UN TEMA CENTRALE DEL DESIGN DELLA LUCE È CERTAMENTE IL RAPPORTO FRA SORGENTI LUMINOSE E OGGETTO-LAMPADA. LE LAMPADINE, PER FORMA E DIMENSIONE MA SOPRATTUTTO PER CARATTERISTICHE ILLUMINOTECNICHE, COSTITUISCONO UN OBBLIGATO PUNTO DI PARTENZA DELL’ITER PROGETTUALE. ANCHE SE NON MANCANO STORICI ESEMPI, QUESTA SENSIBILITÀ D’APPROCCIO SI È MOLTO SVILUPPATA DI RECENTE E VI HA CONTRIBUITO IN MODO SIGNIFICATIVO IL PROGRESSO DELLA RICERCA E LA DISPONIBILITÀ PRODUTTIVA DI SORGENTI DIFFERENTI PER PROPRIETÀ E PRESTAZIONI. A CENTRAL ISSUE IN DESIGNING LIGHT IS MOST CERTAINLY THE RELATIONSHIP BETWEEN THE LIGHT SOURCE AND THE LAMP-OBJECT. BECAUSE THEY VARY IN SHAPE AND SIZE, BUT ESPECIALLY IN TERMS OF TECHNICAL LIGHTING CHARACTERISTICS, LIGHT BULBS CONSTITUTE A MANDATORY STARTING POINT FOR THE DESIGN PROCESS. THOUGH THERE IS NO DEARTH OF HISTORIC PRECEDENTS, THIS AWARENESS CONSTITUTES A RELATIVELY RECENT APPROACH AND HAS CONTRIBUTED SIGNIFICANTLY TO THE PROGRESS REGISTERED IN THE RESEARCH AND PRODUCTION OF LIGHT SOURCES OFFERING DIFFERENT PROPERTIES AND PERFORMANCE.
FOSCARINI LUX.3
LUX.3 FOSCARINI
EDITORIALE
LAMPADE E LAMPADINE UN TEMA CENTRALE DEL DESIGN DELLA LUCE – ANCHE SE DI FREQUENTE TRASCURATO NELLE ANALISI E NELLA LETTERATURA – È CERTAMENTE IL RAPPORTO FRA SORGENTI LUMINOSE E OGGETTO-LAMPADA. LE LAMPADINE, PER FORMA E DIMENSIONE MA SOPRATTUTTO PER CARATTERISTICHE ILLUMINOTECNICHE, SONO, O DOVREBBERO ESSERE, UN OBBLIGATO PUNTO DI PARTENZA DELL’ITER PROGETTUALE. LA SENSIBILITÀ PER TALE MODALITÀ D’APPROCCIO SI È MOLTO SVILUPPATA DI RECENTE, E A QUESTO HA CONTRIBUITO IN MODO SIGNIFICATIVO IL PROGRESSO DELLA RICERCA ILLUMINOTECNICA E LA DISPONIBILITÀ PRODUTTIVA DI SORGENTI DIFFERENTI PER PROPRIETÀ E PRESTAZIONI. NON SONO MANCATE NATURALMENTE NEGLI ANNI NUMEROSE E PRESTIGIOSE ECCEZIONI A UNA CERTA INDIFFERENZA DEI DESIGNER A MUOVERE DALLA LAMPADINA. FRA QUESTI VANNO ANNOVERATI, SOLO PER FARE UNA COPPIA D’INSINDACABILI ESEMPI, I FRATELLI ACHILLE E PIER GIACOMO CASTIGLIONI E GINO SARFATTI. ALLE SORGENTI LUMINOSE E AI LORO CARATTERI È DEDICATA UNA PARTE IMPORTANTE DEL NUOVO NUMERO DELLA RIVISTA FOSCARINI LUX, CHE SI PRESENTA CON UNA VESTE RINNOVATA NEI CONTENUTI E NELLA GRAFICA. L’INTENZIONE È DI FORNIRE STRUMENTI E INFORMAZIONI SEMPRE PIÙ AMPIE, SCIENTIFICAMENTE AGGIORNATE E D’AVANGUARDIA, SU QUANTO RIGUARDA IL VASTO TEMA DELLA LUCE, “LETTO” DA MOLTEPLICI PUNTI DI VISTA. COME L’ARTISTA TURRELL LA IMPIEGA NEL SUO OPERARE CREATIVO; COME UN ILLUSTRATORE NE FA LA “PROTAGONISTA” DELLE SUE STORIE. SENZA DIMENTICARE I CONTRIBUTI ARTICOLATI RELATIVI ALLA CAPACITÀ DELLE MATERIE PLASTICHE DI DIALOGARE CON LA LUCE; O ANCORA COME, NEL CORSO DEL TEMPO, SI È FATTO LUCE CON TECNOLOGIE SEMPLICI ED ELEMENTARI O SFRUTTANDO PRINCIPI E MATERIALI “NATURALI”. DENTRO QUESTO CONTESTO, TESO AD ALLARGARE IL PANORAMA E GLI STRUMENTI PER CHI OPERA NEL MONDO DELL’ILLUMINAZIONE, SI COLLOCANO OPPORTUNAMENTE LE RICERCHE FOSCARINI NEL DESIGN CONDOTTE CON PATRICIA URQUIOLA, MA ANCHE – PERCHÉ NO – LA NUOVA ORGANIZZAZIONE AZIENDALE, CON GLI AMPLIATI SPAZI E L’AGGIORNATA STRUTTURAZIONE RESI POSSIBILI DALLA SEDE DELL’AZIENDA DI RECENTE INAUGURATA. LUX SI PONE IN SOSTANZA L’AMBIZIOSO OBIETTIVO DI DIVENIRE – ASSIEME AGLI ALTRI ELEMENTI CHE CARATTERIZZANO L’AGIRE DELL’AZIENDA, DALL’INNOVAZIONE DEL PRODOTTO ALLA PROGETTAZIONE VISIVA AL SISTEMA GLOBALE DI CERTIFICAZIONE E QUALITÀ – UNO DEGLI STRUMENTI FORTI DELLA CULTURA D’IMPRESA FOSCARINI. LUX DA GUARDARE, LEGGERE, METTERE DA PARTE PERCHÉ UTILE, PRAGMATICAMENTE E CULTURALMENTE, A COMPRENDERE IL MONDO 0DEL DESIGN DELLA LUCE.
EDITORIAL
LAMPS AND LIGHT BULBS A CENTRAL THEME IN LIGHTING DESIGN – WHICH IS FREQUENTLY IGNORED IN ANALYSES AND LITERATURE – IS REPRESENTED BY THE RELATIONSHIP BETWEEN LIGHT SOURCES AND THE LAMP-OBJECT. LIGHT BULBS, BECAUSE OF THEIR SHAPE AND SIZE BUT PRIMARILY BECAUSE OF THEIR TECHNICAL LIGHTING CHARACTERISTICS, ARE, OR SHOULD BE, A REQUIRED STARTING POINT IN THE DESIGN PROCESS. AWARENESS OF THIS APPROACH IS IN FACT RELATIVELY RECENT, STIMULATED PRIMARILY BY THE PROGRESS IN TECHNICAL LIGHTING RESEARCH AND THE AVAILABILITY OF LIGHT SOURCES THAT OFFER DIFFERENT PROPERTIES OF LIGHT AND PERFORMANCE. THERE HAVE OF COURSE BEEN MANY PRESTIGIOUS EXCEPTIONS OVER THE YEARS TO THE DESIGNERS’ LACK OF INTEREST IN BEGINNING THE PROCESS WITH THE LIGHT BULB. THEY INCLUDE THE BROTHERS ACHILLE AND PIER GIACOMO CASTIGLIONI AND GINO SARFATTI, JUST TO NAME TWO INDISPUTABLE EXAMPLES. THE LATEST ISSUE OF FOSCARINI’S LUX MAGAZINE, WHICH APPEARS WITH A NEW GRAPHIC IMAGE AND NEW CONTENTS, DEDICATES A SIGNIFICANT SECTION TO LIGHT SOURCES AND THEIR CHARACTERISTICS. THE INTENTION IS TO PROVIDE BETTER INSTRUMENTS AND MORE SCIENTIFICALLY UP-TO-DATE AND AVANT-GARDE INFORMATION ON EVERYTHING THAT CONCERNS THE VAST FIELD OF LIGHT, FROM A VARIETY OF PERSPECTIVES. HOW ARTIST JAMES TURRELL USES IT IN HIS CREATIVE WORK; HOW AN ILLUSTRATOR MAKES IT THE “HERO” OF HIS STORIES. NOT TO FORGET THE WELLARTICULATED FEATURES ON HOW PLASTICS CAN DIALOGUE WITH LIGHT; OR HOW, OVER TIME, LIGHT HAS BEEN CREATED WITH SIMPLE ELEMENTARY TECHNOLOGY, OR BY EXPLOITING “NATURAL” MATERIALS AND PRINCIPLES. THIS CONTEXT, WHICH INTENDS TO BROADEN THE HORIZONS AND THE INSTRUMENTS OF THOSE WHO WORK IN THE FIELD OF LIGHTING, PROVIDES THE BACKGROUND FOR THE DESIGN RESEARCH THAT FOSCARINI IS CONDUCTING WITH PATRICIA URQUIOLA AND, WHY NOT, THE NEW COMPANY ORGANIZATION, WITH ITS NEW SPACES AND UPDATED STRUCTURE MADE POSSIBLE BY THE RECENTLY INAUGURATED COMPANY HEADQUARTERS. LUX’S AMBITION IS BASICALLY TO BECOME A POWERFUL INSTRUMENT OF FOSCARINI’S BUSINESS CULTURE, ALONG WITH THE OTHER FACTORS THAT CHARACTERIZE THE COMPANY’S ACTION, FROM PRODUCT INNOVATION TO VISUAL DESIGN TO THE GLOBAL QUALITY AND CERTIFICATION SYSTEM. LUX IS MEANT TO BE LOOKED AT, TO BE READ, AND TO BE KEPT BECAUSE IT IS USEFUL, PRAGMATICALLY AND CULTURALLY, FOR UNDERSTANDING THE WORLD OF LIGHTING DESIGN.
CONTENTS
EDITORIALE EDITORIAL
001 LAMPADE E LAMPADINE LAMPS AND LIGHT BULBS MATERIALI E TECNOLOGIE MATERIALS AND TECHNOLOGY
004 OGNI COSA CHE FA LUCE: STRUMENTI E FANTASIE DELL’ILLUMINAZIONE ALL THE THINGS THAT MAKE LIGHT: INSTRUMENTS AND FANTASIES FOR LIGHTING 016 QUALE LAMPADINA PER QUALE LUCE? THE RIGHT BULB FOR THE RIGHT LIGHT 036 PLASTICHE... RIFLESSIONI REFLECTIONS ON… PLASTIC DESIGN&DESIGNER
054 PATRICIA URQUIOLA E LA LAMPADA BAGUE PATRICIA URQUIOLA AND THE BAGUE LAMP AZIENDA COMPANY
068 LA NUOVA SEDE FOSCARINI THE NEW FOSCARINI HEADQUARTERS ARTE ART
JAMES TURRELL: LA LUCE 080 COME VISIONE E CORPO JAMES TURRELL: LIGHT AS VISION AND BODY MATTOTTI 088
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MATERIALI E TECNOLOGIE
OGNI COSA CHE FA STRUMENTI E FANTASIE DELL’ILLUMINAZIONE
MATERIALS AND TECHNOLOGY
ALL THE THINGS THAT MAKE LIGHT: INSTRUMENTS AND FANTASIES FOR LIGHTING English text p. 10
A LUCE: 05
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MATERIALI E TECNOLOGIE_MATERIALS AND TECHNOLOGY
OGNI COSA CHE FA LUCE: STRUMENTI E FANTASIE DELL’ILLUMINAZIONE di Raimonda Riccini
Nel celebre racconto delle Mille e una notte, il mago che invita Aladino a entrare nella stanza del tesoro lo incita a prendere solo e soltanto la lampada di bronzo al centro del padiglione. “Esercitando la sua arte e leggendo nelle tavole geomantiche, egli aveva un giorno scoperto che in una città della Cina era nascosto un tesoro meraviglioso, quale nessun re della terra aveva mai posseduto e che la cosa più stupefacente di questo tesoro era una lampada magica e che chi la possedeva diventava così ricco e così potente che il più ricco e il più potente sovrano della terra sarebbe parso un mendicante al suo confronto”. Nulla meglio delle narrazioni favolistiche ci offre il senso profondo che gli oggetti hanno nella storia dell’uomo: la piccola lampada a olio di Aladino possiede nel racconto un valore
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assoluto fra tutti gli altri tesori, valore che è impersonato dalla potenza magica del genio in essa contenuto. Fare luce con oggetti, produrre un chiarore continuato per aumentare, sottraendolo alle tenebre, il tempo di vita, è una delle imprese più antiche della tecnica umana. I segni indelebili della fuligine sui muri delle caverne, i reperti emersi dagli scavi indicano che fin dai tempi remoti gli uomini non si limitavano a controllare il fuoco, ma fabbricavano strumenti per fare luce. Erano soprattutto torce, ricavate dal legno, ma anche veri e propri recipienti modellati per contenere materiale combustibile e disposti in maniera organizzata all’interno degli ambienti, come quelli ritrovati nelle grotte di Lascaux. Torce e lampade a combustibile grasso sono dunque i due principali artefatti per illuminare, sviluppati in mille varianti di forme e di utilizzo. In Europa, per molto tempo, rimarranno gli unici, almeno fino a quando, nella prima epoca cristiana, le candele divennero strumenti liturgici, che lentamente conquistarono anche le abitazioni, rischiarando tanto gli interni domestici quanto le chiese con il loro corredo di semplici bugie o candelabri cesellati e candelieri preziosi. Oltre alle candele, oggetti di luce più di ogni altro carichi di significato devozionale e votivo, non tardano ad apparire fin dall’antichità oggetti luminosi dotati di uno speciale valore: simbolico o sacro, come nel caso della fiaccola olimpica, o comunicativo, come il sistema dei segnali per trasmettere notizie sviluppato in Grecia nel III-II secolo prima di Cristo, un sistema “telegrafico” luminoso a stazioni. Il faro di Alessandria, eretto sull’isoletta di Pharos – che ha impresso la sua traccia nel nome di tutte le torri di guardia alle coste marine –, è il mitico progenitore di un’ampia categoria di segnalatori, ultimi fra i quali le intermittenze su torri di controllo aeree, grattacieli e montagne, luminose vedette di voli notturni. Oggi siamo circondati di luci con funzione di segnalatori che parlano il linguaggio della luce: dai display delle nostre apparecchiature tecniche ai semafori stradali, alle sirene delle vetture di soccorso, ai rilevatori luminosi. Gran parte di questo drappello di piccoli oggetti sono led, diodi che emettono luce quando sono attraversati da una corrente. I led, che hanno grandi prospettive di applicazione, vengono utilizzati come indicatori di tensione nelle apparecchiature elettroniche, nei visualizzatori alfanumerici, nelle luci delle auto, negli schermi, nella illuminazione civile. Alla Grecia antica risale anche l’uso dell’illuminazione per il teatro: durante le rappresentazioni, che si svolgevano di giorno, lampade a olio erano usate per ottenere “effetti speciali”. L’uso della luce in ambito teatrale, per manifestazioni e feste pubbliche si sviluppa a partire dal XV secolo con lampade alimentate a olio vegetale, animale, candele di cera e di sego, torce di pino e resina. Vasari racconta nelle sue Vite della macchina realizzata da Brunelleschi per la festa dell’Annunciata a Firenze, con lumi coperti da protezioni in rame, azionati da molle che occultavano o scoprivano le luci a seconda dell’esigenza. Nel 1560, nei suoi Dialoghi, Leone de’ Sommi descrive scene teatrali con sistemi illuminanti in movimento, che potevano essere velati per diminuirne l’intensità fino al buio completo. Sono prodighi di descrizioni di queste invenzioni i trattati di scenografi come Serlio e Sabbatini, dove si parla delle suggestioni procurate da lumi di carta, vetro, tela dipinta. È del Seicento l’invenzione della ribalta, che rimase in uso per molto tempo presso i teatri: sulla linea del boccascena erano sistemate candele o lampade a olio, olio di trementina, petrolio e altri grassi combustibili, poste in recipienti di vetro, fino alle lampadine elettriche di mille colori riprese in tanti film sull’avanspettacolo, come il recente musical Chicago di Rob Marshall. A teatro si misero a punto anche gli effetti speciali luminosi quali lampi, arcobaleno, effetti di sole e di luna, nubi in movimento ottenute con l’ausilio di sole luci. I lampi venivano provocati da contatti intermittenti che, per mezzo di specchi riflettenti, riverberavano baleni di luce, mentre per l’arcobaleno si utilizzava il prisma di cristallo. Lo spettacolo, con il suo bisogno di incantare e stupire, è stato un grande
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FISCHIETTO LUMINOSO PER CANI SORDI, OGGETTO INTROVABILE, JACQUES CARELMAN A LUMINOUS WHISTLE FOR DEAF DOGS, A HARD-TO-FIND OBJECT, JACQUES CARELMAN
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crogiolo di altre invenzioni per fare luce, come nel caso dell’antica arte dei fuochi d’artificio. Sono però le lanterne magiche – macchine in forma di lanterne – ad anticipare la luce cinematografica dei nostri giorni. Con una fonte luminosa che brilla all’interno di una scatola ottica, la lanterna magica proiettava nel mondo immagini ingigantite, facendole fluttuare davanti a occhi sbigottiti come quelli di Marcel Proust, che la rievoca nelle pagine della Recherche. E nell’Ottocento, finalmente appaiono la lampada a gas, che rende possibile regolare l’intensità della luce, e la lampada elettrica, che sembra superare e annullare ogni altro sistema. Da allora si moltiplicano invenzioni, proposte, brevetti, fantasie e anticipazioni di nuovi modi di produrre la luce e di nuovi oggetti per renderla fruibile, in corrispondenza di cresciute esigenze sociali e culturali: dai potenti lampi dei flash fotografici, alle lampade per i minatori e gli speleologi, dai fari per cicli, motocicli e automobili, a tutte le forme nuove come le lampade a scarica, le lampade luminescenti, le lampade a vapore di mercurio… L’elettricità ha moltiplicato oggetti ma anche cavi e connessioni. Oggi le fibre ottiche, che trasportano la luce in condotti con sottili fili o fibre di vetro o di materiale plastico, sembrano poter sbrogliare il mondo dalla intricata matassa dei cavi che l’avvolge e al tempo stesso trasportare la luce in tutti gli ambienti. Ai nostri giorni le loro applicazioni sono molteplici, in particolare nei luoghi dedicati allo spettacolo e all’intrattenimento pubblico, ma anche all’interno di microspazi e in ambiti che sarebbe difficoltoso, se non impossibile, illuminare con gli apparecchi tradizionali, per esempio in mezzo all’acqua, tra materiali facilmente infiammabili o alterabili da parte dell’energia termica. Si realizzano forse le fantasie di Jules Verne, che aveva irradiato con i tubi luminescenti a gas con bobina di induzione Ruhmkorf le profondità sotterranee nel viaggio al centro della Terra, così come le spedizioni subacquee di capitan Nemo. La creazione letteraria ci consegna il Nautilus, nel momento finale dell’affondamento con il suo capitano, con i fari di prua perennemente accesi, verso il futuro.
ALL THE THINGS THAT MAKE LIGHT: INSTRUMENTS AND FANTASIES IN LIGHTING by Raimonda Riccini In the famous tale from the Thousand and one nights, the wizard who invites Aladdin to enter the treasure room warns him to take only the bronze lamp at the center of the pavilion. “Exercising his art and reading the geomantic tables, one day he had discovered that in a city in China, there was a fantastic hidden treasure, which no king on earth had ever possessed, and the most amazing thing in this treasure was a magic lamp, and anyone who possessed it would become so rich and powerful that the richest and most powerful sovereign on earth would seem a beggar in comparison.” There is nothing better than the narration in fairy tales to reveal the profound meaning held by objects in the history of mankind: in the story, Aladdin’s little oil lamp is the only one among all the treasures to possess an absolute value, a value impersonated by the magical power of the genie within it. To generate light out of objects, to produce a lasting brightness that increases the time available for living, by eclipsing it from the darkness, is one of the most ancient endeavours of human technology. The indelible signs of soot on cavern walls, the artifacts found in excavations indicate that since the dawn of times men have not been content to control fire, but have manufactured instruments to make light. They were primarily torches, carved out of wood, but also vessels shaped to contain combustible matter and arranged in an organized manner inside the living environment, like the ones found in the
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ELFO, DENIS SANTACHIARA, FOSCARINI, 1999
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caves at Lascaux. Torches and lamps fired by combustible oils were thus the two principal artifacts used for lighting, developed in thousands of variations of shapes and uses. They remained the only ones in Europe for the longest time, at least until candles became liturgical instruments during the first Christian era, and slowly found a place in the home, to brighten up both domestic and church interiors with arrays of simple candles or chiseled candelabras and precious candlesticks. Besides candles, objects of light which more than any other are laden with devotional and votive significance, Antiquity soon witnessed the appearance of other lighting objects endowed with particular value: symbolic or sacred objects, like the Olympic torch; objects for communication, like the signal system developed in Greece to relay news in the second and third centuries before Christ, a luminous “telegraphic” system based on stations. The Alexandria lighthouse, erected on the island of Pharos, which has left its name on all the guard towers along the sea coast, is the mythical ancestor of an ample category of signaling devices, the latest of which are the intermittent lights on the control towers in airports, on skyscrapers and mountains, luminous scouts for nighttime flights. Today we are surrounded by lights that function as signaling devices and speak the language of light: from the display panels on our technical equipment, to traffic lights, to the sirens of emergency vehicles, to sensor lights. Most of this array of tiny objects are LEDs, diodes that emit light when electricity runs through them. LEDs, which have enormous application potential, are used as indicators of electrical current in electronic devices, in alphanumeric visualizers, in car headlights, on screens, in street lighting. Ancient Greece also invented theatre lighting: during the performances, which took place during the day, oil lamps were used to create “special effects”. The use of lighting in the theatre, or for public events and celebrations, increased after the fifteenth century with lamps fueled by vegetable or animal oil, wax or tallow candles, pine and resin torches. In his Lives, Vasari describes the machine made by Brunelleschi for the Feast of the Annunciation in Florence, which used candles shielded by copper screens, activated by springs that covered or uncovered the lights as required. In 1560, in his Dialogues, Leone de’ Sommi describes theatre scenes with moving lighting systems, that could be screened to diminish their intensity and even create total darkness. The treatises by scenographers such as Serlio and Sabbatini are full of descriptions of similar inventions, and mention the suggestive qualities of paper, glass and painted canvas lights. Footlights are a seventeenth century invention, and were used in theatre for a very long time: the edge of the proscenium was lined with candles or lamps fueled with oil, turpentine oil, petroleum or other combustible matter in glass jars; they are the precursors of the rainbow-colored electric lights that may be seen in so many films about the entertainment industry, like the recent musical Chicago by Rob Marshall. The theatre also perfected special lighting effects such as lightning, rainbows, sunlight and moonlight, moving clouds, all achieved with the help of simple lights. The lightning was provoked by intermittently switching the light on and off, using mirrors to reverberate the flashes of light, whereas crystal prisms were used to make rainbows. Entertainment, with its compulsion to enchant and astonish, was a great source of light-making inventions, for example the ancient art of fireworks. But it was the magical lantern, a machine in the shape of a lantern, that anticipated the cinematic light of our times. With a light source shining inside an optical box, the magical lantern projected giant magnified images into the world, making them fluctuate before awestruck eyes, like those of Marcel Proust, who reminisces about it in the pages of his Recherche. Gas lamps finally appeared in the nineteenth century, allowing the intensity of the light to be controlled, and were quickly followed by the electric light bulb, which seems to overrule and invalidate any other system. Since then, there has been a proliferation of
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inventions, projects, patents, fantasies and anticipations of new ways to produce light and new objects that can exploit it, corresponding to increasing social and cultural needs: from the blinding light of camera flashbulbs, to lamps for miners and speleologists, to headlights for bicycles, motorcycles and automobiles, to all the new forms such as discharge lamps, luminescent lamps, mercury vapor lamps… Electricity has multiplied not only objects, but wires and connections as well. Optical fibers, which transport the light in optical conduits containing fine strands or fibers made of glass or plastic, seem able to clear the world of the intricate mass of cables and wires that surround it, and to bring light into all places at the same time. They have many applications today, especially in theatre and public entertainment venues, but also within microspaces and other places where it might be difficult, if not impossible, to provide light with traditional fixtures, for example under water, or near inflammable materials, or materials that could be altered by thermal energy. Perhaps Jules Verne’s fantasies are coming true: he used luminescent gas tubes with a Ruhmkorf induction bobbin to light the underground depths in his voyage to the center of the Earth, and for the underwater expeditions of Captain Nemo. This literary creation left us the Nautilus which, in the final chapter when it was sinking with its captain, had its prow lights permanently switched on to point to the future. Raimonda Riccini Ricercatrice dell’Università Iuav di Venezia, si occupa di storia del disegno industriale. Fra le pubblicazioni: Giuseppe Zecca: il design come professione, Skira, Milano, 2003; Imparare dalle cose (a cura di), Clueb, Bologna, 2003. Fa parte del comitato scientifico della XX Triennale di Milano. She is a researcher at the Università IUAV in Venice. She is specialized in the history of industrial design. Her publications include: Giuseppe Zecca: il design come professione, Skira, Milan, 2003; Imparare dalle cose (edited by), Clueb, Bologna, 2003. She is a member of the scientific panel of the XX Triennale di Milano.
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ACHILLE E PIER GIACOMO CASTIGLIONI, XI TRIENNALE DI MILANO, ALLESTIMENTO DELLA SALA CONGRESSI, 1957 ACHILLE E PIER GIACOMO CASTIGLIONI, XI TRIENNALE DI MILANO, CONFERENCE ROOM DESIGN, 1957
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MATERIALI E TECNOLOGIE
QUALE LAMPADINA
MATERIALS AND TECHNOLOGY
THE RIGHT BULB FOR THE RIGHT LIGHT English text p. 28
A PER QUALE LUCE?
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MATERIALI E TECNOLOGIE_MATERIALS AND TECHNOLOGY
QUALE LAMPADINA PER QUALE LUCE? di Alberto Pasetti
Il percorso evolutivo della luce artificiale riconduce l’origine delle prime tipologie di corpi illuminanti alle settecentesche e ottocentesche lampade a petrolio e a gas. Quasi contemporaneamente al perfezionamento e all’ampia diffusione di queste fonti di luce, nel 1879 è posta l’origine della prima lampadina elettrica, concepita da Edison secondo quella notissima forma a bulbo di vetro con filamento. Solo a cavallo tra i due secoli iniziò realmente la produzione industriale delle sorgenti ad incandescenza che hanno accompagnato la straordinaria evoluzione della luce artificiale fino ai giorni nostri. Allo stato attuale è interessante notare il permanere di questa storica tipologia per la produzione di energia luminosa, nonostante la vastissima gamma di sorgenti alternative caratterizzate da livelli prestazionali e qualitativi di gran lunga superiori alla tradizionale lampadina a bulbo con filamento di tungsteno. Per comprendere meglio le ragioni di questa coesistenza, ma soprattutto quali siano i principi che permettono di orientarsi e scegliere oggi una sorgente luminosa in una panoramica molto ampia, è necessario chiarire alcuni concetti di base che apparentemente possono sembrare banali ma rimangono di fatto essenziali nel campo dell’illuminotecnica. La prestazione verso la qualità Le sorgenti luminose artificiali di cui possiamo disporre sono quasi esclusivamente legate a un principio di trasformazione dall’energia elettrica all’energia elettromagnetica nel campo del visibile. Questo fenomeno è accompagnato da molteplici effetti collaterali, uno tra i quali conferma l’impossibilità
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LAMPADINE, LIGHT BULBS
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HAVANA, JOZEPH FORAKIS, FOSCARINI, 1993
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di trasformare tutta l’energia elettrica assorbita in luce visibile. Tali dissipazioni sono principalmente di carattere termico e costituiscono quindi una quota parte di energia che non contribuisce all’illuminazione. Pertanto se una sorgente è definita a bassa efficienza luminosa1 si intende che il rapporto tra l’energia assorbita e quella ceduta sotto forma di luce sia sfavorevole. Una sorgente con elevata efficienza luminosa, a parità di potenza assorbita, emetterà un quantitativo di flusso luminoso superiore rendendone l’impiego favorevole sotto il profilo energetico con un livello di dissipazione di energia termica inferiore. Se l’efficienza energetica costituisce una delle principali preoccupazioni dei costruttori per garantire migliorie tecniche che vadano incontro alle crescenti esigenze di economicità d’utilizzo, di riduzione dell’impatto ambientale e dei costi di produzione, altri parametri vanno individuati per scegliere una sorgente. Stabilito il valore sulla quantità di luce da produrre, si tratta di capire quali siano le sue proprietà qualitative in termini di rispondenza ai svariati contesti in cui la sorgente è introdotta e per le singole destinazioni d’uso. Si possono distinguere due parametri essenziali: la temperatura di colore e la resa cromatica. Nel primo viene comunemente fatto riferimento a un valore numerico “°K” (gradi Kelvin)2 che individua su una scala stabilita convenzionalmente, la tonalità di una sorgente distinta tra “luce calda”, “luce bianca” e “luce fredda”. Il secondo parametro, trattando il tema colore, riguarda il quesito sulla scelta di una sorgente e relativa resa cromatica adatta a soddisfare le caratteristiche di contesto. I costruttori danno come riferimento una scala con valori tendenti al Ra 100, intendendo con quest’ultimo il valore più fedele rispetto al modello ideale di luce naturale. Altri parametri riguardano caratteristiche meno appariscenti ma pur sempre determinanti nella funzionalità della sorgente e sinteticamente riguardano: il tempo di accensione, il decadimento del flusso luminoso, la durata di vita e la posizione di funzionamento. Quest’ultimo, ad esempio, è molto importante nella compatibilità di inserimento di una data sorgente in un corpo illuminante dove, come in molti altri casi, la componente di dissipazione termica diventa un vincolo imprescindibile. Diversamente, le sorgenti ad alta efficienza luminosa che appartengono alla categoria a scarica – di tipo fluorescente, a vapori di mercurio, ad alogenuri, a vapori di sodio e a induzione – consentono posizioni di funzionamento poco vincolanti, fornendo spunti al lighting designer per nuove configurazioni di impiego. La forma verso l’applicazione Affrontando le innovazioni salienti delle sorgenti luminose artificiali, dall’incandescenza alle lampade a scarica3, è interessante notare la presenza evocativa e simbolica che mantiene nel tempo la semplicissima lampada a bulbo con attacco E274, quasi a testimoniare una nostalgia della forma semplice e pulita che ha contribuito a illuminare le nostre abitazioni per decenni. Tuttavia i progressi dovuti alle sorgenti “alternative” sono tutt’altro che trascurabili e riguardano campi di applicazione sempre più specialistici, rispondendo oltre ai benefici di economicità e di efficienza a esigenze legate al benessere fisiologico, alla psicologia della percezione e non ultima alla conservazione e tutela del patrimonio storico-artistico. Le lampade alogene bispina a bassissima tensione con riflettore incorporato, evoluzione tecnica delle sorgenti a tensione di rete, seguendo un principio di miniaturizzazione hanno permesso di ottenere flussi luminosi con minor assorbimento di energia elettrica per applicazioni che richiedessero una luce viva e brillante. La loro temperatura di colore si colloca tra 3.000 e 4.000 gradi Kelvin, pur appartenendo a una classificazione di luce “bianca”, consentono un’ottima resa cromatica. Esistono sorgenti alogene anche a tensione di rete, tuttavia poco impiegate a causa della loro scarsa efficienza luminosa. Inoltre queste sorgenti, sebbene alcune siano dotate di attacchi E27 per l’inserimento nei più comuni apparecchi di illuminazione, risultano costose all’acquisto e caratterizzate da una vita molto
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GEA, NICHETTO E GAI, FOSCARINI, 2004
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ridotta. Le sorgenti con singoli principi di funzionamento, come agli ioduri metallici ad alta e bassa pressione di vapori di sodio e a induzione, sono caratterizzate da livelli di efficienza superiori ma nettamente inferiori nella resa cromatica, richiedono particolari alimentatori e un tempo di accensione dell’ordine di qualche minuto. Rimanendo nella più sviluppata area delle lampade a scarica – dove maggiormente si concentrano le aziende costruttrici con specifiche aree di ricerca – emerge la categoria delle fluorescenti che apre il ventaglio di risposte illuminotecniche rivolte a quasi tutte le esigenze dell’illuminazione pubblica e privata. Nel caso dell’incandescenza, o comunque dove la superficie di emissione sia circoscritta e di poche decine di millimetri, si considera la sorgente di tipo puntiforme. Qualora invece la superficie sia più estesa e tendenzialmente coincida con aree tubolari opaline, come nel caso della fluorescenza, le sorgenti sono definite diffuse. La distinzione tra queste famiglie di lampade è determinante per finalizzare le scelte a particolari usi tecnici o espressivi della luce. Le sorgenti puntiformi sono caratterizzate da livelli di luminanza (la quantità di energia percepita dall’occhio) più elevati ma soprattutto dalla proprietà di generare flussi luminosi di precisione geometrica talmente netta, da richiedere filtri correttivi per sfumare i contorni delle proiezioni a volte troppo rigorose nello spazio. Quelle diffuse sono diversamente adatte per flussi luminosi omogenei senza particolari accenti e meno efficaci se integrate in riflettori.
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MAGGIORE EFFICIENZA LUMINOSA CON PUNTE DI
100
LUMEN/WATT, UNA
MAGGIORE DURATA CON MEDIE DI CIRCA
15.000/20.000 ORE CONTRO LE 4.000 O 5.000 DELLE SORGENTI AD INCANDESCENZA, RIDOTTA EMISSIONE DI INFRAROSSI.
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IL PIÙ POTENTE TUBO FLUORESCENTE LINEARE RAGGIUNGE
80
WATT DI
ASSORBIMENTO EMETTENDO UN FLUSSO LUMINOSO CHE SUPERA I
7.000
LUMEN,
PARAGONABILE AD UNA SORGENTE AD INCANDESCENZA SUPERIORE A
7
300
WATT.
DI RECENTE PRODUZIONE SONO I TUBI FLUORESCENTI DI PRODUZIONE AMERICANA CON MISCELE DI POLVERI TALI DA CREARE UNA DOPPIA EMISSIONE: COLORE BIANCO E
180° DI 180° DI
UN COLORE A SCELTA, APRENDO IL VENTAGLIO DI
Dalla fonte all’innovazione Le lampade fluorescenti, caratterizzate da benefici di ordine economico e tecnico5 si dividono in due categorie 8 principali, quelle tubolari lineari con lunghezze da 470 a 1.500 mm in due diametri di 26 o 16 mm, e quelle 9 a geometrie variabili, denominate più comunemente “compatte”. La fluorescenza, indipendentemente dalla forma, costituisce una formula di produzione dell’energia luminosa ricca di potenzialità sia negli effetti applicativi sia nelle modalità di gestione. Nei tubi è possibile scegliere temperature di colore a piacimento dalle tonalità più calde (2.700 °K) a quelle più fredde (6.000 °K), selezionare tubi a elevatissima efficienza luminosa con ingombri ridottissimi6, scegliere modelli con diversificate combinazioni di polveri fluorescenti (trifosforo, pentafosforo) per elevate rese cromatiche o con effetti monocromatici quali emissioni verde, blu o rosse7. 10 Le fluorescenti compatte non consentono la stessa libertà di applicazione ma certamente negli ultimi anni hanno rappresentato un’alternativa alla comune incandescenza, attraverso migliorie nell’accensione, nella miniaturizzazione dei tubolari e degli alimentatori e soprattutto nella qualità della luce emessa. Diversamente le sorgenti agli ioduri metallici, convenzionalmente riconosciute per la loro elevata efficienza luminosa8 ma per tempi di accensione lunghi9, hanno subito delle migliorie chimico-fisiche degli elementi e componenti interni tali da garantire ottime rese cromatiche, per valori che raggiungono il riferimento Ra 90. Tuttavia non sono dimmerabili10 e producono effetti dissipativi di calore che vanno presi in carico nelle singole soluzioni progettuali. Infine, nella famiglia delle lampade a scarica, e per maggior precisione nel settore a induzione si collocano i led (Lighting Emitting Diode), quali fonti luminose più recenti sul mercato e attualmente tra le più promettenti per le crescenti proprietà illuminotecniche. Il led è un semiconduttore che emette luce se attraversato da una corrente elettrica continua. Il suo funzionamento si basa sul passaggio di elettroni da una parte all’altra del diodo per effetto della loro diversa polarità. La luce emessa è generalmente monocromatica, di colore dipendente dal materiale costitutivo. Oltre ai principali colori standardizzati quali l’ambra, il rosso, il verde e il giallo esiste una gamma crescente che comprende il bianco, con tonalità sempre più vicine alle cromie più richieste (tonalità calda intorno ai 3.000 °K). Anche l’efficienza luminosa è in fase esponenziale di crescita, passando da valori iniziali di pochi lumen/watt a livelli prossimi ai 20/30 lumen/watt. Anche la tecnologia a led ha accolto il principio di miscelazione delle sorgenti primarie rosse, blu e verdi (RGB), consentendo l’applicazione dei moduli lineari o quadrati, con supporti rigidi o flessibili, per gruppi di diodi
EFFETTI LUMINOSI CROMATICI INTERNI AD UNA SINGOLA SORGENTE. EFFICIENZE DELL’ORDINE DEGLI
80/90
LUMEN/WATT.
RICHIEDONO QUALCHE MINUTO PER ENTRARE A REGIME E NECESSITANO DI UN ALIMENTATORE PER LA STABILIZZAZIONE DELLA SCARICA OLTRE AD UN ACCENDITORE CHE ALL’ATTO DELL’ACCENSIONE INVIA ALLA LAMPADA IMPULSI DI TENSIONE DELL’ORDINE DI
4-5 KV.
LA DIMMERABILITÀ, OVVERO LA PROPRIETÀ DI UNA SORGENTE DI VARIARE LA SUA INTENSITÀ LUMINOSA PER MEZZO DI POTENZIOMETRI O ALIMENTATORI ELETTRONICI, HA MUTATO COMPLETAMENTE LA PRESENZA DELLE LAMPADE FLUORESCENTI SULLO SCENARIO TECNICO PERMETTENDO INTERESSANTI REGOLAZIONI DI PRECISIONE, DIGITALI OLTRE CHE ANALOGICHE.
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MATERIALI E TECNOLOGIE_MATERIALS AND TECHNOLOGY
capaci di generare flussi omogenei o concentrati di luce cromaticamente variabile. Tra le principali caratteristiche da ricordare nell’impiego dei led sono da includere le possibilità di impiego di ottiche quali lenti e riflettori per la modulazione del flusso luminoso alla pari dei corpi illuminanti, molto più grandi, attualmente in commercio. Di fatto, il dato più stupefacente riguarda la possibilità, a brevissimo termine, di vedere queste piccole fonti luminose prendere il posto in numerosi campi dell’illuminazione pubblica e privata di applicazioni con effetti sia funzionali che scenografici, sfruttando le ampie potenzialità del controllo elettronico digitale.
1
THE LUMINOUS EFFICIENCY OF A LAMP IS THE RELATIONSHIP BETWEEN THE LUMINOUS FLUX, EXPRESSED IN LUMENS, AND THE ELECTRICAL POWER IT ABSORBS, EXPRESSED IN WATTS.
2
THE COLOR TEMPERATURE, MEASURED IN DEGREES KELVIN, REFERS TO PLANCK’S EXPERIMENT WHERE A GIVEN BODY EMITS LUMINOUS RADIATION IN DIFFERENT COLORS AS A FUNCTION OF THE THERMAL ENERGY IS IT SUBJECTED TO.
THE RIGHT BULB FOR THE RIGHT LIGHT by Alberto Pasetti The evolution process of artificial light locates the origins of the first lighting instrument typologies in the eighteenth and nineteenth century petroleum and gas lamps. At the same time as these light sources were being perfected and widely distributed, in 1879 the groundwork was being laid for the first electrical light bulb, conceived by Edison in the familiar shape of a glass bulb with a filament inside. It was not until the turn of that century that the industrial production of incandescent sources actually began: they would accompany the extraordinary evolution of artificial light to our own times. Currently, it is interesting to note the survival of this historical typology for the production of luminous energy, despite the vast range of alternative sources characterized by far superior levels of performance and quality compared to the traditional light bulb with the tungsten filament. To provide a better understanding of the reason for this coexistence, but especially of the principles that should orient the selection of a light source today out of the wide range of possibilities, it is necessary to explain some basic concepts which may seem apparently simple but in fact remain essential in the field of lighting technology. Performance for quality The artificial light sources that are available to us are almost exclusively determined by the principle of transforming electrical energy into electromagnetic energy in the visible range. This phenomenon is accompanied by a number of collateral effects, one of which confirms the impossibility of transforming all the absorbed electrical energy into visible light. This dissipation is primarily of a thermal nature and constitutes a portion of the energy that does not contribute to light output. Thus if a light source is defined as having a low luminous efficiency1 it means that the relationship between the energy absorbed and the energy released in the form of light is not advantageous. A source that has a high degree of luminous efficiency, using the same absorbed power, will emit a superior quantity of luminous flux making its use favorable from an energetic point of view, with a lesser dissipation of thermal energy. If energy efficiency constitutes one of the major problems for manufacturers who wish to guarantee technical improvements that respond to the growing need for low operating costs, reduced environmental impact and reduced production costs, other parameters must be defined to select a source. Once the value of the quantity of light that must be produced is established, one must understand what qualitative properties are required to respond to the various contexts the source is installed in and the single uses it is intended for. Two essential parameters may be identified: the color temperature and the color rendering index. The first is commonly
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3
MATERIALI E TECNOLOGIE_MATERIALS AND TECHNOLOGY
IN CHRONOLOGICAL ORDER, THE FIRST TO APPEAR WERE THE TYPOLOGIES WITH A FILAMENT IN A VACUUM, THEN THE FILAMENT WITH INERT GASES, FOLLOWED BY A HALOGEN CYCLE AT LINE VOLTAGE AND LOW VOLTAGE.
4
THE MORE COMMON SOCKETS ARE PRODUCED IN A
27MM
AND
14MM
DIAMETER, WHERE THE LETTER E IS A TRIBUTE TO THE INVENTOR THOMAS ALVA EDISON.
identify the tone of a source as “warm light”, “white light” or “cool light”. The second parameter deals with the issue of color, and addresses the selection of a source with a color rendering that can satisfy the characteristics of the context. Manufacturers use a scale of reference with values that tend towards Ra 100, this being the most faithful value of an ideal model of natural light. Other parameters regard less apparent characteristics that are nevertheless important to the functionality of the source and in synthesis deal with: warm-up time, the deterioration of light output, the life of the source and the position it functions in. This last characteristic, for example, is very important to determine whether a given light source is compatible for installation in the lamp. In this case, as in many others, the thermal dissipation component becomes an important restriction. On the contrary, sources with a high luminous efficiency in the discharge category (fluorescent, mercury vapor, halogens, sodium vapor and induction) may be positioned more freely, offering lighting designers ideas for new application configurations. Form for applications In observing the major innovations in artificial light sources, from incandescent3 to discharge bulbs, it is interesting to note the symbolic and evocative hold that the simple light bulb with the E27 socket4 has maintained over time, as if to demonstrate our nostalgia for the clean and simple forms that have contributed to lighting our homes for decades. However the progress and innovation brought by “alternative” sources have been quite significant and involve increasingly specialized fields of application, offering the advantages of low operating costs and efficiency and satisfying requirements for physiological well-being, the psychology of perception and last but not least the conservation and preservation of our historical and artistic heritage. The very low tension bi-pin halogen lamps with an integrated reflector represent a technical evolution towards the miniaturization of line voltage sources, and allow greater luminous output with a lesser absorption of electrical energy for applications requiring a bright and vivid light. Their color temperature is between 3000 and 4000 degrees Kelvin, and though they are classified in the “white light” category, they have a high chromatic rendering index. Halogen sources are available not only at very low voltage, but also at line voltage, though there is not much demand for them because of their inferior luminous efficiency. They are also expensive on the retail market and are characterized by a very short lifetime. Some are available with E27 sockets so that they can be installed in the most common lighting fixtures. The sources with single working principles, such as metal halide lamps with high or low sodium vapor pressure or induction, have superior degrees of efficiency but a clearly inferior chromatic rendering; they also require specific ballasts and have a warm-up time lasting several minutes. In the more highly developed area of discharge lamps, where manufacturers are concentrated into specific areas of research, fluorescents represent the most significant category, providing a range of technical lighting solutions that cover almost all the requirements of public and private lighting. In incandescence, or other forms where the surface of emission is circumscribed to less than a centimeter, the light source is considered a point source. If the surface is more extended and tends to coincide with the area of opaline tubes, as in the case of fluorescence, the sources are defined as diffused. The distinction between these different groups of lamps is fundamental when the choice is finalized towards particular technical or expressive uses of light. The point sources are characterized by superior levels of brightness (the quantity of energy perceived by the eye) but above all by the ability to generate a luminous flux with such clear geometric precision as to require corrective filters to soften the contours of projections which are often too sharp for the space. On the contrary the diffused lamps are suitable for a homogeneous luminous output with no particular accents, and are less efficient when installed into reflectors.
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LAMPADINE ALOGENE LINEARI, LINEAR HALOGEN BULBS.
PLANA, VECCHIATO E URBINATI, FOSCARINI, 1984
LED: LIGHTING EMITTING DIODE
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5
MATERIALI E TECNOLOGIE_MATERIALS AND TECHNOLOGY
GREATER LUMINOUS EFFICIENCY WITH PEAKS OF
100
LUMENS/WATT, A
LONGER LIFE WITH AN AVERAGE OF
15.000/20.000
HOURS COMPARED TO THE
4.000
OR
5.000
HOURS OF
INCANDESCENT SOURCES, REDUCED INFRA-RED EMISSIONS.
6
THE MOST POWERFUL LINEAR FLUORESCENT TUBES REACH AN ABSORPTION OF
80
WATT AND EMIT A
LUMINOUS FLUX SUPERIOR TO
7.000
LUMENS,
COMPARABLE TO AN INCANDESCENT SOURCE OF OVER
7
300
WATT.
IN AMERICA, FLUORESCENT TUBES HAVE BEEN RECENTLY PRODUCED WITH MIXTURES OF POWDER ABLE TO CREATE A DOUBLE EMISSION:
180° OF WHITE 180° OF ANY
COLOR AND
CHOSEN COLOR, OPENING A RANGE OF LUMINOUS CHROMATIC EFFECTS WITHIN A SINGLE SOURCE.
8
THEIR EFFICIENCY IS CALCULATED AT
80/90
LUMENS/WATT.
9
THEY TAKE SEVERAL MINUTES TO WARM UP COMPLETELY AND REQUIRE A BALLAST TO STABILIZE THE DISCHARGE AND A STARTER TO SEND VOLTAGE IMPULSES OF AROUND
4-5
KV TO THE LAMP TO LIGHT IT.
10
DIMMERING, THAT IS THE PROPERTY OF A LIGHT SOURCE TO VARY ITS LUMINOUS INTENSITY WITH THE AID OF A RESISTOR OR AN ELECTRONIC BALLAST, HAS TOTALLY ALTERED THE PRESENCE OF FLUORESCENT LAMPS ON THE TECHNICAL SCENE, ALLOWING INTERESTING PRECISION ADJUSTMENT, BOTH DIGITAL AND ANALOGICAL.
From the source to innovation Fluorescent lamps, which are characterized by their clear economical and technical advantages5, may be divided into two main categories: the linear tubular lamps, available in lengths ranging from 470 to 1500 mm and in two diameters, 26 and 16 mm, and the lamps with variable geometries, more commonly known as “compact fluorescents”. Independently of the shape, fluorescence is a form of luminous energy production that has great potential for both applications and forms of management. Tubes are available in a wide selection of color temperatures from the warmest tones (2.700°K) to the coolest (6.000°K); one can choose tubes with a very high luminous efficiency in very small sizes6, or models with diversified combinations of fluorescent powders (triphosphor, pentaphosphor) for superior color rendering, or monochromatic effects such as red, blue or green emissions7. The compact fluorescent bulbs do not have the same freedom of application but in recent years they have represented an alternative to common incandescence, thanks to improvements in warm-up times, to the miniaturization of the tubing and ballasts, and especially the quality of the light they emit. On the contrary, the metal halide sources, conventionally recognized for their excellent luminous efficiency8 but also for their long warm-up times9, have shown improvement in their chemical-physical elements and internal components that guarantee superior color rendering, for values that reach Ra 90 on the scale of reference. However they cannot be dimmered10 and produce a heat dissipation that must be taken into consideration for each single design solution. Finally, the discharge lamp family, more precisely the induction section, includes LEDs (light emitting diodes), the most recent light sources on the market and currently among the most promising in terms of their growing lighting properties. The LED is a semiconductor that emits light when it is excited by a continuous electrical current. This occurs with the passage of electrons from one part of the diode to the other due to their opposing polarities. The light they emit is generally monochromatic, and the color depends on the material they are made out of. In addition to the major standardized colors such as amber, red, green and yellow, a growing range of colors is becoming available including white, in a tone that is increasingly approaching the range that is most in demand (warm tones around 3000°K). Even their luminous efficiency is growing at an exponential rate, from initial values of just a few lumens/watt to levels that now reach 20/30 lumens/watt. LED technology has also adopted the principle of mixing red, green and blue (RGB) primary sources, allowing the application of linear or square modules on rigid or flexible supports, for groups of diodes that can generate a homogeneous or concentrated light output, and can vary chromatically. One of the important characteristics to keep in mind when using LEDs is that they can be fit with optical accessories such as lenses and reflectors that modulate the luminous flux, just like the much larger lighting fixtures currently on the market. The most amazing fact is that in the very near future, these tiny light sources will take the place of applications that provide both functional and scenographic effects in many fields of public and private lighting, exploiting the vast potential of digital electronic control. Alberto Pasetti Nato a Venezia nel 1966, si laurea all’Università Iuav di Venezia nel 1990. Prosegue le sue ricerche presso il Getty Conservation Institute di Los Angeles, il CNR e l’Unité Pédagogique de la Villette a Parigi sul tema Luce e spazio espositivo. Dal 1995 è consulente di enti pubblici e privati in materia di lighting design. Dal 2000 insegna alla facoltà di design e arti Iuav di Venezia. Born in Venice in 1966, he graduated from the Università IUAV in Venice in 1990. He pursued his research at the Getty Conservation Institute in Los Angeles, the CNR and the Unité Pédagogique de la Villette in Paris on the theme Light and the Exhibition Space. Since 1995 he has been a consultant for public and private concerns in the field of Lighting Design. Since 2000 he has taught at the Design and Arts Department at the università IUAV in Venice.
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MATERIALI E TECNOLOGIE
PLASTICHE... RIFLESSIONI
MATERIALS AND TECHNOLOGY
REFLECTIONS ON… PLASTIC English text p. 47
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MATERIALI E TECNOLOGIE_MATERIALS AND TECHNOLOGY
PLASTICHE... RIFLESSIONI di Marinella Levi e Valentina Rognoli
“Più che una sostanza la plastica è l’idea stessa della sua infinita trasformazione, è, come indica il suo nome volgare, l’ubiquità resa visibile […] a qualunque stato la si riduca, la plastica conserva un’apparenza fioccosa, qualcosa di torbido, di cremoso e di congelato, un’incapacità di raggiungere la levigatezza trionfante della natura […] il suo rumore la disfa, così come anche i colori, perché sembra poterne fissare solo i più chimici: del giallo, del rosso, del verde, prende solo la stato aggressivo, servendosi di essi come un nome, capace di mostrare soltanto dei concetti di colore”. Così sentenziava Roland Barthes nel 1957 (I miti d’oggi, Einaudi, Milano 1974, tit. or. Mythologies, 1957). Pochi mesi addietro però, la prima mostra internazionale dell’estetica delle materie plastiche, allestita alla Fiera di Milano, aveva consacrato un binomio, quello tra materiali polimerici e disegno industriale che, nonostante le scettiche visioni di Barthes, da allora si sarebbero definitivamente congiunti in una sorta di indissolubile sodalizio. Cinquant’anni erano trascorsi dai giorni in cui Leo Bakeland era riuscito a ottenere la prima materia plastica totalmente sintetica – la bakelite appunto – e i tipi di plastica disponibili sul mercato non erano certo quella pressoché illimitata varietà a cui oggi siamo abituati. Oltre alle resine fenoliche, dirette discendenti della bakelite, avevano cominciato a farsi conoscere le rigide e fragili melamminiche e le ureiche, il polietilene ceroso e tenace, il cloruro di polivinile determinato a cambiare il modo di ascoltare la musica, il polistirene e il polimetilmetacrilato, diafani e luminosi – destinati a infrangere lo strapotere del vetro, fino ad allora sovrano incontrastato dell’incantato regno dell’essere trasparente. Ed è con loro che la plastica si apriva a una per lei nuova modalità di interazione con la luce.
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BLOB, PARTICOLARI, DETAILS, FOSCARINI, 2002
BLOB, KARIM RASHID, FOSCARINI, 2002
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MATERIALI E TECNOLOGIE_MATERIALS AND TECHNOLOGY
La luce, elemento fondamentale (della nostra capacità di vedere) per la visione, intuizione suprema alla quale si racconta persino il Creatore rivolse l’attenzione prima di iniziare la sua poliedrica opera di costruzione del mondo. In realtà da oltre trecento anni, ossia dopo le scoperte di Newton e Huygens, era dato di comprendere quali fossero le principali modalità di interazione della luce con la materia. Si faceva strada così la possibilità, oggi acquisita, di caratterizzare i materiali secondo parametri fotometrici, con l’intento cioè di conoscere e misurare quanto la materia fosse capace di relazionarsi con un’entità tanto diversa e così ‘strana’ (da essere poi riconosciuta come portatrice di una doppia natura, sia ondulatoria, come il suono, che corpuscolare come la materia stessa…). Si poteva così distinguere tra la possibilità per la luce di essere riflessa come da un metallo ben lucidato, diffusa come da un foglio di carta ruvida, assorbita come da una pietra nera o trasmessa come da una lastra di cristallo. E mentre i fisici affinavano le loro teorie per spiegare definitivamente i fenomeni dell’ottica, si assisteva a un fiorire di aggettivi, destinati a entrare anche nel linguaggio del progetto, che in realtà altro non sono che parametri descrittivi in grado di quantificare le relazioni tra la materia e la radiazione luminosa che la colpisce. Alcuni di questi, come trasparente, traslucido e opaco, attengono alla trasmissione, altri, come gloss e matte (brillante e opaco), hanno invece a che fare con la riflessione e la diffusione. In particolare, poiché la totalità della luce incidente è sempre uguale alla somma della luce riflessa più quella assorbita più quella trasmessa, diremo che sono trasparenti i materiali in grado di trasmettere, cioè di lasciarsi attraversare da una parte rilevante della luce che li colpisce (magari riflettendone una piccola percentuale), mentre appariranno opachi quelli che assorbono almeno una parte delle frequenze contenute nella radiazione che li colpisce. A questo riguardo potremo ricordare che la luce bianca copre una piccola porzione del cosiddetto spettro della radiazione elettromagnetica. Questo spettro si estende dalle cortissime e penetrantissime lunghezze d’onda proprie dei raggi gamma e dei raggi X (la cui lunghezza è inferiore al millesimo di miliardesimo di millimetro, 10–6 nanometri, per gli amanti della notazione scientifica), alle lunghissime e godibilissime onde radio (lunghe anche decine di chilometri). Fra questi due estremi si colloca la radiazione luminosa, il nostro spettro del visibile, che copre la piccolissima finestra che va da 400 a 700 nanometri (un nanometro è, per intenderci, la miliardesima parte di un metro). Ma ciò che riteniamo possa risultare piuttosto affascinante è che in questo ridottissimo spazio sono racchiusi tutti i colori percepibili dall’occhio (almeno quello umano, per gli animali è spesso tutta un’altra storia). Così sarà per noi di un penetrante viola un oggetto che assorbe (o trasmette) tutte le lunghezze d’onde eccetto quelle intorno a 400-420 nanometri, blu se riflette (o diffonde) quelle tra 430 e 480, fino a 560 vedremo i verdi, a 570 i gialli, per arrivare in fondo allo spettro con il calore dei 700 nanometri tipici dei rossi (oltre potremmo subito trovare gli infrarossi dei nostri telecomandi, così come sotto il viola avevamo lasciato gli ultravioletti delle lampade abbronzanti). In un quadro così variegato di possibilità può essere interessante fare qualche riflessione su come e quanto le materie plastiche (o materiali polimerici, o semplicemente polimeri, come li chiameremo nel seguito) siano in grado di diversificare la loro capacità di interagire con la luce. Prima di tutto è bene ricordare che mentre i polimeri, come tutti gli altri materiali, possono essere opachi, solo ad alcuni, i cosiddetti polimeri amorfi, è dato di nascere intrinsecamente trasparenti (accomunati in questo alla natura disordinata, amorfa appunto, del vetro). Se a questo si aggiunge che attraverso ormai diffuse e accessibili tecnologie di lavorazione possiamo facilmente mutare sia la composizione che la finitura superficiale dei prodotti, è facile comprendere come le materie plastiche più di altri materiali si prestino a venire progettate secondo le differenti esigenze di interazione con la luce (e, sempre per non dimenticare le analogie, ma anche le differenze rispetto al vetro, è bene ricordare che a questa versatilità i polimeri
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O-SPACE, NICHETTO E GAI, FOSCARINI, 2003
ACT, AIR CUSHION TECHNOLOGY
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O-SPACE, FOSCARINI, 2003
PIGMENTI COLORSTREAM PIGMENTS
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aggiungono la loro notevole leggerezza – pesano meno della metà dei vetri comuni – e la caratteristica tenacità, contrapposta alla fragilità di vetri e cristalli). Tanta versatilità, come è forse intuibile, ha trovato ambiti di interesse nei più diversi settori di applicazione, da quelli carichi di contenuto tecnologico a quelli propri dell’illuminotecnica, fino ai complementi d’arredo e al puro intrattenimento. Così è la trasparenza del policarbonato (oltre alla già citata tenacità, e a una notevole capacità di mantenere esattamente la forma progettata) ad aver consentito la realizzazione dei cd e dei dvd, destinati a sostituire il ‘vinile’ in campo musicale, i ‘dischetti’ magnetici nel supporto delle informazioni, e le ‘cassette’ nell’home-video. A questo punto una riflessione forse ancora più curiosa può essere proposta osservando un po’ più da vicino proprio un oggetto decisamente tecnologico, come un cd. A ben guardarlo, infatti ci si potrebbe accorgere che il supporto di plastica reca sulla superficie delle microscopiche cavità, dette pit, che vengono “lette” dal raggio laser e trasformate in un codice binario, ossia una serie di 0 e 1. Questo accade con qualsiasi tipo di informazione, sia essa la decima di Mahler, il testo che state leggendo o la fotografia della pagina accanto; la sequenza binaria è poi incisa sul disco, ove al valore 1 è associata la parete di un pit, mentre al valore 0 è associata una superficie piana, per esempio il fondo di una cavità. Ma ciò che può rendere tutto ancora più affascinante è sapere che il ben noto aspetto iridescente del lato ‘forato’ dei cd è legato proprio alle microscopiche dimensioni dei pit (dell’ordine di qualche centinaio di nanometri), così piccole da interagire con la luce ottenendo ciò che i fisici chiamano interferenza e diffrazione. Questo tipo di fenomeno è in realtà lo stesso in grado di generare lo splendore di un arcobaleno (perché di minuscole dimensioni sono le goccioline che lo costituiscono) o la tenue cangianza di una bolla di sapone o di una lamina d’olio sull’acqua (grazie ai loro sottilissimi spessori). In tutti questi casi si tratta di colori non generati da pigmenti (come nel caso dei colori ‘chimici’, propri della plastica più quotidiana), ma da cromatismi nati dalla pura interazione della luce con la superficie della materia, effetti che per questo vengono detti colori strutturali. La tecnologia dei polimeri è oggi in grado di progettare le superfici dei suoi materiali perseguendo l’ottenimento di colori strutturali e di effetti spettacolari che peraltro sono stati da sempre dominio della natura, come nel caso delle ali di molti uccelli, farfalle e lepidotteri di esotica memoria. Sono così a disposizione dei progettisti sottili pellicole multilaminate che sovrappongono strati di materiale polimerico con caratteristiche di riflettanza opportunamente modulata, comparabili a veri e propri sistemi ottici. Esse possono creare superfici curve ottenendo effetti che vanno dalla perfetta specularità, a colori estremamente saturi e cangianti sia opachi che trasparenti, la cui tonalità cambia al variare della posizione dell’osservatore. In altri casi si possono ottenere pellicole di spessore variabile (prevalentemente in policarbonato) la cui superficie viene progettata per assumere una struttura microprismatica. In questo modo il materiale appare come riflettente quando osservato con angolazioni inferiori a un angolo critico (intorno ai 30 gradi), mentre la parte della radiazione che colpisce il materiale con angoli superiori viene trasmessa attraverso lo spessore, generando effetti tipici degli ologrammi e, fino a non molto tempo fa, diffusi praticamente solo nella cinematografia fantascientifica (come dimenticare le brevi pause di relax del signor Spock sul ponte ologrammi dell’Enterprise). Queste tipologie di materiale sono utilizzabili per trasportare e distribuire la luce uniformemente con un elevatissimo livello di efficienza. La luce proveniente da una sorgente puntiforme può ad esempio essere guidata attraverso un condotto in modo da formare una sorgente di luce lineare (con più di qualche affinità con il mondo delle fibre ottiche). Altre applicazioni possono creare un’area luminosa uniforme partendo da una superficie illuminante lineare o puntiforme. L’illuminazione che se ne ricava è omogenea, a basso consumo energetico, e i materiali per loro natura estremamente flessibili, leggeri e stampabili. E così si potrebbe continuare con altre mille tipologie ed esempi, alcuni forse ancora da inventare, in cui la luce
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YET, STUDIO KAIROS, FOSCARINI, 2003
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sembra nascere e vivere nel materiale e con il materiale, anch’essa oggetto fra gli oggetti e materia fra le materie, e dove, quasi a avverare la profezia dell’impeccabile Barthes: “La plastica è interamente inghiottita dall’uso: al limite, si inventeranno oggetti per il piacere di usarli”. Forse aveva ragione e sul tema non mancano di certo, a distanza di mezzo secolo, spunti di ulteriore e profonda RIFLESSIONE…
REFLECTIONS ON… PLASTIC by Marinella Levi and Valentina Rognoli “More than a substance, plastic is the very idea of its infinite transformation; it is, as its everyday name indicates, ubiquity made visible (…) whatever its final state, plastic keeps a flocculent appearance, something opaque, creamy and curdled, something powerless ever to achieve the triumphant smoothness of Nature (…) its noise is its undoing, as are its colors, for it seems capable of retaining only the most chemical-looking ones. Of yellow, red and green, it keeps only the aggressive quality, and uses them as mere names, being able to display only the concepts of colors.” Thus sentenced Roland Barthes in 1957 (Mythologies). Only a few months earlier however, the first international exhibition on the aesthetics of plastics, held at the Milan Fairgrounds, had consecrated the alliance between polymeric materials and industrial design which would thereafter represent a sort of indivisible union, despite Barthes’ skeptical visions. Fifty years had gone by since the day Leo Bakeland succeeded in achieving the first totally synthetic plastic – which he called bakelite – and the types of plastic available on the market were certainly not the practically unlimited variety we are used to today. In addition to phenolic resins, the direct descendants of bakelite, the first to appear were the rigid and fragile melaminics and ureics, the waxy and sturdy polyethylene, poly vinyl chloride which was determined to change the way we listened to music, polystyrene and polymethyl methacrylate, diaphanous and luminous, destined to shatter the supremacy of glass, which until then was the unchallenged sovereign in the enchanted realm of transparency. They introduced plastic to a new way of interacting with light. Light, a fundamental element of vision, a supreme intuition which it is said even the Creator turned his attention to before beginning the complex task of constructing the world. In fact, the discoveries of Newton and Huygens more than three hundred years ago, made it possible to understand the most important ways in which light interacts with matter. We are now fully able to characterize materials according to photometric parameters, that is with the intent to understand and measure how matter is able to relate to an entity that is so different and so ‘strange’ (it was later discovered to possess a double nature, both undulatory, like sound, and corpuscular, like matter itself…) One could thus distinguish between the ability of light to be reflected as off a highly polished metal, diffused as through a rough piece of paper, absorbed as if by a black stone or transmitted as if through a plate of glass. And as physicists refined their theories in order to provide a definitive explanation of optical phenomena, there grew a proliferation of adjectives, destined to become part of the design language, which are none other than descriptive parameters that quantify the relationship between the material and the luminous radiation that strikes it. Some of them, like transparent, translucent and opaque, refer to transmission, others, such as gloss or matte have to do with reflection and diffusion. Specifically, since the totality of incident light is always equal to the sum of reflected light plus absorbed light plus transmitted light, we might say that materials are transparent when they can transmit, that is when they allow a significant part of the light that strikes them
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to pass through them (perhaps reflecting only a tiny percentage of it), whereas materials will appear opaque when they absorb at least part of the frequencies contained in the radiation that strikes them. In this regard, we might point out that white light covers only a small section of the so-called spectrum of electromagnetic radiation. This spectrum extends from the very short and penetrating wavelengths belonging to gamma rays and X-rays (whose length is less than a thousandth of a billionth of a millimeter, 10–6 nanometers, for fans of scientific notation), to the very long and enjoyable radio wavelengths (that can be dozens of kilometers long). Light radiation, our visible spectrum, is located between these two extremes, and covers the tiny window between 400 and 700 nanometers (a nanometer, to be precise, is a billionth of a meter). But what we think is quite fascinating is that this tiny space contains all the colors that are perceptible to the eye (at least the human eye, animals are often an entirely different story). Thus an object will appear to us as a penetratingly purple object when it absorbs (or transmits) all the wavelengths except those around 400-420 nanometers, blue if it reflects (or diffuses) all the ones between 430 and 480, up to 560 we will see the greens, at 570 the yellows, reaching the end of the spectrum with the warmth of 700 nanometers, typical of reds (immediately beyond are the infrareds of our TV remote controls, just as below the purples, we find the ultraviolet rays of sunlamps). In such a wide range of possibilities, it might be interesting to consider how and to what degree plastics (or polymeric materials, or simply polymers, as we will call them from now on) are able to modify their capacity to interact with light. First of all one should remember that polymers, like all other materials, can be opaque, while only a few, the so-called amorphous polymers, are created intrinsically transparent (a characteristic they share with the disorderly, or amorphous, nature of glass). If in addition, widespread and accessible technological processes make it easy to change both the composition and the superficial finish of the products, one can understand how plastics, more than other materials, may be designed according to the different ways they need to interact with light (and, to pursue not only the analogies but also the differences with glass, one should remember that in addition to being versatile, polymers are also very lightweight, weighing less than half compared to common glass, and are characteristically rugged, compared to the fragility of glass and crystal). It is thus understandable that their great versatility has stimulated interest in a wide range of fields of application, from highly technological fields to lighting, from furnishing accessories to pure entertainment. Thus the transparency of polycarbonates (in addition to their previously mentioned tenacity, and an amazing capacity for maintaining their original shape) allowed the creation of CDs and DVDs, which would substitute ‘vinyl’ in the field of music, the magnetic ‘disks’ that support information, and home-video ‘cassettes’. At this point, perhaps a more curious consideration might begin with a closer observation of an exquisitely technological object such as a CD. If you look at it closely, you will notice that the surface of the plastic support is covered with microscopic cavities, called pits, which are “read” by the laser beam and transformed into binary code, a series of 0s and 1s. This is true of all types of information, be it Mahler’s Tenth Symphony, the text you are now reading, or the photograph on the next page; the binary sequence is then engraved on the disk, where the value “1” is associated with the wall of a pit, whereas the value “0” is associated with a flat surface, for example the bottom of a cavity. But what makes it more fascinating is that the familiar iridescent appearance of the “pocked” side of the CD is the result of the microscopic dimensions of the pits (a few hundred nanometers), which are so small that they interact with the light to generate what physicists call interference and diffraction. This type of phenomenon is in fact the same one that generates the magnificence of a rainbow (because of the minute dimensions of the drops of water it is formed by), or the tenuous sheen of a soap bubble or an oil film on water (because they are so thin). In all these cases, the colors are not generated by pigments (as they would be in ‘chemical’ colors, used for the most run-of-
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MATERIALE PLASTICO TRASPARENTE. TRANSPARENT PLASTIC MATERIAL.
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the-mill plastics) but by chromatic qualities created by the pure interaction of light with the surface of the material, effects which for this reason are called structural colors. The technology of polymers is now able to design the surfaces of its materials by seeking to achieve structural colors and spectacular effects which have always been the dominion of nature, and may be seen in the wings of birds, butterflies and moths from exotic lands. Designers thus have at their disposal thin multilaminate films which stratify layers of polymeric material with appropriately modulated reflecting properties, comparable to true optical systems. They can create curved surfaces with effects that run from pure mirror reflection, to extremely saturated and iridescent colors, both opaque and transparent, whose tone changes with the position of the viewer. In other cases one can obtain films with variable thicknesses (prevalently made of polycarbonate) whose surface is designed to create a microprismatic structure. The material thus appears to be reflective when observed at an angle smaller than its critical angle (around 30 degrees), while part of the radiation that strikes the material at higher angles is transmitted through the thickness, generating the typical effects of a hologram, which until rather recently, were the exclusive domain of science fiction movies (as in those unforgettable moments when Spock would go to relax on the Enterprise’s hologram bridge). These typologies of material may be used to transport and distribute light uniformly with a superior degree of efficiency. Light coming from a point source might for example be guided through a conduit so as to form a linear light source (displaying a certain degree of affinity with the field of fiber optics). Other applications might be the creation of a uniform luminous area generated by a point or linear lighting surface. The resulting light would be homogeneous, energy-saving, and by their very nature the materials would be extremely flexible, lightweight, and easy to shape in a mold. And one could go on with a thousand other typologies and examples, some yet to be invented, in which light seems to spring from and exist in the material and with the material, where it becomes an object among objects and a material among materials, and where Barthes’ prophecy might almost come true: “Plastic is wholly swallowed up in the fact of being used: ultimately, objects will be invented for the sole pleasure of using them.” Perhaps he was right and perhaps, fifty years later, the theme still presents issues for further profound REFLECTION… Marinella Levi Professore associato, insegna Scienza e tecnologia dei materiali presso il Politecnico di Milano e collabora con i corsi di laurea in disegno industriale dell’Università Iuav di Venezia. Si occupa di progettazione di nuovi materiali polimerici e di criteri di selezione dei materiali. An associate professor in Science and the Technology of Materials at the Politecnico in Milan, she collaborates with the industrial design programs at the Università IUAV in Venice. She is specialized in the design of new polymeric materials and the criteria for the selection of materials. Valentina Rognoli Dottore di ricerca in disegno industriale presso il Politecnico di Milano, insegna Scienza e tecnologia dei materiali presso il corso di laurea specialistica in comunicazioni visive e multimediali dell’Università Iuav di Venezia. Il suo specifico campo di interessi riguarda la caratterizzazione espressivo-sensoriale dei materiali per il design. Ph.D. in industrial design at the Politecnico in Milan, she teaches Science and the Technology of Materials in the graduate program in Visual and Multimedia Communications at the Università IUAV in Venice. Her specific field of interest regards the expressive and sensorial characterization of materials for the design profession.
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BUBBLE, VALERIO BOTTIN, FOSCARINI, 2000
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PATRICIA URQUIOL E LA LAMPADA BAG
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LA GUE
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PATRICIA URQUIOLA E LA LAMPADA BAGUE di Fiorella Bulegato
Patricia Urquiola, nata a Oviedo in Spagna, dopo aver frequentato la Faculdad de Arquitectura de Madrid si trasferisce a Milano dove inizia la sua carriera professionale. Si laurea in architettura al Politecnico nel 1989, avendo come relatore Achille Castiglioni, del quale sarà assistente universitario dal 1990 al 1992. Negli stessi anni e fino al 1996 lavora allo sviluppo dei prodotti De Padova, dove incontra Vico Magistretti con il quale firma alcuni pezzi d’arredo. Dopo l’apertura di un primo studio con M. De Renzio e E. Ramerino – per occuparsi di architettura, interior e retail design –, dal 1996 al 2000 è responsabile del design dello studio Lissoni Associati collaborando, ad esempio, con Cappellini, Cassina e Kartell. Nel 2001 fonda un proprio studio di progettazione. Nel settore dell’industrial design la sua attività spazia dagli arredi ai gioielli, sviluppando nel tempo progetti per varie aziende italiane ed estere, come Alessi, B&B, Bart, Bosa, De Vecchi, Fasem, Foscarini, Kerasan, MDF, Molteni, Moroso, San Lorenzo. In collaborazione con Matteo Berghinz lavora anche a progetti di architettura, di interni e di allestimenti, dagli showroom alle mostre agli stand fieristici. Nel 2002 ha avviato con Foscarini, assieme a Eliana Gerotto, una serie di nuove “esplorazioni” nel campo delle lampade. Da questo progetto nel 2003 è nata Bague. Qual è stato lo stimolo di partenza del progetto? “Intanto, la lampada Bague segna l’inizio della mia collaborazione con Eliana Gerotto, un’esperienza che stiamo continuando ora con altri progetti, per cui è un pezzo concepito a quattro mani. Siamo partite
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dall’idea del classico abat-jour, cioè di una lampada dotata di paralume e di una semplice lampadina, che fa solitamente poca luce e nell’ambiente genera un effetto di vedo e non vedo. Io, poi sono innamorata dei giochi delle trasparenze e così abbiamo cercato un materiale adatto. Contemporaneamente stavamo lavorando sul concetto di una struttura avvolgente in grado di fare da diffusore e da sostegno insieme. I primi modelli, che si rifanno alla forma di un anello, mostrano proprio questa riflessione. E la soluzione finale è innovativa perché la lampada ha una forma unitaria, che supera la distinzione tra parti di sostegno e di diffusione della luce, pur mantenendole riconoscibili”. Come siete arrivate a proporre la lamiera forata, un materiale finora pochissimo utilizzato negli apparecchi illuminanti? “Avevamo appena visitato una fabbrica di microreti e visto, tra le altre, un interessante tipo di lamiera forata ‘morbida’. Questo materiale è realizzato in fogli che generano dei volumi rigidi se vengono opportunamente tagliati e poi modellati, attraverso tecniche di stampaggio. Si può quindi passare da un foglio piatto a una forma tridimensionale. Certamente bisogna tener conto che i fogli sono prodotti fino a una certa dimensione e quindi è necessario mantenere, all’interno di questa misura, lo sviluppo ‘steso’ della lampada. Abbiamo perciò portato a Foscarini questo materiale ‘ruvido’, che diveniva struttura della lampada, ma al contempo lo abbiamo addomesticato con un bagno in resina”. Qual è stato l’apporto dell’azienda? “Il contributo da parte dell’azienda allo sviluppo del progetto è stato fondamentale. La realizzazione di Bague è completamente industriale. In teoria il procedimento di stampaggio e bagno della rete nella resina siliconica sembrava piuttosto semplice, l’esecuzione invece si è dimostrata alquanto complessa. Dovevamo non solo trovare la ‘forma’ corretta per la lamiera stampata, dalla sagoma di partenza al modo per giuntarla, a come renderla stabile – ha infatti un contrappeso ‘nascosto’ nella base –, ma anche ottenere un rivestimento aderente alle nostre intenzioni, capace di comunicare un certo effetto luminoso e tattile. In sostanza, la finitura siliconica si realizza in tre passaggi. Innanzitutto la lamiera metallica forata ha bisogno di essere protetta con una verniciatura a polveri epossidiche, scelta e applicata opportunamente in modo da non ostruire i fori. Viene poi coperta da un altro strato di vernice trasparente che invece riempie i buchi e ispessisce la superficie su cui verrà colata la resina. Si ottiene così una pelle omogenea; altrimenti il silicone andrebbe a colmare diversamente i buchi con evidenti diversità chiaroscurali sull’effetto finale. Il rivestimento ultimo svolge più funzioni: protegge i bordi taglienti della lamiera, rendendoli sicuri al tocco; fa diventare tutta la superficie particolarmente morbida al tatto; ‘rompe’ la luce, in quanto la gomma stesa sul foro filtra il flusso luminoso diffondendo meglio la luce rispetto a un foro senza protezione, che sarebbe una sorta di punto luminoso. Il diffusore superiore è un ‘tappo’ in plexiglas sabbiato che oltre a propagare la luce verso l’alto, evita che l’osservatore sia abbagliato dalla lampadina. Anche l’attacco tra sorgente e struttura, e relativa uscita del cavo elettrico, è stato dettagliatamente progettato per evitare ombre e integrarsi con il disegno complessivo”. Come questo oggetto si inserisce nella sua ricerca progettuale? “La mia riflessione parte sempre dal materiale industriale con l’obiettivo di ideare degli oggetti del desiderio. In questo caso, come in altri miei progetti, ho cercato di ottenere un risultato morbido, per far sì che l’oggetto susciti una curiosità attiva, e non solo al tatto: qui anche la luce che emette la lampada è morbida, caratteristica sottolineata dalle differenti versioni sia di forma – ai due modelli in commercio, sarà aggiunta una versione ‘piccola’ – che di colore con cui è verniciata. Spesso infatti valuto quanto le persone gradiscono un mio prodotto da quante lo toccano, ho come la necessità che si avvicinino, sentano la necessità di sfiorarlo. Il compito del designer è quello di addomesticare il materiale industriale. Nella
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LAZY, B&B, 2003
POMPON, SAN LORENZO, 2003
CLIP, MOLTENI, 2002
FJORD, MOROSO, 2002
BAGUE + MINIBAGUE, FOSCARINI, 2003
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Bague abbiamo scelto di rendere soft una lamiera forata metallica attraverso una resina e siamo riusciti a trasformare il procedimento iniziale, pressoché artigianale, in una produzione totalmente seriale”. La collaborazione con Foscarini continuerà? “Stiamo cercando di sviluppare assieme altri progetti puntando sempre all’originalità del risultato; in quanto a Bague vorrei farla diventare una famiglia completa con in più applique e versione da terra”.
PATRICIA URQUIOLA AND THE BAGUE LAMP by Fiorella Bulegato Patricia Urquiola, born in Oviedo, Spain, attended the Faculdad de Arquitectura de Madrid before moving to Milan, where she began her professional career. She graduated in architecture from the Politecnico in 1989, developing her thesis with Achille Castiglioni, for whom she served as a teaching assistant at the university from 1990 to 1992. During those same years and through 1996, she worked on product development for De Padova, where she met Vico Magistretti, with whom she designed several pieces of furniture. She opened a first studio with M. De Renzio and E. Ramerino, working in architecture, interior and retail design, then became design director at the Lissoni Associati firm, collaborating with Cappellini, Cassina and Kartell, among others. In 2001 she founded her own design firm. In the field of industrial design, her work ranges from furniture to jewelry: she designs for a variety of Italian and foreign companies, such as Alessi, B&B, Bart, Bosa, De Vecchi, Fasem, Foscarini, Kerasan, MDF, Molteni, Moroso, San Lorenzo. In collaboration with Matteo Berghinz she also works on architectural projects, interiors and exhibition design, from showrooms to exhibits to trade fair stands. In 2002, together with Eliana Gerotto, she began a series of new “explorations” in the field of lamp design for Foscarini. In 2003 this project developed into Bague. What was the original stimulus for the project? “First of all, the Bague lamp marks the beginning of my collaboration with Eliana Gerotto, an experience we are pursuing in other projects as well, so that it is a piece conceived in tandem. We began with the idea of the classic abat-jour, that is a lamp with a shade and a simple light bulb, which usually provides very little light and generates a see-it/can’t-see-it sort of atmosphere. I personally love to play with transparencies, so we went looking for a suitable material. At the same time we were working on the concept of an enveloping structure which could be both the shade and the support at the same time. These considerations are clear in the first models, which are reminiscent of the shape of a ring. The final solution appears innovative because the lamp has a unitary shape, which overcomes the distinction between the parts that sustain it and the parts that diffuse the light, though they remain perfectly recognizable.” Why did you decide to use perforated sheet metal, a material that has rarely been used in lighting fixtures so far? “We had just visited a factory that produced micromesh, and among the things that we saw was an interesting type of ‘soft’ perforated sheet metal. This material is produced in sheets that generate rigid volumes if they are cut and shaped for this purpose, using pressing techniques. A flat sheet can therefore become a three-dimensional shape. Of course one must consider that the sheets are produced up to
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a certain size, and that one must therefore maintain the ‘flat’ development of the lamp within this dimension. We thus brought Foscarini the ‘raw’ material, which became the structure of the lamp, but we tamed it with a resin bath”. What was the company’s contribution? “The contribution of the company to the development of the project was fundamental. The production of Bague is totally industrial. In theory, the process of pressing the mesh and immersing it in a silicone resin bath seemed rather simple, in fact it proved to be very complex. Not only did we have to find the correct ‘shape’ for the pressed sheet metal, from the initial outline that made the joints possible, to solutions for its stabilization – in fact there is a ‘counterweight’ hidden under the base – we also had to find a skin that satisfied our intentions, that could communicate a specific luminous and tactile effect. Basically, the silicone finish undergoes three processes. Initially the perforated sheet metal must be protected with a coat of epoxydic powder paint, selected and applied correctly so that the holes are not filled. It is then covered with another layer of transparent varnish that does fill the holes and thicken the surface on which the resin will be poured. This creates a homogeneous skin; otherwise the silicone would fill the holes in different ways, and create obvious differences of chiaroscuro in the final effect. The last coat serves the largest number of purposes: it protects the sharp edges of the mesh, making them safe to touch; it makes the entire surface particularly soft to feel; it “breaks” the light, because the silicone that fills the hole filters the luminous flux and diffuses the light better compared to a hole with no protection, which would create a bright point source. The top shade is a sanded plexiglas ‘lid’ that not only spreads the light upwards but protects the user from being blinded by the bulb. The connection between the structure and the source, and the relative egress for the electric wire, was carefully designed to avoid shadows and be well integrated into the overall design. How does this object fit into your design research? “My considerations always begin with the industrial material and my goal is to create dream objects. In this case, as in many of my other projects, I aimed for softness, to make the object stimulate active curiosity, and not only to the touch: even the light that the lamp emits is soft, and this characteristic is emphasized by the versions that differ in shape – in addition to the two models currently on the market there will be a third smaller one – and in the color with which they are painted. I often judge how well my product is accepted by how many people touch it, I need them to approach it, to feel the need to graze it with their fingers. The designer’s task is to tame the industrial material. In Bague we chose to soften a perforated metal sheet by using resin, and we were able to transform the initial, almost hand-crafted process, into a totally standardized production process”. Will your collaboration with Foscarini continue? “We are trying to develop other projects together, aiming consistently for originality; as far as Bague is concerned, I would like to develop it into a complete collection of lamps, adding a wall fixture and a floor lamp.” Fiorella Bulegato Laureata in architettura all’Iuav di Venezia nel 1995, sta svolgendo un dottorato in disegno industriale all’università La Sapienza di Roma. Da alcuni anni svolge attività di ricerca documentaria per pubblicazioni – ha curato ad esempio l’atlante del volume Achille Castiglioni 1938-2000, Electa, Milano 2001 – e scrive su periodici e riviste, con particolare riguardo ai temi dell’industrial design. A graduate in architecture from the Università IUAV in Venice in 1995, she is currently pursuing her doctorate in industrial design at the Università La Sapienza in Rome. For several years she has done documentary research for publications, writing and editing the catalogue of works for the book “Achille Castiglioni 1938-2000”, Electa, Milan 2001; she writes for periodicals and magazines, with particular attention to the issues of industrial design.
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LA NUOVA SEDE FOSCARINI
COMPANY
THE NEW FOSCARINI HEADQUARTERS English text p. 77
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EDIFICIO B uffici
ingresso
LA NUOVA SEDE FOSCARINI di Fiorella Bulegato
deposito laboratorio
VITO
EDIFICIO A
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Dopo il trasferimento dall’isola di Murano avvenuto nel 1997, nel dicembre 2003 Foscarini ha inaugurato la nuova sede all’interno dell’area industriale di Marcon (Venezia). Da qualche anno aveva infatti assunto sempre più forza la necessità di disporre di luoghi espressamente dedicati all’accoglienza dei clienti e all’esposizione dei prodotti. Proseguendo nella ricerca di qualità globale che ha coinvolto finora tutte le fasi del processo aziendale – tra l’altro, i piani di customer satisfaction, la ricerca innovativa sui prodotti e l’evoluzione degli strumenti di comunicazione – si trattava ora di “tradurre” lo specifico modo di operare nel settore dell’illuminazione di Foscarini anche nella costruzione di nuovi ambienti dove produrre, lavorare, incontrare, mostrare. Innanzitutto il progetto nasce dalla particolare morfologia del terreno, definita da un perimetro mistilineo lambito a est dall’autostrada Venezia-Trieste e a nord da un piccolo corso d’acqua che lo separa dalla campagna coltivata. I due diversi affacci hanno guidato non solo nella razionale distribuzione degli spazi del complesso, diviso in due edifici collegati da un tunnel trasparente, ma anche nella realizzazione di un intervento “comunicativo”, in grado di esprimere i caratteri dell’azienda attraverso le soluzioni architettoniche. Il tunnel vetrato che ospita l’ingresso principale è così concepito come un segnale di luce, che rivela lentamente le sue valenze architettoniche e materiche salendo il lieve pendio erboso di accesso. Uno snodo che amplifica le diversità formali e funzionali tra i due edifici principali, evidenziando contemporaneamente la continuità della relazione “atmosferica” tra i differenti ambienti di lavoro.
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VEDUTE DELL’EDIFICIO A CORTE OUTDOOR VIEWS OF COURTYARD BUILDING
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A destra del tunnel si erge il volume più cospicuo, costituito dallo stabilimento destinato alla gestione delle attività logistiche, e che alloggia al secondo piano uffici e attività varie. Si presenta come un parallelepipedo completamente tinteggiato di nero tagliato orizzontalmente da stretti nastri finestrati ritmati da serramenti quadrati. Tali scelte architettoniche, unite alla collocazione in prossimità dell’arteria di traffico – da cui è protetto mediante un giardino piantumato –, sono il modo per dare visibilità e rendere riconoscibile l’insediamento industriale dalla strada: di giorno la sua cromia cattura la luce, di notte, segnalato dal basso da fasci luminosi, diventa anch’esso uno speciale “oggetto luminoso”. A sinistra, più discreto, si eleva il secondo edificio, un corpo di un solo piano dipinto di grigio destinato a showroom e a uffici commerciali e direzionali. Definito da una figura a U incuneata nell’ansa fluviale, disegna un vero e proprio cannocchiale visivo verso la campagna che diventa così l’armonioso sfondo per le postazioni di lavoro. La particolarità di questa costruzione è data dall’essere generata dall’unione di due parti adattate alla conformazione del terreno, una L quasi regolare e un’ala piegata, che trovano la loro congruenza anche nella soluzione di copertura. L’ampia falda inclinata verso l’interno della corte che copre la L, mantiene la medesima pendenza anche sulla vela del volume curvo, che fa sentire la propria diversità innestandosi però con inclinazione inversa. A ribadire la fluidità e permeabilità degli ambiti di lavoro e al contempo la cura verso il “benessere” dei fruitori di questi spazi, superfici totalmente vetrate prospettano sulla corte, mentre un nastro finestrato solca le pareti esterne, ad eccezione di quella rivolta verso la tangenziale totalmente cieca. Il dosaggio della luce naturale è qui ottenuto equilibrando ampiezza e disegno degli interni e delle aperture – non ultima la funzione di filtro chiaroscurale assegnata alla sporgenza della falda –, operando con la stessa attenzione con cui Foscarini sperimenta effetti luminosi artificiali nelle lampade. Un valore tonale, variabile con i giorni e le stagioni, che trova un’ulteriore dilatazione dinamica nel piccolo specchio d’acqua, a sfioro nel verde degradante verso il canale, posto all’interno della corte e racchiuso da un parterre in legno. All’interno, dove l’adozione di un sistema strutturale connotato da travi in legno lamellare ha permesso di conservare spazi liberi di grandi dimensioni e di ridurre al minimo la presenza di pilastri, le soluzioni spaziali, materiche e cromatiche – il colore dominante è il grigio chiaro che interessa pavimento, pareti e infissi, nonché i pannelli lignei a soffitto verniciati all’anilina grigia per renderli uniformi – sono tutte orientate a definire degli ambienti ariosi, caratterizzati da linee pulite e precise. La luce gioca un ruolo importante nella definizione di questi ambiti, dove volutamente i contrasti chiaroscurali sono attenuati sia modulando l’illuminazione naturale attraverso soprattutto orientamento e schermatura delle superfici vetrate, sia collocando varie sorgenti artificiali in punti strategici. Anche il disegno delle partizioni, in vetro e legno chiaro graficamente solcate da fenditure orizzontali, e la scelta degli arredi, dai sinuosi divani grigi alle sedie bicolore bianco-nere, riescono efficacemente a trasmettere e a permeare gli ambienti di una sensibile atmosfera di calda serenità. L’occasione per saggiare la sede è stata la festa inaugurale del 12 dicembre 2003. In una singolare cornice di immagini proiettate e musica jazz, è stata presentata la monografia Foscarini ‘83’03. Vent’anni di design della luce, realizzata da Alberto Bassi con grafica di Artemio Croatto/Designwork, alla presenza dei rappresentanti delle strutture commerciali dei vari paesi, dei dipendenti e dei collaboratori dell’azienda, nonché della stampa nazionale e internazionale.
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THE NEW FOSCARINI HEADQUARTERS by Fiorella Bulegato After moving from the island of Murano in 1997, in December 2003 Foscarini inaugurated its new headquarters in the industrial zone of Marcon, in the province of Venice. For several years, a growing need had been felt for spaces specifically dedicated to client reception and product exhibition. Pursuing the search for global quality which has involved all phases of the company process so far, including the customer satisfaction programs, innovative research on products and the evolution of its public relations instruments, the time came to “translate” Foscarini’s specific operating method in the field of lighting, into the construction of new spaces for manufacturing, working, gathering, exhibiting. The project springs initially from the particular morphology of the site, defined by an uneven perimeter hemmed in on the eastern edge by the Venice-Trieste highway, and on the north by a stream of water that separates it from farmlands. The two different conditions guided not only the rational distribution of the spaces in the complex, divided into two buildings connected by a transparent tunnel, but also the development of a “communicative” agenda which could express the character of the company by means of the architectural solutions. The glass tunnel that contains the main entrance is thus conceived as a signal of light, that slowly reveals its architectural and material qualities as one climbs the slightly inclined grassy access ramp: it is a joint that amplifies the formal and functional differences between the two main buildings, while emphasizing the continuity in the “atmospheric” relationship between the different working areas. To the right of the tunnel rises the most conspicuous volume, which is constituted by the building designated for logistical activities, housing offices and other activities on the second floor. It appears as a parallelepiped, painted black, and cut horizontally by narrow ribbon windows syncopated by square window frames. These architectural choices, combined with the location beside the major traffic artery, from which it is protected by a tree-lined garden, are the means selected to create visibility and make the industrial establishment recognizable from the street: during the day its color captures the light, at night, it is signaled by its illuminated stripes, and becomes a special “luminous object” in and of itself. On the left rises the more discreet second building, a single story painted gray which contains the showroom and the administrative and commercial offices. Defined as a U-shape nested into the elbow of the stream, it creates a visual perspective towards the farmlands, which thus become a harmonious backdrop for the workstations. The particular nature of this building is due to its being generated by the union of two parts adapted to the configuration of the terrain, an almost regular L-shape and a bent wing, which find a point of convergence in the roof solution. The large roof plane inclined towards the interior of the court that covers the L-shape, has the same inclination as the sail on the curved volume, which emphasizes its own diversity however by coming in at a reverse inclination. To highlight the fluidity and the permeability of the work spaces and the attention towards the “well-being” of the users of this space, the courtyard is lined with totally glazed surfaces, whereas a ribbon window cuts a slash along the outer walls, except the one overlooking the highway which is totally blind. Natural light is carefully dosed by balancing the space and the design of the interiors and the openings – not least of which is the chiaroscuro function assigned to the roof overhang – operating with the same attention Foscarini dedicates to experimenting with the artificial lighting effects of its lamps. A tonal value which varies with the days and the seasons, and finds greater dynamic dilatation in the small pool of water, hovering over the grass that grades down towards the canal, located inside the courtyard and enclosed by a wooden deck.
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On the inside, where a structural system characterized by laminated wood beams was adopted to create large open spaces by keeping columns to a minimum, the spatial, material and chromatic solutions (the dominant color is light gray, on the floors, walls and windows, as well as the wooden ceiling panels which are varnished with gray aniline to provide uniformity) are all oriented towards defining airy spaces, characterized by clean precise lines. Light plays an important role in defining these spaces: the contrasts of light and shadow are deliberately attenuated by modulating the natural light, orienting and screening the glazed surfaces and placing various artificial light sources in strategic positions. The design of the partitions, which are made of glass and light-toned wood graphically imprinted with horizontal grooves, and the choice of furniture, from the sinuous gray sofas to the black and white bicolor chairs, effectively convey and permeate the spaces with a clear atmosphere of warm serenity. The opportunity to try out the headquarters was given by the inauguration party held on December 12 2003. In a singular atmosphere of projected images and jazz music, the presentation of the monograph entitled Foscarini ‘83’03. Twenty years of light design, written by Alberto Bassi with graphic design by Artemio Croatto/Designwork, was held in the presence of the representatives of the marketing structures in various countries, the employees and collaborators of the company, and the national and international press.
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JAMES TURRELL: LIGHT AS VISION AND BODY English text p. 84
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JAMES TURRELL: LA LUCE COME VISIONE E CORPO di Luca Massimo Barbero
Per Turrell la luce corrisponde all’unico mezzo ideale per poter indagare gli altri due aspetti fondamentali del suo lavoro: lo Spazio e la Percezione. Fin qui, nulla di così originale, si direbbe, Spazio e Percezione sono gli elementi che da sempre si coinvolgono in un’opera, in una architettura insomma in un qualsiasi spazio si trovi a essere interessato un uomo con i suoi sensi. Certo ma l’intenzione di tutta l’opera di questo artista californiano, nato a Los Angeles nel 1943, è quella di portare il visitatore, chi osserva, a chiedersi, interrogarsi su ciò che ha di fronte, sulla realtà, sulla materia di ciò che sta osservando. È una curiosa interazione, minimale, appunto, sottilmente ironica e talvolta immensamente magica, come lo scoprire un fatto naturale, una manifestazione di cui si ignora l’origine e si legge esclusivamente l’effetto con i nostri sensi. I critici americani amavano, nella seconda metà degli anni sessanta riportare a proposito di questo artista una frase: “Turrell ci mette di suo la luce. Sta a noi completare l’opera”. Ma cerchiamo almeno di dare un ordine a queste poche parole. Parliamo degli esordi e delle opere più note che, generalmente, vengono associate alla corrente dell’Arte Californiana e del Minimal americano di cui l’autore rappresenta uno dei protagonisti. Molti, parlano di un’arte che, per la seconda metà degli anni sessanta e il decennio successivo si occupava letteralmente di “far parlare il Vuoto”. Per far questo Turrell si serve esclusivamente della luce, nelle sue forme più semplici, la luce naturale e all’inizio, la semplice lampadina. Ma, di che spazio ha bisogno quest’artista che, dopo gli studi di matematica e di psicologia, appena trentenne si “rinchiude” letteralmente in uno studio a Santa Monica che prima era il vecchio Hotel Mendota? Uno spazio artificialmente puro.
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MILK RUN II, 1997
KEY LIME π, 1998
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Per far questo egli occupa lentamente e per oltre otto anni l’intero edificio. Ogni stanza viene preparata, tolti i pavimenti, sostituite le carte da parati, ridipinti gli stipiti di ogni porta e le finestre, tutto deve essere bianco, ossessivamente bianco sino alle barriere e ai muri che costruisce di fronte alle aperture schermando ogni luce proveniente dall’esterno. La luce è il suo “materiale invisibile” la materia perfetta che ha bisogno di uno spazio puro...; sia esso anche esclusivamente buio. L’Hotel Mendota diventa un laboratorio per le opere che sono delle apparizioni di luce. Dapprima nelle stanze si materializzano segni luminosi creati con gas ed effetti scientifici, poi, già nel 1967, nascono le prime opere di percezione immateriale: le proiezioni. Lo spettatore è il centro sensibile di fenomeni percettivi. La luce è il “corpo immateriale” di queste opere. Una proiezione in un angolo di una sala vuota genera otticamente una figura tridimensionale sospesa. Una stanza anonima viene divisa da un “muro penetrabile” di luce colorata, un corridoio si trasforma con l’interazione tra luce naturale e al neon per diventare architettura di spazio e colore. In questo mondo di silenzio, di semplicità, gli effetti e gli studi sulla luce e sulla percezione hanno come fulcro un uomo che sensibilmente rilegge e esperimenta lo Spazio in una dimensione variabile e poetica. Praticato un varco nell’architettura (non immemore del grande oculo del Panteon romano se vogliamo trarre origini) Turrell apre letteralmente un quadro mobile e sensibile nello spazio chiuso, dove le variazioni anche ambientali della sala crescono e diminuiscono a seconda della luce naturale, dei suoi raggi e della sua incidenza. Di questo “nuovo Dedalo” costruttore di stanze e palazzi luminosi e di labirinti dei sensi e della percezione, attendiamo il grande lavoro, ciclopico. Il Roden Crater, un vulcano spento di 500.000 mila anni ove l’artista ha inciso, scavato aperto e talvolta colmato d’acqua spazi per presentare, sotto la luce del deserto dell’Arizona, i più estremi passaggi della luce e del suo magico manifestarsi.
JAMES TURRELL: LIGHT AS VISION AND BODY by Luca Massimo Barbero For Turrell, light corresponds to the only ideal means of investigating the other two fundamental elements in his work: Space and Perception. Not too original, one might say, Space and Perception have always been the elements to be dealt with in a work, in architecture, in any space that involves a man and his senses. Certainly, but the intention in all the work by this California artist, born in Los Angeles in 1943, is to lead the person who visits his work, who observes it, to question what he has before him, to question the reality, the material of the thing he is observing. It is a curious interaction, a minimal one in fact, subtly ironic and often immensely magical, like discovering a natural phenomenon, an event whose genesis one does not understand and whose effect can only be ascertained through the senses. In the second half of the Sixties, American critics liked to quote the following phrase in relation to the artist: “Turrell puts his own light in. It’s up to us to complete the work”. Let us try to give some order to these few words. Let us talk about his beginnings, and his most familiar works which are generally associated with the California Art movement and the American Minimalist movement of which the artist is an exponent. Many speak of an art which, throughout the second half of the sixties and the following decade attempted literally “To Make the Void Speak”. To do so Turrell used light alone, in its simplest forms, natural light and initially, the bare bulb. But what kind of space was this artist looking for, when after studying mathematics and psychology, at the age of thirty he
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LUNETTA, VARESE, 1974, PORTALE VERTICALE TAGLIATO PER VEDERE IL CIELO E LUCE NATURALE E LUCI AL NEON PER ILLUMINARE L’INTERNO LUNETTE, 1974, VERTICAL PORTAL CUT TO SEE THE SKY AND NATURAL LIGHT AND NEON TO LIGHT THE INTERIOR SOLOMON R. GUGGENHEIM MUSEUM, NEW YORK
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literally “shut” himself in a Santa Monica studio, the former Mendota Hotel? An artificially pure space. To create it he slowly occupied the entire building over eight years time. Each room was prepared, the floors were removed, the wallpaper replaced, the frames of each door and window were repainted, everything had to be white, obsessively white including the barriers and walls which he built in front of the openings to screen any sort of light coming from outside. Light was his “invisible material” the perfect material which required a pure space … even a totally dark one. The Hotel Mendota became a laboratory for works which were apparitions of light. At first luminous signs created with gas and scientific effects appeared in the rooms, then in 1967 he created his first works of immaterial perception: the projections. The spectator was the sensitive center of perceptive phenomena. The light was the “immaterial body” of these works. A projection in the corner of an empty room optically generated a suspended three-dimensional figure. An anonymous room was divided by a “penetrable wall” of colored light, a hallway was transformed by the interaction of natural light and neon light to become an architecture of space and color. In this world of silence, of simplicity, the effects and the research on light and perception centered on a man who can sensitively reinterpret and experiment with Space in a variable and poetic dimension. Having created an opening in the architecture (not unreminiscent of the giant oculus of the Roman Pantheon if we wish to find a reference) Turrell literally opened a moving and sensitive picture in a closed space, where even the environmental alterations of the room grew and abated depending on the natural light, on its rays and its incidence. This “new Dedalus”, who constructs luminous rooms and buildings and labyrinths for the senses and for perception, is developing a great, monumental work: the Roden Crater, a 500,000 year-old inactive volcano where the artist has engraved, dug, open and sometimes flooded spaces to present, under the light of the Arizona desert, the most extreme passages of light and the magical ways it appears. Luca Massimo Barbero Nato a Torino nel 1963, è Associate Curator della Collezione Guggenheim. Organizzatore di mostre d’arte contemporanea, è scrittore d’arte e docente della Scuola Holden di Torino. Ha curato, tra le altre, mostre di Lucio Fontana, Arte Minimal, Arte Americana, Informale e per anni ha collaborato con Peter Greenaway con cui ha ideato la mostra di Palazzo Fortuny per la VL Biennale di Venezia. Born in Turin, Italy in 1963. He is an Associate Curator at the Guggenheim Collection. He organizes contemporary art exhibits, and writes about art and teaches at the Scuola Holden in Turin. He has been the curator for exhibitions on Lucio Fontana, Minimal Art, American Art, and Informal Art. For several years he collaborated with Peter Greenaway, with whom he conceived the exhibition at Palazzo Fortuny for the 45. Biennale di Venezia.
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SKYSPACE (SPAZIO CELESTE, VARESE, 1974 (GIORNO) TAGLIO ARCHITETTONICO, INTERNO ILLUMINATO DA LUCE NATURALE SKYSPACE, 1974 (DAYTIME). ARCHITECTURAL CUT, INTERIOR LIT BY NATURAL LIGHT SOLOMON R. GUGGENHEIM MUSEUM, NEW YORK © 2004 JAMES TURRELL
AFRUM I, 1967. PROIEZIONE ALLO XENO, XENON PROJECTION SOLOMON R. GUGGENHEIM MUSEUM, NEW YORK © 2004 JAMES TURRELL
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STANZE - DIETRO LA TENDA, 2000, ACRILICO SU TELA, 145 X 145 CM
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MATTOTTI
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MATTOTTI di Goffredo Fofi. Tratto da “L’eterna distinzione tra arti maggiori e minori”, catalogo Segni e colori, Milano, 2000.
Guai a non esser curiosi, ha detto una volta Mattotti; ma la sua curiosità non è quella di luoghi e di storie, bensì di sensibilità e di luci. Qualcuno ha voluto malamente paragonare le sue finestre al cinema di Wenders: ma la differenza è enorme. Mattotti si slancia e perlustra, esplora con un saldo e tranquillo controllo, con una modestia di dichiarazioni che finisce per esaltare la ricchezza di una meditazione devoluta al colore, al segno. All’acquerello, al pennino. Mattotti non ha trovato; continua a cercare. La curiosità di Mattotti è, nella sua apparente imprevedibilità, una costante di sintonie, una sonda di aguzze misure nel nascosto e nel vero del tempo. Passaggio, mutamento e, se così si può dire trascoloramento. Non mostrare tutto, non urlare contenuti e messaggi è per Mattotti un modo di indicare, nel tempo, l’attesa. Il presente è il suo regno, ma un presente insidioso e insidiato, obliquo, nel quale egli si pone di lato, si apparta, fa il muto. Solo il presente ci è dato – ed è errore la nostalgia (non la memoria, che è dovere) – come è errore la fuga in avanti, il rinvio a un dopo. La pienezza del nostro esserci sta qui, in questa eterna transizione che è, momento per momento, stasi, e cioè attesa. Sempre qualcosa sembra incombere sui disegni e sulle storie di Mattotti, che non sappiamo da dove viene e cosa può portare. I mutamenti sono lenti e dobbiamo esplorarne le mosse: dell’artista dietro l’immagine e l’aneddoto, tra le righe e le curve del pennino che, a tratti, sembra impazzire in una matassa d’incomprensione, o di destino che rimette in gioco, che sbroglia a suo modo e secondo la sua volontà, fottendosene del nostro sbalordimento di soggetti (sudditi) vaganti. Passato il tempo dell’avventura, dei viaggi veri di scoperta, dei padiglioni sulle dune, del centro delle storie, ci restano i margini, le pieghe, le macchie di un ignoto più ombroso, e come nella grande fantascienza new wave, tutto è dentro di noi, passa attraverso di
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STANZE - UOMO SUL LETTO, 2000, PASTELLO, 20 X 20,9 CM
STANZE - UOMO SUL LETTO, 2000, PASTELLO, 20 X 20,9 CM
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STANZE - UOMO SEDUTO, 2000, PASTELLO, 20 X 20,9 CM
noi nel momento stesso in cui tutto il possibile della storia ci è sottratto, è gestito impersonalmente altrove e da ignoti altri. Nel presente ci si salva, sembra dire Mattotti, non con gli appelli, le denuncie, le “storie”; ma riuscendo ad abitare l’ombra, a gustare il colore, a brogliare gomitoli, ad aspettare (o accogliere) probabiliimprobabili miracoli. L’attesa, sì, e l’inquietudine, e la domanda, ma dentro i colori le ombre i segni decifrabili e indecifrabili del presente.
MATTOTTI by Goffredo Fofi God forbid one should be cautions. Mattotti once said, but his curiosity explores light and sensibilities, not places and stories. Mattotti’s windows have been likened to Wenders’ films, but there’s an enormous difference. Mattotti sets out to explore with a secure touch, calm control and modesty that in the end exalts the richness of the mediation he accomplishes through color and line, watercolor and ink. Mattotti doesn’t find anything; his apparently errant curiosity is a syntonic constant, a sharp probe into the hidden things and the truths of his time: transition, change and (if I be allowed the term) transcoloration. For Mattotti, not showing the whole works, not blaring out contents and messages, is a way of indicating expectation. His realm is the present, but it is an insidious, besieged and ambiguous present in which he stands on the sidelines and plays dumb. We can know only the present; nostalgia (not memory, which is a duty) is a mistake, and so is flight into the future, or postponement. The full measure of our being is here and now, in an eternal transition that stands still, in expectation, at any given moment. Mattotti’s drawings and stories always seem to be overshadowed by something of unknown origin and import. Changes are slow in coming, and we too, following in the artist’s wake, can explore behind the images and the anecdotes, between the lines and the windings of his pen. From time to time the line seems to go berserk in a skein of misunderstandings, or of a fate called back into play, but then it unravels the skein in its own way and by its own will, perfectly unconcerned if we wandering subjects are dumbfounded. Once the time of the tale is up – the time of true voyages of discovery, of pavilions on the dunes, of the center of the stories – we are left with the fringes, the folds and the patches of a darker unknown. As in the great New Wave science fiction, everything is inside us, everything passes through us at the very moment when everything that was possible in the story is taken away from us to be managed impersonally elsewhere, by unknown others. In the present, Mattotti seems to be saying, we cannot save ourselves with appeals, denunciations or “stories,” but only by managing to live in the shadow, to enjoy color ( in this case, to produce and enjoy color), to unravel skeins, to await (or welcome) probable/improbable miracles. Waiting, worry, questioning, but within the colors, the shadows and the decipherable and undecipherable signs of the present. Goffredo Fofi Nato a Gubbio nel 1937, saggista, critico cinematografico e letterario, ha lavorato anche in campo pedagogico e sociale. Oltre ad aver fondato la rivista “Linea d’ombra” e a collaborare con numerosi periodici e case editrici, è stato tra gli animatori di testate come “Quaderni piacentini” e “Ombre rosse”. Oggi dirige la rivista di cultura “Lo straniero”. Born in Gubbio in 1937, he is a writer of essays, and a movie and literary critic. He has also been involved in teaching and social work. He founded the magazine “Linea d’ombra”, and has collaborated with many periodicals and publishers. He was a leading contributor to reviews such as “Quaderni piacentini” and “Ombre rosse”. He currently directs the cultural review “Lo straniero”.
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EDITION 06.2004
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UN TEMA CENTRALE DEL DESIGN DELLA LUCE È CERTAMENTE IL RAPPORTO FRA SORGENTI LUMINOSE E OGGETTO-LAMPADA. LE LAMPADINE, PER FORMA E DIMENSIONE MA SOPRATTUTTO PER CARATTERISTICHE ILLUMINOTECNICHE, COSTITUISCONO UN OBBLIGATO PUNTO DI PARTENZA DELL’ITER PROGETTUALE. ANCHE SE NON MANCANO STORICI ESEMPI, QUESTA SENSIBILITÀ D’APPROCCIO SI È MOLTO SVILUPPATA DI RECENTE E VI HA CONTRIBUITO IN MODO SIGNIFICATIVO IL PROGRESSO DELLA RICERCA E LA DISPONIBILITÀ PRODUTTIVA DI SORGENTI DIFFERENTI PER PROPRIETÀ E PRESTAZIONI. A CENTRAL ISSUE IN DESIGNING LIGHT IS MOST CERTAINLY THE RELATIONSHIP BETWEEN THE LIGHT SOURCE AND THE LAMP-OBJECT. BECAUSE THEY VARY IN SHAPE AND SIZE, BUT ESPECIALLY IN TERMS OF TECHNICAL LIGHTING CHARACTERISTICS, LIGHT BULBS CONSTITUTE A MANDATORY STARTING POINT FOR THE DESIGN PROCESS. THOUGH THERE IS NO DEARTH OF HISTORIC PRECEDENTS, THIS AWARENESS CONSTITUTES A RELATIVELY RECENT APPROACH AND HAS CONTRIBUTED SIGNIFICANTLY TO THE PROGRESS REGISTERED IN THE RESEARCH AND PRODUCTION OF LIGHT SOURCES OFFERING DIFFERENT PROPERTIES AND PERFORMANCE.
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