FARLEGGERO LIGHTNESS

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LUX.4 FOSCARINI

LUX FARLEGGERO_LIGHTNESS



EDITORIALE

FARLEGGERO LIGHT_LEGGERO. LA PAROLA È DI GRAN FASCINO AI GIORNI NOSTRI, DA QUALUNQUE PUNTO DI VISTA LA SI VOGLIA INTENDERE; IN SENSO FISICO, CULTURALE OPPURE FILOSOFICO. I SIGNIFICATI SI CONFONDONO, PER CUI PENSANDO AL CORPO UMANO – AD ESEMPIO – STARE IN FORMA (TENDENZIALMENTE LEGGERI), FINISCE PER VOLER DIRE BENESSERE MENTALE. E ALLORA ECCO LA VALANGA DI PRODOTTI LIGHTETICHETTATI: CIBI E BEVANDE, DISPENSATORI DI SALVIFICHE VIRTÙ DIETETICO-ALIMENTARI. DOPO/ASSIEME AL CORPO ARRIVA LA MENTE, ANCH'ESSA BISOGNOSA DI PULIZIA DA “PESI” ESISTENZIALI E D’OGNI ALTRO GENERE. ABBANDONANDO IN FRETTA IMPROPRIE E SPINOSE RIFLESSIONI – CHE POCO CI SONO FAMILIARI, E A PROPOSITO DELLE QUALI MEGLIO HANNO DETTO FILOSOFI E POETI – RESTA CHE LA SFIDA-LIGHT RAPPRESENTA ANCHE UNA DELLE SCOMMESSE DEL DESIGN CONTEMPORANEO, DOVE LA DEMATERIALIZZAZIONE, REALE O SUPPOSTA (CONSIDERANDO L’IMMANE POLLUTION DEI RIFIUTI), INVOGLIA A TOUR DE FORCE RIDUZIONISTICI DI FORME, DIMENSIONE, ENERGIA E PESO. FAR LEGGERO VUOL DIRE IMPIEGARE MENO MATERIALE, QUINDI RISPARMIARE, DI CONSEGUENZA IN SENSO LATO ANCHE UN APPROCCIO ECOCOMPATIBILE AL PROGETTO. DEL RESTO QUELLA DELLA LEGGEREZZA NON È CERTO UNA SFIDA NUOVA PER GLI ARTEFATTI, BASTA PENSARE ALL’ESILITÀ RICERCATA DEL PROGETTO ARCHITETTONICO O ALL’AEREODINAMICA NECESSARIA DEI MEZZI DI TRASPORTO. IN OGNI CASO RUOLO SEMPRE DECISIVO HANNO GIOCATO I MATERIALI E LE LORO CARATTERISTICHE, DALLA CARTA ALL’ALLUMINIO, “NATURALMENTE” LEGGERI, DAGLI HONEYCOMB ALLA FIBRA DI CARBONIO. DAGLI OGGETTI DI NUOVO AL SISTEMA ECONOMICO-CULTURALE: SPAZI DI VITA, ABITAZIONE E LAVORO, ATTREZZATURE E ARREDI SONO DIVENTATI MINIMI E FLESSIBILI; LA STESSA ECONOMIA (E PERFINO LO STATO) HA DA ESSERE LEGGERO. SALVO POI, COME AVVIENE PER LE DIETE ALIMENTARI, CHE NON È SEMPRE FACILE RAGGIUNGERE L’OBIETTIVO. TUTTO QUESTO PERCHÉ LA LEGGEREZZA APPARE L’APPROPRIATA CONDIZIONE MENTALE PER L’UOMO/DONNA CONTEMPORANEI, ALLEGGERITI – OLTRE CHE NEL PESO E IN TUTTO QUANTO LI CIRCONDA E UTILIZZANO – ANCHE NEI PENSIERI FINALMENTE ELEVABILI AL DI SOPRA DELLE DIFFICOLTÀ DEL VIVERE.


EDITORIAL

MAKE IT LIGHT LIGHT. THE WORD EXERCISES A POWERFUL ATTRACTION THESE DAYS, NO MATTER HOW YOU LOOK AT IT; WHETHER IN A PHYSICAL, CULTURAL OR PHILOSOPHICAL SENSE. ITS MEANINGS OVERLAP, SO THAT IN RELATION TO THE HUMAN BODY, FOR INSTANCE, TO BE IN SHAPE (TENDING TO LIGHTNESS), ENDS UP SIGNIFYING MENTAL WELL-BEING. THERE IS A FLOOD OF PRODUCTS ON THE MARKET LABELED “LIGHT”: FOOD AND BEVERAGES, DISPENSERS OF MIRACULOUS DIETARY AND NUTRITIONAL VIRTUES. WITH AND AFTER THE BODY COMES THE MIND, WHICH ALSO NEEDS TO BE “LIGHTENED” OF ITS EXISTENTIAL AND OTHER BURDENS. LEAVING ASIDE IMPROPER AND ABSTRUSE CONSIDERATIONS, WITH WHICH WE ARE RATHER UNFAMILIAR AND WHICH POETS AND PHILOSOPHERS HAVE DEALT WITH BETTER, WE ARE LEFT WITH LIGHTNESS AS ONE OF THE CHALLENGES OF CONTEMPORARY DESIGN, WHERE DEMATERIALIZATION, BE IT REAL OR JUST SUPPOSED (CONSIDERING THE ENORMOUS POLLUTION CAUSED BY WASTE PRODUCTS), CREATES THE NEED FOR A CONCERTED EFFORT TO REDUCE FORMS, DIMENSIONS, ENERGY AND WEIGHT. TO “MAKE IT LIGHT” MEANS TO USE LESS MATERIAL, THUS TO SAVE, AND SO IN A WIDER SENSE, TO ADOPT AN ECOLOGICALLY COMPATIBLE APPROACH TO DESIGN. ON THE OTHER HAND, LIGHTNESS IS CERTAINLY NOT A NEW CHALLENGE TO MANUFACTURERS, IT IS INTRINSIC TO THE SLENDERNESS SOUGHT IN ARCHITECTURAL PROJECTS, OR THE AERODYNAMICS REQUIRED FOR VEHICLES OF TRANSPORTATION. MATERIALS AND THEIR CHARACTERISTICS HAVE ALWAYS PLAYED A DECISIVE ROLE, FROM PAPER AND ALUMINUM, WHICH ARE “NATURALLY” LIGHTWEIGHT, TO HONEYCOMB STRUCTURES AND CARBON FIBERS. FROM OBJECTS TO THE ECONOMIC AND CULTURAL SYSTEM: SPACES TO LIVE IN, RESIDE IN AND WORK IN, EQUIPMENT AND FURNITURE HAVE BECOME MINIMAL AND FLEXIBLE; THE ECONOMY ITSELF (AND EVEN THE FEDERAL GOVERNMENT) NEEDS TO BE LIGHT. EXCEPT THAT, LIKE A DIET, THIS IS AN OBJECTIVE THAT IS NOT ALWAYS EASY TO REACH. ALL BECAUSE LIGHTNESS APPEARS TO PROVIDE THE APPROPRIATE MENTAL ATTITUDE FOR THE CONTEMPORARY MAN AND WOMAN, WHO HAVE REDUCED THEIR OWN WEIGHT AND THE WEIGHT OF EVERYTHING THEY USE AROUND THEM, INCLUDING THEIR THOUGHTS, WHICH ARE FINALLY FREE TO RISE ABOVE THE LEVEL OF LIFE’S PROBLEMS.


CONTENTS

EDITORIALE EDITORIAL

001 FARLEGGERO MAKE IT LIGHT DESIGN

004 LIGHTDESIGN. DESIGN LEGGERO DESIGNING FOR LIGHTNESS 014 SUPERNOVA 018 IL DIRIGIBILE, IL PIÙ LEGGERO DELL’ARIA THE BLIMP, “LIGHTER THAN AIR” 032 LIGHTWEIGHT ARCHITETTURA ARCHITECTURE

038 L’ARCHITETTURA AEREA DI BUCKMINSTER FULLER THE AERIAL ARCHITECTURE OF BUCKMINSTER FULLER MATERIALI E TECNOLOGIE MATERIALS AND TECHNOLOGY

052 LA SOSTENIBILE LEGGEREZZA DEI MATERIALI THE SUSTAINABLE LIGHTNESS OF MATERIALS DESIGN&DESIGNER

064 NICHETTO + GAI DESIGN

076 ORBITAL ARTE ART

080 MOBILITÀ SPAZIALE SPATIAL MOBILITY FUMETTO COMICS

MACCHINA INUTILE, BRUNO MUNARI, 1948

090 LA LINEA THE LINE


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DESIGN

LIGHTDESIGN DESIGN LEGGERO


DESIGNING FOR LIGHTNESS English text p. 10

CARAVAN AIRSTREAM, 1950 AIRSTREAM TRAILER, 1950

DESIGN


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DESIGN

LIGHTDESIGN. DESIGN LEGGERO di Alberto Bassi

La Great Exhibition di Londra nel 1851 segna, convenzionalmente, l’inizio della storia della progettazione per l’industria. La prima mostra universale di artefatti prodotti dalla meccanizzazione è ospitata al Crystal Palace, una gigantesca “serra” di ferro e vetro concepita da Joseph Paxton. Un edificio talmente leggero da far predire ai contemporanei il crollo dell’essenza propria dell’architettura: il radicamento alla terra, la sua materialità. Oggetto esso stesso, costruito da pezzi standardizzati prefabbricati, contiene tra l’altro i prodotti generati con le nuove tecnologie. Forse anche da tale emblema della modernità si alimenta uno dei “miti” della cultura del moderno, quello della leggerezza. Un tema ritornato di estrema attualità. Importanti invenzioni progettuali sono figlie della leggerezza, soprattutto legate ad applicazioni tecnologiche avanzate, dalle strutture ingegneristiche ottocentesche ai grattacieli, dalle coperture di grandi spazi alle residenze. Come la Dymaxion House di Buckminster Fuller del 1928, cellula abitativa in alluminio prodotta industrialmente a basso costo, assemblabile da sei lavoratori in un giorno, del peso di 1,5 tonnellate contro le 150 di una casa normale. Realizzare i massimi benefici con il minimo dispendio di energie e materiali sfruttando al meglio la tecnica, è il principio su cui lavora Fuller ispirandosi agli sviluppi dell’aeronautica: sono gli anni in cui i cieli sono percorsi da “i più leggeri dell’aria”, gli immensi dirigibili Zeppelin. E proprio le numerose ricerche nei mezzi di trasporto, in merito al rapporto peso/prestazioni, hanno fatto diventare ad esempio l’alluminio il materiale “principe” per le strutture leggere. Alluminio perciò per l’ossatura degli Zeppelin, controventata da tiranti; per le


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STABILIMENTO AIRSTREAM: DIMOSTRAZIONE DELLA CARROZZERIA LEGGERA AIRSTREAM. 1965 AIRSTREAM FACTORY: DEMONSTRATING THE LIGHT-WEIGHT AIRSTREAM BODY. 1965


STRUTTURA IN ALLUMINIO DELL’AUTOMOBILE AUDI A8, 1994 ALUMINUM STRUCTURE OF AN AUDI A8 AUTOMOBILE, 1994

STRUTTURA IN ACCIAIO DI UN’AUTO SPORTIVA ALFA-ROMEO, CARROZZERIA TOURING, 1936 TUBULAR STEEL STRUCTURE OF AN ALFA ROMEO SPORTS CAR, TOURING BODY MANUFACTURER, CARROZZERIA TOURING, 1936

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scocche rivettate degli Airstream americani, “case viaggianti” nate negli anni trenta simbolo dell’abitare nomade statunitense; per il sistema Superleggera, telaio tubolare brevettato prodotto dalla carrozzeria Touring di Milano alla fine dello stesso decennio. Fino ai più recenti studi sulla riduzione delle masse combinata a rigidità e sicurezza, sviluppati – solo per fare un esempio – nelle Audi dai primi anni ottanta: del 1994 il modello A8, prima berlina di serie con telaio, motore, carrozzeria e sospensioni eseguiti con largo impiego di alluminio. Più in generale, numerose sedute esemplificano la tensione dei progettisti verso strutture snelle e, al contempo, resistenti. Si possono ricordare le elastiche sedie in tubolare d’acciaio curvato di Mart Stam e Marcel Breuer del 1926, così come la Superleggera Cassina, esile e robusta seduta in legno disegnata da Gio Ponti nel 1957. Anch’essa legata alle sperimentazioni contemporanee sui materiali e sulle tecniche di lavorazione, è la ricerca che Alberto Meda elabora nel 1987 con il prototipo Light light, prima seduta che saggia le possibilità di utilizzo della fibra di carbonio. Come i vari tipi di polimeri, di termoindurenti ed elastomeri, i materiali compositi – dai sandwiches con il cuore in nido dape alle pelli di tessuti di carbonio o kevlar –, trovano da qualche decennio interessanti e avanzate applicazioni nel settore delle attrezzature sportive oltre, naturalmente, a quello aeronautico, dei satelliti, dei trasporti e dei veicoli da competizione. Ma utilizzare meno materiale vuol dire consumare meno risorse della terra, anche se questa equazione non funziona se applicata all’impalpabile borsetta di plastica del supermarket. La sostenibilità ambientale passa perciò attraverso l’impiego di materie abbondantemente disponibili e non dannose, tecniche semplici ed ecocompatibili nonché soluzioni robuste e durature. Dunque, economia di mezzi di produzione e appropriatezza nell’uso dei materiali, non solo quelli innovativi. Comunque al di là della ricerca di sempre dell’ottimale rapporto carico/prestazioni, la leggerezza ha assunto, in un’epoca di progressiva miniaturizzazione dei componenti elettronici, anche un nuovo significato connesso alla capacità di condensare più funzioni in un unico manufatto. Il “far leggero” diventa così un’immagine mentale oltre che fisica. Walkman oppure iPod ne sono esempio paradigmatico: nuove tipologie di oggetti derivate dalla riduzione degli ingombri, piccole protesi trasportabili in grado di proporre esperienze sonore inedite. Ma la rivoluzione informatica ha trasformato entità fisiche in bit, impulsi infinitesimi che sotto forma di software hanno sostituito molte attività umane. Per contro, la diminuzione di materia degli oggetti provoca un desiderio di tangibilità. Ad esempio, la sedia Laleggera per Alias ideata da Riccardo Blumer nel 1998 coniuga felicemente leggerezza visiva e “calore” dei materiali tradizionali, accoppiando una pelle lignea con un interno in poliuretano, per un peso di poco superiore ai due chilogrammi. La leggerezza, concetto che si è sviluppato in più ambiti di pensiero assumendo connotati diversi, diventa per Italo Calvino, nelle Lezioni americane un valore da lasciare come eredità morale per la cultura letteraria del terzo millennio. Nell’auspicare un’arte del pensiero capace di sollevarsi sulla pesantezza del mondo scrive: “spero innanzitutto d’aver dimostrato che esiste una leggerezza della pensosità, così come tutti sappiamo che esiste una leggerezza della frivolezza; anzi, la leggerezza pensosa può far apparire la frivolezza come pesante e opaca”. Una complessa lievità d’animo – Munari e i Castiglioni, fra i tanti, insegnano – che rifiuta una cultura, anche progettuale, basata su fragilità e consumo rapido, distruzione repentina e sostituzione facile.

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DESIGN

DESIGNING FOR LIGHTNESS by Alberto Bassi The Great Exhibition in London in 1851 conventionally marks the beginning of the history of industrial design. The first universal exposition of artifacts produced with mechanized means was held in the Crystal Palace, a giant glass and steel “greenhouse” conceived by Joseph Paxton. A building that was so light as to make his contemporaries predict that the very essence of architecture would collapse: its contact with the earth, its material nature. It was an object in itself, built out of standardized prefabricated parts, and it housed the products generated by new technologies. Perhaps this emblem of modernity is partly responsible for one of the “myths” of modern culture, lightness. An issue which has come back with renewed relevance. Important design inventions are the children of lightness, especially in relation to advanced technological applications, from nineteenth century engineering structures to skyscrapers, from roofs that span large spaces to residential projects. Like the 1928 Dymaxion House by Buckminster Fuller, an aluminum cell for living produced industrially and at low-cost, that could be assembled by six workers in a single day, and weighed only 1,5 tons compared to the 150 tons of the average house. To achieve maximum benefit, with a minimum dispersion of energy and materials by making the most of technology is Fuller’s underlying principle, inspired by the development of the aeronautics industry: these were the years when the skies were crowded with “lighter than air”, immense Zeppelin blimps. The many research projects in the field of transportation that deal with the relationship between weight and performance made aluminum the “king” of materials for lightweight structures. Aluminum was thus used for the structural frame with steel wire stays on the Zeppelin, and for the riveted siding of American Airstream trailers, the “traveling homes” created in the Thirties that became the symbol of American nomadic living, and for the Superleggera system, the patented tubular frame produced by the Touring automobile body manufacturer in Milan at the end of the same decade. Through the most recent studies on the reduction of mass combined with rigidity and safety, developed, to cite just one example, by Audi in the early Eighties: the Audi A8, the first standard sedan whose frame, motor, body and suspensions were built largely out of aluminum, was produced in 1994. More generally, a large number of chairs still exemplify the interest of designers in more slender, and at the same time more resistant, structures. They include the elastic chairs in curved tubular steel by Mart Stam and Marcel Breuer in 1926, or the Cassina Superleggera, a slender and robust wood chair designed by Gio Ponti in 1957. Also a product of contemporary experimentation with materials and manufacturing techniques is the 1987 project by Alberto Meda, whose prototype, Light light, was the first chair to explore the possibilities inherent in the use of carbon fibers. Like other types of polymers, thermo-hardening materials and elastomers, in recent decades composite materials, from honeycomb structures to skins made of carbon or kevlar fabric, have found interesting and advanced applications in the field of sporting equipment and aeronautics, satellites, transportation and racing vehicles. But to use less material means to consume less of the earth’s resources, even though this equation does not seem to apply to the featherweight plastic shopping bags at the supermarket. Environmental sustainability involves the use of widely available and non-harmful materials, simple and ecologically compatible techniques and sturdy and lasting solutions. Economy of means in production and an appropriate use of materials, not just innovative materials. In addition to the continuing search for the optimal relationship between load and performance, at a time when electronic components are becoming progressively miniaturized, lightness has assumed a new significance related to the feasibility of concentrating a number of functions into a single object. “Make it light” thus becomes more


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ALCOA BUILDING. HARRISON & ABRAMOVITZ, PITTSBURGH, 1950-53


SISTEMA A FACCIATA CONTINUA DELLA ALCOA BUILDING. HARRISON & ABRAMOVITZ. 1950-53 CURTAIN-WALL SYSTEM OF THE ALCOA BUILDING, HARRISON & ABRAMOVITZ. 1950-53

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of a mental image than a physical one. The Walkman or the iPod are paradigmatic examples: new typologies of objects that spring from a size reduction, they are small transportable prostheses that create a brand new sound experience. But the computer revolution has transformed physical entities into bits, infinitesimal impulses that, in the form of software, substitute many human activities. On the other hand, the diminished material in objects provokes a desire for tangibility. For example, the Laleggera chair designed by Riccardo Blumer in 1998 for Alias, happily conjugates visual lightness and the “warmth” of traditional materials, by adding a wood veneer to a polyurethane structure, for a total weight of little more that two kilograms. Lightness, a concept that has been developed in many fields of thought with differing connotations, in the American Lessons by Italo Calvino becomes a value to leave as a moral legacy for the literary culture of the third millenium. As he invokes an art of thinking that can rise above the weight of the world he writes: “I hope first to have demonstrated that there is a lightness in thoughtfulness, just as we all know that there is a lightness in frivolity; better yet, thoughtful lightness makes frivolity appear ponderous and opaque”. An overall lightness of spirit – of which Munari and Castiglioni were masters – that refuses a culture, even a design culture, based on fragility and rapid consumption, sudden destruction and quick substitution.

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SUPERNOVA FERRUCCIO LAVIANI



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IL DIRIGIBILE, IL PIÙ LEGGERO D


DESIGN

THE BLIMP, “LIGHTER THAN AIR” English text p. 26

ELL’ARIA


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IL DIRIGIBILE, IL PIÙ LEGGERO DELL’ARIA di Alberto Bassi

Abituati al volo dei jet, fatichiamo oggi a immaginare e riandare con la mente a quando, nella prima metà del secolo scorso, l’aeroplano non si era ancora definitivamente affermato. Nel tempo infatti sono esistite anche alternative “eretiche” (e per un breve periodo vincenti) all’aereo. Ad esempio, gli idrovolanti per cui costruire appositi “aeroporti”, come è avvenuto a Milano con l’Idroscalo; e ancora, al principio del novecento e fra le guerre, non pochi avrebbero scommesso sulle sorti magnifiche e future dei dirigibili. La storia in verità ha poi riservato a questi ultimi alterne fortune e tuttalpiù un elitario destino, ma – fra epica e leggenda – il fascino del dirigibile resta intatto ai nostri giorni, quando diverse aziende ne producono ancora e capita talvolta di vedere qualche esemplare solcare i cieli, a mezza via fra gli impieghi pubblicitari e l’efficienza funzionalista di taluni utilizzi. Nelle ultime Olimpiadi di Atene, ad esempio, all’interno di un dirigibile in perenne stazionamento sopra la città erano poste le funzioni tecnologiche e di controllo dell’intera manifestazione. In sede storica ma anche in una chiave di lettura contemporanea, sono numerosi gli elementi di interesse collegati ai dirigibili, i “più leggeri dell’aria” – come erano stati definiti in contrapposizione ai pesanti aeroplani – costituiti da “un involucro racchiudente un certo volume di gas più leggero dell’aria atmosferica” che rimaneva “sospeso nell’aria reggendo un determinato carico” (Esposizione dell’Aeronautica Italiana, catalogo ufficiale della mostra, Palazzo dell’arte, Milano giugno-ottobre 1934, Bestetti, Milano 1934, p. 121).


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ZEPPELIN, 1927

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DIRIGIBILE LZ 127 GRAF ZEPPELIN, 1928, PASSERELLA INFERIORE THE LZ 127 GRAF ZEPPELIN BLIMP, 1928, LOWER WALKWAY

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Dalle avventurose vicende e personaggi che ne hanno accompagnato la storia – a cominciare da Ferdinand von Zeppelin, il cui nome e la cui azienda sono divenuti di frequente addirittura sinonimo della tipologia di velivolo –, fino all’attualità della filosofia progettuale sottesa al volo “lento”, tranquillo ed ecologico del dirigibile. Quattro gli elementi fondamentali che lo compongono dal punto di vista tecnico-costruttivo: un involucro allungato, suddiviso in compartimenti stagni riempito di gas, in origine idrogeno; una navicella agganciata o sospesa contenente gli organi propulsori, gli ambienti di comando e di alloggiamento dell’equipaggio e dei passeggeri; il gruppo motopropulsore; i timoni costituiti da piani orizzontali e verticali per manovre di direzione e quota. Anche se è esistita un’ampia vicenda di sviluppi e ricerche sul mezzo, compreso un significativo filone italiano (dai progetti per dirigibili semirigidi dell’ingegner Enrico Forlanini al volo infelice, con successivo “naufragio”, di Umberto Nobile al Polo Nord), il primo a realizzare dirigibili in grado di volare con continuità e margini accettabili di sicurezza fu proprio Von Zeppelin, con un velivolo basato su un’armatura metallica rivestita di stoffa, all’interno della quale alloggiare le celle per il gas. “Conte folle” venne in principio chiamato; non poco stravagante doveva infatti apparire questo ufficiale degli Ulani dell’Esercito Imperiale che, alla veneranda età di cinquantadue anni, si proponeva di costruire enormi “navi del cielo” in grado di librarsi leggere in volo e muoversi in qualunque direzione, perché, a differenza di aerostati e mongolfiere, erano forniti di un apparato propulsore e sistemi direzionali. Quando nel 1917 venne a mancare Von Zeppelin, la sua attività fu degnamente proseguita dall’ingegnere e progettista Hugo Eckener, che, nelle officine di Manzell, presso Friedrichshafen sul lago di Costanza, costruì il LZ 127 Graf Zeppelin (1928) e il LZ 129 Hindenburg (1936), importanti per efficienza e dimensioni. Quest’ultimo – con i suoi 41 metri di diametro e 200 mila metri cubi di volume, equipaggiato con quattro motori Daimler Benz 16 cilindri, 1320 cavalli diesel – era grande tre volte e mezzo un Boeing 747, e paragonabile alla Queen Mary, il più grande piroscafo di quei tempi. Nelle versioni contemporanee l’involucro è riempito con l’elio, un gas inerte, a differenza dell’infiammabile idrogeno adottato dall’Hindenburg, una fra le cause del catastrofico incendio del 1938 a New York che lo distrusse, e simbolica origine del declino del dirigibile nell’immaginario collettivo. Negli anni trenta, un cronista ne aveva raccontato il fascino del volo. “Non una scossa. Non si avverte il beccheggio o rollio. Ma veramente si vola? Ma veramente si è sospesi nello spazio, anziché accolti in un bastimento, che, per chi sa quali misteriosi congegni, riesca a navigare a fior di terra come sull’acqua? No, sul dirigibile non ci sono emozioni e neppure forti sensazioni di volo. Sull’aeroplano si ha l’impressione gagliarda di conquistare, di vincere un elemento. Qui si è da esso cullati, pare. Si dimentica a poco a poco di trovarsi a bordo di un aeronave. Si ha una tale sicurezza che vien voglia di sporgere il capo per scorgere a quale cavo è appesa questa enorme carrozza di filovia” (C. Ridomi, Col Conte Zeppelin da Friedrichshafen a Roma, “Corriere della sera”, 30 maggio 1933, p. 5). E ancora, guardato con gli occhi competenti e un po’ emozionati di Felice Troiani, ingegnere che con Umberto Nobile aveva progettato il dirigibile Italia della missione polare: “Allora veder passare, sospese nell’aria, quelle costruzioni complicate e imponenti che sembravano reggersi sul nulla, era uno spettacolo che attanagliava la gola e che fermava il cuore” (F. Troiani, La coda di Minosse. L’epoca e il dramma della Tenda Rossa,

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Mursia, Milano 1964, p. 10). Altri con senso critico e vis poetica hanno affermato: “Era troppo mastodontico, vulnerabile e lento. Ma era un mostro di grandiosa bellezza. La sua liscia superficie d’alluminio aveva uno splendore argenteo e la forma levigata e compatta lo faceva sembrare a distanza un animale vivo: un bonario colossale Moby Dick dell’aria che nuotasse tranquillo fra le nubi” (Arthur Koestler). Oggi, quando pare improcrastinabile un ripensamento su caratteri e modalità dello sviluppo tecnologico, che deve tornare a essere sostenibile e compatibile con il pianeta e l’uomo stesso, può forse essere utile riflettere sulla “simbolica” struttura leggera, sulla deliberata “lentezza”, che era qualità del volo e della vita, incarnata dai dirigibili.

THE BLIMP, “LIGHTER THAN AIR” by Alberto Bassi We are so used to jet flights that we find it hard to imagine and mentally go back through time, to the first half of the past century, when the airplane had not yet achieved definitive consecration. Through time, there have been a number of “heretical” (and for brief periods, winning) alternatives to the airplane. For example, the sea-planes for which specialized “airports” were built, such as the Idroscalo in Milan; and again, in the early twentieth century and in the period between the two World Wars, there were many who would have placed their bets on the golden future prospects of blimps. In truth, history reserved them rather alternate fortunes and at most an elitist fate, but, between epic and legend, our fascination with blimps remains unchanged, as several manufacturers continue to produce them, and they may occasionally be seen floating through the sky, carrying publicity or displaying a functionalist kind of efficiency at other tasks. During the recent Olympic Games in Athens, for example, a blimp hovering permanently over the city contained the technological and control functions for the entire event. Historically, but even in contemporary terms, there are many elements of interest connected to blimps, “lighter than air”, as they were defined in contrast to the heavier airplanes, composed of “a casing enclosing a certain volume of gas lighter than the air in the atmosphere” that remained “suspended in the air while carrying a given load” (Esposizione dell’Aeronautica Italiana, official exhibition catalog, Palazzo dell’arte, Milan June-October 1934, Bestetti, Milan 1934, p. 121). From the adventurous events and personalities that recur throughout its history, starting with Ferdinand von Zeppelin, whose name and company have frequently become synonymous of this type of aircraft, to the relevance of a design philosophy based on the “slow”, peaceful and ecological flight of the blimp. It is composed of four basic elements, from a technical and structural point of view: an elongated casing, subdivided into leak-proof compartments filled with gas, originally hydrogen; a fastened or suspended cabin containing the propulsion organs, the cockpit and seating areas for the crew and passengers; the motor-propulsion group; the rudders consisting in horizontal and vertical planes to control direction and altitude maneuvers. Though there has been an extensive history of developments and research on this type of vehicle, including a significant Italian contribution (from the projects for semi-rigid blimps by the


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IL DIRIGIBILE LZ 129 HINDENBURG, 1936, MONTAGGIO DELLA PASSERELLA LONGITUDINALE THE LZ 129 HINDENBURG BLIMP, 1936, ASSEMBLY OF THE LONGITUDINAL WALKWAY

OSSATURA DELL’AERONAVE THE FRAME OF THE AIRSHIP


OPERAZIONE DI GONFIAMENTO DELLE CELLE EFFETTUATA CON ARIA COMPRESSA PROCEDURE FOR BLOWING COMPRESSED AIR INTO THE CELLS

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L’HANGAR DEL DIRIGIBILE LZ127 GRAF ZEPPELIN THE HANGAR FOR THE LZ127 GRAF ZEPPELIN BLIMP

IL DIRIGIBILE LZ126 QUASI ULTIMATO THE LZ 126 BLIMP NEAR THE END OF CONSTRUCTION


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engineer Enrico Forlanini to Umberto Nobile’s ill-fated flight to the North Pole, where he crashed), the first to make blimps that could fly with continuity and acceptable standards of safety was Von Zeppelin, who produced an aircraft based on a metal frame structure covered in fabric, inside which he placed the cells for the gas. “The Crazy Count”, he was called in the beginning; in fact this official of the Imperial Army Ulans must in fact have appeared quite extravagant when, at the respectable age of fifty-two, he decided to build enormous “sky ships” that could take flight and move in any direction, because, unlike aerostats or balloons, they had a propulsion and directional system. When Von Zeppelin died in 1917, his work was successfully pursued by the engineer and designer Hugo Eckener who worked in the workshop in Manzell, near Friedrichshafen on Lake Costanza, to build the LZ 127 Graf Zeppelin (1928) and the LZ 129 Hindenburg (1936), whose size and importance were indeed significant. The latter, 41 meters in diameter and with a volume of 200,000 cubic meters, equipped with four 16-cylinder 1320 HP Daimler Benz diesel engines, was three and a half times larger than a Boeing 747, and comparable in size to the Queen Mary, the largest ship of the time. In contemporary versions the casing is filled with helium, an inert gas, unlike the combustible hydrogen used by the Hindenburg, which was one of the causes of the catastrophic New York fire that destroyed it in 1938, and the symbolic beginning of the decline of the blimp in the collective imagination. In the Thirties, a journalist described its fascinating flight. “Not a vibration. You don’t feel any pitching or rolling. Is it really flying? Are we actually suspended in space, rather than gathered aboard a ship that, by who knows what mysterious mechanism, is able to navigate above the earth as if it were on water? No, there are no emotions or powerful sensations of flying on a blimp. The airplane gives you a hearty impression of conquering, of overpowering an element. Here, it feels like you are being embraced. Little by little you forget that you are on board an airship. You feel so safe that you want to stick your head out to see the wire that this enormous streetcar is suspended from.” (C. Ridomi, Col Conte Zeppelin da Friedrichshafen a Roma, “Corriere della sera”, may 30 1933, p. 5). And again, seen through the competent and somewhat excited eyes of Felice Troiani, the engineer who designed the Italia blimp with Umberto Nobile for his polar mission: “The sight of these complex and imposing constructions that seemed to rest on thin air as they floated overhead, suspended in the sky, was something that gripped your throat and made your heart skip a beat.” (F. Troiani, La coda di Minosse. L’epoca e il dramma della Tenda Rossa, Mursia, Milan 1964, p. 10). Others with greater critical sense and poetic inclination have stated: “It was too enormous, vulnerable and slow. But it was a monster of extraordinary beauty. Its polished aluminum surface had a silvery splendor and the smooth and compact shape made it look like a live animal from a distance: a gentle giant Moby Dick of the air that floated gracefully through the clouds.” (Arthur Koestler). Today, when it appears urgent to reassess the characteristics and processes of technological development, which must once again become sustainable and compatible with the planet and with man himself, it might be useful to reflect on “symbolic” lightweight structures, on the deliberate “slow pace” that represented a quality of flight and of life, embodied by the blimps.


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THE SHADOW OF THE ZEPPELIN OVER THE ROTTERSAND LIGHTHOUSE

L’OMBRA DELLO ZEPPELIN SOPRA IL FARO DI ROTTERSAND


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LIGHTWEIGHT TOM DIXON



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PROTOTIPI DELLA COLLEZIONE LIGHTWEIGHT, 1995 PROTOTYPES FOR THE LIGHTWEIGHT COLLECTION, 1995


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ARCHITETTURA

L’ARCHITETTURA A DI BUCKMINSTER


ARCHITECTURE

THE AERIAL ARCHITECTURE OF BUCKMINSTER FULLER English text p. 45

EREA FULLER


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ARCHITETTURA_ARCHITECTURE

L’ARCHITETTURA AEREA DI BUCKMINSTER FULLER di Cecilia Colombo

“Sono nato nel 1895. L’aeroplano fu inventato quando avevo nove anni. Al tempo… l’idea che un uomo potesse volare era considerata assurda”, dice Richard Buckminster Fuller nel 1962, leggendo a ritroso una carriera interamente volta a sconfiggere la gravità. E poi, aggiunge, “ho vissuto la maggior parte della mia vita nell’epoca in cui volare non è più impossibile, e tuttavia le convenzioni sociali dominanti e le dottrine economiche continuano a presupporre l’incapacità umana al volo”. Con una punta di amarezza, forse, perché il riconoscimento internazionale conseguito dalle sue ricerche è basato più sul loro fascino utopico che su una concreta fiducia nella loro realizzabilità, da parte del mondo produttivo e del mercato. Seguendo lo sviluppo della sua opera emerge chiaramente che per lui la leggerezza non è un mero slogan, ma un’intenzionalità profonda sul piano sia scientifico-tecnico sia filosofico. Tutto ha inizio nel 1927. Nell’anno della trasvolata atlantica di Lindbergh, Fuller presenta il suo primo progetto di case leggere, le 4D Houses. Pensate per essere aviotrasportabili (peso 45 tonnellate) e impiantabili ovunque, sono torri di 8-12 piani formati da piastre aggettanti da un pilastro centrale in materiale leggero; questo elemento sopraeleva la costruzione come un pilotis e contiene ascensori e canalizzazioni di servizio, climatizzatori e aspirapolvere compresi. Ricoperti da un doppio involucro vetrato, questi edifici sono i protagonisti della prima visione fulleriana del mondo nuovo, avvolto dalle vie di trasporto e telecomunicazione, aerei navi dirigibili onde radio, dove le abitazioni sono “lightful houses”, lucenti e senza peso. Fuller immagina ogni edificio come sistema autosufficiente: dotato di impianti per riutilizzare l’acqua mediante filtri sterilizzatori a pompaggio, o per impacchettare i rifiuti


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MONTRÉAL DOME, 1950


4D HOUSES, SCHIZZO DI PROGETTO, 1928 CIRCA 4D HOUSES, DESIGN SKETCH, CIRCA 1928

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da spedire direttamente alle industrie chimiche. Tale concezione di ecologia fondata sull’autonomia energetica è un’altra costante del suo approccio “leggero” alla tecnologia che non deve gravare sul pianeta. Convinto che la struttura delle costruzioni deve basarsi sulla sospensione degli elementi dall’alto piuttosto che sull’appoggio a sostegni dal basso, in breve Fuller passa da una sistema a sbalzo a uno a piani sospesi, sorretti da cavi che si dipartono dalla sommità del perno centrale. Dapprima circolari, i solai della 4D House evolvono quindi nella pianta esagonale, composta da settori triangolari. Il nome 4D nasce infatti dagli studi sulla “geometria energetica” e in particolare sulla forma triangolare, generatrice di un sistema di quattro coordinate spaziali, più efficiente delle 3D cartesiane. Il passo successivo è il progetto Dymaxion, del 1928. Si tratta di alloggi unifamiliari corrispondenti a una porzione di due piani delle torri. La copertura piramidale è sospesa al pilastro centrale, che nella sua estremità inferiore, da interrare, comprende le fondazioni, i serbatoi e il pozzo nero. Questo albero portante, alto 6,7 metri e composto da sette tubi d’acciaio che pesano complessivamente solo 32 chili, è sottoposto a un carico accidentale di 10 tonnellate. La produzione dell’alloggio è interamente industriale: Fuller ne studia anche la distribuzione interna, a raggiera, e gli arredi, incassati nelle pareti divisorie e via via perfezionati fino a comprendere armadi girevoli, poltrone gonfiabili e anche una modernissima unità bagno prestampata (1937), come quelle usate oggi negli aerei. Il nome Dymaxion fu inventato da un copywriter, riassumendo i termini dynamic + maximum + tension, tratti dal vulcanico lessico di Fuller, e sintetizza la sua idea guida, ottenere il “massimo di risultati raggiungibili con il minimo impiego di energia”, espressa anche nel suo celebre motto “doing the most with the least”. Il detto suona come un rimprovero al “less is more” razionalista di Mies van der Rohe: Fuller infatti conosce bene il dibattito architettonico contemporaneo, ma non condivide i principi del razionalismo lecorbusieriano né si congratula per la diffusione dell’International Style. Fuller, come nota Anna Rita Emili nel 2003, non mira al prodotto ma alla definizione del corretto processo progettuale. Che lo porta ad adottare l’edilizia industriale – in un’ottica ecologica – e quindi a inventarsi tipologie spaziali e di forma del tutto nuove. “In architettura – afferma Fuller nel 1928 – forma è un sostantivo; nell’industria è un verbo”. Egli segue insomma un approccio “per sistemi” e non “per modelli”. È del 1940 la Dymaxion Development Unit, una casa di forma cilindrica, costruita come alloggio d’emergenza in tempo di guerra da un’azienda produttrice di silos per grano. E intorno al 1945 viene messa a punto la Wichita House: una rivoluzionaria “dwelling machine” in alluminio, acciaio e plexiglas, fabbricabile come un’automobile, leggera, edificabile solo da uno o due uomini. È sorretta dallo stesso perno centrale che fa da fondazione, dal quale si dipartono anche le pareti mobili attrezzate con arredi e servizi. Fuller spiega che la forma esterna dell’edificio è determinata esclusivamente dall’energia interna: una casa emisferica consuma circa un quarto dell’energia necessaria a una casa cubica dello stesso volume. Grazie anche al particolare camino, riscaldamento e ventilazione si irradiano dal centro della casa, fornendo dieci completi cambiamenti di tutta l’aria interna ogni ora, anche senza impianto. Instancabile, “Bucky” approfondisce gli studi sulla “geometria sinergetica” giungendo al metodo di costruzione delle cupole geodetiche, le sue celebri strutture tondeggianti costituite da elementi portanti connessi in forma triangolare. “Don’t fight forces, use them!” è un altro dei suoi aforismi: dapprima, tenace nella ricerca di unità strutturali che sfruttino solo le forze di tensione, Fuller scopre quelle che chiama le “strutture

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STRUTTURA PORTANTE DEL GEODESIC DOME, MONTRÉAL, 1950 BEARING STRUCTURE OF THE GEODESIC DOME, MONTRÉAL, 1950

COSTRUZIONE DELL’HONOLULU DOME, HONOLULU, 1957 CONSTRUCTION OF THE HONOLULU DOME, HONOLULU, 1957

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tensegrali”, in cui gli elementi rigidi sono connessi solo da cavi sottili senza toccarsi. Altra fonte dei suoi studi è l’osservazione sperimentale del comportamento di sfere di uguale diametro, sistemate il più possibile una vicino all’altra in modo da formare figure geometriche. La più semplice e stabile è il tetraedro, che si rivela l’unità primaria per la scomposizione della sfera. Una sfera formata da triangoli è infatti la forma più efficiente dal punto di vista dinamico: è la più forte e aerodinamica per resistere al vento ed è la più economica grazie al miglior rapporto tra area e superficie di copertura e alla migliore circolazione interna dell’aria. La scoperta del metodo geometrico per scomporre la sfera gli vale la cattedra all’Institute of Design di Chicago e al Black Mountain College nel North Carolina, dove Fuller anima una vivace comunità di artisti e scienziati. Da questi luoghi Fuller lavora assiduamente sulle applicazioni, coinvolgendo studenti e collaboratori nella sua euforia sperimentale: organizza workshop, dimostrazioni, raduni, fino a veri e propri happening per l’innalzamento di nuovi tipi di cupole. Il repertorio degli edifici realizzati si arricchisce a ritmo serrato: ville suburbane, rifugi d’emergenza, hangar per elicotteri, ristoranti, padiglioni espositivi, stabilimenti, basi artiche. Assai diversificate sono le dimensioni, i materiali e le forme dei reticoli, sempre studiati per una “cantieristica leggera” che riduce al minimo la necessità di impalcature, gru o movimenti di terra: si va dalla prima “collana geodetica” (1949, del diametro di 4 metri e ripiegabile per mezzo di un tirante) alla cupola larga 116 m che copre la Union Tank Car Co. di Baton Rouge (1958, costruita con soli quattro sostegni a balcone) ai 3/4 di sfera del padiglione americano all’Expo di Montréal (1967, del diametro di 76 m), composta da tetraedri e ottaedri. La prima presentazione delle cupole geodetiche alla comunità architettonica internazionale è il padiglione statunitense alla X Triennale di Milano, nel 1954: una cupola di 13 metri in cartone ondulato, i cui pannelli a losanga recano stampate le istruzioni per il montaggio. E Fuller riesce sempre ad alternare questa moltitudine di realizzazioni con una ugualmente fervida attività di pensiero, a immaginare proposte visionarie, che travalicano i confini dell’architettura per risolvere i problemi economici, sociali ed ecologici della terra, come nel caso delle unità abitative sferiche, galleggianti nel cielo grazie al riscaldamento dell’aria interna, che potrebbero alleviare la concentrazione urbana (1967). È attraverso questo “utopismo tecnocratico” che si può capire l’influenza di Fuller sul pensiero architettonico moderno, in particolare sull’architettura radicale. Il suo testamento però Fuller lo affida a un libro per bambini, scritto a ottant’anni e congegnato (ovviamente..) come un nastro di pagine triangolari, in cui riprende la fiaba di Goldilock e i tre orsi per spiegare ai piccoli la sua scienza. “I popoli di terra – racconta – sono sedentari e ottusamente incuranti della sfericità del pianeta. Fabbricando i loro edifici con le pietre, costruiscono per compressione, per masse squadrate, per accumulazione e peso. Al contrario, i popoli del mare fabbricano le loro navi con il legno e così costruiscono per tensione, per linee curve, per triangoli e con la massima efficienza e funzionalità”.

THE AERIAL ARCHITECTURE OF BUCKMINSTER FULLER by Cecilia Colombo “I was born in 1895. The airplane was invented when I was nine years old. At the time.. the idea that a man could fly was considered absurd”, said Richard Buckminster Fuller in 1962, as he recalled the

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QUATTRO MODELLI DI STUDIO DI POLIEDRI SFERICI FOUR STUDY MODELS OF SPHERE-SHAPED POLYHEDRONS

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beginning of a career entirely devoted to defying gravity. And then, he added, “I spent the greater part of my life in an era when flying was no longer impossible, but the dominating social conventions and economic doctrines continued to be based on the human inability to fly”. With a touch of bitterness perhaps, because the international recognition awarded to his research projects is based more on their utopian appeal than on the conviction by industry and the market that they can actually be built. In studying the development of his work, it becomes clear that in his mind lightness is not conceived as a mere slogan, it is profoundly intentional both on a technical, scientific and philosophical level. It all started in 1927. The year that Lindbergh flew across the Atlantic, Fuller presented his first project for lightweight housing, the 4D Houses. Conceived to be transported by airplane (they weighed 45 tons) and assembled anywhere, they were 8-12 story towers made of slabs jutting from a central pilaster in lightweight material; this element raises the construction like a pilotis and contains the elevators and service conduits, air conditioning and vacuum cleaning included. Enclosed by a double layer of glass, these buildings are the protagonists of Fuller’s first vision of a new world, surrounded by networks for transportation and telecommunication, airplanes ships blimps and radio waves, where the residential units are “lightful houses”, bright and weightless. Fuller imagines each building as a self-sufficient system: equipped with systems to recycle water thanks to sterilized filters and pumps, and to pack waste ready to ship directly to the chemical plants. This conception of ecology founded on an autonomous energy supply is a constant factor in his “lightweight” approach to technology, which must not be a burden to the planet. Convinced that the structure of buildings should be based on the suspension of elements from above rather than resting on supports from below, Fuller quickly moved to a system of offset floors, suspended from cables attached to the top of the central pylon. Originally circular, the floor slabs of the 4D House evolve into a hexagonal plan, composed of triangular sections. The name 4D comes from the studies of “energetic geometry” and in particular of the triangle, a shape which generates a system of four spatial coordinates that are more efficient than the Cartesian 3D. The next step was the 1928 Dymaxion project. This was a project for single-family homes corresponding to a two-floor section of the towers. The pyramid-shaped roof is suspended from the central pilaster, which contains the foundations, the reservoirs and the septic tank in its lower section, buried underground. This structural mast, 6,7 meters high and made of seven steel tubes weighing only 32 kilograms in all, carries an accidental load of 10 tons. The home in its entirety was produced industrially: Fuller also worked out its internal distribution, which rayed out from the center, and the furniture, recessed into the dividing walls and developed over time to include swinging closets, inflatable chairs and an extremely modern pre-molded bath unit (1937), like the ones used in airplanes today. The name Dymaxion was invented by a copywriter, to synthesize the terms dynamic + maximum + tension, borrowed from Fuller’s volcanic vocabulary to express his driving idea, to obtain “the most that can be achieved with the least expenditure of energy”, for which he coined his famous motto “doing the most with the least”. His words sound like a rebuke to the rationalist “less is more” expressed by Mies van der Rohe; Fuller is well aware of the contemporary architectural debate, but he does not agree with the principles of Le Corbusier’s rationalism, nor is he thrilled with the diffusion of the International Style. Fuller, notes Anna Rita Emili in 2003, is not interested in the product but in the definition of the correct design process. Which leads him to embrace industrial building, from an ecological point of view, and to adopt totally new spatial and formal typologies. “In architecture, says Fuller in 1928, form is a noun; in industry it is a verb”. His approach is through “ systems”, not “models”.

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The Dymaxion Development Unit, a cylinder-shaped house, built as an emergency wartime living unit by a company that produced grain silos, was built in 1940. In 1945 came the project for the Wichita House: a revolutionary “dwelling machine” made of aluminum, steel and plexiglass that could be manufactured like an automobile, was lightweight, and could be erected by as few as one or two men. It is supported by the same central pylon that serves as the foundation, and as the anchoring point for the movable partitions that contain the furniture and the services. Fuller explains that the external form of the building is determined exclusively by its internal energy: a hemispherical house consumes only one fourth of the energy required by a cubic house with the same volume. Thanks to a specific type of chimney, the heating and ventilation radiate from the center of the house, renewing the air inside completely ten times every hour, even without an air conditioning system. Relentlessly, “Bucky” pursues his studies on “synergetic geometry” which would lead him to develop the construction method for his geodesic domes, his famous round structures made of structural elements connected in triangular forms. “Don’t fight forces, use them!” is another of his aphorisms: single-mindedly pursuing his research for structural units that use tension forces only, Fuller discovered what he called the “tensegrity structures”, in which rigid struts are connected only by thin wires without ever touching. Another source of his studies was the experimental observation of the behavior of spheres having equal diameter, placed as close as possible to one other to form geometric figures. The simplest and most stable is the tetrahedron, which turns out to be the primary unit for the de-composition of a sphere. A sphere formed by triangles is in fact the most efficient shape from a dynamic point of view: it is the strongest and most aerodynamic to resist wind and the most economical thanks to a superior relationship between the area and the roof surface, and better internal circulation of air. The discovery of the geometric method of decomposing a sphere won him tenure at the Institute of Design in Chicago and at Black Mountain College in North Carolina, where Fuller animated a lively community of artists and scientists. From these locations, Fuller worked assiduously on applications, involving students and collaborators in his experimental euphoria: he organized workshops, demonstrations, meetings, and even happenings to raise new types of domes. His building repertory increased rapidly: suburban houses, emergency shelters, hangars for helicopters, restaurants, exhibition pavilions, factories, arctic bases. The dimensions, materials and shapes of the grids are very different, and are always studied for “light sitework” which reduces the need for scaffolding, cranes or excavation to a bare minimum: starting with the first “geodesic string” (1949, 4 meters in diameter and collapsible) to the 116-meter dome covering the Union Tank Car Co. in Baton Rouge (1958, built with only four jutting supports) to the 3\4 sphere of the American pavilion at the Montréal Expo (1967, 76 meters in diameter), composed of tetrahedrons and octahedrons. The first presentation of the geodesic domes to the international architectural community was the US pavilion at the X Triennale di Milano in 1954: a 13-meter dome made of paperboard, whose diamond-shaped panels were printed with the instructions for assembly. Fuller was always able to alternate his many buildings with an equally fervid theoretical production, to imagine visionary solutions that reach beyond the boundaries of architecture to solve the economic, social and ecological problems of the earth, as in the sphere-shaped living units, that float through the sky thanks to the heated air inside, designed to alleviate urban congestion (1967). This “technocratic utopianism” can help understand the influence of Fuller on modern architectural thought, in particular on radical architecture. Fuller however entrusted his testament to a book for children, which he wrote at the age of eighty and


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WICHITA HOUSE, COSTRUZIONE DEL PRIMO PROTOTIPO, 1944 WICHITA HOUSE, CONSTRUCTION OF THE FIRST PROTOTYPE, 1944


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conceived (obviously…) as a ribbon of triangular pages, in which he uses the story of Goldilocks and the Three Bears to explain his science to children. “The peoples of the earth, he narrates, were sedentary and stubbornly unaware that their planet was shaped like a sphere. Using stones for their constructions, they built by compression, in block-shapes, by accumulation and weight. On the contrary, the people of the sea made their ships out of wood, building by tension, curved lines, and triangles for maximum efficiency and functionality”. Cecilia Colombo Storica dell’arte, ha studiato presso l’Università degli studi di Milano e la Pennsylvania State University, Usa. Dal 1977 svolge ricerche finalizzate alla realizzazione di mostre e alla pubblicazione di articoli e saggi dedicati alla storia dell’architettura tra Otto e Novecento. In particolare, si occupa di archeologia industriale e di storia delle tecniche costruttive, dell’architettura milanese e del disegno industriale. Collabora con vari periodici, enti e case editrici. Insegna storia dell’architettura all’Università degli studi di Milano e storia dell’arte alle scuole superiori. An art historian, she studied at the Università degli Studi di Milano and at Pennsylvania State University in the United States. Since 1977 she has conducted research finalized towards the organization of exhibitions and the publication of articles and essays dedicated to the history of architecture between the nineteenth and twentieth centuries. She is particularly interested in industrial archaeology and in the history of building techniques, architecture in Milan and industrial design. She collaborates with several newspapers, institutions and publishers. She teaches architectural history at the Università degli Studi di Milano and art history in high school.

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE_ESSENTIAL BIBLIOGRAPHY R. BUCKMINSTER FULLER, “4D TIMELOCK”, CHICAGO 1928 R. BUCKMINSTER FULLER, “NINE CHAINS TO THE MOON”, 1938, J. B. LIPPINCOTT COMPANY, NEW YORK 1938 R. BUCKMINSTER FULLER, “EDUCATION AUTOMATION”, SOUTHERN ILLINOIS UP, CARBONDALE 1962 J. MC HALE, “RICHARD BUCKMINSTER FULLER”, NEW YORK 1962, MILANO 1964 D. BARONI E A. D’AURIA, “RICHARD BUCKMINSTER FULLER”, IN “OTTAGONO”, 66, SETTEMBRE 1982, PP. 24-31 R. BUCKMINSTER FULLER, “ TETRASCROLL. GOLDILOCKS AND THE THREE BEARS. A COSMIC FAIRY TALE” (1975), UNITED LIMITED ART EDITIONS, NEW YORK 1982 J. KRAUSSE E C. LICHTENSTEIN (A CURA DI), “YOUR PRIVATE SKY. RICHARD BUCKMINSTER FULLER. THE ART OF DESIGN SCIENCE”, LARS MULLER PUBLISHERS, BADEN 1999 A. R. EMILI, “RICHARD BUCKMINSTER FULLER E LE NEOAVANGUARDIE”, EDIZIONI KAPPA, ROMA 2003


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THE MONTRÉAL DOME PRIMA DELL’APERTURA DELL’EXPO, 1967 THE MONTRÉAL DOME BEFORE THE OPENING OF THE EXPO, 1967


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LA SOSTENIBILE LEGGEREZZA DEI M


MATERIALS AND TECHNOLOGY

THE SUSTAINABLE LIGHTNESS OF MATERIALS English text p. 59

ATERIALI


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LA SOSTENIBILE LEGGEREZZA DEI MATERIALI di Marinella Levi e Valentina Rognoli

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TITO LUCREZIO CARO, RERUM NATURA”, A CURA DI GUIDO MILANESE, MONDATORI, MILANO 1992

“DE

“Perché vediamo alcune cose essere ad altri maggiori di peso, sebbene non abbiano forma più grande? Infatti se c’è in un globo di lana tanta materia quanto nel piombo, è ovvio che pesino uguali, poiché è funzione della materia spingere tutto giù dal basso, e al contrario, la natura del vuoto è senza peso; dunque ciò che ha eguale grandezza e appare aver peso minore manifesta con evidenza di aver vuoto più grande; e al contrario, ciò che ha peso maggiore lascia vedere d’avere in sé più materia, e vuoto molto minore. Esiste dunque, è evidente, ciò che non con ragione tenace ricerchiamo, frammisto ai corpi: ciò che chiamiamo vuoto.”1 Così, fin dal primo dei suoi sei libri, Tito Lucrezio Caro; sei libri che faranno di lui e del De rerum natura, un punto di riferimento oltre che della letteratura anche della concezione atomistica del mondo ereditata dagli epicurei. Impeccabile nella sua capacità di descrivere la Natura delle cose, il poeta dimostra la compatta solidità dei corpi che ci circondano, riportandola però immediatamente all’altrettanto concreta esistenza del vuoto che li riempie. Tutto qui. Da oltre duemila anni. Ma è forse interessante notare come solo da duecento anni, dall’affermarsi della teoria atomica di John Dalton, la lucida concezione di Lucrezio ha potuto consolidarsi in quella che è divenuta la nostra capacità di comprendere la struttura della materia. Da lì la sempre crescente capacità di correlare la struttura alle proprietà e di offrire a designer, architetti e ingegneri la possibilità di trasformare la materia in materiali, semplicemente utilizzandola nel loro percorso progettuale e facendola diventare parte di un prodotto.


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YET, STUDIO KAIROS, FOSCARINI, 2003

ORIGAMI


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E così il fare leggero, o meglio, leggero e resistente è divenuta una delle sfide più interessanti della cultura dei materiali nel progetto. Sì, perché fare resistente e pesante è tanto facile, così come fare delicato e leggero, da apparire ovvio. Esiste infatti una correlazione abbastanza diretta tra la densità dei materiali e la loro resistenza meccanica: ghisa e acciaio sono perfetti per sostenere grandi sforzi, ma pesano otto volte più della plastica che, a sua volta, ha una capacità di resistere alla deformazione (un modulo elastico, per gli amanti delle parole difficili…) cento volte inferiore. Un primo modo di “correggere” questo peccato originale, per esempio con i polimeri, è stato quello di rinforzarli utilizzando fibre di materiali più resistenti. Sono nati così e si sono ormai grandemente diffusi i materiali compositi a matrice polimerica rinforzati con fibre di vetro, carbonio, o altri polimeri appositamente preparati (il Kevlar®, fra i più illustri). Le fibre in questione possono essere spezzettate (o “corte”, come si usa dire in gergo,) e quindi mescolate in modo casuale a resine di basso peso e costo, con un conseguente non elevatissimo incremento delle proprietà, e comportamento indipendente dalla direzione di impiego del materiale (che viene per questo definito isotropo). Diversamente le fibre possono essere “lunghe” e opportunamente disposte all’interno della matrice (per esempio in forma di tessuti, con trama e ordito, fortemente anisotropi), comportando innalzamenti del modulo elastico anche di oltre cento volte, ma solo quando i compositi così ottenuti vengano utilizzati nella direzione della lunghezza delle fibre. Questo modo di operare si richiama strettamente al principio del “mettere quello che serve solo dove serve” e trova un immediato riscontro anche nel riconoscimento che l’aria è leggera ma non sopporta carichi, mentre la materia strutturalmente in grado di resistere è pesante. Nascono così le schiume e, più in generale, gli espansi che si vanno oggi diffondendo anche con matrici non polimeriche. In sostanza si tratta di tecnologie in grado di “espandere” e quindi alleggerire anche materiali fino a ieri considerati “pesanti” per eccellenza. Nasce così il calcestruzzo galleggiante, in cui mescolando il cemento anziché con sabbia e ghiaia, con piccole particelle di polimero si ottiene un materiale tre volte più leggero e meccanicamente migliore dell’originale. L’Aerogel è invece costituito da quarzo opportunamente lavorato e alleggerito con aria. Le particelle di quarzo sono piccole rispetto alle dimensioni della luce e l’Aerogel è quindi un materiale trasparente. Può essere lavorato in molteplici forme come tubi, parallelepipedi e lastre di differente spessore. Ha un potere isolante migliore della lana di vetro e una resistenza al calore migliore dell’alluminio. Essendo atossico e intrinsecamente non infiammabile trova interessanti applicazioni nella costruzione di pannelli isolanti, collettori solari, lastre per porte antincendio e componenti per sistemi di condizionamento. L’alluminio, da sempre noto perché già particolarmente “leggero” fra i metalli, è ormai diffuso anche nella sua forma alveolare (honeycomb per gli anglofili), in cui grazie alla capacità di costruire una struttura a celle chiuse, si ottiene un materiale che può arrivare ad essere dieci volte più resistente dell’alluminio, con un decimo del suo peso. Queste caratteristiche unite a una buona capacità di assorbire gli urti e di fungere da barriera per il fuoco ne fanno un buon candidato per impieghi nel settore automobilistico dove alla consistente riduzione del peso corrisponde una immediata riduzione dei consumi. Il tema del risparmio energetico connesso sia all’alleggerimento dei prodotti che alle doti di isolamento termico indotte dalla presenza di “ciò che serve dove serve”, in questo caso l’aria, rende l’intera famiglia degli espansi, leggeri, resistenti e isolanti, oggetto di continuo e crescente interesse da parte di ricercatori accademici e industriali. Le stesse motivazioni, con particolare attenzione soprattutto alla perdita di peso nel settore automobilistico, potrebbero in un prossimo futuro essere alla base del “salto”


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PLANA, URBINATI + VECCHIATO, FOSCARINI, 1984

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tecnologico che ancora non è stato compiuto dai cosiddetti nanomateriali. Per questa affascinante categoria di prodotti, potenzialmente dotati di proprietà non ancora del tutto esplorate, non è l’aria a conferire il guadagno in leggerezza, ma la ridottissima dimensione (dell’ordine del milionesimo di millimetro) di opportune cariche in grado di conferire incrementi alle proprietà meccaniche raggiungibili solo con quantità molto maggiori, e quindi con pesi più elevati, dei rinforzi tradizionali. Da questo punto di vista la sfida tecnologica dei nanomateriali è appena iniziata e saranno i prossimi anni a dimostrare quanto di concreto e di realmente trasferibile al progetto ci sia nell’innamoramento per il mondo delle “nanocose” oggi così diffuso. Alla fine di questa breve disquisizione sulla sostenibilità del materiale leggero e resistente, a noi non resta che richiamarci all’insostenibile leggerezza dell’essere che per Milan Kundera2 in fondo altro non è che l’amara constatazione dell’ineluttabile pesantezza del vivere per cui tutto ciò che scegliamo e apprezziamo come leggero non tarda a rivelare il suo peso insostenibile. Ma con Italo Calvino, e la prima delle sue lezioni americane3, impeccabile elogio alla leggerezza, siamo certi che solo la vivacità e la mobilità dell’intelligenza sfuggono a questa condanna; e nel momento in cui il regno dell’umano sembra condannato alla pesantezza potremo cercare nella scienza gli elementi perché essa venga dissolta. Entità sottilissime come i messaggi del DNA, neutrini, quark e l’informatica tutta sembrano volerci indicare questa via. La seconda rivoluzione industriale non è più rappresentata da laminatoi e colate d’acciaio, ma da flussi di informazione che corrono su fibre ottiche. “Le macchine di ferro ci sono sempre, ma obbediscono a bit senza peso”. O quasi.

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THE SUSTAINABLE LIGHTNESS OF MATERIALS by Marinella Levi and Valentina Rognoli “Why is it that some things seem to have greater weight than others, though their shape is not larger? In fact 1 if in a ball of yarn there is as much material as in lead, it is obvious that they weigh the same, because it is the function of matter to push everything down, and on the contrary, the nature of the void is weightless; thus what is of equal size and appears to have lesser weight clearly demonstrates that it has a greater void; and on the contrary, what has greater weight reveals that is has more material within it, and a much smaller void. Thus there exists, it is clear, that which we seek not without tenacious reason, mixed in with bodies: what we call the void.”1 Thus writes Titus Lucretius Carus in the very first of his six books; six books that will make him and his De rerum natura not only a literary landmark but a reference for the atomistic conception of the world inherited from the Epicureans. Impeccable in his ability to describe the Nature of things, the poet demonstrates the compact solidity of the bodies that surround us, relating it however to the equally real existence of the void that fills them. It’s all there. And has been for over two thousand years. But perhaps it is interesting to note that only in the past two hundred years, since John Dalton’s atomic theory became accepted, has Lucretius’ lucid conception been consolidated into what has become our ability to understand the structure of matter. That is the basis for our growing capacity to correlate the structure to the properties and to offer designers, architects and engineers the possibility of transforming matter into materials, simply by using it during the design process and making it become

MILAN KUNDERA, “L’INSOSTENIBILE LEGGEREZZA DELL’ESSERE”, ADELPHI, MILANO 1989 ITALO CALVINO, “LEZIONI AMERICANE”, MONDATORI, MILANO

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TITUS LUCRECIUS CARUS, DE RERUM NATURA, EDITED BY GUIDO MILANESE, OSCAR MONDATORI, MILAN 1992

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part of a product. And so to achieve lightness, or better yet, lightness and resistance has become one of the most interesting challenges of the culture of materials in design. Yes, because to achieve resistance with weight is so easy, like achieving lightness with fragility, that it appears obvious. There is in fact a rather direct correlation between the density of materials and their mechanical resistance: cast iron and steel are perfect for supporting heavy loads, but they weigh eight times more than plastic which in turn, has a capacity of resisting deformation (the elastic module, for those who like difficult words) one hundred times smaller. One of the first ways to “correct” this original sin, for example in polymers, was to reinforce them by using fibers from more resistant materials. This was the introduction of the now widely available polymer-matrix composites reinforced with fibers of glass, carbon or other specifically prepared polymers (Kevlar® is one of the best known). The fibers in question may be fragmented (or “short”, in jargon) and thus be informally mixed with lightweight and low-cost resins, leading to only a mild incrementation of their properties, and to performance that is independent of the direction in which the material is used (which for this reason is defined as isotropic). Otherwise the fibers can be “long” and distributed as required inside the matrix (for example in the form of fabrics with a pattern and a weave, which are strongly anisotropic), and which can increase the elastic module over one hundred times, but only when the composites thus obtained are used in the longitudinal direction of the fibers. This way of operating is strictly dictated by the principle of “putting what is necessary only where it is necessary” and is supported by the recognition that air is weightless, but cannot sustain loads, whereas matter, which is structurally able to resist, is heavy. This led to the introduction of foams, which are becoming more readily available now, even with a nonpolymer matrix. These are basically technologies that can “expand” and thus lighten materials that were traditionally considered “heavy” par excellence. This is the case of floating concrete, in which sand or gravel is replaced with small polymer particles to obtain a material that is three times lighter and has better mechanical properties than the original. Aerogel is made with quartz that is subjected to a specific process and lightened with air. The particles of quartz are small compared to the dimensions of light and Aerogel is thus a transparent material. It may be processed in a variety of shapes such as tubes, parallelepipeds and sheets in varying thicknesses. It has better thermal insulating properties than glass wool and a better resistance to heat than aluminum. It is non-toxic and intrinsically non-combustible, and thus finds interesting applications in the construction of insulation panels, solar collectors, panels for fire-doors and components for air-conditioning systems. Aluminum, which has always been known as the most “lightweight” of metals, is now widely available in its honeycomb form, in which thanks to the ability to build a closed cell structure, one can obtain a material that is ten times more resistant than aluminum, and weighs only a tenth. These characteristics, in addition to good shock-resistance and performance as a fire-barrier, make it an excellent choice for use in the automobile industry where consistent weight reductions translate into immediate fuel savings. The issue of saving energy connected to weight-reduction in products and thermal insulation capabilities allowed by the presence of “what is necessary where it is necessary”, air in this case, makes the entire range of lightweight, resistant and insulating foams the focus of a continuing and growing interest by academic and industrial researchers. The same reasons, with particular attention to weight reduction in the automobile industry, could in the near future constitute the basis for the technological “leap” that the so-called nano-materials have yet to make. For this fascinating category of products,

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MILAN KUNDERA, “L’INSOSTENIBILE LEGGEREZZA DELL’ESSERE”, ADELPHI, MILANO 1989 ITALO CALVINO, “LEZIONI AMERICANE”, MONDATORI, MILANO

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which has potential properties that have yet to be explored, it is not air that increases their lightness, but the tiny size (around a millionth of a millimeter) of the loads required to create an increase in mechanical properties that could only be achieved using much larger quantities, and much heavier weights, of traditional reinforcements. From this point of view the technological challenge of nano-materials has just begun and in the next few years we will be able to see whether there is real and useful substance in the infatuation for “nanothings” that is so widespread in our world today. At the end of this short disquisition on the sustainability of lightweight and resistant materials, we are left to refer to the unsustainable lightness of being that for Milan Kundera2 is nothing in the end but the bitter realization of the inescapable weight of living, so that everything we choose and appreciate as light will sooner or later reveal its unsustainable weight. But Italo Calvino, in the first of his American lessons3, an impeccable elegy to lightness, reassures us that only the liveliness and mobility of intelligence elude this fate; and just when the reign of man seems condemned to heaviness we can look to science to find elements that might dissolve it. Subtle entities such as the messages from our DNA, neutrinos, quarks and computer science in its entirety all seem to point this way. The second industrial revolution is no longer represented by rolling mills and cast steel, but by fluxes of information that run through optical fibers. “The iron machines still exist, but they are at the service of weightless bits”. Or almost. Marinella Levi Professore associato, insegna Scienza e tecnologia dei materiali presso il Politecnico di Milano e collabora con i corsi di laurea in disegno industriale dell’Università Iuav di Venezia. Si occupa di progettazione di nuovi materiali polimerici e di criteri di selezione dei materiali. An associate professor in Science and the Technology of Materials at the Politecnico in Milan, she collaborates with the industrial design programs at the Università IUAV in Venice. She is specialized in the design of new polymeric materials and the criteria for the selection of materials. Valentina Rognoli Dottore di ricerca in disegno industriale presso il Politecnico di Milano, insegna Scienza e tecnologia dei materiali presso il corso di laurea specialistica in comunicazioni visive e multimediali dell’Università Iuav di Venezia. Il suo specifico campo di interessi riguarda la caratterizzazione espressivo-sensoriale dei materiali per il design. Ph.D. in industrial design at the Politecnico in Milan, she teaches Science and Technology of Materials in the graduate program in Visual and Multimedia Communications at the Università IUAV in Venice. Her specific field of interest regards the expressive and sensorial characterization of materials for the design profession.


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MATERIALE CON STRUTTURA ALVEOLARE MATERIAL WITH HONEYCOMB STRUCTURE


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NICHETTO + GAI


DESIGNERS NICHETTO+GAI English text p. 72

RHA+THOR, FOSCARINI, 2001

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NICHETTO+GAI di Fiorella Bulegato

Luca Nichetto (Venezia, 1976) e Gianpietro Gai (Valdobbiadene-Tv, 1972) sono entrambi laureati in disegno industriale all’Università Iuav di Venezia. Lavorano assieme dal 1998 occupandosi di progetti di illuminazione, oggetti per la casa, grafic e web design. Dal 2001 hanno disegnato per Foscarini i modelli Rha+Thor, Maui, O-space e Gea. Nel 2004 hanno aperto a Venezia lo studio Spunklab Design, di cui fa parte anche CarloTinti. Quando e come è iniziata la vostra collaborazione con Foscarini? “Foscarini è stata praticamente l’artefice del nostro esordio nel mondo del lavoro, un’esperienza molto importante, anche perché entravamo in azienda come designer ‘principianti’ e abbiamo avuto una determinante assistenza da parte dell’ufficio tecnico interno. Abbiamo cominciato a lavorare con Foscarini nel 1999 – Nichetto aveva svolto in azienda lo stage prelaurea l’anno precedente – quando l’azienda si è dimostrata interessata al progetto che nel 2001 è uscito come Rha+Thor, una coppia di lampade da terra che, sfruttando la tecnologia del taglio al laser della lamiera, produce una luce diffusa e segmentata. Altra importante occasione di crescita professionale è stata nel 2001 occuparci della ricerca sui nuovi materiali e tecnologie produttive che l’azienda andava sviluppando. Partecipare al processo di industrializzazione di un oggetto, confrontando le prestazioni tecniche e le esigenze economiche con l’idea elaborata dal progettista, è un’esperienza fondamentale per i giovani designer. Foscarini ci ha quindi consentito di crescere, non solo come progettisti ‘esterni’ affiancandoci nella


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realizzazione dei nostri apparecchi ma anche in un’attività di ricerca parallela legata allo sviluppo di ipotesi di altri designer fino alla fase produttiva”. Come queste diverse esperienze hanno influenzato i vostri progetti? “Emblematica in questo senso è stata l’evoluzione del progetto della sospensione O-space, entrata in produzione nel 2003 dopo un periodo di sviluppo durato circa due anni. L’idea è frutto di una nostra collaborazione a distanza, via rete internet, l’uno a Venezia, l’altro in Australia. Al ritorno di Gai in Italia abbiamo individuato il poliuretano espanso come materiale più appropriato per realizzare la lampada, una soluzione che avevamo visto utilizzata per i braccioli delle sedute da ufficio. Anche in questo caso Foscarini ci ha consentito di seguire direttamente il fornitore, che si è dimostrato interessato ad approfondire tale soluzione tecnica. È stata un’ulteriore fonte di arricchimento del nostro bagaglio professionale: sono collaborazioni che illuminano sulle potenzialità degli scambi tra soggetti partecipanti al processo evolutivo di un’idea”. Il vostro ultimo apparecchio illuminante? “Presentato a ottobre 2003, Gea nasce invece da un breaf preciso da parte dell’azienda che cercava un modello da soffitto e parete, adatto anche per spazi pubblici. Valutata la proposta iniziale di realizzare l’apparecchio in vetro termoformato, Foscarini ci ha chiesto di vagliare delle alternative. Alla fine abbiamo sfruttato la superficie lucida di un semplice foglio di metacrilato perché ci consentiva sia di aumentare l’effetto tridimensionale generato dalla bombatura centrale sia un agevole inserimento della lampada in varie tipologie di ambienti”. Qual è la situazione italiana per i giovani designer? “Ci consideriamo fortunati nell’aver incontrato già dai primi anni della nostra attività un’azienda che ci ha permesso di compiere un’esperienza progettuale così completa, una collaborazione consolidatasi nel tempo. Quando abbiamo iniziato, alla fine degli anni novanta, non era facile trovare aziende disposte a dare credito e fiducia a designer giovani e locali. Mentre erano diventati sempre più veloci i cambiamenti per quanto riguardava mercato e sistemi tecnologici-produttivi, le imprese, fra l’altro, hanno dovuto affrontare il necessario ricambio generazionale – di management, responsabili tecnici e progetto – e sono andate anche alla ricerca di figure professionali molto specifiche, non ancora presenti nel sistema formativo universitario del nostro paese, adatte ad affrontare appunto i mutamenti in atto. Così di frequente hanno scelto di rivolgersi a designer stranieri che parevano corrispondere maggiormente a questo profilo. In molti casi però il progettista straniero di ‘nome’ ha svolto una funzione più comunicativa che sostanziale, di servizio all’azienda nel compimento del progetto. La condizione odierna ha dato spesso ragione ad aziende come Foscarini, che hanno costruito relazioni continuative con designer in grado di seguire passo a passo le fasi di crescita di un oggetto. In un momento di contrazione dei consumi, le imprese sono tornate a valutare la qualità del prodotto e a privilegiare situazioni dove possono lavorare assieme ai progettisti. E questa esigenza va oggi sfruttata dai giovani”. Quali tensioni e sensibilità sottende il vostro lavoro? “La nostra filosofia progettuale si potrebbe sintetizzare in tre parole: ricerca, istinto, perseveranza. C’è poi il fattore fortuna, del quale sarebbe ipocrita nascondere l’importanza. Fare design vuol dire intervenire all’interno di un processo che coinvolge molteplici risorse. Da quelle umane (dai lavoratori ai fruitori) a quelle materiali (dalle macchine all’energia che serve per produrre e movimentare le merci) fino alla questione dei rifiuti e del loro smaltimento. È necessario considerare quindi la ‘vita’ di un prodotto che progettiamo e l’interferenza che l’intero ciclo genera con l’equilibrio


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GEA, FOSCARINI, 2004


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complessivo del pianeta in cui viviamo: dal concetto fondante al recupero dell’oggetto usato, passando attraverso materie prime, risorse umane, processi di produzione e imballaggi. Per tenere conto di tutti i fattori in un progetto sono necessari tempi e investimenti notevoli. La consapevolezza di queste tensioni porta a una indispensabile forma di etica progettuale. Il progettista infatti sta a monte delle responsabilità che dal produttore arrivano all’utente finale. Noi possiamo e dobbiamo dare a tutti i mezzi per poter mettere in pratica uno sviluppo sostenibile. In verità, considerando le condizioni complessive di mercato, produzione e progetto, il ‘design etico’ può assorbire solo una esigua parte delle forze in gioco, ma soprattutto per i giovani designer quest’attenzione può essere un importante elemento caratterizzante e distintivo”.

NICHETTO+GAI by Fiorella Bulegato Luca Nichetto (Venice, 1976) and Gianpietro Gai (Valdobbiadene-Tv, 1972) are both graduates in industrial design from the Università IUAV in Venice. They have worked together since 1988 on lighting projects, accessories for the home, graphic and web design. Since 2001 they have designed the Rha+Thor, Maui, O-space and Gea for Foscarini. In 2004, they founded Spunklab Design studio in Venice, with Carlo Tinti. When and how did you begin your collaboration with Foscarini? “Foscarini was practically responsible for our debut in the professional world, a very important experience, because we were starting with the company as ‘beginning’ designers and the assistance we were given by the company’s technical office was crucial. We began to work with Foscarini in 1999 – Nichetto had completed his pre-graduation internship in the company the previous year – when they showed interest in the project that would be presented in 2001 as Rha+Thor, a pair of floor lamps that use laser-cutting technology for sheet metal to produce a diffused and segmented light. Another important opportunity for professional growth came in 2001 when we became responsible for the research on new materials and manufacturing technology that the company was developing. To participate in the industrialization process of an object, confronting its technical performance and economic parameters against the idea elaborated by the designer, is a fundamental experience for a young designer. Foscarini thus gave us an opportunity for growth, not just as independent designers, by assisting us in carrying through our own fixtures, but also in parallel research projects that developed concepts by other designers through the production phase”. How did these different types of experience influence your projects? “In that sense, the evolution of the project for the O-space suspension is quite emblematic. It went into production in 2003 after a development process that lasted almost two years. The idea was the result of a long-distance collaboration between us by Internet, while one of us was in Venice and the other was in Australia. When Gai returned to Italy, we selected polyurethane foam as the most suitable material for making this lamp, a solution we had seen used for the armrests on office chairs. Here too, Foscarini allowed us to work directly with the supplier, who showed interest in developing this technical solution. This was yet another excellent learning experience for us professionally: these kind of collaborations open one’s eyes to the potential of the dialogue between all those who participate in the development process of an idea”. What is your most recent lighting fixture? “Presented in October 2003, Gea derives from a specific company brief for a ceiling and wall fixture that


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O-SPACE, FOSCARINI, 2003


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would also be suitable for public spaces. Having assessed our initial proposal to make the fixture in thermoformed glass, Foscarini asked us to seek an alternative. In the end, we used the polished surface of a simple sheet of metacrylate, because it allowed us to emphasize the three-dimensional effect generated by the concave center and at the same time to make the lamp easy to introduce into various types of environment”. What is the situation in Italy for young designers? “We consider ourselves fortunate for having encountered a company in the early years of our career that allowed us to mature such a complete design experience, a collaboration that has become consolidated over time. When we first got started, in the late Nineties, it was not easy to find companies that were willing to give credit to local young designers. While the changes in the market and in technological and manufacturing systems were moving forward with great speed, companies were forced to induct the next generation in management, technical and design positions, and sought very specific professional figures, not yet available within the educational system of our country’s universities, who would be capable of managing the changes that were taking place. They often decided to turn to foreign designers who seemed to match this profile better. In many cases however the role played by the ‘famous’ foreign designer turned out to be more significant in terms of public relations, than a substantial role in bringing a project to term for the company. The situation today has often vindicated companies who, like Foscarini, have built continuing relationships with designers who can oversee every phase in the development of an object. At a time when consumer spending is diminishing, manufacturers have gone back to assessing the quality of the product, and preferring situations where they can work together with the designers. This is a need that young designers should take advantage of”. What are the issues and concepts that underlie your work? “Our design philosophy can be summarized in three words: research, instinct, perseverance. Then there is the luck factor, whose importance it would be hypocritical of us not to recognize. To be a designer means to work within a process that involves many resources. From human resources (workers to users) to material resources (from the machines to the energy that is used to produce and transport goods) to the question of waste and waste disposal. It is necessary therefore to consider the ‘life-cycle’ of the product we design and the interference that the entire cycle generates in the overall balance of the planet we live on: from the founding concept to the recycling of the used object, through the raw materials, human resources, manufacturing and packing processes. To take into account all the factors in a project takes considerable time and investment. The awareness of these tensions leads to an indispensable form of design ethics. The designer must set in motion the responsibilities that begin with the manufacturer and end with the final user. We can and we must use all possible means to practice sustainable development. To tell the truth, considering the overall conditions of the market, production and project, ‘ethical design’ can only cover a minimal part of the issues at stake, but especially for young designers, this attention can prove to be an important distinguishing and distinctive element”. Fiorella Bulegato Laureata in architettura all’Iuav di Venezia nel 1995, sta svolgendo un dottorato in disegno industriale all’Università La Sapienza di Roma. Da alcuni anni svolge attività di ricerca documentaria per pubblicazioni – ha curato ad esempio l’atlante del volume Achille Castiglioni 1938-2000, Electa, Milano 2001 – e scrive su periodici e riviste, con particolare riguardo ai temi dell’industrial design. A graduate in architecture from the Università IUAV in Venice in 1995, she is currently pursuing her doctorate in industrial design at the Università La Sapienza in Rome. For several years she has done documentary research for publications, writing and editing the catalogue of works for the book Achille Castiglioni 1938-2000, Electa, Milan 2001; she writes for periodicals and magazines, with particular attention to the issues of industrial design.


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BUBBLE, SALVIATI, 2002

SCACCO MATTO, SALVIATI, 2004

RAY CHAIR, L’ACCOLECTION, 2004

SPOON FAMILY, SALVIATI, 2004

SPOON FAMILY, SALVIATI, 2004

PIPPOCAMPUS, 2002


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ORBITAL FERRUCCIO LAVIANI



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MOBILITÀ SPAZIALE ALEXANDER CALDER


SPATIAL MOBILITY ALEXANDER CALDER

English text p. 86 ARC OF PETALS, 1941, SOLOMON R. GUGGENHEIM MUSEUM, NEW YORK

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MOBILITÀ SPAZIALE. ALEXANDER CALDER

YUCCA, 1941, SOLOMON R. GUGGENHEIM MUSEUM, NEW YORK

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di Luca Massimo Barbero

“Nessuno immaginerebbe il Partenone volante” così scrivevano delle sculture di Alexander Calder che sembrano annullare buona parte delle leggi classiche del peso e della statica classica della scultura; almeno, della scultura prima dell’arrivo di questo inarrestabile giocoliere dei materiali. La leggerezza è una delle caratteristiche principali del suo lavoro, ma sarebbe equivocarlo se si pensasse alla leggerezza dell’impalpabile o alla sola leggerezza come elemento che permette la mobilità, il muoversi e l’articolarsi delle singole sculture. Sì, quelle sculture che lo condannano internazionalmente e nel modo più grande a essere colui che ha sdoganato, inventato e diffuso sculture aeree mobili in ferro, legno, e tutti i materiali di recupero possibili sino a diventare il progenitore e nonno delle deleterie creazioni per infanti da porre sulle culle, nei locali pubblici, negli studi alternativi d’architetto giovane o speranzosamente creativo: i Mobiles. E‚ come se il mondo prima non avesse visto le creazioni dei popoli primitivi, degli indiani d’america, delle razze delle steppe. È con gli occhi “leggeri” del bambino americano trasportatosi in Francia agli inizi del secolo trascorso che Calder affronta l’arte. Nato da una famiglia di importanti, ufficiali e monumentali scultori americani – destinati a lasciare tonnellate di bronzo retorico ed eroico forgiato in forma di aquile, cavalli e allegorie americane della libertà – Alexander decide di trasferirsi in Francia. Il carattere e l’estro giusto nel posto giusto. Da quel momento i suoi occhi vigilano su tutto ciò che è avanguardia, sperimentazione e ricerca astratta. Gioviale, apparentemente burbero e vulcanico, il carattere di Calder è racchiuso in un corpo leonino, rubizzo, sanguigno e magnetico. Attratto dall’astrazione classica in una Parigi dove contemporaneamente riesce a frequentare personaggi come Picasso, Delaunay, Brancusi e tutti gli esponenti del gruppo Abstraction-Création, il giovane artista si interroga sulla staticità ancor troppo statica, monumentale, pesante della scultura che mantiene, al di là dello stile e della forma, una invariata e stretta


UNTITLED, 1934, CALDER FOUNDATION, NEW YORK

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BABY FLAT TOP, 1946


THE STERNBERG FAMILY CORP. COLLECTION, CHICAGO

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connessione con la ‘fisicità’ della scultura classica. Saranno due incontri fondamentali con due ‘campioni’ del pensiero e dell’arte allora contemporanea a cambiare il suo lavoro radicalmente e quindi la sua vita: Piet Mondrian & Marcel Duchamp. Ricorda Calder: “Mondrian viveva al numero 26 della Rue de Départ. Quella casa mi entusiasmava: la luce entrava sia da destra che da sinistra e, nella porzione continua della parete tra le due finestre, c’era un montaggio sperimentale di rettangoli in cartone fissati con delle puntine. Tutto in quella casa era stato dipinto, incluso il fonografo, che prima era di un colore scuro, ora era dipinto di rosso. Suggerii a Mondrian che una volta sarebbe stato bello far sì che quei rettangoli oscillassero muovendosi leggeri. Lui, con una espressione molto seria mi disse: ‘La mia pittura è già molto rapida. Quella visita mi impressionò”. E fu decisiva per la dialettica della disposizione delle forme colorate, della scomposizione e ricomposizione dello spazio come luogo definito dai pesi e dai ‘suoni’ del colore e delle linee: da quel momento Calder inizia a lavorare su una nuova forma di scultura, lieve e complessa costruita con fili di ferro e parti di materiali recuperati ridipinti o utilizzati al naturale. Ma della leggerezza paradossalmente legata al metallo ebbe da lì a poco un’altra (e pensiamo non casuale) rivelazione. Fu in Guatemala al crescere in cielo della luna, una luna così forte, ricorda, da sembrare leggera come il vento e solida come una moneta di argento. Nascono in quegli anni i primi lavori cinetici, piccole sculture in movimento grazie a un semplice meccanismo automatico e manuale. Riunire l’antitesi della scultura, la mobilità, alla leggerezza, sembrava essere il suo cercare e, contemporaneamente il costruire uno spazio sempre variabile percorso dalle linee e dai corpi della scultura stessa. Il ‘padrino’ eccellente di queste nuove sculture fu Duchamp. “Una sera entrò Duchamp nel mio studio, mentre stavo finendo di dipingere un mio ‘artefatto’ mosso da un motore, con tre elementi. Marcel disse: ‘Ti dispiace?’ Quando ci mise le mani sopra, l’oggetto sembrò piacergli, tanto da disporre una mia mostra in una galleria. Fui io a domandargli che tipo di nome potevo dare a quelle cose. Lui creò per loro la parola ‘Mobiles’ che, al di là del fatto indichi che si muovono, in francese significa anche ‘Motivo’”. E sarà nella collocazione mobile e immaginifica di questi ‘motivi’ che risiederà tutta la leggera e infinita magia dei Mobiles, ininterrotte composizioni dello spazio variabile e variato dalla linea e dal segno colorato del ferro. È la ‘leggerezza’ incisiva di queste ‘parti’ articolate che dispone quell’ibrido che ha affascinato tutti noi: un dipinto e un disegno che si muovono nell’aria sospesi come per magia meccanica. Così, a ogni segmento, a ogni elemento colorato, gancio e occhiello di quegli oggetti che è difficile chiamare sculture (sarebbe un tradimento scrisse Sartre) ricordiamo le parole di Calder quando disse: “Chissà! La gente pensa che i monumenti debbano salire dalla terra, mai dal tetto”.

SPATIAL MOBILITY. ALEXANDER CALDER by Luca Massimo Barbero “No-one could imagine the Parthenon flying”, they used to write about Alexander Calder’s sculptures, which seemed to repeal most of the classic laws of gravity and the classic static properties of sculpture; at least, sculpture as it was before the arrival of this tireless juggler of materials. Lightness is one of the principal characteristics of his work, but it would be a misinterpretation to consider the lightness of the ethereal or lightness alone as the element that brings mobility, motion and articulation to the single sculptures. Yes, the sculptures that condemn him internationally in the worst of ways as the man who unleashed, invented and diffused mobile aerial sculptures made out of steel, wood and every possible found material, becoming the ancestor and grandfather of all those deleterious creations made to hang on infants’ cribs, in public places, in young and wishful creative alternative architectural firms: the Mobiles. It’s as if the world have never seen the creations of primitive peoples before, American Indians, or ethnic groups in the steppes. It is with the “lightsome” eyes of the American child who moved to France at the beginning of the past century that Calder confronted art. Born into a family of important, official and monumental American sculptors, destined to leave


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FEATHERS, 1931, CALDER FOUNDATION, NEW YORK


BIFURCATED TOWER, 1950, WHITNEY MUSEUM OF AMERICAN ART, NEW YORK

EL CORCOVADO, 1951, JOAN MIRÒ FOUNDATION, NEW YORK

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behind them tons of rhetorical and heroic bronze forged into the shape of eagles, horses and other American allegories of freedom, Alexander decided to move to France. The right character and disposition in the right place. From that moment on, his eyes watch over everything that is avant-garde, experimentation and abstract research. Jovial, apparently churlish and volcanic, Calder’s character is contained within a leonine, hearty, hot-headed and magnetic body. Attracted by classical abstraction in Paris, where he is simultaneously able to socialize with people such as Picasso, Delaunay, Brancusi and all the exponents of the Abstraction-Création group, the young artist interrogates himself on the static nature of sculpture that remains too static, monumental and weighty and that, apart from issues of style and shape, maintains a close enduring relationship with the “physical sense” of classical sculpture. Two fundamental encounters with two “masters” of thought and the contemporary art of the time would radically change his work and consequently his life: Piet Mondrian & Marcel Duchamp. Calder recalls: “Mondrian lived at number 26 Rue de Départ. I loved that house; light came in both from the right and the left, and in the continuous section of wall between the two windows, there was an experimental montage of cardboard rectangles tacked to it. Everything in that house had been painted, including the phonograph, which was originally a dark color, and was now painted red. I suggested to Mondrian that it would be nice one time to make those rectangles oscillate and move slightly. With a very serious expression he replied: ‘My painting is already very quick’. That visit impressed me”. And it proved decisive for the dialectic of the position of the colored shapes, the de-composition and re-composition of the space as a place defined by the weight and the “sound” of colors and lines: from that moment Calder began to work on a new form of sculpture, lightweight and complex, built with wire and parts made of found materials that were painted over or used as they were. But from the lightness that was paradoxically inherent to the metal he soon had another (and we don’t believe casual) revelation. It was in Guatemala as the moon was rising, a moon that was so bright, he recalled, as to seem as light as the wind and as solid as a silver coin. Those were the years he produced the first kinetic works, small sculptures that moved thanks to a simple automatic and manual mechanism. To wed the antithesis of sculpture, mobility, to weightlessness, seemed to constitute his search, and at the same time, his construction of a continuously changing space drawn by the lines and the elements of the sculpture itself. The famous “godfather” of these new sculptures was Marcel Duchamp. “One night Duchamp came into my studio while I was finishing painting one of my ‘artifacts’ with three elements set in motion by a motor. Marcel said: ‘Do you mind?’ When he put his hands on it, he seemed to like the object, so much so that he organized an exhibition of my works in a gallery. I was the one who asked him what name I could give these things. He created the word ‘Mobiles’ to describe them which, apart from the indication that they can move, in French means ‘Motif’ too”. It would be in the mobile and imaginative placement of these “motifs” that all the light and infinite magic of the Mobiles would reside, those uninterrupted compositions of space variable and varied by the line and the colored sign of the iron. It is the acute “lightness” of these articulated “parts” that creates the hybrid which has captured us all: a painting and drawing that move through the air suspended as if by mechanical magic. Thus, at each segment, at each colored element, hook and eye of these objects that one is hard-pressed to call sculpture (that would be a betrayal, wrote Sartre), we recall the words of Calder when he said: “Who knows! People think that monuments must rise from the ground, never from the roof”. Luca Massimo Barbero Nato a Torino nel 1963, è Associate Curator della Collezione Guggenheim. Organizzatore di mostre d’arte contemporanea, è scrittore d’arte e docente alla scuola Holden di Torino. Ha curato, tra le altre, mostre di Lucio Fontana, Arte Minimal, Arte Americana, Informale e per anni ha collaborato con Peter Greenaway con cui ha ideato la mostra di Palazzo Fortuny per la VL Biennale di Venezia. Born in Turin, Italy in 1963. he is an Associate Curator at the Guggenheim Collection. He organizes contemporary art exhibits, writes about art and teaches at the Scuola Holden in Turin. He has been the curator for the exhibitions on Lucio Fontana, Minimal Art, American Art, and Informal Art. For several years he collaborated with Peter Greenaway, with whom he conceived the exhibition at Palazzo Fortuny for the 45. Biennale di Venezia.

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FUMETTO

LA LINEA DI OSVALDO CAVANDOLI


THE LINE BY OSVALDO CAVANDOLI

Nato a Maderno del Garda nel 1920, milanese d’adozione, Cavaldoli inventa la Linea nel 1969, indimenticabile animazione resa famosa dal “Carosello” dell’azienda di pentole Lagostina. Del dispettoso omino – originato dalle modificazioni di un unico tratto continuo che borbotta con la voce di Carlo Bonomi – furono realizzati, fino al 1976, 35 filmati. Unanimemente riconosciuto dalla critica internazionale, dal suo esordio ad oggi, Cavaldoli ha realizzato moltissimi altri audiovisivi della Linea diffusi in una cinquantina di paesi. Nella sequenza qui presentata ha interpretato per Foscarini la relazione tra luce e leggerezza. Born in Maderno del Garda in 1920, but a long-time resident of Milan, in 1969 Cavaldoli invented the Line, an unforgettable animated figure which rose to fame on the “Carosello” television show in commercials for Lagostina, a kitchenware manufacturer. This irreverent little man, who comes alive through the transformations of a single unbroken line that grumbles to the voice of Carlo Bonomi, was the star of 35 film features through 1976. Unanimously hailed by international critics from the earliest phase of his career to the present, Cavaldoli has made many other audio-visual films of the Line, distributed in over fifty countries. In the sequence we present here, he has interpreted the relationship between light and lightness for Foscarini.

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MACCHINA INUTILE, BRUNO MUNARI, 1949

PHOTOCREDITS: cover > MASSIMO GARDONE / STUDIO AZIMUT p 01 > IMAGE COURTESY OF: “SHELTER”, SCULPTURE BY ISAMU NOGUCHI, “YOUR PRIVATE SKY. R.BUCKMINSTER FULLER” p 03 > IMAGE COURTESY OF: “FAR VEDERE L’ARIA. DIE LUFT SICHTBAR MACHEN” pp 04-05-07-08-11-12 > IMAGE COURTESY OF: “ALUMINUM BY DESIGN” pp 14-15-16-17-33-34-35-36-37-52-55 (BELOW)-57-58-64-65-69-70-71-76-77-78 > STUDIO AZIMUT pp 18-19-20-21-22-23-24-27-28-29-31 > IMAGE COURTESY OF: “HINDENBURG. AN ILLUSTRATED HISTORY”; “STREAMLINED. A METAPHOR FOR PROGRESS”; “RASSEGNA N°67. DIRIGIBILI”; “ZEPPELIN. LE NUVOLE DEL CONTE FOLLE” pp 38-39-41-42-44-46-49-51 > IMAGE COURTESY OF: “YOUR PRIVATE SKY. R.BUCKMINSTER FULLER” p 53 > IMAGE COURTESY OF: “KATACHI. CLASSIC JAPANESE DESIGN” p 73 > GIONATA XERRA p 76 > IMAGE COURTESY OF: SALVIATI, L’ACCOLECTION pp 80-81-82-83-84-85-86-87-88 > IMAGE COURTESY OF: “CALDER” pp 90-91-92-93-94-95 > IMAGE COURTESY OF: OSVALDO CAVANDOLI; © CAVA/QUIPOS p 96 > IMAGE COURTESY OF: “FAR VEDERE L’ARIA. DIE LUFT SICHTBAR MACHEN”



LEGGERO. LA PAROLA È DI GRAN FASCINO AI GIORNI NOSTRI: IN SENSO FISICO, CULTURALE OPPURE FILOSOFICO, O ANCORA PROGETTUALE. NEL DESIGN LA DEMATERIALIZZAZIONE INVOGLIA A TOUR DE FORCE RIDUZIONISTICI DI FORME, DIMENSIONE, ENERGIA E PESO. FAR LEGGERO VUOL DIRE ANCHE IMPIEGARE MENO MATERIALE, QUINDI RISPARMIARE, E DI CONSEGUENZA, IN SENSO LATO, ADOTTARE UN APPROCCIO ECOCOMPATIBILE AL PROGETTO. DAGLI OGGETTI AL SISTEMA ECONOMICO-CULTURALE: SPAZI DI VITA, ABITAZIONE E LAVORO, ATTREZZATURE E ARREDI SONO DIVENTATI MINIMI E FLESSIBILI. TUTTO QUESTO PERCHÉ LA LEGGEREZZA APPARE L’APPROPRIATA CONDIZIONE MENTALE PER L’UOMO/DONNA CONTEMPORANEI. LIGHT. THE WORD EXERCISES A POWERFUL ATTRACTION THESE DAYS: IN A PHYSICAL, CULTURAL OR PHILOSOPHICAL SENSE, EVEN IN DESIGN. DEMATERIALIZATION CREATES THE NEED FOR A CONCERTED EFFORT TO REDUCE FORMS, DIMENSIONS, ENERGY AND WEIGHT. TO “MAKE IT LIGHT” ALSO MEANS TO USE LESS MATERIAL, TO SAVE, AND THUS, IN A CERTAIN SENSE, TO PURSUE AN ECOLOGICALLY COMPATIBLE APPROACH TO DESIGN. FROM OBJECTS TO THE ECONOMIC AND CULTURAL SYSTEM: THE SPACES WE LIVE IN, RESIDE AND WORK IN, EQUIPMENT AND FURNITURE HAVE ALL BECOME MINIMAL AND FLEXIBLE. BECAUSE LIGHTNESS APPEARS TO PROVIDE AN APPROPRIATE MENTAL ATTITUDE FOR THE CONTEMPORARY MAN AND WOMAN.


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