quelli che non vanno a votare: va bene, ma poi non devi lamentarti se le cose vanno male perché non hai partecipato quando ne avevi la possibilità. Sei orgoglioso di quello che hai ottenuto con la Democrazia Corinthiana? Non ho mai vissuto niente di così bello. Il Brasile ha avuto una dittatura militare, ma tramite la cultura – in questo caso il calcio – abbiamo portato una perfetta democrazia in un paese governato da una dittatura. Abbiamo creato attenzione su questo argomento perché eravamo figure importanti in un club importante, il Corinthians. Le forze conservatrici all’interno della società hanno provato a distruggere il movimento, ma allo stesso tempo i progressisti si sono attivati per difenderlo e migliorarlo. È stato un processo sociale in cui abbiamo usato il calcio. Non riesco nemmeno a immaginare se si verificherà di nuovo qualcosa del genere, perché il calcio è uno sport molto conservatore. Ma per tutti quelli che l’hanno vissuto, è stato qualcosa di incredibile. C’era chi voleva distruggere il movimento? Certo. Le forze conservatrici del calcio godevano dei benefici concessi dalla dittatura. Per questo non ci volevano. Eravamo un cattivo esempio. Ma la micro-società che avevamo formato al Corinthians voleva fare qualcosa di diverso e ci siamo riusciti. Era una lotta ideologica, quindi c’era molta pressione contro di noi. All’epoca il Brasile era un paese diverso da oggi. Le forze conservatrici avevano più potere e abbiamo resistito nonostante la pressione fosse difficile da sopportare. Ma abbiamo trovato l’appoggio delle istituzioni che volevano cambiare la società. Di fatto, siamo cresciuti insieme al Partito dei Lavoratori del futuro presidente Lula. Abbiamo generato le loro prime risorse economiche organizzando un concerto e una partita di calcio per raccogliere i fondi per la sua prima campagna elettorale. La Democrazia Corinthiana ha funzionato perché eri in una squadra di successo. Ma un professionista medio può avere lo stesso potere di un giocatore top? È un punto importante. Alcune persone acquisiscono abbastanza potere politico per trasformare la società, ma molti non lo fanno. È la stessa cosa in ogni comunità: alcune persone si distinguono, altre no. Sono quelli che non hanno potere. Quindi dipende tutto dal talento? Sì, ma anche dalla volontà di lottare per qualcosa. Se hai il potere ma non lo vuoi usare, allora è tutto inutile. Pensi che sia possibile fare il calciatore professionista e allo stesso tempo studiare all’università? È una questione di priorità. Il calcio brasiliano è estremamente conservatore: fa di tutto per evitare che l’individuo abbia una buona educazione, perché una volta che l’hai ottenuta diventi un fastidio. A nessun capo piace avere qualcuno di intelligente tra i suoi dipendenti, qualcuno che conosca i propri diritti. Così il sistema cerca di tenere tutti al loro posto. Ma se il giocatore dà la priorità alla propria formazione, poi è in grado di gestire entrambe le cose. I poteri cercano di lasciare un giocatore senza istruzione per assicurarsi che il ragazzo

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CHE SOCRATES!

Socrates non è ricordato solo per le sue evoluzioni al Corinthias (con il quale ha vinto tre campionati paulisti), ma anche per le 60 partite giocate con la nazionale brasiliana (22 goal) e la stagione (poco felice) trascorsa in Serie A nella Fiorentina nel 1984

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«Vuoi una birra?

Qui hanno la birra alla spina più fredda del Brasile» Socrates, leggenda brasiliana del calcio, mi ha accolto con queste parole quando l’ho incontrato nel suo bar preferito, il Pinguim, nella sua città natale di Ribeirao Preto, nello stato di San Paolo. Mi ha abbracciato e mi ha espresso con grande franchezza le sue opinioni su calcio e politica. Deve aver parlato per oltre quattro ore. Socrates è scomparso nel dicembre 2011 e l’alcol lo ha accompagnato fino alla morte. Per sua stessa ammissione, beveva pesantemente. In precedenza lo avevo intervistato un paio di volte per altrettanti documentari. La prima volta arrivò con due ore di ritardo (doveva smaltire una sbornia) e la seconda era già ubriaco. Ma non è mai diventato una figura alla George Best. Non era un ubriacone violento, era un bon vivant con tante storie da raccontare. La sua visione era esplicita, passionale, testarda e divertente. Sarà ricordato come il capitano del Brasile ai Mondiali di Calcio del 1982, con la sua barba, la zazzera di capelli riccioli, l’abitudine al fumo e la presenza languidamente aggraziata sul pallone: un personaggiocult. Ma è stato nel suo club, il Corinthians di San Paolo, dove ha avuto il maggiore impatto. Nel 1981, quando in Brasile c’era la dittatura militare, ha guidato un movimento definito Democracia Corinthiana, il cui obiettivo era democratizzare un intero club calcistico e trasformare la società brasiliana attraverso il calcio. Nel suo amato Brasile, Socrates è diventato un simbolo della democrazia quando questa non c’era. In breve, è stato un rivoluzionario. Questa è la mia ultima intervista con lui: siamo tornati al bar e lui è tornato a parlare di ciò che amava di più: una combinazione di calcio, filosofia e politica. Sei sempre stato un libero pensatore? Ti parlerò un po’ del mio vecchio. Mio padre non ha studiato. Nel nord-est del Brasile non poteva permetterselo, ma ha imparato tutto quello che poteva. Il suo studio era libero, si mangiava i libri. Così, è come se fossi nato in una libreria. Il Brasile è un paese con un grande potenziale in tutti i settori, ma che non educa adeguatamente il suo popolo. Penso di essere nato con lo spirito di chi riflette e mette in discussione le cose, soprattutto le questioni sociali. Quando eri un calciatore e facevi leggere il giornale ai tuoi compagni, eri solito rimuovere le pagine sportive. Non credevi nella tua professione? No, lo facevo solo perché i calciatori brasiliani tendono a leggere solo le pagine sportive. Io compravo il giornale, toglievo quelle pagine e lasciavo il resto ai miei compagni. Volevo far capire che è importante leggere di politica, economia… Quindi non avevi nulla contro le notizie di sport? No, anche se non le avrei lette comunque. Quando giocavo non ho mai letto le notizie sportive, neanche una volta. E adesso? Ora le leggo. Quando giocavo non l’avrei mai fatto perché avrebbero potuto interferire con il mio lavoro. Le critiche positive o negative ti possono influenzare, in un modo o nell’altro. Così ho preferito non prestarvi alcuna attenzione. Se qualcuno parla bene di te potresti iniziare a credergli! Hai detto che un calciatore ha un grande potere, ma gli manca l’educazione per usarlo correttamente. Che tipo di potere pensi che abbia un calciatore? Un calciatore ha molto potere. È l’unico lavoro in cui il dipen-

dente ha più potere del capo. Ha in mano le masse e la capacità di mobilitarle. Ma deve rendersi conto di averlo e usarlo con saggezza, quando c’è una causa sociale per cui combattere. Uno dei principali obiettivi dell’uomo, fin dagli albori, è stato quello di acquisire un potere politico che possa avere effetto sulla comunità in cui vive. Ci sono vari modi per conquistare il potere politico, ma tutti portano allo stesso risultato: il potere politico genera popolarità, e la popolarità genera potere politico. I calciatori sono estremamente popolari, per questo hanno un incredibile potere politico, perché i media si bloccano su ogni loro singola parola. Fino a dove può arrivare il loro messaggio? Dipende dallo status del giocatore e da quanto è popolare la squadra in cui gioca. Senza contare che i calciatori hanno anche potere economico. Almeno i più forti. Pensi che questo valga anche per i calciatori brasiliani? Certamente, se paragonate alla mia epoca, le offerte economiche sono molto più elevate. Il cambiamento non è stato così drammatico in Europa come lo è stato in Brasile, dove i giocatori non guadagnano ancora quanto dovrebbero per mancanza di organizzazione e amministrazione, ma va meglio rispetto a prima. Al giorno d’oggi, le probabilità di diventare ricchi giocando a calcio sono molto maggiori. E la ricchezza ti dà indipendenza, potere politico e la libertà di gestire la tua vita. L’unica cosa che manca è l’educazione. Educazione, conoscenza e informazione. Un giocatore cosa può fare con tutto questo potere? Trasformare la società. Quando giocavo ho partecipato attivamente al processo di democratizzazione del mio paese perché ero famoso. E ho usato il mio potere politico per cambiare la società. Tutto quello di cui hai bisogno è una coscienza sociale, la capacità di comprendere la politica e la voglia di lottare. L’unico problema è che la maggior parte dei giocatori non ha quel livello di istruzione e non vive la vita in questo modo. Questo perché i giocatori pensano solo a se stessi? Dipende da quanto vogliono essere coinvolti attivamente. Le persone possono anche essere apatiche. Pensi che i giocatori abbiano la capacità di guardare oltre se stessi? Io penso che abbiano una responsabilità sociale, soprattutto in paesi come il Brasile, dove manca parecchio. I calciatori possono essere i portavoce della loro comunità. Devono solo capire che possono cambiare la società in cui vivono. Ma tra i calciatori brasiliani c’è spesso un “codice di silenzio”. Raramente parlano perché hanno paura di essere puniti. Abbiamo una società che è politicamente inconsapevole. Insieme alla mancanza di istruzione, è uno dei nostri più grandi problemi. La causa sono un paio di regimi che abbiamo vissuto nel secolo scorso. Ci sono state un paio di dittature che hanno portato via quasi 50 anni, così alla fine è rimasta una generazione che non ha lo stesso senso di consapevolezza politica. La tua idea è che un calciatore dovrebbe diventare professionista solo dopo aver terminato la scuola secondaria, giusto? È una delle mie speranze e sto combattendo per questo. Per come la vedo io, il calciatore è una figura nazionale ascoltata ancor più del Presidente della Repubblica. È l’ultimo simbolo di uno status di successo. È un obiettivo di vita: migliaia di persone vorrebbero essere lì, soprattutto chi viene dai

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L’ultima intervista

Socrates Fenomeno in campo ma soprattutto fuori, ha creato la Democrazia Corinthiana, un movimento che, partendo dal calcio, ha provato a cambiare la societĂ brasiliana. Con risultati molto sorprendenti

di David Tryhom 64


il cucchiaio Tu, Moacyr, sei stato un portiere immenso. Pensa, che ironia: i giornalisti presenti al Mondiale del 1950 ti nominarono miglior estremo difensore della manifestazione! Ma per i brasiliani quella non fu altro che la beffa nella tragedia. Sì, tragedia. Per una partita di calcio. Suicidi, persone impazzite, depresse, incapaci di superare quel trauma. Assurdo, eppure anche a questo riesce ad arrivare l'uomo quando delega ad altro o ad altri la propria felicità. Tutto per quel gol di Ghiggia. 'Un gol che ho rivissuto un milione di volte' ripetevi, le poche volte che qualcuno veniva a trovarti. Adesso, tutto è finito. Quella rete non tormenterà più la tua esistenza. Sei sepolto al cimitero Morada de Grande Planìcie, in Praia Grande, Stato di San Paolo. Hai raggiunto la tua adorata moglie Clotilde, morta nel 1996. Hai speso tutti i tuoi risparmi per curarla. Dopo cinquantasei anni di matrimonio, ti sei sentito definitivamente solo. Soltanto lei sapeva parlarti, consolarti, farti sorridere. Non avete avuto figli, c'eravate solo voi, a dispetto del mondo esterno. Passeggiavate mano nella mano, come da ragazzi. Ogni tanto, qualcuno, riconoscendoti, diceva: 'È Barbosa, quello che ci ha fatto perdere la Coppa. Porta sfortuna'. Tu non ascoltavi, tu avevi lei, Clotilde. E in quegli attimi svaniva Ghiggia, svaniva quel gol, svanivano le dicerie. Potevi addormentarti sereno. E pensare ai giorni di Campinas, quando lavoravi in una fabbrica di imballaggi e, nel poco tempo libero, ti mettevi tra i pali. E quanto eri bravo, attento, spericolato. Ti proposero di andare a provare per l'Ypiranga, uno degli undici club del campionato paulista negli anni Quaranta. Il padrone ti disse: 'Vai, Moacyr, tenta la tua carta. Se fallisci, non preoccuparti: torna da me, riavrai il tuo posto'. Con l'Ypiranga, conquistasti tre titoli paulisti: fu l'inizio di una carriera folgorante. Un nero, portiere? Chi lo avrebbe mai detto? Un nero capace di parare l'impossibile, di respingere le insidie del destino, le contraddizioni di un Brasile multirazziale e cosmopolita, ma socialmente razzista. Fino al 16 luglio 1950: quel giorno, il fato ti voltò le spalle, Moacyr Barbosa. E cominciò la tua lunga stagione all'inferno. La tua crocifissione. Per un gol. Per un solo, misero gol». Barbosa si ritirò dal calcio all’età di 42 anni. Per oltre vent’anni ha lavorato nell’ufficio amministrativo del Maracanã. Si trasferì poi a Praia Grande, sulla costa di San Paolo. Il Vasco da Gama, la squadra in cui giocava all’epoca, preso coscienza delle sue difficoltà, gli assicurò una pensione di mille euro al mese, sufficienti per pagare l’affitto di casa. Nel 1993, durante le eliminatorie per il Mondiale negli Stati Uniti, Barbosa decise di presentarsi ai giocatori della Nazionale brasiliana. Andò a visitarli in ritiro, ma le autorità calcistiche gli vietarono l'ingresso. "In Brasile la pena più lunga per un crimine sono trent'anni di carcere. Io da quarantatre anni pago per un crimine che non ho commesso" disse. Dopo la morte di Clotilde, gli rimase vicina solo un’amica, Teresa Borba che racconta: «Piangeva sulle mie spalle e continuava a ripetere: ‘Non sono colpevole. Eravamo là in undici’…».

MUNDIAL 1950

4 Quella del 1950 era la quarta edizione della Coppa del Mondo di calcio: le prime tre erano state vinte dall'Uruguay nel 1930 e dall'Italia nel 1934 e nel 1938. In quest'ultimo caso, battè in semifinale il Brasile.

1 I pareggi ai quali era stato costretto il Brasile nel girone eliminatorio, contro la Svizzera, per 2 a 2.

13 I gol segnati dal Brasile nelle prime due partite del girone finale: 7 a 1 alla Svezia, 6 a 1 alla Spagna. Poi la drammatica, ultima e decisiva partita persa contro l'Uruguay. La classifica finale del Mundial 1950? Uruguay 5 punti, Brasile 4 punti, Svezia 2 punti, Spagna 1 punto.

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il cucchiaio Così, quando Friaca segnò il gol del vantaggio della Seleçao al primo minuto del secondo tempo, i festeggiamenti ebbero inizio. Troppo presto. Qualche minuto dopo, Ghiggia scappò via sulla fascia per crossare al centro un pallone che Schiaffino appoggiò in rete, contro un incolpevole Barbosa. Si avvertirono i primi segnali di panico. Tredici minuti dopo, Ghiggia scappò nuovamente sulla fascia. Ma questa volta, per rubare la vita a Moacyr Barbosa. Erano le 4.33 del pomeriggio. Preoccupato di un nuovo, pericoloso cross, Moacyr decide di anticipare le mosse e azzardare un'uscita verso il centro dell'area. Ghiggia invece, tira direttamente sul suo palo. Se osservate il video su YouTube, noterete che il cameraman segue anche lui Moacyr, convinto che la palla non potesse che finire nelle sue mani. Un paio di secondi dopo, seppur con fare confuso, sposta l'obiettivo verso la porta, per inquadrare la palla in rete. Il Brasile avrebbe avuto tutto il tempo di ribaltare la situazione. In fondo, bastava un gol. Un gol che non è mai arrivato. Eppure Moacyr Barbosa non solo era il primo portiere nero a difendere la porta verdeoro, ma anche il migliore al mondo nel suo ruolo. Come aveva potuto farsi infilare in quel modo? Oh, sia chiaro: parlare di papera sarebbe ingeneroso, ma i brasiliani dovevano forzatamente trovare un colpevole e nessuno si prestava meglio di Moacyr. La vicenda è giunta ai posteri grazie a Darwin Pastorin che ha narrato la sua storia in un bellissimo libro edito da Mondadori: L'Ultima Parata di Moacyr Moacyr. Scrive Pastorin: «C'era quel silenzio, Moacyr Barbosa, c'era solo quel silenzio. E tu per terra. E il pallone in rete. E quel silenzio. Duecentoventimila persone ammutolite. Gli uruguayani si abbracciarono senza dire una parola. Ghiggia, l'autore del gol del 2-1 dell'Uruguay sul Brasile, aveva le lacrime agli occhi: forse non era felicità, forse era la consapevolezza di aver decretato la fine di un uomo. Obdulio Varela, il capitano della Celeste, mormorò ai suoi compagni: 'Adesso sì, adesso potete guardare in alto, la gente. Ora non fa più paura'. Tu, Moacyr, chinasti il capo per la prima volta nella tua vita. Tu, primo portiere nero della Nazionale brasiliana, avevi subito mille offese, 'negro!' ti urlavano con disprezzo: ma mai avevi abbassato la testa. Nemmeno quando, nel 1940, un barbiere di Porto Alegre ti schiumò in faccia: 'Vattene, qui non serviamo i negri'. Tu semplicemente, lo guardasti fisso negli occhi. Sorridendo, sì sorridendo. E fu lui ad arrossire. 16 luglio 1950, ultimo atto della Coppa Rimet, stadio Maracanã di Rio de Janeiro: tu, Moacyr, sei morto quel giorno. Per una rete. Non ci fu nessuna festa, nessun carnevale, nessun suono di tamburo, nessuna stella filante. Il Brasile scopriva il dolore del pallone. Il 7 aprile 2000 sei morto, a 79 anni, un ictus, hanno decretato i medici. Non è vero. Tu sei morto per un gol, la tua è stata una condanna a vita, per una colpa non commessa. E noi siamo stati i tuoi assassini. Nessuno escluso. Noi che ti abbiamo abbandonato, deriso che non abbiamo saputo regalarti un'ultima parata, un gesto di assoluzione, di affetto, d'amore. Ti abbiamo lasciato solo.

Alcides Ghiggia, l'autore del gol decisivo per l'Uruguay nella finale della Coppa del Mondo 1950 al Maracanã di Rio de Janeiro contro il Brasile

Abbiamo raccontato di giocatori modesti, abbiamo perdonato errori grossolani, abbiamo celebrato ombre di giocatori, chiamato fuoriclasse i mediocri. Ma per te, Moacyr Barbosa, abbiamo scelto il silenzio. Un silenzio vile. Ti avevamo cancellato dalle nostre storie, dalle nostre cronache. Dal 1950 a oggi, siamo riusciti a farti restare ancor per terra, sul prato del Maracanã. Io ti voglio chiedere scusa. E, confortato da una pioggia sottile, in questa stanza di libri e ricordi, voglio rendere gloria a te, Moacyr, e a quel calcio che ancora conosceva il sentimento, la poesia, l'odore della zolla, la maglia di flanella senza sponsor, pesante d'estate, leggera d'inverno, con i numeri troppo grossi, numeri che narravano l'uomo prima del giocatore, con il giovane apprendista campione che portava la sacca dei palloni e il funambolo che, di nascosto, all'ombra di un albero, fumava l'ennesima sigaretta, poi, in campo, gli bastava un dribbling per dire basta, partita chiusa, soltanto io conosco il segreto dell'"arte maga" chiamata football. E il portiere volava da un palo all'altro, proprio come hai sempre fatto tu, Moacyr Barbosa, gloria del Vasco da Gama e della Seleçao. Avevi quel modo unicamente tuo di bloccare la palla: saltavi con l'attaccante, prendevi il pallone con una mano, lo portavi al petto e soltanto in quel momento lo bloccavi con le due mani. Già, portiere mistero senza fine bello! Così mi viene da scrivere parafrasando Guido Gozzano, poeta crepuscolare, e Gianni Brera, non Gadda spiegato al popolo, ma nostro maestro di giornalismo sportivo, inventore del calcio-linguaggio.

«IL 7 APRILE 2000 SEI MORTO, A 79 ANNI, UN ICTUS, HANNO DECRETATO I MEDICI. NON È VERO. TU SEI MORTO PER UN GOL» DARWIN PASTORIN 62


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oacyr Barbosa è morto il 7 aprile 2000, all'età di 79 anni, dopo una condanna a 50 anni di isolamento pronunciata da un pubblico ministero nazionale, nonostante non abbia mai commesso un reato. La croce che lo ha accompagnato per tutta la vita è stata un'uscita azzardata nella finale della Coppa del Mondo del 1950. Per sua sfortuna, si giocava al Maracanã, il tempio del calcio brasiliano, lontano parente di quello ristrutturato e appena inaugurato all'inizio del mese di giugno. Niente poltroncine, niente sky box. La maggior parte dei tifosi stava in piedi, tanto che riuscivano a stiparci oltre 200.000 fanaticos ai quali una studiata campagna pubblicitaria aveva assicurato che la finale sarebbe stata un puro atto di formalità. Incuranti delle superstizioni che di solito accompagnano gli eventi sportivi, i giornali avevano già presentato la squadra campeon alla vigilia della partita, i dirigenti della federazione avevano fatto produrre da un maglificio della zona, diverse migliaia di t-shirt commemorative, i giocatori avevano ricevuto in dono un prezioso orologio (con tanto di scritta Ai Campioni del Mondo Mondo) e un battello era pronto ad accoglierli per la parata in quel di Rio. Il Brasile non aveva ancora vinto quella Coppa Jules Rimet che riteneva gli spettasse di diritto, quale patria del bel gioco e del talento. Nei Mondiali precedenti gli era sempre sfuggita la vittoria, vuoi per colpa dell'Italia di Pozzo (1938) vuoi per le mancate edizioni causa Seconda Guerra Mondiale. Ma quell'anno, in quel dannato 16 luglio 1950, mai avrebbero pensato ad uno scippo. Avevano deciso di organizzarla loro, approfittando proprio della ricostruzione post-bellica nella quale era occupata l'Europa. Per questo, perché giocavano davanti alla propria gente, il fallimento non era ammesso. Ad attendere i brasiliani in finale, vittime designate, gli uruguagi della Celeste. Ai tempi, si giocava con una formula a girone che aveva assicurato un vantaggio non trascurabile al Brasile, al quale bastava un pareggio per laurearsi Campione del Mondo.

In questa pagina, il gol decisivo di Ghiggia che ha condannato alla sconfitta il Brasile. Nelle pagine seguenti, il primo gol di Schiaffino

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il cucchiaio

Era il miglior portiere del mondo, ma ha finito i suoi giorni abbandonato da tutti e senza soldi. La sua colpa? Aver subìto il gol decisivo nella finale della Coppa del Mondo 1950 al Maracanã di Rio de Janeiro. «In Brasile la pena più lunga per un crimine sono trent'anni di carcere. Io da quarantatre pago per un crimine che non ho commesso» di Lorenzo Cazzaniga

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VOLEVO SOLO GIOCARE A CALCIO Mai rovinare una bella storia con la verità. Lo ripetono spesso gli americani, così deve essere per i brasiliani, soprattutto quando si parla di calcio, dove pare che qualsiasi giocatore abbia alle spalle una storia difficile, fatta di povertà e favelas, di palloni di carta straccia e partite in strada. Già, anche quando son figli di avvocati o manager affermati. Il caso di Adriano Ferreira Pinto è invece reale. L'ha raccontato in un libro edito da Mondadori: «Papà José Carlos era un contadino che la domenica mattina giocava a calcio. Lavorava a mezzadria coltivando verdura: pomodori, zucchine, quello che pensava rendesse meglio. Abbiamo girato 14 campagne prima di fermarci a Porto Ferreira, in quel terreno dove oggi sorgono le nostre quattro case». La chance in un provino di calcio. Si presenta una donna mostrandogli qualcosa che non aveva mai visto: «Delle scarpe con una grande virgola sopra». Non ne prendeva una, fin quando il fratello non gli disse di toglierle e giocare come al solito: a piedi nudi. Da lì è cominciata la favola. Ultima tappa, Bergamo e l'Atalanta. «Voglio restare a vivere in Italia anche se la mia famiglia non si staccherà da Ferreira Pinto. Non si lascia il Brasile senza una ragione. E loro lavorano tutti quanti, tranne mia madre: le ho preso una casa in centro e di lei voglio occuparmene io».


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Batalha das Quadras. La Battaglia sul Campo. L’hanno ribattezzata così, la campagna di presentazione della maglia più ambita, quella verdeoro do Brazil. Il tutto, in onore di una competizione per ragazzi i cui match si disputano su campi ridotti e di differenti superfici per sviluppare le loro qualità tecniche. Esattamente come accaduto in passato con tanti fuoriclasse brasiliani che hanno cominciato con lo street football, quando andava bene. Gli stessi fuoriclasse che hanno realizzato il loro sogno da ragazzini: vestire la Amarelinha. La maglia, gialla con inserti verde nel collo (che poi scende a V) e sulle maniche, è piuttosto classica. Spiccano i fori di aerazione nelle zone più sensibili al sudore (dette ascelle, fig.3) per una miglior traspirabilità, con il logo (fig.1) posto sul petto, a sinistra, e le cinque stelle a ricordare le vittorie nei Mondiali del 1958, 1962, 1970, 1994 e 2002. Grande attenzione sono state riservate alle rifiniture (fig.2), mentre non poteva mancare la tecnologia Nike Dri-FIT che permette di ottenere una maglia più resistente ma al contempo più leggera, migliorando ancor di più la traspirabilità. Per rispettare le norme ambientali, il 96% del materiale utilizzato per produrre la maglia è poliestere riciclato. In media, sono state riciclate 13 bottigliette di plastica per ciascuna combinazione maglietta + pantaloncino. La maglia verdeoro è un simbolo riconosciuto in tutto il mondo, tanto che anche Roger Federer, impegnato in alcuni match di esibizione a fine 2012 in Sud America, ha voluto rendere onore alla nazionale brasiliana, indossando una shirt del Brasile durante un suo match.

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Gli italiani amano particolarmente la cultura brasiliana, soprattutto quella dedicata al divertimento (non a caso l’affluenza italica a Copacabana non è per nulla trascurabile). Per questo motivo, si può vestire alla brasiliana non solo in campo ma anche fuori. Nike ha creato varie opportunità, dalla linea lifestyle Canarinha (uno dei soprannomi della Seleçao) alla possibilità di personalizzare con una scritta (o con i colori verdeoro) le proprie scarpe con il sistema Nike ID. In particolare, navigando sullo store ufficiale Nike, ci ha colpito la mitica scarpa Cortez, con base gialla e baffo verde. A Rio de Janeiro apprezzerebbero, eccome.

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NIKE HYPERVENOM Hypervenom. Sono le ultime scarpe da calcio sfornate dagli ingegneri Nike, un prodotto creato grazie ai feedback di alcuni dei più forti attaccanti del mondo, come Neymar, Wayne Rooney e Zlatan Ibrahimovic. Neymar è stato il più diretto nelle sue considerazioni: «Voglio una scarpa che contribuisca a migliorare la mia agilità e mi offra la possibilità di calciare più rapidamente». Il team di design Nike Football, guidato da Denis Dekovic, è partito osservando il comportamento degli attaccanti: «I giocatori vogliono essere più veloci non solo nella corsa, ma anche palla al piede, negli spazi stretti. Vogliono far leva sulla loro agilità naturale per trovare spazio in un’area di rigore congestionata e creare delle opportunità dal nulla». Una scarpa totalmente innovativa, in ogni suo aspetto. La nuova Hypervenom sarà utilizzata, oltre che da Neymar, da Wayne Rooney, Zlatan Ibrahimovic e Robert Lewandowski.


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che sta realmente avvenendo sul campo e la sua traduzione in statistiche. Vuole che la sua squadra vinca, ma è anche interessato al trionfo della sua stella preferita. L’eroe dello sport americano è Joe DiMaggio – una sorta di ranger solitario che cammina in solitudine e ci solleva al di là di noi stessi. Il calcio è un tipo di gioco completamente diverso. Tutti gli 11 giocatori devono possedere lo stesso tipo di competenza, specialmente nel calcio moderno, dove la distinzione tra giocatori offensivi e difensivi è sparita. Essendo continuo, il gioco non si presta ad essere suddiviso in una serie di componenti che – come nel football e nel baseball – possono essere allineati. Il baseball e il football raggiungono la perfezione con la loro ripetitività, il calcio con l’improvvisazione e le mutevoli necessità strategiche. A parte un paio di scarpe, il calcio non richiede molta attrezzatura e tutti credono di poter giocare. Fuori dal Nord America è davvero uno sport di massa, che può identificarsi con le passioni, i trionfi e le inevitabili delusioni. Il baseball e il football sono un’esaltazione dell’esperienza umana. Il calcio ne è l’incarnazione. Quindi, Pelè è un fenomeno diverso dalle star del baseball o del football. I campioni del calcio dipendono dalla loro squadra anche quando la trascendono. Ottenere lo status di Mito giocando a calcio è particolarmente difficile, perché il top delle prestazioni è piuttosto breve: pochi giocatori hanno giocato al massimo del loro livello per più di cinque anni. Incredibilmente, Pelè ha giocato al top per 18 anni, segnando 52 gol nel 1972, la sua diciassettesima stagione. Le stelle di oggi invece, non raggiungono quasi mai i 50 gol a stagione. Lo status di Mito deriva anche dal modo in cui Pelé incarnava lo spirito della nazionale brasiliana. Lo stile carioca diceva che la virtù senza la gioia è una contraddizione. I suoi giocatori erano i più acrobatici, spesso i più efficaci. Le squadre brasiliane giocano con un’esuberanza contagiosa. Quando le maglie verdeoro vanno all’attacco – come quasi sempre accade – e i loro tifosi ballano al ritmo di samba, il calcio diventa un rito di grazia e fluidità. Ai tempi di Pelé, i brasiliani hanno esemplificato il calcio come fantasia. Personalmente ho visto Pelé al suo apice in una sola occasione, nella finale della Coppa del Mondo 1970. L’avversario del Brasile era l’Italia, che mischiava la sua dura difesa a folate di attacco improvvise che erano valse l’1 a 1. Ma, guidato da Pelé, il Brasile non si è preoccupato troppo di tutto ciò. Ha giocato come se gli italiani fossero sparring partner e li ha battuti per 4 a 1. Ho visto Pelé qualche altra volta, quando giocava per i New York Cosmos. Non era più così veloce, ma era comunque sempre esuberante. Da allora, era diventato un’istituzione. I tifosi più giovani non lo hanno mai visto giocare, eppure sentono che fa parte delle loro vite. Succede, quando si passa da Superstar a Mito.

- HENRY KISSINGER, ex segretario di stato americano for Time 100, June 1999 53


pelé Gli eroi camminano da soli, ma diventano miti quando nobilitano la vita e toccano i cuori di tutti noi. Per chi ama il calcio, Edson Arantes do Nascimento, meglio noto come Pelè, è un eroe. Competere ad alto livello in qualsiasi sport significa superare l’ordinario. Ma le prestazioni di Pelè trascendevano quelle delle altre star. Ha segnato la media di un gol a partita in gare internazionali, come se un giocatore di baseball colpisse un fuoricampo in ogni partita delle World Series, per 15 anni. Tra il 1956 e il 1974, Pelé ha segnato la bellezza di 1.220 gol. Una media di 70 a stagione, per un decennio e mezzo. Con lui in campo, il Brasile ha vinto il Campionato del Mondo tre volte in 12 anni. In sei occasioni ha segnato cinque gol in una partita, per trenta volte ne ha segnati quattro e ha realizzato novanta triplette. E non lo ha fatto con egoismo o sdegnosamente, come capita a tante stelle di oggi, ma con una gioia contagiosa che ha portato anche gli avversari a condividerne la felicità, perché non è un disonore essere sconfitti da un fenomeno come lui. Pelé è nato tra le montagne delle grandi città costiere del Brasile, nella città di Tres Coracoes. Soprannominato Dico dalla sua famiglia, fu chiamato Pelè dagli amici. Le origini di questa parola gli sfuggono. Dico lucidava le scarpe fino all’età di 11 anni, quando fu scoperto da uno dei giocatori più importanti del paese, Valdemar De Brito. Quattro anni dopo, De Brito ha portato Pelé a San Paolo e disse agli increduli dirigenti del Santos: «Questo ragazzo diventerà il più forte calciatore al mondo». È diventato presto una leggenda. L’anno dopo è stato il capocannoniere del suo campionato e il Times di Londra scrisse: «Volete lo spelling di Pelè? G-O-D”». È stato perfino capace di fermare una guerra. Entrambe le fazioni della guerra civile in Nigeria, nel 1967, hanno concordato un cessate il fuoco di 48 ore per consentirgli di giocare un’amichevole nella capitale Lagos. Per capire il ruolo di Pelè nel calcio, è necessaria una discussione sulla natura stessa del gioco. Nessuno sport di squadra evoca una passione primaria e universale come il calcio. L’anno scorso, presso la sede della Spencer House di Londra, ho partecipato a una cena con i principali membri dell’establishment britannico e diversi ospiti illustri. I padroni di casa ebbero la sfortuna di scegliere la sera dell’incontro tra Inghilterra e Argentina, una faida perché ricorda la crisi delle Isole Falkland. I presenti insistettero affinchè le televisioni fossero poste in punti strategici, sia durante il ricevimento che durante la cena. La partita è andata ai supplementari e terminata ai rigori, obbligando il relatore principale a pronunciare il suo discorso non prima delle 23. E visto che l’Inghilterra aveva perso, il pubblico non era esattamente in vena di ascoltare. Si respirava un clima di lutto. Quando la Francia ha vinto la Coppa del Mondo, la città di Parigi è stata paralizzata dalla gioia per 48 ore. E sono stato in Brasile nel 1962, quando la nazionale ha vinto la Coppa del Mondo in Cile: si è fermato tutto per due giorni, mentre Rio festeggiava un prematuro carnevale. Negli Stati Uniti non c’è alcun fenomeno paragonabile. I tifosi non si identificano così nelle loro squadre, anche perché gli sport di squadra americani sono più cerebrali e richiedono un certo grado di abilità, spesso oltre la portata dei non addetti ai lavori. Il baseball, per esempio, richiede un insieme di competenze disparate: colpire una palla a 90 miglia orarie, catturarla mentre viaggia come un proiettile e farle percorrere lunghe distanze con grande accuratezza. Il football richiede invece un insieme di competenze per ciascuno degli 11 membri di un team. Lo spettatore americano, dunque, si trova a vedere due eventi distinti: ciò 52


Che il Santos e San Paolo dedichino un murales a Pelé è scontato, come quelli di Maradona nel quartiere Boca di Buenos Aires. Ma questa gigantografia di O Rei l’hanno scattata a Siddique Goth, nella periferia est di Karachi, Pakistan…

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Pelé ha fatto ricchi di successi il Santos e la nazionale brasiliana, ma lui ha guadagnato di più nelle sue stagioni ai Cosmos di New York. Tra i 77 mila tifosi del Giants Stadium, c’erano Henry Kissinger, Mick Jagger, Robert Redford e Steven Spielberg. Il primo ottobre 1977 giocò la sua ultima partita. E finì anche il (primo) sogno del soccer americano.

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o rei edson arantes do nascimento

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I Santistas, alias i tifosi del Santos, festeggiano il Natale l’8 di agosto. Quel giorno dell’anno 1956 infatti, Valdemar de Brito si presentò al quartier generale di Vila Belmiro con un ragazzino di 15 anni e abbozzò una profezia al mister Lula: «Trattalo bene, diventerà il più forte del mondo». Lula lo spedì a cambiarsi negli spogliatoi, prima di farsi una grassa risatta. Edson Arantes do Nascimento piazzò subito un paio di dribbling prima di infilare il pallone nel sette. «Oh, Valdemaaaar! Vuoi dire che hai ragione?»

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c’era più spazio per simili reliquie e i numeri dimostravano che, maggiore è il numero di passaggi in movimento, minore è la possibilità che possano arrivare a destinazione. E così, dove una volta c’era Danilo Alvim, o Didì e Zico, Clodoaldo e Gerson, Falcao e Toninho Cerezo, nel 2010 hanno trovato spazio Gilberto Silva e Felipe Melo. Il centro del campo è stato chiuso, liberando gli spazi per le sgroppate dei veloci terzini, nella speranza che la palla potesse arrivare ad attaccanti abbastanza veloci da poter fare qualche danno alla difesa. Per un po’, il modello ha funzionato. Tra il 1994 e il 2002, il Brasile ha giocato tre finali consecutive in Coppa del Mondo, vincendone due. Ma non era sempre calcio-spettacolo.

o dei grandi scrittori del paese, nonchè fanatico di calcio, tanto che lo stadio Maracanà prende il nome da suo fratello) come un “complesso bastardo”. Alcuni vedono o dei grandi scrittori del Alcuni vedono questo fenomeno come razziale. In realtà è un fenomeno sociale. Il Brasile è stato descritto dallo storic questo fenomeno come razziale. In realtà è un fenomeno sociale. Il Brasile è stato descritto dallo storic

Nel 1985, Zizinho ha scritto la sua autobiografia. L’ha scritta in prima persona, senza coinvolgere alcun ghost writer. Le parole finali erano una specie di lamento. Il calcio brasiliano, a suo dire, “ha dato al centrocampista centrale, l’uomo che gestisce il 70% del possesso-palla della sua squadra, la funzione specifica di distruggere il gioco avversario, quando invece dovrebbe preoccuparsi di impostare il proprio”. I tecnocrati sostennero che viveva nel passato. Poi è arrivato il Barcellona. Nei quattro anni della gestione di Pep Guardiola, il Brasile ha dovuto accettare che la tutela spiriturale del bel gioco è passata al Barcellona. Tutto questo ha creato epidemie di gelosia. Andres Sanchez, ex presidente del Corinthians e attuale direttore delle nazionali brasiliane, ha recentemente detto che il pensiero calcistico del Barcellona è un “carico di sciocchezze”. Il suo sfogo sembra nascere dal fatto che qualche anno fa portò una squadra under 17 del Corinthians a giocare a Barcellona e vinse 2-0. Questo, se non altro, è la prova che la scienza ha bisogno di assegnarsi il compito di spiegare una determinata situazione affinché persone come Sanchez non possano giungere a conclusioni sbagliate. Persone più sagge sono rimaste invece ammirate dal Barcellona. Piccoli centrocampisti del calibro di Xavi e Iniesta e un gioco basato sul possesso-palla, non erano del tutto sbagliati! La via insegnata dai tecnocrati non era l’unico modo per arrivare alla vittoria. Con eleganza e una certa dose di veleno, Guardiola ha affondato quando il Barcellona ha battuto il Santos con irrisoria facilità nella finale del Mondiale per Club 2012. La sua squadra ha giocato nel modo “in cui mio padre e mio nonno mi dicevano che era solito fare il Brasile”. Il futuro è però un luogo affascinante. L’ex giocatore del Barcellona, nonché ex compagno di squadra di Guardiola, Rivaldo, sottolinea che i giocatori brasiliani di oggi si annoiano facilmente durante gli allenamenti focalizzati sul possesso di palla. “Tutti vogliono tenere la palla sotto controllo e dribblare l’avversario” ha detto. In alcune recenti esibizioni della Nazionale carioca e delle squadre di club brasiliane, è apparso evidente come i giocatori non amino un gioco fatto di triangolazioni a centrocampo. Ma loro non hanno bisogno di copiare il Barcellona o chiunque altro. Basta che osservino il loro passato. E’ tutto scritto nella loro tradizione. Uno dei miei pezzi preferiti sul calcio è la testimonianza oculare dell’allenatore argentino Angel Cappa, quasi pazzo di gioia per la possibilità di vedere il Brasile ai Mondiali del 1982,

loro ultimo tentativo di vincere alla vecchia maniera. “La palla arrivava in una parte del campo, poi scompariva, per poi apparire di nuovo in forma di coniglio, prima di sparire nuovamente agli occhi degli avversari che, pieni di angoscia, la cercavano nei posti più improbabili senza essere in grado di trovarla. La palla non aveva goduto così tanto per anni e la folla (me compreso) guardava l’orologio nella speranza che il tempo si potesse fermare perché volevano che il gioco andasse avanti per sempre. Ogni partita del Brasile in quel torneo fu una sorta di danza magica”. Non è posibile leggere il suo racconto e credere che il jogo bonito sia soltanto un mito. Esisteva! E, se saremo fortunati, continuerà ad esistere.

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cominciando un dominio che sarebbe proseguito fino alla metà degli anni 80. Il Brasile aveva ricevuto un assaggio di quello che sarebbe successo negli anni a venire già nel 1963, quando una squadra piena di campioni del mondo era stata battuta a sorpresa dal Belgio, durante un tour in cui avevano perso anche contro l’Olanda. Pensavano fosse stato un caso: dopotutto, la settimana precedente avevano battuto 4-1 l’Argentina al Maracanà. Ma undici anni dopo, in Germania Ovest, non era più possibile nascondere e ignorare la sfida posta dal dinamismo degli europei del nord. Bisognava trovare una risposta. E’ stato il momento in cui gli elementi calcistici di Brasile e Argentina hanno preso direzioni diverse. La sfida ha provocato reazioni contrastanti perché è stata osservata da prospettive diverse, alcune delle quali determinate dalle relazioni che si erano create tra il calcio e le dittature militari che governavano entrambi i paesi negli anni 70. L’Argentina ha ceduto ad un colpo di stato militare nel 1976. Non c’erano dubbi: è stato il colpo che ha fracassato il volto di una società la cui nazionale era allenata da un intellettuale di sinistra, il bohémien Cesar Luis Menotti, il quale aveva concettualizzato il calcio argentino, anche in risposta alle circostanze dell’epoca, dove il regime aveva ucciso circa 20.000 persone. In molti casi si trattava di giovani e brillanti idealisti. Prima della finale della Coppa del Mondo 1978 a Buenos Aires, Menotti avrebbe detto ai suoi giocatori. “Noi siamo la gente, noi veniamo dalle classi vittime delle ingiustizie e rappresentiamo l’unica cosa che è legittima in questo paese: il calcio. Non giochiamo per gli ufficiali militari. Noi rappresentiamo la libertà, non

E’ quasi impossibile pensare a un equivalente brasiliano. Ma allora l’unica domanda nel calcio brasiliano è stata: “Come vincere?”. Il calcio brasiliano non è stato chiamato a definirsi in termini filosofici e culturali contro il suo regime militare. La situazione in Brasile era molto diversa: il calcio è riuscito a sviluppare una certa armonia con la dittatura. Per esempio, la creazione del campionato nazionale nel 1971, faceva parte del disegno del regime per unificare il paese. Il governo militare si è lentamente sgretolato negli Anni 80 e oggi viene ricordato come un periodo sgradevole e difficile. Ma è stato dimenticato (per la comodità di molti) di quanto sostegno popolare abbia ricevuto per oltre un decennio, dopo il colpo di stato del 1964. Molto è stato fatto dalla resistenza degli studenti sul finire degli Anni 60, con la famosa Marcia dei Centomila. Una nuova generazione di storici sta facendo emergere delle verità spiacevoli, come i cortei cinque volte più grandi a sostegno del regime. Uno di loro, David Aarao Reis, è arrivato ad attaccare il termine “dittatura militare”. Pensa a tutti coloro che hanno sostenuto il colpo di stato: “Uomini d’affari, leader politici e religiosi, entità della società civile come il Consiglio dei vescovi e tutta la destra in generale”, al punto da giungere alla conclusione che il termine più corretto per definire quello che è successo era “Dittatura Civile-Militare”. Il famoso economista Celso Furtado, uno degli avversari più lucidi del regime, è stato ancora più preciso. Ha descritto la dittatura come “militaretecnocratica”, un’alleanza tra le forze armate e la classe media dei tecnici specialisti, tra cui economisti e ingegneri coinvolti nei grandi progetti edilizi. Così il calcio è passato sotto la guida dei tecnocrati. Le radici c’erano già. Nel 1958, la nazionale era supportata da uno staff di medici, specialisti di preparazione fisica, un dentista e il primo esperimento (senza successo) di psicologo dello sport. Sempre più spesso, gli allenatori erano laureati in educazione fisica piuttosto che tradizionali ex-giocatori. E la rivoluzione tattica dell’Olanda del 1974 apparve per rendere ridondanti le conoscenze degli ex giocatori. Appunti in mano, solo i tecnocrati avevano la risposta. Lavoravano con modelli che culturalmente erano alieni. Nel 1978, sotto la guida di Claudio Coutinho, il Brasile si proponeva di imitare l’Olanda. Nel 1982, c’è stato il tentativo di Telè Santana di riportare indietro il tempo, come anche nel 1986. Ma nel 1990, con Sebastiao Lazaroni, il Brasile ha giocato con uno stile simile a quello italiano. E come tutti i tecnocrati, i nuovi allenatori vivevano in un mondo di numeri. Non potevano gestire quello che non erano in grado di misurare. Le loro conclusioni erano basate sull’evoluzione fisica del gioco. Secondo Murici Sant’Anna, uno dei più grandi specialisti di educazione fisica del paese, il percorso coperto dai giocatori sul campo è raddoppiato tra la metà degli Anni 70 e la metà degli Anni 90. Non c’era più alcuna possibilità di tornare al modello di attacco utilizzato nel periodo 1958-1970. Evoluzione fisica significa avere meno spazio sul terreno di gioco e più contatti fisici. Questo ha portato a due conclusioni. Primo: i giocatori brasiliani dovevano essere in grado di competere con i calciatori europei sul piano fisico. Ipotizzando una parità a livello di forza, stazza e velocità, la superiorità tecnica dei brasiliani avrebbe fatto pendere la bilancia dalla loro parte. Secondo: non c’era più tempo per i giocatori vecchio stile. Non

PEP GUARDIOLA: «IL MIO BARCELLONA GIOCAVA COME MIO PADRE E MIO NONNO MI DICEVANO ERA SOLITO FARE IL BRASILE». E QUEL BRASILE DEL MUN la dittatura”. Il coach definiva il calcio argentino in termini culturali e filosofici, come vera manifestazione della classe operaia del paese. In termini puramente calcistici, la sua risposta alla nuova sfida che arrivava dall’Europa è stata un atto di fede verso il tradizionale gioco di possesso-palla tipico del calcio argentino. La modernizzazione aveva solo posto l’accento sull’aumento del ritmo, da cui derivava l’importanza del dinamico Osvaldo Ardiles. La migliore osservazione di Menotti è stata: “L’obiettivo deve essere giocare alla massima possibile, senza perdere in precisione”. il leggendario allenatore nato in Uruguay, Ondino Vieira, racconta: “Prima, quando abbiamo voluto studiare e progredire, abbiamo dovuto leggere i libri europei perché gli europeri scrivevano quello che sapevano, con l’obiettivo di trasmettere la conoscenza. Noi non lo facevamo. Ma con Menotti è apparso per la prima volta un teorico del nostro calcio, e siamo riusciti a trasmettere il nostro modo di giocare grazie ai suoi libri”. Una delle cose che ha attecchito, presso una certa scuola di allenatori romantici argentini, è l’idea del calcio come una manifestazione culturale e filosofica. In apparenza, non c’è nulla di Menotti in Marcelo Bielsa, ma il suo impegno per un calcio d’attacco, l’imposizione del gioco nella metà campo avversaria, affonda le radici in un codice filosofico e nel modo di vivere la vita.

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carriera straordinaria, ma nel loro paese saranno ricordati soltanto per quella sconfitta. Un tema ricorrente è stata la reazione dei connazionali alla sconfitta: da altre parti, si può perdere ed essere ancora rispettati. Al contrario, in Brasile, era come se tutti i loro trionfi non fossero mai esistiti. L’unica cosa che contava era una partita del 1950. Perché nel calcio brasiliano, la vittoria è una cosa seria. Allora, la domanda diventa: “Come si deve vincere?”. Nel corso del tempo, la risposta non è sempre stata la stessa. La partita contro l’Uruguay ha confermato molti dei dubbi che i brasiliani avevano sulla loro autostima. Ma in termini più strettamente calcistici, è stata fatta una diagnosi più solida. Avendo bisogno di un semplice pareggio per vincere la Coppa del Mondo, il Brasile era in vantaggio di un gol fino a quando è arrivato il pareggio di Alcides Ghiggia, ala destra dell’Uruguay. L’allenatore brasiliano Flavio Costa ha incolpato il centrale Juvenal per essersi defilato dall’azione e non aver supportato il terzino sinistro Bigode. Ma il problema era più collettivo che individuale. Il sistema W-M infatti, non garantiva sufficiente copertura difensiva. La difesa a quattro era un’altra cosa. Come spiegato da Mario Zagallo (giocatore nel 1958 e nel 1962, nonchè allenatore nel 1970), la chiave dietro l’adozione di questo sistema è nata dalla necessità di avere una sufficiente copertura difensiva. I club brasiliani hanno iniziato a sperimentare questa tattica – spostando un giocatore dal centrocampo alla difesa – nella prima metà degli anni 40. Il disastro del 1950 ha dato una spinta a questo processo. Così il modello è nato in tempo per essere utilizzato negli anni di gloria, con tre Campionati del Mondo vinti in quattro edizioni, tra il 1958 e il 1970. La difesa a quattro garantiva un maggior numero di uomini dietro la linea della palla quando la si perdeva. Si è passati dal 4-24 del 1958 al 4-5-1, prototipo inventato da Zagallo nel 1970. In fase di possesso, il segreto del Brasile era quello di avere giocatori sufficientemente talentuosi da disporre di una vasta gamma di opzioni offensive: ali veloci in grado di raggiungere il fondo, centravanti rapidi e coraggiosi in grado di raccogliere i cross e le palle alte e, naturalmente, Pelè come elemento di qualità sovrumana. A organizzare il gioco in profondità, un centrocampista centrale in grado anche di chiudere gli spazi in marcatura, ma soprattutto intelligente e in grado di passare gestire perfettamente la palla. Una sorta di allenatore in campo, come Danilo Alvim nel 1950, Didì nel 1958 e nel 1962 e Gerson nel 1970. Poi è arrivata l’Olanda del 1974. Quell’anno, il centrocampista centrale del Brasile era Rivelino, che quattro anni prima era stato utilizzato come ala sinistra. Ai Mondiali di Germania 1974 era stato utilizzato nella sua posizione originale. Ma la partita contro l’Olanda, una semifinale, non poteva essere la sua notte: la pioggia aveva reso pesante il campo di Dortmund, il che non gli si addiceva. Ma comunque non avrebbe quasi mai avuto la possibilità di entrare in partita. Ai suoi predecessori erano stato insegnato a mantenere il possesso-palla. Quattro anni prima, in Messico, Gerson poteva raccogliere il pallone e poi vagare per il campo chiacchierando, leggendo il giornale e poi decidere cosa fare. Per contro, Rivelino aveva mezza squadra dell’Olanda che gli saltava addosso. Gli esteti hanno visto nel team olandese la possibilità di cambiare atteggiamento. Il terzino destro Wim

o dei grandi scrittori del paese, nonchè fanatico di calcio, tanto che lo stadio Maracanà prende il nome da suo fratello) come un “complesso bastardo”. Alcuni vedono o dei grandi scrittori del Alcuni vedono questo fenomeno come razziale. In realtà è un fenomeno sociale. Il Brasile è stato descritto dallo storic questo fenomeno come razziale. In realtà è un fenomeno sociale. Il Brasile è stato descritto dallo storic

Suurbier, ad esempio, è andato vicino al gol dopo aver tagliato sulla fascia sinistra. I sudamericani hanno cominciato a preoccuparsi: il loro calcio era stato reso obsoleto da una sola squadra nel corso di un singolo torneo. Prima di mettere fine all’età dell’oro del Brasile, l’Olanda aveva battuto anche l’Uruguay e l’Argentina con sprezzante facilità. I segnali erano rimasti lì a lungo. Il Nord Europa era in crescita. Nel decennio precedente, il calcio in Olanda e in Germania Ovest era diventato iper-professionale. L’Inghilterra aveva abolito il salario massimo e aveva portato avanti l’idea della polifunzionalità con l’adozione del 4-4-2 nel 1966. L’anno dopo, il Celtic di Glasgow è diventata la prima squadra del Nord Europa a vincere la Coppa dei Campioni,

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Il progetto è sempre individuale: di solito, l’allenatore della squadra giovanile cerca di fare sufficientemente bene per ottenere la promozione in campionati più ricchi. “In Brasile, anche nel calcio giovanile, non siamo in grado di vivere senza dare priorità ai risultati”. La tendenza è sempre preparare una vittoria nel breve periodo, non lo sviluppo di un giocatore a lungo termine. Come dice lo specialista del Fluminense Marcelo Teixeira (che ha passato quattro anni al Manchester United), questa scelta ha portato a preferire una prematura crescita atletica rispetto al puro talento calcistico. Un’affermazione sorprendente per tutti quelli che ancora considerano il calcio brasiliano come una sorta di carnevale, un jogo bonito, espressioni di gioia al ritmo di samba. E’ il mito del calcio brasiliano e per questo motivo molte persone intelligenti hanno fallito. Ma c’è anche un nuovo contro-mito, una sofisticata mutazione dell’originale, la quale sostiene che il jogo bonito non esiste, e che il più grande imbroglio mai realizzato dal Brasile è proprio quello di aver convinto il resto del mondo che esistesse un sistema del genere. Un tempo, salvo rare eccezioni, il team brasiliano appariva al pubblico globale una volta ogni quattro anni. Prima del Campionato del Mondo di Usa 1994, l’appassionato medio europeo non aveva familiarità con nessuno di quelli che avevano vinto il trofeo, nemmeno Romario. A partire dai Mondiali di Francia 1998, è cambiato tutto. Tutti i titolari, ma anche qualche riserva, erano nomi familiari, stelle di spot sapientemente creati per creare un’immagine globale. Il Brasile è stato commercializzato come

in miniera. In un contesto collettivo come questo, l’individuo di talento viene visto con diffidenza, come una figura ribelle, preoccupante, inaffidabile. Quando l’attaccante colombiano Faustino Asprilla è passato al Newcastle, fu colpito dai tifosi che avevano festeggiato la conquista di un calcio d’angolo. Ma rendeva alla perfezione il senso. L’angolo è il momento collettivo per eccellenza. In Brasile invece, è la magia delle giocate individuali a garantire la presenza del pubblico. Ancora oggi, il Brasile resta un paese semi-feudale, lasciato nel limbo dalle finalità contrastanti di Getulio Vargas, presidente dal 1930 al 1954: sviluppare il paese preservando la struttura sociale esistente. I ricchi e i poveri vengono trattati quasi come specie differenti, e un gioco come il calcio – industriale in una società semi-feudale – è un potente meccanismo per sovvertire le gerarchie tradizionali. Il singolo calciatore di talento è una pedina che diventa Re. Può essere spettacolo oltre la comprensione di qualsiasi appassionato europeo. Le regole tradizionali non vengono applicate. E quando un giocatore fa il fenomeno e un avversario cade goffamente a terra, il boato della folla può essere impressionante come per un gol segnato. Anche se l’avversario è rapido nel tornare in posizione e riprendere la marcatura, per qualche frazione di secondo sarà stato inevitabilmente e pubblicamente umiliato. E’ un momento estremamente significativo. Succede così perchè il Brasile ha una società con problemi di autostima. Il fenomeno è stato identificato da Nelson Rodriguez (uno dei grandi scrittori del paese, nonchè fanatico di calcio, tanto che lo stadio Maracanà prende il nome da suo fratello) come un “complesso bastardo”. Alcuni vedono questo fenomeno come razziale. In realtà è un fenomeno sociale. Il Brasile è stato descritto dallo storico Eric Hobsbawm come “Campione del Mondo di diseguaglianza economica”: per questo è stato molto facile che le persone siano cadute nel fatalismo appena si sono rese conto della mancanza di prospettive di crescita. E il calcio, capace di rappresentare la cultura di un intero paese, ha assunto sempre più importanza. Da qui, arriva la seconda caratteristica del gioco brasiliano: l’importanza della vittoria. Certo, vincere è importante dappertutto. Ma qui si raggiungono livelli inaspettati. Ho sentito dire le stesse cose da molti personaggi del calcio brasiliano. Secondo loro, i brasiliani non amano il calcio. Amano le vittorie. Il pubblico lo può certamente confermare. Le presenze allo stadio possono oscillare selvaggiamente: quando la squadra va bene, i grandi club possono riempire stadi giganteschi. Ma nei momenti di difficoltà, ci sono così poche persone che è possibile contarle. E’ come se il tifoso dicesse: “Quando la squadra va bene, è la mia squadra. Quando invece non mi rappresenta degnamente, allora mi rifiuto di essere umiliato con lei”.

I BRASILIANI NON AMANO IL CALCIO, AMANO LE VITTORIE. E QUANDO LA SQUADRA GIOCA MALE, IL TIFOSO SI RIFIUTA DI ESSERE UMILIATO CON LEI una squadra da sogno, una sorta di Harlem Globetrotters del calcio. Ma con il passare degli anni, pur vincendo trofei importanti, la gente si è svegliata dal sogno ed è rimasta delusa. Rispetto alla pubblicità, le prestazioni sul campo sembravano prive di qualsiasi gioiosa scintilla. Dopo ogni vittoria ai Mondiali, i giocatori brasiliani si sentivano chiedere: “Ma lo spettacolo?”. “Per noi lo spettacolo è la vittoria” era la risposta standard, come se “vittoria” e “spettacolo” fossero due concetti che si escludono a vicenda. La squadra allenata da Dunga ai Mondiali in Sud Africa del 2010, ha espresso esattamente questa teoria. Ha provato a mettere insieme una squadra con pragmatismo: stelle individuali da una parte e grande compattezza dall’altra. Risultato? Una squadra che non sarebbe stata ricordata con affetto nemmeno se avesse vinto il titolo. Ma non è sempre stato così. Ci sono due caratteristiche che sono l’essenza del calcio brasiliano. Il primo è l’enfasi che viene posta sulla capacità del singolo. In Brasile, il calcio inizia con l’élite e poi si diffonde verso il basso della scala sociale, colonizzando il popolo. Però lo ha fatto in maniera molto personale. Come sport di massa, il calcio in Europa è la base della prima società industriale, la necessità di manodopera. La robustezza del fisico e l’affidabilità sono valutati sul campo di calcio esattamente come potrebbe avvenire in fabbrica o

Ho avuto la fortuna di conoscere alcune stelle del team brasiliano ai Mondiali del 1950, una grande squadra che ha reso famosa un’intera nazione quando il Paese ha ospitato quella edizione del torneo. Conoscevo Flavio Costa, grande allenatore, nonchè Zizinho e Jair Rosa Pinto, due magnifici interni offensivi. Se avessi avuto la capacità di tornare indietro nel tempo e osservare una qualsiasi squadra del passato, il Brasile del 1950 sarebbe stato in cima alla lista. Ma nel Maracanà appena costruito persero il titolo contro l’Uruguay. Quasi mezzo secolo più tardi si può ancora avvertire il loro dolore, soprattutto quello dei giocatori. Hanno avuto una

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JOGA BONITO, BRAZIL CHE IL BRASILE SIA UNA SQUADRA DEDITA SOLO AL GIOCO D’ATTACCO, È UN MITO CHE LA STORIA DEL CALCIO HA PIÙ VOLTE SCONFESSATO. I TECNOCRATI DEGLI ANNI SETTANTA HANNO PUNTATO SU UN GIOCO PIÙ DIFENSIVO, MA ORA IL BARCELLONA HA NUOVAMENTE INSEGNATO IL VALORE DEL POSSESSO-PALLA. RIUSCIRÀ IL BRASILE A IMPARARE LA LEZIONE E TORNARE A OFFRIRE UN CALCIO-SPETTACOLO?

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o scorso dicembre, Jordi Mestre (direttore responsabile della celebre La Masia, struttura del settore giovanile del Barcellona) è stato invitato a una conferenza di allenatori brasiliani. E’ stato un affascinante scontro di culture. Ad un pubblico che accoglieva le sue parole con un misto di ammirazione, invidia e smarrimento, Mestre ha spiegato che, sin dal principio, il Barcellona punta a creare fuoriclasse che non si comportino come tali. Nel percorso di crescita, dal team più giovane fino alla squadra B, la priorità non sono mai i risultati, ma lo sviluppo di uno stile di gioco. Nel dibattito che ha seguito il suo intervento, l’ex allenatore della Nazionale brasiliana, Mano Menezes, ha detto che anche il Brasile può contare su una buona struttura per sviluppare i giovani calciatori. Tuttavia, a differenza del Barcellona, gli manca una filosofia di formazione. A suo dire, non c’è una visione collettiva e a lungo termine.

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TUTTI GLI OCCHI SONO SU NEYMAR, MA GLI UOMINI CHE POTREBBERO SCRIVERE LA STORIA SONO OSCAR E LUCAS, GIÀ CAPACI DI UN IMPATTO STRAORDINARIO SUL CALCIO EUROPEO

Oscar. Il centrocampista del Chelsea ha dimostrato di valere un posto da titolare. Insieme a Neymar, guida la nouvella vague brasiliana.

nei confronti suoi e dell’appeal del Brasileirao, hanno sempre saputo che confrontarsi con difese più accorte, con una pressione superiore, con le notti di Champions, con un calcio più collettivo, avrebbe potuto accelerarne la maturazione. E cancellare le perplessità emerse nelle partite più calde giocate col Santos in Libertadores, soprattutto in trasferta, in cui Neymar si è estraniato. Innervosito da marcature tremende, raddoppiato e triplicato fino a essere annientato. Come nella finale olimpica di Londra persa col Messico. Come nella Copa America di due anni fa in Argentina. Al fianco di Messi e nella nuova realtà di Barcellona, Neymar, l’idolo di tutte le generazioni, dei ragazzini con la cresta e dei loro nonni che credono in lui per cancellare l’onta del Mondiale perso nel 1950, si allenerà a sopportare una pressione mai affrontata in questi anni al Santos, vissuti tra gloria personale, successi di squadra, guadagni, gol fantascientifici, sponsorizzazioni milionarie. Basterà un anno in Europa per rendere le sue spalle più larghe e fargli sopportare una responsabilità così grande? Nell’ultimo ventennio e oltre, il giocatore simbolo del Brasile è sempre arrivato alla Coppa del Mondo con una rassicurante esperienza in Europa alle spalle. Nel 1990 Careca giocava con Maradona a Napoli, nel 1994 Romario era il goleador del Barcellona di Cruyff, nel 1998 e nel 2002 Ronaldo e Rivaldo trascinavano Inter e Barça. E ancora: tra il 2002 e il 2006 Ronaldinho esaltava i tifosi di PSG e Barcellona, nel 2006 Kakà viveva i suoi anni d’oro al Milan, nel 2010 Robinho si era concesso un semestre al Santos ma solo dopo le esperienze con Real e Manchester City che lo avevano fortificato fisicamente e psicologicamente. Come insegnano i precedenti, chi arriva al Mondiale dall’Europa ha una marcia in più. Per questo, mentre tutti gli occhi sono su Neymar, gli uomini che potrebbero scrivere la storia sono Oscar e Lucas, giovani e fortissimi, già capaci di un impatto straordinario sul calcio europeo con Chelsea e Paris Saint Germain.

Le perplessità che circondano la candidatura a favorito del Brasile sono quindi legate al tempo a disposizione per trovare un’identità di squadra e alla personalità (esperienza) dei suoi giocatori. Dei 23 convocati alla Confederations Cup, solo quattro hanno già partecipato a un Mondiale. E uno di questi, Julio Cesar, arriva da una retrocessione in Premier col QPR dopo anni di graduale, quanto inesorabile, calo di rendimento. Scolari deve definire il sistema di gioco ed è combattuto su alcuni aspetti decisivi: difesa a 3, per sfruttare tutto il potenziale di Thiago Silva, David Luiz e Dante, o a 4? Centrocampo con due mediani di qualità (da scegliere tra Luiz Gustavo, Ramires e Paulinho) o con un creatore di gioco come Hernanes? Il Brasile del 2002 si fondava su un’idea chiarissima di squadra, portata fino in fondo con un solo cambio in corsa, Kleberson per Juninho Paulista. Per il resto giocarono sempre gli stessi, titolari scelti identificabili sin dai numeri di maglia, dall’1 all’11. Questa Seleçao, invece, non ha ancora il suo equipo de memoria. Non esiste una formazione che si recita a memoria né tantomeno una squadra che gioca a memoria. L’unica certezza è la spaventosa aspettativa del popolo brasiliano, che vuole cancellare la tragedia del Maracanazo, «il disastro più grande del paese», come lo definì lo scrittore Nelson Rodrigues. La Seleçao oggi non possiede né il giocatore più forte del mondo come l’Argentina né l’autostima e il gioco della Spagna. E nemmeno l’entusiasmante furore della Germania o l’equilibrio dell’Italia. Eppure i brasiliani pensano che vincere la Coppa del Mondo in casa sia un diritto ancor prima che un dovere, il risultato inevitabile di un disegno divino. Per questo a una nazionale che oggi non ha ancora un’identità viene chiesto di costruirsi il futuro in meno di un anno. Un grande punto interrogativo sulla strada del sesto titolo mondiale. Un paradosso storico e culturale, per un paese abituato a vivere il presente senza curarsi del domani.

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LA SELEÇAO HA PERSO LA SUA IDENTITÀ. ORA CHE LA RESA DEI CONTI SI AVVICINA, SCOLARI DEVE RIMETTERE INSIEME I PEZZI. E NON SARÀ FACILE ha finito per richiamare Ronaldinho. La Seleçao ha perso la sua identità e si è allontanata dal suo popolo. Ora che il tempo stringe e la resa dei conti si avvicina, Scolari deve rimettere insieme i pezzi. Mica facile. Anche perché se sulla personalità di Felipao non ci sono dubbi, gli ultimi anni della sua carriera inquietano. Nel quadriennio col Portogallo si è fatto soffiare l’Europeo casalingo dalla Grecia e ha sbattuto contro la Germania sia al Mondiale 2006 (sconfitto nella finale per il 3° posto) sia nei quarti di Euro 2008. Tornato alla guida di un club è stato esonerato dopo pochi mesi dal Chelsea e, tralasciando l’esperienza uzbeka al Budyonkor, ha macchiato anche la sua storia al Palmeiras. Proprio lui, che lo aveva guidato alla conquista della Libertadores nel 1999, lo ha portato al baratro della B nonostante un salario principesco per gli standard brasiliani (circa 3 milioni di euro all’anno). Insomma, un curriculum recente preoccupante per un allenatore che peraltro persegue principi di calcio opposti rispetto al predecessore. Con Menezes la squadra aveva finalmente, faticosamente, trovato un suo stile di gioco, con Neymar evoluto a “falso 9” e l’intesa Oscar-Leandro Damiao perfezionata come ai tempi dell’Internacional. A differenza di Mano, però, Scolari preferisce un centravanti d’area di rigore e forte fisicamente e per questo ha puntato su Fred, 42 gol negli ultimi due campionati brasiliani.

Rigenerato dal ritorno in patria, il centravanti del Fluminense ha segnato tre reti nelle prime tre partite di Felipao contro Inghilterra, Italia e Russia. È lui il favorito per indossare al Mondiale la maglia che fu di Ronaldo e Careca. Più di Pato, inaffidabile fisicamente e neppure titolare nel Corinthians, dell’irascibile Luis Fabiano e di Leandro Damiao, sostituito a fine primo tempo in entrambe le amichevoli disputate con Cile (2-2) e Bolivia (4-0). Attaccanti con storie ed età diverse e con un punto (interrogativo) in comune: giocano tutti in Brasile. Come Paulinho, faro designato del centrocampo. Eccolo il paradosso che turba il popolo brasiliano: un paese in espansione economica, aperto alla modernità come mai nel dopoguerra, pronto ad accogliere gli eventi globali della Coppa del Mondo 2014 e Rio 2016, potrebbe sfidare le superpotenze del calcio mondiale con tanti giocatori che militano nel campionato di casa. Che si è decisamente sviluppato rispetto agli ultimi anni, ma più a livello economico che tecnico. E comunque resta ancora lontano dagli standard di ritmo, intensità e tattica del calcio europeo. Il grande dibattito attorno a Neymar, prima della sua cessione al Barcellona, era proprio questo: deve giocare almeno un anno in Europa prima del Mondiale? I brasiliani non discutono le sue qualità, lo considerano un craque assoluto. Meglio di Robinho, nella scia di Ronaldinho. Ma, al di là del protezionismo

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a domanda è scontata, la risposta molto meno: a meno di un anno dal Mondiale, il Brasile è favorito? Già, perché prima di pensare ai fantasmi del Maracanazo, bisogna arrivarci, alla finale del Maracanã. E la Seleçao, al momento, genera poche certezze e tanti dubbi. Avrà la forza per giocarsela con la straripante Germania di Löw, con la Spagna campione di tutto, con l’Argentina di Messi e l’Italia di Prandelli? Riuscirà a sostenere la pressione sovrumana generata dalle aspettative di quasi 200 milioni di connazionali?. Brasile 2014 sarà la resa dei conti per un paese intero e per gli uomini più potenti del calcio nazionale. Una disfida sportiva ma anche politica, proprio come la scelta del ct, avvenuta nelle 5 giornate di Rio, dove ha sede la Federcalcio Brasiliana (CBF) e si è consumato il ribaltone. Prima, il 24 novembre 2012, è saltata la panchina di Mano Menezes, l’allenatore incaricato di guidare la Seleçao in seguito alla delusione di Sudafrica 2010, precario sin dal primo giorno, ingaggiato solo dopo che il prescelto Muricy Ramalho non era stato liberato dal suo club, il Fluminense. Più per assenza di alternative che per una reale fiducia nelle sue qualità, Menezes era stato sostenuto sia dopo la figuraccia nella Copa America 2011 (fuori ai quarti ai rigori col Paraguay) sia dopo quella delle Olimpiadi di Londra (travolto in finale dal Messico). Pochi giorni dopo l’esonero di Mano, il 28 novembre è saltata anche la scrivania del suo primo sostenitore, l’ex presidente del Corinthians, Andres Sanchez, direttore dimissionario delle nazionali brasiliane. Infine, contestualmente e in quelle stesse ore, la CBF annunciava l’ingaggio di Luiz Felipe Scolari, il ct del Brasil Pentacampeao, campione mondiale per la quinta volta nel 2002. Felipao, ancora lui. Il ct del popolo. L’uomo di José Maria Marin, l’81enne presidente federale, e del suo vice Marco Polo Del Nero, già governatore dello Stato di Sao Paulo, ora membro FIFA e presidente della Federcalcio Paulista. Uno scenario in cui le valutazioni politiche hanno avuto un peso eguale se non superiore a quelle tecniche. Una scelta da cui non si può prescindere per capire le prospettive della Seleçao. Scolari, 64 anni, rappresenta un riferimento affidabile per il popolo brasiliano ben più di Mano Menezes. Sa attirare su di sé la pressione e gestire il gruppo. Il suo disprezzo per i giornalisti è noto e il suo abbandono della conferenza post partita col Cile (2 a 2 a fine aprile) ha aumentato i contrasti con la stampa. Il Brasile del 2002 fu definito Familia Scolari proprio per l’armonia che regnava nello spogliatoio, fondato però su giocatori di enorme personalità (Ronaldo, Rivaldo, il portiere Marcos, Cafu, Roberto Carlos, Gilberto Silva, Ronaldinho) che in questa nazionale non si vedono. Perciò serviva un leader carismatico in panchina. Per riannodare il filo pazientemente creato da Dunga nella sua gestione 2006-2010, quando la maglia verdeoro era tornata al centro di tutto e sopra tutti. Oltre la concezione individualistica

Ronaldinho. Il grande escluso (insieme a Ramires) della Confederations Cup causa un ritardo al raduno della Seleçao. Sarà il leader di Brasile 2014?

del calcio in cui non contava giocare di squadra «perché il Brasile ha giocatori che possono risolvere la partita da soli in ogni momento» e oltre i capricci delle star che avevano frantumato la nazionale del quadrato magico a Germania 2006. Un processo non banale in un paese che ha sempre vissuto la disciplina come un ostacolo all’espressione del talento. Una missione chiara per Scolari, costretto a mostrare il pugno duro con Ronaldinho e Ramires, non convocati alla Confederations Cup per essersi presentati in ritardo al ritiro della nazionale nei mesi scorsi. Dunga aveva creato un nuovo rapporto giocatori-Seleçao in cui tutti, a partire da Ronaldinho e Kakà, dovevano guadagnarsi il posto. A Sudafrica 2010, nei quarti con l’Olanda, il Brasile giocò un primo tempo sontuoso ma l’errore di Julio Cesar sul gol dell’1-1 e la folle espulsione di Felipe Melo sull’1-2, costarono l’eliminazione e il posto a Dunga. Il suo successore Mano Menezes ha avuto il torto di non individuare una strategia definita verso il 2014. Per limiti suoi e dei giocatori a disposizione. Ha iniziato puntando sui giovani e

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NAZO

IL BRASILE OSPITERÀ NEL 2014 I CAMPIONATI DEL MONDO E UN PAESE INTERO ATTENDE IL TRIONFO. MA NON RISCHIA DI FINIRE COME NEL 1950? LA NAZIONALE VERDEORO NON APPARE TRA LE FAVORITE E IL FALLIMENTO NON È UN'IPOTESI COSÌ REMOTA di MASSIMO CALLEGARI

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3 DOMANDE A...

Abbiamo chiesto ad alcuni opinionisti di Sky Sport come si prospetta l’avventura europea di Neymar. 1. Quale sarà l’impatto di Neymar con il calcio europeo? Rischia un flop clamoroso? 2. Come vede l’integrazione di Neymar nel sistema di gioco del Barcellona e la sua convivenza con Messi? 3. Con un anno di esperienza in Europa, Neymar diventerà il trascinatore del Brasile ai Mondiali 2014?

1. Non rischia il flop. È un giocatore talmente forte e abituato a giocare ad alti livelli, che non può che far bene accanto a Xavi, Iniesta e Messi. E Barcellona è uno dei luoghi più esaltanti per un giocatore di fantasia come Neymar.

1. Non sarà un flop. Anzi, credo sarà subito protagonista perché il Barcellona è la squadra più adatta alle sue caratteristiche e ha un sistema di gioco ideale per esaltare le sue capacità tecniche. Dopo Messi e Cristiano Ronaldo, è il giocatore più talentuoso.

MASSIMO MAURO

DANIELE ADANI

2. Vedo bene la convivenza con Messi perché Neymar continuerà a giocare da punta esterna. Se sarà disponibile a farsi voler bene da una squadra che predilige l’aspetto umano al talento, si integrerà al meglio. 3. Credo di sì. L’esperienza in Europa gli farà solo bene. Nonostante sia molto giovane, è già una stella e la sua esplosione potrà avvenire proprio ai prossimi Mondiali.

2. Essendo efficace quando parte da una delle due fasce, si troverà bene con Messi, perché non andrà ad occupare il centro dell’attacco. Quello sarà come sempre territorio dell’argentino. 3. Dipende dalla capacità di dimostrare la sua efficacia anche in Europa. Ha la personalità e le doti per non sbagliare. Nel Brasile ha dimostrato di essere un punto di riferimento e l’esperienza a Barcellona lo farà diventare ancora più consapevole delle sue doti.

GIANCARLO MAROCCHI 1. Le aspettative sono alte e vista la squadra che lo ha acquistato, sono ottimista. Sarò contento di ammirarlo in Champions perché é uno di quei giocatori che giocano bene al calcio. 2. È un attaccante esterno e dunque non ci saranno problemi: il BarÇa potrà giocare con lui da una parte e Sanchez dall’altra. In schemi come quelli blaugrana, senza centravanti puri, partendo da esterno il suo compito sarà quello di scambiare in velocità con Messi per mandare l’argentino in gol. 3. È un grande giocatore ma sarà la ciliegina sulla torta, non il trascinatore del Brasile. Però spero sia protagonista, con i suoi numeri, i suoi balletti, ma soprattutto i suoi gol.

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padre di Kakà, licenziò Wagner Ribeiro. «Mi chiamò dicendomi che non avrebbe rinnovato il contratto. Eppure Kakà stava facendo bene in un club prestigioso, era pronto a diventare il più forte del mondo. Pensai che non vi fosse riconoscenza, ma ho ancora un buon rapporto con loro, Kakà è un amico». La rottura con Robinho invece, è avvenuta dopo il trasferimento dal Real Madrid al Manchester City nel 2009. I due continuano a parlarsi e Ribeiro sostiene che il problema erano i rapporti tra la sua ex-moglie e quella del giocatore. Ma il proucratore dice anche di aver temuto per la sua incolumità quando ha trasferito Robinho dal Brasile al Real Madrid. «Il presidente del Santos non era intenzionato a cederlo, ma Robinho voleva assolutamente andare a giocare in Europa. Così l’ho ‘sequestrato’ e portato a Angra dos Reis, vicino a Rio de Janeiro. Ti ricordo che sua madre era stata realmente rapita e lui voleva portare via la sua famiglia dal Brasile. È stato folle: ho ‘sequestrato’ il più forte calciatore brasiliano e la gente voleva ammazzarmi. Sono dovuto sparire con lui. Ho ricevuto diverse minacce via e-mail. I tifosi hanno creato delle community sui social network dove incitavano l’odio per me. Mi era impossibile andare a vedere una partita in quel periodo. Una volta un tifoso mi ha scritto una mail dicendo che conosceva mia figlia e che le avrebbe fatto qualcosa. Alla fine non è successo niente, ma ho vissuto momenti di grande paura».

ORE 13.30 È ora di pranzo e Ribeiro mi accompagna a casa di Lucas. Al tavolo, oltre a noi due, c’era anche un amico di Ribeiro, Lucas, suo fratello e i suoi ge-

nitori. La conversazione verteva sulla partita della sera prima e il viaggio in Qatar. E chiaramente sul trasferimento di Lucas al PSG. Thiago, il fratello di Lucas, lavora nell’ufficio del procuratore. Ha il compito di visionare i dvd e trovare nuovi giocatori da firmare. «Semplicemente, non ho il tempo di guardare tutti i video» spiega Ribeiro. Guadagnare la fiducia del giocatore e della sua famiglia è un fattore chiave nel lavoro di un procuratore. E visto che tutti i giocatori vogliono affidarsi ad un agente, bisogna cercare di firmarli quando sono ancora teenager. Lucas, per esempio, è gestito da Ribeiro da quando aveva 13 anni. E il caso di Neymar è identico. Quando la nuova stella del Barcellona aveva 13 anni, Ribeiro gli fece ottenere un provino col Real Madrid. Senza un contratto, Neymar giocò nelle giovanili del club spagnolo. Segnò 26 gol e gli furono offerti tre milioni di euro per restare. Ma visto che non aveva l’età per firmare un accordo, il Real offrì un lavoro al padre nella filiale della Audi, con la seria intenzione di legalizzare il trasferimento. Tuttavia, l’affare non si concretizzò e Neymar rientrò al Santos.

ORE 16.10 Dopo aver perso un’ora nel traffico di San Paolo, arriviamo a destinazione: un hotel 5 stelle nel quar-

QUANDO NEYMAR AVEVA 13 ANNI, RIBEIRO L’HA SPEDITO NELLE GIOVANILI DEL REAL MADRID: 26 GOL E TRE MILIONI, MA...

tiere trendy di Jardim Paulista. Sul terrazzo vista Ibirapuera Park, uno dei luoghi preferiti da Ronaldo per le scorribande notturne, Ribeiro incontra Marcos Motta con la ferma volontà di risolvere il problema di Nilton al Vasco. Motta è il più rispettato avvocato specializzato in questioni sportive del Brasile. Oltre al ruolo di consulente per la federcalcio brasiliana, lavora per club e giocatori assistendoli per i contratti nei trasferimenti internazionali. Tutti gli accordi dei più importanti fuoriclasse brasiliani degli ultimi anni (Thiago Silva, Neymar, Lucas) sono stati controllati e analizzati da lui. Non ci è voluto molto tempo per trovare una soluzione e Motta rassicura Ribeiro che Nilton potrà slegarsi dal Vasco senza fastidi. Dopotutto, anche Juninho Pernambucano, celebre per i suoi straordinari calci di punizione, ha lasciato il club per le stesse ragioni. Due settimane dopo, Nilton ha firmato col Cruzeiro.

ORE 20.10 Il cellulare di Ribeiro squilla per l’ultimo appuntamento della giornata: la cena col padre di Neymar che desidera parlare del futuro di suo figlio. Cortesemente, mi informano che si tratta di una cena privata. Capiamo perfettamente: in effetti, dovevano parlare del più importante trasferimento nella storia del calcio brasiliano, una scelta che coinvolgeva Real Madrid, Barcellona, Manchester United, Chelsea, Manchester City e PSG. Ora sappiamo come è andata a finire. Neymar ha firmato per il Barcellona e giocherà con Leo Messi. Ma per sbrogliare quella situazione, a Ribeiro non devono essere bastati tre telefoni.

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Neymar è tra i calciatori più ricercati dagli sponsor: Nike (fino al 2022), Konami, Panasonic, Red Bull, Volkswagen, Tenys Pé Baruel, Lupo, Ambev, Claro, Unilever e Santander. I suoi guadagni sono stimati da Forbes in 20 milioni di euro all’anno circa

to il Santos in Copa Libertadores. Ero con il papà di Neymar e con Luis Alvaro de Oliveira Ribeiro, il presidente del club. Indovinate chi ha ricevuto gli insulti? Io, chiaramente. I tifosi erano arrabbiati per la sconfitta e qualcuno voleva addirittura picchiarmi! Dicevano che volevo portare via Neymar dal Santos, che se avessero avuto un figlio calciatore non lo avrebbero mai fatto gestire da me, che tutto ciò a cui penso sono i soldi. Mi insultavano in tutti i modi: fottuto delinquente, figlio di buona donna, ladro. Ero davvero in pericolo e... fortuna che c’erano le guardie di sicurezza!». Tutto ciò spiega il soprannome che gli

hanno rifilato i tifosi brasiliani: Wagner Dinheiro (Wagner Denaro n.d.r.). «Non ci faccio granché caso. Il mio impegno è con i giocatori, che sono i miei clienti. Tutti i club vivono delle situazioni di stress quando devono vendere un giocatore e spesso i tifosi non capiscono che una squadra ha davvero bisogno di vendere un fuoriclasse perché devono far quadrare i conti. Ma la cosa divertente è che, al di fuori del mondo del calcio, la gente mi tratta molto bene. Vado al ristorante e il cameriere mi dice che suo figlio è una grande promessa e che vuole che lo gestisca io. Lascio il mio numero di ufficio, e loro mi inviano dei dvd da visionare».

Il primo affare importante curato da Ribeiro è stato quello dell’attaccante Franco che ha giocato in Germania per il Bayer Leverkusen. Nel 1996 aveva acquistato il giocatore dal XV de Jau, un piccolo club di provincia, e lo aveva rivenduto per una cifra dieci volte superiore al San Paolo. Tuttavia, è stato il trasferimento di Kakà che lo ha reso celebre. Dopo svariate discussioni con i dirigenti del San Paolo, che volevano ottenere ancora più soldi, Ribeiro siglò l’accordo con il Milan. Il club di via Turati pagò 8,5 milioni di euro. Mesi dopo, Silvio Berlusconi disse che l’acquisto di Kakà era stato incredibilmente conveniente. In seguito, Joao Bosco Leite, il

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cas, deve organizzare i visti per andare in Qatar, dove il giocatore deve essere presentato come nuovo giocatore del PSG: «Abbiamo bisogno di cinque visti: per me, mia moglie, Lucas e i suoi genitori» spiega alla sua segretaria, mentre riaggancia. «Dal Qatar ci chiedono se Lucas è sposato - mi dice sorridendo -. In realtà ha qualche fidanzata, ma nessuna moglie!». Ribeiro sta incontrando alcune difficoltà nell’ottenere i visti: il consolato qatariano in Brasile dice che servono due settimane per ottenere tutte le autorizzazioni necessarie. Ma se hai delle buone conoscenze. la musica cambia. «Scordatelo. Leonardo (quel Leonardo, direttore sportivo al PSG n.d.r.) ha risolto il problema. Mandagli semplicemente una e-mail con una copia dei nostri passaporti» dice sicuro. «Guarda il messaggio che mi ha inviato» continua, alzando il telefono dove compare la risposta ad un sms di preghiera di risolvere la faccenda dei visti: «Non ti preoccupare: in Qatar la legge la scriviamo noi!». Lo scambio di messaggi con Leonardo avviene via WhatsApp. Ammette che ha una mania per questa applicazione che usa per rimanere in contatto col padre di Neymar, altri clienti, direttori sportivi e giornalisti. Oltre a questo telefono, ne ha almeno altri due. Uno squilla subito dopo ed è immediatamente chiaro che non passeranno dieci minuti senza che Ribeiro riceva almeno una telefonata, controlli la mail o invii un messaggio. Si scusa ripetutamente, ma deve essere più forte di lui.

ORE 12.05 Appena risolto il problema dei visti, ne arriva un altro da affrontare. Nilton, un centrocampista del Vasco da Gama, vuole lasciare il club a causa di stipendi non pagati. «Non è stato pagato negli

ultimi tre mesi e il suo FGTS (un fondo pubblico creato in Brasile per proteggere i lavoratori dipendenti n.d.r.) per un periodo ancora più lungo. Non possiamo continuare così, anche perché abbiamo tre proposte sul tavolo» spiega Ribeiro, prima di dare un colpo di telefono a Marcos Motta, l’avvocato che si sta occupando del caso. La segretaria dice che Motta è impegnato in riunione. Pochi minuti dopo e viene richiamato: il Vasco da Gama ha pagato il suo debito allo FGTS, rendendo più complicato la risoluzione del contratto. «Già, però restano gli stipendi non pagati» gli ricorda Ribeiro. «Vero, ma i tempi potrebbero allungarsi» replica Motta. Mentre è al telefono, Ribeiro riceve un messaggio su WhatsApp. Il papà di Neymar lo avverte di essere arrivato a San Paolo. È appena tornato da un viaggio negli Stati Uniti con suo figlio, dove hanno trascorso un po’ di tempo a DisneyWorld: «Incontriamoci oggi. Dobbiamo discutere di un paio di faccende». Arriva un altro messaggio, questa volta urlato da una stanza dell’ufficio: «Non dimenticarti del pranzo a casa di Lucas» gli ricorda Junior. Ribeiro alza le spalle, come a dire: «Beh, non sarà così facile». Arriva l’ennesima chiamata. È Nilton, sempre più disperato per la sua situazione al Vasco. «Non si tratta solo dello stipendio: le condizioni di allenamen-

I TIFOSI BRASILIANI MI INSULTANO: DELINQUENTE, FIGLIO DI... PER LORO SONO QUELLO CHE HA PORTATO VIA KAKÀ, ROBINHO, NEYMAR...

to sono terribili. Il campo è orribile e la disorganizzazione è totale» afferma il giocatore. Ribeiro lo ascolta senza interromperlo, ma non riesce a nascondere la sua impazienza: «Nilton, riposati, non serve essere così nervosi. Risolveremo tutto, ma non parlarne con nessuno» lo conforta, prima di riattaccare.

ORE 12.50 Ribeiro controlla con la segretaria che sia tutto in ordine con i visti per il Qatar. «Fai una scansione e inviali a Leo» le ripete, poi mi dice che è venuto il momento di verificare le notizie dopo il match della sera prima, una vittoria per 2 a 0 del San Paolo nella finale della Copa Sudamericana, l’ultimo match giocato da Lucas per questa squadra. Un canale tv, racconta di una festa organizzata per festeggiare la vittoria. Lucas si è presentato vestito da capo a piedi con abbigliamento Adidas: «Vedi, abbiamo siglato un buon contratto, ma Lucas deve vestire Adidas in ogni momento - spiega Ribeiro -. Io al party? No. Ci ho pensato, ma hai presente il traffico per arrivare fin laggiù? Ho visto il match in un bar insieme ad alcuni amici». San Paolo è l’ottava città più popolata al mondo, con almeno sette milioni di macchine che circolano impazzite ogni giorno. Ma il traffico non è l’unica ragione che tiene Ribeiro lontano dalle partite. Dopo che Robinho e Kakà sono stati venduti a club europei, Ribeiro è diventata una figura pubblica in Brasile, adorato dai suoi clienti, criticato dagli allenatori e odiato dai tifosi. «Qualche volta vado al Morumbi (lo stadio di San Paolo n.d.r.), ho acquistato un palco, ma ho smesso di frequentare gli altri stadi brasiliani. Sono insultato dai tifosi. L’ultima volta che ho visto il Corinthians giocare in casa, hanno battu-

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Neymar da Silva Santos, classe 1992, è la più famosa star dalla nazionale brasiliana. Si è appena trasferito dal Santos al Barcellona

BRAZIL ORE 8.34

La giornata comincia con colazione e bretelle. Nel suo appartamento, in un bel quartiere di San Paolo, Wagner Ribeiro è già vestito come chi trasuda business: camicia bianca slim-fit, cravatta blu e bretelle. È il procuratore che si è occupato di tutti i più importanti trasferimenti di calciatori brasiliani negli ultimi 10 anni: da Kakà al Milan a Robinho al Real Madrid, fino ai recenti passaggi di Lucas al PSG e soprattutto Neymar al Barcellona. Già, club italiani e spagnoli, anche se dice di ammirare soprattutto la Premier League inglese: «Ci sono i migliori stadi, grandi giocatori e la programmazione tv è impressionante. Sembra un altro sport rispetto al Brasile» dice, mostrando quello charme che suppongo sia necessario per strappare qualche extra bonus nei contratti. Dopo la colazione,

ammette che il Chelsea era molto vicino all’acquisto di Lucas, ma anche che il PSG ha offerto una tal fortuna che era impossibile rifiutare. «Il Chelsea ha acquistato Moses quando si sono visti sfuggire Lucas» continua, offrendo un assaggio della sua vita da macchina macina soldi.

ORE 11

Il lavoro comincia dal suo ufficio a Moema, un altro quartiere chic e super affolato di una metropoli come San Paolo. Le quattro stanze sono addobbate con poster di giocatori di calcio. Una foto di Robinho, che attualmente non è più rappresentato da Wagner Ribeiro, campeggia nella sala d’attesa. Di fianco al divano, un pallone ufficiale dei Mondiali 2006 autografato da tutta la nazionale brasiliana e le scarpe indossate e autografate (of of course course) da Kakà. Appena apre la porta del suo

ufficio, la segretaria gli allunga una manciata di carte: sono il riepilogo delle spese sostenute dai suoi clienti: affitti di appartamenti e ristoranti sono solamente alcune delle voci inserite: «Gestisco venti giocatori, ma di tanti altri che fanno parte dell’agenzia, se ne occupa Junior». Junior è suo cugino e si presenta come direttore marketing. Lavora nell’agenzia da sette anni, insieme ad altri cinque impiegati. Wagner sostiene che guadagna solo quando un suo giocatore viene venduto. Nel mercato brasiliano, la commissione di un procuratore varia dall’uno al dieci per cento del valore del trasferimento, anche se è comprensibilmente schivo quando gli chiedo quanto ha intascato per certi precisi transfer: «Tante volte, le cifre che circolano sono totalmente irreali» afferma in maniera enigmatica, appena prima che suoni il telefono e debba affrontare il primo problema della giornata. Il primo di tanti. In qualità di procuratore di Lu-

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NEYMAR

UNA GIORNATA PASSATA INSIEME A WAGNER RIBEIRO, IL PROCURATORE DEL GIOCATORE PIÙ ATTESO ALLA CONFEDERATIONS CUP E AI PROSSIMI MONDIALI 2014

PER CAPIRE MEGLIO IL NUOVO CORSO DEL CALCIO BRASILIANO, FATTO SOPRATTUTTO DI GIOVANI STELLE E TRASFERIMENTI MILIONARI.

DI PAULO PASSOS

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Esplorare la vita

Realizzare i sogni

Ci sono già sette miliardi di individui che vivono sul nostro pianeta e il numero continua a crescere di duecentoventi mila unità ogni giorno. Come si può garantire l’alimentazione a un numero sempre maggiore di persone senza arrecare danni all’ambiente? Come si può accre r scere re r il benessere re r di ognuno re e prevenire le malattie? Come sviluppare materiali nuovi che aiutino a conserv r are le risorse? rv La ricerc r a Bayer contribuisce a fornire rc r soluzioni re migliori a tali problematiche. La società è costituita da tre aree di business: Salute, Agricoltura e Materiali Innovativi. Campi nei quali Bayer è già un leader globale e la cui import r anza per il rt futuro dell’umanità cresce ogni giorno. www.bay a er. ay r it r.


BUSINESS

BRASILE 2014: UNA PIOGGIA DI SOLDI (E DI DEFICIT) Il costo per gli stadi mondiali farà sforare il budget con una possibile perdita di 500 milioni di euro. Ma è in arrivo una pioggia di denaro per rilanciare il Paese nei prossimi 25 anni. di Marcel Vulpis Un Mondiale di calcio caratterizzato da luci e ombre. Brasile 2014 doveva essere ricordato per l’attenzione ai conti e all’ambiente, ma si sta trasformando in un’edizione molto travagliata. I costi organizzativi sono in crescita, nonostante le continue pressioni della FIFA, detentrice di tutti i diritti dell’evento. Sul fronte economico gli investimenti previsti dal governo di Brasilia hanno già superato i 9,5 miliardi di euro, con la voce di costo più importante legata agli stadi. Dei tre impianti esistenti, solo il Maracanã (lo stadio di Rio de Janeiro) non ha sforato il budget. I restanti nove stanno procedendo a rilento e presentano costi realizzativi non inferiori ai 170 milioni di euro ciascuno. Complessivamente le sedi di gioco saranno 12: Rio de Janeiro, San Paolo, Belo Horizonte, Porto Alegre, Brasilia, Curitiba, Salvador-Bahia, Recife, Natal, Fortaleza, Manaus e Cuiabà. In queste condizioni è chiaro che sarà difficile replicare i risultati raggiunti dal comitato organizzatore sudafricano ai Mondiali del 2010): 6,1 miliardi di euro investiti e un utile di 885 milioni di euro. La lievitazione dei costi dell’impiantistica e quelli collegati alla sicurezza potrebbero generare una perdita secca, al termine del torneo verdeoro, di 500-600 milioni di euro. Per la FIFA il Mondiale continua però ad essere un’occasione per generare ricavi a nove cifre. Un successo economico per l’organismo svizzero, che, da alcune edizioni, ha concentrato i

propri sforzi sulla vendita dei diritti tv. Oggi valgono 2,3 miliardi di euro (circa il 38% della torta complessiva). Al secondo posto, i ricavi da biglietteria (1,7 miliardi di euro, 28%), seguiti dal giro d’affari turistico (1,3 miliardi, 21%) e dalle sponsorizzazioni ed entrate commerciali (800 milioni di euro, 13%). Tre i format previsti: adidas, CocaCola, Hyundai-Kia, Emirates, Sony e Visa (FIFA partner); Budweiser, Continental, Johnson&Johnson, McDonald’s, Oi, Seara, Yingli (FIFA World Cup sponsor); ApexBrasil, Garotò, Itaù, Liberty Seguros, Wise Up (national partners). È una corsa contro il tempo quella che il Brasile sta portando avanti, per mostrare, attraverso il calcio, un’immagine più moderna e innovativa del Paese. Il governo brasiliano è pronto ad investire una cifra monstre (48 miliardi di euro nell’arco dei prossimi 25 anni) con le imprese private (brasiliane e straniere) che stanno avendo accesso a concessioni su 2.300 km di strade e autostrade da costruire ex novo o da ammodernare. Solo sul segmento dei trasporti sono attesi investimenti per 13 miliardi di euro. Per la ferrovia, attraverso partnership tra pubblico e privato (per evitare situazioni di monopolio o di trust), arriveranno altri 33 miliardi di euro. Questi progetti saranno spalmati nei prossimi cinque lustri, ma è chiaro che l’obiettivo primario è consegnare al mondo, in occasione dell’evento iridato di calcio (e dell’Olimpiade di Rio 2016), un’immagine più moderna del Paese nel suo complesso.

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L A V I S I TA

PENTA CAMPEON Il Brasile è l’unica nazione ad aver vinto 5 volte la Coppa del Mondo di calcio

1958

Nel 1958 il Brasile vince il suo primo titolo mondiale battendo in finale i padroni di casa della Svezia per 5 a 2, diventando la prima nazionale a vincere un mondiale fuori dai propri confini continentali (il Brasile ripeterà l’impresa nel 2002 in Asia). La vittoria mette in risalto le prestazioni di un giovane diciassettenne che scriverà la storia di questo sport: Edson Arantes do Nascimento, detto Pelé. È autore, proprio nella finale, di un gol ritenuto fra i più belli di sempre.

1962

THE MUSEUM San Paolo ospita il museo del calcio brasiliano. Una scelta che andrebbe presa ad esempio

T

rip Advisor non è essenzialmente la Bibbia del viaggiatore, perché è chiaro che alcuni risultati possano essere alterati da operazioni di marketing estremo. Tuttavia, è indubbio che rappresenti una forma di giudizio interessante e, in alcuni casi, determinante nella scelta di una visita. Ebbene, il museo del calcio brasiliano di San Paolo ha ricevuto una valutazione «eccellente» in due terzi delle recensioni, uno status che lo posiziona nella top 10 delle visite della città e una tappa imperdibile per un vero fanatico di calcio. Si comincia con il saluto di Pelé (chi altri?) in varie lingue del mondo, mentre Ronaldinho palleggia in 3D nell’anfiteatro di un museo ricavato all’interno dello stadio Pacaembu, in Praça Charles Miller, dove abitualmente gioca il Corinthians. Realizzato dai designer che si sono occupati del Museu da Língua Portuguesa, è costato circa 15 milioni di euro e si attende una media di 600.000 visitatori all’anno. Sono esposte oltre 1.500 le foto, mentre in sei ore di filmati è possibile ripercorrere la storia della calcio brasiliano, ammirando i gol più significativi. Ma il museo si lascia apprezzare anche se non si è fanatici del futebol, proprio perché si tratta di installazioni interattive, che permettono di rivivere in maniera molto emozionale i fatti salienti della storia del calcio brasiliano, ma anche l’evoluzione della società di un paese che sta radicalmente cambiando. Infatti, non troverete solo riferimenti calcistici, ma più in generale sull’intero Paese, visto che da queste parti, calcio e vita sociale spesso si confondono. Uno degli highlight della visita, è la maglia indossata da Pelé nella finale della Coppa del Mondo 1970, vinta 4 a 1 contro l’Italia, dove O Rei segnò un gol di testa straordinario, restando in cielo come fosse un precursore di Michael Jordan. Immancabile la sezione dedicata al tifo brasiliano, fantasioso e folkloristico, la possibilità di calciare un pallone misurando la velocità del tiro e, per non dimenticare uno dei lutti del Paese, una stanza dedicata alla sconfitta contro l’Uruguay nella finale dei Mondiali 1950 al Maracaña. E proprio il Maracaña pare il grande sconfitto di questa inizativa. Tra Rio de Janeiro e San Paolo vi è una forte rivalità, ma per ospitare questo museo l’ha spuntata quest’ultima, anche se il Tempio del calcio potrà consolarsi con le finali di Confederations Cup e dei Mondiali 2014.

Nel 1962, in Cile, il Brasile si conferma Campione del Mondo, sconfiggendo i padroni di casa nella semifinale e la Cecoslovacchia in finale. Questa volta l’eroe non è Pelé, fermato da un infortunio, ma Garrincha, celebre per una malformazione alle gambe che gli consentivano delle finte straordinarie, al punto da risultare imprendibile. Il Brasile, con Pelé e Garrincha in campo insieme, non ha mai perso una partita.

1970

In Messico sconfigge in finale l’Italia per 4-1 con quella che viene considerata la migliore squadra nazionale di sempre. Tra gli altri, Pelé, alla sua ultima finale mondiale, Carlos Alberto, Jairzinho, Tostão, Gerson e Rivelino. Con questo successo, il Brasile conquista la Coppa Rimet per la terza volta, trattenendolo a titolo definitivo secondo quanto previsto dal regolamento FIFA.

1994

Nella finale dei Mondiali americani a Pasadena, sotto un sole che ti spacca in quattro, per dirla alla Dan Peterson, il Brasile vince ai rigori contro l’Italia. Sbagliano Baresi, Massaro e Baggio.

2002

In Giappone disputa la terza finale consecutiva in un Mondiale e per la prima volta nella storia del torneo, affronta la Germania. Il Brasile vince 2 a 0 con doppietta di Ronaldo.

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19 NOVEMBRE 1969

O MILÉSIMO Edson Arantes do Nascimiento, meglio conosciuto come Pelé, segna il suo gol numero mille. E un paese intero gli rende omaggio

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l nostro Paese si stava bruscamente risvegliando dal boom economico, con la protesta giovanile a rappresentare un momento di rottura e il futuro caratterizzato da una difficile e complessa crisi energetica. Nel 1969, la Camera approva la legge che introduce il divorzio, ma l’Italia viene ferita dalla strage di Piazza Fontana. La Fiorentina di Pesaola vince il suo secondo scudetto e Felice Gimondi la 52° edizione del Giro d’Italia, mentre il film di Dennis Hopper, Easy Rider, sposta l’attenzione del cinema americano sulle problematiche giovanili. Il 19 novembre 1969, a Milano si registrano degli scontri nei quali resta ucciso l’agente di polizia Antonio Annarumma, mentre in quello stesso giorno a Rio de Janeiro, Pelé segna il suo gol numero mille. Edson Arantes do Nascimento gioca con il Santos al Maracanà di Rio de Janeiro. Avversario il Vasco da Gama per la Taca de Prata, una delle tante manifestazioni che da sempre caratterizzano l’attività calcistica brasiliana, prima ancora della nascita del campionato nazionale, due anni più tardi, nel 1971. Quando Pelé gioca quella partita, ha già vinto Libertadores e Intercontinentale col Santos e due coppe Rimet col Brasile, firmando 999 gol. Quando l’arbitro fischia un calcio di rigore in favore dei paulisti ci vogliono cinque minuti perché tutti si possano sistemare dietro la porta del numero 1 del Vasco, Andrada. È davvero difficile capire cosa sia passato nella testa di Pelé in quei momenti. Pelé viene portato in trionfo, il Brasile si ferma, la notizia fa il giro del mondo, la partita naturalmente viene sospesa. Anche in questo caso, per O Rei si fa un’eccezione. Ma ci sono due versioni: una dice che il match finì in quell’istante, l’altra che terminò regolarmente 2-1 per il Santos. Ma anche sulla data si fatica: alcuni scrivono che O’Milésimo, come intimamente i brasiliani chiamano quel gol, sia giunto nel 1971 e non nel 1969, che pur resta la data ufficiale. Va detto che qualche dubbio statistico rimane: Pelè segnava anche nelle partitelle infrasettimanali e in Brasile, paese allergico agli almanacchi, non si butta via niente. Così, i 1.000 gol di Pelé sono infarciti di tutto un po’. A fine carriera gli saranno accreditate 1.281 reti ufficiali. Di fronte alla gente estasiata, Pelé lanciò solo un appello: «Per l’amore di Dio, gente mia, ora che tutti mi state ascoltando: aiutate i bambini poveri, aiutate gli abbandonati. È tutto ciò che chiedo in questo momento speciale».

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PACCHETTI VIAGGIO Turista fai-da-te? Mmh, durante i Mondiali non sarà impresa facile, visto che hotel, biglietteria e ristoranti saranno presi d'assalto. Per non rischiare, meglio affidarsi ad un'agenzia specializzata. Vi consigliamo BluFreccia (blufreccia.com) che si occupa di pacchetti-viaggio sportivi all-inclusive, con voli, pernotammenti e soprattutto gli agognati biglietti. Servizio impeccabile e la certezza che tutto fili liscio.

THE TOUR Il sito Internet si chiama riofootballtour.com e vi offre la possibilità di conoscere meglio la realtà del calcio brasiliano (anche lontano dal periodo dei Mondiali). Si comincia col visitare alcune sedi e stadi dei principali club di Rio, dal Botafogo al Flamengo, dal Fluminense al Vasco da Gama con tanto di quiz a premi. Non mancano i racconti (e le leggende…), la visita al Maracaña e i biglietti per una partita serale della squadra che preferite.

FOOTBALL BAR I bar fronte-spiaggia di Copacabana e Ipanema non mancheranno di trasmettere le partite ma saranno anche trappole per turisti. I puristi dei football bar possono dunque ripiegare sul bar Cobal, nel quartiere di Leblon (Rua Gilberto Cordoso), giusto di fronte alla casa del Flamengo. Schermi giganti, cibo più che discreto e birra che scorre a fiumi, oltre alla compagnia di tanti appassionati (non solo del Flamengo).

STADIO Un appassionato di calcio che si definisca tale, non può andare a Rio de Janeiro e non vistare lo stadio Maracaña. Insieme al Cristo Redentore e alle bellezze che animano le spiagge, sono un must della città. Appena rinnovato, si giocherà la finale (anche della Confederations Cup) alla quale potranno assistere 85.000 persone (comodamente: un tempo invece ampie zone erano dedicate al pubblico in piedi e si superavano i 200.000 spettatori).

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HOTEL Attenzione, il sito Internet della FIFA ha già posto la scritta sold out sugli hotel più famosi, come il Copacabana o il Caesar Park di Ipanema. E anche i meno lussosi rischiano di costare caro nel periodo dei Mondiali. Se volete rimanere nella top class, è segnalata disponibilità nel cinque stelle Royal Tulip, posto di fronte alla spiaggia di Sao Conrado, una zona abbastanza tranquilla. Dista 29 chilometri dall'aeroporto e 16 dallo stadio Maracaña.

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APPS Per avere Rio de Janeiro sempre in tasca, potete affidarvi alle vecchie, care guide cartacee (magari scegliendo una nuova edizione, visto che la città si evolve in maniera molto rapida). Oppure affidarvi ad una app da scaricare sul proprio smartphone o tablet. Rio de Janeiro Travel Guide vi tiene infortmati su tutto quello che c'è da vedere, con tanto di mappe, realtà aumentata per le principali attrazioni e ammennicoli vari.

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FALCAO

L'ottavo re di Roma. Centrocampista centrale di rara eleganza, ha vinto uno scudetto con la Roma, ma è stato anche aspramente criticato per aver rinunciato a tirare un rigore nella finale di Coppa Campioni persa contro il Liverpool. A lui il compito di far girare io Brasile più forte di sempre, quello del 1982 (non ha vinto il Mondiale, ma è un dettaglio. Ah, Moana Pozzi afferma di aver a lungo flirtato con lui: e questo non è un dettaglio.

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CARECA

MA-GI-CA. Li chiamavano così a Napoli, Maradona-Giordano-Careca. Quando sei veloce e hai piedi educati come Antônio de Oliveira Filho, è possibile segnare 19 gol in una sola stagione. E la Serie A di fine anni 80 era un campionato tosto. Tuttavia, supponiamo fosse più facile se a lanciarti era Diego Armando. Col Napoli ha vinto uno scudetto, una Coppa UEFA e una Supercoppa italiana, prima di svernare a fine carriera in Giappone.

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THIAGO SILVA

Per capire quanto fosse apprezzato dai tifosi roosoneri, il mantra dell'anno scorso era: «Agli arabi date pure Ibra, ma teniamoci Thiago». Peccato che gli arabi la pensassero allo stesso modo, dal loro punto di vista. Difensore con piedi da regista, fisico importante, veloce e potente, gran senso della posizione e in grado di garantire una mezza dozzina di gol a stagione. È (molto) probabilmente il miglior difensore centrale del mondo.

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CAFU

Per tutti, Il Pendolino (oggi sarebbe Il Freccia Rossa, ma tant’è). Capitano della Seleçao per sei anni, è l’unico giocatore ad aver disputato tre finali Mondiali consecutive (vincendone due) e la Roma sborsò 13 miliardi, che per un terzino son tantini. Con i giallorossi ha vinto lo scudetto, poi pensava di chiuder ein Giappone. Decise di fare una capatina al Milan: il tempo di vincere campionato, Chamèions League e Intercontinentale.

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RONALDINHO

Quello visto a Barcellona, avrebbe lottato per il primo posto. Al Milan invece, è arrivato sgualcito: 26 gol e 25 assist in 95 partite non sono numeri da marziano, come eravamo abituati a giudicarlo in maglia blaugrana. Piede destro raffinato, è capace come nessuno di farti l'elastico, roba che un giro su YouTube vi costa. In Nazionale ha cominciato con l'U15, ha finto col vincere il Mondiale 2002. Gioca ancora, compassato, nell'Atletico Mineiro.

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SOCRATES

«Lento come un rimpianto, vizioso, versami un'altra birra amigo, preoccupato più della dottrina di Marx che degli inserimenti in avanti del centravanti». L'ha definito così Furio Zara, nel suo celebre Bidoni. El Taco de Dios è stato uno dei tanti flop che ci hanno rifilato i brasiliani. Grande eleganza e indubbio talento, l'Europa deve essergli parsa un incubo, abituato com'era ai ritmi di Rio. A Firenze l'hanno sopportato un anno solo.

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TOP 10

FROM BRAZIL WITH LOVE C'è chi è diventato l'ottavo Re di Roma e chi si è affermato come il miglior centrale difensivo del mondo. Chi è arrivato all'apice della carriera e chi per strappare gli ultimi applausi. C'è anche chi è voluto tornare in Brasile e chi, l'Italia, non l'ha più abbandonata. Di giocatori brasiliani in Serie A ne sono arrivati tanti: alcuni hanno perfino ciccato la trasferta, ma uno solo è diventato Il Fenomeno

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ZICO

L'1 giugno 1983 arriva una notizia-bomba: Zico, allora il più forte giocatore del mondo, è stato ingaggiato dall'Udinese. Uomo-assist e goleador, era infallibile nei calci da fermo, con la palla che sembrava indirizzata in curva, prima di precipitare nel sette. Nello Stadio Friuli sia massano 26.000 abbonati, roba mai vista da quelle parti. Poi si infortuna, e l'anno dopo viene arrestato con l'accusa di aver costituito capitali all'estero e non torna più.

RONALDO

Capocannoniere all-time dei Mondiali (15 gol in 19 partite), è stato tra i pochi capaci di vincere da soli una partita. Quando puntava il difensore, diventava imprendibile, con le sue finte e la sua velocità. Avevano ragione quelli dell'Inter: il Fenomeno ce l'abbiamo noi.

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KAKÀ

Qualcuno aveva perfino ironizzato sul nome, appena ingaggiato dal Milan. Dopo 270 presenze, 54 gol, un Campionato, una Champions e un'Intercontinentale, si sono tutti ricreduti. Ha vinto il Mondiale del 2002 e solo col trasferimento dai rossoneri al Real Madrid ha cominciato la sua parabola discendente. Nei giorni belli, le sue accelerazioni tagliavano in due le difese. Dava merito di tutto a Dio e ai tifosi ancdava bene anche così.

ALTAFINI

I più giovani lo ricordano per le sue divertenti telecronache sportive. I meno giovani, per le sue doti di cannoniere. Con la maglia del Milan segna una quadripletta in un derby. con le maglie di Milan, Napoli e Juve, segna 295 gol in 599 partite. In Brasile lo chiamavano Mazzola, per la sua somiglianza con Valentino Mazzola, del Grande Torino e con la maglia verdeoro ha vinto Il Mondiale 1958, al fianco di un certo Pelé.

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Pistone, Centofanti, Roberto Carlos: per Hodgson la gerarchia era quella. Come, in una ipotetica playlist, mettere Albano e Zarrillo prima di Lou Reed.

to. A fine stagione viene cacciato. Cioè: a Hodgson viene chiesto di stilare una lista con gli uomini su cui puntare per la stagione successiva dopo i disastri del campionato (Inter settima, a -19 punti dal Milan di Capello che vince il suo quarto scudetto in cinque anni). Nella lista il nome di Roberto Carlos non c’è. Non pervenuto. Il brasiliano viene ceduto al Real Madrid (al Real Madrid!) per sette miliardi di lire. Era stato comprato per sei. Capito chi ha fatto l’affare? Va detto: nessuno lo rimpiange. Succederà dopo, quando la Storia avrà capito da che parte stare (non da quella di Hodgson). Per dovere di cronaca, bisogna ricordare che Roberto Carlos, dopo l’addio all’Inter, ha giocato undici anni nel Real Madrid vincendo quattro volte la Liga e tre volte la Supercoppa di Spagna. Si è pappato anche tre Champions League, due Coppe Intercontinentali e una Supercoppa Uefa. Con la maglia del Brasile, con cui ha giocato 125 partite, ha vinto il Mondiale

del 2002, è stato bronzo Olimpico alle Olimpiadi di Atlanta 1996 e si è toto lo sfizio di portare a casa due Coppa America. Pelè (Pelè) l’ha inserito nella lista dei 125 giocatori più forti di tutti i tempi. Vabbè. Federico Pistone è invece rimasto all’Inter un anno in più di Roberto Carlos. Da allora ha giocato prevalentemente all’estero, dieci anni in Inghilterra, tra Newcastle e Everton, in mezzo una tappa a Venezia, prima di chiudere la carriera a 33 anni, in Belgio, al Mons. Chiuso col calcio si è fatto crescere baffi e pizzetto. È entrato nel businnes della ristorazione e, a Milano, gestisce un locale specializzato in prodotti romagnoli. Qualche buontempone l’ha definito «Il re della piadina». Infine, Felice Centofanti ha giocato nell’Inter solo quell’anno, il ‘95-96. Poi ha girato l’Italia: Genoa, Ravenna, Padova, Bassano. Ha vinto un campionato di C2, a Padova, stagione 2000-2001. Quando ha smesso, per quattro anni ha lavorato a Striscia la Notizia. Faceva l’inviato. Il suo grido di battaglia era semplice: «Felice Centofanti li sistema tutti quanti».

Roberto Carlos è nato a Garça, Brasile, 10 aprile 1973. Con la Seleçao ha vinto i Campionati del Mondo nel 2002, la Coppa America nel 1997 e 1999 e la Confederations Cup nel 1997. In 11 anni di Real Madrid ha vinto 4 volte la Liga, 3 la Champions League e 2 la Coppa Intercontinentale.

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A

IL BIDONE RICICLATO

LA TRIVELA DI QUARESMA TESTO DI EL BARRENDERO

bbiamo tutti rimosso, ma c’è stato un tempo in cui Roberto Carlos, e dico Roberto Carlos, veniva considerato un talpone cieco, un terzino, certo sinistro ma nel senso di inquietante. Gli venivano preferiti, con tutto il rispetto, tale Alessandro Pistone e tale Felice Centofanti, che poi - più in là negli anni e a carriera finita - sarebbe andato a fare l’inviato a Striscia la Notizia, nelle vesti di Capitan Ventosa, fate un po’ voi. Era l’Inter che Roy Hodgson aveva ereditato dopo un solo mese di campionato da Ottavio Bianchi, scaricato dopo l’eliminazione al primo turno in Coppa Uefa col Lugano (il Lugano!), e qui potremmo farla finita. Per dire: a novembre di quell’anno, era il 1995, Mr. Roy chiese (e ottenne) l’acquisto di Alessandro Pistone, perché a sinistra c’era un buco da coprire e non aveva, lui misero e lui tapino, soluzioni valide. Pistone, Centofanti, Roberto Carlos: per l’inglese la gerarchia era quella. Come, in una ipo-

tetica playlist, mettere Albano e Zarrillo prima di Lou Reed. Ci può stare, se quella mattina hai fatto colazione con corn flakes e acido lisergico. Parte la stagione 1995-96, Moratti è presidente dell’Inter da pochi mesi. Gli dicono che in Brasile c’è un ragazzo di ventidue anni che gioca nel Palmeiras, è forte, gli assicurano, ha un tiro straordinario, potente e preciso. Moratti non perde tempo. Ma c’è un problema. Roberto Carlos è già bloccato da un’altra squadra. Il Parma. Tanzi, Parmalat, Brasile, Palmeiras: il giro è quello. Ma tutti i problemi si superano. Il Parma, semplicemente, si fa in là, si scansa, non oppone resistenza. Sei miliardi di lire è quanto costa Roberto Carlos all’Inter. Moratti vuole fare una grande squadra. Sono sei anni che l’Inter non vince lo scudetto. E non era manco sua, quell’Inter. Era di Ernesto Pellegrini. Quell’anno si presentano alla Pinetina trentaquattro nuovi giocatori. Tra i tanti: Zanetti e Rambert (i dirigenti si danno di gomito, è Avioncito Rambert quello

forte), Paul Ince, Ganz, Benny Carbone, Fresi. (Ok, quell’anno l’Inter compra anche giocatori dimenticati e dimenticabili come Pedroni e Caio, ma questa è un’altra storia). Quella è un’Inter bislacca, pensata e assemblata male. E Roberto Carlos galleggia nella mediocrità che lo circonda. Alla fine: 30 partite e 5 gol. Ma i numeri non dicono tutto. Ogni tanto azzecca qualche numero da circo, stordisce i tifosi interisti (che lo fischiano) con le sue clamorose sventole di sinistro, ma sono pennellate senza il quadro. C’è poi questo piccolo particolare. Roberto Carlos non difende. Essendo brasiliano, considera la difesa un disonore, la rincorsa all’avversario una vergogna, il tackle uno scorno alla propria morale. Dalla sua parte le squadre avversarie trovano corridoi appena lucidati da infilare di corsa, come chi pattina in ciabatte col vento a favore. Il ragionevole dubbio, nel processo a Roberto Carlos è il seguente: che sia l’uomo giusto nel posto sbaglia-

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WHO Il Cristo Redentore e, sullo sfondo, lo stadio Maracanã

WHERE Rio de Janeiro, Brasile

WHEN 10 maggio 2013

WHY Per ricordare i due simboli della città più amata (e divertente) del Brasile.

WHAT La collina del Corcovado è continuamente presa d’assalto dai turisti che corrono a visitare il simbolo di Rio: la statua del Cristo Redentore (già, non le ragazze di Ipanema). Ma per l’appassionato di calcio, la Mecca appare sullo sfondo. Lo stadio Mário Filho, meglio conosciuto come Maracanã, ospiterà la finale della Confederations Cup. Dopo la ristrutturazione che ha obbligato a creare solo posti a sedere, la capienza è stata ridotta a 92.000 spettatori (quando in passato alcuni eventi hanno fatto registrare oltre 200.000 presenze) photo by Vanderlei Almeida AFP / Getty Images

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WHO Tifoso del Corinthians

WHERE San Paolo, Brasile

WHEN 12 dicembre 2012

WHY L’amore verso la propria squadra si manifesta anche per la strada.

WHAT Il Corinthians non è una squadra come le altre. Basta andare a spulciare nel nostro Cucchiaio e leggere l’intervista a Socrates. Fondata nel 1910 d aun gruppo di operai portoghesi, spagnoli e italiani, voleva opporsi allo strapotere delle più blasonate squadre pauliste. Nella sua storia ha vinto 5 campionati brasiliani, una Copa Libertardores e due Mondiali per Club. E così, i suoi supporter amano manifestare in maniera estrema e plateale l’amore per la propria squadra. Anche dopo una semplice vittoria contro la squadra egiziana dell’Al Alhy nella semifinale del Mondiale per Club 2012. photo by Yasuyoshi Chiba Getty Images

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WHO Ragazzi di strada

WHERE Favela Guarani, San Paolo, Brasile

WHEN 11 maggio 2013

WHY Per non dimenticare quello che il boom economico del paese rischia di far dimnnticare.

WHAT Molti fuoriclasse brasiliani provengono dalle poverissime favelas di Rio e San Paolo. Si gioca sulla spiaggia o su campetti improvvisati, incastrati in mezzo a case diroccate che sembrano resistere per iracolo. Si corre sul terriccio duro e a piedi nudi, tre bastoni di legno a far da porta e la voglia di trovare, grazie al futebol futebol, la strada che permetta di lasciare una condizione di estrema povertà e pericolo. Conosciamo i nomi di chi ce l’ha fatta, ma restano anonimi tutti quelli finiti nella rete della criminalità . photo by Nelson Almeida Getty Images

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Editoriale DI LORENZO CAZZANIGA

È IL PAESE PIÙ COOL DEL MOMENTO: MARE, BELLE RAGAZZE, BOOM ECONOMICO E TANTO CALCIO. IL BRASILE HA SEMPRE ESERCITATO UN CERTO FASCINO SU NOI ITALIANI. E mai come in questo periodo, tale fascino appare giustificato, visto lo stridere nel paragone. Da una parte l’Italia che arranca, che fatica ad arrivare a fine mese, che si riscopre d’un tratto vecchia e un po’ superata. Dall’altra un paese giovane, certamente contradditorio ma che sta vivendo una crescita economica e (in parte) sociale da far invidia. Una tendenza che si riflette sulla maggior passione nazionale, il calcio. Una volta, i giocatori brasiliani facevano carte false per arrivare in Europa. Adesso sono i club europei obbligati a fare carte false per acchiappare le stelle del Brasileirão. L’ultimo caso è quello di Neymar che il Barcellona ha strappato alla concorrenza di PSG, Real Madrid, Manchester United e City. Tutti in coda con il numerino in mano, come in precedenza era accaduto con Lucas e come succederà per i prossimi crack. Eppure... Eppure il Brasile non è fra le prime tre favorite del Mondiale di casa, che si disputerà nell’estate del 2014, con la finale prevista nel rinnovato Maracanã. Perché sul campo, il marketing conta poco e, a partire dallo stesso Neymar, bisognerà dare concretezza a questo movimento in trend positivo. Per riuscirci hanno richiamato l’uomo delle grandi imprese e dell’ultimo Mondiale vinto, nel 2002 in Giappone: Felipe Scolari. Però i dubbi permangono. Non tanto quelli legati ai ritardi nella costruzione di certi stadi o ai problemi di sicurezza in un paese dove il tasso di criminalità resta ancora preoccupante. Per quelli è prevista una mobilitazione nazionale che rassicura. Parliamo essenzialmente di dubbi tecnici. Argentina, Germania e Spagna appaiono un gradino sopra alla Seleçao, con Italia, Francia, Olanda e Inghilterra a giocarsela senza complessi e nuove realtà come il Belgio in grado di diventare gradite sorprese. Insomma, non è da escludere un altro Maracanazo, a distanza di 64 anni da quella disfatta definita come la Hiroshima del calcio brasiliano. Nel 1950, dopo la sconfitta con l’Uruguay nel Maracanã addobbato a festa, José Lins do Rego scrisse: «Ho visto un popolo a testa bassa, con le lacrime agli occhi, senza parole, lasciare lo stadio come se tornasse dal funerale di un amatissimo padre. Ho visto un popolo sconfitto, e più che sconfitto, senza speranza. Questo mi ha fatto male al cuore». Il rischio che possa accadere qualcosa di simile non è per nulla da escludere. Nel frattempo godetevi questo secondo numero di Football Magazine Italia. Ci rivediamo in edicola nel mese di settembre. Vi aspetta uno speciale SFIDE! SFIDE!. Ci sarà (ancora) da divertirsi.

Neymar è finalmente giunto in Europa. Dalla prossima stagione vestirà la maglia del Barcellona e giocherà al fianco di Xavi, Iniesta e soprattutto Leo Messi. Non male come prospettiva. Abbiamo chiesto a tre esperti made in Sky Sport (Massimo Mauro, Giancarlo Marocchi e Daniele Adani) di pronosticare il suo impatto. Voi cosa ne pensate? Scrivetelo a: info@footballmagazineitalia.com

DA NON PERDERE Vi sono diversi articoli che vale la pena gustarsi, ma in particolare vi suggeriamo di non perdere assolutamente: 1. IL PERSONAGGIO NEYMAR Paulo Passos ha avuto l’opportunità di passare un’intera giornata con Wagner Ribeiro, il procuratore di Neymar (e di tante altri). La cronistoria di una giornata-tipo che ci aiuta a capire quanto sono richieste le nuove star made in Brazil. 2. UN ALTRO MARACANAZO? Massimo Callegari ha spiegato perché il Brasile attende con grande impazienza il Mondiale 2014 ma anche come, analizzando la situazione attuale, la Seleçao rischia di finire leccandosi le ferite. 3. JOGA BONITO, BRAZIL! Tim Vickery ha studiato l’evoluzione del calcio brasiliano, sfatando tanti miti (come quello che li vuole scarsi in difesa) e spiegando l’interazione tra calcio, politica e società. Un’analisi approfondita che ci svela diversi aspetti sui quali vale la pena riflettere.


Solide basi per grandi sfide.

Foto Gianni Dal Magro

Stadio San Siro, Milano

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Direzione e redazione Sports Publishing & Management Srl corso Garibaldi, 49 - Milano www.footballmagazineitalia.com Direttore responsabile Lorenzo Cazzaniga lorenzo@footballmagazineitalia.com Caporedattore Riccardo Bisti info@footballmagazineitalia.com

Hanno scritto El Barrendero, Massimo Callegari, Luca Ferrato, Massimo Marianella, Paulo Passos, Giuliano Pavone, Simone Stwenti, David Tryhom, Marcel Vulpis, Tim Vickery Hanno fotografato Antonio Righetti e Chiara Mirelli Photo Agency Getty Images

Photo editor Marco Falcetta

Stampa Grafiche Mazzucchelli Via Cà Bertoncina 37/39/41 24068 Seriate (BG) Italia Tel: (+39) 035 292.13.00 Fax: (+39) 035 452.01.85 info@grafichemazzucchelli.it Distributore per l’Italia M-dis S.p.A. Via Cazzaniga, 19 20132 Milano tel. 02/25.82.1 Registrazione n.48 del 25 febbraio 2013 presso il Tribunale di Milano

Art director Der Prinz


UTORS.

PAULO PASSOS

GIORNALISTA BRASILIANO, HA PASSATO UNA GIORNATA COL PROCURATORE DI NEYMAR PER RACCONTARE IL PERSONAGGIO PIÙ ATTESO DEI MONDIALI 2014

DAVID TRYHOM

HA REALIZZATO L'ULTIMA INTERVISTA A SOCRATES. MA NON HA PARLATO SOLO DI CALCIO GIOCATO

MARCEL VULPIS

GRANDE ESPERTO DI ECONOMIA APPLICATA AL CALCIO, CI HA ILLUSTRATO LE SPESE FOLLI PER GLI STADI DEI MONDIALI 2014

TIM VICKERY

TANTI MITI DA SFATARE NELLA TATTICA DI GIOCO BRASILIANA. E PRIMA ANCORA DEL JOGO BONITO CONTA...IL SUCCESSO

MAGAZINE


.CONTRI

MASSIMO CALLEGARI

GRANDE ESPERTO DI CALCIO SUDAMERICANO HA RISPOSTO ALLA DOMANDA PIÙ ASSILLANTE: IL BRASILE VINCERÀ I MONDIALI 2014?

LORENZO CAZZANIGA

ANCHE NEL LATO BRASILIANO, IL DIREKTOR SI È OCCUPATO DI CUCCHIAI. E DI UN PORTIERE FINITO MALE

EL BARRENDERO

IL BIDONE RICICLATO MADE IN BRAZIL? ROBERTO CARLOS. OVVIAMENTE IN MAGLIA NERAZZURRA.

FOOTBALL


AMARELINHA

LA SCARPA DI NEYMAR

56

55 Si chiama Hypervenom ed è stata studiata dagli ingegneri Nike con la collaborazione di fuoriclasse come Neymar, Rooney e Ibra. Per essere più veloci, anche negli spazi stretti.

È la maglia della Seleçao, ribattezzata Battaglia sul Campo, una competizione per ragazzi i cui match si disputano su varie superfici per sviluppare le loro qualità tecniche.

60 IL DRAMMA DI MOACYR

Moacyr Barbosa era il miglior portiere del mondo. Ma anche quello che ha subìto il gol decisivo nella finale dei Mondiali 1950… by Lorenzo Cazzaniga

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sommario / giugno - agosto 2013

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INTERVISTA SOCRATES

Il Tacco di Dio e la sua ultima intervista, prima di lasciarci, nel 2011. Una testimonianza straordinaria, che va ben oltre una partita di calcio. by David Tryhom

MONDIALI 2014: IL BRASILE

Quale sarà la formazione del Brasile ai Mondiali 2014? Abbiamo provato ad anticipare le mosse di Felipe Scolari. Alcuni giocatori hanno il posto assicurato, altri dovranno lottare…


sommario / giugno - agosto 2013

Il giocatore più atteso. Abbiamo passato una giornata col suo procuratore per capire il fenomeno che rappresenta. E l'impatto che potrà avere. by Paulo Passos

Roberto Carlos è diventato uno dei migliori terzini sinistri nella storia del calcio brasiliano. Eppure, all'Inter gli fu preferito perfino Capitan Ventosa… by El Barrendero

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16 IL BIDONE RICICLATO

THE PLAYER NEYMAR

34 MONDIALI 2014 MARACANAZO?

Per i brasilaini, vincere il Mondiale di casa è un diritto, ancor prima che un dovere. Ma, allo stato attuale, quali sono le reali possibilità della Seleçao? by Massimo Callegari

40 JOGA BONITO, BRAZIL!

Che la nazionale brasiliana sia dedita al solo gioco d'attacco è un mito da sconfessare. Ma il compito di Scolari è farle ritrovare una chiara identità. by Tim Vickery

46 PORTFOLIO PELÉ

Il più grande giocatore di tutti i tempi ritratto in alcune immagini storiche. E un ritratto scritto per il Time da un ex Segretario di Stato americano. by Henry Kissinger




FOOTBALL MAGAZINE IL GIOCO PIÙ BELLO DEL MONDO

ITALIA / TRIMESTRALE / GIUGNO

IL PERSONAGGIO

NEYMAR ROBERTO CARLOS DA SILVA

SARÀ UN ALTRO MARACANAZO?

IL BIDONE RICICLATO

MONDIALI 2014

L'ULTIMA INTERVISTA A SOCRATES

EDSON ARANTES DO NASCIMENTO

IL CUCCHIAIO

PORTFOLIO

HANNO SCRITTO EL BARRENDERO MASSIMO CALLEGARI PAULO PASSOS DAVID TRYHOM TIM VICKERY MARCEL VULPIS


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